Pietro Napoli Signorelli

1783

Discorso storico-critico da servire di lume alla Storia critica de’ teatri

2018
Pietro Napoli Signorelli, Discorso storico-critico del dottore don Pietro Napoli-Signorelli da servire di lume alla Storia critica de’ teatri e di riposta all’autore del Saggio Apologetico, In Napoli, Nella Stamperia di Amato Cons. A spese di Michele Stasi, 1783, [4]-14-240 p. PDF : Bayerische Staatsbibliothek, München. Errata intégré.
Ont participé à cette édition électronique : Eric Thiébaud (Stylage sémantique), Anne-Laure Huet (édition TEI) et Wordpro (Numérisation et encodage TEI).
{p. I}

[Epigrafe] §

Semper ego auditor tantum, nunquamne reponam
Vexatus toties rauci Theseide Codri?
Juven. Sat. 1.
{p. II}

[Privilegio] §

ECCELL. SIGNORE.

Amato Cons pubblico Stampatore di questa Fedelissima Città, supplicando espone a V. E. Rma, come desidera dare alle stampe un libro intitolato Discorso Storico-Critico del Dottor Don Pietro Napoli-Signorelli Napolitano: Pertanto supplica l’E.V. Rma commetterne la revisione a chi meglio le parerà, e l’avrà a grazia quam Deus &c.

 

Admodum Reverendus Dominus D. Salvator Ruggiero revideat, & in scriptis referat. Die 6. Aprilis 1782.

J.J. EP. TROJANUS VIC. GEN.

Joseph Rossi Canonicus Deputatus.

ILL. E REVER. SIGNORE

La Storia Critica de’ Teatri scritta pochi anni sono dal Signor Dottore D. Pietro Napoli Signorelli, siccome ha acquistata all’Autore non picciola riputazione, per le lodi, colle quali è stata comunemente applaudita nella Repubblica letteraria; così ha suscitato, come suole non di rado avvenire, chi credendo offesi i diritti di letteratura, che vanta in questo genere di teatrali composizioni la sua nazione, ne ha attaccato alcune riflessioni risguardanti il Teatro della Spagna. Col presente Discorso il lodato Valentuomo risponde a tutte le obbiezioni del suo Censore, solidamente confutandole, {p. III}senza oltrepassare neppur in menoma parte i limiti d’una disputa meramente letteraria: e questo gli somministra opportuna occcasione di arrecar maggior lume a ciò, che aveva egli scritto nella sua Storia. E perchè non v’ha cosa alcuna nel suddetto Discorso, che offenda la purità della Fede, o l’onestà de’ costumi, stimo poter permettersene la stampa. Nel sottoporre questo mio giudizio alla sua autorità le bacio divotamente la mano, e mi dichiaro. Napoli 3. Decembre 1782.

 

Di V.S. Ill. e Rma

Divotiss. Obbligatiss. Servitore.
Salvatore Canonico Ruggiero.

 

Attenta relatione Domini Revisoris imprimatur.

Hac die 3. Decembr. 1682.

M.C. D’ANDREA VIC. CAP.

Joseph Rossi Can. Deput.
{p. IV}

S.R.M.

SIGNORE.

 

Amato Cons pubblico Stampatore di questa Vostra fedelissima Città supplicando espone alla M.V. come desidera dare alle stampe un libro intitolato Discorso Storico-Critico del Dottor Don Pietro Napoli-Signorelli Napolitano: Pertanto supplica la M.V. di commetterne la revisione a chi meglio le parerà, e l’avrà a grazia singolarissima quam Deus &c.

 

Dom. D. Carminus Fimianus in hac Regia Studiorum Universitate Professor revideat Autographum enunciati Operis, cui se subsoribat, ad finem revidendi ante publicationem, num exemplaria imprimenda concordent ad formam Regalium Ordinum; & in scriptis referat. Datum Neap. die 30. Mensis Aprilis 1782.

T.A. Salernitanus C.M.

S. R. M.

Il libro intitolato, Discorso Storico-Critico del Dottor Don Pietro Napoli-Signorelli, da me letto colla dovuta diligenza, nulla contiene, che a Regj dritti, e al buon civile costume si opponga. Sono {p. V}intanto di avviso, potersi la M.V. degnare permetterne la chiesta impressione. Nap. 12. Ottob. 1782.

Umiliss. Vassallo.
Carmine Fimiani.

Viso Rescripto Suæ Regalis Majestatis sub die 26. elapsi Mensis Augusti currentis anni ac relatione Reverendi Carmini Fimiani, de Commissione Reverendi Regii Cappellani Majoris, ordine præfatæ Regalis Majestatis.

Regalis Camera Sanctæ Claræ provides, decernit, atque mandat, quod imprimatur cum inserta forma præsentis supplicis libelli, ac approbationis dicti Reverendi Revisoris. Verum in publicatione servetur Regia Pragmatica; Hoc suum &c.

 

Illustr. Marchio Citus Præs. S.R.C. tempore subscriptionis impeditus, & alii spectabiles Aularum Præfecti non interfuerunt.

Reg. fol.

Carulli.
Athanasius.
{p. 3}

LETTERA

Scritta dall’Autore al Signor Abate Don Saverio Lampillas prima di pubblicarsi il suo Discorso. §

Un pubblico Professore di Liturgia in questo Collegio di San Isidoro, personaggio ragguardevole per sapere, probità, e gentilezza, pochi giorni fa m’informò che un Congiunto di V.S., dimorante in questa Real Villa, giva indagando, per di lei incarico, se mai uscisse alcuna mia risposta al Volume del Saggio, in cui Ella egregiamente sostiene le glorie del Teatro Spagnuolo, per potervi tosto rispondere. Colla mia solita sincerità replicai al prelodato valentuomo, che io sin dal 1779. essendo stato in Genova di lei commensale, e dovendole il dono di alcuni libriccini, nel tempo stesso che mi lusingava di essere in certo modo in possesso della di lei buona grazia, mi vedea in una specie di obbligo, nel prodursi qualche {p. 4}mia bazzecola, di avvertirne io stesso il valoroso competitore.

Laonde per adempiere a questo mio dovere, anticipando colla presente le informazioni del di lei Congiunto, le quali certamente non possono essere così sicure, come le mie, intorno a’ miei disegni, le dico, che ho scarabocchiato, può dirsi, in sul ginocchio e come la penna getta, un Ragionamento, in cui ribatto le obiezioni del precitato suo Volume, e che già è nelle mani dell’Impressore. Posso però assicurarla, ch’Ella non avrà motivo di lagnarsi di me, come finora ha fatto di altri suoi contraddittori. Ella potrà sì bene stimare insufficienti le mie risposte, ma non già dire, che io abbia o dissimulate le sue ragioni, o risposto ad argomenti con invettive. Di ogni suo temuto raziocinio ho fatto caso, enunciandolo distintamente, a costo tal volta di rendermi sazievole; e se per avventura alcuno me ne fosse fuggito, non ho certamente peccato per volontà, nè per meschino artificio ad oggetto di scansarne la forza. Come esca dunque questo mio picciolo Discorso, di cui la prevengo, gliene farò presentare un esemplare, considerandola più come Giudice, che come Parte. Da ciò può {p. 5}inferire, se mai io abbia voluto formare un mistero di ciò che sono ‘per pubblicare, e sottoporre al medesimo suo giudizio. E perchè procederei altramente? Intento io forse qualche sorpresa? Ella già non mi scrisse privatamente ciò che le dispiaceva nella mia Storia de’ Teatri. Anzi in Genova mi avvidi che con istudio (per altro inutile) sfuggì di spiegarsene meco, per cogliermi forse appieno senza darmi luogo a chiedere mercè, e per incatenarmi al suo Carro Trionfale Apologetico, come con dolce sogno si figurò di avervi più altri avvinti. Or non era naturale, che a pubbliche rampogne pubblicamente io replicassi? Sì gran parte di un Volume di un Letterato di tal polso impiegata contro di me meritava che si disprezzasse come indegna di risposta?

Il di lei Congiunto avrà immaginato che io meditassi un controbando, o una irruzione repentina, e che suo dover fosse il vegliare come buona sentinella in tempo di guerra per dar la voce a tempo,

Ferte citi ferrum, date tela, scandite muros. Si sarà ingannato perchè non sa come io pensi. Il discordare noi due in qualche punto, secondo me, non significa nimistà. Noi questioneremo, e poi rideremo insieme del {p. 6}nostro contrasto. Parmi di averle altra volta scritto, che io prendo per quello che sono le scaramuccie letterarie, e segnatamente queste nostre, che (confessiamcelo a quattr’occhi) sono veri litigj di lana caprina: sono semplici scherzi non ad altro buoni, che a farci passare gajamente que’ momenti che spendiamo a respingere, come ci diamo a credere, con bravura l’avversario.

Io sento essere la mia macchina ben lontana dallo sconcertarsi per lo riscaldamento dell’atrabile, che altra volta trasportava gli argomentanti ne’ circoli delle Scuole. Già saprete che i miei primi passi io spesi nel Foro Napoletano; ora io ne ritrassi non solo certo fuoco non isconvenevole nell’atto della disputa, ma dopo di essa certa nobile serena giovialità verso l’avversario, che fa quivi distinguere la persona costumata da chi non è tale. Io suppongo simile gusto, e temperanza nell’erudito Signor Lampillas. E guai a chi ne scarseggiasse! Tendria dos trabajos, dicono graziosamente i Castigliani: quello di alterarsi, e l’altro di rimettersi in calma. E che? Non si può insinuare una verità senza acrimonia? Dall’altra parte le contese di tal natura a che finalmente si riducono? Giri il Sole o la Terra, noi sempre goderemo alternatamente {p. 7}della notte quieta, e del giorno operoso, del tepore di Aprile e Settembre, e del rigido Gennajo, e dell’arido Luglio, vitale varietà necessaria alle piante, e agli animali. Che l’Italia avesse preceduto alla Spagna nel coltivare qualche genere letterario, o per contrario, quale aumento ne risulta alla massa generale del Sapere? Che il Sig. Lampillas, o il Signorelli abbia ragione, che importa all’Italia, o alla Spagna? e quanto meno importerà al resto dell’Europa, per non dire a tutta la Terra, non che all’Universo?

O curas hominum! quantum est in rebus inane! Comunque riesca l’uno e l’altro, sempre là dove giunga il nome Spagnuolo, sonerà grande e famoso, e sempre e Russi, e Francesi, e Inglesi, e Alemanni verranno a vagheggiare l’Italia, come la Madre delle Belle Arti, e dell’Ospitalità. Le Apologie, dopo una vampa momentanea, passano di moda, e muojono nel bujo: ma le Nazioni stanno come monti sublimi, per lungo corso di secoli, e per altro che per Saggi, e Lettere apologetiche, e Discorsi rendonsi chiare.

Scriviamo pur noi non pertanto, se a lei così piaccia, per anni (dalla quale smania però mi scampi il cielo! che io sempre a {p. 8}tal proposito dirò, tanti pœnitentiam non emo), moltiplichiamo le nostre ciancie, purchè ci troviamo i nostri conti, cioè finchè io mi diverta nel mio ozio, ed Ella possa approfittarsi del diletto che porge ad alcuni suoi paesani. Ma non presumiamo vanamente, che la gloria delle nostre Nazioni dipenda dall’esistenza del suo Saggio Apologetico, e del mio Ragionamento.

Inoltre facciamo, se vuole, da Cavalieri erranti, ma senza perdere di mira la cortesia. Don Chisciotte, nostro modello, fu urbano. Chi semina ironie, ne raccoglie: la sferzata produce sferzate. Ella il sa: la reazione è sempre uguale all’azione.

Riflettiamo poi che non è l’istesso p. e. chiamare, com’Ella fa, Dramma un’ Ecloga per capriccio tutto nuovo*, che combattere {p. 9}pro aris, & focis (che io non credo punto il Sig. Ab. Lampillas della magnifica razza di certuni, che danno alle loro frivole questioncelle l’aria speciosa di serietà, e d’importanza sotto il gran nome di Patria). La nostra pugna è per una Dulcinea, cioè per una divinità che noi stessi ci formammo dandole il nome di Letteratura. Noi l’amiamo entrambi senza dubbio; ma forse a questo nome noi appiccheremo idee almeno {p. 10}in parte dissimili. Io non so com’Ella ne pensi. Per me stimo, che questa nostra innamorata nè si abbigli sempre ad una foggia, nè sempre alberghi in un luogo. Librata sulle ali ridente, e graziosa attende gl’inviti di chiunque, e non si assolda con impegno esclusivo. Una volta misteriosa si rinchiuse co’ Sacerdoti dell’Egitto: vaga di sapere, e di vedere navigò talora co’Fenici: errò fin anco per le nevose rupi del Caucaso: passeggiò gran tempo sotto i Portici di {p. 11}Atene: svolazzò su i cimieri degli Scipioni, e de’ Cesari: non si atterrì al feroce aspetto de’ Goti: oggi si delizia nell’amena Italia, ride sulla dilettosa Senna, milita nella potente Spagna, scherza lungo il Tamigi, volteggia sul Baltico; e chi sa che un dì non s’innamori di un Turbante? Ed Ella come l’intende? Della stessa guisa? Io lo desidero: così terminerebbero le liti, ed ameremmo la Letteratura in ogni luogo sotto qualunque divisa.

Ella potrebbe dire che la nostra contesa è particolare sulla Letteratura Spagnuola. E sia. Ma in tal proposito sa qual è il vero punto della nostra discordanza? Questo. Ella pensa, o vuol dare ad intendere, di esser solo ad amar la Spagna, e che ogni altro che non vi nacque, la miri con indifferenza, o peggio ancora. Io al contrario pretendo, non solo di amare la Letteratura dovunque la trovi, ma di amare la Spagna per scelta e per dimora al pari di lei che l’ama per obbligo naturale. “L’amate (mi pare di sentirla a replicare), ed il vostro amore vi permette di riprenderne il Teatro? di credere Francesi, e non Spagnuoli, i Provenzali? {p. 12}di tenere per Cartaginese Annibale studioso del Greco, e per Lacedemone quel Lacedemone che gliel’ insegnò in Ispagna?” L’amate, e scoprite i miei sofismi, e non volete dissimulare quando io sopprimo varj fatti per appropriarle qualche vanto? “L’amate, e vi opponete a me, quando credo alle mille Tragedie del Malara? quando nego che in uno stesso Dramma nostrale i personaggi vanno da Roma a Madrid, e da Madrid a Roma? quando io m’ingegno tratto tratto di citare in falso unicamente per esaltarla, come feci p. e. in un passo di Lilio Giraldi, riguardo al Trissino? E che specie di amore è il vostro?” Oh quì stà il punto! Io amo la Spagna colla Letteratura che l’adorna, ma non credo necessario, per bene amarla, l’attribuirle glorie immaginarie, e mentire in istampa: Ella l’ama, e pensa diversamente. Siamo dunque due innamorati rivali, che spieghiamo in differenti maniere i nostri affetti. Detta a lei l’amore di fare de’ sogni piacevoli: a me di dar risalto a’ veri suoi pregi, i quali nè pochi sono, nè volgari, come mostrerò nell’ultimo Articolo del mio Discorso. A lei, nel diffondersi nelle {p. 13}sue lodi, piacciono le iperboli, che le suggerisce l’innamorata fantasia: a me piace quell’elogio, cui la verità, e l’Istoria è scorta e compagna. A lei essa par bella ancor nella guisa che si raffazzonò con affettazione in tempo de’ pedanti: a me l’amore dà luogo a riflettere, che quanto più essa sarà naturale nell’abbellirsi, come fa oggi giorno, tanto più mostrerà la nativa sua maschia venustà, e trarrà a se tutti gli sguardi. A lei forse piace nell’abito tenebroso e bizzarro, che tolse nelle Solitudini di Gongora: a me colle nobili e care e ricche spoglie che usava al tempo di Garcilasso de la Vega; e quel che mi rallegra si è che in ciò meco convengono tutti gli Spagnuoli illuminati de’ tre ultimi secoli. Il di lei amore trascende fino ad idolatrarne le lentiggini: il mio me non accieca a segno di non vederle, anzi vorrebbe vedernela priva; e così pensarono Cascales, Cervantes, Antonio Lopez, Villegas, Mariana, Nasarre, Montiano, Luzan, Moratin, e pensano molti illustri valentuomini viventi, che si affannano per renderla sempre più limpida. Ella vorrebbe che il Poeta Drammatico Spagnuolo inalberasse anche oggi la bandiera Lopense e Calderonica: io vorrei che piuttosto militasse sotto {p. 14}colui che compose dentro la Caverna di Salamina (che a lei fa tanto orrore), e che egli osasse penetrarvi ancora seguendo le orme di Racine colla fiaccola di Luzàn. Ecco la sostanza della nostra gara, che che Ella ne voglia insinuare in contrario. Ora tocca alla Spagna rischiarata, che io scelgo per Giudice, il decidere, dopo aver letta la Storia de’ Teatri, il di lei VI. Volumetto, ed il mio presente Discorso, qual di noi due sappia più utilmente amare. Oserò io prevenirne la decisione? Essa forse pronunzierà così: Il Lampillas si strugge per mostrare di amar più, il Signorelli mostra di amar meglio.

Resto tutto suo.

{p. 1}

DISCORSO STORICO-CRITICO. §

Vi sono pure inciampato a non aggradire all’erudito Autore del Saggio Apologetico della Letteratura Spagnuola. Ben mi avea egli dato segno delle future ostilità con qualche passo de’ primi quattro Volumetti; ma trovommi allora Filosofo sereno. Oggi però, dopo avere scorso il bel Paese, dove vidi dappresso certi duelli, sento in me ancora destarsi alcun poco di ardore marziale. E poichè la Cavalleria Chisciottesca si è mascherata col sajo Letterario, e dalla Mancia è passata in Lombardia e nella superba Città di Giano, tempero la mia penna, entro nella lizza, ed affronto il mio Ospite1 dagl’incantatori trasformato in mio Avversario. Ma entriamo nella materia.

ARTICOLO I.
Su i Teatri Spagnuoli sotto i Romani. §

Non sarà infruttuoso questo mio Discorso, qualora le censure del Signor Apologista mi porgano occasione d’illustrare qualche punto curioso della Storia teatrale. In questa che alla prima mi si presenta, avrò motivo di aggiugnere alcune notizie su i Teatri da me descritti nel trattare del Voto della Storia teatrale.

{p. 2}

Il Signor Lampillas pretende che io abbia letto male un passo dell’Opuscolo di Luis Velazquez sulle Origini della Poesia Castigliana, ch’egli così traduce1: “Sindachè i Romani introdussero in Ispagna la buona Poesia, furono in essa conosciuti i Giuochi Scenici; e le rovine di tanti antichi Teatri, che sino a’ nostri giorni si conservano in diverse Città, sono altrettanti testimonj di quanto si fosse impossessato del Popolo questo genere di divertimento”. Ed io ben credo che così avvenisse; ma per soddisfazione degli Stranieri non si dovea avvalorare questa semplice asserzione con qualche pruova, col nominare almeno le Città dove tali rovine esistono? Queste pruove io desiderai nel comporre la mia Storia. L’Apologista però pensa che nulla manchi a quelle parole, e vi rinviene la più convincente pruova a dimostrare l’uso de’ Giuochi Scenici in Ispagna sin da’ tempi de’ Romani, e si maraviglia, che io non l’abbia ravvisata: “Quale autorità più incontrastabile che i magnifici avanzi degli antichi Teatri conservati in Ispagna dopo tanti secoli?” Ma il dire non è provare, replica ora il Signorelli. Ha forse il Velazquez additate almeno queste Città? Ha mostrato che tali magnifici avanzi sono di Teatri, e non di altra fabbrica? Ben dovrebbe sapere l’Apologista le fatiche durate tratto tratto dagli eruditi Antiquarj per assicurarsi della natura dell’Edifizio, di cui esaminavano gli avanzi. E quanti di questi lasciano chiaramente comprendere di essere teatrali? Un avanzo di un Circo, di una Naumachia, che non abbia conservate {p. 3}le proprie note caratteristiche, può dagl’inesperti credersi tutt’altra fabbrica. Legga l’Opera De Amphitheatro di Giusto Lipsio [per non inviarlo a quella di un Italiano, del dottissimo Canonico Simmaco Mazzocchi De Ampitheatro Campano], e vedrà che l’Anfiteatro non era se non un doppio Teatro, e che le scalinate, i recinti, le uscite, convengono appuntino ad esso ugualmente, che al Teatro secondo le regole Vitruviane. Ci volea dunque a quegli magnifici avanzi pruova sufficiente per distinguerli col nome di teatrali: e il Signorelli lesse bene, e non alla sfuggita il passo del Velazquez, e la sua pretensione fu giusta; ed è il Signor Lampillas che alla bella prima prende quì per Giunone una nuvola, per dimostrazione geometrica un’ asserzione.

Io per verità fui più diligente del Velazquez, mentovando almeno il Teatro Saguntino, e più il sono nella preparata nuova edizione della Storia de’ Teatri in tre Volumi, nominandovi ancora il Teatro di Merida, accompagnato dalle necessarie citazioni, e quello estemporaneo eretto da Cornelio Balbo in Cadice, sendo Pretore, di cui nè anche il Lampillas si è ricordato. Avrei parimente accennate le rovine teatrali di Clunia e di Castulo, che si mentovano nel Saggio; ma confesso non averne avuto contezza, nè poi l’Apologista cita veruno scrittore per quello di Clunia. Nè anche egli ebbe notizia, a quel che pare, di alcune rovine teatrali site presso il luogo, che oggi occupa Senetil de las Bodegas, dove fu Acinippo, antico Popolo della Celtica nominato da Plinio1 con altri contenuti {p. 4}a Bæti ad fluvium Anam, dal Betial Guadiana. Il Signor Montiano le accenna nel 11. Discorso della Tragedia sul testimonio di un Antiquario Spagnuolo dell’Accademia della Istoria; asserendo che tuttavia vi si discernono le tre Porte della Scena. Nè anche fu noto all’Apologista un altro Teatro Romano-Ispano mentovato da un erudito Professore di Poetica in Madrid in una Lettera su gli errori della Storia Letteraria di Spagna, pubblicata nel 1781. Una Tarteso differente da Cadice, che portò pure questo nome, chiamata da’ Greci Carteia, secondo Strabone, Pomponio Mela, e Plinio, era situata distante una lega da Calpe venendo da Alghesira, e al presente si chiama Cortijo del rocadillo. Ora di questa Città, anche a’ tempi di Pomponio Mela abitata da’ Fenicj venuti dall’Africa, trovansi sparse le rovine per una lega e mezza, e veggonsi tra esse i vestigj di un Teatro, ed anche di un Anfiteatro.

A chi poi è ignoto che la vita di Apollonio scritta da Filostrato non sia un puro romanzo artificiosamente per malignità accozzato per contrapporla alla vita del nostro Salvadore? Perchè dunque l’Apologista consuma due pagine e mezza per mostrare la Greca fede di Filostrato? Se io scrissi, che il Velazquez in vece di prorompere in invettive inutili [quali reputo ora le due pagine e mezza del Saggio] contro Filostrato, avrebbe dovuto convincerlo di errore con pruove chiare, e non voci, ciò forse significa che io sia persuaso della verità del Romanzo di Filostrato? I miei Precettori non m’insegnarono a ragionare a questo modo.

Non entro frattanto di proposito a seguitare l’ {p. 5}Apologista nelle sue congetture sul Teatro Saguntino, cioè che i Saguntini presero i Giuochi Scenioi da’ Greci, pensando io in questo discorso a ristrignermi a quello soltanto che a me appartiene. Accenno però di passaggio, ch’egli dovrebbe addurne altre più solide, o disperare dell’impresa. In prima ei si conforma al parere dell’erudito P. Mignana che stima essere il Teatro Saguntino stato innalzato giusta il modello di quel di Atene. Ben potrebbe darsi: ma da ciò che ne consiegue? che tal Teatro si eresse da’ Greci, come pensò Gasparo Ercolano? Il Lampillas insinua l’istesso (p. 21.) con tali parole: “Ora se i Saguntini presero da’ Romani e non da’ Greci il Teatro, perchè mai lo fabbricarono conforme a’ Teatri antichi di Grecia piuttosto che a’ Teatri Romani”? L’erudito Apologista, dedito forse tutto alle sublimi scienze, non si ricordò in ciò dire, che i Teatri Romani, come il Saguntino, furono tutti copie esatte di quelli di Atene, Mitilene, Epidauro ec., e sebbene vi corse qualche lieve differenza, fu questa di niun momento per le parti essenziali1.

Che poi il dottissimo P. Mignana stimi che il Teatro Saguntino non sia conforme alle regole Vitruviane, parmi che in ciò discordi dalla descrizione datane dal Martì nella Lettera al Zondadari. La differenza che v’incontra l’erudito Decano di Alicante, consiste nell’essere gli scaglioni che servivano per sedere, più alti di due palmi e mezzo, benchè la larghezza fosse conforme a’ precetti dell’ {p. 6}Architetto Latino; cioè di tre palmi e un quarto. Io tralascio qualche altra conformità di tale edificio con altri precetti Vitruviani, e specialmente la situazione per esso eletta, che non può essere a quelli più simile. Nè mi stendo a rilevare che nel Teatro di Morviedro non apparisca indizio del luogo, ove situavansi i Vasi di rame ne’ Teatri Greci; ed è probabile che essendo costrutto alla Romana, non ne avesse punto, come non ne aveano quei di Roma, in ciò differenti da quei di Grecia. Osservi però il Signor Lampillas queste parole del Martì: “Sul portico si vedeano altre quattro scalinate, ed è difficile indovinare a qual ordine di persone fossero destinate; imperciocchè i Senatori occupavano l’Orchestra, gli Equiti le prime quattordici scalinate, e il Popolo il rimanente. Ora a chi toccavano le altre quattro”? Adunque riconosce il Martì nel Teatro di Morviedro l’Orchestra costrutta alla Romana, cioè destinata a’ Senatori; là dove l’Orchestra Greca avea alcuna diversità, e serviva alla Timele per i Musici e i Ballerini. Aggiunga ancora a queste cose l’Apologista ciò che scrive D. Antonio Ponz1: “Alla lettera del Martì non unisco la stampa del Teatro come difettosa, non essendo nè pianta nè alzato, ma un ammasso di cose nel modo che se la figurò chi non era Professore; ed in suo luogo può sostituirsi una pianta del Teatro di Marcello molto simile a questo di Morviedro.”

Vegga dunque il Signor Lampillas dalle cose riferite {p. 7}qual solidezza abbiano le congetture dell’Ercolano da lui adottate, per provare che nelle Spagne vi fossero Teatri prima che in Roma. Ed avverta ancora, che quando anche ciò fosse dimostrato, non che dimostrabile, Roma ch’è una sola Città, benchè sempre chiara, non derogherebbe a tante Città Italo-Greche, che vantarono magnifici Teatri, di cui esistono le reliquie, che si addurranno colle dovute prove a suo luogo; e ciò nel tempo che fioriva l’antica Grecia transmarina.

Per non fare un altro articolo di un’ altra rigida censura del Signor Lampillas contro la storia de’ Teatri, non meritandone la pena, la soggiugnerò in questo luogo. Dice il Censore [p. 23.]: “L’Autore della storia de’ Teatri fa onorevole menzione di molti illustri Romani che abbellirono la scena .... ma non ricordò quanto splendore dovette a Cornelio Balbo”; dicendo ciò per le quattro colonne di onice che egli espose rel suo Teatro. L’Autore dell’accennata storia risponde, che del Teatro di Balbo fece menzione con ogni altro Scrittore, ed invoca la testimonianza del pubblico. Chiede poi perdono all’Apologista, se omise l’importante notizia da scriversi per tutto l’Orbe delle quattro colonne di onice possedute da quell’onorato Spagnuolo, colle quali ornò il suo Teatro. Il Signorelli sempre povero di cuore e di mente si fe troppo occupare da’ piccioli ornamenti del Teatro di Scauro, consumati poi in Villa dal fuoco per malignità de’ di lui schiavi, la cui valuta si stimò che ascendesse a cento milioni di sesterzj, cioè a due milioni e mezzo di scudi Romani moderni, o sia cinquanta milioni di reali {p. 8}Spagnuoli, oltre alle tremila statue di bronzo che si collocarono fralle trecensessanta colonne. Così abbacinato da tali magnificenze di un privato che diveniva Edile, le quali saranno povertà per altri di maggior cuore, non pensò a quel tesoro inarrivabile di quattro colonne di onice, le quali tutto, e con molta ragione, riempierono il vasto cuore dell’Apologista Spagnuolo.

ARTICOLO II.
Se i Mori Spagnuoli ebbero Poesia Scenica. §

Si dimostrò nella storia de’ Teatri, che i Mori-Ispani non si dilettarono di Scenica Poesia. Pure l’Apologista, scortato da Nasarre e fidato nelle forze del proprio ingegno, vorrebbe in ogni conto trovarla fra loro; nel che parmi che corra dietro alla pietra Filosofale o alla Elitropia di Calandrino. E perchè il Signorelli, consultando il Saggio della Poesia Arabica, e la Biblioteca Arabico-Ispana dell’erudito Signore Casiri, affermò che questo Bibliografo diceva nettamente che gli Arabi non conobbero gli spettacoli teatrali, l’Apologista intoppò in quel nettamente. Mi conviene qui ripetere, che giusta il Casiri, gli Arabi non rappresentarono, secondo il costume Europeo, nè Tragedie nè Commedie, e che niuno Scrittore dice che ne avessero scritte. E ciò non equivale a dire nettamente che essi non conobbero, ovvero (per non dar presa alle sottigliezze) non coltivarono gli spettacoli teatrali? Insieme colle Arabe Poesie si è conservata memoria di tanti puerili contrapposti, {p. 9}giuochi di parole, e acrostichi adoperati da’ verseggiatori Arabo-Ispani; e intanto nè opera veruna di Poesie sceniche, nè memoria di esse trovasi in veruno Scrittore, e ciò non basta ad affermare che non ne avessero? E perchè ne avrebbero essi scritte, se il dotto Casiri ci dice nettamente, che non aveano per usanza di rappresentarle?

Dell’argomento del Signor Lampillas tolto dalla coltura degli Arabi, vedrà egli stesso la debolezza. Dicami di grazia, non potrebbe un Popolo Asiatico essere competentemente colto, e non compiacersi de’ divertimenti Europei? Colta era la Spagna prima della metà del secolo XVI., nè allora coltivò gran fatto la Drammatica. Dotta e colta sotto Francesco I. era la Francia, e gli spettacoli scenici erano rozzi ed informi. Gli Alemanni aveano de’ Leibnitz, e tuttavia ascoltavano in Teatro Giovanni Salciccia. Creatore della Nazione Russa, ammiratore delle arti e delle scienze degl’Inglesi, degli Olandesi, de’ Francesi fu Pietro il Grande, inoltre, amava la magnificenza e le feste, nè si dilettava di sceniche rappresentazioni. Adunque le danze, le quadriglie, le musiche, e giuochi di canne, i tornei, e simili feste potevano empiere talmente il gusto de’ Mori di Spagna, che non dessero loro luogo a desiderare altri spettacoli, tuttochè Averroe avesse scritta una parafrasi della Poetica di Aristotile. E quantunque volesse supporsi che tal parafrasi corresse di mano in mano per tutti i Mori Spagnuoli; ciò appunto meglio svilupperebbe il loro genio avverso agli spettacoli scenici. Ma quanti di essi si saranno curati di leggerla! Sa bene il Signor {p. 10}Lampillas quanti Libri rimangono sepolti nelle Biblioteche per non essere del gusto e dell’indole generale della Nazione, e quanti altri all’opposto non con altro condimento accomodati eccetto di quello di secondare i pregiudizj e la vanità de’ paesani, corrono per qualche anno.

Prende l’Apologista un altro argomento da ciò che scrisse il Signorelli d’intorno a’ trovatori della Drammatica, cioè doversi attribuire alla maggior parte delle nazioni. La Natura (argomenta) accoppiata all’Arte come mai non insegnò agli Arabi l’idea de’ Giuochi Scenici in più di sette Secoli? E se il lusso e la mollezza (aggiugne) arrivò tra Mori Spagnuoli all’eccesso, pel desiderio di piacere alle Donne e gli rese fecondi di tante festive invenzioni, come restarono tra loro sconosciuti gli scenici spettacoli? Io non so come in sì deboli argomenti fondi la sua Apologia il Signor Lampillas uomo per altro di talento! Appunto per questo (vi rifletta bene l’Apologista) essi neglessero gli spettacoli scenici, perchè pieni erano e paghi di tante loro invenzioni festive, che rendevangli sicuri coll’esperienza di piacere alle Donne. Il lusso forse e la mollezza, prendono sempre gli oggetti stessi, gli stessi mezzi per ispiegarsi? Un Filosofante acuto, come il Signor Apologista, non affermerà simil cosa, purchè voglia far uso del suo criterio, e scorrere col pensiero per le Nazioni. Oltre a ciò quando mai ha il Signorelli asserito che tutte le nazioni, formate appena inventano la Drammatica, benchè egli la tragga dalla natura dell’uomo? Tardi Roma udì quest’impulso naturale, e sull’esempio de’ Drammi {p. 11}Greci della ludrica Etrusca, e delle Farse Osche coltivò la Poesia Scenica. E pure già competentemente colta sapea e darsi leggi, serbar riti religiosi, e governarsi, e guerreggiare e vincere, e fabbricare con istupenda solidità e magnificenza, e verseggiare, e dilettare il Popolo con feste e giochi. Gli abitatori delle Arabie forse un tempo, alterandosi le loro usanze, sentiranno quel conato che spinge l’uomo alla imitazione dell’uomo per giuoco. I Mori Ispani occupati in istabilirsi negli stati conquistati, in rendersi indipendenti dell’Africa; in combattere coi Regni nascenti e poi adulti di Lione, di Castiglia, di Navarra, di Portogallo, mai sempre in tempeste ne’ sette o otto Secoli; e dall’altro canto soddisfatti negl’intervalli di ciò che amavano ed esercitavano per usanza inveterata, non ebbero agio nè di studiare la Parafrasi di Averroe, nè di dare alla spinta naturale d’imitazione altro cammino e novelli oggetti. Che se per le colpe de’ Cristiani la Provvidenza avesse loro duplicate le forze della mano e del senno, se da’ loro acquisti sorta fosse, invece di varj piccioli dominj una sola potente Monarchia, o al più due, forse il loro Regno durerebbe tranquillo e rispettato, e forse ad esempio di altre colte nazioni, cangerebbero oggetti, così riguardo alla Filosofia, rigettando la Peripatetica, come alla Poesia rifiutando i frivoli giuochetti meccanici della loro versificazione, e camminerebbero sulle tracce di Galileo e Newton, di Virgilio e di Omero, in cerca della Natura; e chi sa che non ne nascesse un Euripide Moro?

Rimane ora a ribattere un altro argomento dell’ {p. 12}Apologista. “Chi non sa (egli dice) quali e quante siene state le vicende dell’Imperio Africano in Ispagna, niente inferiori a quelle del Greco e Romano Imperio? Se dunque le vicende di questi seppellirono sotto le loro rovine tanti componimenti Drammatici Greci e Latini, non fia maraviglia che sotto le rovine dell’Imperio Arabico in Ispagna sieno restati sepolti molti componimenti Arabo-Drammatici.” Pare che il Signor Apologista abbia voluto serbare per le ultime fortune il più debole, il più inefficace de’ suoi argomenti. Molti componimenti Greci e Latini sono periti: ma tanti ne sono rimasti da provarci il loro studio in questo genere. Se dunque le tante vicende di quest’Imperj (maggiori oltre misura di quelle dell’Arabico) non ci hanno privato interamente de’ loro Drammi, le vicende dell’Arabico in Ispagna, potevano rapirci la maggior parte di simili Poesie, ma non mai tutte, se ve ne fossero state. In oltre tra’ Greci e tra’ Romani, smarriti i componimenti Scenici, furono nondimeno rammentati in altri libri di quelle nazioni; là dove ne’ libri degli Arabi conservati in varie Biblioteche non vi ha un solo Autore che mentovi un Dramma Arabico1. Finalmente tra’ Greci e tra’ Romani, quando tutti i libri soggiaciuti fossero a un incendio generale, {p. 13}rimanevano sempre in piedi tanti parlanti testimonj di tali studj nelle rovine de’ loro Teatri: ma in Ispagna in poco più di tre Secoli, benchè di altri Arabici edificj trovinsi oggi molti avanzi considerevoli, per qual fatalità non è rimasta pietra di verun Teatro Moro-Ispano? Faccia il Signor Lampillas il confronto di questi argomenti co’ suoi, e di buona fede ci dica, quali di loro preponderino nel suo perspicace del pari e imparziale giudizio.

ARTICOLO III.
Se ne’ secoli XIV., e XV. gl’Italiani ebbero Poesie Sceniche. §

Entro malvolentieri in certe quistioni, nelle quali veggo l’avversario traviato, non per debolezza d’intendimento, ma per difetto di volontà. Detta la propria causa di scoprire la sorgente dell’errore, ma intanto ne soffre la moderazione sempre bella nelle difese. Sforziamoci di dar luogo alla verità, e di contenere ne’ confini dell’urbanità l’espressioni.

Potrebbe [l’Italia] pretender questo vanto [di anteriorità sopra la Spagna circa la Drammatica] “nel secolo XIV., se fosse certo ciò che scrive l’Autore della Storia Critica de’ Teatri, cioè che la Poesia Drammatica a imitazione degli Antichi {p. 14}rinacque in Italia nel secolo XIV.”1. Come avrebbe potuto scrivere tali parole chi avesse letto il II. Capo del II. Libro della Storia de’ Teatri? Intanto l’Apologista per confutarlo ha dovuto leggerlo, e pure con disinvoltura ammirabile le ha scritte e stampate in Italia. Or come si chiamerebbe quel non mostrarsi inteso di ciò che certamente vi ha letto? quel sopprimere i fatti che vi si narrano? Zelo patriotico, acutezza, ingegno? o piuttosto inganno, artificio, astuzia, stratagemma? Il dritto delle Genti accorda nelle Guerre le insidie, gli agguati, le sorprese, le finte: sono tali cose ugualmente accordate nelle contese letterarie? Pare a me che in queste si permetta il ragionare, ma non occultare il Vero e tradir l’Onesto: parmi che l’Onesto e il Vero debbano in queste preferirsi mai sempre alla meschina glorietta di confondere e soppiantare per qualunque via l’avversario. I cattivi e inonesti Avvocati, i Legulei, le Rabule, le Arpie Legali pur troppo sogliono adoperare queste armi vergognose dell’impostura in sostegno delle loro ingiuste cause. Ma credo che il Filosofo, il Letterato, debba mirarle con nobile con virtuoso orrore. Se però all’Apologista parrà dicevole l’usarle, vediamo noi, senza impacciarcene, di ribattere le sue parole.

Non trova l’Apologista nella storia Scenica Italiana di quel tempo altra cosa eccetto che alcune rappresentazioni, nelle quali il giudizioso Tiraboschi riconosce soltanto un popolare spettacolo e una muta rappresentazione. Questo nostro valoroso Istorico {p. 15}ciò afferma per la rappresentazione rammentata dal Vasari e descritta dal Villani, come ancora per altre sacre rappresentazioni mentovate dal Muratori. E in ciò avrà più di un compagno. Ma il Signor D. Saverio Lampillas non altro ha trovato nella storia di quel Secolo, che tali mute rappresentazioni? Egli dunque ha letto assai alla sfuggita ciò che si narra nelle pagine 189. 190. e 191. della Storia de’ Teatri. Ivi si rapportavano tre Tragedie e due Commedie atte a dimostrare, che sin da allora gl’Italiani attesero a far risorgere la Scenica Poesia. Gran salto cogli occhi dovè fare l’Apologista per non vedere registrate nel mio Libro l’Achilleis, e l’Eccerinis Tragedie Latine del dotto Padovano Albertino Mussato! Le credè forse mute rappresentazioni? Esse sono (il sappia l’Apologista a suo dispetto) Favole Tragiche divise in cinque Atti, scritte in versi Giambici con uno stile facile, e per quei tempi non inelegante, e coll’intento d’imitar Seneca, a cui per altro rimane inferiore. Non è questo imitar gli Antichi? Non son queste TRAGEDIE DEL XIV. SECOLO? Nè anche vide ivi addotta la notizia della Tragedia, a noi non pervenuta, di Giovanni Manzini della Motta, rammentata però in una delle Lettere Latine dell’Autore, il quale nell’idearla vi ebbe il merito di mettere in iscena, al pari del Mussato, una storia nazionale, cioè la caduta di Antonio della Scala Signore di Verona. Chiuse parimente gli occhi per non vedervi riferita la Filologia Commedia del dolcissimo Petrarca, ch’egli però non volle conservarci; ma, ad onta della delicatezza di questo grande ingegno, che fu uno de’ {p. 16}primi promotori dell’erudizione Greca e Latina, verisimilmente essa dovea essere Commedia ragionevole, se non perfetta. Finalmente si lusingò l’Apologista di potere col suo savio silenzio coprire l’altra Commedia di quel tempo da me rammentata del dotto Pier Paolo Vergerio il Vecchio nato circa il 1349., intitolata PAULUS COMŒDIA ad juvenum mores corrigendos, che si conserva MS. in un Codice dell’Ambrosiana di Milano. Compatirei il Lampillas, come straniero, del non aver lette le Opere del Mussato, nè la Raccolta degli Scrittori delle cose Italiche del dottissimo Muratori, nella quale si rapportano le di lui Tragedie, e di non aver contezza della Commedia ESISTENTE del Vergerio. Ma come compatirlo, quando io le avea riferite nella mia Storia, e il Ch. Tiraboschi ch’egli scartabella e combatte ma non abbatte, ne ha pure favellato? Da ciò quali conseguenze volete che si deducano, Signor D. Saverio? Voi pretendete essere ingenuo, abborrite la mala fede degli Stranieri, vi pregiate d’imparzialità: dobbiamo dunque conchiudere, che non sapete ben leggere l’Italiano e il Latino? Dura sarebbe tale conseguenza, ma vergognosa quella che si tirerebbe contro della vostra onestà.

Adunque gl’Italiani possono ben dire colle pruove alla mano di CINQUE DRAMMI, che nel SECOLO XIV. cercarono di ricondurre in Europa la Drammatica imitando gli Antichi; il che non tentò verun’ altra moderna nazione prima della Italiana.

Ma il Quadrio (osserva l’Apologista) tiene per difettose le antiche produzioni Italiane teatrali. {p. 17}Nè io nego che alcun difetto possa notarvisi: come se ne possono notare ne’ buoni Drammatici Greci, non che in quelli che precedettero ad Eschilo, e come se ne notano in Seneca e in altri Drammatici Latini. Ma mi dica il Signor Quadrio, o il Signor Lampillas per lui, le composizioni di Livio Andronico, di Ennio, di Nevio, di Pacuvio, di Accio, erano meno Drammi scritti ad imitazione de’ Greci, per non essere esenti da difetti? Sincerità, Signor Lampillas, uguale alla perspicacia. Osservo però di volo, che il Quadrio, la cui inesattezza e i sovente non sani giudizj sono pur troppo noti, per Voi solo tratto tratto cangia natura. Se censura gli Spagnuoli, per Voi è un baccalare de’ precetti poetici: se scredita gl’Italiani, è un Letterato eruditissimo. Chi di Voi due è un Proteo?

Della stessa maniera si governa il Signor D. Saverio nel secolo XV. Dissimula francamente ciò che si narra nella Storia de’ Teatri: tanto più in tal tempo degno di riconvenzione, quanto è maggiore il numero de’ Drammi Italiani. Egli parla soltanto delle rozze e sacre rappresentazioni riprese dall’erudito Quadrio.

Ma era una rozza sacra rappresentazione la Progne Tragedia Latina di Gregorio Corraro pregiata secondo il Giraldi, da moltissimi letterati, e dal Maffei, e da quanti amano la regolarità e l’eleganza? Dice il Quadrio che fosse una rozza rappresentazione sacra la Tragedia dell’erudito Giovanni Sulpizio rappresentata in Roma sotto il Pontificato d’Innocenzio VIII.? Furono rozze rappresentazioni quelle di Carlo Verardi? Fu sacra rappresentazione {p. 18}la Tragedia del Laudivio della morte del Piccinino? Era sacra e rozza rappresentazione l’Orfeo tragica Pastorale in idioma Italiano del celebre Angelo Poliziano? Erano sacre e rozze rappresentazioni le Commedie Latine del medesimo secolo, la Polissena del dottissimo Leonardo Bruni, il Philodoxeos del celebre Leon Batista Alberti, la Philogenia di Ugolino da Parma, il Joseph di Pandolfo Collenuccio? Erano infine rozze e sacre rappresentazioni le Commedie Italiane del medesimo tempo, la Catinia traduzione della Latina di Secco Polentone Lusus Ebriorum, i Menecmi, il Cefalo Pastorale del Correggio, il Timone del Bojardo, l’Amicizia del Nardi, della quale soltanto dice qualche cosa l’Apologista? Ora tutte queste sceniche produzioni del secolo XV. che il Lampillas non cura di vedere, non danno al Signorelli dritto di affermare, che fra noi crebbero con tutta prestezza gli studj scenici, e che attendendo alle dipinture de’ caratteri e delle passioni, ed altri meriti de’ Drammi lodati, giustamente si asserisce che allora si coltivò la Poesia Scenica giusta la forma regolare degli Antichi? Queste cose io narrai nella mia Storia, che il Signor Abate Lampillas vuol non vedere, tutto che le vegga e le palpi; queste io dissi di presentare a’ poco instrutti dell’Italica Letteratura. Il Signor Lampillas, cui incresceva di ciò vedere, volle dare ad intendere, che io poteva sì bene spacciare queste cose co’ poco instrutti, ma non con gl’illuminati, e bene informati della nostra Letteratura, tra’ quali conta forse sestesso. Così dopo di aver commesso un manifesto delitto contro la veracità propria dell’uomo onesto, dopo di {p. 19}aver dissimulati, a guisa di un astuto inonesto Curiale, i fatti istorici innegabili, si lusingava il buono Signor Lampillas di uscir dal giudizio impunito con una (perdoni se nomino quì, come diceva Aristofane, zappa la zappa) con una buffoneria, fidando forse nel verso Oraziano,

Solventur risu tabulæ, tu missus abibis.

Ma gl’instruiti sanno che il mio racconto è verace, e autenticato dalle prove, da’ passi degli Autori, e dagli Scritti stessi de’ riferiti Drammatici (che quì non si tratta di Drammi immaginarj come quelli del Vasco Dias, nè delle Mille Tragedie del Malara conservate nella Biblioteca della Luna); e i mal instruiti aveano bisogno di chi glielo dicesse. Di buona fede, se è possibile, Signor Lampillas, mi direste, se, prima di leggere i Libri del Tiraboschi, e del Signorelli, sapevate che avessero mai esistiti al mondo nostro tali Drammatici Italiani del XV. secolo, che inutilmente fingete di non sapere ancora? Nè il Nasarre, nè l’erudito Montiano, nè il Signor Sedano, nè molti altri vostri dotti compatrioti che tralascio, diedero mai mostre di saperli. Io dunque diressi quelle notizie ad instruirne chi non le sapeva; e se Voi con questi altri gl’ignoravate, rimanete incluso nella lista de’ poco instruiti, che se poi ad arte fingete di esserlo tradite l’onestà. O bere, o affogare, Signor Lampillas, dicono gl’Italiani: o passar per non instruito, o confessar la mala fede. Scelta dolorosa tra il pugnale, e la pistola!

{p. 20}

ARTICOLO IV.
Numero delle Tragedie Spagnuole de’ Secoli XVI., e XVII. §

L’Inesorabile Apologista vieta fin anco l’esercizio della compassione, l’affetto più proprio dell’umanità. Sono compatibili, io diceva, gli Stranieri, i quali asseriscono non aver la Spagna consciuta la Tragedia ne’ due trascorsi secoli. Infatti non recitandosi nè essendo ovvie le poche Tragedie Spagnuole per la loro rarità, donde potevano essi argomentare che nella Penisola si conoscesse tal genere di Poesia? Financo l’Avvocato Linguet benemerito del Teatro Spagnuolo sebbene avesse letti i due lunghi Discorsi del Signor Montiano, si accorda con M. Du Perron in affermare, che gli Spagnuoli non conoscono la Tragedia. Forse io solo tra gli Stranieri ho cercato con diligenza rinnovare di tali poche Tragedie la memoria: e questa cura, che non può al certo nascere da un animo avverso e invidioso delle glorie letterarie della Spagna, non mi ha salvato da’ morsi Lampigliani per quel poco di compassione da me mostrata. Nò non sono scusabili gli Stranieri, grida il rigido Apologista. Ed aggiugne questo argomento (p. 70.) “Se dovesie adottarsi questa ragione, sarebbe compatibile chi avanzasse, che gl’Italiani non conobbero la Tragedia nel secolo XVI., poichè poche sono le ben regolate Tragedie Italiane in confronto delle tante migliaja di {p. 21}componimenti teatrali”. Siano, o non siano scusabili gli Stranieri, quì intanto nelle parole ririferite stà a disagio la Storia, e la Logica. Inprima non sono tante le migliaja de’ nostri Drammi: ed è pregio della meritamente lodata Nazione Spagnola il contarne dodici, e quindici e ventimila. In secondo luogo dal risorgimento delle Lettere gl’Italiani hanno sempre recitate Tragedie, Commedie, Pastorali, e Drammi Musicali, di sorte che i forestieri vedendo sulla Scena incessantemente tutti questi generi, non potevano essere cotanto irragionevoli e ingiusti che volessero non vedere quello che pur vedeano, e doveano confessare che tutte le accennate specie di Poesie Drammatiche fossero ben note agl’Italiani. Il raziocinio poi dell’Apologista non può reggere, primieramente, perchè un Popolo che reciti Tragedie non molto buone, si dirà che coltivi male questo genere, ma non già che non abbia Tragedie. Di poi non regge il di lui ragionare, perchè baratta sotto gli occhi i termini della quistione. Non si discute quì il merito delle Tragedie Spagnuole o Italiane, bensì il numero; e il Lampillas dice delle nostre, son poche le ben regolate; è risposta data a proposito? Io dico: Voi avete poche Tragedie (regolate o sregolate che siano); ed egli replica: Voi ne avete poche ben regolate. Non sono queste due quistioni distinte? Trattiamo ora quella del numero; serbiamo per un’ altra volta quella del merito.

Il numero delle Tragedie Spagnuole del secolo XVI. con tutta la mia diligenza fatta ultimamente, non oltrepassa quello di quindici o sedici, inchiudendovi {p. 22}però anche le non regolate1. Sono, vale a dire, forse una per ogni migliajo di altri Drammi. Di più non se ne rappresenta pur una, e per leggerle conviene stentare a trovarle. Gli amatori delle glorie letterarie della Spagna, lasciando da parte le inutili apologie, potrebbero togliere ogni pretesto agli Stranieri col formare delle loro Tragedie de’ due passati secoli una Raccolta. {p. 23}Renduta questa pubblica per le stampe, non sarebbero mai più compatibili gli Stranieri che asserissero che la Spagna non conosce la Tragedia. Non consiglierei però al Signor Apologista a far paragone del numero delle Tragedie Spagnuole con {p. 24}quello delle Italiane. Sono più di cinquanta i Letterati di nome che hanno composte Tragedie in Italia. Io penso che esse ascendano a un centinajo e mezzo; e che se si comparino quelle delle due nazioni, si troverà, che le Spagnuole stanno alle Italiane a un di presso come il 2. sta al 18. Mal fondatamente dunque il Signor Lampillas trasporta la ragione da me addotta per compatire gli Stranieri, alla nazione Italiana.

Inopportuno e falso è parimente l’argomento preso dallo scarso numero di eccellenti Epici Italiani, i quali egli riduce a due. Il numero de’ nostri buoni Epici trascende forse del doppio quello delle Tragedie Spagnuole, come potrebbe l’Apologista osservare, scorrendo meglio che non ha fatto la nostra Storia Letteraria. E benchè gl’Italiani non potessero vantarsi che di due soli, ma eccellenti, con poco senno da ciò si argomenterebbe che essi non hanno conosciuta l’Epica Poesia. L’orgoglio de’ Letterati non vuol trovare in tutta la Grecia se non un solo Epico eccellente in Omero, e in tutto l’Imperio Romano solo un altro in Virgilio; e per questo si potrebbe asserire sobriamente che tutti i Greci e i Latini non hanno conosciuta l’Epopea? Queste vostre, Signor Lampillas, sono ragioni, o arzigogoli? Nè crediate che sia la stessa cosa riguardo alle Tragedie Spagnuole. E in che (direte) stà la differenza? In questo che soggiungo. Le Tragedie Spagnuole, siano regolate o difettose, unendo quelle de’ due secoli trascorsi, non parmi che arrivino alle due dozzine, e in esse tutta si contiene la tragica mercatanzia, nè fuori di queste altre ne additano gli {p. 25}Eruditi nazionali che non si allucinano. Al contrario uscendo da Omero, Virgilio, Ariosto, e Tasso reputati per Epici impareggiabili, se ne troverà un buon numero in Grecia e in Italia di altri, che se non pervennero ad uguagliare la gloria di quelle due gran coppie, meritano pure che si leggano, si studiino, e che la loro memoria passi a’ più lontani posteri. Ed ecco, Signor D. Saverio, come e perchè poco acconciamente par che siate riuscito a ritorcere nell’avversario la ragione allegata nella Storia de’ Teatri1.

ARTICOLO V.
Sulle due Sofonisbe Italiane, e su due Traduzioni dal Greco di Fernan Perez de Oliva. §

La prima Sofonisba è quella del Carretto, la quale dagli Scrittori Spagnuoli, che ignorano {p. 26}le Tragedie Italiane del XIV., e XV. secolo stimandosi decisiva circa l’anterioriorità della Tragedia a favor dell’Italia, è stata più volte combattuta. Il Compilatore del Parnasso Spagnuolo, per far luogo alle ideali Tragedie di Vasco Diaz, volle disbrigarsene dandole il titolo di Dialogo allegorico. Il Signor Lampillas non potendo non comprendere la forza, onde mostrammo l’insussistenza del discorso di quell’Erudito così riguardo alla Tragedia del Carretto, come riguardo al Vasco, ci vuole almeno rimproverare che tale Tragedia non doveva chiamarsi, come noi facemmo, regolare e scritta con arte. E sì io confesso ch’essa ha molti difetti; ma per trovarsene moltissimi ne’ migliori Tragici Spagnuoli, cioè nel Bermudez, nel Cueva, nel Virues, nell’Argensola, lascia forse il Signor Lampillas di chiamarli eccellenti?

Quì però nè anche si tratta di perfezione, ma di anteriorità nel genere; or questa come può negarsi alla Tragedia del Carretto, perchè la divise in molti Atti, ed incorse in qualche irregolarità? Essa è senza dubbio Tragedia, e non Dialogo allegorico, ed è anteriore alle vane pretenzioni fondate sul Vasco, o su qualche altra produzione posteriore. Insta il Signor Lampillas, piena la mano di alcune autorità Italiane contro di essa, cioè dell’Ingegnieri, del Quadrio, e del Maffei. Io lascio di discutere l’opinione dell’Ingegnieri, perchè non si oppone alla mia; che sebbene egli dica che era stravagante, non però nega che fosse Tragedia. Lascio anche il Quadrio, che talvolta esagera, ma che nè anche nega nè afferma, che fosse Tragedia. Vengo all’eruditissimo Signor Marchese Maffei, {p. 27}il quale rimuove il Carretto dal numero de’ Poeti Tragici. Mi permetterà il Signor D. Saverio, che io anteponga la ragione all’autorità. Un Dramma fa distinguere il suo genere dall’Azione, da’ Caratteri, e dalle Passioni, come dalla divisa si conosce a qual Regimento appartenga un Soldato. Chi volesse decidere del di lui Regimento dalle follie o da’ vizj di tal Soldato, mal si apporrebbe. E che hanno a fare gli errori del Poeta, il meccanismo della versificazione da lui scelta, la divisione inusitata degli Atti, colle note caratteristiche del genere? Questo è compiacersi del proprio inganno. L’Azione di questa Sofonisba è grande, è eroica, come la richiede Teofrasto: i Caratteri sono gravi e tragici, secondochè consiglia Aristotile: le Passioni forti, perturbate, superiori alla mediocrità, come si pretendono nella Tragedia da tutti gl’Intelligenti: non havvi mescolanza veruna di tragico col comico, come si trova almeno in sei o sette delle quindici Tragedie Spagnuole. Tutto ciò non dà a questa favola la giusta denominazione di Tragedia? La mente adunque del Maffei non fu di escludere contro alla evidenza la Sofonisba dalla classe delle Tragedie, bensì il Poeta dal numero de’ buoni Tragici. E dice forse altra cosa il ch. Tiraboschi? Egli1 asserisce soltanto che la moltiplicità degli Atti, il metro dell’Ottava rima, e altri capricci dell’Autore in essa introdotti, non permisero a questa Sofonisba di salire in gran pregio. E questo significa forse che non è Tragedia?

{p. 28}

Anche quì mostra l’Apologista il suo rincrescimento perchè ripetei di passaggio, che prima assai di questa Tragedia gl’Italiani ne aveano avute più altre; ma non mi trattengo a disingannarlo, bastando a ciò l’Articolo precedente. Intanto per non rendersi si va lusingando di poter ajutarsi col Varchi e con Giraldi Cintio, che dissero essere il Trissino stato il primo a scrivere in nostra lingua una Tragedia degna di sì gran nome. Ma se avesse scorsi i passi di questi Letterati meno alla sfuggita, avrebbe osservato che essi dicono che il Vicentino fu il primo a scrivere una degna Tragedia in questa lingua, cioè in idioma Italiano. Nè poteva dire altrimenti chi non ignorava che nell’altro secolo se n’erano composte in Latino. E che? Forse per essere Latine perdettero il dritto di essere Tragedie? perdettero l’altro della Cittadinanza Italiana? Non appartennero a’ Latini le Tragedie di Tito Vespasiano, e la Commedia di Claudio, perchè composte in Greco?

L’altra Sofonisba è quella di Gian Giorgio Trissino, della quale si contrasta il tempo della rappresentazione, il merito tragico, e il pregio dell’invenzione. Quanto al tempo, dice l’Apologista, che secondo Gregorio Giraldi, essa fu terminata di scrivere verso la fine del 1515. Una domanda Signor Lampillas. In quale edizione del Giraldi avete ciò letto? Nel Giraldi della Biblioteca di S. Angelo a Nido in Napoli, e nella Reale di Madrid, trovo soltanto, che mentre Ariosto era per dare alla luce il Furioso, nè avea ancora prodotto le sue belle Satire, ma solo alcuna Commedia che fu intorno al 1498., il Trissino (dice il Giraldi) habet Sophonisbam {p. 29}Tragædiam in manus, cujus quosdam actus nonnumquam ille recitat.1 Con ciò si afferma forse che egli terminò di scriverla verso il 1515., come Voi fate dire al Giraldi? Se l’avete letto voi stesso, vi prego a rileggero a miglior lume, e non alla sfuggita: se qualche coadjutore vi somministrò tal notizia, ditegli per un’ altra volta che vene trasmetta delle più accurate. Di grazia Signor Abate, non vogliate rassettare a vostro modo i libri composti più di due secoli e mezzo prima di Voi. Circa il luogo dove si rappresentò la Sofonisba, si trova nelle Opere del celebre Filosofo, e Letterato l’Ab. Antonio Conti Nobil Veneto, che in Vicenza, e in Roma furono cantati i Cori della Sofonisba, ciò che ci addita le due rappresentazioni. Non disconvengono i Francesi; e M. de Voltaire in un passo da me recato nell’aumentar la Storia de’ Teatri, narra la magnifica rappresentazione fattasene in Vicenza nel 1514. [vale a dire, secondo il Signor Lampillas, un anno prima che fosse terminata di scriversi]. Inoltre è chiaro che, ad insinuazione del Trissino suo sviscerato amico, il Rucellai compose la Rosmunda, che ognun sa che fu posteriore alla Sofonisba; or la Tragedia del Rucellai si recitò in Firenze nel 1516.; quella dunque del Trissino che la precedè, fu recitata prima del 1516., come io dissi. Vero è che il Zeno nelle Note al Fontanini dice che la Rosmunda si rappresentò nel 1517.; il Voltaire però che porta la rappresentazione della Sofonisba in Vicenza, al 1514., dice così di {p. 30}quella della Rosmunda: “Deux ans aprés le Pape Leon X. fit répresenter à Florence la Rosmunda de Rucellai avec une magnificence très-superieure à celle de Vicence. L’Italie fût partagée entre le Rucellai & le Trissino”. Sempre adunque la Sofonisba si rappresentò due anni prima della Rosmunda. Siasi poi, o no, rappresentata in Roma, è una cosa fuori della presente questione col Signor D. Saverio. Importa solo il sapere che due anni prima del 1516., come vuole il Voltaire, o del 1517. come risulta dall’osservazione del Zeno, la Sofonisba si rappresentò nella Patria dell’Autore. Vediamo ora ciò che dice l’Apologista sul merito di questa Tragedia.

Egli veramente da se nulla ne dice, ma la stima di poco pregio appoggiandosi all’autorità di Messer Benedetto Varchi. Quando l’Apologista fida sul di lui giudizio, avrà certamente scoperti in lui requisiti, che il rendano giudice competente delle altrui Tragedie; ed io gliene saprei grado, se me gli additasse. Imperocchè, quanto a me, i di lui giudizj sulle cose Drammatiche non sembranmi i più sicuri; ed eccone qualche ragione che ne assegno. Il Varchi preferì le Favole del Ruzzante alle Atellane. Ma di queste avea egli una chiara idea, qual debbe aversi nel comparar due cose? poteva egli averla? Io trovo sulle Atellane così contrarie opinioni negli Scrittori, che non saprei determinarmi a diffinirle, se non col prendere il partito accennato nella Storia de’ Teatri, cioè assegnando loro due epoche, o sia riconoscendo in esse un’ alterazione successiva, che di sobrie, gravi, e degne di essere privilegiate, le converse in leggiere, {p. 31}oscene, e licenziose. Or non essendo sicuri della loro specie, come poteva il Varchi compaparle con le favole del Ruzzante? come posporle a queste? In oltre il Varchi parla dell’Antigona di Luigi Alamanni, e dice che anzi che Tragedia debba dirsi traduzione dell’Antigona di Euripide. So che Euripide per certi versi de’ suoi frammenti ci fa chiari che avesse anch’egli, come Sofocle scritta un’ Antigona. Ma non so come l’Alamanni poteva tradurre una Tragedia Greca per noi perduta forse da due mila anni. A queste osservazioni che ci dimostrano, che il Varchi, benchè avesse scritta qualche Commedia, non si curò di applicarsi gran fatto sulla Poesia Drammatica, aggiungasi l’animosità del Varchi contro del Trissino. E se il Signor Lampillas volesse saperne anche la sorgente, rifletta e alla traduzione fatta dal Trissino del Libro di Dante De Vulgari Eloquentia scoperto dal Corbinelli, la quale amareggiò non poco col Varchi tutti i Fiorentini, e all’avere sempre il Trissino sostenuto che il Dialetto Fiorentino non dovea considerarsi come lingua generale Italiana. Or quando l’erudizione antica, specialmente Tragica, fosse stato uno de’ meriti principali del Varchi, debbe il giudizio di un nemico prevalere a quello degl’indifferenti? a quello de’ contemporanei e de’ posteri? a quello de’ buoni Francesi? a quello di M. de Voltaire Tragico insigne? “Essa è nobile (egli dice), è regolare, e scritta puramente. Havvi de’ Cori, e vi respira in tutto il gusto dell’Antichità. Altro non si può rinfacciare al Trissino, che qualche declamazione, qualche difetto nel viluppo, e qualche languidezza, che però {p. 32}erano anche i difetti de’ Greci. Ei gl’imitò troppo nelle loro debolezze, ma pervenne parimente ad ornarsi di alcune loro bellezze.” Ma tacciano le autorità, e mi dica il Signor Lampillas, se dee valere il giudizio del Varchi contro l’umana sensibilità? se i posteri debbano convertirsi in macchine, e non contraddire a questo Scrittor Fiorentino? Forse più di un moderno Leggitore si tedierà in certe scene della Sofonisba; ma chi non vi troverà molti pregi? Così appunto pensa di essa il Cavalier Tiraboschi, benchè l’Apologista il citi a suo favore, e in confermamento del giudizio del Varchi, di che più di uno si maraviglierà. Lo Storico adunque della nostra Letteratura riconosce nella Sofonisba de’ difetti1, come la poca gravità dello stile: ma vi scorge ancora molti pregi. Tra questi possiamo notare quel patetico accennato da me nella scena del veleno e di Sofonisba moribonda, che forma un quadro degno di Euripide. E se il Signor Lampillas si prendesse il travaglio di leggere questa parte di quel Dramma, presumendolo dotato di cuore sensibile, son certo che in questo ci accorderemmo; nè mi condannerebbe per aver io dubitato che qualche Oltramontano avvezzo alla gonfiezza sdegnerebbe forse quella naturale, viva, patetica dipintura. E molto meno seguiterebbe a cercar di deprimere la Sofonisba col criticare la scena che siegue alla morte di questa Regina, allorchè viene Masinissa, la quale scena all’ {p. 33}Apologista sembra freddissima. Quando anche ciò fosse, che perderebbe la scena da me lodata? Se in un quadro si osservi una figura egregiamente disegnata, espressa, e colorita, non mai essa perderà il suo merito, perchè in un altro lato se ne noti un’ altra non così finita e perfetta. Che se poi il Signor Abate sia pur fermo nella determinazione di sconfiggermi, il modo più proprio di conseguirlo si è mostrare a dirittura la mia mala scelta, il mio mal gusto nella citata scena, palesandone la mancanza di verità e di patetico. Ma il Signor Lampillas non potendo riuscire in una quistione salta in un’ altra; fugge dallo steccato, e poi minaccia in altra parte. Don Chisciotte nol farebbe per non trasgredire le regole Cavalleresche, dovesse anche farsi accoppare da qualche Biscaglino.

Vuol finalmente l’Apologista (p. 87.) togliere al Trissino anche il merito dell’invenzione per una ragione tutta sua: “Non può pretenderla poichè trovò in Tito-Livio e l’argomento e il piano della sua Tragedia”. Or chi l’avrebbe pensato? Quando la maggior parte de’ Critici intelligenti ingiunge che si evitino gli argomenti finti (ad onta di varie ottime Tragedie di fatti ideati, come il Torrismondo, l’Alzira &c.), e che si cavino dalla Storia, dalla Mitologia antica, e da’ Poemi Epici moderni ancora, di maniera che quasi più difficoltoso pare che sia il rinvenire un fatto Eroico proprio della Tragedia, che il tesserne la favola e il ben verseggiarla: il Signor Lampillas ardisce in faccia all’odierna Europa riprovar questo appunto che s’inculca, e attribuire a difetto d’invenzione nel Trissino l’aver tratta da Livio l’avventura {p. 34}di Sofonisba! Adunque addio Eraclidi di Euripide, poichè l’argomento, il piano, il nodo, lo scioglimento, la morte di Macaria, la protezione di essi presa dagli Ateniesi contro di Euristeo, è una storia delle antichità Attiche, che si legge nel I. Libro di Pausania: addio antica Alope di Cherilo, addio famose Ifigenie di Euripide: addio Medee, Ajaci, Ecube, poichè tutte le loro storie trovansi conservate con bronzi, con marmi, con legni, e con pitture nelle rispettive Patrie, e poi ripetute da’ Poeti antichissimi, onde i Tragici trassero gli argomenti delle favole che ne idearono, di che vedasi il citato Pausania: addio insomma diremo a tutte le Tragedie Greche, Latine, Italiane, Francesi, Inglesi, Spagnuole, e Alemanne. Esse tutte senza eccezione, secondo la Critica di ultima moda del Signor Lampillas, mancano d’invenzione, per essere stati prima narrati i loro argomenti dagl’Istorici e da’ Mitologi. Strana cosa che un Apologista sì acuto non vedesse ove il menava un argomento che provaesorbitantemente? Ma venghiamo alle due Favole tratte dal Greco e scritte in prosa dal Maestro Fernan Perez de Oliva, le quali l’Apologista vorrebbe strascinare al tempo che si compose la Tragedia del Trissino.

Secondo le date messe in campo dal Lampillas, il Perez di anni 18., o 19. venne da un suo zio chiamato in Roma, e vi dimorò tre anni. Morto questo zio, andò a Parigi, ove si trattenne altri tre anni col suo Maestro Siliceo. Da queste epoche ricava l’Apologista, che il Perez soggiornasse in Italia dal 1514. sino a’ principj del 1517. Ciò posto soggiugne [p. 79.]: “Ora avendo egli {p. 35}composte le sue Tragedie nel tempo in cui dimorò in Italia, dovettero esse comporsi nel 1515., o 1516.” Bel bello, Signor mio, che Voi fate certi salti più prodigiosi di quello di Alvarado nel Messico. Dite, ora avendo egli composte le sue Tragedie in Italia: E quando Voi, o i vostri nazionali, avete provato che in Italia le componesse? Costa ciò, o non costa? Se costa, perchè non ne adducete i documenti che possono a dirittura dirimere la quistione? Se non costa, a che darlo per certo? a che affastellar cose di niun momento? S’io non m’inganno, niuno degli Scrittori nazionali sognò mai di asserire simil cosa, cominciando da Ambrogio Morales che pubblicò le Scritture di quel suo zio. Don Nicolas Antonio afferma soltanto che tali scritture autografe si trovarono morto il Perez, e il Morales le raccolse, e fece imprimere nel 1585. Il Montiano che fu assai diligente altro non dice nel I. Discorso se non che “sono così antiche le Tragedie in Ispagna, che prima dell’anno 1533.” se ne aveano due ben distinte del Maestro Perez. Questo prima del 1533. è ben diverso dal 1516. affermato positivamente dal Signor Lampillas; nè poi a verun patto dice il Montiano che si componessero in Italia. Il Signor D. Giuseppe Lopez de Sedano dice, come il Montiano, che le scrivesse prima del 1533., ma non già che ciò avvenisse in Italia: “Costando (egli dice) che le compose prima del 1533., e trovandosi fuori di Spagna, e per esercitarsi nel nativo idioma, non v’ha ragione che ripugni a credere che ciò potè essere [pudo ser] verso il 1520.” Nè anche però vi è ragione, che ripugni a credere {p. 36}che le componesse in Ispagna; e così rimangono in uguale incertezza entrambe le congetture. Solo il Signor Lampillas più franco e coraggioso dà per sicuro che le componesse in Italia, appena lasciate le scuole di Spagna. Egli è forse permesso agli Apologisti il recare per pruova quello appunto che si contrasta? E perchè non additare a’ leggitori il fondamento della sua credenza? Ma qual fondamento sperarne, se di quel Valent’uomo ignorano i nazionali fin anco il tempo in cui nacque! Essi si combattono: il Signor Sedano presume che il Perez potesse nascere verso il 1497. il Signor Lampillas, il quale, pel suo intento, ha bisogno di alcun anno di più, risale sino al 1494., o 1495. Non vi è altro di certo se non che s’ignora, del pari della nascita, il tempo e il luogo, in cui il Perez compose le sue Tragedie, e che restarono sconosciute a tutto il Mondo; nè s’impressero, nè mai si rappresentarono, e giacquero sepolte per più di mezzo secolo. Or che tanto arzigogolare per approssimarle a quella del Trissino? Qual prò dalle sofisticherie, dove sono contrarj i fatti?

“Che giova ne le fata dar di cozzo?”

Furono le Tragedie del Perez la Venganza de Agamenon, che è l’Elettra di Sofocle, e l’Hecuba triste, che è l’Ecuba di Euripide. Osarono il Sedano e il Signorelli chiamarle Traduzioni, e il Lampillas che pur le avea egli stesso così chiamate in un altro Volume del Saggio1, e che pure nega al Trissino l’invenzione per aver preso l’argomento della sua Tragedia da Livio, si stizza, {p. 37}s’imbizzarrisce poi perchè si chiamino Traduzioni due favole Greche travestite, raccorciate, e scritte in prosa Castigliana. Questo è scherzare, o parlar di Letteratura? L’argomento, il piano, gli eventi, l’orditura, il nodo, lo scioglimento, tutto insomma appartiene agli originali Greci. La maggior parte delle scene vien tradotta quando da verbo a verbo, quando con giunte, variazioni, o troncamenti, quando posponendo, o anteponendo, qualche scena, o tutta, o in parte. E questo non è tradurre? Non sarà mia la Biblioteca, se Voi veniste in mia Casa, e sconvolgeste l’ordine de’ miei Libri? Ma felice il Perez se invece di scorciare, alterare, e rattoppare, come ha fatto l’Elettra del Greco Maestro, l’avesse con più fedeltà seguita! Quanto a’ personaggi egli ha conservati ancora quelli degli originali, coll’importante variazione, che nella prima ha dato ad Oreste Pilade per compagno, che rimane un personaggio insulso, inutile, e per cui l’idea dell’eroica fortezza di Oreste viene diminuita. Nella seconda ritiene parimente i personaggi dell’Ecuba Greca, eccettuandone Taltibio. Ha ritenuta in questa anche il titolo di Ecuba aggiugnendovi triste. Ed in ciò vede il Lampillas una delle prove convincenti per dimostrarla lontana dall’Originale. Pruova apologetica sottilissima! quasi che potesse darsi un protagonista Tragico allegro e festevole. Un altro vantaggio ha prodotto ancora quel triste annessovi con tanta felicità. Per esso ha rimediato (dice il Signor Lampillas) “in parte alla moltiplicità delle azioni che si trovano nell’originale Greco, unendole tutte sotto un giusto titolo”. Or chi {p. 38}avrebbe creduta tanta virtù occulta in quell’aggiunto triste? Avete ragione, Signor Lampillas; la difficoltà di rimediare alle cose consiste in inventare o incontrare un vocabolo felice. Spiacemi intanto che di sì felice osservazione non vi si debba la gloria intera, e converrà che vi contentiate di dividerla col Signor Sedano, che ve l’ha suggerita. Ma a Voi tanta parte ne rimane, che potete riceverne le congratulazioni. Perdonate però se interrompo un’ estasi così bella con rappresentarvi che le azioni dell’Ecuba Greca non sono già molte, come Voi dite, senza forse ricordarvi della favola di Euripide, ma due, cioè la morte di Polissena, e la vendetta presa da Ecuba di Polimestore; che la morte di Polidoro è seguita prima dell’azione della Tragedia. E queste due azioni, a dispetto della virtù talismanica infusa dall’Apologista nella parola triste, sono ancor due nella traduzione del Perez. E che ci volete fare, Signor Lampillas? Lasciate correre: già sapete in qual mondo oggi siamo: vi sono alcuni saputelli, che vogliono saper più de’ Saccentoni, nè si accomodano più a certa Filosofia di un tempo, in cui le voci bastavano a dar corpo alle ombre.

Quanto alla locuzione certamente il Perez merita ogni lode per la purezza, eleganza, e naturalezza, con cui spiega i suoi concetti. Ma lo stile talora si abbassa, e più di una fiata vi si desidera la tragica gravità degli originali. Si vorrebbe talvolta in qualche pasio che il Perez si fosse più attaccato all’originale (perchè sempre è meglio tradurre che peggiorare). Infatti nella Scena di Elettra col Coro l’espressioni del Perez sono contrarie {p. 39}al semplice vago linguaggio della passione. Dice Elettra. “Principalmente que yo os ruego me digais què lluvia pensais que tengo yo en mi cuerpo, donde se consumiesen tantas lagrimas como vierten mis ojos” . . . Chi si va lagnando abbattuto da gravi calamità fa di siffatte richieste? va cercando che altri gli dica che gran piova serbi nel proprio corpo per versar tante lagrime? “Què capacidad es la demi pecho para detener en èl la muchedumbre de mis gemidos, que salidos fuera no caben en los ayres?” . . . Oltre al non esservi natura in questo modo di esprimersi sulla scena, scorgesi in tal sentenza una falsità più propria del secolo XVII., dando corpo a’ gemiti e asserendo che non possono capire nell’atmosfera. “Habed yo os ruego de mi compassion: no querais atapar con vuestros consejos los respiraderos de las hornazas de fuego que dentro me atormentan”. Vi par questo linguaggio scenico? I ventilatoj delle fornaci che ha nel corpo, non vuole che se le turino co i consigli? I consigli convertiti in turacciuoli? Queste metafore, quando anche fossero ben concepite, continuate con troppa cura e corrispondenza ricercata, sono il veleno del patetico, disdicevoli al genere Drammatico. Con qual altra proprietà ed energia di passione, parla l’Elettra Greca in questo medesimo luogo! Due soli versetti producono quell’effetto che si distrugge cogli accennati consigli, ventilatoj, gemiti che riempiono tutta l’estensione dell’atmosfera.

ἐατεμ᾿ ῶδ᾿ ἀλύειν
ἀί ἀί ἰκνοῦμαι

Ahi di me! lasciatemi quì, ve ne supplico, a trattenermi {p. 40}colle mie tribolazioni1. Queste sono le variazioni fatte dal Perez nell’originale Greco, per le quali combatte l’Apologista. Aggiugnerò solo un altro esempio della seconda Traduzione. Il nobilissimo carattere di Polissena, che sin dalle prime parole traluce in Euripide, non apparisce nel di lei dialogo con Ecuba alla presenza di Ulisse, nella maniera che stà espresso nella copia:

“Pol.

Què es esto, Madre, que lloras con tan tristes gemidos? què quieren estos hombres armados?

“Hec.

Vienen, hija, por ti. Oh hija triste, à que talamo te han de llebar!

“Pol.

Como, di, Madre, entre tantas desventuras nuestras me quieren casar?

“Hec.

Si, hija Policena, adonde nunca me veas!

“Pol.

El Esposo quien es? adonde està?

“Hec.

Està con los muertos.

“Pol.

Ahi, Madre mia, con hombre muerto me quieren casar?”

Ora in tal dialogo si riconosce più la Polissena Greca saggia in quanto dice, magnanima ancor morendo? Non pare convertita in un’ Agnès, in una sempliciona? Non dovea ella accorgersi dall’aspetto degli astanti, dal dolore inteso, e dalle espressioni della Madre, che non si trattava di nozze? Assai diversamente le fa annunziare l’amara notizia il tragicissimo Euripide nella scena che incomincia, ιὠ μᾶτερ μᾶτερ τι βοᾶς. Ecco come io informemente tradurrei questo breve squarcio seguendo esattamente l’originale.

{p. 41}

“Pol.

Quai novità? quai gemiti? Quì fuori
Come atterrito augel, Madre volai
Di terror piena. Or che a gridar ti spinse?

“Ec.

Ahi figlia!

“Pol.

Ancor con mesta infausta voce
Mi appelli? ahi qual per me presagio è questo?

“Ec.

Figlia, ahi di te!

“Pol.

Più non tacere. Io temo,
Temo quel pianto, e la cagion ne cerco.

“Ec.

Compiangi, o figlia, un’ infelice Madre.

“Pol.

Deh perchè mai?

“Ec.

Te delle schiere Argive,
Di Achille in sulla tomba, il comun voto
Oggi a morir destina.”

Altri passi potrei aggiugnere, ne’ quali il Traduttore, per appartarsi dall’Originale, ha nociuto o alla naturalezza, o al patetico, o alla maestà che in quello si ammira. E quante bellezze non ha egli perdute nel lasciarne i bellissimi Cori? Ma io non vò portare oltre questo esame, e dirò colle parole di Torquato:

“Nessuna a me col busto esangue e muto
“Riman più guerra.”

Riguardo poi all’esser queste favole del Perez composte in prosa, se vuole il Signor Lampillas patrocinare la prosa nelle Tragedie, è padrone del suo ozio e della sua penna. Chacun a son gout. Per me la rifiuterò costantemente co i migliori delle migliori Nazioni. Oggi in Italia una Tragedia Reale scritta in prosa, sarebbe un delirio. Non abbiamo se non l’eloquente Ceruti, che volle provarsi ad animare una Tragedia con una prosa armonica, seguendo le idee di M. Diderot; ma qual {p. 42}compagno potremo dargli? In Francia sarebbe certamente fischiata una Tragedia Grande in prosa, fosse anche dettata dall’elegantissimo Racine, o da un Voltaire; nè è di questo luogo addurne le ragioni. Dico però che l’Apologista, nel volere assegnare alcuna di quelle sue convincenti ragioni a favore della prosa nelle Tragedie, cavalca a disdosso, dicendo [p. 83.], che si veggono applaudite tante Commedie scritte in prosa. Egli crederà che in tutte la cose si combacino questi due generi, o che essi siano un solo genere eterogeneo, come furono nelle mani di Lope e Calderon. Io non dubito del gusto dell’Apologista in Poesia, avendone egli dato pruove e co’ suoi Sonetti e colle sue Critiche; ma mi perdonerà se intorno all’ammettere la prosa nelle Tragedie, io da lui disconvenga.

ARTICOLO VI.
Tragici Spagnuoli, secondo il Signor Lampillas, negletti, o censurati a torto dal Signorelli. §

I.
GIOVANNI MALARA. §

Il primo Tragico Spagnuolo, per cui si lamenta il Signor Apologista che io non l’abbia mentovato, è l’Andaluzzo Giovanni Malara Scrittore del XVI. Di costui non si è conservata cosa veruna teatrale; ma si vuole che ne avesse scritte a migliaja rappresentate verso il 1579.; di maniera {p. 43}che al Malara più giustamente converrebbe lo stupore de’ Posteri tributato alla fecondità di Lope. In un Discorso in versi di Giovanni della Cueva, intitolato Esame poetico, si dice che il Malara compose mille Tragedie. Or chi gli terrà dietro, fosse anche un Lope?

Ma furono mille? furono Tragedie? furono degne di tal nome? Circa il numero confessa il Signor Secano, la exageracion1; e il Signor Lampillas, fedele seguace del nominato Autore, parimente conviene in dire, che il Cueva, l’Esaminatore poetico, esagerò. Ed in vero egli dovè tanto esagerare, che giammai fiato fanciullesco non ingrossò gocciola di acqua con sapone in una palla piu enorme e mostruosa; nè immaginazione d’infermo convertì una mela, in una testa più gigante ca e colossale. Egli esagerò per tal modo che le Mille non resteranno neppure cinquecento, neppure trecento, neppure cento, nè cinquanta, nè dieci, nè due. Il Malara più ingenuo dell’Esaminatore ci ha conservata memoria di Una sola sua Tragedia intitolata Absalon2. Così uno per miracolo operato da un Esaminatore che ti voglia favorire, e di un buono Apologista che ti sostenga, può arricchirti di un Migliajo.

Diasi non per tanto che, oltre all’Absalon, il {p. 44}Malara scrivesse altre Favole, può assicurarsi che fossero Tragedie? Egli che nominò il suo Absalon, non avrebbe fatta menzione ancor passaggiera delle altre? Il solo Esaminatore parla delle mille Tragedie, ma se ne hanno altre pruove? v’è qualche altro testimonio che l’appoggi? Mi perdoni il Signor Lampillas questa mia discredenza. Ma di un Esaminatore così iperbolico, e sospetto, anzi convinto di falsità nel numero, chi si può fidare circa il genere? La di lui medesima incostanza nelle lodi che dà al Malara piuttosto ci conduce a ravvisare in lui uno de’ tanti Drammatografi di quel tempo, che forse si attenne al sentiero calcato da’ compatrioti. E quale esaminatore giudizioso, dopo mille Tragedie composte da questo Andaluzzo, l’avrebbe decorato del titolo di Menandro Betico? E pure il Cueva di questo si vale per encomiare il Malara. Andate poi a sudare per comporre mille Tragedie, per non riportarne infine altro titolo che di Comico! Io credo, Signor Lampillas, che potremo per lo meglio affermare, che le favole del Malara fossero state Tragedie, come le sei del Vega. Vorreste replicare, che poteva aver fatte anche Commedie, e meritar questo titolo? Sì; ma per cancellare la memoria di Mille Tragedie ci voleano almeno due mila Commedie incomparabilmente più eccellenti.

Ora se le mille Tragedie non bastarono ad acquistare al Malara nome di Sofocle Betico, che dovè contentarsi di quello di Menandro, non sarà malignità e invidia forestiera il dubitare del loro merito. L’Esaminatore stesso ci dà a ciò motivo col confessare, che le pretese Tragedie non furono {p. 45}scritte secondo il metodo degli Antichi, ma secondo il gusto nazionale. Dall’altra parte il Cueva asserisce (secondo alcuni versi di lui rapportati dal Lampillas in Italiano), che il Malara, guardando obediente l’uso antico nelle Commedie entrò

“. . . . per la stretta via
“Illustrando la Comica Poesia.”

Adunque o le favole del Malara chiamate Tragedie n’ebbero il nome per l’abuso nazionale d’intitolare alla rinfusa le favole sceniche or Tragedie, or Commedie, or Tragicommedie: o esse non meritarono la stima de’ savj per essere state scritte secondo il gusto volgare, e non secondo il metodo degli Antichi.

E se il Malara fu uno Scrittore, che probabilmente si accomodò al gusto generale introdotto nella Penisola, pare al Signor Apologista, che, dove di molti Greci, Latini, Italiani, Spagnuoli, Francesi, de’ quali abbiam pure più fide memorie, ed anche opere, io tralasciai di far menzione, per non potersene, a mio avviso, trarre molto vantaggio per la gioventù, dovessi poi consumare il tempo sulle favole del Malara che non esistono, nè si sa che cosa fossero? Io cedo volentieri questo campo agli Apologisti.

II.
GIOVANNI DE LA CUEVA. §

Non potendo dire il Signor Lampillas che del Cueva io non abbia favellato, almeno si lagna, che io omettessi di narrarne i pregi, quando {p. 46}sulla fede del Signor Montiano ne avea rapportati i difetti. A dirla io non posi studio veruno a ponderare questi difetti diffusamente rilevati da quell’Erudito; e solamente intesi di accennare il modo di comporre del Cueva, che io non avea letto come il confessai, sul testimonio di un nazionale. Perchè però (mi stringe l’Apologista) non ne accennaste anche i pregi coll’istesso testimonio? Ma caro Signor Apologista, poteva io farmi mallevadore dell’analisi compiuta fatta da un Nazionale di quattro Tragedie da me non lette? Ciò qualche volta può farsi senza taccia, secondo le buone regole della Critica: ma quando? quando più testimonj affermano la stessa cosa, e più se essi appartengano a diversi popoli, o sieno dichiarati emuli, o nemici. Ma se un solo testimonio loda un nazionale, è sempre in certo modo sospetto di condiscendenza. Non così quando tal testimonio censura il compatrioto morto due secoli indietro, come il Cueva; perchè se tal testimonio nazionale è intelligente nella materia, come il Montiano, la sua censura conserva un pieno vigore.

Vediamo però in qual maniera il Signor Lampillas risarcisca l’omissione del Signorelli in onore della Letteratura patria. Egli si prende l’immensa laboriosa cura di trascrivere le lodi generali date al Cueva dal Montiano. E quindi tutto asperso di nobile sudore, come se avesse posti alla vista del Pubblico i più bei squarci della Poesia Castigliana, dice trionfando: “Crede il Signorelli che sieno moltissime le Tragedie di quel secolo che possano pregiarsi di altrettanto?” Io credo, Signor Apologista, che non sieno moltissime le ottime {p. 47}Tragedie; e perciò queste medesime parole che Voi degnate onorare incastrandole nel vostro bel Saggio, io indirizzai al P. Lalantè a proposito del Torrismondo. Ma sapete che cosa credo ancora? Che questa domanda quì ripetuta ci stia, come dicesi, a pigione; e che vi abbia del gran tratto dal fare al contraffare. Io del Torrismondo, oltre all’averne rilevati i pregi con parole, addussi alcuni squarci che forse presso gl’Intelligenti giustificano le lodi date a quella Tragedia. Ma quale squarcio avete Voi estratto da quelle del Cueva per farvi dire altrettanto? Volete Voi, a quel che pare, far la guerra sedendo nella Reggia alla maniera de’ Monarchi Assirj? Bisogna sudare, caro Signor Lampillas, e tediarsi colla molesta lettura de’ Drammi de’ secoli andati, per trarne qualche spirito di buona Poesia a beneficio della gioventù, o almeno a vantaggio della vostra causa. Voi avete tanto e tanto zelo per la vostra Nazione, e intanto nulla volete intraprendere, e vi contentate di congetturare, e di copiare gli altrui giudizj. Ma se questi sono erronei, malfondati, dove va allora il vostro saggio? Torniamo al Cueva.

Nella prima di lui Tragedia, Los Siete Infantes de Lara, confessa il Signor Lampillas con penna tremante, che l’Autore si discostò dalle regole degli antichi Maestri . . . . . e fra gli altri cambiamenti tolse un Atto alla Tragedia riducendola a quattro. L’Apologista, che degli altri difetti non sa come discolparlo, tutto si occupa in due pagine in difenderlo dall’ultimo cambiamento, di cui spera ottenere l’assoluzione. Ma di questo chi mai l’accusa? a che dunque consumare in vano la carta? {p. 48}Il tempo de’ rancidumi è passato; anzi sin dal Cinquecento i veri Letterati se ne ridevano. Il famoso Antonio Moreto tra tanti altri, osservò che questa meccanica divisione di Atti e di Scene fu invenzione de’ Gramatici posteriori, e non degli Antichi, e nel risorgimento delle Lettere molti la trascurarono. I Moderni sono avvezzi a vedere Drammi di uno, di due, di tre, di quattro, e di cinque Atti; e sono ben rari coloro che riprendono la Sofonisba del Carretto per la divisione degli Atti. Sono però gelosi i Moderni di quei precetti Drammatici che costituiscono l’essenza dell’ottimo componimento scritto secondo i dettati della verisimiglianza. Vadano adunque le favole del Cueva in quattro atti como pies de niños, secondo il motto di Lope sulle antiche Commedie; e niuno certamente per questo gli moverà lite. Il male è che Montiano taccia questa prima Tragedia come difettosa, slogata, irregolare, contro le quali imputazioni tutte le belle parole generali dell’Erudito Signor Francesco Zannotti, e del Conte Algarotti, e l’eloquenza Tulliana stessa non mai la scagioneranno. E perchè dunque (ripiglia il Signor Apologista) riprendete tai difetti Voi che asierite che ci è maggior lode in trov e le bellezze di un componimento? perchè ad esse non vi atteneste in questa Tragedia? Torno a replicarvi che dovevate leggere nel mio Libro, che io non avea avuto sotto gli occhi le favole del Cueva. Ma per quella mia osservazione vorreste forse assolvere i componimenti spropositati? credereste perciò imporre silenzio agli osservatori, affinchè non rivelino le infermità occulte de’ corpi Drammatici? Quella osservazione {p. 49}che altri ancora ha fatta, tende a tutt’altro che a provvedere di salvo condotto l’imperizia.

La inverisimiglianza dell’Ajace seconda Tragedia, viene difesa dal Signor Lampillas coll’esempio del Prometeo di Eschilo e degli altri Greci, che introducono Numi ed Esseri allegorici personificati, nella quale apologia si commettono due gravi falli. Il primo è che egli non ha riflettuto, che tra un Poeta Cristiano e i Tragici Gentili in sì fatte cose non corre uguaglianza veruna; perchè se questi introducevano i loro Numi sulla Scena, ciò facevano per essere essa fondata sulla Religione, pel qual motivo nelle loro utili e necessarie Apologie si scagliarono contro gli spettacoli Scenici i Tertulliani, gli Arnobj, i Lattanzj, i Cipriani, i Giustini Martiri. L’altro fallo è che l’Apologista, per iscusare una trasformazione reca la Forza e la Violenza del Prometeo: risposta che siede veramente alla quistione come il basto al bue. Se in un Poeta Cristiano si riprendesse p. e. la Fede, la Misericordia e che so io, allora si allegherebbero acconciamente gli Esseri allegorici personificati da’ Gentili; ma questi nulla hanno che fare con la Trasformazione. Trovi il Lampillas messa sulla Scena Antica una transformazione, come ne hanno mostrato più migliaja i Drammatografi nazionali, e allora potrà discolpare il Cueva coll’esempio. Ma la Storia de’ Teatri Antichi non gliene ha suggerita alcuna. Autorizzati dalla loro Religione bene avrebbero potuto usarne gli antichi Poeti, e pur nol fecero. E di là venne che Orazio consigliò che non si converta sulla Scena Progne {p. 50}in uccello e Cadmo in serpente, aggiungendone anche la ragione,

Quodcunque ostendis mihi sic, incredulus odi.

Or quanto più non debbe starne lontano un Poeta Cristiano in una Platea di Cristiani? Ebbe dunque ragione il Signor Montiano a dire, che l’Ajace del Cueva peccava d’inverisimiglianza, e che nulla avea di comune coll’Ajace di Sofocle, “porque Cueba quiso imitar algo del Griego, y descuidò de lo mejor.”

Nella Morte di Virginia e Appio Claudio terza Tragedia censura il Montiano la duplicità dell’azione; e il Signorelli espresse lo stesso dicendo esser due le azioni principali. Il Signor Lampillas non potè tranguggiare quel principali, parendogli che rendesse più grave questo difetto. Ma egli non vide, che se non si fosse trattato di azioni principali, il Montiano impropriamente avrebbe usato il termine di duplicità. Vide bensì contuttociò la causa perduta e convenne col censore. Volle tutta volta accennare che in simile caso di un Autore Italiano il Signorelli avea detto, che le osservazione della fredda Critica non sogliono ascoltarsi da’ cuori sensibili. E’ verissimo; ma sapete quando ciò avviene? Quando il patetico è maneggiato egregiamente, come nelle disgrazie di Ecuba del Signor Ab. Ceruti. Potrebbe il Lampillas dire che fosse tale nella Tragedia del Cueva? Il manifesti con qualche scena; che io a pruova ne produrrò alcun’ altra di quella del Ceruti. La fredda, cioè la riposata Critica, per veder bene, fa serenare la commozione riportata dal patetico del Teatro; e quei cuori sensibili che trovansene tuttavia riscaldati, {p. 51}non si curano di ascoltarla. Questo forse vuol dire che la Critica tranquilla non merita di essere ascoltata? Vuole ciò dire che l’errore del Cueva non è errore? Masticate le altrui parole, Signor Apologista, altrimenti, giusta il vostro proverbio, voi tornerete sempre tosato nel voler tosare.

Viene ultimamente dal Signor Lampillas ripreso il Montiano (accompagnandolo col Signorelli), perchè quel Letterato (che in tali studj vide molto, nè parlò di materie da lui non intese, o imparate al declinar della età) censura la quarta Tragedia del Cueva, per essere fantastico il carattere del Protagonista, cioè tratto dall’immaginazione del Poeta, e non accreditato da esempj della storia, o della tradizione. Ma se il Cueva si comporta in quel carattere in tal guisa, che si diparte da ciò che la natura suol mostrare possibile coll’attuarlo talvolta, il Montiano censura giustamente, e il Signor Lampillas ingiustamente se ne querela.

Ma questo acuto Apologista dice di non vedere il fondamento di tal critica, e poichè il dice uopo è crederglielo; e vorrebbe che il Signorelli gliel facesse sapere (p. 102.). Questo veramente è troppo pretendere da chi riferisce l’altrui Critica, da chi ha confessato di non aver potuto leggere le Tragedie del Cueva. Ed uno più disinvolto gli direbbe colla frase del Boccaccio, Vada e se l’appari; o gli direbbe uno più pigro, Vada e il rintracci ne’ Discorsi del Montiano. Ma il Signorelli che ama di compiacerlo, rende della censura le seguenti ragioni.

Essa principalmente si appoggia in alcuni versi {p. 52}Oraziani, che non parlano già o di numero di Atti, o di quello delle persone da ammettersi in una scena, ma bensì di quelle eterne ragioni dettate dalla Natura bene osservata, la quale, perchè sia ben ritratta esige certe condizioni, senza di cui ricusa di comparire in Teatro. Dice dunque Orazio in un luogo,

Aut famam sequere, aut sibi convenientia finge:

e dice in un altro,

Ficta voluptatis causa sint proxima veris,
Nec quodcumque volet, poscat sibi fabula credi.

O seguir bisogna la fama, la voce comune, o fingere in modo che ad essa non disdicano le cose immaginate; esse debbono al possibile avvicinarsi alla Verità, non avendo il favoleggiatore diritto ad esser creduto in qualunque suo capriccio. Questa insinuazione non è arbitraria. Per chiamare l’attenzione degli ascoltatori gli si vuol parlare di cose, benchè finte, simili a quelle di cui essi conservano le idee; che se voi gli parlerete delle idee fantastiche sugli abitatori di Saturno o di Mercurio, delle quali niun seme rinvengono nella loro fantasia, si ristuccheranno presto, ascolteranno senza credere. In somma bisogna che essi trovino corrispondenza tralle immagini apportate dalle parole del Poeta, e tra quelle che conservano nella fantasia; dalla qual comparazione risulta il loro diletto e la loro istruzione. Un Critico Filosofo presenta una dottrina che rischiara ancora il contenuto ne’ citati versi: “Prima di natura fu la cosa rappresentata, che la cosa rappresentante.... La Verisimilitudine dipende tutta dalla Verità, {p. 53}e in lei riguarda: e la cosa rappresentante dipende tutta dalla rappresentata, e in lei riguarda.” Il dottissimo Gravina ciò dichiara in mille guise nella Ragion Poetica, nel Trattato della Tragedia, e nel Discorso sulle Favole. Egli fa nelle sue Opere serpeggiare il bellissimo cappio della Finzione, e del Vero; e in aspetto più gentilesco del Castelvetro, e non meno filosoficamente disviluppa le idee del Verisimile poetico, vero perno su cui si volge il Teatro, anzi la Poesia tutta, e le altre arti imitatrici. Non disconvengono da tali insegnamenti i migliori Critici Francesi, Fiaminghi, Alemanni, Spagnuoli, e Italiani; de’ quali non cito le parole per non pedanteggiare. Adunque se un carattere è chimerico, sfornito di somiglianza di un vero noto, che non risveglia nell’ascoltatore veruna idea di cosa rappresentata, necessariamente sarà mal ricevuto, e il Poeta soggiacerà alle censure della Filosofia. Non so se a questi fondamenti si appoggiasse il Montiano; quanto a me, a tali dottrine io mirava nell’ammetterne la censura. Se il Sig. Apologista, poichè ha soddisfatto alla sua curiosità a mie spese, volesse distruggere la censura, cominci dal bombardare e incenerire questi fondamenti. A lui riescirà facile trovando qualche Dedicatoria, qualche Prefazione, qualche Lettera, qualche Esame poetico, che l’inanimisca a rendersi superiore a qualunque dottrina. Gli consiglio però a non fondare speranza veruna sull’esempio delle Medee Greche e Latine, e sul Maometto (p. 103.), per avere, come il Principe Tiranno del Cueva i Protagonisti estremamente malvagi. Imperciocchè Medea è sostenuta dalle antiche tradizioni, e il Maometto {p. 54}dalla storia della mezzana età, per cui tali caratteri non si tengono per incredibili, per fantastici. Dipoi convien riflettere che la censura non riguarda semplicemente la malvagità del Protagonista, ma la malvagità fantastica, chimerica, inusitata; e così precipita giù rovinosamente la gran macchina delle congetture Lampigliane.

III.
ANDRÉS REY DE ARTIEDA. §

Della Tragedia Los Amantes di quest’altro Scrittore favellarono non solo il Ximeno, ma l’Antonio, e il Montiano, ed altri, ed io non ho voluto ometterla nella preparata nuova Edizione del mio Libro, tuttochè non se ne trovi pesta, ad onta dell’impressione di Valenza del 1581. Questo Letterato detestava gli errori scenici de’ suoi compatrioti (e noti l’Apologista che allora fiorivano i Drammatici Andaluzzi nominati dal Cueva, e tra essi spiccava l’Autore delle Mille Tragedie); e mostrava di avere gusto migliore; e quindi così declamava1.

“Galeras vi unavez ir por el yermo,
 “Y correr seis caballos, por la posta
 “de la Isla del Gozo hasta Palermo.
“Poner dentro Biscaya Famagosta,
 “Y junta de los Alpes Persiay Mediá,
 “Y Alemania pintar larga y angosta.
{p. 55}
“Como estas cosas representa Heredia
 “A’ pedimento de un amigo suyo,
 “Queen seis horas compone una Comedia.”

Ciò mi animava a sperare che la di lui Tragedia potesse essere regolare. Ma come fidarsi più d’inferire da quello che si predica quello che può eseguirsi, dopo l’esempio del Cervantes, che intorno al Teatro parlò sì bene, ed eseguì sì male! Perciò allora omisi di parlare della Tragedia del Rey; e se ora l’ho rammentata, è stato a solo fine di pascere l’altrui curiosità. Che io non imiterei mai il Lampillas, che con una fiducia senza pari e con tutta la serietà ci assicura della bontà di tal Tragedia . . . Il merito singolare (p. 104.) dell’“Autore . . . . può bastare a collocarla fralle regolate opere teatrali”. Egli al più avrebbe potuto dire, può farci sperare, che sarebbe stata regolata. Toglierei poi la giunta de Teruel data al titolo Los Amantes per un semplice sospetto del Ximeno. Qual prò da giunte inutili non provate e improbabili? Il Teatro Spagnuolo quasi ogni anno mostra una favola col titolo Los Amantes de Toruel, che appartiene al Montalban. Di questa nella nuova Edizione della Storia de’ Teatri vedrà l’Apologista i difetti e le scene interessanti; non già, come si fa nel Saggio, con lodi vaghe applicabili ad ogni Dramma, o con biasimi che tengonsi ammaniti come le formole delle private Segreterie: ma con una competente analisi accompagnata da qualche scelto squarcio.

{p. 56}

IV.
LUPERCIO LEONARDO DE ARGENSOLA. §

Niuna cosa più chiaramente dimostra, che il Sig. Lampillas non cerca se non diffusi panegirici di tutto ciò che appartiene a’ Drammatografi Spagnuoli, quanto ciò che dice del Signorelli a proposito delle Tragedie di questo buon Poeta. Si lagnò l’Apologista che di quelle del Cueva io avea narrato i difetti, e non i pregi: di queste di Argensola accennai i difetti, e qualche pregio, e pure si lamenta perchè ne dò una sommaria notizia. Conviene il Sign. Lampillas de’ manifesti difetti dell’Alessandra; ma non vede che i medesimi si trovano nell’Isabella, e si diffonde in sette pagine e mezza nella difesa di quest’ultima. Io non vi trovo, egli afferma, i pretesi gran difetti che altri dice. E se vi è qualche neo, si dee, secondo lui, attribuire a MS. viziati, ne’ quali si trovarono versi tronchi, o mancanti. Su di che è da notarsi, che nell’Isabella non si scorge un sol verso tronco o mancante, come nell’Alessandra se ne trovano moltissimi. Colpa de’ MS. viziati, a parere del Lampillas, è il disordine nella distribuzione delle scene: quasi che questa potesse introdurre nella favola la moltiplicità delle azioni dove non sia. Egli però pretende che sia una sola l’azione principale, e le altre subalterne. Questi subalterni dell’Isabella sono della natura del Generale de’ Giapponesi, il quale esercitando tutti i dritti principeschi, e disponendo del destino del Regno, lascia a un fantasma coronato il nome e le insegne di Sovrano.

Qual’è l’azione principale? La morte d’Isabella {p. 57}insieme con Muley? Intanto è preceduta da quelle del di lei Padre e della Madre e della Sorella, le quali distraggono e dividono la compassione e il terrore in molti oggetti. E finisce quì? Al principio dell’Atto III. si è già sparso tanto sangue, è morta Isabella, oggetto principale della Tragedia, e si può dire che la favola stia nel maggior vigore. Si continua l’intreccio: siegue la morte di Audalla: si prepara la rovina di Alboacen: si effettua l’uccisione di questo Re per mano di Aja di lui sorella. Termina poi? Un intreccio, tanto alieno dal martirio d’Isabella, degli amori infelici di Adulze Re di Valenza richiede uno scioglimento, e questo siegue in fine col di lui suicidio, il quale porta in conseguenza l’altro di Aja. Così che non cessa l’Autore finchè non ha fatti morire tutti i nove personaggi più principali, lasciando appena in vita alcuni servi introdotti nella favola. Quindi è che se io dovessi dire, quante sieno le azioni principali, affermerei esser tre, non contando le subalterne: cioè 1. la Morte d’Isabella e Muley per l’amor lascivo del Tiranno colorita col pretesto della Religione; 2. la Morte del Tiranno derivata dalle sue crudeltà e dall’avere ucciso l’amato della Sorella; e 3. la Morte di Adulze avvenuta per eroismo, non volendo egli mancare nè all’amistà, ed alla gratitudine dovuta al Re, nè alla promessa da lui fatta all’amata. Che se poi dovesse esaminarsi quali di queste tre principali azioni sia la più degna e propria per una Tragedia, io subito sceglierei l’ultima della morte di Adulze, personaggio veramente tragico, e più di ogni altro interessante (salva la Religione che ci attacca {p. 58}ad Isabella), il qual personaggio ci fa mirare come cosa già dimenticata la morte dell’Eroina Cristiana, e quella di Alboacen. Ora se ciò stà alla vista di ogni Leggitore, se il Signor Sedano non niega questa moltiplicità di azioni, egli è assai notabil cosa che l’Apologista impugni l’evidenza, e che, quando a due azioni dell’Ecuba Greca diede il titolo di molte, a queste dell’Isabella, che molte sono, dia il titolo di Una. Aritmetica Apologetica!

Ma forse a ciò si ristringono i difetti dell’Isabella non veduti dal Signor Lampillas? Sono forse poco rilevanti le imputazioni del Sedano intorno al vedersi in essa la strana uniformità, che porta tutti i persognaggi ad agire pel medesimo impulso dell’amore? e intorno à las vulgaridades y bajezas que desdicen de la gravedad de la Tragedia?

Oltre a ciò discolperà l’Apologista l’inutile apparizione dello spirito d’Isabella, che viene a recitare un Sonetto caudato, per dire che qual Fenice dalle fiamme è risorta per gire al Cielo, e domandare all’Uditorio il Plaudite? Io non disapprovo la preghiera del Padre e della Madre fatta ad Isabella, perchè interceda presso il Tiranno in prò de’ Cristiani; ma il Signor Don Saverio mostrerà esser cosa plausibile che quei due Vecchi dabbene le propongano, come già propose Idraotte Saracino e Mago ad Armida, che vada a lusingare il Re, che ne fomenti l’amore, che ne sostenga e nutrisca le speranze? Ecco come si spiega Lamberto:

“Al Rey por cierto tiempo fingir puedes
 “Precisa castidad tener votada,
 “Y que quando del voto libre quedes,
{p. 59}
 “La prenda le daràs tan deseada.
 “En este medio tiende astutas redes,
 “Suspiros, llantos, vistas regaladas,
 “Y lagrimas, si puedes, amorosas.”

Giustificherà l’Apologista la mancanza del tempo necessario per l’esecuzione della morte d’Isabella accompagnata dalle varie circostanze narrate dal Messo, che richiedono non poco tempo, nella scena III., quando ella è partita dal Teatro terminata la I., nè vi s’interpone che il soliloquio di Aja?

E fluida, sonora, armoniosa la verificazione: ma il Signor Lampillas, che tralle altre cose rinfaccia alla Sofonisba del Carretto l’Ottavarima, difenderà poi l’Isabella versificata in Terzine, Ottave, Sonetti, ed altri metri rimati usati da’ Poeti Lirici ed Epici, improprj nella Drammatica? E pura, elegante la locuzione: ma è conveniente al genere teatrale, che ricusa molte figure, molte descrizioni, molti ornamenti poetici permessi ad altri generi? Come si scagionerà questa favola di certe apostrofi non brevi fatte da Isabella al fiume Ebro nella 2. scena dell’Atto I., e da Adulze alle piante nella 3. dell’Atto II.? Sono proprie della Scenica Poesia le lunghe, studiate, poetiche, liriche comparazioni che si trovano sparse nell’Isabella? Lasciando quella già accennata dello spirito d’Isabella, che in due quadernarj spiega l’indole della Fenice, a cui si compara, che dirà il Signor Lampillas di quella della 5. scena dell’Atto I. recitata da Audalla e chiusa in una Ottava,

“Qual Toro que delexos vè que asoma?”

che di quella della 2. del II. detta da Isabella prolongata per dodici versi,

{p. 60}
“Qual suele de los vientos combatida?”

che di quella della 3. scena dell’Atto III. declamata dal Messo in nove versi,

“Asi lavid nudosa, retorcida?”

Belle, felici, se non nuove, esse sono certamente: ma non conservano nella Drammatica la bellezza che hanno in altri generi: non erat hic locus, dice Orazio. Non mi distendo di vantaggio, non essendo mio intendimento di mettere in vista tutte le pruove, che ha dato in questa favola il per altro famoso Poeta Argensola, e della poca età in cui la scrisse, e del gusto al suo tempo dominante nella Penisola, che non gli permise maggiore esattezza.

L’Apologista intanto non sa vedere i pretesi difetti dell’Isabella, e la paragona alla Zaira. Volle poi combattere la censura del Sedano pel carattere perfettamente buono d’Isabella; di maniera che di lui acconciamente può dirsi in tal proposito ciò che dell’Europa affermava l’Ariosto,

Lampiglia è in arme, e di far guerra agogna
“In ogni parte fuor ch’ove bisogna.”

Non capisco però perchè per tal motivo si lagni anche del Signorelli, che nulla ha detto della bontà o malvagità de’ tragici protagonisti. Forse perchè ha lodata la imparzialità del Sedano? Io adotto la imparzialità di chi non indora i difetti de’ morti per ingannare i vivi: ma voglio poi un libero esercizio della mia facoltà di pensare, e una scelta non precaria, non dipendente, circa le opinioni letterarie da ammettere o rifiutare. Censuri adunque l’Apologista quello che io dico, ma non si curi d’interpretare senza fondamento nè bisogno quello che io non rivelo.

{p. 61}

V.
CRISTOFORO VIRUES. §

Rimane questo Capitano e Poeta Sivigliano. Dispiace all’Apologista (p. 110.) che io dica delle di lui Tragedie, che, a riserba dell’ultima, non osservò nelle altre regola veruna, siccome confessa il Montiano. Va poi arguendo contro questo Erudito, e rivangando la di lui confessione da me accennata su ciascuna Tragedia del Virues.

Nella Semiramide (ei dice) confessa il Montiano, che il Poeta non osservò veruna delle tre unità; ma non è preceduto a questa confessione degli altrui peccati un maturo esame. Non avvertì dunque il Sign. Lampillas che l’istesso Virues fece la sua confessione nel Prologo della Semiramide, manifestando di aver mancato all’arte antica, e insieme alla usanza moderna. Non di meno egli alla meglio cercò discolparsene dicendo di aver pensato a fare di ognuna delle tre Giornate una Tragedia. Di questa discolpa, strana al certo, fa galloria il Lampillas, come di un sicurissimo asilo. Ma il Montiano incalza il nemico che si ritira, e grida, e pretende che ciò sia contrario all’uso antico e al moderno, e aggiugne: “Questa intolerabile licenza, se vi ha alcuno che ne abbia usato o ne usi, è la cosa più sconnessa degli antichi e de’ moderni, e la più assurda e riprensibile di tutte le stranezze, nelle quali si è incorso o s’incorre contro i preziosi statuti della Ragione.” E di ciò non pago passa ad analizzarle tutte e tre quasi fossero Tragedie distinte, e trova che da questa separazione {p. 62}stessa nascono di molti assurdi. Di passaggio osserva ancora che il Virues attribuisce alla Nazione Assira le Vergini Vestali della Romana. Io non rapporto ora nè gli altri assurdi, nè la falsità e inuguaglianza di varj caratteri. Accenno solo la insussistenza dell’esempio addotto dal Sign. Lampillas per giustificare la stranezza di una Tragedia composta di tre, come il corpo favoloso di Gerione; cioè i Tramezzi e i Balli che s’interpongono fra atto e atto in altri Drammi. Il Leggitore, e forse l’istesso Sign. Lampillas, vedrà bene la poca connessione che ha una Tragedia divisa in tre (che piacevolmente potrebbe nomarsi Tritragedia, se pur nome può ricevere un capriccio Cinese), di cui la seguente non può stare in piedi senza l’antecedente, con un Ballo o un Tramezzo o un Mimo antico o una Petite-piéce Francese, corpi che reggono da se, nè abbisognano del Dramma, come il Dramma di loro non abbisogna. M’incolpa poi l’Apologista per non avere mentovato i pregi di questa Tragedia. Ma con questi principj capricciosi, con tali assurdi e difetti ne’ caratteri, mi parve che riescir dovesse poco accetta a’ posteri la memoria di alcun pensiero elevato che vi si trovasse; che quanto alla concatenazione naturale degli accidenti, e alla proprietà della locuzione, mi sembrano cose che neglette partoriscono vergogna, ed osservate con tutta diligenza non producono lode. Dovrebbe sapere il motto Oraziano: Vitavi denique culpam, non laudem merui. Evitare il vizio non è eroismo. Nemo enim unquam est Oratorem, quod latine loqueretur, admiratus: si est aliter, irrident . . . . Nemo extulit eum verbis, qui ita dixisset, {p. 63}ut qui adessent, intelligerent quid diceret, sed contempsit eum, qui minus id facere potuisset1. Udiste ciò che si è insegnato quasi venti secoli fa? Ci vogliono cose che facciano stupire, e, secondo il medesimo Cicerone, inorridire in certo modo ed esclamare gli ascoltatori, per fare che degnamente passino a’ Posteri. Ma per soddisfare alla domanda del Sign. Lampillas “se io creda, che tutte le Tragedie che occupano nobil posto nella mia Storia, abbiano tanti pregi” risponderò

“. . . . . . . come da me si suole
“Liberi sensi in semplici parole;”

che più di una volta mi sono imbattuto in una Tragedia infelice con questi medesimi pregi, che rapiscono l’Apologista. Anche a un Poeta dozzinale (non che al celebre Virues) scappano tal volta certi lampi d’ingegno degni di ogni lode; ma il punto stà a sostenersi sulle ali, e a ideare un Poema non freddo, non debole, non capriccioso, non maltessuto, non pieno di manifeste inverisimiglianze. Circa all’altra domanda, se io creda, che si possa dire altrettanto della Semiramide del Manfredi, rispondo colla medesima nettezza, che da questa sola domanda comprendo che l’Apologista non l’abbia letta, nè abbia udito parlarne, e che il Virues avrebbe potuto approfittarsi di essa, essendo stato in Italia, e la Tragedia del Manfredi essendovisi impressa sette anni prima di spirare il secolo XVI.; ma ciò non volle la sorte del Teatro Spagnuolo, e il Virues compose la sua Tritragedia. Oh caro Sig. Apologista! Io auguro alle Scene Castigliane, {p. 64}che tosto giunga l’epoca fortunata di un Tragico, che arrivi a pareggiare il merito non equivoco del Manfredi, e l’eccellenza, l’eleganza, la forza, il colorito, la regolarità, l’armonia artificiosa della Semiramide. Amico, voi mettete la bocca a certi cibi troppo sostanziosi senza misurare la forza del vostro stomaco avvezzo ad altro nutrimento. Resta adunque provato che la prima Tragedia del Virues è difettosa e assurda.

“Andiamo avanti (dice il Lampillas p. 115.). “Dove ha trovato il Signorelli che il Montiano confessa che il Virues nella Cruel Casandra non osservò regola veruna?” Subito vi contento. Ho ciò trovato nella confessione che fa l’ingenuo Signor Montiano, cioè che “in essa si accumulano tanti e tanti fatti che eccede per la complicazione e la moltitudine . . . i quali offuscano e confondono in certo modo l’Azione senza lasciarle quella brillante chiarezza che si esige”. E sebbene l’istesso Montiano dica che vi si osservano le tre unità, non si vede offesa la più importante di esse, cioè quella di Azione dalla moltitudine e complicazione di tanti e tanti fatti che ne offuscano la necessaria chiarezza? E tanti e tanti fatti rannicchiati nel tempo concesso al Dramma, non guastano colla poca verosimilitudine l’altra unità del tempo? In questa guisa si osservano le Unità? Ho trovato ancora che il Montiano il confessa allorchè riprende in questa favola la incredibilità che risulta dall’eccessivo orrore che cagiona tanto sangue sparso, che di nove Attori ne muojono otto, onde la Tragedia ne diviene dura e violenta, secondochè si esprime il Montiano, e poteva, aggiugnere, {p. 65}per conseguenza sregolata. Or questo è osservar le regole? Sappia in oltre il Signor Lampillas, che non tutte le regole Sceniche si racchiudono nelle sole tre unità. Altre molte e molto delicate ne prescrivono, non che Aristotile, Orazio, Gravina, Boileau, Luzán, il Verisimile e l’Interesse teatrale veri Maestri di Poetica. Udite un poco uno che sapeva qualche cosa di più delle regole di Unità, in cui voi ristringete la somma delle cose:

“Un vers heureux & d’un tour agréable
 “Ne suffit pas; il faut une action,
 “De l’interêt, du comique, une fable,
 “Des moeurs du temps un portrait véritable,
 “Pour consommer cette œuvre du Démon;”

dice ottimamente il Signor di Voltaire. Udite ancora come parla graziosamente e giudiziosamente della Poesia Giambattista Rousseau in una Epistola:

“Le jeu d’echecs ressemble au jeu des vers;
 “Sçavoir la marche est chose trés-unie,
 “Jouer le jeu, c’est le fruit du génie,
 “Je dis le fruit du génie achevè
 “Par longue etude & travail cultivè.”

Molto e molto manca adunque alla seconda Tragedia del Virues per chiamarsi regolata.

“E che (l’Apologista p. 116.)? Forse nell’Attila non vi si osserva veruna regola, come pretende il Signorelli asserirsi dal Montiano? Anzi questo Critico Spagnuolo ci assicura tutto l’opposto”. Questo Critico Spagnuolo dice che in grazia de’ vivi colori, con cui è dipinto in questa Tragedia il furore di Attila, può dissimularsi quel comun ricorso degl’ingegni (cioè l’amore unico {p. 66}ordigno della favola), e ammettersi fralle regolari. Quì dunque si dispensa grazia e indulgenza, anzi che si amministri giustizia. Vuol poi il Signor Lampillas ricavare il vero sentimento del Montiano circa l’irregolarità delle prime quattro Tragedie del Virues? Legga le seguenti parole del suo 1. Discorso: “No puede leerse sin admiration ni sin lastima de que se aparte tanto de las reglas en otras quien tan puntualmente las supo guardar en esta”, cioè nella quinta ch’è l’Elisa. Adunque questa sola è l’eccettuata dalla taccia dell’irregolarità; e l’Attila resta colle altre soggetta alla censura.

“Nemmeno asserisce il Montiano (dice seguitando a travedere l’Apologista p. 117.) “che nella Infelice Marcella non vi si osservi veruna regola, anzi confessa custodirvisi le prescritte unità”. Montiano, il quale, a differenza di altri, intendeva che le unità non sono le sole regole Drammatiche, che trasgredite deturpano un componimento, dice di tal Marcella, ch’egli la chiamerebbe, piuttosto una Novella compassionevole ridotta in buoni versi, che una ben regolata Tragedia. Adunque non solamente le niega la regolarità, ma fin anco il nome di Tragedia. Non so poi come il Signor Montiano intendesse se stesso, mentre dopo vere asserito esser questa una Tragedia mal regolata, dice appresso che vi sono osservate le unità. Osservar le regole, ed essere sregolata, non è una manifesta antinomia? Egli però soggiugne: “Vi ha notabile disuguaglianza nelle persone. Gli assassini di campagna, la Donna da partito che gli siegue, i Pastori, corrispondono alla bassezza {p. 67}Comica, non alla gravità Tragica, donde nascono simili plebee espressioni,”

O hideputa el hidalgo
Y que ligero es de pies,
Cierto gran lastima es
Que el señor no sea galgo.

Or non è regola inviolabile l’astenersi nella Tragedia delle mescolanze Comiche? E questa non è violata nella Marcella? E il Montiano non lo confessa? E il Signor Lampillas che il nega, non mostra di aver letto il Montiano alla sfuggita? Ma vuol meglio assicurarsi l’Apologista, che, a riserba dell’Elisa, le altre quattro Tragedie sono scritte alla moderna, cioè senza guardar le regole? Ascolti l’istesso Virues. Non è un testimonio maggiore di ogni eccezione? Egli nel Prologo premesso alle cinque sue Tragedie previene che “nelle prime quattro ha procurato unire il meglio dell’arte antica e del costume moderno” . . . e che l’ultima va escrita toda per el estilo de Griegos y Latinos. L’Elisa dunque è l’unica favola che il Virues tiene per veramente regolare; e se l’Attila, o la Marcella (come credeva il Signor Lampillas) avessero guardate nella stessa maniera le regole, l’avrebbe accoppiate coll’Elisa, e non colle altre. Ed ecco che a confermare il sentimento del Signorelli concorre ugualmente il Critico, e l’istesso Autore Spagnuolo.

Ben poteva inoltre notare il Signor Lampillas il carico che dà il Montiano al Virues, cioè di aver contribuito a cangiar metodo con mezclar los preceptos antiquos con la moderna costumbre, llevando asi los ingenios à que declinasen à la formacion de {p. 68}estos hormaphroditas (così chiama le favole Spagnuole), ò monstruos de la Poesia, como los llama Cascales. E conferma la sua opinione colla lode che Lope dà al Virues nel Laurel de Apolo; facendo osservare, che Lope, come parziale dell’alterazione del Teatro, encomia Virues come Autore delle migliori regole Comiche, e ciò dice appunto allorchè aggiugne che scrisse Tragedie; di maniera che se ne ricava, che “gradúa la mudanza que introduxo Virues por origen de los aciertos Comicos que se figurò en la mezcla de los preceptos antiquos y la costumbre moderna”. Vede adunque il Signor D. Saverio, che il Signorelli non si allontana da’ sentimenti de’ Critici Spagnuoli nel giudicare de’ supraccennati Drammatici, e non legge alla sfuggita, nè sopprime i fatti, nè abbisogna di far dire a’ Giraldi quello che non dissero mai.

ARTICOLO VII.
Su i principali Requisiti per giudicar dritto de’ Componimenti Scenici, Mente rischiarata, e Cuore sensibile. §

In quale angustia mi riduce l’accusa che son per proporre fattami dall’Apologista! M’impegna in certo modo a cimentarmi col celebre P. Rapin! Questo è il modo più proprio per avvilire l’avversario, metterlo a fronte di un rinomato valentuomo, la cui sola riputazione basta ad opprimerlo. Ma io, conoscendo me medesimo, mi dichiaro troppo debole per un Atleta sì esercitato e vigoroso. Concedo ancora, se piace al Signor Lampillas, {p. 69}che “nella mia Storia nulla io dico intorno agli affetti che debbe eccitare la Tragedia, che mi assicuri il vanto sopra il P. Rapin di giudicare drittamente de’ componimenti Drammatici” (p. 123.). Riserbomi solo il ricordargli che io in verun luogo non ho mai ciò preteso, o dimostrato tale orgoglio; e che il contrastare a qualcheduno un merito, non è lo stesso che appropriarselo. Or l’accennata mia confessione, per dirla alla Francese, sì umiliante, basta al rigido Apologista? Essa è dunque bella e fatta. Tolto me di mezzo, vengasi al P. Rapin, di cui io dissi che mancava di cuore, per ben giudicare di Poesie Sceniche, espressione che irrita l’Apologista.

Il Francese Rapin era senza dubbio uno de’ più dotti uomini del suo tempo: le Comparazioni di alcuni Scrittori che ci ha lasciate, non sono già colme di sofisticherie e cavilli, brevi sostegni di scritture momentanee, ma ricche di buona erudizione, di aggiustatezza, e di sapienza: le Riflessioni sulla Poetica fondate nella dottrina Aristotelica spargono lumi utilissimi a profitto degli amatori della Poesia: i suoi Orti hanno una fragranza e un gusto di vera eleganza Latina. Questo è riconoscerne il pregio, e rendergli, col resto degli uomini inclinati alle Lettere, la giustizia dovuta. Ma se i suoi giudizj, specialmente su i Drammi, non sempre corrispondono al suo sapere, egli è forza ascrivere ciò a mancanza di cuore sensibile. Non soffre l’impaziente Signor Lampillas sì ardita proposizione, quasi che io, ciò dicendo, venissi a tacciare d’ignoranza sì celebre Scrittore. E per ribatterla vi si accinge; non col mostrare p. e. un {p. 70}bel passo patetico visto e notato da Rapin, in cui si manifestasse fornito di cuore, ma con allegare un sereno sensato ragionamento, in cui Rapin giudiziosamente afferma che lo Spettatore vuole essere commosso. Ma ciò chiama il Signor Lampillas aver cuore? Io il chiamo intendere. Altro è Mente e Ragione che ben discerne, altro è Cuore e Sensibilità che ben sente: entrambi Requisiti indispensabili a giudicar dritto degli Scenici componimenti. Ma il primo di essi, se si scompagna dal secondo, giudicherà dell’arte, e non del patetico; e sembra che il secondo per senso, trattandosi di commozioni e di affetti, perviene più prontamente del raziocinio a ravvisarli. Quindi è che suol vedersi un popolaccio intenerirsi (e come a tempo!) al pari e più ancora degl’intelligenti, alle lagrime di Alzira, d’Ipermnestra, d’Ines de Castro, e di Pamela; e questo popolaccio non saprebbe tessere un ben ordinato raziocinio giusto e dotto quanto quello di Rapin, acuto quanto potrebbe concepirlo il Signor Lampillas. Le lagrime di questo popolaccio dinotano ch’egli abbia cuore, e dove egli piange, è certo che vi è il patetico.

Non pare a voi, Signor Abate, che così sia? Voi, se la vostra censura non m’inganna, trovereste questo pregio di un cuore sensibile nell’inserire in un libro e quanto ci dissero della parte morale delle umane passioni Aristotile, Cicerone, Plutarco, Marco Antonino, Epitteto, ed altri Stoici, e quanto della fisica e morale insieme trattarono ne’ molti loro volumi La Chambre e Senaut, e nel breve eccellente Opuscolo che intessè sugli Affetti, indirizzato alla Regina di Svezia, l’immortale {p. 71}Filosofo e Geometra Renato Des Cartes. E forse trovereste ancora quel pregio nel saper ripetere tutto ciò che sulla ormai fino a’ barbieri nota diffinizione Aristotelica della Tragedia, sul terrore e la compassione da purgarsi in essa per mezzo di tali passioni, hanno ragionato, esposto, comentato i Robertelli, i Vettori, i Castelvetri, i Piccolomini, i Patrizj, i Riccoboni, i Maggi, i Villani, i Biscioli, i Gravini, gli Einsj, i Dacier, ed altri famosi trattatori di Poetica. Ma io non amo le ripetizioni intempestive fatte unicamente ad ostentazione e pompa; nè questo poi con vostra licenza, manifesterebbe un cuore fatto per sentire.

Or quale è dunque (incalzerà il Sign. Lampillas) la tanto da moderni Saputelli decantata Sensibilità? E’ cosa riserbata al solo Popolaccio? Non la conoscono i Dotti?

Sì, caro Signor Lampillas, i Dotti la conoscono; ed alcuni ve n’ha che ne sono impastati a segno, che non solo ne sogliono ragionare egregiamente, ma conservarla vigorosa fino alla estrema vecchiezza. Oh come la conobbe l’insigne Haller, l’ornamento di Berna, mancato di 69. anni nella Patria alla fine del 1777.! Quale innesto in questo genio raro delle più astruse scienze, e della Poesia più fina! di una Mente sublime oltremodo illuminata, e di un Cuore caldo, vigoroso, oltremodo sensibile! Egli seppe sentire, dipingere, e meditare. Egli sviluppando l’irritabilità della tela nervosa toccò la foce stessa della Sensibilità. Come la conobbe il Filosofo Ginevrino Gian-Giacomo Rousseau! A lui niuno negherà l’aver saputo internarsi negli avvolgimenti tortuosi del Cuore Umano, e {p. 72}filosofare, e meditare, senza punto ammortire la forza sensitiva della natura; di che ha date varie pruove (non fredde riflessioni) e colla sua eloquenza che porta il fuoco da per tutto, e colla vaghissima Pastorale le Divin du Village. La conobbe ancora mirabilmente M. de Voltaire, il quale alla intelligenza scientifica accoppiava la vivacità della fantasia e l’energia de’ sensi, cose singolarmente richieste a sentire, e conoscere se altri sente le passioni e nella società e nel teatro. Io non vò più oltre esemplificare, e tralascio ancora i Redi, i Manfredi, gli Zanotti, Filosofi, e Matematici illustri non meno che delicati Poeti, che hanno dato saggio di Mente illuminata, e di Cuore sensibile, onde si resero giudici competenti di Poesia. Ma come in questo articolo obbliare il tenero, il sensibile alle amicizie dalla sua verde età sino alla decrepitezza, l’immortale Metastasio? E chi negherà a questo Spirito gentile la profonda dottrina, che traluce ne’ suoi Poemi ugualmente, che una indubitata superiore sensibilità? Chi non dipenderebbe da’ suoi giudizj, intorno alla Poesia Drammatica più che da tutti i possibili Rapin, i quali decidono colla penna prima di aver sentito col cuore? I Dotti dunque, Signor Abate, i veri Dotti e conoscono la sensibilità, e se ne pregiano.

Ma vi è anche un altro genere di Dotti, che ne sanno favellare, se volete, e rintracciarne le sorgenti. Questi vi diranno, che sebbene l’Uomo sia nel genere degli animali, è nondimeno composto di un’ Anima immortale, e di un Corpo a lei strettamente congiunto; e che per la prima vanta una Ragione che lo costituisce superiore agli esseri, {p. 73}che ne son privi1, e pel secondo, benchè soggetto a tutte le leggi e forze dell’Universo e di ogni sua parte, si trova dotato di una elasticità e attività di fibbre, e di nervi, che lo rende atto a signoreggiare sul rimanente del mondo animale, minerale, e vegetabile. Vi diranno che questa elasticità di congegnazione, accoppiata a una fantasia mobilissima, forma l’Uomo per natura sommamente sensitivo agli urti degli oggetti che lo circondano. Aggiugneranno, che quantunque in tali forze attive debba riconoscersi una gradazione d’intensità, sia per la disuguaglianza delle organizzazioni, sia per la forza della Mente, che suole felicemente assoggettare il suo compagno, e regolarne la irritabilità, non per tanto sono esse forze comuni a tutta la specie umana. Ma vi confesseranno nel tempo stesso, che, scendendo agl’individui di essa specie, si trovano assai differenti, e qual più qual meno forniti di sensibilità. Il Vecchio p. e. col numero degli anni sentirà ammortiti i suoi sensi e la sua fantasia, e si ravviserà già diventato indifferente agli oggetti, che quelli e questa riguardano; là dove la gioventù tutta senso e fantasia vivacissima, si attacca agli oggetti, che la solleticano con una sensibilità eminente. Il placido Religioso tutto inteso alla contemplazione, coltivando {p. 74}la Mente, lascia per disuso e per riflessione intepidire i sensi e la prima vivacità della fantasia; ma i Selvaggi che sentono più che non pensano, sono estremamente sensibili. Del pari i Dotti, i Filosofi che si deliziano nel coltivare le forze mentali, poco sensibili all’ambizione, e a’ piaceri tengono così compressa l’elasticità de’ sensi, che questi ne tornano ottusi, e la sensibilità del loro cuore è in ragione inversa della loro forza mentale, e reciproca della scarsezza di elasticità de’ loro sensi. Quindi nasce che il Dotto, il Filosofo, riflette meglio, e la gioventù sente meglio, perchè questa tiene in continua azione le passioni, e

“. . . . . . a suo piacer l’aggira
“L’odio, l’amor, la cupidigia, e l’ira,”

e quegli esercita continuamente il raziocinio.

Se il calzolajo, il mugnajo, los Chisperos (i fabbri) di Madrid, piangono in teatro al pianto d’Ines, il Dotto che vede l’artificio del Poeta, dove coloro veggono i personaggi imitati, e sentono una passion vera, ride in se stesso del loro pianto: quelli portano al teatro solo il cuore, l’altro soltanto mente e riflessione. Or quella chiamasi sensibilità, la quale poco solleva la voce in petto di quel Dotto. Socrate stesso non andava al teatro se non alcuna fiata alle nuove rappresentazioni di Euripide per l’amicizia, che seco avea. Dicesi che Newton mai non si era curato di udire una Musica. Un Geometra che sentiva lodar la Fedra, diceva, questa Fedra non pruova cosa veruna. Socrate, Newton, il Geometra, pel disuso, e per la contemplazione tutta volta alle scienze predilette, può dirsi, senza derogare al loro {p. 75}sapere, che mancavano di cuore.

La Natura è anteriore alla riflessione; ma se questa occupa tutto l’uomo, intorpidisce la natura, e annienta la sensibilità. Egli bisogna avere una mente illustrata avvezza ad esercitare il raziocinio: ma conservare le forze della fantasia e del cuore per sentire le voci della natura, che è il solo specchio di tutta la Poesia. Così equilibrando con senno le forze della mente, della fantasia, e del cuore, sempre riserbando alla mente il diritto di sovrastare senza tirannía, e al cuore quello di sentire senza trascurare di cedere al freno che lo richiami, ne risulterà un individuo capace di giudicar dritto di tutta l’amena Letteratura, e con ispezialità della Poesia Scenica.

Su tal fondamento possiamo distinguere gli uomini in tre classi: la prima di quelli che riflettono senza curarsi di sentire, come il Dotto imperturbabile; la seconda di coloro che sentono unicamente senza neppure accorgersene, come i selvaggi, i fanciulli, i volgari; la terza di quei, che senza immollare le ali alla sensibilità, fanno servire la Natura e la riflessione, il Cuore e la Mente, a guardarsi dagli errori, e ad essere più sensibili, e perciò più socievoli, più compassivi, più uomini in somma, che pretese divinità.

Ma lasciate le tesi, venghiamo alle ipotesi. In qual classe riporremo Rapin circa la sensibilità? Egli è da indagarsi ne’ di lui giudizj. Scrisse egli buone Riflessioni sulla Poetica, benchè in esse in prima copiasse molte osservazioni Italiane, approfittandosi degli scritti del Tasso, del Riccoboni, del Castelvetro, e di Paolo Beni, che egli chiamava, Dottore {p. 76}in tutto, fuorchè nella corda che a lui dissonava, cioè quando parla della sua Nazione: di poi vi censurasse per lo più mal fondatamente gl’Italiani e gli Spagnuoli, chiamandoli ignoranti nelle regole Aristoteliche, malgrado di non pochi Italiani ch’egli pur cita e trascrive: e appresso vi attaccasse con armi fragili, non solo il Poema del Chiabrera e dell’Ariosto, ma quello del Tasso, e finalmente tratto tratto vi contradicesse e Aristotile, di cui pure affermava, che on s’égare dès qu’on ne le suit pas, e se medesimo ancora in più di una censura. Ma con tutte le sue ottime Riflessioni fatte sulla Poetica in generale, egli intanto conchiude, che solo “Omero l’incoraggisce, e Virgilio lo riscalda, e gli altri Poeti lo assiderano, tanto sono essi per lui languidi e freddi”.

Confessi il Signor D. Saverio, che da queste parole traspare non solo scarsezza di sensibilità, ma certa zotica affettata ostentazione di buon gusto. Freddo adunque e languido è per lui Esiodo è Teocrito? de’ quali il primo fu di età non meno che di frase ed espressione, e di naturalezza e semplicità vicino ad Omero, ed il secondo abbonda di tanta soavità, grazia, e delicatezza: così che da essi prese l’Epico Latino non poco di quel fuoco, che infiamma il P. Rapin. Languidi e freddi reputa ancora Pindaro, Simonide, Alceo, Stesicoro, Saffo, e Anacreonte? Lascio Orazio, lascio Ovidio, non che il Tasso e l’Ariesto, e il Camoens, e Dante, e il Petrarca, benchè in essi di bell’ardore si accendano tutti quelli, che ambiscono diventar Poeti, e che trovano le loro Poesie fatte appunto per mettere in movimento la sensibilità. {p. 77}Che se i Greci più sensibili, e vivaci, e pieni d’inimitabile entusiasmo come Pindaro, di fiamme perenni come Saffo, di amorosa delicatezza e vivacità e di poetica leggiadria come Anacreonte, se questi, dico, gelano l’infocato Rapin, come ardirsi a mentovare i Poeti delle moderne lingue? Ma non allontanandoci da que’ Greci, il Signor Lampillas a chi darebbe il pregio della sensibilità, e il diritto di sentenziare in materie poetiche all’Italiano Orazio Flacco, o al Francese Renato Rapin? Questi non trova calore che in Virgilio e in Omero, l’altro, concessi ad Omero i primi onori, osserva che l’elevatezza impareggiabile di Pindaro, la robustezza de’ versi di Simonide, Stesicore, ed Alceo, e la grazia e piacevolezza di quelli di Anacreonte, mai non si rimarranno sepolti nell’obblio. Osserva ancora l’istesso gran Critico e sommo Poeta (oh che grande osservatore, Signor Lampillas!), che

“Ancor respira amore,
“Ancor l’intenso ardore
“Ferve vivace e spira
“Dell’Eolia donzella in sulla Lira1.”

Ha forse dato segno di sensibilità il P. Rapin con non ammettere in quella conchiusione i Tragici e Comici Poeti Greci, i Dominatori delle passioni, come gli chiamava il Presidente Montesquieu? Per concedergliela bisognerebbe non avere studiati altri libri che le di lui Riflessioni: ma ben altri ve ne sono, ne’ quali traspare un cuore delicato e una ragione chiaroveggente.

{p. 78}

La Modestia δωρημα καλλιϛον ϑεῶν, il più bel dono degli Dei, secondo Euripide, mi consiglierebde a non parlar quì de’ nostri Poeti. Ma Plutarco mi avverte che havvi certa Verecondia viziosa, che bisogna superare, e perciò non mi asterrò dal favellarne. Domando adunque, se mostri punto di sensibilità questo Critico, il quale, come farebbe tra i gelsomini, e le violette un rinoceronte, rimane nauseato delle amene felicissime descrizioni del Tasso, fin anco dal P. Bonhours appellate maravigliose, e rigetta tutte le delizie del Palagio di Armida con tanto artificio, con tal grazia, e leggiadria delineate dal grand’Epico Italiano? Quanto più l’Eroe comparisce tutto pieno dell’amor della gloria, e virtuoso, e incapace di cedere alle insidie comunali donnesche, tanto più di arte manifesta il Poeta nel farne avvenire il cangiamento con verisimilitudine, per insegnarci a star sempre vigilanti; e le Grazie stesse par che gli abbiano porta la mano, e scelto il pennello per dipingere quel cumolo di piaceri col colorito di Tiziano, colla espressione di Raffaello, e colla grazia di Correggio. Ma Rapin, Senocrate novello, insensibile a tante venustà, recherebbesi a onta il fermarvi gli alteri sguardi, e solo si affretta a decretare, che quelle mollezze disdicono all’Epopea. E in qual nuovo Aristotile ha ciò appreso? E crede che l’Epopea non debba narrare se non orrori, ammazzamenti, e Antifati, e Scille, e Ciconj, e Polifemi, e Lestrigoni, senza esserle permesso di descrivere gli antri di Calipso, gl’incanti di Circe, i giardini e i conviti di Alcinoo, il canto di Demodoco sulla rete fabbricata da Vulcano per inviluppare {p. 79}Venere e Marte? In tal giudizio manca la mente e il cuore.

Col medesimo fondamento esclude dal Poema Epico le compassionevoli avventure di Erminia che si rifugge a un tugurio pastorale. Egli volle perciò regalare il Tasso dell’Humano capiti di Orazio, copiando Quintiliano, quando parla del vizio Oratorio detto da’ Greci κοινισμος, miscea di varj dialetti. Il Tasso (dice Rapin) “è assai difettoso perchè frammischia nel suo Poema il carattere piacevole al serioso, e tutta la forza e la maestà dell’Epica Poesia alla delicatezza dell’Ecloga e della Poesia Lirica”. Apparisce primieramente in tal censura e la poca sensibilità di Rapin per la parte patetica de’ componimenti, e la falsità della dottrina, per cui non permette alla Epopea altro che un solo genere di narrazione, contrariando agli esempj di Omero e di Virgilio senza sostegno di verun Maestro. Di poi s’imputa al Tasso una mescolanza di carattere piacevole al serioso a cagione delle disgrazie di Erminia, che tanti patetici movimenti risvegliano in altri cuori. La compassione forse, e il disastro che la sveglia, è una piacevolezza? E dove trovasi lo scherzevole, il dilettoso, le badin nel Canto VII. della Gerusalemme? Egli è badiner l’avvenirsi ch’ella fa in Pastori tranquilli, liberi da appetiti e dall’ambizione, ma per altro i più serj del Mondo? E dove vede l’Ecloga in quel Canto? Rifiuta poi i Pastori l’Epopea? E l’esempio di Omero come potè sfuggire all’acutezza del Critico? Nel XIV. dell’Odissea Ulisse non conversa lungamente con Eumeo guardiano di porci? Aristotile non disse {p. 80}che nell’Epopea entrano i personaggi migliori, peggiori, e simili? Perchè dunque è quì abbandonato da Rapin che si protesta volerlo seguire costantemente? Oltre a ciò i Pastori del Tasso mettonsi forse a scherzare buffonescamente per rallegrare Erminia? Nulla di questo. E pure il maestoso Virgilio che riscalda sì bene il Rapin, mischia in fatti in certo modo il piacevole al serio, inserendo nel suo gran Poema l’eccellente descrizione de’ Giuochi Ginnici al Sepolcro di Anchise, imitata da quelle dell’uno, e dell’altro Poema di Omero; e in essa oltre al piacevole si sveglia certa specie di ridicolo per l’avventura di Darete. Così Rapin con sì famosa censura travia, s’ègare, perchè si allontana dal suo Aristotile, e dal calore di Virgilio (con pericolo di stecchirsi) per motteggiare sinistramente il Tasso. Or quì, in vece di sensibilità (che gli mancò, o compresse per astio contro dell’Epico Italiano), non trova il Signor Lampillas quell’umor nero, melancolico, misantropo, schernito dal perspicace Boileau?

“On peut être à la fois & pompeux & plaisant,
“Et je haïs un sublime ennuyeux & pèsant;
“J’aime mieux Arioste & ses fables comiques,
“Que ces Auteurs toujours froids & mélancoliques,
“Qui dans leur sombre humeur se croiroient faire affront,
“Si les Graces jamais leur deroidoient le front.”

Non pare che questo Critico, che vale assai più del vostro Rapin, abbia a dirittura voluto contrapporsi alla censura ingiusta fatta contro del Tasso? Un giudice che avesse sensibilità e gusto pari alla dottrina, nel leggere il Poema del Tasso, deciderebbe {p. 81}così: “Riguardo all’Iliade domandi a se stesso ogni lettore che penserebbe nel leggere la prima volta l’Iliade e la Gerusalemme, senza sapere i nomi de’ loro Autori nè i tempi, e senza pigliare altro giudice, che il proprio piacere. Potrebbe egli negare in tutto la preferenza al Tasso? Non troverebbe nell’Italiano più condotta, più interesse, più varietà, più aggiustatezza, più Grazie, e una certa mollezza contrapposta al sublime” (per non toccar sempre la stessa corda? Aspettate che passino altri secoli, e forse non se ne farà più comparazione). Vi pare, Signor Lampillas, che questo giudice, che si accorda col sentimento del Boileau, e diametralmente si oppone alla censura di Rapin, deciderebbe con imparzialità, se fosse Italiano? Questo sarebbe, vi sento rispondere, pintar como querer, dipingersela a suo modo. Nò, gentilissimo Signor Abate, questo giudice non è immaginario, non è stato da me personificato, non è Italiano: egli è Francese, dotto, sensibile, atto a decidere sulla Poesia Epica; è M. de Voltaire, che in tal maniera decreta nel Capitolo C. del Saggio della Storia Universale.

Nè sesibilità nè maestria io trovo in chi pensa come Rapin (Rifles. XXIV.), che in Teatro nulla vaglia tanto a dilettare, quanto la Sorpresa. La Sorpresa non si vuole escludere dal Teatro, e nelle Favole specialmente ravviluppate può tirare l’attenzione dell’Uditorio: per la qual cosa l’adoperano immoderatamente coloro, che si compiacciono di Favole romanzesche. Ma essa apporta un piacere, che in ciascuna rappresentazione va scemando, perchè cessa di essere sorpresa. E nell’intento {p. 82}di eccitare la compassione, essa non solo nulla quasi contribuisce, ma sovente nuoce, e chi la insinua mostra tutt’altro che sensibilità. Essa è in somma un puro colpo di Teatro. Il Poeta, che disegna intenerirci alla morte di un Eroe, lungi dall’occultarcene gl’indizj per sorprenderci, incomincia dall’interessarci per lui, e ne va spargendo qualche dubbio, e la compassione a poco a poco va fermentando, finchè all’evento si scioglie in lagrime. Poteva Rapin osservar ciò in Virgilio nella morte di Pallante: egli c’innamora di lui, ci rende solleciti del suo rischio, ci eccita in fine pietà pel di lui destino. Poteva osservarlo negli antichi Tragici, nell’Edipo di Sofocle, nel disegno di Medea sui figli in Euripide, e in Seneca, nelle Troadi di quest’ultimo per Astianatte &c. All’incontro, in cambio di Rapin, il suo Encomiatore e Confratello può osservare nelle Poesie di Ossian come la morte di Aganateca, che avviene senza, che il Lettore l’attenda, anzi che intenerirci, c’istupidisce, e passiamo, senza compiangerla, ad altri oggetti, che il Poeta ci presenta. Questa dottrina compresero ancora il dotto Gravina, e l’Enciclopedista M. Diderot.

Nè migliore, nè più sensibili giudice si manifesta il P. Rapin nel dire, che niuna cosa fa la bellezza delle Tragedie, se non i ragionamenti appassionati. Egli prende l’effetto per la cagione, e commenda per bellezza principale ciocchè è solo una conseguenza di quello, che effettivamente la produce. E come spera egli bei discorsi appassionati, se la favola bene ordinata, ben costumata, non desta l’interesse per un personaggio collocato in situazioni {p. 83}deplorabili, e non suggerisce i discorsi appassionati? Manchi l’artificio della favola e del costume, e voi vedrete isterilire la fertilità, e la sensibilità del miglior Tragico. Le parole, la sentenza, sieguono la cosa, il fatto:

Verbaque provisam rem non invita sequentur.

E che mancava a Corneille, a Racine, a Voltaire per fare discorsi appassionati nell’Agesilao, nell’Alessandro, negli Sciti? Intanto essi in tali favole sembrano meno eloquenti e meno appassionati, che non sono nel Poliuto, nella Fedra, nell’Alzira. Onde tal differenza? L’orditura di una Favola bene scelta, e ben disposta, lo stato delle passioni, le situazioni tragiche, svegliano nella rappresentazione l’interesse, e prima nel Poeta l’entusiasmo, che gli dà anima, vivacità, calore, e per conseguenza discorsi ora sublimi, ora maravigliosamente appassionati:

. . . . . Cui lecta potenter erit res,
Nec facundia deseret hunc, nec lucidus ordo.

Io non voglio Signor Lampillas, accumular quì tutte le false applicazioni fatte dal Rapin della Dottrina Aristotelica agli esempj delle altrui Poesie, perchè di molto mi dilungherei, nè l’oggetto di questo mio discorso è il formare Autos contro Rapin, bensì il desiderio di scagionarmi presso di Voi. Dico solo, che troppo vi è da spigolare nelle di lui bellissime Riflessioni, e che un cuore, che si è mostrato sì poco sensibile alle grazie, alle delicatezze, al calore, al patetico della maggior parte degli ottimi Poeti antichi, e moderni, poca impressione dovea fare nel vostro buon gusto, e non riscaldare il vostro zelo in sua difesa, perchè io {p. 84}dissi, che in quanto accennò delle Tragedie del Trissino, e del Tasso, dimostrò mancar di cuore per giudicarne drittamente. Senza ciò come non avrebbe scorto il patetico di Euripide in quelle cose, che io scelsi di esse Tragedie? Non vi si vede a maraviglia dipinta la natura, che soffre? espressa con sentimenti non languidi, non freddi, ma vivaci, animati, spiranti tutto il calore della passione, tratti dall’intimo del cuore umano? Appello al sentimento interiore del Signor Apologista, e alla di lui imparzialità e buona fede, sempre che voglia leggere quei Drammi, fatto però anticipatamente uno sforzo generoso contro a’ pregiudizj nazionali, per portare a tal lettura vista chiara e mente serena. Vedrà allora, che quegli aurei spezzoni sfuggirono al Rapin per mancanza di cuore. Vedrà poscia con altr’occhio la difesa, che ne imprende con più calore, che avvedutezza, e con certo tono un poco troppo acuto, che può obbligare altri a rispondere in consonanza. E forse, senza derogare interamente alla stima, che per altro merita per ogni riguardo il P. Rapin, il cancellerà pure dal lato del P. Brumoy, che si distingue per erudizione, per gusto, e per sincerità. E forse il Signor Lampillas non rimarrà pago di ciò, che scrisse nella p. 193.: “Ma dove trovare ne’ moderni censori del nostro Teatro quelle qualità necessarie a giudicar dritto delle opere d’ingegno che noi ammiriamo in un Brumoy e in un Rapin?” Dove? Vel dirò io. In coloro che mostrano, e possono mostrare a tutte le ore sempre con nuove prove, che sanno distinguere il merito di Rapin da quello di un Brumoy, il quale ha {p. 85}dato a divedere nel suo Teatro Greco di quanto per ogni banda si eleva sulle Riflessioni, e su’ Rapin. Ditemi, per vostra fe, avete voi fatto simili esami prima di trarre colpi da orbo? E se non ve ne siete curato, come vi arrogate il dritto di decidere? di sentenziare, gonfiando la bocca, Noi ammiriamo? di collocargli amendue in un seggio? Non vò dirvi di chi è figlia l’ammirazione. Neppure vò riferire certi versi Oraziani dell’Arte Poetica dell’evento, piacevole per gli astanti, di chi si mette in danza a giocare alla palla, al disco, al trottolo, e a maneggiare altri simili campestri arnesi.

ARTICOLO VIII.
Degl’Inventori del Dramma Pastorale. §

La Poesia Pastorale ha una origine immemorabile, testimonio la Cantica di Salomone, e le Greche Poesie Bucholiche di Teocrito, Mosco, Simmia, e Bione. I Greci antichissimi ne portarono qualche scintilla fino nella Drammatica cogl’Inni Dionisiaci, e co i Satiri che vi comparivano. Questi semi dierono in appresso nascimento alla Poesia Satiresca, ma i Drammi di questo genere sono per noi perduti, eccetto il Polifemo di Euripide. Non si curarono, a quel che sembra, di coltivarla i Latini: ma de’ loro Drammi ci sono rimaste troppo scarse reliquie per assicurarsene. Certo è però, che tralle Maschere, che appartengono alla antica Italia, trovansene di molte satiresche; e che i Romani nel copiare i Teatri Greci materiali, {p. 86}secondo Vitruvio non lasciarono di apprestare al Dramma Satiresco la sua Scena, e le decorazioni corrispondenti. Che che sia di ciò, Virgilio, Calfurnio rinnovarono in Italia colle loro Ecloghe i Teocriti e i Bioni. Al risorgere delle Lettere, non l’Ecloghe soltanto, ma i Satiri risorsero ancora nell’Egle del Giraldi Cintio. Di essa così discorre l’Autore nella Dedicatoria ad Ercole II. di Este IV. Duca di Ferrara, dichiarandola per Satira distinta dalla Tragedia e dalla Commedia:

Non quæ te tragico perturbet fabula fletu,
Huc veniet grandi, aut quatiat quæ pulpita voce
Ardua materies, multorum & viribus impar,
Quæve astus Davi referat sermone pedestri,
Lenonisve dolos, tenerosque Cupidinis ignes,
Hunc simul indocto & docto trita orbita vati,
Sed quæ nunc demum Satyros denudet agrestes,
Et Faunos, Panesque simul deducere sylvis
Audeat, & blando te oblectet ludicra risu.

Intanto nel secolo XV. era nato nell’Italia ancora nell’Orfeo del Poliziano un Dramma Pastorale con fine tragico, che in nulla rassomigliava al Ciclope di Euripide, e nell’antichità non avea esempio. Anche il nobile Niccolò Correggio scrisse allora un Dramma sull’avventura di Procri e Cefalo e dell’Aurora, intitolandolo Cefalo, il quale è fuor di dubbio una Pastorale. Adunque l’invenzione di questo Dramma appartiene di tutta ragione all’Italia, benchè sembrasse diversamente al P. Brumoy e ad altri ancora, che vorrebbero ricavarlo dal Ciclope; nè le altre moderne Nazioni possono sì di buon’ ora additarne pesta nelle loro {p. 87}contrade. Prese indi forma migliore la Pastorale nel XVI. fralle mani del Beccari, e si perfezionò fra quelle del Tasso.

Quì ci muove lite l’Apologista erudito, e pretende seriamente, che in Ispagna nacque la Scenica Pastorale. E perchè questo è uno de’ possibili non lontanissimi dal convertirsi in atto, e un tanto accurato ragionatore come il Signor Lampillas, non avrà avanzata simil cosa senza documenti, vediamo quali essi siano.

Incomincia dall’escludere i pretesi Drammi Pastorali Italiani con questa grave decisione (p. 155.). Gl’Italiani non furono gl’inventori della Pastorale, perchè “sino al 1554. quando uscì il sacrifizio del Beccari, può dirsi che non fu conosciuto in Italia questo nuovo genere Drammatico.” Le quali parole in sostanza significano che non inventarono la Pastorale, perchè non l’inventarono. Queste sono appunto di quelle ragioni, che in Ispagna diconsi de Pedro Grullo, e in Italia del Dottor Graziano, le quali si conobbero anche da’ Latini, avendocene Plauto dato qualche esempio:

Hos quos videtis stare captivos duos,
Hi stant, non sedent.
E malis multis id quod minimum est, id minimum est malum.

Ma venghiamo a’ fatti. Per qual ragione l’Apologista esclude il Cefalo, e l’Orfeo del XV. secolo? Perchè, risponde, essi non meritano il nome di Pastorali. Gli avete dunque letti? esaminati? Ditene dunque perchè non meritano questo nome. Fossero anche questi, come la Sofonisba, Dialoghi Allegorici? La vera risposta che vi conviene, è il verso di Giovenale,

{p. 88}
Sic volo, sic jubeo, stat pro ratione voluntas.

Adunque il capriccio apologetico è una ragione? Caro Sig. D. Saverio, voi volete far ridere Italia, e Spagna.

Si strugge poi il nostro Sig. Abate per trovare ragioni da rimovere dal giudizio I due Pellegrini del Tansillo, e l’Ecloga del Caro; e intanto si lascia dietro un nemico non meno forte del Cefalo, e dell’Orfeo, cioè l’Egle del Giraldi pubblicata nove anni prima del sacrifizio del Beccari. Ma l’Egle per l’Apologista può essere un altro Dialogo Allegorico.

Dice appresso (p. 157.): “Ciò posto . . . . (Piano: Posto che? Nulla avete voi posto nè stabilito: dovreste dire piuttosto, Posto che io per capriccio non vò riconoscere per Pastorali nè il Cefalo, nè l’Orfeo, nè l’Egle, non che i due Pellegrini; e poi proseguire il vostro arzigogolo). “Ciò posto (dice dunque), ognun vede che fino a questi tempi non può dirsi inventato dagl’Italiani il Dramma Pastorale”. Ognun vede eh? Se voi ad ognuno presterete i vostri vetri colorati, di cui parla Plutarco, ognuno vedrà quello che a voi sembra di vedere; altrimenti ognuno vedrà, ognuno palperà, leggerà, declamerà l’Orfeo, l’Egle, il Cefalo, e non vedrà mica una voce apologetica impalpabile, invisibile, come l’ecco.

Vediamo però a quest’inventori Italiani della Pastorale riprovati ed esclusi, quali inventori Spagnuoli sostituisca il nostro Apologista. L’inventore della Pastorale, che, secondo lui, prevenne gl’Italiani, fu il Battiloro Commediante Sivigliano Lope de Rueda. Benissimo, noi ci rallegriamo della {p. 89}felice scoperta. Ma quando nacque questo Rueda? quando fiorì? quando cessò di vivere? Nulla di ciò sanno con sicurezza nè l’Apologista, nè i suoi compatrioti. E con tali dubbietà, anzi con tali non dubbie ignoranze vogliono venire a competenza in un punto, che dipende dalle date? Rigetta l’Apologista l’opinione del Quadrio, che il Rueda fiorisse verso il 1560., e stima ch’egli erri in questa data. Sarà così: ma non per la piacevole ragione asseritane dal Lampillas, cioè che poco dopo il Rueda morì. Forse non si può morire nel più bello del fiorire?

Non potendo l’Apologista presentare data veruna da contrapporre all’epoche fisse de’ componimenti, e degli Scrittori Italiani, ricorre alle sue famose congetture. Ed io perchè di me ancora non dica che gl’Italiani dissimulano le sue ragioni, vo’ rapportarle. La prima che propone, è questa che si legge alla p. 168.: “Nella serie storica de’ primi Autori delle Commedie Spagnuole dopo il Rueda si vede nominato il Castillejo, il quale certamente fiorì da’ primi anni di quel secolo sino al quaranta”. In prima questa serie istorica de’ Comici Spagnuoli si è forse trovata in qualche scavazione incisa in Tavole enee, come l’Eugubine, che possa valere di prova invitta a decidere di anteriorità tra Rueda, e Castillejo? Quali fondamenta per le vostre torri, Sig. Lampillas! In secondo luogo dite, che Castillejo certamente fiorì da’ primi anni del secolo sino al quaranta. Questa parola certamente parmi della natura delle certezze, che avete intorno alla vita di Vasco di Fregenal, del Maestro Perez, e di Lope de Rueda. E donde {p. 90}cavate voi questa certezza? Così l’Apologista tremendo in congetturare, ed argomentare va seminando lite da lite, e provando l’incertezza coll’incertezza. Di Castillejo è certo solo, che servì di Segretario a Ferdinando, fratello dell’Imperadore Carlo V., a cui succedè nell’Imperio di Alemagna; che menò la maggior parte della vita nella Corte; e che in fine si ritirò vestendo l’abito de’ Cisterciensi, e morì nel 1596.1. Se dovea egli fiorire ne’ primi anni del XVI., se quel che i Greci dicono ἀκμὴ, vigore, sia dell’età, sia dell’ingegno, il dimostrò a quel tempo, egli è forza che nascesse nel XV., nè verso gli ultimi anni, perchè l’esercizio della Poesia, specialmente scenica ne richiede alquanti. Visse dunque il Castillejo più di un secolo intero? Non è impossibile; ma si vuol provare, altrimenti da un possibile rarissimo a cui ricorrete, si presumerà contro di voi, che asserite volontariamente cose non vere, per giugnere al vostro intento. Di poi non si vede che ondeggiate in un elemento instabile senza bussola? Avete detto che Castillejo fiorì ne’ primi anni del secolo; e dite poi nella p. 178., che fiorì verso il 1530. Or fino a quanto per gli Apologisti durano que’ primi anni? Fino a’ 30.? a una terza parte del secolo? Così andate cangiando linguaggio, e perdendo terreno. Dite in oltre ch’ei fiorisse verso il 1530. fino al 40. Presto dunque bisogna che lasciasse di fiorire chi prolongò la vita sino al 1596., sopravvanzandogli ben cinquautasei {p. 91}anni infruttuosi per le Lettere. Sono queste le angustie di Termopile, o il passaggio delle finestrelle della Savoja?

Puntella l’Apologista la riferita congettura sul Rueda con un’ altra ugualmente invincibile. Lo Stampatore Valenziano Giovanni Timoneda impresse nel 1567. le Commedie, e i Colloquj del Rueda: ma Timoneda era amico del Rueda, e impresse in Siviglia qualche opera nel 1511.; dunque allora fioriva Lope de Rueda. Non è questa una illazione ben dedotta? Lascio che la parola amico del Rueda porta la marca dell’officina Lampigliana, e la data dell’Edizione del Saggio. Mi ristringo solo a domandare, se pare al Sig. Apologista, che quest’amicizia possa dirsi contratta intorno al 1511., perchè allora quel Valenziano stampò alcuna cosa in Siviglia? Non poteva formarsi venti, trenta, o più anni appresso? E l’avere il Timoneda stampate le Commedie del Rueda dopo la di lui morte, è pruova della loro amicizia? E su tali fondamenti parvi che possa regger la macchina innalzata dalla cieca filautia? Quai ragioni, amico D. Saverio! E poi chiamate deboli le congetture del Signorelli?

Ammetto intanto la correzione già da me stesso fatta anticipatamente nel mio Libro dell’enorme equivoco di aver chiamati Colloqui Pastorali tutte le Favole del Lope, quando tra essi vi sono anche delle Commedie. Intanto in contracambio avverto il Sig. Lampillas a leggere El Viage Entretenido del buon Poeta Agostino de Roxas, che egli forse in fide parentum stimò che fosse una Storia de’ Teatri delle antiche Nazioni, ed anche {p. 92}dello Spagnuolo. L’erudito Bibliografo D. Nicolas Antonio smentisce l’Apologista. Egli dice che Agostino de Roxas Commediante fiorì tra il secolo XVI., e il XVII., e scrisse alcuni Dialoghi intorno al mestiere, e a’ costumi de’ Commedianti, mostrando la loro laboriosissima vita; e il suo Libro impresso in Madrid nel 1583., nel 1603., e nel 1614., ed anche in Lerida, s’intitolò El Viage entretenido. Ora, caro Abate Apologista, alcuni Dialoghi del mestiere, della vita laboriosa de’ Commedianti Spagnuoli, e de’ loro costumi, sono in verità ben altra cosa che una Storia de’ Teatri delle antiche Nazioni e del Teatro Spagnuolo. Bisogna che qualche maladetto incantatore nemico di tutti i Don Chisciotti di ogni specie abbia trasformato quell’Autore ed il suo Libro. Ma non si perda d’animo, Signor Lampillas: trovi qualcheduna delle sue sugose congetture per distruggere il racconto dell’Antonio: veda se vi fosse stato più di un Agostino de Roxas, più di un’opera col medesimo titolo, impressa nel medesimo Madrid, nel medesimo tempo: veda se può dire, che il testo dell’Antonio sia viziato: pensi se qualche Stampatore (come per la sua scoperta apologetica avvenne alle Commedie di Cervantes) avesse cambiato il Libro del Roxas: in somma faccia egli, che farà sempre bene al solito. Mi dica solo; questa trasformazione de’ Dialoghi del Roxas su la vita de’ Commedianti Spagnuoli in Istoria Teatrale antica e Spagnuola, è un errore di lettura, o malignità? Eh Signor Lampillas, per queste vie non itur ad astra, e gli Spagnuoli, e gl’Italiani non passano così facilmente per corrivi delle vostre astuzie. Ma {p. 93}finisca omai questa tiritiera sull’inventore della Pastorale.

Un altro ne riconosce il Signor Lampillas nel nobile Poeta Garcilasso de la Vega. Questo felice ingegno compose alcune ottime Ecloghe, ed una di esse intitolata Albanio sembra al Lampillas un bellissimo Dramma Pastorale. Faccia il Cielo che questo ancora non sia un mulino a vento, preso per un Gigante, una mandra di pecore per un Esercito, una scena di Pupi cangiati in Mori. L’Apologista numera nell’Ecloga nominata cinque Scene, e riconosce il genere, non dall’azione, ma dal numero de’ versi, osservando che anche col toglierne un lungo ragionamento in lode della Casa di Alba (che in vero starebbe acconciamente allogato, se quest’Ecloga fosse un Dramma), resta ancora ricca di versi 1200. Ed ecco il fondamento del giudizio del Signor Lampillas per istallare a Dramma un’ Ecloga, le uscite de’ personaggi e il numero de’ versi. Rapin insegna di siffatte cose? Ottima economia poi sarebbe per un Dramma quella di 1200. versi distribuiti a quattro persone in cinque scene! Noti ancora la Spagna e l’Italia, che l’istesso Apologista, il quale toglie a’ due Pellegrini del Tansillo il titolo di Dramma, che pure ha un’ azione che l’allontana dalle Ecloghe, l’istesso Apologista, dico, chiama coraggiosamente Dramma l’Albanio, in cui non v’ha operazione alcuna compiuta, nel che è posta l’essenza del Dramma, come è chiaro dalla stessa voce1. Così l’egregio Signor Lampillas aspirando (senza {p. 94}saper perché) all’anteriorità della Pastorale, che è l’Itaca che fugge davanti al nostro Catalano Ulisse, ha trasformata una bell’Ecloga in molte parti, tenera, e delicata, in un informe, difettoso, meschino Dramma Pastorale1. Con poche altre di queste opere pie ch’egli presti alla sua Nazione, possiamo dire addio alla Letteratura Spagnuola. Macte, Signor D. Saverio.

{p. 95}

ARTICOLO IX.
Pregiudizj dell’Autore della Storia de’ Teatri
rilevati dall’Apologista. §

Un titolo urbanissimo leggesi nel Tomo IV. della P. II. del Saggio §. ix. p. 165. “Il Teatro Spagnuolo dal 1500. fino all’Epoca di Lope de Vega difeso da’ Pregiudizj dell’Autore della Storia Critica de’ Teatri”. Quantunque io dovrei essere avvezzo a simili gentilezze apologetiche, avendo l’Autor del Saggio ne’ Volumetti precedenti regalato col medesimo titolo il Ch. Tiraboschi, l’erudito Bettinelli, e tutti gl’Italiani, che anche col pensiero fossero indiziati di essere Anti-Spagnuoli, contuttociò spiacemi, che il Signor Lampillas vada alzando l’intonazione, perchè ripeto, strascinerà tutti gli altri ad accordarvisi, e poi si querelerà della poca urbanità e che so io. {p. 96}Del resto egli con una evidenza propria del suo famoso saggio dimostra tali miei Pregiudizj, ed io non solo mi dispongo a contenermi nel replicare, ma penso di più dargli un attestato di rassegnazione col disfarmene e riprovargli; e per mia umiliazione vò prima ripeterli,

I. PREGIUDIZIO. §

Il Signorelli (dice l’Apologista p. 166.) quanto esalta giustamente il Teatro Spagnuolo sopra il Tedesco e il Francese, tanto lo mette al di sotto dell’Italiano.

RISPOSTA.

Il Signorelli domanda perdono al Signor Lampillas di questo peccato, ora che si è avveduto, che per vivere con lui in pace bisogna tessere un continuo panegirico delle Scene Spagnuole a dispetto del buon senso. E che ci vuol fare? Credeva il Signorelli troppo buonamente, che un Teatro regolare, ritratto de’ costumi del tempo che correa, formato su i Greci e i Latini, scritto in istile purgato e naturale, fosse da preferirsi a un altro Teatro privo di quasi tutti questi pregi. Ma il Lampillas mi dice che questo è un pregiudizio, ed io vi rinunzio incontanente. Anzi di più in conseguenza di tal disinganno, rinunzierò a un altro pregiudizio. Imperocchè io pensava che i Poemi Comici si dovessero esaminare dall’arte, dal colorito, dal piacevole, e dallo stile, e circa l’oscenità di alcuno di essi bastasse accennarla, come ho {p. 97}fatto io, ad esempio del dottissimo Brumoy che così trattò nelle Commedie di Aristofane, e come fece D. Blàs de Nasarre nelle Commedie oscene di Castillejo. Ma da quì innanzi penserò alla Lampigliana, e quelle Commedie esalterò, ad onore della Drammatica Poesia, che tratte sieno da qualche Flos Sanctorum, senza attendere punto al merito profano intorno all’arte e al gusto, con cui le altre fossero scritte. E per corollario di questo pregiudizio già distrutto, mi spoglierò di un’ altra falsa opinione, che io covava in mente. Io credeva che, per quanto si stimi un Autore, un ingegno libero non mai si obbliga a seguirlo ciecamente, quando la ragione nol consenta. Pregiudizio del Signorelli! Ma sgomberata mercè del Lampillas, la mia mente delle antiche sue fallaci idee, potrò quindi innanzi approvare, trascrivere, adottare senza esame, non solo quanto pensano i Ch. Tiraboschi, e Bettinelli, ma il Varchi, il Gorini Corio, e il Quadrio, purchè parlino a modo dell’Apologista, ed iscreditino per loro fini, le Commedie Italiane del cinquecento.

E’ vero, che il Signor Lampillas nota altri miei pregiudizj intorno al Rueda, e a Naarro di Torres, e a Nasarre; ma del primo ho già parlato, e circa i secondi stimo, che quella parte della Storia de’ Teatri, che di loro favella, non sia stata punto crollata per quanto in più pagine abbia ammonticato per conseguirlo il mio spregiudicato Maestro Apologista.

Trovo un’ altra imputazione a cui vo’ ancora soddisfare. Più di una fiata mi rinfaccia il Signor Lampillas, che io abbia più a disteso parlato del {p. 98}Teatro Greco, Latino, e Francese, che non dello Spagnuolo. Lasciamo che questa querela non avrà più luogo, pubblicata la nuova edizione del mio Libro. Lasciamo ancora, che io per uno de’ miei soliti pregiudizj pensava, che di quello più si dovesse parlare, che più conferisse a migliorar l’arte, ed instruire la gioventù. Vengo a dire il perchè nella prima edizione sì mi condussi: bene inteso, che se allora parlai poco dello Spagnuolo, meno assai parlai dell’Italiano, se si attenda alla lunghezza del tempo, in cui l’Italia ha coltivata la Drammatica.

Quando pensai a distendere una Storia Critica de’ Teatri a vantaggio della gioventù, credei a ciò conducente renderle, prima di ogni altra cosa, più famigliari i Drammi Greci, e Latini, che per la mollezza del tempo corrente, e per essersi essi allontanati dalle nostre usanze, venivano negligentati. Adunque cercai parlarne in guisa, che non istancando con soverchia e rancida pedanteria, appagar potessi la giovanile curiosità, per quelle ricchezze riposte. Appresso stimai, che il Teatro Francese meritasse men succinto ragguaglio, per le alterazioni vantaggiose fatte all’antica scena da questi ultimi felici Drammatici. E molto più perchè osservava, che la gioventù Italiana per simili idee sparse fra noi da varj anni, a gloria del Teatro Francese, cadeva nell’idolatria di esso; e consecrava indifferentemente ogni produzione scenica della Senna senza distinguere le smilze dalle robuste piante, le caduche dall’eterne, e quindi mi parve necessario aprirle cammino, apprestarle un lume, perchè potesse sceverarle, e mi convenne alquanto particolareggiare.

{p. 99}

Stimai al contrario, che per tante Drammaturgie, Cataloghi, Biblioteche, e Critiche teatrali, la Drammatica Italiana fosse competentemente fra noi conosciuta, e sì la scorsi assai leggermente. Feci altrettanto del Teatro Spagnuolo, perchè per la superiorità del Francese, il vidi passato di moda, e giudicai, che nè i nostri, a’ quali era divenuto indifferente, nè i nazionali, che l’aveano sotto gli occhi, vi avrebbero preso interesse, tanto più che sapeano che i migliori loro Letterati sospiravano per una riforma. Ma qualche mio amorevole compatriota m’insinuò, che nel reimprimere il mio Libro parlassi pure del Teatro Italiano al pari degli altri, perchè non era così noto come io pensava, e perchè alcuni nostri Eruditi ne favellavano in termini assai generali secondo il proprio gusto o interesse, e non secondo la verità istorica, e gli emuli forestieri mettevano a profitto le loro parole per iscreditarlo. Adunque cedei a queste amichevoli rimostranze, e nella riforma della mia Opera distesi la nostra Istoria teatrale in guisa, che appagasse gli amici della verità, e delle nostre Lettere. E perchè nel tempo stesso mi trovava fornito di notizie ulteriori sul Teatro Spagnuolo, per rendere più proporzionate le membra della mia Storia, questo parimente ho aumentato quasi al pari dell’Italiano. E’ soddisfatto il Signor Lampillas? Trova in questa narrazione ancora qualche pregiudizio?

{p. 100}

II. PREGIUDIZIO. §

Il Signorelli (Lamp. p. 176.) non vuole stimar verisimile, che le farse (triviali, fredde, smunte, snervate) del Naarro potessero tollerarsi in Italia, dove si rappresentavano le Commedie del Macchiavelli, dell’Ariosto, del Bentivoglio: quando che si sa che Leone X. chiamava a Roma la Compagnia de’ Rozzi, i quali non rappresentavano quelle eleganti Commedie.

RISPOSTA.

Che semplicità del Signorelli! Egli credeva, che i Rozzi di Siena fossero Accademici eruditi addetti principalmente a coltivare la Scenica Poesia scrivendo e rappresentando. Credeva, che se essi non recitavano l’eleganti Commedie surriferite, altre ne producevano scritte da loro con purezza, grazia, ed arte (lontane certamente dalla freddezza, intollerabile in tutti i secoli, e in tutti paesi, di quelle di Naarro), e perciò comprese sotto il titolo di Commedie erudite1. Ma il Signor Lampillas che stima pregiudizj la Storia e l’Evidenza, che sa convertire un Commediante Spagnuolo in un buon {p. 101}Poeta, e i di lui Dialoghi sul mestiere de’ Commedianti Spagnuoli in una Storia Teatrale delle antiche Nazioni, ha cangiato quì un’ Accademia di bella Letteratura in una Compagnia Comica. E siccome la di lui grave autorità fa tutta l’impressione dovuta nell’animo del Signorelli, la crederà anch’egli una Congrega di Arlecchini; e crederà in conseguenza, che le Commedie del Naarro potessero essere allora ascoltate in Italia, affermando non solo, che ciò fosse verisimile, ma vero ancora, s’egli così prescriverà.

III. PREGIUDIZIO. §

Nè anche crede il Signorelli (Lam. p. 177.), che fossero stampate a’ tempi intorno a Leone X. le Commedie di Angelo Belocci detto il Ruzzante, le quali erano composte in varj dialetti.

RISPOSTA.

Veramente pensava il Signorelli, che non vi fosse stato in Italia verun Ruzzante chiamato Belocci, ma sì bene un Angelo Beolco1. Pensava che questo Ruzzante avesse composte talora Commedie con più di un dialetto (e non già con quanti ne usò l’Autore della Rodiana), ma che esse non erano punto fredde, e insulse come le Spagnuole del Naarro, anzi festevoli e lodate assaissimo nell’ {p. 102}Ercolano da Benedetto Varchi giudice favorito dell’Apologista. Ultimamente pensava, che le Commedie del Beolco non furono mica stampate a quei tempi di Leone X., come dice il Signor Lampillas, ma nella fine del secolo, nel 1598., secondochè si vede nell’Eloquenza Italiana di Monsignor Fontanini1. Ma questi sono fatti istorici, cioè i nemici capitali dell’Apologista, e per conseguenza vanno sotto la rubrica de’ Pregiudizj. Il Signorelli adunque adotta le ben ponderate opinioni del Signor Lampillas, ed al cenno di sì instruita scorta, è pronto a tenere per un tessuto di pregiudizj tutta la Storia Civile, e Letteraria universale.

IV. PREGIUDIZIO. §

Il Signorelli (Lamp. p. 177.) insinua alla gioventù lo studio delle Commedie di Ariosto, cosa disapprovata dall’Apologista, perchè potrebbe temersi, che in vece del purgato stile imparasse il corrotto costume.

RISPOSTA.

Siccome non si schiva il frequentare la Casa dell’Orazione per l’abuso fattone talvolta da chi vi amoreggia con cenni, sorrisi, e parolette; nè si bandisce il ferro, perchè con esso si versa il sangue {p. 103}umano; nè dobbiamo fisicamente cavarci gli occhi, perchè per essi può entrar la morte: così pensava il Signorelli non doversi trascurare lo studio di un eccellente modello dell’arte, quando anche alcuna cosa vi si dicesse con qualche libertà. Ma poi (sia ciò detto con pace del Signor Lampillas) non è punto vero, che nelle Commedie di Ariosto s’insegni il corrotto costume. Questo è detto apologeticamente. Anzi al corrotto costume, a’ vizj palliati, alla prepotenza, alla venalità, all’avarizia, alla più d’ogni vizio detestabile ippocrisia, in esse si fa la guerra con una satira spiritosissima. Forse alcune poche cose cercate col fuscellino vi noterà il Signor Lampillas da riprendere; ma che queste sieno pochissime in Ariosto, e poco degne di farsene caso, apparisce dall’essersi disprezzate dalla vigilanza della Chiesa per tre secoli continui. E a dir vero stupisco di voi, Signor Lampillas, che vi arrogate l’autorità di proscrivere ciò che la Chiesa non disapprova, e d’involare alla pubblica libera lettura Libri eccellenti per un capriccio apologetico. Ciò potreste più acconciamente inculcare per le Commedie ed altro del Libro del vostro Naarro, il quale appena pubblicato nel 1520. fu riprovato dalla Chiesa, e restò proibito e negletto per 53. anni. Ma pur questa sarebbe una cura inutile, perchè tal Libro, ad onta della seconda Edizione, giacque ancora, e giacerà preda delle tignuole nella polvere, dalla quale con infelice sforzo pretese cavarlo il Bibliotecario Nasarre. Circa poi all’espressioni indecenti e a’ sacri detti applicati profanamente, il Signor Lampillas farà stupire ogni lettore, che per qualcheduno, {p. 104}che potrà trovarsene in Ariosto, alzi così rigidamente la voce, quando ne’ due passati secoli in tante migliaja di Commedie Spagnuole i Graziosi fondano in ciò la principale ricchezza de’ loro sali. Apra qualunque de’ loro Autori (appena salvandosi da tal contagio il solo Solis, se non m’inganno), e gli salterà agli occhi questa verità. Ciò che fa principalmente stordire nel Teatro Spagnuolo (dice l’eruditissimo Ab. Arnaud) è l’applicazione ridicola, che si fa incessantemente delle cose più gravi. “Il n’y a guére dans les Prieres de l’Eglise, & dans les Livres Saints, de passages connus, qui ne soient employés dans ces farces de la maniere la plus indecent. Un Valet dit à une Servante, qu’il n’y a guére de Pucelles; ne le suis-je pas? répond la Fille. Non credam, nisi videro, replique le Valet. A la fin d’une Piéce un Bouffon renvoye les Spectateurs en leur disant, Ite Comoedia est &c.1.” Il sacro conservare digneris si converte da un Grazioso di Calderon in conservar los dineros. Il per altro grazioso D. Agostin Moreto ne abbonda. Non credo che tanti esempj ne porgano tutte le Commedie di Ariosto, e Machiavelli unite insieme, quanti se ne incontrano nel solo Marqués del Cigarral {p. 105}Commedia del lodato Moreto. Dice Don Cosme nella Giornata I., Ad Ephesios responsion; giura nella II. Por el santissimo bote de la Magdalena Santa: dice nella III. Valgame todo el Psalterio. Nella Confusion de un Jardin dice nell’esser preso un Cavaliere nel Giardino:

“Es noche de Juebes Santos
“Que se hace prision en huerto.”

Può darsi di questa maggior profanazione?

Infine era il Signorelli persuaso, che, quando anche nelle Commedie dell’impareggiabile Poeta Ariosto vi fossero alcune cose non totalmente decenti, esse non potessero esser mai tante, quante se ne leggono nelle Commedie Latine, a cagione de’ caratteri che vi s’introducevano, e non pertanto da quasi diciotto secoli l’Europa Cristiana legge, studia, comenta, traduce, ammira Plauto e Terenzio, e se ne raccomanda la lettura alla gioventù. E sarà poi delitto il consigliare, che si studiano quelle dell’Ariosto? Ma con tutto che la sonora voce della ragione parli in simil guisa al Signorelli, egli risolve abbandonarsi del tutto alla perspicacia e allo zelo rischiarato del Signor Lampillas.

V. PREGIUDIZIO. §

Il Signorelli (Lamp. p. 178. sino a 182.) contro l’aspettazione dell’Apologista dà per cosa verisimile e vera, che un Cervantes, che con tanto senno ragionò contro le cattive Commedie, ne avesse poi composte otto sommamente spropositate.

{p. 106}

RISPOSTA.

Anche di questo pregiudizio si emenderà il Signorelli, e crederà più alle rare congetture del Signor Lampillas, che agli occhi proprj, co i quali ha vedute e lette queste spropositatissime Commedie di Cervantes. E ciò farà con alacrità tanto maggiore, quanto che l’Apologista l’incoraggia con quel bellissimo ritrovato apologetico (che pure non venne in mente all’istesso Nasarre), che la malizia degli Stampatori sotto il nome e prologo di Cervantes pubblicò quelle stravaganti Commedie . . . sopprimendo le genuine, o trasformandole del tutto. Or chi non crederebbe che l’Apologista parlasse secondo che pensa, a quella gravità e serietà con cui afferma simil cosa? Io per me credo fermamente a quanto quì dice. E che importa che contro sì bella e felice pensata del Lampillas mormori l’istesso senso comune? Che lo stile delle otto Commedie senta il sapore usato di Cervantes? Che importa che si dovrebbe supporre questo Scrittore assai stupido e nemico della propria riputazione, perchè sotto gli occhi suoi vedesse e tollerasse cotal forfanteria senza ricercare novella delle sue Commedie soppresse? Che importa che sopravvivesse un anno a cotale oltraggio fatto al suo nome con simile soperchieria, e non ne procurasse il risarcimento, e non se ne lamentasse almeno, quando di molte minute particolarità delle sue cose ebbe egli cura di lasciar memoria ne’ suoi scritti? Questi sono piccioli scrupoli per le anime grandi che compongono Apologie, e i discepoli de’ Lampillas {p. 107}debbono avvezzarsi a superarli con un cuore di ferro. Lungi dunque dal Signorelli tutto ciò che non è instruzione Lampigliana.

VI. PREGIUDIZIO. §

Uno de’ gravi pregiudizj del Signorelli si è (Lamp. p. 183.), che vuole prestar fede a Lope de Vega intorno alla corruzione del Teatro Spagnuolo prima di lui, e non all’Apologista, che pretende che prima di Lope vi fiorissero insigni Poeti Comici senza difetti e irregolarità.

RISPOSTA.

Il Signorelli lesse che, citato Lope dall’Accademia a discolparsi delle sue comiche stravaganze, recitò il suo discorso senza veruno intoppo. Si giustificò in faccia a’ contemporanei coll’esempio degli altri Poeti che ne scriveano ugualmente spropositate, piene di apparenze, piene di mostruosità, senza altre eccettuarne se non le basse Commedie del Rueda, e fu ascoltato pazientemente, e non riprovato da quel Corpo Erudito, il quale ben poteva urbanamente riconvenirlo, ch’egli occultasse il merito de’ loro buoni Drammatici. Ora su tali fondamenti conchiuse il Signorelli, che Lope o dovea essere il più sfacciato de’ Viventi (il che niuno ha detto mai), o dovea discolparsi colla verità alla mano. E’ vero che il Signor Lampillas si oppone a questa riflessione con dire, che se quei zelanti conservatori della sanità del Teatro Spagnuolo rimproverarono Lope pel di lui strano modo {p. 108}di comporre, il fecero perchè aveano veduto il loro Teatro in altro stato di salute prima di Lope. Ma questo Achille degli argomenti Lampigliani sembra assai debole al Signorelli: perchè potevano quei zelanti Accademici essere spinti a riconvenir Lope, non per aver veduto in migliore stato il loro Teatro, ma per sapere teoricamente che in migliore stato erano i Teatri Greci, e Latini, e che le stranezze di Lope si opponevano alla ragione, di cui essi, come Letterati instruiti, non ignoravano gl’insegnamenti. E poichè conoscevano le forze dell’ingegno di Lope, a lui si rivolsero, sperando, che, incamminato questo Poeta per la diritta via, trarrebbesi dietro tutti gli altri.

Che poi prima di Lope il Teatro Spagnuolo non contasse se non meschini Poeti, e non insigni conservatori della di lui sanità, il conferma il dotto Bibliografo Spagnuolo l’Antonio, dicendo che prima di Lope la Commedia Spagnuola reptabat, & balbutiebat olim inter manus Lupi de Rueda, Navarri, & similium, absque ulla spe ulterioris ad tolerabilem aliquem statum progressionis. Che quelli che seguirono questi primi Comici balbuzienti, introdussero la Commedia stravagante colle irregolarità accennate da Lope, il conferma ancora un passo della Commedia di Moreto El Marguès del Cigarral, dove così fa parlare un Grazioso:

“Despues que se introduxeron
“Las Comedias en España
“Pueden servir los lacayos
“A’ los Estrados y Salas,
“Y aùn hablar con las Señoras
“De gerarquias mas altas
{p. 109}
“Que la Señora Marina,
“Pues son Princesas ò Infantas.”

Un passo simile si legge nella Confusion de un Jardin del medesimo Moreto. In questa guisa favellano gli Scrittori Spagnuoli, che amano di migliorar le arti nella nazione, e che non sono Apologisti.

Or dove sono i decantati insigni Drammatici prima di Lope? Ma sì, che il Signor Lampillas mette fuori le tre Lettere del Cueba, in cui si registra una filza di nomi, e si dice che furono Comici eccellenti. Comici vi furono al certo moltissimi, ma che fossero eccellenti e regolari giusta i buoni principj, quì è dove s’intoppa. E che fondamento possiamo fare sulle asserzioni del Cueva mancando ogni altro sostegno? Del suo gusto teatrale siamo noi pienamente convinti? Chi ci assicura ancora, che le di lui lodi non rassomigliassero a quelle date da Cervantes alle Tragedie difettose dell’Argensola? Dove poi sono queste composizioni regolate? la nazione le ha lasciate perire per conservare le stravaganti?

Nò, che il Signor Lampillas le vede, le tocca, e nella p. 185. a me si volge in questa guisa. “Ecco Signor D. Pietro, i semi della Commedia Spagnuola del 500. le sembrano forse questi semi originariamente pontici e silvestri?” Ma dove sono mai, ripeto, questi semi dolci, preziosi, di cui si pasce solo l’Apologista tra tutti i nazionali e gli stranieri? Voi, Signor mio, par che me gli cacciate sotto il naso, e pur Voi non sapete quali siano, nè dove siano, nè se mai siano stati, e così mi lasciate più digiuno di Tantalo. {p. 110}Sarebbero mai le Commedie di Cervantes? la Tragedia di Andrès Rey? le Mille Tragedie del Malara? E mi dite Ecco? Ecco dinota la presenza, o la prossimità della cosa; e Voi non mi date per nutrirmi, che belle parole su di ciò che voi stesso non sapete che cosa si fosse.

Riguardo al Cervantes, di cui dite, che nel Prologo avesse smentito il discorso di Lope, io veramente non trovo in tal Prologo simil cosa. Cervantes solo si attribuisce la gloria di essere stato il primo a togliere il Teatro Spagnuolo dall’infanzia (il che rassomiglia alle cose accennate dal Lope, e al reptabat, balbutiebat dell’Antonio). E poi afferma che distratto in altro sottentrò Lope, e si alzò colla Monarchia Comica soggettando i Commedianti. Nè di altri Autori corretti in esso ei favella, e le sue lodi si profondono su i contempoeanei seguaci del sistema Lopense. Or come smentì Lope nel suo Prologo? Forse citando le proprie Commedie come ben ricevute? Ma ben ricevute furono eziandio quelle di Lope, e ciò prova solo il plauso tributato dallo stesso volgo alle une e alle altre, non già la perfezione, della quale nè Voi nè altri potrà mai esser giudice, poichè non esistono.

Per vedere intanto il Signor Lampillas di ragguagliare i conti in qualche maniera, scappa fuori con una Dedicatoria del Varchi, in cui si parla con disprezzo delle Commedie Italiane. In prima, Signor Abate, pare a voi la stessa cosa una privata asserzione di un semplice Scrittore, e forse anche di qualche altro, e la confessione de’ difetti del Teatro Spagnuolo fatta dal Cervantes, {p. 111}dal Lope, dall’istessa Accademia Spagnuola, dal Lopez, dal Cascales, e in seguito da’ più gran Letterati Spagnuoli? Di poi tanto fondate Voi in una Dedicatoria, che alla fine d’ordinario suole essere una tacita insinuazione, e un panegirico indiretto a favore delle proprie produzioni! E da questa del Varchi pretendete ricavare la Storia della Commedia Italiana del 500.? Io voglio poi che il Varchi a ragione riprendesse le oscenità e le indecenze di alcune delle nostre Commedie, come di quelle dell’Aretino, del Vignali, del Groto. Ma che egli potesse asserire altrettanto di quelle del Secco, del Pino, del Contile, del Bentivoglio, dell’Oddi, del suo amico Annibal Caro, e di un gran numero di Toscani, se non si curarono delle ciance della sua Dedicatoria, nè di smentirlo i contemporanei, lo smentiranno senza esitare i Posteri co i fatti alla mano, colle evidenze, colle ragioni sode, e non con istrepitose declamazioni, e con vane stiracchiate congetture. Perdoni il Signor Lampillas, se quest’ultimo pregiudizio non ha voluto cedere sì presto alla di lui autorità; ma svanirà infine come tutti gli altri.

{p. 112}

ARTICOLO X. §

I. Se l’Italia nel XVI. secolo ebbe solo traduzioni e servili imitazioni.

II. Se nel XVII., si dilettasse solo di Arlecchinate.

III. Se dal tempo di Lope si bandì dal Teatro Spagnuolo l’indecenza.

I. §

Ecco quel che de’ Drammi Italiani del Cinquecento dice il Signor Lampillas (p. 194.): “Le più celebrate Tragedie, le Commedie più regolate non furono altro, che una troppo timida e superstiziosa imitazione degli Antichi. Invece di trasportare l’arte di que’ primi Maestri a’ moderni costumi e genj delle Nazioni, esse si videro trasportate a’ tempi de’ Greci, e de’ Romani: e in vece di vedersi sul Teatro i ritratti de’ moderni Italiani, si videro quelli delle nazioni antiche”.

Caro Signor D. Saverio, chi vi ha prestate queste parole, chi vi ha dato ad intendere generalmente siffatte cose della Drammatica del Cinquecento, non ebbe presenti i Fatti. Perchè non leggete cogli occhi vostri? Avete pure molto talento, avete criterio, discernimento; vedreste che, se molte sono le dotte imitazioni dal Greco, e le traduzioni fatte da insigni Italiani, un numero ancor maggiore di Drammi si trovano in Italia composti su nuovi argomenti (di cui poi si valsero gli stranieri), con caratteri di {p. 113}Orientali, di Egizj, Africani, i quali non si rinvengono nel Teatro Greco, e con tessitura novella, nè ricavata servilmente dagli Antichi. Vedreste ancora che, quantunque varie Commedie si componessero felicemente fra noi imitando le Latine che pur son Greche, vi si ritrassero però al vivo gl’Italiani moderni; di che saranno sempre testimonio la Clizia del Machiavelli, i Fantasmi del Bentivoglio, e moltissime altre, nelle quali si palpano gl’Italiani del tempo degli Autori. Io non voglio che crediate alla mia nuova Storia teatrale quando si produrrà: ma su quello che io riferisco, pregovi a fermarvi, e a dubitar, sì, com’è giusto, ma a cercare di sciogliere i vostri dubbj, confrontando da voi stesso i Drammi; e son certo, che se amate la verità, vi ravviserete quello che mai non pensavate, e stupirete di aver finora fatta la guerra alle ombre infantate dalla vostra fantasia. Siete Voi un fanciullino da farvi imboccare la lezione?

E con qual fondamento istorico dite che la Drammatica Italiana fu solo una servile imitazione degli Antichi? Prima degli Oresti, degli Edipi, delle Medee, delle Alcestidi, delle Ifigenie, noi avemmo l’Ezzelino, l’Antonio della Scala, il Piccinino, il Ferdinando, la Sofonisba, la Rosmunda, la Tullia, l’Orbecche, l’Altile, il Tancredi &c. E lungi dal copiare servilmente le antiche invenzioni Comiche noi cominciammo dalle Filologie, da’ Paoli, dalle Catinie, dalle Polissene, da’ Filodossi, da’ Timoni, dalle Amicizie, argomenti così lontani dagli Antichi, e caratteri da colorirsi così diversamente. E quanto al secolo XVI. Lodovico Ariosto non dovè a’ Latini le invenzioni del Negromante, {p. 114}della Cassaria, della Lena, della Scolastica, nè il Machiavelli quella della Mandragola, nè il Bentivoglio del Geloso, nè l’Aretino dell’Ipocrito, nè il Caro degli Straccioni, nè l’Oddi della Prigione d’Amore e delle altre due favole, nè il Guarino dell’Idropica, nè il Brignole Sale del Geloso non geloso, nè il Porta della Turca, de’ Fratelli Rivali &c. &c. Voi troverete argomenti, piani, caratteri, colpi teatrali, situazioni, satire, ridicolo, tutto nuovo, tutto tolto dagli originali di que’ tempi, e non già una rancida copia de’ vizj e de’ difetti delle Antiche Nazioni, come voi francamente asserite giurando forse sulle parole di qualche Dedicatoria, senza aver letto neppure una delle Favole Comiche Italiane. Perciò nella Risposta a Giambattista Sacco disse ottimamente il Bonciario, che “non da’ rottami di Menandro, nè dalle intere favole di Aristofane, ma di loro invenzione ed ingegno fecero gl’Italiani delle loro Commedie gli argomenti, intrecciamenti, e scioglimenti”. Torno a ripetervelo, caro Signor Abate, voi avete bisogno di fare migliore studio delle cose letterarie Italiche, se volete combatterle, e non fidarvi delle altrui capricciose asserzioni. Prendetevi un poco di fastidio, esaminate da voi stesso, giacchè avete voluto mettervi in questo gineprajo; nè sperate molto negli sforzi Logici e Rettorici, perchè dove i Fatti sono contrarj, questi sforzi sono languidi soccorsi, che, se volete, possono far numero, ma non già peso; sono come le foglie su di un cesto di frutta, che allo scoprirsi ciò che stà di sotto, restano sparse per lo suolo. Oltre di che non sapete che i Fiorentini dicono, Tanto sa altri {p. 115}quanto altri? Informatevi adunque ben bene delle Storie, e allora o vi dissingannerete, o farete apologie robuste, e vivaci. Al contrario esse porteranno sempre incisa nel frontispizio un’ aria d’incertezza, di argomentazione precaria, di sospensione, che le cangia infine in pure declamazioni suggerite dalla paura di soggiacere, ed infonde brio e vigore negli emuli che se ne accorgono.

L’avverto intanto di passaggio che nella p. 195. parmi che citi fuor di proposito alcune parole del Gravina. Dite che “l’affettata imitazione rese fredde e nojose le migliori Tragedie, e troppo dissolute le Commedie più celebrate, e che i più bravi ingegni inviluppati nella superstiziosa osservanza de’ precetti Aristotelici non ebbero coraggio di scuotere il giogo imposto dagli sterili interpreti di Aristotile”. E da ciò che ne avvenne secondo il Gravina? Dice forse, che questa fu la cagione della deformità del Teatro del seguente secolo (che di questo parla il Gravina, e non già del XVI. come voi credeste)? Al contrario questo Scrittore afferma che il Teatro si deturpò del tutto quando si cadde nel vizio opposto. Gl’ingegni non si disbrigarono da quei lacci per rimanersi soggetti alle sobrie leggi della Verisimiglianza, le quali sono indispensabili per chi non è stravagante; ma passarono agli eccessi1. “Non potendo” (sono le parole da Voi addotte con qualche mutilazione) “i Poeti osservare gl’indiscreti e puerili precetti ad Aristotile attribuiti, hanno anche spezzato ogni legame di natural {p. 116}ragione, uscendo affatto dalla verisimilitudine, decoro, e proprietà, come spesso avviene che gli uomini rompendo il freno di eccedente rigore, trascorrono fuori della norma comune ad una immoderata licenza”. Quì dunque si attribuisce alla immoderata licenza la principale deformità del Teatro. Or questo non è tutto l’opposto di quanto Voi asserite, e pretendete fortificar con questo passo? Io quì vedo un manifesto decreto di condennazione positiva della licenza immoderata della scuola Lopense e Calderonica, la quale, traviando dalla norma comune, e da’ precetti indispensabili, permise a’ Poeti l’abbandonarsi alla propria intemperanza.

Altra difficoltà occorremi prima di lasciare le Commedie del Cinquecento. Non parmi, Signor Abate, che abbiate ragione di lagnarvi del Signorelli (Lamp. p. 197.) perchè, cercando l’origine delle arditezze della Commedia Italiana ravvisate anche dall’erudito Brumoy, accenna, che gli Autori di essa furono persone nobile condecorate, e perciò satireggiavano con franchezza. Or chi si offende con osservar questo fatto?

Ben si può lagnare del Signor Lampillas l’Italia e ’l Signorelli, che alla parola Frati, soggiugne per capriccio, cioè Ecclesiastici, e Vescovi. I Frati in nostra lingua comprendono l’idea di Ecclesiastici, ma non già quella di Vescovi; nè Vescovi (se pure tutti i Frati per Voi non sono Vescovi) parmi che trovinsi introdotti ch’io sappia nelle Commedie Italiane del Cinquecento. Dove ne ho veduti e ne veggo in copia alla giornata, è nel Teatro di Madrid. Nè soltanto in qualità {p. 117}di uomini di consiglio, probi, intieri, com’è il Vescovo introdotto dal Bermudez nella Nise lastimosa, ma sovente co i neri caratteri d’impostori Cortigiani, sordidi venditori del favore, soldati, ribelli, nemici della Patria, come Don Opa. Ed ivi ancora si sono veduti Frati, Eremiti, Parrochi, ed altri Ecclesiastici, per nulla dire della Commedia intitolata Il Falso Nunzio di Portogallo, dove, oltre a un impostore falsario che con firme imitate si fa credere Nunzio e Cardinale della Chiesa Cattolica, e pianta l’Inquisizione in quel Regno, fulminando scomuniche, minacciando il Sovrano &c., si veggono ancora intervenire altri Prelati ed Ecclesiastici, che bassamente corteggiano l’impostore per vili mondani interessi e ambiziosi riguardi cortigianeschi. Ma in Italia, Signor mio? Nel Cinquecento? Nelle Commedie comparire Prelati, o Vescovi, o Cardinali? Se non ne avesse disotterrata alcuna il Quadrio, io non so donde abbiate potuto estrarre sì bella notizia! Se pure non è stata una cautela apologetica, appresa nel dettato della scaltrezza volgare, chiama ladro al contrario prima che ti ci chiami. Certamente nè Ariosto invano da Voi preso di mira, essendo per le vostre saette invulnerabile, nè Machiavelli, nè Bibbiena, nè intorno a dugento settanta Poeti Comici di nome in più di sei a settecento Commedie pensarono a profanare e presentare sulla Scena Comica Monsignori ed Eminentissimi, come avviene nelle Commedie Spagnuole.

{p. 118}

II. §

Non posso, caro Signor D. Saverio, menarvi buona quella sbraciata della p. 211. contro l’Italia nel XVII. secolo, nel quale supponete le nostre Scene occupate dalle più sconce arlecchinate a cagione di cinquanta scheletri di favole tessute a soggetto pubblicate dal Commediante Flaminio Scala nel 1611. Altro che cinquanta furono i canovacci Istrionici di quel tempo, in cui gran parte delle Maschere ridicole s’inventarono! Ma da questi prendete idea delle Poesia Drammatica Italiana? Un altro Autore vi contraddice, affermando essere ingiusta cosa “pretendere di trovare il gusto universale d’Italia nelle ciancie e freddure d’Arlecchino e Brighella”. Or quale de’ due mostra più senno e meno parzialità? Voi, o quest’Autore in queste due asserzioni opposte? Egli intanto e Voi componete una medesima persona1. Accordatevi con voi stesso.

Il Teatro arlecchinesco difficilmente mancherà del tutto all’Italia, e difficilmente mancheranno alla Spagna, non dico i buffoneschi Sainetti e Tramezzi che terminano a bastonate, e los Titeres, e gl’insipidissimi Pantomini fatti da los Volatines in tempo di Quaresima, ma le Commedie di Magie, di trasformazioni, di pazze apparenze Cinesi in aria, in terra, e nell’inferno, che si vedono ogni anno in quattro o cinque Commedie su Pietro Abailardo, in altre quattro su Marta Romorantina, {p. 119}in cui il Diavolo amoreggia e fa da primèr Galàn, in due del Mago D. Juande Espina, nel Negro mas prodigioso, e nell’Aurora en Copacavana di Calderòn, da cui è nata un’ altra favola mostruosa (ancora più di quella del Colombo scritta da non so chi in Italia motteggiata dall’Apologista), che si recitò due anni sono. Il Brighella e l’Arlecchino Italiano, e queste ridicolissime stranezze Spagnuole, sono uno sfogo necessario alla plebaglia e alle femmine, che vogliono ridere sgangheratamente delle Maschere Italiane, e de’ Graziosi e delle Graziose, e de los Vejetes Spagnuoli posti fra Diavoli, o trasformati in mille guise sulla scena, o che precipitano sotterra, o che vanno per aria a volo; e convien tollerarle. Credete voi che queste insipide sciocchezze de’ Graziosi Spagnuoli siano meno sconcie delle Arlecchinate? Credete che chiamare il Buffone della Commedia Arlecchino o Traccagnino, Calabaza o Camueso ne renda più o meno nobile il carattere? Nè le buffonate del primo, nè le mimiche scipitezze del secondo si debbono portare in trionfo da chi ha fior di senno, non essendo queste le ricchezze della Poesia Scenica delle due Nazioni. Or perchè, Signor Abate, con produrre le Arlecchinate costringete quei che combattete a mettervi sotto gli occhi i Graziosi? Sarà forse perchè avete una confusa idea delle scene Italiche di quel tempo?

Dal principio del secolo sino al 40. in circa composero gl’Italiani più di trenta Tragedie degne di leggersi, alcune delle quali sono entrate nella Raccolta cominciata dal Maffei, e si sono sostenute con applauso in Teatro. Vi furono almeno cento {p. 120}Commedie degl’Intronati di Siena (anche questi Accademici, e non Commedianti, sapete, Signor Lampillas?) del Porta, del Guarini, del Bonarelli, del Malavolti, di Brignole Sale, del Castelletti &c., le quali non cedono alle altre Erudite del Cinquecento. Vi furono alcune Pastorali pregevoli, tra le quali spiccano quelle del Chiabrera, del Bracciolini, e del Bonarelli. Appresso la Musica occupò tutti i Teatri, e le Accademie teatrali non videro più desiderate le loro Tragedie, Pastorali, e Commedie, e si slacciarono il coturno ed il socco. Non tacquero i Teatri degli Strioni, che doveano cercar del pane, e seguirono colle loro favole dell’Arlecchino chiamate Dell’Arte, perdendo sempre più il concorso, tra perchè l’Arlecchino giva invecchiando, tra perchè l’Opera riempiva tutti i voti, benchè la Poesia vi andasse degenerando. Questo tempo durò sino alla fine del secolo.

E’ questo un sommario sincero della Storia scenica del passato secolo. Il Maffei pregiò, come dovea, le mentovate Tragedie, Pastorali, e Commedie, ma gridò contro gli Strioni; fe l’istesso il Quadrio, l’istesso il Goldoni da Voi citato, e l’istesso faranno tutti gli assennati. Or perchè Voi sopprimete il lodevole, se non l’ignorate? E’ questa la Poesia, o i canovacci del Commediante Scala? Stimate forse che fossero pochi i buoni Drammi? Le Tragedie furono tante che di molto superano le Spagnuole de’ due secoli messe insieme (s’intende però senza contare le Mille del Malara), e le Commedie e Pastorali di merito passano il centinajo. Sono pochi Drammi per un secolo, {p. 121}e per l’Italia, ma non pochi per un tempo di decadenza.

Ma veniamo a un’ altra accusa data contro del Signorelli (p. 212.). Vi lagnate perchè ho detto che le irregolarità delle Commedie Spagnuole e la poca somiglianza che aveano cogli originali della natura le fecero andare in disuso, e ricondussere la desolazione nel Teatro de’ Commedianti. Sì, caro Signor D. Saverio, quelle Commedie andarono in disuso, perchè n’era manifesta la irregolarità, e perchè que’ caratteri di Duellisti, e Matasiete, che in Ispagna un secolo primo non parvero alieni dalla verisimiglianza, parvero ben tali in Italia dopo un secolo, e il popolo più non se ne dilettava. Il Fatto dimostra il poco frutto che ne ricavavano i Commedianti, perchè di bel nuovo si trovarono abbandonati. Or quì il Signor Lampillas che de’ fatti fa poco conto, e si attiene alle amate sue congetture, dice così: “E vorrà il Signorelli darci ad intendere, che in quei tempi fosse sì delicato il gusto degl’Italiani avvezzi alle più ridicole arlecchinate, che dovessero schifare le nostre Commedie per la mancanza di regolarità?” Dirò, Signor Lampillas. Quando si tratta di manifesta buffoneria, tutto passa, e il Popolo accorda all’Arlecchino e al vostro Polilla o Calabaza ogni stravaganza, e ride; anzi i Savj stessi appianano il sopraciglio, e Agesilao cavalca co’ figliuoli sulla canna, e Atene si compiace de’ Pupi de’ Ciarlatani. Quando poi si vuol dare al Popolo per favola ben condotta e artificiosa la più spropositata fanfaluca, allora, invece di ridere, volta le spalle al Teatro. Ecco perchè si soffrono le balordaggini {p. 122}de’ Graziosi e dell’Arlecchino, che trovò luogo anche in Francia, e poi ne’ Drammi d’importanza si cerca ogni esattezza e regolarità.

Ma ciò lasciando, avete Voi riflettuto bene a quelle vostre parole, a que’ tempi gl’Italiani avvezzi alle arlecchinate non potevano aver gusto delicato? Quando così parlate degl’Italiani del secolo scorso, sembra che abbiate la fantasia riscaldata, e ingombra tutta di Cafri, Utentotti, Eschimali, e Topinambù. Dite a quei tempi! E di quali tempi credete di parlare? Quelli furono i tempi gloriosi per l’Italia della cacciata di Aristotile dal trono con tutte le qualità occulte, le forme sostanziali e accidentali della materia, la leggerezza dell’Aria, la regione del fuoco, la solidità de’ Cieli, l’avversione invincibile al Voto, l’eternità del Mondo, gli Enti di ragione, le distinzioni e i misteri tutti delle Scuole Arabe. Furono quelli i tempi felici della luce Fisica, Matematica, Astronomica. A quei tempi il Torricelli facilitava il misurare la gravità dell’Atmosfera inventando il Barometro. Il Porta morto nel 1615. avea già, secondo il Wolfio1, inventato il Telescopio sì necessario alle celesti scoperte, o ne avea almeno preparata la compiuta invenzione colle lenti concave. L’Ottica nelle mani del medesimo insigne Filosofo Napoletano acquistava molto terreno colla Camera Ottica che a lui si attribuisce, e colla Camera Oscura che tantò illustrò la teoria della Luce, perfezionata indi dal divino Newton. Furono quelli i tempi, ne’ quali il Galilei scopriva le macchie {p. 123}solari, i cinque Satelliti intorno a Saturno, e le di lui fasi a cagione dell’Anello, e diveniva per tante scoperte nella Statica e Idrostatica l’Archimede della Toscana. A quei tempi il celebre Giannalfonso Borrelli illustrava parimente la Statica e la Meccanica: il Viviani meglio del Siciliano Maurolico indovinava l’ultimo Libro di Apollonio De Maximis, & de Minimis: si segnavano Meridiane nelle Città più chiare: il Casini piantava l’Astronomia nella Francia. E voi con tanta innocenza vi fate uscir di bocca a quei tempi, quasi parlaste della infanzia di qualche società di Pastori e Cacciatori? E ditemi, nell’archivio apologetico quali sono i tempi più luminosi? Fra quelli che non sono Apologisti sono i tempi delle Scienze; e in questi tanti valentuomini, gloriosi ornamenti delle Accademie, Napoletana de’ Segreti, Fiorentina del Cimento, Romana de’ Lincei &c., diffusero per tutta la Nazione, per mezzo de’ loro individui, il vero lume della Ragione, e delle Esperienze, donde proviene il pensar dritto ed il gusto. Ed in tai tempi il rischiarato Signor Lampillas stima che gl’Italiani non potessero giudicare della manifesta mostruosità delle Commedie Lopensi e Calderoniche! Ci volea per sì grand’opera un gusto singolarmente delicato? E non bastava il solo senso comune de’ volgari?

Gl’Italiani, dite, erano avvezzi alle più sconcie arlecchinate. Ah Signor Lampillas, discorrete per carità una volta, e non adoperate il linguaggio de’ volgari. E volete Voi dare ad intendere a’ vostri compatrioti, che se gl’Italiani fossero stati sì avvezzi alle arlecchinate, e se ne fossero tanto {p. 124}compiaciuti, avrebbero abbandonato il Teatro e l’Arlecchino nelle vostre Commedie sostituito al Grazioso? E se gl’Italiani per indole fossero così proclivi alle arlecchinate, avrebbero tante erudite Accademie atteso a far risorgere la Scenica Poesia, e a comporre per tutto il secolo XVI., e per gran parte del XVII. più centinaja di buone Tragedie e Commedie? E a chi le avrebbero rappresentate? Intanto esse si rappresentarono per tutta l’Italia, si applaudirono, si replicarono, s’impressero, si reimpressero, si studiarono. Chi si delizia nell’Arlecchino, come voi sognate, studia siffatti Drammi? studia i Greci e i Latini?

Nò, egregio Signor Lampillas, lasciate il favellare de’ volgari, riprendete quello de’ Saggi, tra’ quali con gran ragione io vi conto. L’ardore per le Scienze occupò a quei tempi talmente gl’ingegni Italiani, che neglessero questo piacevole esercizio della Poesia Scenica. Le arlecchinate rimasero, come le vostre Commedie Magiche, per pascolo de’ volgari, e delle donne, e di que’ forestieri, che nudi delle giuste notizie letterarie viaggiano, o dimorano in Italia. In oltre se voi non siete da buon senno dichiarato pertinace nemico della verità istorica, dovete confessare, che la Musica a quei tempi s’impadronì degli animi Italiani, e l’Arlecchino parve freddo alla maggior parte, e rimase presso che interamente abbandonato. La Storia, amico, vi assale per ogni banda. Oh che gran nemico per gli Apologisti è la Storia!

Mi riconvenite ancora perchè dissi che in Italia alla prima piacquero i componimenti Spagnuoli, benchè purgati da’ difetti principali. E’ verissimo, {p. 125}Signor D. Saverio, avvenne così appunto; ma Voi che altro non volete vedere fra noi, se non il Teatro Istrionico, tornate a dire, che gl’Istrioni anzi le sfigurarono. Ed io in ciò convengo con Voi; gl’Istrioni le sfigurarono, come per ignoranza sfigurano quanto tocccano. Ma avvertite che gli Scrittori le purgarono de’ difetti principali; e chi fa una Storia della Poesia Drammatica, non corre dietro, come il vostro Agostino de Roxas, al mestiere, alla vita, e a’ fatti de’ negletti Istrioni. Svolgete un poco qualche Libro di Storia letteraria, e Voi troverete che vi furono in Italia tuttavia moltissime Accademie di Lettere amene, nelle quali, benchè in istile alterato dal mal gusto, che allora infettava soprammodo anche la Penisola di Spagna, si scrissero Commedie, e talvolta se ne tradussero dal Teatro Spagnuolo, cercando spogliarle da’ difetti di unità. I componimenti del Canonico Celano, del Tauro, del Pisani, sono di questa natura. Essi per vizio radicale si allontanano, non che dalla semplicità, da un viluppo ragionevole; sono carichi a dismisura di accidenti romanzeschi, fondati sù bizzarrie, duelli, nascondigli &c., ma non pertanto più non vi si trovano i personaggi fanciulli e caduchi, da un atto all’altro, nè si corre in un’ ora tutto l’Oceano, passando dalla Penisola all’America, e dall’America alla Penisola.

Vi appoggiate poi al Signor Goldoni per provare, che gl’Istrioni sconciarono le Commedie Spagnuole. Conviene ripetervi che quì non si tratta degl’Istrioni, e che dovete leggere gli Scrittori, se volete ragionar fondatamente. E non vi accorgete {p. 126}come il vostro sistema di valervi di un passo di taluno vi mena o a stiracchiarlo per ridurlo a vostro verso, o a cavarne conseguenze non vere? Ecco: Voi sostenete coll’autorità del Goldoni, che gl’Istrioni malmenarono le Commedie Spagnuole, e poi conchiudete universalmente così (p. 214.): “Veda, Signor Don Pietro, se gl’Italiani purgarono le nostre Commedie”. Vale a dire, che in un branco d’Istrioni si contiene la Nazione Italiana? E che volete che io veda, accuratissimo Signor Apologista? Altro io non vedo in tutti i sei Volumetti del Saggio Apologetico, se non che da premesse particolari dedotte conseguenze universali. Così in più di un luogo combattendo p. e. contro il Tiraboschi, da un’ asserzione particolare del Signor Bettinelli, o di qualche altro, Voi conchiudete contro tutti gl’Italiani. Il Vives p. e. in una Lettera ad Erasmo si ride della puerilità di certo amico suo, che l’esortava a leggere per due anni interi le Opere di Cicerone, furore che prese gli animi di molti, e subito il Signor Lampillas conchiude che il Vives biasimava il gusto di Latinità degl’Italiani, facendo uso della solita aritmetica apologetica, per cui quel certo amico, quell’Uno si converte in Tutti.

III. §

Tra gli altri meriti contratti dal Vega, dal Calderòn, e da’ loro seguaci col moderno Teatro novera il Signor Lampillas (p. 196.) l’onestà che v’introdussero: “La nuova Commedia bandì dal Teatro i bagordi de’ giovani colle meretrici, {p. 127}e agl’infami personaggi delle ruffiane e mezzani sostituì persone civili e nobili: in maniera che se non comparve la detta Commedia in sembianza di una veneranda Matrona, dovette almeno stimarsi qual gentil Dama in confronto di una sfacciata meretrice”. Gran merito, se fosse vero! Essa tolse le ruffiane e i mezzani, ma loro sostituì i Graziosi e le Graziose, che, senza portar quel nome, esercitano lo stesso mestiere, e sel rinfacciano scambievolmente1. Non comparvero in Teatro le meretrici nel proprio nome, e nelle loro divise: ma trionfarono in esso las {p. 128}Naranjeras, las Avellaneras (venditrici di aranci, di nocciuole) las Majas (donne sfacciate, insolenti, e per lo più da partito) los Majos de potencia (bertoni di tali donne, e di ordinario loro ruffiani), i condennati a’ presidj, i zingani e le zingane, i Mariti sacrificati alla leggerezza e a’ capricci delle loro Mogli di tal natura, le quali sulle scene dimenandosi a un di presso nella guisa delle antiche Gaditane accennate da Marziale, con malizioso sorriso, e non mascherate parole, se ne millantano. Si abolì dunque il nome, e si conservò la cosa. Le Commedie non ammisero più le Serafine Valenziane, e simili donnacce, ma fecero di peggio. Le Dame, le fanciulle onorate, per lo più introducono i loro amanti in casa, gli occultano all’arrivo di un Padre o di un Fratello ne’ proprj appartamenti, vanno esse stesse alle Case, o Locande dove quelli dimorano medianto il soccorso de los Mantos, fuggono con esso loro di notte dalle paterne case &c. Nella Dama Melindrosa (posta tralle eccellenti Commedie del Vega dal Signor Lampillas forse senza averla letta) si vede Celia Dama principale che fugge dalla propria Casa con Felisardo suo amante, e si rimane (contro la verisimiglianza ancora) nell’istesso Madrid, dove pure stà suo Padre, fingendosi schiava Mora e servendo in una Casa. E intanto sulla Scena a vista dello spettatore più e più volte abbraccia e bacia l’amante. Nella Giornata II.,

“Fel:

“Pues aquì nadie nosvè,
“bien me puedes abrazar.

“Cel:

“Siempre te has de anticipar
“à mis deseos.”
{p. 129}

Qual cosa così viene poi riferita dal Grazioso:

“Lo que es la paz de Francia fuenotable,
“Como suelen tal vez mansas palomas
“Embaynarse los picos uno en otro,
“Y decirse requiebros en el cuello.”

Forza è che dica lo spettatore ciò vedendo, se ciò accade in luogo praticato dagli altri della Casa, che avverrà in parte più secreta! E così si bandisce la oscenità dalle Scene? E questa è la matronal decenza esaltata dall’Apologista?

Ma non è questo solo lo scandalo contagioso delle Commedie di quel tempo ignorato dall’innocente Signor Lampillas. Simili sfacciataggini, fughe, ratti, trascorsi vengono abbelliti coll’aspetto della virtù (come bene osserva Don Blas de Nasarre), e non corretti e ripresi, come avveniva nelle favole antiche, che mostravano le meretrici quali erano, cioè spregevoli, detestabili. “El artificio” (dice il citato Bibliotecario parlando di Calderon) “y afeite con que hermosea los vicios, es capaz sin duda de corromper los corazones de la juventud”. Soggiugne: “Le Donne al principio sono tutte nobili, mostrano una fierezza che in vece di amore infonde spavento, ma da poi da questo estremo passano, per mezzo della gelosia, all’altro opposto, e rappresentano al Popolo passioni violente, sfrenate, vergognose, insegnando alle Donne oneste, e alle incaute fanciulle il cammino della perdizione, e la maniera di alimentare amori impuri, e d’ingannare i Padri, di subornare i Servi . . . . discolpandosi colla passione amorosa che viene dipinta onesta e decente, che è la vera peste della gioventù”. {p. 130}Or che vi pare, Signor D. Saverio di questa vostra gentil Dama poco meno che veneranda Matrona? E’ divenuta più onesta cangiando spoglie? Adunque con ragion veduta Giovanni Ceverio de Vera Canariese prima Militare, e poi Sacerdote sotto Clemente VIII., e morto in Lisbona con fama di santità nel 1600., scrisse un Dialogo contra las Comedias que oy se usan por España impresso in Malaga cinque anni dopo della sua morte1. E il P.F. Juan de la Concepcion approvando la dissertazione del Nasarre, non meno fondatamente diceva: “Sosterrò sempre che le Commedie che oggi si rappresentano (a riserba di alcuna raristima) sono abominevoli per l’intendimento. La verisimilitudine n’è bandita: la decenza negletta. Nelle Commedie Istoriche i fatti sono adulterati: in quelle d’invenzione si pensa solo a ingarbugliare: l’ingegno non conosce altro entusiasmo, che il cammino insegnato dagli Attori. E con tutti questi soccorsi si producono certi mostri, certi parti informi immaturi, che chiarissimamente manifestano, che se la Commedia esser debbe specchio della vita, senza dubbio le vite presenti sono estremamente deformi a volerne giudicare da quello che si rappresenta nello specchio”. Il Signor Abate Lampillas pel suo tenor di vita, per l’istituto, e per gli studj severi che avrà coltivati, si sarà ben poco mirato in questo specchio, in cui la sua gentil Dama non fa la migliore, nè la più decente figura. Ed invero havvi Commedia tale fra’ migliori Autori, {p. 131}che fa stupire i ben costumati. Che carattere detestabile è quello mai di Don Felix de Toledo esposto in Teatro da Calderon! Un rompicollo perseguitato dalla Giustizia, incapace di amistà, senza rispetto di Leggi, nè di Religione, non solo ammesso da Leonora nella propria Casa, ma da lei cercato fino nella Locanda, come farebbe una donnicciuola di mondo. Che buono esempio può dare al Teatro la Commedia di Moreto, Na puede ser guardar una muger? O l’altra di Calderòn El Galàn sin Dama? O el Ofensor de si mismo de Monroy? Avea dunque ragione il fu D. Nicolàs de Moratin, quando scrivea che il teatro nazionale, “Es la escuela de la maldad, el espejo de la lascivia, el retrato de la desemboltura, la academia del desuello, el exemplar de la inobediencia, insultos, traversuras, y picardias”. Queste sono le dipinture che fanno gli stessi eruditi nazionali della decenza della gentil Dama del Signor Lampillas, di sì onesta Dulcinea apologetica.

Almeno questa indecenza fosse compensata dall’artificio, e dalle comiche bellezze, come si vede in Aristofane. Ma i savj stessi della Nazione non rifinano di declamare contro di essa Commedia, conoscendone gli errori, e di consigliare una riforma. Antonio Lopez si lamenta delle irregolarità delle favole del Vega, e de’ suoi coetanei1: strepita contro il Comico in esse confuso col Tragico, per cui in una medesima occasione si piange, e si ride: si burla dell’ineguaglianza della locuzione nel {p. 132}tempo stesso nobile, e plebea &c. Perciò gridava Cervantes1,

“Adios, Theatros publicos honrados
“por la ignorancia que ensalzada veo
“en cien mil disparates recitados.”

E questi spropositi furono da esso esaminati nel Don Chisciotte, e con ispezialità riprese l’introdurre nella medesima favola un personaggio prima giovane, e poi vecchio, e il condurre gli Attori quando in Africa, quando in Europa2. Perciò {p. 133}fremeva Cascales nelle sue Tavole Poetiche contro tali mostri teatrali. Perciò Don Manuel de Villegas si ride delle Donne guerriere con sì sazievole frequenza poste sullà scena Spagnuola,

{p. 134}
“Guisa como quisieres la maraña
“y transforma en guerreros las donzellas,
“que tu seràs el Comico de España.”

Perciò l’erudito Luzan nella sua Poetica novera le irregolarità delle Commedie di Calderòn, e gli errori che commette in Istoria, Mitologia, e Geografia; osservando che nella Commedia Los tres afectos de amor ragiona di polvere, e moschetti, nella Sibila del Oriente colloca il Danubio in Asia, nella Devocion de la Misa mette Leon fra i popoli Asturiani &c. Perciò il Bibliotecario Nasarre tanto si distese negli spropositi di Lope e Calderòn. Perciò di quanto si scrisse dal tempo di Lope, e di Virues pel Teatro disse l’erudito Montiano nel I. Discorso, che i Drammi Spagnuoli non son Commedie, “por las pesadumbres, agravios, desagravios, desmentimientos, desafios, cuchilladas, y muertes”, nè sono Tragedie “por la graciosidad y baxeza de las personas, desaliento de las sentencias, eleccion vulgar en las expressiones, y fines siempre alegres”. Mi resta ancora un buon numero di savj nazionali, veri amatori della Patria, i quali riprovano quelchè l’Apologista prende a difendere; ma non vò stancare i miei Leggitori. Dico solo, che il Sign. Lampillas può osservare, che nella Storia de’ Teatri non si è detto, se non una minima parte de’ difetti additati da questi Nazionali, ed al contrario si sono rilevati i pregi particolari del Vega, del Calderòn, del Solis, del Moreto, del Roxas, di La-Hoz &c., scegliendo tralle loro favole quelle che meritano la pubblica stima, e tutto ciò non è bastato all’Apologista a non aggregarmi co’ forestieri Anti-Spagnuoli? {p. 135}Passiamo a dir qualche cosa intorno alla fecondità di Lope tanto esaltata dal Signor Lampillas.

Non vi sarà chi nieghi alla Nazione Spagnuola una fecondità prodigiosa; ma potrà dirsi riguardo al Teatro, che il non curare gli avvisi della Ragione, e i saggi legami delle buone regole, l’abbia fatto correre più leggermente. Boilean diceva1:

“Un rimeur sans péril de là des Pyrenees
“Sur la Scene en un jour enferme des annees. . .
“Mais nous que la raison à ses regles engage,
“Nous voulons qu’avec art l’action se ménage.”

Or queste regole rubano molto tempo al verseggiare. Per la qual cosa, mio Signor Lampillas, non piacemi (benchè ciò nè me, nè l’Italia tocchi poco, nè punto), che tanta pompa facciate dell’abbondanza di Lope, e della felicità di schiccherare in uno o due giorni una Commedia. Questo anzi fu il suo maggior male. Egli sacrificò all’utile l’orrevole. “Como escribia2 para ganar dinero . . . . necesitaba escribir mucho, y siendole imposible escribir mucho y bien, tapaba la boca à su propio concimiento”. Credete forse che per la brevità del tempo che si spende nel comporre, si trovi maggiore indulgenza? Nulla fa il tempo in prò di un Poema, gridano tutti gl’intelligenti. Voi già saprete come Orazio3 dava la berta a quel Crispino, che lo disfidava a {p. 136}vedere a prova qual de’ due facesse più versi in un tempo prefisso; saprete che nell’Epistola a’ Pisoni consigliava,

. . . . . Carmen reprehendite, quod non
Multa dies & multa litura coercuit.

Saprete, che il sopraccitato Boilean suo fedel seguace prescrisse ancora,

“Travaillez à loisir, quelque ordre qui vous presse,
“Et ne vous piquez point d’une folle vitesse.”

Saprete in oltre, che quest’impeto di Lope rassomiglia a quello degl’Improvvisatori, che sono innumerabili, soprattutto in Italia, e che la di loro voce finisce, come quella de’ Cigni, colla vita, nè passano mai da verseggiatori a Poeti. Assai velocemente scarabocchiò Lope la sua Gerusalemme; ma quale uscì dalle sue mani! E chi la legge degli stranieri e de’ nazionali! Ma è veramente per lo meglio, che non si legga. Riflettete poi, che questo è un puro effetto di esercizio, e di vivacità non difficile ad acquistarsi. Gli stessi Francesi, quando aveano un mal Teatro, ebbero un fecondo Hardy, il quale compose più di seicento Drammi, spendendo in ciascuno di essi tre o quattro giorni. Hann Sacs Calzolajo Alemanno ne messe giù molte centinaja ancora colla medesima precipitazione. E voi volete che un Lope, che per altro accompagnò in varie Poesie Liriche la grazia poetica colla prodigiosa celerità, partecipi dell’infelice vanto della prestezza nel comporre Commedie, che gli è comune cogli Hardy e cogli Hann Sacs? Non v’ha che de’ Terenzj, Signor Abate, i quali sanno {p. 137}scrivere solo sei Commedie da non perire giammai.

Io credo, che più che ogni altra cosa questo genio di precipitazione nel comporre facesse credere al nostro Dottor Goldoni di essere invasato dello spirito di Lope. Il Signor Lampillas va in estasi per le parole in cui egli si professa di genio simile al Vega. Io non mi fermerò gran fatto su di ciò. Sia così: s’egli il dice e il crede, l’Apologista fa bene a crederlo, e a ripeterlo. Non per tanto io son di avviso, che se il Goldoni prese di mira il sistema della Commedia di Lope, forse ciò fu nelle prime sue favole, che scrisse pel Teatro Istrionico allora assai corrotto, delle quali fa egli menzione, se non m’inganna la memoria, nella Prefazione citata dal Lampillas. Quivi in fatti traluce un genio proclive allo stravagante, all’esagerato, al romanzesco, che dovea allora essere accetto agl’Istrioni. Ma l’istesso Goldoni tacitamente riprovò queste sue prime fatiche; ed in tante Edizioni delle sue seconde Commedie l’amor proprio non l’ha mai spinto ad imprimere nè anche una sola delle prime; ciò che dimostra che n’ebbe onta, e pentimento, e si avvide della mal fida scorta, e del gusto del secolo cangiato in meglio. Egli dunque prese a studiare, non già il gusto del volgo, come fece Lope, ma il Mondo, cioè i costumi, i caratteri, e le passioni degli uomini (che questo vuol dir Mondo, Signor Lampillas, e non già, come voi credeste, il gusto volgare); ed anche il Teatro, cioè la pratica osservazione degli artificj comici che più sogliono risvegliare gli Spettatori (che questo vuol dir Teatro); ed a questi {p. 138}due Libri Mondo e Teatro, due cose distantissime dallo studio di Lope, accompagnò il Goldoni gl’insegnamenti d’Aristotile e di Orazio, ch’egli trasse dalle Riflessioni di Rapin da lui citate, e soprattutto la lettura di Moliere. Da questi studj nacque in lui l’amore per la Commedia di Carattere, che coltivò poi sempre scrivendo quel gran numero di componimenti Comici, che formano la raccolta del suo Teatro. Or questo Teatro, che mai ha di comune con quello di Lope? Se il Dottor Goldoni credesse ancora ciò che scrisse in quella Prefazione, io non esiterei a dirgli, ch’egli non ha capito sestesso, nè il genere Comico, che poscia ha maneggiato con felicità, egli ha ottenuto da Voltaire il titolo di Pittore. Nè crediate, Signor Lampillas, che l’avere egli detto, che non istudiava altri Libri fuorchè il Teatro e il Mondo, significasse, che ad imitazione di Lope egli conculcasse le regole ragionevoli; che questo sarebbe uno de’ vostri farfalloni madornali. Fin anco in quelle Commedie, in cui alla maniera Spagnuola egli accumola gli accidenti l’un sopra l’altro, come nell’Incognita, e forse in qualche altra, sin anco nel riscrivere il Convitato di Pietra, egli cerca racchiudere l’azione nello spazio concesso. Disingannatevi, Signor Abate, ne’ tanti Volumi delle Commedie Goldoniane, confrontando quelle d’Intrigo di Lope senza niuna regola con la Pamela, la Putta Onorata, la Buona Moglie, l’Avvocato Veneziano, il Cavaliere e la Dama, ed altre Commedie di Carattere del Goldoni, nelle quali esattamente copia la natura, e invece di Lope siegue Moliere. Disingannatevi nella Commedia da lui scritta in Francese Le Bourru {p. 139}Bienfaisant così applaudita in Francia. Disingannatevi leggendo la sua Commedia Il Teatro Comico, ove si ride degli antichi pregiudizj Istrionici, e mette in bocca del Capo di Compagnia tutte le regole conosciute tanto per comporre, quanto per rappresentare.

ARTICOLO XI.
Se il Ch. Poeta Cesareo Metastasio imitò, o poteva imitare le Opere di Pietro Calderèn de la Barca. §

Un Letterato Spagnuolo mio amico anni sono mi diceva in Madrid, che Metastasio avea imitato alcuna cosa di Calderòn. A me così non pareva, nè egli me ne adduceva prova veruna. Replicai che ciò non appariva dalle Opere del nostro Poeta, e soggiunsi, che sebbene avesse egli succiato qualche mele dagli Antichi, da’ Francesi, e dagl’Italiani, nulla poteva aver tratto da Calderòn. Tale proposizione ch’io feci poi entrare nella Storia de’ Teatri, increbbe allora all’Amico, e vedo che oggi incresce eziandio al Signor Lampillas (p. 232.). Risposta netta alla maniera Spartana. Additatemi quel che ne imitò. Così dissi all’Amico, e così ripeto all’Apologista. Scartabellate pure, Signor D. Saverio, a vostro bell’agio e Calderòn e Metastasio, e rinfacciatemi quelchè il Poeta Italiano imitò dallo Spagnuolo. Non è questa la più diritta via per convincermi? Ma Voi vi dilettate anzi delle tortuose che delle diritte vie, Voi volete conseguirlo per mezzo delle vostre celebri {p. 140}congetture. Vi fondate in un fatto rilevantissimo. Metastasio, dite, conserva nella sua Libreria le Opere di Calderòn. Dunque Signor Lampillas? Dunque le ha imitate? E se vi ci trovaste l’Opere di Lutero, Zuinglio, Melantone, direste che ne siegue la dottrina? Nè anche Zenone formerebbe di sì inestricabili raziocinj.

Ciò basterebbe su tale articolo. Ma il Signor Lampillas mi fa una dimanda, a cui vò soddisfare, imitando

“La gran bontà de’ Cavalieri antiqui.”

“Mi dica, Signor D. Pietro; Non confessa ella, che il Calderòn in certi suoi componimenti, che si appressano più alla Tragedia, ha molti tratti patetici, e degni di attenzione”? Sì bene, Sig. D. Saverio, io il dissi; e perciò? “E perchè (ripiglia l’Apologista) non poteva il Metastasio ricavar questi tratti da Calderòn”? M’ingegnerò di appagarvi. Ma prima che io dica questo perchè, convenite Voi meco in pensare, che da genere a genere corra la proprietà delle due linee che prolongate infinitamente non mai si toccano? Non sono comparabili p. e. Virgilio e il Monaco Berceo, Pindaro e Don Diego de Torres, Anacreonte e l’Autore della Propalladia, Cicerone e Gongora, Tibullo e Vasco de Fregenal, Orazio e la Encina, anzi nè anche Racine e Moliere, Voltaire Tragico e Marivaux Comico. Calderòn e Metastasio si avvicinano come Drammatici in un punto, da cui partendo, a misura che s’innoltrano nel loro cammino rispettivo, si discostano scambievolmente. Quali componimenti ha scritto Metastasio pel Teatro? Opere Eroiche, Serenate, Oratorj sacri, tutte cose {p. 141}musicali. Calderòn ha forse coltivato questo medesimo genere? Non era dunque la miniera, in cui dovea travagliare il nostro Metastasio.

In fatti in che consistono i Drammi Calderonici? In Autos Sacramentales, in Vite di Santi, in Favole Istoriche, in Commedie di Capa y Espada.

I primi, lungi dall’esser fatti per imitarsi, il nostro gran Monarca, ha stimato proibirne la rappresentazione per le buffonate che si mischiavano con sì augusto Mistero, e per le proposizioni assurde, e che sentono qualche temerità, che all’Autore cadevano innocentemente dalla penna1. Converrà il Sign. Lampillas, che il Poeta Italiano mai non avrebbe perdute le ore in tai rifiuti del Teatro Spagnuolo.

Le Vite de’ Santi ripiene di stranezze, di apparenze, di miracoli finti2, di demonj che vi compariscono a stuoli, soggiacquero al destino degli Atti {p. 142}Sacramentali1, nè più si è veduto in iscena El Diablo Predicador, el Purgatorio de San Patricio &c. Volete che da queste Sacre Farse, che contro le Bolle Pontificie narrano prodigj immaginarj, e mettono in bocca del Demonio mille bestemmie contro il Creatore, volete che in questo torbido fonte beva un Metastasio? E per quale inopia di buone acque?

Rimangono le Favole Istoriche. In queste che cosa avrebbe potuto imitare il nostro Poeta? l’arte d’avviluppare e sciogliere, o la locuzione? Calderòn in tali sue favole espone tutta la filastrocca de’ fatti, alterandone bensì le circostanze ad arbitrio, confondendoli con frequenti anacronismi, e colorendo i caratteri, secondochè glie li presenta la propria immaginazione. Egli seguace di Lope o non conobbe, o conoscere non volle i Greci originali, pago di piacere al volgo. Metastasio Allievo di un Gravina ne avea apprese due sane dottrine sceniche, l’una, seguire l’insinuazione Oraziana,

. . . . . . Vos exemplaria Græca
Nocturna versate manu, versate diurna,

l’altra, detestare le irregolarità Lopensi, e Calderoniche, riprese dal suo gran Maestro da per tutto, e specialmente in una delle Lettere Latine scritta {p. 143}nel 1716. al dottissimo Decano di Alicante1. Or come avrebbe il di lui grande Allievo cercato imitare ciò che chiamavasi dal Maestro peste teatrale? Quanto alla locuzione Voi sapete quale essa siasi. Lirica, ampollosa, metaforica, gigantesca, diametralmente opposta alla verità, e alla sublime, sobria, leggiadra, maestosa, graziosa, appassionata delle Opere Metastasiane. La migliore delle Commedie Istoriche di Calderòn è il Mayor Monstruo los zelos. Questa Gelosia produce varie scene tra Mariane, ed Erode, le quali Voltaire, che su tale argomento compose una Tragedia, punto non si curò d’imitare, tuttochè nomini l’Eraclio di Calderòn per rinfacciare al Corneille l’averne tratto il suo. E volea imitarle Metastasio? e seguire ne’ timori di Mariane, e negli argomenti di Erode per dissiparli la loro dialettica, che converte questi due personaggi reali in due discepoli degli Arabi, che pugnano in un Circolo? Avrebbe Metastasio imitata la locuzione della Commedia Las Armas de la Hermosara, ove trovasi deturpata la storia, il carattere di Coriolano, e la Romana gravità? o quella della Favola mostruosa intitolata Fineza contra Fineza? Per non insultare cesso dall’esemplificare più oltre.

{p. 144}

E non son questi (dirà già fra se il Sig. Lampillas) i Drammi Calderonici, che si avvicinano alla Tragedia? In questi non trovansi quei tratti patetici da voi accennati? Non potea Metastasio imitarli? non trarne un sentimento, un verso almeno che non fosse mostruoso? Ecco, Signor Apologista, s’io sono ingenuo (checchè vi sforziate far pensar di me alla Nazione). Sì, poteva: vi si veggono di tempo in tempo alcuni lampi d’ingegno, alcune buone pennellate patetiche degne d’osservarsi. Ma Voi che per congruità partecipate alquanto delle miniere Americane, non avete inteso dire, che alcune ve n’ha sì scarse che si abbandonano? Il diligente Bowles non accenna l’istesso di alcune miniere di Spagna? Trovansi in Napoli miniere di argento, che per non fruttificare quanto bisogna alla spesa, si lasciano sotterra. E volete che Metastasio, grande sopra tutti i Calderoni possibili, svolgesse nove gran Volumi di Favole Calderoniche, e sei altri di Autos, per trovarvi qualche verso imitabile? Il fate voi sì povero? il credete un accattatore? Vi pare poi che quei tratti ch’io dico, sieno sì proprj di Calderòn, che altrove, e con molto minor fatica nello scavarli, non si rinvengano? Vò recarvene ancora una ragione più individuale. La lingua, e lo stile necessario a’ componimenti musicali richiede precisione e succintezza, ed esclude lo sfoggio di un’ armonia diffusa lussureggiante. Il Recitativo astretto a posarsi non può seguire l’esuberante fluidità di Calderòn, che spazia per molti versi, quelle rettoriche espolizioni, quelle amplificazioni ridondanti, che costituiscono la di lui gala. Metastasio {p. 145}dunque nulla avrebbe potuto ricavarne, quando anche Calderòn si contenesse nella sobrietà Drammatica, e non cadesse, non dico in pensieri, ed ornamenti Lirici ed Epici, ma in metafore disparate, di cui mi sovviene un certo esempio dell’Auto intitolato la Vacante General,

“Con la pluma de ese remo
 “en el papel de las ondas
 “dexarás tu nombre impresso.”

Arrestato da queste meschinità secentiste, che fanno di un remo una penna, di un mare un pezzetto di carta, in somma che avviliscono gli oggetti proprj con traslati poverissimi, chi si curerà di pescare in uno stagno fangoso, lasciando il vasto mare, e tanti copiosi fiumi ricchi di abbondante saporosa pescagione? Ecco gli ostacoli, che, ad onta de’ tratti patetici che io ammiro nel vostro Poeta, avrebbero impedito il nostro dal trarre mele da questi favi.

E quello spirito elettrico (sento dirvi ancora), quel perchè, che voi, Sig. Napoli, riconoscete in Calderòn, dov’egli è ito? non poteva ravvisarlo Metastasio? Questo spirito, questo perchè, Signor Lampillas mio, consiste singolarmente in una prodigiosa varietà di accidenti accumulati un sopra l’altro, in modo che lo spettatore ne rimanga incessantemente sorpreso. E questo artificio (ne siano poi bene o male preparati gli ordigni) non può convenire a patto veruno a un’ Opera musicale limitata a un’ azione, a un giorno, a un luogo, benchè variato per alcune particolari vedute di esso. L’Opera esige una Poetica differente dalla Calderonica e Lopense, che che voglia l’Apologista insinuare {p. 146}nomando alla rinfusa Tito, Sesto, Annio, Vitellia, Servilia, come se tanti nomi provassero una moltiplicità d’azioni.

E dalle Commedie di Spada e Mantello non poteva il Poeta Italiano ricavar dolce veruno? Quivi poi molto meno. Compone forse Commedie Metastasio, che abbisogni imitare il vostro viluppo romanzesco? Le ammantate, le case con diverse uscite e col comodo di un’ altra contigua, gli amanti nascosti, e simili molle de’ Drammi Calderonici, non si ammettono in un’ Opera Eroica. Molto meno una locuzione bassa o mediocre, qual si permette alle Commedie, poteva essere l’oggetto dell’imitazione del nostro Poeta.

Ma l’Avvocato Linguet non afferma, che se Calderòn fosse Greco, non si nominerebbe senza venerazione? Se Calderòn fosse Greco, soggiacerebbe alla disamina de’ Critici Filosofi, come vi soggiacquero tanti altri Greci, oggi che più non si giura sull’autorità. Ma il Signor Linguet non favella punto degli altri mostri Calderonici, bensì delle Commedie di Capay Espada, che ancor io concorro a lodare, tutto che per lo più gli accidenti si rassomiglino in quasi tutte. Questo però non appartiene alla questione, se Metastasio potesse trarne vantaggio. Oltre a ciò non so come vi possa inspirare tanta fiducia un Letterato terris jactatus, & alto vi superum, intento a corteggiare una potentissima Nazione, la quale per altro ricchissima di vere glorie non cura per risplendere nelle armi nella polizia, e nelle Lettere, di vanti immaginarj, presunti, o stiracchiati a forza di congetture apologetiche. Or che vi pare, Sig. Abate? Le {p. 147}Opere di Calderòn vedute nella Libreria scelta del nostro Poeta Imperiale bilanciano nella vostra illuminata testa le prove riferite?

Resta tuttavia un altro mal passo da travalicare, quello di Pier Jacopo Martelli citato dall’Apologista (p. 234.). Nel Dialogo sulla Tragedia l’Impostore loda i caratteri sforzati della Commedia Spagnuola, i quali hanno elevati (aggiugne) i sentimenti de’ vostri Attori, ed avviliti col paragone quelli de’ nostri. Questi caratteri Spagnuoli quì lodati mettono in brio l’Apologista. Ma egli o s’infinge, o non si avvede, che questo sagace Impostore non dice già de’ vostri Poeti, ma de’ vostri Attori. Ed invero gli Attori pubblici, che non sogliono essere i più delicati rappresentatori, abbisognano di caratteri caricati, sforzati, di tinte forti, per trionfare della naturale rappresentazione de’ Neottolemi, de’ Satiri, de’ Poli, ed altri eccellenti Attori Greci. Questo dice il dotto Impostore, ma voi, Signor Apologista, falsificate l’espressione nelle conseguenze, e in vece di dire Attori, scrivete hanno elevati i moderni Tragici. Dovevate dire Tragedi, cioè Attori Tragici. In oltre questo Filosofo mascherato comincia il suo discorso dal mostrare, che la semplicità amata da’ Greci, da’ Francesi, e da’ buoni Italiani, non si amò dalla Nazione Spagnuola, che si fondò nel viluppo romanzesco. “E siam d’accordo (soggiugne nella Sessione I.) che un tal viluppo ha il suo pregio intero nelle Commedie . . . . ma non l’ha nelle Tragedie, il cui viluppo dee esser semplice, e naturale... Lodiamo dunque il genio Spagnuolo negl’intrecciamenti maravigliosi, purchè com’è ingegnoso {p. 148}il viluppo, lo scioglimento sia naturale, e questa è la spina, che per lo più guasta la fioritura delle loro vaghe invenzioni”. Non concede dunque agli Spagnuoli il pregio di avere elevati i sentimenti de’ Tragici moderni (come con un colpo di penna franca cambia il Sign. Lampillas), ma de’ moderni Attori; e di più rigetta il viluppo delle Favole Spagnuole per le Tragedie. Or come volete, caro Sig. Abate, che Metastasio impari da esse a ravviluppare, inviluppandosi nelle vostre spine?

ARTICOLO XII.
Confronto Apologetico della Opera Italiana, e della Commedia Spagnuola. §

Il Sig. D. Saverio (dalla p. 258. alla 274.) si consuma il cervello per provare, che l’Opera Italiana sia così difettosa, come la Commedia Spagnuola. Credo però che egli vada fuor di cammino. E’ da avvertirsi in prima, che, confessando i difetti della Commedia Spagnuola, il nazional Teatro minaccia ruina, non essendo da altro genere rappresentativo sostenuto. Là dove gl’Italiani hanno Tragedie, Commedie, Pastorali, oltre alle rappresentazioni in Musica, e se queste ultime dovessero, come oltremodo difettose, bandirsi dalle scene Italiche, vi rimarrebbero altri spettacoli scenici ancora più perfetti. Sicchè in questo esame avventura più il Teatro Spagnuolo, che l’Italiano. Si vuol notare in secondo luogo essere molto strana la comparazione di Opera, e Commedia, generi diversi, che non si debbono misurare colla stessa squadra. {p. 149}La Commedia, secondo Orazio, più di qualunque altro genere Drammatico, è sottoposta alla esattezza richiesta dalla verisimilitudine, essendo ognuno capace di scorgerne il traviamento:

Creditur, ex medio quia res arcessit, habere
Sudoris minimum; sed habet Comœdia tanto
Plus oneris, quanto veniæ minus1.

All’opposto l’Opera, se vogliamo servirci dell’espressione dell’eruditissimo Sig. Ab. Le Batteux, est le divin de l’Epopée mis, en spectacle, e ognun vede qual più vasto paese può essa scorrere senza errore. Inferno, Elisi, Olimpo, Numi, Incantatrici, Eroi, Esseri allegorici, sono materia ad essa accordata. E’ vero, che gli Spagnuoli si hanno fatto lecito d’introdurre queste medesime cose nella Commedia, che eccessivamente adopera apparizioni, stregherie, demonj, trasformazioni, machine, in modo che tante non se ne trovano, non che in Bojardo, e Ariosto, in tutti gli Amadis, i Meschini, i Tristani, i Fioravanti, e simili ciance cavalleresche, che stravolsero il capo a Don Chisciotte. Ma è chiaro che l’Europa culta ride al vedere tali cose sulla scena Comica, ma non se ne maraviglia nelle rappresentazioni Musicali, per la ragione che le stima proprie di questo genere. Queste brevissime semplici repliche mostrano la inutilità dell’aringa del Lampillas, il quale, sebbene dotato di gran talento, quì più che altrove si palesa non totalmente innoltrato nella Poesia confondendo le specie. Ma contuttociò anderò seguendolo passo passo.

{p. 150}

Il Sig. Apologista primieramente dice così (p. 258.): “Vediamo come il Signorelli si sforza di ribattere le ragioni, con cui alcuni tacciano di sommamente inverisimile il moderno canto introdottosi nel Teatro dell’Opera Italiana”. Bel bello, Amico, che voi smucciate alla porta di casa. Non credo che per malizia vogliate infrascarla, cambiando i termini della quistione, o accomodandola a vostro modo; ma però voi dite ch’io vò ribattere coloro, che tacciano d’inverisimile il moderno canto dell’Opera, ed io per verun conto non dico ciò. Quel moderno aggiunto al canto è un ritaglio di materia, e di colore differente dal primo panno per rattoppare il buco, e scansare la forza dell’altrui ragionamento; riponetelo adunque nel vostro armario donde il traeste. Sebbene abbiate trascritta in parte l’osservazione del Signorelli, pare tuttavia che non l’abbiate ben letta. Ecco quello che io dico: I Criticastri Oltramontani censurano l’Opera, che manda a morire gli Eroi cantando. Adunque questi Criticastri non censurano il Canto come si trova introdotto modernamente, ma il Canto assoluto in teatro. Più nettamente si dice nella Storia de’ Teatri poco appresso, che questi Periodici Pedantini decidono, che il canto rende inverisimili le Favole Drammatiche. Or dove si favella quì di Canto moderno, o antico? Caro Sign. Abate, quest’arte di eludere gli argomenti contrarj variando i termini calzava bene ne’ Circoli Scolastici, dove gli urti, la furia, il trasporto, e talora le pugna, e i ceffoni, non permettevano di attendere alle parole più essenziali della controversia; ma nella scrittura le proposizioni, i termini {p. 151}sussistono, vengono sempre sotto gli occhi, per quanto un Apologista si sforzi di sopprimerli, e per quanto s’ingegni di mostrar la propria agilità, e destrezza in far degli scambietti. Quando si fosse trattato della qualità della Musica, avrebbe potuto distinguersi tra antica, e moderna; e allora coll’erudito M. Sulzer, con varj Italiani illustri, e con tutti gli avveduti Critici dell’Europa, il Signorelli affermerà, che la Musica Moderna non rare volte tradisce nell’Opera la verità.

Si tratta dunque in questo luogo di Canto, che assolutamente rende inverisimili i Drammi. I saggi Critici, dite voi, non pretendono questo. Ed io mel so, Sig. Lampillas; e però dissi, che sono Criticastri, Pedantini, o Pedantacci, compilatori di scritti periodici, saputelli, che leggono pettinandosi, quelli che riprovano ogni sorte di canto in teatro, e non già Critici Saggi. Perchè dunque non masticate le parole dell’avversario? forse perchè vi piace di cadere in ripetizioni nojose? o forse per avere un pretesto di moltiplicare i Volumetti del vostro fruttifero Saggio?

Dubitaste forse, che possa esservi uno Scrittore così strano, che censuri assolutamente il canto teatrale? Io posso disingannarvi. Ve ne ha, Signor Lampillas, ve ne ha, nè sono pochi, nè scioli da cassè questi, che io pur chiamo Criticastri; anzi sono tenuti in sommo pregio da voi appunto, che solete spedire patenti di eruditissimi a coloro, che dicono quel che voi volete. Accenniamone qualcheduno per isgannarvi. Venga prima di ogni altro alla rassegna l’incomparabile vostro M. de Marmontel. {p. 152}Egli dice1, che gl’Italiani all’austerità de’ soggetti storici hanno intrapreso “d’allier le Chant, le plus fabuleux de tous les langages. C’est là le vice de l’Opera, que les Italiens se sont fait”. Ecco dunque che l’insigne ammiratore di Lucano ammirato dal saggio Critico Lampillas, è il primo de’ Criticastri, che rifiutano il canto nell’Opera Italiana, e vogliono conservarlo nella Francese per ragioni, che si vedranno da me altrove combattute. Il secondo Scrittore, che censurò Metastasio per aver composte le bellissime sue Opere per esser cantate, fu l’erudito Sig. D. Giuseppe Clavijo Autore di un’ Opera Periodica intitolata El Pensador. Il terzo è un mio defunto amico D. Nicolàs de Moratin, il quale, quantunque non sia stato un Criticastro, ma un buon coltivatore delle amene Lettere, pure si accordò col prelodato Sig. Clavijo, e desiderava, che Metastasio correggesse quel da lui creduto difetto. Il quarto è l’Autore del Libro intitolato La Mimographe, seguito da una numerosa schiera di Gazzettieri, e di semidotti Scrittori, e non Scrittori, i quali ripetono lo stesso; ed appresso ve ne additerò un altro, che voi non credereste mai, il quale da se stesso si va a mettere tralla folla de’ Criticastri. Vi sono dunque oltramonti tali Criticastri, che riprendono assolutamente il canto dell’Opera Italiana. Perchè dunque l’Apologista si mette a negarlo prima d’istruirsi de’ fatti? per far poi la fantastica opposizione colla giunta della parola Moderno.

{p. 153}

Ma già viene il Signor Lampillas colla mano armata di acute folgori, cioè de’ passi di alquanti eruditissimi Italiani, i quali, a suo credere, riprendono ancora il canto nell’Opera. Ho paura però ch’egli travedendo abbia presi per folgori tremende i razzi da feste, e che non abbia letti bene que’ passi che adduce; perchè que’ grand’uomini ch’egli cita, so che riprendono la qualità del canto, e non il canto scenico per se stesso. E come potevano un Muratori, un Maffei, un Crescimbeni, un Martelli, un Gravina, uomini forniti della più riposta erudizione antica, dichiararsi contro il canto teatrale, sapendo che Atene e Roma, le maestre dell’Universo colto, l’aveano usato costantemente, producendo con esso su’ cuori quegli effetti, che non ci fanno sperare i moderni? Non ignoravano questi valent’uomini, che sebbene non era il canto scenico Greco, e Latino simile a quello delle nostre Opere, era tuttavia un canto accompagnato dagli stromenti diverso ne’ Recitativi (diciamo così), e ne’ Cori, in quelli entrando il Diatonico, e in questi l’Enarmonico. Sapevano que’ dotti Italiani, che l’istesso parlar naturale, non che l’aringare, per essere un canto, un’ armonia oscura1, fa uopo imitarsi in teatro secondo i caratteri delle passioni, e perchè queste col loro impeto sogliono trasportare sovente fuor di tono i Recitanti, gli Antichi assennatamente gli soccorsero cogli stromenti. Erano que’ nostri Eruditi, {p. 154}a differenza de’ Criticastri transalpini, informati, che non solo gli Attori Scenici, ma fin anco i celebri Oratori soleano valersi di tal mezzo per contenersi, o rimettersi ne’ tuoni moderati. Sì, eruditissimo Signor Abate, essi sapevano, che Plutarco nel Trattato Del frenar la collera mentova questa pratica tenuta da C. Gracco. Questo famoso Oratore in aringando avea presso di se uno Schiavo con un flauto chiamato Tonorion, per mezzo di cui si rimetteva nel giusto tono, se mai la veemenza del dire l’avesse fatto troppo alzare, o abbassare. Quo illum aut remissum excitaret, aut a contentione revocaret1. E Quintiliano2 accenna lo stesso: Cui concionanti consistens post cum Musicis fistula, quam tonorion vocant, modos, quibus deberet intendi, ministrabat. E voi vorreste, che valent’uomini che dalla loro più fresca età doveano sapere siffatte cose, avessero ripreso il canto nell’Opera a guisa de’ meschini Criticastri? Essi rigettano l’eccesso, l’abuso, la qualità impropria del canto che oggi si è impossessato del teatro: canto per se stesso eccellente, artificioso, delicato, canto accademico, dotto, forse superiore ad ogni altro, ma che rare volte anima a tempo la passione nel Dramma; che è quello che potrebbe tener sospesi, e divertiti gli Spettatori, sì che assistessero svegli in platea, e senza giuocare ne’ palchetti.

Ed infatti che mai dice il Muratori da voi allegato in primo luogo? Che muove a riso il vedere, {p. 155}che gli Attori Musicali “prendono a contraffare gravi persone, le quali trattano materie di Stato, ordiscono tradimenti, assalti, guerre, vanno alla morte, o piangono qualche gran disavventura, e pure cantano dolcemente, gorgheggiano, e con somma pace sciolgono un lunghissimo e soave trillo”. Or dunque il Muratori riprende quì il Canto, o il tal Canto? La Musica espressiva nata per imitare il vero, o il cantar dolce in quelle perturbazioni, il gorgheggio, il soave lunghissimo trillo? E’ l’abuso, l’eccesso, l’improprietà del Canto, che riprova il Muratori, ed io con essolui.

In secondo luogo cavate fuori il Marchese Maffei. Egli mostrò in prima di temere, che nel Canto si smarriscano i costumi, i modi dell’età e delle passioni. Ma qual Canto ebbe egli in mira? quello che è, o quello che fu, e che può tornare ad essere? Egli il dichiara con iscagliarsi contra l’insoffribile prolissità delle Arie. E aggiugne nel passo da Voi citato “finchè questa maniera di Musica si riterrà, non sarà mai possibile far in modo, che non sia un’arte storpiata in grazia di un’ altra”. L’oggetto dunque delle querele del Maffei, e di ogni Saggio Critico è la insoffribile prolissità delle Arie, è questa maniera di Musica, e non già la Musica.

Ci presentate per terzo l’erudito Crescimbeni. E che dic’egli? Primieramente che l’Opera ha esterminata la buona Comica, e Tragica. Ma che male ciò sarebbe, sempreche l’Opera fosse buona in tutte le sue parti, ed equivalesse alla buona Commedia, e alla buona Tragedia? Questo vorrebbe {p. 156}significare, che alla buona Comica, e Tragica si sarebbe accoppiato il vantaggio della buona Musica onnipotente sulle passioni. Soggiugne quell’Erudito: “Il legame di que’ piccioli metri appellati volgarmente Ariette . . . . tolsero affatto a’ componimenti la forza degli affetti”. Egli vorrà dire che le Ariette improprie, riposate, inanimate, che portano in conseguenza il Cantabile degli Attori evirati, sono le cose, che gli fanno detestare la Musica teatrale; altrimenti egli adoprerebbe il linguaggio de’ Criticastri.

Siegue per quarto un passo del Martelli, anco pensando il Signor Abate, che egli riprenda il Canto come Canto, e non come canto malescelto. Ma che il Martelli non parlasse del Canto assoluto, è manifesto, oltre dall’essere a lui notissimo che i Greci l’adoperavano propriamente, dall’avere nello stesso Dialogo dall’Apologista citato commendate varie Opere musicali di buoni Ingegni, e alcune composizioni di Musica, come quella della Regina di Polonia sulla Poesia del Capece. Lasciamo però simili argomenti, e ripetiamo le parole del passo addotto nel Saggio. “Le cose più eccellenti (dice il Martelli) vengono storpiate dagli smaschiati Cantori, e dalle nostre che per vergogna del secolo osiam chiamare Virtuose”. Egli dunque parla di quella Musica, che serve e si soggetta alle chiamate Virtuose, e ai Cantori smaschiati. Ma nè gli uni, nè le altre entrarono nel Teatro Greco, o nell’Italiano moderno, quando incominciò l’Opera. Adunque il Martelli strepita contro gli eccessi moderni, che io mai non ho difesi, e non già contro il Canto. Il Signor Lampillas vorrebbe accontare {p. 157}il Martelli a i Criticastri; ma oh di quanto egli dista da loro, e da quei svaporati cervellini, che io diceva, i quali si fanno lecito inveire contro il Canto teatrale! Egli è uno de’ più saggi Critici, a’ quali increscono gli abusi del Canto.

Anche il Quadrio, il vostro baccalare, Signor Lampillas, adducete tra gl’Italiani che riprendono il Canto nell’Opera. E non per tanto quello che egli dice, non è quello che voi vorreste, che dicesse. “Il Dramma Musicale (asserisce) è un lavoro bizzarro di Poesia e di Musica, dove il Poeta e il Musico scambievolmente l’uno schiavo dell’altro si logorano il capo per fare una cattiva Opera”. Questo vuol dire, che riguarda agli abusi presenti, e non al Canto come Canto: perchè Musico e Poeta in Grecia componevano un solo individuo, e per conseguenza non poteva essere l’uno schiavo dell’altro (se pure qualche operazione di aritmetica apologetica non convertisse l’uno in Due), e solo ne’ Teatri moderni Musico e Poeta sono due persone distinte. Adunque nè anche dal Quadrio è biasimato il Canto teatrale, ma la servile moderna dipendenza del Musico e del Poeta, che inceppa ambi gli Artisti. Cita poi questo Scrittore e Dacier, e Sant Evremont; ma Voi, quando non altro, dalla Storia de’ Teatri avreste potuto osservare quelche di essi, e singolarmente del Dacier senza nominarli scrisse sensatamente il Filosofo M. Diderot. Il Quadrio cita ancora il Crescimbeni e il Maffei, le cui parole abbiamo già discusse. Cita egli in fine anche il Gravina. Ma questo nostro gran Critico che cosa riprova nell’Opera? I trilli i passaggi, o gorgheggi, co i quali la Musica “a’ {p. 158}dì nostri, in cambio di esprimere sentimenti e passioni umane, e imitar le nostre azioni e costumi, somiglia e imita. . . la lecora o il canario”1. Adunque, o mio Signor Apologista, i nostri grand’uomini non si accomunano cogl’imperiti Criticastri Oltramontani in biasimare il Canto teatrale, quando disapprovano l’odierna mala scelta di esso Canto; ma per essere gravissimi Letterati e capaci di giudicar dritto in materia di Poesia e Teatro, quello biasimano nel Canto scenico, che ne biasima il Signorelli. Ma che bado io a dimostrare quello, che senza accorgersene stà confessando il medesimo Apologista? Non dice egli, che i Saggi Critici non pretendono riprendere il Canto scenico introdotto con senno e proprietà? E sono Saggi Critici i nomati valent’uomini? Se lo sono, certamente non pensano come i Criticastri, e se pensano come costoro, que’ gravissimi Letterati per magia apologetica si saranno trasformati in altrettanti Criticastri. Caro Signor D. Saverio, in tutta la vostra diceria contro l’Opera Italiana si vede che vacillate, ora appressandovi a chi vitupera assolutamente il Canto, ora a chi ne riprende l’abuso.

Da ciò potete inferire, come lo Spirito di Nazionalità vi ha offuscata la vista, per la qual cosa avete perduta la traccia del vero, e vi siete attaccato alle ombre. Quindi addiviene, che tutte le conseguenze fabbricate su’ fondamenti arenosi, barattando lo stato della quistione, come accade del {p. 159}pallino ne’ bussolotti, e interpretando male i nostri Scrittori, terminano nel precipizio ove sprofondò l’antiquato Blitri.

La Tragedia Greca si cantava, e non si cantava, dice il Martelli, cioè non era un Canto deciso, come il Moderno, nè un parlar naturale, ma una cosa che partecipava dell’uno e dell’altro. Fu questo ancora sentimento del prelodato Muratori. Molti secoli indietro l’avea pur detto Quintiliano parlando del decus Comicum da osservarsi da’ Comedi, i quali, tuttochè soggetti a i modi, a i toni delle Tibie di più specie giusta la natura della Favola, pure, com’egli si esprime, non procul a natura recedunt1. L’ha pur detto più di un Francese, e specialmente l’erudito M. Duclos: “Io credo (egli dice2), che potrebbe prendersi un partito di mezzo tra coloro che riguardano la Declamazione degli Antichi come un Canto somigliante all’Opera Moderna, e coloro che stimano che fosse del medesimo genere di quella del nostro Teatro”. E il dissero altri moltissimi; e tutti quelli il diranno che intendono ragione. Ma che volete Voi, Signor D. Lampillas, da ciò dedurre? “Invano dunque pretende il Signorelli difendere i moderni Melodrammi coll’esempio dell’antica Tragedia” (p. 268.). E perchè invano? Perchè l’antico e il moderno Canto scenico non sono in ogni parte simili come due gocciole d’acqua? Ecco da ciò che voi presumete qual conseguenza ne scende: Che {p. 160}l’antico Canto degli Episodj, per essere meno figurato di quello de’ Cori, non era Canto. E quale Scrittore non si vergognerebbe di affermare cotal milensaggine? Osereste asserire, essere di natura differente un Uomo e un Fanciullino, perchè disuguali di statura? Sarà meno Voce umana il Tenore del Basso per la diversità delle chiavi? Non è ugualmente Canto quello de’ nostri Recitativi e quello delle Arie, quello di un’ Aria cantabile, e quella di un Minuetto? Due pesche disuguali di mole non appartengono alla medesima specie? due rette, due cerchi, due quadrati, due ellissi ineguali saranno di natura distinta? Perchè il diametro di Mercurio p. e. è 2460. miglie, e quello di Giove di 81155. sarà il primo meno dell’altro del genere de’ Pianeti, o corpi erranti? Vi pare, acuto Signor Apologista, illazione sobria dedurre dalla modificazione del Canto, la totale deficienza? Provando contro una parte si conchiude sensatamente contro del tutto? E che modo di ragionare è il vostro? Bisogna che abbiate molto bassa idea di coloro che vi hanno a leggere, o che amiate di perdere il tempo, e di farlo perdere: che è peggio.

Nò, Signor mio, non invano pretende il Signorelli valersi dell’esempio dell’antica Musica teatrale per mostrare, che il Canto non è inverisimile ne’ Drammi. Se io pretendessi difendere gli abusi del nostro Canto, non mi varrebbe l’antico esempio, e direste bene. Ma quell’esempio autorizza il Canto teatrale assoluto, qualunque si fosse il Greco, e voi per conseguenza ragionate assai male, ed io fondatamente con quell’esempio imporrò silenzio a’ {p. 161}dozzinali ragionatori, e a’ Criticastri Oltramontani.

Intanto benchè nol diciate nel Saggio, prevedo, che farete fra voi stesso alla Opera Italiana la seguente opposizione: = E bene, se la Musica moderna viene da tanti dottissimi Italiani, e dallo stesso Signorelli riprovata nella maniera, che oggi si trova introdotta, l’Opera dunque di oggidì è diffettosa al pari della Commedia Spagnuola =. Avvertite però, che anche quì conchiudereste male. I difetti della Musica, Signor mio, non si distendono sulla Poesia Melodrammatica. Nella fine del secolo XVI. allorchè nacque l’Opera in Musica, cercò di seguire le orme de’ Greci, esprimendo la verità ne’ Recitativi, e i tuoni naturali delle passioni, nè vi erano Ariette che le raffreddassero, e interrompessero la rapidità dell’azione. Così la maneggiò il giudizioso Jacopo Peri, e il Monteverde, e il Giovannelli, e altri Professori nel principio del secolo scorso. Così la introdusse in Francia il celebre Fiorentino Lulli, il quale facea declamare le scene alla Champmelè, ed afferrandone i tuoni espressivi componeva la sua Musica. Venne il Poeta Cicognini, e usò con frequenza le strofe di versi corti chiamate Ariette, delle quali accennai l’abuso nella mia Storia. Vi si accomodarono i Musici Cantori, e i Compositori: quelli potevano in esse sfoggiare coll’agilità della voce senza curarsi della verità richiesta dal Dramma; questi risparmiavano la maggior parte del travaglio, che loro costato avrebbe l’animare con giuste espressioni musicali i recitativi a seconda degli affetti, e di questi Recitativi disbrigandosi in una notte o due, e dando {p. 162}alle parti subalterne, per dir così, a cantare un minuetto, o una barcarola di poca fatica, riserbavano le delicatezze della loro arte per una mezza dozzina di Arie principali da fare spiccare il portamento della voce nel Cantabile del Tenore, del primo Soprano, e della prima Donna. Non era veramente allora la Poesia più saggia della Musica, e si accomodò a tal sistema. Venne indi il Moniglia, il Capece, il Lemene, il Manfredi, e la Poesia fe qualche passo verso il buon sentiero, e questi trassero l’Opera dal maraviglioso della Mitologia a’ fatti storici Eroici. Stampiglia, Salvi, e sopratutto il dottissimo Apostolo Zeno, oltre al recare anch’essi sul Teatro Musicale azioni di personaggi proprj della Tragedia, si studiarono di apportarvi decorazioni più naturali, e situazioni più tragichè. Compiè l’Opera il celebre Pietro Metastasio, riducendosi sempre più alla verità e maestà tragica, ed animando le situazioni patetiche colla magia dello stile, e colla dipintura al vivo delle passioni. Meritavano tali progressi più espressiva, più vera Musica. Ma fra’ compositori Musici suoi contemporanei era in voga un genere di Musica artificioso, delicato all’estremo, ma che non bene secondava il calore e le mire del gran Poeta. Essi credettero, che il comporre pel Teatro fosse lo stesso, che scrivere per le Chiese, per le Accademie, per le Camere private, e tutta la cura posero a soddisfare i più celebri Cantori, i Bernacchi, i Nicolini, i Farinelli, i Cafarelli, gli Egizielli, i Manzoli, i quali attendevano ad accreditarsi per Musici squisiti colle più fine difficoltose arditezze felicemente superate colla loro voce. Il {p. 163}gran nome, che questi famosi Cigni acquistarono per l’Europa, l’applauso generale che riscuotevano, arrestò verisimilmente il gran Poeta Cesareo dal tentare maggiori novità; e l’Opera non raccolse l’intero frutto di vedersi per la di lui mano condotta alla Greca verità. Non è già che non iscappassero fuori tratto tratto certi lampi di vera Musica teatrale in molti felici squarci di Recitativi obbligati di più di un Maestro, ma singolarmente del divino Jommelli, ed in certa difficilissima facilità del Vinci, dello Scarlati, del Leo, i quali con quattro note seppero spesso giugnere al cuore. Un’ Aria di passione, come quella dell’Olimpiade, Se cerca, se dice l’Amico dov’è, più di una fiata si espresse mirabilmente, è senza le solite inverisimili repliche delle stesse parole, le quali altro oggetto non hanno, che la chiamata da’ Maestri Musici Circolazione di tuoni del motivo eletto. Molti pezzi di Musica del famoso Gluck comprovano ancora, che havvi oggi più di un genio, che con poco saprebbe convertire l’Opera all’antica verità mista alla delicatezza moderna, serbando per i Cori una Musica più Lirica, figurata, Cromatica, e dando a’ Recitativi l’espressione opportuna in qualunque sito di essi si elevi la passione, e non aspettando il colpo dell’Aria che troppo tranquilla e parlante intepidisce l’azione, e fa trascurare i pezzi più appassionati de’ Recitativi. Ciò dimostra, che la Musica teatrale è incaminata alla perfezione, e potrebbe facilmente cangiar sistema; ma ci vorrebbe un altro Metastasio, il quale arditamente recidesse le radici a certi abusi, a cui il Poeta Cesareo, per le circostanze de’ tempi, non potè tutto {p. 164}in un colpo ovviare. Il Signor Lampillas non ignorerà, che prima che un nuovo genere abbia, come dice nella Poetica Aristotile, la sua natura, vi vogliono molte e molte osservazioni successive; e colui, cui tocca infine giugnere al punto fortunato, forma epoca in suo genere, e ne fissa il gusto.

Ma questa succinta storia musicale prova alcuna cosa a favore del Signor Lampillas? Prova, che la non curanza de’ Maestri, e de’ Cantori nel bene esprimere, e la loro soave dolcissima melodia, quando meno dovrebbe aver luogo nel Dramma, sieno difetti della Poesia1? Prova, che tali improprietà musiche, contro di cui si schiamazza, rassomiglino alle incoerenze, a’ delirj della maggior parte de’ Drammatici Spagnuoli de’ due trascorsi secoli? Distinguiamo, Sig. D. Saverio, la Musica dalla Poesia. Nulla ha di comune la Poesia Scenica Spagnuola colla Musica Drammatica Italiana. Poesia con Poesia, Amico, se volete comparar sanamente. Ora quando mettete la Poesia dell’Opera accanto alla Poesia della vostra Commedia, voi troverete, che niuno de’ difetti di questa trovisi in quella. Forse che l’Opera mostra i personaggi giovani, e vecchi in una medesima favola? gli mena da un Regno all’altro, anzi dal Vecchio al Nuovo Continente? usa forse di quei perenni rimedj de’ manti, {p. 165}de’ nascondigli, delle case che si compenetrano? introduce i Buffoni, come fanno gli Arlecchini Spagnuoli, a trattar famigliarmente con Principesse e Regine, a intervenire in qualità di servidori tra’ Grandi, Ambasciadori, e Principi, a ragionare, buffoneggiando coi Sovrani occupati in gravi affari? adopera quella locuzione ora bassa, ora gonfia, ora tragica, ora comica, e per lo più stravagante? Questi grossolani difetti punto non conosce la Poesia musicale, a cui voi gratuitamente tanti ne attribuite. Scorrete, non dico le ammirabili Opere del Zeno, e del Metastasio, non quelle del Manfredi, e dello Stampiglia, ma quelle imperfette del secolo passato, e Voi in queste troverete, sì, certa languidezza lirica, certi amori nojosi, uno stile lezioso, snervato, Damerini galanti invece di Eroi, ma non mai quegli spropositi grossolani di luogo, di tempo, di azione &c. (se pure il Quadrio non vi somministrasse qualche scenica zacchera vecchia dimenticata MS. nello scrittojo di qualche novizio). L’Opera adunque rinuncia alla maggior parte de’ suoi privilegj per non infrangere le regole, non gia del Maestro Aristotele, che pure le attinse nella pratica de’ buoni Poeti antichi, ma della eterna Ragion Poetica, che risulta dal verosimile ben inteso. In fatti niuno de’ Francesi ha mai sognato attribuire alla Opera Italiana le mostruosità, che voi fantasticate, nè quelle riconosciute da’ più dotti Critici Spagnuoli nel loro Teatro. Anzi i più chiari ragionatori della Senna confessano, che “le Tragedie-Opere Italiane vagliono più delle Francesi: che Metastasio è sicuramente un Poeta superiore a’ loro Poeti Lirici (cioè Musicali) senza {p. 166}eccettuarne Quinault: che gl’Italiani danno alle loro Opere più unità de’ Francesi: che le parole sono più proprie per la Musica, e la Musica per le parole” &c.1.

E già siamo pervenuti a tiro della più terribile batterìa Lampigliana contro la Opera, e la Storia de’ Teatri. Voglio dire a quella parte, dove l’Apologista spiega la forza della sua Filosofia, e vuol mostrare poco soda la ragione da me addotta delle supposizioni ammesse in Teatro, come verisimili per una tacita convenzione tra’ rappresentatori, e l’Uditorio.

Per mostrarsi non forestiere ne’ giusti principj di ragionare, così discorre l’Apologista (p. 269.): “Nelle rappresentazioni teatrali non si pretende di presentare i veri oggetti, ma di rappresentarli; nè si vuole che tutti gli oggetti rappresentati siano veri, vuolsi bensì però che siano verisimili . . . . . Non possiamo avanti per ora.” Il Signorelli ha forse nel suo Libro contraddetto a tal dottrina? ha detto, che debbansi presentare sulla Scena oggetti veri? Tutto all’opposto: Egli nella stessa nota impugnata dal Signor Lampillas si scaglia con vigore contro certi Filosofi alla moda, che cercano il solo Vero nella Poesia. Egli sostiene in tutte le sue Scritture l’opinione del Poeta Filosofo Orazio, cioè che

Ficta voluptatis causa sint proxima veris,
{p. 167}

Sentimento espresso con altri termini da un giudizioso Inglese, cioè che il Vero Poetico sia il Verisimile. Ed Aristotele parlando del Credibile e del verisimile della Favola, dice che vi ha un Vero che in Poesia è inverisimile e incredibile; e il Castelvetro, e tutti gli altri spositori convengono a dir lo stesso; e l’ha ripetuto nell’Arte Poetica M. Despréaux,

“Le Vrai peut quelque fois n’être pas vrai semblable.”

E il Signorelli appunto nel luogo combattuto nelle prime parole affermò contro i ragionatori d’oltramonti, che “il diletto che partoriscono le faccende poetiche, proviene dalla dolce alleanza del Vero colla Finzione”, allegando l’eruditissimo Calabrese Gravina, che avea detto, che ogni imitazione poetica consiste nel trasporto della verità nella finzione. Ora quell’Oltramontano, che non si stima forestiere ne’ giusti principj di ragionare, potea risparmiarsi una ripetizione infruttuosa e intempestiva. Seguitiamo adesso ad imperlare il nostro scritto col resto delle parole dell’Apologista. “Ora niuna tacita convenzione fra’ rappresentatori e l’Uditorio può fare, che sia perfetta rappresentazione del vero oggetto quella, che ci dà una idea Disconforme dal vero; nè che sia verisimile ciò, che al vero non rassomiglia”. E qual è, Signor Lampillas, questa idea, che voi chiamate Disconforme dal vero? Il Canto scenico forse ve la risveglia? Dunque voi (sia ciò detto di passaggio) quì vi conformate co’ Criticastri, che escludono dalla Opera il Canto? Siete adunque ancor voi

{p. 168}
“Uno di quei, che la gran Torre accese;”

e quell’aggiunto Moderno, che vi apponeste, fu un pretesto per valervi de’ passi degli Eruditi Italiani senza molta sconcezza, benchè internamente eravate persuaso dell’opinione degl’imperiti Criticastri. Non vi prevenni, che altri ancora, oltre i da me nominati, erano di quel bel sentimento? Rispondiamo ora alla vostra osservazione filosofica con una asserzione comprovata dalla storia delle nazioni, che però per voi sarà un paradosso. Sappiate, che di tutte le accennate Supposizioni il Canto è il meno inverisimile, il meno ripugnante alla umana natura. Sovvenitevi, che il parlar naturale stesso è un Canto oscuro; che recitando versi, e aringando ancora, secondo Cicerone, si sente una specie di canto. La Poesia nacque gemella colla Musica. Con un canto cominciarono i versi a uscire dalle umane bocche. Gli stessi Selvaggi verseggiarono cantando. Non parve il canto nè anche a’ Riti Religiosi una inverisimilitudine. La Legislazione stessa se ne prevalse, per meglio imprimere i suoi dettati negli animi, e nella memoria de’ popoli; e in un affare di tanta serietà non si reputò il Canto Disconforme dal vero. Versi non vi furono fra’ Greci ne’ più felici tempi, che ricusassero l’accompagnamento del Canto. Allora il Poeta non era, come al presente, un semplice verseggiatore. Egli univa in se le qualità di Filosofo, di Poeta, e di Musico; e la separazione di tali ufficj ha cagionata la debolezza di ciascuno. “Conoscendo” (dice il Gravina1) “i primi autori della {p. 169}Vita Civile, che la soavità del Canto rapiva dolcemente i cuori umani . . . . racchiusero gl’insegnamenti in verso, cioè in discorso armonioso, e l’armonia del verso accoppiarono con l’armonia ed ordinazione della voce, che Musica appellarono”. E perchè l’avrebbero allontanata dal Teatro, dove principalmente doveano eccitarsi le passioni per insinuare al Popolo i precetti salutari della Morale? Forse che le inflessioni della voce non nascono dalle commozioni degli affetti? E la Musica che sappia ben copiarle, sarà perciò Disconforme dal vero? Essa non sarà l’istesso vero (il che nè anche voi vorreste, e volendolo cadereste in una manifesta antinomia), ma sarà benissimo al vero somigliante e conforme. Se voi dunque vorrete mostrarvi un poco più Filosofo, vedrete, che il Canto regolato a norma della verità sarà una pretta imitazione del natural parlare accresciuta dall’Ottica teatrale di qualche tuono più vivace. E quale delle supposizioni necessarie nella Scenica si può meglio del Canto in certo modo occultare all’Uditorio, quando fosse usato con savia moderazione, e portato a quel punto di verità, che i Saggi richiedono? Fede ne facciano non pochi Recitativi cogli stromenti obbligati, ne’ quali si ammira un bellissimo canto senza esser manifesto, assai più naturale della declamazione Francese, non che della Spagnuola. In essi recitativi l’Attore o l’Attrice interrompe le parole come sospesa dalla novità de’ pensieri che le sopravvengono, o dalla varietà delle passioni, o dall’orrore del proprio stato, o dalla confusione, e intanto la Musica secondandola ricerca le vie del cuore dello Spettatore. {p. 170}Simile a questi recitativi fu il Pigmalione del Filosofo, Poeta, e Musico Ginevrino Rousseau, in cui con esito felicissimo adoperò una Musica tutta espressiva senza il moderno canto figurato. Se dunque il Canto entrerà nell’Opera con simile artificio, rapirà certamente soprammodo i cuori, e non parrà a chi ben ragiona alieno, o, secondo il termine apologetico, Disconforme dal vero.

E ditemi un poco, Signor D. Saverio, rassomiglia forse al vero più quel parlare in versi, specialmente nelle Commedie? Voi intanto trionfate per essere tutte le vostre favole scritte in versi, e con più manifesta inverisimilitudine, con una mescolanza di Ottave, Sonetti, Terzine, Decime, Quintiglie, Glosse, e di qualunque altra specie di metri. E’ più conforme al vero il Secreto a voces di Calderón, in cui il Galán e la Dama mostrano sapere, che essi parlano in versi? E più verisimile del Canto la declamazione Spagnuola ripresa da varj eruditi nazionali, e particolarmente dal Montiano, in cui i Commedianti urlano, si scompongono, gesticolano, e amoreggiano talvolta come i gatti miagolando, o parlano a’ Re come pedagoghi? E’ più del Canto verisimile lo studio, che pongono questi Attori in sentar bien el verso, vale a dire in troncare il concetto in grazia della versificazione, e in cantar male senza Musica, di che non v’è cosa più nojosa? Erano più del Canto verisimili las Cortinas, che circa dodici anni fa componevano tutto l’apparato Scenico Spagnuolo, dalle quali entravano ed uscivano sovente personaggi, che l’azione richiedeva, che non si vedessero? E’ più del Canto verisimile, che gli Attori rappresentando {p. 171}caratteri di Africani o Americani, od Europei parlino un linguaggio comune?

Ora di tutte queste cose, a lui ben chiare, perchè lo spettatore benignamente perdona a’ rappresentatori? Vi può essere altra ragione di quella specie di tacita convenzione contrastata, per la quale passa per verisimile la falsità ch’egli vi ravvisa, in grazia del diletto, che attende dal rimanente? Se queste osservazioni, o mio Signor D. Saverio, non fecero in voi impressione nel 1777. quando s’impresse la Storia de’ Teatri, come non vi scossero nel 1779. quando uscì il bellissimo Poema didascalico della Musica del Signor D. Tommaso Iriarte? Egli in buoni versi Castigliani seppe metterle in vago aspetto; e voi le dissimulate, e di sì leggiadro Poema non citate se non un solo verso?

Ripetete poi (p. 269.) che non sarebbe illusione, se si presentassero i veri oggetti: al che si è di sopra replicato, che il Signorelli non mai ha ciò sognato di pretendere, o asserire. Ma prima affermate con franchezza, che “la Drammatica non ha bisogno dell’indulgenza dell’Uditorio per partorire l’illusione desiderata”. Veramente la Drammatica cerca per tutte le vie quel verisimile che tira l’attenzione, sì, che poco rimanga da supplire all’Uditorio. La Poesia lo prende per norma. L’Apparato Scenico viene prescritto da Aristotele nella Poetica, affinchè concorra allo stesso fine colla possibile proprietà. Eschilo l’ebbe sommamente a cuore, e cangiò gli alberi e l’ombre de’ Carri Tespiani, e il tavolato di Platina, in un teatro decente, e in una scena opportuna all’ {p. 172}azione. L’imitazione de’ personaggi storici, o favolosi fu un altro pensiero di Eschilo. Le Maschere furono di tal modo al di fuori configurate, che potessero con la maggior proprietà e decenza rappresentare, non che la vecchiaja e la gioventù ed il sesso, fin anco i costumi delle persone. Aristofane proverbiava que’ Tragici, che con poca proprietà vestivano i personaggi. Sofocle aggiunse sempre nuova proprietà alla rappresentazione. E tante pene perchè? per non tradire l’oggetto della Drammatica d’insinuar col finto bene imitato le verità morali nel Popolo. A questo scopo contribuirono i nostri celebri Pittori di quadratura i Bibbiena, i Natali, i Joli, i Baldi, che colla Prospettiva s’industriarono di dare alla superficie una profondità apparente. A ciò il più volte lodato Conte di Aranda, attuale Ambasciadore del Cattolico Monarca presso il Cristianissimo, tolse al Teatro Spagnuolo le bandine proprie de’ Pupi, e vi sostituì diverse Mutazioni di Scene, pregevoli lavori di abili Pittori Spagnuoli di Prospettiva. Se la Drammatica non ha bisogno, che di se stessa per partorire l’illusione, a che tante cure e tante spese? Poi perchè mai spogliata di queste apparenze col recitar sedendo i nudi versi, non produce quel felice inganno? Dovea venire l’Apologista per fare di sì nuove invidiabili scoperte. Egli schiverà l’assalto con dire: = Io non asserisco, che di tali cose non abbia bisogno, ma bensì dell’indulgenza dello spettatore =. E ditemi dunque un poco, caro Signore: Tali cose sono, o non sono necessarie? Se dite, che non sono necessarie, siete smentito da’ fatti antichi e moderni, dalle cure di {p. 173}Eschilo, e dalle insinuazioni di Aristotele, e poi dalle disposizioni del Conte di Aranda. Se confesserete, che sono necessarie, prima dunque che esse si ritrovassero, e s’introducessero sulla Scena, la Drammatica avea bisogno dell’altrui indulgenza per fare effetto. Dunque la proposizione del Signor Lampillas è fantastica, è falsa. = Ma io non dico (non è improbabile, che egli tenti lo scampo per quest’altra viottola) che essa Drammatica non avea bisogno dell’indulgenza prima di trovarsi tal proprietà dell’Apparato, ma che al presente non ne abbisogni =. Ditemi, Signor Apologista, potete essere sicuro, che oggi tutta la proprietà necessaria alla Drammatica sia ridotta al punto di perfezione richiesto? Avete bene studiati que’ due Libri del Goldoni, Mondo e Teatro? Avete su tali cose sì profondamente meditato, che già vedete chiaro, che essa ha quanto le occorre, e che per tutti i secoli d’altro non abbisognerà? Io ho paura che nè in Italia, nè in Ispagna sareste creduto, ancorchè il pretendeste. Io vi vorrei un poco allato di alcuno, che abbia tali materie bene esaminate, quando si rappresentasse il migliore Dramma colla maggiore proprietà. Egli vi anderebbe dicendo quanto altro manchi a quella rappresentazione per produrre una illusione compiuta. Oh Signor Lampillas! Troppo rimane ancora da lavorare per fornir la Drammatica di tutto l’opportuno soccorso, che l’è necessario! E quando pure i moderni Roscj e Neottolemi in compagnia de’ migliori Critici di buon gusto vi avranno ben riflettuto, non perverranno a conseguirlo per le difficoltà sopraccennate del verso, dell’Attore, del linguaggio, e di cento {p. 174}altre minuzie, che smentiscono la rappresentazione. A questo non si riparerà mai, nè anche coll’acuta vostra pensata Apologetica del vero fisico, delle vere ricchezze di Cleopatra, della vera Regia di Cartago, ed altre cose, che con tanta grazia affastellate; anzi vi dico, che con questa verità distruggereste dell’intutto la stessa Poesia, non che l’illusione. Meditate, pensatevi su un poco meglio, e troverete, che l’ultimo punto della scenica verità è desiderabile, ma non isperabile. Altro rimedio non vi è fuori della indulgenza dello spettatore, il quale col fatto convenga in non cercare un impossibile, cioè una cosa, che non può andare altramente di quello, che và. E che diverrebbe del Teatro Spagnuolo al mancare questa indulgenza, o tacita convenzione? Come avrebbe pazienza l’Uditorio a una rappresentazione per tante ragioni inverisimile? Esiste dunque per necessità nel Teatro questa tacita convenzione male impugnata; e la Drammatica ancora ne abbisogna, ad onta di quanto sinora si è travagliato per conferire all’illusione; e ridotta, se possibile fosse, a più manifesta imitazione del vero, e ad una approssimazione ad esso più immediata, vieppiù la produrrebbe.

Quegli effetti, che voi con bella rettorica enumerazione di parti inserite nelle p. 270. e 271. Voi non gli attribuite alla tacita convenzione, di cui tutti portiamo ne’ Teatri una dose proporzionata a’ Paesi; ma gli attribuite alla viva naturale rappresentazione. Ma come non vi accorgete, che portate in prova quello, che si controverte? che questa viva naturale rappresentazione è appunto in questione? che è contraddetta dal parlare in versi, {p. 175}dal linguaggio comune a tutti, dalla conoscenza degli attori; e che per conseguenza lo spettatore non la troverebbe sì viva e naturale, se non considerasse, che a quella cosa non dee badare? Se non m’inganno, io ve ’l farò toccar colle vostre mani. Andate a un Teatro, domandate al più abjetto del volgo, dove vada? Vado, risponderà ridendo, alla Commedia (cioè ad una cosa che sa di esser finta): vado a vedere Los Aspides de Cleopatra, quegli aspidi di cartone fatti da un mio compagno, i quali uccideranno la bella Egiziana; e seguiterà a ridere. Va egli dunque prevenuto del falso. Con tutto ciò siegue la rappresentazione, ed egli s’interessa alla di lei morte, e ne sospira. Egli ha forse cangiato sentimento? Ha creduto da poi a quegli aspidi fatti dal suo compagno? a quella finta morte, a quella Regina, che morta ancora, nell’esser condotta dentro da’ servi, si ajuta co’ proprj piedi? Nò, egli sa tutto, tutto egli intende, ma vi conviene, e così prevenuto più non pensa alle falsità, ma al fatto e all’espressioni, come se le udisse uscire dalla bocca moribonda di quella infelice bellezza. Or vi pare questa sì viva, sì naturale rappresentazione da partorire da se la illusione? Piano (dirà l’Apologista), che se l’Attrice sarà abile, non si ajuterà co’ suoi piedi. Benissimo, ma come rimediate agli aspidi di Cartone del suo compagno? come alla sicurezza che egli ha, che colei non muore, e che non è Cleopatra, ma La Huertas, o Mariguita del Rosario, o la Carreras, che la rappresenta? Signor Lampillas mio, all’evidenza mal si contrasta. E voi potete scorgere, che non avete alla coda cattivi bracchi.

{p. 176}

Passa l’Apolostista a soccorrersi con un argomento tolto dal simile, di cui per altro non v’è il più malsicuro per le infinite circostanze, che diversificano gli oggetti. Egli dice: Chi pensarebbe alla conosciuta falsità della tela dipinta al vedere i quadri di Raffaello e di Tiziano, ed al provare gli effetti che fanno nell’animo suo quelle immagini? Io non dubito, Signor Abate, che a un bisogno voi parlereste sì bene di Pittura, come fate di Poesia Rappresentativa. Pure a me sembra, che in questo esempio state in termini troppo generali, ed armeggiate alla larga. Voi dovevate approssimar meglio la Drammatica e la Pittura per trarne alcun succo. E per conseguirlo non vi fermate alla sola tela dipinta, cercate se la Pittura sia soggetta a qualche inconveniente indispensabile. Voi troverete, quando meno il pensavate, la necessità della tacita convensione sin anco nella Pittura.

La vasta erudizione, di cui vi suppongo adornato, non vi farà ignorare, che nel XV. secolo la Pittura, tutto che nelle mani del Masolini, del Masacci, e del Ghirlandai, avesse fatti alquanti progressi e nelle fogge degli abbigliamenti, e nel disegno; tuttavolta deturpava le invenzioni, di tali Artisti una moda meschina d’introdurre nelle antiche Istorie personaggi moderni vestiti alla Fiorenna. Questo anacronismo pittorico manifesto all’osservatore a poco, a poco gli si rendè famigliare, sì che in mirando le Opere di quegli abili Artefici, tacitamente conveniva a non più censurare l’anacronismo per non resistere alla moda, e per non perdere il piacere di vagheggiarne le bellezze. Giva adunque a guardarla colla prevenzione di perdonare {p. 177}a que’ Professori l’abuso introdotto. Oh voi, Signor Napoli, la prendete ben da lontano. No, Signor Lampillas, calo di un salto quasi un secolo, e vengo all’esempio del divino Raffaello. Credete voi, che questo prodigio della moderna Pittura andasse libero da tali inconvenienti? I Pittori, Amico mio, lavorano per beni fisici e morali, per la gloria e per le ricchezze. Un Priore, un’ Abbadessa, un Negoziante, un Cavaliere dabbene, cerca un quadro, e destina le figure, che debbono entrarvi, ed allora voi vedrete San Francesco, San Domenico, Sant’Ignazio introdotto in una Storia del Testamento Vecchio. Qual Pittura più degna di quel Principe de’ Pittori della Trasfigurazione sul Taborre? Intanto non lungi dal Redentore vi si veggono due Diaconi S. Stefano, e S. Lorenzo, o due Francescani, come altri vuole, ivi collocati a richiesta di una Comunità di Francescani. Lo spettatore che intende, tacitamente assentisce a quell’anacronismo, discolpandolo alla meglio, per pascere l’avido sguardo di quel quadro incomparabile, senza idea alcuna, che disturbi il suo piacere. Lo stesso avviene nell’altra non meno preziosa Pittura del medesimo sommo Pittore, il quadro detto la Madonna del pesce fatto per i Domenicani di S. Tommaso di Aquino di Napoli, che ora trovasi nell’Escoriale. Non fu certamente pensiero dell’Apelle Italiano accoppiare con Tobia e l’Arcangelo Raffaele, e il Bambino Gesù, e la Vergine, un San Geronimo vestito da Cardinale. Quest’altro anacronismo venne fuor di dubbio da chi commise tal Pittura. E se lo spettatore vuol godere delle infinite perfezioni, che rendono questo gran {p. 178}quadro singolare1, fa uopo che in se stesso convenga in discolpare il Pittore di quell’accozzamento di persone non contemporanee di San Geronimo Cardinale, e di Tobia il giovane, e della Vergine. A queste opere inarrivabili del Pittore di Urbino ne aggiungo un’ altra di uno non meno divino Artefice, cioè del fonte della Grazia pittoresca, Antonio Allegri detto il Correggio. Il Quadro di cui intendo parlare forse il più bello di questo eccellente Autore, stava prima nella Chiesa di S. Antonio Abate, ed oggi, a perpetua maraviglia di chi l’osserva, l’ho veduto collocato nella famosa Accademia di Parma. Non v’è bellezza di chiaroscuro, di grazia, di colorito, e di composizione che non vi si ammiri. Intanto vi si veggono congiunti varj Santi fioriti in tempi diversi, la Vergine, il Bambino, un Angelo, San Geronimo, la Maddalena. Bisogna adunque che l’osservatore non fermi il pensiero su gli anacronismi manifesti, i quali tacitamente conviene di tollerare, e ritragga tutto il diletto da quel cumolo di pittoriche bellezze. E che dice ora il mio Signor D. Saverio? la tacita convenzione trallo spettatore, e l’Artefice non entra ancora nella Pittura? Se non la vedeste nell’esempio addotto alla vostra maniera, la vedete ora ne’ fatti da me esposti? O forse {p. 179}chiudete gli occhi per non vederla1?

Dopo tante belle ragioni passate finalmente a discorrere, e sentenziare in questa forma (p. 272.): “Ecco quanto addiviene nella rappresentazione teatrale; dove questa sia perfetta, produrrà il sospirato effetto dell’illusione senza veruna convenzione: dove sia un ammasso d’inverisimili, non vi sarà convenzione, che basti a produrla”.

Parmi, che da queste due parti della vostra proposizione potrebbe ricavarsi una coppia di argomenti. Sia questo il primo. Dove la rappresentazione è perfetta (dite voi), l’illusione si produce senza convenzioni. Ma la Commedia Spagnuola, per confenso de’ nazionali e stranieri, e vostro, è imperfetta e abbonda d’inverisimili, e pure si ascolta con interesse. Dunque anche una imperfetta rappresentazione produce la illusione. Ma per la condizione premessa la rappresentazione vuole esser perfetta per produrla. Dunque, posto che la Spagna ascolta con attenzione la sua Commedia sregolata, raffigurandola per tale, è segno evidente, che supplisce alla imperfezione della rappresentazione con una tacita indulgenza. Dunque fa mestieri in Teatro la convenzione che voi negate. All’altro. Dove (voi dite) la rappresentazione è un ammasso d’inverisimili, non vi sarà convenzione, che basti {p. 180}a produrre l’illusione. Ma in Ispagna la Commedia inverisimile si vede, che la produce. Dunque anche una rappresentazione inverisimile può produrla. Voi però affermate, che sendo tale non dee, nè può produrla. Dunque la partorisce un altro principio, che se non istà nello spettacolo, forza è che trovisi nello Spettatore, il quale voglia con benignità chiudere gli occhi per ricavarne il suo piacere.

Ma sentite ora un’ altra corda. = Dove la rappresentazione (parole vostre) sarà perfetta, produrrà l’illusione =. Ciò si nega, di ciò appunto si questiona: che se non mostrate il modo di superare gl’inconvenienti in parte dal Signor Iriarte, e da me sopraccennati, la rappresentazione dee sempre essere imperfetta, e rimarrà sempre all’Uditorio qualche cosa da supplire per passare il tempo senza noja. = Dove essa (vostre parole ancora) è un ammasso d’inverisimili, non sarà convenzione, che basti a produrla =. Ciò parimente è asserito con troppa fretta. Le rappresentazioni Cinesi sono un ammasso d’inverisimili; e pure in quel Popolo non selvaggio producono l’illusione necessaria per quell’Uditorio. I Drammi di Shakespear, e di Otwai nella filosofante colta Nazione Inglese, ad onta delle mostruosità, fanno le delizie del Popolo Britanno. Gl’inverisimili ammassati nelle Commedie Spagnuole da quasi tre secoli hanno prodotta tutta l’illusione sufficiente per chi le ascolta, ed oggi giorno la producono. Non è dunque la perfezione, che non può darsi in tutte le parti della rappresentazione: ma quella tacita Convenzione, la quale ne’ Cinesi e negli altri Popoli {p. 181}nominati si distende a moltissimi capi; laddove ne’ Greci, ne’ Francesi, e negl’Italiani è ristretta a un numero assai minore. L’Opera stessa Italiana, e Francese, benchè ammetta il Canto, sperando nella compiacenza dell’Uditorio, ha però rinunziato a quell’ammasso d’inverisimili, ravvisati ne’ Drammi Cinesi, e in quelli di Shakespear, e di Lope. E così abbigliato il nostro Melodramma, malgrado di un sistema, che può migliorarsi, ha fatto la delizia dell’Europa. Or che sarebbe, se i passi dati verso la perfezione dal Romano Cesareo Poeta s’innoltrassero un poco più, e la Musica gli seguisse sulle orme de’ Greci per la verità, e su quelle de’ Moderni per la delicatezza?

ARTICOLO XIII. §

I. Se il Poeta Drammatico debba piacere al Popolo, o a’ Savj.

II. Se, al pari di Lope, gl’Italiani antichi e moderni cercarono di compiacere al Volgo.

I. §

Quando sperava porre quì il termine a queste mie osservazioni antiapologetiche, mi veggo arrestato da alcune altre coserelle del vostro Volumetto in questa disamina, in cui mal volentieri mi occupo per quella breve famigliarità, che contraemmo, e che io bramo di conservare. Non credo però, che per le mie risposte venga nell’animo vostro alterata, come nel mio non la turbarono le vostre apologie sceniche. Infine egli è concesso a {p. 182}due persone non inimiche il dissentire in qualche punto, il disputare ancora, senzache l’usata armonia ne abbia a soffrire. E poi, caro D. Saverio, voi già non pretenderete, che io pieghi le spalle, e qual servo antico, mi riceva le vostre busse con istoica pazienza.

Promovete nella p. 276. una quistione non nuova. “Il Signorelli (dite) vorrebbe, che il Poeta teatrale si studiasse di piacere alla parte più sana e illuminata della Società, che sono i Dotti”. Aggiugnete (p. 278.): “I Poeti, i quali nulla curando che le loro Commedie, o Tragedie occupino con plauso i pubblici Teatri...”

. . . . . . Lectori se credere malunt,
Quam spectatoris fastidia ferre superbi,

“si studieranno di lavorare i suoi Drammi sull’esempio di quelli, che furono scritti nella caverna di Salamina”. Quindi prendete argomento d’insegnarmi, che i Drammi “non furono inventati per dilettare i Savj Solitarj ne’ loro Gabinetti, ma per dilettare ed instruire il Pubblico ne’ Teatri”. Questo solo in quanto avete detto è vero; nati sono i Poeti Scenici a dilettare ed instruire il Popolo, come dice Orazio; ed a tal fine si danno varie instruzioni intorno al buon gusto, che dee regolarli, se ne compongono tanti, come per saggi, per giugnere a quel punto di perfezione necessario, e se ne tessono Istorie ragionate, che con un colpo d’occhio espongano gli sforzi fatti dagli antepassati per conseguire fine sì bello. Non credo però, che la Storia de’ Teatri vi abbia dato motivo di pensare, che io pretenda destinare i Drammi solo alla lettura de’ Savj, come pare che vogliate insinuare, {p. 183}scappando fuori con quel lectori se credere malunt bene intempestivo. Che se voi l’affermaste a dirittura colla usata franchezza, sareste smentito da tutte le parole del mio Libro. Ma passiamo ad esaminare il vostro savio sentimento.

Egli non è litigio novello, se il Poeta debba prefiggersi l’approvazione degl’intelligenti, o quella del popolo. Ne’ secoli scorsi si agitò in Italia con qualche calore: altri pretendendo, che dovesse piacersi a’ Dotti, altri, come il Castelvetro, che la Poesia dovesse essere popolare. Dalla mia prima età io convenni col Castelvetro; ma compreso poi meglio lo stato della quistione, pensai, che si vuol piacere a’ Dotti, senza punto rigettare la sentenza del Castelvetro. E felicemente trovai, che il dottissimo Gravina l’intendeva a mio modo: “Dee il Poeta (ei dice1) tener del Popolo quel conto, che ne tiene il Principe, il quale sebbene non dee locar tutta la sua fiducia nell’affetto ed inclinazione popolare, perchè gira ad ogni vento; pur non dee credere di regnar sicuramente senza esso . . . . Il Poeta (soggiugne) non creda di occupar felicemente il trono della gloria nè col solo Popolo, nè senza il Popolo”. Così ragionano i veri Savj. La quistione antica è dunque ben diciferata, e niuno oggi discorda da questa sentenza. Solo il Signor Lampillas l’ha renduta nuova coll’intendere per Popolo il Volgo, la feccia di una Nazione, a cui volle piacere il suo {p. 184}Lope. Ma sviluppiamo alquanto le idee per ispiegare le parole.

Chi credete voi, Signor Apologista, che io intenda per Dotti? Forse certi solinghi, coltivatori delle Scienze più recondite, i quali di rado scendono dalla loro contemplazione a partecipare del commercio sociale, formando quasi una razza inaccessibile separata dal rimanente? Così pare, che l’intendiate voi con dire i Savj solitarj ne’ loro Gabinetti. Nò, amico, costoro con quanti per elezione, principj, o instituto, vivono a così fatto modo, paghi del loro cannocchiale, de’ loro rosi rimasugli dell’antichità, delle loro arrugginite medaglie, de’ loro alfabeti Orientali, della loro notte Metafisica, delle loro guastade, e de’ lambicchi chimici, meritano ogni rispetto, ma non si debbono rimovere dal loro centro, poco atti essendo per la loro rintuzzata sensibilità a intendersi e a gustare delle amene leggiadre Lettere. Per Dotti io intendo certi Nobili personaggi (diversi da i nominati dal Zanotti occupati unicamente in danzare e cavalcare), i quali in molti paesi coltivano con successo e le belle Lettere, e le severe Scienze, e che al punto, che s’inteneriscono con Racine e Metastasio, che si deliziano in Tibullo e Catullo, che si compiacciono di Garcilasso de la Vega e di Errera, del Petrarca e di Torquato, del La-Fontaine, di Tompson, e di Gesner, sanno alle occorrenze maneggiare il Telescopio e il Compasso di proporzione, e parlar talvolta della Cicloide, dell’Iperbole, e della Parabola. Per Dotti intendo ancora un buon numero d’ingegnosi Militari, di cui conosco alcuni, i quali al brio marziale, al buon {p. 185}gusto, alla pratica del Mondo, hanno accoppiato uno studio delle Fisiche, una intelligenza delle dottrine di Keplero, di Leibnitz, e di Newton, da fare arrossire non pochi di certi Savj Solitarj, che si credono i soli custodi della Scienza. Intendo etiandio per Dotti certi brillanti Avvocati Veneziani, Lombardi, Romani, e Napoletani, e Francesi, e Spagnuoli, e Alemanni, certi Giurisprudenti disinvolti, i quali, senza rinunziare alla gioconda Società, senza intanarsi, fortificano la Scienza Legale co’ più sodi e depurati principj del Natural Diritto. Intendo per Dotti tanti Pubblicisti laboriosi, tanti Medici veri filosofi, tanti profondi e graziosi Letterati. Nè ricuso di arrollare tra’ Dotti tanti Cittadini bene educati, forniti di un natural buon senso, di una Sapienza volgare, di quel pronto sentimento di uno spirito ben fatto, donde proviene il Gusto. E Voi, oggi abitatore della Superba Genova, di tali Cittadini di ottimo gusto e discernimento non rinvenite un numero considerevole in quest’amenissima Riviera? nelle Patrie fortunate de’ Colombi, de’ Doria, de’ Chiabreri, de’ Lomellini, de’ Frugoni? Ben io ve ne trovo di molti. E forse tante Dame, ed altre Donne di una classe meno elevata ancora dotate di gusto, e di natural raziocinio aggiustato, delle quali potrei addurre copiosi esempj somministratimi dalle Spagne, della Francia, dall’Italia &c. non meritano di segregarsi dal volgo ignobile e idiota, senza che si ascrivano a quel rigido malinconico branco di Savj Solitarj? Ora tante specie di Dotti socievoli, e tante altre per brevità tralasciate non compongono la parte più pura delle Società? Non {p. 186}formano in ciascuna nazione un Popolo, anzi che una ristretta brigata? Intanto questo Popolo non è mica il vostro diletto Volgo, Signor Lampillas mio. E a questo Popolo rischiarato non fia gloria il piacere?

In oltre quando da tal Popolo illuminato distinguiamo la Plebe, credete voi ch’esso totalmente da questa discordi circa la Poesia Rappresentativa? Oh Amico, su tal punto questa Plebe, e questo Popolo polito e colto sono più uniti di quel che taluno crede. Quando alla Gente onesta da me nominata piace un Dramma, vedrete, che sarà piaciuta ugualmente alla minuta plebe. L’Ataulfo del Montiano, l’Ifigenia di Racine, la Zaira di Voltaire, la Merope del Maffei poste sulle Scene di Madrid uniranno i voti della Plebe e della Gente colta. Oh quanti vostri pregiudizj, Signor Abate mio, avreste detestati, se nello scorso Dicembre del 1781. aveste potuto godere nel Teatro de la Cruz la rappresentazione del Cid di Corneille (non di Castro), tradotto senza stravaganze, lodata dagl’Intelligenti, e ascoltata per moltissimi giorni con prodigioso concorso, silenzio, e diletto da quella Plebe, che Lope e voi credete incapace di compiacersi de’ buoni Drammi. Non è che la Gente colta non goda di un doppio diletto. Essa comprende nelle buone Favole l’artificio, la difficoltà del lavoro superata felicemente dal Poeta, e le vaghezze dello stile, che è il sale che mantiene incorruttibili i componimenti. E questo sale, quest’arte, queste bellezze faranno, che gli uomini di buon gusto, dopo che hanno col Pubblico intero goduto di tali Drammi ne’ Teatri, si pregeranno di conservarli {p. 187}con gl’immortali componimenti che si scrissero nella Caverna di Salamina. Or non è questo il vero scopo, a cui dee aspirare il Poeta Drammatico? E che dunque va fantasticando l’Apologista? Dopo avere ciò letto, gli parranno ancora incompatibili le idee del Volgo, e quelle della Gente onesta e rischiarata, sulla Poesia Scenica? Ma dunque, egli dirà, in che mai si distinguono i Dotti da’ Volgari? In ciò, Signor mio, che i Volgari pensano come i Dotti, ad una buona Favola ben rappresentata, e i Dotti non pensano come i Volgari sul Paolino, sul Koulicán, sulla Conquista del Perù; cioè a dire, che i Dotti accoppiano il gusto al discernimento, e i Volgari attendono al solo momentaneo passatempo. Se volesse dunque un Apologista conoscere i Drammi degni di riprovarsi, sappia che sono quelli, che nella rappresentazione divertirono solo i Plebei; se volesse discernere gli eccellenti, gli ravvisi in quelli, che i Dotti conservano ne’ loro Gabinetti, dopo che se ne dilettarono insieme con i Plebei nella rappresentazione.

E che? Il divino Euripide, che tirava al Teatro anche un Socrate, che da Quintiliano vien detto il Filosofo coturnato, che fa uno de’ più stimabili ornamenti delle più famose Biblioteche, dispiacque forse al Popolo, o fece anzi le delizie degli Ateniesi, e di tutti gli altri Greci? Nè di essi soli, ma de’ Macedoni? Fino nella Sicilia, e nell’Italia Greca correvano i suoi Drammi di bocca in bocca, e i Soldati recitavangli più che non si ripetono oggi gli aurei squarci delle Poesie Metastasiane. I Traci stessi, gli stupidi Abderiti se {p. 188}ne dilettavano a segno, che in un contagio d’altro non furono capaci, che di declamare i versi dell’Andromeda. E voi, Sig. Apologista Catalano, se scriveste Drammi, non sapreste augurare a molti la sorte di convivere con Euripide ne’ Gabinetti de’ Savj? E con chi vorreste convivere con i Mulattieri, i Tavernaj, los Tunos, y los Pillos? E qual maggior gloria di quella, che godè lo Scrittore della Caverna di Salamina, di aver dilettato ugualmente i Filosofi, e i Cittadini migliori, e i popolari contemporanei, e gli stranieri? di aver passato di età in età più di venti secoli sempre con ammirazione estrema de’ suoi Posteri? di essere incessantemente imitato, e tradotto in Ispagna, in Alemagna, in Inghilterra, e principalmente in Italia? di avere del di lui latte nutrito il maggior Tragico Francese dello scorso secolo? E voi, giudizioso Sig. Lampillas, se foste Poeta Drammatico, sdegnereste una riputazione così sicura, e universale? E chi non vi compiangerà!

Menandro, che incantò tutti i Filosofi, che è l’idolo del sobrio Plutarco, che fu citato da’ SS. Padri della nostra Chiesa, forse perciò dispiacque al Popolo? o fu reputato pel Principe della bella Commedia Nuova? o fu onorato con Statue da’ rischiarati Ateniesi nel loro Teatro accanto ad Euripide, e Sofocle1? Publio Terenzio non si studiava, com’egli stesso afferma, di piacere al Popolo? E non era al tempo stesso l’amore de’ Lelii, de’ Furii, degli Scipioni, uomini dottissimi, e insieme gran Cittadini di una Repubblica donna del {p. 189}Mondo? E voi illuminatissimo Signor Apologista, senza riflettere a tali fatti, osate credere incompatibili le idee de’ dotti, e quelle de’ volgari?

Ma lasciando le anticaglie, che forse vi daranno malinconia, come la Caverna di Salamina, venghiamo a’ tempi a noi vicini. Forse l’elegantissimo Racine, che può dirsi l’Euripide Francese, non ebbe ne’ suoi Drammi la più invidiabile riuscita presso la sua Nazione? Non ne tirò a se tutti i voti, fiorendo ancora Pietro Corneille? E perciò forse fu negletto dagl’illuminati? Anzi il più famoso Critico Boileau, e i più dotti personaggi di quella potente rischiarata Monarchia ne beveano avidamente i concetti, la delicatezza, l’eleganza, e l’armonia. E non ha avuta la stessa sorte di piacere a’ dotti, e a’ volgari nel resto dell’Europa? E non convive, e conviverà ne’ Gabinetti più dotti in compagnia di Euripide, di colui che scrisse nella Caverna di Salamina? Le Poesie delle Grazie, cioè a dire di Pietro Metastasio da circa sessant’anni non si ripetono incessantemente, non che per l’Italia, per l’Europa tutta? Non si rappresentano ogni dì senza apparenza di dar luogo a nuove Opere? Non se ne citano universalmente, non che le Arie, le scene intere? E intanto non fanno in tanti paesi la delizia de’ dotti? non sono prezioso ornamento de’ loro Gabinetti, non meno che delle più scelte Biblioteche? Non forma Metastasio con Euripide, e Racine il più rispettabile Triumvirato della scenica Poesia? Le sue Opere-Tragedie non saranno mai sempre da chi ha senno, e buon gusto collocate accanto a quelle composte nella Caverna di Salamina? Or come, insigne {p. 190}Apologista, vi parve strana la mia proposizione così fondata nelle nuove, e vecchie Istorie, e ne’ principj del gusto, e del buon senso? E con quale fondamento, e provvisione di fatti voi ragionate? E se in tali materie non curaste di addottrinarvi, perchè entrate a disputarne? Io vi suppongo un uomo assai dotto ne’ gravi studj, di gran talento, degno di sommo rispetto: ma (perdonatemi) l’amena Letteratura non parmi che sia stata da voi coltivata per tempo, e con pazienza. Lasciate dunque a’ talenti forse da voi considerati per più comuni siffatte ricerche sulle Arti Imitatrici.

II. §

Lope de Vega non pensò così, non si curò di Caverne di Salamina, non attese a purgare le sue favole dell’ammasso d’inverisimilitudini, di cui egli, e l’Apologista si compiacciono. Sicuro del voto del Volgo, e de’ Commedianti (a’ quali oggi si unisce quello del Sign. Lampillas) niuna cura si prese de’ dotti giudiziosi contemporanei, e futuri. Così, ad onta della sua vasta fantasia, e della fluidità della versificazione, si rimase nel luogo meritato; e la maggior parte delle sue favole sceniche restò inedita, negletta, e sepolta, e non so quanti nazionali, e stranieri oggi leggono le impresse1. Or che vi pare, Sig. Lampillas? il {p. 191}destino degli scritti scenici del Vega, che disprezzò i clamori de’ dotti coetanei, è più invidiabile di quello delle Tragedie scritte in quella Caverna, che forma il vostro spavento? La barbarie, e uno zelo mal inteso ci privò per tempo della maggior parte delle Favole di Euripide; ma le diciannove, che ce ne rimangono, ed i più piccioli frammenti delle altre perdute, che con tanta diligenza si raccolsero negli antichi Scrittori, hanno durato forse intorno a quindici o venti secoli, e apparentemente dureranno altri cinquanta. Intanto l’Apologista si è appigliato al destino delle Favole Lopensi, la cui maggior parte è perita in poco più di un secolo, e si ride delle Tragedie di quel famoso Ateniese, e di chi le ammira. Si vede che i gusti non sono uguali:

“A chi piaccion le fave, a chi i baccelli”.

Oh quanta gloria trascurò Lope di acquistare, per iscrivere quasi improvvisando a solo fine di far danaro, e contentare il Volgo! Immaginatevi, che, secondando i voti della parte illuminata della Nazione, avesse impreso a introdurre sul Teatro di Madrid Favole quanto vivaci, e ben verseggiate, altrettanto giudiziose, e verisimili. Egli indubitatamente colla sua feracità, e colla ricchezza della sua fantasia avrebbe scritto meno, e riscosso maggiore, e più giusto, e più suffistente applauso, {p. 192}sviando col proprio esempio dalla Penisola il torrente limaccioso delle Favole stravaganti, e divenendo in tal guisa il Padre del buon Teatro Castigliano, come del Francese lo divenne Pietro Corneille. Quale de’ due Lopi sarebbe oggi più rispettabile, più glorioso?

Ma il Sign. Lampillas è dichiarato protettore del Lope qual fu, e non del Lope che poteva essere. E se n’è così innamorato, che con ogni sforzo apologetico si adopera, perchè i Lopi continuino nella propria nazione, e più tardi che si possa sorgavi (che al fine dee sorgervi) qualche riformatore simile a Corneille. E per riescire nel suo intento l’Apologista vuol dare ad intendere a’ suoi compatrioti una cosa contraddetta dalla Storia, cioè che in tutte le Nazioni i Poeti scenici, al pari di Lope, hanno secondato il gusto del popolaccio. Ecco quel che dice (p. 282.) degli antichi Italiani: “I Poeti scenici Latini del secolo di Augusto non ebbero coraggio di opporsi al corrotto gusto del volgo di Roma”. E con qual fondamento ciò egli asserisce? Col seguente passo di Orazio:

Sæpe etiam audacem fugat hoc, terretque Poetam,
Quod numero plures, virtute & honore minores
Indocti, stolidique, & depugnare parati,
Si discordet Eques, media inter carmina poscunt
Aut Ursum, aut Pugiles; his nam plebecula gaudet.

Secondo me Orazio altro quì non dice, se non che la plebaglia nel meglio di recitarsi de’ versi s’innamorava di vedere lo spettacolo dell’Orso, o de’ Pugili. Or l’Orso, e i Pugili erano forse rappresentazioni sceniche spropositate, come le crede l’erudito {p. 193}Apologista? Essi erano spettacoli appartenenti al Circo. Siegue Orazio:

Verum Equitis quoque jam migravit ab aure voluptas
Omnis ad incertos oculos, & gaudia rana
Quatuor, aut plures aulæa premuntur in horas
Dum fugiuut Equitum turmæ, peditumque catervæ.
Mox trahitur manibus Regum fortuna retortis,
Esseda festinant, pilenta, petorita, naves,
Captivum portatur ebur, captiva Corinthus.

Anche queste cose credè l’Apologista, che fossero rappresentazioni teatrali strepitose desiderate non meno dalla Plebe, che da’ Cavalieri Romani in vece de’ buoni Drammi; nel che prende ancora un bel granchio. Quì si parla di spettacoli dell’occhio, e non del piacere che danno i versi all’udito: si parla delle corse, che si facevano nel Circo a piedi, e a cavallo: si parla dello spettacolo trionfale (che pur nel Circo solea condursi1), de’ Re prigionieri incatenati, che seguivano il Carro di colui che trionfava, delle ricchezze de’ paesi soggiogati, e delle Navi, e delle Città dipinte che accrescevano quella pompa. Si parla appresso dal medesimo Orazio delle fiere rare o mostruose, che i Capitani soleano mostrare al Popolo per dilettarlo ne’ loro Trionfi, e nomina il Camelo pardale, e l’Elefante bianco. Or chi in tali cose avrebbe trovate le {p. 194}rappresentazioni sceniche spropositate, se non l’Apologista Lampillas? Egli a un bisogno le avrebbe trovate ancora nelle antiche Venazioni, ne’ Bovicidj, e, se non fosse Spagnuolo, le troverebbe nelle Feste de’ Tori sì care alla Nazione.

Ma egli si sarà ingannato con quel media inter carmina, e avrà creduto, che mentre si rappresentava qualche bel Dramma, ne cercassero un altro spropositato e più strepitoso. In prima quei versi accennati da Orazio potevano essere tutt’altro che Drammatici, sapendo che nel Circo soleano darsi varj Giuochi, come gli Apollinari, i Cereali, i Romani, i Megalesi1, ne’ quali talora si cantavano, e si ballavano altri poemi ancora; ed Ovidio ci dice, che se ne ballarono alcuni suoi2:

Et mea sunt populo saltata poemata sæpe.

Di poi, quando anche que’ versi recitati nel Circo fossero stati scenici (che ben poteva ciò avvenire, perchè ne’ Giuochi Romani, Plebei, e Megalesi3 aveano luogo gli spettacoli scenici), questo proverebbe, che il Popolo Romano talora s’infastidiva degli spettacoli teatrali, e desiderava i Circensi, che formavano la di lui passione principale, ma {p. 195}non già, che per avere il gusto corrotto, come fantastica il Sig. Lampillas, corresse dietro alle rappresentazioni teatrali strepitose, sprezzando per esse le Favole di buon gusto. Il Prologo dell’Ecira di Terenzio, quando non altro, poteva di ciò instruirlo. Dice Ambivione:

Cum primum eam agere cœpi, Pugilum gloria,
Funambuli eodem accessit expectatio,
Comitum conventus, strepitus, clamor mulierum,
Fecere, ut ante tempus exirem foras.
Vetere in nova cœpi uti consuetudine,
In experiundo ut essem: refero denuo
Primo actu placeo. Cum interea rumor venit,
Datum iri Gladiatores. Populus convolat;
Tumultuantur, clamant, pugnant de loco.

La prima volta adunque fu abbandonata l’Ecira per i Pugili, giuochi Ginnici appartenenti al Circo: la seconda per i Gladiatori, i quali combattevano nell’Anfiteatro. Ma nè i Pugili, nè i Gladiatori, nè i Ballerini da corda, nè le Città dipinte, e le ricchezze de’ nemici portate in trionfo, nè le corse de’ Cavalli, e delle carrette, nè l’O so, nè il Camelo pardale, nè l’Elefante bianco, furono mai, Sig. Lampillas mio dolcissimo, siccome fin quì avete innocentemente creduto, rappresentazioni teatrali strepitose di gusto corrotto. Quel Popolo guerriero amava assai più gli spettacoli Circensi, e Anfiteatrali vivaci, attivi, gloriosi, che non una riposata rappresentazione teatrale, e l’armonia de’ versi. Ma quando poi si compiaceva di ascoltare un Dramma, egli, lungi di cercarlo di qualche Poeta di mal gusto, non si contentava se non de’ suoi famosi Tragici, e Comici Ennio, Pacuvio, {p. 196}Accio, Nevio, Cecilio, Plauto, Terenzio, Afranio1:

Hos ediscit, & hos arcto stipata Theatro
Spectat Romapotens: habet hos, numeratque Poetas
Ad nostrum tempus Livi Scriptoris ab ævo.

Vedete ora, Sig. Lampillas, qual era il gusto del Popolo Romano? Ad nostrum tempus (dice Orazio, la cui Epistola bisognava che leggeste tutta, e col soccorso di qualche comentatore), cioè nel secolo di Augusto, non era volgo di gusto corrotto, come voi andate cianciando, ma sapeva pregiare, ammirare, e ascoltare i suoi migliori Poeti scenici. Nè anche lo strepito che questo Popolo faceva in Teatro, è argomento di mal gusto. Pensate forse, che i Teatri Romani fossero quelli della Cruz, o del Principe, che può dirsi che contengano un branco di spettatori in confronto de’ Latini? Sovvenitevi che il minor numero, che in questi si radunava, era di ventidue a trenta mila, e talora ascendeva a quaranta mila, ed anche ad ottanta mila persone. Or che maraviglia, che ne nascesse un mormorio strepitoso? Da queste cose voi per voi stesso potete ora vedere quanto male la condotta del Vega di servire al gusto del volgo Spagnuolo, venga giustificata dalla sognata corruzione del gusto teatrale della Plebe, e de’ Cavalieri di Roma, fondata sulla vostra erronea credenza, che gli spettacoli dell’Anfiteatro, e del Circo, i Pugili; le Fiere, i Trionfi, i Gladiatori fossero rappresentazioni sceniche spropositate.

Colla medesima felicità, e solidezza discorre il {p. 197}Sig. Apologista de’ Poeti scenici Italiani moderni. Secondo lui essi corteggiarono il mal gusto del Volgo. “Sin dal secolo XVI.” (ei dice nella p. 285. contro la notoria verità istorica) “i più rinomati Poeti Italiani si lasciarono tanto trasportare dalla brama di dilettare il Pubblico, che nulla curarono di osservare le più importanti regole, purchè riuscisse loro il piacere agli oziosi concorrenti, e soprattutto alle Donne”. Qual maraviglia non cagionerà a’ suoi Leggitori, per poco che sieno instruiti, questo amabile delirio dell’Apologista? I più rinomati Poeti di quel secolo, i quali passarono il centinajo, e scrissero più di mezzo migliajo di Drammi con tale superstizione, che rare volte posero il piede fuori delle Greche vestigia, e senza la scorta di Aristotele in quanto alla forma del Dramma, non si curarono di osservare le più importanti regole? E dove ha studiate sì pellegrine notizie questo Apologista? O per meglio dire, dove ha appresa codesta mirabile franchezza di scriverle, e stamparle? E perchè non prova in quali Drammi il Trissino, lo Speroni, il Giraldi, l’Alamanni, il Rucellai, l’Ariosto, il Bentivoglio, il Caro, il Machiavelli sacrificarono le regole più importanti al popolaccio, e alle Donne? A mostrare questa sua astiosa ugualmente, che falsissima accusa egli si vale di un passo del Gravina, nel quale si trova quel che il Sig. Lampillas asserisce della stessa maniera, che nel passo di Orazio si è trovato, che il Popolo Romano lasciava i buoni Drammi per le rappresentazioni teatrali di gusto corrotto. Il Gravina nel Numero XVII. del Trattato della Tragedia altro non dice, se non che il Guarino, {p. 198}e il Tasso adescati da’ Romanzieri si scostarono dalla semplicità naturale nelle loro Pastorali. E questo vuol dire, che nulla curarono di osservare le più importanti regole, e che vollero piacere al popolaccio, e alle Donne? Ma quando anche il Tasso, e il Guarini nelle famose Pastorali posti in giudizio risultassero rei di regole infrante tanto, quanto ne rimasero convinti Lope, Cervantes, Virues, Castro, Calderòn &c. questo proverebbe, che nel secolo XVI. gl’Italiani trasgredirono le più importanti regole in grazia del volgo? E quando vi divezzerete da codesto mal costume di trarre conseguenze universali da premesse particolari? quando dell’altro ancor più criminoso di far dire agli Autori quelche non dissero mai? Il più bello si è, che la riprensione del Gravina cade sulle due celebri Pastorali appunto per lo stile soverchio studiato, per i concetti ricercati, per l’armonia della versificazione, in somma per cose che mirano più a cattar la maraviglia de’ conoscitori, che a divertire il volgo, e le Donne. A somiglianti assurdi è tratto l’Apologista dalla scarsezza di materiali Istorici, la quale serpeggia per tutto il suo Saggio. Egli è costretto a mettere a profitto qualche passo, che abbia alcuna apparente somiglianza con quel che egli vorrebbe provare, sebbene in sostanza dica tutt’altra cosa.

Con un altro colpo di penna (p. 286.) afferma ancora, che nello scorso secolo, e nel presente gl’Italiani attesero a secondare il corrotto gusto del volgo. Si è giá parlato del secolo scorso, diciamo ora qualche cosa del nostro.

Primieramente nelle prime decine di anni fiorirono {p. 199}moltissimi Drammatici, i quali, aspirando ad avvicinarsi agli Antichi non meno che a’ Francesi, diedero alle Scene Italiche un gran numero di composizioni regolarissime e giudiziose, e talvolta eccellenti: leggete il Martelli, il Zanotti, il Conti, il Baruffaldi, il Gravina, il Maffei, il Granelli, il Pansuti, il Caracci, il Marchesi &c. Poco appresso venne in mente al Dottor Carlo Goldoni di riformare la Scena Istrionica, e fe la guerra alle Maschere con centinaja di Commedie di Carattere ben degne di un buon secolo. Fu seguito dal Chiari, che sebbene non in tutto il secondò, pure produsse almeno intorno a sessanta Commedie, che se mancano al quanto per ciò, che concerne il gusto, non sono però nè sregolate, nè mostruose. Oggi con gusto, e giudizio fiorisce il Signor Marchese Albergati, che appresta alle Italiche Scene non una, nè due Commedie, come conteggia apologeticamente il Signor Lampillas, ma molti Tomi di Drammi pregevoli sotto il titolo di Nuovo Teatro Comico. I Napolitani dal principio del secolo avvivarono le Scene con gli Amenti, i Federici, i Belvederi, e in seguito co’ Liveri e i Cirilli: per nulla dire di quello spirito Drammatico, che dal XVI. fino al nostro tempo ha dominato nelle due Sicilie, per cui varie private Accademie e radunanze di gioventù ben nata, e bene educata ha coltivata estemporaneamente la rappresentazione. I Toscani si sono segnalati co’ Gigli, e co’ Fagiuoli, di cui vi sono moltissimi Tomi di Commedie, non già una o due. Nel cuor della Lombardia un Real Protettore, un Sovrano Infante di Spagna ha dato all’Italia il glorioso impulso, e alle Nazioni {p. 200}Estere l’illustre esempio, perchè la Tragedia e la Commedia rifiorisca, rinnovando gli antichi Certami. Dal 1772. in sino ad oggi non hanno in Parma conseguita la Corona Drammatica se non che otto Drammi. Ma la speranza di ottenerla, quante altre penne non ha posto in movimento? E quanti altri Drammi hanno veduta la luce, i quali sono giudiziosi, regolati, e vicini alla perfezione?

Or sono queste le mostruosità, le arlecchinate Italiane, sincerissimo Signor Lampillas? Gli stessi Strioni sono forse oggidì così dediti a’ loro Soggetti dell’Arte, che gli vadano seminando per l’Italia? Essi hanno un fondo ben differente da i cinquanta canovacci dello Scala. Goldoni, Chiari, Albergati gli hanno fornito un magazino di più centinaja di buone Favole. I Poeti Tragici nostrali gli hanno arricchiti ancora. La Signora Caminer Turca colle tante Traduzioni di moderne Favole straniere ha loro aperta una vena copiosissima di Drammi regolati. Lascio altre Raccolte di traduzioni, come quella di Mantova, e la Biblioteca teatrale di Lucca, e tante altre versioni scelte de’ Drammi di Racine, di Moliere, di Destonches, di Voltaire fatte da valorofe penne Italiane. Ora con tante ricchezze Sceniche gli Strioni abbisognano più dell’Arlecchino, come nel secolo passato? Che se in qualche Villaggio, o Castello, o al più in alcuna Città del terzo, e quarto ordine i meno abili e i più poveri Commedianti vanno recitando alcuna arlecchinata per divertire que’ paesi men colti, sarà questa una pruova, che la Nazione Italiana si delizia nelle buffonate dell’Arlecchino? Dalle rappresentazioni {p. 201}soprammodo sciocche, tronche, mostruose, insulse, che oggi vanno portando di paese in paese in Ispagna los Comicos de la Legua, si dee argomentare della Poesia Scenica Spagnuola? del gusto della Nazione? dell’abilità degli Attori di Madrid, e di Cadice?

E con qual fondamento asserisce il Signor Eximeno, citato dall’Apologista, che i personaggi mascherati fanno il diletto e il piacere della Nazione Italiana? E qual parte, e quanta di essa ha egli osservata? E’ dunque anch’egli ignaro de’ fatti da me sopraccennati? Si fonda forse nelle rappresentazioni Carnescialesche della Città di Roma, in cui tuttavia si vede il Pulcinella, e la Popa? Roma oggi Metropoli del Cristianesimo ha lo spirito che avea essendo dominatrice di gran parte della Terra conosciuta. Allora l’indole militare l’allontanava dal dedicarsi con calore al Teatro, come faceano i Greci, perciò chiamati molli da’ Latini. Oggi la gravità della sua Polizia vi produce l’effetto stesso; si abbandonano gli spettacoli scenici nelle mani di particolari Impressarj, che cercano di tirare il volgo e la folla per uscire dalle spese, e si tollerano dal Governo in que’ giorni di allegria universale, purchè non ledano il buon costume; ma punto non si bada al miglioramento di essi in quanto all’arte ed al gusto, come addiviene in tante altre Provincie Italiane. Ma del Signor Eximeno accennammo alcuna cosa nella Storia de’ Teatri, che non ci fa camminar sicuri ed a chiusi occhi su quanto egli asserisce. In questo medesimo passo ei dice: “Nelle Commedie Sacre Spagnuole compariva al più un solo Diavolo, ma sul Teatro {p. 202}Italiano ne vengono delle volte delle Legioni: non è gran tempo, che vidi in un Teatro di Roma dar principio ad una Commedia con un Concilio di Diavoli, i quali consultavano sull’ajuto da darsi a una Maga”. Io dunque ben diceva, che le di lui osservazioni si rinchiudevano negli spettacoli del Carnevale Romano. Ma la dimora in Italia gli avrà fatto dimenticare ciò che si fa in Ispagna. Non si vede nelle Commedie Spagnuole, che un solo Diavolo? E quante Legioni potrebbero contarsene in più di un migliajo di esse? Quanti eserciti composti di Soldati-Diavoli non compariscono nella Baltasarra, nelle Marte, negli Abailardi, nel Negro più prodigioso? Quanti Concilj di Diavoli non si radunano in ogni più triviale argomento? Nella Conquista del Perù non si raccolgono simili Concilj per favorire l’Idolatria personificata? Nel Dramma di S. Ermenegildo, che ho veduto rappresentare due anni sono in Madrid, si congregano questi Concilj ad istanza dell’Eresia, non solo una volta, ma tre e quattro, se non m’inganna la memoria. Dice appresso il Signor Eximeno, che in Italia si rappresenta con gran concorso il Convitato di Pietra, Commedia Spagnuola piena di machine, e di Diavoli, la quale non si rappresenta più ne’ Teatri di Spagna. Egli debbe averne delle notizie bene attrassate. Io gli assicuro, che da qualche tempo annualmente l’ho io veduta rappresentare in Madrid nel Teatro del Principe, sostenendo la parte di Don Giovanni il Commediante Cocque.

Il Signor Lampillas per mostra ancora del gusto corrotto degl’Italiani, reca non so qual favola intitolata {p. 203}il Colombo, piena di sciocchezze, e d’inverisimiglianze. Ma una tal mostruosità e qualche altra ancora, che ve ne fosse, può fare giustamente affermare esser questo il gusto Scenico nazionale in Italia? Io assicuro al Signor Lampillas, che tal Colombo non potrà mai eccedere in istravaganza le stomachevoli pazzie, di cui è composta la mentovata Commedia della Conquista del Perù fatta da Pizarro da me veduta rappresentare dopo il mio ritorno dall’Italia nel Teatro de la Cruz. Ora un uomo, che non abbia perduto il senno per qualche impegno intrapreso, da tal Commediaccia, e da altre simili scritte da’ trapassati da non molto stravaganti Poetastri Ibañez e Sedano, conchiuderà contro il gusto generale della Nazione Spagnuola? Il gusto generale si prende dalla maggior parte della nazione e da’ Drammi che vi si compongono, e non già da uno, e due, e dieci individui ancora, che fossero sciocchie stravaganti. Si prende dal modo di comporre de’ migliori e più famigerati Drammatici, Signor Lampillas mio, i quali formano Scuola, e non da qualche meschino dozzinal Commediografo, che accozzi un numero di scene malcucite. Quando gl’Italiani parlano della Commedia Spagnuola non hanno in mente le farsacce incondite del Koulican, del Paolino, della Conquista del Perù; ma scelgono i prodigj della Comica, i Vega, i Castri, i Virues, i Calderón. Faccia pur così il Signor Lampillas: se vuol comparare con senno e giustizia, pareggi gli oggetti. Il Colombo Italiano venga in confronto della Conquista di Pizarro: le arlecchinate colle buffonerie del Polilla, del Dinero, del Calabaza, ed altri Graziosi {p. 204}Spagnuoli, che volano e sprofondano: i Virues e i Castri co’ Manfredi e i Tassi, i Vega e i Calderón con gli Ariosti, e i Macchiavelli, e i Cari.

Per non fare un Articolo a parte di un’ altra querela del Signor Lampillas contro il Signorelli, soggiugnerò quì quel non so che da lui notato sull’amore delle Tragedie di M. Racine. “Si pretende (p. 312.), che abbia Racine purgato l’amore di quanto contiene di grossiero e d’illecito, presentando sulle Scene il solo amore onesto e gentile”. Quel che veramente avea detto il Signorelli, e che non ben ispiegano queste parole dell’Apologista, è che Racine, a differenza de’ Greci, fu il primo a introdurre l’amore nella Tragedia con decenza e delicatezza. E questo parmi troppo vero; perchè prima sul Teatro Francese non si vedeva altro che ratti, deflorazioni, ad ulterj, indecenze, che formano la materia delle favole di Hardy. Racine volle adoperare questa passione sul Teatro, ma in una maniera onesta sulle idee Platoniche per non offendere il pudore della nazione. Aggiunse a ciò il Signorelli, che questo sarebbe bastato a Racine per essere applaudito nella Corte di Luigi XIV. piena di amoreggiamenti e di galanteria. Tutto questo, non so perchè (certamente per qualche motivo apologetico), è dispiaciuto all’Apologista, il quale nè anche so con qual connessione d’idee vi si oppone con dire: “Non è possibile, che in quella Corte l’amore fosse tutto Platonico”. E questo ha che fare nulla con quel che io dico? E quando son io entrato a discutere, se gli amori di quella Corte erano, o non erano Platonici? Per parlar sulle Scene {p. 205}di una polita Nazione dell’amore senza ritegno, e senza farne risentire la modestia, che è bella, come dicesi, infin ne’ chiassi, dovea tenersi la condotta di Racine. Basta dunque, perchè si sostenga l’osservazione del Signorelli, che l’amore delicato, passione inusitata sulle scene Greche, potè avere in Francia buono accoglimento per le disposizioni degli animi ad ascoltarlo; nè perciò vi era bisogno, che fosse ugualmente purificato in quella Corte. Si parla di virtù in Teatro: i di lei dettati si accolgono dall’Uditorio con applauso universale; sono però tutti virtuosi gli ascoltatori? Piacesse al Cielo. Basta intanto, che essi abbiano giuste nozioni della virtù per ben ricevere gl’insegnamenti seminati dal Poeta. Si vede, Signor Lampillas, che voi scriveste questi volumetti con troppa precipitazione.

Posso però farvi osservare ancora, che non tutti gli amori in quella Città furono a quel tempo alla militare, o alla Turca. Furonvi ancora salde passioni. Luigi XIV. n’ebbe una non leggiera per Maria Mancini Nipote del Cardinal Mazzarini, e fu anche tentato di sposarla, benchè di poi si vincesse. Ebbe in seguito qualche inclinazione per sua Cognata la Principessa d’Inghilterra Sorella di Carlo II. per la quale conservò poscia inalterabilmente un fondo di stima e di amicizia; ed a quel tempo, dice M. de Voltaire, la Corte di Luigi XIV. (notate, Signor Lampillas: oh se leggeste, quante parole mi avreste fatto risparmiare!) respirava una galanteria piena di decenza. Fu questa medesima Principessa, che indi fe travagliare, senza che l’uno sapesse dell’altro, e Racine e Corneille {p. 206}a un medesimo argomento, cioè alla Tragedia di Berenice. Veda dunque, che eravi non poca conformità tralle dipinture amorose del Teatro di Racine, e la disposizione degli animi di quella Corte. Dietro all’amore della Principessa d’Inghilterra venne la passione più seria e continuata per due anni, che il Monarca ebbe per Madamigelle de la Valiere, colla quale, dice il nomato Storico, gustò il raro piacere di essere amato unicamente per se stesso. Al fine il Re fu sorpreso dalla vivacità della Marchesana di Montespan, e la Valiere, senza lasciar di amare il suo Sovrano, sofferse la perdita del di lui cuore, finchè si determinò a non dargli altro successore nel suo animo, che l’istesso Creatore, e si fe Carmelitana a Parigi col nome di Suora Luisa della Misericordia, e perseverò sino alla morte avvenuta nel 1710. Queste delicatezze di passione, che i Francesi esprimono con la voce sentiment, non furono rare in quella Corte; ma per la questione non occorre di più esemplificare. Esse esprimevansi da Racine con naturalezza, grazia, e maestria, e trovandone i semi ne’ cuori degli spettatori (fossero poi, o non fossero Platonici, che ciò nulla monta), facevano accogliere le sue Tragedie con plauso indicibile, e venivano sostenute da un partito potentissimo a fronte di quelle del gran Corneille. Or che andate voi fantasticando sull’amore Platonico, o non Platonico di quella fiorentissima Corte?

{p. 207}

ARTICOLO XIV.
Intorno alla descrizione de’ Teatri materiali di Madrid, fatta nella Storia de’ Teatri. §

Non avrei mai creduto, che potessi dispiacere all’Apologista nella descrizione de’ Teatri di Madrid. Non pertanto egli dice (p. 298.): “La descrizione, a dire il vero, non e la più vantaggiosa al gusto Spagnuolo: se poi lo sia l’originale, lo decideranno quelli che hanno visto i Teatri di Madrid”. Vuol egli con tali parole in prima insinuare, che io gli abbia con malignità così descritti per tacciar di cattivo gusto gli Spagnuoli (nel che al solito combatte colle ombre impalpabili): in secondo luogo mette in dubbio la veracità di chi gli descrive. Nel primo punto avvelena un racconto innocente, e suppone nella nazione un mal gusto, che io non trovo in questa parte, nè ho sognato di segnalare; e nel secondo manca (e mi perdoni) di politezza.

Primieramente qual difetto di gusto risulta dall’essere questi Teatri diversi da quelli, che si costruiscono in Italia? Ho io forse asserita simile fanciullaggine? E dove si è mai sostenuto, da qual moderno Aristotele si è prescritto, da qual Vitruvio insegnato, che il modello archetipo della buona costruzione de’ Teatri debba torsi dagl’Italiani di oggidi? E se tali cose non si leggono in veruna parte della Storia de’ Teatri, dove, Sig. D. Saverio, fondate il vostro sospetto, che la mia descrizione pregiudichi al gusto Spagnuolo? Dite voi {p. 208}ciò per vostro, o per mio sentimento? Se al vostro giudizio sembra, che la costruzione de’ Teatri di Madrid possa intaccare il gusto della nazione, io vi dico spiattellatamente che v’ingannate: se credete che io così pensi, protesto che v’ingannate ancora.

La construzione de’ Teatri di Madrid nulla ha di repugnante al gusto. E’ un misto di nuovo metodo per gli ordini de’ palchetti che vi sono, e di antico per le scalinate. Quando anche la magnificenza conveniente a una Corte di sì possente, e ricca Monarchia, richiedesse che alcuno di nuovo, e in migliore stato che non è quello de la la Cruz, se n’edificasse, per mio gusto sempre riterrei le medesime scalinate, e le divisioni di Cazuela, Barandillas, Gradas, Tertulla, Patio, e Lunetas, come proprie della nazione, che in fatti per i forestieri formano un certo vario giocondo spettacolo. Solo desidererei che la figura mistilinea della Platea composta di un arco di cerchio, e di due rette laterali, incomode alla veduta per molti palchi, si cangiasse in una figura ellittica o circolare. Cercherei ancora di togliere quegli oscuri Corridoj, e quelle faltriqueras de’ lati nè comode, nè graziose. Circa l’entrate ancora esigerebbe l’edifizio qualche miglioramento. Anche la facciata vorrebbe essere più propria della luce di questa età, e più vaga, come par che richieda un luogo di una pubblica concorrenza ad oggetto di divertirsi. Ecco come assennatamente ne favella il Signor D. Antonio Ponz1: “En quanto à lo material de {p. 209}los dos edificios, si se comparan con los verdaderos Patios, ò verdaderos Corrales que habia antiguamente, se pudieran llamar magnificos; pero en realidad son defectuosos, particularmente el de la Cruz, que se hizo el primiero”. E nella p. 323. aggiugne: “La enmienda debiera consistir solo en mejorar, como se puede, las proporciones y alturas de las mismas partes, y en dar uso mas comodo, asi à ellas, como à las entradas”. Ed in effetto esse entrate, e quelle parti surriferite non pajono fabbricate colla mira dell’agio de’ concorrenti. Quello però che è più notabile, e di maggiore importanza, per mio avviso, è il caso di un veloce incendio, nel quale non so come la calca intanata in que’ meschini Corridoj interiori, e in quelle angustie de’ varj spartimenti, potrebbe liberarsi prontamente dal rimanere divorata dalle fiamme, o soffogata dal fumo.

Udiste, Sig. Lampillas, che i nazionali savj non fanno apologie de’ manifesti difetti, ma pongono l’energia del patriotismo nel confessarli, e riprovarli per promuoverne la correzione. Io intanto nell’Edizione della Storia de’ Teatri non volli far uso del passo del Sig. Ponz, con entrare a rilevare i difetti, di cui ora stò ragionando, e mi ristrinsi alla semplice descrizione delle parti colla possibile esattezza colle parole, già che nol facea con un disegno, e pure non ho potuto liberarmi dalla censura del sospettoso Apologista.

Vediamo però di trovare l’origine de’ suoi foschi sospetti. Fosse a caso la mia descrizione condita di motti satirici, d’ironie pungenti, di dileggi, che indichino una depravazione di gusto? Certamente {p. 210}nulla di ciò vi ha scorto il Sig. Lampillas, altrimenti l’avrebbe posto alla vista, e ripetuto al suo solito più di una volta. Gli avesse fatto qualche impressione ciò che vi accennai delle ritirate, e delle oscuritá visibili de’ Corridoj? Niuna offesa parmi che ne ridondi al gusto, se si osserva che esse possono essere una specie di asilo della male intesa libertà del volgo. Ciò si verifica co’ fatti. Sappiate, Signor mio (che io ben mi avveggo, che i vostri gravi studj vi avranno tenuto lontano da molte cose, che sono fuori di voi), che los Chisperos, los Arrieros, e simile gentame, trovandosi al coperto in quelle tenebre, specialmente prima d’incominciare la rappresentazione, per la loro naturale rozzezza, e non curanza per la decenza, soleano bere del vino, fumare, mangiar degli agrumi, delle frutta, delle nocciuole, e gettarne via le bucce sull’altra gente. Soleano veder la Commedia con quei pilei, ovvero cappelli rotondi, o slacciati in testa, di modo che quasi toccandosi per la folla formavano una specie di antica testudine, che a molti impediva la libera veduta dello spettacolo. Mettevano gridi, insolentivano, imponevano di ritirarsi a qualche Attore non accetto, o di un partito contrario, altercavano fra loro ad alta voce senza verun riguardo per gli altri concorrenti, qual proteggendo uno de’ Teatri, e quale l’altro. Davano in somma, tuttochè pochi per numero, idea dello strepito de’ Teatri Latini, di cui diceva Orazio:

Garganum mugire putes nemus, aut mare Tuscum,
Tanto cum strepitu Ludi spectantur.

Tutte queste cose nemiche della decenza propria {p. 211}degli spettacoli delle nazioni culte, mostravano in tal volgo la male intesa libertà da me accennata per esserne in parte stato testimonio di vista.

Riparò in gran parte a tali sconcezze il Magistrato di Madrid, e troncò la radice de’ partiti, formando di ambe le Compagnie una sola Cassa comune. Eseguì il resto il rispettabile Sig. Conte di Aranda. E per rendere lo spettacolo più ragguardevole, cominciò dal far dipingere varie vaghe vedute di Scena, e dallo stabilire in ciascun Teatro una Orchestra competentemente numerosa composta di non inetti Professori, e così ne scacciò non solo le ridicole bandine, ma la più ridicola ancora, e inverisimile Chitarra, che, nel doversi cantare alcuna cosa, portava fuori alla vista dello spettatore un Sonatore vestito alla foggia del paese, e colla sua parrucca talora in mezzo degli Attori Turchi, o Persiani coperti di un turbante. Impose poscia l’istesso Cavaliere, che all’alzarsi del Sipario ognuno assistesse alla rappresentazione senza cappello in testa: che più non girassero per la Platea i venditori di frutta: che non si fumasse, non si gridasse, non si fischiasse. E con tali sagge provvidenze inspirò lo spirito di decenza in un Teatro, dove interviene il fiore della Grandezza Spagnuola di ambo i sessi, la Uffizialità più distinta, e la gente seria ben nata, che ama in qualche ora di godere tranquillamente dello spettacolo senza essere disturbata dalla plebaglia. Spense così l’avveduto Presidente di Castiglia i semi di quella male intesa libertà. Il volgo più non se ne sovvenne, rispettò i confini assegnati, gli rispetta ancora, e i Teatri Spagnuoli punto non cedono in {p. 212}decenza a quelli delle altre nazioni. Ora in accennar questi fatti qual sognato detrimento ne soffre il gusto?

Intorno al secondo punto, in cui dimostrate dubitare della verità descritta con quelle urbanissime parole, se poi lo sia l’originale, offendete me, e voi stesso col presumere senza fondamento, e senza veruno precedente esame, una persona mendace. Se mai l’ignoraste, vi dico, che niuna Legge permette simili presunzioni maligne, e temerarie. E che bisogno avea io di alterare il vero in simil cosa? Per quale interesse l’avrei fatto? Il fareste voi? Dall’altra parte come poi avrei potuto salvarmi da’ giusti rimproveri degli abitatori di Madrid al vedere falsamente riferita una cosa materiale esposta alla vista di ognuno? Circa un centinajo e mezzo di esemplari della Storia de’ Teatri essendosi sparsi per la Spagna, domandai a molti illuminati nazionali, che l’aveano acquistata, se trovavano in essa cosa veruna contraria a una moderata Critica intorno al Teatro Spagnuolo formale, e materiale, col disegno di approfittarmi del loro avviso nella ristampa; ed ebbi il piacere di udirgli affermare, che tutto era conforme al vero, e a’ dettati degli eruditi nazionali: che anzi delle rappresentazioni mostruose avea io ragionato con più contenenza di tanti loro Scrittori degli ultimi tre secoli, i quali sono tanti, Sig. Lampillas, che al vederne la lista trasecolareste. E voi osate dire, se lo sia l’originale? Prima di vomitare un dubbio offensivo non urbano, non già sul sapere, ma sulla onestà, e veracità altrui, dovevate cercare di assicurarvi del vero; che per fare delle apologie {p. 213}non manca mai tempo. Ma voi volete sedere, arzigogolare, e tirar giù a mosca cieca, non curandovi nè anche di leggere gli scritti de’ nazionali, e poi spacciate per epigrafe del Saggio le parole di Cicerone, Si occupati profuimus aliquid Civibus nostris, prosimus etiam, si possumus, otiosi? In confidenza quale utile apporta a’ vostri Cittadini l’apologia degli spropositi di Lope, e Calderòn? quale quell’imputare altrui colpe sognate? quale il tignere tutte le cose del fosco colore de’ vostri aerei sospetti1?

ARTICOLO XV. ed ultimo.
Conchiusione con pochi Avvisi amorevoli agli Apologisti. §

E quì termina per me l’ultimamente uscito Volumetto del Saggio Apologetico, di cui la maggior parte s’impiega contro la Storia de’ Teatri, al quale rispondendo credo di non aver dato occasione all’Apologista di lagnarsi, come ha fatto {p. 214}degli altri Italiani, che abbia dissimulate le di lui ragioni. Pare ch’egli prepari un altro Volumetto per il secolo trascorso, e forse anche un altro ne destinerà al XVIII. Io che ho replicato presentemente, per quanto prevedo me ne asterrò per l’avvenire, sicuro della mia retta intenzione, e de’ fatti scenici che riferisco, contro de’ quali, per la conoscenza che tengo del vostro modo di disputare, son certo che voi non opporreste, che congetture cavillose, e passi particolari rubacchiati quà e là, o stiracchiati, o troncati. Prendo dunque da voi commiato. Ma poichè con tanta garbatezza v’ingegnaste di dissipare certi miei Pregiudizj con un ben lungo paragrafo, e mi correggeste gl’importantissimi errori di Critica, e di Storia, cioè l’aver chiamati Colloquj Pastorali tutte le favole del Rueda, quando egli fece anche alcune commediole, e l’avere collocato nel secolo XV. Luis de la Cruz, io che mi pregio di esser grato, non potendo in altra guisa, vi ricambierò con alcuni pochi Avvisi amorevoli. Fornito come siete di tanta dottrina, erudizione, e buon gusto, e sopratutto di ottima morale, forse non ne abbisognerete punto. Ma voi a guisa de’ gran Signori gli accetterete con benignità popolare, come i doni villeschi di fiori, e frutta. Il superbo Serse non gradì pure un poco di acqua, non in altro vaso che nelle mani presentatagli da un Villanello? E quando non fossero per voi di uso veruno, potranno essi per avventura giovare a qualche altro, che si sentisse inclinato a scrivere Apologie. Felice se potrò far con essi, o che voi sempre con più vigore assaltiate, ed esterminiate i vostri avversarj, formando {p. 215}della Letteratura Spagnuola un’ Apologia da essere un monumento della vostra sapienza ære perennius; o se potrò almeno rimettere nel buon cammino qualche altro futuro Apologista traviato, sendo questo uno de’ benefizj chiamati innoxiæ utilitatis, che la Natura c’insinua di praticare, Ἐις ὀδὸν ἀλὐοντα ἀγε.

AVVISI AMOREVOLI. §

I. §

Volete sbaragliare senza riscatto i vostri Emuli? Fornitevi pria di ogni altra cosa di fatti antichi, e moderni. Ciò costa, è ben vero, molto travaglio: ma Sofocle faceva dire ad Elettra, πόνου τοι χωρις οὐδὲν ἐυτυκεῖ, Niuna cosa succede felicemente senza fatica. E che possono mai giovare a un Apologista certe sottigliezze, certe illazioni arbitrarie, che sogliono sostituirsi alla verità istorica, soggette a mille eccezioni, a mille risposte? Ma (dirà qualche Apologista) quando scarseggiano i fatti istorici favorevoli, che mi farò io? Abbandonar l’impresa non parrebbe viltà? Anzi a me parrebbe onoratezza. Del resto fate voi, consigliandovi colla vostra onestà. Vi so dire però, che la mina sventata produce strepito senza far danno. La malicia conocida pocas fuerzas tiene, diceva il Maestro Perez di Oliva.

{p. 216}
II. §

Volete uscire sempre vittorioso dallo steccato? Non entrate mai a cimentarvi su certe materie, che forse non vi sarete curato di coltivare per tempo, e che oggi vi riescono straniere:

Scribendi recte sapere est & principium, & fons, diceva Orazio. Perdonatemi questa insinuazione; ma siate certo, che il Mondo è persuaso della verità del motto Virgiliano: Non omnis fert omnia tellus. Se io quì parlassi a dirittura all’Autore del Saggio, gli direi così: Sovvengavi, per non aver tenuto presente questo Avviso, a quanti equivoci soggiaceste su i Teatri Greci, e Romani a proposito del Saguntino: sulla immaginaria Drammatica de’ Moro-Ispani: sulla creduta mancanza d’invenzione nella Sofonisba del Trissino: sul negare che fossero Traduzioni le Tragedie del Perez: sulla infelice difesa che imprendeste della Isabella dell’Argensola: sulla vostra novella foggia di conteggiare, che io ho chiamata apologetica, a cagione delle Mille Tragedie del Malara, delle azioni dell’Ecuba &c.: sul giudizio che portaste di Rapin: sugl’inventori della Pastorale: su i Pregiudizj attribuiti al Signorelli, che in fatti sono vostri errori di Storia di Critica: sulla sognata decenza delle favole Lopensi, e Calderoniche: sulla possibile imitazione di un Metastasio delle Opere di Calderòn: sul vostro falso modo di ragionare dell’Opera Italiana: sulle Tragedie divine della Caverna di Salamina: sul passo di Orazio, in cui prendeste per rappresentazioni teatrali difettose l’Orso, l’Elefante {p. 217}bianco, i Pugili, i Gladiatori, la pompa de’ Trionfi, e tutti i Giuochi del Circo, e dell’Anfiteatro. Meglio adunque riuscirete, attenendovi a quelle materie, che conosceste di buon’ ora, e coltivaste per lungo tempo.

III. §

Volete evitare di compromettervi (dico ad ogni Apologista)? Non ispedite di leggieri patenti di eruditissimi a certuni, di cui o non ben conoscete il fianco debole, o conoscete bene, che non meritano tanto. Questa condotta vi pone fra due scogli, o di parere adulatore interessato, o di accreditarvi per ignorante. Nel primo caso vi chiuderanno la bocca col verso di Boileau:

“La verité n’a point cet air impetueux:”

nell’altro vi mireranno con occhio di pietà, cantando l’altro verso del medesimo Critico:

“Un sot trouve toujours un plus sot qui l’admire.”
IV. §

Volete, che i vostri scritti acquistino autorità e rispetto? Non fondate punto le vostre speranze nel dissimulare i fatti, sopprimere le ragioni contrarie, scambiare i termini delle questioni, tradire l’onestà, conculcare la buona fede. Appigliatevi in somma alla verità, non all’astuzia. Agesilao famoso Re degli Spartani, secondo che scrive Senofonte nell’Orazione in di lui lode, “giudicava cosa conveniente, che l’autorità de’ Re dovesse essere notabile per bontà, non per {p. 218}astuzia”. Or quanto più ciò conviene a’ privati, i quali altro capitale non posseggono, che l’onestà? E lasciando a parte i rimproveri della propria coscienza, e il deterioramento della riputazione presso il pubblico, si dee poi riflettere, che parlando in tempo, che gli avversarj vivono, e mangiano, e beono, e agiscono, essi per diritto di difesa non ometteranno di notare le vostre petizioni di principj, ignorazioni dell’elenco, i circoli viziosi, le anfibologie, e in oltre i fatti soppressi, i passi degli Autori stiracchiati, le congetture sofistiche, e allora il credito va tutto in fumo, e cadono al piano le apologie, e gli Apologisti.

V. §

Volete dar mostra di vero patriotismo? Compatite i difetti nazionali, ma non gli sostenete; altrimenti farete due mali, scemerete a voi stesso il credito o per parte dell’intendimento, o per parte della volontà, e perpetuerete gli errori nazionali. In fatti se p. e. i vostri migliori Letterati, a forza di scrivere e declamare, hanno svegliati i compatrioti a comporre a’ nostri dì più di una Tragedia ragionevole, perchè volete voi raffreddarne l’ardore col difendere gli spropositi degli altri secoli? E che importa a voi che si dica, che i vostri paesani abbiano cominciato tardi a risorgere, purchè comincino e prosieguano bene? Dalla metà del passato secolo solamente cominciarono i Francesi, ma con tal felicità, che sono diventati i modelli, e la misura de’ voti degli altri Popoli. Dal 1730. e non prima, hanno cominciato gli Alemanni, {p. 219}e sì bene, che già se ne ammirano molti felici frutti teatrali. E per qual crudeltà, per qual capriccio voi solo vorreste, che il Teatro patrìo continuasse nell’antico stato?

Una Nazione non abbisogna nè di stupidi panegiristi, nè di satirici esageratori: questi la irritano, quegli l’addormentano. Palliare le di lei necessità letterarie, economiche, politiche, militari, alimentarne i volgari pregiudizj, perpetuarne il letargo, è lo stesso che volerne essere a bello studio piaggiatore, cioè nemico tanto più pernicioso, quanto più occulto. Mostrarle acconciamente i proprj bisogni, cercarne le sorgenti, proporre le vie di minorarli, è prestarle uffizio di vero Amico. In tutte le Nazioni, che si sono rendute illustri, si sono in tal guisa condotti i loro Filosofi, i veri amatori della Patria. Se non si manifestano le piaghe, come volete che si curino? Così hanno fatto i gran Letterati, i buoni Cittadini, i Filosofi Spagnuoli. Questo è lo studio del Segretario dell’Accademia di San Fernando. Un pajo di Tomi del suo Viage de España valgono più di ventimila Volumi Apologetici: dapoichè questi (bisogna confessarlo) sono totalmente inutili, anzi dannevoli, perchè fomentano la desidia; quelli inspirano ne’ paesani l’amore dell’Agricoltura, la conservazione de’ Boschi, la piantagione degli alberi tanto necessaria e tanto abborrita dalla nazione, lo spirito d’industria, l’abbellimento delle Città, il vero gusto delle Arti. Qual prò è ridondato alla Spagna dalle lusinghiere Apologie? Il Mondo si stà come stava. Ma il Viage de España, riprendendo, motteggiando, additando gli errori, inculcando {p. 220}l’emenda, ha saputo destare la nazione, stimolare i Parochi, e i buoni Prelati a piantare, a coltivare, a cominciare la guerra contro la cattiva Architettura degli Altari di legno dorato pieni di stravaganti fogliami, di hojarascas, di mamarrachos, i quali in vece di adornare le Chiese, v’introducono una specie di ridicolo. Così si mostra amore nazionale, e spirito di patriotismo. Sieguano dunque gli Apologisti sì belle scorte, in vece di proteggere los mamarrachos, le barbarie teatrali.

Se Filippo V. avesse costantemente conservato il sistema seguito nel Commercio, riguardo all’America, sotto il II. il III. e il IV. Filippo, e sotto Carlo II. avrebbe potuto animarlo in parte, e vedere non più le monete di cuojo, ma le specie de’ metalli preziosi circolare per la Spagna? Se nel di lui Regno Bernardo Naranjo, Bernardo Ulloa, Geronimo Ustariz, dotti Filosofi Economisti Spagnuoli, avessero composte Apologie della condotta tenuta sotto i Monarchi Austriaci, in vece di mostrarne gli errori, e d’indagare le origini della decadenza delle manifatture, del Commercio, della Marina, sarebbero stati i forieri degli odierni utili stabilimenti?

Se il gran Carlo III. avesse continuato, seguendo le orme degli antecessori, a tener chiusa la communicazione dell’America colla Spagna: se non l’avesse aperta sin dal 1764. con i pachebotti, o vascelli corrieri, che si spediscono ogni primo giorno del mese colle lettere dalla Corugna all’Avana e a Porto-ricco, e quindi con altri piccioli legni alla Vera-Cruz, e a Porto-bello, e poi colla Posta a’ Regni di Terra-ferma, Granata, Perù, e Nuova-Spagna, {p. 221}potrebbe mai aver luogo il piano di ampliare il Commercio Spagnuolo? Se l’istesso nostro Monarca non avesse secondata questa prima felice operazione colle altre, p. e. permettendo a’ suoi Vassalli un libero Commercio alle Provincie Americane, alleggerendo varj gravosi dazj posti su i generi portati in quelle Contrade, e stendendo la corrispondenza, e il traffico parimente di una Colonia coll’altra, e della Nuova-Spagna colle Filippine, si sarebbe ad occhi veggenti scorto il miglioramento del Commercio Spagnuolo1?

Se la Spagna fosse stata da qualche Apologista animata a conservare l’antica inazione per i fondi commerciali, l’Agricoltura e le Manifatture, vi si vedrebbero ora tanti oggetti di stupore, e tanti motivi d’immortali applausi per il glorioso MONARCA che oggi la felicita? Vi fiorirebbero tante Società dirette principalmente a promuovere la coltivazione e l’industria, come la Vascongada, quella di Baeza, e l’Economica di Madrid sotto il dolce nome de los Amigos del Pais, come altresì le Accademie, che riguardano al medesimo oggetto, cioè quella di Siviglia, di Barcellona, di Vagliadolid, e di Galizia? Vi si sarebbero construtti i Ponti superbi e necessarj, i pubblici camini comodi e magnifici, non solo da Madrid al Pardo, ad Aranguez, e all’Escoriale, ma quello stupendo di {p. 222}Sierra-Morena, ed altri di Alaba, Guipuscoa, e Biscaglia, e delle Provincie di Valenza, Galizia, e Catalogna: opere degne della Umanità, opere che assicurano, non che i beni, le vite de’ Popoli per tanti anni distrutte dall’intemperie dell’inverno, dalle inondazioni de’ fiumi e torrenti, e dalla frequenza degli assassini? Vi si vedrebbero per real determinazione sin dal 1767. popolati i feraci pingui territorj di Sierra-Morena tra la Mancia, e l’Andalusia colla fondazione di undici Villaggi, e cinque Casali, di cui la Capitale è la dilettosa Carolina che rallegra i Viaggiatori con tante verdi ricchezze della terra, che ora vi abbondano; vi si vedrebbero popolati ancora i terreni, che dividono i Regni di Cordova, e Siviglia, co’ quattro Villaggi e quindici Casali, che prendono il nome di Popolazioni di Andalusia, de’ quali è capitale la Carlotta?

Secondando queste Reali mire il celebre Conte Campomanes, Autore del noto Giudizio imparziale, e di altre dotte produzioni, ha arricchita la Spagna dell’Opera preziosa sulla Industria Popolare. Per altra via intento a dissipare l’antico letargo, concorse co’ suoi scritti a migliorare, e rischiarare i paesani il celebre Don Jorge Juan, ed oggi veggiamo con piacere aperte per la Spagna Scuole non rare di Matematiche pure e miste, di Nautica, di Astronomia, di Architettura Militare per le Accademie de’ Cadetti situate in Barcellona, nel Ferol, in Cartagena, e in Segovia.

Un Gabinetto di Storia Naturale stabilito in Madrid sotto gli auspicj del medesimo Sovrano Regnante, oggi ricchissimo, e da divenirlo ognora più {p. 223}colle produzioni vegetali, minerali, e animali del Nuovo Mondo per la maggior parte soggetto all’Ispana Monarchia, qual guerra non è per fare a’ pregiudicati lodatori temporis acti, qual nuova, qual varia ricchezza di giuste idee non isveglierà nella Nazione?

Un Giardino Botanico, che da Migascalientes mezza lega distante da Madrid, dove era situato, oggi si và trasportando a gran passi nel famoso Passeggio del Prado per farvi nobile vago spettacolo, e insieme per saziare con minore incomodo la bella curiosità degli studiosi, quanti vantaggi non recherà alle Mediche ricerche?

L’entusiasmo per le belle Arti del Disegno, che oggi serpeggia per la Nazione, e l’accende di amore pel vero gusto, non si debbe alla Reale Accademia di S. Fernando, e a’ generosi clamori del di lei Segretario? E senza le ostilità, che incessantemente essa pratica contro gli ornati spropositatissimi e i ghiribizzosi fogliami e le triterie ridicole, quando spereremmo di vedere totalmente atterrate le reliquie della barbara Architettura? E potrebbe ciò sperarsi se un Apologista ignorante di Architettura prendesse a difendere la facciate dell’Ospizio, della Chiesa di San Sebastiano, del Quartiere delle Guardie del Corpo di Madrid, figlie della matta fantasia di Churriguera, che fu il Lope de Vega dell’Architettura?

Sopratutto qual gloria non accrescono al Regno del GRAN CARLO III. gli studj severi riformati sulle novelle scoperte, esperienze, e osservazioni fatte sotto altro Cielo più puro, alle quali si attraversavano sul cammino tuttavia le vestigia delle {p. 224}Arabe Scuole? Ecco aperta la scientifica strada con una Università, che sino a questi dì era stata infruttuosa sin dalla sua fondazione avvenuta nel secolo passato. Ecco che già se ne veggono nobili frutti in tanti ragionatori rischiarati, de’ quali oggi trovasi così gran numero in sì famosa Corte.

Ed ecco il modo di accreditarsi di benemerito della Nazione: secondare le sublimi vedute di sì benefico Monarca, e de’ patriotici zelanti Ministri, che con tanta alacrità e prontezza le mandano ad esecuzione, e de’ Filosofi nazionali, che non cessano dall’indagare sempre più utili sorgenti della ricchezza della Patria nel miglioramento dell’Agricoltura, e del Commercio, donde provengono le forze dello Stato.

VI. §

Ma quando pure la vostra vocazione è dichiarata per le Apologie, che ad altri sembrano per ogni banda infruttuose, studiatevi almeno di comporne delle migliori, che dar si possano. E come ciò si conseguisce? Prendendo a trattar buona Causa in ciascuna parte di esse. Per esempio, volendo asserire, che vennero i Greci nelle Spagne, non vi curate di mettere avanti la ignoranza, e la rozzezza de’ primi tempi della Città di Roma per averli discacciati. Roma guerriera non discacciava la Greca Sapienza, della quale cercò anzi di approfittarsi nella compilazione delle XII. Tavole delle Leggi Decemvirali; bensì volle scansare la doppia cavillosa eloquenza di Carneade, che, aringando ora a favore, ora contro della Giustizia, {p. 225}mostrava ingegno, e non sapienza, esempio stimato saviamente da Catone pernicioso pel Popolo Romano. La Sapienza è posta nel Vero che rischiara, non nel falso, e nelle sofisticherie che gettano gl’incauti nelle tenebre. Adunque Roma discacciò ne’ Retori, e ne’ Carneadi la doppiezza, e non, come sinistramente pensa il Signor Lampillas1, la Filosofia, la quale sin dal primo secolo di lei tralusse in Numa Pompilio, ammirato da’ Posteri al pari de’ Soloni, de’ Licurghi, de’ Zaleuci, per aver saputo ingentilire un Popolo feroce co’ riti religiosi, coll’ordine, e colle Leggi. Coloro che rilevano la primera rozzezza de’ Romani non riflettono, che essa non l’impedi di gettare stabili fondamenti per divenire una Nazione grande, e possente?

In oltre quando voi parlate di una sola Città Spagnuola, comparatela con una sola Italiana; ma se vi stendete a tutta la Spagna, dovete riguardare a tutta l’Italia, e non alla sola Città di Roma. Con questo giusto metodo calcolando voi troverete, che mentre i Greci passavano ad alcune Provincie di questa Penisola, e Roma discacciava i Sofisti, più della metà dell’Italia diventava infatti, e non immaginariamente, Greca. E tante furono e sì illustri le Colonie, che dalla Grecia vennero ad abitare i nostri paesi, che Strabone mentova moltissime Città Greche Italiane, così nel continente, come nella Sicilia, le quali erano a’ suoi tempi tutte perite, rimanendone solo le reliquie {p. 226}materiali, e poche Città, come Napoli, Regio, Taranto, le quali per qualche altro secolo continuarono a conservarsi Greche. Con tutto ciò delle celebri Città Italo-Greche ci rimase qualche cosa più preziosa, cioè a dire la memoria gratissima della dottrina di tanti Filosofi, Oratori, Matematici, Musici teorici, e Poeti, ed anche non pochi avanzi de’ loro aurei Libri. Or se, come dice l’Apologista, la Spagna divenne Greca, e crede che potesse dirsi Nuova Grecia, come poi non si sono conservati in tali paesi gli stessi monumenti della Sapienza Greca? Quali Libri si ha notizia, che componessero i Greco-Ispani? Convengo, che allora fioriva nelle Spagne l’Agricoltura, e l’Industria, sapienza volgare pregevolissima. Ma dopo di questi bei passi le Nazioni procedono oltre e coltivano le Lettere, e le Scienze, delle quali ora discorriamo. E benchè non parmi da rivocarsi in dubbio, che avessero gli Spagnuoli dato in essi alcun passo, anche prima del dominio Romano nella Penisola, non perciò si può mostrare, che questo vantaggio ricevuto avessero dal commercio co’ Greci, mancandone i documenti.

Da questo esempio in somma si vuol dedurre, che il buono Apologista dee favoreggiar la Patria nella Buona Causa, in vece di ostentare nelle incertezze, e ne’ punti svantaggiosi un trionfo chimerico col vano suono delle parole. Queste non saranno mai nobili figlie della vera Eloquenza, quando manca loro il sostegno della verità. E come parlare, o scrivere eloquentemente col torto manifesto? Ambiste mai di passare pel Carneade de’ nostri giorni? Ma i Carneadi cavillosi si rigettano, {p. 227}si detestano dove si ragiona. Buona Causa dunque, o Signori Apologisti, se volete fare ammutolire gli avversarj. Oh quanto conferisce una Buona Causa a somministrare agli uomini discorsi eloquenti!

. . . Βροτοῖσιν ώς τα χρηςα πραγματα
Χρηςῶν ἀφορμὰς ένδιδωσ᾿ ἀεὶ λογων;

diceva il piu eloquente Poeta Filosofo, lo Scrittore Tragico della Caverna di Salamina.

VII. §

Volete voi tributare alla vostra Nazione un vero omaggio? Mettete sempre alla vista le glorie effettive da lei acquistate, e non mai quelle incerte ed equivoche, che voi le attribuite. Ne darò qualche esempio. Il Signor Lampillas va ruminando1 i materiali della Storia Letteraria di Spagna intorno alla venuta de’ Fenici alle Coste di Andalusia da tempo anteriore a quello di Salomone, e dice: “E’ certo, e incontrastabile il commercio, e lo stabilimento de’ Fenici nella Spagna anteriore assai all’epoca di Salomone; e perciò abbiamo questo non dispreggevole argomento a provare il valore degli Spagnuoli nelle Scienze”. Riflettiamo alquanto su di ciò.

Primieramente conviene osservare, che chi va a mercatare, non è sicuro, che vada ugualmente a comunicare le proprie cognizioni; il che si potrebbe provare con moltissimi esempj. Udite come a {p. 228}tal proposito giudiziosamente discorre un dotto Spagnuolo Regio Professore di Poetica in Madrid1: “Sono inutili tutti i Libri, in cui la Storia Letteraria si dilata per verificare i fatti, e la Letteratura de’ Celti, de’ Greci, e de’ Cartaginesi; imperciocchè l’oggetto di tal travaglio altro non essendo, se non che il mostrare le Scienze acquistate dagli Spagnuoli per mezzo di quelle nazioni, non provandosi che ce le comunicarono, si dura una fatica inutile. E che mai sappiamo noi, che esse c’insegnarono? Nulla in sostanza. De’ Celti dicono gli Autori della Storia Letteraria, che, lungi dall’averci insegnato, è verisimile, che da noi avessero imparato. I Cartaginesi dominarono in Ispagna per ben poco tempo, e sempre con inquietudini e turbolenze; nè poi costa, che c’insegnassero cosa veruna. L’istesso è da dirsi de’ Greci. Or perchè non si afferma il medesimo de’ Fenici? Perchè la venuta di questi si ha da riguardare come l’epoca della istruzione Spagnuola, se non possiamo determinatamente dire, che ci avessero eruditi? Pruove e fatti positivi si ce cano. Non vagliono per nulla, non sono sufficienti a contentarci le deboli congetture, le illazioni volontarie. Vennero, poterono ammaestrarci; ne siegue perciò che in fatti c’instruirono nelle Scienze, e nella Religione?”

{p. 229}

Venghiamo ora ad osservare il poco fondamento dell’arrivo sì remoto de’ Fenici nella Spagna. Se questo non si potesse diffinire, se gli Scrittori lo stimassero assai più moderno, il Signor Agologista con troppa sicurezza, senza avere riscontrati gli originali, sulla fede de’ compilatori Cordovesi della Storia Letteraria, par che affermi esser certo, incontrastabile il commercio Fenicio in Ispagna anteriore all’epoca di Salomone. Non si dubita, che i Fenici vi trafficassero: ma non è certa, non è incontrastabile tanta antichità. Il passo di Appiano addotto nella Storia Letteraria è stato tratto dalle traduzioni, e perciò si attribuisce a questo Scrittore l’aver detto, che i Fenici vennero in Ispagna sin da’ primi tempi; là dove egli dice soltanto ἐξ πολλοῦ, o come diremmo in nostra lingua da gran tempo, e come dice nella sua l’Autore della Lettera citata mucho tiempo ha.

Dice poi l’Apologista (p. 7.), che nel Libro del Marchese di Mondejar intitolato Gades Phæniciæ “vien fissata l’epoca della venuta de’ Fenici nella Spagna, verso l’anno 1500. prima dell’Era Cristiana”; che così pensano ancora gli Autori della Storia Letteraria, benchè M. Goguet la ritardi sino al 1250. indi cita M. Paris, M. Pluche, M. Freret, M. Fourmont &c. citazioni ammonticate nella Storia Letteraria. Ora rifletta il Sig. Apologista di quai soccorsi si valga in sì remota antichità! Autori illustri, laboriosi, eruditi; ma Autori di jeri l’altro. E perchè non ricorrere a’ passi originali degli Antichi? Allora sorgerebbero nella di lui mente i dubbj medesimi nati in quella del prelodato Autore della Lettera. Donde {p. 230}son las pruebas (Num. 73.)? que Autor lo afirma? de que hecho se infiere? L’istesso Autore accumula tutte le pruove recate nella Storia Letteraria, indi ne dimostra la debolezza, e le contraddizioni. Si vuole, che Cadice nel tempo sopraccennato fosse stata fondata da’ Fenici Commercianti; si dice poi, che i Fenici venuti in Ispagna furono alcuni Cananei fuggiti dall’usurpatore Giosuè, poveri, raminghi, miserabili, secondo l’Iscrizione di una Colonna trovata in Tanger. Ma se tale Iscrizione è genuina, ci dice che si fermarono in Africa, e non Ispagna; nè quindi si ricava la fondazione di Cadice. Si dubita parimente, che Cadice sia fondazione Fenicia, per quel che dice Sallustio ne’ Frammenti, cioè che non la fondarono, ma le mutarono il nome di Tarteso in quello di Gadir. Tarteso (aggiugne il citato Professore di Poetica) la chiama ancora Erodoto, il quale asserisce che i Samj furono i primi ad approfittarsi delle Fiere di Tarteso. Ora se i Samj furono i primi, se queste Fiere, questi Emporj non erano sfiorati, o frequentati da altri, come dinotano le parole ἐμπόριον ἀκήρατον, i Fenici furono posteriori alla venuta de’ Samj, e così la loro venuta di 1500. anni prima di Cristo va a rovinare. Di più, oltre a Cicerone, e Valerio Massimo, dice Appiano, che regnava in Cadice Argantonio in tempo, che tal Città si chiamava Tarteso, e non Gadir come poi la dissero i Fenici. Ora se vi regnava Argantonio, e secondo Erodoto questi vi ammise i Focesi, forza è che la venuta de’ Fenici in Ispagna, e il possedere nella Costa di Andalusia alcuni paesi, come dice Appiano, siano cose assai più moderne, e che quel numero {p. 231}d’anni 1500. prima di Cristo diminuisca di due terzi, e diventi almeno 550. Giustino poi non ammette tal dominio Fenicio, e scrive, che i Cartaginesi furono i primi, che dopo i Re naturali ottennero l’imperio di quella Provincia, introducendovisi con motivo di soccorrere i Gaditani oppressi da’ loro vicini. Da ciò risulta, che più recente ancora fu lo stabilimento de’ Fenici in quella Costa, mentre i successi narrati de’ Cartaginesi coincidono col III. secolo, prima dell’Era Cristiana.

Poste tali cose, e riflettendo che nella stessa Storia Letteraria si confessi, che gli Autori profani non determinano il tempo, in cui i Fenici fecero in queste Coste i loro primi viaggi, come mai dice il Signor D. Saverio Lampillas, che è certo, è incontrastabile, che essi vi vennero 1500. anni prima di Cristo1? Di poi da qual fatto, da qual monumento, da quale Autore si deduce, che verisimilmente le Colonie Fenicie stabilite in Ispagna vi portarono l’amore delle scienze, e delle arti, e lo comunicarono agli Spagnuoli divenuti Fenici? E se verisimilmente soltanto egli il congettura (ad onta pure di tante incertezze), come poi repentinamente muta stile, e linguaggio, e con asseveranza conchiude con queste parole (p. 9.): “Non hanno certamente gli Etruschi pruove cotanto {p. 232}autentiche dell’antichità della loro Letteratura”. E donde gli nasce ora quel certamente? quella Letteratura? quell’autenticità? quelle pruove? Ne ha egli addotta alcuna? Se ne adducono nella Storia Letteraria? Quanto all’Apologista non vi s’impegna, contentandosi di declamare: quanto a’ Cordovesi ci dicono, che gli Spagnuoli appresero da’ Fenici il sistema degli Atomi. Ma ecco su di ciò come ragiona l’erudito Autore della Lettera, che ci risparmia il travaglio di far quì delle riflessioni: “Quello che più mi fa stordire è l’ammasso di supposizioni aeree, dalle quali si deducono asserzioni positive. Non è cosa ben ridicola il supporre a quei tempi sì remoti gli Spagnuoli informati del sistema degli Atomin, sol perchè vi fu un Filosofo Tirio, che insegnò essere gli Atomi principj delle cose? imperocchè qual altra pruova se ne porge? Mosco Filosofo Fenicio (si dice) inventò quel sistema; or se regnava tra’ Fenici questa dottrina, se vennero a Spagna alcuni Filosofi . . . . . i nostri ebbero occasione di apprendere il sistema degli Atomi. Questo (soggiungono gli Scrittori Cordovesi) è anteriore quasi di mille anni al sistema Peripatetico . . . . e la Spagna lo ricevè da’ Fenici molto prima della Grecia, e di Roma. Infelice gioventù” (ciò riferito esclama l’ingenuo Autore della Lettera lodata) “che impari Critica da tale Storia capace di corrompere i più solidi, e acuti ingegni! . . . . Queste illazioni false, questi discorsi viziosi, fallaci, abituano gl’ingegni a fabbricare spropositi, a ragionare con leggerezza, e a risolvere con inganno e precipitazione. {p. 233}Qual rozzo principiante Summolista ignora, che da condizioni non verificate non possono dedursi conchiusioni positive, e assolute? Poterono venire, vennero, insegnarono; gli Spagnuoli dunque ricevettero il sistema degli Atomi molto prima della Grecia, e di Roma? Stavano scritte con questa Logica le Scienze de’ Turdetani?” In questa guisa ragionano i veri dotti Spagnuoli, i veri amatori della propria Nazione. Vogliono lodi che provengano da’ fatti non dubbj, non falsi, non fondati nell’arena, e nelle aeree congetture.

E che bisogno ha la Spagna di lodi false, mendicate da’ sofismi, da imposture in fine? Ha bisogno delle glorie immaginarie della Letteratura Fenicia, Celtica, Greca, Cartaginese, una Nazione generosa difenditrice della propria libertà per tanto tempo contro le forze più poderose della Romana Repubblica, che tante pruove di eroico invincibile valore diede nella Guerra Numantina, e nella Portoghese sotto Viriate? Una Nazione non vinta, ma tratta dalle divisioni delle sue membra, sotto il dominio Romano? Valorosa non meno nelle armi, che nelle Lettere, allorchè divenne Romana, come dimostrano i Magistrati, i Capitani, gli Scrittori insigni che vi fiorirono? Una Nazione Madre, non che di Adriano, che pur fu un dotto Imperadore, di un Trajano eccellente modello degli ottimi Principi? Temuta e gloriosa sotto i Visigoti, finchè disarmata da Vitiza, dalle lascivie di Rodrigo tradita, da Opa, e Giuliano venduta, non rimase preda de’ Barbari? Una Nazione, che annichilita sotto gli Arabi seppe nelle montagne Asturiane conservare i semi della Libertà, {p. 234}donde sursero i Regni Cristiani, che al fine spezzarono il giogo Saracino? Divenuta sotto i Re Cattolici potentissima Monarchia, conquistatrice in Europa, e padrona di un nuovo Mondo intero a’ loro giorni, e sotto i loro auspicj scoperto? Temuta, e corteggiata da tutti i Principi Cristiani sotto Carlo V.? In quel secolo principalmente Legislatrice illustre, Politica, Letterata, Scientifica in più di un genere, produttrice di gran Metafisici, di celebri Teologi, di sommi Filosofi, di gran Giureconsulti? che può a ragione pregiarsi di contare tra’ suoi figli un Vazquez, un Suarez, un Cardinal Cisneros, un Melchior Cano, un Arias Montano, un Antonio Agostino, un Barbosa, un Vives, un Mariana? Che anco ne’ tempi di decadenza gareggiò sotto il IV. Filippo colla più potente Monarchia Cristiana, e che, si può dire,

“ . . . . Nelle avverse
“Fortune fu maggior, che quando vinse?”

Che seppe per amore e zelo della Religione sacrificare eroicamente un milione di Vassalli? Una Nazione in tutte l’epoche degna dell’ammirazione universale, ma singolarmente a questi aurei giorni de’ PRINCIPI BORBONICI fiorentissima? Ha bisogno sì gloriosa Nazione di far quasi Spagnuolo l’Africano Annibale, e di pregiarsi della Lingua Greca che costui sapeva, per averla appresa in queste terre da Sosilo Spartano, quasi che gli Spagnuoli fossero mai stati Spartani o Cartaginesi? Ha bisogno tal Nazione, che per onorarla si ricorra ad ostentare la Gramatica che sapeasi nella Betica, e il verseggiare accennato da Strabone nel III. Libro della Geografia? e che per giunta si conchiuda, {p. 235}che intanto che gli Spagnuoli erano Gramatici e Verseggiatori, i Romani rozzi duravano nella loro ignoranza, quando che ciò è contrario al vero, mentre i Romani ben per tempo furono ne’ due primi secoli Gramatici e Verseggiatori, come è chiaro da’ Versi Saliari, e nel terzo secolo furono gran Legislatori, di che sono prova evidente le nominate famose xii. Tavole delle Leggi, delle quali il dottissimo Cicerone nel Libro dell’Oratore diceva, ch’egli era di parere essere a tutte le Biblioteche de’ Filosofi da preferirsi, che che del suo giudizio potesse fremere il Mondo intero? Ha bisogno la Spagna di chiamarsi Provenzale, o di convertire i suoi Popoli in Provenzali, per participare dell’efimera anticipazione nel verseggiare che ebbe quella Provincia Francese? Ha bisogno, Dio buono! di pregiarsi di un Atto della Celestina, che ne ha più di venti, e su questa ventesima parte di una Novella fondare la di lei perizia nella Poesia Rappresentativa? Di sì meschine gloriole, di queste apologetiche petitesses, per dirla alla Francese, ha bisogno la Madre de’ Garcilassi de la Vega, degli Errera, de’ Leonardi di Argensola? Ha bisogno la Spagna, per finirla, di un Tomo Apologetico per sostenere i mostri teatrali del Vega e di Calderon, quasi dovesse alla loro caduta vacillare l’Ispana Monarchia? Nò, Signori Apologisti, troppo di soda gloria è ricca la vostra Nazione per aver bisogno di accattare da’ vanti spregevoli e frivoli o da immaginarie lodi, il suo trionfo. Lodi sostanziose, non meschine, non equivoche, non false, vogliono essere, Signor Abate Lampillas. Storia, Signor D. Saverio, Storia; non congetture {p. 236}ed arzigogoli. Essa sola copiosamente fornisce ai veri amatori della Spagna glorie reali, patenti, innegabili: e queste unicamente sono l’incenso Sabeo grato ed accetto ad ogni odorato. Uditelo dal Principe degli Oratori Italiani nel 11. Degli Uffizj: Vera gloria radices agit, atque etiam propagatur: ficta omnia celeriter, tamquam flosculi decidunt; nec simulatum potest quidquam esse diuturnum. Mi accommiato.

{p. 237}

AVVISO A’ LEGGITORI. §

Non v’ha chi ignori a quali inconvenienti soggiaccia l’impressione de’ Libri, dopo ciò che si esperimenta alla giornata, e che ne avvertirono Giovanni Clerico nell’Arte Critica, Antonio Genovesi nella Logico-Critica, e il chiar. Ab. Denina nella Bibliopea. A questi inconvenienti comuni a tutti coloro che pubblicano i loro travagli, aggiungansi quelli che seco porta nel presente Discorso la distanza dell’Autore, e l’uso indispensabile de’ passi di varj idiomi e specialmente Spagnuoli, la cui ortografia non suole essere abbastanza famigliare in qualche paese. I Leggitori gentili ne emenderanno la maggior parte senza esserne prevenuti. Quì se ne correggono i meno ovvj, che rendono più di un concetto losco e confuso.

Primieramente per maggiore esattezza il principio della Lettera scritta al Signor Lampillas leggasi come segue: “Un pubblico Professore di disciplina Ecclesiastica di Liturgia e di Riti ne’ Regj Studj di San Isidro già chiamati Collegio”. Correggansi poi le parole seguenti.


{p. 238}{p. 239}{p. 240}

ERRORI

CORREZIONI

pag. 3. v. 13. pretenzione

pretensione

p. 4. v. 12. Cartesa

Carteia

p. 4. v. 14. Cortiso

Cortijo

p. 10. v. 15. gli rese

e gli rese

p. 11. v. 9. spiega

spinge

p. 11. v. 15. altro caso

altro canto

p. 16. v. 7. intitolato

intitolata

p. 16. v. 24. vergognosa che

vergognosa quella che

p. 19. v. 5. buffonata

buffoneria

p. 21. v. 1. Siano e non siano

Siano o non siano

p. 23. v. 29. di Tragedie

di Tragici

p. 32. v. 23. ci accorderemo

ci accorderemmo

p. 33. v. 3. un figura

una figura

p. 39. v. 3. me diguis

me digais

p. 40. v. 10. tristos gemidos

tristes gemidos

p. 40. v. 22. in quanto dite

in quanto dice

p. 41. v. 20. vò partar

vò portare

p. 41. v. 20. esame, dirò

esame, e dirò

p. 48. v. 15. pies de ninnos

pies de niños

p. 49. v. 12. introducevono

introducevano

p. 52. v. 15. immagnate

immaginate

p. 53. v. 21. ammetterla

ammetterne la censura

p. 59. v. 3. ciantos

llantos

p. 61. v. 9. trennità

tre unità

p. 66. v. 8. sin la stima

sin lastima

p. 66. v. 8. se a parte

se aparte

p. 67. v. 5. gran la stima

gran lastima

p. 67. v.ult. a si

asi

p. 72. v. 27. che sanno

che ne sanno

p. 77. v. 23. dell’Edia

dell’Eolia

p. 83. v. 9. in ta’ favole

in tali favole

p. 84. v. 5. Non si vede

Non vi si vede

p. 86. v. 11. perturbat

perturbet

p. 86. v. 14. astus dari

astus Davi

p. 88. v. 21. Ognun vede che?

Ognun vede eh?

p. 90. v. 30. 1590.

1596.

p. 91. v. 2. e il passaggio

o il passaggio

p. 92. v. 24. per vostra scoperta

per la sua scoperta

p. 94. v. 25. no puode

no puede

p. 97. v. 3. D.Olàs

D.Blàs

p. 97. v. 4. Castilleso

Castillejo

p. 97. v. 32. ne rinfaccia

mi rinfaccia

p. 100. v. 3. dal Naarro

del Naarro

p. 100. v. 20. di un buon

in un buon

p. 104. v. 25. Marguès

Marquès

p. 105. v. 2. responcion

responsion

p. 108. v.ult. muy altas

mas altas

p. 111. v. 11. Vignoli

Vignali

p. 112. v. 29. e le traduzioni dal Greco, e le traduzioni fatte da

e le traduzioni fatte da

 

p. 113. v. 29. Cotinie

Catinie

p. 114. v. 4. il Coro

il Caro

p. 115. v. 21. dal contrario

Al contrario

p. 115. v. 22. Scrittore, afferma

Scrittore afferma,

p. 117. v. 26. Bibbieno

Bibbiena

p. 118. v. 2. sbracciata

sbraciata

p. 119. v. 19. Caraveso

Camueso

p. 120. v. 31. Ville

Mille

p. 127. v. 29. y fer esta feta

y ser estafeta

p. 128. v. 30. a qui

aqui

p. 129. v. 8. averrà

avverrà

p. 132. v. 4. en salzada

ensalzada

p. 132. v. 5. en cien mel

en cien mil

p. 134. v. 7. Los tras

Los tres

p. 141. v. 17. ricompariscono

vi compariscono

p. 142. v. 11. scogliere

sciogliere

p. 145. v. 9. e nel papel

en el papel

p. 146. v. 7. il nostro

il vostro

p. 149. v. 9. Le Batteur

Le Batteux

p. 149. v. 13. Esteri

Esseri

p. 152. v. 11. le bellissime Opere

le bellissime sue Opere

p. 152. v. 13. e 18. Claviso

Clavijo

p. 152. v. 20. Memographe

Mimographe

p. 154. v. 15. quanitonorion

quam tonorion

p. 159. v. 3. Politri

Blitri

p. 160. v. 7. Tenoro

Tenore

p. 160. v. 13. di sua natura

di natura

p. 163. v. 2. riscutevano

riscuotevano

p. 164. v. 6. in genere

in quel genere

p. 166. v. 18. rappresentanti

rappresentati

p. 169. v. 2. uomini

umani

p. 169. v. 21. nel Canto

del Canto

p. 171. v. 14. Triarte

Iriarte

p. 173. v.ult.del verso dell’Autore

del verso, dell’Attore

p. 174. v. 3. nostra pensata

vostra pensata

p. 175. v. 19. a’ proprj

co’ proprj

p. 175. v. 30. Lattuertas

La Huertas

p. 176. v. 24. deturpano

deturpava

p. 177. v. 17. e due

o due

p. 177. v. 31. fuor dubbio

fuor di dubbio

p. 187. v. 25. che fanno

che fa uno

p. 199. v. 11. di buon secolo

di un buon secolo

p. 200. v. 12. così a loro soggetti

 

così dediti a’ loro Soggetti

p. 201. v. 11. di fatti

de’ fatti

p. 209. v. 1. dos edificies

dos edificios

p. 209. v. 5. hyzo

hizo

p. 210. v. 6. e si osserva

se si osserva

p. 220. v. 5. hosarascas

hojarascas

p. 221. v. 17. la felicità

la felicita