Francesco Algarotti

1764

Saggio sopra l’opera in musica

Édition de Silvia Tatti
2018
Source : Francesco Algarotti, « Saggio sopra l’opera in musica », in Opere del conte Algarotti, Tomo II, Livorno, Coltellini, 1764, pp. 251-390.
Ont participé à cette édition électronique : Anna Pia Filotico (Stylage).

Introduzione §

La fama che Francesco Algarotti raggiunse ai suoi tempi ha un testimone d’eccezione, seppure in chiave antifrastica. Ne Le ultime lettere di Jacopo Ortis, Ugo Foscolo scrive senza giri di parole che Algarotti ha «scroccato fama di savant1». In termini simili si erano espressi anche Giuseppe Baretti e altri letterati fino a Ottocento inoltrato, come Niccolò Tommaseo e Cesare Cantù2.

L’estensione degli interessi di Algarotti, che scrisse su argomenti disparati, può spiegare il giudizio negativo espresso da Foscolo, in parte ripreso dai letterati del Sette e dell’Ottocento, polemico nei confronti di una comunicazione letteraria che sacrificava l’eloquenza all’intento divulgativo.

Nonostante le censure, Algarotti fu però un esponente d’eccezione della cultura dei lumi, della quale ripercorre tutte le tappe consuete; interprete dello spirito cosmopolita settecentesco, in contatto con membri di primo piano dell’europea Repubblica delle lettere, Algarotti considera la cultura un ampio campo aperto all’interno del quale i saperi dialogano tra di loro e sono componenti di un unico grande sistema.

I suoi molteplici interessi, che lo spinsero a scrivere di arte, scienze, musica, letteratura, traduzione, mostrano l’estensione di un sapere disponibile ed eclettico, che qualifica l’uomo di lettere del XVIII secolo, volto a perseguire uno dei fondamenti della cultura umanistica settecentesca, quello di una letteratura intesa come percorso conoscitivo, strumento comunicativo, veicolo di circolazione delle idee3.

Nato a Venezia nel 1712 da una famiglia di ricchi mercanti, Algarotti fu educato nell’ambiente bolognese dei primi decenni del secolo XVIII in cui la divulgazione scientifica era argomento centrale nell’ambiente letterario4, dominato da personalità come il matematico Francesco Maria Zanotti e il poeta e astronomo Eustachio Manfredi. A queste esperienze, rafforzate da soggiorni di studio a Firenze e a Padova, si unì presto la passione per i viaggi che portò Algarotti in Francia, dove frequentò Voltaire, e in Inghilterra. Il Newtonianismo per le dame, l’opera che consolidò la fama europea di Algarotti, fu concepito e redatto a Parigi e vide la luce a Milano (con la falsa indicazione di Napoli) nel 1737; messo all’indice, fu ripubblicato con il titolo Dialoghi sopra l’ottica newtoniana nel 1752. La fisica e l’ottica di Newton erano spiegate in tono discorsivo a una marchesa per convertirla dalla filosofia cartesiana alle verità scientifiche newtoniane. Nel 1739 Algarotti, al seguito di una spedizione inglese, si imbarcò per Pietroburgo, toccando Olanda, Danimarca e Svezia: i Viaggi di Russia scritti in forma odeporica, sono una relazione geografica, politica e di costume dell’esperienza del viaggio. Di ritorno dalla Russia, Algarotti conobbe Federico II e si fermò prima a Berlino, dal 1740 al 1742, e poi a Dresda presso Augusto III elettore di Sassonia dal 1742 al 1746; da lì ritornò a Berlino, dove rimase fino al 1753. Tornato in Italia per curare la salute malferma, visse tra Venezia e Bologna e morì a Pisa nel 1764.

Gli anni che seguirono il ritorno in Italia furono dedicati alla stesura di scritti di varia natura che da un lato proseguivano il filone divulgativo già sperimentato con il Newtonianesimo e dall’altro erano l’esito delle molteplici attività cui si era dedicato Algarotti nel corso dei suoi soggiorni all’estero. Vedono la luce in questi anni: Saggio sopra la giornata di Zama (1749), Saggio sopra l’Imperio degl’Incas (1753), Saggio sopra il Gentilesimo (1754), Saggio sopra quella quistione perché i grandi ingegni a certi tempi sorgano tutti ad un tratto e fioriscano insieme (1754), Saggio sopra Orazio (1760), Saggio sopra la quistione se le qualità varie de’ popoli originate siano dallo influsso del clima, ovveramente dalle virtù della legislazione (1762), Saggio sopra il commercio (1763), Saggio sopra l’Accademia di Francia che è in Roma (1763).

Il Saggio sopra l’opera in musica è dunque frutto di questo periodo di fervore intellettuale e nasce da una conoscenza diretta della messinscena operistica legata alla collaborazione con i teatri delle corti europee dove Algarotti aveva soggiornato. Federico II aveva inaugurato, il 7 dicembre 1742, un teatro destinato alla rappresentazione di spettacoli operistici, lo Hofoper, noto anche come Lindenoper, che doveva essere parte integrante di un ideato e mai completato Forum Fridericianum, comprendente anche una biblioteca. Algarotti aveva soggiornato a lungo a Berlino come consigliere e dal 1746 ciambellano di Federico II, per il quale svolgeva anche incarichi diplomatici; anche negli anni tra il 1742 e il 1746, passati in parte alla corte di Augusto III di Sassonia, egli si occupò delle rappresentazioni nel locale teatro d’opera.

Le prime due edizioni del libro sono dedicate al barone di Svertz, «Direttore de’ divertimenti teatrali nella corte di Berlino», a sottolineare la natura militante dello scritto che affrontava problematiche legate alla prassi concreta della rappresentazione operistica. Fin dalla prima redazione tuttavia Algarotti, nonostante il carattere apparentemente discorsivo dello scritto, è ben consapevole di intervenire in un dibattito che attraversa tutto il XVIII secolo, sullo statuto dello spettacolo operistico e sulla sua collocazione nella gerarchia dei generi letterari. Alla fine della prima redazione, egli cita direttamente gli autori che avevano segnato il dibattito all’inizio del Settecento e che, come scrive alla fine del suo discorso, apprezzerebbero un teatro che applicasse le indicazioni da lui suggerite, tanto che, in questo teatro riformato «I Muratori, i Gravina, gli Addisoni, i Marcelli, i S. Evremondi, e i Dacier non isdegnerebbero essi medesimi d’avervi un palchetto5». E aggiunge: «poiché allora non si potrebbe dire che il dramma per musica è un grottesco della poesia; anzi l’età nostra potrebbe darsi vanto di avere in grandissima parte rinovato, dove la poesia, la musica, il ballo e l’apparato della scena faranno insieme un’amica congiura, e la cosa sarà risolta a decoro e verità». Da un lato quindi Algarotti guarda alle discussioni italiane del primo Settecento, dall’altro egli pubblica il suo scritto in un momento in cui il discorso sul dramma per musica era al centro di un dibattito europeo6, nel quale erano coinvolti in Francia esponenti di primo piano della philosophie; un dibattito che, se riguardava apparentemente il confronto tra i modelli opposti dell’opera francese e dell’opera italiana, segnava una trasformazione radicale del gusto, in nome di una maggiore aderenza della poesia alla natura e all’uomo, in termini laici e illuministici. L’intervento di Algarotti è dunque quanto mai tempestivo.

La prima redazione, conclusa nell’ottobre del 17547, non ha un’impronta saggistica; rientra piuttosto, come nota Annalisa Bini8, nel genere del pamphlet, cui è riconducibile, anche se con qualche maggiore concessione a un registro saggistico, anche la seconda edizione del 1755; le questioni sono affrontate in modo discorsivo, con l’intento di mettere a fuoco alcuni punti essenziali per rilanciare il discorso sullo spettacolo operistico. La priorità del testo su tutte le altre componenti è la base di partenza del discorso di Algarotti che punta a riformare il teatro per musica in funzione di una disciplina interna dello spettacolo che può essere garantita solo da una regia complessiva che deve organizzarsi proprio attorno al testo. Già in questa prima redazione, a supporto della sua tesi, Algarotti compone una sintetica ricognizione sulla storia dell’opera a partire dalle origini, che intreccia considerazioni più pertinenti relative ad esempio alle scelte tematiche, con valutazioni sull’organizzazione dello spettacolo teatrale e sui condizionamenti imposti dal sistema impresariale rispetto al teatro di corte. Algarotti riprende una delle argomentazioni ampiamente utilizzate da Metastasio nell’Estratto dell’arte poetica (inedito all’epoca, ma di un trattato sulla poetica di Aristotele Metastasio comincia a parlare proprio in una lettera ad Algarotti del 17479), dove il poeta cesareo sosteneva la derivazione dell’opera in musica dalla tragedia. Lo spirito riformista che anima lo scritto di Algarotti converge verso posizioni comuni ai teorici del teatro del tempo, a partire da Ranieri Calzabigi che nell’edizione pubblicata proprio a Parigi nel 1755 delle opere di Metastasio10 elogiava l’autore cesareo, pur indicando anche delle strade alternative rispetto alla drammaturgia metastasiana che avrebbe messo in pratica attraverso la collaborazione con il compositore Cristoph Willibald Gluck.

L’intervento di Algarotti d’altronde, se anticipa alcuni dei temi al centro della riflessione dei decenni successivi, rappresenta anche un momento di rilancio della discussione che parte dalla constatazione della diffusione europea dell’opera italiana e da un’accettazione del genere nel sistema complessivo della cultura letteraria. Il dibattito sul teatro musicale che aveva animato le discussioni dell’inizio del secolo si collocava all’interno della riflessione sulla tradizione nazionale ed era strettamente connesso con le questioni che dominano il quadro culturale primo settecentesco: la riforma dei generi letterari, il confronto con la cultura francese, l’eredità della poesia secentista11. Proprio nel 1700 il secolo esordiva con la decisa censura di Giovan Mario Crescimbeni12 che aveva negato legittimità letteraria al dramma per musica, al quale attribuiva la corruzione di ogni regola poetica e la negazione di ogni intento educativo della poesia. Anche Lodovico Antonio Muratori nel Della perfetta poesia italiana (1706) affrontava la questione e non solo deprecava gli esiti di inverosimiglianza e di incongruenza insiti nella struttura stessa del dramma per musica, ma polemizzava contro l’assenza di ogni vocazione educativa che il classicismo primosettecentesco attribuiva al teatro; gli faceva eco nel condannare l’opera nel Della tragedia (1715) Gianvincenzo Gravina che non contestava tanto l’unione di poesia e musica quanto gli esiti del teatro contemporaneo che amplificavano la corruzione di entrambe le componenti del dramma per musica. Il tentativo di mediazione di Pier Jacopo Martello era rimasto un caso isolato; in Della tragedia antica e moderna (1714), lo scrittore, con fare un po’ provocatorio, sosteneva che era la musica a ispirare la poesia e prendeva le distanze dal logocentrismo primosettecentesco in nome di un riconoscimento del piacere suscitato dalla musica. La posizione di Algarotti, a qualche decennio dal dibattito ora evocato, mostra che il successo europeo del dramma metastasiano aveva di fatto legittimato la poesia per musica, di cui, proprio con riferimento al dibattito primosettecentesco, si sottolinea la derivazione dalla tragedia classica; una volta liberato il campo dalla necessità di giustificare l’esistenza stessa della poesia per musica, nello scritto di Algarotti il discorso si sposta su questioni più tecniche e sulla natura del rapporto tra tutte le componenti del teatro musicale.

È in questo contesto e con questi presupposti che va considerata la difesa della centralità della poesia con cui Algarotti esordisce nel suo Discorso, facendone l’argomento perno attorno al quale egli organizza tutto il suo testo che nella prima redazione è ancora privo della divisione in paragrafi. Le argomentazioni di Algarotti, se da un lato riprendono i termini del dibattito primo-settecentesco, dall’altro però si avvalgono della conoscenza diretta del mondo teatrale contemporaneo, che ha un ruolo centrale non solo in questa, ma anche nelle redazioni successive. La prospettiva di Algarotti rispetto ai letterati che lo hanno preceduto è quindi sostanzialmente diversa nonostante l’apparente convergenza teorica: il suo intento non è quello di trovare una collocazione alla poesia per musica nel sistema dei generi letterari, ma di riformare dall’interno il dramma per musica rivalutando la componente letteraria nel confronto con le altre parti dello spettacolo operistico.

Stabilito dunque il principio essenziale della superiorità della poesia, Algarotti affronta in successione le questioni centrali del dramma per musica: la scelta degli argomenti, il rapporto tra recitativo e aria che va armonizzato per superare ogni troppo artificiale contrapposizione, la necessità di una maggiore semplicità e naturalezza nell’orchestrazione delle arie, la recitazione dei cantanti, il rapporto tra i balli e l’opera che deve essere regolato in base a una più stretta coerenza, gli scenari. Concludono il discorso, come in tutte le versioni, lo schizzo di Enea in Troja e il quadro di Ifigenia in Aulide, scritto in prosa francese, due argomenti destinati all’intonazione, scelti per la loro efficacia scenica. Algarotti dialoga con d’Alembert, autore del Discours préliminaire de l’Encyclopédie, fin da questa prima redazione nella parte relativa alla trattazione della musica13, ma cita, tra i contemporanei, anche Metastasio, Leibnitz, Antonio Maria Salvini, Voltaire, di cui sono riportati dei versi tratti dal poema Le Mondain14 del 1736 che scompaiono nella seconda redazione del 1755 e sono invece ripresi nella redazione livornese del 1763.

Le opzioni tematiche sono uno degli argomenti centrali del discorso, perché da esse derivano le scelte drammaturgiche e lo sviluppo dell’azione; il tema non deve essere né troppo attinente alla storia per l’eccessiva severità di alcuni soggetti e per l’incongruenza legata all’accostamento tra soggetti storici, cori e balli e nemmeno essere troppo debitore a un meraviglioso mitologico che richiederebbe, come nel Seicento, troppo dispendio di macchinari e suggerirebbe un’inclinazione eccessiva verso la spettacolarità e l’artificio come avviene nelle opere francesi, dalle quali Algarotti, rifacendosi ad argomentazioni diffuse nella trattatistica di questi anni, prende la distanza. L’argomento deve sottostare ad alcune condizioni, permettere la delineazione dei caratteri dei personaggi e delle loro passioni e legarsi in modo organico alle altre componenti, musica, cori, balli, necessarie per la buona riuscita dell’opera. Il favoloso e l’invenzione hanno un ruolo importante proprio come mezzi per sedurre e rapire lo spettatore, in una ideale concordia tra tutte le parti del dramma.

D’altronde anche qui l’impianto teorico è sostenuto dal confronto con la pratica diretta di gestione teatrale acquisita da Algarotti nel corso del soggiorno prussiano e infatti gli esempi evocati di drammi richiamano intonazioni rappresentate alla corte di Federico II15: è apprezzato ad esempio Montezuma, scritto dallo stesso Federico II, per il fantastico evocato dallo scenario esotico; sono citati come temi Armida e Orlando, così come Enea in Troja e Ifigenia in Aulide, argomenti scelti per le due proposte esemplari di drammi pubblicati alla fine del testo.

Algarotti entra anche nel dettaglio della composizione musicale e arriva a sostenere una tesi, che è debitrice agli esiti della parigina querelle des bouffons del 1752-54: «Una qualche immagine della vera musica da Teatro ci è restata solamente, sia detto con pace de’ Virtuosi, nelle nostre Opere buffe16

La vivacità del discorso fin dalla prima redazione è data anche dalla prassi di Algarotti di fare sfoggio dei suoi molteplici saperi e interessi e di operare continui parallelismi tra l’opera in musica, la pittura, la scultura, l’architettura, chiamate in causa in varie parti del Discorso e soprattutto in quelle dedicate alla scenografia.

La seconda versione del 1755, pubblicata sempre dall’editore veneziano Pasquali e intitolata Saggio sopra l’opera in musica, riprende la redazione precedente ampliata con esempi che approfondiscono le questioni e con una struttura più articolata nell’esposizione degli argomenti. La divisione in paragrafi, introdotta a partire da questa edizione, rimane in tutte le edizioni successive e comprende le seguenti sezioni: Del libretto, Della musica, Della maniera del cantare e del recitare, Dei balli, Delle scene.

Il tono pamphlettistico in questa seconda redazione è ridotto a vantaggio di un’orchestrazione più controllata del discorso; ad esempio è espunta una critica agli impresari che nella prima redazione precedeva le osservazioni relative al libretto, evidentemente considerata troppo contingente e non adatta all’andamento più formale che Algarotti vuole dare al Saggio: «Ma questa così solenne riforma in vano noi l’attenderemmo dalle nostre tumultuarie compagnie di teatro e da’ nostri impresari che ne sono alla testa; i quali o non sanno ciò che fare si convenga, o pure, atteso i mille rispetti che sono forzati di avere, nol possono mandare a esecuzione17 Sono inoltre ridotti i riferimenti a esperienze specifiche e cronachistiche come quelle relative al teatro di Berlino; la digressione18 sull’opera Montezuma, attribuita a Federico II, è omessa nella seconda redazione dove mancano tutti i suggerimenti relativi alla intonazione e rappresentazione dell’opera.

La sezione Della musica si apre con un’ampia digressione assente nella prima redazione in cui si ribadisce la natura ausiliaria della musica rispetto alla poesia. La necessità di confermare e rafforzare ulteriormente l’approccio letterario nasce dal più pronunciato intento teorico che anima maggiormente questa seconda redazione rispetto alla prima. Verso la fine del paragrafo, un altro grande inserto assente nella prima redazione riprende argomentazioni classiciste arcadiche per promuovere armonia e semplicità come linee guida alle quali anche il discorso musicale si deve attenere in una visione organica dello spettacolo operistico, il cui fine deve essere quello di unire armoniosamente poesia e musica per muovere le passioni: «Talché un direbbe che a’ secoli nostri è tornato il secolo del secento per la musica. La bella semplicità che sola può imitar la natura, fu sempre preferita da chi ha fior di gusto a tutti i raffinamenti dell’arte19

La conclusione si distanzita decisamente da quella della prima redazione; proprio in virtù di una ricomposizione del discorso in termini meno militanti e immanenti, sono espunti i toni anche polemici che avevano caratterizzato la prima redazione, laddove Algarotti prendeva le distanze dal dibattito e dalle censure primosettecentesche, criticava il costume corrotto del teatro contemporaneo20 e citava i versi provocatori di Voltaire tratti da Le Mondain. La conclusione di questa seconda redazione ha un tono decisamente più sobrio e si concentra sulle questioni più tecniche: anche l’esclusione del riferimento ai protagonisti del dibattito primisettecentesco («I Muratori, i Gravina, gli Addisoni, i Marcelli, i S. Evremondi, e i Dacier ecc.21») mostra la volontà di un discorso più pacato, concentrato sulle soluzioni tecniche e sulla ricerca di un compromesso in grado di valorizzare la tradizione italiana pur nella consapevolezza della necessità di una riforma radicale dello spettacolo.

Questa seconda redazione del Saggio fu inviata a Metastasio, che ebbe una reazione emblematica, nel rilevare e commentare esplicitamente soltanto la pars destruens del discorso di Algarotti; il lamento verso il teatro impresariale, lo strapotere dei cantanti, le imposizioni della musica. Il poeta cesareo sorvola invece su tutti gli aspetti tecnici che evidenziano anche una presa di distanza di Algarotti dalle soluzioni del teatro metastasiano, soprattutto per quanto riguarda la scelta degli argomenti, la concessione al meraviglioso come componente necessaria, l’alternanza più organica tra recitativo e aria.

Nella lettera inviata da Vienna il 9 febbraio 1756 ad Algarotti, Metastasio converge così sul degrado dei gusti del pubblico senza addentrarsi nello specifico delle argomentazioni dell’amico veneziano, che pur riconoscendo la qualità dei testi metastasiani e l’eccellenza dei suoi drammi, delineava un modello di teatro per musica più adatto ai tempi e al costume europeo e che quindi, per questioni organizzative e soluzioni teoriche, andava oltre il modello metastasiano:

Ho letto il vostro Saggio; vi ci ho trovato dentro, l’ho tornato a leggere, per essere di nuovo con esso voi; da cui non vorrei mai separarmi. Io che mi risento più d’ogni altro degli abusi del nostro teatro di musica, più d’ogni altro vi son tenuto del coraggio col quale ne intraprendete la cura. Ma, amico soavissimo, la provincia è assai dura. Queste parti dell’opera, che non abbisognano che d’occhi e d’orecchi negli spettatori per farne proseliti, raccorran sempre maggior numero di voti che le altre, delle quali non può misurare il merito che l’intelligenza e il raziocinio. Tutti vedono, tutti odono, ma non tutti intendono, e non tutti ragionano. E’ vero che quando le prime e le seconde parti coniurant amice, anche lo spettatore grossolano sente senza intendere un maggiore piacere: ma è vero altresì che la difficoltà e la rarità di tale accordo obbliga, per così dire, i teatri da guadagno a fidarsi più di quelle arti delle quali son giudici tutti, e queste poi sciolte da ceppi d’ogni relazione e convenienza, ostentano in piena libertà senza cura di luogo o di tempo tutte le loro meraviglie, e seducono il popolo col piacere che prestano dal desiderio del maggiore, di cui lo defraudano. Ma questa lettera diverrebbe facilmente una cicalata, per poco ch’io secondassi la mia propensione22.

La terza edizione, pubblicata nel 1757 sempre dall’editore Pasquali di Venezia23, riporta la stessa intestazione e dedica delle precedenti, ma rielabora e amplia i paragrafi centrali dedicati alla musica, al canto e alle scene, anticipando alcune delle integrazioni e modifiche che appariranno in modo più cospicuo nella redazione successiva. Poche sono dunque le modifiche rispetto alla seconda redazione del 1755; anche la conclusione che è profondamente cambiata nel passaggio dalla prima alla seconda redazione rimane qui sostanzialmente invariata.

La quarta redazione, pubblicata nel 1763, segue anni molto intensi per il dibattito sull’opera, che annovera, tra il 1755 e il 1763, alcuni interventi che ripropongono il problema della collocazione del teatro per musica nella cultura letteraria del tempo e della sua riforma. I vari tentativi e la pluralità di voci, l’intensificarsi di interventi mostrano la grande diffusione e centralità del dramma per musica, ma anche la difficoltà, da parte dei letterati e degli addetti ai lavori, di dominare e classificare un genere che non poteva essere codificato e riformato secondo dei parametri esclusivamente letterari, estremamente permeabile inoltre a suggestioni tematiche, espressive e strutturali provenienti da fonti diverse e fortemente debitore ai gusti di un pubblico italiano e straniero, popolare e cortigiano. Così mentre Metastasio rappresentava il paradosso del massimo scrittore melodrammatico, destinatario di un successo ineguagliabile, che si considera postumo a se stesso e testimone di cambiamenti che lo rendono marginale mentre è ancora lo scrittore più rappresentato d’Europa, i letterati e la gente del mestiere si interrogano sulla struttura del dramma per musica e sul rapporto con il pubblico e propongono istanze di riforma, che in questa fase del dibattito e ancora per alcuni decenni, cercano una mediazione tra il modello logocentrico metastasiano ancora di grande successo, quello dell’opera francese, alla base di un grande teatro nazionale dal quale era impossibile prescindere, e le singole sperimentazioni legate a luoghi e figure come la Berlino di Federico II, la Vienna di Metastasio ma anche di Gluck, Calzabigi e Durazzo, l’Inghilterra.

Il contributo più vicino a quello di Algarotti è sicuramente la Dissertazione24 che Calzabigi pubblicò come premessa dell’edizione parigina delle Opere di Metastasio, uscite nello stesso anno del Saggio. Calzabigi concordava nel considerare i drammi di Metastasio delle «perfette e preziose tragedie»; la sintonia con la drammaturgia metastasiana si ha anche per quanto riguarda il rapporto tra le arie e i cori e il rifiuto dell’unità di luogo. Deciso nel contrastare l’opera francese, nel clima della querelle des bouffons, per l’eccesso di artificio e spettacolarità, Calzabigi loda il modello metastasiano25, ma di fatto già lo supera nella direzione di una maggiore coerenza nella definizione dei personaggi, di una più organica tessitura tra aria e recitativo, di uno sviluppo complessivo più aderente a un ideale di naturalezza che la querelle des bouffons aveva attribuito come tratto distintivo al teatro musicale italiano; egli delinea insomma quello che sarà il tentativo di riforma realizzato qualche anno dopo a Vienna con Cristoph Willibald Gluck, a partire da Orfeo e Euridice del 1762. I temi in comune con Algarotti sono molteplici; inoltre la Dissertazione di Calzabigi dà alla questione un ulteriore respiro europeo e approfondisce l’approccio già sperimentato da Algarotti: la poesia è considerata il cuore della drammaturgia operistica, responsabile dell’organicità del tutto, ma è anche vista come parte di un prodotto dal funzionamento complesso, al successo del quale concorrono tutte le componenti del dramma per musica. L’interesse si è decisamente spostato da una considerazione del quadro complessivo della gerarchia dei generi letterari all’interno della tradizione poetica italiana all’analisi di uno spettacolo in sintonia con i gusti del pubblico, in grado di cogliere le sollecitazioni provenienti dall’esterno e atto a rispondere alla richiesta di una poesia allo stesso tempo formativa e consona a intercettare le passioni umane e ad accompagnare lo sviluppo verso un nuovo umanesimo che pone la sensibilità e lo sviluppo intellettivo dell’uomo reale al centro del discorso.

Sono strettamente connesse al Saggio di Algarotti anche le Riflessioni sopra i drammi per musica, di Giammaria Ortes, apparse anonime a Venezia nel 1757 presso lo stesso editore Pasquali che26 aveva stampato, due anni prima, le prime due redazioni del Saggio di Algarotti e che nel 1757 pubblica la terza redazione del Saggio. Ortes è legato da una profonda e duratura amicizia ad Algarotti, con il quale scambia commenti sulle stagioni teatrali e soprattutto operistiche; il rapporto è favorito anche dal fatto che entrambi gli scrittori si muovono su uno scacchiere europeo, al cui centro ancora una volta si collocano Venezia e Vienna. Le lettere che Ortes27 inviava ad Algarotti contengono diversi riferimenti non solo alle stagioni teatrali, ma anche alla scrittura di testi per musica, nella quale Ortes si cimenta costantemente attorno agli anni 40-50. Ortes condivide anche alcune esperienze europee di Algarotti come la frequentazione dei teatri di Vienna e Berlino e la conoscenza del repertorio veneziano.

Nelle Riflessioni lo scrittore rivaluta l’opera buffa come genere che permetteva una più armonica integrazione tra musica e azione e limitava il rischio presente nei drammi seri di una musica artificiale dissociata dalle parole. Il testo parte dall’esperienza concreta dello stato dell’opera italiana in Europa e considera le articolazioni e specificità nazionali, la subalternità della poesia alla recitazione e al canto, la necessità di movimento per contrastare la noia, il piacere sensoriale dello spettatore come strumento di giudizio del successo di un dramma. Ortes distingue inoltre tra musica espressiva che rafforza la poesia e musica artificiale, aliena dal contesto, ricca di ornamenti fini a se stessi. L’intento dell’opuscolo è operativo, coniuga la conoscenza dello stato dell’arte con la pratica scrittoria e si avvale di un approccio pragmatico, che nasce dalla conoscenza della situazione reale dei teatri per musica e dalla necessità di soddisfare i gusti del pubblico più che da astratti disegni riformistici. Come avviene anche nel saggio di Algarotti, anche qui Ortes unisce discorso teorico e applicazione pratica e propone, alla fine dell’opuscolo, l’azione drammatica a quattro voci Calisso Spergiura; il tema fantastico mitologico rientra nella casistica contemplata anche da Algarotti, ostile all’utilizzo di temi storici per l’inverosimiglianza e la monotonia e incline a una maggiore concessione al favoloso.

Altri due testi, sempre di portata europea, intervengono nel dibattito negli anni successivi. Il primo è la Lettre sur le méchanisme de l’opéra italien, pubblicata con l’indicazione di Napoli, ma in realtà uscita a Parigi28; il problema della paternità della lettera, attribuita al diplomatico Josse de Villeneuve o a Giacomo Durazzo o addirittura in tempi recenti a Calzabigi non è mai stato del tutto risolto29. La lettera prende spunto proprio dalla Dissertazione di Calzabigi, pubblicata anche a puntate nel «Journal étranger»30, e riconosce la necessità di una riforma dell’opera che agisca nel concreto, nelle scelte tematiche (con risultati affini a quelli di Algarotti), nella revisione del rapporto tra aria e recitativo, nella drammaturgia tratta anche dai modelli francesi.

Un altro contributo che risale a questi anni sono i saggi scritti in forma di lettera inviata dal cantante e letterato Vincenzo Martinelli Al Signor conte di Buckinghamshire, in particolare Sulla origine delle opere in musica e Sopra la ragione del canto e sua composizione31. Martinelli interviene nel dibattito sostenendo che «ove non è poesia non può essere musica, o almeno buona musica32» e auspica una formazione letteraria per compositori e cantanti, non semplici esecutori, ma interpreti consapevoli di un’arte che deve avere «piena cognizione» e «entrare nel midollo33» delle passioni.

La ricchezza di pubblicazioni sull’opera in musica in questi anni e l’urgenza di dare risposte alla crisi del genere e al superamento del modello metastasiano può spiegare il fatto che Algarotti, dopo le prime tre edizioni del suo saggio, senta la necessità di intervenire ulteriormente e di apportare integrazioni e ampliamenti alle prime redazioni del testo. I contenuti non sono sostanzialmente modificati, ma è chiaro che l’autore, infittendo la presenza di fonti e citazioni, soprattutto francesi e inglesi, intende dare maggiore respiro e prestigio al suo testo e collocarlo nel dibattito europeo.

La nuova edizione del Saggio, la quarta tra quelle curate dall’autore, fu pubblicata da Marco Coltellini a Livorno nel 1763. Coltellini è a sua volta un librettista e quindi particolarmente motivato nella pubblicazione dello scritto algarottiano, questa volta non più dedicato al sovrintendente del teatro di Berlino, ma all’uomo politico inglese William Pitt, italianizzato in Guglielmo Pitt. Algarotti rende conto della scelta, che potrebbe essere considerata singolare, di rivolgersi con un trattato teatrale a un uomo di stato e replica difendendo «l’ozio erudito34» e l’utilità delle lettere per sostenere l’eloquenza prodotta nelle sedi istituzionali dallo statista inglese. Nella dedica si intravede già una dichiarazione programmatica: facendo anche riferimento al «gran Federigo», amico di Pitt, Algarotti sottolinea il ruolo che le lettere hanno nella gestione degli stati in linea con una prassi di collaborazione con i sovrani ampliamente messa in pratica nel Settecento anche da Voltaire e Diderot.

La dedica quindi è già un segnale di una diversa destinazione e orchestrazione dello scritto, che si colloca all’interno di un dibattito più ampio sull’organizzazione degli spettacoli teatrali, sul loro ruolo e responsabilità nella società contemporanea, un tema presente fin dalla Introduzione che precede il primo paragrafo dedicato come sempre al Libretto. La corruzione dello spettacolo operistico è paragonata a «uno stato sconvolto35», che necessita di una guida che riconduca il teatro allo scopo di educare il popolo alla virtù, come avveniva nel teatro antico. Le riserve nei confronti del teatro impresariale, che domina il quadro italiano in misura maggiore rispetto a quanto avviene in Europa dove il teatro musicale è sostanzialmente spettacolo cortigiano, sono presenti in misura maggiore in questo Saggio scritto anni dopo il ritorno in Italia dell’autore. Centrale appare dunque subito il motivo dell’organizzazione e gestione dello spettacolo, le cui componenti devono essere armonicamente legate tra di loro e sottoposte a una guida, una regia, cui tutto deve essere ricondotto; prospettiva molto più realizzabile nel teatro di corte piuttosto che nel teatro impresariale secondo Algarotti. Il tema del rapporto tra testo e musica, centrale nelle redazioni precedenti, diventa una delle problematiche del teatro per musica che deve essere considerata in relazione al sistema complessivo. Il Saggio, da discorso in parte tecnico relativo agli equilibri tra le arti, diventa molto di più un trattato sull’organizzazione teatrale e sulla funzione del teatro nella società contemporanea. Per ottenere questo scopo Algarotti raffina la sua scrittura, inserisce esempi e dettagli e nella redazione ulteriore del 1764, quasi uguale a quella precedente, correda il testo con un apparato di note d’autore più sviluppato. Non viene meno la volontà di riflettere sulla funzione catalizzatrice della poesia ma ogni aspetto è visto sullo sfondo del sistema complessivo di organizzazione degli spettacoli. Anche l’aggiunta, alla fine del trattato, di un paragrafo dedicato alla costruzione dei teatri e a problemi logistici, mostra la volontà di riformare nella sua interezza il mondo dello spettacolo operistico, a partire dal rapporto tra testo, musica, canto, ballo cui è dedicato un ampio spazio, fino alla soluzione dei problemi logistici e organizzativi.

Ma è soprattutto il registro del discorso che cambia in modo sostanziale; abbandonati i toni discorsivi delle redazioni precedenti, Algarotti si affida a un registro più argomentativo dal quale a tratti riaffiora la retorica colloquiale, da conversazione salottiera e mondana che aveva caratterizzato le altre redazioni; il discorso è però molto più disteso e ricercato, sicuramente più erudito ed elaborato nella costruzione sintattica; una certa enfasi retorica sottolinea la volontà dell’autore di incidere effettivamente nella questione e di attribuirsi un ruolo di rilievo nel contesto del dibattito internazionale. A questo scopo Algarotti utilizza due strategie; da un lato considera nel dettaglio le singole problematiche articolate nei diversi paragrafi e dall’altro cerca di approdare a dei quadri teorici riassuntivi che funzionino da linee guida per costruire l’opera riformata del futuro. Così nella Conclusione egli ricorda «non altro essendo stato l’intendimento mio, che di mostrar la relazione, che hanno da avere tra loro, le varie parti constitutive dell’opera in musica, perché ne riesca un tutto regolare, ed armonico». Sono anche ripresi, sempre in conclusione, i riferimenti al dibattito primosettecentesco, presenti nella prima redazione ed espunti dal Saggio del 1755 e dall’edizione del 1757, quasi che alla nuova ampliata versione sia affidato il compito di riassumere i termini della questione e di legittimare anche attraverso il riferimento ai teorici della tradizione le soluzioni da lui prospettate che rendono piena dignità letteraria al genere operistico.

L’ultima redazione è inserita nell’edizione complessiva, in nove tomi, delle Opere di Algarotti curata dall’editore Coltellini36 e pubblicata a Livorno; Algarotti seguì personalmente la pubblicazione dei primi tre tomi, prima di morire, e poté apportare ulteriori integrazioni al Saggio che risulta corredato di alcune note d’autore assenti nella precedente edizione del 1763.

La storia interna del libro, legata alle diverse circostanze di stesura e di pubblicazione, rileva la centralità attribuita alla questione dall’autore che non solo rivide più volte il testo, ma cercò anche di integrarlo in relazione ai possibili destinatari e in funzione del dibattito complessivo che in questi anni si aggiorna costantemente, in tutta Europa. Algarotti interpreta una risposta italiana alla querelle des bouffons e nonostante le critiche e la consapevolezza dell’esistenza dei consueti problemi della rappresentazione operistica, promuove un genere al quale nel Settecento è affidata la fortuna europea della lingua e della letteratura italiane e spende quindi la sua esperienza cosmopolita al servizio di una causa volta a valorizzare non solo la tradizione letteraria italiana, ma anche la creazione, attraverso il dramma per musica, di un linguaggio poetico universale, di grande diffusione, capace di parlare alle corti e al popolo e in grado di esprimere le passioni dell’uomo moderno.

[Silvia Tatti.]

Nota al testo §

La storia redazionale del Saggio sopra l’opera in musica è stata ricostruita da Giovanni da Pozzo37 prima e da Annalisa Bini in anni più recenti38.

Algarotti pubblicò cinque edizioni del Saggio, dalla prima, uscita a Venezia nel 1755, fino alla quinta pubblicata a Livorno nel 1764. Il testo risulta, dalla prima alla quinta edizione, rivisto e progressivamente ampliato e arricchito di note.

Di seguito le cinque edizioni curate dall’autore:

Discorso sopra l’opera in musica, in Discorsi sopra differenti soggetti, Venezia, Giambattista Pasquali, 1755, pp. 1-112.

Saggio sopra l’opera in musica, Venezia, Giambattista Pasquali, 1755.

Saggio sopra l’opera in musica, in Opere varie del Conte Algarotti Ciamberlano di S. M. il Re di Prussia e Cavaliere dell’Ordine del Merito, Venezia, Giambattista Pasquali, 1757, vol. II, pp. 277-365.

Saggio sopra l’opera in musica, Livorno, Marco Coltellini, 1763.

Saggio sopra l’opera in musica, in Opere del Conte Algarotti Cavaliere dell’Ordine del Merito e Ciamberlano di S. M. il Re di Prussia, Livorno, Marco Coltellini, 1764, vol. II, pp. 251-390.

L’edizione qui riprodotta è l’ultima curata da Algarotti per il tomo II dell’edizione completa delle sue opere approntata dal libraio livornese Marco Coltellini, alla quale Algarotti collaborò solo per i primi tre tomi prima di morire.

Il testo delle edizioni del 1763 e del 1764 è profondamente ampliato rispetto a entrambe le prime due edizioni veneziane del 1755, che presentano già tra di loro delle profonde differenze, nonostante le date ravvicinate di pubblicazione.

La prima delle due edizioni del 1755, conclusa nel 1754, fu pubblicata all’inizio di una raccolta che comprendeva i seguenti discorsi: Sopra la durata de’ regni de’ re di Roma; Sopra la giornata di Zama; Sopra il Cartesio; Sopra la pittura; Sopra la rima e le Epistole in versi. I due testi teatrali Enea in Troja e Iphigénie en Aulide accompagnano il testo fin da questa edizione.

La seconda redazione, pubblicata sempre nel 1755, è riprodotta in fac simile nel volume curato da Annalisa Bini e presentata come una versione più nota rispetto alla precedente verso la quale riporterebbe «differenze piuttosto formali che sostanziali39». Questa versione è decisamente ampliata rispetto alla precedente, della quale riporta la stessa epigrafe tratta da Ovidio «Sed quid tentare nocebit?» (Ovidio, Metam., lib. I) e la stessa dedica rivolta al Barone di Svertz, Direttore de’ divertimenti teatrali nella corte di Berlino.

I due testi hanno molte differenze dal punto di vista della destinazione e della costruzione del testo stesso. Il Discorso appare infatti come un testo più pragmatico, una bozza poco elaborata; ha una struttura più colloquiale e si presenta effettivamente come una serie di suggerimenti e riflessioni rivolte al dedicatario e legate alla pratica teatrale acquisita da Algarotti presso le corti di Berlino e di Dresda. Il Saggio del 1755, ancora dedicato al barone di Svertz, mantiene la natura discorsiva, integra alcuni passaggi e ne elimina altri, come i riferimenti legati in modo specifico all’esperienza berlinese; il tono nel complesso è più curato, meno colloquiale, ma nella sostanza le due prime redazioni risentono dello stesso clima culturale e di una destinazione più circoscritta.

La terza edizione veneziana del 1757 riporta la stessa intestazione e dedica delle precedenti, ma rielabora e amplia i paragrafi centrali dedicati alla musica, al canto e alle scene, anticipando alcune delle integrazioni e modifiche che appariranno in modo più cospicuo nella redazione successiva.

Cambiamenti sostanziali sono infatti presenti nella prima delle due edizioni livornesi, quella del 1763. Il testo è notevolmente ampliato, gli argomenti sono corredati da un maggior numero di esempi e approfondimenti e il discorso è più curato e controllato; Algarotti scrive dopo che sono stati pubblicati diversi interventi sul melodramma e intende collocarsi nel dibattito contemporaneo, rivolgendosi a un pubblico più ampio rispetto ai destinatari di ambito più specificatamente veneziano e mitteleuropeo delle redazioni precedenti. La dedica è datata Pisa, 18 dicembre 1762 ed è rivolta allo statista inglese William Pitt. Un intero paragrafo, Del teatro, assente nelle redazioni precedenti, è aggiunto alla fine, prima della conclusione; tratta dell’architettura e della costruzione dei teatri d’opera.

L’ultima edizione, qui trascritta in quanto corrisponde all’ultimo testo rivisto dall’autore, è integrata sostanzialmente, rispetto alla precedente del 1763, con ulteriori note e citazioni, anche in inglese e francese, che spiegano e approfondiscono alcuni riferimenti presenti nel testo.

Saggio sopra l’opera in musica §

[Dedica] §

[Dedica.1]

…… Sed quid tentasse nocebit?

Ovid., Metam., Lib. I.

 

 

A Guglielmo Pitt

 

Francesco Algarotti

 

 

 

[Dedica.2] Sembrerà ad alcuni assai strano che a voi, uomo immortale, che nella vostra nazione sapeste riaccendere il nativo valore, sapeste provveder per sempre alla sua difesa e la faceste in un medesimo anno trionfare nelle quattro parti del mondo, venga intitolato uno scritto che ragiona di poesia, di musica, di cose di teatro. Ma pare che ignorino costoro, come il restitutore dell’Inghilterra, l’amico del gran Federigo, sa ancora munire il suo ozio co’ presidi delle lettere, e come quella sua vittoriosa eloquenza colla quale egli tuona in senato, non è meno l’effetto della elevatezza del suo animo, che dello studio da lui posto nei Tulli e nei Demosteni, antecessori suoi. Possa solamente questo mio scritto esser da tanto, che trovi anch’esso un luogo nell’ozio erudito di un tal uomo, e giunga ad ottenere il suffragio di colui che ne’ più alti uffizi dello stato ha meritato l’ammirazione e l’applauso di tutta Europa.

Introduzione §

[Intro.1] Di tutti i modi che, per creare nelle anime gentili il diletto, furono immaginati dall’uomo, forse il più ingegnoso e compito si è l’opera in musica. Niuna cosa nella formazione di essa fu lasciata indietro, niuno ingrediente, niun mezzo, onde arrivar si potesse al proposto fine. E ben si può asserire che quanto di più attrattivo ha la poesia, quanto ha la musica e la mimica, l’arte del ballo e la pittura, tutto si collega nell’opera felicemente insieme ad allettare i sentimenti, ad ammaliare il cuore e fare un dolce inganno alla mente. Se non che egli avviene dell’opera come degli ordigni della meccanica, che quanto più riescono composti, tanto più ancora si trovano a guastarsi soggetti.

[Intro.2] E però non sarebbe maraviglia se cotesto ingegnoso ordigno, fatto di tanti pezzi com’egli è, non sempre rispondesse al fin suo, ancorché a ben unire e a congegnare insieme ogni suo pezzo, venisse posta da coloro che il governano tutta la diligenza e tutto lo studio. Ma di tanti pensieri, quali a ben ordinare un’opera in musica sarebbono necessari, non si danno gran fatto malinconia coloro che seggono presentemente arbitri de’ nostri piaceri. Anzi se vorremo por mente come pochissimo travaglio ei sogliono darsi per la scelta del libretto, o sia dell’argomento, quasi niuno per la convenienza della musica colle parole, e niuno poi affatto per la verità nella maniera del cantare e del recitare, per il legame dei balli con l’azione, per il decoro nelle scene, e come si pecca persino nella costruzione de’ teatri, egli sarà assai facile a comprendere qualmente una scenica rappresentazione, che dovrebbe di sua natura esser tra tutte la più dilettevole, riesca cotanto insipida e noiosa. Colpa dello sconcerto che viene a mettersi tra le differenti parti di essa, d’imitazione non resta più ombra, svanisce in tutto la illusione che può nascer solamente dall’accordo perfetto di quelle; e l’opera in musica, una delle più artifiziose congegnazioni dello spirito umano, torna una composizione languida, sconnessa, inverisimile, mostruosa, grottesca, degna delle male voci che le vengon date e della censura di coloro che trattano il piacere da quella importante e seria cosa ch’egli è40.

[Intro.3] Ora chi ponesse l’animo a restituire all’opera l’antico suo pregio e decoro, gli converrebbe, prima di tutto, metter mano a una impresa non so se più difficile a riuscirne o a pigliarsi più necessaria. E questa si è regolare con buoni ordini lo stato musicale, a parlar cosi, e porre i virtuosi, come erano negli andati tempi, sotto disciplina e governo41. E di vero, quand’anche sensatamente scritto e composto fosse un dramma, come verrà egli eseguito dipoi, se non è per niente ascoltata la voce dei capi? E come potrà egli essere sensatamente composto e scritto, se quegli che dovrebbono ubbidire sono pur essi che dettan leggi e comandano? Qual cosa in somma si può egli aspettare che riesca di buono da una banda di persone dove niuno vuole stare nel luogo che gli si appartiene, dove tante soperchierie vengon fatte al maestro di musica, e molto più al poeta, che dovrebbe a tutti presiedere e timoneggiare ogni cosa, dove tra’ cantanti insorgono tutto dì mille pretensioni e dispute sul numero delle ariette, sull’altezza del cimiero, sulla lunghezza del manto, assai più mal agevoli ad esser diffinite, che non è in un congresso il cerimoniale, o la mano tra ambasciadori di varie corone? Somiglianti abusi converrebbe innanzi tratto toglier via, onde al poeta singolarmente fosse ridato quel freno che gli fu tolto ingiustamente di mano, e co’ più vigorosi provvedimenti saria mestieri ogni cosa riordinare e correggere. Che già niun legislatore non si metterà a dar nuove leggi in uno stato sconvolto, se prima i magistrati non vengano rimessi in autorità; né si accosterà un capitano al nemico, se non abbia prima dal suo esercito sbandita la licenza e il disordine. Ma chi si farà capo di tale impresa? Altre volte presiedeva al teatro un corago o un edile, e ogni cosa vi procedeva con quell’ordine che si conviene, quando le antiche repubbliche intendevano per via delle sceniche rappresentazioni di accendere il popolo alla virtù o di tenerlo almeno divertito per la quiete dello stato. Al presente il teatro è in mano d’impresari che non altro cercano se non trar guadagno dalla curiosità e dall’ozio di pochi cittadini, non sanno il più delle volte ciò che fare si convenga, o atteso i mille rispetti che sono forzati di avere, nol possono mandare ad effetto. Sino a tanto che non mutino le cose inutile è ogni discorso, ogni desiderio è vano. E come mutar potriano, salvo se nella corte di un qualche principe caro alle Muse presiedesse al teatro un abile direttore, in cui al buon volere fosse giunta la possa? Allora solamente saranno i virtuosi sotto regola e governo; e noi potremmo sperare a’ giorni nostri di veder quello che a’ tempi de’ Cesari e de’ Pericli vedeano Roma ed Atene.

Del libretto §

[1.1] Messa nel teatro la debita disciplina, conviene ordinatamente procedere alle differenti parti che forman l’opera, per mettervi quella mano emendatrice di cui ha bisogno ciascuna. La prima cosa che vuol essere ben considerata è la qualità dell’argomento, o sia la scelta del libretto, che importa assai più che comunemente non si crede. Dal libretto si può quasi affermare che la buona dipende o la mala riuscita del dramma. Esso è la pianta dell’edifizio; esso è la tela su cui il poeta ha disegnato il quadro che ha da esser colorito dipoi dal maestro di musica. Il poeta dirige i ballerini, i macchinisti, i pittori, coloro che hanno la cura del vestiario; egli comprende in mente il tutto insieme del dramma, e quelle parti che non sono eseguite da lui le ha però dettate egli medesimo.

[1.2] Immaginarono da principio i poeti che il miglior fonte, donde cavare gli argomenti delle opere, fosse la mitologia. Di qui la Dafne, l’Euridice, l’Arianna di Ottavio Rinuccini, che furono i primi drammi che circa il principio della trascorsa età sieno stati rappresentati in musica; lasciando stare la favola di Orfeo del Poliziano, che fu accompagnata da strumenti, quella festa mescolata di ballo e di musica fatta già per un duca di Milano in Tortona da Bergonzo Botta, o una specie di dramma fatto in Venezia per Enrico III, che fu messo in musica dal famoso Zarlino, con altre tali rappresentazioni, che si hanno solamente a riguardare come lo sbozzo e quasi un preludio dell’opera. L’intendimento de’ nostri poeti fu di rimettere sul teatro moderno la tragedia greca, d’introdurvi Melpomene accompagnata dalla musica, dal ballo e da tutta quella pompa che a’ tempi di Sofocle e di Euripide solea farle corteggio. E perché essa pompa fosse come naturale alla tragedia, avvisarono appunto di risalire cogli argomenti delle loro composizioni sino a’ tempi eroici, o vogliam dire alla mitologia. La mitologia conduce sulle scene, a grado del poeta, le deità tutte del gentilesimo, ne trasporta nell’Olimpo, ne’ campi Elisi e giù nel Tartaro, non che ad Argo ed a Tebe; ne rende verisimile con l’intervento di esse deità qualunque più strano e maraviglioso avvenimento; ed esaltando in certa maniera ogni cosa sopra l’essere umano, può, non che altro, far sì che il canto nell’opera abbia sembianza del natural linguaggio degli attori. Cosi in quei primi drammi che per festeggiare sposalizi si rappresentavano nelle corti de’ principi e ne’ palagi de’ gran signori, ci entravano sontuose macchine con quanto di più mirabile ne presenta la terra e il cielo, ci entravano numerosi cori, danze di più maniere, ballo mescolato col coro; cose tutte che naturalmente le forniva la qualità medesima dell’argomento. E già non è da dubitare che grandissimo diletto non dovesse altrui porgere una tale rappresentazione; siccome quella che nella unità del soggetto una varietà comprendeva presso che infinita d’intrattenimenti. Una assai fedele immagine di tutto ciò si può vedere tuttora nel teatro di Francia, dove l’opera vi fu trapiantata dal cardinal Mazzarino, quale era a’ suoi tempi in Italia. Se non che al decoro di simili rappresentazioni dovette dipoi fare non picciolo torto la introduzione dei personaggi buffi, i quali non bene allegavano cogli eroi e cogl’iddii; e col far ridere fuor di tempo isconcertavano la gravità dell’azione. Della quale sconvenevolezza pur rimane ne’ primi drammi francesi un qualche vestigio.

[1.3] Non istette lungo tempo l’opera a uscire dai palagi e dalle corti per mostrarsi al pubblico ne’ teatri da prezzo, dove la bellezza e novità della cosa facea correre in frotta la gente. Ma quivi la non si potè mantenere, come è ben naturale a pensare, col tanto apparato e splendore che tratti avea dall’origin sua. A ciò contribuirono ancora moltissimo le paghe che convenne dare a’ musici; le quali di picciole che erano da prima, a segno che una cantatrice fu sopranominata la Centoventi per aver avuto altrettanti scudi un carnovale, montarono ben presto a prezzi strabocchevoli. Fu adunque forza, non potendo gl’impresari reggere a tante spese, pigliare nuovi provvedimenti e partiti; onde da una banda si venisse a risparmiare quanto profondere doveasi dall’altra. Lasciati da canto gli argomenti favolosi, che tutto abbracciando, per cosi dire, l’universo sono di lor natura sommamente dispendiosi, si rivolsero ben tosto a’ soggetti storici che dentro a’ più ristretti termini si rimangano circonscritti; e questi e non altri furono posti sulle scene. Di maniera che l’opera, discendendo come di cielo in terra, dal consorzio degli dei si trovò confinata tra gli uomini. Alla tanta pompa e varietà delle decorazioni, a cui erano avvezzi gli spettatori, si credette supplire con una regolarità maggiore nel dramma, cogli artifizi della poesia, co’ vezzi di una più raffinata musica. E tal credenza radicò più che mai, quando l’una di queste arti tornata alla imitazione degli antichi nostri autori ed arricchitasi l’altra di nuovi ornamenti, condotte si stimarono assai vicine alla perfezione. Ma perché troppo nuda ed uniforme non si rimanesse la rappresentazione, s’introdussero tra un atto e l’altro, a ricreazion del popolo, gl’intermezzi e dipoi i balli, e venne l’opera a poco a poco pigliando la forma in cui la vediamo al dì d’oggi.

[1.4] La verità si è che tanto co’ soggetti cavati dalla mitologia, quanto dalla storia, vanno quasi necessariamente congiunti di non piccioli inconvenienti. I soggetti cavati dalla mitologia, atteso il gran numero di macchine e di apparimenti che richiedono, metter sogliono il poeta a troppo ristretti termini, perché egli possa in un determinato tempo tessere e sviluppare una favola come si conviene, perché egli abbia campo di far giocare i caratteri e le passioni di ciascun personaggio; che è pur necessario nell’opera, la quale non è altro in sostanza che una tragedia recitata per musica. Da ciò deriva che buona parte delle opere francesi, per non parlare delle prime nostre, danno quasi soltanto pascolo agli occhi, ed hanno piuttosto sembianza di mascherata, che di dramma. L’azion principale vi è come affogata dentro dagli accessori; e la parte poetica di esse ne rimane così debole e meschina, che con qualche color di ragione furono chiamate altrettante infilzature di madrigali. All’incontro, i soggetti cavati dalla storia non cosi bene si confanno con la musica, che in essi ha meno del verisimile. Siccome può osservarsi tutto giorno tra noi, dove non pare che i trilli di un’arietta stiano cosi bene in bocca di Giulio Cesare o di Catone, che in bocca si starebbono di Apollo o di Venere. Non forniscono tanta varietà quanto i soggetti favolosi; sogliono peccare di severità e di monotonia. Il teatro vi resta quasi sempre solitario; se già non si voglia porre nella schiera degli attori quella marmaglia di comparse che nelle nostre opere sogliono anche dentro al gabinetto accompagnare i re. Ed egli è troppo difficile trovare balli e simili altri intrattenimenti, che ben si adattino con azioni tolte dalla storia. Debbono essi intrattenimenti fare unità col dramma, essere parti integranti del tutto, come gli ornamenti nelle buone fabbriche, che non servon meno a decorarle che a sostenerle. Tale è per esempio nel teatro francese il ballo dei pastori che celebrano le nozze di Medoro e di Angelica, e fanno venire Orlando, che in essi si abbatte, in cognizione dell’estrema sua miseria. Non è così degl’intrattenimenti delle nostre opere; che quando bene in un soggetto romano il ballo sia di soldati romani, non facendo esso mai parte dell’azione, non vi è meno disconveniente e posticcio, che la scozzese o la furlana. Ond’è che i soggetti storici, o hanno il più delle volte a rimanersi nudi o a rivestirsi di panni che non vi si affanno per niente, e, come si suoI dire, piangono loro in dosso.

[1.5] Contro a tali inconvenienti non potrà il poeta far riparo se non collo scegliere il soggetto della sua favola con discrezione grandissima. E perché egli possa conseguire il fin suo, che è di muovere il cuore, dilettare gli occhi e gli orecchi senza contravvenire alla ragione, gli converrà prendere un’azione seguita in tempi o almeno in paesi da’ nostri molto remoti ed alieni, che dia luogo a più maniere di maraviglioso, ma sia ad un tempo semplicissima e notissima. Lo essere l’azione a noi tanto peregrina ne renderà meno inverisimile l’udirla recitare per musica. Il maraviglioso di essa darà campo al poeta d’intrecciarla di balli e di cori, d’introdurvi varie sorte di decorazione; e per esser semplice e nota, né di tanto lavoro egli avrà mestieri, né di così lunghe preparazioni per dare a conoscere i personaggi della favola e per far, come si conviene, giocar le passioni, che sono la molla maestra e l’anima del teatro.

[1.6] Assai vicini al divisato modello sono la Didone e l’Achille in Sciro dell’illustre Metastasio. Gli argomenti ne sono semplici, cavati dalla più remota antichità, ma non troppo ricercati; in mezzo a scene appassionatissime vi han luogo splendidi conviti, magnifiche ambascerie, imbarchi, cori, combattimenti, incendi: e pare che ivi il regno dell’opera venga ad essere più ampio, per così dire, ed anche più legittimo che d’ordinario esser non suole. Simile sarebbe di Montezuma, sì per la grandezza, come per la stranezza e novità dell’azione; dove fariano un bel contrasto i costumi messicani e gli spagnuoli vedutisi per la prima volta insieme, e verrebbesi a dispiegare quanto in ogni maniera di cose avea di magnifico e peregrino l’America in contrapposto dell’Europa42. Parecchi soggetti ne possono ancora essere forniti dall’Ariosto e dal Tasso, che sariano pure il caso al teatro dell’opera. Tanto più che in quei soggetti al popolo notissimi, oltre a un gran gioco di passioni, entrano anche i prestigi della magia. Così Enea in Troia e Ifigenia in Aulide; dove, oltre a una grande varietà di scene e di macchine, potriano entrare i prestigi più forti della poesia di Virgilio e di Euripide. Né mancherebbono altri simili argomenti di una eguale convenienza e fecondità. Infatti, chi sapesse pigliare con discrezione il buono de’ soggetti favolosi dei tempi addietro, ritenendo il buono dei soggetti dei nostri tempi, si verrebbe quasi a far dell’opera quello che è necessario fare degli stati: che, a mantenergli in vita, conviene di quando in quando ritirargli verso il loro principio.

Della musica §

[2.1] Che se niuna facoltà o arte a’ giorni nostri di ciò abbisogna, la musica è dessa; tanto ha ella degenerato dall’antica sua gravità. Messo da banda ogni decoro e oltrepassati i dovuti termini, s’è lasciata andare a ogni generazione di capricci, di fogge, di smancerie: e sarebbe ora il tempo di rinnovare quel decreto che fecero già i lacedemoni contro a colui il quale, per lo stemperato amore della novità, avea di sue bizzarrie infrascato la musica, e di virile ch’ella era, l’avea resa effeminata e leziosa. Della novità in tal genere sono pur troppo vaghi i nostri uomini. Vero è che senz’essa non avrebbe ricevuto la musica quegli aumenti che ricevuto ha; ma egli è anche vero che ha traboccato per essa in quello scadimento di cui si dolgono i migliori. Sino a tanto che le arti sono rozze per ancora, l’amore della novità è vita di quelle; ond’hanno incremento, maturità e perfezione: ma giunte al sommo, quel principio medesimo che diede loro la vita è anche quello che dà loro la morte. Appresso tutte le nazioni hanno esse provato una simile vicenda; e al di d’oggi è in esempio tra noi singolarmente la musica. Risorta ne’ più barbari tempi in Italia, si diffuse tosto per tutta Europa, e venne anche dagli oltramontani coltivata a segno, che ben si può dire aver essi per qualche tempo dato la voce e fatto agl’Italiani la battuta. Transferita dipoi in Venezia, in Roma, in Bologna ed in Napoli come nel nativo suo paese, vi fece nelle due trascorse età tali e tanti progressi, che nelle nostre scuole pur dovettero i forestieri venire ad apprenderla. E lo stesso sarebbe anche a’ giorni nostri, se in essa non usasse veramente il suo soperchio l’amore della novità. Quasi ella fosse ancor rozza e nell’infanzia, non si rifina di volerla tuttavia abbellire con nuovi ornamenti, d’immaginare nuovi arabeschi musicali, nuovi arzigogoli; e quasi fossimo nella infanzia noi medesimi, mutiamo a ogni momento pensieri e voglie rigettando noi oggi e quasi abborrendo quello di cui avevamo ieri tanta fantasia. Quella cantilena che ne facea levare in ammirazione pochi anni addietro e ne dava tal diletto, ne riesce di noia presentemente e di fastidio; non perché sia men buona, ma perché divenuta vecchia, perché andata fuori di usanza. E non meno che avvenga nelle fogge de’ vestiti e delle cuffie, in composizioni eziandio fatte per imitar la natura e quello che sta sempre di un modo, va del continuo variando la moda.

[2.2] Un’altra principal ragione ancora del presente scadimento della musica, è quel suo proprio e particolar regno ch’ella ha preso a fondare e che è cresciuto oggigiorno a tanta altezza. Il compositore si comporta quivi come despotico, vuol pure far da sé e piacere unicamente in qualità di musico. Per cosa del mondo non gli può entrare in capo ch’egli ha da essere subordinato, e che il maggior effetto della musica ne viene dallo esser ministra e ausiliaria della poesia. Proprio suo uffizio è il dispor l’animo a ricevere le impressioni dei versi, muovere cosi generalmente quegli affetti che abbiano analogia colle idee particolari che hanno da essere eccitate dal poeta; dare in una parola al linguaggio delle Muse maggior vigore e maggiore energia43. Né quella critica fatta già contro all’opera in musica, che le persone se ne vanno alla morte e cantano, non ha origine da altro, se non se dal non ci essere tra le parole ed il canto quell’armonia che si richiede. Imperciocché se tacessero i trilli, dove parlano le passioni, e la musica fosse scritta come si conviene, non vi sarebbe maggior disconvenienza che uno morisse cantando, che recitando dei versi. Ad ognuno è noto che anticamente gli stessi poeti erano musici. E con ciò la musica vocale era quale ha da essere secondo la vera instituzione sua: una espressione più forte, più viva, più calda dei concetti e degli affetti dell’animo. Ma ora che le due gemelle, poesia e musica, vanno disgiunte, qual maraviglia se avendo uno a colorire quello che ha disegnato un altro, i colori sieno bensì vaghi, ma vengano sformati i contorni? Al quale inconveniente grandissimo si troverà soltanto il rimedio nella discrezione del compositore medesimo, il quale dalla bocca del poeta voglia udire le intenzioni sue, voglia intendersela con esso lui prima di metter nota in carta, lo consulti dipoi sopra quanto avrà scritto, ne abbia quella dipendenza che avea il Lulli dal Quinault, il Vinci dal Metastasio, quale giustamente la prescrive la disciplina del teatro.

[2.3] Tra le disconvenienze della odierna musica dee notarsi in primo luogo ciò che la prima cosa salta, per cosi dire, agli orecchi nell’apertura stessa dell’opera, o vogliam dire nella sinfonia. Di due allegri è composta sempre e di un grave, strepitosa quanto si può il più, non è mai varia, cammina sempre di un passo e di un modo. E qual diversità, per altro, non si dovrebbe egli trovare tra una sinfonia ed un’altra? Tra quella, per esempio, che precede la morte di Didone abbandonata da Enea, e quella che precede le nozze di Demetrio e di Cleonice? Suo principal fine è di annunziare in certo modo l’azione, di preparar l’uditore a ricevere quelle impressioni di affetto che risultano dal totale del dramma. E però da esso ha da prendere atteggiamento e viso, come appunto dalla orazione l’esordio. Ma la sinfonia non altrimenti viene riputata al di d’oggi che come una cosa distaccata in tutto e diversa dal dramma, come una strombazzata, diciamo così, con che si abbiano a riempiere d’avanzo e ad intronare gli orecchi dell’udienza. Che se pure taluni la pongono come esordio, convien dire che sia di una medesima stampa cogli esordi di quegli scrittori che con di bei paroloni si rigiran sempre sull’altezza dell’argomento e sulla bassezza del proprio ingegno, che calzano a ogni materia e potriano stare egualmente bene in fronte di qualsivoglia orazione.

[2.4] Dietro alla sinfonia vengono i recitativi; e come quella suol essere la parte nella musica la più strepitosa, cosi questi ne sono, per cosi dire, la parte più sorda. E pare oggimai che i nostri compositori sieno venuti in parere che i recitativi non meritino il pregio che vi si ponga grande studio, non potendosi aspettare ch’e’ siano altrui di molto diletto cagione. Dove ben altrimenti la intesero gli antichi maestri. Basta vedere quanto nel proemio della Euridice ne scrive Iacopo Peri, che con giusta ragione è da dirsi l’inventore del recitativo. Datosi a cercare l’imitazion musicale che conviene ai poemi drammatici, volse l’ingegno e lo studio a trovar quella che in somiglianti soggetti usavano gli antichi Greci. Osservò quali voci nel nostro parlare s’intuonano, e quali no; che viene a dire quali sono capaci di consonanza, e quali non sono. Si pose a notare con ogni minutezza di quali modi ci serviamo ed accenti nel dolore, nell’allegria e negli altri affetti da cui siam presi: e ciò per far muovere il basso al tempo di quelli, ora più ed ora meno. Non tralasciò di scrupulosamente consultare in tutto questo l’indole della nostra lingua e il fine orecchio di molti gentiluomini, cosi nella poesia come nella musica esercitatissimi. E conchiuse, alla fine, che il fondamento di una tale imitazione ha da essere un’armonia che seguiti passo passo la natura, una cosa di mezzo tra il parlare ordinario e la melodia, un temperato sistema tra quella favella, dic’egli, che gli antichi chiamavano diastematica, quasi trattenuta e sospesa, e quella che chiamavano continuata. Tali erano gli studi de’ passati maestri; con tali avvertenze e considerazioni procedevano; e ben mostrava l’effetto che non si perdevano in vane sottigliezze. Il recitativo era vario e pigliava forma ed anima dalla qualità delle parole. Correva talvolta con rapidità eguale al discorso, tale altra procedeva lentamente, e faceva sopra tutto bene spiccare quelle inflessioni e quei risalti che la violenza degli affetti ha forza d’imprimere nell’espressione. Lavorato a dovere era udito con diletto; e si ricordano ancor molti come certi tratti di semplice recitativo commovevano gli animi dell’udienza in modo, che niun’aria a’ giorni nostri ha saputo fare altrettanto.

[2.5] Una qualche commozione egli sembra che cagioni presentemente il recitativo, quando esso sia obbligato, come soglion dire, e accompagnato con istrumenti. E forse non disconverrebbe che una tale usanza si facesse più comune ancora ch’ella non è. Qual calore e qual vita non viene a ricevere infatti un recitativo, se là dove si esalta la passione sia rinforzato dall’orchestra, se ogni sorta d’arme assalga il cuore ad un tempo e la fantasia? Non se ne può dare a mio giudizio la più manifesta prova, quanto adducendo in esempio la maggior parte dell’ultimo atto della Didone del Vinci, che è tutta lavorata a quel modo. È da credere che se ne sarebbe compiaciuto lo stesso Virgilio, tanto è animata e terribile. Un altro buon effetto seguirebbe da simile usanza: che non ci saria allora tanta la gran varietà e disproporzione tra l’andamento del recitativo e l’andamento delle arie, e verrebbe a risultarne un maggior accordo tra le differenti parti dell’opera. E già non pochi debbono essere stati più di una volta offesi a quel subito passaggio che si suol fare da un recitativo liscio et andante ad una ornatissima arietta, lavorata con tutti i raffinamenti dell’arte. Non è egli la medesima cosa che se altri in passeggiando venisse tutto ad un tratto a spiccar salti e cavriole?

[2.6] Bene è vero che, a meglio ottenere tra le varie parti dell’opera un più dolce accordo, savio partito anche sarebbe quello di lavorar meno e di meno instrumentare, che far non si suole, le arie medesime. Furono esse in ogni tempo la parte dell’opera che più delle altre risaltò. E secondo che la musica da teatro si è venuta raffinando, hanno ricevuto via via lumeggiamenti sempre maggiori. Di somma semplicità rispetto a quello che sono al dì d’oggi si può affermare che fossero da principio. Tantoché e per la melodia, e per gli accompagnamenti, poco più alto sorgevano del recitativo. Il vecchio Scarlatti fu il primo a dar loro più di mossa e di spirito; e le rivestì sopra tutto di belli e più copiosi accompagnamenti. Erano essi nondimeno dispensati con sobrietà, aperti, chiari, di gran tocco, dirò cosi, non leccati e minuti. E ciò non tanto in riguardo alla vastità del teatro, dove la lontananza si mangia la diligenza, ma in riguardo ancora alle voci, a cui debbono soltanto servire. Non picciola è la mutazione che da quel maestro è seguita a’ tempi nostri, nei quali si è oltrepassato ogni segno, e le arie si rimangono oppresse e quasi sfigurate sotto agli ornamenti con che studiano sempre più di abbellirle. Soverchiamente lunghi sogliono essere quei ritornelli che le precedono e ci sono assai volte di soprappiù. Nelle arie di collera per esempio; che troppo ha dell’inverisimile che un uomo in collera se ne stia ad aspettare con le mani a cintola che sia finito il ritornello dell’aria, per dare sfogo alla passione che bolle dentro il cuor suo. Quando poi, finito il ritornello, entra la parte che canta, quei tanti violini che l’accompagnano che altro mai fanno se non abbagliare e coprir la voce? Pare che per ogni ragione se ne avesse a scemare il numero. Tanto più che ne sono bene spesso cosi affollate le nostre orchestre, che avviene in esse come in un naviglio, che la gran moltitudine delle mani, in luogo che giovi al governo di quello, gli è al contrario d’impedimento. Perché non far lavorare maggiormente i bassi, e accrescere piuttosto il numero de’ violini, che sono gli scuri della musica? Perché non rimettere i liuti e le arpe, che col loro pizzicato danno a’ ripieni non so che del frizzante? Perché non restituire il loro luogo alle violette instituite già per fare la parte media tra i violini e i bassi, onde risultava l’armonia? Una delle più care usanze al dì d’oggi, sicura di levare nel teatro il maggior plauso collo più strepitoso batter di mani, è il far prova in un’aria di una voce e di un oboe, di una voce e di una tromba; e far tra loro seguire con varie botte e risposte una gara senza fine e quasi un duello sino all’ultimo fiato. Ma se tali schermaglie hanno potere di prendere gran parte della udienza, riescono pure alla più sana parte di essa rincrescevoli. E non si può abbastanza esprimere quanto diletto sorgesse in contrario dal fare ad ora ad ora accompagnar sobriamente le arie da diversa qualità di strumenti, dalla violetta, dall’arpa, dalla tromba, dall’oboe e forse anche dall’organo, come era altre volte in costume44. Così però che ciascuna qualità di strumenti convenisse all’indole delle parole a cui debbono servire, e che eglino entrassero a luogo a luogo, dove più lo richiedesse l’espression della passione. Non saria allora per niente coperta la voce del cantore, verrebbe ad esser rinforzato l’affetto dell’aria e l’accompagnamento saria simile al numero nelle belle prose, il quale, a detto di quel savio, convien che sia come il batter de’ fabbri, musica insieme e lavoro.

[2.7] Ma non sono questi, quantunque assai gravi, i maggiori disordini che sieno entrati nella composizione delle arie. Conviene risalire più alto per trovare la sede primaria del male. Il maggior disordine, giudicano i veri maestri, che abbia radice nella trovata e nella condotta del soggetto stesso dell’aria. Rade volte si cerca che l’andamento della melodia abbia del naturale, o risponda al sentimento delle parole che ha da vestire. E le tante varietà in cui lo vanno girando tuttavia e rigirando, non bene sogliono riferirsi a un centro comune, a un punto di unità. Blandire in ogni modo le orecchie, allettarle, sorprenderle, è il primo pensiere degli odierni compositori, non muovere il cuore o scaldar l’immaginativa di chi ascolta. E ad ottenere tal loro intendimento l’uscir bene spesso dalle righe, prodigalizzare i passaggi, ripeter le parole senza fine e intralciarle a loro piacimento, sono i tre principalissimi mezzi ch’ei mettono in opera.

[2.8] La prima cosa è piena veramente di pericolo, se uno guardi al buon effetto della melodia che, stando anch’essa nel mezzo, tiene maggiormente della virtù; e nella musica si vuol fare quell’uso degli acuti che si fa dei lumi ardenti nella pittura.

[2.9] Quanto ai passaggi, prescrive la sana ragione che non convenga usargli, salvoché nelle parole esprimenti passione o moto. Altrimenti non si hanno da dire, a propriamente chiamargli, se non se interruzioni del senso musicale.

[2.10] Quelle repetizioni poi di parole e quegli accozzamenti fatti soltanto in grazia della musica e che non formano senso veruno, quanto non sono essi mai noiosi ed insoffribili? Le parole non si vogliono replicare, se non con quell’ordine che detta la passione e dopo finito il senso intero dell’aria, e il più delle volte non si dovrebbe neppure dir da capo la prima parte; che è uno de’ trovati moderni, e contrario al naturale andamento del discorso e della passione, i quali non si ripiegano altrimenti in se stessi e dal più non tornano al meno.

[2.11] Potrà ancora ciascuno avere assai volte avvertito che il sentimento dell’aria sarà concitato e furioso; ma scontrandosi in essa le parole di padre o di figlio, non manca quivi giammai il compositore di tener le note, raddolcendole il più ch’ei può, e di rallentare a un tratto l’impeto della musica. Con che si persuade, oltre all’aver dato alle parole quel sentimento che si conviene, di aver anche condito la composizione sua di varietà; ma noi diremo piuttosto che egli l’ha guasta con una dissonanza di espressione da non potersi in niun modo comportare da chi ha fior di ragione; chè già non si ha da esprimere il senso delle particolari parole, ma il senso che contiene il tutto insieme di esse, e la varietà ha da nascere dalle modificazioni diverse del medesimo soggetto, non da cose che al soggetto si appiccino e sieno ad esso straniere o repugnanti.

[2.12] Egli sembra che i nostri compositori adoperino come quegli scrittori che per nulla badando al legamento del discorso e all’ordine, mirassero solamente a porre insieme e ad infilzare di belle voci. Per quanto sonore ed armoniose si fossero, non altro che vana ed inetta ne riuscirebbe l’orazione. E lo stesso è della musica, se altri non si prefigge di dipingere una qualche immagine o di esprimere un qualche sentimento45. Vana riesce essa pure; e dopo aver forse riscosso un qualche passeggero applauso, è lasciata dall’un de’ lati, per quanto artifizio siasi posto nella scelta delle combinazioni musicali, e condannata a un eterno silenzio ed obblio. Laddove si rimangono soltanto scolpite nella memoria dell’universale quelle arie che dipingono o esprimono, che chiamansi parlanti, che hanno in sé più di naturalezza; e la bella semplicità, che sola può imitar la natura, viene poi sempre preferita a tutte le più ricercate conditure dell’arte.

[2.13] La poesia e la musica, comecché tanto strettamente congiunte, camminarono di un passo tutto contrario tra noi. La musica nell’altro secolo era ben lontana dal dare in quelle affettazioni e in quelle lungaggini in cui dà oggi giorno; entrava nel cuore e vi rimaneva dentro, veniva ad incorporarsi colle parole e a farsi verisimile, era insomma affettuosa e semplice, quando la poesia era tutta fuori del vero, iperbolica, concettosa, fantastica. E da che si mise nel buon sentiero la poesia, lo smarrì la musica. Il Cesti e il Carissimi si videro ridotti a dover comporre sopra parole dello stile dell’Achillino; essi ch’erano degni di rivestir di note i casti sospiri del Petrarca; ed ora le naturali e graziose poesie del Metastasio sono assai volte messe in musica da compositori secentisti. Non è però che una qualche immagine di verità non si scorga anche a’ di nostri nella musica. Ne sono in esempio singolarmente gl’intermezzi e le operette buffe, dove la qualità principalissima dell’espressione domina assai meglio, che in un qualunque altro componimento che sia: e ciò forse dal non potere quivi i maestri, essendone mediocrissimi i cantanti, dispiegare a loro talento tutti i secreti dell’arte, tutti i tesori della scienza; onde loro malgrado sono costretti ad attenersi al semplice e a secondar la natura. Da qualunque causa ciò venga, a cagione appunto della verità che in sé contiene, ha la voga e trionfa un tal genere di musica, benchè riputata plebea. E dessa pur fu che estese la nostra riputazione di là dall’Alpi nel bel paese di Francia, rivale in ogni bell’arte coll’Italia. A niuno può esser nascosto come nel campo singolarmente della musica durava tra le due nazioni viva da gran tempo ed accesa la guerra. Non si trovava la via da accordare col nostro canto le orecchie dei Francesi, ed era da essi loro rigettata l’oltramontana melodia, come vi fu altre volte aborrita la oltremontana reggenza. Quando ecco fu udito in Francia lo stile naturale ed elegante insieme della Serva padrona con quelle sue arie tanto espressive, con que’ suoi graziosi duetti; e la miglior parte de’ Francesi prese partito a favore della musica italiana. Cosi che quella rivoluzione che non poterono operare per lunghissimi anni in Parigi tante nostre elaboratissime composizioni, tanti passaggi, tanti trilli, tanti virtuosi, la fece in un subito un intermezzo e un paio di buffoni. Sebbene, non già nelle sole opere buffe sta racchiusa la buona musica. Nelle opere serie è anche forza confessare che si odono qua e là dei pezzi degni dei tempi migliori. Fanno fede al mio detto parecchie fatture del Pergolesi e del Vinci, rapitici da morte troppo di buon’ora; del Galuppi, del Iomelli e del Sassone, che non potranno mai abbastanza vivere. A così fatti uomini sarebbe da commettere la musica, quale noi la vorremmo nella nostra opera. Che già avendo essi scosso di per sé il giogo di alcuni vecchi pregiudizi, come è aperto a vedersi in alcune delle loro composizioni, e nell’Andromaca singolarmente del Iomelli, riuscirebbe loro meno difficile che agli altri lo entrare nella intenzion nostra, che è di secondar sempre e di abbellir la natura. La bella modulazione trionferebbe del continuo nei recitativi, nelle arie, nei cori medesimamente di che vanno corredate le nostre opere, ne’ quali cori saprebbono metterci di contrappunto quel tanto che bastasse e nulla più. Infatti ella è opinione de’ migliori nostri maestri che il contrappunto, o vogliam dire l’armonia simultanea di varie parti, possa bensì produrre una certa temperanza, che alla musica di chiesa dà tanto decoro e solennità, ma che a risvegliare nell’animo nostro le passioni non sia atto per niente. E la ragione che ne adducono è questa. Essendo esso composto di varie parti, l’una acuta, l’altra grave, questa di andamento presto, quella di tardo, che hanno tutte a trovarsi insieme e ferir l’orecchie ad un tempo, come potrebbe egli muovere nell’animo nostro una tal determinata passione, la quale di sua natura richiede un determinato moto e un determinato tuono: allegrezza, moto veloce e tuono intenso e acuto, moto lento e tuono rimesso e grave la mestizia, e così delle altre? Attissima bensì ad accendere in esso noi qualunque si voglia passione è la melodia, la quale cammina sempre di un passo e di un tuono allo stesso fine. E se a ben condurre la melodia non ci vuole per avventura tanta profondità di dottrina, quanta a ben condurre il contrappunto, ci vuole però un gusto finissimo e una somma discrezione di giudizio; lo più bel ramo, dice quello antico savio, che dalla radice razionale consurga. In tal modo adoperando, saremo sicuri che la musica ne darà bene spesso sul teatro un qualche saggio di quella vittoriosa sua forza che mostrava ne’ tempi addietro, e che presentemente nelle dotte composizioni dispiega di Benedetto Marcello, uomo forse a niun altro secondo tra gli antichi e primo certamente tra’ moderni. Chi fu più acceso dall’estro e più regolato insieme di lui? Nelle cantate del Timoteo e della Cassandra e nella celebre opera de’ Salmi, non solo egli ha mirabilmente espresso le passioni tutte, i più delicati sentimenti dell’animo, ma è giunto ancora a rappresentare alla fantasia le stesse cose inanimate. E con tutta la severità della musica antica ha saputo congiugnere le grazie e i vezzi della moderna; ma son vezzi da matrona46.

Della maniera del cantare e del recitare §

[3.1] La buona composizion musica per altro, avutosi riguardo all’effetto che dee produrre, non è il tutto; questo dipende in gran parte anche dal modo con che ella viene eseguita da’ cantori. E potrebbe assai facilmente intervenire che un buon compositore fosse un buon capitano alla testa di un cattivo esercito: con la differenza che il capitano buono può far buoni i soldati, ma il maestro di musica non può lusingarsi di tanto co’ suoi virtuosi. A’ più di loro non è mai caduto in pensiero quanto sarebbe prima di ogni altra cosa necessario che imparassero a ben pronunziare la propria lingua, a bene articolare, a farsi intendere e a non iscambiare, come è lor vezzo, un vocabolo con l’altro.

[3.2] Niente vi ha di più sconcio di quella loro comune pratica di mangiarsi le finali, e nel tenero lor palato dimezzar le parole. Tanto che se uno non ha dinanzi gli occhi il libretto dell’opera, non riceve per gli orecchi impressione alcuna distinta di quanto e’ cinguettano. Diceva a tal proposito assai piacevolmente il Salvini che quella recitazione che per essere intesa ha bisogno di esser letta, è simile a quelle pitture sotto le quali faceva di mestieri scrivere, questo è un cane, questo è un cavallo; e quadrerebbe a noi assai meglio che non fece ai Francesi una caricatura che fu fatta in Parigi di un’opera senza parole, come se le parole nell’opera fossero veramente un soprappiù47.

[3.3] L’andare dipoi de’ nostri attori, gli atteggiamenti loro, il portamento della vita, i moti della persona non discordano punto dalla poca grazia, che e’ mostrano nel pronunziare e nello esprimersi. Che se ne’ principi primi dell’arte loro pur sono cosi disadatti e goffi, qual maraviglia se non giungono dipoi a quelle finezze ultime che l’arrivarvi è tanto difficile, e senza le quali non ci può essere nell’azione né dignità né verità? Un grande vantaggio sopra il comico ha senza dubbio l’attore nell’opera in musica, dove la recitazione è legata e ristretta sotto le note, come nelle antiche tragedie. Egli ha segnate con ciò le vie tutte che ha da tenere; non può metter piede in fallo quanto alle differenti inflessioni e durate delle voci sopra le parole della parte sua; che a lui esattamente le prescrive il compositore. Ma non resta, per tutto questo, che molto ancora egli non ci abbia a metter del suo. Che altro fa la coregrafia se non prescrivere anch’essa al ballerino insieme col tempo i passi e i giri ch’egli ha da fare sopra le note dell’aria? Pur nondimeno, non si può mettere in dubbio che il dare a quei passi il loro finimento sta al ballerino medesimo e il condirgli di quelle grazie che ne son l’anima. Così nel recitativo. Oltre il gesto, che è tutto proprio dell’attore, certe sospensioni, certe piccole pause, il calcar più in un luogo che in un altro già non si possono scrivere; dipendono in tutto anch’esse dalla intelligenza sua propria. E in ciò principalmente consiste quel fior di espressione che scolpisce le parole nella mente e nel cuore di chi ascolta. Rimangono ancora nella memoria dei Francesi simili finezze usate dal Baron e dalla Le Couvreur, che tanto faceano risaltare i versi di Cornelio e di Racine; e si sentono tuttavia fedelmente imitare in un paese, dove il teatro, come in Atene, fa gran parte della vita e dello studio. Buon per noi se i nostri attori avessero ugualmente studiato il recitare del Nicolini e della Tesi: allora cioè che andavano significando a quel modo che la natura detta, e non quando divennero, per voler troppo gradire, smaniosi, e diedero nella caricatura.

[3.4] Lo sceneggiare che chiamasi muto è altresì una parte della recitazione, che dipende in tutto dalla propria intelligenza dell’attore; ed esso è, per l’illusione teatrale, tanto importante, quanto importa il non vedere una causa rimanersi inoperosa e senza effetto. Ora in tal parte ognuno può sapere senza che altri il dica, quanto sieno valenti, quanto studio vi pongano i nostri Rosci. A tutt’altro han l’animo, attendono ad ogni altra cosa, fuorchè a quello che pur dovrebbono. Invece che uno badi a quanto gli dice un altro attore, e per via delle differenti modulazioni del gesto e del viso dia segno che sopra di lui ha fatto quella impressione che si conviene, non altro che sorridere a’ palchetti, far degl’inchini e simili gentilezze. Pare che e’ si sien fitti nell’animo di non mentire per conto niuno, di non volere a niun patto darla ad intendere all’udienza; e se ella per caso gli avesse mai presi in iscambio di Achille o di Ciro, che sono da essi rappresentati sulle scene, fanno ogni lor potere di trarla d’inganno e di certificarla, come disse un bello umore, che essi pur sono in realtà il signor Petriccino, il signor Stoppanino, il signor Zolfanello. Ed ecco per avventura la principal sorgente di quella noia sovrana che signoreggia alla rappresentazione delle nostre opere. Contro alla quale si suole cercare il rimedio di quel parlottar continuo, del far visite, del cenare, e insino a quel rimedio che bene spesso è peggiore del male medesimo, il gioco. Disordini che si verrebbono in gran parte a tor via, quando quello che è il fondamento primo della musica non fosse l’ultimo de’ pensieri così del maestro, come de’ cantori, quando il recitativo, parte essenzialissima del dramma, non fosse e nella composizione e nella esecuzione così disformato e negletto come egli è presentemente, quando le arie medesime fossero ben recitate. Allora solamente potranno essere udite anch’esse con vero diletto, e troveranno la via del cuore; e questo pure intende di dire, come avvertiva colui, il cartello dell’opera, dove è scritto «si recita per musica», e non è scritto «si canta».

[3.5] Ma dicano i savi quanto sanno, del recitare hanno i moderni virtuosi preso partito, avendo unicamente al cantare rivolto ogni loro cura e pensiero. Se non che quivi ancora non osservano termine alcuno che convenga,

E libito fan licito in lor legge.

[3.6] «Tristo a me, io t’ho insegnato a cantare, e tu vuoi suonare», rimproverava Pistocco a Bernacchi, che si può tenere come il caposcuola, il Marini della moderna licenza. Egli è un trito assioma che colui che non sa fermar la voce, non sa cantare. Al quale pongono così poco mente i nostri virtuosi, che del sostenerla e portarla a dovere, che è il gran secreto di muovere gli affetti, non fanno quasi studio niuno. Pensano in contrario che tutta la scienza stia nello isquartar la voce, in un saltellar continuo di nota in nota, non in isceglier quello che vi ha di migliore, ma in eseguire ciò che vi ha di più straordinario e difficile. Lo studio delle maggiori difficoltà della musica dee senza dubbio farsi anch’esso da’ giovani cantori, perché la voce divenga in ogni occasione ubbidiente, perché si dirompa a far quello che pare al di là di sua portata, che pare infattibile. In tal modo potendo eseguire il più difficile, sarà anche più atta a meglio esprimere il meno, e potrà farIo con quella facilità che aggiugne tanto di grazia alle cose ch’essa accompagna. Ma lo starsi sempre in sul difficile è contra l’intendimento dell’arte; egli è un far divenir fine quello ch’essa adopera soltanto come un mezzo. La vera arte prescrive che uffizio del cantore sia cantare, non gorgheggiare ed arpeggiar le ariette. E per essi non rimane che, quando bene la musica fosse bella e costumata, non riuscisse stemperata e leziosa. Per non avere appreso o per non seguire i veri modi del cantare, adattano le stesse grazie musicali ad ogni sorta di cantilena, e co’ loro passaggi, co’ loro trilli, colle loro spezzature e volate fioriscono, infrascano, disfigurano ogni cosa: mettono quasi una lor maschera sul viso della composizione, e arrivano a far sì che tutte le arie si rassomigliano, in quella guisa che le donne in Francia, con quel loro rossetto e con que’ tanti lor nei, paiono tutte di una istessa famiglia.

[3.7] Una grande libertà si suole tra noi concedere al musico massimamente nelle arie cantabili. Le si compongono larghe assai e con pochissime note: le guide soltanto della melodia; ond’egli vi possa dipoi supplire a suo talento, e metterci quanto gli aggrada del suo. A considerare il bene e il male che da ciò ne risulta, sembra che sia da preferirsi il costume dei Francesi, che non permettono a’ loro cantori quegli arbitri de’ quali troppo sovente sogliono abusare i nostri, riducendogli ad essere meri esecutori, e non più, de’ pensamenti altrui. Può riuscir noioso, egli è vero, il sentir replicar sempre così appuntino la medesima cosa; ed egli par ragionevole che si abbia a lasciare un po’ di campo aperto alla scienza, alla fantasia e all’affetto del cantore: ma dall’altra parte troppo difficilmente incontra, sia per ignoranza, sia per disordinata voglia di piacere, ch’egli sappia o pur voglia starsene legato al soggetto, e non ne esca fuori scordatosi di ogni decoro e di ogni verità. Per cento rapsodisti di luoghi comuni, o d’infarcitori di ciò che meno conviene, ne riesce a gran fatica un solo che con la dottrina riunisca il gusto, con l’eleganza la naturalezza, e in cui la propria discrezione imbrigli la fantasia. A quei pochi che amò singolarmente Apollo sieno permessi i supplementi del loro, come a quelli che possono entrare nella intenzione del compositore, e non sogliono aver dispareri, come si dice, col basso, e coll’andamento degli strumenti. A tutti gli altri ci provegga il maestro, scrivendo per loro ogni cosa, guidandogli a mano in ogni mutazione, in ogni passo. Per le stesse ragioni non si vorrebbe così indifferentemente, come si pratica, abbandonare al musico la cadenza, la quale riesce per lo più di tutt’altro sentimento, di tutt’altro colore, che non è l’aria. Suole il musico racchiuder quivi indifferentemente e distillarvi dentro quanto di grazie, di rarità, di artifizi musicali ha saputo mai immaginare o raccogliere. Ella sembra, dice il Tosi, la girandola di Castel S. Angelo, a cui i nostri virtuosi dan fuoco in sul fine dell’aria; e la cadenza, direm noi, ha da essere tratta dal cuore dell’aria, variare secondo la indole di quella, esserne quasi la perorazione e l’epilogo48.

[3.8] Instruiti che fossero i nostri virtuosi nella propria lingua, esercitati nell’azione, fondati nella musica, e sopra ogni cosa tenuti a freno da’ buoni maestri, che vieta il credere non rimettesse quella maniera di cantare che si sente nell’anima, non risorgessero i Sifaci, i Buzzoleni, i Cortona, la cui memoria non è già col suono della loro voce trapassata ed ispenta? E se una melodia espressiva accompagnata da strumenti convenevoli avesse per base una bella poesia, e fosse dal cantore eseguita senza affettazione e animata con un gesto decente e nobile, la musica avria potere di accendere a voglia sua e di calmare le passioni; e si vedrebbe ai dì presenti rinnovare forse anche tra noi quegli medesimi effetti che cagionava anticamente, perché accompagnata appunto e fortificata dai medesimi sussidi della espressione, del conveniente accompagnamento, della energia dei versi, dell’azione e dell’arte del cantore. Laddove gran torto noi avremmo, se mai credessimo di potere con un mezzo solo ottener quello che ha da esser il risultato di molti49. Certa cosa si è almeno che, rimessa la musica nel primiero suo stato, con grandissima attenzione e non meno di diletto verrebbe da noi ascoltata l’opera dal principio sino alla fine; ed ella imporrebbe agli spettatori uno imperioso silenzio. Quando al contrario credi ora sentire, all’entrare in teatro, muggire un bosco o romoreggiare il mare irritato dal vento50; tanto è lo strepito che vi mena l’udienza. E i nostri più attenti spettatori stannosi soltanto zitti a qualche aria di bravura, singolarmente alle danze, le quali non entrano mai troppo presto, non durano mai abbastanza e insieme cogli occhi hanno preso oggimai il cuore delle persone51. Egli sembra in verità che i nostri teatri sieno fatti più per un’ accademia di ballo, che per la rappresentazione dell’opera. E si direbbe che gl’Italiani hanno seguito il consiglio di quel Francese il quale facetamente diceva che, per rimettere il teatro, conveniva slungar le danze e accorciar le gonnelle.

Dei balli §

[4.1] Ma che cosa è finalmente questo nostro ballo, dietro al quale va così perduta la gente? Parte del dramma esso non fece mai; è sempre forestiero nell’azione e il più delle volte ad essa ripugnante. Finito un atto, saltano fuori tutto a un tratto dei ballerini, che per nulla non hanno che fare con l’argomento dell’opera. Se l’azione è in Roma, il ballo è in Cusco o in Pecchino; seria è l’opera? e il ballo è buffo. Niente vi ha di meno degradato e connesso, che proceda più per salti, se in tale occasione è lecito il dirlo, che sia più contrario alla legge della continuità legge inviolabile della natura e che l’arte, di lei imitatrice, dee fare in ogni cosa di non trasgredire. Ma lasciando star questo, che nella odierna licenza potrà parere una troppo grande sofisticheria, cotesto ballo, che tanto pur diletta, non è poi altro, a considerarlo in sé medesimo, che un capriolare sino all’ultimo sfinimento, un saltar disonesto che non dovrebbe mai aver l’applauso delle persone gentili, una monotonia perpetua di pochissimi passi e di pochissime figure. Dopo un assai sgarbato concerto, ecco che si distacca dalla truppa un paio di ragazzi. Non falla mai che l’uno non incominci dal rubare all’altro un mazzetto di fiori, o dal fargli altro simile scherzo; vanno in collera, si rappattumano poco stante insieme; l’uno invita l’altro a ballare, e si mettono su per il palco a saltellare senza modo; appresso i ragazzi entrano i più grandicelli; succedono dipoi i coriferi a fare anch’essi un simile balletto a due; e si conchiude finalmente con un altro concerto, che è di un pelo e di una buccia col primo. Conoscine uno e gli conosci tutti; si cambiano gli abiti dei ballerini, il carattere dei balli non mai.

[4.2] Chiunque, in ciò che si spetta alla danza, se ne sta alle valentìe di cotesta nostra e non va col pensiero più là, ha da tenere senz’altro per fole di romanzi molte cose che pur sono fondate in sul vero: quei racconti, per esempio, che si leggono appresso gli scrittori, degli tragicissimi effetti che operò in Atene il ballo delle Eumenidi, di ciò che operava l’arte di Pilade e di Batillo, l’uno de’ quali moveva col ballo a misericordia e a terrore, l’altro a giocondità e a riso, e che a’ tempi di Augusto divisero in parti una Roma. Egli avviene ben di rado che ne’ nostri ballerini si trovi congiunta con la grazia la forza della persona, la mollezza delle braccia con l’agilità de’ piedi, ed apparisca quella facilità nei movimenti senza la quale il ballo è di fatica a quelli ancora che stanno a vedere. [Sebbene questi non sono che i rudimenti della danza, o piuttosto la parte materiale, a volersi più propriamente esprimere. Il compimento o la forma di essa è tutt’altra cosa. La danza deve essere una imitazione che, per via de’ movimenti musicali del corpo, si fa delle qualità e degli affetti dell’animo; ella ha da parlare continuamente agli occhi, ha da dipingere col gesto. E un ballo ha da avere anch’esso la sua esposizione, il suo nodo, il suo scioglimento: ha da essere un compendio sugosissimo di un’azione.

[4.3] Su questo andare è per esempio il ballo del giocatore composto sopra una bellissima aria del Iomelli; nel quale vengono mirabilmente espressi gli avvenimenti tutti del grazioso intermezzo che porta quel nome. E veramente nel comico, o sia grottesco, sonosi veduti tra noi dei balli degni di applauso ed anche dei ballerini che aveano, come disse colui, le mani e i piedi eloquenti, e non erano forse tanto lontani da Batillo. Ma nelle danze serie o eroiche, è pur forza confessare che i Francesi vincono e noi e tutt’altre nazioni. E quale tra le moderne ha posto tanto studio quant’essi nella scienza del ballo, a cui hanno da natura tale attitudine, quale abbiamo noi altri Italiani alla musica? L’arte della coregrafia nacque già tra loro alla fine del Cinquecento, e tra loro apparirono in questi ultimi tempi i balletti della Rosa, di Arianna, di Pigmalione e parecchi altri, i quali si avvicinano di molto all’arte di Pilade e dei più nobili antichi pantomimi. In questa scuola sono essi veramente i maestri, né dovrà niuna nazione recarsi ad onta di studiare da essi anche in tal genere di gentilezza. E noi singolarmente non ci dovremmo mostrar ritrosi di prendere dai Francesi con che perfezionare la nostra opera; da quella nazione cioè che ha preso da esso noi la opera medesima.

Delle scene §

[5.1] Con le tante sconvenevolezze del ballo sogliono andare quasi di compagnia non minori disordini negli ornamenti della persona e dei vestiti dei ballerini. I quali vestiti, come anche quelli de’ musici, hanno da accostarsi, il più che sia possibile, alle usanze dei tempi e delle nazioni che sono rappresentate sulla scena. E dico accostarsi il più che sia possibile; che il teatro pur vuole una qualche licenza, e forse più che in altro luogo si ha ivi da star lontano dalla stitichezza e dalla pedanteria. Ma se non si esige da’ nostri Canziani ch’e’ taglino le vesti all’antica, cosi per appunto come le ci vengono descritte dall’erudito Ferrario, non dovriano né meno farsi lecito di dare a’ compagni di Enea la berretta e i braconi alla foggia olandese52.

[5.2] Perché i vestiti fossero costumati insieme e bizzarri, ci vorrebbono i Giuli Romani e i Triboli, che diedero prova anche in tal genere del loro valore; o almeno faria mestieri che i nostri uomini che presiedono al vestiario fossero inspirati dal genio di quegli eruditi artefici. E molto più saria mestieri che dagli odierni pittori seguite fossero le tracce di un San Gallo e di un Peruzzi, perché ne’ nostri teatri il tempio di Giove o di Marte non avesse sembianza della chiesa del Gesù, una piazza di Cartagine non si vedesse architettata alla gotica, perché in somma nelle scene si trovasse col pittoresco unito insieme il decoro e il costume. Le scene prima di qualunque altra cosa nell’opera attraggono imperiosamente gli occhi e determinano il luogo dell’azione, facendo gran parte di quello incantesimo per cui lo spettatore viene ad esser trasferito in Egitto o in Grecia, in Troia o nel Messico, nei campi Elisi o su nell’Olimpo. Or chi non vede quanto sia necessario che la fantasia del pittore sia regolata dall’erudizione e da un molto discreto giudizio? Possono in ciò essergli di grande aiuto la lettura dei libri, la conversazione degli uomini addottrinati nelle antichità; ma a qual altri dovrà egli aver ricorso piuttosto che al poeta, all’autor medesimo dell’opera, il quale ha concepito in mente ogni cosa, e niente ha d’aver lasciato indietro di tutto quello che può meglio abbellire e render verisimile l’azione che egli ha tolto a rappresentare ?

[5.3] Quantunque la pittura sia arrivata al colmo della perfezion sua nel secolo felice del Cinquecento, non è però che l’arte del dipingere le scene non abbia per molti riguardi ricevuto nella trascorsa età di considerabili aumenti. Né altrimenti esser poteva; perché essendo sì innalzati in quella medesima età per dare ricetto all’opera tanti nuovi teatri, è necessariamente avvenuto che abbia posto lo studio nel dipinger le scene un assai maggior numero d’ingegni che fatto non avea per lo addietro. Le invenzioni di Girolamo Genga tanto magnificate dal Serlio, che nel teatro di Urbino fece gli arbori ed altre simili cose di finisssima seta, si riporrebbono oggigiorno tra le fanciullaggini quasi direi da presepio. Ed io punto non dubito che l’istesso Serlio, dal cui trattato sopra le scene si può ricavare per altro qualche buon lume, non si compiacesse pur assai considerando come senza l’aiuto dei rilievi di legname sia da noi vinta qualunque difficoltà di prospettiva, come in siti ristrettissimi si facciano da noi apparire di grandi luoghi e spaziosi, considerando sin dove sia giunta al dì d’oggi in tal parte la scienza degli pittoreschi inganni. Fanno dipoi i più belli effetti e un gioco grandissimo all’occhio le scene vedute per angolo, che con gran discrezione di giudizio conviene per altro mettere in pratica, e in quelle vedute di faccia i punti accidentali che vi fa nascere il movimento vario della pianta su cui si alzano. Di tali scene fu l’inventore Ferdinando Bibbiena, il quale con la nuova sua maniera chiamò a sé gli occhi di tutti. E già parvero cose pur troppo secche quelle strade, que’ viali, quelle gallerie che corrono sempre al punto di mezzo, dove insieme con la veduta se ne va anche a finire la immaginativa dello spettatore. Avea egli sotto buoni maestri studiato i principi dell’arte sua nel Vignola; e dotato di fantasia pittoresca, s’avvisò di muovere, dirò così, di atteggiar le scene a quel modo che fecero i pittori del Cinquecento delle figure dei Bellini e dei Mantegna. Ferdinando, in una parola, fu il Paolo Veronese del teatro53. E come, al pari di Paolo, ebbe la gloria di aver recato l’arte al sommo, per quanto si appartiene alla magnificenza e a un certo che di maraviglioso, così ancora, egualmente che Paolo, ebbe il destino di averla messa in fondo per conto degli allievi che crebbero sotto di lui. Rivolti costoro ad imitare ciò che nelle sue invenzioni vi era di più facile, cioè la bizzarria, e lasciato il fondamento dell’arte che le rendea verisimili, si allontanarono via via da lui, facendo professione di seguirlo. Le più nuove fantasie, i più gran ghiribizzi del mondo, trabiccoli, centinamenti, tritumi, trafori, ogni cosa è messo da loro in opera, purché abbia dello strano. E per non parlare di una certa loro arbitraria prospettiva che sonosi creati in mente, danno dipoi il nome di gabinetto a ciò che potrebbe a un bisogno chiamarsi un salone, o un atrio, e chiamano prigione ciò che servir potrebbe per un cortile e forse anche per una piazza. Racconta Vitruvio come, avendo un pittore di quadratura dipinto a Tralli una scena, e avendovi figurato non so quali cose là dove per la verisimiglianza figurarle non si conveniva, erano i cittadini per approvare quell’opera eseguita per altro con intelligenza e gran bravura di mano. Quando saltò su un certo Licinio matematico, che aperse loro gli occhi. «E non vedete voi», disse loro, «che se voi nelle pitture quello approvate che non può stare in fatto, la vostra città corre gran pericolo di esser posta nel numero di quelle che non hanno gran riputazione per isvegliatezza d’ingegno54 Ora che direbbe quel matematico vedendo come nelle nostre scene da noi si applaudisce a quei laberinti di architettura, dove si smarrisce il vero, a quelle fabbriche che non si possono né reggere, né ridurre in pianta, e in cui le colonne in luogo che si veggano ire a tor suso l’architrave e il soffitto, si vanno a perdere in un mare di panneggiamenti posti così a mezz’aria? E il simile avviene anche talora delle volte, che si rimangon zoppe o monche, posano da una banda e non trovano dove impostarsi dall’altra, quasi sogni di gente inferma, che non hanno nelle loro parti connessione veruna. Ma dei Licini ne saltano fuori di tanto in tanto anche tra noi55 . E quello che avvenne all’antico pittore di Tralli, ebbe a provarlo il Padre Pozzi, uno de’ più rilassati maestri nella moderna scuola; basta dire ch’egli fu il creatore di quel nuovo mostro in architettura delle colonne a sedere. Avea egli nella pittura di una cupola fatto reggere le colonne, sopra cui ella posava, da mensole; cosa alla quale si storcevano alcuni architetti, protestando ch’essi per conto niuno non l’avrebbon fatto in una fabbrica, e dandogli per ciò non lieve carico; quando tolse loro ogni pensiero, secondo che riferisce egli stesso, un professore, amico suo, il quale si obbligò a rifare ogni cosa a sue spese qualora, fiaccando le mensole, le colonne con la cupola fossero venute a cadere: magra scusa, quasi che l’architettura non si avesse a dipingere secondo le buone regole, e ciò che offende nel vero non offendesse ancora nelle immagini di esso.

[5.4] A volersi contenere dentro a’ limiti di una savia invenzione, non potrà mai il pittore studiare abbastanza le fabbriche, che sono tuttavia rimase in piedi, della veneranda antichità. Molti nobili esempi ce ne fornisce l’Italia e la Grecia, a’ quali siam pur debitori del risorgimento della buona architettura; e molti ne potrebbe al pittore fornir medesimamente l’Egitto, maestra primiera di ogni disciplina. In effetto qual cosa vi ha egli di più grandioso e severo, lasciando stare le piramidi, di quegli avanzi del palagio di Mennone che torreggiano tuttavia lungo il Nilo, e della Tebe dalle cento porte, che, mercè l’opera dell’accurato Nordeno, sono ora di pubblica ragione? Nelle forme di essi e ne’ sobri ornamenti che ricevono da’ colossi e dalle sfingi onde sono accompagnati, spicca singolarmente la maniera terribile e, se vogliamo cosi chiamarla, michelagnolesca, la qual potrebbe anche talvolta con buonissimo effetto mostrarsi sugli teatri.

[5.5] La Cina ancora, antico nido delle arti e colonia, come alcuni vogliono, dell’Egitto, fornir ne potria di bellissime scene. Non è già che io ne volessi adottare quegli strani ghiribizzi che appresso di noi sono entrati in luogo delle erudite grottesche di Gioan da Udine, dell’India e degli altri maestri di quel secolo. Non vorrei né meno che da noi s’imitassero quelle loro pagode e quelle torri di porcellana, salvo se cinese non fosse il soggetto dell’opera. Ma bensì per le deliziose e per li giardini, che spesso occorrono nelle scene, di assai vaghe idee si potriano ricavare da quella in parecchie cose ingegnosissima nazione. I giardinieri della Cina sono come altrettanti pittori, i quali non piantano mica un giardino con quella regolarità ch’è propria dell’arte dell’edificar le case; ma, presa la natura come esemplare, fanno quanto sanno d’imitarla nella irregolarità e varietà sua.

[5.6] Loro costume è di scegliere quegli oggetti che nel genere loro piacciono il più alla vista, disporgli in maniera che l’uno sia all’altro di contrapposto, e ne risulti dall’insieme un non so che di peregrino e d’insolito. Vanno tramezzando ne’ boschetti alberi di differente portamento, condizione, tinta e natura. Vari sono i siti che nel medesimo sito, per così dire, rappresentano. Qua ti raccapriccia una veduta di scogli artifiziosamente tagliati e come pendoli in aria, di cascate d’acqua, di caverne e di grotte, dove fanno giocare variamente il lume; e là ti ricrea una veduta di fioriti parterri, di limpidi canali e di vaghe isolette con di belli edifizi che nelle acque si specchiano. Dal sito il più orrido ti fanno tutto a un tratto trapassare al più ameno; né mai dal diletto ne va disgiunta la maraviglia, la quale, nel porre un giardino, essi cercano egualmente che da noi fare si soglia nel tesser la favola di un poema. Simili ai giardini della Cina, sono quelli che piantano gl’Inglesi dietro al medesimo modello della natura. Quanto ella ha di vago e di vario, boschetti, collinette, acque vive, praterie con dei tempietti, degli obelischi ed anche di belle rovine che spuntano qua e là, si trova quivi riunito dal gusto dei Kent, dei Chambers e dei Brown, che hanno di tanto sorpassato il Le Nôtre, tenuto già il maestro dell’architettura, dirò cosi, de’ giardini. Dalle ville d’Inghilterra ne è sbandita la simmetria francese, i più bei siti paiono naturali, il culto è misto col negletto, e il disordine che vi regna è l’effetto dell’arte la meglio ordinata56.

[5.7] Ma per tornare a cose più vicine a noi, che non istudiano i nostri pittori quelle che pur hanno negli occhi? Oltre agli antichi edifizi che tuttavia sussistono in Italia, le più belle fabbriche moderne, che si potriano senza inverisimiglianza trasportar sulle scene? Che non istudiano i campi di architettura che adornano molti quadri di Paolo, co’ quali ben si può dire ch’egli ha reso teatrali gli avvenimenti della storia? I paesi del Pussino, di Tiziano, di Marchetto Ricci e di Claudio, che nella natura hanno saputo vedere quanto vi ha di più bello e di più caro? Ed anche chi non fosse di gran fantasia fornito farebbe gran senno a ricopiare così a puntino que’ loro paesaggi, imitando quel valentuomo il quale, piuttosto che far del suo delle cattive prediche, imparava a memoria e recitava quelle del Segneri.

[5.8] Una cosa importantissima, alla quale non si ha tutta quella attenzione che si vorrebbe, è il dover lasciar nelle scene le convenienti aperture, onde gli attori possano entrare ed uscire in siti tali, che con l’altezza delle colonne abbia una giusta proporzione la grandezza degli stessi attori. Veggonsi assai volte i personaggi venir dal fondo del teatro, perché di là solamente ci è l’uscita nella scena; ed ognuno può avere avvertito con quanta disconvenienza ed offensione dell’occhio. La grandezza apparente di un oggetto dipende dalla grandezza della sua immagine congiunta col giudizio che si forma della distanza di esso. Cosicché, posta l’immagine della stessa grandezza, l’oggetto sarà veduto tanto più grande, quanto più sarà giudicato lontano. Quindi è che appaiono come torrioni di giganti quei personaggi che si affacciano dal fondo della scena, facendocegli giudicare oltre modo lontani la prospettiva e l’artifizio appunto di essa scena. E cotesti giganti impiccoliscon dipoi e diventan nani di mano in mano che si fanno innanzi ed all’occhio più vicini. Lo stesso è delle comparse, che non si vorrebbon mai far andare colà dove i capitelli delle colonne giugnessero loro alle spalle o alla cintola, dove venissero a toglier via l’illusione della scena. E generalmente parlando, nel mescolare il vero col falso sono necessarie le più grandi cautele, perché l’uno non ismentisca l’altro, e il tutto paia di un pezzo.

[5.9] Un’altra cosa importantissima, a cui non si bada più che tanto, è la illuminazione delle scene; ed a torto. Mirabili cose farebbe il lume, quando non fosse compartito sempre con quella uguaghanza e così alla spicciolata, come ora si costuma. Distribuendolo artifiziosamente, mandandolo come in massa sopra alcune parti della scena e quasi privandone alcune altre, non è egli da credere che producesse anche nel teatro quegli effetti di forza e quella vivacità di chiaroscuro che a mettere ne’ suoi intagli è giunto il Rembrante? E quella amenità di lumi e d’ombre che hanno i quadri di Giorgione o di Tiziano, non saria forse anche impossibile trasferirla alle scene. Ben può ognuno ricordarsi di que’ teatrini che vanno attorno sotto il nome di vedute ottiche matematiche; e sogliono rappresentar porti di mare, combattimenti tra armate navali e simili altre cose. Il lume vi è introdotto a traverso di carte oliate, che ne smorzano il troppo acuto; e la pittura ne viene a ricevere un tale sfumamento, un tale accordo, che nulla più. Ed io mi ricordo, in occasione di uno di quei sepolcri che soglionsi fare in Bologna, di alcune grossolane pitture di quadratura ch’erano su per li muri della chiesa, e di alcune statue che meglio si direbbero fastellacci di carta, le quali ricevendo similmente il lume a traverso di certe carte oliate poste ne’ lunettoni, parevano finite con l’anima, benché vicine all’occhio, e di purissimo marmo. In un teatro illuminato a dovere si verrebbe a manifestare più che mai il vantaggio che noi abbiamo sopra gli antichi, di fare le nostre rappresentazioni sceniche di notte tempo. E già non è dubbio che, vistesi in tale teatro delle scene inventate da bravi pittori con decoro e con giudizio, non piacessero sopra tutte le strane fantasie che sono ora tanto in voga, e vengono tanto esaltate da quelli che niente considerano e di ogni cosa decidono. Avverrebbe in questo ciò che avvenne in Francia, quando, dopo gli arzigogoli spagnuoli che vi avevano lungo tempo sfigurato Talia, usci primamente la commedia di Molière costumata e naturale. Grandissimo fu il colpo ch’ella fece in virtù dell’imperio che sugli animi del pubblico ha il vero; e il Menagio ebbe a dire esser venuto il tempo di abbatter quegl’idoli dinanzi a’ quali avevano i Francesi sino allora abbruciato l’incenso.

Del teatro §

[6.1] Fin qui delle varie parti che forman l’opera, le quali hanno tutte non picciolo bisogno di correzione e di riforma. La voglia di gradir più oltre che non converrebbe, fu la cagion principale che usci ciascuna de’ termini suoi. Con che si venne a guastare una composizione, la cui bellezza dovea risultare da un giusto temperamento di tutte, l’una insieme con l’altra. [Dalla cagione medesima pur nacque che, essendo occorso in questi ultimi tempi di dover construire alcun nuovo teatro, volesse l’architettura, quasi non badando all’uso ed al fine, far pompa delle sfoggiatezze dell’arte sua. Onde la fabbrica potè riuscir bella agli occhi di alcuni, ma né buona né bella per chi dritto estima. E perché in tale occasione molte e varie cose furono disputate intorno alla materia di che convenga fabbricare il teatro, intorno alla grandezza e figura di che ha da essere, intorno alla disposizione dei palchetti e ornato loro, non sarà fuori del presente argomento toccare anche di simili particolari alcuna cosa; acciocchè se, per quanto era in noi, si è dichiarata la vera forma dell’opera in musica, si venga a dichiarare eziandio la più accomodata forma del luogo ove si ha da vedere et udire.

[6.2] E primieramente, per quanto si spetta alla materia, non si potranno se non moltissimo commendare coloro i quali murano i teatri in maniera che i corridori e le scale sieno di mattoni o di pietra. Oltre che la fabbrica in tal modo è perpetua, ella viene ad esser più difesa dagl’incendi, a che vanno forse più di ogni altro edifizio soggetti i teatri. Così però che non si vorrebbe che, o per la maggiore perpetuità della fabbrica o per una certa male intesa magnificenza, altri avvisasse di fare di pietra anche i palchetti e tutte quelle interne parti che guardano l’imboccatura della scena. Poiché, così adoperando, si andrebbe contro a un fine principalissimo a cui nel porre il teatro si dee aver l’occhio dall’architetto; e ciò è ch’esso riesca sonoro e tale, che le voci de’ cantanti vi spicchino il più che è possibile, e sieno a un tempo melodiose e grate a chi ode. Dimostra giornalmente l’esperienza che in una stanza ove nudi sieno i muri, ne sono assai poco ripercosse le voci e riescon crude all’orecchio; le spengono gli arazzi di cui una stanza sia rivestita; ma dove ella sia foderata di asse, le voci mollemente rimbombano, e giungon piene all’orecchio e soavi. Dal che ben pare che l’esperienza ne insegni qualmente, per l’interior del teatro, a prescegliere si abbia il legno; quella materia cioè di che fannosi appunto gli strumenti da musica, siccome quella che è più atta di ogni altra, quando percossa dal suono, a concepir quella maniera di vibrazioni che meglio si confanno cogli organi dell’udito. In effetto mettevano gli antichi ne’ loro teatri i vasi di bronzo, affine di aumentar la voce degli attori, quando essi teatri erano di materia dura, di pietra, di cementi o di marmo, che sono cose che non possono risuonare; laddove di tale artifizio non abbisognavano in quelli che erano fatti di legno, il quale forza è, come dice espressamente Vitruvio57, che renda suono. E con ciò quello antico maestro viene quasi di rimbalzo ad insegnare a’ moderni di che materia e’ debban fare i loro teatri. Nel che è necessario avvertire che il legname da mettersi in opera sia bene stagionato, e lo sia tutto egualmente. Così le vibrazioni non verranno ad accavallarsi l’una con l’altra, e più regolarmente ripercuoterà le onde sonore quel legno che in ogni sua parte verrà a vibrare d’un modo.

[6.3] Stimano i più che molto faccia alla bellezza del teatro la vastità sua. E certo li magni edifizi hanno di che sorprendere insieme e dilettar l’uomo; se non che anche quivi, come ogni altra cosa, è da osservarsi una certa regola e misura. La grandezza del foro, dice ancora Vitruvio, si dee fare proporzionata alla quantità del popolo, acciocchè o non riesca la capacità di esso ristretta riguardo al bisogno, o pure per la scarsezza del popolo il foro non paia disabitato e solitario58. Senza parlare adunque quanto disdirebbe a una picciola terra un teatro grande, è da considerare che ciò che determina la lunghezza della platea e, per conseguente, la grandezza del teatro è la portata della voce, e non altro. Che troppo avrebbe del ridicolo che altri facesse un teatro così grande, che non vi si potesse comodamente udire; come sarebbe ridicolo che così grandi si facessero le opere di una fortezza da non le potere dipoi difendere. Il che avverrà ogni qual volta che non si ragguagli al tiro della moschetteria la linea di difesa, ovveramente la lunghezza della cortina, che è come il modulo delle altre parti della fortificazione. Assai più spaziosi dei nostri esser potevano i teatri degli antichi. Perché, oltre ai vasi di bronzo che rinforzavano le voci, le bocche delle maschere che usavano i loro attori, erano quasi una foggia di tromba parlante; e cosi veniva la natural portata della voce ad accrescersi di assai. Dove a noi, che siam privi di tali aiuti, ne convien stare dentro a più ristretti termini; se già non si voglia alzar la voce a guisa di banditore ed isforzarla; che tanto è a dire se travisare non si voglia ogni verità nella rappresentazione.

[6.4] Ma perché gli uomini vanno generalmente presi a ciò che ha del grande e del magnifico, hanno pensato a un modo di avere il teatro oltre misura grande e a potervi, ciò non ostante, comodamente udire. Il modo è questo. Il palco scenario, sopra cui stanno gli attori, fanno ch’ei sporga per molti piedi all’infuori nella platea. Con che, ponendo gli attori quasi nel bel mezzo dell’udienza, non è pericolo non sieno a maraviglia uditi da ognuno. Ma un tal modo non può se non quelli contentare che sono di troppo facile contentatura. E chi non vede che è un metter sossopra ogni buon ordine, ogni regola? Gli attori hanno necessariamente da starsi al di là della imboccatura del teatro, dentro alle scene, lungi dall’occhio dello spettatore; e hanno da far parte anch’essi del dolce inganno a cui nelle sceniche rappresentazioni ordinato è ogni cosa. Ed ecco che si contravviene dirittamente all’intendimento della rappresentazione e se ne toglie via l’effetto, distaccando gli attori dal rimanente della decorazione e trasportandogli di tra le scene nel bel mezzo della platea. La qual cosa non può farsi, ch’e’ non mostrino il fianco e non voltino anche le spalle a buona parte dell’udienza, e non seguano tali altri inconvenienti, che ciò che si era preso per un compenso diviene una sconciatura grandissima.

[6.5] A far sì che in un teatro, per grande ch’ei fosse, vi si potesse, ciò non ostante, comodamente udire, hanno ancora avvisato taluni che molto vi facesse la figura interna di esso teatro. Per isciogliere un tal problema sonosi di molto lambiccati il cervello. Ma senza dare gran travaglio alla geometria hanno finalmente prescelto fra tutte le figure quella della campana, che piace loro di chiamar fonica. La bocca della campana risponde alla imboccatura della scena; e il palchetto di mezzo viene ad esser posto colà donde nella campana è sospeso il battaglio. Quale sia il fondamento di cosi raffinata invenzione, è facile a vedersi: la similitudine cioè, o l’analogia, che immaginarono doversi trovare tra il suono reso dalla campana e la figura della campana che il rende. Ma egli è anche facile a conoscere quale sia di tal fondamento la saldezza. La figura concava della campana con quelle sue labbra che mettono all’infuori, è attissima a spandere per ogni verso il suono del battaglio che batte in su quelle labbra medesime. E sospesa ch’ella sia d’alto, mette facilmente in agitazione il mare d’aria che le è d’intorno. Ma che per ciò? Dovrà la voce del cantore, posto quasi nella bocca della campana del teatro, fare gli stessi effetti nelle interne parti di essa? Ciò potrebbe per avventura trovar fede presso a coloro che credevano dover correre di gran pericoli in acqua chi era nato sotto il segno dell’Acquario, che prescrivevano a’ tisici il giulebbo del polmone di questo o quello animale, alle partorienti la rosa di Gerico, e tenevano simili altre illazioni per figliuole legittime dell’analogia, quando dal sillogizzare scolastico travisata era del tutto la faccia della filosofia. Oltre di che non poche sono le disconvenienze che risultano dalla figura della campana: il venirsi a ristrignere con essa lo spazio della platea e il far perdere a parecchi palchetti la veduta di tutta la scena, e alcune altre che qui riferire non giova. Che se per avventura si domandasse quale sia la più conveniente figura per l’interior del teatro, quale sia la curva la più acconcia di tutte a disporvi i palchetti, risponderemo: la stessa che usavano gli antichi a disporre nel loro teatro i gradini, cioè il semicerchio. Di tutte le figure di un perimetro eguale il cerchio contiene dentro a sé il più di spazio. Gli spettatori posti nella circonferenza del semicerchio sono tutti rivolti alla scena di un modo, la veggon tutta; ed essendo tutti dal mezzo equidistanti, tutti odono e vedono egualmente. Tanto è vero che nelle arti, dopo i primi lunghi rigiri, tornar conviene a ciò che vi ha di più semplice. Un solo inconveniente ha il semicerchio adattato a’ moderni teatri; ed è che, per la costruzione del nostro palco scenario, differentissima da quella degli antichi, troppo grande viene a riuscire la imboccatura o la luce di essa scena. Al che pronto per altro e facilissimo è il riparo. Basta cangiare il semicerchio in una semielissi, che ne ha appresso a poco tutti i vantaggi, il cui asse minore serva per la luce del palco e il maggiore per la lunghezza della platea.

[6.6] Molto acconcia altresì per la miglior disposizione dei palchetti è una invenzione di Andrea Sighizzi, scolare del Brizio e del Dentone e predecessore dei Bibbiena, che l’hanno più volte dipoi posta in opera anch’essi. E sta in questo, che i palchetti, secondo che dalla scena camminano verso il fondo del teatro, vadano sempre salendo di qualche once l’uno sopra l’altro, e similmente vadano di qualche once sempre più sporgendo all’infuori. In tal guisa meglio si affaccia ogni palchetto alla scena; e l’uno non impedisce punto la vista dell’altro; massimamente se traforato sia l’assito che gli divide, a modo di rastrello o di stia: come praticato vedesi nel teatro Formagliari di Bologna, che fu dal Sighizzi ordinato in tal forma.

[6.7] Disposti nel miglior modo i palchetti, hannosi da schivare, per il miglior effetto delle voci, quelli ornamenti che troppo rilevano ed hanno del centinato e del sinuoso; rompe quivi la voce, ne è irregolarmente ribattuta, si disperde. Vuolsi ancora dall’interno del teatro sbandire quella maniera di ornati, tanto alla moda in Italia, che rappresentano ordini di architettura; pedanteria, che abbiamo redata dal secolo del Cinquecento, in cui né scrivania facevasi, né armadio senza porre in opera tutti gli ordini del Coliseo. Non è questo il luogo per una così fatta decorazione. I pilastri e le colonne adattate ai palchetti, alle quali però pochissimi piedi si può dare di altezza, riescono meschine, tornano, a dir così, pigmee, di quel grandioso troppo perdendo e di quella dignità che loro si conviene. E il sopraornato, quand’anche si facessero le cornici architravate, è troppo più alto che non comporta la grossezza del semplice palco, che ha da dividere l’un ordine di palchetti e l’altro. Né qui ristà la cosa. Avendosi, secondo le leggi architettoniche, a dare agli ordini di sopra più di sveltezza che a quelli da basso, vengono i palchetti ad avere differenti altezze. E allora, o tu fai dell’interno del tuo teatro un settizonio o una torre, e senza un bisogno al mondo allontani di troppo gli spettatori degli ordini superiori dal punto di veduta che si prende nel palchetto di mezzo del primo ordine, ovvero pochissimi torneranno gli ordini dei palchetti, e perdi inutilmente dello spazio. L’architettura che, ad ornare come si conviene l’interno del teatro, si ha da pigliare per modello, è una maniera di grottesco, come se ne vede nelle antiche pitture, ed anche una maniera di gotico il quale ha col grottesco un’assai stretta parentela; se già da una tal voce non verranno ad esser offesi gli orecchi moderni. Voglio dire che gracilissimi deggiono farsi i fulcri dei palchetti, che avendo a sostenere un picciolissimo peso, quasi niente avranno da durar di fatica; strettissimi deggiono similmente farsi gli sopraornati, o per meglio dire le fasce che dividono l’un ordine di palchetti dall’altro, e saranno composte di membretti leggieri e di somma delicatezza. E di fatto, se in niuna fabbrica poco ci ha da avere del massiccio e del solido, se l’architettura all’incontro ha da esser quasi tutta permeabile, quella dello interno del teatro è pur dessa. Niente vi ha da impedire la veduta; niun luogo, per picciolo ch’e’ sia, ci ha da rimanere perduto; e gli spettatori debbono far parte anch’essi dello spettacolo ed essere in vista, come i libri negli scaffali di una biblioteca, come le gemme ne’ castoni del gioiello. E per questo particolare, singolarmente mirabile è il teatro di Fano disegnato da Iacopo Torelli, il quale, dopo avere nella trascorsa età passato molti anni a’ servigi di Francia, ne volle nobilitare la patria sua. La congegnazione e l’ornato dei palchetti fornirà all’architetto, non meno che il restante dello edifizio, materia da mostrare l’ingegno e la discrezion sua. E non meno sarà egli lodevole, se nello interior del teatro saprà ristrignersi a una gentile e ben intesa intagliatura di legname, quanto se ne saprà arricchire l’esterno con di bei loggiati di pietra, con iscalinate e con nicchie, con quanto ha di più sontuoso e magnifico l’architettura. Secondo una tale idea sono due disegni che m’è avvenuto di vedere in Italia, ne’ quali, non ostante che nulla manchi di quanto richiedono le moderne rappresentazioni, la maestà si conserva dell’antico teatro dei Greci. L’uno è del Sig. Tommaso Temanza, uomo raro, che ne’ suoi scritti dà novella vita al Sansovino e al Palladio; l’altro del Sig. Conte Girolamo Dal Pozzo, che colle sue opere rinfresca in Verona sua patria la memoria del Sanmichele. E non lungi dalla medesima idea è il teatro che fu, non sono ancora molti anni, consecrato in Berlino ad Apollo e alle Muse; ed è uno dei primari ornamenti di quella città regina.

Conclusione §

[Concl.1] Moltissime altre cose ci sarebbono state da aggiugnere in una materia, come è la presente, composta di tante parti; ciascuna importante per sé, ampia, nobilissima. A me basterà di averne accennato quel tanto che s’è fatto insino a qui; non altro essendo stato l’intendimento mio, che di mostrar la relazione che hanno da avere tra loro le varie parti constitutive dell’opera in musica, perché ne riesca un tutto regolare ed armonico. E tanto pur dee bastare perché, col favore di qualche principe virtuoso, possa forse anche un giorno risalire nell’antico suo pregio una scenica rappresentazione che per più riguardi meriterebbe di aver luogo tra’ pensieri di coloro che sono preposti al governo delle cose. Vedrebbesi allora un bello e magnifico teatro essere un luogo destinato non a ricevere una tumultuosa assemblea, ma una solenne udienza dove potriano sedere gli Addisoni, i Dryden, i Dacier, i Muratori, i Gravina, i Marcelli. Che già non avrebbono più ragione di dire esser l’opera una composizione sconnessa, mostruosa e grottesca; ma per lo contrario ravviserebbono in essa una viva immagine della greca tragedia, in cui l’architettura, la poesia, la musica, la danza e l’apparato della scena si riunivano a crear la illusione, quella possente sovrana dell’uomo, e in cui di mille piaceri se ne formava uno solo ed unico al mondo59.

[Concl.2] Ma poiché l’argomento o il libretto contiene in sé, come si disse da principio, ogni parte, ogni bellezza dell’opera, e da esso ne dipende principalmente la riuscita, ho creduto meritasse il pregio il dover qui aggiugnere due esempi di dramma, lavorati nel modo che s’è andato divisando. L’uno di essi è Enea in Troia, l’altro Ifigenia in Aulide60. Quello è come in embrione; questo è spiegato in ogni sua parte e compito. E perché portò già il caso che io dovessi distendere quest’ultimo in francese, in francese l’ho lasciato per essere quella lingua fatta oramai tanto comune, che non vi è in Europa uomo gentile che non la possegga quasi al pari della propria. Il primo dramma non è altra cosa che il secondo libro della Eneide messo in azione con qualche leggieri mutazioni solamente, perché ogni cosa, come è dovere, si riferisca ad Enea, che è il protagonista della favola. Il secondo è la medesima azione che fu da Euripide esposta sul teatro di Atene, e di Grecia trasferita dipoi in Francia dal tenero Racine. In alcune parti del dramma ho seguito l’antico poeta, e in alcune altre il moderno; facendomi però lecito di recedere tra le altre cose dall’uno con lo aver reso l’azione semplicissima, e di recedere dall’altro con lo aver rappresentata Ifigenia di costume eguale. Ama essa la vita per sentimento di natura; e come di sangue regio e greca, se ne va con fortezza d’animo alla morte. Non è paurosa e supplichevole da principio; e con subito cambiamento non apparisce da ultimo tutt’altra, come la rappresenta Euripide, per la qual disuguaglianza e anomalia di costume egli vien tassato da Aristotile nella Poetica61. Dove ho seguito Racine mi san servito, per quanto ho potuto, delle sue parole medesime; e dove Euripide, della traduzione del Brumoy; ben sicuro che il poeta greco non si poteva meglio esprimere in francese. Nel rimanente ho procurato supplire col mio di maniera che il lavoro non dovesse aver sembianza di musaico, parte composto di pietre dure e parte di pezzuoli di vetro. Da somiglianti saggi, che danno corpo alle idee e le pongono meglio in luce, potrà anche ognuno recarne un più fondato giudizio: vedere se elle sono praticabili o no; e se io non fo per avventura come colui il quale, dopo date le più belle regole del mondo sulla tattica, non sapeva poi far fare a diritta a una picciola mano di moschettieri.

Enea in Troia §

… quaeque ipse miserrima vidi,
Et quorum pars magna fui62

Virg., Æneid., Lib. II.

I personaggi sono Enea, Priamo, Paride, Anchise, Iulo, Sinone, Pirro, Calcante, Cassandra, Ecuba, Creusa; e i cori sono di uomini e donne troiane, di Greci, di dei, altri amici ed altri nimici di Troia.

La scena dell’Atto primo rappresenta la campagna dintorno a Troia, col cavallo da un lato. Esce Priamo dalla città alla testa de’ principali Troiani, e celebra la fuga dei Greci e la liberazione della patria. Trionfa il vecchio in vedere il lido sgombrato di nemici e di navi. Qui era il campo de’ Dolopi, dic’egli, qui si facean le zuffe.

… hic saevus tendebat Achilles.

A queste parole Ecuba si rammenta di Ettore ucciso e da’ cavalli di Achille strascinato dintorno alle patrie mura. Il coro la consola celebrando insieme con Priamo la fuga de’ Greci; dell’onta de’ quali sarà un perpetuo monumento il cavallo consecrato a Minerva.

In mezzo ai cantici del coro e alle danze giulive esce Cassandra,

verace sempre e non creduta mai,

la quale profetizza come quel giorno è l’ultimo giorno di Troia, e consiglia di gittare in fondo del mare il cavallo:

… timeo Danaos et dona ferentes.

Enea si accosta a lei, perché almeno si esplori se dentro al cavallo vi fosse qualche agguato dei Greci. Il partito viene contrariato da alcuni. Priamo prega gli dei tutelari di Troia d’inspirargli quello che sia per lo migliore; e intanto sacrificano al Xanto e alle Ninfe dell’Ida, invitandole a scendere dalla montagna per unirsi con Venere, la quale fra giubilo di suoni e cantici è per guidare le festevoli sue danze là dove prima, tra gli urli e i gridi, Marte guidava la fiera sua tresca.

Nell’Atto secondo Sinone è condotto prigioniero dinanzi al re, e vi tiene quel discorso dove Virgilio ha cosi bene espresso in versi latini la greca eloquenza. In vano si oppone Enea al dovere introdursi il cavallo dentro a Troia: l’arte di Sinone vince finalmente coloro,

Quos neque Tydides, nec Larissaeus Achilles
Non anni domuere decem, non mille carinae.

Paride colla cetera in mano intuona un inno a Minerva e a Venere riconciliatesi già insieme; intanto che si abbatte parte del muro della città per introdurvi il cavallo; ed esso ne vien dipoi tirato dentro in mezzo ai balli e ai canti degli Troiani:

… circum pueri innuptaeque puellae
Sacra canunt, funemque manu contingere gaudent.

L’Atto terzo incomincia da Enea, il quale in sulle prime vigilie della notte destato dalla terribile visione che ha avuto di Ettore, viene alla tomba di lui, vi reca doni ed offerte, commisera il destino della patria, attesta gli dei di aver fatto quanto era in lui perché non venisse condotto dentro di Troia il cavallo fatale, e domanda agli medesimi dei la forza di cui era dotato Ettore, quando arse le navi dei Greci, perché la Patria, se ha da cadere, non cada invendicata. Indi corre al palagio di Priamo. La scena cangia, rappresentando una piazza dinanzi al tempio di Pallade, nella quale è collocato il cavallo. Sinone racconta a Calcante e a Pirro, sortiti dal cavallo, come l’arti sue riuscirono quasi a vuoto per la opposizione di Enea; mostrando quanto sia necessario, innanzi ad ogni altra cosa, spegner costui, come il più forte guerriero che, dopo la morte di Ettore, vanti Troia. Si vedono intanto alcuni Greci uscire tuttavia fuor del cavallo. Calcante con brevi parole gli anima all’eccidio della città nemica, e sotto voce intuona un cantico al quale pur sotto voce rispondono i Greci. Verso la fine del coro incomincia un combattimento nel fondo del teatro tra le guardie della rocca e alcuni Greci usciti fuor del cavallo, i quali vorrebbono impadronirsi di essa rocca. Cresce il tumulto arrivando di fuori l’oste greca. Calcante e Sinone sul dinanzi del teatro pregano ad alta voce la dea; e al loro canto concertano a luogo a luogo strida e lamenti di gente ferita e presso a morire.

La scena dell’Atto quarto è nel cortile del palagio di Priamo:

Aedibus in mediis nudoque sub aetheris axe
Ingens ara fuit, iuxtaque veterrima laurus
Incumbens arae atque umbra complexa Penates

Quivi trovasi Ecuba con alcune Troiane, le quali tutte paurose e supplichevoli abbracciano le statue degli dei. Vedesi da un lato entrare il vecchio Priamo che mal si regge su’ piedi, oppresso dalle armi di cui s’è voluto rivestire; e appena egli è scoperto da Ecuba, che da essa vien collocato nella sacra sedia presso all’ara col dirgli:

... quae mens tam dira, miserrime coniux,
Impulit bis cingi telis, aut quo ruis?…
Non tali auxilio, nec defensoribus istis,
Tempus eget etc.

Se alcuno può difender Troia, Enea sarà quel desso, che è ora alla guardia della torre del palagio e con la uccisione di tanti Greci ha già in parte vendicato la patria. Una delle principali donne rammenta come miglior partito sarebbe stato quello di prestar fede al consiglio di Enea e ai vaticini di Cassandra. In questa si ode un rumor grandissimo della torre che rovina. Ecuba incomincia una preghiera agli dei, che lei, moglie di Priamo e regina, vogliano campare da schiavitù. Ripigliano appena il canto le altre donne, che ecco Pirro che entra cacciandosi innanzi Polite, che cade morto a’ piè del padre. Segue la parlata di Priamo a Pirro, tutta strumentata; indi Priamo

… telum imbelle sine ictu
Coniicit etc.

A cui Pirro risponde con le parole di Virgilio e l’uccide. Le donne mettono grandissime stride; egli le fa condurre alle navi, ed esce per cercar Enea. Enea entra dall’altro lato. Visto Priamo ucciso e fattovi sopra un breve lamento,

Hic finis fatorum Priami etc.

si sovviene del vecchio Anchise e del picciolo Iulo. Pure, preso il partito di perire insieme con la patria e di prender qualche vendetta o sopra Elena o sopra Sinone, gli comparisce Venere e gli mostra nel fondo del teatro gli dei inimici di Troia, tutti congiurati a sovvertirla. Partito Enea, seguita un coro degli medesimi dei e un ballo di Furie.

Nell’Atto quinto nasce nella casa di Enea la bella contenzione che è espressa in Virgilio, tra Anchise che vuol rimanersi e morire ed Enea medesimo che vuol salvare il padre dalle mani dei Greci; né potendolo persuadere a fuggirsi, riprese le armi, vuol di nuovo uscire tra’ Greci, mentre Creusa e Iula ne lo trattengono. Quand’ecco il prodigio della fiamma che di cielo discende sulla testa di Iulo senza offenderlo: tuona da sinistra, e il padre Anchise consente finalmente alla fuga. La scena cangia e rappresenta l’orrido d’una città smantellata e mezzo involta nelle fiamme,

… fumat humo Neptunia Troia.

Coro di Troiani che deplorano le calamità loro, e di Greci che nella marcia gl’insultano; dei quali il corifeo è Calcante. Partiti questi, entra Enea cercando e chiamando Creusa, che nella fuga si è smarrita. Ella gli apparisce e gli fa il vaticinio prima de’ suoi errori, poscia della fondazione di un nuovo imperio: e in questo mezzo tra il fumo di Troia si vede nel fondo del teatro risplendere l’aureo Campidoglio; e seguita un coro degli dei e un ballo degli geni protettori di Roma.

Iphigénie en Aulide.
Opera §

                                             quot victimae in una!

Acteurs §

  • Agamemnon
  • Achille
  • Ulysse
  • Clytemnestre femme d’Agamemnon
  • Iphigénie fille d’Agamemnon
  • Calchas grand prêtre
  • Arcas domestique d’Agamemnon
  • Troupe de soldats d’Agamemnon
  • Troupe de filles grecques
  • Troupe de filles consacrées à Diane
  • Troupe de prêtres
  • Troupe d’esclaves, de captives et de soldats d’Achille

Acte I §

Le théâtre représente le camp des Grecs près de la ville d’Aulide. La flotte grecque parait sur la mer dans le fond. Sur le devant on voit l’entrée de la tente d’Agamemnon. Le théâtre est d’abord sombre et s’éclaire peu à peu.
Scène I §
Agamemnon et Arcas.

Agamemnon

Viens, Arcas, suis-moi.

Arcas

Quoi, Seigneur, vous devancez l’aurore ! Vos yeux seuls sont ouverts, tandis que les oiseaux, les vents et l’Euripe, tandis que tout encore est dans le silence.

Agamemnon

Heureux ceux qui loin des honneurs vivent sans gloire et sans soucis !

Arcas

Agamemnon issu du sang de Jupiter, à la tête de l’armée, de vingt rois et de mille vaisseaux que la Grèce a assemblés contre l’Asie, depuis quand tenez-vous ce langage ? Père de la belle Iphigénie, Achille, fils d’une déesse, le plus vaillant des Grecs, celui qui doit renverser la superbe Troie, Achille recherche en mariage cette fille. Que vous reste-t-il à demander aux dieux ? Il est vrai qu’un long calme… mais hélas ! Quels pleurs vois-je couler de vos yeux attachés sur ce billet ! Pleurez-vous Oreste, Clytemnestre ou la belle Iphigénie ?

Agamemnon

Non, tu ne mourras point; je n’y saurais consentir.

Arcas

Seigneur…

Agamemnon

Tu sais qu’il y a trois mois que nous étions prêts à faire voile de l’Aulide, lorsque ce calme qui nous y retient encore, nous ferma le chemin de Troie. Frappé de ce prodige, j’interrogeai Calchas ; il consulta Diane qu’on adore en ces lieux. Mais que devins-je, Arcas, lorsqu’on me répondit, que pour m’ouvrir le chemin de Troie il fallait sacrifier Iphigénie ?

Arcas

Votre fille !

Agamemnon

Que te dirai-je, Arcas ? Victime de l’ambition et pressé par Ulysse, je consentis après mille combats à sacrifier ma fille. Mais quel artifice a-t-il fallu chercher pour l’arracher des bras d’une mère ? ]’empruntai le langage d’Achille son amant. J’écrivis en Argos, qu’il ne voulait partir pour Troie, que l’hymen n’eut couronné ses feux.

Arcas

Et croyez-vous, Seigneur, que le bouillant Achille souffrira qu’on abuse de son nom, et ne volera pas à la vengeance ?

Agamemnon

Il était absent alors. Tu te souviens que Pelée, son père, assailli dans son propre royaume, l’avait rappelé. On aurait cru que cette expédition dût le retenir longtemps. Mais qui peut résister à ce foudre de guerre ? Il se montra, vainquit, et hier il revint en Aulide. Mais de plus puissants motifs me retiennent. Moi je serai le bourreau d’une fille, que le sang, la jeunesse, sa tendresse pour moi et mille vertus me rendent sacrée ! Non, les dieux n’approuveraient pas ce sacrifice. Ils ont voulu seulement m’éprouver, et me condamneraient si je leur livrais la victime qu’ils demandent. Arcas, cours au devant de la reine; rends-lui ce billet, et que tes discours s’accordent avec ce que j’écris. Je lui mande qu’Achille, ne soupirant qu’après la gloire, veut différer cet hymen jusqu’à son retour de Troie. Va, cours, prends un guide fidèle. Si ma fille met le pied dans l’Aulide, elle est morte. Sauve-la d’Ulysse, de l’armée, de Calchas, de la religion ; sauve-la de ma propre faiblesse.

Arcas

Comptez sur moi, Seigneur, je vole pour vous obéir.

Air

Agamemnon

Suspend ta colère, ô chaste déesse, ne souille pas tes autels du sang d’une mortelle, qui a toujours suivi tes lois……

Mais on entre. C’est Achille: dieux ! Ulysse le suit.

Scène II §
Agamemnon, Achille, Ulysse.

Agamemnon

Quoi, Seigneur, se peut-il que vos triomphes soient si grands et si rapides ! La victoire vous a précédé dans la Thessalie, et vous suivez de près la renommée dans l’Aulide. Presqu’en passant vous soumîtes Lesbos, la plus puissante alliée des Troyens; et ces grands exploits ne sont que les amusements d’Achille oisif.

Achille

Seigneur, puisse bientôt le ciel qui nous arrête ouvrir un champ plus noble à mes destinées ! Mais que me faut-il croire d’un bruit qui me surprend, et me met au comble de mes vœux ? On dit qu’Iphigénie va bientôt arriver en ces lieux, et que je vais être le plus heureux des mortels.

Agamemnon

Ma fille ! Qui vous a dit qu’elle doit arriver ?

Achille

Qu’a donc ce bruit qui doive vous étonner ?

Agamemnon

Ciel, saurait-il mon artifice ! (à Ulysse.)

Ulysse

Agamemnon s’étonne avec raison. Quoi ? tandis que le ciel est en courroux contre les Grecs, qu’il faut fléchir les dieux, qu’il leur faut du sang, et peut-être du plus précieux, Achille, le seul Achille ne songe qu’à l’amour.

Achille

Dans les champs de Troie les effets feront voir qui chérit plus la gloire ou d’Ulysse ou de moi. Vous pouvez maintenant à loisir consulter les victimes sur le silence des vents. Moi, qui de ce soin me repose sur Calchas, souffrez, Seigneur, que je presse un hymen, dont dépend mon bonheur. Je saurai bien réparer devant Troie les moments que l’amour me demande en Aulide.

Agamemnon

Ô ciel, pourquoi faut-il que tu fermes le chemin de l’Asie à de tels héros ! N’aurais-je vu tant de valeur, que pour m’en retourner avec plus de confusion !

Ulysse

Dieux, qu’entends-je !

Achille

Qu’osez-vous dire ?

Agamemnon

Qu’il faut abandonner notre entreprise. Les vents nous sont refusés : le ciel protège Troie, les dieux par trop de présages se déclarent en sa faveur.

Achille

Quels sont donc ces présages ?

Agamemnon

Vous-même, Seigneur, souvenez-vous de ce que les oracles ont prédit de vous.

Achille

Les Parques, il est vrai, ont prédit à ma mère que je pouvais choisir d’une vie longue et sans gloire, ou de peu de jours suivis d’une gloire immortelle. Achille n’a pas balancé. Couronné par l’hymen je cours à Troie. J’y mourrai ; mais ne mourrai pas tout entier.

Air

Les cris des Troyennes répèteront mon nom, reconnaissant mes coups dans les blessures de leurs époux; et le nom d’Achille sera l’entretien des siècles à venir.

Scène III §
Agamemnon et Ulysse.

Agamemnon

Hélas !

Ulysse

Achille, Seigneur, aurait-il échangé vos desseins ?

Agamemnon

Ni Achille, ni Ajax, ni Diomède, ni tous les rois qui sont dans l’armée ne pourraient faire changer un dessein qu’ Agamemnon aurait pris.

Ulysse

Que faut-il donc que j’augure de ces soupirs et de vos discours ? Une nuit a ébranlé votre constance et détruit l’ouvrage de tant de jours.

Agamemnon

Non, Seigneur, je ne saurais croire que les dieux demandent une telle victime.

Ulysse

Que dites-vous, Seigneur ? Calchas nous a expliqué clairement les ordres des dieux ; lui qui est le dépositaire et l’interprète fidèle de leurs secrets.

Agamemnon

Les ordres des dieux sont obscurs et souvent impénétrables aux mortels.

Ulysse

Quoi, Seigneur, vous devez votre fille à la Grèce ; vous nous l’avez promise. Mais que dis-je à la Grèce? Vous la devez à vous-même. Et pour qui donc allons nous courir aux campagnes du Xanthe, pour qui abandonnons nous nos femmes, nos enfants, nos royaumes, si ce n’est pour venger la honte des Atrides ? Votre voix pressante nous a assemblés, les suffrages de vingt rois, qui pouvaient tous vous disputer le rang suprême, vous ont mis à la tète de cette armée. Et le premier ordre du général est de refuser la victoire, le premier conseil du chef de la Grèce est de renvoyer les Grecs qu’il a assemblés.

Agamemnon

Ah, Seigneur, que loin du malheur qui m’accable, vous vous montrez aisément magnanime. Mais si vous entendiez condamner votre fils Télémaque, s’il devait approcher de l’autel ceint du fatal bandeau, vous changeriez de langage, vous croiriez moins les oracles : je vous verrais courir et vous jeter entre Calchas et lui.

Duo

Agamemnon

Voyez ma fille expirante, entre les sanglots et les larmes, verser son sang innocent sous un couteau impie.

Que la piété de père attendrisse votre âme.

Ulysse

Voyez la superbe Troie, parmi nos chants de victoire, plongée dans les flammes sous nos flambeaux vengeurs.

Que les sentiments du héros triomphent dans votre cœur.

Agamemnon

Eh bien, Seigneur, j’ai donné ma parole; et si ma fille vient, je consens qu’elle périsse. Mais si, malgré mes soins, son destin heureux la retient dans Argos, ou bien l’arrête en chemin, souffrez que j’explique cet obstacle comme un arrêt du Ciel, et que j’accepte le secours de quelque dieu favorable, que sa piétée, son innocence et son âge auront intéressé à son salut… Mais quels sons frappent mon oreille ?

(On entend de loin une symphonie guerrière et l’on voit paraître sur un char Clytemnestre et Iphigénie accompagnées de femmes grecques et de soldats, qui les ont reçues à l’entrée du camp.)

Dieux! c’est elle-même. Dans l’état où je suis, je me dérobe à ce funeste spectacle.

Scène IV §
Ulysse, Clytemnestre, Iphigénie et le chœur.

Chœur

Non, la belle Hélène, que l’insolent Pâris a enlevé à Ménélas, n’était pas plus belle qu’Iphigénie, que l’hymen doit unir au vaillant Achille.

(Tandis que le chœur chante, Clytemnestre et Iphigénie descendent du char aidées des femmes grecques.)

Ulysse

Venez, et que l’appareil de ce camp n’effraye point vos yeux.

Clytemnestre

Mes yeux cherchent en vain Agamemnon, qu’ils auraient dû voir le premier.

Iphigénie

Quel malheur, hélas, le retient éloigné de nous ? Serait-ce, Madame, que nous serions arrivées contre son gré ?

Ulysse

Les soins de l’armée le dérobent un moment à votre vue. Mais vous, Iphigénie, venez, montrez vous aux soldats comme un astre favorable au salut de la Grèce.

Chœur

Non, la belle Helène, que l’insolent Pâris a enlevé à Ménélas, n’était pas plus belle qu’Iphigénie, que l’hymen doit unir au vaillant Achille.

Un d’entre le chœur

Comme l’étoile du matin brille parmi les feuillages épais d’une forêt, telle est Iphigénie parmi les lances et les javelots de cette armée.

(Les chants seront entremélés de danse, qui sera composée de femmes grecques et de soldats.)

Un d’entre le chœur

Père fortuné, heureuse mère à qui la belle Iphigénie a souri en voyant la clarté du jour !

Deux d’entre le chœur

Achille plus heureux encore, entre les bras de qui elle va verser des larmes dans l’ombre de la nuit !

Chœur

Non, la belle Hélène, que l’insolent Pâris a enlevé à Ménélas, n’était pas plus belle qu’Iphigénie, que l’hymen doit unir au vaillant Achille.

On danse.

Acte II §

Scène I §

Agamemnon, seul

Ciel ! Arcas a manqué le chemin d’Argos, et la colère des dieux a confondu toute ma prudence! Ô jour fatal ! Ma fille est arrivée. Je vois Ulysse et Ménélas, je vois déjà Calchas me la demander au nom de la Grèce et des dieux. Mais ciel ! La voici elle-même, évitons-la.

Scène II §
Agamemnon et Iphigénie.

Iphigénie

Seigneur, quoi vous me fuyez ? Eh, quels soins vous dérobent sitôt à votre fille ? Mon respect tantôt a fait place aux transports de la reine. Ne puis-je vous arrêter un moment à mon tour ? Ne puis-je…

Agamemnon

Eh bien, embrassez votre père, ma fille; il vous aime toujours.

Iphigénie

Que cet amour me comble de joie ! Quel plaisir de vous contempler dans ce nouvel éclat, environné de gloire et d’honneurs !

Agamemnon

Vous méritiez un père plus heureux.

Iphigénie

Quelle félicité peut vous manquer ? J’ai cru n’avoir que des grâces à rendre au ciel.

Agamemnon

Grands dieux, dois-je la préparer à son malheur ! (à part)

Iphigénie

Seigneur, vous vous cachez et semblez soupirer. Tous vos regards ne tombent qu’avec peine sur moi. Aurions-nous abandonné Argos sans votre ordre ?

Agamemnon

Hélas, ma fille, je vous vois toujours des mêmes yeux. Mais le temps aussi bien que les lieux sont changés. Ma joie est combattue ici par de cruels soins.

Iphigénie

Ah, mon père, que votre rang soit oublié à ma vue. Que je retrouve encore en vous ces soins, cette tendresse, que vous aviez pour moi. On dit que Calchas va offrir aux dieux un sacrifice solennel.

Agamemnon

Dieux cruels ! (à part)

Iphigénie

Me sera-t-il permis, Seigneur, de me joindre à vos vœux ? La Grèce verra-t-elle à l’autel votre heureuse famille ?

Agamemnon

Hélas !

Iphigénie

Mon père, vous vous taisez.

Agamemnon

Vous y serez, ma fille.

Duo

Iphigénie

Périsse le Troyen, auteur des nos alarmes !

Agamemnon

Que de larmes sa perte va couter aux vainqueurs !

Iphigénie

Ah mon père, expliquez-vous.

Agamemnon

Je ne saurais t’en dire davantage.

Iphigénie

Dieux de la Grèce, veillez sur mon père !

Agamemnon

Dieux cruels, ne serez vous point attendris ?

Tous deux ensemble

Périsse le Troyen auteur de nos alarmes.

Scène III §

Iphigénie

Quel trouble, ô dieux, vient de jeter dans mon cœur le froid accueil de mon père ! Que dois-je augurer de ces regards sombres, de ces mots entrecoupés, de ces soupirs, de ces pleurs que ses yeux retenaient à peine ! Hélas, que cet accueil est différent de celui que la douce espérance me promettait dans Argos ! Je verrai, disais-je en moi-même, mon père rempli de joie venir au devant de nous, recevoir mes embrassements, me tendre les bras. À ses cotés seront Ménélas, Diomède, Ajax, Achille, le fils de la déesse, le plus vaillant des Grecs, qui… hélas ! Mon père me fuit, personne ne paraît, tout est dans l’abattement et dans la tristesse… Ô déesse, qu’on révère dans cette contrée, si votre culte m’a été cher, si mes sacrifices ont été purs…

Scène IV §
Iphigénie, Clytemnestre.

Clytemnestre

Ah, ma fille, sous quel astre malheureux sommes-nous parties d’Argos ! Quel accueil votre père et mon époux nous a-t-il fait !

Iphigénie

Les soins de l’état et de la guerre l’absorbent maintenant et le font paraître moins sensible et moins tendre.

Clytemnestre

Non, non ; il y a quelque autre cause que je saurai pénétrer : je saurai tout d’Arcas, de cet esclave fidèle que m’a donné Tyndare mon père, et qui a suivi Agamemnon à l’armée. Qu’il tarde de s’offrir à mes yeux ! Mais, ma fille, quels soins si pressants peuvent donc retenir Achille ? C’est à son nom qu’Agamemnon nous a fait venir en Aulide. Quels ennemis a-t-il maintenant à combattre ? La mer nous sépare de Troie, des fils de Priam et du vaillant Hector. Ne vous a-t-il pas demandé comme le prix du sang qu’il doit verser aux bords du Xanthe ? Que ne vient-il recevoir ce prix qu’il a tant souhaité ?

Iphigénie

Hélas, de quels nouveaux malheurs les dieux menacent-ils la race de Tantale !

Air

Clytemnestre

Quoique femme au milieu d’une armée, je saurai bien me venger et d’Agamemnon et d’Achille. Celui qui aura offensé ma dignité, ne pourra jamais se vanter d’être impuni.

Iphigénie

Dieux, serait-ce Achille lui-même ? On l’accusait à tort.

Scène V §
Iphigénie, Clytemnestre, Achille.
(Achille est suivi d’une troupe de soldats couronnés de laurier, de captives lesbiennes et d’esclaves, qui portent des trophées, des vases, des trépieds et d’autres dépouilles de l’ennemi.)

Achille

Princesse, le bonheur d’Achille est entre vos mains. Puisse-je bientôt faire voir, par les exploits que les dieux ont promis à mon bras, qu’Achille n’était pas indigne des vœux de la fille d’Agamemnon. Et vous, Madame, Thétis ne saurait que s’applaudir que j’associe à une déesse la femme du roi des rois.

Clytemnestre

Seigneur, puisse ce jour être aussi heureux, qu’il est doux à mon cœur ! Et puisse ma fille faire revivre Achille dans votre postérité !

Iphigénie

Quelque sort que les dieux me préparent, Iphigénie sera trop heureuse d’avoir eu place à côté de la gloire dans le cœur d’Achille.

Achille

Souffrez que je vous présente dans ces dépouilles de Lesbos les premiers tributs de ma valeur. Et vous (aux captifs) apprenez à connaitre votre maîtresse et la mienne.

Chœur des captives

Le bras d’Achille a triomphé de Lesbos; les yeux d’Iphigénie ont triomphé de notre vainqueur. Célébrons à jamais le pouvoir de l’amour.

Chœur des Grecs

L’heureux Achille va bientôt sur son casque brillant entrelacer les lauriers de Mars avec les myrthes de l’Hyménée.

Une d’entre le chœur des captives

Ô Simois, ô Xanthe, fleuves sacrés, fleuves chéris des troupeaux et des bergers, des dieux ennemis vont désoler vos rivages, vos eaux vont être ensanglantées par la lance fatale du belliqueux Achille.

Un d’entre le chœur des Grecs

Il vengera les dieux de l’hospitalité, que Pâris offensa63 dans la maison de ses alliés. Il vengera les maux, que les sons efféminés de la flûte phrygienne ont causés sur les bords de l’Eurotas.

Tous

Le bras d’Achille a triomphé de Lesbos ; les yeux d’Iphigénie ont triomphé du vainqueur. Célébrons à jamais le pouvoir de l’amour.

On danse.

Acte III §

Appartements du Palais.
Scène I §

Agamemnon

Air

Douce Espérance, présent des dieux, qui soulagez les mortels des maux qu’ils souffrent par l’attente des biens qu’ils désirent : vous qui habitez avec tous les hommes, douce Espérance, ne m’abandonnez pas.

 

Les barbares qui aiment le carnage peuvent attribuer à la divinité leur sauvage inclination. Mais je ne saurais penser que les dieux soient capables d’un crime. J’entendrai bientôt moi-même leur voix. Assez et trop longtemps les Grecs ont été abusés par la voix des devins. Sujets à se tromper, comme les autres mortels, la crédulité du vulgaire fait toute leur science. Mais hélas ! d’où vient que je tremble d’interroger cet oracle fatal ? Si pourtant il demande ma fille, je ne saurais reculer sa mort d’un moment. Ah ! voici Ulysse. Dieux! que je crains son approche !

Scène II §
Agamemnon et Ulysse.

Ulysse

Venez, Seigneur, et reconnaissez ce nouveau gage de l’amitié d’Ulysse. Tout ce que j’avais prévu est arrivé en effet. Calchas a reçu votre demande avec indignation. Quoi ? disait-il, la religion est profanée, nul respect pour les ordres des dieux ; et l’on croit que ces dieux nous seront favorables aux champs de Troie !

Et c’est le chef qui donne à la Grèce assemblée cet exemple d’irréligion !

Agamemnon

Il voudrait en effet ce Calchas être lui-même le chef suprême de la Grèce, commander l’armée et vingt rois par ses divinations et par ses prestiges. Prophète sinistre qui jamais n’a annoncé un bon augure, ni fait la moindre chose digne de louange.

Ulysse

Je crois, Seigneur, que j’aurais plutôt persuadé Pâris de rendre Hélène, que je n’aurais persuadé Calchas de vous introduire dans le tempIe. Mais enfin les sentiments de père, les vertus d’Iphigénie, votre amour pour le bien public, votre soumission dès que vous aurez entendu les ordres du ciel, les dieux enfin m’ont dicté le discours que j’ai tenu à leur pontife. J’ai apaisé sa colère : il a consenti à ma demande et à la vôtre. Allons, Seigneur, tout est prêt. Les mêmes dieux qui m’ont inspiré, vous admettent à leur présence.

Scène III §
Clytemnestre, Iphigénie et les mêmes.

Clytemnestre

Arrêtez, Seigneur, il faut éclaircir un mystère.

Agamemnon

Ah, Madame, laissez-moi aller où m’appellent les destinées de ma famille et de la Grèce.

Scène IV §
Clytemnestre et Iphigénie.

Clytemnestre

Ah ma fille ! Il se dérobe à notre vue. Il va hâter sans doute les cruelles destinées de sa famille. Je ne m’étonne plus qu’interdit dans ses discours, il ait paru nous revoir à regret.

Iphigénie

Hélas !

Clytemnestre

Vous ne savez pas vos malheurs, ma fille.

Iphigénie

Que dites vous, Madame ?

Clytemnestre

Arcas vient de me rendre en ce moment une lettre, qu’il avait ordre de me rendre en chemin.

Iphigénie

Eh bien, Arcas ne venait-il pas presser notre arrivée ?

Clytemnestre

Votre père m’ordonnait de reprendre la route d’Argos sous prétexte qu’Achille voulait différer son hymen; mais en effet, pour s’ouvrir, dit-on, le chemin de Troie ; votre père devait vous immoler.

Iphigénie

Dieux !

Clytemnestre

Arcas s’est égaré en chemin.

Iphigénie

Vous ne m’auriez donné le jour, et ne m’auriez élevée que pour être immolée aux Grecs et immolée par un père ! Les cruels ! Ils me conduisaient au milieu de l’Aulide sur un char de triomphe, ils allumaient les flambeaux de l’hymen. Hymen fatal ! on me destinait au fils de la déesse et je suis livrée à la mort.

Clytemnestre

Non, ma fille, vous ne le serez pas. Je saurai vous défendre de la cruauté d’un père. Achille même, le vaillant Achille, comment pourrait-il souffrir, sans commettre son honneur, qu’on abusât de son nom ? Quoi ? ce serait lui-même qui vous conduirait à l’autel !

(Elle veut sortir.)

Iphigénie

Ah, non, arrêtez, Madame. Mon père, qui voulait nous faire retourner à Argos, saura peut-être me sauver au milieu même de l’armée; lui qui y tient le rang suprême, et qui a toujours aimé Iphigénie. Mais, hélas, de quels yeux reverrai-je Argos ? Moi qui en étais partie au milieu des concerts et des danses pour être l’épouse d’Achille, moi qui fille d’Agamemnon et de Clytemnestre, fille de Thétis, devais régner à Pthie dans les riches maisons de Pelée, et qui dans la race d’Achille étais destinée à donner de nouveaux héros à la Grèce. Non, laissez-moi mourir. Je mourrai au moins remplissant sans murmure la destinée, à laquelle m’appellent les ordres d’un père et les dieux. Je mourrai sans déshonneur.

Clytemnestre

Hélène, sœur fatale à la maison des Atrides, qui troublez toute la Grèce, qui mettez en armes l’Europe contre l’Asie, que vous me coûtez de larmes ! Ce n’était pas assez que vous eussiez déshonoré la couche de Ménélas. Faudra-t-il encore qu’Agamemnon se souille du sang d’Iphigénie avant de vous ravir d’entre les bras de votre indigne Phrygien ?

Iphigénie

Ah, Madame, que je prévois de malheurs, si vous n’êtes soumise aux ordres d’Agamemnon, et si vous voulez me dérober à la mort ! Vous voilà désobéissante à votre époux : lui-même désobéirait aux dieux, sans l’ordre desquels sans doute il ne me sacrifierait pas. Si Achille prend ma défense, la discorde s’empare des chefs de l’armée ; tout ordre est renversé. Les dieux seuls connaissent ce qui pourrait en arriver.

Air

Que je meure obéissante aux ordres des dieux, que j’achève une vie qui m’exposerait peut-être à des malheurs pires encore que la mort même.

Que je sauve par ma mort les maux qui menacent ma famille et la Grèce, qui menacent Achille.

Scène V §

Clytemnestre

Se pourrait-il qu’Agamemnon voulût immoler une fille si vertueuse ! Ambition, tyran des rois, que ne peux-tu sur le cœur des mortels orgueilleux ? Les dieux se plairaient-ils à commander des crimes ?

Air

Allons nous éclaircir, allons déchirer le voile importun, qui couvre encore mes yeux : nous verrons après le parti qu’il faudra prendre.

Scène VI §
Le théâtre représente l’intérieur du temple de Diane.
Agamemnon, Ulysse, Calchas, Chœur des prêtres.

Chœur des prêtres

En vain les mortels tentent de se soustraire aux ordres des dieux.

Un du chœur

Les ordres des dieux sont gravés sur l’airain de l’éternité.

Deux du chœur

Le temps ne saurait le consumer; ni la force, ni l’adresse des hommes ne sauraient le briser.

(Une partie des prêtres danse gravement autour de l’autel de la déesse.)

Un du chœur

Les rois sont sujets aux décrets des dieux, ainsi que les bergers.

Tout le chœur

Jupiter incline sa tête immortelle : l’Olympe tremble, et l’univers se tait.

Calchas

Approchez, Agamemnon, et regardez comme une faveur signalée de la déesse, qu’on vous accorde qu’elle soit interrogée une seconde fois.

Demi-air

Et vous déesse, fille de Jupiter, qui vous plaisez dans la solitude des vallées et dans l’ombre des forêts, ne regardez dans la démarche d’Agamemnon, que la piété d’un père.

Mais si mes vœux ont toujours été pour le bien de la Grèce, si mes sacrifices vous ont été chers, parlez, déesse, redemandez votre victime, et vengez l’honneur de vos ministres offensé par l’incrédulité.

Agamemnon

Ah! si l’âge, si l’innocence, si la beauté, si la piété envers les dieux, envers vous-même, déesse, que j’adore en ces lieux et dont je crains les oracles…

(Tandis qu’Agamemnon parle, on entend un bruit comme du tonnerre fort éloigné, qui augmente peu à peu.)

Calchas

La déesse va parler.

L’Oracle dans le fond du théâtre

« Grecs, si vous voulez aborder à Troie, répandez dans l’Aulide le sang d’Iphigénie. »

Agamemnon.

Hélas !

Le chœur

Les rois sont sujets aux décrets des dieux, ainsi que les bergers.

Deux du chœur

Mille vaisseaux cachaient les mers : les rivages et les collines étaient couvertes par les chariots de guerre.

Un du chœur

Où sont-ils maintenant ?

Tout le chœur

Ils ont été dispersés par le souffle des dieux irrités par la désobéissance.

Calchas.

Allez, Seigneur, soumettez-vous aux ordres des dieux.

Le chœur

Les ordres des dieux sont gravés sur l’airain de l’éternité.

Calchas

Seigneur, songez que ce sacrifice va vous ouvrir le champ de gloire, qui vous attend sous les murs d’Ilion. Voyez les vaisseaux grecs couvrir l’Hellespont et voler à Troie parmi les acclamations des matelots et des soldats ; voyez ces mêmes vaisseaux les poupes couronnées et chargées de dépouilles, fendre une seconde fois ces mêmes mers ; voyez la Grèce entière qui vous appelle de loin, vous reçoit du rivage et chante votre triomphe. Allez, Seigneur, soumettez vous aux ordres des dieux.

Agamemnon

Hélas !

Le chœur

Les ordres des dieux sont gravés sur l’airain de l’éternité. Les rois y sont sujets, ainsi que les bergers. Jupiter incline sa tête immortelle : l’Olympe tremble et l’univers se tait.

Acte IV §

Galerie du Palais.
Scène I §

Agamemnon, seul

(Une courte symphonie pathétique doit faire l’ouverture de la scène.)

Je l’ai donc entendu cet oracle funeste! « Grecs, si vous voulez aborder à Troie, répandez dans l’Aulide le sang d’Iphigénie. » Il faut donc obéir aux ordres des dieux !

Scène II §
Agamemnon, Clytemnestre et Iphigénie.

Clytemnestre

Je vous retrouve enfin, Seigneur, et parmi les soins de l’état et de l’armée la voix de Clytemnestre peut se faire entendre. On avait voulu nous faire croire (sur quel fondement je l’ignore) qu’Achille voulait différer son hymen avec Iphigénie jusqu’à son retour de Troie ; mais lui-même, Seigneur, vient de presser cet hymen et ne veut partir de l’Aulide qu’à ce prix.

Agamemnon

Madame, c’est à moi de disposer de ma fille.

Clytemnestre

Cruel ! il est inutile de dissimuler ; sachez que j’ai tout appris.

Agamemnon

Ah ! malheureux Arcas, tu m’as trahi.

Iphigénie

Non, mon père, vous n’êtes point trahi. Dès que vous ordonnerez, vous serez obéi. Ma vie est votre bien ; je saurai vous la rendre dès que vous la demanderez. Je saurai offrir mon sein au fer de Calchas et respecter le coup ordonné par vous-même. Si pourtant mon obéissance et mon respect paraissent dignes d’une autre récompense, j’ose dire que ma vie était environnée d’assez d’honneurs pour ne pas souhaiter de la perdre à la fleur de mon âge.

C’est moi qui la première vous appelai du doux nom de père, et que vous honorâtes du nom de votre fille ; c’est moi qui, reçue la première dans vos bras, épuisai par mille caresses la tendresse paternelle; c’est moi que vous aviez destinée au fils de la déesse, à un prince digne de votre alliance. Hélas ! Avec quel plaisir ne me faisais-je pas compter les noms des pays que vous alliez dompter ensemble. Je ne m’attendais pas que, pour commencer ce triomphe, mon sang fut le premier qu’on dût verser.

Agamemnon

Ma fille, il n’est que trop vrai : j’ignore pour quel crime la vengeance des dieux demande une victime telle que vous ; mais ils vous ont nommée. Les Grecs ne sauraient aborder à Troie, que votre sang ne soit versé. Calchas l’avait annoncé, et moi-même je viens d’entendre cet oracle funeste, qui a été prononcé contre vous pour la seconde fois. Que n’avais-je point fait pour vous sauver ? Je vous avais sacrifié l’intérêt de la Grèce, mon rang, ma sûreté. Arcas allait vous défendre l’entrée du camp : les dieux l’ont égaré en chemin. Ne vous assurez pas sur ma puissance : en vain je combattrais contre ces dieux cruels et contre la fureur des Grecs. Votre heure est arrivée, ma fille ; il faut céder. Mais en mourant faites connaitre l’injustice des dieux et le sang d’Agamemnon.

Clytemnestre

Vous ne me démentez pas votre race : vous êtes le sang d’Atrée et de Thyeste. Bourreau de votre fille, il ne vous reste plus que d’en faire un festin à la mère. Ainsi donc je l’aurai amenée au supplice ! Je m’en retournerai seule par des chemins parsemés encore des fleurs qu’on a jetez sur son passage ! Je reverrai Argos…

Air

Ah non, je ne souffrirai jamais qu’on arrache ma fille d’entre mes bras ; ou vous ferez aux Grecs un seul sacrifice de la fille et de la mère.

Scène III §
Les mêmes et Achille.

Achille

Seigneur, un bruit bien étrange est venu jusqu’à moi; mais je l’ai jugé peu digne de croyance. On dit, je ne puis le redire sans horreur, qu’Iphigénie aujourd’hui expire, qu’appelée sous mon nom en Aulide je ne la conduisais à l’autel que pour y être immolée. Que faut-il que j’en pense, Seigneur ?

Agamemnon

Je ne rends point compte de mes desseins. Quand il en sera temps, vous apprendrez le sort de ma fille et l’armée en sera instruite.

Clytemnestre

Père cruel !

Achille

Ah, je ne sais que trop le sort que vous lui réservez.

Agamemnon

Pourquoi, si vous le savez, le demandez-vous donc ?

Achille

Ô ciel, pourquoi je le demande ? Osez-vous avouer le plus noir des crimes ? Mais pensez-vous qu’Achille, oubliant sa foi et son honneur, laisse immoler Iphigénie ?

Iphigénie

Hélas! le ciel m’a rendue assez malheureuse sans que j’allume encore une colère fatale entre mon père et celui qu’on avait nommé mon époux. Laissez-moi mourir, Seigneur: j’apporte trop d’obstacles à votre gloire. Vous ne pouvez aborder à Troie qu’au prix de mon sang. Allez, faites pleurer ma mort aux veuves des Troyens. Si je n’ai pu vivre la compagne d’Achille, j’espère que votre nom et le mien seront joints ensemble à jamais, et que ma mort sera la source de votre gloire.

Achille

Non, vous ne mourrez pas. Tant que je vivrai, tant que ces yeux verront la lumière, je saurai, l’épée à la main, défendre mes droits contre qui que ce soit dans l’armée, fut-il revêtu du rang suprême.

Agamemnon

Mais vous qui menacez ici, oubliez-vous à qui vous parlez ?

Achille

Et vous, oubliez vous que c’est Achille que vous outragez ? Non, je vous le répète, votre fille ne mourra point : cet oracle est plus sur que celui de Calchas.

Agamemnon

Grands dieux! ne suis-je donc plus son père ?

Achille

Non, elle n’est plus à vous. On ne m’abuse pas par de vaines paroles. N’est-ce pas pour moi, que vous l’avez mandée d’Argos ?

Agamemnon

Plaignez-vous donc aux dieux qui l’ont demandée ; accusez Calchas, le camp tout entier, accusez Ménélas, Ulysse et vous tout le premier.

Achille

Moi ?

Agamemnon

Vous, qui querellez à tous moments le ciel qui nous arrête. Mon cœur vous avait ouvert une voie de la sauver; c’était de renoncer à notre entreprise ; mais vous voulez courir à Troie : allez-y, sa mort va vous en ouvrir le chemin.

Achille

Barbare, parjure, et que m’a fait cette Troie ? Jamais les vaisseaux du Scamandre osèrent-ils aborder aux champs de Thessalie ? Jamais un ravisseur phrygien vint-il enlever nos femmes ? Si je cours à Troie, c’est pour laver votre honte : faudra-t-il pour vous rendre Hélène, qu’on commence par me ravir Iphigénie ? Non, non, je ne connais ni Priam, ni Pâris; je veux votre fille et ne pars qu’à ce prix. Allez, puissant Agamemnon, nous verrons si sans Achille vous oserez approcher de Troie.

Quatuor

Agamemnon

Partez, fuyez, assez d’autres sans vous trouveront le chemin de l’Asie. Je ne crains point votre courroux.

Achille

Rendez grâce au ciel, qui vous a fait le père d’Iphigénie. Vous l’éprouveriez à l’heure même.

Iphigénie

Ah ! mon père ! Achille, calmez votre colère, laissez-moi mourir.

Clytemnestre

Oracle barbare ! Père plus barbare encore !

Tous

Dieux ! quelle est donc votre cruauté !

Scène IV §
Clytemnestre et Iphigénie.

Clytemnestre

Le barbare fuit et te livre à la mort. Oh ma fille, oh mère infortunée !

Iphigénie

Ô soleil, ô lumière éternelle, je ne verrai donc plus le flambeau du jour ! Il m’éclaire pour la dernière fois.

Clytemnestre

Achille combattra pour nous, et nous sauvera des mains d’un père dénaturé.

Iphigénie

Ah, ma mère, au nom des dieux empêchez qu’Achille ne prodigue sa vie pour sauver la mienne. Que sert enfin de se flatter ? Diane veut sa victime ; faible mortelle puis-je résister à une déesse ? Soyons la victime de la patrie. Vous vous taisez, Madame, et vos yeux sont couverts de pleurs.

Clytemnestre

Infortunée que je suis, n’ai-je donc pas sujet de pleurer ?

Iphigénie

Ne m’attendrissez pas ; songez plutôt à m’affermir.

Clytemnestre

Hélas ! Je retournerai donc à Argos seule, sans ma fille ! Arrivée à Argos, vainement dans ma triste solitude je demanderai Iphigénie aux lieux qu’elle habitait autrefois : je la chercherai partout et ne la reverrai jamais.

Iphigénie

Ah, ma mère, encore une fois, au nom des dieux, ne m’attendrissez pas davantage ; mais, Madame, accordez-moi une grâce.

Clytemnestre

Parlez, je ne puis rien vous refuser.

Iphigénie

Que ni vos cheveux coupés, ni vos voiles déchirés n’annoncent le regret de ma mort.

Clytemnestre

Hélas ! Mais de retour à Argos que ferai-je pour vous ?

Iphigénie

Chérissez mon père et votre époux.

Clytemnestre

Ah ! il mérite d’essuyer les plus grands malheurs pour expier votre mort.

Iphigénie

C’est malgré lui et pour le bien de la Grèce qu’il m’a perdue.

Chœur des femmes

Comme une fleur nouvelle coupée par la faux du moissonneur, telle sera la belle Iphigénie sous le couteau de Calchas.

Deux d’entre le chœur

Dieux cruels, elle mourra !

Iphigénie

Non, je vivrai toujours comme l’heureuse libératrice de la Grèce.

Un du chœur

Le flambeau de l’hymen devait vous éclairer ; les ombres de la mort vont vous envelopper.

Clytemnestre

Dieux favorables, animez Achille, donnez une force nouvelle au bras de notre vengeur.

(Clytemnestre sort.)

Un du chœur

Princesse digne d’un meilleur sort, vous espériez trouver Achille à l’autel ; et vous y trouverez la mort.

Iphigénie

J’y trouverai une gloire éternelle.

Le chœur

Comme une fleur nouvelle, coupée par la faux du moissonneur, telle sera la belle Iphigénie sous le couteau de Calchas.

Acte V §

Scène I §
Tente d’Achille.
Clytemnestre et Achille.

Achille

Que vois-je ? Vous ici, Madame !

Clytemnestre

Je ne dois point rougir de venir embrasser vos genoux pour ma fille, pour votre épouse, qui vous est enlevée. Le danger presse.

Achille

Connaissez-vous donc si peu Achille, et ne vous fiez-vous pas à ma parole ?

Clytemnestre

On apprête déjà le sacrifice impie, Seigneur.

Achille

Ne perdons pas le temps en discours superflus. Allez, Madame, Achille sauvera votre fille.

Air

J’en atteste mon amour, et vous en réponds sur mon épée : elle sera abreuvée du sang grec avant de se tremper dans le sang troyen.

Scène II §
Le théâtre représente d’un côté le bois et le temple de Diane ; de l’autre côté on voit une partie du camp des Grecs, le port de l’Aulide et la flotte.
Iphigénie, Agamemnon, Calchas, Ulysse, Arcas, puis Clytemnestre. Troupe de prêtres, de filles consacrées à Diane et de soldats.
La troupe s’avance du fond du théâtre accompagnée d’une musique lugubre.)

Calchas

Déesse, qui prêtez à la nuit l’éclat du jour, vous qui veillez du haut de l’Olympe au salut de la Grèce, nous respectons vos ordres, nous nous soumettons à vos oracles ; prenez votre victime, déesse, et déchaînez les vents.

Le chœur

Prenez votre victime, déesse, et déchaînez les vents.

Partie du chœur

Pâris avec sa proie insulte de ses tours à nos mille vaisseaux, qui le menacent en vain.

Le chœur

Prenez votre victime, déesse, et déchaînez les vents.

Iphigénie

Me voici prête, ô mon père : je me dévoue volontiers pour votre gloire et pour la Grèce. Grecs, vous serez heureux, si votre bonheur ne dépend que de ma mort. Que personne ne porte ses mains sur moi : je présenterai mon sein : conduisez-moi comme une victime volontaire, victorieuse d’Ilion et fatale aux Phrygiens.

Agamemnon

Hélas! (Il se voile la tête.)

Partie du chœur

Tant de beauté et de vertu ne méritait pas un sort si cruel.

Autre partie

Descendons sur le rivage d’Ilion; et que les dieux d’Ilion combattent contre nous.

Le chœur

Prenez votre victime, déesse, et déchaînez les vents.

Calchas

Grecs, écoutez-moi et formez d’heureux présages.

Clytemnestre

Dieux! Achille n’arrive point, et Calchas va frapper. (à part)

(Calchas tire le glaive, le met dans un vase d’or, couronne la victime, prend une coupe d’eau sacrée et s’avance vers l’autel.)

Calchas

Déesse, fille de Jupiter, acceptez le sang d’Iphigénie et accordez-nous la prise de Pergame.

(Dans le moment qu’il va frapper, on entend un bruit d’armes ; tout le monde se tourne de ce côté-là.)
(Chalcas continue.)

Quel téméraire ennemi des dieux ose troubler le sacrifice ?

Scène dernière §
Les mêmes, Achille et Diane en l’air.

Achille

C’est Achille, qui défend ses droits.

Diane

Achille, arrêtez, gardez votre courage et cette soif de sang contre les Troyens. Puisse le Père des dieux empêcher toujours, que la colère n’anime Achille contre les Grecs et ne retarde la chute d’Ilion. Pour Iphigénie, elle est à moi. (Elle s’envole.)

(On voit une biche palpitante et toute ensanglantée à la place d’Iphigénie : Achille lève les mains au ciel.)

Calchas

Ah prodige !

Le chœur

Ah prodige !

Calchas

Le sang d’Iphigénie a paru trop précieux à la déesse, pour le répandre sur ses autels. C’en est fait : Agamemnon, Ulysse, Achille, Grecs, la déesse exauce nos vœux ; elle facilite notre course et nous ouvre le chemin de Troie.

(On entend le sifflement des vents et le bruit de la mer, et l’on voit remuer les vaisseaux.)

Chœur des matelots qui sont sur les vaisseaux et que l’on entend de loin.

La mer s’agite, les flots s’élèvent, les vents nous appellent.

Chœur des soldats sur le devant du théâtre qui répond.

Les vents nous appellent.

(Après que les deux chœurs ont répondu alternativement à plusieurs reprises.)

Tout le chœur

Pâris ne jouira pas longtemps de sa perfidie ; les vents nous appellent, Troie est renversée et la Grèce est vengée.

Danse des matelots.

Fin.

Commento §

Saggio sopra l’opera in musica, in Opere del conte Algarotti, Tomo II, Livorno, Coltellini, 1764, pp. 251-390.

Dedica §

[commento_Dedica.1] Ovidio, Metamorfosi, lib. I, v. 397: «Sed quid temptare nocebit?» («Ma che danno comporterà tentare?»).

A Guglielmo Pitt: William Pitt, 1st Earl of Chatham (Londra, 1708 – Hayes, 1778) esponente politico britannico del partito dei Whig, capo del governo inglese due volte dal 1756 al 1761 e dal 1766 al 1768, protagonista della guerra dei Sette anni e fautore dell’espansione coloniale dell’Inghilterra.

[commento_Dedica.2] quattro parti del mondo: allude alle vittorie inglesi contro la Francia in Canada, nelle Indie e sui mari nel corso della guerra dei Sette anni.

Federigo: Federico II di Prussia.

Tulli e Demosteni: Marco Tullio Cicerone e Demostene, massimi oratori dell’antichità.

Introduzione §

[commento_Introduzione.1] ad allettare… mente: ed. 1755: «a incantare i sensi, a sedurre il cuore, e a fare illusione allo spirito».

[commento_Introduzione.2] però: perciò.

malinconia: fastidio.

Note alla nota d’autore n. 1:

The word: The World, n. 156, London, R. and J. Dodsley, 25 December 1755. «Come le acque di una fontana della Tessaglia, a causa della loro proprietà di intorbidire, non potevano essere raccolte in niente altro che nello zoccolo di un asino, così questa rilassata e disorganica trattazione (dell’opera) non trova accoglienza che in certe teste formate espressamente per comprenderla.»

Spettatore: The Spectator, n. 5, Tuesday, March 6, 1711, p. 45. La citazione di Algarotti riprende direttamente Orazio, mentre The Spectator omette «amici».

Dryden: John Dryden, Epistles and Complimentary Addresses to Sir Godfrey Kneller, principal Painter to His Majesty, vv. 150-154.

St. Evremond: Saint-Évremond, «Lettre sur les opéras», in Œuvres en prose, Paris, Société des textes français modernes, 1966.

[commento_Introduzione.3] corago: colui che dirigeva il coro nel teatro greco.

edile: carica preposta all’organizzazione degli spettacoli nel teatro romano.

al buon volere fosse giunta la possa: Dante, Inf., XXXI, 56: «s’aggiugne al mal volere ed a la possa».

Nota alla nota d’autore n. 2:

Hierone, IX, 4: «Infatti quando vogliamo che i cori vengano a gara, il sovrintendente propone i premi, e viene dato l’incarico ai coreghi di farli riunire e ad altri di istruirli e di dare una punizione a coloro che non fanno abbastanza bene qualcosa»; Senofonte (430 ca – 355 ca a.C.) scrisse il dialogo Ierone o della tirannide, in cui discutono della vita Gerone tiranno di Siracusa e il poeta Simonide.

Del libretto §

[commento_1.2] Rinuccini: Ottavio Rinuccini (Firenze, 1562-1621) è considerato il primo librettista italiano, autore di testi per musica come la Dafne (1594) e l’Euridice (1600) intonati da Jacopo Peri, Arianna (1608) e il Ballo delle ingrate (1608) intonati da Claudio Monteverdi.

Poliziano: Angelo Ambrogini detto il Poliziano (Montepulciano, 1454 – Firenze, 1494) scrisse l’azione teatrale la Favola di Orfeo rappresentata nel 1480 a Mantova presso la corte ducale.

Bergonzo Botta: Bergonzio Botta (1454 – Milano, 1504) fu un nobile pavese al servizio di Ludovico il Moro che organizzò nel 1489 nella sua residenza di Tortona, in occasione delle nozze di Gian Galeazzo Sforza con Isabella d’Aragona, una festa che prevedeva dei balletti che accompagnavano le varie portate del sontuoso banchetto. Nella storiografia si considera questo episodio la prima vera coreografia della danza italiana, perché tutti i balletti erano legati da un’idea unitaria.

Zarlino: Gioseffo Zarlino (Chioggia, 1517 – Venezia, 1590) fu un teorico della musica e compositore, maestro di cappella della basilica di San Marco dal 1565 e compose nel 1574, in occasione del viaggio a Venezia del re di Francia Enrico III, le musiche destinate ad accompagnare i testi recitati in onore del re che arrivava in Laguna sulla barca Bucintoro; il componimento drammatico rappresentato per l’occasione a Palazzo Ducale fu scritto da Cornelio Frangipane e intonato da Claudio Merulo e non da Zarlino. Cfr. Compositioni volgari, e latine fatte da diversi, nella venuta in Venetia di Henrico III re di Francia, e di Polonia. Dove s’include la tragedia recitata a S. M. nella sala del gran Consiglio di Venetia, Venezia, Domenico Farri, 1574.

Melpomene: musa della tragedia.

gentilesimo: paganesimo.

Cardinal Mazzarino: il Cardinale Giulio Mazzarino (Pescina, L’Aquila, 1602 – Vincennes, 1661) promosse la diffusione della cultura italiana in Francia; la prima opera italiana composta espressamente per la corte francese è l’Orfeo di Francesco Buti, intonato da Luigi Rossi e rappresentato nel 1647 a Parigi nel Théâtre du Palais-Royal.

allegavano: si accordavano.

isconcertavano: la commistione tra comico e serio, tipica dei drammi del Seicento, distoglieva lo spettatore dall’azione principale.

[commento_1.3] teatri da prezzo: teatri impresariali, dove per entrare si pagava un biglietto. Il primo fu inaugurato a Venezia nel 1637.

Centoventi: si tratta di Caterina Angiola Botteghi, famosa cantante fiorentina che riscosse molto successo negli anni Sessanta e Settanta del Seicento, detta la Centoventi per gli elevati compensi che richiedeva.

[commento_1.4] danno… pascolo agli occhi: coltivano la vista.

infilzature di madrigali: una sequenza di arie, senza coerenza narrativa.

Orlando: è possibile che Algarotti si riferisca alla tragédie en musique Roland di Philippe Quinault e Jean-Baptiste Lully rappresentata per la prima volta a Versailles nel 1685; all’inizio del quarto atto viene inserito un divertissement pastorale, nel corso del quale Orlando apprende che Angelica è fuggita con Medoro.

nudi: privi di balli.

[commento_1.6] la Didone e l’Achille in Sciro: la Didone abbandonata è il primo dramma serio scritto da Metastasio, rappresentato a Napoli nel 1724; l’Achille in Sciro fu invece composto dal poeta cesareo per la reggia viennese nel 1736.

cavati: ricavati.

Montezuma: è il titolo dell’opera intonata da Karl Heinrich Graun per il teatro di corte di Berlino nel 1755 su testo francese di Federico II di Prussia tradotto in italiano e adattato dal poeta di corte Giampiero Tagliazucchi.

Della musica §

[commento_2.1] lacedemoni: nella Vita di Lucurgo Plutarco afferma che a Sparta la musica era considerata un modo per spingere all’azione.

infrascato: caricato di ornamenti vistosi e superflui.

oltramontani: i Francesi.

[commento_2.2] che… cantano: una delle critiche che venivano mosse nel Settecento all’opera riguardava l’incongruenza della rappresentazione di scene tragiche attraverso il canto. In particolare Metastasio fu contestato per il primo finale del Catone in Utica rappresentato a Roma nel 1728 in cui Catone si uccideva in scena; in seguito alle critiche Metastasio modificò l’ultima scena del dramma e la morte di Catone veniva descritta dalla figlia Marza.

Lulli… Quinault: Giovanni Battista Lulli (Firenze, 1632 – Parigi, 1687), comunemente francesizzato in Jean-Baptiste Lully, violinista e compositore, compose diverse opere in collaborazione con il poeta francese Philippe Quinault (Parigi, 1635-1688).

Vinci: Leonardo Vinci (Strongoli, Catanzaro, 1690 – 1696 ca - Napoli, 1730) intonò diversi drammi metastasiani rappresentati in Italia prima della partenza per Vienna del poeta cesareo.

Nota alla nota d’autore n. 4:

«Se la pittura è inferiore alla poesia, la musica, considerata un’arte imitativa, deve essere molto inferiore alla pittura: poiché la musica non ha mezzi per spiegare i motivi delle sue varie impressioni, le sue imitazioni dei modi e delle passioni devono per forza essere estremamente vaghe e indeterminate: per esempio, i toni teneri e struggenti che possono esprimere la passione amorosa, potranno ugualmente rappresentare i sentimenti equivalenti di benevolenza, amicizia, pietà e simili. E ancora, come possiamo distinguere i rapidi movimenti della rabbia da quelli del terrore, della distrazione e di tutte le agitazioni violente dell’anima? Ma lasciate che la poesia cooperi con la musica e specifichi la natura di ogni impressione particolare, non siamo più in perdita; riconosciamo l’accordo del suono con l’idea, e le impressioni generali diventano indicazioni specifiche dei modi e delle passioni»; Daniel Webb, Remarks on the Beauties of Poetry, London, R. and J. Dodsley, 1762, pp. 102-103.

[commento_2.3] Didone…Cleonice: allusione alla tragica fine della Didone abbandonata (1724) e al lieto fine con cui si conclude, tramite il riconoscimento di una diversa identità del protagonista, il Demetrio (1732) di Metastasio.

[commento_2.4] Jacopo Peri: Jacopo Peri (Roma, 1561 – Firenze, 1633) scrisse la musica del dramma Euridice su libretto di Ottavio Rinuccini, rappresentato per la prima volta a Firenze il 6 ottobre 1600.

diasistematica: letteralmente significa la combinazione ordinata di più elementi; in musica la notazione diasistematica fu introdotta per agevolare l’identificazione dell’intervallo intercorrente tra due note successive.

[commento_2.5] obbligato: accompagnato; alla voce si uniscono più strumenti o l’intera orchestra.

Didone del Vinci: la Didone abbandonata intonata da Leonardo Vinci fu rappresentata per la prima volta a Roma, al Teatro delle Dame, nel 1726.

[commento_2.6] Scarlatti: Alessandro Scarlatti (Palermo, 1660 – Napoli, 1725), padre di Domenico, compositore attivo a Napoli e a Roma, utilizzava nelle arie la forma col da capo detta anche alla Scarlatti e pridiligeva l’accompagnamento orchestrale rispetto a quello cembalistico.

Nota alla nota d’autore n. 5:

Cattaio: la villa del Catajo fu costruita tra il 1570 e il 1573 a Battaglia Terme nei Colli Euganei dalla Famiglia degli Obizzi; Pio Enea II degli Obizzi (1592-1674) vi fece costruire un teatro privato nelle scuderie che nell’Ottocento fu trasformato in un oratorio dedicato a San Michele.

[commento_2.7] passaggi: nel canto del XVIII secolo indicano un esercizio di agilità virtuosistica.

[commento_2.12] Note alla nota d’autore n. 6:

«Ogni musica che non rappresenta nulla, è solo rumore, e senza l’abitudine, che snatura tutto, non susciterebbe più piacere di una sequenza di parole armoniose e sonore prive di ordine e coerenza», dalla Prefazione dell’Enciclopedia.

Fontenelle: la celebre frase «Sonata perché mi ossessioni?» apocrifa, attribuita a Bernard Le Bovier de Fontenelle (Rouen, 1675 – Parigi, 1757) significava che la sonata, genere di musica strumentale, non aveva alcun interesse rispetto alla cantata, che prevedeva la musica accompagnata dal canto.

Tartini: Giuseppe Tartini (Pirano d’Istria, 1692 – Padova, 1770) fu un famoso violinista, esponente di rilievo della musica strumentale italiana.

[commento_2.13] Cesti: Pietro Antonio Cesti (Arezzo, 1623 – Firenze, 1669) compositore italiano legato ai Medici, fu autore di diverse opere presso la corte di Innsbruck e a Firenze.

Carissimi: Giacomo Carissimi (Marino, 1605 – Roma, 1674), compositore attivo soprattutto a Roma.

Achillino: Claudio Achillini (Bologna, 1574-1640) giurista e poeta marinista, autore di una grande produzione encomiastica e occasionale, godé di grande fama ai suoi tempi.

oltremontana reggenza: allude probabilmente a Caterina de’ Medici, moglie di Francesco II, che dopo la morte del marito governò di fatto la Francia, assumendo la reggenza per i figli, negli anni delle guerre di religione. Le fu attribuita la responsabilità della strage di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572) nel corso della quale vennero uccisi migliaia di ugonotti.

Serva padrona: si tratta dell’intermezzo rappresentato per la prima volta a Napoli al teatro di San Bartolomeo il 28 agosto 1733. La musica è di Giovan Battista Pergolesi e il libretto di Gennaro Antonio Federico. L’interemezzo fu rappresentato dalla compagnia itinerante di Eustachio Bambini all’Académie royale de musique nel 1752 e fu al centro, insieme alle altre opere buffe italiane allestite in quell’occasione, della celebre «Querelle des bouffons», che divise il pubblico e i letterati parigini tra sostenitori del modello operistico francese e sostenitori del modello operistico italiano, tra i quali i più accaniti furono senza altro Jean-Jacques Rousseau et il baron Melchior Grimm.

Pergolesi: Giovanni Battista Pergolesi (Jesi, 1710 – Pozzuoli, 1736) morì a soli 26 anni.

Vinci: Leonardo Vinci iniziò come compositore di commedie per musica in dialetto napoletano, ma si distinse anche nell’opera seria e divenne uno dei più importanti compositori del suo tempo; morì a quarant’anni in circostanze misteriose, forse per avvelenamento.

Galuppi: Baldassarre Galuppi (Burano, 1706 – Venezia, 1785).

Iommelli: Niccolò Jommelli (Aversa, 1714 – Napoli, 1774).

Sassone: Johann Adolf Hasse (Bergedorf, 1699 – Venezia, 1783) visse a lungo in Italia dove fu soprannominato « il Sassone ».

Andromaca: il titolo corretto è Astianatte rappresentato a Roma al Teatro Argentina il 4 febbraio del 1741 su libretto di Antonio Salvi.

Benedetto Marcello: Benedetto Marcello (Venezia, 1686 – Brescia, 1739), compositore e teorico della musica, intonò le cantate Timoteo e Cassandra e scrisse l’Estro poetico-armonico: parafrasi sopra li primi (e secondi) venticinque salmi, su testi di Gerolamo Ascanio Giustiniani, Venezia, Lovisa, 1724-6, in 8 tomi.

Nota alla nota d’autore n. 7:

«Il primo di questi è Benedetto Marcello, il quale per l’inimitabile originalità, profondità e completezza stilistica rimarrà sempre il più alto esempio tra tutti i compositori ecclesiastici. Per la chiesa ha pubblicato a Venezia circa trenta anni fa i primi cinquanta salmi messi in musica. In questa impresa egli ha superato tutti i moderni e ci ha dato l’idea più vera di quella nobile semplicità che probabilmente era la massima caratteristica della musica antica. In tale lavoro importante e arduo, come il soggetto divino sul quale lavora, egli è generalmente maestoso, meraviglioso o patetico e così totalmente lontano da ogni soluzione ordinaria e comune, che l’ascoltatore attento è affascinato da una infinita varietà di nuova e piacevole modulazione e nello stesso tempo da un disegno e un’espressione adattati in modo così raffinato, che il senso e l’armonia coincidono ovunque. Nell’ultimo salmo, che è il cinquantesimo nella nostra versione, egli sembra aver riunito tutte le facoltà del suo vasto genio, tanto da poter superare tutte le musiche meravigliose scritte in precedenza»; Charles Avison, An Essay on Musical Expression, London, C. Davis, 1753, pp. 101-102. Charles Avison (Newcastle 1709-1770) fu un compositore e organista britannico, teorico della musica.

Della maniera del cantare e del recitare §

[commento_3.2] Salvini: Anton Maria Salvini (Firenze, 1653-1729) è stato un grecista ed erudito italiano, profondo conoscitore delle lingue antiche e moderne; tradusse in italiano la tragedia Cato di Joseph Addison: Il Catone, tragedia d’Addison, tradotta dall’inglese, Firenze, Nestenus, 1725.

Baron: Michel Boyron, detto Michel Baron (Parigi, 1653-1729) è un attore e drammaturgo francese.

Le Couvreur: Adrienne Couvreur, nota anche come Adrienne Le Couvreur o, italianizzata, Adriana Lecouvreur e Adriana Le Couvreur (Épernay, 1692 – Parigi, 1730) è un’attrice teatrale francese.

Nicolini: Nicolò Grimaldi (1673 – Venezia, 1732) fu uno dei più noti cantanti castrati del suo tempo.

Tesi: Vittoria Tesi fu una importante cantante del secolo XVIII.

Nota alla nota d’autore n. 8:

Le Grand: Marc Antoine Le Grand (Parigi 1673-1728) attore e autore di testi teatrali e farse per la Comédie-Française e per la Comédie-Italienne.

[commento_3.4] Rosci: Roscio fu un attore latino morto prima del 62 a.C., per il quale Cicerone scrisse un’orazione. Qui è citato come sinonimo di attore.

[commento_3.5] Dante, Inferno, V, v. 56: «che libito fé licito in sua legge».

[commento_3.6] Pistocco: Francesco Antonio Pistocchi (Palermo, 1659 – Bologna, 1726) fu un compositore e librettista.

Bernacchi: Antonio Maria Bernacchi (Bologna, 1685-1756), allievo di Pistocchi, è stato un cantante castrato italiano di grande fama, esperto nell’arte dei gorgheggi vocali, sviluppati a partire dall’esempio della musica strumentale.

[commento_3.7] rapsodisti: chi mette assieme idee non originali, prese da altri.

cadenza: con cadenza nelle arie si indica non solo la conclusione del brano, ma anche il lungo inciso solistico e virtuosistico inserito alla fine dell’aria.

Tosi: Pier Francesco Tosi (Cesena, 1654 – Faenza, 1732) era un cantante castrato, compositore e musicologo. La sua opera principale si intitola Opinione de’ cantori antichi e moderni, o sieno osservazioni sopra il canto figurato, Bologna, Lelio della Volpe, 1723.

girandola di Castel sant’Angelo: spettacolo pirotecnico svolto a Roma a partire dal 1481 per celebrare le festività religiose.

Nota alla nota d’autore n. 9:

Jean Le Rond d’Alembert fu anche un musicologo e compose diversi articoli su questo argomento per l’Encyclopédie; scrisse inoltre Éléments de musique théorique et pratique, suivant les principes de M. Rameau (1752) e De la liberté de la musique (1759).

[commento_3.8] Sifaci, Buzzoleni, Cortona: Giovanni Francesco Grossi, detto Siface (Chiesuna Uzzanese, 1653 – Ferrara, 1697), Giovanni Buzzoleni e Antonio Cortona, dei quali si hanno scarsi dati anagrafici, furono importanti cantanti vissuti nel secolo XVII.

Nota alla nota d’autore n. 10:

«Dobbiamo considerare che gli antichi attribuivano alla musica un significato più ampio di quello odierno: poiché la poesia e la danza (o il movimento aggraziato) furono poi considerate parti della musica, quando la musica arrivò ad una certa perfezione… Quello che ora chiamiamo musica è quello che essi chiamavano armonia, che era solo una parte della loro musica (costituita da parole, versi, voce, melodia, strumento e recitazione) e non dobbiamo aspettarci che lo stesso effetto derivi da una parte come dall’intero»; John Wallis, «A Letter of Dr. John Wallis, to Mr. Andrew Fletcher; Concerning the Strange Effects Reported of Musick in Former Times, Beyond What is to be Found in Later Ages», Philosophical Transactions, vol. 20, 1698, pp. 297-303. John Wallis (Ashford, 1616 – Oxford, 1703) fu un matematico, professore di Geometria all’università di Oxford e uno dei fondatori della Royal Society. John Lowthorp (1658 o 1659-1724) è il compilatore dei volumi di The Philosophical Transactions and Collections, to the End of the Year 1700. Abridg’d and Dispos’d under General Heads della Royal Society, poi pubblicato in tre volumi nel 1705.

Nota alla nota d’autore n. 11:

Orazio, Epistola 1, libro II, versi 202-203: «potresti credere che i boschi del Gargano o il mare Tirreno urlino, tanto è lo strepito con cui guardano gli spettacoli teatrali».

Nota alla nota d’autore n. 12:

Ibidem, vv. 187-188: «In verità nei cavalieri tutto il godimento è passato dall’udito ai piaceri effimeri della vista incerta».

Dei balli §

[commento_4.1] Cusco: in Perù, capitale dell’impero degli Incas.

degradato: termine qui usato nel significato pittorico di sfumato e visto in prospettiva.

rappatumano: si dice di persone che trovano un’intesa dopo un dissidio.

[commento_4.2] Eumenidi: nella tragedia Eumenidi di Eschilo, le Erinni o Eumenidi sono protagoniste nel primo epusodio della danza infernale contro Oreste, accusato di aver ucciso la madre.

Pilade e Batillo: ballerini pantomimi vissuti nella Roma di Augusto: Pylades di Cilicia eccelleva nel tragico e Batillo, originario di Alessandria d’Egitto, nel comico.

[commento_4.3] Iomelli: il compositore Nicolò Jommelli. Una musica di Jommelli per un intermezzo intitolato Il giocatore (1751) è stata reperita manoscritta nella Real Biblioteca di Madrid; cfr. Niccolò Jommelli: l’esperienza europea di un musicista filosofo, atti del convegno internazionale di studi (Reggio Calabria, 7-8 ottobre 2011), a cura di Gaetano Pitarresi, Reggio Calabria, Edizioni del Conservatorio di musica F. Cilea, 2014.

Arianna: un balletto intitolato Ariane abandonée par Thésée, et secourue par Bacchus fu rappresentato alla Comédie-Italienne nel 1747, a cura del coreografo e danzatore Jean-Baptiste De Hesse o Deshayes, autore di diversi ballets-pantomimes.

Pygmalion: il balletto Pygmalion fu intonato da Jean-Philippe Rameau e rappresentato per la prima volta il 27 agosto 1748 all’Académie royale de musique di Parigi, su testo di Antoine Houdar de La Motte

Delle scene §

[commento_5.1] Canziani: Giuseppe Canziani fu un noto ballerino e coreografo attivo in diversi teatri in Italia e all’estero nella seconda metà del Settecento; è oggetto di critiche presso i contemporanei perché realizzava grandi balli storici scissi dall’azione del dramma all’interno del quale erano rappresentati.

Ferrario: Ottavio Ferrari (Milano, 1607 – Padova, 1682), antiquario ed erudito, professore di umanità greca e latina presso l’università di Padova, fu autore di De re vestiaria libri tre (1642), ampliato poi con l’aggiunta di altri quattro libri nel 1654.

Nota alla nota d’autore n. 13:

«Uno dei nostri grandi artisti, tale che chiunque abbia visto le sue opere non potrà sospettare di ignorare la bellezza della natura, ha rinunciato agli spettacoli che noi chiamiamo seri e che lui non nomina allo stesso modo; il modo ridicolo con cui sono vestiti dei ed eroi, con cui agiscono e parlano sconvolge tutte le idee che si era fatto; non vi ritrova quegli dei ed eroi ai quali il suo pennello conferisce tanta nobiltà e spirito e si è ridotto a ricrearsi con gli spettacoli farseschi, le cui scene burlesche prive di pretese non lasciano nella sua testa alcuna traccia nociva»; Jean Le Rond d’Alembert, De la liberté de la musique (1751), art. xiv.

[commento_5.2] Giuli Romani: il pittore Giulio Romano (Roma, 1499 – Mantova, 1546).

Triboli: lo scultore Niccolò Pericoli detto il Tribolo (Firenze, 1500-1550).

San Gallo: Antonio da Sangallo il Giovane (Firenze, 1484 – Terni, 1546), architetto.

Peruzzi: Baldassarre Peruzzi (Siena, 1481 – Roma, 1536), architetto.

[commento_5.3] Girolamo Genga: Gerolamo Genga (Urbino, 1476-1551) architetto e pittore, allievo di Luca Signorelli.

Serlio: Sebastiano Serlio (Bologna, 1475 – Fontainebleau, 1554) fu un architetto e teorico dell’architettura, autore di vari volumi pubblicati tra Venezia e la Francia, a partire dal 1537 (S. Serlio, Regole generali di architetura sopra le cinque maniere de gli edifici, cioè, thoscano, dorico, ionico, corinthio, et composito, con gli essempi dell’antiquita, che, per la magior parte concordano con la dottrina di Vitruvio, Venezia, Marcolini, 1537). La sua opera più importante relativa al teatro è Il primo libro d’architettura, pubblicato in edizione bilingue a Parigi nel 1545, con il privilegio del Re e diviso in Primo libro di geometria e Il secondo libro di perspettiva, che comprende a sua volta un Trattato sopra le scene composto da sei capitoli dedicati all’allestimento scenico.

Ferdinando Bibiena: Ferdinando Galli Bibiena (Bologna, 1657 - 1743) fu un importante architetto e scenografo attivo in Italia e in Europa nel corso del Settecento.

pittore di quadratura: autore di architetture dipinte entro una quadratura prospettica; il cosiddetto quadraturismo si diffuse molto nel corso del XVI secolo.

Tralli: antica città dell’Asia minore, situata nella valle del fiume Meandro.

Padre Pozzi: Andrea Pozzo (Trento, 1642 – Vienna, 1709), gesuita, è stato un architetto, pittore e teorico della prospettiva, maestro dell’illusionismo barocco, autore dell’affresco della finta cupola della chiesa di Sant’Ignazio a Roma.

Nota alla nota d’autore n. 14:

Carlo Antonio Bufagnotti(Bologna, 1669-17?), allievo di Bibiena, incisore, pittore e scenografo raccolse, apparentemente travisadone il valore, diverse opere di Bibiena, come anche Pietro Giovanni Abbati, altro allievo del Bibiena, attivo a Parma tra la fine del XVII e la prima metà del XVIII secolo, autore di Varie opere di prospettiva inv. da F. Bibiena, raccolte da Pietro Abbati e date in luce e stampate da Giac. Camillo Mercati, Bologna, 1707, e dei Disegni delle scene che servono alle due opere che si rappresentano l’anno corrente nel R. Teatro di Torino, inv. da Ferd. Bibiena e dipinte da Pietro Giov. Abbati, Torino, 1703.

Nota alla nota d’autore n. 15:

Marco Vitruvio Pollione (80 a.C. ca – 15 a.C. ca), architetto romano, autore di un trattato in dieci libri, De architectura, che ebbe una grandissima fortuna in epoca rinascimentale. La citazione è tratta da De architectura, libro VII, cap. 5, par. 5.

Nota alla nota d’autore n. 16:

Vitruvio, De architectura, libro VII, cap. 5, par. 7. «Utinam dii inmortales fecissent, uti Licymnius revivisceret et corrigeret hanc amentiam» (Magari gli dei immortali potessero far sì che Licinio tornasse in vita e correggesse questa assurdità)

[commento_5.4] Mennone: Mennone è un eroe della mitologia greca al quale fu dedicato un tempio a Tebe, in Egitto, lungo le rive del Nilo, dove sono conservati i resti di due statue gigantesche di arenaria, dinanzi al tempio di Amenhotep III.

Nordeno: Frederic Louïs Norden (Glückstadt, 1708 – Parigi, 1742) era un esploratore e ufficiale danese; compì un viaggio in Egitto fino al Sudan negli anni 1737-1738, su invito del re Cristiano VI di Danimarca; il Voyage d’Égypte et de Nubie fu pubblicato nel 1755 a Copenhagen presso l’Accademia reale danese di Scienze e di Lettere.

[commento_5.5] Gioan da Udine: Giovanni da Udine (Udine, 1487 – Roma, 1561) è stato un pittore, allievo di Raffaello, esperto nelle decorazioni a grottesca, che riprendevano le antiche decorazioni romane.

India: Bernardino India (Verona 1528 – 1590) pittore manierista, autore di affreschi decorativi, alcuni con grottesche.

deliziose: le scene deliziose nei drammi del XVIII secolo rinviano a un’ambientazione arcadica e accompagnano azioni pacate e rasserenanti.

[commento_5.6] Kent: William Kent (Bridlington 1685 – Londra 1748) fu un architetto paesaggista inglese, che introdusse l’idea di disegnare i giardini in rapporto al paesaggio, usando anche motivi esotici, uniti a un’ispirazione gotica e classica.

Chambers: William Chambers (Gothenburg, 1723 – Londra, 1796) fu un architetto e decoratore di giardini; nel corso dei suoi viaggi in Cina ebbe modo di studiare l’arte decorativa cinese.

Brown: Lancelot Brown (Kirkharle, Nurthumberland, 1716 – Londra, 1783) fu un architetto di giardini, considerato l’iniziatore dello stile architettonico di giardini e paesaggi che venne detto all’inglese, che opponeva all’uniformità tipica del modello geometrico francese una struttura libera e aperta, con un’alternanza di motivi naturali e artificiali.

Le Nôtre: André Le Nôtre (Parigi, 1613-1700) è il maggiore architetto barocco francese, creatore del giardino cosiddetto «alla francese», basato su un ordine geometrico e sulla simmetria e ordine delle composizioni; su invito della famiglia reale dei Savoia operò anche in Italia e disegnò il giardino del castello di Racconigi, presso Torino.

Nota alla nota d’autore n. 17:

«I suoi giardini attirano la vostra ammirazione; ovunque guardate scorgete le mura; non si vedono piacevoli contrasti, né quella artificiosa selvatichezza che appesantisce la scena; a ogni boschetto corrisponde un boschetto; ogni viale ha il suo gemello; la metà di una spianata riproduce esattamente l’altra metà», vv. 113-118; «Consultate in tutto il genio del luogo che dice alle acque di alzarsi o di cadere o spinge il colle superbo a sollevarsi verso i cieli o scava la valle come un anfiteatro; invita al campestre, apre un varco in un bosco, congiunge le selve, varia le ombre, prolunga o spezza le linee dritte; dipinge mentre voi piantate e disegna mentre voi lavorate», vv. 57-64. Alexander Pope, Epistola IV, a Riccardo Boyle, conte di Burlington, Dell’uso delle ricchezze.

Lord Burlington aveva trasformato il suo giardino di Chiswick, originariamente all’italiana, in un nuovo modello di giardino più simile a una conformazione naturale, paesaggistico, anche in collaborazione con William Kent.

[commento_5.7] Paolo: il pittore Paolo Veronese (Verona, 1528 – Venezia, 1588)

Pussino: il pittore francese noto anche in Italia Nicolas Poussin (Les Andelys, 1594 – Roma, 1665)

Marchetto Ricci: Marco Ricci (Belluno, 1676 – Venezia, 1730), nipote e collaboratore di Sebastiano Ricci.

Segneri: Paolo Segneri (Nettuno, 1624 – Roma, 1694) fu un gesuita, missionario e predicatore di grande fama.

[commento_5.9] Rembrante: il pittore olandese Harmenszoon van Rijn Rembrandt (Leida, 1606 – Amsterdam 1669).

Talia: la musa della commedia.

Menagio: Gilles Ménage (Angers, 1613 – Parigi, 1692), letterato ed erudito francese, autore delle Origines de la langue françoise (1650), delle Origini della lingua italiana (1669 e 1685) e delle Observations sur la langue françoise (1673-76).

Del teatro §

[commento_6.2] Nota alla nota d’autore n. 18:

Vitruvio, De architectura, V, 5: «In base a questi motivi e a calcoli matematici, si devono costruire dei vasi di bronzo proporzionati alle misure del teatro…Qualcuno potrebbe obiettare che ogni anno vengono costruiti a Roma molti teatri che non seguono alcuna di queste regole, ma sbaglia non considerando che tutti i teatri pubblici in legno hanno molte impalcature in legno che devono necessariamente vibrare…Quando invece i teatri sono costruiti con materiali solidi come muratura, pietra o marmo, che non possono vibrare, allora è necessario ricorrere ai vasi di bronzo.»

[commento_6.3] Nota alla nota d’autore n. 19:

Ibid., V, 1: «E’ necessario anche regolare l’ampiezza in base al numero delle persone, affinché lo spazio non sia troppo piccolo o la piazza sembri vuota per la scarsezza del pubblico.»

[commento_6.4] sconciatura: deturpazione.

[commento_6.5] giulebbo: poltiglia

[commento_6.6] Sighizzi: Andrea Seghizzi (Bologna, 1630-1684), fu un pittore prospettico e quadraturista, attivo a Bologna.

Brizio: probabilmente Filippo Brizio (Bologna, 1603-1675) pittore noto per la sua attività didattica.

Dentone: Gerolamo Curti, detto il Dentone (Bologna, 1575-1632) pittore e scenografo, dipinse le scene per molte rappresentazioni teatrali.

Bibbiena: i Galli Bibbiena sono una famiglia di scenografi e architetti originari del Casentino, attivi anche in Italia e in Europa tra il XVII e il XVIII secolo.

assito: parete di assi.

teatro Formagliari: il teatro Formagliari fu inaugurato nel 1636 nel palazzo di proprietà della famiglia Guastavillani, presso la via Farini e fu adibito alla rappresentazione di spettacoli melodrammatici.

[commento_6.7] redata: ereditata.

settizonio: facciata monumentale di un Ninfeo che sorgeva sul Palatino, fatta a più piani di colonne.

Torelli: Jacopo Torelli (Fano, 1604-1678) fu uno scenografo e architetto, autore di macchine che producevano effetti spettacolari nel teatro barocco. Progettò assieme a Ferdinando Galli Bibbiena il teatro della Fortuna inaugurato a Fano nel 1677; trascorse un lungo periodo in Francia, tra il 1645 e il 1661, chiamato inizialmente dal cardinale Mazzarino per curare gli allestimenti delle opere e dei balletti italiani in Francia.

Temanza: Tommaso Temanza (Venezia, 1705-1789) architetto veneziano di ispirazione classicista.

Dal Pozzo: Girolamo Dal Pozzo (Verona, 1718-1800), architetto e pittore, progettò il teatro dell’Accademia Filarmonica di Verona; i disegni di cui parla Algarotti sono probabilmente conservati nella Biblioteca civica di Verona assieme a un trattato inedito Della forma delli teatri antichi, romano e greco.

Sanmichele: Michele Sanmicheli (Verona, 1484-1559), architetto e ingegnere militare, fu uno dei più significativi promotori nell’Italia settentrionale del classicismo architettonico romano.

Berlino: il teatro d’opera di Berlino (Hofoper), voluto da Federico II, fu inaugurato nel dicembre 1742.

Conclusione §

[commento_Conclusione.1] Addisoni… Marcelli: Joseph Addison (Milston 1672 – Kensington 1719), John Dryden (Alwinkle, 1631 – Londra, 1700), André Dacier (Castres, 1651 – Parigi, 1722) erano rinomati scrittori e teorici della scrittura teatrale, assieme agli Italiani Lodovico Antonio Muratori, Gianvincenzo Gravina e Benedetto Marcello.

Nota alla nota d’autore n. 20:

«Bisogna andare in questo palazzo magico
dove i bei versi, la danza, la musica
l’arte di ammaliare gli occhi con i colori
l’arte più felice di sedurre i cuori
di cento piaceri ne fanno uno solo.»

Voltaire, Le Mondain, vv. 94-98.

[commento_Conclusione.2] Racine: la tragedia Iphigénie di Racine fu rappresentata per la prima volta a Versailles il 18 agosto 1674.

Brumoy: Pierre Brumoy (Rouen, 1688 – Parigi, 1742) pubblicò nel 1730 a Parigi il Théâtre des Grecs, preceduto da un Discours sur le théâtre des grecs.

Nota alla nota d’autore n. 21:

Ifigenia in Aulide, libretto di Leopoldo Vallati e musica di Carl Heinrich Graun, fu rappresentata alla Hofoper di Berlino il 13 dicembre 1748.

Nota alla nota d’autore n. 22:

Aristotele, Poetica, cap. xv, «Dei caratteri della tragedia»: «Un esempio di perversità di carattere… di carattere incoerente ce lo dà Ifigenia in Aulide, perché la donna che supplica non assomiglia per niente a quella che vuole morire alla fine del dramma.»