Pietro Napoli Signorelli

1813

Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome V

2019
Pietro Napoli Signorelli, Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi, tomo V, [3e éd.], Napoli, presso Vincenzo Orsino, 1813, 270 p. PDF: Google.
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[Epigrafe] §

                     Ardito spira
Chi può senza rossore
Rammentar come visse allor che muore,
Metastasio nel Temistocle.
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STORIA DE’ TEATRI.

LIBRO IV.

Teatro Italiano del XVI secolo. §

Grandi furono nel precedente secolo gli sforzi degl’Italiani in pro della poesia drammatica. Avevano in esso assicurato al loro paese il vanto di farla risorgere col comprendere prima di ogni altra contrada che per riuscirvi bisognava ridurre le incondite farse sacre o profane di que’ tempi alla forma servata dagli antichi; e l’eseguirono. Seppero eziandio sull’esempio dell’Ezzelino del Mussato preferire a’ tragici argomenti greci i fatti nazionali, come avvertito ebbero che con particolare avìdità si accoglievano sulla scena le patrie gesta. Chi tanto avea felicemente intrapreso ed eseguito, si trovò avvezzo alla lindura delle opere degli antichi disotterrate, e non tardò col {p. 4}confronto ad avvedersi della rozzezza de’ proprii drammi, e conchiuse che più efficace espediente si richiedeva per richiamare in trono Melpomene e Talia. In un tempo in cui rinacque l’aurea età di Pericle e dì Augusto; in cui si udì risonar per mezzo del Sannazzaro, del Fracastoro e del Vida la tromba Virgiliana; in cui sursero i temuti rivali di Apelle e di Fidia ne’ Raffaelli e ne’ Michelangeli; nel secolo XVI al fine non fu difficile il ravvisar l’enorme distanza interposta tra’ moderni drammi degl’Italiani e quelli di Sofocle e Menandro. E per rappresentarsene al vivo i pregi inimitabili occuparonsi in prima gl’Italiani con somma cura a calcar le stesse orme de’ Greci traducendone ed imitandone le favole; indi, assuefatti al l’antico magistero, ad immaginarne altre nuove su que’ modelli. Così troviamo un gran numero di greche imitazioni, e poi un altro ugualmente grande di nuove favole modellate sulle greche. L’evento giustificò il bel disegno; perchè da allora rifiorì in {p. 5}Europa la drammatica bella e vigorosa emula de’ Greci e de’ Latini. Di grazia poteva sperarsi che nascesse al teatro un Racine e un Voltaire subito dopo un Mussato o un Laudivio? un Moliere dopo un Polentone ed un Bojardi? No; bisognava che prima calcasse il coturno un Trissino e un Rucellai, un Tasso e un Manfredi, ed il socco un Bentivoglio e un Machiavelli e un Ariosto. I salti immaturi (ed a ciò per non farsi deridere rifletter dovrebbero tanti e tanti moderni filosofi critici che per affettar gusto sopraffino rimproverano all’Italia la languidezza e il portamento tutto greco de’ drammi del cinquecento) i salti, dico, troppo pronti e repentini son prossimi a’ precipizii, o non avvengono felicemente se non per prodigii; ed ì prodigii sono pur così rari in natura. Prima dunque di pervenire a’ Cornelii, a’ Racini, a’ Metastasii, a’ Maffei, veggansi con miglior critica e filosofia nel resto del presente volume i passi della poesia rappresentativa, i quali all’ {p. 6}epoca de’ lodati grandi ingegni condussero i moderni.

Troviamo intanto ciò che fecero gl’Italiani nella drammatica in tal secolo. Scrissero in prima favole in latina favella, 2 tragedie e commedie italiane di greca invenzione, 3 drammi modellati su gli antichi ma di nuovo argomento, 4 nuovi generi drammatici ignoti a’ Greci, 5 i primi passi di un melodramma diverso dall’antico. Per soprappiù tutto ciò si troverà animato da un puro elegante stile, da quel balsamo che solo può conservare incorruttibili (non che i drammi ed ogni genere poetico e tutta l’amena letteratura) le scienze stesse.

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CAPO I.

Drammi Latini del XVI secolo. §

Leone X che illustrò i primi anni di sì bel secolo, amando l’erudizione, la poesia e gli spettacoli scenici, gli promosse in Roma come gli avea favoriti nella sua patria; e ciò bastò per eccitare i più grand’ ingegni a coltivar la drammatica. Quindi è che si videro da prima in quell’alma Città, divenuta centro delle lettere, rappresentate nel loro natural linguaggio le favole degli antichi, come il Penulo di Plauto nel 1513 in occasione di essersi dichiarato cittadino Romano Giuliano de’ Medici fratello del pontefice, le Bacchidi del medesimo Comico col celebrarsi le nozze de’ Cesarini co’ Colonnesi, il Formione di Terenzio con un prologo del Mureto fatto recitare dal cardinale Ippolito da Este il giovine, e l’Ippolito di Seneca rappresentato {p. 8}avanti il palagio del cardinale Raffaele San Giorgio, in cui sostenne il personaggio di Fedra con tanta eccellenza il canonico di San Pietro Tommaso Inghiramoa dotto professore di eloquenza ed orator grande che fin che visse ne portò il soprannome di Fedra.

Oltre poi a queste rappresentazioni si composero in latina favella nuove tragedie e commedie. Il dotto Francesco Benzib scrisse due drammi Ergastus, e Philotimus coll’usata sua eleganza, ne’ quali introdusse personaggi allegorici, la Fama, la Virtù, la {p. 9}Gloria, e l’Inganno. Bartolommeo Zamberti veneziano compose la Dolotechne, e Giovanni Armonio Marso la Stephanium commediaa, nella quale fece egli stesso da attoreb. Antonio Mureto, benchè per nascita all’Italia non appartenga, avendo non pertanto quì composta la sua tragedia Julius Caesar, stimiamo più opportuno registrarla fralle molte latine degl’Italiani, che lasciarla isolata nel teatro francese di questo secolo. Giano Anisio, ossia Giovanni Anisio napoletano dell’Accademia del Pontano compose la tragedia Protogonos pubblicata nel 1556, su la quale fe poscia il commento Orazio Anisio suo nipote. Altre tragedie scrisse Giovanni Francesco Stoa.

Ma le più pregevoli tragedie latine {p. 10}di questo secolo uscirono da Cosenza. Antonio Tilesio celebre Cosentino dimorando in Venezia l’anno 1529 diede alla luce la sua tragedia intitolata Imber Aureus, che si reimpresse nel 1530 in Norimberga, e si rappresentò ancora magnificè feliciterque frequentissimo in theatro, siccome scrisse Cristofano Froschovero, l’anno 1531, dirigendo il discorso alla gioventù raccolta nel Collegio Tigurino. I contemporanei ed i posteri riconobbero la forza e lo splendore delle sentenze e delle parole di questa Pioggia d’oro, per la quale la tragedia cominciò a favellare con dignità e decenza. L’argomento consiste nella prigionia di Danae nella torre di bronzo, e nella discesa di Giove in essa convertito in pioggia d’oro. Eccone un breve sunto imparziale.

Atto I. Acrisio re degli Argivi avendo consultato l’oracolo sulla scelta di un genero intende che di Danae sua figliuola uscirebbe il di lui uccisore, e spaventato congeda i pretensori della mano di lei, risolve di non {p. 11}accompagnarla a veruno, e si raccomanda a Vulcano. Chiude l’atto un coro di Argive, la cui eleganza e leggiadria poetica gareggia co’ migliori di Seneca, e forse lo supera per lo candore. Ma intanto che compiange la principessa destinata a morir vergine, vede il popolo che in atto di stupore accorre alla reggia. Egli stesso vi si avvicina (e ciò dinota di aver egli mutato luogo senza lasciare di esser presente agli spettatori) e vede alzata una gran torre di bronzo opera istantanea di Vulcano, in cui è rinchiusa Danae con la sua Nutrice.

Atto II. Ode il Coro le voci lamentevoli di Danae che deplora la sua sventura. Ella desidera la morte, e tenta di darsela; la Nutrice la dissuade. Il loro dialogo ha tutta l’energia della passione, ed è soprammodo lontano dalla durezza delle sentenze lanciate ex abrupto alla maniera di Seneca. Danae si accorge dell’aquila ministra di Giove, e ne prende felice augurio, e va a fare una preghiera al Tonante.

{p. 12}Atto III. Gioisce Acrisio per l’opera stupenda in un momento costruita dal suo nume Vulcano, e si accinge a sacrificargli un’ ecatombe, e fa apprestare un lauto banchetto e dell’oro, per rimunerare i Ciclopi che ne sono stati i fabbri. La mercede ad essi distribuita, l’ebbrezza che gli opprime, la pugna che ha con gli altri Polifemo, e la morte di lui, empiono la maggior parte dell’atto. Sarebbesi ciò tollerato sulle scene Ateniesi, nelle quali ebbero luogo le contese piuttosto comiche che tragiche delle Baccanti, di Jone, di Alceste; ma dalle latine tragedie in poi si sono rigettate come impertinenti. Io non debbo dissimulare questo neo della tragedia del Tilesio; ma non è giusto poi lo spregiarla tanto, come altri fece, per tale episodio.

Atto IV. Ammirasi in quest’atto il racconto della pioggia d’oro penetrata nella torre pieno di eleganza e di vaghezza, che viene così preparato dalle commozioni di Danae che vuol parlarne alla Nutrice:

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Da.

Nutrix, age, mea nutrix,
Perii.

Nu.

Quid est?

Da.

Quae vidi!

Nu.

Quid, mea, stupes?

Da.

Heu!

Nu.

Fare.

Da.

Jam jam occidi.

Nu.

Miseram me!
Quid passa?

Da.

Juppiter…

Nu.

Te,
Mea, sospitet; quid trepidas
Exterrita? quid horridula
Riget coma? quid hoc? eheu.

Da.

Hic ipse, Juppiter ipse…
Deliquit animus. O quae
Spectare contigit!

Gajamente è delineata la nuvoletta di color di rosa che si leva dal mare, ed a guisa di un augelletto si appressa alla torre, pende dalla di lei sommità, comincia a sciogliersi in leggera rugiada, e s’introduce per la finestra. Giova udire il medesimo leggiadro poeta nel rimanente:

Crebrescit Imber diffluens mox Aureus
Illapsus undique, penetransque, qua domus
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Junctura, qua diem inferunt spiracula.
Mentis mihi quid fuerit ibi tum, cogita,
Concreta cum pars, grando ut aurea, crepitans,
Circumque resiliens peteret ultro sinum.
Obrigui, ac ipso auro magis tunc pallui.
Sed ubi animum tandem recepi perditum,
Munus rata deum subdidi explicans sinus,
Aurumque colludens, micansque sedula,
Flavis, sonansque rivulis fluentibus
Ignara sponte condidi in gremium mihi,
Legens ubique quod jacebat protinus.

Con ugual nitore e vaghezza si descrive la trasformazione di quest’oro in un vaghissimo giovanetto che si palesa pel gran Padre degli nomini e {p. 15}degli dei. Danae ode da lui la serie de’ futuri suoi casi misti di gloria e di disgrazie vicine e lontane. Il Coro da questa pioggia d’oro coglie l’opportunità di parlar della potenza di Cupido, indi lo prega ad esser propizio al genere umano ed a contentarsi di sospiri, di lagrime, di dolci sdegnetti, ed a bandire dal suo regno i ciechi furori, i lacci, i ferri, i precipizii, le stragi.

Atto V. Si narra in esso come al sospettoso Acrisio sembra aver veduto nella finestra della torre il capo di Danae con quello di un uomo dappresso. Ne apre la porta, cerca il nemico insidiatore, si avventa alla figliuola, indi risolve di castigarla con una morte men pronta e più atroce. La fa chiudere in un’ arca di pino, ed inesorabile alle di lei lagrime la spinge egli stesso in mare. Il Coro col Messo ne geme; inveiscono contro dello spietato vecchio, e pregano Anfitrite di salvar l’infelice principessa. Termina la tragedia con tali parole indirizzate a Melpomene;

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Jovis, o Melpomene, decus,
Roseo vincta cothurno,
Lyra cordi cui lugubris,
Delatum hoc tibi munus
Faxis perpetuum, rogo.

La regolarità, la convenevolezza del costume, la verità delle passioni dipinte, l’eleganza, il candore e la vaghezza mirabile dell’aureo stile, salveranno sempre dall’obblio questa favola; la languidezza e l’episodio poco tragico dell’atto III ne sono i nei che possono rilevarvisi, e che forse tali non parvero all’autore pieno della lettura degli antichi.

Contrasta colle grazie e veneri dello stile del Tilesio la maestà e la grandezza del suo compatriota ed amico Coriolano Martirano celebre vescovo di San Marco in Calabria. Fiorendo verso il 1530 egli divenne il Seneca del regno di Napoli anzi dell’Italia, per lo studio che ebbe di recare egli solo nella latina favella molte delle più pregevoli favole greche. Trasportò da Euripide Medea, Ippolito, le {p. 17}Baccanti, le Fenisse, il Ciclope; da Eschilo Prometeo; da Sofocle Elettra; dal Cristo paziente il suo Christus; da Aristofane il Pluto, e le Nubi; e con tal senno e garbo e buon successo egli il fece, che niuno de’ moderni latini drammi composti prima e dopo di lui può senza svantaggio venire a competenza colle sue libere imitazioni. Per dar conveniente idea del suo gusto e giudizio, additeremo in ciascuna favola la maniera da lui tenuta nel tradurre i Greci.

Nella Medea non potè Martirano approfittarsi delle bellezze del piano di quella di Seneca, perchè seguì la greca, ma intanto scansò il difetto del tragico latino di far parlare nell’atto IV pedantescamente la Nutrice accumolando tante notizie mitologiche e geografiche, e l’altro della pomposa evocazione de’ morti. Seguì l’originale nell’economia della favola; ma si permise nel dialogo di dar talvolta nuovo ordine alle stesse idee, di sopprimerle in un luogo se in un altro si erano {p. 18}accennate, di rendere con più precisione in latino ciò che in greco si disse con copia. Facendo moderato uso delle sentenze, schivò ugualmente l’affettazione di Seneca e gli ornamenti rettorici famigliari ad Euripide. Ciascuno (dice in Euripide nell’atto I il Pedagogo alla Nutrice)ama più se stesso che gli altri, e chi ciò fa per giustizia e chì per proprio comodo. Martirano conserva l’idea originale e si esprime con più semplicità e nettezza. Quilibet sibi vult melius esse quam alteri. I trasporti de’ re (dice nel greco la Nutrice)sono veementi e da lievi principii prendono incremento, e con difficoltà poi si cangiano i loro sdegni. Martirano così trasporta questo concetto:

… Superba magnorum indoles
Regum semel commota, non temerè silet.

Euripide rende al solito assai ragionatrice Medea e per più di quaranta versi lussureggia con varie sentenze morali, e con riflessioni generali sulle donne {p. 19}incominciando da Κορινθιαι γυναικες. Martirano risecando quasi tutto questo squarcio attende solo alla passione di Medea per l’ingratitudine e l’infedeltà di Giasone, consumandovi appena intorno a quindici versi,

Corinthiae puellae, acerbus est quibus etc.

Ma in contracambio dove campeggia il patetico del greco pennello egli ritiene interamente le più importanti scene, come quelle di Medea che cerca ed ottiene da Creonte un giorno d’indugio alla sua partenza, tutte quelle che ha con Giasone, il racconto della morte del re e della figliuola, nel quale però si è il Cosentino nella conchiusione astenuto dalle sentenze accumulate dal Greco tragico.

L’Ippolito del Martirano accompagna degnamente e senza arrossire al confronto quelli di Euripide e di Seneca e la Fedra del Racine. Merita di notarsi singolarmente la scena del delirio di Fedra che recammo nel tomo IV delle Vicende della Coltura {p. 20}delle Sicilie. Anche il racconto del mostro marino è una prova del gusto del prelato Cosentino, che orna moderatamente l’originale senza pompeggiare come fanno Seneca e Racine, senza l’inverisimile ardire che si presta ad Ippolito nel l’affrontare il mostroa, senza imitar Seneca che quando Teseo dovrebbe solo essere occupato della morte del figliuolo, lo rende curioso di sapere la figura del mostro,

Quis habitus ille corporis vasti fuit?

Nelle Baccanti segue Martirano al solito l’economia dell’originale esprimendone i concetti; ma negli incontri di Penteo con Bacco e nel di lui travestimento si contiene dentro i confini {p. 21}tragici, nè con Euripide scherza o motteggìa comicamente. L’ammazzamento inspira tutta la compassione. Gli si avventano Agave, Ino, le Baccanti, ed egli, perchè lo riconosca, così favella senza frutto alla madre:

………… Quo, mater, ruis,
Clamabat. Ipsa haec membra, quae scindis, creas.
Echionis, tuoque sum partu editus.
Unde hic furor? Me cerne; sum natus; tene
Manus cruentas, mater, et Bacchum abjice,
Quem cerno vestra terga quatientem anguibus.

Desta tutto il terrore la riconoscenza di Agave che nella pretesa testa del leone ucciso ravvisa quella del figliuolo.

Traducendo ed imitando le Fenisse sembra aver voluto dopo quindici secoli mostrare l’autore, in qual maniera avrebbe dovuto Seneca o qual altro sia stato l’autore della Tebaide, recare nella lingua del Lazio, senza i {p. 22}difetti di stile che gli s’imputano, le Fenisse di Euripide. Per nostro avviso niuna delle bellezze originali si è perduta nella versione del Cosentino. Vi si vede con somma naturalezza e vivacità espressa felicemente la scena di Giocasta co’ figliuoli, la dipintura assai viva de’ loro caratteri, la robustezza dell’aringa della madre, la descrizione dell’assalto dato a Tebe, l’uscita degli assediati, la rotta degli Argivi, Capaneo fulminato, il duello de’ feroci fratelli con tutta l’energia delineato.

Pari verità e sobrietà di stile e giudizio si scorge nell’imitazione del Ciclope di cui mi sembra singolarmente notabile il Coro dell’atto I da noi tradotto e recato nel t. IV delle Vicende della Coltura delle Sicilie.

Spicca parimente il di lui gusto nella scelta fatta nel tradurre l’Elettra. Delle tre greche tragedie rimasteci sulla vendetta di Agamennone, benchè Martirano amasse con predilezione Euripide, si attenne a quella di Sofocle {p. 23}che per gravità di dizione e per economia sorpassa l’Elettra di Euripide e le Coefori di Eschilo. Manifesta parimente in essa il suo buon senno col seguire più fedelmente che in altre l’originale, non avendo dovuto risecar molto del dialogo giusto non meno che grave e naturale di Sofocle. Egli appena vi si permette qualche picciolo cambiamento. Non insinuarmi (dice Elettra a Crisotemi) di non serbar la fede a chi la debbo. No (quella risponde) io ciò non insinuo ma sì bene di cedere ai potenti (Αλλʹ ου διδασκω τοις κρατουσι δʹεικαθειν). Martirano muta solo l’idea della forza che presenta la potenza in quella della giustizia, col sostituire la regia potestà:

Non ajo. At ipsis obsequendum regibus.

Degna di osservarsi è la di lui maniera di tradurre con sobria libertà nel famoso lamento di Elettra che ha in mano l’urna delle pretese ceneri di Oreste, che noi pur traducemmo colla possibile esattezza nel t. IV delle {p. 24}Vicende della Coltura delle Sicilie.

Colla stessa signoril maniera è cangiato in latino il Prometeo al Caucaso di Eschilo, benchè con più libera imitazione, specialmente nel descrivere che fa la situazione di Tifeo atterrato dal fulmine di Giove e sepolto sotto l’Etna, nella narrazione fatta da Prometeo de’ beneficii da lui procurati agli uomini e nelle veramente tragiche querele d’Io. Insomma il leggitore intelligente, oltre all’eleganza e alla maestà dello stile, ammirerà nelle di lui nobili imitazioni ora più ora meno libere ugual senno e buon gusto in quanto altera e in quanto annoda con nuovo ordine.

Quanto al di lui Cristo, ben possiamo con sicurezza e compiacenza affermare che per sì maestosa e grave tragedia debbe in tal Cosentino raffigurarsi un Sofocle Cristiano, sì savio egli si dimostra nell’economia dell’azione, e sì grande insieme, patetico e naturale nelle dipinture de’ caratteri e degli affetti, e nello stile sì sublime. {p. 25}Meriterebbe un lungo estratto, ma cel vieta l’ampiezza del nostro lavoro. Rechiamone un solo frammento del racconto eccellente della morte di Cristo fatto da Gioseffo a Nicodemo:

Jamque artubus se Christus e pallentibus
Solvebat, inque extrema vexatus diu
Tendebat, imo corde cum gemitum ciens
Erexit oculos morte tabentes polo,
Summamque acuto verberans auram sono,
O rector, inquit, orbis omnipotens Deus,
Cur me tuum relinquis? Afflicta excidit
Ex artubus vis omnis. O tandem, Pater,
Mortalibus me liberum vinclis cape.
Vix haec; et ecce pectori accidit caput;
Lethique durus lumina obsedit sopor.
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Tum de repente magnus exoritur fragor,
Tellusque ab imis mota sedibus diu
Immugiit: vulsisque nutarunt jugis
Montes: hiulcus saxa quatiebat tremor.
Sol et repente (mira res) moriens velut
Suam tenebris obruit densis facem:
Terrisque dirus noctis incubuit nigror.

Anche il lamento sommamente patetico di Maria sopra la crudeltà Ebrea meriterebbe di trascriversi. Non cede questa tragedia in regolarità di condotta alle migliori; e in vivacità e verità di colorito ne’ caratteri e nelle passioni, e in grandezza e sobrietà di stile va innanzi a quasi tutte le tragedie di Seneca.

Ma per vedere Aristofane ritratto con tutte le sue grazie comiche senza che si rimanga offeso dall’oscenità tutta sua {p. 27}bisogna consultare l’eleganti traduzioni fatte dal prelato Cosentino delle Nubi e del Pluto, le più felici commedie di quel gran comico. Noi esortiamo la gioventù a leggerle, colla certezza che il travaglio di confrontarle coll’originale e colle languide ineleganti traduzioni de’ fratelli Rosetini di Prat’alboino, verrà compensato con usura dal diletto. In somma il vescovo Martirano quasi ne’ primi lustri del secolo colle otto sue tragedie e colle due commedie eseguì egli solo con ottima riuscita quanto a fare imprese in tutto il secolo l’Italia tutta, cioè fe rinascere con decenza e maestria la maggior parte del teatro Greco. Dovrà tutto ciò coprirsi d’ingrato obblio, perchè più di un secolo dopo surse Racine in Francia? Sono pur degni di compatimento certi critici e ragionatori di ultima moda! Passiamo alle tragedie Italiane.

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CAPO II.

Tragedie Italiane del XVI secolo. §

La prima tragedia scritta nel nostro regolare idioma fu la Sofonisba di Galeotto del Carretto de’ marchesi di Savona nato in Casal Monferrato nel secolo XV. L’autore nel 1502 la presentò ad Isabella da Este Gonzaga marchesa di Mantova; ed alcuni anni dopo si pubblicò in Venezia insieme con una commedia del medesimo Carretto intitolata Palazzo e Tempio d’Amore. La tragedia è verseggiata in ottava rima ed ha qualche debolezza e varii difetti; ma non è indegna di esser chiamata tragedia; nè sò donde si ricavasse il compilatore del Parnasso Spagnuolo la rara scoperta che questa Sofonisba fosse stata una spezie di dialogo allegoricoa. Chiama egli {p. 29}dialogo allegorico un’ azione eroica tragica tra’ personaggi istorici, palpabili, reali, Sofonisba, Siface, Masinissa? Egli ha dunque parlato di tal componimento per volgar tradizione ovvero secondo che gliel dipinse la propria poetica immaginazione. Scrisse il Carretto tre altre commedie, delle quali una s’intitolò i Sei Contenti; ma esse non videro la luce, per esserne forse gli eredi stati distolti da tanti altri drammi di maggior pregio che di poi apparvero. Per la stessa ragione meritano poco di rammemorarsì alcuni componimenti del principio del secolo descritti dal Quadrio nel tomo I. E che giova trattenersi sul Filolauro di Bernardo Filostrato, che l’istesso Quadrio chiama atto tragico, benchè nella Drammaturgia del l’Allacci si dica solacciosa commedia? Essa fu impressa nel 1520 in Bologna senza nome di autore, e contiene un atto solo senza distinzione di scene con vario metro, ed in linguaggio per lo più lombardo. Tali cose traggonsi dalle {p. 30}tenebre de’ secoli rozzi quando vogliono scoprirsi i principii delle arti; ma quando queste già vanno altere di grandi artisti, lasciansi nella propria oscurità gli operarii volgari. E chi si perde ad osservare una casuccia mal costrutta di loto e di paglia dove sorgono marmorei edificii realia? Volgiamoci dunque alle ricchezze che ci appresta un secolo così fecondo.

La Sofonisba di Giovan Giorgio Trissino patrizío Vicentino nato nel 1478 e morto in Roma nel 1550, assai più famosa della precedente corse indi a non molto fra’ letterati e riscosse gli applausi universali. L’autore così versato nelle greche lettere nella dedicataria a Carlo V della sua Italia liberata, poema ricco di varie bellezze Omeriche, afferma di aver nel {p. 31}comporre la sua tragedia tolto Sofocle per esemplare. Fu dedicata a Leone X e rappresentata magnificamente nel 1514 in Vicenza ed anche in Roma, ma s’impresse la prima volta nel 1524. Non ha divisione di scene e di atti; ha il Coro alla greca, ed è per la maggior parte composta in versi sciolti ed ha qualche squarcio con rime rare e libere, anzi vi si osserva talvolta un troppo rigoroso accordamento di consonanze alla maniera delle italiche canzoni liriche. La narrazione di Sofonisba ad Erminia incominciata dalla remota fondazione di Cartagine, lo studio di calcare con soverchia superstizione le vestigia de’ Greci, alcune ciarle, certe comparazioni liriche, lo stile che non si eleva a quel punto di sublime che fa grandeggiar la tragedia, sono difetti con abbondante usura compensati dalla novità dell’argomento che l’autore non dovè nè alla Grecia nè al Lazioa, dalla regolarità ed economia {p. 32}dell’azione, dal bellissimo carattere di Sofonisba che interessa dovunque appare (superiore in ciò di gran lunga a quella di Pietro Cornelio venuta tanto più tardi) e da un patetico animato da’ bei colori della natura che sempre trionfa nella vivace semplicità, quella semplicità che attinse il Trissisino da’ greci fonti. Un cuore non indurito da’ pregiudizii verserà pietose lagrime al racconto del veleno preso dalla regina, ai di lui discorsi, alla compassionevole contesa con Erminia, ed al quadro delle donne affollate intorno a Sofonisba che trapassa, di Erminia che la sostiene e del figliuolo che {p. 33}bacia la madre, la quale inutilmente si sforza per vederlo l’ultima volta sul punto di spirare. Veggasi nel seguente frammento il colorito di questa scena lagrimevole:

Sof.

A che piangete? Non sapete ancora
Che ciò che nasce a morte si destina?

Cor.

Ahimè! che questa è pur troppo per tempo;
Che ancor non siete nel vigesimo anno!

Sof.

Il bene esser non può troppo per tempo.

Erm.

Che duro bene è quel che ci distrugge!

Sof.

Accostatevi a me, voglio appoggiarmi,
Ch’io mi sento mancare, e già la notte
Tenebrosa ne vien negli occhi miei.

Erm.

Appoggiatevi pur sopra il mio petto.

Sof.

O fi glio mio, tu non avrai più madre;
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Ella già se ne va, statti con Dio.

Erm.

Oimè! che cosa dolorosa ascolto!
Non ci lasciate ancor, non ci lasciate.

Sof.

I’ non posso far altro, e sono in via.

Erm.

Alzate il viso a questo che vi bacia.

Cor.

Riguardatelo un poco.

Sof.

Aime! non posso.

Cor.

Dio vi raccolga in pace.

Sof.

Io vado… addio.

Non in Italia soltanto si accolse e si rappresentò questa tragedia con ammirazione; in Francia ancora sin dal XVI secolo si tradusse e s’imitò molte volte; di tal maniera che la Sofonisba oggi serbasi nel teatro tragico come un tesoro comune di sicuro evento al pari delle Ifigenie, delle Fedre, delle Medeea. La tradusse in prosa con {p. 35}i cori in versi Mellin de Saint Gelais, ed in versi Claudio Mermet nel medesimo secolo in cui si compose. Monchretien, Montreux, Mairet e P. Corneille la tradussero e imitarono nel XVII: l’ha tradotta Millet, e l’ha imitata lo stesso Voltaìre nel XVIIIa.

{p. 36}Adunque la prima ìstruzione che ebbero i Francesi di un dramma in cui venissero osservate le regole delle tre unità, debbono riconoscerla dalla Sofonisba del Trissino. Si vedrà in appresso quante altre produzioni sceniche italiane si tradussero e s’imitarono in Francia. Per la qual cosa non si capisce perchè l’avvocato Lingueta abbia avanzato che i Francesi, quanto al teatro, non hanno dall’Italia ricevuto quasi verun favore, e che la prima idea delle bellezze che essi hanno profuso sul teatro e ne’ loro scritti, l’abbiano presa da’ buoni {p. 37}autori Castigliani. Accordiamo di buon grado quel che egli aggiugne, cioè che il Dante, l’Ariosto e il Tasso stesso non hanno fatti allievi alcuni tra’ Francesi (senza andarne rintracciando il motivo che egli stesso con altri suoi compatriotti troverebbe poco glorioso per la testa e per la lingua francese): e che Lope de Vega, il Castro e il Calderòn siensi più facilmente prestati alla loro imitazione. Ma quanto alla prima idea delle bellezze teatrali, la storia contraddice all’asserzione del Linguet che brucia que’ grani d’incenso ad onore degli Spagnuoli. Piacemi che egli a nome de’ Francesi si mostri grato a quella ingegnosa nazione e che ripeta quel che altre volte ed assai prima di lui osservarono i Francesi stessi, gli Spagnuoli e gl’Italiani; ma è giusto forse che per confessare un debito voglia negarne un altro?

Giovanni Rucellai autore del vaghissimo poemetto delle Api, cugino germano del pontefice Leone X, nato in {p. 38}Firenze nel 1475 e morto verso il 1526, corse poco dopo del Trissino il tragico aringo colla Rosmunda che fece recitare nel suo giardino in Firenze alla presenza di quel pontefice nel 1516, e che si stampò poi in Siena nel 1525. In essa prese ad imitare l’Ecuba di Euripide; e par che avesse voluto renderne lo stile più magnifico della Sofonisba. Il signor Roscoe nella Vita di Lorenzo Medici osserva che il Rucellai preserva Rosmunda da i delitti di prostituzione e di assassinioa. Sulle tracce poi del l’Ifigenia in Tauri del medesimo tragico Greco compose il Rucellai un’ altra tragedia intitolata Oreste, dalla quale (se allora si fosse pubblicata) sarebbe rimasta oscurata la Rosmunda. Ma l’Oreste non si diede alla luce se non dopo due secoli per opera del marchese Maffei, che la fece imprimere nel 1723 sull’esemplare {p. 39}posseduto prima dal Magliabecchi e poi dal cavaliere Anton Francesco Marmia. I caratteri vi sono degnamente sostenuti e le passioni dipinte con verità. L’autore non perde veruna delle situazioni interessanti del grecò originale e tocca collo stile la nota sublime assai più del Trissino. Dall’altro canto mostra talvolta qualche affettazione nell’elevarsi, corre dietro alle forme troppo poetiche e alle parole troppo latine, come osservò anche il conte Pietro da Calepio, e non va esente dal cicaleccio, ciò che si vede sin dalla prima scena nella narrazione che fa Oreste delle proprie avventure incominciando dalla guerra di Troja. V’ è di più; egli le narra all’amico Pilade cui dovevano essere altrettanto note che a lui stesso; egli le narra ancora intempestivamente nel metter piede nella terra de’ barbari. Ma per tali nei si {p. 40}priveranno i leggitori del piacere che recano tanti bei passi pieni di eleganza e vaghezza sparsi nelle tragedie del Rucellai? Uno storico della letteratura universale lascerà seppellirgli nell’obblio, non vedendo nell’Oreste che languidezza ed imitazione del greco? Quanto a me esorto la gioventù ad osservare con qual felicità quest’illustre autore dipinga il prospetto del tempio e le teste, i busti ed il monte di ossa degli uccisi che vi biancheggia; la bellezza del racconto che fa Ifigenia della propria sventura quando fu in procinto di essere sacrificata in Aulide; quello del coro della pugna de’ due Greci co’ pastori; quello d’Oreste della morte di Agamennone. Molti squarci della generosa patetica contesa de’ due amici meriterebbero di esser trascritti; ma ci contenteremo delle seguenti parole di Pilade:

E pensi or ch’io ti lasci? e puoi pensarlo?
Dove ti lascio! donde son partito!
Chi lascio! a cui vo io? che porto? ahi lasso!
{p. 41}
Porto la morte del suo re; a cui?
Al miser popol di Micene e d’Argo.
Porto la morte del mio Oreste; a cui?
A Strofio; e quella del fratello; a cui?
A le sorelle triste e sventurate;
Le quai trepide or forse e spaventose
Del tuo ritorno stanno inginocchioni,
E raddoppian le mani e i voti al cielo.
E queste fian le già sudate palme,
Gli aspettati trionfi e la vittoria
Del simulacro che portiamo in Argo?
Con che volto potrò veder mio padre?
Con che occhi guardar mai potrò Elettra
Sorella a te, a me dolce consorte,
Senza te, senza me, senza il cuor mio?

{p. 42}E ciò fu poco quando l’Europa tutta più non conosceva la drammatica? quando non si sapeva la maniera di farla risorgere? poco meno di due secoli prima di Cornelio e Racine?

Dietro la scorta de’ Greci corifei e coll’esempio del Trissino e del Rucellai seguirono pure le insegne di Melpomene molti altri celebri letterati. Ludovico Martelli illustre poeta Fiorentino morto in Salerno nell’acerba età di anni ventotto secondo il Crescimbeni nel 1533, e secondo il Rolli ed altri con più probabilità mancato in Napoli nel 1527, parlandosi di lui come già morto in una lettera di Claudio Tolomei scritta a’ 7 di aprile del 1531a, compose una tragedia impressa indi colle altre sue opere in Firenze nel 1548, ed oggi registrata nel tomo III del Teatro Italiano antico, stampata in Livorno sotto la data di Londra nel 1787, nella quale sí {p. 43}allontanò dagli argomenti greci, seguendo in ciò il Trissino, e non il Rucellai. Egli trasse dalla storia de’ re di Roma l’eccesso della spietata Tullia per esporlo sulle scene. La purezza ed eleganza dello stile non farà tollerare il carattere estremamente scellerato del protagonista. Tullia non solo calpesta le più sacre leggi della natura ed aspira al regno paterno per immoderata ambizione, ma peggiorandosi nella tragedia la storia stessa, ella spiega la più detestabile avversione contro de’ genitori rinfacciando loro de’ misfatti, ed eccita contro di se tutta l’indignazione di chi legge. Il coro continuo poi che vi si adopra alla greca, disdicevole manifestamente ad un’ azione Romana, obbliga il poeta ad incoerenze, come è quella che L. Tarquinio gelosissimo del proprio secreto si scopra alla moglie alla presenza di un coro di donne che sono seco. Pera. {p. 44}simili riflessioni a noi sembra questa tragedia del Martelli una delle nostre più difettose, benchè il Gravina l’abbia numerata tralle migliori del cinquencento.

Seguirono i greci esemplari piuttosto traducendo che imitando l’Alamanni, l’Anguillara ed il Giustiniano. Luigi Alamanni celebre autore dell’elegantissimo poema della Coltivazione recò in italiano, ritenendone il titolo, l’Antigone di Sofocle, che si stampò in Venezia nel 1532. Per testimonio degl’intelligenti non cede in eleganza alle tragedie del Trissino e del Rucellai e le vince per gravità di stile. Giraldi Cintio sa onorata menzione dell’Antigone italiana noverando l’autore tra’ benemeriti della toscana lingua Bembo, Trissino, Molza, Tolomeia.

E quel che ’nfino oltre le ripid’ Alpi
Da Tebe in toscano abito tradusse
{p. 45}
La pietosa soror di Polinice;
I’ dico l’Alamannia.

Il Fontanini la colloca tralle migliori tragedie italiane. L’Edipo, la più pregiata tragedia di Sofocle, fu tradotto prima da Andrea Anguillara indi da Orfatto Giustiniano. Dell’Edipo dell’Anguillara impresso e rappresentato in Padova nel 1556 parla in una lettera citata dal Tiraboschi Girolamo Negri, ma con disprezzo dando all’Anguillara il nome di poeta plebeo. Giason di Nores nella sua Poetica riprende ancora come viziosi gli episodii di quest’Edipo dell’Anguillara. Non per tanto sembra che i contemporanei avessero vendicata l’opera e l’autore, essendosene con somma pompa ed applauso ripetuta la {p. 46}rappresentazione nel 1565 in Vicenza in un teatro di legno costruito espressamente nel palagio della Ragione dal celebre Palladio. Noi stimiamo col conte da Calepio assai più difettoso l’Edipo del l’Anguillara che de’ tre pur difettosi Edipi francesi di Corneille, di Voltaire e del p. Folard; e col Nores troviamo riprensibile l’episodio della discordia de’ figliuoli di Edipo, per cui si rende la favola doppia e si commette un anacronismo totalmente inutile. Fu assai migliore la traduzione fedele che fece di tal tragedia il veneziano Giustiniano. Per la nobiltà e l’eleganza dello stile essa gareggìa colle più celebri tragedie di quel tempo. Si rappresentò nel 1585 con sontuosissimo apparato nel famoso Teatro Olimpico di Vicenza opera del prelodato Palladio; la quale per la morte di questo insigne architetto seguita nel 1586 si terminò dallo Scamozzi. La parte di Edipo che si accieca, si sostenne egregiamente dal famoso Luigi Groto detto il Cieco d’Adria tale divenuto {p. 47}otto giorni dopo nato, il quale a quest’oggetto recossi in Vicenza nel carnovale del 1585, e morì poscia in Venezia nella fine dell’anno stesso. Questo maraviglioso ingegno scrisse anch’egli due tragedie, la Dalìda e l’Adriana; ma esse colle altre di lui produzioni drammatiche non sono le migliori di quel tempo, specialmente per lo stile talvolta troppo ricercato e più proprio di certi anni del seguente secolo che del cinquecentoa.

{p. 48}Sperone Speroni degli Alvarotti dottissimo padovano e l’oratore più eloquente della sua età, morto di anni ottantotto nel 1588, compose la Canace tragedia pubblicata la prima volta in Venezia nel 1546, che dovea rappresentarsi in Padova l’anno 1542 dagli Accademici infiammati, de’ quali era principe, ma ne fu interrotto il disegno per la morte seguita di Angelo Beolco detto il Ruzzante che dovea recitarvi. L’autore sostenne per essa una gran contesa con varii letterati; e sebbene egli si fosse gagliardemente difeso, volle riformarla e toglierne fralle altre cose le rime e i versi di cinque sillabe, ed all’ombra da prima introdotta nel prologo sostituire il personaggio di Venere. Vide questo gran letterato che il veleno de’ tragici componimenti de’ suoi contemporanei consisteva nella noja e languidezza dello stile, e pensò rimediarvi ornando ed infiorando la sua Canace con certe studiate espressioni che nuocono alla gravità tragica. E pure queste medesime {p. 49}servirono di modello agli autori dell’Aminta e del Pastor fido, e parvero più convenienti alla tenerezza di quelle celebri pastorali. Ma le forti perturbate passioni della Canace esigevano stile più grave, e la favella della natura più che dell’arte manifesta. Questo, e l’introduzione di molti personaggi subalterni dipinti scioperatamente, e non poche scene vuote ed oziose e slogate, ed i racconti di cose che meglio avrebbero animata la favola poste alla vista ed in azione, ed il non essersi l’autore approfittato de’ rimorsi che insorger doveano in Canace e Macareo ne’ loro mortali pericoli; questi, dico, mi sembrano i veri difetti sostanziali della Canace; e pur questi difetti appunto, per quanto mi ricorda, sfuggirono a’ censori contemporanei che in essa si perdettero in criticar le rime, i versi corti e cotali altre pedanterie. Ma la dipintura nell’atto V di Canace sul letto funesto col bambino allato e col pugnale alla mano dono di Eolo suo padre, e le di lei parole {p. 50}nel l’atto di trafiggersi sperando di sopravvivere nella memoria di Macareo, e l’espressioni indirizzate al figliuolino, banno una verità, un patetico, un interesse sì vivo che penetra ne’ cuori e potentemente commuove e perturba.

Giambatista Giraldi Cintio nato in Ferrara nel 1504 e morto nel 1573 trasse da’ suoi medesimi Ecatommiti più argomenti per la scena tragica, e ci lasciò nove tragedie, Orbecche Altile, Didone, Antivalomeni, Cleopatra, Arenopìa, Eufimia, Selene, Epitia. La prima che scrisse, a quel che egli dice, in meno di due mesi, e che si stima la migliore, si rappresentò alla presenza del duca Ercole II nel 1541 in casa dell’autore, avendone apparecchiata la magnifica scena Girolamo Maria Contugo suo amico, il quale l’avea stimolato a comporla. Si rappresentò ancora alla presenza de’ cardinali Ravenna e Salviati. Sembra però che alla prima rappresentazione, e non a questa seconda, si fosse trovato il prelodato Luigi Alamanni, facendo {p. 51}il Giraldi dire alla Tragedia,

I’ dico l’Alamanni, che mi vide,
Per mio raro destìno, uscire in scena.

Sebastiano Clarignano di Montefalco, il quale, dice il Giraldi nella dedicatoria, si puote sicuramente dire il Roscio e l’Esopo de’ nostri tempi, ne fu uno de’ principali attori. Giulio Ponzio Ponzoni vi rappresentò la parte di Oronte, e un certo giovine chiamato Flaminio quella di Orbecche. Dovea questo medesimo Flaminio rappresentare anche nell’Altile da recitarsi per ordine del duca nell’aprile del 1543 alla venuta di Paolo III; ma nel giorno destinato alla rappresentazione quest’infelice Flaminio rimase disgraziatamente ucciso. L’Orbecche s’impresse in Venezia nel 1543, nel 1551, e poi con tutte le altre nel 1583. Come nella Sofonisba la compassione è posta nel suo maggior lume, nel l’Orbecche si eccita il terrore co’ più vivi sanguinosi trasporti della crudeltà. Sulmone re di Persia gareggia colle atrocità degli Atrei, ed {p. 52}Orbecche che svena il padre, và del parí coll’Elettre matricide. Un matrimonio occulto, contratto da questa sua figliuola con un valoroso avventuriere di oscuri natali, aguzza la spietatezza naturale di Sulmone, il quale sotto la fede avuto in sua balia il genero e i due di lui figliuolini, di propria mano gli trucida e ne presenta indi le mani e le teste alla figliuola, alla cui vista tratta ella da un eccesso di dolore e di disperazione trafigge il padre e se stessa. Ha servito di modello a questa tragedia il Tieste di Seneca. Nemesi colle Furie e l’Ombra di Selina madre di Orbecche formano l’atto I, come nel Tieste l’Ombra di Tantalo e Megera. L’atto IV nel quale Atreo ammazza i nipoti, e delle loro membra prepara al fratello le vivande scellerate, ha prestato molti colori alla terribile carnificina del IV atto dell’Orbecche. Dalla descrizione del bosco secreto nella reggìa di Atreo, Arcana in imo regia recessu patet etc., è imitata quella del luogo ove segue la strage di Oronte e de’ figliuoli.

{p. 53}
Giace nel fondo di quest’alta torre
In parte sì solinga e sì risposta
Che non vi giunge mai raggio di sole,
Un luogo destinato a’ sacrifici,
Che soglion farsi da’ re nostri all’ombre,
A Proserpina irata, al fier Plutone,
Ove non pur la tenebrosa notte,
Ma il più orribile orrore ha la sua sede./

Il Giraldi non pertanto si è guardato dall’affettazione di certi squarci della tragedia latina e da qualche ornamento ridondante. È divisa l’Orbecche in atti e scene e scritta in versi sciolti, se non che, come in quella del Trissino, havvi più d’un passo rimato con troppo studiato accordamento. Il Calepìo conta quasi tutte le tragedìe del Giraldi e specialmente l’Orbecche, fralle Italiane che conseguiscono l’ottimo fine della tragedia di purgar con piacevolezza lo sregolamento delle {p. 54}passioni per mezzo della compassione o del terrore. Ed in fatti a suo tempo si accolse l’Orbecche con molto applauso e destò in tutti cotal compassione che niuno degli ascoltatori, potè contenere il pianto. Oggi stimo che farebbe lo stesso effetto in una città colta che ha assaporato il piacer delle lagrime del teatro, purchè se ne troncassero acconciamente alcune ciance della nutrice, l’espressioni di Oronte appassionato nell’atto II che si trattiene per molti versi su i casi del nocchiero, la maggior parte della lunga scena 2 dell’atto III, quando Malecche esorta Sulmone alla pietà, e i lamenti del Coro delle donne dopo che Orbecche si è trafitta.

Pietro Aretino, la cui penna in un tempo non di tenebre ma di luce, si rendette, non so perchè, fin anche a’ più gran principi formidabile, uomo, ad onta della sua mercenaria maldicenza, di qualche talento, sì, ma di volgare erudizione, di poca dottrina e di niuno onore, contribuì non poco {p. 55}alle glorie della tragedia italiana. Pose prima di ogni altro in iscena l’avventura degli Orazii (che nè anche è argomento greco) ed ebbe la sorte di coloro che tentando un mare sconosciuto hanno il vanto di scoprire e vincere senza arricchirsi e trionfare. Scrisse dunque l’Orazia che dedicata al pontefice Paolo III sin dal l’anno 1546, s’impresse in Venezia pel Giolito nel 1549. La Fama vi fa il prologo diffondendosi nelle lodi del pontefice, de’ Farnesi e di altri principi italiani, ed anche di Carlo V; ed è questo forse il primo esempio de’ prologhi destinati da poi ad onorare i principi, ed il Calepio osserva a ragione che Pietro Cornelio s’inganna nel dire che sieno invenzioni del suo secolo. Un coro di virtù in ciascun atto per tramezzo vi recita alcuni versi. Si espone nell’atto I la pugna stabilita tra gli Orazii e Curiazii per decidere il fato di Alba e di Roma; e Celia Orazia moglie di un Curiazio è oppressa dall’immagine di una pugna che debbe in ogni {p. 56}evento riuscire per lei funesta. Nel II Tazio venuto dal campo racconta a Publio Orazio l’esito della pugna, nella quale Roma ha trionfato, ed egli ha perduti due figli; dal qual racconto è abbattuta la misera Orazia per la notizia della morte dello sposo. Arriva nel III un servo che appende al tempio di Minerva le spoglie degli estinti Curiazii. Celia in esse riconosce la veste del marito traforata e sanguinosa, e trasportata dal dolore inveisce contro il fratello uccisore, indi vedendolo venire circondato dal popolo e acclamato, gli si presenta colla chioma scarmigliata e con tutti i segni del più vivo dolore. Orazio indignato la trafigge. Nell’arto IV Tullo destina i Duumviri per giudicare Orazio, i quali lo condannano alla morte, contraddicendo invano il di lui afflitto padre che appella al Popolo. Nel V il Popolo libera il reo dalla pena di morte, ma vuole che soggiaccia all’infamia del giogo. Sdegna il magnanimo di sottoporvisi: Publio prega: il Popolo è {p. 57}inesorabile: si ascolta una voce in aria che comanda ad Orazio di ubbidire. La regolarità di questa tragedia è manifesta; gli affetti sono ben maneggiati; i caratteri dipinti con uguaglianza, verità e decenza; il fine tragico di commuovere colla compassione e col timore egregiamente conseguito. Increscerà in essa in primo luogo il titolo di Orazia che dimostra esser essa il principal personaggio, e che morendo prima di terminar l’atto III, abbandona ad un altro l’interesse che era tutto per lei. Orazio le succede; e l’interesse in tutta l’azione trovasi diviso tra due personaggi. Non si unirebbe in un solo se il titolo di essa fosse l’Orazio? Parranno poi piuttosto foglie che ingombrano che fregi che abbelliscono l’azione alcune cose episodiche sparse quà e là, di che può servire di esempio la dipintura di un cavallo a cui si rassomiglia la gioventù, distesa in dodici versi, che incomincia.

La gioventù furor della natura.

Si troverà poi soverchio ardita e {p. 58}viziosa qualche espressione, come questa del feciale nell’atto I,

Fattor degli astri larghi e degli avari
Che nell’empiree logge affiggi il trono
Del volubil collegio de’ Pianeti;

e quest’altra del II:

Gli abbracciamenti e i baci sono i frutti
Che le viscere, il cor, gli spirti e l’alma
Colgono con le mani affettuose
Negli orti de la lor benivolenza;

e questa del medesimo atto

Orazio vincitor per la mia lingua
Con la bocca del cor ti bacia in fronte,

e quest’altra del V,

                             e però vuoi
Piuttosto al collo del tuo corpo un laccio,
Che la corda a la gola del tuo nome.

Ma in generale lo stile è puro, sobrio, e più di una fiata grave e vigoroso, e {p. 59}sparso di utili massime or sulla legislazione or sul governo or sulla religione. Dice il sacerdote:

Il valore de l’asta e de la spada
E il timore de’ riti e de le pene
Non tiene in alto le cittadi magne
Come la riverenza e l’osservanza
De la religione e degl’iddii.

Dice Publio:

Nè cupidigia d’uom, nè ardir di stella
Può ciglio alzar dove pon mente Iddio.

Sorda e cieca è la legge, dicono i Duumviri nell’atto IV; e bene, dice Publio, si ponisca il mio figliuolo,

Se la sorella ha de la vita spenta,

Io stesso, se ciò fosse, il punirei; e i Duumviri ripigliano,

E che ha fatto il furioso dunque?

E Publio,

Estinte quelle lagrime insolenti
Che aveano invidia a la Romana gloria ;

risposta sublime in bocca di un padre. Quanto alla passione di Celia da per {p. 60}tutto ben colorita presenta spesso espressioni giuste, patetiche e naturali. Perdendosi l’impresa, ella dice, ognuno in Roma altro non perde che la libertà,

Ma io, io, se Roma vince, perdo
Il marito dolcissimo e i cognati.
E vincendo Alba, qual vincer potria,
Oltre il dominio de la libertate,
De i fratelli privata mi rimango.

Soprattutto è da vedersi la di lei dipintura dopo udita la morte dello sposo e alla vista delle spoglie di lui insanguinate, e quando si presenta al fratello perduta, semiviva, la chioma sparsa ed il volto bagnato di lagrime. Un cuore veramente Romano transparisce in quanto fa e dice Publio, ma quando è in procinto di perdere il valoroso Orazio, l’unico figliuolo che gli rimane, allora mostra tutto il padre, implorando la pietà del Popolo. Lo spirito d’ingenuità e di gratitudine che mosse prima il Cornelio, indi il Linguet a confessare il debito contratto con {p. 61}Guillèn de Castro pel Cid, non avrebbe dovuto stimolarli ugualmente a riconoscere nell’Orazia dell’Aretino gli Orazii del padre del Teatro Francese, componimento di gran lunga superiore al Cid? Non l’avea l’Italiano preceduto di un secolo intero nell’arricchire la scena tragica, e non infelicemente, di sì bell’argomento non mai prima tentato nè dagli antichi nè da’ moderni? Vedesi veramente negli Orazii più artifizio nella condotta, e più forza e delicatezza e vivacità ne’ caratteri e nelle passioni; ma ben si scorge ancora nell’Orazia più giudizio nel tener sempre l’occhio allo scopo principale della tragedia di commuovere sino al fine pel timore e per la compassione; e si comprende che se il Corneille l’avesse anche in ciò imitato, avrebbe fatto corrispondere agli ultimi atti della sua tragedia che riescono freddi ed inutili, a i primi pieni di calore, d’interesse e di passionea.

{p. 62}Lodovico Dolce morto d’anni sessanta in Venezia nel 1568 vi pubblicò più di una volta varie tragedie tratte da’ Greci e da’ Latini. Nel 1566 se ne fece una edizione che conteneva Tieste, Giocasta, Didone, Medea, Ifigenia, Ecuba. La sua Marianna si diede alla luce nel 1565, e fu rappresentata con indicibile applauso in quella città nel palazzo di Sebastiano Erizzo ad uno scelto uditorio di più di trecento gentiluomini; e quando volle ripetersi in Ferrara nel palazzo del duca, tale fu il concorso che non potè recitarsi. Questa frequenza delle rappresentazioni tragiche, questi applausi reiterati, quest’avidità di ascoltarle, indicano per avventura la mancanza di gusto per la tragedia che qualche trascrittor di giornali stranieri volle imputare agl’Italiani? Indicano ancora la languidezza e la noja perpetua a cagione delle greche imitazioni rimproverata ai componimenti tragici del cinquecento? Or chi non ignora la storia teatrale, potrà mai senza {p. 63}infastidirsene leggere gli arzigogoli de’ sedicenti filosofi e critici declamatori di oggidì i quali sostengono sempre opinioni singolari mal digerite contraddette dal fatto e dall’evidenza?

Assai di buono troveremmo esaminando la Progne di Girolamo Parabosco pubblicata nel 1548, la Cleopatra, la Scilla e la Romilda di Cesare de’ Cesari uscite alla luce nel 1550 e 1551, la Cleopatra del napoletano Alessandro Spinello stampata in Venezia nel 1550, la Medea del Galladei impressa nel 1558, l’Altea di Niccolò Carbone comparsa in Napoli nel 1559, la Fedra di Francesco Bozza uscita nel 1578 oscurata poscia di gran lunga da quella del secolo seguente del Racine, e l’Atamanta di Girolamo Zoppio data al pubblico nel 1579 di cui nell’epistola 50 del IV libro fa un bell’elogio il Mureto.

Potrebbe anche pascere alquanto la curiosità de’ leggitori la tragedia di Angelo Leonico intitolata il Soldato impressa in Venezia per Comin del {p. 64}Trino nel 1550 scritta in versi sciolti. L’azione passa tra personaggi particolari; privati ne sono gl’interessi; ed in quel tempo non parvero degni della tragedia reale. In fatti nel parlarne il Crescimbeni nel tomo I, dice di non meritare il nome di tragedia. Ne facciamo noi menzione perchè dee in essa ravvisarsi il primo esempio moderno di una tragedia cittadina, che i nostri scrittori nè seguirono nè pregiarono, e che più tardi Inglesi, Francesi e Tedeschi hanno tanto nel secolo XVIII coltivata, e che ha trovato un apologista infervorato nell’esgesuita sig. Giovanni Andres. Il Fontanini stimò inedita la tragedia del Leonico, ma ne fu ripreso da Apostolo Zeno. L’istesso Fontanini, e colui che aumentò le Drammaturgia dell’Allacci continuandola sino al 1765, caddero in un altro errore registrando il mentovato componimento il Soldato e la Daria come due diverse tragedie. Ma il lodato Zeno avverte che la Daria è un personaggio principale della tragedia del {p. 65}Soldato, e perciò che il Soldato e la Daria sono una sola tragedia, e non due.

Quattro tragedie pubblicò Antonio Cavallerino modanese nel 1582 e 1583, delle quali parlano l’Allacci ed Apostolo Zeno nelle Annotazioni all’Eloquenza Italiana. Sono: Telefonte, Rosimunda, Ino, il Conte di Modena, la quale non contiene certamente argomento greco, ma nazionale. Si crede che ne componesse sino a venti, tralle quali una del caso di Meleagro, la quale (dice il Manfredi nelle sue Lettere)mi diceste che sarebbe l’idea della tragedia toscanaa. Sappiamo dal cavaliere Girolamo Tiraboschi che il Cavallerino tradusse anche il Cristo paziente attribuito a san Gregorio Nazianzeno. Il di lui Telefonte ha il pregio della scelta del più bel soggetto tragico dell’antichità, cioè dell’avventure {p. 66}del Cresfonte di Euripide che il tempo ci ha invidiato. Il Cavallerino ha la gloria di averlo prima di ogni altro recato sulle scene moderne.

L’immortale Torquato Tasso colla tragedia del Torrismondo si elevò sopra la maggior parte de’ contemporanei, ed a pochissimi di quel secolo lasciò la gloria di appressarglisi. Nel 1587 s’impresse in Bergamo, e dall’autore si dedicò a don Vincenzo Gonzaga duca di Mantova e di Monferrato. Ma alquanti anni prima comparve un abbozzo di questa tragedia nella II parte delle Rime e Prose di Torquato Tasso raccolte per Aldo il giovine nel 1582. Nell’edizione delle di lui opere fatta in Venezia da Stefano Monti nel 1735 questo abbozzo vien chiamato tragedia non finita, e contiene un atto primo senza coro di quattro scene, e due altre di un secondo atto, le quali tutte si distribuirono poi nel primo e secondo atto della tragedia compiuta. I passi più belli della non finita si sono ritenuti nella perfezionata; {p. 67}alcuni altri si veggono nell’ultima migliorati; si osserva non pertanto che alcuna volta trovansi i concetti espressi nell’imperfetta con maggior naturalezza. Eccone un esempio. Torrismondo nella perfetta oppresso da rimorsi, nel narrare al consigliere i suoi passati casi, e l’essersi imbarcato con Alvida per ritornare ad Arana, e l’aver per una tempesta preso terra in un seno sicuro tra’ curvi fianchi di un monte, descrive minutamente con mille poetiche immagini questa tempesta. Era però più proprio del genere drammatico e dello stato di Torrismondo il sacrificar al vero quella copiosa descrizione come prima avea fatto. Galealto nella non finita l’avea con giudizio accennata:

Quando ecco la fortuna e il cielo avverso
Con amor congiurati, un fiero turbo
Mosser repente, il qual grandine e pioggia
Portando, e cieche tenebre sol miste
{p. 68}
D’incerta luce e di baleni orrendi
Volser sossopra l’onde, e per l’immenso
Grembo del mar le navi mie disperse,
E quella ov’era la donzella et io
Scevra di tutte l’altre a terra spinse ecc.

Torrismondo è un immagine di Edipo. Caduto in un errore per debolezza, trovasi per disavventura involto in un delitto. Offende la fede data all’amico Germondo nell’effettuare con Alvida le nozze che avea contratte solo in apparenza; ma conosciutala poscia per sua sorella, si giudica contaminato da una scelleraggine, cagiona la morte di Alvida col narrarglielo, e si ammazza. L’errore che dà motivo a tanti disastri (ottimamente affermò il dotto Scipione Maffei nel II tomo del Teatro Italiano)non potendo essere più umano, nè più compassionevole, non saprebbe incontrar meglio l’idea dell’arte. Anche il conte di Calepio ottimo giudice in simili {p. 69}materie ravvisa in Torrismondo un carattere compiutamente tragico, e degno della perfetta tragedia che va felicemente al vero suo fine di purgar con diletto le passioni per mezzo della compassione e del terrore.

Non pertanto il gesuita Rapin benchè pieno di erudizione e di dottrina, o poco giusto o poco provveduto di certa sensibilità necessaria a giudicar dritto de’ componimenti teatrali, non fu mosso nè dalla tragica maestà dello stile nè dal patetico che regna nel Torrismondo. Egli che tralle altre pregiudicate sue opinioni pose in un fascio i tragici Italiani e gli Spagnuoli, asserì che il Tasso ed il Trissino aveano la testa stravolta da’ romanzi, e che perciò non poterono pervenire al carattere di Sofocle. Non parliamo ora del Trissino, nella cui tragedia si scerne subito il torto manifesto di quel gesuita, ed appuntino l’opposto di ciò che egli afferma, cioè in vece di una testa guasta da’ romanzi, un genio pieno di giudizio e di sobrietà, e un {p. 70}amore forse anche troppo eccessivo per la greca semplicità, e ben lontano da una intemperanza romanzesca. Più plausibile e meno incongrua all’apparenza parer potrebbe la di lui asserzione riguardo al Tasso, il quale ideò i suoi personaggi su i modelli della cavalleria de’ bassi tempi. Ma Rapin dovea dimostrare prima di ogni altra cosa, che ne’ tempi della cavalleria non potevano regnare nel cuore umano passioni grandi atte a destar terrore o compassione. Da’ più severi critici oltramontani nè prima nè dopo di Rapin non si è mai pensato a sostenere contro i nostri poeti romanzieri, che i costumi della cavalleria errante fossero improprii per le passioni grandi. Solo si è detto che hanno essi abusato del maraviglioso con tanti voli d’ippogrifi, con Atlanti e Melisse, con eroi fatati, con mille avventure stravaganti e incredibili ecc. Ora niuno di tali eccessi avrebbe potuto il Rapin riprendere nel Torrismondo, e si rivolse a riprovare i costumi stessi di que’ tempi {p. 71}come incompatibili col carattere tragico. Egli che tanto affettava d’insistere sull’osservanza delle regole di Aristotile, in quale aforismo di quel grande osservatore aveva appreso che il carattere tragico consista nella modificazione de’ costumi, e non già nella qualità delle passioni? Di più, che le grandi passioni umane appartengano più ad un tempo che ad un altro? E quando pure ciò fosse, per qual capriccio volle negarle a’ tempi del governo feodale, e della cavalleria notabili appunto pel vigoroso fermento delle perturbazioni più robuste? Io non so come non vedesse egli quel che tanti altri anche suoi compatriotti osservarono, cioè che l’epoca de i duelli, delle giostre, de’ beni della lancia, è appunto un ritratto appena da piccioli lineamenti alterato, de’ primi tempi eroici degli Ercoli, de’ Tesei, e degli Achilli puntigliosi. Che se in vece di un Edipo che per timore di un oracolo si esiglia volontariamente dalla patria, e fugge in vano le minacciate {p. 72}incestuose nozze, s’introduce un principe Goto che per servire all’amicizia si presta a sposare apparentemente una donzella, trascorre per fragilità ad amarla, e la riconosce in fine per sua sorella per un’ avventura conforme a quella del l’Edipo greco; di grazia da tali picciole differenze quale ostacolo qual pregiudizio ridonda alla sostanza dell’azione e degli affetti, e alla gravità tragica? La censura del Rapin appoggia rotondamente in falso.

L’altra cosa che non seppe veder questo critico francese, è che i costumi del l’età in cui s’immagina che abbia dominato nella Gozia questo Torrismondo, riescono pe’ moderni più verisimili di quelli degli antichi. E forse non se ne trovano le immagini nelle favolose storie di Turpino, e nel romanzo della Tavola Rotonda del re Artù, di cui parla il Camden in Britannia, e in altri simili, i quali (al dire dell’erudito benchè infelice verseggiatore Chapelain) sono storie che rappresentano i costumi Europei di {p. 73}que’ tempi? Ma a che mentovare i romanzi, quando la storia di quella bassa età ci è quasi sotto gli occhi? Non erano generali in Alemagna i torneamenti, il primo de’ quali, secondo Bastiano Munstera, si tenne nel 938? Allora che Rapin andava criticando l’Ariosto, il Trissino ed il Tasso pe’ costumi della cavalleria, non si sovvenne del combattimento di Guiglielmo duca di Normandia assediato nel 1079 nel castello di Gerberoi? Non erano e in Inghilterra e in Francia, come altrove, generali i costumi della cavalleria nel secolo XIII ancora? Non si ricordò Rapin della giostra data nella Borgogna nel 1272, nella quale dal principe di Châllons fu disfidato Eduardo I, che dalla Sicilia tornava in Inghilterra? Non pensò al cartello di disfida mandato al re Filippo di Valois da Eduardo III nel secolo XIV? Non al combattimento del medesimo {p. 74}re col cavaliere Ribaumont nell’assedio di Calais? Non alle eroine militari che v’intervennero, celebrate dallo storico e filosofo m. Hume, la contessa di Montfort, quella di Blois, e la regina d’Inghilterra, che marciò in Iscozia alla testa di un esercito contra il re Davide Brus? Non all’ordine della Giarrettiera istituito in questo tempo in occasione degli amori del nominato Eduardo III per la contessa di Salisbury? Non al combattimento de’ trenta Brettoni con trenta Inglesi, nel quale Beaumanoir gridava, or si vedrà chi di noi abbia più bella dama? Questi medesimi torneamenti, queste bizzarrie e disfide non continuarono e divennero frequentissime, specialmente in Francia nel secolo XV? Non fu allora che con buon senno disse un Inviato della Porta che assisteva ad una giostra, per un vero combattimento è poco, e per uno scherzo è troppo? Potè almeno obbliar del tutto il Rapin il famoso combattimento de’ tredici Italiani con tredici Francesi che {p. 75}rimasero vinti ed uccisi con tanta gloria del valore italiano? Potè dimenticare le speciose disfide di Carlo V e di Francesco I? il duello del barone di Jarnac col favorito di Errico II la Chateigneraie che vi fu ferito a morte? In fine la disgrazia del medesimo Errico II ammazzato in una giostra dal conte di Mongommeri condannato poscia a morte sotto altro pretesto dalla vedova regina Caterina de’ Medici nel 1574? Ora tutti questi combattimenti e queste disfide non seguirono nel secolo XVI, cioè in quel tempo in cui fu composto il Torrismondo? Chè se la tragedia di Torquato che con tanta energia dipigne le passioni generali e comuni a tutti i tempi, quanto ai costumi ritrae al vivo quelli che regnavano in Europa e che più si avvicinavano alle idee famigliari a quelli che vivevano nel tempo stesso dell’autore; chi non vede quanto essa ne divenga più pregevole sopra le dipinture totalmente greche, perchè più credibile e per {p. 76}conseguenza più atta a chiamare e tener ferma l’attenzione? Se dunque havvi de’ nei nel Torrismondo, essi certamente non provengono da i costumi della cavalleria additati dal Rapin come contrarii al carattere tragico di Sofocle.

Nel nostro secolo, oltre ad altri scrittori gregariia, anche Egidio Saverio La Sante non meno pregiudicato del suo confratello Rapin, benchè più prudente, senza compromettersi con innoltrarsi a render ragione del proprio giudizio contro del Torrismondo, si lusingò, in una sua orazione recitata {p. 77}nel gennajo del 1728 in Parigia, di poterne oscurar la gloria con un suo magistrale, quid habet Torrismundus? e che pregio ha mai codesto Torrismondo? Che pregio, egli dice? Ecco quello che a me sembra che abbia di eccellente. Un carattere tragico scelto con sommo giudizio ottimo per conseguire il fine della tragedia: una dipintura fina delle passioni: un piano regolare: un movimento nell’azione progressivamente accelerato: una versificazione armoniosa: una nobile, elegante e maestosa gravità di stile: un patetico vivace che empie, interessa, intenerisce, commuove ed eccita il bel piacere delle lagrime. Sono forse moltissime le tragedie più moderne che possono vantarsi di altrettanto? Ne presentiamo qualche squarcio che ne pardegno degli sguardi di un leggitore {p. 78}imparziale e sensibile. Veggasi in prima l’eleganza, l’energia e la verità che campeggia nella descrizione delle notturne inquietudini dell’innamorata Alvida nel l’atto I:

… Oimè! giammai non chiudo
Queste luci già stanche in breve sonno,
Che a me forme di orrore e di spavento,
Il sogno non presenti, ed or mi sembra
Che dal fianco mi sia rapito a forza
Il caro sposo, e senza lui solinga
Gir per via lunga e tenebrosa errando,
Or le mura stillar, sudare ì marmi
Miro, o credo mirar di nero sangue,
Or da le tombe antiche, ove sepolte
L’alte regine fur di questo regno,
Uscir gran simulacro e gran rimbombo
Quasi di un gran gigante…
{p. 79}
E mi scacci dal letto e mi dimostri,
Perchè io vi fugga da sanguigna sferza,
Un’ orrida spelonca, e dietro il varco
Poscia mi chiuda.

Notisi con qual tragica gravità ella esprima la delicatezza e sensibilità che avviva tutti i di lei concetti:

Madre, io pur vel dirò, benchè vergogna
Affreni la mia lingua e risospinga
Le mie parole indietro: a lui sovente
Prendo la destra, e m’avvicino al fianco,
Ei trema, e tinge di pallore il volto,
Che sembra (onde mi turba e mi sgomenta)
Pallidezza di morte e non di amore,
O in altra parte il volge, o il china a terra
Turbato e fosco; e se talor mi parla,
{p. 80}
Parla in voci tremanti, e co’ sospiri
Le parole interrompe.

Poichè per lo scoprimento di essere Alvida sua sorella si avvisa il re Torrismondo di proporre le nozze di Germondo, odasi in qual guisa ella ne frema e si creda schernita:

Mentre il crudel così mi scaccia e parte,
Prende gioco di me, marito vostro,
Mi dice, è il buon Germondo, ed io fratello;
Et adornando va menzogne e fole
Di un ratto antico, e di un’ antica fraude;
E mi figura e finge un bosco, un antro
Di ninfe incantatrici, e il falso inganno
Vera cagione è del rifiuto ingiusto;
E fia di peggio. E Torrismondo è questi,
Questi che mi discaccia, anzi mi ancide,
{p. 81}
Questi ch’ebbe di me le prime spoglie,
Or l’ultime ne attende, e già sen gode.
E questi è il mio diletto e la mia vita?
Oggi di estinto re sprezzata figlia
Son rifiutata! O patria, o terra, o cielo,
Rifiutata vivrò? vivrò schernita?
Vivrò con tanto scorno? Ancor indugio?
Ancor pavento? e che? la morte, o il tardo
Morire? et amo ancor? ancor sospiro?
Lacrimo ancor? non è vergogna il pianto?
Che fan questi sospir? timida mano,
Timidissimo cor che pure agogni?
Mancano l’arme a l’ira, o l’ira a l’alma?
Se vendetta non vuoi, nè vuole amore,
{p. 82}
Basta un punto a la morte; or mori, et ama
Morendo.

Alvida dopo ciò parte furiosa ed eseguisce il suo pensiero. Io invito l’anime tenere a vedere il quadro di Alvida moribonda e di Torrismondo addolorato. Ecco parte del racconto che se ne fa.

              … Il re trovolla
Pallida, esangue, onde le disse, Alvida,
Alvida, anima mia, che odo, ahi lasso!
Che veggio? ahi qual pensiero, ahi qual inganno!
Qual dolor, qual furor così ti spinse
A ferir te medesma? oimè, son queste
Piaghe de la tua mano? Allor gravosa
Ella rispose con languida voce.
Dunque viver dovea di altrui che vostra,
E da voi rifiutata?…
{p. 83}

Torrismondo giurando e lagrimando le conferma il cambio fatale, ed ella allora quasi pentita dell’attentato,

Parea d’abbandonar la chiara luce
Nel fior degli anni, e rispondea gemendo:
In quel modo che lece io sarò vostra
Quanto meco durar potrà quest’alma,
E poi vostra morrommi.
Spiacemi sol che il morir mio vi turbi,
E vi apporti cagion d’amara vita.
Egli pur lagrimando a lei soggiunse:
Come fratello omai, non come amante,
Prendo gli ultimi baci; al vostro sposo
Gli altri pregata di serbar vi piaccia,
Che non sarà mortal sì duro colpo.
{p. 84}
Ma invan sperò, perchè l’estremo spirto
Ne la bocca di lui spirava, e disse:
O mio più che fratello, e più che amato;
Esser questo non può, che morte adombra
Già le mie luci.
Da poi ch’ella fu morta, il re sospeso
Stette per breve spazio muto e mesto
Da la pietate, e da l’orror confuso
Il suo dolor premea nel cor profondo;
Poi disse: Alvida, tu sei morta, io vivo
Senza l’anima? e tacque.

Per non riconoscere il carattere tragico e lo spirito or di Sofocle or di Euripide ne’ riferiti tratti naturali, patetici e veri a segno che con ogni picciolo cambiamento si guasterebbero; per non commuoversi nel leggerli (or {p. 85}che sarebbe rappresentandosi!); per resistere in somma alle potenti perturbazioni che risvegliano, bisogna avere l’anima preoccupata o poco sensibile di Rapin e di la Sante, o l’ignoranza de’ Carlencas, o la stupidità de’ nostri scioli che affettano nausea per tutto ciò che non è francese o inglese. Io non sono cieco ammiratore di questa buona tragedia di tal modo che non mi avvegga di varie cose che oggidì nuocerebbero alla rappresentazione. Non si vedrebbero, per esempio, volentieri nelle scene odierne i nunzii, le nutrici, l’indovino alla foggia antica. Siamo oramai avvezzi a una maniera di sceneggiare diversa da quella del Torrismondo. C’increscerebbe ne’ fatti precedenti il bosco e l’altro delle ninfe incantatrici che servono di base al cambio di Rosmonda e di Alvida. Si vorrebbe purgata la favola di qualche scena di poca importanza della nutrice, com’ è la seconda dell’atto I; della descrizione troppo lunga e troppo circostanziata della tempesta in {p. 86}bocca dell’angustiato Torrismondo; delle lungherie della scena terza del medesimo atto di Torrismondo col consigliere, in cui l’autore amplifica, esagera e replica in varii modi e sotto varie forme le stesse cose; del racconto della regina Madre de’ piaceri amorosi per indurre la figlia a maritarsi; della minuta numerazione che fa Torrismondo de’ giuochi da prepararsi per la venuta di Germondo; di quel cumolo di varii impossibili ammassato dallo stesso Germondo nell’atto III, Dal freddo carro muover prima vedrem. Si bramerebbe in oltre che in certi passi lo stile non s’indebolisse. Tali cose veramente nuocer non possono alle bellezze essenziali di questo componimento; perchè presso i veri intelligenti la modificazione delle maniere esteriori ed alquanti nei di poca conseguenza nulla pregiudicano alla sostanza ed al merito intrinseco che vi si scorge; ma vero è però che spogliato di tali frondi spiccherebbe meglio la vaghezza di un frutto raro di un {p. 87}ingegno in ogni incontro sublimea.

Questa tragedia non tardò molto ad essere conosciuta in Francia per la traduzione che ne fece Carlo Vion parigino signor di Delibrai, che si stampò in Parigi nel 1626, e si ristampò nel 1640 e nel 1646. Allora i Cornelii non aveano ancora lette le commedie spagnuole. È dunque (dicasi un’ altra volta con pace del Linguet) il Torrismondo una delle produzioni italiane che diedero a’ Francesi le prime idee delle bellezze teatrali.

Un’ altra buona tragedia italiana conobbe la Francia prima delle composizioni spagnuole, cioè il Tancredi di {p. 88}Federico Asinari nobile Astigiano conte di Camerano, nato nel 1527 e morto nel 1576; la quale, come osserva Apostolo Zeno, falsamente dall’editore fu attribuita a Torquato Tasso. Uscì la prima volta in Parigi nel 1587 col titolo di Gismonda. Di poi col proprio titolo di Tancredi si pubblicò in Bergamo nel 1588, benchè col nome di Ottavio Asinari fratello dell’autore; ma, per quanto afferma il conte Mazzucchelli, gli autori del catalogo de’ codici mss della real libreria di Torino ne fanno autore Federico, e così pensò ancora l’erudissimo Apostolo Zeno. Le particolari bellezze di questa tragedia vennero manifestate dal Parisotti in un Discorso inserito nel tomo XXV della raccolta degli Opuscoli del Calogerà.

Il Vicentino Giambatista Liviera di anni diciotto ebbe tanto di gusto che potè comprendere la bellezza dell’argomento del Cresfonte di Euripide, e ne compose la sua tragedia che col medesimo titolo s’impresse in Padova nel {p. 89}1588; ma egli lasciò a una penna più felice e più esercitata il pregio di tesserne un’ altra con più tragico ed elegante stile.

Bongianni Grattarolo di Salò sul lago di Garda coltivò ancora a que’ dì la poesia tragica talvolta con felicità. In età assai giovenile compose in versi sdruccioli l’Altea che s’impresse nel 1556, e la Polissena, della quale non fa menzione il Fontanini. Scrisse poi l’Astianatte in miglior metro stampato in Venezia nel 1589, che nel secolo XVIII s’inserì dal Maffei nel Teatro Italiano. L’autore vi premise un argomento, in cui si distingue il contenuto di ciascun atto. La scena dell’azione dimostra Troja distrutta ed ardente col sepolcro di Ettore intero. Quante particolarità si sono narrate ne’ poemi di Omero intorno alle dissensioni degli Dei favorevoli a’ Trojani ed a’ Greci, ad oracoli, fatalità, predizioni, ad antichi delitti e spergiuri de’ principi Trojani, tutto trovasi ammassato nell’atto I {p. 90}fatto da’ Giunone ed Iride, che è insieme prologo e parte dell’azione. Risparmiar tante ciarle sarebbe stato pregio dell’opera. Nel rimanente si va dietro le orme di Seneca nel bellissimo atto III delle Troadi, ma col miglioramento che l’azione è una, restringendosi alla sola morte di Astianatte. Molti passi del Latino autore vi si veggono non infelicemente imitati; qualche altro non corrisponde al l’energia dell’originale. Allorchè si fa entrare Astianatte nel sepolcro, l’Andromaca del Grattarolo esprime i concetti di Seneca con maggior naturalezza, e forse con robustezza minore. Ma bisogna confessare che nel l’atto IV l’Italiano rimane ben al di sotto del Latino. Lascio tre versi d’Andromaca in occasione che il vecchio vuole imbrattare di sangue i cenci di cui si ha da coprire Astianatte:

Fia meglio trarre il sangue dal mio core,
Che sendo il sangue suo conforme al mio,
{p. 91}
La fraude ne sarà meglio ajutata,

puerilità ed insipidezza priva di verità di gusto e di passione. Ma quello che più importa è che tutta la vaga scena di Seneca vi si vede malconcia. Andromaca nella tragedia latina dissimulando e piangendo con Ulisse dice che il figliuolo è morto. Nell’Italiana Ulisse dice alla prima che cerca Astianatte per menarlo ad esser sacrificato, ed Andromaca atterrita esclama subito,

Oimè! che religion crudele è questa?
Che gran male hai tu detto in poche voci!

e poi

Ah Calcante crudel! forse Calcante
Vi esorta questo, e vi minaccia questo?

Queste sono esclamazioni imprudenti che contro al disegno di Andromaca debbono far conchiudere all’astuto Ulisse che Astianatte è vivo. Per la stessa ragione non doveasi appresso far {p. 92}dire che egli si è perduto, e che non si sa dove sia; ma col tragico latino dirsi alla prima che è morto; perchè questa notizia bene accreditata dal dolor materno toglieva ad Ulisse ogni speranza; là dove l’essersi perduto stimola sempre più all’inchiesta. Di più il personaggio ozioso del vecchio colla sua presenza nuoce alla scena; perchè il sagace Itacese non lascerebbe di trarre anche da lui qualche notizia, e nol facendo, manca in certo modo al proprio carattere. Ma dopo queste aggiunzioni svantagiose fattevi dal moderno, la scena risorge, e si rende importante, ripigliando gli antichi colori del materno timore, onde Ulisse prende argomento per la vita di Astianatte.

Passando all’atto V non posso tralasciare di esaltare il giudizio di Torquato per ciò che soggiungo omesso nell’esame del Torrismondo. Egli superiore a Seneca, ed anche a più di un moderno, fa raccontare il suicidio di Alvida e Torrismondo a persone che non vi hanno il principale interesse. {p. 93}E come avrebbe la regina di loro madre potuto verisimilmente attendere il fine di una relazione circostanziata, piena come ella trovasi dell’orrore della sua perdita? I personaggi estremamente addolorati o debbonsi tener lontani dal racconto, o fargli operare secondo il proprio dolore; or questa passione non è capace di soffire un racconto minuto se non copo i primi impeti, e per così dire ne l’intermittenza. Seneca fa raccontar la morte di Polissena ed Astianatte al Ecuba ed Andromaca; ed il Grattarolo l’ha seguito anche in questo, benchè per altro il suo racconto a più di un riguardo sia pregevole. Anche da Seneca egli ha tratta la magnanimità di Astianatte nell’incontrar la more, e la dipinge in bei versi, ad eccezione di poche foglie, presentando degnamente lo spettacolo del campo greco e del precipizio del real fanciullo dalla torre.

Meritano di mentovarsi tra que’ tragici del secolo di cui parliamo, i quali si astennero dal trascrivere gli {p. 94}argomenti del greco coturno, Francesco Mondella, e Valerio Fuligni di Vicenza. Il Mondella scrisse l’Issipile che s’impresse in Verona nel 1582. Il fatto storico di essa seguì nel 1570. Dandolo difendendo Salamina nel regno di Cipro tradito dal bassà Mustafà venne in di lui potere, e fu bruciato vivo dopo di avere assistito all’eccidio de’ figliuoli. Il barbaro fa presentare alla vedova le mani tronche del padre e le teste de’ figliuoli con una coppa di veleno. Nel voler ella bere Mustafà la trattiene, la fa legare e la manda schiava a Costantinopoli. Il Fuligni dalla medesima invasione di Cipro trasse il suo Antonio Bragadino che nel 1585 la pubblicò dedicandola a Francesco M. II duca di Urbino. Quel valoroso difensore di quell’isola contro l’armata di Selim II fu parimente tradito dall’atroce Mustafà e straziato crudelmente.

Antonio Decio da Orta amico del Tasso compose l’Acripanda, il cui argomento nè anche si prese da’ Greci. Ussiano re di Egitto uccide Orsilia sua {p. 95}moglie per isposare Acripanda, e fa esporre il bambino che ne avea avuto. Questo fanciullo è allattato da una lupa, raccolto da un pastore e portato alla corte del re di Arabia, e per varie vicende egli stesso giunge ad impossessarsi di quel regno. L’ombra della madre di lui l’eccita a vendicarla; muove guerra al padre; l’obbliga ad una vergognosa pace, riceve in ostagi i di lui figliuoli avuti da Acripanda; gli fa in pezzi, e sono così portati all’infelice madre.

Appartengono a quest’ultimo periodo del secolo parimente l’Irene, l’Almeone, l’Ermete, e l’Arianna del Giusti, l’Arsinoe di Niccolò degli Angioli, l’Elisa del Closio, l’Ismenia, l’Antigone e la Teside di Gio: Paolo Trapoleni, la Ghismonda del Razzi, il Principe Tigridoro del Miari, la Tullia feroce di Pietro Cresci, ed alcun’ altra che si trova mentovata dal Quadrio. In esse vedesi talvolta troppo studio della semplicità greca, talvolta d’imitar Seneca nell’infilzar sentenze {p. 96}a guisa di aforismi, sovente di ornar con fregi proprii della poesia epica e lirica. Non pertanto anche dal solo titolo può rilevarsi non esser tratte da argomenti maneggiati da’ tragici greci, e chi le svolgerà vi loderà non poche scene appassionate che tirano l’attenzione. A me non è permesso della lunga via di fermarmi su ciascuna di esse.

Ravviva la storia delle tragedie degli ultimi anni del secolo la Semiramide di Muzio Manfredi da Cesena, il quale dal Ghilini si disse Ravennate perchè alcuni della di lui famiglia abitarono anche in Ravenna. Questa tragedia che s’impresse in Bergamo per Comin Ventura in quarto nel 1593 stando il Manfredi in Nansi, a giudizio di Francesco Patrizii può servire di esempio a chi vuole esercitarsi nel genere tragico. Anche il dotto editore del Teatro Italiano ne portò vantaggioso giudizio, al quale si sottoscriverà di buon grado chiunque la legga. Si distingue (egli dice) talmente col l’eloquenza, colla franchezza del dire {p. 97}e col giro e spezzatura del verso, che quel luogo che tiene l’Epido per l’orditura, la Sofonisba per l’affetto, e l’Oreste per la bellezza de’ passi, può questa giustamente pretendere per lo stile. Riconosce parimente il conte di Calepio nel Nino di questa favola un carattere sommamente idoneo al fin della tragedia.

Il soggetto di essa è fondato nella famosa regina degli Assiri Semiramide, la quale, secondo Diodoro e Giustino, trasportata ad amare il figliuolo viene da lui uccisa. Figura il Manfredi ch’ella voglia sposare questo suo figliuolo chiamato Nino, il quale da sette anni si trova occultamente maritato con Dirce e arricchito di due pargoletti chiamati Nino e Semiramide anch’essi. La notizia di questo secreto nodo mette la regina in tal furore, che medita la strage di Dirce e de’ figliuoli, e l’eseguisce in un sotterraneo. All’avviso fatale che ne riceve Nino si accoppia lo scoprimento che egli fa di esser Dirce sua sorella. L’orrore e la {p. 98}disperazione lo perturbano a segno che novello Oreste diventa matricida, indi trafigge se stesso nel medesimo luogo ove giacciono immersi nel proprio sangue Dirce e i figliuoli. Alla maniera greca e latina l’ombra di Nino indi quella di Mennone mariti l’un dopo l’altro di Semiramide facendo le prime due scene dell’atto I, preparano al terrore che spazia in seguito per la reggia di Babilonia. Non è un secco e digiuno racconto ma una scena animata e interessante la terza, nella quale questa virile regina narra alla confidente Imetra quanto ha disposto di Nino e di Dirce. Imposi (ella dice) a Simandio che dicesse

A Nino ch’egli omai fosse disposto
A meco unirsi in matrimonio, e ch’oggi
Voglio che insiem celebriam le nozze,
E che a questo non sia risposta o scusa.
A Dirce dissi: al mio ritorno, o figlia,
{p. 99}
Fa ch’io ti trovi tutta lieta e culta,
Ch’oggi sposa sarai di tal marito,
Che a me grado ne avrai che tel destino.

Prevede Imetra le vicine funeste conseguenze del di lei empio disegno, ed a costo di qualunque rischio proprio tenta distoglierla dal proposto con una eloquenza vera e robusta nè aliena dal di lei stato, la quale fa ammirare l’arte del poeta senza che egli si discopra. Fralle altre cose cerca in tal guisa muoverla per l’ambizione e per la gloria:

Ma tu, Semiramis, che in tutto il mondo
Di gloria avanzi ogni famoso eroe…..
Tu che figlia di dea ti chiami e sei
E dea sembri negli atti e nel sembiante,
Se la tua gloria gira al par del Sole
{p. 100}
A che cerchi oscurarla? a che defraudi
La fama? a che le tronchi i più bei vanni?
Qual Dio, qual legge è che consenta al figlio
Farsi consorte de la madre, e nasca
Di lor chi sia fratello e figlio al padre,
Ed a la madre sia nipote e figlio?

Tutta traspare la feroce Semiramide nello sdegno che manifesta a tale ardito discorso. Non è ella una timida Fedra che ama insieme e paventa la vergogna di palesar l’amore: è una imperiosa conquistatrice cui tutto par lecito perchè può tutto, bastandole di velar la sfrenatezza con la politica. Avvezza agli eccessi nè più ravvisandone l’orrore, afferma con baldanza che la ragione di stato soltanto la determina a siffatte nozze, e ne palesa i politici impulsi. All’opposizione poi delle leggi risponde:

{p. 101}
Quanto alle leggi, ogni dì nascon leggi;
Ed io che posso, e mi conviene il farlo,
Una faronne che da ora innanzi
Lecito sia al figliuol sposar la madre.

Invano replica Imetra; la regina non cangia parere, e la spinge a Dirce. Riflette poi che Imetra debba aver qualche secreto nel cuore contro al disegno delle sue nozze e di quelle di Dirce, e soggiugne. Faccia

La sua fortuna, anzi la lor fortuna
Ch’io non discopra in ciò cosa diversa,
Non pur contraria, al desiderio mio,
Che a Dirce, a lei, a Nino istesso, a quanti
Colpa n’avranno, io mostrerò che importi
Il macchinar contro il voler di donna
Che possa quanto vuol.

{p. 102}Preparata con tal maestria sì pressante angustia alla fortuna di Nino e Dirce, per le nozze detestabili del figlio colla madre, e per quelle di Anaferne con Dirce, riesce nell’atto II al sommo interessante l’abboccamento di Dirce oppressa dal dolore con Nino che cerca consolarla. E ciò avremmo desiderato che Pietro da Calepio avesse allegato per uno degli ottimi esempi delle tragedie italiane, dopo di avere in alcune di esse ripresa la poca congiunzione dell’atto II col I, e il vedervisi li trattati d’una scena non di rado diversissimi da quelli dell’altraa. Manfredi ha congiunte mirabilmente le premesse, i mezzi e le conseguenze della sua favola ingegnosa. E notabile nella scena quarta dell’atto II l’orrore che protesta Nino di avere per l’incesto, per cui si mette sempre più in vista il tragico contrasto del carattere di Nino colla passione di Semiramide, e si {p. 103}prepara la di lui disperazione per lo scioglimento. Nel medesimo atto si è disposto che Simandio vada francamente a scoprire alla regina l’occulto matrimonio di Nino e Dirce. Semiramide all’intenderlo si accende si una rabbia tremenda, ed in conseguenza nel l’atto III minaccia di trarre a Dirce di propria mano il cuore. Simandio, Imetra, il sacerdote Beleso con fobria insieme e maschia eloquenza e con sommo calore parlano in pro degli sposi. Semiramide rimane inflessibile. Al fine Beleso nulla sperando dalle armi della ragione, ricorre a quelle del suo ministero, e la minaccia per parte degli dei, benchè senza perder di vista il rispetto dovuto come vassallo alla sovrana. La regina intanto si è fra se appigliata all’esecrabile partito di quietarlo dissimulando, e mostrandosi commossa dalle sacre sue minacce invia Simandio a Nino, e Imetra a Dirce perchè gliela conduca co’ figliuoli, affettando di voler veder tutti, a tutti perdonare, e con festa degna di sì {p. 104}gran re rinnovare le loro nozze. Ella accredita col sembiante l’inganno, e riscuote applausi e ringraziamenti. Seneca nel Tieste e Giraldi nell’Orbecche usarono del medesimo colore della dissimulazione; ma secondo me Semiramide comparisce in ciò assai più grande e più tragica di Atreo e Sulmone. Chiude nel più profondo dell’animo l’orrendo disegno; e tutti accoglie con somma tranquillità ed allegrezza. Ma nell’equivoche espressioni che adopra, fa trasparire da lontano la perversità dell’intento. In fatti questa Medea dell’Assiria avuta appena Dirce e i nipoti in sua balia con ispietatezza inaudita gli trucida. Atirzia ch’è stata presente alla strage atterrita disciolta in lagrime viene nell’atto IV a narrarla. Il racconto fatto con veri e vivaci colori è degno del pennello di Euripide, e forse di Dante e di Omero, sì terribili ed evidenti sono le immagini degli uccisi, e sì compassionevole la situazione di Dirce. Assiste veramente a questo racconto l’infelice Nino, ma coll’ {p. 105}interromperlo tratto tratto ne aumenta il patetico. Udito in fine l’ammazzamento di Dirce Nino freme, non respira che vendetta, minaccia la madre, invano volendo Simandio e Beleso farlo accorto della scelleraggine che medita. Egli va pur risoluto. Ma nell’atto V torna fuori senza avere nulla eseguito nel vuoto de i due atti. Il suo furore ha una specie di riposo. Or che ha egli fatto frattanto? Ha forse combattuto trall’orrore della vendetta e l’enormità dell’offesa? Un motto almeno di ciò avrei voluto ne’ di lui discorsi della prima scena, nella quale torna ad accendersi di furore e ad accingersi alla vendetta. Imetra nella seconda scena narra a Nino come Anaferne si è sommerso nell’Eufrate, e la regina ha manifestato che Dirce era sua figlia. Ella ha sperato che tolta Dirce di mezzo altro ostacolo rimaner non dovesse da vincere in Nino che quello del peccato; ma saprà Nino (ella dice per bocca d’Imetra) ch’egli

{p. 106}
Sette anni è stato nell’error ch’ei chiama
Peccato incestuoso: era mia figlia
Dirce e sorella sua.

Quale orrore non cagiona sì tremenda notizia a Nino che ha sempre mostrato spavento particolare per l’incesto! Egli in prima va ripetendo le ragioni che accreditano la verità di tal notizia. A che (dic’egli) avrebbe ella

Chiamata Dirce da sua madre? e come
Promessa sì l’avria liberamente
Ad Anaferne, non l’essendo figlia?
Ma quel che importa più, l’Armenia in dote?
Non si dan regni alle altrui figlie in dote.
Oltre di ciò facea ridendo un attoa
{p. 107}
Che la regina il fa sempre che ride.
Nè il vidi mai che non scemasse molto
Il piacer ch’io prendea d’esser con lei
Rimembrando mia madre.

Certo Nino della disgrazia da lui maggiormente temuta diviene un Oreste agitato da trasporti furiosi. Cerca la regina di Assiria, non chiamandola madre, corre a lei, l’affronta, la trafigge, la mira, e piange; indi s’invia al luogo della strage della sposa e de’ figliuoli, e s’uccide. Nel racconto della morte di Nino il poeta imitando in parte l’attitudine di Tancredi al sepolcro di Clorinda principia colla pittura più espressiva del di lui dolore alla vista de’ figli e di Dirce:

Giunto al fiero spettacolo si stette
{p. 108}
Pallido, freddo, muto, e privo quasi
Di movimento; e poco poi dagli occhi
Li cadde un fiume lagrimoso, e insieme
Un oimè languidissimo dal petto
Fuori mandò, così dicendo…

Torquato Tasso nella Gerusalemme canto II, stanza 96 avea detto:

Pallido, freddo, muto, e quasi privo
Di movimento al marmo gli occhi affisse.
Alfin sgorgando un lagrimoso rivo
In un languido oimè proruppe, e disse.

Manfredi lo seguì; ma poi la stessa guida illustre lo sedusse; ed in vece di cercare nella natura, e nelle circostanze di Nino il linguaggio di un dolor disperato, seguendo Torquato anche in ciò che in esso si riprende, fa rivolger Nino a parlare al luogo, benchè poi la natura lo riconduce in {p. 109}istrada, e gli sugerisce molti concetti naturali e patetici. Un’ immagine anche bene espressa è la seguente:

Parve di morte empirsi, e restò chiusa
Sua vita io non so dove, e fu simile
Nel viso ai morti, e per buon spazio tacque

Feritosi al fine Simandio gli toglie dal petto il pugnale,

Dicendo, ah Nino! È questa la virtude
Onde sì risplendevi? A questo modo
Si governano i regni?

Ed egli:

Non mancherà chi darà vita al regno…
Io troppo vissi, ahi lasso!
Regnino i cari al ciel, vivano i cari
A la fortuna: lascia pur ch’io mora….
Sai ch’anzi eleggeva
Il parricidio che l’incesto, e vuoi
{p. 110}
Ch’or viva incestuoso e parricida?
Tu non m’ami se il vuoi: che se per questo
Morta è mia madre, i miei figliuoli e Dirce,
Come viver poss’io cagion del tutto?
Disse e nel volto diventò di neve,
E volendo seguir, di voce in voce
Singhiozzò, chiuse i lumi, e spirò l’alma.

Bisogna confessare che questa Semiramide per uguaglianza, nobiltà e grandezza di stile, e per versificazione vince quasi tutte le tragedie del cinquecento. Il Manfredi è stato il meno avido di sollevarsi a forza di ornamenti stranieri alla drammatica, cioè a dire epici e lirici. Si lascia vedere di quando in quando qualche superfluità ed affettazione; ma per quel tempo, in cui tutti correvano in traccia di mostrarsi poeti quando meno abbisognava, può dirsi che Muzio ne sia stato esente. Invano la censurò il suo contemporaneo Angelo Ingegnieri. La Semiramide trionfo {p. 111}dell’invidia e della pedanteria; e se in vece di criticarla i pedanti, che sono alle lettere quel che è la rugine al ferro, si fossero dedicati a rilevarne ciò che avea di migliore per additarlo alla gioventù, forse avrebbero impedita nel seguente secolo l’escursione e i progressi del mal gusto. Quasi a giorni nostri il celebre marchese Maffei vi fece alcuni troncamenti del meno importante, e la fe rappresentare in Verona, e piacque sommamente. E quando essa non piacerà dove si ami la poesia tragica? E chi potrà dubitarne? Certo niuno che l’abbia letto, che comprenda in che sia posto il vero merito di un componimento tragico, e che non serbi in seno un interesse contrario alla verità. E che mai (mi si permetta il dirlo) che mai spinse il signor Giovanni Andres ad affermare con mirabile franchezza de’ drammi Italiani del cinquecento, che la freddezza e la lentezza dell’azione or ne rendono stucchevole la lettura, e che affatto intollerabile ne renderebbero la {p. 112}rappresentazione? Nè l’una nè l’altra cosa è vera. Ed in prima guai di chi trovasse stucchevole la lettura di componimenti scritti in aureo stile, cui mancando ogni altro pregio rende accetti e dilettevoli a chi ha sapore di lingua e di eloquenza italiana, la proprietà, la coltura, la purgatezza e l’eleganza. Per l’altra parte ha per avventura oggi il gesuita Andres fatta di alcuni di essi qualche esperienza, onde senza taccia di leggerezza potesse affermare che ne sarebbe intollerabile la rappresentazione? Vide l’Italia tutta in quel secolo di luce quasi tutti que’ componimenti con diletto e plauso indicibile impressi e rappresentati; e la fama e la riuscita ne fe molti imprimere e rappresentare e piacere in Francia ancora; e questa è storia. Nel nostro secolo non solo non è stata intollerabile la rappresentazione dell’Edipo in Verona e in Venezia, e della Semiramide in Verona, e dell’Aminta e del Pastor fido in Napoli ed altrove, e di molte e molte commedie di quel tempo {p. 113}con leggieri cambiamenti in più di un luogo; ma piacquero sommamente; e questa è storia ancora. Non seppe questi fatti il signor Andres, ovvero (che sarebbe peggio) gli volle dissimulare? Sarebbe a desiderare che la bell’opera di questo erudito gesuita Spagnuolo sopra ogni letterature, al pregio di essere ottimamente scritta congiungesse sempre l’altro indispensabile della veracità e sicurezza ne’ fatti e della solidità ed imparzialità ne’ gìudizii. Ma il campo era troppo vasto, e lo spirito di apologia volle averci la sua parte. Tornando anche un momento su qualche particolarità istorica della Semiramide notisi ancora che il Manfredi è stato il primo in Europa a recare sulle scene questa regina famosa degli Assiri, e senza averne trovato modello veruno fragli antichi ne ha inventata e disposta con tanta regolarità ed artificio la favola e con tale eccellenza, vigore ed eloquenza scolpiti i caratteri e animate le passioni, che ha invitati i posteri a contar la Semiramide tra gli argomenti {p. 114}teatrali. Quindi è che il Capitano Virues e don Pedro Calderòn de la Barca si avvisarono di maneggiarlo in Ispagna nel secolo seguente, e nel nostro vi si sono appigliati il Crebillon ed il Voltaire, su i quali potrebbe osservare l’avvocato Linguet, se vi sieno stati piuttosto determinati dalla tragedia del Manfredi abbigliata alla greca, che da’ gotici drammi del Virues e del Calderòn.

Al Manfredi dobbiamo parimente un volumetto di Lettere famigliari da lui scritte nel 1591 dimorando in Nansì, nelle quali trovasi conservata la memoria di varii componimenti specialmente tragici rimasti per la maggior parte inediti. Nella 18.a. egli anima Eugenio Visdomini parmigiano a stampare due sue tragedie l’Amata e l’Edipo. Era colui suo compare; e forse questo titolo gliele fe parere degne di uscire alla luce dopo la Merope del conte Torelli. Nella lettera 19a indirizzata a Gabriello Bambasi altro parmigiano accademico Innominato dice che pubblichi le sue tragedie la {p. 115}Lucrezia e l’Alidoro. Stimola nella 20a il signor Antonio Scutellari a produrre la tragedia di Giacomo suo fratello intitolata l’Atamante, la quale, ei dice, è nobilissima e perfetta. Dell’Alessio tragedia di Vincenzo Giusti, censurata parimente dall’Ingegneri, parlasi nella lettera 31 scritta a Udine ad Erasmo Valvasone; e nella 161 scritta all’istesso Giusti, e se ne favella ancora insieme coll’Eraclea tragedia di Livio Pagello pur criticata dall’Ingegneri. Nella 181 indirizzata ad Orazio Ariosto a Ferrara si rammemorano alcuni suoi componimenti non impressi, un poema epico, una tragedia e una commedia. In fine nella 346 scritta al signor Muzio Sforza a Venezia desidera che gli si mandi un esemplare della traduzione di Girolamo Moncelli del Cristo, avendo saputo di essersi stampata. Debbo a queste notizie aggiugnere che a quel tempo vi furono altre due tragedie di penne non volgari rimaste inedite, l’Edipo principe traduzione di quello di {p. 116}Sofocle di Bernardo Segni, e le Fenicie di Euripide tradotta in latino da Pietro Vettori, che con altre di lui produzioni pur manoscritte si trovava in Roma nel 1756 in potere del commendatore Vettori parente di Pietroa.

Rimettiamo i leggitori alla Drammaturgia, all’opera del Quadrio, ed a qualche altro che si ha presa la cura di spolverarli nelle biblioteche, ove si tarlano, molti drammi sacri parte impressi e parte inediti del medesimo periodo. Tra essi possono togliersi dalla folla i due che soggiungo, perchè ridotti alle leggi della vera tragedia, cioè Jeste di Girolamo Giustiniano genovese impresso nel 1583, e l’altro Jeste di Scipione Bargagli pubblicato in Venezia nel 1600. Il nome di Giammaria Cecchi fa che rammentiamo ancora l’Esaltazione della Croce di lui {p. 117}opera rappresentativa recitata nelle nozze de’ Gran Duchi di Toscana, e stampata presso il Martelli nel 1592. Alcune tragedie Cristiane perdute si vuole che scrivesse ancora il benedettino mantovano Teofilo Folengo morto nel 1544, bizzarro ed ingegnoso autore delle Poesie maccaroniche sotto il nome di Merlin Cocajo, e del raro poema romanzesco l’Orlandino pubblicato col nome di Limerco Pitocco, del quale nel 1773 fece in Parigi una elegante edizione, pochi giorni prima di partirne, l’erudito nostro amico Carlo Vespasiano sotto il nome Arcadico di Clariso Melisseo, corredandolo di curiose erudite note. Lo stesso Folengo, ad istanza del vicerè di Sicilia don Ferrante Gonzaga, compose in Palermo, ove erasi rifugiato, un’ azione drammatica intitolata la Pinta o la Palermita, intorno alla creazione del mondo e alla caduta di Adamo.

Col bellissimo soggetto del greco Cresfonte maneggiato dal conte Pomponio Torelli col titolo di Merope, {p. 118}possiamo chiudere la storia delle tragedie italiane del Cinquecento. Fioriva in Parma verso la fine del secolo l’Accademia degl’Innominati, di cui era il Torelli uno de’ principali ornamenti. Egli vi recitò ciuque sue tragedie, la Merope, la Vittoria, il Polidoro, spiegandone eziandio l’artificio in due grossi volumi di Lezioni sulla Poetica di Aristotile, che trovansi manoscritti nella ducal Biblioteca di Parma. Cita monsignor Giusto Fontanini nell’Eloquenza Italiana l’edizione della Merope e del Tancredi fatta in Parma nel 1597, e poi quella di tutte le cinque tragedie del 1605, cioè tre anni prima della morte dell’autore. Ma la Merope s’impresse prima del 1591, per quel che ne scrisse il prelodato Muzio Manfredi a’ 18 di gennajo di quell’anno. Ora (egli dice) che il signor conte Pomponio Torelli vi ha fatta la strada collo stampare la Merope; la qual cosa confermò nelle lettere seguenti 19. e 20.

Noto n’è l’argomento e i punti {p. 119}interessanti dell’azione dovuti al greco inventore; ma la regolarità, l’economia, la gravità nelle sentenze, l’eleganza dello stile e la vivace dipintura de’ caratteri e delle passioni, debbonsi prima di ogni altro al Torelli, onde merita la sua Merope di collocarsi fralle buone italiane. Può singolarmente notarsi sin dalla prima scena assai bene espresso il carattere di Merope agitata ed oppressa dal pensiero di esser pur giunto il tempo prefisso alle sue nozze dal tiranno; e nell’atto II lo stato del tiranno; e nell’atto II lo stato del tiranno tormentato anche in pace da mille moleste cure. Egregiamente vi si disviluppa il di lui tirannico sistema e la ragion della forza che giustifica le scelleraggini. Ecco in qual guisa argomenta contro del Capitano della sua guardia:

Le leggi e ’l giusto, di che tanto parli,
E per parlarne assai poco ne intendi,
Non hanno sovra i principi potere,
{p. 120}
Che mal si converria, s’essi le fanno,
Ch’essi all’opera lor fosser soggetti.
Ma quella legge che in diamante saldo
Scrisse di propria man l’alma natura,
Sola può dare e variar gl’imperi.
Per questa sola tremano i potenti,
A questa sola ogni gran re s’inchina.
Ella comanda che colui prevaglia,
Che di genti, di forza, e di consiglio,
Di stato e di ricchezze gli altri avanzi.
Che mal si converria che un uom sì degnon
Obedisse a chi men di lui potesse.

Di maniera che l’ingiustizia mai non trascura di prevalersi a suo pro della massima di Achille, il quale

{p. 121}
Jura negat sibi nata, nihil non arrogat armis.

Notabile sembrami parimente nell’atto V l’artificio del poeta nel rendere verisimile l’ardito colpo di Telefonte. Per ordine del Tiranno i satelliti rimangonsi all’entrata del tempio, e Gabria, nel darne, e nel farne eseguire il comando, va esortando i fedeli amici di Merope mostrando loro Telefonte, istigando gli audaci, ispirando in tutti ardire. Preparato in tal guisa il colpo lo fa scoppiare.

Già morte eran le vittime, e le fibbre
Erano apparse liete alla regina.
Fa condur Polifonte un bianco toro
Con le corna dorate: a Telefonte
Che si appresenti accenna: ei la bipenne
Alzando, disse: o sommo Giove, prendi
Questo che per mio scampo t’offerisco.
Ciò detto a Polifonte che rivolto
{p. 122}
Mirava fisso la regina nostra,
Con improvviso colpo il capo fiede.
Senza difesa far, senza parola
Traboccò nel suo sangue singhiozzando.

Non ho addotti gli squarci delle situazioni somministrate dall’antico argomento, bastando l’animare la gioventù ad osservarle colla sicurezza di trovarle egregiamente rappresentate. In somma se un movimento più vivace rendesse l’azione di questa tragedia meno riposata e più teatrale: se le robuste sentenze non fossero talvolta quasi ravviluppate in una soverchia verbosità: se Merope tentasse di uccidere il figlio, tale non credendolo, con una situazione più verisimile e più vigorosa: se Polifonte col mostrarsi un innamorato sì fido e costante, a segno di attendere dieci anni la conchiusione delle nozze, non venisse a combattere colla propria ambizione, affetto in lui dominante, e a debilitare il suo carattere essenziale di usurpatore avido di {p. 123}sangue: finalmente se Merope dopo l’odio sommo mostrato contro Polifonte in tutta la tragedia non iscendesse sino a piangerlo nella di lui morte e a dirgli,

Fosti ledi, fosti fedele amante: se tutto ciò, dico, non contrastasse con tanti pregi che vi si osservano, potrebbe questo componimento contarsi tra gli eccellenti. Ma quanto al metodo greco che vi si tiene, ed al coro continuo che spesso nuoce a’ secreti importanti della favola, è un difetto comune alla maggior parte delle tragedie di quel tempo. Non ne vanno esenti le altre tragedie del Torelli, e nè anche la Vittoria ed il Tancredi, le quali per altro debbono esserci care essendo del numero di quelle che si allontanano dagli argomenti greci, e dipingono, siccome insinuava il gran Torquatoa, costumi non troppo da noi lontani; e l’ultima singolarmente si {p. 124}rende pregevole per l’attività di purgare le pas ioni, per la qual cosa il conte di Calepio stimava doversi preferire alla stessa Merope.

Da questa ragionata narrazione, e non da arbitrarie decisioni, può ricavarsi l’indole della tragedia Italiana del XVI secolo. Essa fu un nobile ritratto della Greca, da cui riportò qualche neo ed una dose di lentezza, volendola troppo imitare. Non si arrestò però ai soli argomenti greci, come talvolta trascorsero ad asserire i critici moderni poco diligenti osservatori. Per mezzo della nostra nazione nel Cinquecento divenne più ricco il teatro con gli argomenti, che i Greci e i Latini non ebbero, della Sofonisba, del Torrismondo, della Semiramide, del Tancredi, della Tullia, dell’Orazia, ed i posteri l’ebbero dagl’Italiani. Ma quando anche queste nuove favole non si dovessero all’Italia, non basterebbe ad eternarla l’aver fatto risorgere in tante guise il Teatro Greco? Per questi meriti non ebbe ragione il {p. 125}chiarissimo Saverio Bettinelli di asserire che aliora surse e giunse al colmo la tragica letteratura, imitata poi da’ Francesi e da Spagnuoli, con molto maggior minutezza e povertà che non aveano i nostri mostrata nell’imitazione de’ Greci? S’ingannò dunque, dirò un’ altra volta l’abate Andres, allorchè con troppa precipitazione ed arditezza sentenziò così: La parte drammatica (degl’Italiani)cede senza contrasto al greco teatro; e benchè gl’Italiani siano statii primi a coltivare con arte e con vero studio la poesia teatrale, non hanno però prodotto, prima di questo secolo, tolte le pastorali del Tasso e del Guarino, un poema drammatico che meritasse lo studio delle altre nazioni. Quanto è difficile entrare a sentenziare di cose che non sono della competenza di chi si arroga l’autorità di giudice! Non hanno meritato lo studio delle altre nazioni i tanti argomenti nuovi degl’Italiani, da’ quali gli Oltramontani hanno così spesso {p. 126}trasportato con poca alterazione non pure il piano, l’intreccio, la condotta, le situazioni, lo scioglimento, ma i costumi, i caratteri, i pensieri e gli affetti degl’interlocutori? Non meritano lo studio delle altre nazioni i drammatici Italiani del XVI secolo, se non per altro, per la cultura, proprietà, purgatezza della loro lingua che a que’ tempi rifioriva? E pure il signor Andres stesso non fu astretto dalla forza della verità a contradirsi: Si distingue l’Italia sopra le altre nazioni per la superiorità di parlare con tanta coltura la propria lingua, come se di questa facesse tutto lo studio. Al principio del secolo XVI le lingue nazionali giacevano tutte neglette e solo l’Italia poteva vantare ne’ suoi volgari scrittori esemplari da paragonare in qualche modo agli antichi, e da proporre al l’imitazione de’ moderni. La Spagna fu la prima nazione che abbracciasse l’esempio dell’Italia.

Imitar dunque, emulare con aurea {p. 127}eleganza e purità di stile i tragici antichi, inventare a loro norma favole eccellenti, farne risonare le scene per tante città, quando il rimanente dell’Europa altro quasi non avea che farse mostruose in lingue tuttavia rozze e barbare, era l’unico opportuno espediente per diffondere il vero gusto della tragedia; e il fecero gl’Italiani, con tuttochè non avessero, come indi non ebbero mai, teatro tragico fisso e permanente, nè speranza di lucro e di premio, e da qual altra cosa doveano essi incominciare, se non dallo studiare e ritrarre talora con più recenti colori le bellezze de’ greci esemplari? E che pedanteria ed affettazione transalpina è quella di tacciare senza riserba di pedanteria e di greca affettazione i tragici Italiani del Cinquecento? E senza prima osservare le vestigia de’ migliori, quando mai i moderni si sarebbero innoltrati sino all’odierna delicatezza di gusto che rende ingiusti ed altieri ancor certuni che non saprebbero schicchererare una sola meschina {p. 128}scena e che pur sono i più baldanzosi a render giustizia e a dettar leggi teatrali? Ed a chi se non all’Italia si debbe l’aver fatte risorgere le sagge regole del teatro? Or non sognava Voltaire allorchè scrisse: Les Français sont les premiers d’entre les nations modernes qui ont fait rèvivre les sages regles du thèàtre; les autres peuples ont ètê long temps sans vouloir recevoir un joug qui paraissait si sèvère? Non doveva sovvenirsi di ciò che fecero gl’Italiani un secolo e mezzo prima di Cornelio introduttor delle regole tra’ Francesi? Non pensò, ciò scrivendo, a quello che erano nel XVI secolo nella drammatica i snoi nazionali? Non fu egli stesso che disse. Pour les Français (nel XVI secolo)quels ètaient leurs livres et leurs spectacles favoris? Les Chapitres de torcheculs de Gargantua, l’Oracle da la dive Bouteille, les pièces de Chrètien et de Hardis.

Conviene intanto osservare che i sopralodati ingegni Italiani, benchè per {p. 129}far risorgere la tragedia si avvisassero di seguire le orme de’ Greci, pure la spogliarono quasi totalmente di quella musica, qualunque essa siesi stata, che in Grecia l’accompagnò costantemente. Si contentarono i nostri di farne cantare i soli cori, come si fece in Vicenza, in Roma, in Ferrara, nel rappresentarsi Sofonisba, Orbecche ec. Altro essi allora non si prefissero se non di richiamare sulle moderne scene la forma del dramma de’ Greci, e non già l’intero spettacolo di quella nazione con tutte le circostanze locali, che a’ nostri parvero troppo aliene da’ tempi e da’ popoli, al cui piacere consacravano le loro penne.

Ma per essere stata spogliata della musica dovea dirsi che la tragedia moderna non sia tale? E pure anche questo volle avanzare nel secolo XVIII l’avvocato Mattei ornamento del paese ammaestrato da Pitagora. Questa (dicea)che noi chiamiamo {p. 130}tragedia, è una invenzione de’ moderni ignota del tutto agli antichi. Crede egli dunque che il canto esclusivamente la costituisca tragedia? Con sua buona pace egli s’inganna. Dessa è tale per l’azione grande che chiama l’attenzione delle intere nazioni, e non già di pochi privati, per le vicende della fortuna eroica (secondo la giudiziosa diffinizione di Teofrasto), per le passioni fortissime che cagionano disastri e pericoli grandi, e pe’ caratteri elevati al di sopra della vita comune. Per tali cose essenziali le greche tragedie che noi leggiamo, si chiamano così, e non già perchè si cantarono in Atene, come immaginò il Mattei. Euripide e Sofocle ed Eschilo non sono meno tragici nella lettura e nella nuda recita che in una rappresentazione cantata. Ora i nostri imitarono la tragedia greca appunto in quello che ne costituisce l’essenza; mostrando con ciò quella saviezza che loro non supponeva il Mettei; il quale osò ancora olrraggiare que’ valentuomini con parole poco urbane per {p. 131}non dirle temerarie. Essi vollero (dice degl’Italiani il calabrese nuovo interprete de’ Greci Tragici)lavorare le loro tragedie all’uso de’ Greci, senza sapere che fossero le greche tragedie. Un Torquato Tasso! un Giovanni Giorgio Trissino! Uno Sperone Speroni! E sa il signor avvocato Mattei quello che dice egli stesso? E come non seppero essi che cosa fossero le tragedie greche? Non furono i primi nostri scrittori, specialmente nel Cinquecento, quelli che mostrarono al l’Europa l’erudizione del greco teatro? Non insegnarono essi tutto ciò che poi si è ripetuto in altre o simili guise al di là da’ monti? E che si è scoperto di più a’ giorni nostri? Qual riposto arcano ci ha rilevato la singolare erudizione di Saverio Mattei? Fòrse che la tragedia e la commedia greca si cantava? Ma quante e quante fiate si è ciò ripetuto a sazietà intorno a tre o quattro secoli prima che nascesse don Saverio!

{p. 132}

CAP. III.

Teatri materiali. §

Conobbero così bene e fondatamente per tutte le sue parti gl’Italiani la greca erudizione, che seppero allora mettere alla vista fin anche nel teatro materiale l’antico magistero.

Qual vanto per una privata benchè nobile accademia e per la città di Vicenza, che non è delle maggiori d’Italia, il possedere un teatro come l’Olimpico sin dal 1583 costruito alla foggia degli antichi? Ma essa ebbe la ventura di aver veduto dentro il recinto delle sue muraglie nascere un Trissino, che mostrò all’Europa il sentiero della vera tragedia regolare, e insegnò l’architettura all’incomparabile Andrea Palladio. La figura di questo teatro non è un semicircolo, ma una semiellissi: ha una scalinata di quattordici scaglioni di legno senza precinzioni, senza {p. 133}aditi, senza vomitorii: su di essa pose una loggia di colonne Corintie con una balaustrata ornata di statue: la scena è di pietra a tre ordini, e mostra nel prospetto tre uscite e due laterali. Sussiste ancora a’ nostri dì questo teatro ben conservato per diletto de’ viaggiatori, e per gloria de’ Vicentini.

Non è così ben tenuto il teatrino di Sabbionetta che pur sussiste; ma è parimente di forma antica e bellamente architettato dal rinomato Scamozzi, il quale avea terminato il teatro Olimpico sul disegno del Palladio. Fu eretto questo teatro dall’istesso Vespasiano Gonzaga duca di Traetto, che fe fabbricare Sabbionetta, uomo dottissimo e fautore de’ letterati, nato nel Regno di Napoli in Fondi l’anno 1531 e morto nel 1591.

Vide ancora la famosa città di Venezia eretti nel medesimo secolo teatri semicircolari ideati su gli antichi modelli, e costruiti da più chiari ingegneri, il Sansovino ed il Palladio, i quali perchè furono formati di legno già più {p. 134}non esistono. Essi servirono per le compagnie de’ Sempiterni, degli Accesi e della Calza. In questo ultimo si rappresentò l’Antigono tragedia di M. Conte di Monte Vicentino, stampata nella stessa città nel 1565; ed in esso si dipinsero dodici gran quadri del celebre pittore dì quel secolo Federico Zuccaroa.

In Andria si costruì ancora un teatro nel 1579; ed il famoso cieco Luigi Groto che colà sortì i natali, compose per tal teatro una delle sue commedie intitolata l’Emilia,

Essendo così grande il numero di drammatici componimenti rappresentati in tante città Italiane, vi si videro alle occorrenze eretti moltissimi teatri. Le accademie degl’Infocati, degl’Immobili e de’ Sorgenti in Firenze, e quella de’ Rozzi e degl’Intronati in {p. 135}Siena, ebbero i loro teatri. Nella corte di Ferrara, dove fin dal secolo precedente fiorirono gli spettacoli scenici, il duca Alfonso da Este fece innalzare un teatro stabile secondo il disegno che ne diede l’immortale Ludovico Ariosto. Ma di questi ultimi teatri non sapremmo dire in quali parti avessero seguiti gli antichi, ed in quali altre se ne fossero allontanati.

CAP. IV.

Progressi della poesia comica nel medesimo secolo XVI quando fiorirono gli scrittori producendo le Commedie dette Erudite. §

All’edizione delle sue tragedie premise il chiarissimo abate Saverio Bettinelli un Discorso intorno al Teatro Italiano, dal quale traggonsi moltissime osservazioni importanti. Vi si dice però che la prima epoca gloriosa della poesia regolare drammatica è {p. 136}al 1520, che secondo me dee risalire qualche altro lustro. Il lodato autore ha la mira alla Sofonisba del Trissino, alla Rosmunda dell’ Rucellai, e ad alcune commedie dell’Ariosto, a quelle del Macchiavelli, alla Calandra del Bibbiena. Ma queste tragedie e commedie hanno certamente la data più indietro del 1520, e per conseguenza la prima epoca in Italia gloriosa della drammatica vuol collocarsi al principio del secolo. Secondo Lilio Gregorio Giraldia intorno a’ primi anni del secolo il Trissino avea per le mani la sua tragedia, benchè prima del 1514 non erasi tuttavia recitata. Si rappresentò poi la Rosmunda nel 1516 o 1517, secondo il Zeno, e fu la seconda tragedia rappresentata. Nè anche il sign. di Voltaire volle negarci questi pochi anni, e confessò che la ville de Vicence en 1514 fit des depenses immenses pour la reprèsentation de la {p. 137}première tragedie qui on eût vue en Europe depuis la decadence de l’Empire. Quanto alle commedie poi dalla narrazione a cui ci accingiamo di quelle dell’Ariosto, del Bibbiena e del Machiavelli, si vedrà che si scrissero assai prima del 1520, cioè intorno al 1498 o poco più; e per conseguenza che l’epoca della poesia regolare drammatica dovrà fissarsi sull’aprir del secolo XVI.

Una felice combinazione per la drammatica trasse i più chiari epici Italiani a coltivarla. Per mezzo degli autori dell’Italia liberata e del Goffredo fiorì tra noi la buona tragedia; e pel cantore dell’Orlando furioso risorse la Commedia Nuova degli antichi. Questo poeta prodigioso nato nel 1474 a corre le prime palme in tutti i generi che maneggiò (che che abbia voluto gratuitamente asserire in iscapito delle di lui satire e commedie l’esgesuita sig. Andres, per divertire la corte del duca di Ferrara compose cinque commedie, la Cassaria, i Suppositi, la {p. 138}Lena, il Negromante e la Scolastica. Alfonso d’Este per farle rappresentare se costruire un teatro stabile secondo il disegno dell’istesso poeta, il quale parimente ebbe la cura dell’ottima esecuzione ammaestrando alcuni gentiluomini; anzi più di una volta egli vi sostenne ancora la parte del prologo, come ci dice Gabriele suo fratello in quello della Scolastica:

    Quando apparve in sonnio
Il fratello al fratello in forma e in abito
Che s’era dimostrato sul proscenio
Nostro più volte a recitar principii
E qualche volta a sostenere il carico
Della commedia, e farle serbar l’ordine

Il prologo della Lena rappresentata in Ferrara al tempo di Leone X, ed anche l’anno dopo del sacco di Roma, si recitò dal principe don Francesco figliuolo del duca.

{p. 139}Ariosto da prima, cioè ne’ suoi verdi anni cominciò a scrivere le sue favole in prosa circa il 1498a; e così furono scritte i Suppositi e la Cassaria. Ma innoltrato nell’età le riscrisse in verso, del quale però soltanto si servì nelle altre tre. Scelse lo sdrucciolo, in cui alcuni pretesero raffigurare l’immagine dell’antico giambico: ma solo la grazia dell’elocuzione e la maestria innarrivabile di un Ariosto potè renderlo soffribile e compensarne l’irreparabil caduta e la manifesta monotonia. Non istancherò i leggitori analizzando minutamente queste commedie; ma ne anderò solo notando alcune bellezze per istruzione della gioventù, e per rimproverarle agli ultimi detrattori transalpini, i quali o non sanno, o non vogliono vederle, da se stessi.

I Suppositi. Nell’edizione che se ne fece in Venezia nel 1525 si vede questa favola preceduta da un prologo {p. 140}in prosa, nel quale l’autore confessa di avere in essa seguitato Terenzio nell’Eunuco e Plauto ne’ Cattivi E veramente parte dell’argomento egli trasse da que’ comici antichi; mentre l’innamorato Erostrato padrone si fa credere un suo servo chiamato Dulippo, e questi passa per Erostrato, prendendone il nome e la condizione. Ma la modestia dell’autore gli fè dissimulare il merito principale della sua favola, che consiste nell’averla avviluppata e sciolta con mirabile naturalezza senza bisogno di scorta, e renduta notabilmente interessante colla venuta di Filogono padre di Erostrato; di che non fu debitore in verun conto agli antichi. Di fatti la gloria principale dell’Ariosto e di molti altri comici Italiani, de’ quali dovrem ragionare, è questa appunto di aver migliorati gli argomenti degli antichi, e di averne poi tratti tanti e tanti altri dalla propria fantasia; la qual cosa gli rende superiori a’ Latini per invenzione, ed in conseguenza per vivacità. E se il nostro dottissimo Gian Vincenzo {p. 141}Gravina riguardata avesse da questo punto la commedia Italiana del Cinquecento, certamente non avrebbe senza riserba veruna avanzato nella lettera scritta a Scipione Maffei che i nostri Comici son di gran lunga inferiori a’ Latini. È vero poi che l’Ariosto si valse di alcuni caratteri antichi, ma seppe adattarli alla propria età e nazione con un colorito fresco ed originale, e moltissimi nuovi ne introdusse, come avvocati, cattedratici, teologi. Per la qual cosa possiamo fare osservare che il gesuita Rapin diede al Moliere una lode immaginaria, allorchè affermò che fu questo celebre autore comico francese il primo a far ridere con ritratti di nobili, uscendo da servi, parassiti, raggiratori e trasoni. Io trovo che i Cinesi, gl’Indiani, i Greci, i Latini, gl’Italiani, gli Spagnuoli, e i Francesi stessi, prima del Moliere dipinsero i nobili ridicoli. Un sogno simile, se ben m’appongo, fece Castilhon nelle sue Considerazioni, asserendo che in Ispagna e in Italia i poeti comici, {p. 142}toltone il solo Goldoni, non hanno ancor pensatoa dare alle donne caratteri nobili. Noi che abbiamo studiata un poco più l’Italia e la Spagna, possiamo assicurargli che in tali paesi si sono infinite volte dipinte le donne con caratteri nobili, cioè distinte per grado e per virtù. Se Castilhon avesse avuta più pratica della storia letteraria, avrebbe evitato questo ed altri simili propositi, i quali per se stessi leggeri diventano poi spropositi notabili in chi presume filosofare sulle nazioni, perchè da’ falsi dati non si deducono se non false conseguenze, le quali non mai daranno risultati veri e principii sicuri. Ciò serva di norma ancora ad altri pretesi filosofi de’ tempi nostri disprezzatori dell’erudizione di cui scarseggiano tanto e di cui tanto abbisognano per ragionar diritto.

Lo stile dell’Ariosto poi si presta mirabilmente, alla maniera di Menandro, a tutti gli affetti, ed a tutti i caratteri. Motteggia con grazia senza cadere in buffonerie da piazza; {p. 143}ragiona con naturalezza non conosciuta dalla pedanteria; famigliare e piacevole non lascia di adornarsi di quelle sobrie bellezze poetiche, che a tal genere non isconvengono: satireggia con sale e vivacità senza addentar gl’individui. E a tal proposito si vuol riflettere, che la commedia Italiana di tal tempo non pervenne all’insolenza della Grecia antica, a cagione de’ governi delle Italiche contrade assai differenti dall’Ateniese. Ma non fu già timida e circospetta quanto la Latina. Imperocchè i nostri autori comici erano per lo più persone nobili e ragguardevoli nella civile società, o almeno non furono schiavi come la maggior parte de’ Latini. Quindi è, che nelle commedie del l’Ariosto, e de’ contemporanei si trovano proverbiati coraggiosamente signori, ministri, governadori, giudici, avvocati, frati ecc. Eccone un saggio de’ Suppositi. Lizio servo nell’atto V attribuisce a coloro che presiedono al governo, gli sconcerti privati. Un Ferrarese discolpa i Rettori:

{p. 144}
Che san di questo li Rettori?
    Credi tu
Che intendano ogni cosa?

E Lizio risponde:

…… Anzi che intendano
Poco e mal volentier credo, e non vogliano
Guardar, se non dove guadagno veggano,
E l’orecchio più aperto aver dovrebbono
Che le taverne gli uscii le domeniche.

E quì si avverta che si parla appunto de’ Rettori di Ferrara, dove si rappresentava la commedia in presenza del principe e forse di que’ medesimi Rettori. Non meno penetrante è il colpo che questo Lizio satirico dà a’ giudici, che oggi forse non si permetterebbe sulle scene. Pongonsi in fine con somma grazia e piacevolezza comica alla berlina gli avvocati. Non parlo poi della regolarità della condotta di questa favola come delle altre, non dell’Ariosto solamente, ma di quanti {p. 145}altri lo seguirono; perchè pregio fu degl’Italiani il non aver cominciato dal comporre favole mostruose, come le Cinesi, le Inglesi e le Spagnuole, ma regolari scrupolosamente contenute ne’ limiti prescritti da Aristotile e da Orazio. Dovrei bensì additare l’arte del poeta nella rivoluzione apportata all’azione dalle notizie rilevate opportunamente, e l’interesse che va graduatamente crescendo col disordine che mena allo scioglimento; ma tali cose meglio si sentono nella lettura continuata che nel racconto.

La Cassaria. Benchè in questa favola ricca di sali, di grazie e di passi piacevoli, si veggano introdotti servi, ruffiani ed altri personaggi usati nelle antiche commedie, l’argomento però tutto appartiene al nostro poeta. Una cassa lasciata in deposito nella casa di Crisobolo, la quale dal di lui figliuolo Erofilo innamorato della giovinetta Eulalia vien data in potere di Lucramo padrone di questa bella schiava, forma un groppo ingegnoso, ed adduce {p. 146}senza stento uno scioglimento felice. Quando l’autore la scrisse in prosa, vi pose un prologo in terzarima, ove dimostra sommo rispetto per gli antichi; ed allora che la ridusse in versi sdruccioli, nel prologo abbellito di vaghe e graziose dipinture si valse del metro medesimo di tutta la favola. In alcune circostanze le immagini ritratte dal vivo par che si scostino dalle caricature de’ nostri giorni; ma chi non sa che di tutta la poesia, la comica è la più soggetta ad alterazioni per le maniere e pe’ costumi? Il Ferrarese valoroso dipintore della natura, il quale imitò i costumi de’ suoi paesani tre secoli indietro, avea quella freschezza di colorito e quella rassomiglianza agli originali che poteva attendersi dal suo pennello, ma che noi venuti sì tardi più non sappiamo rinvenirvi. Con simili prevenzioni debbono leggersi i ritratti della vanità ed incostanza delle donne nel l’adornarsi, ove ravvisasi un’elegante parafrasi del verso Terenziano, Dum moliuntur, dum {p. 147}comuntur, annus est; poi la dipintura degli effemminati govinastri che si bellettano come le femmine, la quale per altro troverebbe i suoi ridicoli originali ancor fra noi.

…… Anch’essi perdono
Non meno in adornarsi, e fino a mettere
Il bianco e il rosso. Fan come le femmine
Tutte le cose; han lor specchi, lor pettini,
Lor pelatoi, lor stuccetti de’ varii
Ferracciuoli forniti: hanno lor bussoli,
Loro ampolle e vasetti ecc.

Non è totalmente passata di moda la pittura di certi titoli ridicoli, de’ quali lepidamente si burla, essendosene conservata la razza sino a questi dì, ed avendola dopo di lui trovata Moliere in Francia, e schernita Wycherley in Inghilterra. Il nostro insigne poeta così ne parla:

…… Che fuor che titoli
{p. 148}
E vanti e fumi, ostentazioni e favole,
Ci so veder poco altro di magnifico.
Tutto ciò ch’hanno in adornarsi spendono,
Polirsi, profumarsi come femmine,
E pascer mule e paggi, che lor trottino
Tutto dì dietro, mentre essi avvolgendosi
Di quà e di là, le vie e le piazze scorrono,
Più che ognuna civetta dimenandosi,
E facendo più gesti ch’una scimia.

Ma giova osservare in qual maniera si esprima in questa favola un innamorato. Eulalia lo rimprovera perchè le sembra che non si curi di liberarla; egli punto da ciò manifesta i suoi sensi con tale opportuna esagerazione:

Ch’io non la faccia chiara del grandissimo
Ben ch’io le voglio? e ch’io non la certifichi,
{p. 149}
Ch’io non amo altra persona, nè voglione
Mio padre… che mio padre? me medesimo
Non ne vo trarre ancor, quanto la minima
Parte di lei?

Notisi il calore che spirano le di lui parole, quando sa che gli è stata menata via Eulalia.

Vol.

Ove ir vuoi tu? che pensi tu far?

Eros.

Vogliola
O riavere, o morire.

Vol.

Non correre
In tanta fretta, Erofilo; ricordati
Che noi siamo in pericolo di perdere
La cassa; attendi a quella, e poi.

Er.

Che attendere,
Che cassa? Più m’importa la mia Eulalia,
Che quanta roba è al mondo. Ove ti pensi tu,
Ch’abbian presa la via?

Trap.

Di qua mi parvero
{p. 150}
Andar.

Volp.

Non ir, padron, che non ti facciano
Qualche male.

Eros.

E che peggio mi potriano
Far, se già m’han levato il cuor e l’anima?

In questa guisa nelle commedie Italiane del cinquecento parlano gl’innamorati con tutto il calore de’ Panfili o de’ Cherei Terenziani, e ben lontani dalle sottigliezze metafisiche degli Spagnuoli, e dalle tirate, e da’ tratti spiritosi de’ Francesi. La natura in quell’animato linguaggio si riconosce, e se ne compiace.

La Lena. Piacevole è l’intrigo di questa commedia, che su di un semplice fondamento aggirandosi produce varii ridicoli colpi di teatro, i quali con tutta naturalezza apportano lo scioglimento. Flavio amante di una giovinetta contratta per lei con la Lena ruffiana inesorabile; e per tenerla contenta fa del denaro impegnando la roba e la beretta. Il servo Corbolo sì per discolparlo del pegno fatto, come per {p. 151}trarre altro danaro da Ilario di lui padre, gli narra una immaginaria sorpresa notturna, la quale nell’atto III forma una scena incomparabilmente più graziosa per lo stile, e più naturale di quella della galera del Moliere; perchè questo comico Francese la trasse da altri comici, ed Ariosto la copiò dalla natura, e ne diede l’esempio a tutti gli altri. La giunteria di Corbolo è sconcertata dalla venuta del Cremonino colla veste di Flavio nelle mani. Corbolo con molte astuzie cerca di puntellare la sua menzogna cadente ; ma il vecchio insospettito mena seco il Cremonino, per esaminarlo in casa senza che Corbolo possa interromperlo. Flavio intanto che è in casa della Lena, è deluso ed obbligato a nascondersi in una botte quivi lasciata in deposito. Sventuratamente il padrone di tale botte viene a riprenderla, per dubbio che pe’ debiti del marito della Lena non abbia a pericolare. Ed appunto nel cacciarla fuori (standovi dentro Flavio) sopraggiugne un creditore {p. 152}con gli sbirri, e la vuol torre in pegno. Fazio che è il padre di Licinia amata da Flavio, arriva in tal punto, ode il contrasto, si frappone, e per metter pace, offre di tener egli la botte in deposito, la fa condurre in sua casa, e ne segue il matrimonio di Flavio e Licinia. Non è questa una commedia nobile; ma nel genere inferiore ha tutte le grazie del viluppo, e della piacevolezza de’ colpi teatrali senza discendere sino alla farsa. È da notarvisi ancora che vi si tratta di un intrigo amoroso, e di un giovine trovato in casa di una fanciulla onorata, ma non per questo produce risentimento veruno di funeste conseguenze. Or dove è mai quella gelosia, e quella vendetta Italiana tanto esagerata nella Poetica Francese del moderno filosofante Marmontel come principio universale di tutti gl’intrighi delle nostre commedie? Ma di ciò nella favola seguente.

Il Negromante. Questa commedia (che ci sugerirà alcune curiose {p. 153}osservazioni critiche) e per la vaghezza dello stile, e per l’artificio del groppo, e pel calore ed il movimento dell’azione, e per la vivace dipintura de’ caratteri, e per la grazia de’ motteggi, merita che si legga con attenzione che sarà ben compensata dal diletto.

Massimo vecchio astringe il giovine Cintio destinato suo erede a sposare una donna ch’egli non può amare trovandosi preoccupato dell’amore di Lavinia figliuola di Fazio. Cintio obedisce, ma in tutto un mese non si accoppia colla moglie, fingendosi impotente, e sperando di far disciogliere le nozze. Massimo per guarirlo, dopo varie pratiche, e molti rimedii tentati invano, ricorre ad un furbo tenuto per astrolago, e negromante. Costui cercando di arricchire a spese di Massimo, ed anche di Camillo Pocosale innamorato di picciola levatura, senza volerlo fa sì, che si manifesti l’amore di Cintio e Lavinia, rimanendo egli scornato e scoperto per impostore.

{p. 154}

Delle molte bellezze di questa favola additiamone alcuna che ne sembri più piacevole, e più degna di esser notata. Cintio teme che il Negromante colla sua scienza possa scoprire il proprio secreto, e con Fazio, e col servo Temolo parla della fama delle di lui opere prodigiose. Cose mirabili (dice)

… Di lui mi narra il suo garzone.

Tem.

Fateci,
Se Dio vi ajuti, udir questi miracoli.

Cint.

Mi dice, che a sua posta fa risplendere
La notte, e il di oscurarsi.

Tem.

Anch’io so simile.
Mente cotesto far,

Cint.

Come?

Tem.

Se accendere
Di notte anderò un lume, e di dì a chiudere
Le finestre…
Or, sa far altro?

Cint.

Fa la terra muovere
Sempre che il vuole.

Tem.

Anch’io tal volta muovola,
{p. 155}
S’io metto al fuoco, o ne levo la pentola,
O quando cerco al bujo, se più gocciola
Di vino è nel boccale, allor dimenola.

Cint.

Te ne fai beffe, e ti par di udir favole?
Or che dirai di questo, che invisibile
Va a suo piacere?

Tem.

Invisibile? avetelo
Voi mai, padron, veduto andarvi?

Cint.

Oh bestia
Come si può veder, se va invisibile?

Tem.

Che altro sa far?

Cint.

De le donne e degli uomini
Sa trasformar sempre che vuole in varii
Animali e volatili e quadrupedi.

Tem.

Si vede far tutto il dì, nè miracolo
È cotesto.

Faz.

U’ si vede far?

Tem.

Nel popolo
Nostro…

Faz.

Narraci
{p. 156}
Pur come?

Tem.

Non vedete voi che subito
Ch’un divien potestate, commissario,
Notajo, pagator degli stipendii,
Che li costumi umani lascia, e prendeli
O di lupo, o di volpe, o di alcun nibbio?

Faz.

Cotesto è vero.

Tem.

E tosto che un d’ignobile
Grado vien consigliere e segretario,
E che di comandare agli altri ha uffizio,
Non è vero anche che diventa un asino?

Faz.

Verissimo.

Tem.

Di molti che si mutano
In becco io vò tacere.

Queste trasformazioni satiriche di uomini in animali sono accennate con somma in animali sono accennate con somma lepidezza, nè hanno minor grazia comica di quella che osservammo in Aristofane nelle Nuvole che prendono varie forme; se non che l’Italiano {p. 157}satireggia con più artificio i ceti interi, e non le persone particolari, come fa l’Ateniese.

Reca singolar diletto al filosofo che non arzigogola, cioè che ragiona con sicurezza di dati, il rintracciar nelle commedie alcun materiale da supplire alla storia stessa delle nazioni intorno alle alterazioni de’ costumi e delle maniere ed all’epoche de’ loro abusi. Per questo aspetto mirava Platone le Nubi, quando inviò tal favola al re Dionisio per dargli a conoscere gli Ateniesi. Di questa utilità e diletto privansi per certo spirito di superficialità molti Italiani che non curansi di esaminare le ricchezze teatrali che posseggono, contenti di averne false e superficiali notizie nelle opere oltramontane. E che può sapere, per esempio, dell’indole dell’Italica commedia quell’Italiano meschino che prende per iscorta la Poetica Francese del Marmontel, dove trovansi stabiliti principii contraddetti dal fatto? Ecco ciò che con filosofica baldanza disse quel Francese {p. 158}erudito degl’Italiani: Un popolo che per gran tempo ha posto il proprio onore nella fedeltà delle donne (io son pronto a mostrare ad un bisogno a codesto Enciclopedista che tutta l’Europa, e singolarmente i Francesi, hanno in certo tempo posto il proprio onore nella fedeltà delle donne)e nella vendetta crudele de’ tradimenti amorosi (e pure dovea sapere l’autore del Belisario che non sono stati gl’Italiani che hanno più di una fiata portato sulla scena a’ giorni nostri i Fajeli che per gelosia strappano il cuore agli amanti delle Gabrieli di Vergy)per necessità dovè inventare nelle commedie intrighi pericolosi per gli amanti e capaci di esercitare la furberia de’ servi. Pongasi da parte che tal maestro di poetica cìò scrivendo non si ricordò de Greci e de’ Latini, i quali sono pieni, e sel sanno anche i ragazzi, di questi intrighi e di questa furberia servile. Osserviamo solo che questo principio è fabbricato sulla rena.

{p. 159}

Le commedie da noi chiamate antiche, avute dal signor Marmontel in pensiero e non mai sotto gli occhi, sono, per quello che si stà narrando, frutti per la maggior parte del secolo XVI. Ora per verificare il principio fondato dal nomato autore che diede al teatro Cleopatra, bisognerebbe dimostrare che gl’Italiani in tal tempo fossero stati, come egli immagina, ad esclusione di ogni altro popolo, tutti gelosi e vendicativi. Ma io gli anfana a secco, e che non si è curato di bene osservare. Ariosto è il primo ad ismentirlo con tutte le sue cinque commedie; perchè in veruna di esse non si vede pesta di tali intrighi di gelosia e di vendetta funesta da lui urbanamente chiamata Italiana, per essersi dimenticato delle storie delle altre nazioni e della propria. Io gli presento un ritratto del costume italiano di quel tempo della maniera di conversare insieme l’uno e l’altro sesso somministratomi dalla favola del Negromante. Ecco {p. 160}quel che dice Cintio a Massimo lodatore della ritiratezza delle donne de’ tempi passati:

… Ma in quali case essere Sentite donne voi ch’abbiano grazia,
Che tutto il dì non vi vadano i giovani,
Essendo o non essendovi i loro uomini,
A corteggiar?

Mass.

Nè l’usanza è lodevole.
Cotesto al tempo mio non era solito.

Cint.

Doveano al vostro tempo avere i giovani,
Più che non hanno a questa età, malizia.

Mass.

Non già, ma bene i vecchi più accorti erano.
Mi meraviglio che al presente gli uomini
Non sieno affatto grossi come tortore.

Cint.

Perchè?

Mass.

Perchè hanno tutti sì buon stomaco.
{p. 161}

È questa l’esagerata gelosia Italiana che corre di bocca in bocca tra’ Francesi? E con tal conoscenza de’ costumi italiani ha stabilito il suo filosofico principio della nostra commedia il signor Marmontel? Il filosofar sulle arti reca utile alla gioventù e lode al ragionatore; ma col fantasticar fu di esse con osservazioni mal digerite, si distrugge e non si edifica.

Continuando la ricerca di alcune bellezze e dell’artificio della favola del Negromante, osserviamo che il carattere di Mastro Giachelino furbo vagabondo viene sin dal principio dell’atto II enunciato da Nibio. Egli dice che avendo appena appreso a leggere e scriver male, ha l’arte di spacciarsi per filosofo, alchimista, medico, astrolago e mago, sapendo di tali cose quello stesso

Che sa l’asino e ’l bue di sonar gli organi.

Aggiugne che egli ed il maestro vanno come zingari

Di paese in paese, e le vestigie
{p. 162}
Sue tuttavia dovunque passa, restano
Come de la lumaca, e per più simile
Comparazion, di grandine o di fulmine.

Ma si disviluppa affatto il di lui carattere quando egli stesso parla con Nibio, e svolge la sua economia furbesca nello scorticare differentemente i creduli suoi merlotti, con tal arte e grazia, che è da dolersi che la gioventù, la quale trascura la lettura di tali commedie, rimanga priva di tanti vezzi comici.

Or questo furbo così trincato si ha prefisso, giusta le sue regole economiche, di tosar prima a poco a poco Massimo e Camillo, e poi di scorticarli fin sul vivo e fuggirsi. Al primo egli promette di portare in casa una cassa con un cadavere per fare uno scongiuro; e per preparare la stanza alla finta evocazione, domanda molte ricche tele, argenti ed altre cose di prezzo. All’altro promette il possesso dell’ {p. 163}innamorata, purchè si faccia trasportare nella di lei casa in una cassa. Condiscende il Pocasale, e si fa chiudere. Questo maneggio in parte trapelato mette in agitazione Temolo e Fazio già insospettiti del Negromante che prima aveano cercato di guadagnare. Essi temono qualche male da questa cassa; e vedendola portare verso la casa di Massimo, si turbano.

Faz.

Ah che la cassa recano
Che hai detto!

Tem.

Ov’è?

Faz.

Vieni ove sono e vedila.

Tem.

Chi la porta?

Faz.

Un facchin.

Tem.

Solo?

Faz.

Accompagnala
Pur quel suo servidore.

Tem.

Ecci l’astrolago?

Faz.

L’astrolago non ci è

Tem.

Non ci è?

Faz.

No, dicoti.

Tem.

Lascia far dunque a me.

Faz.

Che vuoi far?

Tem.

Eccola.

Faz.

Che di tu? Ma con chi parlo io? Ove diavolo
Corre costui? perchè da me sì subito
{p. 164}
S’è dileguato? Io credo che farnetichi.

Ma no; Temolo non gli risponde, perchè non ha tempo d’istruirlo di ciò che ha pensato, e si ritira per lasciar venir fuori Nibio con la cassa, indi per allontanarlo di là inventa una fola verisimile, e l’accredita con patetica vivezza. Egli vien fuori esclamando:

O terra scelerata!

Faz.

Di che diavolo
Grida costui?

Tem.

Non ci si può più vivere.
Tutta è piena di traditor.

Faz.

che gridi tu?

Tem.

E d’assassini.

Faz.

Chi t’ha offeso!

Tem.

O povero
Gentiluomo!

Faz.

Mi par che tu sia…

Tem.

O Fazio
Gran pietà!

Faz.

Che pietade?

Tem.

O caso orribile!
Non m’ho potuto ritener di piangere
Di compassione.

Faz.

Di che?

Tem.

Aimè d’un povero
Forastier, ch’ho veduto or ora uccidere.
{p. 165}
D’una crudel coltellata.

Con tal preludio e co’ meriti a Nibio non ignoti del suo padrone, non è molto ch’egli creda che Mastro Giachelino, secondo il racconto di Temolo, sia stato ucciso. Egli vuole accorrere a vederlo; Temolo gl’insegna la via, e poi soggiugne,

Ma che voglio insegnar? Non è possibile
Errar. Va dietro agli altri; grandi e piccioli
V’accorron tutti.

Nif.

O Dio!

Tem.

Non posso credere
Che il trovi vivo.

Nibio parte precipitosamente. Temolo per cogliere il frutto della sua astuzia, e distruggere i disegni dell’astrolago, in vece di far entrare la cassa nella casa di Massimo, la fa condurre in quella di Fazio. Torna poi Nibio arrabbiato per essere stato beffato, e cerca della cassa. Graziosissima è la seconda burla che riceve. Fazio gli dice che il facchino l’ha portata in dogana, cosa verisimile che spaventa Nibio d’altra {p. 166}sorte, e lo sbalza verso la dogana; colpi maestrevoli tanto più artifiziosi e piacevoli quanto più naturali. Un vivo disordine e movimento reca all’azione questa cassa condotta in casa di Fazio. Camillo che v’è rinchiuso intende il secreto dell’unione degli animi di Cintio e Lavinia, e fugge in farsetto per riferirlo a Massimo. Cintio sommamente afflitto pel caso va in cerca di Camillo per pregarlo di tacere. Fazio gli dice che faccia conto che Massimo abbia già saputo il fatto, essendo iti a lui Camillo ed Abondio. Sono iti? dice Cintio,

Faz.

Sì sono.

Cint.

Io son spacciato, io son morto, apriti,
Apriti, perdio, terra, e seppelliscimi.

Ogni parola dà nuovo moto, e nuovo calore alla favola. Cintio disperato pensa a fuggire (egli dice)

Tanto lontano che giammai più Massimo
Non mi rivegga: aspettar la sua collera
{p. 167}
Non voglio: addio: vi raccomando, Fazio,
La mia Lavinia.

Fermiamoci qualche istante in questo punto dell’azione. Se non è questa la forza (vis) comica da Cesare desiderata in Terenzio, e qual sarà mai? Dessa è appunto, la quale, a quel che io ne penso, non è altra cosa, se non che un movimento proprio della comica poesia, il quale crescendo per gradi senza intermissione infonda e conservi l’attività ne’ caratteri, e la vivacità nella favolaa. Diede Cesare a tal movimento il nome di forza per contrapporla alla languidezza mortal veleno della scena: vi aggiunse comica, per dinotare, che tale esser {p. 168}debba e nelle situazioni e ne’ colpi di teatro e negli affetti, quale alla commedia si convenga; e con ciò la distinse da quella forza più energica richiesta nelle passioni e ne’ caratteri della tragedia.

Chi ripose tal forza comica nella copia de’ sali e de’ motteggi, non parmi che si apponesse. Una languidissima favola non mai avrà la forza accennata da Cesare, per quanto sia cospersa di sali e motti graziosi. I pulcinelli, gli arlecchini, i graziosi del teatro spagnuolo, con tutte le loro possibili lepidezze, non credo che ispirerebbero forza e calore a una favola fredda e dilombata. Della stessa maniera una tragedia languida, lenta, snervata, sarrà sempre priva di forza tragica, tuttochè abbondasse di gravi sentenze politiche e morali. Direi, che meno di altri critici e precettori di poetica si fosse allontanato dalla mente di Cesare il prelodato signor Marmontel, il quale pose la forza comica ne’ gran tratti che sviluppano i caratteri, e {p. 169}vanno a cercare il vizio sino al fondo dell’anima; se l’arte di cogliere questi grandi tratti fosse mancata a Terenzio. Ma è troppo noto, che il pregio maggiore di questo Cartaginese fu appunto il sapere disviluppare i caratteri, e cercarne le tinte sino al fondo dell’anima. Cesare dunque ad altro ebbe la mira nel richiedere in lui la forza comica; e certamente vi desìderava quel piacevole e comico calore e movimento che anima la favola, e tiene svegliato lo spettatore. Si appose dunque Madama Dacier quando nelle note sulla vita di Terenzio disse. J’ai cru que par ce vis comica Cesar ne vouloit pas tant parler des passions (che era l’avviso del di lei padre)que de la vivacitè de l’action et du noeud des intrigues.

Or questa forza comica, questa vivacità piacevole dell’azione noi ravvisiamo appunto nel Negromante. Nulla v’ha di freddo, nulla di superfluo. La piacevolezza aumenta a misura che l’azione s’inviluppa, e va crescendo {p. 170}sino all’ultimo grado comico lo scioglimento. Nè dee recare stupore, che per questa parte rimanga il comico. Latino superato dall’Italiano. Terenzio, poco o molto che il facesse, piegava il proprio ingegno a seguire le greche guide; e l’attenzione che dava a spiegare le idee altrui, gli toglieva quel portamento originale, libero, franco, vivace, che l’Ariosto inventore manifesta ad ogni trattoa.

{p. 171}

Questa favola fu rappresentata in Roma a’ tempi di Leone X, che la richiese all’autore, il quale nel rimettergliela l’accompagnò con una lettera de’ 16 gennajo del 1520. Or questa data, e le parole del secondo prologo di tal commedia, ci danno l’epoca delle prime commedie dell’Ariosto. Ivi si dice:

… Questa nuova commedia.
Dic’ella aver avuta dal medesimo
Autor, da chi Ferrara ebbe di prossimo
La Lena, e già son quindici anni, o sedici,
Ch’ella ebbe la Cassaria e li Suppositi:
Oddio! con quanta fretta gli anni volano!

Essa, parimente si tradusse in prosa francese, e s’impresse in Parigi nel medesimo secolo, cioè assai prima che vi si conoscesse il teatro spagnuoloa.

{p. 172}

La Scolastica. Quest’ultima commedia tessuta intieramente da Lodovico fu da lui verseggiata soltanto sino alla quarta scena dell’atto quarto, e terminata poi da Gabriele fratello del poeta. Non era stata se non abbozzata dal primo autore (secondo il Pigna ne’ Romanzi) e pure si ravvisa in essa la diversità della seconda mano. Anche Virginio figliuolo dell’autore fu indotto a lavorarvi, e da prima tutta la ridusse in prosa, indi tornò a scriverla in versi; ma il di lui lavoro si è perdutoa.

Eccone il soggetto. Eurialo scolaro in assenza di Bartolo suo padre {p. 173}riceve in casa la sua innamorata Ippolita facendola passare per figlia di messer Lazzaro cattedratico che si aspettava, e che per notizie sopravvenute si sapeva di non dover più venire. La rivoluzione nasce graziosamente dal ritorno improvviso del padre di Eurialo, da un famigliare della padrona d’Ippolita, e dall’arrivo di messer Lazzaro. Il servo Accursio e Bonifazio amico di Eurialo vanno alla meglio rimediando agli sconcerti. Venendo messer Lazzaro, il quale non conosce personalmente l’amico Bartolo, Bonifazio ne prende il nome, e come tale lo riceve colla famiglia nella propria casa. Regge così la macchina finchè Bartolo, che si trova in istrada, non vede uscir Bonifazio insieme con Lazzaro, e non sente che questi dà all’altro il nome di Bartolo. Si trova introdotto in questa favola un frate teologo con cui Bartolo si consiglia. Costui trent’anni prima avea ricevuto in deposito molti beni da un suo amico che morì, perchè gli rendesse alla di lui moglie e figlia. {p. 174}Bartolo si fe sedurre da quell’avere, nè curò di cercare di queste infelici, ed al fine dopo tanti anni scorsi pensa a fare un pellegrinaggio per andarne in traccia, e per espiar la colpa. Il buon teologo (i falsi teologhi non pregiudicano ai veri e virtuosi che nel consigliare hanno soltanto la mira al giusto) l’esorta a risparmiarsi l’incomodo del viaggiare essendo vecchio, ed a consegnarne a lui le spese; e quanto al ritener le altrui ricchezze depositate, conchiude che si potrà commutare in qualche opera pia, non essendovi obbligo sì grande,

Che non si possa scior con l’elemosine.

Trovasi in questa Commedia più d’una imitazione di Terenzio. Simile alla risposta data dal servo Davo a Miside nell’Andria è ciò che quì dice Accursio:

Ma non sapete voi che Messer Claudio
Meglio dirà che non ci son, credendosi
{p. 175}
Di dir la verità, che conoscendosi
Bugiardo? e meglio le parole vengono
Che si partan dal cuor che quella ch’escano
Sol dalla bocca all’intenzion contraria?

L’olim istuc olim cum ita animum induxti tuum, è ancora imitato nell’atto IV. Un’altra imitazione Terenziana si scorge nell’allegrezza di messer Claudio. Ma degna di notarsi è singolarmente con quanta verità parlino in essa gl’innamorati. Nell’atto II una vecchia che conduce Ippolita ad Eurialo, l’esorta ad esser prudente, ed a ben fingere il personaggio di figlia di messer Lazzaro. La giovine promette; ma appena dice Accursio

Ecco la casa là del nostro Eurialo, che trasportata dice,
O cuor mio caro, o vita mia, difficile
Sarà potermi tener di non correre
Ad abbracciarlo;
{p. 176}

e s’incammina con tutta fretta. Sono queste le pennellate maestrevoliche di un sol tratto spiegano l’intensità dell’affetto. Ella non cessa di rampognar la tardanza della vecchia coll’impazienza propria della gioventù e dell’amore.

Altro non aggiungeremo intorno alle commedie dell’Ariosto, se non che egli è sì ingegnosamente regolare e semplice nell’economia delle favole, sì vivace grazioso e piacevole, sì alle occorrenze patetico e delicato ne’ caratteri e negli affetti, sì elegante e naturale nello stile, e con tanta aggiustatezza e verità dialogizza senza aggiungnere una parola che non venga al proposito; che stimo che mai non termineranno con lode la comica carriera que’ giovani che allo studio dell’uomo e della società, per la quale vogliono dipingere, e alla ragionata lettura de’ frammenti di Menandro e delle favole di Terenzio e di Plauto, non accoppino principalmente quella dell’Ariosto.

Si novera tralle prime commedie di questo secolo la Calandra del {p. 177}cardinal Berardino Dovizio da Bibbiena terra del Casentino, nato nel 1470 e morto non senza sospetto di veleno l’anno 1520. Un pieno applauso riportò questa favola nelle replicate rappresentazioni che se ne fecero in Italia, ed anche in Francia. Apostolo Zeno narrò col seguente ordine le recite della Calandra in Italia: la prima in Roma a’ tempi di Leone X; la seconda in Mantova l’anno 1521; la terza di nuovo in Roma quando vi venne Isabella d’Este Gonzaga marchesa di Mantova; e l’ultima volta in Urbinoa. Probabilmente però la prima di tutte le recite fu quella di Urbino, come ben riflette l’insigne Storico della nostra Letteraturab; giacchè il Castiglione dice di questa recita che non essendo ancor giunto il prologo del Bibbiena, aveane egli composto uno, la {p. 178}qual cosa può indicare che la di lui commedia fosse scritta di recente, anzi non del tutto compiuta. Le parole con le quali si conchiuse l’argomento che vi e apposto dopo il prologo, indicano che la rappresentazione non si faceva in Roma, ma in un’altra città. Nel parlarsi de’ gemelli si dice che essi sono in Roma, e che gli spettatori vedranno comparirli nella propria loro città. Nè crediate però (si soggiungue)che per negromanzia sì presto da Roma vengano quì…. perciocchè la terra che vedete quì (cioè nella scena)è Roma, la quale già esser soleva sì ampia…. e ora è sì picciola diventata, che, come vedete, agiatamente cape nella città vostra. L’altra recita si fece in Roma alla presenza di Leone X, per quel che accenna il Giovio nella di lui Vita, e le magnifiche scene furono opera di Baltassarre Peruzzi Sanesea; {p. 179}ed allora fu che v’intervenne anche la nominata marchesa di Mantova, costando da una delle lettere del Castiglione conservate in Mantova che ella fu in Roma nel 1514, cioè su i principii del pontificato di Leone Xa. La terza volta seguì in Mantova avanti alla medesima marchesa nel 1521, siccome afferma il signore Zeno coll’autorità di Mario Equicola. Fu poi rappresentata in Lione nel 1548 in presenza del re Errico II e della regina Caterina Medici dalla nazione Fiorentina, e quei sovrani distribuirono agli attori un regalo di ottocento doppie, e ciò anche accadde più dì un secolo prima che i Francesi conoscessero Castro, Lope e Calderon.

Si premette all’azione un prologo ed un argomento. Si espone nel primo la qualità della favola, ed in fine si dà {p. 180}una graziosa discolpa dell’accusa che si potria fare all’autore di essere ladro di Plauto. A Plauto (si dice)staria molto bene lo essere rubato, per tenere il moccicone le cose sue senza una chiave, senza una custodia al mondo. Tuttavolta con giuramento si aggiugne di non averglisi furato cosa veruna; e che ciò sia vero, si cerchi quanto ha Plauto e troverassi che niente li manca di quello che aver suole. Coll’argomento poi narrato da un altro attore viene l’uditorio istruito che la favola si aggira sulle avventure di due gemelli nati in Modone, l’uno maschio chiamato Lidio, l’altra femmina per nome Santilla, di forma e di presenza similissimi, i quali dalla presa fatta da’ Turchi della loro patria rimangono divisi sin dalla fanciullezza, e per varii casi, senza che l’uno sappia dell’altro, giungono in Italia, apprendono la lingua del paese, e Santilla vi dimora in abito virile col nome del fratello. Dopo alcuni scambiamenti avvenuti per l’amorosa {p. 181}follia di Fulvia moglie del dissennato Calandro (onde la favola prende il nome) i fratelli lietamente si riconoscono. Calandro che ha veduto Lidio vestito da femmina quando visitava la moglie, se n’è anch’egli mattamente innammorato.

Lo stile puro ed elegante della Calandra non può essere nè più grazioso nè più proprio per gli personaggi che vi s’imitano. I caratteri vi sono dipinti con brio e verità, e nelle passioni mediocri che vi si maneggiano si manifesta in bel modo la ridicolezza che ne risulta. Soprattutto è dipinta al vivo la scempiaggine di Calandro che rassomiglia al Tofano del Boccaccio. Piacevoli sono i propositi che tiene coll’astuto Fessenio che se ne burla e l’aggira. Egli l’ha persuaso ad andar chiuso in un forziero a vedere la sua fanciulla; egli in altra scena passa più oltre, e gli dà a credere che possa morire e resuscitare a sua posta, ed in tal guisa gliene insegna il modo:

Fes.

Tu sai Calandro, che altra {p. 182}differenza non è dal vivo al morto, se non in quanto che il morto non si muove mai e il vivo sì; e però quando tu faccia come io ti dirò, sempre resusciterai.

Cal.

Di su.

Fes.

Col viso tutto alzato al cielo si sputa in su, poi con tutta la persona si dà una scossa, poi si apre gli occhi, si parla, e si muove i membri: allor la morte si va con Dio, e l’uomo ritorna vivo. E stà sicuro, Calandro mio, che chi fa questo, non è mai morto.

Calandro contentissimo pruova a morire e rivivere col bel segreto. Fessenio gli dice che guardi a farlo bene.

Cal.

Tu ’l vedrai. Or guarda: eccomi.

Fes.

Torci la bocca; più ancora, torci bene, per l’altro verso; più basso… Oh oh, or muori a posta tua. Oh bene. Che cosa è a far co’ savii! {p. 183}Chiavria mai imparato a morir sì bene come ha fatto questo valentuomo, il quale muore di fuora eccellentemente? Se così bene di drento muore, non sentirà cosa che io gli faccia, e conoscerollo a questo. Zas: bene. Zas: benissimo. Zas: ottimo. Calandro, o Calandro, Calandro?

Cal.

Io son morto, io son morto.

Fes.

Diventa vivo, diventa vivo: su, su, che alla fe tu muori galantemente. Spunta in su.

Ed ecco che i lavacceci italiani hanno la fisonomia de’ Pourceaugnac francesi, nè è a noi mancato un pennello nazionale che abbia saputo ritrarli un secolo e mezzo prima del Moliere.

Ma sebbene tutto sia comico e piacevole in questa favola, e tutto lontano dalla decantata gelosia e vendetta Italiana, non a torto però il dotto Lilio Gregorio Giraldi nel confessare che abbondi di sali e facezie, affermò che mancava d’arte. L’intrigo {p. 184}non è fra quelli che ben concatenati prestano all’azione forza ed interesse. In molte parti si desidera quel verisimile che accredita le favole sceniche e chiama l’attenzione dello spettatore. Non si vede, per darne un esempio, nell’atto I la ragione per cui Fulvia che altre volte ha veduto in casa Lidio vestito da femmina, pretenda poi che Ruffo per via d’incanti, lo trasformi in femmina per l’istesso intento; e perchè non usa del modo più agevole già praticato? Allora che nell’atto V i fratelli di Calandro ci hanno colto Lidio e Fulvia insieme, non si vede chiaro come nel tempo che si aspettano i fratelli di lei, sieno gli amanti così mal custoditi, che possa a Lidio sostituirsi Santilla per far rimaner Calandro scornato, e riuscire la riconoscenza de’ gemelli;

Quodcumque ostendis mihi sie, incredulus odi.

Meglio condusse il Boccaccio la novella di Tofano, in cui si vede un’ avventura simile e che suggerì al Moliere {p. 185}la farsa di George Dandin. Il pudore poi richiesto ne’ moderni colti teatri vuol che si schivino gli amorazzi di Fulvia; come altresì le scene equivoche della natura di quella di Samia chiusa con Luscioa; poichè quivi il Dovizio imita anzi l’oscenità di qualche passo della Lisistrata di Aristofane, che la piacevolezza di Plauto. In oltre Fessenio che incomincia l’atto III dicendo Ecco, spettatori, le spoglie, segue i nominati comici antichi, ma si allontana anche per questa ragione da Terenzio universalmente approvato, il quale non si rivolge mai agli spettatori. Tutte queste cose delle quali niuna se ne scorge nelle commedie dell’Ariosto, rendono a’ miei sguardi il gran poeta Ferrarese di gran lunga superiore al cardinal di Bibbiena nella poesia comica.

Quasi al medesimo tempo scrisse le sue commedie il celebre Segretario {p. 186}Fiorentino Niccolò Machiavelli nato in Firenze nel 1469, e morto nel 1547. Egli compose la Mandragola, la Clizia, e l’Andria.

La Mandragola. La freschezza e la vivacità del colorito di questa favola, se l’oscenità dell’argomento non la tenesse lontana da’ moderni teatri, potrebbe rendere accorti i forestieri di quanto abbiano gl’Italiani preceduto la nazione Francese nella bella commedia di carattere. L’autore vi morse alcuni viventi cittadini, le orme calcando di Aristofane. Volle ancora esporvi alla berlina l’abuso fatto da un tal Timoteo del credito dovuto a certo stato, che per tanti secoli si è rispettato, e quantunque se ne potesse con copiosi esempi giustificar la pittura, pure ad onor del tutto consiglia la prudenza a risparmiar la parte mal sana, e a non motteggiarla in iscena, affinchè dagli inesperti o maligni non se ne traggano scandalose conseguenze generali. Essa non pertanto allora si fece, e si rappresentò in Firenze {p. 187}contal plauso generale, che giusta il racconto di Paolo Giovioa, «i medesimi cittadini proverbiati, e punti altissimamente nella favola di Nicia soffrirono con pazienza l’ingiuria, e la marca che gli segnava, in grazia della mirabile urbana piacevolezza; e Leone X che da cardinale l’avea veduta nella patria, volle goderla anche in Roma essendo papa, e v’invitò gli attori stessi, e vi fe trasportar anche l’intero apparato comico, col quale erasi in Firenze rappresentata». Il Giovio chiama Nicia questa favola, perchè n’è il personaggio principale il balordo messer Nicia Calfucci, il quale cade nella sciocchezza di dare alla bella sua moglie una pozione di mandragola colle circostanze che l’accompagnano, per averne un figliuolo maschio. Un prologo in versi serve a dar conto della qualità della scena, dell’azione, e {p. 188}degl’interlocutori. Vi si dice fralle altre cose:

La favola Mandragola si chiama:
La cagion voi vedrete
Nel recitarla, com’io m’indovino.
Non è il compositor di molta fama;
Pur se voi non ridete,
Egli è contento di pagarvi il vino.

Nè vano è questo vanto della picevolezza che promette; che ridicola essa riesce moltissimo per tutte le sue parti. Per conoscere messer Nicia che avrà la ventura di aver de’ figliuoli, vedasi uno squarcio della seconda scena dell’atto I. Ligurio parassito gli dice, che egli forse avrà briga di andar colla moglie a’ bagni, perchè non è uso a perdere la cupola di veduta.

Nic.

Tu erri. Quando io era più giovine, io sono stato molto randagio, e non si fece mai la fiera a Prato, che io non vi andassi, e non ci è castel veruno all’intorno, dove io non sia stato; e ti vo’ lire più là; io sono stato a Pisa e a Livorno, o và!

{p. 189}

Lig.

Voi dovete aver veduta la carrucola di Pisa.

Nic.

Tu vuoi dire la verrucola.

Lig.

A sì, la verrucola: A Livorno vedeste voi il mare?

Nic.

Ben sai ch’io il vidi.

Lig.

Quanto è egli maggior che Arno?

Nic.

Che Arno? Egli è per quattro volte, per più di sei, per più di sette, mi farai dire; e non si vede se non acqua, acqua, acqua!

Nell’undecima scena dell’atto III si trovano a maraviglia espresse le apprenti ragioni usate dagl’impostori seduttori per indurre la credula innocenza a cadere in fallo. Tutti i discorsi dello scempio Dottore

Che’ imparò in sul Buezio leggi assai,

hanno somma grazia, e ne rilevano la goffaggine senza bisogno di sforzo veruno istrionico per far ridere, come non rare volte può notarsi ne’ migliori comici stranieri. Soprattutto è da {p. 190}vedersi il di lui carattere in ciò che dice di sua moglie nella scena ottava dell’atto IV, quanti lezii ha fatto questa mia pazza ecc. Ligurio anche graziosamente motteggia sull’avventura di Nicia, stando egli in aguato e Nicia stesso e Siro e Frate;Frate Timoteo travestiti per cogliere alcuno giovinaccio spensierato per lo bisogno che ne hanno:

Lig.

Non perdiamo più tempo quì. Io voglio essere il capitano, ed ordinare l’esercito per la giornata. Al destro corno fia preposto Callimaco, al sinistro io, tralle due corne starà qui il dottore; Siro fia retrogrado per dare sussidio a quella banda che inclinasse; il nome fia San Cocù.

Nic.

Chi è san Cocù?

Lig.

E il più onorato santo che sia in Francia.

L’atto IV si conchiude colle parole di Fra Timoteo indirizzate alli spettatori, le quali a parer mio distruggono l’illusione teatrale sino a questo punto mirabilmente sostenuta. Aristofane e {p. 191}Plauto seducevano gli eruditi comici del secolo XVI.

Se si attenda alla felicissima dipintura de’ caratteri introdotti che non può migliorarsi, e all’ardita satira de’ licenziosi costumi allora dominanti, e a i sali e alle grazie dello stile; noi converremo di buon grado col celebre conte Algarotti che in essa ritrova la eleganza del dire di Terenzio, e la forza comica di Plauto. Ci scommetterei (egli aggiugne)che avrebbe mosso a riso l’istesso Orazio, a cui non garbeggiavano gran fatto i sali Plautini. Essa fu tradotta in francese dal celebre Giambatista Rousseau, encomiata per l’intreccio e per lo vero comico dal signor di Voltaire, e ammirata da m. Du Bos e da non pochi altri bravi letterati oltramontani.

Ma intanto che valentuomini di prima nota Italiani e Oltramontani ammirano nel Machiavelli, oltre all eleganza del dire, vivacità di pennello e forza comica, il sign. Giovanni Andres dice delle di lui commedie che {p. 192}peccano alle volte in lentezza e in languore. A chi daranno fede i giovani? A codesto esgesuita che le chiama languide, o a que’ grandi uomini che vi riconoscono, segnatamente nella Mandragola, forza comica e vivacità? A lui no certamente, perchè non ne adduce una ragione vera che convinca. Languide esse sono per lui, per volersi l’autore adattare al gusto allora regnante e trasportare al moderno idioma i complimenti, le frasi, e l’espressioni de’ comici latini. Questa osservazione può adattarsi alla Mandragola? Vedesi forse in essa sì grande studio di rendere italiane le maniere latine? In niun luogo. Pure se ciò fosse, di grazia potrebbe tale studio essere necessaria e vicina cagione di languidezza? Altre immediate sorgenti che non si scorgono nella Mandragola, sogliono cagionar nelle favole sceniche lentezza e languore. Ma sapere abbigliar di moderno le antiche favole, sarebbe in una favola un pregio di più che renderebbe quegli antichi bei {p. 193}tratti naturali sempre più interessanti colla freschezza del colorito, e per conseguenza allontanerebbe sempre più la favola dalla languidezza. Ciò che dice poi dell’oscenità di tali commedie potrebbe sì bene esser questa giusto motivo di vietarne a’ fanciulli la lettura, ma non già una pruova contro la loro prestanza. Oltrecchè starà bene il riprendere le laidezze della Mandragola a chi si fa prolissamente il panegirista dell’osceno libro della Celestina ruffiana famosa? Si vede bene che il favellar di gusto e poesia drammatica antica e moderna non è fatto per ogni sorta di antiquarii.

La Clizia. È questa una libera imitazione o una bella copia della Casina di Plauto o di Difilo. Nel prologo che è in prosa come tutta la commedia, lo confessa l’autore stesso. Egli dice che un caso anticamente avvenuto in Grecia, è poi seguito anche in Firenze. E volendo questo nostro autore l’uno delli due rappresentarvi, ha eletto il Fiorentino… {p. 194}Prendete intanto il caso seguito in Firenze, e non aspettate di riconoscere o il casato o gli uomini, perchè l’autore per isfuggire carico ha convertiti i nomi veri ne’ nomi finti. Passa indi a discolparsi, se ad alcuno paresse esservi cosa men che onesta, benchè egli non creda che vi sia; ma quando pur vi fosse, dice, sarà in modo che queste donne potranno senza arrossire ascoltarla.

Parmi che dalla prima scena possa rilevarsi che si sia tal commedia rappresentata intorno al 1506. In narrando Cleandro a Palamede quando ed in qual modo venne in casa la Clizia, dice: Quando dodici anni sono nel 1494 passò il re Carlo per Firenze, che andava con un grande esercitò all’impresa del regno, alloggiò in casa nostra un gentiluomo della compagnia di Monsignor di Fois chiamato Beltramo di Guascogna. Dalla terza scena poi dell’atto II, in cui altercano Sofronia e Nicomaco, parmi che si vegga che l’autore compose {p. 195}prima la Mandragola. Nicomaco propone alla moglie di prendere per arbitro de’ loro domestici dispiaceri sulle nozze di Clizia, qualche religioso. A chi andremo? Dice Sofronia.

Nic.

È non si può ire a altri che a F. Timoteo, che è nostro confessore di casa, ed è un santarello, ed ha già fatto qualche miracolo.

Sof.

Quale?

Nic.

Come quale? Non sai tu che per le sue orazioni Monna Lucrezia Calfucci che era sterile, ingravidò?

Questo motto non riuscirebbe grazioso e vivace, se per la passata commedia non fosse nota la novella di Nicia.

Tralle dipinture lodevoli di questa favola ci si presentano i bellissimi ritratti del buon padre di famiglia e del traviato coloriti egregiamente nella quarta scena dell’atto II delineati da Sofronia nella persona stessa di Nicomaco; veri, naturali, senza massime generali, senza sforzi di spirito, senza {p. 196}affettazioni, senza tirate istrioniche da Pantalone.

Calca l’autore, come si è detto, le tracce della Casina latina; ma senza dubbio ne migliora l’economia, e ne accresce la verisimiglianza, specialmente nello scioglimento colla venuta del padre di Clizia. Il Machiavelli ha fatto con molta felicità della Casina quello che Plauto stesso e Cecilio e Nevio e Terenzio ed Afranio fecero delle favole greche. E sarebbe a desiderare che nella nostra chiamata illuminata età, in vece di scriversi scempiate traduzioni delle favole Plautine, se ne facessero sulle orme del Machiavelli fresche imitazioni libere che tirassero l’attenzione appunto coll’adattarvisi acconciamente l’espressioni latine ai costumi moderni. I Francesi stessi e la conobbero e la pregiarono e ne favellarono con senno e buon gusto, ancor prima di conoscere i drammatici spagnuoli. E latina bona (disse Balsaca){p. 197}hetruscam fecit meo judicio non malam. Clitia siquidem illius eadem est quae Plauti Casina. Alcune cose (egli soggiugne) fedelissimo interprete ne rendette quasi da verbo a verbo, altre ne corresse con arte, molte ne imitò con singolare felicità; qualcheduna però ne trascrisse aut impudenter aut perversè. E per esempio di ciò che ne dice in ultimo luogo, adduce il passo della scena quinta dell’atto II della Casina, Quid istuc est, quicum litigas. Olympio, che il Machiavelli traduce ed imita nella sesta dell’atto III della sua Clitia:

Pir.

Prima che io facessi ciò che voi volete, io mi lascerei scorticare.

Nic.

La cosa va bene. Pirro stà nella fede. Che hai tu? Con chi combatti tu, Pirro?

Pir.

Combatto ora con chi voi combattete sempre.

Nic.

Che dice ella? che vuole ella?

{p. 198}

Pir.

Pregami che io non tolga Clizia per donna.

Nic.

Che l’hai tu detto?

Pir.

Che io mi lascerei prima ammazzare che la rifiutassi.

Nic.

Ben dicesti.

Pir.

Se io ho ben detto, io dubito non avere mal fatto; perchè io mi sarò fatta nemica la vostra donna e il vostro figliuolo e tutti gli altri di casa.

Nic.

Che importa a te? Stà ben con Cristo, e fatti beffe de’ santi.

Pir.

Si, ma se voi morissi, i santi mi tratterebbero assai male.

Questa ultima espressione stà ben con Cristo parve a Balsac meno castigata; e veramente non può negarsi che avrebbe potuto esporsi con minore impudenza o irriverenza. Non pertanto la veste allora addossata in Italia alla Casina, ha la foggia, il colore, i fregi, tutto vivace e moderno, e sì ben rassettata, che par nativa di Firenze, e non della Grecia; per le quali cose tira l’attenzione di chi {p. 199}legge o ascolta, e l’interesse che risveglia la preserva dalla pretesa lentezza e languore.

Questa commedia in prosa è accompagnata da sei corte canzonette. La prima va innanzi al prologo, ed è cantata da una ninfa e da due pastori; le altre cinque ancor della prima più corte son poste per tramezzi nella fine di ciascun atto. Adunque coloro che pretendono, sol perchè l’asserirono la prima volta, trasformare le pastorali del XVI secolo in opere in musica, per sapere che vi furono poste in musica le canzonette de’ cori, dovrebbero contare ancora tralle opere musicali questa commedia in prosa del Machiavelli per la medesima ragione; la qual cosa sarebbe una rara scoperta del secolo XVIII. Guardici però il cielo che ancor questo sproposito alcun dì non abbia a venire in moda!

Oltre a questa libera imitazione della Casina si provò il Machiavelli a far pure una pretta traduzione dell’Andria di Terenzio, la quale parmi che per la prima volta siesi impressa nell’edizione di Parigi delle di lui opere, ch {p. 200}porta la data di Londra del 1768. Se questo celebre Segretario Fiorentino ignorò il latino linguaggio, come si è preteso, certamente ciò non apparisce nè dalle sue riflessioni politiche sulle storie di Tito Livio, nè dall’imitazione della Casina di Plauto, nè da questa traduzione dell’Andria di Terenzio.

Mi si permetta di fermarmi anche un poco su i censori delle commedie del Machiavelli. Dalla lentezza e languore attribuita loro dal signor Andres, che è la frase che egli adopra per intingolo perpetuo in parlar del teatro italiano, apparisce che egli parlar volle (il dirò pure) di una provincia che non aveva visitata. Più grazioso è poi il giudizio che ne diede il chiarissimo Bettinelli. Ben è Curioso (egli dice)il leggere le lodi date da molti a queste commedie, come se fosser l’ottime del teatro italiano, essendo in vero lor primo merito lo stil fiorentino colle più licenziose e triviali profanazioni del costume onesto. Curioso oracolo veramente. Non hanno dunque {p. 201}condo lui altro merito le commedie del Machiavelli che lo stil fiorentino? Ed intanto mille o duemila altre favole col medesimo pregio dello stil fiorentino fanno sbadigliare, e giacciono seppellite sotto la polvere delle biblioteche. Ma di grazia incresce al gran censore Ignaziano l’oscenità di esse? E perchè parlando della rappresentazione che fecesi in Roma della Calandra del cardinal da Bibbiena (incomparabilmente o almeno altrettanto licenziosa che la Mandragola) egli dice graziosamente che i papi, i cardinali e i prelati non si facevano scrupolo di assistere a quelle licenziosità di gusto antico, perchè consecrate quasi da’ Greci e da’ Latini. Il profano Machiavelli non poteva entrare a parte di questa medesima indulgenza? E lasciando da banda l’oscenità comune ad entrambe, pensa egli mai che il merito della Calandra sorpassasse quello della Mandragola? S’ingannerebbe di molto. L’arte, la condotta e la forza comica dell’azione, l’energia e la vivacità del colorito ne’ {p. 202}caratteri tratti bellamente dal vero, una dilettevole sospensione, una piacevolezza comica non fredda, non insipida, non instentata, ma spiritosa, salsa, naturale, obbligano gl’imparziali a distinguere le commedie del Machiavelli dalle intere comiche librerie, ed a collocarle tralle ottime del teatro italiano di quel tempo felice. Per rendere giustizia ai talenti dello stesso ab. Bettinelli io son persuaso che egli ne conosce più di noi i pregi. Ma egli può noverarsi tra certi eruditi, i quali non sapendo deferire se non a se stessi ed a’ loro amici e lodatori, sogliono talvolta censurare più per singolarizzarsi allontanandosi dal l’avviso comune, che per intera persuasione e per amor del vero e del bello che gli determini ne’ loro giudizii.

Intorno a cinquanta altri letterati non volgari produssero in tal secolo regolar e piacevoli commedie, alcuni in prosa ed alcuni in versi, le quali forse passano il numero di centotrenta. Noi faremo menzione della maggior parte {p. 203}di esse senza trattenerci lungamente su di esse. Non perchè tutte non ci presentino qualche pregio da osservarsi, chè ingegnose esse sono e in grazioso e puro stile da’ Toscani e non Toscani composte; ma solo perchè non permette tante minute ricerche e continue pause il nostro racconto che abbraccia tante età e nazioni e tanti generi di drammi. Ci arresteremo dunque in alcune più notabili per qualche ragione che più interessi o istruisca.

Tra primi nostri letterati che ci arricchirono di buone commedie, contisi il nobilissimo poeta Ercole Bentivoglio per nascita Bolognese e per domicilio Ferrarese, essendo stato di anni sette e qualche mese nel 1513 condotto del padre alla corte del duca Ercole d’Este suo suocero. Questo illustre latterato morto in Venezia d’anni sessantadue nel 1572 a, che nella satira e nella {p. 204}commedia si avvicinò di molto al principe de’ nostri poeti Lodovico Ariosto suo amico, compose tre commedie il Geloso, i Fantasmi e i Romiti, ed una tragedia intitolata Arianna mentovata dal Ghilini, le quali probabilmente si rappresentarono nel teatro ducale di Ferrara. Il Geloso le i Fantasmi videro la luce delle stampe nel 1545; ma de’ Romiti e dell’Arianna è rimasto a noi il solo nome.

Il Geloso. Avrebbe mai il precettore di Poetica Francese, nel parlar della gelosia e vendetta delle commedie italiane, avuto in pensiere questa favola? Quì in fatti si presenta un vecchio medico geloso ingiustamente della moglie. Quegl’intrighi pericolosi per gli amanti atti ad esercitar la furberia de’ servi, i quali non abbiamo sinora trovati nelle commedie dell’Ariosto, del Bibbiena e del Machiavelli, regneranno per avventura come nel proprio elemento in questa favola del Bentivoglio che di proposito dipinge un geloso? Vediamolo.

{p. 205}Ermino incerto della fedeltà della moglie, per assicurarsene finge un’ assenza di un giorno o due, e soccorso da uno che egli crede mercatante, si traveste, appiccasi al mento una finta barba nera per coprir la sua ch’è bigia, e va a mettersi in aguato nell’uscio di dietro della propria casa. Il creduto mercatante ch’è un furbo, per ajutar Fausto giovine innamorato di Livia nipote del medico, lo consiglia a travestirsi colle vesti che gli ha lasciate Ermino, perchè senza difficoltà venga nella di lui casa ammesso. Fausto travestito sul punto di picchiare è trattenuto prima da una donna che toltolo pel medico vuole che vada a visitar suo marito infermo, indi da due palafrenieri di un cardinale che lo chiamano da parte del padrone, e finalmente da un servo di casa pieno di vino, per cui è costretto a ritirarsi. Rimpatria intanto nello stesso giorno Folco fratello d’Ermino che di soldato divenuto mercatante, di povero schiavo ricco e libero, viene a rivedere la {p. 206}sua famiglia. Picchia; ma il servo ubbriaco, dopo aver detto che Ermino è morto di peste, e che Livia è fuggita via, serra l’uscio, ed il lascia fuori pieno di sospetti. Egli però si sovviene di aver per ventura conservata una chiave dell’uscio di dietro. Il medico che stà in osservazione, vede entrare questo mercatante in casa senza raffigurarlo, si dispera, vuol ire a cogliere sul fatto la moglie, batte la porta, ma non essendo ravvisato dalla fante per essere nella guisa accennata travestito, è ingiuriato ed escluso. Ripigliate le sue vesti, e toltasi la finta barba, va in casa, trova il fratello, si disinganna, chiede perdono alla moglie del torto che le faceva col sospettar di lei, e si conchiude il matrimonio di Livia con Fausto.

Sono questi gl’intrighi pericolosi e le stragi che somministrano la gelosia e la vendetta italiana? sono essi più pericolosi, non dico de’ Fajeli di ultima data, ma del Principe geloso, di Sganarello e di Giorgio Dandino {p. 207}che da circa un secolo e mezzo si rappresentano in Francia, dove giusta il pensare del Marmontel, non vi dee essere nè gelosia nè vendetta? Nè il Geloso del Bentivoglio avrebbe dovuto essere da lui ignorato, per poco che avesse l’uso di fornirsi di dati certi prima di fondar principii filosofici: mentre le poesie e le commedie di questo nostro illustre scrittore s’impressero in Parigi dal Furnier l’anno 1719, e si dedicarono da Giuseppe di Capua a monsignor Cornelio Bentivoglio d’Aragona Nunzio di Clemente XI al re Cristianissimo.

L’argomento di questa favola è nuovo. L’autore stesso dice nel prologo che si è sforzato di comporre una commedia

Nuova d’invenzione e d’argomento,
Non tolta da Latin nè Greco autore,
Non mai più udita nè veduta in scena,
Il suo nome è il Geloso. Questa è Roma ecc.

{p. 208}E sia questa una delle tante evidenti prove per ismentire quegl’imperiosi critici filosofi di buongusto, i quali tacciano senza conoscerle tutte le nostre antiche commedie, come se fossero state sempre fredde e languide copie e traduzioni de’ Greci e de’ Latini.

Tralle grazie comiche di questa favola son da contarsi gl’impedimenti che sopravvengono a Fausto nell’atto III, ne’ quali si rinviene la piacevolezza degl’Importuni (les Facheux) del Moliere, ma col maestrevole vantaggio che essi sono utili a fare avanzare con moto l’azione. Il discorso d’Ermino ingannato dalle apparenze nella quinta scena dell’atto IV è proprio naturale vivace ed elegante. Piacevole è nella scena seguente il di lui contrasto colla Nuta non essendo da lei raffigurato. Buona ed imitata da un frammento di Plauto è pure la disperazione di Fausto che nella scena quarta dell’atto V vuole andar via per vincere la propria passione; e bella è poi la quinta in cui riceve la notizia del suo conchiuso {p. 209}matrimonio con Livia. Macro congedando gli spettatori mostra lo scopo morale dalla favola:

Voi che avete moglier giovane e bella,
Da lui pigliate esempio, e non ne siate
Gelosi più, che certo fate peggio;
Perchè il più delle volte è temeraria
La gelosia che vi presenta cose
Che’ n effetto non sono; e non è doglia
Nè miseria di lei peggiore al mondo.

I Fantasmi. Una libera elegante imitazione della Mostellaria di Plauto si ammira in quest’altra favola del Bentivoglio. Egli che pur sapeva si bene inventare e disporre senza altra scorta che la natura, volle non per tanto dare un bell’esempio del modo di trasportare nelle moderne liugue le antiche favole con grazia e con franchezza e vivacità di colorito nelle maniere. Nel prologo mostra gran rispetto per {p. 210}la dotta antichità. Noi, dice, nulla faremo di perfetto, se dietro ai di lei vestigii non andremo:

Che come uno scultore, un dipintore
Non potrà mai dipignere o scolpire
Figura ond’abbia onor, se pria non vede
E le sculture e le pitture antiche
Di cui tolga il model; così ancor noi
Non sappiam fare alcuna cosa bella,
Se questa antichità per nostro specchio
Non ci mettiamo innanzi.

Lo stile è al solito felice ed elegante da per tutto, di che molti passi assai belli si potrebbero addurre in prova; ma ci contenteremo di un solo dell’atto III, cioè di una parte del racconto che fa il servo al vecchio Basilio intorno a’ fantasimi che gli dà a credere che appajono nella loro casa. Accorro, egli dice, ai gridi di Fulvio, e gli domando,

{p. 211}
Che avete? che vi duol, padron mio caro?
Su su (disse ei tremando come foglia
E pallido nel viso come un morto)
Datemi le mie calce e il mio giubbone,
Ch’io non voglio dormire in questa casa,
Nè mai più porvi alla mia vita il piede.
Voi dovete sognar: che vi è incontrato?

Nol posso dire, egli mi risponde, prima de’ nove giorni, e vestitosi si va di buon passo a dormir con Flaminio suo amico; io resto con più sonno che paura, ridendo e compassionandolo.

Così mentre di lui meco sol penso,
E che mi chino a spegner la lucerna
Col destro braccio, ch’era sulla panca,
E col suo lume mi toglieva il sonno,
Sento un subito strepito, il maggiore
{p. 212}
Che mai sentissi alla mia vita, e veggo
L’uscio che s’apre da sua posta, ch’io
Pur dianzi chiuso avea col chiavistello.

Basil.

Miracolo! oh dio! ch’è quello ch’odo?

Ne.

Poi veggo un uom, che dal sepolcro uscito
Allora allor verso il mio letto viene.
Pelle nè carne avea, ma le ossa sole,
Ch’eran cinte da vermi e da serpenti;
E la squallida barba, e li capelli
Tutti di sangue avea macchiati e tinti.
Io vi lascio pensar s’ebbi paura.

Basil.

Io di paura sarei morto allora.

Ne.

Necro (diss’ei con spavente vol voce)
Or odi quel che ancora a Fulvio ho detto:
{p. 213}
Non mettete mai più quà dentro il piede,
Ch’io non vi lascerò riposar mai
Giorno ne notte, ch’io son quì sepolto,
E starvi mi conviene eternamente.

In questa guisa arricchirono gl’Italiani la propria lingua delle antiche invenzioni, e rendettero le belle espressioni antiche interessanti per li moderni, sapendo dar loro (con pace anche quì del signor Giovanni Andres) un’ aria fresca, delicata, moderna, e tutta lontana dalla lentezza, e dal languore. L’eleganza, e la facilità di esprimersi, e di verseggiare del Bentivoglio riscosse da’ più dotti contemporanei le meritate lodi. Il Lollio, il Pigna, il Giraldi, il Doni, il Varchi, il Domenichi (che vagliono bene una gran parte de’ censori transalpini) applaudivono a tutte le di lui poesie, e soprattutto alle commedie. Il più vicino all’Ariosto per la commedia di quel tempo egli è senza dubbio questo nobile scrittore, il quale nell’elezione poi del {p. 214}metro ha vinto l’istesso immortal cantore del Furioso. Egli gareggiò pure con felicità grande colla Clizia del Machiavelli, per aver sì acconciamente avvicinata l’antica Mostellaria ai nostri costumi, e lo superò ancora colla sempre dilettevole difficoltà del verso, onde accrebbe leggiadria e vaghezza ai suoi Fantasimi.

Cinque commedie compose allora Pietro Aretino che si discostano dalle commedie degli antichi, e dipingono costumi moderni con motti osceni, e con amarezza satirica, il Marescalco, l’Ippocrito, il Filosofo, la Cortigiana, e la Talanta. Il Marescalco pubblicato nel 1530 è una lunga commedia di cinque atti priva d’azione, di vivacità e d’interesse, benchè sottoposta alle leggi teatrali del verisimile; e consiste nell’estrema avversione che ha un Marescalco al matrimonio posta alla tortura dal di lui padrone con fingere di avergli destinato moglie con ricca dote, la qual poi trovasi essere un paggio vestito da femmina. {p. 215}Questa commedia, e l’Ippocrito impresso nel 1542, ed il Filosofo uscito nel 1549, furono da Jacopo Doroneti pubblicate nel seguente secolo sotto nome del celebre poeta Tansillo con i titoli del Cavallerizzo, del Finto, e del Sofista; ma è ben noto che fu impostura tipografica scoperta poi dal Crescimbeni. La Cortigiana altra lunghissima commedia di cinque atti tessuta di molte scene oziose mordacissime, ed aliene dal fatto, contiene due azioni staccate di poco momento, e di niuno interesse, i cui passi rispettivi senza dipendenza tra loro si succedono alternativamente. Sono in essa posti alla berlina due personaggi ridicoli, cioè un Sanese scempiato che viene in Roma per farsi cardinale, imparando prima ad esser Cortigiano, da che nasce il titolo della commedia, ed un signor Parabolano Napoletano sciocco vano ed innamorato aggirato da una ruffiana, e da un furbo suo servidore. Francesco Buonafede altro impostore letterario che avea data alla luce la Talanta altra {p. 216}commedia del l’Aretino nel 1604 col titolo di Ninetta, pubblicò anche la Cortigiana nel 1628 col titolo dello Sciocco, attribuendole ambedue al faceto poeta Cesare Ceporali; e quest’altra impostura fu manifestata da Apostolo Zeno nelle Annotazioni all’Eloquenza Italiana del Fontanini. Queste commedie non possono notarsi di veruna superstiziosa cura di rendere italiane le maniere latine, e non per tanto mancano di ogni vivacità; la qual cosa pruova (contro l’asserzione dell’Andres) che la lentezza ed il languore provengono da tutt’altra sorgente, che dallo studio di adattare le antiche frasi alle moderne lingue a.

L’arcivescovo di Patras Alessandro Piccolomini nato nel 1508, da collocarsi tra gli uomini illustri del {p. 217}Cinquecento, oltre a tante opere riferite dal Ghilini, e meglio dal Tiraboschi, compose tre commedie in prosa. La prima intitolata l’Amor costante si recitò nel 1536 in presenza dell’imperador Carlo V quando entrò in Siena, e s’impresse nel 1559. La seconda è l’Alessandro che si stampò nel 1553. L’Ortenzio che fu la terza si rappresentò nel 1560 entrando in Siena il duca Cosimo I, e si pubblicò per le stampe l’anno 1571. Trovansi parimente impresse tralle sei degli Accademici Intronati di Siena uscite nel 1611. Giovanni Imperiali nel Museo Istorico parla delle due prime con molta lode, e cita, Trajano Boccalini, da cui il Piccolomini stimavasi pel principe de poeti comici Italiani. Egli però seguì Plauto ed Aristofane nel far dagli attori volgere il parlare agli spettatori. Panzana nell’Amor costante dice: Scoppio di voglia di ridere, e per rispetto de’ forestieri tengo la bocca che non rida. Un Napoletano nella stessa commedia introdotto,e dove {p. 218}songo li forestiere? E Panzana additando l’uditorio dice: Eccone qua tanti. De chiste (l’altro ripiglia)non importa, ride pure; isse songo a Sieno, e nuje simmo a Pisa. Lo stesso Panzana favella indi al medesimo uditorio, e descrive il carattere del napoletano Ligdonio.

Ariosto, Bentivoglio, Aretino, Dovizio, Machiavelli si valsero per tutti i personaggi delle proprie favole del solo linguaggio toscano; in quelle degl’Intronati comincia a vedersi alcun personaggio buffonesco subalterno che parla in qualche dialetto particolare, come Ligdonio del Piccolomini, o in una lingua straniera, come Giglio Spagnuolo di bassa condizione sedicente Hidalgo motteggiato di spilorceria nella commedia degl’Ingannati de’ medesimi Accademici lanciati su gli Spagnuoli di quel tempo. Dice Fabrizio nell’atto I, dove alloggiano gli Spagnuoli? E l’altro risponde, io non m’impaccio con loro; cotesti vanno al Rampino. Lo stesso Fabrizio nel III dubitando d’una {p. 219}fante, dice: Crede farmi stare a qualche scudo; ma è male informata, che io sono allievo di Spagnuoli. Degni però di scusa sono gl’Italiani di allora, come troppo vicini al funesto sacco di Roma, che sì gran parte ne ridusse in miseria; e la commedia nomata degl’Ingannati si recitò due giorni dopo del Sacrificio che fu come un’ introduzione agli spettacoli del carnovale del 1541. Domandando Gherardo dell’età della figliuola di Virginio, questi risponde: Quando fu il sacco di Roma, che ella ed io fummo prigioni di que’ cani, finiva tredici anni. Di quel sacco parlò pure nel Geloso il Bentivoglio, e l’Aretino nella Cortigiana. La commedia degl’Ingannati è regolare e scritta puramente, in istile proprio, e con pratica e felicità vi si dipingono i costumi e le passioni; ma quegli Accademici si dipartono dalla semplicità de’ prelodati autori, e vanno in traccia del ravviluppato assai complicato negli accidenti. Abbondano gl’Ingannati di sali e lepidezze, ma talvolta sono {p. 220}soverchio liberi, come pajono gli equivoci del lunghissimo prologo. Io non approverò mai le scene simili alla quinta del V atto di Cittina: Io non so che trispigio sia dentro a questa camera terrena; io sento la lettiera fare un rimenio, un tentennare che pare che qualche spirito la dimeni, ecc. Si lascino queste imitazioni impudenti alla sfacciataggine de’ repubblicani Ateniesi di venti secoli indietro che se ne compiacevano.

Regolari e piene di sali e motteggi sono le cinque commedie di Lodovico Dolce. Due ne scrisse in versi, il Capitano uscita alla luce nel 1545, e il Marito nel 1560; le altre tre sono in buona prosa, il Ragazzo che s’impresse nel 1541, il Ruffiano tratta dal Rudente di Plauto, e la Fabrizia che si pubblicarono nel 1549.

Nel 1548 comparvero in diverse città quattro altre buone commedie, i Simillimi, l’Aridosio, la Sporta e la Filenia. La prima fu comica imitazione in versi del celebre vicentino Trissino {p. 221}Trissino de’ Menecmi di Plauto, ove però come afferma egli stesso, volle servare il modo di Aristofane, e v’introdusse il coro. L’Aridosio appartiene a Lorenzino de’ Medici e la Sporta a Giambatista Gelli, ambi fiorentini. Scrisse anche il Gelli l’Errore altra commedia che non s’impresse se non nel 1603. Tralle migliori commedie di quel tempo si noverano le nominate del Gelli che Moliere non isdegnò d’imitar nell’Avaro ed in altre sue commedie. La protestazione che egli fa nel prologo della Sporta, mostra l’intelligenza ed il gusto che possedeva in tal genere: In Essa (egli dice)non si vedranno riconoscimenti di giovani o fanciulle, che oggidì non occorre, ma accidenti di una vita civile e privata sotto una immaginazione di verità, e di cose che tutto il giorno accaggiono al viver nostro. Con tutto ciò questo conoscimento e questa squisitezza di gusto non l’hanno salvato dalla negligenza de’ posteri; e le di lui belle commedie non si leggono come {p. 222}se scritte fossero nel linguaggio Tibetano. Questo piacevolissimo scrittore che morì d’anni sessantacinque nel 1563, fu calzolajo, ma si distinse in Firenze per molte lezioni recitate nell’Accademia Fiorentina, e per alcune traduzioni. La Filenia (l’ultima delle quattro indicate) fu una piacevole commedia di Antonio Mariconda cavaliere napolitano che sebbene s’impresse nel 1548 era stata rappresentata sin dal 1546 da alcuni gentiluomini napoletani mentovati nel libro I della storia di notar Castaldo, nella sala del palazzo del principe di Salerno (in Napoli)dove stava sempre per tale effetto apparecchiato il proscenio.

Intorno alla mettà del secolo scrissero commedie con maggior felicità il Contile, il Firenzuola, il Lasca ed il Cecchi. Luca Contile letterato di grido compose in buona prosa la Pescara, la Cesarea Gonzaga, la Trinuzia che si pubblicarono con applauso nel 1550. Agnolo Firenzuola cittadino fiorentino abate Vallombrosano e letterato che si {p. 223}distinse in più di un genere, e visse sotto Clemente VII e Paolo III, e morì in Roma poco prima del 1548, scrisse in prosa due belle commedie, i Lucidi impressa da’ Giunti di Firenze nel 1549, e la Trinuzia uscita alla luce nel 1551. Antonio Francesco Grazzini detto il Lasca, uno de’ cinque fondatori dell’Accademia della Crusca e assai benemerito della nostra lingua, compose più commedie in prosa elegante e graziosa tralle quali spiccano la Gelosia (che non rassomiglia punto all’atroce vendicativo furor geloso de’Fajeli) pubblicata in Firenze nel 1551, e la Spiritata nel 1560, le quali insieme colla Sibilla si ristamparono in Venezia nel 1585. Giovanmaria Cecchi cui si confessano i Fiorentini assai tenuti, oltre ad alcune pastorali, pubblicò nel 1550 e nel 1562 varie commedie in prosa ed in versi, intitolate i Dissimili, l’Assiuolo, la Moglie, gl’Incantesimi, la Dote, la Stiava, il Donzello, il Corredo, lo Spirito, e il Servigiale; e per quel che ne {p. 224}dice il Quadrio, molte altre ne rimasero inedite.

Dalla mettà del secolo sino all’ottanta in circa uscirono al pubblico altre commedie lodate. Il Vignali contemporaneo dell’Aretino, del Franco e del francese Rabelais e di un genio conforme, compose la Floria commedia in prosa, secondo Apostolo Zeno, licenziosa anzi che no, che si pubblicò nel 1560. Il Capitano bizzarro commedia in terza rima di Secondo Tarentino si recitò in Taranto, e s’impresse in Venezia nel 1551. Giordano Bruno di Nola compose la commedia del Candelajo che si pubblicò in Parigi nel 1582, e vi si reimpresse nel 1589, e poi nel secolo seguente quivi ancora si tradusse e si pubblicò col titolo di Boniface et le Pedant. L’Eustachia commedia in prosa del Guidani leccese s’impresse in Venezia per Aldo nel 1570. Il Trappa pure in prosa di Massimo Cameli aquilano si pubblicò nell’Aquila nel 1566. La Virginia che il secondo Bernardo Accolti fece sulla sua {p. 225}serva, dal Fontanini è collocata tralle commedie in prosa, ma si scrisse in versi e per la maggior parte in ottava rima, la qual cosa osservò prima il Zeno. La Flora di Luigi Alamanni s’impresse in Firenze nel 1556 per cura di Andrea Lori che la fece recitare nella Compagnia di san Bernardino da Cestello con alcuni suoi intermedii a. Questo elegante scrittore della Coltivazione, dell’Antigone e di belle satire (ma non già della Libertà tragedia attribuitagli dal Ghilini che però si compose da un apostata della Cattolica Fede) volle usare in tal commedia un nuovo metro cioè uno sdrucciolo di sedici sillabeb, fatica e invenzione {p. 226}inutile intrapresa da altri Italiani ancora per imitare superstiziosamente il giambico greco e latinoa Ma tutti i vantaggi che essi speravano ottenere co’ nuovi metri poco e nulla grati all’orecchio italiano, presenta a chi sa maneggiarlo il solo endecasillabo sciolto. La commedia della Flora è bene scritta, in istile puro e piacevole, e copiosa di grazie comiche, e per questa parte degna di sì leggiadro scrittore. Tuttavolta (sebbene non vi si vegga punto uno studio affettato di trasportare in essa {p. 227}l’espressioni latine, sorgente all’avviso di taluno di lentezza nelle commedie italiane) sembraci ben lenta e languida nell’avvilupparsi e nello sciogliersi, e da non soffrire, per vivacità e sceneggiatura ed economia, il paragone di quelle dell’Ariosto, del Machiavelli e del Bentivoglio.

Lodate da molti, e singolarmente da Adriano Politi, son le commedie di Bernardino Pino da Cagli. Nel prologo degl’Ingiusti Sdegni sua commedia impressa nel 1553 havvi una descrizione lodevole della commedia, nella quale si sostiene che tutti i vantaggi della pittura della musica e della storia trovansi raccolti nella commedia. Nel leggerla non mi trovai molto contento del linguaggio dell’innamorato Licinio, il quale così dice alla sua Delia, che gli parla da dentro senza aprirgli la porta: Licinio è quì che come smarrito augello cerca diridursi nel vostro nido, come aquila che stà per fissar l’occhio in voi suo bel sole: deh uscite fuori, acciocchè i {p. 228}raggi del vostro aspetto illustrino questo luogo, come io illustrato da voi veggio ogni cosa nelle più oscure tenebre della notte. Simili studiate espressioni son ben lontane dal linguaggio infocato di Fedria, di Panfilo, di Cherea di Terenzio, e di Erostrato dell’Ariosto. L’affettazione, il raffinamento, la falsità de’ concetti cominciavano a fare smarrire a’ poeti il sentimento della verità e della natura. In ricompensa però ben mi colpì nella stessa commedia la saviezza della fanciulla, che sebbene innamorata dissuade Licinio dal rompere le porte, non essendo in casa la di lei madre, come proponeva, per parlarle con libertà. Egli poi tutto ardore vuol tirarle un anello in segno di volerla sposare, ed ella l’impedisce dicendo: Non gittate, non gittate, che io l’accetto, e come mio ve lo ridono, acciocchè se a Dio piacerà mai che io possa come vorrei, esser vostra, ne leghi eternamente ambedue; e tenete per certo che ogni mio desiderio, ogni mio {p. 229}pensiero, ogni mia speranza è che voi o per serva, o per altro che mi vogliate, abbiate ad essere scudo dell’onor mio: questo mi basti: ricordatevi di me. Non si possono mai abbastanza lodare questi tratti di saviezze che spandono per l’uditorio un piacere indicibile, specialmente quando sono espressi, come in questa scena, senza affettazione e senza farne un sermone da pulpito anzi che da teatro. Là dove le oscenità, gli equivoci impudenti eccitano il riso negli sfacciati col cui genio simpatizzano, ed il pudore se ne offende. Le altre commedie del Pino sono lo Sbratta impressa un anno prima degl’Ingiusti Sdegni: e due altre uscite alla luce più tardi, l’Evagria nel 1584, e i Falsi Sospetti nel 1588.

Francesco d’Ambra gentiluomo fiorentino morto in Roma nel 1558ascrisse più commedie pregiate dagl’ {p. 230}intelligenti, e per la lingua citate nel Vocabolario della Crusca. Le più stimate sono: i Bernardi in versi sciolti che si produsse in Firenze nel 1563 e 1564, la Cofanaria parimente in versi sciolti recitata con gl’intermedii di Gio: Batista Cini nelle nozze di don Francesco de’ Medici e della regina Giovanna d’Austria stampata in Firenze nel 1561, ed il Furto scritta in prosa impressa nel 1560 e poi più volte ristampata, la quale vivente l’autore si era rappresentata dagl’Accademici Fiorentini nel 1544, e quindi raccolse gl’applausi più distinti in varii altri teatri italiani.

Nel medesimo periodo comparvero le commedie di Girolamo Parabosco, Una ne compose in versi che è il Pellegrino impressa nel 1570, e sette in prosa, cioè l’Ermafrodito, il Ladro, il Marinajo, la Notte, i Contenti, il Viluppo e la Fantesca, pubblicate dal 1549 al 1597, Nè in regolarità nè in grazia comica cedono gran fatto a quelle de’ contemporanei.

{p. 231}

Il Capitano Niccolò Secchi compose quattro commedie in prosa noverate tralle migliori italiane. G l’Inganni (tradotta poi nel seguente secolo dal principe de’ comici francesi, ed imitata nel XVIII dal napoletano Niccolò Amenta) si recitò con sommo applauso in Milano alla presenza di Filippo II allora principe delle Asturie nel 1547, e s’impresse nel 1562. L’Interesse, la Cameriera ed il Beffa si pubblicarono dal 1581 al 1584 l’una dopo l’altra.

La Spina ed il Granchio del cavaliere Lionardo Salviati, la Suocera di Benedetto Varchi, la Balia, la Cecca e la Costanza di Girolamo Razzi, il Pellegrino ed il Ladro del Comparini, il Furbo di Cristofaro Castelletti, la Cingana e la Capraria di Gian Carlo Rodigino, l’Amore Scolastico del Martini, il Medico del Castellini, il Commodo di Antonio Landi, la Vedova di Giambatista Cini, la Teodora del Malaguzzi, il Capriccio del cosentino Francesco Antonio {p. 232}Rossi, i Furori di Niccolò degli Angeli; tutte queste commedie scritte parte in prosa e parte in versi nel periodo di cui parliamo, si faranno leggere senza noja da chi vuol conoscere il teatro italiano, per la regolarità, per le lapidezze, per la purezza ed eleganza dello stile, benchè per la licenziosità di que’ tempi i motteggi e i sali in alcune non sieno sempre i più decenti, ed in altra la favola sia soverchio complicata.

Al declinar del secolo non declinò il gusto della buona commedia. S’impresse in Venezia nel 1581 la commedia intitolata gli Straccioni del commendatore Annibal Caro marchigiano, la quale però molti anni prima era stata composta e rappresentata con gran plauso in Roma. Niuno meglio di lui seppe seguir gli antichi dando all’imitazione la più gaja e fresca tintura de’ costumi della sua età. Scusandosi nel prologo di avere ideato senza esempio un argomento, non solo doppio, come facevano gli antichi, ma interzato, {p. 233}dice però di avere in ogni altra cosa seguitato il loro uso. E se vi parrà (soggiugne)che in qualche parte l’abbia alterati, considerate, che sono alterati ancora i tempi e i costumi, i quali sono quelli che fanno variar le operazioni e le leggi dell’operare. Chi vestisse ora d toga e di pretesta, per begli abiti che fossero, ci offenderebbe non men che se portasse la berretta a toglieri o le calze a campanelle.Il Caro congiunse egregiamente l’artificio del viluppo ella piacevolezza comica (lasciando a parte la sua maravigliosa eleganza e purezza e grazia del dire) e pose nel tempo stesso nella passione di Gisippo e Giulietta un interesse che avvicina questa bella commedia al genre dell’Ecira Terenziana, e la salverà, sempre dal cadere in dimenticanza E una verità costante che le dipinture delle maniere locali, benchè eccenlleti, variano, per così dire, in ogni pajo di lustri; ma quelle delle passioni generali conservano la loro franchezza in ogni {p. 234}tempo. Anima mia (dice nell’atto II Gisippo che crede morta la sua bella Giulietta)tu sei pure in luogo da poter chiaramente veder la costanza dell’animo mio, la grandezza del mio dolore, e il desiderio di venir dove tu se. Tu senti che il tuo nome m’è sempre in bocca. Tu vedi che la tua immagine mi stà continuamente nel cuor. Tu sai che d’altri che tuo non poso essere, quando bene ad altri sia dato. Dovrebbero i giovani studiosi specchiarsi in simili naturalissimi esempi d’apprendere in questi sentimenti pini di calore e di verità il linguaggio della natura; quel linguaggio che sarà sempre ignoto a certuni che si hanno formato un picciolo frasario preteso filosofico che vogliono applicare in ogni incontro ed in ogni situazione. Gisippo poi intende nell’atto V che Giulietta è viva. Satiro servo gliene reca la novella. É risuscitata la Giulietta, la Giulietta, egli dice

Gis.

Che Giulietta, bestia?

Sat.

Oh padrone, che ho io veduto!

{p. 235}

Gis.

Che hai spiritato?

Sat.

Io ho veduta, io ho veduta la Giulietta, e l’ho veduta con questi occhi.

Gis.

Qualcuna che le somiglia forse?

Sat.

Lei stessa.

Gis.

La Giulietta?

Sat.

La Giulietta.

Gis.

La mia?

Sat.

La vostra.

Gis.

Viva?

Sat.

Viva?

Gis.

Dove?

Sat.

In casa di madama Argentina.

Gis.

Stai tu in cervello?

Sat.

Io non ho bevuto, io non vaneggio, io non dormo, io l’ho veduta, io le ho parlato, ella ha parlato a me, e mi ha data questa lettera e quest’anello che vi porto.

Dem.

Questo è il giornò delle maraviglie.

Gis.

Oh dio, questo è l’anello con che la sposai, e questa è sua lettera.

{p. 236}

Dem.

Non m’avete voi detto ch’ella è morta?

Gis.

Oimè! s’ella è morta! ah!

Dem.

E quest’anello?

Gis.

È suo.

Dem.

E questa lettera?

Gis.

È di sua mano.

Dem.

Oh come può star questo? lasciatemela leggere.

Merita di osservarsi la naturalezza di questo dialogo, in cui non si dice o si risponde cosa che non sembri l’unica espressione richiesta nel caso. Ma la bella lettera poi spira tutto il patetico della tenerezza sfortunata di un cuor sensibile che offeso si querela senza lasciar di amare. A’ leggitori non assiderati dalla lettura di tragedie cittadine e commedie piagnevoli oltramontane; a quelli che non hanno il sentimento irruginito dalla pedantesca passione di far acquisto di libri stampati nel XV secolo, fossero poi anche scempi e fanciulleschi; a quelli che sanno burlarsi di coloro che non vorrebbero che altri rilevasse mai le bellezze de’ {p. 237}componimenti quasi obbliati, per poterli saccheggiare a loro posta; a quelli in fine che non pongono la perfezione delle moderne produzioni nell’accumolare notizie anche insulse, purchè ricavate da scritti inediti, ma si bene nella copia delle vere bellezze delle opere ingegnose atte a fecondar le fervide fantasie de’ giovani onde dipende la speranza delle arti; a’ siffatti leggitori, dico, non increscerà di ammirar meco questa bellissima lettera degna del pennello maestrevole del Caro. Gisippo in essa è chiamato Tindaro che è il suo nome primiero;

Dem. leggendo.

Tindaro, padron mio (così convien ch’io vi chiami, poichè mi trovo serva de’ servidori della vostra moglie) gli affanni che io ho sofferti sinora grandissimi e infiniti, sono stati passati da me tutti con pazienza, sperando di ritrovarvi, e consolarmi di avervi per mio consorte. Ma ora che finalmente vi ho ritrovato, poichè a me tolto vi {p. 238}siete, sconsolata e disperata persempre desidero di morire.

Gis.

Oimè! che parole son queste?….seguitate.

Dem. leg.

Ahi Tindaro, voi vi maritate; or non siete voi mio marito? Se non mi siete ancor di letto, e non volete essermi per amore, mi siete pur di fede, e mi dovete essere per obbligo. Non sono io quella, che per esser vostra moglie non mi sono curato di abbandonar la mia madre nè di andar dispersa dalla mia patria, nè divenir favola del mondo? Ricordatevi che per voi sono state tante tempeste, per voi sono venuta in preda de’ corsari, per voi si può dire, che io sia morta, per voi son venduta, per voi carcerata, per voi battuta, e per non venir donna di altro uomo, come voi siete fatto uomo di altra donna, in tante e si dure fortune sono stata sempre d’animo costante, e di corpo sono {p. 239}ancor vergine; e voi non forzato, non venduto, non battuto, a vostro diletto vi rimaritate.

Gis.

È Giulietta scrive queste cose?

Dem. leg.

Il dolore che io ne sento, è tale che ne dovrò tosto morire, ma solo desidero di non morir serva nè vituperata; per l’una di queste cose io disegno di condurmi, col testimonio della mia virginità, a mostrare a’ miei, che io per legittimo amore, e non per incontinenza, ho consentito a venir con voi: per l’altro vi prego (se più di momento alcuno sono i miei prieghi presso di voi) che procuriate per me: poichè non posso morir donna vostra, che io non mi muoja almeno schiava d’altri. O ricuperate con la giustizia, o impetrate dalla vostra sposa la mia libertà: che, per esser ella così gentile, come intendo, ve la dovrà facilmente concedere: e, bisognando, promettete il prezzo che {p. 240}sono stata comperata, che io prometto a voi di restituirlo.

Gis.

Oh che dolore è questo!

Dem. leg.

E quando questo non vogliate fare, mi basterà solamente di morire: il che desidero così per finire la mia miseria, come per non impedire la vostra ventura. E per segno che io non voglio pregiudicare alla libertà vostra, vi rimando l’anello del nostro maritaggio. Nè per questo si scemerà punto dell’amor che io vi porto. State sano, e godete delle nuove nozze. Di casa della vostra moglie.

Giulietta sfortunata.

Chi non senta a questa lettera correr su gli occhi suoi copiosamente le dolci lagrime della più delicata tenerezza, dica di sicuro di avere il cuore formato di assai diversa tempera da quella che costituisce un’ anima nobile. Ogni parola è una bellezza per chi l’analizza, nè l’analizza chi non ha il cuore {p. 241}fatto per ciò che i Francesi chiamano sentimento.

Non si vede nelle commedie di Luigi Groto, nè la verità e naturalezza dello stile, nè la patetica delicatezza degli Straccioni del Caro: ma son pur bene ravviluppate e ingegnose, e solo quanto al costume si vorrebbero più castigate. Esse sono tre, il Tesoro impressa nel 1583, l’Alteria nel 1587, e l’Emilia nel 1596, tutte scritte in versi, e con lo spirito di arguzia che domina ne’ componimenti di questo famoso Cieco d’Adria.

Di Cornelio Lanci si hanno impresse sette commedie in prosa dal 1583 al 1591: la Mestola, la Rochetta, la Scrocca, il Vespa, l’Olivetta, la Pimpinella, e la Niccolosa, regolari per la condotta, naturali nello stile, vivaci ne’ caratteri, ma alquanto libere ne’ motteggi.

Il fiorentino Raffaello Borghini volle oltrepassare i confini comici. Nella sua Donna Costante ci diede un esempio (raro in tal secolo) di un intrigo {p. 242}pericoloso e più proprio per le passioni tragiche. Una fanciulla minacciata dal padre di altre nozze, per serbarsi al suo amante prende un sonnifero, e coll’ajuto di un medico si fa seppellire per morta; indi tratta dalla sepoltura si veste da uomo, e nel l’accingersi a partir per Lione dove sapeva che dimorava l’amante bandito, lo trova in Bologna addolorato per la notizia della di lei morte. In mezzo all’allegrezza di vederla viva questo suo amante chiamato Aristide è conosciuto ed arrestato. Alla novella che ne ha Elfenice ripiglia le vesti di donna coll’intento di manifestare al Governadore come Aristide è suo sposo, e quando non ne impetrasse la libertà, di ammazzarsi. In tale stato correndo per le strade quasi fuor di se per lo dolore, scarmigliata, con un pugnale alla mano (con poca verisimiglianza però) imbatte nella giustizia che mena a morte Milziade suo fratello convinto per di lui confessione di latroneccio. Sbigottiscono gli sbirri a vista {p. 243}di colei che il giorno avanti era stata sepolta, e presi da strano terrore fuggono senza badare al delinguente, il quale si maraviglia della sorella viva che corre come forsennata, e giugne presso la casa di scodelinda sua amante. Egli era stato sorpreso dal bargello con una scala di seta sotto la di lei casa, e per salvarne la fama si era accusato di aver voluto andare a rubare in quella casa, tuttochè gentiluomo e ricco egli fosse. Disperata Teodelinda avea risoluto, allorchè egli passerebbe per andare al patibolo, di gettarsi al suo collo, confessar pubblicamente il suo amore, e giustificarlo dell’infamia pel preteso tentato latrocinio. Ora vedendolo così solo lo scioglie e lo mena in casa. La vendicativa Timandra madre di Teodelinda dalla toppa dell’uscio gli vede abbracciati, e schizzando veleno va a chiamar Clotario suo marito perchè venga a prenderne crudel vendetta. Ma essi vengono liberati per opera della balia di Teodelinda e di Elfenice, e del medico Erosistrato, {p. 244}nella cui casa si rifuggono. Il Governadore intende i casi di Aristide e di Milziade, vede che un doppio parentado potrebbe riconciliare le due famiglie nemiche, e col l’autorità, colle ragioni e colle minacce dispone i due vecchi alla pace ed al maritaggio di Elfenice con Aristide e di Teodelinda con Milziade.

Una commedia siffatta piena di evenimenti straordinarii e di pericoli grandi eccede i limiti della poesia comica naturale, e per questo capo è assai difettosa. Essa par tessuta alla foggia delle commedie spagnuole miste di tragico e di comico. Ma nelle contrade ispane si sarebbe incominciata a sceneggiare dall’innamoramento di Elfenice e dall’omicidio commesso da Aristide, proseguendosi per li sette anni che egli dimorò in Lione, mostrandosi la morte apparente di Elfenice, gli amori di Teodelinda e Milziade, con l’accaduto della scala, e scendendosi allo scioglimento colla condanna di Milziade impedita da Elfenice. Ma il Borghini {p. 245}incomincia con senno la sua Donna costante dalla venuta di Aristide in Bologna nel giorno che è stata sepolta fintamente Elfenice, e che è menato a morir Milziade. Potrebbe dunque questa favola servir d’esempio agli Spagnuoli vaghi di situazioni risentite, qualora volessero continuare ad arricchire il proprio teatro di favole piene di grandi accidenti, ma senza cadere nelle stravaganze.

Io trovo nella favola descritta ben maneggiate le passioni ed espresse con sobrietà di stile; ma non son pago dei discorsi accademici e pedanteschi che vi si tengono, delle storie, degli esempi, de’ versi, onde la riempiono il servo Lucilio, il medico Erosistrato ed il parassito Edace. Ed a che servono quelle inezie all’usanza spagnuola? L’autore l’accompagnò con sei intermedii. Il primo serve d’introduzione che va innanzi al prologo, in cui la scena rappresenta il Parnasso colle Muse, e vi si cantano quattordici versi. Nel secondo in fine dell’atto I si vede un {p. 246}antro, che è la reggia del Sonno, in cui Iride ed il Sonno cantano due strofe. Nel terzo in fine dell’atto II si vede in un prato Cerere nel suo carro, e canta due ottave. Il quarto tramezzo rappresenta Roma in un carro trionfale innanzi al quale vengono legate le provincie soggiogate, e Roma canta una strofe, cui le provincie rispondono. Nel quinto intermedio Roma stessa comparisce scapigliata iucatenata innanzi ad un carro trionfale occupato da Alarico, Genserico, Ricimero, Totila, Narsete, e dal duca Borbone generale di Carlo V, i quali cantano una canzonetta che dice,

Quella che il Mondo vinse abbiamo vinta,

alla quale succede il lamento di Roma, in due ottave che conchiudono

Già vinsi il Mondo, or servo a gente vile,
Come fortuna va cangiando stile.

Nell’ultimo intermedio viene di sotterra Plutone con Proserpina, dal mare Nettuno con Teti, dal cielo Giunone {p. 247}con Giove, Venere con Vulcano e Cupido, i quali tutti cantando intrecciano un balc. Eccoti dunque una commedia in prosa con accompagnamenti tali che le danno diritto a chiamarsi opera in musica, secondo la pretensione del Menestrier seguito dal Planelli. Questa Commedia dall’autore dedicata a Carlo Pitti nel 1578, s’impresse nel 1582, e nell’anno seguente si pubblicò l’Amante Furioso altra commedia del Borghini.

Altre commedie regolari e piacevoli in versi ed in prosa si pubblicarono dopo della riferita. Il Vellettajo del Masucci in versi si diede alla luce nel 1585: l’Amico fido del Bardi rappresentata in Firenze nelle nozze di don Cesare d’Este e donna Virginia de’ Medici uscì al pubblico nel medesimo anno: la Prigione di Borso Argenti in prosa impressa nel 1587: la Vedova di Niccolò Bonaparte anche in prosa nel 1592: il Fortunio del Giusti parimente in prosa nel 1593.

{p. 248}Il perugino Sforza degli Oddi professor di leggi di gran nome nella patria, in Padova ed in Parma (dove morì l’anno 1610 secondo Apostolo Zeno, o nel 1611 come ci assicura il Bolsi presso il Tiraboschi) compose in bella assai e natural prosa tre commedie da mettersi accanto agli Straccioni del Caro quanto al loro genere e carattere. La prima intitolata Crofilomachia ovvero Duello d’Amore e d’Amicizia, si pubblicò nel 1586, ma era stata composta nella giovanezza dell’autore, e come nota lo Zeno sul Fontanini, fu recitata in Perugia con singolar piacere, e si ristampò più volte. La Prigione d’Amore si produsse nel 1592, ed in essa, come nella precedente, vi è una delicatezza di amore e di amicizia posta al cimento, e vi si scorge bellamente trasportata alla mediocrità comica l’avventura di Damone e Pizia, l’uno de’ quali rimase per ostaggio dell’amico sotto lo stesso pericolo di vita, e l’altro ritornò puntualmente al suo supplicio. Oddi vi aggiunse la venuta di una {p. 249}innamorata che al vedere l’amante esposto, per essere ostaggio del di lei fratello che esattamente la rassomiglia, ed al sapere già vicina l’ultima ora dello spazio concesso al ritorno del reo, sotto il nome del fratello si presenta alla prigione e libera l’amante. La pena ch’ella ne riceve, è un sonnifero creduto veleno, che apporta poco stante un lieto scioglimento. L’altra commedia dell’Oddi non meno bella per la vaghezza de’ caratteri e dell’intreccio, intitolata i Morti vivi, s’impresse nel 1597. Anche queste commedie dell’Oddi son da riporsi nella dilicata classe delle commedie tenere simili all’Ecira, le quali nel nostro secolo vedremo oltramonte degenerare in rappresentazioni piagnevoli.

Si rappresentò in Caprarola dagli Accademici di quella città il primo di settembre nel 1598 alla presenza del cardinal Odoardo Farnese gl’Intrichi d’Amore commedia che porta il nome di Torquato Tasso: e che s’impresse in Viterbo presso Girolamo Discepolo {p. 250}nel 1604. E una favola assai avviluppata, piena per altro di colori comici e di caratteri piacevoli ben rilevati. Il Baruffaldi, e Monsignor Bottari dubitano che sia componimento dell’autore della Gerusalemme; il marchese Manso lo niega assolutamente; e l’abate Pierantonio Serassi nell’accurata Vita di Torquato impressa in Roma l’anno 1785, giudica che sia opera di Giovanni Antonio Liberati che fece il prologo e gl’intermedii a questa commedia, per la sola ragione che quest’Accademico di Caprarola si dilettava di scrivere nel genere drammatico. Tuttavia non abbiamo sinora sufficienti indizii da non istimarla opera del Tasso giovine. Il Manso per negarlo non ci disse di averlo saputo dal medesimo Torquato; e se lo negò per proprio avviso, è una opinione, e non una prova la di lui asserzione. Dall’altra parte il lodato abatte Serassi quante volte discopre errori del Manso sulle cose che riguardano Torquato! Che sia poi piuttosto da riferirsi tal favola al Tasso napoletano nato {p. 251}in Sorrento che al Liberati di Caprarola, cel persuade in certo modo il carattere ben dipinto ed il dialetto di Giallaise; imperciocchè più facilmente poteva scrivere un carattere in lingua napoletana il Tasso nato in queste contrade e quasi in Napoli stessa da una madre napoletana, e quì allevato sino al decimo anno della sua età, e che vi tornò poscia già grande, e vi dimorò diversi mesi, e potè rilevarne alcune caricature e piacevolezze: che quel Liberati, il quale nè nacque in questo regno, nè si sa che lo visitò; ed altro di lui non si afferma se non che fece in quella favola gl’intermedii, e che si dilettava del genere drammatico.

Forse l’ultimo scrittore comico del cinquecento fu il vecchio Loredano che dal 1587 al 1608 pubblicò sette commedie in prosa, cioè i Vani amori, la Malandrina, la Turca, l’Incendio, la Berenice, la Madrigna e Bigonzio.

Di una commedia composta dal Guarcello fa menzione Muzio Manfredi {p. 252}nelle citate Lettere scritte da Lorena; di un’ altra intitolata gl’Inganni di Curzio Gonzaga celebre nell’armi e nelle lettere, parla il Quadrio. Della Porzia e del Falco commedie inedite di Giuseppe Feggiadro de’ Gallani si favella nel Compendio Istorico di Parma scritto dal l’Edovari e non pubblicato. Della Pellegrina di Baltassarre di Palma parmigiano, che si rappresentò avanti al cardinal Grimani, e dell’altra del medesimo i Matrimonii recitata avanti al Duca Pier Luigi Farnese, si fa motto nel citato ms. dell’Edovari. Di un’altra commedia latina detta Lucia del cremonese Giuliano Fondoli pure inedita fa parola il Tiraboschi nella parte III del VII volume. Di queste, e delle due commedie di Bernardino Rota lo Scilinguato e gli Strabalzi mentovate con gran lode dal Ghilini, e de’Marcelli di Angelo di Costanzo nominati dal Minturno, e di qualche altra eziandio rimasta sepolta, basti averne accennati i titoli, giacchè per essersene perduto ogni vestigio, o per aver {p. 253}riposato nell’oscurità di qualche privato archivio, non hanno contribuito all’avanzamento della poesia comica.

Queste sono le commedie italiane da’ nostri chiamate antiche ed erudite. Or quali di queste ha lette il prelodato maestro di Poetica Francese? In qual di esse ha trovato quella sognata mescolanza di dialetti, quei gesti di scimia, quella tremenda pericolosa gelosia e vendetta italiana? E se ne ha lette alcune, come mai osò dire esser esse così sfornite d’arte, di spirito e di gusto che neppure di una sola possa sostenersi la letturaa? Che se egli {p. 254}seppe soltanto per tradizione che esistevano commedie antiche in Italia, o stimò che altra cosa non fossero che le farse dell’Arlecchino per avventura vedute sul teatro detto Italiano di Parigi, egli stesso può avvedersi del torto che fa alla propria erudizione e filosofia, giudicando così a traverso della commedia italiana di cui non aveva nè contezza nè idea veruna. Veramente una nazione, che fece risorgere in Europa tutte le belle arti e le scienze, il gusto, la politezza e la libertà stessa (come è provato) meritava un poco più di diligenza in quell’erudito maestro di Poetica Francese. E che direbbe egli se si {p. 255}volesse dare idea del teatro di Atene sulle rappresentazioni de’ Neurospasti? Che, se per dare a conoscere il teatro de’ Francesi, dimenticato Moliere e Racine, se ne fondasse un giudizio diffinitivo su Jodelle ed Hardy, o su i cartelloni delle Fiere Parigine?

{p. 256}

CAPO V.

Produzioni comiche di Commediani di mestiere nel secolo XVI. §

Un secolo dotto fa risplendere di riverbero ancor quelli che non lo sono. Erano in tal tempo cresciuti gli attori di mestiere, benchè tante accademie insieme colla poesia teatrale coltivassero ancora il talento difficilissimo di ben recitare. Si trovò allora tra essi più di un commediografo ingegnoso. Andrea Calmo veneziano morto l’anno 1571 fu attore ed autore molto esperto, ed applaudito, come sappiamo da una lettera del Parabosco. Egli scrisse alcune commedie in prosa nel suo grazioso dialetto nativo mescolato talvolta col bergamasco, col greco moderno e coll’idioma schiavone italianizzato; ed è probabile che a simili farse istrioniche avesse la mira il prelodato Marmontel col suo copiatore Milizia. Le {p. 257}commedie del Calmo sono: la Spagnolas, il Saltuzza, la Pozione, la Rodiana e il Travaglia, pubblicate dal 1549 al 1556. Il Lombardo altro attore di professione diede alla luce nel 1583 l’Alchimista sua commedia lodata. Fabrizio Fornari napoletano detto il Capitan Coccodrillo comico Confidente, pubblicò in Parigi per l’Angelier nel 1585 la commedia intitolata l’Angelica, che si ristampò poi in Venezia nel 1607 pel Bariletto. Il famoso attore padovano Angelo Beolco chiamato il Ruzzante scrisse alcune commedie che s’impressero nel 1598, cioè lo Fiorina, l’Anconitana e la Piovana, le quali dal Varchi nell’Ercolano furono anteposte alle antiche Atellane. Francesco Andreini pistojese marito della celebre attrice Isabella Andreini, ed attore anch’egli che rappresentava da innamorato, e dopo la morte della moglie da tagliacamtone col nome di Capitano Spavento da Vallinferna, volle ancora distinguersi come autore scrivendo più dialoghi, farse e commedie ove {p. 258}acciabattò quanto aveva in iscena recitato come attore, cioè le rodomontate.

Generalmente i pubblici commedianti andavano per l’Italia rappresentando certe commedie chiamate dell’Arte per distinguerle dalle erudite recitate nelle accademie e case particolari da attori nobili civili istruiti per proprio diletto ed esercizio. Si notava, come dicono i commedianti, a soggetto, il piano della favola e la distribuzione e sostanza dell’azione di ogni scena, e se ne lasciava il dialogo ad arbitrio de’ rappresentatori. Queste farse istrioniche aveano per oggetto primario l’eccitare il riso con ogni sorte di buffoneria, e vi si faceva uso di maschere diverse, colle quali nel vestito, nelle caricature e nel linguaggio si esagerava la ridicolezza caratteristica di qualche città. Pantalone era per lo più un mercatante veneziano d’ordinario dedito alla spilorceria; il Dottore un curiale bolognese cicalone; Spaviento un millantatore poltrone; Coviello un furbo, Pascariello un vechio goffo che non {p. 259}conchiudeva un discorso incominciato con grande apparato, tutti e tre napoletani; Pulcinella un villano buffone dell’Acerra; Giangurgolo un goffo calabrese; Don-Gelsomino un lezioso insipido roma no o uno Zima fiorentino; Beltramo un o milanese semplice; Brighella un ferrarese raggiratore; Arlecchino uno sciocco malizioso da Bergamo. Ma vedasi in margine ciò che di questi e di altri simili personaggi comici ridicoli scrisse il Gimma nell’Italia letterataa. Il volgo Italiano {p. 260}sene compiacque per la novità e per quello spirito di satira scambievole che serpeggia tra’ varii popoli di una medesima nazione, siccome avviene in Francia ancora tra’ Provenzali, Normanni e Gasconi, e nelle Spagne tra’ Portoghesi e Castigliani e Galiziani, Valenziani, Catalani, Andaluzzi, le cui ridicolezze e maniere di dire e di pronunziare rilevansi con irrisione vicendevole. In queste farse dell’arte, nelle quali erroneamente varii oltramontani male istruiti sogliono far consistere la commedia Italiana, possiamo ravvisare qualche reliquia degli antichi mimi, la cui indole libera e buffonesca è stata sempre d’introdurre prima certo rincrescimento della buona e bella poesia {p. 261}scenica, indi di cagionarne la decadenza.

Contro di questa verità par che abbia l’erudito abate Carlo Denina opinato, allorchè affermò a, che dalla schiera de’ commedianti sogliono per l’ordinario uscir fuori i migliori poeti drammatici. E ciò vero? Si è verificato questo suo avviso in alcun paese? Lasciamo stare i Greci, de’ quali non avrà egli certamente preteso parlare; perchè tra questi non vi fu schiera di commedianti, nella quale non entrassero gli stessi poeti, confondendosi gli uni negli altri nel libero popolo Ateniese sempre che gli autori non mancavano, come Sofocle, di voce e di disposizioni naturali proprie per comparire sul pulpito. L’asserzione del Denina non si verifica nè anche ne’ Latini. Si ha memoria per ventura che i comedi e tragedi Roscio, Esopo, {p. 262}Ambivione ecc. avessero sulla scena latina prodotte commedie e tragedie eccellenti, superando nelle prime Cecilio, Lucilio, Nevio, Plauto, Afranio Terenzio, e nelle seconde Ennio, Pacuvio, Accio, Varo, Mecenate, Germanico, Ovidio, Stazio, Seneca? Quanto a’ moderni molto lontana dal vero parrà la di lui opinione. Qual commediante in Francia (ove se n’accettui il solo La-Nue che compose il Maometto II) ha composte tragedie passabili, non che pregevoli? Quale che meriti di porsi in confronto de’ due Corneille, di Racine, del Piron, del Crebillon, del Voltaire? Per le commedie non v’ha tra tanti e tanti commedianti chi uscisse dalla mediocrità, ove se n’accettui il solo Moliere, che colse le palme prime, ed il Dancourt assai debole attore, che pur dee contarsi tra’ buoni autori; là dove contansi fuori della classe de’ commedianti di mestiere tanti stimabili scrittori comici, come Des Touches, Regnard, Du-Freny, Saint-Foi, Piron, Gresset e cento altri {p. 263}Qual commediante nelle Spagne (senza eccettuarne Lope de Rueda, che fu il Livio, Andronico di quella penisola) si è talmente accreditato che contar si possa tra’ migliori scrittori al pari del Vega, del Calderòn, del Moreto, del Solis, del Roxas, di Leandro, de Moratin? Nella Gran Brettagna si ammirano i due pregevoli autori Shakespear e Otwai, che tra gli attori si segnalarono ancor componendo; ma le loro favole piene di bellezze e di mostruosità, non trovano competitori nell’Adisson, nel Van-Broug, nel Wicherley, in Gai, in Stèele? Garrick che fu l’Esopo dell’Inghilterra, può come autore gareggiare co’ nominati valenti scrittori non commedianti? Certo è poi che fra gl’Italiani la decisione del Deoina, che sì franco decreta in tutto quel suo Discorso, è molto più manifestamente opposta alla verità. La storia che abbiamo tessuta degli autori tragici e comici del XVI secolo, e de’ due seguenti, dimostra l’immenso spazio che {p. 264}separa Ariosto, Bentivoglio, Machiavelli, Caro, Oddi, Porta, Goldoni, e molti altri, e Trissino, Rucellai, Tasso, Manfredi, Bonarelli, Dottori, Maffei, Varano, Alfieri, da commedianti di mestieri Calmo, Ruzzante, Capitan Coccodrillo, Lombardo, Scala, i quali o non mai osarono porre il piede ne’ sacri penetrali di Melpomene, o vi entrarono strisciandosi pel suolo a guisa di bisce, come l’Andreini, e nella stessa commedia consultarono più la pratica scenica, e i sali istrionici e i lazzi, che l’arte ingenua di Talia, e i passi di Menandro e di Terenzio, contenti del volgare onore di appressarsi al più alle farse Atellane.

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CAPO VI.

Maschere materiali moderne. §

Nel vasto numero delle riferite commedie erudite, i personaggi intenti ad imitare con verità le azioni civili, comparivano sulle scene a volto nudo. Nelle farse istrioniche dette dell’arte gli attori caratterizzati nella guisa già descritta, si coprivano di maschere, le quali s’inventarono successivamente parte nel XVI secolo, e parte nel XVII. E fu un errore del Nisieli, e del p. Bianchi il riferire al XVII l’Arlecchino, il Dottore, il Pantalone, il Brighella, il Capitano Spavento; imperciocchè in molti componimenti del XVI si vede introdotto il Dottor Graziano, ed il Soldato millantatore, e nella composizione musicale di Orazio Vecchi intervennero, il Dottore, il Pantalone, il Brighella.

Ma le nostre maschere sono assai {p. 266}diverse dalle antiche pel fine, per la forma, e per l’uso. Quanto al fine si è già veduto nel volume I che gli antichi avendo bisogno per la vastità de’ loro teatri di accrescere la voce, e di avvicinare il personaggio al numerosissimo uditorio, vi provvidero colle maschere. Non così i moderni che hanno piccioli teatri, e non ricorsero alle maschere se non per muovere il riso con una figura caricata. Quanto alla forma gli antichi nelle maschere rappresentavano i volti umani quali sono, per valersene nelle tragedie e nelle commedie. I moderni coprono alcuni personaggi comici di maschere che imitano piuttosto il sembiante di uranghi che di uomini. Noi non possiamo capire dove siensi trovati gli originali delle acutissime barbe de’ Pantaloni, e de’ visacchi degli Arlecchini. Le maschere moderne coprono il solo volto, e talvolta non interamente; e le antiche coprivano tutto il capo; e può additarsi come una rarità l’unica mezza mascheretta simile a quella che oggi {p. 267}noi adopriamo nelle feste di ballo, la quale si vede nella Tavola XXXV del IV volume delle Pitture di Ercolano sulla testa di una figura di donna che dimostra che stà cantando.

E quanto all’uso della maschera nulla di più ragionato presso gli antichi, e nulla di più goffo e puerile presso i moderni. Quelli variavano la maschera giusta il bisogno di ogni favola; e questi si hanno inchiodate sul viso sempre le medesime maschere. Presso gli antichi tutti gli attori rappresentavano mascherati, essendo tra essi un delitto di mostrarsi al popolo con volto nudo; e se tra’ Romani alcuno deponeva la maschera era solo in pena di avere male rappresentato, per soffrire a volto scoperto le fischiate della plebe. Al contrario gli attori moderni compariscono scoperti quasi tutti, e ce ne applaudiamo a ragione; perchè la più bella parte della rappresentazione, cioè il cambiare il volto a seconda degli affetti, mal potevasi esprimere dagli antichi Roscii, Esopi, Satiri, {p. 268}Neottolemi con que’ duri gran capi di corteccia dipinta, continuo ostacolo all’accompagnar le situazioni co’ successivi cambiamenti di volto. Ma poi i moderni stessi sono caduti in un assurdo peggiore col frammischiare con gli attori scoperti quegli altri mascherati, cioè i quattro poveri vergognosi perpetui, il Pantalone, il Brighella, l’Arlecchino, il Dottore che si coprono di una faccia di cartone o di cuojo dipinta e invernicata a. Gli antichi finalmente accompagnavano la maschera della testa con tutto il vestito, in tutti gli attori accomodandolo alla nazione, al carattere, al tempo; e non commettevano l’error grossolano di vestirne una parte alla moda corrente, e di abbagliare il rimanente alla foggia de’ contemporanei di Agamennone, o di Giano. Ma gli strioni {p. 269}d’Italia tra i Florindi e le Beatrici che imitano le vesti, le moine, le caricature più recenti, hanno mescolato quattro lasagnoni con abiti fantastici, o al più usati in altri secoli.

Da ciò si deduce, che non vi è altro modo di rettificar le maschere moderne, che col bandirle d’un colpo dal teatro istrionico ancora, come si fece nelle accademie che coltivarono la commedia. Se ne deduce parimente che Pietro Chiari pedantescamente pretese giustificare le maschere degli strioni moderni coll’esempio delle antiche sostenendo con vana quanto trita erudizione la loro mimica pertinacia, poltroneria, o paura di smascherarsi.

Fine del Tomo V.

[n.p.]

[Errata] §


ERRORI CORREZIONI
Pag. 16 lin. 10 qnesta questa
30 18 dedicataria dedicatoria
128 8 rèviore rèvivre
ivi 10 voulair vouloir
168 9 laguidissima languidissima
175 3 e 4 quella contraria quelle contrarie
176 e maestrevoliche maestrevoli che
197 12 litigas. Olympio litigas, Olympio
226 5 poco e nulla poco o nulla
230 21 Ormafrodito Ermafrodito
233 lin. ult. franchezza freschezza
248 10 Crofilomachia Erefilomachia
ivi 23 tagliacamtone tagliacantone
257 13 Razzante Ruzzante
257 17 Ereolano Ercolano
262 10 accettui eccettui
ivi 18 accettui eccettui
263 20 Deoina Denina
266 21 visacchi visacci
268 18 abbagliare abbigliare