Pietro Napoli Signorelli

1813

Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VI

2019
Pietro Napoli Signorelli, Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi, tomo VI, [3e éd.], Napoli, presso Vincenzo Orsino, 1813, 366 p. PDF: Google.
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[Epigrafe] §

                     Ardito spira
Chi può senza rossore
Rammentar come visse allor che muore,
Metastasio nel Temistocle.
{p. 3}

STORIA DE’ TEATRI.

CONTINUAZIONE del Teatro Italiano del secolo XVI. e del Libro IV. §

CAPO VII.

Pastorali. §

Le favole pastorali che dopo il Cefalo del Correggio e l’Orfeo del Poliziano si scrissero nel Cinquecento, non meritavano di esser segno a tante censure pedantesche per l’unica ragione di non trovarsene esempio fra gli antichi. Imitinsi questi venerabili maestri nella grande arte che ebbero di ritrarre quasi sempre al vivo la natura; sieguansi con critica e sagacità ne’ generi da essi maneggiati, ma non si escluda tutto ciò che dopo di essi può l’umano ingegno inventare con la scorta degli eterni principii della poetica ragione {p. 4}superiori sempre alla pedanteria scrupolosa. Aminta e Mirtillo c’interessano e commuovono per quanto comporta la loro condizione; or perchè riprovarli se non rassomigliano ad Edipo e ad Ippolito?

Il nolano Luigi Tansillo celebre poeta fu il primo nel secolo XVI a produrre una specie di pastorale, I Due Pellegrini a, componimento scenico che nella famosa cena data da don Garcia de Toledo a donna Antonia di Cardona in Messina si rappresentò nel 1529 b, fu ben diffinito dall’abate {p. 5}Maurolico quasi pastoralis ecloga, avendo in effetto non poco dell’ecloga, se non che se ne allontana per contenere un’ azione compita che ha un nodo ed uno scioglimento di lieto fine.

Anche la Cecaria e Luminaria di Autonio Epicuro può aversi in conto di una specie di pastorale, benchè di pastori non trattasse, e dall’autore fosse nominata tragicommedia. La Cecaria sarebbe anteriore ai Due Pellegrini del Tansillo, essendosi impressa nel 1526; ma l’azione si scioglie colla Luminaria che n’è una continuazione o seconda parte che unita alla Cecaria s’impresse nel 1535 in Venezia, dove sino al 1594 se ne ripeterono altre quattro edizioni.

La pastorale che in un certo modo si scosta meno dal Ciclope di Euripide, è l’Egle del Giraldi Cintio che egli intitolò Satira. S’impresse in Ferrara nel 1545, e si era rappresentata nel medesimo anno la prima volta in casa dell’autore a’ 24 di febbrajo, e la seconda a’ 4 di marzo alla presenza del {p. 6}duca Ercole II e del cardinale Ippolito di lui fratello. La rappresentò (si dice nella lettera premessavi)messer Sebastiano Clarignano da Montefalco. Fece la musica messer Antonio del Cornetto. Fu l’architetto e il pittore della scena messer Girolamo Carpi da Ferrara. Fece la spesa l’Università degli scolari di legge.

Domandiamo ora che musica fu quella che si fece a questa pastorale ed alle altre che la seguirono? perchè quasi di tutte si trova scritto di avervi fatta la musica qualche maestro. Il teatro in quel tempo non vide ai componimenti scenici altra musica congiunta eccetto quella che animava i cori. Delle tragedie si dice espressamente che aveano i cori cantati. Nelle opere di Antonio Conti si afferma che furono cantati a Roma e a Vicenza i cori della Sofonisba e che tuttavia resta la musica de’ cori della Canace. Quando nel teatro Olimpico di Vicenza si rappresentò l’Edipo del Giustiniani, il coro (dice in una lettera Filippo {p. 7}Pigafetta) era formato di quindici persone sette per parte ed il capo loro nel mezzo, il qual coro in piacevol parlare ed armonia adempì l’uffizio suo. Delle commedie non che in versi, in prosa, si è osservato nel tomo precedente che la musica ne rallegrava gl’intervalli degli atti. E se mai se ne volesse un esempio forestiere, el Musico por amor commedia spagnuola è tutta recitata, fuorchè ciò che cantasi da colui che si finge musico. Oltrechè in molte migliaja di commedie recitate della medesima nazione, a riserba di qualche dozzina di esse, si trovano frequentemente alcune strofe o canzonette cantate in coro dalle damigelle di qualche principessa, nell’impressione delle quali se si avesse voluto conservare il nome del maestro, avrebbe potuto notarsi con ogni proprietà, vi fece la musica (p. e.) il maestro Ita, il maestro Corelli ec., benchè esse si sieno rappresentate e si rappresentino attualmente col solo canto naturale della favella. Ora nelle pastorali che {p. 8}s’inventarono in quel tempo non si vollero gl’Italiani privare di quell’armonico accompagnamento già introdotto. E come agli autori di esse sarebbe venuto in mente di farvi una musica continuata per tutto il dramma (come indi avvenne nell’opera) senza averne avuto esempio? E se l’avessero tratto dagli antichi, non ci avrebbero essi informato di sì notabile novità, quando di altre particolarità più leggiere ci diedero contezza? E tutti poi avrebbero religiosamente taciuto questo gran segreto di stato? Adunque la musica apposta alle pastorali fu solo in qualche squarcio, e singolarmente ne’ cori, e negl’intervalli degli atti ancor senza cori vi si fece qualche tramezzo o trattenimento. Il Cornetto, il Viola, il Cavaliere altro non dovettero porre in musica nelle pastorali se non i cori e qualche altro passo a bella posta inserito nell’azione perchè si cantasse. E se per queste cose nel pubblicarsi le pastorali per onorare i maestri vi si pose fece la musica, ciò benissimo conviene al nominato {p. 9}lavoro, senza che le abbiano interamente coperte di note, il che non si rileva da monumento veruno; e così le pastorali assai impropriamente si chiameranno, come si chiamarono nel bel trattato dell’Opera in musica del cavaliere Antonio Planelli, opere teatrali.

Dall’altra parte convengono gli eruditi più accurati in riconoscere nel fiorentino Giacomo Peri l’inventore dello stile musicale de’ recitativi ne’ drammi del Rinuccini verso la fine del secolo, celebrandone l’industria come novità maravigliosa. Ora se il Cornetto, il Cavaliere, il Viola l’aveano preceduto in mettere in musica tutto il componimento, non si sarebbe data al Peri una falsa e ridicola lode? Le pastorali dunque altra musica non ebbero che quella delle tragedie, cioè de’ cori; e noi andando innanzi speriamo di portare quest’osservazione all’evidenza. Intanto osserviamo sull’Egle stessa del Giraldi che messer Sebastiano da Montefalco che ne fu il principale attore, era l’istesso che recitò nella tragedia dell’ {p. 10}Orbecche, ed il Giraldi ne favella con lode speciale, enunciandolo come attore eccellente, e non già come musico. E perchè ne avrebbe taciuto quest’altro pregio?

Il Sacrificio di Agostino Beccari ferrarese si rappresentò nel 1554 in Ferrara due volte alla presenza del duca Ercole II, avendovi fatta la musica Alfonso della Viola, e s’impresse l’anno seguente. Tre anni prima della morte dell’autore seguita nel 1590 fu rappresentata due altre volte nelle nozze di Girolamo Sanseverino San Vitale con Benedetta Pio, e di Marco Pio fratello di Benedetta con Clelia Farnese.

Alberto Lollio ferrarese poeta e oratore grande scrisse l’Aretusa altra pastorale cantata ne’ cori, nel palazzo di Schivanoja l’anno 1563 alla presenza del duca Alfonso II e del cardinal Luigi di lui fratello, e s’impresse nel 1564. La rappresentò messer Ludovico Betti: fece la musica Alfonso Viola: fu l’architetto e dipintor della scena messer Rinaldo Costabili: fece la spesa l’ {p. 11}Università degli scolari di legge. Il medesimo Viola pose la musica corrispondente allo Sfortunato pastorale di Agostino Argenti rappresentata in Ferrara innanzi allo stesso Alfonso II nel 1567, e stampata l’anno seguente.

Eccoci all’epoca dell’invano combattuto Aminta favola boschereccia dell’immortale Torquato Tasso. La prima edizione fu quella di Aldo il giovane nel 1581 colla dedicatoria dell’autore al principe di Molfetta e signor di Guastalla Ferrante Gonzaga in data de’ 20 di dicembre 1580. Monsignor Fontanini nel suo Aminta difeso crede che la prima edizione fosse quella del 1583 di Aldo, che fu la quarta a. Tralle più nitide edizioni dell’Aminta è da {p. 12}noverarsi quella del 1655 uscita in Parigi dalla stamperia di Agostino Corbè colle annotazioni di Egidio Menagio a. La difesa dell’Aminta fatta dal Fontanini che s’impresse nel 1700, fu composta per rispondere al discorso censorio fatto contro la pastorale del Tasso dal duca di Telese Bartolommeo Ceva Grimaldi per comando dell’Accademia degli Uniti di Napoli. Tal censura fu ancora ribattuta da Baltassarre Paglia con un discorso in cui si additano i pregi dell’Aminta letto nella medesima accademia e stampato nella raccolta di Antonio Bulifon in Napoli. Un’ altra difesa dell’Aminta contro il duca di Telese fece il dottor Niccolò Giorgi napoletano letterato di grido. Secondo il Mongitore un’ edizione dell’Aminta fu pubblicata in Sicilia colle note musicali del gesuita Erasmo Marotta da Randazza, che morì nel 1641 in Palermo.

{p. 13}La futilità delle critiche si manifestò non meno colle difese che coll’applauso generale che riscosse sì vago componimento, e colla moltitudine delle traduzioni che se ne fecero oltramonti. In Francia si tradusse in versi francesi la prima volta nel 1584 da Pietro de Branch, e si pubblicò in Bourdeaux; in prosa si tradusse in Parigi nel 1666, e poi nell’Aja nel 1679 e si ristampò nel 1681. Queste ed altre versioni francesi riuscirono poco felici, sia per debolezza delle penne che l’intrapresero, sia perchè la prosa francese che da i più si adoperò, è incapace di rendere competentemente la bella poesia italiana. Una traduzione eccellente se ne fece in bei versi castigliani da Giovanni Jauregui uscita in Roma nel 1607, ed in Siviglia nel 1618 a. In {p. 14}inglese fu tradotto l’Aminta, e stampato in Londra nel 1628. In latino si traslatò ancora da Andrea Hiltebrando medico di Pomerania, e s’impresse in Francfort nel 1615, e di nuovo nel 1623. Michele Schneiden ne fece una versione tedesca stampata nel 1642 in Amburgo. In lingua illirica fu anche trasportato da Domenico Slaturichia celebre in Dalmazia per questa, e per la traduzione dell’Elettra, e di Piramo e Tisbe, ed altri drammi in lingua schiava.

La prima rappresentazione dell’Aminta secondo il marchese Manso, si fece in Ferrara nel 1573 con lode e meraviglia universale con quattro {p. 15}intermedii composti dall’aurore. Di questi medesimi tramezzi crede il Fontanini che si servissero quelli che rappresentarono l’Aminta in Firenze per ordine del gran duca coll’accompagnamento delle macchine e prospective di Bernardo Buontalenti; la qual cosa riuscì con tal magnificenza ed applauso, che spinse il medesimo Torquato a recarsi di secreto in Firenze per conoscere il Buontalenti; ed avendolo appena salutato e haciato in fronte, se ne partì subito involandosi agli onori che gli preparava quel principe a.

Nè a’ dotti nè alle persone che leggono per divertimento può esser ignoto l’argomento semplice di questa elegantissima favola che con una condotta regolare rappresenta una ninfa schiva e nemica di amore vinta e divenuta amante per mezzo della pietà. Vana cura sarebbe ancora metterne in vista più {p. 16}questa che quella bellezza, men bello di ciò che si sceglie non sembrando quello che si tralascia. Mirabili sono fin anco i trascorsi del poeta, voglio dire alcuni pensieri più studiati, i quali per altro non sono in sì gran numero come suppongono alcuni critici accigliati. Eccone un esempio. L’enumerazione di parti fatta nella prima scena dall’astuta Dafne per piegar Silvia ad amare: Stimi dunque nemico il monton de l’agnella ecc., non trascende le idee pastorali, e contiene immagini campestri ben conte e sottoposte agli sguardi di Dafne e di Silvia. L’eloquenza della scaltrita ninfa presenta alla ritrosa fanciulla la concordia di tanti oggetti silvestri come effetto della potenza dí amore. Ma quel sospirar delle piante, che potrebbe parer soverchio, con qual graziosa ironia non vien distrutto dalla disdegnosa Silvia!

Orsù quando i sospiri
Udirò delle piante,
Io son contenta allor d’essere amante.

{p. 17}Spira un dilicato patetico da i discorsi di Aminta nella seconda scena. La dipintura della corte fatta da Mopso e raccontata da Tirsi ha mille vaghezze. L’impareggiabil coro, O bella età dell’oro, per eleganza e per armonia maraviglioso meriterebbe che si trascrivesse interamente; ma chi l’ignora? Le bellezze dello stile nelle particolarità narrate, che i Francesi chiamano beautez de detail, sono tante nella seconda scena dell’atto II, che pur dovrebbe questa tutta ripetersì. È bellissimo il racconto di Aminta poichè ha liberata Silvia dalle mani del Satiro. Il riverente rispetto di lui nel disciorla, ne scopre la grandezza dell’amore. La sua disperazione per la fuga dell’ingrata ninfa, il dolore che gli cagiona la novella di Nerina e la vista del velo dell’amata, la dipartita col disegno di finir di vivere, tutto ciò, dico, rende sommamente interessante l’atto III. Cresco sempre più l’interesse nell’atto IV. Nella bellissima prima scena quando nasce l’amor dì Silvia dal racconto del {p. 18}pericolo di Aminta, ella non mostra gl’interni movimenti se non col pianto che le soprabbonda, e il poeta fa che Dafne gli vada disviluppando:

Tu sei pietosa, tu! tu senti al core
Spirto alcun di pietade? Oh che vegg’io?
Tu piangi, tu, superba? meraviglia!
Che pianto è questo tuo? pianto d’ amore?

Sil.

Pianto d’amor non già, ma di pietade.

Daf.

La pietà messaggera è dell’amore,
Come il lampo del tuono…
Questo è pianto d’amor che troppo abbonda.
Tu taci? Ami tu, Silvia? Ami, ma invano.
Oh potenza d’amor! giusto castigo
Mandi sopra costei. Misero Aminta ecc.

Il silenzio di Silvia giustifica le {p. 19}illazioni di Dafne, ed il racconto della morte dell’amante inspira nella ninfa impietosita il desiderio di accompagnarlo. Le querele di lei sono con tal vaghezza e verità espresse che non possono mancare di commuovere l’anime sensibili. Eccellente è l’unica scena che forma l’atto V, ove sì leggiadramente si narra la caduta non mortale di Aminta, l’arrivo di Silvia, ed il trasporto di lei al vederlo in quello stato. Ella piagne, ella si percuote il bel petto, ella si lascia cadere sul giacente corpo, e giunge viso a viso e bocca a bocca, ella l’inaffia del suo pianto. Un oimè che esce dalla becca di Aminta assicura Silvia della vita di lui: uno sguardo volto a lei che gli bagna il volto di lagrime, fa certo Aminta dell’amore e della vita di Silvia.

Or chi potrebbe dir, come in quel punto
Rimanessero entrambi? fatto certo
Ciascun dell’altrui vita, e fatto certo
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Aminta de l’amor de la sua ninfa,
E vistosi con lei congiunto e stretto;
Chi è servo d’amor, per se lo stimi.
Ma non si può stimar, non che ridire.

Per quanto si abbia di amore e di rispetto per gli antichi, convien confessare che essi, tuttochè vadano fastosi per un Sofocle ed un Euripide, se fossero stati contemporanei del Tasso, ci avrebbero invidiato l’Amintaa. Si è veduto come ben per tempo e più volte s’impresse e sì tradusse in Francia, prima che quivi si conoscessero Lope de Vega, Castro e Calderon; il che sempre più manifesta il {p. 21}torto del Linguet nel pretendere che le prime bellezze teatrali avessero i Francesi imparate dagli Spagnuoli.

Antonio Ongaro nel 1582 produsse una favola nel genere dell’Aminta, ma imitando i costumi pescatorii. Non fu egli il primo a dipignerli; perchè Bernardo Tasso, Andrea Calmo, e Bernardino Baldi, e Matteo Conte di San-Martino e di Vische, e Giulio Cesare Capaccio, e prima di tutti questi Jacopo Sannazzaro in latino e Bernardino Rota in toscano, introdussero leggiadramente nelle loro ecloghe i pescatori. L’Ongaro volle trasportarli sulla scena, e prendendo l’Aminta per esemplare ne seguì con tale esattezza le orme, che il suo Alceo, come ognun sa, ne acquistò il nome di Aminta bagnato. Trovo non pertanto che monsignor Paolo Regio sin dal 1569 pubblicò in Napoli una sua favola pescatoria intitolata Siracusa da me però non veduta. Il Regio dunque fu il primo a portare in iscena gli amori de’ pescatori.

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Il più volte nominato Cieco d’Adria ebbe il vantaggio, disse Apostolo Zeno, di comporre una pastorale prima del Guarini e dopo del Tasso, intitolata il Pentimento amoroso. Ma questa si pubblicò in Venezia nel 1583, ed io trovo, che nella stessa città se ne impresse nel 1581 un’altra di Alvise Pasqualigo detta gl’Intricati, la quale, come appare nella dedicatoria fattane al principe dell’Accademia Olimpica, ed anche dal prologo, era stata rappresentata qualche anno prima a Zara. È però un cattivo componimento formato sopra incantesimi che producono nojose ed inverisimili situazioni, e vi s’introducono per buffoni Calabaza spagnuolo e Graziano bolognese che parlano ne’ proprii idiomi. Altro dunque non ha di notabile che di aver preceduto il Pentimento amoroso. Il Groto scrisse indi un’ altra pastorale intitolata Calisto pubblicata per le stampe nel 1586.

Contemporanea al Pentimento fu la Danza di Venere di Angelo {p. 23}Ingegneri. Era stata già rappresentata in Parma in presenza di Ranuccio Farnese giovanetto nel 1583, quando fu dedicata alla nobile Camilla Lupi che vi sostenne la parte di Amarilli; e si stampò poi nel seguente anno in Venezia. L’intreccio è più complicato dell’Aminta, e si sviluppa con un’agnizione. Venere stessa vi fa il prologo, e ne accenna l’argomento:

Miracol novo a fare or m’apparecchio
In questo istesso loco. Il senno, il senno
Ch’altri sovente amando perde, amando
Far che uomo acquisti.

Ed in fatti Coridone di folle diviene assennato al contemplare le bellezze di Amarilli, a somiglianza del Cimone del Boccaccio.

In occasione delle nozze di Carlo Emmanuele duca di Savoja con Caterina d’Austria fu nel 1535 rappresentata in Torino la prima volta la celebre tragicommedia pastorale del {p. 24}cavalier Giambatista Guarini intitolata il Pastor fido; ma s’impresse nel 1590. Una delle più vive battaglie letterarie si accese per questa favola, che vive e viverà a dispetto de’ critici per l’eleganza per l’affetto per le situationi teatrali e per l’interesse che ne anima tutte le parti. Pochi son quelli che si sovvengono delle censure famose per altro di Giasone di Nores, di Fausto Summo, dì Giovanni Pietro Malacreta, di Angelo Ingenieri e di Nicola Villani, come altresì delle risposte che ad esse fecero, oltre dell’istesso Guarini, Giovanni Savio e Paolo Beni e Ludovico Zuccoli. Ma il Pastor fido, malgrado de i difetti che vi si notano, sarà sempre un componimento glorioso per l’autore e per l’Italia. Anche il Fontanini a maltratta il Guarini e la pastorale; ma il Barotti nella Difesa de’ suoi Ferraresi lo confuta vigorosamente. Apostolo Zeno si {p. 25}dichiarò pure a favore del Pastor fido. Il parlare troppo elegante de’ pastori in questa favola ebbe anche fuori dell’Italie un censore nel Rapin, che misurava que’ pastori colla squadra de’ caprai delle moderne campagne; senza avvertire che nell’ipotesi della pastorale del Guarini i pastori Arcadi fingonsi discendenti di Silvani e di Fiumi deificati, e formano una famiglia o repubblica pastorale, di cui i sacerdoti, a somiglianza degli antichi patriarchi, erano i legislatori e maestri. Ora a tali pastori disconverrebbe tanto il pensare e favellare alla foggia de’ nostri odierni pecorai, quanto a quella de’ cortigiani di Versailles, come fanno veramente i pastori del celebre Fontenelle. Ma possono sentire le umane passioni, e ragionarne colla penetrazione naturale, non come filosofi, ma come uomini che le stanno soffrendo, ed esprimono al vivo ciò che sentono. Quel che noi però non troviamo degno di approvazione, si è ciò che si esprime con concetti soverchio leccati e {p. 26}raffinati; non già perchè col Rapin c’incresca l’eleganza, ma perchè la vera passione nel genere drammatico si spiega con maggior semplicità. Avvenne in somma al Pastor fido quel che nel secolo seguente seguì in Francia pel Cid di Pierre Corneille, l’opera sopravvisse ad ogni censura a.

Un carattere diverso dall’Aminta è da notarsi nel Pastor fido. L’azione della prima pastorale è semplice e senza veruna agnizione, dell’altra è ravviluppata con un riconoscimento {p. 27}interessante: eccita l’Aminta la compassione, il Pastor fido giugne a quel grado di terrore che ci agita nel Cresfonte al pericolo del giovane vicino ed essere uccìso per mano della madre: l’Aminta senza storia precedente e senza colpi di scena c’interessa a meraviglia col solo affetto, il Pastor fido riesce artificioso per la tessitura e per un disegno più vasto e più teatrale. Anche di questa favola si fecero in Francia varie traduzioni in prosa molto infelici, e in Ispagna una sola buona in versi dal Figueroa a.

Benchè con passi assai disuguali e ben da lungi, seguirono le tracce luminose del Tasso e del Guarini varii altri poeti sino alla fine del secolo. Cristofaro Castelletti romano essendo ancor {p. 28}giovine a scrisse l’Amarilli impressa nel 1587 e ristampata in Viterbo nel 1620. Un pastorello di Candia ama una ninfa e credendola morta di veleno abbandona le patrie contrade, erra per dieci anni, e capita in fine nelle campagne della Toscana, do ve s’innamora d’Amarilli perchè rassomiglia all’estinta Licori. Quest’Amarilli ritrosa non vuole ascoltarlo, a cagione di avere nella sua patria amato un pastorello chiamato Tirsi, a cui, benchè con pochissima speranza tutto serba il suo amore. Ma questo Tirsi è appunto il medesimo pastorello che col nome di Credulo ella disdegna, e Amarilli è quella stessa Licori pianta da Tirsi per morta. Questa ipotesi di non ravvisarsi, sebbene dopo dieci anni, due persone che tanto si amano, sembra veramente dura en mancante di verisimiglianza; contuttocciò l’azione è {p. 29}condotta con destrezza e competentemente accreditata. A riserba poi di alcuni tratti troppo lirici, e di qualche intemperanza Ovidiana nell’accumulare immagini, lo stile è puro, la versificazione corrente, ben sostenuti e ben coloriti i caratteri, e la favola è semplice, e serva le regole. Benchè framischiato di qualche ornamento lirico, spicca per la tenerezza e pel patetico il lamento di Credulo che vuol morire per la durezza della sua ninfa. Tenera nell’atto V è la riconoscenza di Licori e Tirsi. Non è questa una pastorale da gareggiar coll’Aminta o col Pastor fido, ma supera moltissime altre che la seguirono, per l’affetto, e per l’interesse che l’avviva. Non ebbe cori, ma solo cinque madrigaletti di ugual metro e numero di versi da cantarsi in ogni fine di atto. Dovè parimente cantarsi la canzone di Selvaggio nell’atto I.

Che mi rileva errar per gli ermi boschi

che contiene cinque stanze colla {p. 30}rigorosa legge del metro regolare. Ma chi riconoscerà un’ opera musicale in un componimento senza cori, in cui oltre ad una canzonetta, si cantarono cinque madrigaletti per trattenimento negl’intervalli degli atti? Nel medesimo anno 1587 comparvero due altre pastorali il Satiro dell’Avanzi, e la Diana pietosa del Borghini. Uscì parimente in quell’anno dalle stampe del veneziano Domenico Imberti l’Andromeda tragicommedia boschereccia di Diomisso Guazzoni cremonese, dove interviene un Erbenio mago, oltre a Cupido trasformato in ninfa, i quali empiono la favola di prodigii.

Esercitossi parimente in questo genere la famosa Isabella Andreini padovana una delle migliori attrici italiane, che applicatasi alla poesia ne diede alla luce un saggio nel 1588 con una pastorale intitolata Mirtilla, la quale fu così ricercata che dal mese di marzo a quello di aprile se ne fecero in Verona due edizioni (se crediamo alle due diverse dedicatorie che vi si {p. 31}leggono) essendo stata la prima dalla stessa autrice dedicata alla marchesana del Vasto Lavinia della Rovere, e la seconda dall’impressore alla signora Lodovica Pellegrina la Cavaliera. L’azione rappresenta la vendetta presa da Amore di due anime superbe che lo bestemmiavano, Tirsi pastore ed Ardelia ninfa, facendo che l’uno arda e non trovi loco

Per amor di Mirtilla, e l’altra avvampi
Per sua pena maggior di se medesma;

ed in fatti nell’atto IV si vede Ardelia divenuta un novello Narciso che si vagheggia in un fonte. Non è da cercarsi in questa ed in moltissime altre favole di questì ultimi anni del secolo nè intreccio semplice o almeno moderatamente ravviluppato, nè quel linguaggio che richiede il genere drammatico. Sembra che allora i poeti facessero a gara in trasportare nelle pastorali tutti i raffinamenti della lirica poesia. La favola dell’Andreini non ha {p. 32}cori a. Nel medesimo anno 1588 pubblicaronsi altre due pastorali, l’Amaranta del Simonetti, e la Flori di Maddalena Campiglia lodata da Muzio Manfredi.

I Sospetti favola boschereccia di Pietro Lupi pisano si pubblicò in Firenze nel 1589. Un dialogo tra l’Amore e la Gelosia ne forma il prologo, e dichiara le mire di ambedue. Si figura l’azione avvenuta tra’ Pisani quando tuttavia dimoravano nello stato pastorale, e l’amore presagisce le future grandezze di Pisa. Lo stile è nobile ma lirico come quello di tutte le {p. 33}altre; e l’azione, benchè non mi sembri abbastanza interessante, è pure regolare. Anche questa pastorale è priva di cori.

Le Pompe funebri del celebre Cesare Cremonino, e le pastorali di Laura Guidiccioni dama lucchese ornata di molto merito letterario, cioè la Disperazione di Sileno, il Satiro, il Giuoco della Cieca, e la Rappresentazione di anima e di corpo recitata in Roma colla musica di Emilio del Cavaliere, furono pastorali degli ultimi anni del secolo dettate, sì, con istile lirico, ma non tale da recarci rossore. Non così la Gratiana di un certo Accademico Infiammato uscita alla luce in Venezia nel 1590 ripiena di sciapite buffonerie e di personaggi scempi come un caprajo tedesco e due buffoni Magnifico veneziano e Graziano bolognese.

Assai più degne di mentovarsi sono la Cintia di Carlo Noci capuano, e l’Amoroso Sdegno di Francesco Bracciolini pistojese, che {p. 34}ornarono l’ultimo lustro del secolo. La Cintia che s’impresse in Napoli nel 1594 dal Carlino e dal Pace, e si ristampò dal Maccarano nel 1631, che è l’edizione conosciuta dal Fontanini, consiste in una ninfa creduta morta che dopo varii evenimenti vestita da uomo si presenta a Silvano suo amante che trova innamorato di un’ altra, e s’introduce nella di lui amicizia col nome di Tirsi. Tenta l’animo di lui ricordandogli acconciamente la prima sua diletta, e comprende che ne ama la memoria, ma che ha tutto rivolto l’amore a Laurinia. Ode poi Silvano che questo suo amico favorisce in di lui pregiudizio Dameta presso Laurinia, e credendolo traditore ne ordina la morte ad un servo, il quale finge di averlo ucciso. Silvano intende che il finto Tirsi era la sua Cintia morta per la sua crudeltà; ne conosce l’innocenza e l’amore, e cade in disperazione. La veracità del di lui dolore fa che gli si faccia sapere che è viva, e ne seguono le loro nozze. La favola è divisa {p. 35}in cinque atti senza suddivisione di scene e senza cori. Il primo rigoroso comando che riceve il finto Tirsi da Silvano è di partire da quelle selve, e le querele nel dovere lasciar quel luogo e la compagnia di Clizia sua amica, sono tenere e delicate. Nell’atto IV è benissimo espresso il dolore di Silvano, che dopo di aver saputo che Ormonte suo servo ha ucciso Tirsi, intende da Elcino che Tirsi è la sua Cintia.

La pastorale poi del Bracciolini, per sentimento dell’erudito Pier Jacopo Martelli, può andar subito appresso alle tre più famose l’Aminta e il Pastor fido e la Fille di Sciro del secolo seguente. L’autore, secondo il Mazzucchelli, la compose in età di venti anni, e fu stampata in Venezia nel 1597, e poi anche nel 1598. In Milano nel 1597 se ne fece una edizione corretta dall’autore, il quale giunto all’ultima vecchiezza morì nella sua patria pieno di onorata fama per le molte sue opere ingegnose che produsse.

{p. 36}Alcuni anni prima e propriamente nel 1590 il celebre Muzio Manfredi compose in Lombardia a una nuova Semiramide ma boschereccia, in cui si tratta delle di lei nozze con Mennone seguite in villa. Scrivendo di essa a Firenze a Giovanni de’ Bardi de’ signori di Vernia, afferma lo stesso autore d’averla cara quanto la tragedia, e che con tre lettere in otto giorni gliela dimandò il duca di Mantova per farla rappresentare. Nel mandargliela, da tre di lui lettere dirette a tre Ebrei si ricava quanto impegno egli avesse che si rappresentasse colla maggior proprietà. Al l’ebreo Leone di Somma che dovea inventar gli ahiti, raccomanda che sieno convenienti a’ personaggi Assiri; diligenza che si vede trascurata nel grottesco vestito eroico degli attori tragici francesi, ed in quello pure stravagante de’ cantori dell’ {p. 37}opera in musica. A messer Isacchino prescrisse la qualità di ballo richiesta nelle quattro canzonette che s’interpongono negli atti; insegnando con ciò la convenienza che dovrebbero avere la danza e l’azione. Finalmente al maestro di musica Giaches Duvero incarica l’attenzione necessaria al genere di musica, che esigono le mentovate canzonette. E quì domando a que’ dotti scrittori che vorrebbero trarre l’origine dell’opera musicale da secoli più remoti, e riconoscerla in tutte le pastorali, domando, dico, se loro sembri verisimile che il famoso Manfredi sì scrupoloso negli abiti e nel ballo, avrebbe inculcata al compositore di musica tutta la diligenza nelle sole canzonette, punto non facendo motto della musica di tutto il rimanente, se tutta la pastorale avesse dovuto cantarsi? Domando ancora, se a buona ragione la sola musica delle canzonette potesse bastare a far chiamare opere in musica le pastorali?

L’istesso chiaro autore delle due {p. 38}Semiramidi compose un altro scenico componimento pastorale intitolato il Contrasto amoroso fatto in Lorena l’anno 1591 a, in cui, per quel che scrive l’autore a donna Vittoria Gonzaga principessa di Molfetta b, con novissima invenzione è un solo pastorello e dodici ninfe, delle quali quattro contrastano amorosamente ciascuna per averlo per marito, ed è vinto da una che si chiama Nicea. Sotto nome di Flori egli pretese introdurre la signora Campiglia, come egli stesso a lei scrive, e sotto quello di Celia la signora Barbara Torelli, facendole fare insieme una scena in lode delle donne virtuose, ed in biasimo di chi non le ossequia. Sembra che questa pastorale sia rimasta inedita.

Inedita parimente rimase quella che {p. 39}scrisse la mentovata Barbara Torelli Benedetti cugina del conte Pomponio, intitolata Parteniaa. L’autrice da prima non vi pose i cori e fu ben fatto, le dice il Manfredi scrivendole a Parma il dì ii di Gennajo, conciosiache contenendo la pastorale azion privata, non è capace del coro, siccome non è anche la commedia per la medesima ragione, e non vi si fa. Se dunque V. S. vuole aggiugnergliele ora, non so da che spirito mossa, oltre alla gran fatica ch’ella imprenderà a compire quattro canzonette colle circostanze richieste alle così fatte, le accrescerà bene il coro, ma le scemerà il decoro: e dico scemerà, e non leverà, per non dannare affatto l’uso di tutti quei poeti che alle loro il fanno; e fra tali poeti si vuol {p. 40}ripore l’istesso Manfredi che il fece alla sua boschereccia.

Di un’ altra pastorale inedita fa anche menzione il Manfredi composta dal conte Alfonso Fontanelli, la quale, dice nella lettera 364,intendo essere un miracolo di quest’arte. E di tal letterato avea il Manfredi gran concetto, e lo desiderava vicino per udirne il parere sul suo Contrasto amoroso, come l’udì sulla tragedia.

Fa altresì menzione il Manfredi di Enone boschereccia composta da Ferrante Gonzaga principe di Molfetta morto nel 1630, la quale era vicina a terminarsi nella fine del 1593. Francesco Patrizii la rammenta ancora con grandi elogii.

Finalmente il Visdomini fondatore dell’Accademia degl’Innominati di Parma, oltre alle tragedie già mentovate, compose l’Erminia pastorale dedicata al conte Pomponio Torelli, la quale fra tutte le nominate favole inedite sola trovasi conservata manoscritta nella ducal Biblioteca di Parma. Non {p. 41}sembrami veramente la cosa migliore di quel secolo ricco di tanti buoni drammi. L’azione passa tra pastori che aspirano alle nozze di Erminia, non conoscendola per quella che era stata regina di Antiochia. L’interesse non vi si trova per verun personaggio. Un ratto di Erminia tentato da alcuni pastori ed impedito da Egone, forma l’azione dell’atto IV; ma ella appena liberata, vedendo venire un guerriere, a lui ricorre, lasciando Egone addololorato. Nell’atto V comparisce il principe Tancredi ferito, che ringrazia Dio della vittoria riportata del Circasso Argante. Il guerriere con cui è ita Erminia, era Vafrino, e l’uno e l’altra riconoscono il ferito; ed Erminia dopo averlo pianto come morto, si avvede che è vivo, e ne imprende la guarigione. Nè lo stile nè la condotta fa desiderarne l’impressione.

{p. 42}

CAPO VIII ultimo.

Primi passi del Dramma Musicale. §

Siamo pur giunti all’epoca vera, in cui la musica e la danza (che tanto diletto recavano ne’ cori teatrali ed in altre feste) congiunte alla poesia svegliarono il desiderio di un nuovo spettacolo scenico dopo il risorgimento delle lettere. La musica costante amica de’ versi a ancor fra selvaggi, la {p. 43}quale in oriente si frammischia nelle rappresentazioni senza norma fissa, ed in Atene ed in Roma avea accompagnata la poesia rappresentativa ora più canoramente come ne’ cori, ora meno come negli episodii, nelle grandi rivoluzioni dell’Europa se ne trovò disgiunta. Abbandonato il teatro alla poesia e alla rappresentazione, la musica si conservava nelle chiese, ed accompagnava la danza e i versi che ne’ caroselli solevano cantarsi su’ carri ed altre macchine a Cominciò poi a richiamarsi sulle scene in qualche passo delle sacre rappresentazioni. Quindi s’introdusse nella profana, cantandosi i cori delle tragedie e delle pastorali, ed anche i {p. 44}tramezzi delle commedie non meno in versi che in prosa.

Il favorevole accoglimento fatto alla musica richiamata sulle scene, menò assai naturalmente gl’Italiani ad accoppiarla a tutte le parti del componimento per convertirlo in opera musicale. E perchè tale divenisse, convenne immaginarsi una nuova specie di poesia rappresentativa, la quale avesse certe e proprie leggi che in varie cose la rendessero differente dalla tragedia e dalla commedia. Dovè dunque concepirsi di tal modo, che le macchine per appagare la vista, l’armonia per dilettar l’udito, il ballo per destare quella grata ammirazione che ci tiene piacevolmente sospesi, e gli armonici, graziosi, agili e leggiadri movimenti di un bel corpo, cospirassero concordemente colla poesia anima del tutto, non già qualunque o simile a quella che si adopera in alcune feste, ma bensì drammatica e attiva, ad oggetto di formare un tutto e un’azione bene ordinata e cantata dal principio sino al fine, e {p. 45}(per dirlo colle parole del più erudito filosofo e dell’uomo di gusto più squisito che abbia a’ nostri giorni ragionato dell’opera in musica, dico del conte Algarotti) di rimettere sul teatro moderno Melpomene accompagnata da tutta quella pompa che a’ tempi di Sofocle e di Euripide solea farle corteggio. Or questa è l’opera musicale, a giudizio di tutta l’Europa; e questo lavoro nella nostra lingua non s’inventò prima degli ultimi tre anni del Cinquecento. Fu di questo parere ancora il dottissimo prelodato Algarotti nel Saggio sopra l’opera in musica. Egli de i drammi del Rinuccini dice che furono i primi che circa il principio della trascorsa età sieno stati rappresentati in musica; ed al pari di noi altro egli non vide nell’Orfeo del Poliziano, nella Festa del Betta, e nella rappresentazione posta in musica dallo Zarlino per Errico III in Venezia, che uno sbozzo e quasi un preludio dell’Opera.

Non si sarebbero mai immaginato i {p. 46}moderni Anfioni teatrali, che i primi Cantanti, ovvero istrioni musicali, sieno stati l’Arlecchino, il Pantalone, il Dottore ed altre maschere comiche; e pure con questi personaggi appunto cominciò l’opera. Orazio Vecchi modanese verseggiatore e maestro di cappella, animato dalla felice unione della musica e della poesia che osservò in tante feste e cantate e ne’ cori delle tragedie e delle pastorali, volle il primo sperimentare l’effetto di tale unione in tutto un dramma a; e nel 1597 fece rappresentare alle nominate maschere il suo Anfiparnaso, stampato nell’anno stesso in Venezia appresso Angelo Gardano in quarto, e di note musicali corredato dal medesimo autore.

Sia poi che il nobile fiorentino Ottavio Rinuccini (il quale fu gentiluomo di camera di Errico IV re di Francia, e non commediante, come disse ne’ suoi Giudizii il Baillet ripresone {p. 47}a ragione da Pietro Baile) s’inducesse per l’esempio del Vecchi a formar del dramma e della musica un tutto inseparabile in un componimento eroico e meglio ragionato, ovvero sia che le medesime idee del Vecchi a lui ed a’ suoi dotti amici sopravvenissero, senza che essi nulla sapessero del Modanese: egli è certo che il Rinuccini, col consiglio del signor Giacomo Corsi intelligente di musica, mostrò all’Italia i primi veri melodrammi eroici nella Dafne, nell’Euridice e nell’Arianna, i quali per l’eleganza dello stile, per la felice novità musicale e per la magnificenza dello scenico apparato, riscossero un plauso universale. La Dafne rappresentata nel 1567 alla presenza della gran duchessa di Toscana in casa del nominato Corsi grande amico del Chiabrera, e l’Euridice in occasione del matrimonio di Maria de’ Medici con Errico IV, furono poste in musica da Giacomo Peri, e s’impressero in Firenze nel 1600. L’Arianna posta in musica da Claudio {p. 48}Monteverde si cantò nel matrimonio del principe di Mantova colla infanta di Savoja e nel 1608 uscì alla luce anche in Firenze. Oltre a questi tre drammi l’Eritreo fa menzione dell’Aretusa altro dramma del Rinuccini. Non per tanto osserva il Baile che Giacomo Rilli nelle Notizie intorno agli uomini illustri dell’Accademia Fiorentina, non fa motto di questa Aretusa, tuttochè così diligente si fusse mostrato in quanto riguarda questo scrittore. Appartiene ancora al Rinuccini la Mascherata delle Ingrate balletto eseguito in occasione del matrimonio del principe di Mantova, nella qual città fu inpresso in quarto l’anno 1608. Or perchè non dobbiamo impropriamente stendere il nome di opera sino a que’ drammi, ne’ quali soltanto i cori e qualche altro squarcio si cantavano, e molto meno a quelle poesie cantate che non erano drammatiche, ma unicamente attribuire il titolo di Opera que’ componimenti scenici, ne’ quali sarebbe un delitto contro il genere se {p. 49}la musica si fermasse talvolta dando luogo al nudo recitare: egli è manifesto che l’opera s’inventò nella fine del secolo XVI, e che si dee riconoscere come inventore dell’opera buffa l’autore dell’Anfiparnaso, e come primo poeta dell’opera seria o eroica il Rinuccini, e Giacomo Peri come primo maestro di musica che, secondochè ben disse sin dal 1762 l’Algarotti, con giusta ragione è da dirsi l’inventore del Recitativo.

I pedantini e gli scrittorelli oltramontani forestieri per avventura nelle lettere greche latine e toscane e ne’ giusti principii di ragionare, sogliono rimproverare all’Italia questo genere difettoso a lor parere che manda a morir gli eroi cantando e gorgheggiando a. Bisogna dire che questi sieno {p. 50}i pretti originali degli Eruditos à la violeta dell’ingegnoso nostro amico Joseph Cadhalso y Valle, e che appena leggono pettinandosi alcuni superficiali dizionarii o fogli periodici che si copiano tumultuariamente d’una in altra lingua, e che con tali preziosi materiali essi pronunziano con magistral franchezza che il canto rende inverisimili le favole drammatiche. Come {p. 51}risponderemo loro per porli nel dritto sentiero? che le antiche tragedie e commedie altro non erano che una specie di operaa? Ma bisognerebbe prima di ogni altra cosa far loro intendere che cosa importasse appo gli antichi orchestra, timele, melopen, tibie uguali, disuguali, destre, sinistre, serrane, e modo Frigio, Ipofrigio, Lidio, delle quali cose è forza che essi non abbiano mai avuta veruna idea. Diremo che il canto è una delle molte supposizioni ammesse in teatro come verisimili per una tacita convenzione tra’ rappresentatori e l’uditoriob? Ma il loro svaporato {p. 52}cervellino mal sosterrebbe il travaglio {p. 53}di analizzar le idee che sono concorse {p. 54}alla formazione degli spettacoli teatrali. {p. 55}Appigliamoci al partito più proprio {p. 56}per la loro capacità rimandandogli a {p. 57}leggere ciò che in tal quistione scrisse {p. 58}giudiziosamente il signor Diderot uno senza dubbio de’ più rinomati {p. 59}ragionatori moderni della Francia. Pour bien{p. 60}(egli disse)juger d’une production, il {p. 61}ne faut pas la rapporter à une autre production. Ce fut ainsi qu’un de nos premiers critiques se trompa. Il dit: les anciens n’ont point eu d’opera; donc l’opera est un mauvais genre. Plus circonspect, ou plus instruit, il eût dit peut être: les anciens n’avoient qu’un opera; donc notre tragedie n’est pas bonne. Meilleur logicien il n’eût fait ni l’un ni l’autre raisonnement.

Così terminò il secolo XVI glorioso in tante guise per l’Italia; cioè per aver fatta risorgere felicemente in {p. 62}aureo stile la greca tragedia, il teatro materiale degli antichi, e la commedia de’ Latini; per l’invenzione di tanti nuovi tragici argomenti nazionali, e tante nuove favole comiche ignote a’ Latini; per aver somministrati a’ Francesi tanti buoni componimenti scenici prima che conoscessero Lope de Vega, e Guillèn de Castro; pel dramma pastorale ad un tempo stesso inventato, e ridotto ad una superiorità inimitabile; finalmente per L’origine data al moderno melodramma comico ed eroico. Or che cosa fecesi in tal secolo dagli oltramontani?

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LIBRO V.

Teatri Oltramontani nel secolo XVI. §

Con troppo lenti e disuguali passi seguivano gli Oltramontani le vestigia dell’Italia per uscir dalla barbarie e per contribuire al risorgimento della drammatica. Tutta trovossi ugualmente di strane farse e di goffagini piena ed ingombra la prima mettà del secolo fuori del recinto delle Alpi. Non fu che dopo il 1550 che cominciò a vedersi in tal genere di letteratura folgorar disugualmente una specie di crepuscolo foriero di maggior luce in Inghilterra e nelle Spagne. La Germania, anzi la Francia stessa che dovea co’ suoi frutti teatrali nel secolo susseguente tutte sopraffar le nazioni senza escluderne l’Italia, la Francia e la Germania, dico, furono le più tarde a risvegliarsi; nè in tali regioni apparve nel XVI secolo ingegno veruno da mettersi allato {p. 64}a Shakespear ed a Lope de Vega Carpio. Noi ne seguiremo colla dovuta istorica fede ed imparzialità partitamente le tracce.

CAPO I.

Stato della poesia scenica in Francia. §

L’Italia ne’ primi lustri del secolo rappresentava Sofonisba e Rosmunda, ed in Parigi nel carnovale del 1511 sotto Luigi XII si vedeva sulle scene il Giuoco del Principe degli sciocchi e della Madre scioccaa, componimento di Pietro Gringore detto Vaudemont, in cui con amaro sale si motteggiavano i monaci e i prelati e la corte papale rappresentata allegoricamente da un personaggio {p. 65}chiamato la Mere-Sotte. Menestrier ne loda un trio cantato da Mere-Sotte e da due giovani sciocchi, e le parole erano:

Tout par raison,
Raison par tout,
Par tout raison.

Assai più notabile fu una scena, in cui Mere-Sotte manifesta i suoi disegni di voler comandare nel temporale e nello spirituale. I principi si opporranno riguardo al temporale (rispondono la signora Sotte-Fiance e la signora Sotte-Ocasion). Non importa, dice Mere-Sotte,

Veueillent ou non, ils le feront,
Ou grande guerre à moi auront.

Replica un altro,

Mais gardons le spirituel,
Du temporel ne nous mêlons.

Canzoni! ripiglia risoluta Mere-Sotte,

Du temporel jouir voulons.

Allora regnava in Roma Giulio II, la cui ambizione volle pungersi.

Anche i Confratelli detti della Passione continuavano a pascere delle loro grossolane farse la nazione. I {p. 66}Misteri degli Atti degli Apostoli, e l’Apocalisse di Luigi Chocquet si rappresentavano in Parigi à l’Hôtel de Flandres con gran concorso, e vi furono impressi in tre volumi nel 1541. Varie combriccole di demonii ne formavano le principali invenzioni, ed erano i buffoni del drammaa.

Altre farse di quel tempo chiamaronsi Momerie o Mascherate, nelle quali eccedeva la satira e la buffoneria. Può vedersene un esempio ne’ motteggi lanciati in una di esse quando cadde dalla grazia di Luigi XII il maresciallo de Gie perseguitato da Anna di Brettagna regina-duchessa. Facendosi allusione al nome di Anna della regina ed al grado di Maresciallo del favorito, dicevasi nella farsa, che un mariscalco (che in Francia pur si chiama marèchal) avea voluto ferrare un asino, ( in Francia ane ) e ne avea ricevuto {p. 67}un calcio così gagliardo che n’era stato rovesciato al suoloa. Il re medesimo non era risparmiato nelle momerie, ed egli ne tollerava le punture, contentandosi soltanto di prescrivere agli attori di rispettar la regina, altrimenti gli avrebbe fatti impiccare.

Erano i Giuochi de’ piselli pesti un altro genere di farsa per avventura più delle momerie ridicola e meno ardita. Una delle più famose di tal genere fu L’Avvocato Patelin che piacque di tal modo che la voce patelin di nome proprio di uomo divenne indi appellativo per significare adulatore, e produsse le voci patelinage, pateliner ec. L’argomento e qualche scena di questa farsa piena di sale e di piacevolezza comica leggesi nella Storia del teatro Francese del signor de Fontenelle. Fu essa poi più tardi da un altro Francese {p. 68}rimpastata e riprodotta sulle scene, come diremo a suo tempoa,

Quanto dunque comparve sulle scene francesi anche sotto Francesco I, era una mescolanza grossolana di satira, di religione e di scurrilità, che cominciò a scandolezzare e ristuccare il pubblico, e fece sì che i Confratelli perdessero il teatro, che tornò a convertirsi in ospedale.

Se però gli sforzi di quel re amante del sapere e fautore degli uomini di lettere non giunsero a dissipare la nebbia della barbarie che ricopriva la Franciab, vi apportarono almeno qualche {p. 69}barlume che diede a conoscere l’insipidezza e gl’inconvenienti di quella rozza mescolanza. Vero è che il parlamento consentì alle istanze de’ medesimi Confratelli che vollero comprar le ruine del palazzo del duca di Borgogna per fabbricarvi un altro teatro; ma nel decreto stesso del 1548, con cui si permisero le loro rappresentazioni nel nuovo teatro, si prescrisse che esser dovessero puramente profane, e che non mai più vi si mescolassero le sacre cose. Fe la legge ciò che ormai era tempo che facesse il gusto. I Confratelli vi si sottomisero, ma non istimando di poter continuare a montar sul palco con loro decoro, cessato l’oggetto della loro confraternità, si diedero ad ammaestrare alcuni nuovi attori che rappresentarono sino al 1588 quando il loro teatro si cedette ad un’altra compagnia di attori formata in Parigi con real permissione.

La regina di Navarra Margherita di Valois sorella di Francesco I nata in Angouleme nel 1492, contribuì a {p. 70}spargere qualche gusto per le lettere in quella corte. Ella stessa compose varie poesie pubblicate in Lione nel 1547, e dieci anni dopo s’impresse in Parigi il suo Eptamerone, cioè sette giornate giocose ma soverchio libere. Compose eziandio alcune di quelle farse chiamate Moralità che portarono il titolo di pastorali fatte da lei rappresentare alle damigelle della sua cortea. Ella invitò altresì in Francia gli strioni Italiani per recitare altri suoi drammi composti nella nostra linguab. Sotto il regno del medesimo Francesco I vissero Antonio Forestier e Giacomo Bourgeois autori di alcune favole comiche già perdute; nè di essi altro ci rimane che il nome.

La forma della commedia non si conobbe in Francia sino al regno di {p. 71}Errico II. Caterina Medici che v’ introdusse il gusto e la magnificenza delle feste e degli spettacoli, ne fe rappresentar diversi in Fontainebleu, e fra gli altri una commedia tratta dall’Ariosto degli Amori di Ginevra verseggiata in parte dal poeta Pietro Ronsardo. Si rappresentò da principali personaggi della corte, e madama Angouleme sostenne il personaggio di Ginevra. Vi si rappresentò parimente il Palazzo di Apollidone, e l’Arco degli amanti leali, argomento preso dagli antichi Romanzieri Francesi a.

Chechesia di tutto ciò Ronsardo attribuisce al suo amico Stefano Jodelle la gloria di aver composte le prime tragedie e commedie francesi. Secondo Pasquier questo Jodelle morto d’anni 41 nel 1573 non mancava di talento, benchè non avesse conosciuto i buoni libri. Le sue languide tragedie, per avviso de’ medesimi Francesi, sono {p. 72}scritte in istile assai basso ed ineguale, senza arte, senza azione, senza maneggio di teatro. L’esgesuita Saverio Bettinelli nel Discorso che premise alle proprie tragedie, affermò che Jodelle e la Peruse tradussero i nostri cinquecentisti. Il motto che siamo per farne farà vedere che essi appena ne trassero i nudi argomenti che abbigliarono alla loro foggia. Cleopatra fu una delle tragedie di Jodelle, e nell’atto III senza verun riguardo nè al decoro nè al costume questa regina alla presenza di Ottaviano prende per i capelli un suo vassallo, e lo va seguendo a calci per la scena, cosa che non tradusse certamente da veruna tragedia italiana. Con tutto ciò questa favola si rappresentò la prima volta avanti al re Errico II con indicibile applauso, e si replicò sempre con grandissimo concorso. Gli attori furono varie persone di buon nome e di talento, e tra esse, oltre al medesimo Jodelle, due altri poeti, Remigio Belleau e Giovanni de la Peruse, il quale compose ancora una {p. 73}Medea di assai infelice riuscita.

Jodelle pose più azione nella commedia, e dipinse i costumi di quel tempo con gran franchezza. Eugenio è il titolo di una delle sue commedie. È costui un abate che unisce in matrimonio certo Guglielmo di picciola levatura ad una giovane da lui stesso amata, cui dà il nome di sua cugina, e finalmente gli scopre il secreto:

J’aime ta femme, et avec elle
Je me couche le plus souvent;
Or je veux que doresnavant
J’y puisse sans souci coucher;

alla qual cosa il buon Guglielmo risponde:

Je ne vous y veux empecher.

Quel secolo (osserva su di ciò m. de Fontenelle) non era delicato su tal materia, e professava apertamente la dissolutezza che in altri tempi si cerca dissimulare. Reca solo meraviglia (ei soggiunge) come gli ecclesiastici dipinti al vivo in tal commedia non si levassero punto a romore. Intorno al medesimo tempo Baif compose il {p. 74}Bravo commedia tratta da Plauto.

Sotto Errico III asceso al trono nel 1574 uscirono le otto tragedie di Roberto Garnier, le quali secondo lo stesso Ronsardo, superano di molto quelle di Jodelle. S’intitolano Porzia, Cornelia, Marcantonio, Ippolito, la Troade, Antigone, i Giudei, Bradamante. Specialmente in quella de’ Giudei si notano alcuni squarci felici tratti dalla Sacra Scrittura. Meritano anche attenzione varii versi dell’Ippolito, e più quelli del racconto della di lui morte, de’ quali Racine non isdegnò di approfittarsi ed inserirli nella Fedra. Pietro de Laudun Daigaliers fece stampare una sua tragedia Les Horaces; ma non avendola io veduta dir non saprei nè quanto egli dovesse a Pietro Aretino che il precedè coll’Orazia, nè quanto a lui dovesse Pietro Corneille che venne dopo dell’uno e dell’altro.

Scrissero poi favole drammatiche Moncretien, Baro, ed Hardy, i quali, secondo il Voltaire, {p. 75}vendevano a’ commedianti che giravano per la Francia, le loro composizioni a dieci scudi l’una. Il fecondo Hardy ne scrisse più di seicento, schiccherandone per lo più con vergognosa fertilità una in soli otto giorni senza serbarvi nè regole nè decenza. Donne violate, cortigiane, adultere, sono le persone principali delle sue favole. Secondo l’espressione di Fontenelle, le prime tenerezze di due amanti passano sotto gli occhi dello spettatore, e se ne occulta il meno che sia possibile.

I primi commedianti Italiani che aprirono il loro teatro comico in Francia, furono i Gelosi che nel 1577 per privilegio ottenuto da Errico III rappresentarono in Parigi. Separatisi poi da questa Compagnia de’ Gelosi alcuni attori, presero il nome di Confidenti, e vi recitarono varie favole italiane, e tra queste la Fiammella pastorale, in cui si adoprò il mescolamento de’ dialetti veneziano, bolognese, bergamasco ecc., il cui autore fu {p. 76}Bartolommeo de Rossi veronesea.

Altro dunque in tutto il secolo non comparve in Francia di regolare e di decente che alcune deboli traduzioni delle nostre tragedie, pastorali e commedie nel precedente libro da noi riferite; ma tutte e le migliori, per le dense tenebre che vi regnavano, non poterono così presto penetrare ed apportarvi la vera luce teatrale.

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CAPO II.

Spettacoli teatrali in Alemagna. §

Continuarono a rappresentarsi per tutto il secolo XVI in Alemagna i Giuochi del Carnevalea, non {p. 78}ostante che altre farse vi comparissero in gran numero co’ titoli di Giuochi piacevoli, Giuochi buffoneschi, Commedie, Tragedie, Comitragedie. Il solo Hann Sachs, ossia Giovanni Sax calzolajo di Norimberga dal 1518 sino al 1553 compose 55 giuochi di carnevale, 76 commedie e 59 tragedie, le quali cose racchiudonsi in cinque volumi in foglio. Il suo nome è passato in proverbio in Alemagna, dove per dinotare un verseggiatore oltremodo fecondo suol dirsi, è un Hann Sachs, In tali farse fra mille goffaggini e bassezze, dicono gl’intelligenti di quel linguaggio, scorgonsi varie piacevolezze e pensieri che recano meraviglia a. {p. 79}Egli è da notarsi ancora che tal calzolajo si valse di molti argomenti tratti da’ Greci e Latini, i quali scrittori legger non poteva originali, e che a suo tempo non erano stati tradotti nell’idioma tedesco.

A lui succedette Giovanni Ayrer notajo e procuratore in Norimberga. Egli sino al secolo XVII, oltre a trentasei giuochi di carnevale, compose molti drammi chiamati cantanti, de’ quali se ne sono conservati nove. Il signor Gotsched chiama questi drammi precursori dell’opera italiana, perchè non seppe quante feste, serenate, cantate, pastorali e commedie su’ teatri d’Italia comparvero sin dal XV secolo, e nel XVI, prima che l’Alemagna conoscesse i drammi cantanti dell’Ayrer.

Non è credibile l’immensa quantità di drammi usciti in tal periodo; e pure essi eccedono ancor più nella stravaganza che nel numero. Lo spirito di controversia che animava il Luteranismo, trasportò sulle scene le {p. 80}dispute teologiche, onde nacquero diversi drammi, il Postiglione Calvinista, il Novello asino tedesco di Balaam, la Commedia di Gesù vero Messia, il Cavalier Cristiano di Eishenhen, in cui trovasi la storia di Lutero e dei di lui gran nemici, il Papa, e Calvino. Con simili componimenti battevansi colà Luterani e Cattolici; benchè questi assai più tardi si valsero di queste armi teatrali, avendo cominciato ad usarle nel secolo XVII colla Graziosa Commedia della vera antica Chiesa Cattolica ed Apostolica, dove intervengono Lutero, Zuiglio, Carlostad con altri eretici, e Satana e Gesù Cristo, i ss. Pietro e Paolo, Pio IV, il cardinal Campeggi, il vescovo Osio.

Anche Tommaso Naogeorgus nato in Straubinge nella Baviera l’anno 1511 e morto verso il 1578, il quale intendeva il greco, ed avea tradotte varie opere di Plutarco, di Dione Crisostomo e del Sinesio, volle adoperare in contese di religione la scenica poesia. {p. 81}Le sue tragedie possono col Baile chiamarsi di controversiaa. Quella che intitolò Pammachius dedicata aCrammer arcivescovo di Cantorbery, uscì alla luce l’anno 1537. Un’altra ne pubblicò l’anno seguente in Wittemberg intitolata Incendia, sive Pyrgopolinices tragoedia. Nel 1539 comparve quella che intitolò Mercator, seu Judicium Haman altro suo componimento teatrale, si replicò in Heidelberg a’ 24 di agosto dagli scolari che vi manteneva l’elettor Federigo detto il pietosob. Simili favole che aveano tutt’altro oggetto che di formare il gusto teatrale, non potevano contribuire ai progressi della drammatica, e sono perciò rimaste per retaggio perpetuo delle tignuole nelle scanzie.

Altri drammi latini tratti da’ racconti della Sacra Scrittura si mentovano {p. 82}nella Biblioteca del Gesnero. Tali sono il Protoplaste e la Nomothesia tragedie, ed il Sacrificio d’Isacco, commedia, le quali appartengono a Girolamo Zieglero professor di poetica in Ingolstad; la Giuditta, e la Sapienza di Salomone comicotragedia, e la commedia detta Zorobabel di Sisto Betulejo; le commedie di Giobbe dell’Adimario, di Rut del Drisearo, di Giuseppe del Ditero. Queste non furono favole stravaganti e maligne; ma non vi si guardano le regole della verisimiglianza e molto meno quelle del gusto. In Heidelberg compose ancora Antonio Scoro di Hocchstraten una commedia rappresentata da’ suoi scolari, nella quale si personificava la Religione che andava mendicando alloggio tra’ grandi, ed era esclusa, e veniva raccolta da’ plebei. L’imperadore se ne sdegnò, e voleva punirne l’autore, ma egli ebbe tempo di fuggirsi a Losana dove morì nel 1552a.

{p. 83}Forse il più ingegnoso autore scenico dell’Alemagna in quel secolo fu Frischlino nato in Tubingen. Egli tradusse in latino cinque commedie di Aristofane da me non vedute. Ne compose altre sei originali intitolate Rebecca, Susanna, Ildegarde, Giulio resuscitato, Prisciano battuto, gli Elvezii Germani, alle quali aggiunse due tragedie Venere e Didone. S’impressero in un volume da Bernardo Jobin ncl 1592, e furono dedicate prima a Cristiano IV destinato re di Danimarca con una elegia che porta la data di Brunswich nel 1589, indi al figliuolo Federigo. Nella Rebecca e nella Susanna serbò il costume de’ nazionali di trasportare sul teatro i fatti della Biblia con poca regolarità. L’azione della Rebecca passa nella casa di Abramo, nelle selve di Faran e nella città di Carra, ed i personaggi che compariscono in tali luoghi, non vengono fra loro a colloquio. Nella Susanna il prologo si fa dall’Angelo Raffaello, ed è pieno d’imitazioni {p. 84}Terenziane. Nell’Ildegarde sopra alcuni fatti de’ bassi tempi intorno a Carlo-Magno tesse l’autore una favola che chiama comica su Ildegarde di lui moglie calunniata. È notabile l’introduzione del prologo:

Poeta vos ad venandum invitat hodie
In hoc theatro scenico. Nam bestias
Producturum se ait, ferasque plurimas etc.

e queste bestie che poi si descrivono, sono Carlo-Magno leone, Il degarde agnella, Talando volpe; e con simile continuata allegoria dà a conoscere l’azione, che termina colla riconciliazione d’Ildegarde e Carlo, ma che nell’avvilupparsi entra nel tragico. Nel Giulio redivivo, e negli Elveti Germani trattasi dello stato dell’Alemagna ne’ bassi tempi comparato a quello che era vivendo Giulio e Cicerone.

Soggetto veramente comico, benchè misto di qualche allegoria alla maniera di Aristofane, è il Prisciano battuto. {p. 85}Contiene una satira comica contro que’ fisiologi, medici, giuristi e teologi che scrivono barbaramente in latino, e riducono Prisciano all’agonia. I personaggi introdotti sono Giavello e Francesco filosofi, Prisciano gramatico, Coridone villano, Lilio e Filonio medici, Nevisano e Barberio giureconsulti, Quodlibetario sacerdote, Breviario monaco, Erasmo Roterdamo e Filippo Melantone. A riserba di Prisciano, Erasmo e Melantone, gli altri parlano un latino barbaro, ed in margine si citano i passi ricavati dalle opere di coloro che vi si motteggiano per lo stile e per la lingua. Lo scioglimento è che Prisciano uscito dalle mani de’ teologi scolastici quasi spirante, è guarito dall’eleganza purezza ed erudizione di Melantone ed Erasmo.

Le due sue tragedie sono tratte del libro I e dal IV dell’Eneide. La prima contiene la venuta di Enea in Cartagine e l’innamoramento di Didone per artificio di Venere. Circa lo stile egli vorrebbe imitare quello di Virgilio, {p. 86}le cui frasi stesse ritiene per quanto permette il metro diverso. Eccone per saggio qualche verso della prima scena di Giunone:

Mene igitur incoepto meo desistere?
Nec posse regem Troicum solo Italiae
Avertere? an fatis prohibeor coelitum?
Pallasne classem exurere potuit hostium,
Pontoque Graecos turbido submergere
Unius ob noxiam, et furorem Oilei
Ajacis?

La seconda tragedia più interessante si aggira sulla partenza di Enea e la morte di Didone.

Paolo Rebhun curato di Oelsnitz anche compose un dramma spirituale sul fatto di Susanna intitolato la Casta Susanna in cinque atti lodevole per certa regolarità ed eleganza scritto in idioma alemanno. S’impresse in {p. 87}Ziwckau nel 1536, e si reimpresse nel 1544. Vi si trovano introdotti i cori, e vi si osserva scrupolosamente la quantità delle sillabe ne’ differenti metri usati in ciascuna scena; e per lo sceneggiamento si vuole sopra tutti quelli de’ contemporanei ben connesso.

Troviamo parimente tre traduzioni sceniche. La prima tratta dallo spagnuolo gli Amori di Melibea e del cavalier Calisto tragedia in diciannove atti di Sigismodo Grimm che s’impresse nel 1520 in Ausbourg: la seconda è l’Aulularia di Plauto stampata nel 1535 in Magdebourg: la terza è l’Ifigenia in Aulide uscita alla luce nel 1584, che porta il titolo di comicotragedia.

CAPO III.

Spettacoli scenici in Inghilterra. §

Si rappresentavano nella Gran Brettagna per gran parte del secolo XVI i Misteri, le Moralità e le più assurde farse. Dicesi appena del re {p. 88}Edoardo VI, grandemente esaltato da Cardano, che avesse composta una commedia elegantissima intitolata la Puttana di Babilonia esaltata dagli antiquarii ma sfuggita all’esame de’ moderni per essersi perduta.

A gloria però delle lettere vuolsi ne’ fasti scenici inglesi registrare un nome assai sublime. La figliuola di Errico VIII Elisabetta, che suol riporsi insieme coi più gran principi del suo tempo Sisto V pontefice romano ed Errico IV re di Francia, all’amor della musica congiunse la coltura delle lettere, ed oltre alle aringhe d’Isocrate, tradusse in latino le tragedie di Sofoclea. Non ebbe però questa gran regina molti compagni che lavorassero a far risorgere la drammatica co’ modelli dell’antichità. Non vi fu nel di lei regno che {p. 89}il loro Tommaso Sackville che compose Gordobuc commedia in qualche maniera scritta con regolaritàa.

Sotto quel cielo non ancora abbastanza rischiarato la stessa lingua non era allora nè polita nè fissata, quando sulle scene comparve Guglielmo Shakspear. Abbandonato questo scrittore a se stesso si arrollò tra’ commedianti per libertinaggio, e compose poi per sostentarsi pel teatro di un popolo che ancor non poteva gloriarsi di aver prodotto alle scienze, alla politica, alla marina e al commercio, un Newton, un Bacone, un Locke, ed il Grande Atto della navigazione. Non rechi dunque stupore, se i drammi di Shakspear benchè mostruosi facessero la delizia della nazione. Egli racchiuse, come i Cinesi, in una rappresentazione di poche ore, i fatti di trenta anni: introdusse nelle favole tragiche persone basse, prostitute, ubbriachi, calzolai, {p. 90}beccamorti, spiriti invisibili, un leone, un sorcio, il chiaro, della luna che favellano: egli non seppe nè astenersi dal miracoloso ed incredibile, nè separare dal tragico il comico, restando perciò, non che lungi dal pareggiare Euripide, inferiore allo stesso Tespi. Ebbe non per tanto un ingegno pieno di vigoroso entusiasmo che lo solleva talvolta presso a’ più insigni tragici, e che giustifica il giudizio datone da’ suoi compatriotti, che egli abbondi di difetti innumerabili e di bellezze inimitabili. Spicca soprattutto nel colorire con forza ed evidenza i caratteri de’ grandi uomini, segnandone i temperamenti, i difetti e le virtù. Macbet, Hamlet, Errico IV, Othello, Giulio Cesare, il Mercante Veneziano, Giulietta e Romeo si considerano come i di lui drammi migliori.

Noi non ci addosseremo mai la fatiga per noi singolarmente ardua troppo di presentar partitamente analisi compinte de i drammi di Shakespear; ben persuasi della difficoltà che incontrano, {p. 91}non che altri, non pochi suoi nazionali in afferrare lo spirito, l’energia dell’espressione e la grandezza de’ suoi concetti. Sceglieremo non pertanto tralle migliori nominate sue favole l’Amlet, e n’esporremo la tessitura e le bellezze principali, senza omettere qualche scena che ci sembri disdicevole alla gravità tragica.

Atto I. Alcuni soldati che guardano il palazzo del re di Danimarca, si trattengono sull’apparizione di una fantasima spaventevole. Esce un Morto, in cui ravvisano le sembianze del defunto re Amlet vestito di armi, il quale, nel voler parlare, al cantar del gallo sparisce. La scena si cangia nell’interiore della reggia. Il re attuale e la regina madre del giovane principe Amlet trattano di alcuni affari del regno, indi il re accorda a Laerte la licenza di tornare in Francia. Cade appresso il discorso sulla profonda tristezza di Amlet, cui danno consigli ed insinuazioni perchè si sforzi di sollevarsi. Amlet restato solo riflette fra se alla criminosa {p. 92}precipitazione di sua madre che appena passato un mese dalla morte del re suo marito che tanto l’amava, si è congiunta in matrimonio col fratello del re, che ora ne occupa il trono. Sopravvengono Orazio e Marcello due de’ soldati che videro l’ombra del re trapassato. Dice Amlet che sempre egli l’ha presente. Orazio che egli l’ha veduto effettivamente la scorsa notte, e ne racconta l’apparizione. Amlet dopo varie domande risolve di recarsi nel luogo dove apparve. Si cangia la scena in una casa del vecchio Polonio. Laerte prende congedo da sua sorella Ofelia e da Polonio suo padre vecchio cicalone che con molte parole scagliando massime ad ogni occorrenza, lo spinge ad imbarcarsi. Prosegue sul medesimo stile colla figlia in proposito del principe Amlet che l’ama, versando copiosamente regole e sentenze morali in tuono famigliare, e le impone di più non parlargli. Torna la scena del muro della reggia, dove giugne Amlet accompagnato da i due soldati. Si ode {p. 93}strepito di stromenti musicali dalla reggia, perchè il re stà in tavola assiso banchettando e bevendo. Amlet in tal proposito moralizza a lungo. Appare il Morto. Amlet gli domanda se sia Amlet suo padre, e perchè dal sepolcro torni a vedere i raggi della luna? Il Morto gli accenna di seguirlo, ed Amlet gli va appresso. Giungono in parte più remota.

Aml.

Dove vuoi tu portarmi? parla; già io non passo più oltre.

Mor.

Mirami.

Aml.

Ti miro.

Mor.

É già quasi giunta l’ora di restituirmi alle tormentose fiamme.

Aml.

Anima infelice!

Mor.

Non compatirmi: ascolta soltanto attentamente ciò che sono per rivelarti.

Aml.

Parla; ti prometto ogni attenzione.

Mor.

Ascoltato che mi avrai, promettimi vendetta.

Aml.

Perchè?

{p. 94}

Mor.

Io sono l’anima di tuo padre destinata per certo tempo a vagar di notte, e condannata al fuoco durante il giorno, affinchè le fiamme purifichino le colpe che commisi nel mondo…

Se mai sentisti tenerezza per tuo padre…

Aml.

Oddio!

Mor.

Vendica la sua morte. Vendica un omicidio crudele e atroce.

Aml.

Omicidio?

Mor.

Sì, omicidio spietato, il più ingiusto e il più fraudolento.

Il Morto segue a raccontare come suo fratello innamorato della sua moglie e del regno lo fece avvelenare mentre dormiva nel giardino versandogli nell’orecchio certo licore velenoso sì contrario al sangue dell’uomo che a guisa di mercurio s’insinua, penetra tutte le vene, gela il sangue e ammazza prontamente. Così restò morto Amlet, ed il regno e la sposa fu occupato dall’incestuoso e tiranno fratello. Indi soggiunge:

{p. 95}

Mor.

Orribile malvagità! orribile! Deh se ascolti la voce della natura, non voler soffrire che il talamo reale di Danimarca sia il letto dell’infamia e dell’incesto. Avverti però di qualunque modo tu ti accinga all’impresa a non macchiar l’anima con un delitto incrudelendo contro tua madre. Lascia che la punisca il cielo, lascia che quelle punte acute che tiene fitte nel petto, la feriscano e la tormentino. Addio, addio, ricordati di me.

Amlet con espressioni ed invocazioni di ogni maniera mostra l’orrore onde è preso, indi dice:

Ricordati di me? sì alma infelice; scancellerò dalla mia fantasia ogni altra idea ed impressione, eccetto il tuo comando, sì lo giuro.

Vengono i soldati. Amlet fa che giurino di non palesare a veruno l’apparizione di quella notte. Parte con essi dicendo fra se:

{p. 96}

La natura è sconcertata… Iniquità esecrabile!… Oh non fossi mai nato a doverla punire!

Atto II. Polonio in sua casa spedisce un messo al figlio in Parigi con tante ammonizioni miste ad inezie e minutezze che spiegano il carattere di un vecchio che ciancia in tuono famigliare, basso di tratto in tratto, e proprio della scena comica. Viene la figlia Ofelia, e gli narra la novità del giovine Amlet divenuto folle. Nella reggia il re e la regina fra’ cortigiani trattano della mutazione di Amlet impazzito. Viene Polonio, che prende gravemente a favellare sulla di lui follia, dicendo: Vostro figlio è pazzo, e tale lo chiamo, perchè (a ben riflettere) altra cosa non è la pazzia, se non che uno è interamente matto. E questa la ragione comica Plautina, quelli sono cattivi i quali non sono buoni. Sopravviene Amlet legendo. Polonio gli domanda come stia; bene, risponde il principe. Mi conosci (replica Polonio)? Ed Amlet; {p. 97}perfettamente; tu sei il pescivendolo. E va proseguendo con dir cose che sembrano fuori di ragione, benchè osservi certo metodo nel dire e molta acutezza. Sul medesimo tenore parla con Guildenstern, e Rosencrantz, i quali d’ordine reale lo mettono in discorso per iscoprire ciò che senta internamente. Si passa in seguito su i commedianti da esso principe incontrati pel camino, che compongono la compagnia tragica di Elsingor. Essi in fatti arrivano, ed Amlet parla ad alcuni di essi con famigliarità, e vuol poi sentir declamare una scena sulla morte di Priamo. Egli stesso prima ne declama con forza ed energia alcuni versi; ordina poi all’attore di proseguire, il quale eseguisce. Domani, aggiunge indi Amlet, rappresenterete la Morte di Gonzaga, cui io aggiungerò alcuni versi; e gli fa partire. Amlet rimane riflettendo al potere della rappresentazione, per cui un attore ancor suo malgrado maneggia gli affetti, trasforma il volto, piagne, affievolisce la voce, e {p. 98}tutto si compone ad esprimere la passione per commuovere. Or che farebbe, aggiugne,se interiormente sentisse i medesimi movimenti di dolore che in me sento? E pure io disgraziato rimango stupido e muto mirando i miei torti!… Altro dunque io non so fare che piangere?… Ma no. Udii dire che assistendo talvolta alla rappresentazione di una favola alcune persone malvage furono così vivamente ferite per l’illusione teatrale, che alla presenza di tutti manifestarono la propria reità, perchè la colpa, benchè priva di lingua, sempre si manifesta quando meno si attende. Io farò che quegli attori rappresentino avanti di mio zio qualche scena che rassomigli alla morte di mio padre. Lo trafiggerò così nella parte più sensibile del cuore, osserverò i suoi sguardi, se cangia colore, se si agita… sò quello che saprò far io. L’apparizione che mi si presentò, potrebbe essere opera di spirito infernale, cui non è difficile il {p. 99}trasformarsi. Chi sa se essendo sì poderoso su di una perturbata fantasia, avesse voluto valersi della mia debolezza e malinconia, per ingannarmi, e machinar la mia ruina!… Io acquisterò prove più solide; e la rappresentazione ordinata sarà il lacciuolo per sorprendere e avviluppare la coscienza del re.

Anto III. Reggia. Il re desideroso di leggere nell’interno del nipote si tiene in disparte per intendere ciò che Amlet dice ad Ofelia. Il principe viene dicendo fra se. Qual è più degna impresa dell’animo, tollerare i colpi dell’avversa fortuna, ovvero opporsi con tutta la fortezza e gire incontro a questo torrente di calamità? Morire è dormire. Non altro?… Prosegue lungamente su tal punto. Si abbocca al fine con Ofelia; ma il loro dialogo delude le speranze del re nascosto, il quale ne deduce non essere amore la cagione de’ trascorsi del nipote, e così conchiude: Altra idea chiude egli nell’animo che fomenta la {p. 100}sua tristezza; la quale potrebbe produrre alcun grave male. Egli pensa evitarlo facendolo partir subito per Inghilterra. Condiscendendo pero alla proposta di Polonio acconsente che Amlet parli prima con la regina dopo la rappresentazione, per tentare di trargli dal seno il suo secreto, esibendosi Polonio ad ascoltare occulto quanto diranno. Sala. Amlet dà varii avvertimenti a’ commedianti per ben rappresentare; indi uscendo Orazio di cui si fida, gl’ingiunge che mentre segue la rappresentazione di quanto egli ha aggiunto alla tragedia scelta, tenga l’occhio attento sopra del re e l’esamini con tutta la cura, e dice che farà egli lo stesso, e si communicheranno poi le osservazioni che ciascuno avrà fatte, per giudicare su ciò che indicherà il di lui esteriore. Viene il re e la regina con seguito. Si suona una marcia danese. Amlet ripiglia la finzione della follia. Si dà principio alla rappresentazione muta a suono di trombette.

Gli attori che sostengono le parti del {p. 101}re, e della regina del dramma, si abbracciano affettuosamente; la regina s’inginocchia con gran rispetto; il re la fa alzare, e piega la testa sul petto della sposa, indi si pone a giacere in un letto di fiori e si addormenta; la regina si ritira. Un altro attore si avvicina al re, gli toglie la corona, la bacia, versa nel di lui orecchio un licore avvelenato e parte. Torna la regina, e trovato morto il marito manifesta un gran dolore; l’uccisore con altri due ritirano il cadavere. L’ assassino fa premure affettuose alla regina; ella resiste un poco: affine ne accoglie gli amorosi omaggi. Ciò vedendo Ofelia dice ad Amlet:

Of.

Che è questo?

Aml.

Questo è un assassinamento.

Of.

Al parere adunque questa scena muta contiene l’argomento del dramma.

Si finge nella prima scena che il re e la regina esprimano i loro affetti. Il re mostra timore che se egli venisse a {p. 102}morire, ella ne prenderebbe un altro. Io? (risponde la regina)

Io!… Che al tuo fato io sopravviva e d’altri
Sposa diventi! E creder puoi capace
Di tradimento tal la tua diletta?
No: chi un altro ne impalma, il primo uccise.

A questo passo il Re Danese commosso e colpito dice ad Amlet:

Re.

Ti sei bene informato dell’azione di questo dramma? Tiene alcuna cosa di mal esempio?

Aml.

Non signore; che mal esempio? Tutto è una finzione, un veleno ma finto; oibo! che mal esempio?

Re.

Che titolo porta questa favola?

Aml.

La Trappola. È un titolo metaforico. Il Duca si chiama Gonzaga, e la sua consorte Battista.

Viene un commediante ad avvelenare quel che dorme, ed Amlet dice:

Aml.

Vedete? Ora l’avvelena nel {p. 103}giardino per usurpargli lo stato… Tosto vedrete che la sposa s’innammora dell’uccisore.

A ciò il re si alza. Tutto resta sospeso. Il re parte. Ahi! Orazio! quanto disse lo spirito è troppo certo. Polonio lo chiama per commissione della regina. Egli manda via tutti, e parte. Sala del palazzo reale. Il re ordina a Rosencrantz e a Guildenstern di partire per l’Inghilterra portando secoloro Amlet. Si pone indi ad orare; riflette ai suoi eccessi, fida nella misericordia divina, senza pensare però a risarcire i danni cagionati, e a discendere dal trono usurpato. Arriva Amlet, l’osserva, va per ferirlo; pensa poi che se l’ammazza mentre stà orando, gli assicura la gloria eterna. , dice, l’ucciderò quando tripudii, gozzovigli, giuochi, bestemmi, o dorma ubriaco, affinchè l’anima sua rimanga nera e maledetta come l’inferno che dee ingojarla. Va dalla madre. Appartamento della regina. Ella parla con Polonio, il quale e {p. 104}vedendo venire Amlet si ritira per ascoltare non veduto.

Aml.

Che mi comandate, o madre?

Reg.

Amlet troppo hai tu offeso tuo padre.

Aml.

Voi, madre, troppo avete offeso il mio.

Reg.

Tu rispondi con troppa libertà.

Aml.

E voi mi domandate con troppa perversità.

Reg.

Che vuol dire ciò, Amlet?

Aml.

E che vuol dire ciò, madre?

Reg.

Ti dimentichi di chi sono?

Aml.

No, perdio, che non mi dimentico che siete la regina congiunta in matrimonio col fratello del vostro primo marito; e al ciel piacesse che così non fosse. Ah siete mia madre!

Reg.

E bene io ti porrò alla presenza di chi ti faccia parlare con più senno.

Aml.

Venite, sedete. Di quì non si parte, non vi movete prima che io non vi ponga innanzi uno specchio, in cui ravvisiate {p. 105}il più occulto della vostra coscienza.

Reg.

Oimè! Che pensi di fare? Vuoi tu ammazzarmi?… Chi mi ajuta, cieli…

Pol.

Ajuto chiede? oh!…

Amlet si accorge di essere inteso; pensa che sia il re che stia ad ascoltare; finge che sia un topo, e lo ferisce. Polonio grida, son morto. Amlet torna alla madre, L’obbliga ad ascoltarlo; le rimprovera l’assassinamento del padre, ed il di lei obbrobrioso matrimonio col regicida. La regina confusa, compunta, abbattuta, confessa il suo torto, e lo prega a più non trafiggerla con le sue parole. Esce il Morto veduto da Amlet, e non dalla regina.

Aml.

Oh spiriti celestiali, difendetemi! Copritemi colle ali vostre! Che vuoi, ombra veneranda?

Reg.

Oddio! Egli è fuori di se!

Aml.

Vieni forse a riprendere la negligenza di tuo figlio, che indebolito dalla compassione e {p. 106}dalla tardanza obblia l’importante esecuzione del tuo orribile precetto? Parla.

Mor.

Non obbliarla. Vengo a riaccendere il tuo ardore che par quasi estinto.

Ordina poi che parli alla madre che vede piena di spavento.

Aml.

A che pensate, o madre?

Reg.

Oimè! A che pensi tu che così dirigi i tuoi sguardi dove non si vede cosa alcuna?… A chi miri?

Aml.

A lui, a lui; vedetelo… qual pallida luce esce da lui! Ahi di me! la sua presenza ed il suo dolore basterebbe a commuovere le pietre stesse. Ahi! Non mirarmi così, quest’aspetto contristato può distruggere i miei disegni crudeli, e far correre il pianto in vece del sangue che tu domandi.

Reg.

A chi dici tu queste cose?

Aml.

Nulla vedete in quel canto?

Reg.

Nulla, e pur vedo tutto quello che vi è.

{p. 107}

Aml.

Nè anche ascoltaste nulla?

Reg.

Nulla, fuor di quello che noi due stiamo parlando.

Aml.

Mirate là, là… lo vedete?… ora si allontana…

Reg.

Chi mai?

Aml.

Mio padre, mio padre co’ suoi medesimi arnesi… vedete… ora va via.

La madre stima tutto ciò illusione pura della disordinata fantasia del figlio. Amlet la disinganna, mostrando tutta la sensatezza, e la commuove. La consiglia poi a separarsi a poco a poco dal colpevole suo nuovo sposo… Di poi ripigliandosi le dice, che anzi nol faccia, ed ironicamente le insinua di tosto recarsi a lui, di porsi nel suo letto e fralle sue braccia, di scoprirli che la pazzia del figlio è finta, e che tutto è un artificio. La regina l’assicura che ciò non farà mai.

Atto IV. Intende il re l’uccisione di Polonio, e risolve senz’altro di mandare Amlet in Inghilterra per sicurezza comune. Fa venire Amlet alla presenza {p. 108}sua, e gl’impone che si accinga subito a partir per Inghilterra. Ordina che si porti il cadavere di Polonio alla capella: Orazio fa sapere alla regina che Ofelia è divenuta pazza. Ella stessa viene cantando, e dà indicii che la morte del padre ha cagionato lo sconcerto della ragione di lei; ma ad ogni domanda che le si fa, risponde con un’ arietta musicale, e poi parte. Pieno il re di timori e di sospetti per le mormorazioni del popolo, accenna che è venuto di Francia il fratello di Ofelia, che si occulta. Si ode strepito grande. Un cavaliero chiama la guardia, e dice al re che fugga, perchè il volgo va seguendo Laerte furibondo, e l’acclama re. S’infrangono le porte. Entra Laerte pieno di furore col disegno di vendicare il padre ucciso onde provenne la follia di Ofelia. Il re l’assicura di non aver egli avuta colpa veruna nella morte di Polonio. Lo prega ad ascoltarlo da parte, protestando che se lo trovasse colpevole, gli cederebbe di buon grado il regno; ma se conoscerà la sua {p. 109}innocenza, si uniranno insieme cercando entrambi ogni più opportuno sollievo al proprio dolore. Partono. Esce Orazio, cui due marinari presentano alcune lettere. Orazio legge; è un foglio di Amlet che dice:

Orazio, come avrai letto questo foglio, dirigerai gli uomini che te lo recano al re, pel quale ho dato loro un altro plico. Dopo due giorni di navigazione fummo inseguiti da un pirata assai bene armato. Il nostro legno poco veliero ci obbligò a porre tutta la nostra speranza nel valore. Gettaronsi i rampiconi; io prima di tutti saltai sull’imbarcazione nemica, la quale nel tempo stesso si dispiccò dalla nostra, ed io rimasi solo e prigioniero. I nemici mi hanno trattato con moderazione come ladri compassionevoli, ed io gli ho ben compensati. Tu fa in modo che il re riceva le carte che gli mando, indi vieni a vedermi con tanto {p. 110}diligenza, come se fuggissi dalla morte. Saprai arcani che ti renderanno attonito. Gli stessi che ti hanno consegnata la lettera, ti condurranno da me. Guildestern e Rosencrantz hanno seguito il lor camino verso l’Inghilterra. Molto debbo dirti su di essi. Addio.

Tuo sempre

Amlet.

Il re ha raccontato a Laerte la verità dell’accaduto, gli dice poi di non aver potuto ancora vendicare il sangue del di lui padre nell’uccisore. Amlet, sì per l’amore che ha per lui la madre, come per l’affezione del popolo. L’esorta a fidarsi di lui. Un messo reca lettere del principe pel re e per la madre. Il re leggendo intende che Amlet è tornato nudo e solo, e che verrà domani. Palesa poi a Laerte un espediente che gli è sovvenuto per disfarsi di Amlet: Sul supposto che verisimilmente egli ricuserebbe d’imprendere un nuovo viaggio, per far che pera in {p. 111}guisa che la morte sua sembri alla madre stessa casuale, propone che celebrando la fama la destrezza di Laerte nel maneggiar la spada, ed Amlet essendo pieno di opinione di se stesso per la perizia nell’arte di schermire, pensa il re di fargli susurrare all’udito di tal sorte il valore di Laerte, che si dia luogo ad una scommessa, tenendo alcuni la parte di Laerte, ed altri quella del principe. Preventivamente si prepareranno alcuni fioretti colla punta scoperta che sarà avvelenata, e Laerte ne prenderà uno per se, con cui colpendolo lo ferirà mortalmente, e la sua morte si attribuirà al solo caso. Aggiugne il re che per assicurare il colpo farà anche ammanire una tazza pur con veleno, affinchè se venisse a fallire il fioretto, Amlet stanco ed affaticato chiedendo da bere, rimanga dal mortifero licore ucciso. La regina annunzia che Ofelia tratta dalla sua follia si è affogata nel vicino fiume; la qual cosa vie più accende la furia di Laerte.

Atto. V. Cimiterio. Aprono l’atto {p. 112}due becchini parlando di Ofelia che si ha da sotterrare in luogo sacro. L’uno dice che ciò stà ben disposto dal giudice; l’altro che stà mal giudicato, perchè ella si è ammazzata da se coll’affogarsi; scena comica bassa. Cade indi il loro discorso sulla nobiltà di coloro che maneggiano la zappa, come becchini, zappatori ecc. i quali esercitano l’antico mestiere di Adamo. Esce Amlet ed Orazio. Un becchino zappa e canta. Amlet osserva l’insensibilità di colui che nell’aprire una sepoltura stà cantando. Il becchino getta al suolo una testa di un morto. Amlet riflette che potrebbe quella appartenere a qualche uomo di stato che in vita pretese ingannare il cielo stesso, o a qualche cortigiano infingevole, o anche a qualche cavaliere solito ad esaltare il cavallo di un altro, per chiederglielo in prestito. Dopo simili osservazioni si avvicina a’ becchini e parla con essi lungamente. La conversazione riesce totalmente comica per le risposte che essi danno, e morale insieme per le {p. 113}riflessioni di Amlet. Viene il re e la regina ed il corpo di Ofelia accompagnato da’ sacerdoti. Si copre di terra il cadavere. Laerte attacca briga con Amlet. Partono tutti. Restano Amlet ed Orazio. Il principe racconta che mentre dormivano Guildestern e Rosencrantz, egli entrò leggermente, e s’impossessò delle loro carte. Tornò nel suo stanzino, aprì i dispacci, e scoprì il tradimento che gli tramava il re, dando ordine preciso di ammazzarlo per assicurare la tranquillità della Danimarca e dell’Inghilterra. Ne mostra l’ordine ad Orazio. Aggiugne che egli scrisse in nome del re di Danimarca al re d’Inghilterra di far, per quiete comune, morire immediatamente i due messaggi, e sugellò la lettera col sigillo del padre che seco avea, sul quale erasi formato quello che usava il re presente. Ciò fatto e chiuso di nuovo il plico, lo ripose nel sito medesimo onde tratto l’avea, senza che il cambio si fosse conosciuto. Il dì seguente avvenne il combattimento navale già {p. 114}accennato nella lettera scritta ad Orazio. Un cortigiano adulatore viene a manifestare la scommessa fatta dal re a favore di Amlet di sei cavalli barbari contro sei spade francesi co’ pugnali corrispondenti. Il re scommette che in dodici assalti Laerte darà ad Amlet tre soli colpi, e Laerte s’impegna a dargliene nove. Amlet accetta la sfida, ed ordina che si rechino in quella sala i fioretti. Altro messo del re vuol sapere se Amlet pensa battersi subito con Laerte. Amlet risponde che se quell’ora è comoda pel re, egli è pronto. Amlet confessa ad Orazio di sentir qualche cosa nel suo cuore che l’affanna. Orazio vorrebbe dissuaderlo dall’impresa. Amlet dice che egli si ride di simili presagi; pur nella morte (aggiugne)di un uccellino interviene una provvidenza irresistibile; se è giunta l’ora mia, bisogna attenderla. Tutto consiste in trovarsi prevenuto allorchè arrivi. Se l’uomo al terminar di sua vita ignora sempre ciò che potrebbe avvenire da poi, che importa che la {p. 115}perda presto o tardi? Sappia morire. Viene il re e la regina con tutta la corte. Il re presenta Laerte ad Amlet, il quale gentilmente gli cerca perdono, discolpando il passato col disordine della sua ragione. Laerte ed Amlet prendono ciascuno un fioretto, e si dispongono all’assalto. Il re ordina che si copra la mensa di bicchieri colmi di vino. Se Amlet dà la prima o la seconda stoccata, o nel terzo assalto colpisce l’avversario, ordina che si scarichi tutta l’artiglieria. Il re berà alla salute di Amlet, buttando nel bicchiere una onice più preziosa di quella che hanno usata i quattro ultimi sovrani Danesi. Incomincia l’assalto. Amlet dà la prima stoccata a Laerte. Il re bee e vuole che egli beva ancora; Amlet vuol prima fare il secondo assalto, e dà al competitore un altro colpo. La regina vuol bere alla salute del figlio; il re cerca impedirlo; ella si ostina, e bee; il re si contrista… Tornano i competitori all’assalto; si colpiscono entrambi, e restano feriti. {p. 116}La regina va mancando. Il re vuol far credere che al vedere il sangue sia svenuta; ma ella grida, no, no, la bevanda, la bevanda…. Amlet sono avvelenata… Amlet ordina che si chiudano le porte, e che si trovi il traditore. Laerte morendo dice, che il traditore è presente.

Tu sei morto, Amlet, non ti resta che mezz’ora di vita; la punta del ferro che tieni in mano, è avvelenata, e… mi ha morto; io ne avea una simile, e tu sei morto… Tua madre ha bevuta la morte nel vino… non posso più… il re… il re è il malvagio autore di tante stragi.

Aml.

Questa punta è avvelenata? E bene faccia il suo effetto.

Trafigge il re. Amlet muore. Termina la tragedia coll’arrivo di Fortinbras, il quale dice che paleserà tutto tosto che saranno esposti alla pubblica veduta que’ cadaveri, ed aggiugne l’ultima disposizione di Amlet in favore del principe di Norvergia.

Ognuno vede la popolarità di questa {p. 117}favola originata dalla moltiplicità e varietà degli avvenimenti, e da alcune interessanti situazioni tragiche che vi sono, come è la scena dell’ombra con Amlet nell’atto primo, e l’altra colla madre e coll’ombra nell’atto secondo. Ognuno ne vede altresì l’irregolarità ed il disprezzo delle sagge regole del verisimile. Ma i dotti stranieri ed Inglesi convengono tutti del difettoso e del mirabile del dramma, delle bellezze e delle mostruosità che vi si notano. Basti per tutti il sentimento del Voltaire intorno al merito dell’autore dell’Amlet, dell’uomo di lettere il più degno di giudicarne. «Shakespear (egli disse) non ha presso gl’Inglesi altro titolo che di divino. Pur le sue tragedie sono altrettanti mostri. Quanto può immaginarsi di assurdo, di stravagante, di mostruoso, tutto si trova in esse. Sulle prime io non sapeva intendere, come mai gl’Inglesi potessero ammirare un autore così stravagante; ma in {p. 118}progresso mi accorsi che aveano ragione… Essi al par di me vedevano i falli grossolani del loro autor favorito; ma ne sentivano meglio di me le bellezze tanto più singolari per esser lampi che balenavano in una oscurissima notte. Tale è il privilegio del genio; esso corre senza guida, senz’arte, senza regola, per incognite non corse strade, ma lascia dietro di se tutto ciò che altro non è che ragione ed esattezza.»

Abbiamo osservato nel parlar de i drammi Italiani l’esattezza di tanti industriosi scrittori intenti a far risorgere l’arte teatrale de’ Greci. Osserviamo ora in Shakespear la mancanza di erudizione, di emoli e di modelli supplita dall’ingegno che lo scorgeva ad’ internarsi nell’uomo, a studiare i movimenti del proprio cuore, e a prendere dal vero i colori delle passioni. Egli non conobbe l’arte, e copiò egregiamente la natura.

Tè questo pennello,
{p. 119}
La genitrice ritrarrai con essoa

Che tragico incomparabile non diverrebbe chi sapesse bene accoppiare l’uno e l’altro studio!

Ma questo gran tragico inglese studiando la natura mancò di giudizio nell’imitar ciò che in società si riprenderebbe. Non è inverisimile (disse pur Voltaire per iscolpar se stesso nel Figliuol Prodigo) che mentre in una stanza si piange un morto, dicasi da un buffone qualche motto che muova a riso. Ma questo vero indiscreto non dee sulla scena imitarsi; in prima perchè la parte più sana riprenderà l’impertinenza del buffone, e perciò, sembrando tal mescolanza sconvenevole nella conversazione, dovrà come in fatti avviene, dispiacere ancor nella scena, dove la natura dee comparire scelta e conveniente b. In secondo luogo il {p. 120}poeta giudizioso non lavora mai contro se stesso. Or che altro fa colui che volendo intenerire e commuovere impedisce egli stesso la riuscita del suo disegno distraendo lo spettatore colla buffoneria intempestiva?

Shakespear istudiò la natura, e pure nelle sue espressioni non di rado la perde di vista. Non l’ebbe presente ne’ rimproveri che ne’ Due Gentiluomini di Verona fa il duca di Milano al Valentino. Nella sola orazione di Antonio nel Giulio Cesare, in quella orazione che Martino Sherlock stima il capo d’opera dell’eloquenza da preferirsi alle orazioni tutte di Omero, di Virgilio, di Demostene, di Cicerone, in quell’orazione che in ogni parola abbraccia mille bellezze ignote ai profani: si osservano espressioni ricercate frivole e contrarie alla semplicità della bella natura. Quando piangevano i poveri (dice Antonio)Cesare lagrimava; l’ambizione doveva esser fatta di una materia più dura. Questa materia più dura delle {p. 121}lagrime è forse una bellezza naturale? Oltre a ciò la falsa ragione che si adduce, non distrugge l’accusa di ambizioso data a Cesare. L’orgoglio l’alterigia vizii composti di presunzione e di ferocia, sono quelli che rendono l’uomo disprezzante duro insensibile agli altrui mali; ma l’ambizione non rare volte si copre di umanità e di dolcezza. Sherlock che ha studiato venti anni i drammi di Shakespear, ha studiato troppo poco il cuore umano. Notate come il sangue di Cesare lo seguiva (cioè seguiva il maledetto acciajo di Bruto) comesforzandosi di uscire per sapere, se fosse possibile, che questo era Bruto. Longino, Orazio e Boileau, de’ quali con privilegio esclusivo il Sherlock vantasi ammiratore, avrebbero ravvisato del patetico e del sublime in questo sangue che si sforza di uscire per seguire il ferro e per sapere se era Bruto il feritore? Merita simil concettuzzo di preferirsi a quanto vantò di grande la latina e la greca eloquenza?

{p. 122}

L’unica vera bellezza dell’orazione di Shakespear è quella appunto che è sfuggita alla diligenza del Sherlock che da venti anni lo stà studiando. Il merito del Shakespear in tale argomento consiste singolarmente nell’essersi approfittato delle notizie istoriche sull’ammazzamento di Cesare, e nell’aver renduta capace dì rappresentarsi in teatro l’aringa fatta da Antonio al Popolo Romano riferitaci dagli scrittoria; spiegandovi un patetico risentito e forte che accompagna lo spettacolo alle parole; e per questo merito, ad onta delle false espressioni accennate, si manifesta un esperto poeta drammatico. Ma questo merito tutto appartiene al teatro, nè senza ridicolezza si metterebbe {p. 123}in confronto colle orazioni de’ Tullii e dei Demosteni. Di grazia questi due prodigiosi principi dell’eloquenza si sono mai trovati in un caso simile? Non sa il Sherlock quanti aspetti diversi prenda l’eloquenza dagli oggetti e dalle circostanze? Non comprende l’enorme differenza che corre trallo spiegar la pompa oratoria nel Foro o nel Senato Romano e nel Pritaneo di Atene contro l’ambiziosa politica di Filippo e le ruberie di Verre, e tral mettere in azione sul teatro un cadavere insanguinatò? Volle il Sherlock paragonare ancora (si aggiunga di passaggio) il poeta melodrammatico Metastasio coll’epico poeta romanziere Ariosto. Longino gli ha mai dati esempi di simili paragoni impossibili? E pure egli stesso riprende coloro che comparano Racine e Shakespear, perchè il primo (ei dice) ha fatte tragedie; e l’altro soltanto composizioni drammatiche. Dunque a’ di lui sguardi è più stravagante il confronto {p. 124}di due drammatici, che di un romanziere con un drammatico?

Non è meraviglia che quel focoso viaggiatore preso dal farnetico di ragionar di letteratura vada tirando di taglio e di punta contro i fantasimi che egli stesso infanta, e giudichi de’ popoli colla più deplorabile superficialità. Non è meraviglia che abbia scarabocchiato un libercolo picciolissimo in tutti i sensi per provare che in Italia la poesia non è uscita ancor dalla fanciullezza; non consistendo la sua grande opera che in pagine 104 in picciolo ottavo, delle quali (sebbene protesti di voler produrre un libro picciolo) ne impiega ben quaranta solo in esagerate lodi della sua innamorata, cioè di Shakespear. Non è meraviglia che nella medesima brochure o scartabello che sia, cancelli con una mano quel che con l’altra dipigne; e nell’atto che dichiara gl’Italiani fanciulli in poesia, affermi che abbondino di eccellentissimi poeti lirici in ogni genere; non avendo ancora imparato che l’ {p. 125}entusiasmo, la mente più che divina, il sommo ingegno, la grandezza dello stile, doti da Orazio richieste nel vero poeta, convengono singolarmente alla poesia lirica. Non è meraviglia ancora che mentre nega il nome di poeta grande ad Ariosto, confessi poi che sia egli gran poeta descrittivo, con altra palpabile contraddizione, perchè le bellezze dello stile, la copia, la vaghezza, la vivacità e la varietà delle immagini, formano le principali prerogative della poesia onde trionfi del tempo. Tutte queste incoerenze, io dico, delle quali si compone il bel Consiglio a un giovane del Sherlock, potrebbero recarci stupore, se fossero profferite da un altro che non ci avesse puerilmente ed à propos des bottes fatto sapere di aver molto studiato la matematica, e di credere d’avere della precisione nelle idee.

Si faccia parimente grazia a codesto preteso matematico del non aver conosc iuta la storia letteraria Italiana, com’è dimostra proponendo per cosa {p. 126}tutta nuova all’Italia lo studio de’ Greci: a quell’Italia, dove anche nella tenebrosa barbarie de’ tempi bassi fiorirono intere provincie, come la Magna Grecia, la Japigia e parte della Sicilia, le quali altro linguaggio non avevano che il greco, e mandarono a spiegar la pompa del loro sapere a Costantinopoli i Metodii, i Crisolai, i Barlaami: a quell’Italia, che dopo la distruzione del Greco Impero tutta si diede alle greche lettere, e fu la prima a communicarle al rimanente dell’Europa, cioè alla Spagna per mezzo del Poliziano ammaestrando Arias Barbosa ed Antonio di Nebrixa, ed all’Inghilterra per opera di Sulpizio, di Pomponio Leto e del Guarini, maestri de’ due Cuglielmi Lilio e Gray: a quell’Italia, dove, per valermi delle parole di un elegante Spagnuolo) la lingua greca diventò sì comune dopo la presa di Constantinopoli, che, come dice Costantino Lascari nel proemio ad una sua gramatica, l’ignorare le cose greche recava vergogna {p. 127}agl’Italiani, e la lingua greca più fioriva nell’Italia che nella stessa Greciaa: a quella Italia in fine che oggi ancor vanta così gran copia di opere, nelle quali ad evidenza si manifesta quanto si coltivi il greco idioma in Roma, in Napoli, in Firenze, in Parma, in Pisa, in Padova, in Verona, in Venezia, in Mantova, in Modena, in Bologna, in Milano, che vince di gran lunga l’istesso gregge numeroso de’ viaggiatori transalpini stravolti, leggeri, vani, imperiti e maligni, tuttocchè tanti sieno i Sherlock e gli Archenheltzb. E chi vorrà {p. 128}incolpare quest’Irlandese di picciola levatura del non essere istruito della letteratura Italiana, quando egli ha mostrato nella sua opera grande di cinquanta carte di esser pochissimo versato nella stessa letteratura della Gran-Brettagna? Facciamolo osservare a’ nostri lettori. Egli adduce in lode di Shakespear l’unanime consenso degl’Inglesi, d’indole per altro tanto, al suo dire, singolare che difficilmente se ne trovano due che si somigliano; ed afferma che in Inghilterra in quasi duecento anni non vi è stata una sola voce contro di Shakespear. Bisogna istruirlo e fargli ascoltare su questa osservazione letteraria alcune voci sonore al pari di quella di Stentore uscite dall’isole Brittanniche contro di Shakespear per renderlo informato di ciò che ignora de’ suoi medesimi nazionali.

Inglese era Dryden, erudito e poeta drammatico, e pure nella dedicatoria della tragedia Troilus and Cressida afferma ingenuamente che nelle composizioni scritte da Shakespear nel {p. 129}secolo XVI scorretta era la frase, sregolata la dicitura, oscura ed affettata l’espressione; aggiugendo che al principio del secolo susseguente quel padre del teatro inglese pensò a ripulire il linguaggio nelle ultime sue fatiche, e a levare alquanto di quella ruggine, di cui troppo erano imbrattate le prime.

Inglese era Samuel Johnson, e dopo del Rowe e del Pope e del vescovo Warburton, è stato comentatore delle opere del Shakespear pubblicate in Londra in otto volumi nel 1765; e pure nella prefazione dice di lui moltissimo bene e moltissimo male, che è quello appunto che fanno gli esteri imparziali. Io tanto più di buon grado ne trascriverò qualche osservazione, quanto più mi sembra conducente a far meglio conoscere per mezzo di un nazionale il carattere del poeta drammatico inglese.

I critici (dice Johnson) hanno rimproverato a Shakespear il troppo studio d’imitar la natura universale. {p. 130}Hanno detto che i suoi Romani non erano vestiti del proprio costume; e che ai re da lui introdotti mancavano le dignità richieste nella loro classe. Dennis si offende, dice Johnson (e Dennis, signor Sherlock, era anche nato in Inghilterra) perchè Menenio senator di Roma faccia il buffone; e Voltaire crede che sia violar la decenza il dipingere che fa nell’Hamlet l’usurpatore Danese ubbriaco, Ma Shakespear sacrifica tutto alla natura, e alla verità. Esigeva la sua favola de’ Romani e de’ re, ed egli altro non vide che gli uomini. Avea egli bisogno di un buffone, ed il prese dal Senato di Roma, dove se ne sarebbe come altrove trovato più d’uno. Voleva mettere sulla scena un usurpatore e un omicida, e per renderlo dispregevole ed odioso, aggiunse a i di lui vizii l’ubbriachezza, sapendo che il vino esercita la sua possanza su i re come su gli altria. L’intreccio delle sue {p. 131}favole (parla il medesimo Johnson) in generale è debolmente tessuto, e condotto senza arte. Egli trascura le occasioni di piacere o interessare che presentagli naturalmente lo scioglimento. Perchè componeva per vivere, avvicinandosi al termine del lavoro si dava tutta la fretta per ritrarne frutto al più presto… Non ebbe riguardo veruno a’ tempi ed a’ luoghi, e senza scrupolo attribuiva ad un secolo, e ad una nazione i costumi e le usanze e le opinioni di un altro tempo, e di un altro popolo… Quando vuole esser comico, la sua piacevolezza è rozza, e l’allegoria licenziosa. Gli uomini e le donne civili nè parlano nè operano diversamente dalle genti del contado. Quando vuole essere oratore (attento, signor Martino) diviene freddo e snervato; imperciocchè allora egli è grande quando si contiene nella natura… Esprime sovente di una maniera ingarbugliata un pensiere comune, e cela una picciola immagine in un verso pomposo… Quando vuole intenerire {p. 132}dipingendo la grandezza che ruina, o l’innocenza che pericola, più sensibilmente manifesta l’ineguaglianza del suo ingegno. Non può essere lungo tempo tenero e patetico… Il difetto più notabile del nostro poeta è il gusto singolare che avea pel giuoco puerile delle parole; non v’ ha cosa che non sacrifichi al piacere di dire un’ arguzia ecc. ecc.

Inglese per finirla era Gray autore del componimento scenico intitolato Come la chiamate voi? Farsa tragico-comi-pastorale, nel corso della quale non meno che nella prefazione viene finalmente, e con grazia comica deriso il teatro di Shakespear, in varie guise, formandosi fin anche de’ versi di lui piacevolissime parodie.

Adunque non è punto vero ciò che afferma il signor Martino, che in Inghilterra non vi è stata mai una voce sola contro Shakespear; non è punto vero che quivi sono tutti ciechi adoratori non meno delle bruttezze, che {p. 133}delle bellezze di lui. In compenso però può oggi questo famoso poeta tralle altre sue glorie contare di essere stato dichiarato l’innamorata del tenero Sherlock che consiglia con tutto gusto e giudizio la gioventù. Mi vieta il mio argomento l’andar ricercando dietro ad ogni particolarità della scrittura di costui, nella quale trovansi sparse senza che vengano citate moltissime cose che leggonsi altrove, ed altre non poche a lui da questo e da quello Italiano sugeritegli, le quali ha egli registrate senza esame, e senza ben ricucirle col rimanente del suo libretto. Io ne ho voluto accennare soltante quel che riguarda la drammatica, non curandomi di mettere al vaglio tante mal digerite opinioni spacciate sulla poesia italiana e francese, ove pesta non iscorgesi nè di gusto, nè di giudizio, nè di quella precisione d’idee, di cui crede piamente potersi pregiare. Per umiltà avrà egli voluto occultarci i progressi da lui fatti nelle matematiche, ragionando a bella posta {p. 134}così incongruamente, e con frequenti contraddizioni; e per la stessa umiltà avrà voluto fingersi poco o nulla istruito della letteratura straniera, e di quella della propria nazione. Ma chi bramasse distinta contezza delle madornali eresie letterarie del Sherlock, legga le Tre Lettere dell’erudito Alessandro Zorzi veneziano impresse in Ferrara nel 1779, anno alle lettere fatale per la perdita fatta di questo dotto laborioso Italianoa.

{p. 135}

Shakespear scrisse pure commedie, e gl’Inglesi veggono sempre con piacere il di lui Cavalier Falstaff, e le Commari di Windsor. Egli scriveva un medesimo componimento parte in versi, e parte in prosa. Nato in Strafford verso il 1564, morì nel 1616; e per onorarne la memoria gli fu eretto un magnifico monumento nell’Abadia di Westminster.

Nel medesimo secolo XVI fiorì il cavalier Fulck Grevil Brooke chiaro nelle armi, e nelle lettere, che fu l’intimo amico di Sidney favorito della regina Elisabetta. Grevil compose due tragedie Alaham e Mustapha, nelle quali introdusse il coro alla maniera greca.

Contemporaneo del Shakespear fu Giovanni Fletcher, il quale anche contribuì agli avanzamenti del teatro brittannico. Tralle di lui favole passa per eccellente quella che intitolò Il Re non Re.

Non si vuole però omettere di notare che sin da que’ dì sulle scene di {p. 136}quell’Isole cominciò ad allignare un gusto più attivo e più energico che altrove. Gl’Inglesi amano sul teatro più a vedere che a pensare. Da quel tempo spiegarono una propensione particolare al grande, al terribile, al tetro, al malinconico, più che al tenero, ed una vivacità e una robustezza, e un amor deciso pel complicato, più che per la semplicità; e questo carattere di tragedia si è andato sempre più disviluppando sino a’ nostri giorni.

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CAPO IV.

Spettacoli scenici nella penisola di Spagna. §

Sebbene pochi sieno gli Eruditi Spagnuoli che non abbiano poco o molto favellato del proprio teatro, tuttavolta se ne desiderava ancora una storia seguita prima ch’io l’abbozzassi nella generale de’ Teatri pubblicata nel 1777, ed i buoni nazionali urbanamente me ne seppero gradoa. Nè anche dopo {p. 138}di me si è intrapresa tale storia nè in Ispagna, nè altrove; e l’istesso chiarissimo esgesuita Andres nella sua bella opera sopra ogni letteratura nulla d’importante aggiugne a quanto allora io scrissi del teatro spagnuolo. Adunque senza aver ragione degl’ingrati una mi accingo a darne ora io stesso assai più piena, in cui alle {p. 139}notizie ovvie e comunali altre se ne uniranno non prima avvertite, procurandosi nel tempo stesso coll’usata imparzialità di delineare le fisonomie (per così dire) de’ drammatici spagnuoli, e di rilevarne le bellezze da’ nazionali o non viste, o non descritte mai.

Gli Spagnuoli di pronto e acuto ingegno, di vivace e fertile fantasia, arguti, facondi, e ricchi di lingua, essendosi nel XVI secolo moltissimo distinti nelle lettere, specialmente verso la fine di esso coltivarono con qualche ardore la scenica poesia. Le prime cose che in quella penisola ebbero certa immagine rappresentativa, furono le Novelle in dialogo, o come le chiamò il bibliotecario don Blas de Nasarre, Dialoghi detti commedie lunghissimi, e incapaci di rappresentarsia. I Portoghesi, e gli altri {p. 140}Spagnuoli ne composero moltissime tutte in prosa intitolandole novelle, tragicommedie, tragedie, e commedie. Di esse inutilmente si tesserebbe un catalogo compiuto, nulla avendone guadagnato il teatro, se non che potrebbero servire come di semenzai di pitture, e di ritratti al naturale, e di caratteri, e di passioni poste in inovimento, ed a buon lumea. Tale è la Celestina di tutte la più rinomata cominciata a scriversi nella fine del XV secolo da Rodrigo de Cota (altri dice da Giovanni Mena), e terminata men felicemente da Fernando de Roxasb, che s’impressse la prima

{p. 141}prima volta in Salamanca nel 1500 (la qual notizia rilevasi dall’edizione fattasene in Valenza nel 1529) e porta il titolo di tragicommedia divisa in atti ventuno, de’ quali solo il primo fu scritto dal primo autore. Non è che un lungo romanzo in dialogo, in cui mostrasi tutta l’oscenità senza velo col pretesto di riprenderla a. Per una delle prove evidenti che la rappresentazione di tal Novella sarebbe assurda ed impraticabile, si noti che i personaggi sogliono cominciar il dialogo in istrada, proseguirlo entrando in casa, e senza conchiuderlo uscirne. L’azione dura due mesi ed ancor più, ed è questa. Calisto innamorato di Melibea ricorre a Celestina vecchia ruffiana e maliarda famosa, la quale fa varii scongiuri, incanta una matassa di filo, {p. 142}la porta a vendere a Melibea, e per incanto la rende perduta amante di Calisto. Gli amanti più di una volta si veggono di notte, e Melibea è deflorata. I servi di Calisto per ingordigia ammazzano Celestina, danno nella giustizia, e sono impiccati. Calisto stando con Melibea ode un romore nel giardino accorre, cade dalla scala, e si ammazza. Melibea il dì seguente si precipita da una finestra e muore.

In prima questa azione appoggia in falso, perchè non solo Celestina fa mercimonio di malie, ma si finge effettivamente fattucchiera; e l’innocente Melibea per forza del suo incanto è corrotta; ed in ciò si vede la mancanza d’arte dell’autore; perchè se avesse saputo rifondere tutto il trionfo all’insidiosa eloquenza della vecchia, la novella sarebbe riuscita più verisimile, più artificiosa e più morale. Celestina poi anima di tutta l’azione muore uccisa nell’atto dodicesimo, per la qual cosa ne’ seguenti nove atti l’azione cade, si rende straniera al nome del {p. 143}protagonista, e si raffredda. La morte di Calisto è verisimile, ma la caduta che l’ammazza, è casuale, nè produce istruzione, perchè (come ben diceva un mio dotto amico spagnuolo) ad un anacoreta il più penitente ed esemplare non che ad un dissoluto, potrebbe accadere la stessa disgrazia nel discendere da una scala di una chiesa. Ultimamente il fine morale dell’autore di mostrar le funeste conseguenze delle sfrenatezze, viene interamente distrutto colle dipinture e situazioni laide e lascive, per le quali ne fu meritamente proibita la lettura. Nell’atto settimo Parmenone si giace in letto con Areusa a persuasione della vecchia scellerata che ciò stà vedendo; e questa situazione si rende tanto più scandalosa, quanto più il dialogo di tutti e trè è scritto con somma proprietà e bellezza. Negli atti XIV e XIX Calisto e Melibea soddisfano compiutamente i loro appetiti, si abbandonano ai dolci trasporti e discorsi e ad azioni proprie della più sfrenata passione, fino a numerare gli atti {p. 144}ripetuti della loro tresca, mentre che una serva posta di sentinella vede e nota con molta vivacità tutte le delizie che gustano gli amanti. In somma i movimenti, le parole, il silenzio stesso in questo punto dell’azione, è quanto può dipingersi di più disonesto in un racconto, non che su di un teatro; e questi sventuratamente sono i più bei passi del libro. Di grazia poteva ciò essersi immaginato per rappresentarsi? Ora se gli ultimi apologisti spagnuoli avessero conosciuta la Celestina, avrebbe l’esgesuita Lampillas avuto coraggio di riprendere qualche motto soverchio libero delle commedie dell’Ariosto? Garcia de la Huerta avrebbe dato ragione al Lampillas e torto al Signorelli? L’esgesuita Giovanni Andres avrebbe tacciato di oscenità le commedie del Machiavelli, e preferita, errando in più maniere, la scandalosa mostruosità della Celestina all’Orfeo del Poliziano? Son sicuro che egli non lesse mai nè l’una nè l’altro.

Lascio poi che il carattere di {p. 145}Calisto è quasi fantastico, pieno di espressioni iperboliche e di slanci d’immaginazione disparati, declamatorio e pressochè senza verità di affetti. Lascio ancora che il carattere di Celestina per altro eccellentemente dipinto, si vede imbrattato di vana ostentazione di erudizione e dottrina intempestiva impertinente. Del resto simil difetto è generale in questo romanzo in dialogo. Chi può soffrire Melibea, che in procinto di precipitarsi si trattiene a ripetere varii evenimenti istorici di Tolomeo, Oreste, Clitennestra, Nerone, Agrippina, Erode, Fraate, Laodice, Medea? Chi il di lei padre che a vista della tragica morte della figliuola apostrofa ed insulta amore, perchè venga chiamato nume, perchè si dipinga nudo, armato, cieco, fanciullo? che parla di Paolo Emilio, di Pericle, d’Ipermestra, di Anassagora, di Egisto, di Davide, di Paride, di Sansone, di Salomone, di Ero e Leandro, di Elena, di Saffo, di Arianna?

Ma sono da collocarsi tralle {p. 146}principali bellezze della Celestina nell’atto I l’eccellente, concisa, naturale ed elegante dipintura della bellezza di Melibea, la descrizione del carattere e delle occupazioni di Celestina, il dialogo comico di lei con Parmenone. Nell’atto III si ammira la sagacità della vecchia ottimamente lumeggiata, quando narra i suoi meriti ruffianeschi, e quando dipinge le ragazze innamorate. Nel IV è ben rilevata la scaltrezza di lei nell’insinuarsi per tutte le vie nell’animo di Melibea. Nel VII, nel XIV e nel XIX le già riferite scandalose situazioni veggonsi descritte con grazia e verità inimitabile e detestabile.

Risulta da quanto abbiamo accennato che la Celestina giustamente proibita e giustamente lodata ancora, ove però voglia considerarsi come spettacolo teatrale, parrà un componimento per tutte le vie spropositato e mostruoso; là dove mirandola come conviensi qual novella in dialogo, in cui l’autore sempre occultandosi tutto mette in bocca de’ personaggi, sarà un libro ricco {p. 147}di varie bellezze e meritevole di certo applauso. Ed in fatti la vivacità delle descrizioni de’ caratteri, e la maestria del pennello ne’ quadri de’ costumi, non permetteranno che tal libro perisca, e la gioventù potrebbe apprendervi a temere le funeste conseguenze degli amori illeciti, se il dolce veleno di questi non fosse dipinto con soverchia espressione e con tal naturalezza, che può renderlo anzi pernicioso che istruttivo. Libro divino lo chiamò intanto il Cervantes nella decima del Poeta Entreverado; e l’autore del Dialogo de las lenguas affermò che in castigliano non v’ ha libro scritto con maggior proprietà, naturalezza ed eleganza. Se ne fecero varie edizioni a, e traduzioni; ma la prima di queste fu quella italiana impressa in Roma pel Silber e Franch l’anno 1506, indi {p. 148}reimpressa in Venezia cinque altre volte sino al 1553. L’autore di tal versione fu uno Spagnuolo domiciliato in Italia chiamato, per quel che si dice da lui stesso, Alfonso Ordoneza.

Celebre fu anche la novella chiamata Commedia Eufrosina pur composta in prosa da un autore che si occultò sotto il nome di Giovanni Speraindeo. Si pubblico la prima volta dal portoghese Francesco Rodriguez Lobo, che poetò circa il tempo di Filippo III, e poi si tradusse in castigliano da Fernando Ballesteros y Saavedra morto nel 1665, {p. 149}e s’impresse nel 1631a. In tal componimento in mezzo alla purezza dello stile trovansi frequentissime allusioni pedantesche che annojano.

Una seconda commedia di Celestina compose Feliciano de Silva, in cui trattansi gli amori di Felide e Poliandria. Una terza parte della tragicommedia di Celestina produsse Gasparo Gomez. La tragicommedia di Lisandro e Roselia di un anonimo stampata in Madrid nel 1542 è pure un componimento che discende dalla Celestina. L’autore del Flos Sanctorum Alfonso de Villegas toledano nella sua gioventù sulle tracce della Celestina scrisse la Selvagia commedia.Giovanni Rodriguez fece la Floriana che tratta degli amori del duca Floriano con Belisea impressa nel 1544 in {p. 150}Medina. Per non tornare a parlar di simili novelle drammatiche, accenniamo ancor quì che il famoso Lope de Vega in un volume ne scrisse anch’egli una in prosa secondo l’usanza tenuta in esse, e l’intitolò Dorotea che non si rappresentò, nè per la sua lunghezza era capace di rappresentarsi. La Ingeniosa Helena figlia di Celestina, novella scenica detestabile per l’oscenità, s’impresse in Lerida nel 1612, ed in Madrid nel 1614. Tre altre ne compose il portoghese Giorgio Ferreira de Vasconcelos impresse ne’ primi lustri del secolo seguente. La prima e la migliore detta commedia Eufrosina dopo altre edizioni uscì in Lisbona nel 1616; la seconda chiamata commedia Olisipo si produsse nella medesima città la seconda volta nel 1618; e la terza col titolo comedia Aulegrafia, che contiene una descrizione della corte, si pubblicò nel 1619.

Ma componimenti proprii per la rappresentazione scrisse in Portogallo il famoso Gil Vicente, il quale nato di {p. 151}nobil famiglia (secondo Diego Barbosa) rappresentò più volte le proprie commedie alla presenza del re Emanuele e di Giovanni III. Fu considerato come il Plauto del Portogallo, e talmente applaudironsi le sue favole, che invogliarono Erasmo Roterdamo a studiar la lingua portoghese per comprendere le grazie comiche di Gil Vicente. Egli morì in Evora prima del 1557. E dopo la di lui morte se ne pubblicarono le opere in cinque volumi, de’ quali il secondo contiene le commedie, il terzo le tragicommedie, il quarto le farse. Tra queste opere teatrali trovo distinte le seguenti: Auto (che in tal materia equivale a rappresentazione) de Amadis de Gaule, Auto da barca do inferno, Auto de don Duardoa, {p. 152}Auto do Juiz de Beira, Triunfo do infierno comedia, Pranto de Maria Parda, Auto da donzella da torre, Auto do Fidalgo Portuguez. Lasciò Gil due figliuoli ed una figliuola che gareggiarono col padre nel coltivar la poesia. Il primo di essi fu Gil Vicente detto il giovine tenuto per più eccellente del padre, e tra i di lui drammi credesi il migliore quello intitolato don Luis de los Turcos. Il secondo fu Luis Vicente, il quale intraprese l’impressione delle opere del padre. Pabla Vicente chiamossi la figliuola, di cui corse fama che correggesse le composizioni paterne, oltre di averne scritte ella stessa alcune assai bene accolte.

Il celebre quanto infelice gran poeta portoghese Luigi Camoens autore del {p. 153}poema epico Las Luisiadas composto nelle Indie, perfezionato in Europa quando vi fece ritorno nel 1569, e pubblicato sette anni prima della di lui morte dopo aver menato una vita da mendico sotto gli occhi del sovrano cui avea servito colla penna e colla spada; Camoens, dico, dee contarsi tra’ benemeriti del patrio teatro pel suo Anfitrione tratto da Plauto, di cui ritiene molte grazie, e per un’altra picciola farsa che leggesi nelle di lui opere.

Il dottor Francesco de Sà de Miranda nato nel 1495 e morto nel 1558 applaudito come il più insigne poeta portoghese dopo Camoens, scrisse qualche commedia da mentovarsi per la grazia de’ motteggi e pe’ caratteri ben sostenuti. Quella intitolata Commedia dos Vilhalpandos s’impresse dopo la di lui morte in Coimbra l’anno 1560 da Antonio de Maris; ma non fu questa la prima impressione dicendosi agora novamente impressa. Il soggetto si enuncia nel prologo che fa la Fama. Un Romano {p. 154}chiamato Pomponio ha un figlio ammaliato dalle arti di una cortigiana e dal di lei servaggio cercano ritrarlo il Padre colle ragioni e colla propria autorità, e la Madre per via di devozioni, mezzi che riescono ugualmente infruttuosi, perchè la cortigiana chiamata Aurelia seguita a governare a suo modo il giovine Cesarino. Tra gl’interlocutori chiamati figuras de comedia sono, un eremita, un ruffiano, un paggio francese ed una comitiva di pinzochere con Fausta madre del traviato giovinetto. La commedia è scritta a norma del verisimile e divisa in cinque atti cui non manca che vivacità ed azione. Se gli scrittori di quella penisola avessero seguito le vestigia di questo autore quanto alla regolarità, adattandosi però al tempo circa i costumi e i caratteri, avrebbero forse impedita l’irruzione de’ drammi stravagantia. Se ne fece {p. 155}un’altra edizione in Lisbona l’anno 1595 unita ad un’altra commedia del medesimo autore da me non veduta intitolata Os Estrangericos, della quale edizione parla solo Nicolas Antonio.

Antonio Ferreira nato in Lisbona, ad insinuazione del prelodato Francesco de Sà, prese a coltivar le muse sotto il re Sebastiano, e vi riuscì felicemente. Egli scrisse in più di un genere in maniera che si novera tra’ primi poeti portoghesi. Ma le sue opere si pubblicarono quaranta anni dopo che cessò di vivere, cioè nel 1598 da Michele suo figlio che lasciato aveva fanciullo. Consistono in varie poesie {p. 156}liriche, sonetti, odi, ottave, epigrammi, elegie, epistole, epitafii, e vi si trova una tragedia intitolata Castro mentovata dal citato Nicolas Antonio, non nota o solo di nome nota al Montiano e ad altri critici Spagnuoli, sfuggita al Nasarre, al Lampillas ed all’Andres. Io straniero, oltraggiato da Garcia de la Huerta e da Ramòn La-Cruz (se gli Huerta e i La-Cruz colle native villanie di Lavapies e de las Maravillas potessero oltraggiare altri che se stessi) perseguitato dagl’ingrati apologisti come antispagnuolo a dispetto della verità e dell’evidenza, io, dico, straniero mi accingo a rilevare i pregi di tal tragedia che avrei potuto impunemente dissimulare come negletta e ignorata da tanti nazionali sino a’ giorni miei.

Trasse il Ferreira l’argomento della sua tragedia dalla tragica morte di doña Inès de Castro; nè parmi che lo dovesse al Camoens, il quale nelle Luisiadi con tanta energia e passione ne cantò. Imperciocchè se le poesie del Ferreira {p. 157}s’impressero nel 1598 quaranta anni dopo della di lui morte, la sua tragedia dovè comporsi prima che Camoens tornasse in Europa col suo poema composto nell’Indie ed impresso nel 1572. Dividesi la Castro in cinque atti, e vi si osservano le regole del verisimile eccetto che nell’unità del luogo, seguendo l’azione parte in Coimbra e parte in Lisbona. Lo stile è nobile, è grave, e rare volte ammollito da qualche ornamento lirico, i costumi vi sono ben coloriti, e i discorsi vivacemente appassionati. Veggasene uno squarcio dell’atto I, quando Inès racconta l’amore che ha per lei l’Infante Don Pietro, e la pena che ei soffre per vedersi ad altra congiunto:

Suspira et geme et chora a alma cativa
Forzada da brandura et doce forza,
Sogeita a o cruel jugo que pesado
A seu desejo sacudir deseja.
Nào pode, nào convem, a furia cresce.
{p. 158}
Laura a doce pezonha nas entranhas.
Os homes foge, foge a luz et odia.
So passea, sò fala, triste cuida.
Castro na boca, Castro n’alma, Castro
Em toa parte tem ante si presente,
Elle a molher cuidado et odio et iraa.

Fu questa tragedia copiata dal p. Girolamo Bermudez di Galizia nella Nise lastimosa senza che ne avesse {p. 159}fatto menzione. Il plagio è manifesto. Il piano, la sceneggiatura, tutto l’atto III col sogno d’Inès; tutto il IV colla patetica aringa fatta al re Alfonso dalla stessa e col congedo che ella prende da’ figliuoli; la forma de’ versi saffici de’ cori, l’atto V, in somma tutto involò al Portoghese senza avvertirne almeno in qualche modo il pubblicoa. {p. 160}Altro non v’ha che appartenga al Bermudez che i discorsi lunghi, nojosi, impertinenti, la mortale languidezza, e la viziosa versificazione rimata con sonetti, ottave, terzine ecc.; là dove il Ferreira di miglior gusto, fuor che ne’ cori, usò in tutta la tragedia con senno il verso sciolto. Noi nel parlar poi delle due Nise del Bermudez ne confronteremo qualche squarcio.

Il gesuita Luigi de la Cruz nato parimente in Lisbona, e conosciuto per la traduzione latina del Salterio di David uscita in Ingolstad nel 1597, e poi in Napoli nel 1601, scrisse in versi latini varie azioni tragiche e comiche impresse in Lione nel 1605, cioè un anno dopo la di lui morte avvenuta in Coimbraa. E ciò abbiamo trovato di notabile fra’ Portoghesi.

Quanto al teatro Castigliano dobbiamo al noto Miguèl Cervantes la {p. 161}descrizione circonstanziata della fanciullezza e de’ primi suoi avanzamenti. Questo scrittore nato nel 1549 sotto l’Imperadore Carlo Quinto sei anni prima che cominciasse a regnar Filippo II, in un prologo ad otto sue commedie ci fa sapere che essendo egli fanciullo componevasi il teatro di Madrid di quattro o sei tavole poste sopra quattro assi in quadro alte dal suolo quattro palmi. Il suo ornato consisteva in una manta vecchia tirata con due corde, la quale divideva dal palco la guardaroba (che sarebbe il postscenium degli antichi) e dietro di questa manta stavano i musici, cioè gli attori che da principio cantavano senza chitarra qualche antica novella in versi che in castigliano chiamasi romance. Allora tutti gli attrezzi di un capo di compagnia si chiudevano in un sacco, come quelli de’ pupi, e si riducevano a quattro pellicce bianche guarnite di cartone dorato, quattro barbe e capigliature posticce, e quattro bastoni da contadini. Le commedie erano non lunghi colloquii {p. 162}tra due o tre pastori e una pastorella, o tra pochi personaggi di città assai bassi. Gli andavano i commedianti allungando con qualche tramezzo di una Mora, di un Ruffiano, di un Balordo, di un Biscaino, caratteri rappresentati a maraviglia da un battiloro di Siviglia chiamato Lope de Rueda. Si pretende che costui fiorisse circa il tempo di Leone X; ma Cervantes fanciullo lo vide rappresentare. Trovansi di questo commediante due Colloquii pastorali e quattro picciole commedie intitolate Eufrosina, Armedina, Medora e i Disinganni, le quali cose si pubblicarono in Valenza nel 1567 dal librajo Giovanni di Timoneda che fu anch’egli autore di alcune novelle e di tre commedie in prosa impresse nel 1559. Le commedie del Rueda, dice Lope de Vega nell’Arte Nuevo, di stile assai basso e che rappresentano fatti di artefici mecanici ed amori di persone plebee, come della figlia di un fabbro, nelle quali però dice,

{p. 163}
        està en su fuerza el arte,
Siendo una accion y entre plebeya gente,

rimasero indi nel teatro per intermezzi, dopo che vi s’introdussero azioni ed amori di sovrani e principesse.

Al Rueda morto prima del 1557 succedette nel teatro un tal Naharro nato in Toledo, che rappresentava assai bene la parte di Ruffiano codardo. Ebbe costui il gusto più cittadinesco, e arricchì l’apparato comico di modo che non bastando il sacco, vi vollero i bauli per rinchiudervi i nuovi arredi scenici. Fece anche venir fuori quei che prima cantavano dietro della manta, e forse egli stesso gli rendè più accetti coll’acccompagnamento della chitarra, che si è veduta uscire sulle scene ispane sino a’ giorni nostri. Dispose parimente che gli attori deponessero le barbe posticce e rappresentassero a volto nudo, mostrando con ciò d’intendere la vera rappresentazione. Finalmente abbellì le azioni con varie decorazioni e macchine, {p. 164}fingendo nuvole, lampi, tuoni e facendo veder duelli, battaglie, tempeste. Tosto dunque uscirono i comici dalle commediole e dagli amori della figliuola del fabbro, i quali posti in circostanze pericolose o tragiche trassero seco loro la confusione de’ generi.

Mentre tali cose accadevano nel pubblico teatro, non mancò chi s’ingegnasse di tradurre e di comporre alcuna commedia non mentovata da Cervantes, forse perchè non si rappresentò nè influì ai progressi dell’arte. Trovo nominate tre commedie scritte da uno o più anonimi, ed impresse in Valenza nel 1521, Comedia Tebaida, Comedia Hypolita e Comedia Serafina che non mi è riuscito di sapere che cosa fossero. Si fa inoltre menzione di un dramma detto Tragedia Policiana, in cui si trattano gli amori di Poliziano e Filomena uscita in Toledo nel 1547. Probabilmente simili favole furono novelle in dialogo.

Verso i primi anni del secolo il dottore Villalobos tradusse in prosa l’ {p. 165}Anfitrione imperfettamente, avendone tralasciato il prologo e varii squarci quà e là. La stessa commedia fu meglio recata in castigliano anche in prosa da Fernan Perez de Oliva cordovese impressa poi in Cordova nel 1585 colle di lui opere. Pietro Simon April tradusse la Medea di Euripide, e nel 1577 pubblicò la sua versione delle commedie di Terenzio, le quali ben potranno giovare a’ Tedeschi per apprendere la lingua spagnuola, al qual fine Scioppio ne raccomanda la lettura nell’opuscolo de Studiorum ratione: ma si potrebbe mostrare a chi ne dubitasse, quante volte abbia l’April manifestato poca intelligenza dell’originale; nè ebbe torto l’erudito bibliotecario Giovanni Yriarte quando il derise in un epigramma inserito nelle di lui opere postume. Cristofano Castillejo morto nel 1596 scrisse alcune commedie rimaste inedite che io non ho potuto leggere, e che secondo il Nasarre potrebbero passar per buone, se fossero meno mordaci e lascive. Tralle altre {p. 166}vien lodata la Costanza, la quale trovasi manoscritta nella libreria dell’Escuriale a.

Ho bensì lette le poesie di Bartolommeo de Torres Naharro nativo di Torres presso Badajoz; il quale fu sacerdote, e non commediante, come credette l’esgesuita Giovanni Andres, confondendolo per avventura col soprannominato Naharro di Toledo b. Esse portano il titolo di Propaladia, la cui lettura sin dal 1510, quando s’impresse la prima volta in Siviglia da Giacomo Cromberger, fu proibita in Ispagna sino al 1573 allorchè si ristampò. Vi trovai otto commedie: la Serafina, la Trofea, la Soldatesca, la Tinellaria, l’Imenea, la Giacinta, la Calamita e l’Aquilana. {p. 167}Esse veramente sono all’estremo fredde e basse, prive di ogni moto teatrale, senza verisimiglianza nella favola, senza arte nell’intreccio, senza decenza nel costume. Gli argomenti sono di quel genere che dee bandirsi da ogni teatro culto. Ecco l’azione della Serafina, in cui vedesi un misto di dissolutezza e di superstizione. Floristano drudo un tempo di Serafina cortigiana di Valenza si marita ad Orfea onesta giovinetta: rivede l’amica: gli si risveglia in petto l’antico fuoco: Serafina l’aumenta co’ rimproveri insidiosi: gli chiede la morte della moglie: Floristano promette di ammazzarla dentro di un’ ora: la cortigiana si dispone ad attenderne l’esito, dicendo,

Vejam aço que fareu.

Determinato Floristano al misfatto si abbocca con un Eremita, e gli narra di esser caduto nella bigamia, per aver prima sposata clandestinamente la cortigiana, indi Orfea colle dovute formalità, aggiungendo di aver perciò deliberato di torre a quest’ultima la vita:

Es menester, egli dice,
Que yo mate luego è Orfea
Dò Serafina lo vea,
Porque lo pueda creer;

ed ecco con quale scandalosa ragione si anima al meditato eccesso, e vi riposa senza veruna agitazione o rimorso:

Porque si yo la matare,
morirà cristianamente;
yo morirè penitente,
quando mi suerte llegare.

Frattanto il vizio radicale della favola rende l’autore incerto fralla decenza e e la verisimiglianza, cose che non sa conciliare, si avvolge in difficoltà e cade in contraddizioni. Il servo nella giornata I domanda a Floristano, se ha consumato il matrimonio con Orfea, ed egli risponde,

Y aùn consumì el patrimonio,
Que ha sido mucho peor;

e ciò vuol dir di sì. Ma nella giornata V l’Eremita domanda la stessa cosa, ed egli risponde, ni pude ni quisiera. Or perchè poi codesto scempiato Eremita, il quale senza saper {p. 169}perchè si rende complice di un attentato sì atroce, aspetta sino a quel punto a domandare una circostanza sì necessaria per impedire l’ammazzamento di Orfea poco meno che eseguito? È chiaro. Quando domandò il servo, la commedia incominciava, e perchè potesse continuare, Floristano rispose di aver consumato il matrimonio, ed il patrimonio; ma all’Eremita verso la fine risponde di non averlo consumato, perchè la commedia dovea terminare. Tralascisi poi che i personaggi usano in tal commedia quattro idiomi, cioè un latino scolastico, un italiano insipido, il castigliano ed il valenziano; e neppur si metta a conto che l’Eremita cinguetti nel suo barbaro latino con servi e donne, e tutti l’intendono e rispondono a proposito.

Non minori assurdità e incoerenze si rinvengono nella Tinellaria, oltre di trovarvisi l’indicata mescolanza di linguaggi, altri parlando italiano, altri francese, altri portoghese. L’Imenea potrebbe dirsi delle otto la meno {p. 170}spropositata, ma in altro essa non consiste che in una languida filza di scene insipide malcucite, nelle quali si ripetono varie situazioni, si ritraggono i caratteri senza niuna verità, e l’azione si scioglie, non perchè trovisi giunta al segno necessario per isvilupparsi, ma perchè il poeta ha stimato a capriccio di conchiudere, facendo che quel Marchese, il quale senza ragione si opponeva al matrimonio di Febea sua sorella con Imeneo che l’ama, senza ragione ancora poi vi acconsenta, tuttochè mutata non sia o la situazione, o lo stato, o le circostanze de’ personaggi. La Giacinta per consenso de’ nazionali stessi preoccupati, è un dialogo insulso, che a Naarro piacque di chiamar commedia. Simili osservazioni ci apprestano le altre commedie della Propaladia; ma non vogliamo abusare della pazienza de’ leggitori.

Ebbe dunque torto il Nasarre a gloriarsi di tali sciapite commedie come delle migliori della nazione; ed era interesse della gioventù spagnuola, o

{p. 171}che si lasciassero nell’obblio in cui caddero, o che si valutassero per quelle che sono, affinchè non si prendessero per esemplari. Or perchè increbbe al catalano Saverio Lampillas, che uno straniero provvedesse a quest’interesse della gioventù che non merita di essere ingannata? Egli sel saprà.

Ci diede poi il Nasarre una notizia nè vera nè verisimile allorchè scrisse che esse si rappresentarono con indicibile applauso in Roma e in Napoli sotto Leone X. E donde il ricavò egli? Qual prova ne addusse? Una commedia spagnuola rappresentata in Italia avrebbe avuto qualche cosa di particolare da spingere gli eruditi di quel tempo a farne menzione; pur niuno ne fe motto nè in Italia nè nelle Spagne prima del Nasarre morto pochi lustri prima dellà fine del secolo XVIII. Don Nicolas Antonio che parla distesamente del Naarro de Torres, afferma solo che dimorò in Roma in tempo di Leone X, e vi scrisse alcune satire contro i cardinali (e nella Propaladia {p. 172}ancora se ne legge una) e dovè scapparne via e rifuggirsi a Napoli in casa di don Fabrizio Colonna. Or perchè lavorare sì impudentemente d’invenzione per ingannare i compatriotti? Era poi verisimile che farse così triviali languide insipide magramente scritte si tollerassero in Roma, quando in essa e nelle altre più chiare città dell’Italia si rappresentavano tante dotte eleganti ingegnose vivaci commedie dell’Ariosto, del Machiavelli, del Bibiena, del Bentivoglio? Nè anche nel XIV secolo quando rappresentavasi in Italia l’Ezzelino del Mussato si sarebbe sofferta una Serafina o una Soldatesca del Naarro. Fa dunque torto, ripeto, alla veracità ed onestà non meno che all’erudizione di un uomo di lettere, la vana jattanzia aggiunta a questa istoriella mendace e gratuita del Nasarre, cioè che il Naarro insegnò agl’Italiani a scrivere commedie, e che essi poco profitto trassero dalle di lui lezioni. È una rodomontata ed una falsità patente che eccita il riso. Di grazia {p. 173}chi scrivea Trofee, Tinellarie, Imenee, poteva mai, non che insegnare, esser discepolo di buona speranza in Italia, che sin dal XV secolo avea fatta risorgere l’eloquenza e l’erudizione Ateniese e Latina, e poscia illustrò sin da’ primi anni del XVI l’amena letteratura con la Sofonisba, l’Oreste, la Mandragola, il Negromante, la Calandra, il Geloso? Io non voglio omettere la nota I che nel 1789 si appose nel IV volume della Storia mia de’ teatri che appartiene a Carlo Vespasiano a. Egli così la lasciò su questa {p. 174}sbraciata del Nasarre: » Non sarebbe stato forse questo erudito Bibliotecario Matritense indotto dal folle orgoglio nazionale a pronunziar seriamente tali scempiaggini, se avesse riflettuto, che per le continue guerre e inquietudini ch’ebbe la Spagna per lo spazio di quasi otto secoli con gli Arabi {p. 175}conquistatori, l’ignoranza divenne così grande in quella penisola, e tanto si distese che nel 1473, come apparisce dal Concilio, che nel detto anno per ripararvi si tenne dal cardinal Rodrigo da Lenzuoli vicecancelliere di s. Chiesa e legato a latere di Sisto IV a, e come attesta parimente il Marianab, tra’ sacerdoti pochi intendevano il latino, pauci latine scirent, ventri gulae servientes. Avrebbe certamente quel bibliotecario parlato con maggior circospezione, se si fosse anche ricordato di ciò che si narra da tanti scrittori c, cioè che Antonio di Nebrixa nato nell’Andalusia il 1444, dopo aver fatto per poco tempo i suoi studii in Salamanca, non ben soddisfatto passasse in Italia, e fermatosi lungamente nell’università di {p. 176}Bologna, dopo essersi renduto ben istruito non men nelle lingue che nelle scienze, ritornasse alla sua patria, richiamato, come vogliono, dall’arcivescovo di Siviglia Guglielmo Fonseca a cogli acquisti fatti della dottrina italiana, e leggendo per un gran pezzo in Salamanca non ostante l’opposizione degli scolastici che di favorir le novità l’accusarono, inspirò a’ suoi nazionali l’amor delle lettere, onde fu caro al re Cattolico che lo volle perciò in corte per iscrivere la sua storia, e fu dal Cardinal Ximenes impiegato nell’edizione della Bibbia Poliglotta, e di poi alla direzione dell’università di Alcalà di Henares, ove si morì nell’1522, e lasciò molte opere. La stessa cosa si dice che fatto avesse Ario Barbosab nato in Aveiro nel Portogallo, il quale fu discepolo del Poliziano in Firenze, e fecevi gran profitto, e dopo {p. 177}lesse anch’egli in Salamanca per lo spazio di venti anni in compagnia del Nebrissense, e passato in Portogallo fu maestro de’ due principi, e morì decrepito in sua casa nel 1530 con lasciar varie opere. Laonde a questi due dotti uomini dirozzati ed ammaestrati in Italia dee la Spagna tutto l’onore di aver da’ suoi cacciata l’ignoranza in cui erano immersi. Del resto pur troppo vero si scorge in non pochi Spagnuoli ciò che di essi generalmente afferma il Baillet: Si l’on en croyoit ceux du pais, il ne s’en trouveroit point parmi ceux des autres nations qui les auroient surpassès, et fort peu même qui les auroient ègalès, mais il faut considerer cette opinion plutôt comme un veritable sentiment de tendresse pour leurs patrie, que comme un jugement fort sain ou fort sincere. Contro di questa mia nota (aggiunse il Vespasiano) volle scagliarsi l’apologista Lampillasa attribuendola per {p. 178}abbaglio al dotto mio amico il Dottor Napoli-Signorelli. E perchè tanto gl’increbbe la storia? Quel che vi si avanza specialmente dell’ignoranza provata de’ sacerdoti spagnuoli sino al XV secolo, è fondato, come ognun vede, sulle cure presene per distruggerla da tutto il Concilio Matritense e sul testimonio del celebre storico Mariana. Ora il Lampillas ha egli per avventura distrutte queste testimonianze nazionali lampanti, irrefragabili, imparziali? E se non l’ha fatto, a che tante ciarle? A che accozzar un capriccioso fallace raziocinio ed ascriverlo all’autor della nota? Poteva (dice poi il medesimo apologista) nel principio del XVI secolo uno spagnuolo insegnare agl’Italiani a scriver commedie, tuttochè uscisse da un paese barbaro ancora nel XV. Poteva, sì, accordiamolo; è ciò un possibile benchè troppo raro; ma un possibile gioverà mai contro il fatto? Io veggo però un altro possibile incomparabilmente più comune e naturale, cioè che il Nasarre ignorasse o {p. 179}dissimulasse la barbarie della penisola verso il principio del XVI secolo (alla quale non mai si derogherà nè per tre nè per quattro scrittori che altri potesse citare) e spacciasse un fatto passato solo dentro del suo cervello, cioè che ne fosse sbucciato un autore spagnuolo che usando nelle insipide sue commedie un latino barbaro ed un pessimo italiano, calato fosse ad insegnare a scrivere commedie a i maestri de’ Nebrissensi e de’ Barbosi, agl’Italiani, che, come osserva l’autore di questa eccellente storia teatrale, già possedevano le comiche produzioni de’ Trissini, degli Ariosti, de’ Machiavelli, de’ Bentivogli? Fin quì il Vespasiano.

Ma poste da banda le visioni del Nasarrea riconoscansi i primi {p. 180}avanzamenti del teatro spagnuolo dalle fatiche del prelodato Cervantes. Questo letterato infelice rimasto monco o storpiato nella battaglia navale di Lepanto contro i Turchi, che col valore e coll’ingegno non potè trovare tra’ compatriotti possessori delle miniere Americane sufficiente sostentamento; questo rinomato castigliano a’ suoi di negletto schernito e satireggiato da’ nazionalia, {p. 181}oltre alle altre sue opere scritte con grazia ed eleganza, compose intorno a trenta commedie ricevute, al suo dire, con sommo applauso, delle quali altro non si conserva che qualche titolo. Quelle che egli ebbe in maggior pregio, furono da lui nominate nella parte I del Don-Quixote nel cap. 48, e nell’Adjunta al Parnaso, e specialmente la Ingratitud vengada, la Numancia, el Mercader amante, la Enemiga favorable, e più di tutte la Confusa. Cervantes le tenne per buone, e noi dovremmo convenir con lui, a giudicarne da quanto, egli con gran senno ragionò sulle commedie della propria nazione. Ma questo argomento perde ogni vigore al riflettersi ch’egli lodò ancora come eccellenti alcune tragedie, che la posterità, come diremo, ha trovate cattive, non che difettose. Di più egli nel suo prologo enunciò come scritte con arte otto ultime sue commedie pubblicate un anno prima di morire, e pur sono talmente spropositate, che nel 1749, per {p. 182}procurar lo spaccio degli esemplari di esse non venduti, il bibliotecario Nasarre più volte mentovato prese il partito di appiccarvi una lunga dissertazione, in cui inutilmente si affanna per dimostrare che Cervantes le scrisse a bello studio così sciocche per mettere in ridicolo quelle del Vega. Ma le parole del Cervantes hanno tutta l’aria d’ingenuità che manca alla dissertazione, e distruggono sì manifestamente le sofistiche congetture del Nasarre, che io stimo che non mai quell’erudito da buon senno prestò fede egli stesso a quel che si sforzò di persuadere agli altri. Almeno in tentarlo dimostrò il Nasarre nella falsità qualche acutezza ed erudizione. Ma che strana e ridicola giustificazione delle scempiaggini delle otto commedie del Cervantes fu quella che venne in mente all’esgesuita Lampillas? Egli suppose che uno stampatore le avesse cambiate. Egli dovea con ciò supporre che Cervantes, il quale opravvisse un anno alla pubblicazione del libro, {p. 183}avesse veduto e sofferto il cambio a. Le apologie di codesto catalano respirano da per tutto sempre pari buona fede e saviezza.

Cervantes lasciò di scrivere commedie quando cominciò a fiorire Lope de Vega Carpiob, il quale sopravvisse a Cervantes diciannove anni, e morì di anni settantatre nel 1635. L’antica e la moderna Europa non vide un poeta teatrale del Vega più fecondo. I venticinque volumi impressi contengono appena una parte di ciò che {p. 184}scrisse pel teatro. Montalbàn afferma che le commedie furono più di mille ottocento, e che unite à los autos sacramentales, e ad altre picciole farse ascendono a duemila e dugento i componimenti scenici di Lopea, i {p. 185}quali quasi tutti ebbe il piacere di veder {p. 186}rappresentare o di udire che per le Spagne si rappresentavano.

{p. 187}Egli componeva quasi estemporaneamente tutte le sue opere, e specialmente le commedie, essendo solito a scriverne una in due soli giorni. Alla qual cosa conferì appunto quell’essersi sottratto alle regole del verisimile. Ma dotato di molto ingegno, di vasta fantasia e di eloquenza, per mezzo di una versificazione armonica e seducente, e della multiplicità degli eventi e delle cose più che maravigliose, cercò d’impadronirsi de’ cuori, e secondare, com’egli diceva, il gusto del volgo e delle donne, per la cui approvazione trionfava in Ispagna l’anarchia teatrale.

Con tutto ciò il Nasarre volle a gran torto avvilire il merito di Lope. Egli si scatena contro di questo poeta come il primo corruttore del teatro, e la corruzione suppone uno stato precedente di sanità e perfezione. Ma qual {p. 188}era il teatro spagnuolo prima di Lope? Dopo le commediette della figlia del ferrajo e i colloquii pastorali di Lope de Rueda, venne tosto il Naarro di Toledo introduttore di battaglie e duelli, cose aliene dalla poesia comica, le quali dimostrano con evidenza che sull’incominciare i comici si rivolsero ad un nuovo sistema che confondeva i generi. Seguì Cervantes a lavorare sul medesimo, per quel che appare non solo dalle ultime otto commedie che egli produsse, ma da qualche titolo delle prime perdute, come la Destruicion de Numancia, la Batalla Naval, la Jerusalèn, I poeti scenici poi lodati dal medesimo Cervantes tutti scrissero sregolatamente. Lope dunque ebbe ragione di dipingere a’ suoi in tal guisa il teatro patrio:

Hallè que las comedias
Estaban en España en aquel tiempo,
No como sus primeros inventores,
Mas como las trataron muchos barbaros,
{p. 189}
Que enseñaron el vulgo à sus rudezas;
Y asi se inroduxeron de tal modo,
Que quien con arte agora las escribe,
Muore sin fama y galardòn.

A parlar dunque senza preoccupazione egli trovò che altri l’avea preceduto nell’avvezzare il volgo alle stravaganze. Egli il disse in faccia all’Accademia Spagnuola che allora fioriva in Madrida:

{p. 190}
Mandanme, ingenios nobles, flor de España,
Que en esta junta y Academia insigne ecc.

E chi di que’ chiari individui che la componevano potè smentirlo? Trovò dunque il teatro già corrotto sin dall’immediato successore del Rueda; ed essendosi poi la commedia spagnuola sempre attenuta a tal sistema, ben possiamo dire che nacque da semi originariamente pontici e silvestri, la qual cosa non piacque al Lampillas nemico della storia.

I drammi di Lope consistono in commedie, tragicommedie, pastorali, {p. 191}tramezzi ed atti sacramentali, tutti in versi, a riserba della Dorotea già nominata voluminosa novella in dialogo scritta in prosa per leggersi e non per rappresentarsi. Tralle commedie si contano ancora quelle che trasse o dalla Sacra Scrittura, come la Creacion del Mundo y primer culpa del hombre in cui discende sino ai fatti di Caino e alle invenzioni di Tubalcain, ovvero dalle Vite de’ santi, come El Animal Profeta, in cui san Giuliano fugge dalla patria, come fece Edipo, per non ammazzare i genitori, secondo la predizione di una cerva che parla, e che va in una terra lontanissima, ove appunto per errore gli uccide. Nelle commedie dette di spada e cappa egli dipinse bene i costumi, se non che talvolta esagerò oltre i confini naturali per far ridere, come si scorge in alcuni tratti della Dama Melindrosa, Nelle opere che ci lasciò, s’incontrano dodici componimenti col titolo di tragicommedie, le quali punto non differiscono da quelle che chiamò commedie. {p. 192}Altre sei delle sue favole volle denominar tragedie, cioè el Duque de Viseo, Roma abrasada, el Castigo sin venganza, la Bella Aurora, la Sangre inocente, el Marido mas firme. Ma perchè le disse tragedie? In esse, oltre a i soliti difetti circa le unità e lo stile, vedesi la stessa mescolanza di compassione e di scurrilità che regna nelle altre sue favole.

Molti sono i drammi di Lope destinati a celebrare il Mistero sacrosanto dell’Eucaristia con feste teatrali intessute d’ invenzioni allegoriche. Io non so come varii nazionali a voce ed in iscritto poterono di tali feste attribuir l’invenzione al Calderòna, {p. 193}quando non s’ignora che tante Lope ne {p. 194}compose a.

Quanto all’origine di questi Atti sacramentali l’erudito bibliotecario Nasarre vorrebbe trarla da’ canti de’ pellegrini che andavano al sepolcro di san Giacomo in Galizia, de cuya costumbre quedaron las oraciones de ciegos, y los Autos que llaman Sacramentales, ò por mejor decir la interpretacion comica de las Sacradas Escrituras. Ma questo è incominciar dalla morte di Meleagro e dagli elementi senza passare a mostrar come e quando quelle cantilene de’ pellegrini convertite si fossero in poesia teatrale, prendendo indi per oggetto l’Eucaristia.

Potrebbero gli Atti Sacramentali metter capo nelle mascherate e rappresentazioni e farse introdotte nelle chiese spagnuole, come altrove, dalle {p. 195}quali vennero indi escluse da’ Concilii e dagli sforzi de’ pontefici. Ma niuno indizio si ha che nel corso del XV secolo quelle farse spirituali avessero tolto per argomento l’Eucaristia ed il titolo di Atti Sacramentali. Imperciocchè se ciò apparisse, il Nasarre tutto dedito ad avvilire il merito teatrale di Lope e di Calderòn, non avrebbe tralasciato di notarlo.

Io son d’avviso che ne abbiano risvegliata l’idea le mute rappresentazioni delle più solenni festività sacre qual è quella del Corpus Domini. In essa sino all’anno 1772 in Madrid e per la Spagna tutta sono intervenuti nelle processioni non solo sonatori mascherati e danzantes (che nel tempo della mia dimora colà l’hanno sempre accompagnate) ma una figura detta Tarasca, simbolo a quel, che dicevasi, della gentilità o dell’eresia, che seguiva la processione in un carro, e quattro Gigantones figure colossali allusive alle quattro parti della terra, nelle quali si è il gran mistero {p. 196}propagato. Or siccome in tal festività soltanto mostravansi senza parole συνθηματα, i segni allusivi al mistero, per le strade, per le quali passava la processione, così poi per le medesime strade prevalse il costume di render parlanti que’ segni, e di recitarsi los Autos Sacramentales durante l’ottava del Corpus. In fatti l’Antonio nella Biblioteca Ispana moderna parlando di Lope de Vega e degli Autos da lui composti, dice, quos in die Corpus Domini sub dio recitari mos est in Hispania. Ciò io ho potuto rilevare con fondamento, nè altro scrittore nazionale prima di me mi ha sugerito nè cosa più ragionevole nè questo che io ho indicato a. Ma passiamo agli {p. 197}altri drammatici che fiorirono sul finir {p. 198}secolo XVI e sull’incominciar del seguente.

{p. 199}Molti contemporanei del Cervantes {p. 200}e del Vega coltivarono la drammatica senza discostarsi da’ principii dell’ {p. 201}Arte Nuevo, cioè lambiccandosi il cervello in lavori sregolatissimi con istile affettato e capriccioso e sommamente disdicevole al genere scenico. Cervantes nominò con molta lode il dottor Ramòn, forse dopo del Vega il drammatico più fecondo ed oggi il più dimenticato. Esaltò indi le favole artificiose di Miguèl Sanchez commendato anche distintamente da Lope. Loda pure Cervantes la gravità dello stile di Antonio Mira de Mescua andaluzzo di Guadix che compose varii volumi di commedie sotto Filippo III, fralle quali los Carboneros de Francia favola assai bene accolta in teatro. Non si dimenticò Cervantes di Guillèn de Castro valenziano o di origine o di nascita, encomiandolo per la dolcezza dello stile. Le commedie di costui si pubblicarono in Valenza, ma {p. 202}più non si rappresentano, ad eccezione di quella intitolata Mocedades del Cid, le gesta giovanili del Cid, che io vidi di tempo in tempo sulle scene. Probabilmente sarebbe questo scrittore rimasto confuso tralla turba de’ drammatici oscuri senza la felice imitazione del Cid fatta da Pietro Corneille. Egli compose una seconda favola De las Mocedades del Cid, la quale impropriamente portò questo titolo, sì perchè vi s’introduce il Cid già vecchio nè si tratta delle di lui imprese giovanili, sì perchè le azioni di questo componimento si aggirano sulle fraterne contese de’ figliuoli del re Fernando, nelle quali assai accessoriamente anzi ozio samente interviene il Cid. Ottennero anche distinte lodi dal Cervantes l’eloquenza e la dottrina del Tarraga, l’acutezza d’Aguilar, di Antonio Galarza e di Gaspar de Avila scrittore di non poche commedie.

Ma nè da lui nè dal Vega si fece menzione del dotto toledano Giovanni Perez professore di rettorica {p. 203}ammirato da varii letterati Spagnuoli e dal nostro rinomato Andrea Navagero. Il Perez benchè mancato immaturamente di anni trentacinque, avea col nome latinizzato di Petrejo acquistata molta fama pe’ suoi pregevoli versi latini. Quattro commedie Italiane furono da lui tradotte nel medesimo idioma, le quali dopo la di lui morte si pubblicarono da Antonio di lui fratello nel 1574 in Toledo. Il Nasarre che cercava fuori di Lope e Calderòn le glorie drammatiche della propria nazione; ed il Lampillas che faceva pompa di molte commedie per lo più cattive da lui nominate per essergli state sugerite da Madrid; ed altri che ora non vò ripetere, doveano anzi di simili erudite produzioni andare in traccia, e non attendere che uno straniero le disotterrasse. Vediamo ora se gli Spagnuoli ebbero mai vere tragedie senza veruna mescolanza comica.

Non è vero che essi non ne hanno veruna o che le loro tragedie non possono distinguersi dagli altri drammi, {p. 204}come abbracciando l’avviso di m. Du Perron de Castera, avanza l’avvocato Linguet nella prefazione al suo Teatro Spagnuolo. Egli crede ancora che il Vega non ebbe idea della vera tragedia, e pur nel di lui Arte Nuevo si trovano ben distinti i componimenti di Terenzio e di Seneca. Egli afferma parimente di non aver veduto in Madrid rappresentare tragedia alcuna; e dirà vero. Io però in diciotto anni che dimorai in quella corte, ben posso attestare di averne vedute diverse. Ecco per ora le tragedie spagnuole del secolo XVI. Oltre delle latine del portoghese la Cruz, e della Castro del Ferreira già riferite, io ne conto altre dodici di cinque letterati Spagnuoli. Vuolsi avvertire però che fra questi io non pongo quel Vasco Diaz Tanco de Fregenal, che altri leggermente pretese che avesse scritte tragedie prima de’ suoi compatriotti e degl’istessi Italiani. Nasce tosto al nominarlo la curiosità di sapere dove mai si trovino le tragedie di questo Vasco, e se {p. 205}furono impresse ovvero rimasero inedite. Niuno le vide, nè vi è alcuno che affermi di esservi documento che avessero una volta esistito. Il solo Vasco stesso se ne vanta nel suo Giardino dell’anima Cristiana. Dice che nella sua giovanezza compose quarantotto componimenti inediti sacri, storici e morali, e che fra essi erano anche alcune tragedie di Assalone, Ammone, Saule e Gionata. Il carattere di questo Tanco fa sì che senza molto esitare si ripongano tali tragedie nelle biblioteche immaginarie. Gli stessi nazionali attestano che egli adolecia de presumido (avea il morbo della presunzione) e Nicolàs Antonio assicura che i titoli stessi degli opuscoli accennati pieni di novità e di gonfiezza dimostrano la di lui vanitàa. Si {p. 206}sapesse almeno quando nacque questo Tanco? S’ignora affatto. Solo ne sappiamo che viveva in tempi di Carlo Quinto: che nel 1527 scrisse un opuscolo sulla nascita di Filippo II: che nel 1547 pubblicò una traduzione della storia di Paolo Giovio de Turcarum rebus intitolandola capricciosamente Palinodia: e che nel 1552 fe imprimere il riferito suo Giardino. Ad onta di tale incertezza, con cui mal si può intentar lite di anteriorità, e ad onta del disprezzo che il dotto Nicolàs Antonio mostrò per le millanterie di Vasco, vorrebbe Agostino Montiano con quèsto Tanco di Fregenal {p. 207}contrastare agli Italiani l’anteriorità della tragedia; dicendo che la di lui giovanezza poteva essere intorno al 1502 (epoca, come a suo tempo credevasi nella penisola, della prima tragedia degl’Italiani)perchè non vi è specie che ripugni all’esser nato Vasco nel 1500a; ed in questo veramente erroneo raziocinio fu il signor Montiano seguito dal Velazquez e dal compilatore del Parnasso Spagnuolo. Non si avvidero questi eruditi che un può essere in buona logica non mai produce per conseguenza un è. Del resto la storia dimostra quante altre tragedie produssero gl’Italiani assai prima del 1502 in cui si vide quella del Carretto. Nè ciò si dice perchè importi gran fatto l’esser primo, essendo i saggi ben persuasi che vale più di essere ultimo come Euripide o Racine o Metastasio, che anteriore come Senocle o Hardy o Hann Sachs.

{p. 208}Nè anche pongo nel teatro tragico spagnuolo quelle mille tragedie dell’andaluzzo Giovanni Malara, le quali, sull’asserzione di Giovanni de la Cueva che le mentovò in alcuni suoi versi, sognarono i moderni apologisti che esisterono e si rappresentarono verso il 1579a. Il Malara nella sua opera intitolata Philosophia vulgarb più ingenuo del suo lodatore e de’ moderni apologisti, non ci ha conservata memoria che di una sola sua tragedia intitolata Absalon; ed il signor Sedano parimente afferma che il Malara si conosce soltanto per autore de la tragedia de Absalon. Nè anche questa però può dirsi essere stata {p. 209}tragedia vera; perchè il medesimo Cueva confessa che le tragedie del Malara non erano scritte secondo il metodo degli antichi, ma secondo il gusto nazionale.

Dicasi la stessa cosa di poche altre tragedie accennate nel II discorso del Montiano, cioè la Honra de Dido restaurada, la Destruicion de Costantinopla, una Ifigenia, il Martirio di san Lorenzo tragedia latina rappresentata nel 1551 nel convento dell’Escurial, due altre che senza dirne il titolo si nominano dal Salas Barbadillo, e Dido y Eneas de Guillèn de Castro. Esse o non esistono, e se ne ignora perciò la natura, o non sono certamente tragedie rigorose più delle sei del Vega, e delle altre favole eroiche di tanti altri, e delle commedie del Castro pubblicate in Valenza nel 1621a. Ma venghiamo {p. 210}alle dodici non immaginarie tragedie spagnuole.

Due ne scrisse Fernan Perez de Oliva, però in prosa, l’Ecuba triste tradotta da quella di Euripide, e la Venganza de Agamennon tradotta dall’Elettra di Sofocle, le quali non si pubblicarono prima del 1585 in Cordova dal suo nipote Ambrogio Morales. Questo maestro de Oliva prima del 1533 dimorava in Italia; dunque (conchiude il signor Sedano), pudo ser che le componesse intorno al 1520, quando al suo dire uscì in Italia quella del Trissino; dunque (notisi la logica) gli Spagnuoli hanno avute tragedie prima degl’Italiani. Nè anche del Perez si sa l’anno in cui nacque; e solo il medesimo Sedano ne dice col solito pudo ser che nacque forse nel 1497. Ma ciò concedendo ancora il maestro Perez de Oliva con lingua di latte snodava voci indistinte e incerte orme segnava, quando si leggeva in Italia la tragedia del Carretto; e non era uscito dall’età pupillare, {p. 211}quando vi si rappresentava Sofonisba e Rosmunda. L’abate Lampillas vuol mostrare in prima che il Perez non era fanciullo allora, asserendo gratuitamente contro la congettura del medesimo Sedano, che egli potè nascere verso il 1494. Indi trasformando le parole del Giraldi assicura che il Trissino terminò di scrivere la sua tragedia nel 1515; e così anticipando un poco la nascita del Perez, e ritardando un poco quella della tragedia del Vicentino, e supponendo anche che il Perez scrivesse le sue traduzioni in Italia (la qual cosa da niuno si è detta e dal Lampillas non si è provata) si lusinga di rendere contemporanee le favole del Perez alle prime tragedie italiane. Vuole in oltre che l’Ecuba e la Vendetta di Agamennone non debbano chiamarsi traduzioni; ed a ciò altro non replichiamo se non che il signor Andres suo amico e compagno l’ha pure riconosciute per tali, oltre all’averle lo stesso Lampillas nel tomo II del suo Saggio chiamate {p. 212}ancora traduzioni. Tali in fatti esse sono, sebbene non fatte sempre da verbo a verbo, perchè il Perez tratto tratto tronca, raccorcia, contorce e peggiora gli originali, siccome trovasi provato nel mio Discorso Storico-critico articolo V. Ha però preteso il citato signor Andres che il Perez in esse talora migliora gli originali nel dialogo. Io riconosco nelle traduzioni del Perez purezza, eleganza e naturalezza; ma con pace del signor Andres io trovo non poche volte peggiorati gli originali nell’una e nell’altra traduzione, e quasi sempre illanguiditi e stravolti con pensieri falsi. Non ne ripeto qui i passi che ne ho addotti in esempio nel mentovato mio Discorso alla pag. 39 e alle seguenti. Volle pure il signor Andres asserire che il primo che abbia dato qualche saggio di un teatro de’ Greci, è stato il Perez. Ma se non si’ sa quando egli scrisse quelle traduzioni, qual fondamento ha l’asserzione del signor Andres? Il pudo ser del Sedano e la congettura del Lampillas.

{p. 213}Il p. Girolamo Bermudez di Galizia domenicano e catedratico di teologia in Salamanca, il quale ancor vivea nel 1589, pubblicò in Madrid nel 1577 sotto il nome di Antonio de Siloa due tragedie sulla morte d’Inès de Castro intitolandole Nise lastimosa e Nise laureada. L’autore le chiamò prime tragedie spagnuole; ma se i Portoghesi debbono aversi in conto di Spagnuoli, la Castro del Ferreira fu scritta almeno venti o trenta anni prima. S’impresse, è vero, più tardi; ma il Bermudez senza dubbio l’ebbe nelle mani, giacchè l’ha copiata nella sua Nise lastimosa. Amendue le tragedie di questo Galiziano mancano di azione e d’intrigo: abbondano amendue di lunghissimi discorsi episodici intarsiati di fregi lirici: sono amendue estremamente languide, specialmente nello scioglimento: amendue sono verseggiate con ottave, ridondiglie e sonetti, con faleucii, saffici e gliconici castigliani, e con ogni sorte di versi rimati. Ma la prima, in cui ebbe il {p. 214}Bermudez una scorta giudiziosa, è più interessante; e la seconda, oltre a questi difetti comuni, ne ha moltissimi altri particolari, perchè caminò tutto solo.

L’azione della prima Nise si rappresenta parte in Lisbona e parte in Coimbra come la Castro del Portoghese, sulla quale servilmente in ogni scena è condotta la Nise castigliana. Così comincia, così prosegue, così termina, copiandosene la traccia, le situazioni, i pensieri, l’espressioni. La Ianguidezza de’ primi atti (dal Ferreira evitata in parte colla passione posta ne’ discorsi d’Inès) si fa sentire assai più nella Nise per la Iunghezza di essi che raffredda le situazioni. È però lodevole la seconda scena dell’atto III ove si narra il sogno di Nise copiato con più esattezza dalla Castro; ed il signor Sedano che la lodò, non ne seppe la sorgente. Migliore ancora è la seconda del IV, che nel Ferreira a me sembra veramente tragica e ricca di espressioni nobili, naturali, patetiche e {p. 215}convenienti al carattere d’Inès; ed il Bermudez attenendosi all’originale partecipa di questi pregi. Tenero specialmente è il congedo ch’ella prende da’ figliuolini nell’andare a morire. Il Portoghese avea detto così:

Abrazayme, meus filhos, abrazayme.
Despedivos dos peitos que mamastes.
Este sôs foram sempre: ja vos deixam.
Ay ja vos desampara esta may vossa.
Que acharà vosso pay quando viere?
Acharvosà tem sòs sem vossa may.
Nào verà quien buscaba: verà cheas
As casas et paredes de meu sangue….
Ah vejote morrer, senhor, por mim.
Meu senhor, ja que eu mouro, vive tu.

{p. 216}Il Galiziano esprime lo stesso in castigliano:

Mis angelicos, abrazadme, voyme.
Ay que ya vuestra madre os desampara.
Amores, despedios de estos pechos
Que aveis mamado con dulzura tanta.
Ay quando venga vuestro padre triste
Que harà de si, que serà de vosotros?
Hallaros ha huerfanitos y señeros.
No verà à quien buscaba: verà Ilenas
Las casas y paredes de mi sangre…
Ah veote morir, mi bien, por mi.
Mi bien, ya que yo muero, vive tua.

{p. 217}In somma il Bermudez ha seguito il {p. 218}Portoghese come ombra il corpo, tutto copiandone, traducendone, fin anche i difetti e gli ornamenti soverchio lirici e i pensieri soverchio ricercati del principe addolorato per l’inaspettato ammazzamento della sua diletta sposa.

La Nise laureada consiste nel vano sollievo che sperò il principe don {p. 219}Pietro asceso al trono facendo coronare il cadavere della sua Castro, e prendendo aspra vendetta degli uccisori di lei. Ma questo componimento poco merita il nome di tragedia. Ancor più della prima manca di azione e di nodo, eccede assai più in discorsi prolissi, intempestivi, strani; abbonda in iscene nojose, e come afferma l’istesso Sedano, diffuse e spropositate. Il carattere del re don Pietro nobile e grandemente innamorato, in questa seconda favola apparisce fiero, violento, atroce, basso ancora ed indecente. Le persone che vi s’introducono del custode, del portinajo, del carnefice, e i plebei motteggi di quest’ultimo contro de’ rei, e lo sputar loro in faccia, sono cose tutte disdicevoli in una tragedia, e mostrano abbastanza che il Bermudez non sapeva lavorar senza maestro. La scena terza dell’atto V che rappresenta il supplicio degli uccisori di Nise eseguito alla presenza del re e degli spettatori, è affatto ridicola ed impertinente, nè degna del {p. 220}genere tragico è l’azione del re che gli percuote colla frusta. Strappa il boja il cuore per le spalle al primo, giusta il comando del re, e mostrandolo dice:

Tal quiero yo el carnero, aunque no como
El corazon del ave que si aturdo.

Cava al secondo il cuore dal petto, e dice:

Allà Pluton harà con tal conejo
Èsta noche la fiesta à sus amigos.

Finalmente non vi si guarda l’unità del tempo. L’ambasciadore del re di Castiglia tratta nella scena seconda dell’atto II il cambio di tre Castigliani rifuggiti in Portogallo per gli uccisori d’Inès che si trovano nella Castiglia, domandandogli

todos tres en cambio justo de aquellos enemigos que allà tienes.

Queste parole que allà tienes, indicano che que’ traditori dimorano tuttavia in Castiglia, or come possono nel medesimo dì trovarsi nell’atto IV {p. 221}in Lisbona, esser chiusi in carcere e tormentati, e nell’atto V giustiziati? In somma ha questa favola tali e tanti difetti, che mi parve di un altro autore, ancor quando ignorava che la prima fosse una semplice copia o traduzione, malgrado dell’uniformità che si scorge nello stile e nella versificazione di entrambe. Contuttociò il signor Linguet avrebbe ben potuto ravvisare almeno nella prima (fosse copia ovvero originale) una tragedia spagnuola, e la sorgente della Inès di m. La Mothe.

Tralle commedie del sivigliano Giovanni de la Cueva impresse nel 1588 trovansi quattro altre tragedie, i Sette Infanti di Lara, la Morte di Ajace, la Morte di Virginia e di Appio Claudio, il Principe Tiranno. Noi le riconosciamo per tragedie, ma ci rapportiamo su di esse alla censura del nazionale Montiano. Nella prima, ei dice, si trasgrediscono le regole delle unità: nella seconda si pecca contro il verisimile: nella terza le azioni {p. 222}principali sono due: nell’ultima è fantastico e fuor di natura il carattere del protagonista. Ciò vuol dire che sono tragedie, ma difettose. Nega questi difetti il Lampillas, e strepita contro del Montiano e del Signorelli; ma le di lui repliche si trovano abbastanza combattute e confutate nell’articolo VI del mio Discorso Storico-critico. Quì dirò soltanto che il Lampillas in panto di poesia drammatica si è accreditato di poco intelligente non solo colle sue critiche, ma colla scelta che fece di alcune commedie assai deboli e difettose, mentre voleva far menzione delle migliori della nazione; là dove l’avviso del Montiano a suo confronto ha troppo gran peso, tra perchè ne’ suoi Discorsi questo spagnuolo mostrò saviezza, intelligenza e sobrietà, traperchè come autore di due tragedie ben condotte, in simili esami è giudice competente.

Di un’ altra tragedia intitolata los Amantes composta da Andrès Rey de Artieda e impressa in Valenza nel {p. 223}1581, favellano Nicolàs Antonio e l’ab. Eximeno; ma i più intelligenti nazionali la conoscono soltanto per tradizione, nè sono io stato più felice nel ricercarla.

Il buon poeta Luperzio Leonardo de Argensola nato nel 1565, essendo nell’età di venti anni compose tre tragedie l’Isabella, la Filli e l’Alessandra, le quali si rappresentarono con gran concorso e vantaggio de’ commedianti. Sono state sepolte sino a’ nostri giorni, e la Filli si occulta ancora; ma le altre due si pubblicarono nel VI tomo del Parnasso Spagnuolo, in cui se ne dà un giudizio imparziale. Lo stile è fluido e armonioso, benchè non sempre proprio per la poesia drammatica; ma il piano, i caratteri, l’economia, tutt’altro in fine abbonda di grandi e molti difetti; nè so in che mai Cervantes avesse fondati i suoi esagerati encomii. Reca stupore che uno scrittore che nel ragionar sulle composizioni drammatiche dimostrò gusto e senno, le avesse riguardate {p. 224}come modelli da proporsi ad esempio. Reca stupore ancor maggiore che il Lampillas ad onta della saggia censura del Sedano non avesse compresi gl’inescusabili difetti dell’Isabella, anzi sfidando le fischiate e gli scherni dell’Europa intera l’avesse posta in confronto colla Zaira; cosa piacevole e comica per ogni riguardo, non altrimenti che se si mettessero le pitture cinesi a fronte delle tavole del Correggio. La moltiplicità delle azioni, tutte le persone principali e subalterne innammorate, le bassezze sconvenevoli alla tragica gravità, la strage di dieci persone che rendono la favola atroce, dura, violenta, le inesattezze circa le unità, la varietà di tanti metri rimati, le lunghe ricercate comparazioni liriche rigottate dalla poesia scenica, una macchina inutile allo scioglimento, cioè lo spirito d’Isabella che appare unicamente per congedare l’uditorio con un sonetto; tutto ciò forma un cumulo di difetti tanto manifesti nell’Isabella, che bisogna essere molto preoccupato {p. 225}per non avvedersene; ed il Lampillas non se ne avvide, ed a me convenne additarglieli nel citato Discorso Storico-critico.

Ma se tanti e sì grandi sono i difetti dell’Isabella, quelli dell’Alessandra vincongli di numero e di qualità. Molte sono le azioni: di undici interlocutori ne muojono nove: bassi e indecenti, sono i caratteri di Acoreo e di Alessandra: le atrocità si espongono alla vista dell’uditorio: le membra di Luperzio, il cuore, il sangue si presentano ad Alessandra, che è obbligata a lavarsi in quel sangue: i nomi stessi de’ personaggi sono in competenti: Luperzio, Remolo, Ostilio, Fabio non convengono ad Egiziani: lo stile s’inalza fuor di tempo in bocca del Nunzio, e si deprime in bocca di Alessandra e di Acoreo ecc. ecc.

Da questo racconto giustificato dalla ragione, da’ fatti e dall’autorità di eruditi nazionali, si ricava che gli Spagnuoli nel XVI secolo più di ogni altro popolo si appressarono agl’Italiani. {p. 226}E se non ebbero nella commedia Ariosti, Machiavelli, Bentivogli, Dovizii, Cari ed Oddi, e nella tragedia Trissini, Rucellai, Giraldi, Alamanni, Tassi e Manfredi, possono pregiarsi di aver prodotti nel Vega, nel Castro, nel Sanchez, nel Mira de Mescua più di un Shakespear, e nel Cueva, nel Ferreira, nel Perez, e nello stesso Bermudez tuttochè convinto di vergognoso plagio, alcuni pochi tragici non indegni degli sguardi del pubblico.

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LIBRO VI.

Storia drammatica del secolo XVII. §

Il secolo XVII non racchiude il periodo meno interessante della Storia teatrale. L’Italia che dopo aver fatto risorgere il teatro degli antichi e dati altri nuovi felici passi in tal carriera, avea rivolti a più ardua impresa i magnanimi suoi sforzi, e la Spagna che invaghita delle novità Lopensi introdotte nelle scene attese a promuoverle senza correggerle, lasciarono alla Francia il bel vanto d’incaminare a maggior perfezione la poesia drammatica, la quale nè mai più vaga e più robusta e più delicata talora non comparve, nè mai più oltre per l’Europa non distese il suo dominio. Vediamo intanto in qual guisa la coltivarono gl’Italiani.

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CAPO I.

Teatro Tragico Italiano. §

L’Italia che sulle tracce di Alcide cerco sempre l’onore nel superar le difficoltà, poichè ebbe colti. i primi e più sublimi allori nell’erudizione e nell’eloquenza oratoria e poetica e nel formarsi un teatro regolare e ingegnoso, aspirò a più sudata gloria, e contemplando il mirabile edificio della natura volle investigarne il magistero cessando di fantasticare. Essa possedeva Tassi, Ariosti, Trissini, Raffaelli, Buonarroti, Correggi, Tiziani e Palladii: essa volle ancora i suoi novelli Apollonii, Pappi, Taleti, Anassimandri e Democriti, e n’ebbe copiosa splendidissima schiera nel Porta, nel Galilei, nel Fontana, nel Borrelli, nel Cavalieri, nel Torricelli, nel Viviani, nel Cassini, nel Castelli, nel Monforte, e in tanti altri insigni membri delle {p. 229}Accademie de’ Segreti, de’ Lincei, del Cimento, degl’Investiganti, de’ Fisiocritici, degl’Inquieti, della Società scientifica Rossanese. Non dobbiamo dunque meravigliarci che l’Italia tutta intenta a depurar la scienza dal gergo de’ Peripatetici e degli Arabi per mezzo del calcolo, dell’osservazione e dell’esperienza, consacrando il fiore degl’ingegni ai severi studii, prestasse minor numero di buoni coltivatori alle amene lettere ed al teatro.

Tuttavolta troviamo varie tragedie degne di leggersi con utile e diletto, Non era ne’ primi lustri estinto il gusto e lo spirito di verità nell’espressione e di semplicità nella favola acquistato coll’imitazione de’ Greci. Non aveano ancora i Francesi, non che altro, la Sofonisba del Mairet e la Medea del Corneille, quando i nostri produssero più di cinquanta tragedie ricche di molti pregi.

L’Ingegnieri, il Persio, il Dolce, il Morone, il Campeggi, il Porta diedero alla luce ne’ primi anni del secolo {p. 230}dieci buone tragedie se non esimie - Angelo Ingegnieri autore di un Discorso sulla Poesia Rappresentativa pieno di ottimi avvisi, compose verso la fine del XVI la sua Tomiri che s’impresse nel 1607, regolare nella condotta e non ignobile nello stile, sebbene non esente da qualche ornamento troppo lirico. Non seguì la storia, ma verso la fine introdusse un pentimento di Tomiri per ricavarne lo scopo morale che si prefisse. Orazio Persio di Matera compose il Pompeo Magno tragedia lodevole per la scelta dell’argomento, per la regolarità della condotta ed in certo modo per lo stile, la quale s’impresse in Napoli nel 1603. Agostino Dolce fece imprimere nel 1605 la sua Almida da me non veduta. Cataldo Morone da Taranto che poi si disse frate Bonaventura Morone tra’ minori Osservanti Riformati di san Francesco, pubblicò in Bergamo nel 1611 il Mortorio di Cristo con quattro tramezzi, tragedia interessante e regolare che eccita la compassione {p. 231}corrispondente alla grandezza dell’argomento. Gli applausi che ne riscosse, gl’ispirarono il disegno di proseguire nella carriera tragica, e diede alla luce due altre tragedie di cristiano argomento, la Giustina in versi sciolti impressa in Milano nel 1617, e l’Irene in Napoli nel 1618 dedicata alla città di Lecce. Le colmò di lodi il padre Bianchi nell’opera su i Difetti del Teatro contandole tra le più felici tragedie cristiane. Il conte Ridolfo Campeggi pubblicò nel 1614 il Tancredi tragedia applaudita. Il cavaliere Giambatista della Porta diede alla luce il suo Ulisse nel 1614, nella quale dee lodarsi la scelta del protagonista, la naturalezza, la regolarità ed il patetico, sebbene non possa paragonarsi nell’eloquenza dello stile e nell’armonia della versificazione col Torrismondo e colla Semiramide. Il suo Giorgio però s’impresse nel 1611, e l’approvazione si ottenne nel 1610; anzi l’autore nel dedicarla a Ferrante Rovito dice di averla composta alquanti anni addietro. Contiene {p. 232}la miracolosa vittoria riportata da san Giorgio di un mostro che affliggeva la città di Silena. L’autor sagace e pieno della greca lettura vi seppe innestare l’imitazione dell’Ifigenia in Aulide. Nel re Sileno si raffigura Agamennone, Ifigenia in Alcinoe sua figliuola, Clitennestra nella regina Deiopeia, Achille nell’Africano re Mammolino. Il primo incontro della figliuola col re nell’atto Il è quale avviene nella tragedia greca tra Ifigenia ed Agamennone; gli stessi equivoci sentimenti ed il medesimo cordoglio raffrenato all’apparenza in Sileno; le stesse naturali ed innocenti dimande sulle sue nozze in Alcinoe. È tenero nell’atto III l’abboccamento di Sileno colla moglie e colla figliuola che già sanno la loro sventura, e l’autore ha posto in bocca di Alcinoe le parole d’Ifigenia che procura intenerire il padre. Piena di movimento e di patetici colori è la scena di Alcinoe co’ genitori e con Mammolino, quando ella n’è divisa per andare ad essere esposta al mostro.

{p. 233}Ansaldo Ceva genovese scrittore di più opere, e traduttore de’ Caratteri di Teofrasto, morto di anni 58 nel 1623, compose tre tragedie, la Silandra, l’Alcippo, e le Gemelle Capuane. Lo stile è facile, ricco di concetti giusti, puro e lontano dalle arditezze, che nell’avvanzarsi del secolo si posero in moda. La Silandra dedicata a Marco Antonio Doria fu la prima a prodursi, ma non si ammise, come le altre due, nella raccolta del Teatro Italiano. L’Alcippo breve componimento e pregevole per varii passi espressi con nobiltà, meritò di esservi inserito pel carattere del protagonista ottimo per la tragedia, mentre Alcippo illustre e virtuoso spartano accusato d’intelligenza col re de’ Persi da un malvagio che falsifica il di lui carattere, dà motivo a varie situazioni interessanti e patetiche tra lui, e la sua tenera consorte Damocrita, e alle di lui magnanime querele che palesano l’uomo grande, che soffre, e si lagna con moderazione. Forse in tal {p. 234}tragedia non sembrerà abbastanza verisimile, che Gelendro nel giorno stesso che cagiona la ruina della famiglia di Alcippo, Gelendro che nell’insidiare altra volta l’onestà di Damocrita dovè tornare indietro atterrito dalla gagliarda ripulsa che incontrò nel di lei coraggio, sia poi sì credulo, che si saccia adescare dall’inverisimile speranza di esser soddisfatto, e poche ore dopo della condanna di Alcippo vada alla di lui casa, dove rimane da Damocrita avvelenato. Non si vede ne’ componimenti del Ceba il coro fisso alla greca, ma quattro canzonette di trocaici dimetri da cantarsi da un coro per tramezzi degli atti. Or vediamo se l’altra sua tragedia delle Gemelle Capuane meritava di entrare in una scelta di buone tragedie.

Perchè questo componimento ebbe assai felice riuscita sulle scene, e su comendato da varii letterati, e si vide impresso nella, collezione tragica di Scipione Maffei, mi venne amichevolmente rimproverato l’averlo omesso {p. 235}nell’edizione di questa storia in un sol volume. Nel giudizio che ne soggiungo vedrà il pubblico perchè me ne astenni, e deciderà se feci senno. Benchè lo stile non possa dirsi difettoso per arditezze o arguzie, essendo anzi elegante, vivace, naturale; è non pertanto a mio avviso lontano dal carattere tragico, nè credo che il rimanente, cioè azione, caratteri, interessi, alla tragica maestà più si convenga.

Trasilla e Pirindra gemelle Capuane con promessa di matrimonio ingannate da Annibale: Calavio padre, che per ben corteggiare il suo ospite le spinge a trattenerlo con ogni libertà: il generale Cartaginese che le schernisce abusando della loro credulità o facilità; mi sembrano tutti caratteri mediocri, privati, e proprii piuttosto per la scena cotuica. La favela nulla ha di grande che congiunga all’azione i pubblici interessi; nulla che commuova, e metta in contrasto le passioni eroiche, o che inspiri elevatezza di sentimenti; nulla in somma di tragico se non la {p. 236}morte delle gemelle con cui si scioglie.

Nell’atto I Trasilla racconta alla damigella Metrisca i proprii amori con Annibale, di cui credesi sposa. Dice che si è piegata a compiacerlo, è ad ammetterlo furtivamente nella sua stanza per ambizione di vedersi moglie di sì gran guerriere. Dice anche che egli è accinto a partire, ed ella a seguirlo in abito militare. Ecco un intrigo ed una fuga comica.

Nell’atto II Pirindra alla sua volta viene a far sapere al pubblico, parlando a Gelasga altra damigella, la gran voglia che avea di maritarsi. Ella le dice:

Il padre mio ben sai che a maritarmi
Pensa assai poco…
È poichè il padre mio non mi marita,
Maritar me per me mi son disposta.

Gel.

Gran voglia hai di marito, a quel che sento.

Se vuoi pensar, le risponde, ch’io son {p. 237}sul fior degli anni, che vivo fralle delizie e gli agi, fralle vivande e i vini, fralle feste e i balli, fra gli ozii e i suoni,

Tu non ti ammirerai, se maritarmi
Disponga e cerchi ancor con tanta brama.

Ella seguita sempre sul medesimo gusto, e poi narra il concertato con Annibale, la promessa fattale di matrimonio, i loro congressi notturni, e lo stabilimento di partirsi con lui in abito militare. Secondo intrigo e fuga comica.

Nell’atto III Annibale che pur viene fuori col suo confidente, racconta le sue amorose avventure con Trasilla e Pirindra, confessando di amarle ugualmente. Narrata la festa datagli da Trasilla, aggiugne:

Presi baldanza, e la richiesi, e strinsi,
Ella mi udì senza turbarsi in volto,
Ma nulla consenti, perchè di sposo
{p. 238}
Disse che avea bisogno, e non di amante.
Io promisi sposarla.

Maar.

h che facesti!

Ann.

E fui con essa e quella notte ed altre.

Narra anche la festa di Pirindra, la sua dichiarazione, le prime ripugnanze e la resa:

Non consentì però di compiacermi,
Se non come consorte e come sposo.

Maar.

E tu le promettesti?

Ann.

Io le promisi.

Maar.

Ma con che mente? oimè!

Ann.

Con quella mente
Che avea promessa all’altra; intender puoi.

In tutto ciò chi non ravvisa il procedere e l’esprimersi di un don Giovanni Tenorio, o di un Uffizialetto a quartiere d’inverno, che passa da questa a quella bellezza, come l’ape va di fiore in fiore? Parla indi Annibale della promessa fatta ad entrambe di {p. 239}condurle seco, aggiungendo:

Ma l’attener sarà che dall’opposta
Parte, per altre scale e per altr’uscio
Io mi condurrò fuor di queste mura.

Se questa chiamata tragedia piacque tanto, come dicesi, in teatro, io credo che lo spettatore avrà più volte riso pel carattere disinvolto di Annibale che ama ed abbandona con pari facilità militare. Non è meno comica la seconda scena del medesimo atto di molte donne Capuane co’ soldati Cartaginesi.

Nell’atto IV le scene e i monologhi di Trafilla e Pirindra sono al solito uniformi. Ma comica soprammodo, è la scena terza, in cui le sorelle cercano scalzarsi a vicenda, gareggiano e si dileggiano, ciascuna stimandosi la prediletta. Vedasene questo squarcio piacevole. Io so (dice Trasilla) di avere in mano il cor di Annibale che tu credi essere ne’ tuoi lacci. Io so più di te, dice l’altra,


240
Mentre so ch’Anniballe in me rivolto
Non degna pur di rimirarti in viso.

Tra.

Come non degna? Ei parla meco ognora
E ride e scherza, e non mi guarda in viso?

Pir.

Io so quel che vo’ dir; la cortesia
Lo stringe teco, e meco il lega amore.

Tra.

Oh come sciocca sei, se tu tel credi.

Pir.

Oh come stolta tu, se no ’l comprendi.

Tra.

Le pugna a mano a man, se tu non taci,
Mi serviran per lingua e per favella.

Pir.

E l’unghie, se tu segui a provocarmi,
Ti suppliran per motti e per risposte.

Con queste pugna e queste unghie non si avvilirebbe anche una commedia {p. 239}sino al genere più triviale e prossimo alla farsa? Lo spettatore avrà certamente desiderato in quel punto l’arrivo di Annibale, ed egli in fatti sopravviene, e le donne vogliono che dichiari qual di esse egli ami. Il generale senza scomporsi risponde:

Io rendo ad ambedue l’amor che debbo.
Io pareggiate v’ho con le parole,
E senza alcuno indugio intenderete,
Che vi pareggerò co’ fatti ancora.

Sventuratamente questi quattro atti comici apportano uno scioglimento, se non tragico, funesto. Le gemelle avvedute dell’inganno prendono dalla mano del loro fratello un veleno, e lo tracannano a gara, indi ridottesi alle loro stanze si animano a combattere fra loro per togliersi que’ momenti di vita che loro rimangono. La singolarità de’ cori è anche notabile in questo dramma. Quattro canzonette di metro anacreontico si cantano alternativamente e con nojosa uniformità da due {p. 240}partiti di Capuani, favorevole l’uno a’ Romani, l’altro a’ Cartaginesi. Or le cose qui narrate annunziano un componimento tragico degno di figurare insieme col Torrismondo e colla Semiramide che accompagnano le Gemelle Capuane nel tomo II del Teatro Italiano?

Seguirono alle nominate prime tragedie del secolo quelle del Gambaruti, del Finella, del Pignatelli, del Luzzago, del Bracciolini, del Manzini, del Zoppio, del Chiabrera, del Gherardelli e dello Scamacca. Tiberio Gambaruti d’Alessandria morto nel 1623 pubblicò la Regina Teano. Filippo Finella filosofo napolitano produsse nel 1617 la Cesonia e nel 1627 la Giudea distrutta da Vespasiano e Tito. Ettore Pignatelli cavaliere napolitano compose co’ materiali del greco romanzo di Eliodoro Cariclea e Teagene la sua tragedia la Carichia che uscì alla luce delle stampe in Napoli nel 1627. Noi ne dicemmo alcuna cosa anche nel tomo V delle Vicende della Coltura delle {p. 241}Sicilie. Il pistojese Francesco Bracciolini compose la Pentesilea, l’Evandro, l’Arpalice: il bolognese Batista Manzini diede alla luce la Flerida gelosa mentovata dal Ghilini. Melchiorre Zoppio anche bolognese fondatore dell’Accademia de’ Gelati morto nel 1634, il quale mostrò troppo amore per le arguzie, ne compose cinque, Medea, Admeto, i Perigli della Regina Creusa, il Re Meandro e Giuliano; ma il suo Diogene accusato che il Ghilini credè tragedia, è commedia scritta in versi di cinque, di sette e di nove sillabe, e s’impresse nel 1598. Il Pindaro di Savona Gabriele Chiabrera pubblicò in Genova la sua tragedia l’Erminia nel 1622, nella quale non rimane a veruno de’ precedenti inferiore per regolarità, per economia, per maneggio di affetti, sebbene manifesti di non aver nascendo sortiti talenti per divenire un gran tragico, come nato era per essere un gran poeta lirico. Filippo Gherardelli scrisse una tragedia intitolata Costantino pubblicata in {p. 242}Roma nel 1653. L’autore la difese contro la censura di Agostino Favoriti, ed in tal lavoro contrasse una febbre che gli tolse la vita nell’età di trenta anni. Ortenzio Scamacca fecondo gesuita siciliano dal 1632 al 1651 pubblicò quaranta tragedie sacre, morali ed imitate dalle greche. Esse meritarono lodi dagli eruditi per la regolarità e perchè ben sostengono il decoro tragico, benchè possa notarvisi molta languidezza nell’azione ed il dialogo soverchio prolisso.

Intorno a questo periodo uscirono alla luce delle stampe tre buone tragedie latine del gesuita Bernardino Stefonio, il Crispo, la Flavia, la Santa Sinforosa. Benchè in esse lo stile alcuna volta appalesi troppo studio, pur vi si osservano molti pregi tragici, oltre alla costante regolarità serbata ne’ drammi tutti prodotti dentro il recinto delle Alpi. Santa Sinforosa fu composta prima delle altre, e si rappresentò nel Collegio Romano. Gian Vittorio Rossi conosciuto col nome di Giano {p. 243}Nicio Eritreo, a preghiere dello Stefonio, prese il carico di apprendere in tre di la parte di Sinforosa che conteneva intorno a settecento senarii, e riuscì così bene in rappresentarla, che ne acquistò e conservò per molto tem- il nome di Sinforosa. Le altre due furono nel medesimo Collegio con somma magnificenza e pari applauso rappresentate a. Il Crispo è di tutte la più interessante. Fausta madrigna ed innamorata di Crispo è un ritratto dell’antica Fedra, Crispo dell’Ippolito, e Costantino di Teseo. Soggiacque questa tragedia a varie censure; ma il padre Gallucci ne prese la difesa con certi Discorsi impressi nel 1633 intitolati Rinnovazione dell’antica Tragedia e difesa del Crispo.

Una delle tragedie più interessanti di questo secolo è il Solimano del conte Prospero Bonarelli gentiluomo anconitano, la quale s’impresse nel 1620, e {p. 244}fu dedicata a Cosimo II gran duca di Toscana. Non ha coro di veruna sorte, ed è notabile per certo portamento moderno, per una grandiosità che invita a leggere, e per un lodevole artificio di occultar ogni studio di seguir gli antichi. Lo stile in generale è nobile naturale e vivace, benchè non manchi di varii tratti lirici lontani dal vero e dal naturale sulla morte del valoroso Mustafà condannato da Solimano re de’ Turchi suo padre per gli artificii di Rusteno e della Regina, la quale con tale ammazzamento si lusinga di salvare il proprio figlio Selino e serbarlo alt Impero. Sventuratamente però questo caro suo Selino si nasconde appunto in Mustafà da lei abborrito; per la qual cosa ella disperata si avvelena. I costumi e i raggiri degli ambiziosi cortigiani vi si dipingono egregiamente colla spoglia delle maniere turche che loro presta novità e vivacità. Il carattere magnanimo di Mustafà si rende ammirabile e caro, ed ha tutti i pregi dell’ottimo personaggio {p. 245}tragico. Lo stesso suo amore con Despina contribuisce ad accrescere la compassione della catastrofe a differenza della galanteria che inlanguidisce tante tragedie francesi. Solimano avido di gloria e geloso della propria, autorità e dell’impero, nel cui animo facilmente allignano i sospetti, dipigne al naturale il genio de i despoti Ottomani che non risparmiano il sangue più caro ad ogni minima ombra. Egregiamente la compassione e la perturbazione aumenta verso il fine essendo riconosciuto l’ucciso Mustafà per Selino, specialmente dalla madre la quale ne cagiona la morte per volerlo salvare. Con tutto ciò varii colpi di teatro formano gli episodii di questa favola, che agli amatori delle situazioni appassionate e di una energica semplicità saranno meno accetti. I dialoghi di Alvante e Despina furono disapprovati anche dal conte Pietro da Calepioa. Essi increscono {p. 246}molto più a cagione del luogo in cui si tengono, cioè vicino alla dimora di Solimano, dove essi debbono certamente ascoltare i segreti propositi de’ congiurati colla Regina, la cui partenza attendono per ripigliare il loro ragionamento, quasi che non potessero altrove proseguirlo. Lo scioglimento prodotto dal racconto di due donne del cambio in culla di Selino si bramerebbe condotto con più verisimiglianza. Dovrebbero queste donne introdursi più a proposito, e comparire meno inaspettamente. Ma queste osservazioni non l’escluderanno dal meritato luogo tralle buone tragedie italiane, e dal piacere in teatro e nella lettura anche a’ giorni nostri.

Si trova nell’atto I qualche imitazione di Torquato Tasso. Il vanto che si dà Rusteno, il peggiore tra gli scellerati, e la risposta di Acmat rassomigliano alla contesa di Tisaferne con Adrasto in presenza di Armida. Nell’atto II lo stesso ambizioso Rusteno al vedere, destinato a Mustafà il comando {p. 247}dell’esercito che egli crede solo a se dovuto, prende il linguaggio di Gernando, che aspira a succedere a Dudone e mormora di Rinaldo. Degna di notarsi è la maniera onde i perfidi calunniatori sogliono rendere sospetta fin anche la virtù manifesta non potendo negarla. Ecco l’arte onde la Regina desta le gelosie di Solimano:

Ah Sire, e tu non vedi
Quell’animo sì altero
Di Mustafà? Non scorgi
Quel valor sì sublime,
Quella virtù, siasi poi finta o vera,
Che d’ogni intorno splende?…
Or dimmi non son questi
Chiari segni e ragioni ond’egli creda
Già meritar lo’mpero, e lo procuri?

Solimano per tali insinuazioni, e per una falsa lettera dell’indegno Rusteno, crede traditore il figlio, e a se lo chiama. Il principe vuole ubbidire, e vi si oppongono amorevolmente Ormusse e {p. 248}Adrasto sapendo che in corte si trami la di lui morte. Mustafà sempre grande resiste alle istanze de’ suoi fedeli che l’esortano a schivare le insidie. La sesta scena dell’atto III del loro nobile contrasto è piena di vigore e di moto, mal grado di qualche espressione lirica. Mustafà dice:

Fugga chi ha il cuor nocente, a me conviene
Sostener di fortuna il duro incontro.

Replica Adrastro:

Signor, com’è viltà fuggir la morte,
Quando è d’uopo il morir, così fuggire
Vanamente la vita è fasto ed onta.

Non cede il magnanimo, e que’ fidi piegano le ginocchia a lui davanti perchè non vada dal re; e vogliono salutarlo imperadore; egli si oppone con nobile costanza. La morte poi dell’appassionata Despina, del generoso Mustafà, della disperata Regina, sono rappresentate {p. 249}rappresentate con tutte le circostanze atte a commuovere, e poche volte l’espressione travia e si scosta dalla gravità naturale che si richiede a tal genere di poesia.

Uscì in Padova l’anno 1657 un’altra tragedia interessante, l’Aristodemo del conte Carlo de’ Dottori padovano, che ne ricavò i principali caratteri e il fondamento istorico dall’opera di Pausaniaa. Aristodemo greco di Messenia può dirsi un nuovo Agamennone, e Merope sua figliuola una novella Ifigenia. Non quella di Euripide che da prima teme la morte, e poi l’affronta coraggiosa; ma bensì una Ifigenia sempre grande e costante nell’amore del pubblico bene, che si fa ammirare in tutte le vicende della sua sorte: vanto che sinora si è dato solo al celebre Racine da chi non seppe che l’aveva prima meritato il Dottori. Il carattere di Aristodemo ottimo per {p. 250}conseguire il fine della tragedia esprime un eroe che non lascia di ricordarsi di esser padre, senza aver bisogno come Agamennone di ricorrere all’astuzia della lettera per salvar la figliuola, allorchè si pente di averla tirata al campo colle finte nozze. Policaro, è un nuovo Achille, ma sempre innamorato e non mai ozioso sino alla morte; e quel che più importa, il di lui amore per Merope lungi dall’indebolire l’interesse della favola, accresce la compassione nello scioglimento. L’azione poi sì avvolge con verisimilitudine, e con tragico terrore si disviluppa. Fin anco i cantici del coro che vi si trovano introdotti, leggonsi con diletto. Nello stile cerca l’autore in ogni incontro con troppa superstiziosa cura la grandezza, la nobiltà, l’eleganza, e la ritrova alcune volte, ma cadendo spesso nell’affettazione di Seneca, per volere essere sempre grave sempre ricercato. Le comparazioni sono giuste, ma troppo lunghe, troppo frequenti, troppo circostanziate pel {p. 251}genero drammatico. Anche la spezzatura’ della versificazione se non fosse quasi continua, contribuirebbe molto a variare il numero e l’armonia. Ma vediamo succintamente ciocchè in ogni atto di questa tragedia c’incresca o ci sembri pregevole.

Nell’atto I si racconta che dall’urna in cui si sono posti i nomi di Merope di Aristodemo e di Arena di Licisco, secondo l’oracolo che richiede il sangue di una vergine matura della famiglia degli Epitidi, è uscito quello di Arena che assicura la vita di Merope con indicibile piacere di Amfia sua madre e di Policare suo amante e sposo. Aristodemo ne ode la notizia col contegno di un eroe che sebbene sensibile alla sventura di Arena, ha pure il pubblico bene nel cuore, e mostra che se mancasse Arena (giacchè Licisco protesta non essere del suo sangue) non ricuserebbe di dar per vittima la figlia. Una imitazione delle preghiere dell’Ercole in Eta di Seneca vedesi in quella di Amfia nella {p. 252}seconda scena, Rotin gli astri innocenti, che possono dirsi nobili ed eleganti; ma la gioventù schiverà sempre queste liriche attillature. Nella scena sesta della Nutrice con Merope si svolge il nobile carattere di questa fanciulla non senza vantaggio dell’azione.

Nell’atto II alla notizia che sopravviene della fuga di Arena, Aristodemo si manifesta più grande di Agamennone. Non è egli un Re de’ Re dell’armata Greca che per non perderne il comando condiscende per ambizione al sacrificio della figliuola. Aristodemo è un uomo grande che mal grado di tutto l’affetto paterno consacra la figlia alla salvezza della Messenia. Ecco come in lui l’eroismo trionfa dell’affetto:

Sento rapirmi, e non so dove ; e pure
Pur son rapito! assai maggior dell’uso
L’animo ferve intumidito, e volge
Pensieri eccelsi. Non ardisce ancora
Confessarli a se stesso. Ah non ha vinto
{p. 253}Sparta; espugnar bisogna
Il cor l’Aristodemo.

Una Clitennestra che non si diffonde in una lunga aringa, ma una madre penetrata dall’orribile immagine del sacrifizio della figliuola vedesi in Amfia dopo la risoluzione presa da Aristodemo.

Nell’atto III poichè il re ha volontariamente offerta a’ Messenii la figlia in cambio della fuggitiva Arena, inorridisce Policare che l’ode, freme, si adira, minaccia, vuol morir per lei; ma patetico è il congedo estremo che da lui prende Merope:

Io vado e nulla meco
Porterò di più nobile e più degno
Della mia fe: tu le memorie mie
Pietoso accogli, e vivi.

Desta tutta la compassione così appassionata dipartita, e più commoverebbe senza le studiate antitesi de’ versi seguenti. Policare n’è trafitto come da una spada; protesta con impeto che morirà prima di lei; la consiglia a fuggire, ella rigetta la proposta, e {p. 254}come amante ed eroina cerca frenarne i trasporti. Ella è condotta a morire, e sente, benchè senza bassezza, quel natural movimento che scuote l’uomo all’idea di finire. Forse quì si desidererebbe veder la pugna dell’eroismo e dell’umanità con pennellate più decisive, più tragiche, e spogliate di quell’aria di ragionamento che rende soverchio tranquilla l’azione.

Nell’atto IV tragica è la situazione di Aristodemo che sente dirsi da Policare:

Merope è mia donna già molto e madre
Sarà fra poco.

Il sacrificio non può seguire; tutti sperano in questa pietosa fola, che però produce funestissimi effetti. Punto Aristodemo nella gloria nell’ambizione e nell’onore è agitato da pensieri atroci:

O sventurato Aristodemo! e invano
Generoso alla patria, a te crudele!
Volli perder la figlia,
{p. 257}
Ma perderla innocente, e rea l’acquisto…
Per l’attonito sen scorre un tumulto
Non più sentito, ed alle pigre mani
Insegna un non so che di violento.
Sì, lo farò, sia pena, o sia misfatto,
L’approveranno o fuggiran gli Dei,
Che approvino, che fuggano, sia fatto.

Quest’energia questo tragico trasporto tratto destramente dal fondo del cuore umano, desta l’utile terrore della tragedia, e non poteva esser negletto da chi cerca le bellezze tragiche ne’ componimenti de’ trapassati.

Nell’atto V la nutrice racconta a Tirsi l’uccisione di Merope per mano del padre, e così conchiude:

Un certo che sol mormorò fremendo,
E trafisse là vergine innocente,
Che generata avea. L’anima bella
{p. 258}
Osservato l’inditto
Silenzio non si dolse;
Con un gemito sol rispose all’empio
Fremer del padre, e i moribondi lumi
In lui rivolti, ed osservato quale
Il sacerdote inaspettato fosse,
Colla tenera man coprissi il volto
Per non vederlo, e giacque.

E quì ci sembra assai lodevole la condotta del poeta. Merope nobile e magnanima che incontrava da prima la morte senza il comune spavento, sarebbe morta ammirata più che compianta; Merope trafitta per mano del padre stesso ingannato, trafitta senza colpa come rea, assapora tutta l’amarezza della non meritata morte, come dinota l’atto di covrirsi il volto per non vedere il suo uccisore mentre spira, e chiama a se l’interesse della favola. Porta poi Aristodemo all’eccesso la vendetta del proprio onore, e sembra più proprio della tragedia greca che della moderna quell’aprire il {p. 259}seno verginale di Merope, onde si fa palese l’innocenza di lei. La morte di Arena che anche si scopre figlia di Aristodemo, riduce all’ultimo punto la disperazione di tal padre che va furioso a trafiggersi dove uccise l’innocente Merope.

L’eruditissimo Apostolo Zeno preferisce lo stile del Solimano a quello dell’Aristodemo, e certo in questo non iscarseggiano le inezie liriche, come le chiamò il conte di Calepio, benchè di molte se ne veggano anche nella tragedia del Bonarelli. Non dee omettersi però, che per l’economia della favola la vittoria par che rimanga al Dottori. Nel Solimano la compassione si sveglia verso il fine, e nell’Aristodemo comincia dal primo atto, e va gradatamente crescendo con episodii opportuni, e degni del coturno. L’interesse nella favola del Bonarelli è principalmente per Mustafà, e non per Solimano; in quella del Dottori, quantunque in parte sia per Merope, in tutto il dramma è sempre per {p. 260}Aristodemo. La riconoscenza nel Solimano avviene per l’arrivo improvviso di Aidina e Alicola indipendentemente da’ primi fatti; là dove nell’Aristodemo la venuta dì Licisco ha tutta la dipendenza dalle cose riferite sin dall’atto primo.

Il cardinale Sforza Pallavicino noto per la Storia del Concilio di Trento, compose essendo ancor gesuita una sacra tragedia della morte del santo re spagnuolo Ermenegildo eseguita per ordine dell’Ariano Leovigildo suo padre. S’impresse la prima volta nel 1644, e poi di nuovo nel 1665 con un discorso in sua difesa, nel quale anno si recitò nel Seminario Romano. Non manca nè di nobiltà, nè di regolarità, nè porta la taccia degli eccessi di stile, ne’ quali trascorse a suo tempo l’amena letteratura; ma col disborso l’autore tentò invano insegnare che nelle tragedie, sul di lui esempio, dovessero usarsi i versi rimati.

Il conte Fulvio Testi, nato in Ferrara l’anno 1593, e trasportato a {p. 261}Modena nel 1598, indi morto nella cittadella di quella città a’ 28 di agosto del 1646, il quale, ad onta del suo stile per lo più manierato, manifestò ingegno grande nelle sue poesie, e specialmente in alcune pregevoli canzoni Oraziane, lasciò anche qualche componimento rappresentativo, cioè l’Isola d’Alcina, e l’Arsinda non terminata. L’Isola d’Alcina composta nel 1626a è da comendarsi per la semplicità dell’azione che va al suo fine senza avvolgimenti; ma lo stile è totalmente lirico, il metro quasi perpetuamente rimato, e le canzonette delle ninfe lontane dalla tragica gravità. Il secolo ammollito e stanco dal piagnere colla severa tragedia giva desiderando i vezzi della musica in ogni spettacolo. Ariosto introdotto a fare il prologo manifesta l’indole di quell’età. Calzi, egli dice, il coturno Atene, e {p. 262}si compiaccia delle cene di Atreo; indi soggiugne:

Ma d’ogni sangue immaculate e pure
Sian l’Italiche scene, e bastin solo
Per destare in altrui pietade e duolo
D’amante cor le non mortal sciagure.

L’industrioso giovine scorgerà in tal componimento di quando in quando qualche passo energico. Tal mi sembra il discorso del finto Atlante nell’atto III, Dunque con forte destra; tale la confusione di Rugiero In qual antro mi celo; ma non è tale una specie di molle elegia recitata da Alcina coll’intercalare, Se Rugiero è partito, Alcina è mortaa.

{p. 263}Forse dal fine lieto che preparava all’Arsinda e dalla mescolanza de’ personaggi mediocri fra gli eroici, si mosse il Testi a chiamarla dramma tragicomico. In fatti improprii per la tragedia sono i propositi che tengono Eurilla, Silvio e Rosalba; improprio è lo stile lirico in quasi tutto il dramma e singolarmente nelle scene di Ateste ed Arsinda ove il poeta trascorre senza freno alla maniera spagnuola. Ma l’azione si avvolge tragicamente e vi si trova più d’un passo notabile e vigoroso. Grande è Zenobia nella prima scena, nè il carattere è smentito dallo stile. Grande ancora si mostra ne’ suoi lamenti, quando seco stessa trattenendosi si palesa più sensibile alle disgrazie benchè non meno magnanima. Vigoroso e senza lirico belletto è il linguaggio di Arsinda nella seconda scena dell’atto III. Pieno di grandezza nella sesta è il dialogo di Arsinda ed Aureliano. Quindi a ragione disse Pier Jacopo Martelli de i talenti {p. 264}drammatici e dello stile del Testi: Se l’autore avesse ornato un pò meno, e si fosse alquanto astenuto da certe figure solamente a lirico convenienti, avrebbe dato che fare a’ Franzesi; ma usando un libero verso senza rima pensò che languito avria senza frase; per sollevarlo dalla viltà lo sviò dalla naturalezza, e diede in nojosa lunghezza, fiaccando il vigor degli affetti per altro vivissimi.

Si vogliono mentovare le seguenti tragedie tralle regolari di questo secolo, le quali possono apprestare alla scorta gioventù qualche squarcio energico e sublime in mezzo a molte liriche affettazioni. La Florinda di Giambatista Andreini figliuolo della famosa attrice Isabella, del quale favella Pietro Baile, e il di lui Adamo recitato in Milano, onde dicesi di avere il celebre Milton tratta l’idea di comporre il Paradiso perduto: il Radamisto di Antonio Bruno nato in Manduria nel regno di Napoli censore più volte e {p. 265}segretario degli Umoristi di Romaa: Ildegarde di monsignor Niccolò Lepori pubblicata nel XVII secolo e reimpressa nel 1704 in Viterbo: la Belisa tragedia di lieto fine del cavaliere napolitano Antonio Muscettola data alla luce in Genova nel 1664 ed altamente comendata col nome di Oldauro Scioppio da Angelico Aprosio uscita nell’anno stesso in Lovano; e la di lui Rosminda impressa in Napoli nel 1659 ed anche nella parte II delle sue poesie; ed il Radamisto tragedia destinata alla musica impressa nella parte III delle stesse poesie dell’edizione del Raillard del 1691: e finalmente le tragedie di Bartolommeo Tortoletti veronese mentovate dal Maffei e dal Crescimbeni. Noi ci affrettiamo a chiudere la non numerosa schiera de’ tragici del XVII secolo col cardinal Delfino e col barone Caraccio.

Fiorirono entrambi nel colmo della {p. 266}corruttela del gusto, entrambi se ne preservarono intatti, resistendo al vortice che tutti rapiva gl’ingegni, entrambi possono considerarsi come i precursori della buona tragedia riprodotta, che seppero astenersi da lirici ornamenti de’ tragici del secolo XVI e dalle arditezze de’ letterati del XVII. Finì di vivere il cardinale Giovanni Delfino nel 1699, ed il barone di Corano Antonio Caraccio di Nardò nel 1702. Scrisse il primo nella sua gioventù quattro tragedie, la Cleopatra, la Lucrezia, il Medoro, il Creso, che si rappresentarono con generale applauso, e specialmente la prima, e s’impressero in Utrecht nel 1730, ed in Padova nel 1733 più correttamente. Tutti gli eruditi che hanno gusto, tengono per buone le tragedie di questo porporato. Il Gravina le comendò. Il cardinal Delfino (dice il conte Pietro di Calepio con tutta verità)diede principio all’abbandonamento degli scherzi recando alla tragedia della maestà sì con le sentenze che con la maniera di esporle. {p. 267}Osservisi (per dar qualche esempio della maestà e della proprietà dello stile) il magnanimo carattere di Cleopatra. A Dite, ella dice nell’atto III,

Anderò dall’Egitto, e non da Roma.
Nè voglio in vita impallidir per colpa.
Non vedrà alcuno mai
Questo mio capo alle corone avvezzo
Ad inchinarsi ad altri che alla morte.

Nobili sono i suoi sentimenti allorchè determina di morire, supponendo, che Augusto col pretesto di nozze voglia esporla in Roma al rossor del trionfo. Questa tragedia dovrebbe collocarsi tralle più eccellenti italiane e straniere, se all’arte che si osserva nella condotta dell’azione, alla sobria eleganza e aggiustatezza delle sentenze, e alla ben sostenuta grandezza del carattere dell’Egizia Regina, si accoppiasse più energia e calore negli affetti, espressioni {p. 268}meno studiate in certi incontri, e più vivacità nella favola.

Posteriore di alquanti anni alle tragedie del Delfino fu il Corradino del lodato Caraccio, essendosi pubblicato la prima volta in Roma nel 1694, cioè quattro anni dopo che ebbe dato fuori il suo poema l’Impero vendicato che egli credeva men difficile impresa, che il comporre una vera tragediaa. Egli seppe rendere teatrale e interessante la violenta morte su di un palco data al legittimo padrone del reame di Napoli e di Sicilia, con fare, che l’Angioino Carlo I tra Federigo duca di Austria, e Corradino duca di Svevia e re di Napoli suoi prigionieri, ignorasse,

Chi Corradino siasi, e chi il Cugino,

È ben rancida la gara generosa di due amici di morir l’un per l’altro, e il cambiamento del nome per ingannare {p. 269}le ricerche del tiranno. Sofocle introdusse la gara di Crisotemi colla sorella nell’Antigone, Euripide tra Pilade ed Oreste col proposto cambiamento di nomi nell’Ifigenia in Tauride imitata indi dal Rucellai nell’Oreste, nell’Ariosto Rugiero generosamente prende il nome e le armi dell’amico Leone per esporsi al furore di Bradamante, Olinto nella Gerusalemme del gran Torquato vuol comparir colpevole del furto confessato da Sofronia per morire in di lei vece, il Porta nel suo Moro adoperò ingegnosamente l’artifizio, e l’eroismo narrato dall’Ariosto nell’avventura di Rugiero e Leone, nella Filli di Sciro Tirsi e Filli gareggiano come Crisotemi e Antigone per farsi punire, e salvar l’amante. Ma dopo di questi io non conosco se non il Caraccio che abbia saputo co’ vecchi materiali del contrasto, e cambiamento di nomi di due amici inalzare un nuovo elegante edificio. Ma con qual arte? L’accenna egli forse in una mezza scena puerilmente, e senza cavarne {p. 270}frutto per l’azione, come farebbe qualche povero mendicante, che scarabocchia sempre senza dipinger mai? Il Caraccio secondando l’antica idea della bella contesa di Corradino e Federigo fa nascere una serie di colpi di teatro e di situazioni che tirano l’attenzione. Corradino si ritira a scrivere l’ultimo addio alla Madre; Carlo manda a chiamarlo; Federigo crede che debba esser menato a morte, e si fa condurre in di lui vece. Dichiara poi di non esser egli Corradino tosto che intende che il re vuol farlo suo genero. Carlo prende questa varietà come ostinazione del nemico a tenersi occulto, se ne sdegna, lo rimanda alla prigione e ne risolve la morte. Federigo ignora la mutazione del re, e quando Corradino è chiamato dal custode per la funesta esecuzione, lo lascia uscire, credendo che vada a nozze. L’errore di questo tenero amico aumenta il patetico dell’estremo congedo che prende da lui Corradino. In tal guisa lavorano i buoni artefici; essi prendono gli {p. 271}altrui pensieri per sementi e con nuova cura ne fanno germogliare una nuova pianta. In questa guisa fece l’immortale Metastasio quando dietro alle orme singolarmente dell’Ariosto rinnovò tali gare e cangiamenti di nomi nell’Olimpiade e nel Rugiero. Ma sono molti oggi, non dico i Metastasii, ma i Caracci che hanno uguaglianza e bellezza di stile, armonia di versificazione, giudizio e fecondità di fantasia? Singolarmente vuolsi attendere alla sobrietà e gravità dello stile del Caraccio tanto più degno di encomii quanto meno si attenderebbe da uno scrittore del XVII secolo. Egli nell’indicato Impero vendicato poema di 40 canti seppe reggersi sulle ali sulle tracce dello stile dell’Ariosto. Nel Corradino segui quello del Torrismondo di Torquato. Ed in poemi si lunghi non mai traviò. Un saggio se ne veda nella scena quarta dell’atto I, dove l’autore calcando le orme di Alvida rileva i terrori notturni della Regina. Può vedersi ancora la sobrietà e nobiltà dello stile del {p. 272}Caraccio affatto lontano da i difetti del secolo in cui visse, nella scena terza dell’atto III, in cui Corradino saputa la deliberazione di Carlo di farlo morire parla a Federigo. Il leggitore vi noterà il patetico non meno che la purezza e sobrietà dello stile. Mentre dunque gran parte dell’Europa adulterato il gusto teneva dietro alle stranezze di Lope de Vega, e di Giambatista Marini e di Daniele Gasparo di Lohenstein, il Caraccio ed il Delfino con pochi altri scrittori del loro tempo si considerano dal Gravina e dal Crescimbeni e da altri celebri letterati come i primi ristoratori del buongusto in Italia.

Sarebbe non pertanto a desiderare che il Caraccio non avesse deturpato quest’importante argomento con un intrigo immaginario amoroso, che minora l’odiosità per l’Angioino in più di un punto dell’azione. Corradino giovinetto figlio di eroi di re d’imperatori, legittimo signore di Napoli, ucciso su di un palco come un reo volgare {p. 273}per ordine dell’usurpatore del suo regno, è un personaggio tragico che nella storia stessa commuove ed invita a piangere; or che non farebbe in mano di un ottimo tragico? Perdonisi al Caraccio l’averlo involto in un amore intempestivo in tale argomento; perchè in fine egli seppe con arte conservare gran parte del patetico del fatto lagrimevole, ed avea stil puro e nota sublime. Ma non si conceda che a’ pessimi verseggiatori, ad ingegni volgari, a’ nemici delle Muse e delle Grazie l’avvilir con un amor comico il più tragico avvenimento della storia del Regno di Napoli.

{p. 274}

CAPO II.

Pastorali Italiane del XVII secolo. §

Le pastorali uscite ne’ primi anni del secolo si avvicinano alle precedenti tanto ne’ pregi di semplicità e regolarità di azione di eleganza e di purezza di elocuzione, quanto in qualche difetto di languidezza e di stile dì soverchio lirico ed ornato. Non è però che non se ne fossero prodotte alcune degne di mentovarsi fralle buone. Se non giunse veruna a pareggiar l’Aminta ( cui niuna de’ due secoli può tener dietro ) o a superare il Pastor fido; almeno per consenso de i dotti frutto pregevole del secolo XVII fu la Filli di Sciro che occupa il terzo luogo onorevole.

Prima però dí essa sí produssero il Sogno e la Pastorella Regia di Giambatista Guicciardi impresse nel primo e secondo anno di esso; la Dichiorgia, {p. 275}ovvero sia contrasto dell’amore e dello sdegno dell’aquilano Pompeo Interverio pubblicata in Vicenza nel 1604; il Rapimento di Corilla di Francesco Vinta uscita nel 1605; il Filarmindo del conte Ridolfo Campeggi.

Alessandro Calderoni diede alla luce l’Esiglio amoroso nell’anno 1607, in cui gli accademici Intrepidi fecero imprimere in Ferrara la mentovata Filli di Sciro dedicandola al VI duca di Urbino Francesco Maria Feltrio della Rovere. L’autore Guidubaldo de’ Bonarelli (fratello dell’autore del Solimano) morì d’anni quarantacinque l’anno stesso in cui i lodati Accademici la fecero solennemente rappresentare in Ferrara con un prologo della Notte composto dal cavalier Marini. Un’altra rappresentazione se ne fece in Sassuolo con prologo del conte Fulvio Testi. Ne uscirono per L’Italia ed oltramonti molte edizioni e traduzioni francesi, ed inglesi. Le opere che riscuotono gli applausi dell’Europa e degli uomini di gusto e di buon senno, {p. 276}eccitano alle censure la vanità e l’invidia. Chi morde, chi impallidisce all’udirle lodare, chi si scaglia in pubblico o in segreto contro di esse; ma queste superiori alle bassezze della timida malignità e dell’arrogante ignoranza poggiano in alto e s’incamminano all’immortalità. Si censurò vivamente la Filli, ma le censure sparvero, e la Filli gode una lunga fama ad onta di alquanti difetti dello stile e della moda già passata delle Pastorali. Forse la critica più sobria attaccò il doppio amore di Celia per la rarità del caso, poco atto essendo un possibile raro o troppo metafisico a persuadere e chiamare l’attenzione. Lo spettatore ad ogni finta particolarità corre di volo col pensiero sulle cose reali, e non trovandovi l’originale dell’immagine enunciata, rimane alla prima sospeso, incerto, non persuaso; e se avviene che a misura che l’azione avanza, vada crescendo la distanza del finto dal vero, passa alla indifferenza, indi alla noja e talora al disprezzo. {p. 277}Anche circa lo stile la giusta critica non è sempre contenta della Filli, perchè oltre al raffinamento, diciam così, originario delle pastorali, si veggono in essa molti falsi brillanti ed alquante metafore ardite alla maniera Marinesca e Lopense.

Non pertanto il Bonarelli compensa con varie bellezze sì la scelta di quel possibile straordinario che i difetti dello stile, e tali bellezze la preserveranno dalla totale dimenticanza. Le curiose avventure di Filli e Tirsi educati fra’ Turchi allontanano dalla favola il languore che suole accompagnare la maggior parte delle pastorali ripiene di fredde uniformi elegie senz’anima e senza sangue. Vuolsi però notare che gli accidenti di Celia tirano verso di lei l’interesse della favola più di quello che vien concesso ad un episodio. Il lettore s’interessa per essa sin dalla scena terza dell’atto I, quando la finta Clori gentilmente si lagna della freddezza di lei:

Sdegni ch’io ti riveggia?
{p. 278}
Deh che nuovi portenti?
Sul mio primo apparire alle tue case
Tu mi accogliesti appena
Con un cotal sorriso,
A cui non rispondea per gli occhi il core.
Poscia nell’abbracciarmi
Colle braccia cadenti
Non mi stringesti al seno, e dall’estreme
Delle gelate labbra
Parve cader, non iscoccare, il bacio.
Indi con fioca voce
Non so se pur dicesti,
Ben venga Clori.
Io non ti udii già dir come solevi,
Cloride vita mia.
Poi ti se’ data a gir d’intorno errando
Torbida e lagrimosa.
Io ti seguo, e tu fuggi:
Io ti parlo, e tu taci:
Io ti miro, e tu piangi:
{p. 279}
Sì m’odii forse? o ingrata ecc.

A queste delicate espressioni sugerite da una grande intelligenza del cuore umano, Celia è spinta a palesare le proprie avventure col Centauro e co’ due pastori; e de’ suoi strani amori e del veleno da lei preso si riempie la maggior parte de’ primi quattro atti. I suoi casi chiamano l’attenzione in modo che non pajono accessorii. Pure in una parte del IV e nel V intero torna l’interesse ad essere tutto per Filli. Sin dal principio dell’atto II desta curiosità il ben colorito amor fanciullesco di costei e del suo Tirsi in Tracia, e nel racconto che se ne fa, niun belletto, niuna arditezza di figure si scorge, ma bensì una verità di espressione che diletta e invita a leggere. Un gran movimento riceve l’azione principale dalla riconoscenza di Tirsi, e ne aumenta la vivacità, il trasporto di Filli nel trovarlo infedele per le di lui medesimo parole. Il disperato dolore della Ninfa si spiega nella prima scena dell’atto IV con energia e felicità {p. 280}senza veruna affettazione di stile. Ella così conchiude:

Per me non v’è conforto
Per te non v’è tormento,
Che qual tu pur ti se’ perfido e crudo,
E forza, oimè! ch’io t’ami;
Io t’amo, e se per altro
Non t’è caro il mio amor, caro ti sia
Perchè il mio amor sarà la morte mia.
O Tirsi, o Tirsi ingrato,
Filli che per te nacque,
Filli che per te visse,
Filli per te si muore.

I due segni d’oro mandati da Filli ridotta all’estremo al suo Tirsi infedele, perturbano sommamente l’azione, che viene nobilitata nel V atto col pericolo della vita di Tirsi, il quale avendo gettati via que’ cerchi dov’era l’immagine del Sultano, per una legge è divenuto reo di morte. Egli per disperazione nella quinta scena si accusa del fatto, e Filli per salvarlo se ne accusa {p. 281}ancora, rinovando così L’affettuosa contesa di Olinto e Sofronia. Lo scioglimento avviene senza violenza per la volontà del Sultano spiegata in note egizie in quel cerchio medesimo che ha servito alla riconoscenza di Tirsi e Filli. In conseguenza ne avvengono le nozze di questi amanti e quelle di Celia con Aminta, e la felicità di Scio liberata dal tributo crudele solito a riscuotersi da’ Traci.

Leggonsi nelle opere del Chiabrera tre pastorali, la Meganira, la Gelopea, l’Alcippo meritevoli dell’attenzione degl’intelligenti imparziali. Appartiene la prima al secondo lustro del secolo, ed in essa, oltre all’esser piaciuto all’autore di rimare con frequenza, non si vede il calore richiesto nelle sceniche poesie; ma ben si nota la semplicità dell’azione condotta coll’usata regolarità italica ed espressa colla grazia naturale di questo leggiadro poeta. Invita a leggere l’episodio di Jante ed Alcasto dell’atto I, in cui si spiega l’origine della festa di Arcadia: curioso {p. 282}è quello dell’atto III degli amori di Logisto colla Maga che gli donò l’arco incantato: patetico l’equivoco preso da Alcippo nel IV atto, pensando di aver trafitta la sua Meganira nel provar l’arco.

La Gelopea scritta in versi endecasillabi e settenarii liberi s’impresse in Venezia nel 1607, e colle opere dell’autore nel 1610. Si vede in questa più artificio nel piano, viluppo più teatrale, caratteri più varii, passioni più vivaci, locuzione ricca di molte grazie naturali e conveniente alle persone imitate. L’azione che si finge accaduta nel Premontorio luogo amenissimo del borgo di San Pietro di Arena nella Riviera di Genova, si aggira sull’amore di un pastorello per Gelopea turbato dalla gelosia per una menzogna, serenato dal disinganno, e felicitato dal possesso della pastorella amata. Vaga nell’atto I è la descrizione fatta dall’innamorato Filebo delle bellezze di Gelopea, e de i di lei graziosi trastulli col merlo imitati da quelli {p. 283}vaghissimi col passero di Catullo. Si macchina nell’atto II a danni de’ due amanti per separargli suscitando in ciascuno torbidi sospetti di gelosia. Ad Alcanta si assegna la cura di tirar Gelopea al fenile di Alfeo per accertarsi che Filebo dee trovarvisi con altra ninfa. Nerino malvagio povero e ad un bisogno bacchettone, sveglia in Filebo lo stesso sospetto sulla fede di Gelopea, e l’invita a scorgerne l’infedeltà nel medesimo fenile. Pregevole nell’atto III è la scena in cui Telaira sorella di Filebo vuol renderlo avveduto della inverisimiglianza del racconto fattoli da Nerino. Il loro dialogo è così acconcio che il lettore rimane pago d’ogni proposta e considera che posto egli nelle medesime circostanze non avrebbe altramente detto o replicato; ciò che forma il carattere dell’ottimo dialogo. Telaira stessa parla con Gelopea nell’atto V, e si scioglie l’equivoco, conoscendo gli amanti che l’uno non era andato al fenile di Alfeo se non in traccia dell’altro. {p. 284}Comprendono di essere stati aggirati, ricuperano la tranquillità, e si confermano nel proposito di sposarsi come il padre di Gelopea condiscenda alle nozze. É ben leggiadra questa poesia; e non so altra pastorale di oltramonti che potesse senza manifesto svantaggio sostenere il confronto della Gelopea.

L’Alcippo impressa in Venezia nel 1615 gareggia per la semplicità colle stesse greche favole, e pure impegna a meraviglia chi legge ed ascolta. Alcippo per amore di Clori si trasforma in ninfa, e col nome di Megilla se la rende amica se non amante con quello di Alcippo. Una legge condanna a morire sommerso nell’Erimanto chiunque ardisca insidiare l’onestà di quelle rigide seguaci di Diana; ed Alcippo scoperto dee soggiacere a questa pena. Tirsi il giudice più zelante per l’osservanza della legge, si scopre esser e il padre di Alcippo ignoto a se stesso. Montano obbliga Alcippo a parlare in sua difesa; egli con candidezza manifesta l’innocente suo disegno di {p. 285}acquistar la benevolenza di lei per poi scoprirsi ed ottenerla in consorte. Commuove il suo semplice appassionato racconto; tutti intercedono per lui, ed ottiene il perdono e la sua bella Clori. I caratteri sono ben sostenuti, e quello singolarmente della finta Megilla ha una nobiltà che incanta. Tutto poi nella favola è vero, tenero, patetico, e senza languidezza veruna. Sei pur bella, o natura, quando i pedanti non ti rassettano!

Altre pastorali potrebbero mentovarsi, nelle quali non si vede tutta la corruzione del secolo, se voglia mirarsene con indulgenza qualche languidezza ed ornamento lirico. Tra esse può registrarsi la Finta Fiammetta uscita nel 1610 composta da Francesco Contarini che un’altra ne avea prodotta nel 1595. Una Nuova Amarilli pubblicò il Gambaruti mentovata dal Ghilini.. Ogni lode riscuote la Tancia graziosa e semplice commedia rusticale di Michelangelo Buonarroti il giovane pubblicata ne’ primi lustri del secolo {p. 286}anche per gl’intermedii accomodati all’argomento villesco. Questi equivaler possono ai cori Aristofaneschi, ed erano formati da uccellatori, mietitori. e pescatori. Giulio Cesare Cortese compose nel dialetto napoletano la Rosa favola boschereccia pubblicata nel 1621. Viene questa favola mentovata dal Fontanini, ed esaltata da Gian Vincenzo Gravina nel libro secondo della Ragion Poetica. Se ne fecero quattro edizioni sino al 1648, e comparve in Napoli nel 1666 nell’edizione quinta di Napoli con tutte le altre opere del Cortese. De’ suoi pregi e di qualche difetto dello stile può vedersi il V volume delle nostre Vicende della Coltura delle Sicilie. Filippo Finella anche in Napoli produsse nel 1625 e nel 1628 la Penelopea tragicommedia pastorale, e nel 1626 la Cintia. Domenico Basile fece una traduzione napoletana del Pastor fido impressa nel 1628. Nel medesimo anno si pubblicò la boschereccia detta marittima intitolata Dardo fatale da Giambatista Braganzano, il {p. 287}quale diede alla luce nel 1630 il Vendicato Sdegno favola pescatoria, e nel 1637 le Varie fortune boschereccia. Tre altre pescatorie di questo secolo furono l’Aci di Scipione Manzano impressa in Venezia nel 1600, l’Amaranta del Villifranchi del 1610, e la Dori d’Isabella Coreglia lucchese stampata in Napoli nel 1634. Il messinese Scipione Errico compose una pastorale graziosa l’Armonia d’Amore impressa due volte in Messina e la terza in Roma nel 1655. La rende pregevole l’ingegnosa semplicità dello stile senza arditezze, e l’ameno soggetto di una festa cinquennale, in cui si gareggia col canto per acquistare una bella Ninfa. Io non conosco pastorale veruna de’ secoli XVI e XVII che più di questa abbia acconciamente dato luogo a diversi squarci musicali, ed a tante arie e strofe anacreontiche non cantate soltanto dal Coro in fine degli atti, ma in mezzo di essi da’ personaggi e soprattutto nell’atto V.

Si registrano nel Catalogo della {p. 288}Biblioteca Imperiali due pastorali di un caprajo improvvisatore, il Siringo favola cacciatoria impressa in Siena nel 1636, ed il Negoziante uscita in Venezia nel 1660. Giandomenico Peri ne fu l’autore, il quale nacque in Arcidosso nelle montagne Sanesi. I parenti non del tutto sforniti di comodi l’aveano inviato a scuola; ma egli spaventato dalla villana sevizia del suo pedagogo lasciò la casa paterna, e si fuggì nelle selve a menar vita campestre, ed in esse senza studio pervenne a poetare ed improvvisare ancora. Non ebbe il Peri altro maestro che il proprio genio e l’udito affinato dalla lettura che nel campo un altro caprajo faceva del Furioso e della Gerusalemme. Forza de’ grandi modelli! Pur troppo è vero: hinc pectore numen concipiunt vates. L’amore della poetica armonia che bevve il Peri in sì bei fonti, gl’ispirò l’ardente desio di verseggiare, e compose alcuni poemi e le riferite pastorali, nelle quali egli stesso rappresentava in compagnia di altri {p. 289}caprai. Soleva far la parte di zappatore, e si contraffaceva di tal modo che non poteva mirarsi nè udirsi senza riso. Il teatro era naturale senza veruno artificio in un luogo poco lontano dal casale in un castagneto opportuno alla rappresentazione. La di lui fama pervenne al gran duca, in presenza del quale lesse il poema intitolato la Fesuleide, e ne ottenne una pensionea.

Tre altre pastorali di tal tempo appartengono a due Gonzaghi, e rimangono tuttavia inedite, e le possedeva l’erudissimo Ireneo Affò presso di cui le vidi. La prima intitolata Fontana vitale e mortale è di Andrea Gonzaga, da cui nacque Vincenzo conte di San Paolo in Puglia, che gli succedette nel ducato di Guastalla; ma tal componimento, per avviso del lodato religioso e mio, è poco degno di trattenerci. Le altre due sono di Cesare Gonzaga II principe di Molfetta morto {p. 290}nel 1632 in Vienna di età ancor fresca. L’una s’intitola Procri che dal canonico Negri guastallese si pose per appendice alla sua Istoria di Guastalla. Stimò il Negri che la Procri fosse parto di Ferrante Gonzaga; ma da’ registri delle lettere dell’Archivio segreto di Guastalla si rileva che si compose da Cesare. Scrivendo egli a Persio Caracci poi vescovo di Larino a’ 25 di marzo 1627, la chiama la mia povera Procri, e così ne parla a’ 15 di aprile a monsignor Ciampoli. A’ 2 di settembre scrisse a monsignor Zucconi a Vienna di aver composto questa favoletta da recitare in musica nel passaggio della regina di Ungheria per Mantuaa. Cesare stesso compose la Piaga felice favola nei boschi divisa in cinque atti. Egli che ebbe la scuola del padre, non peccò nello stile, fu dolce facile piano, {p. 291}guardandosi dall’ampollosità e dalle arditezze delle metafore.

Inedita conservasi parimente nella biblioteca dell’Università di Torino l’Alvida pastorale del conte Ludovico San Martino d’ Agliè, cui par che avesse fornito l’argomento e il piano lo stesso duca di Savoja Carlo Emmanuele I a cui si dedicòa.

CAPO III.

Commedie del secolo XVII. §

Nelle commedie convien fare la medesima distinzione usata nel precedente secolo in erudite ed in piacevoli portate sino alla buffoneria ed all’oscenità destinate al divertimento del volgo. Senza ciò i critici boriosi e singolarmente i superficiali viaggiatori privi della fiaccola della storia {p. 292}combatteranno sempre contro di quest’ultime, e sempre crederanno di aver trionfato di tutte.

Non meritano di esser poste in obblio o disprezzate le commedie ingegnose piacevoli regolari che specialmente ne’ primi lustri del secolo uscirono da varie Accademie del XVI che continuarono nel seguente a fiorire come le Napoletane, le Toscane e le Lombarde. Ne produsse ancora quella degli Umoristi di Roma cominciata dopo il 1600. Or si può senza biasimo da chi vuol ragionar di teatro negligentare la notizia di queste produzioni non ignobili, delle quali gli autori o tributo molto scarso pagarono al mal gusto che giva infettando l’eloquenza, o pur felicemente se ne guardarono?

Non furono certamente commedie scritte unicamente per dilettar la plebaglia quelle degl’Intronati di Siena, i quali dopo che nel principio del secolo ebbero dal governo la permissione di tornare agli antichi esercizii, nel 1611 ne pubblicarono una collezione, {p. 293}dove si veggono caratteri ben condotti, costumi bellamente dipinti, economia regolata, il ridicolo destramente rilevato, ed una dizione propria del genere comico. Quella di Adriano Politi intitolata gl’Ingannati si accolse con applauso in Italia, si tradusse in francese, e si pubblicò in Lione col titolo Les Abusez, secondo il Fontanini; secondo però Apostolo Zeno la commedia francese quì mentovata non si trasse da quella del Politi, ma da un’ altra degl’Intronati che portò il medesimo titolo.

Si vogliono collocare tralle ingegnose commedie erudite l’Impresa d’Amore rappresentata sin dal 1600 dagli Accademici Amorosi di Tropea, e le Spezzate Durezze di Ottavio Glorizio che s’impressero nel 1605 in Messina, e si reimpressero qualche anno dopo in Venezia: la Trappolaria del palermitano Luigi Eredia recitata ed impressa in Palermo nel 1602: l’Ancora vaga commedia pubblicata nel 1604 e più volte ristampata in Venezia del {p. 294}cavaliere napoletano Giulio Cesare Torelli, la cui morte compianse con un sonetto il Marini: il Padre afflitto del Cenzio uscita nel 1606, e il di lui Amico infedele del 1617.

Non furono forse regolari, ingegnose e facete la Pellegrina di Girolamo Bargagli senese uscita alla luce nel 1611, gli Scambii di Belisario Bulgarini pubblicata nel medesimo anno, e le commedie del Malavolti, cioè i Servi Nobili del 1605, l’Amor disperato del 1611, e la Menzogna del 1614? Mancano esse d’arte e di grazia comica? abbondano di oscenità e d’inverisimiglianza? Cede forse l’Idropica di Giambatista Guarini pubblicata nel 1613 a veruna delle commedie erudite per rogolarità, per grazià comica, per delicatezza ne’ caratteri e per vaghezza di locuzione?

Se altre favole comiche non potessero mostrare gl’Italiani del secolo di cui parliamo, se non quelle del cavaliere napoletano Giambatista della Porta recitate in parte anche nel {p. 295}precedente, ma in questo pubblicate per le stampe, poco avrebbero da temere nella prima metà del XVII. Noi più cose ne accennammo nella nostra opera appartenente alle Siciliea; e quì ci arresteremo anche un poco su di esse forse non inutilmente non solo per la gioventù, ma ancora per chi non leggendo osa ragionare, e per chi solo sa ripetere come oriuolo i giudizii portati dagli esteri su i nostri scrittori, favellandone iniquamente per tradizione. Non ci fermeremo nè su di quelle che l’editore della di lui Penelope Pompeo Barbarito nel 1591 promise di produrre, nè sulle favole notate a sogetto, tralle quali lasciò lunga fama la celebre sua Notteb, onde solea ricrear la città di Napoli nel tempo stesso che {p. 296} colle opere scientifiche la rendeva dotta. Per comprendere l’indole comica di questo cavaliere e la natura delle sue favole, bastano le quattordeci che raccolte in quattro volumi si pubblicarono in Napoli nel 1726 dal Muzio. Sono: la Trappolaria, la Tabernaria, la Chiappinaria, la Carbonaria, i Fratelli simili, la Cintia, la Fantesca, l’Olimpia, l’Astrologo, il Moro, la Turca, la Furiosa, i Fratelli rivali, la Sorella.

Il Porta conoscitore esperto de’ Greci e de’ Latini, ed osservator sagace dell’arte comica di Lodovico Ariosto, mostra di possedere la grazia d’Aristofane senza oscenità ed amarezza, la giovialità di Plauto rettificata, e L’artificio di dipignere ed avviluppare del Ferrarese senza copiarlo con impudenza da plagiario che ti ruba e ti rinnega. Seguì per lo più le orme di Plauto, ma nel viluppo lo sorpassa d’invenzione e di proprietà. Se Plauto potesse prestar la sua penna e render latine la Trappolaria e l’Astrologo, ne {p. 297}rimarrebbe oscurata buona parte delle favole di lui tolte in prestanza da’ Greci. Talvolta si elevò ad un genere di commedia più nobile, come nella Furiosa, nella Cintia e ne’Fratelli Rivali; talvolta maneggiò la commedia tenera, come nella Sorella e nel Moro.

Generalmente prese egli a perseguitare colla sferza comica la vanità ridicola, la letteratura pedantesca e la falsa bravura de’ millantatori scimie ridevoli de’ soldati di ventura. L’economia delle sue favole è sempre verisimile, semplice ed animata da piacevoli colpi di teatro. Lo stile è comico buono per lo più, benchè talvolta soverchio affinato alla maniera Plautina per far ridere. Dipigne benissimo le delicatezze e i piccioli nulla degl’innamorati, tirando fuori dal fondo del cuore umano certi tratti così naturali e proprii dell’affetto, che riescono inimitabili. Solo ne incresce che alcune volte renda gli amanti soverchio ragionatori. Del linguaggio Italiano generale si vale acconciamente pe {p. 298}esprimere le cose con verità e qualche volta con vivacità. Non giugne all’eleganza dell’Ariosto, del Bentivoglio e del Caro; anzi non sempre la dizione è pura, sfuggendogli dalla penna tratto tratto formole e voci non ammesse da’ Toscani rigorosi. Egli sulle orme degl’Intronati e de’ Rozzi e di altri che introdussero qualche personaggio che parla veneziano, bolognese, spagnuolo, napoletano, frammischiò ancora qualcheduno che si vale del dialetto napoletano, ma coll’atticismo patrio e con ogni lepore cittadinesco come nato in Napoli e versato nelle grazie della propria favella.

Ma il comico valore del Porta ha per avventura qualche carattere particolare, onde si distingua dagli altri comici, come Raffaele si distingue da Michelangelo, Achille da Ajace, Cicerone da Pollione, Terenzio da Plauto? A noi par di vederlo; e ci dispiace di non essere stati in ciò prevenuti da verun critico. La commedia del Porta è sempre di situazione, e l’arte che {p. 299}possiede di avviluppare ingegnosamente nella stessa semplicità, lo rende particolarmente nobile e pregevole. Un filo naturalissimo mosso da una molla non preveduta si va con verimiglianza avvolgendo senza bisogno di circostanze chiamate a forza in soccorso del poeta, e vi cagiona un moto vivace, mette i personaggi in situazioni comiche o tenere, e sino al fine tiene svegliato lo spettatore tralla sorpresa ed il diletto.

Quindi è che le sue commedie possono con ragion veduta proporsi per modello di viluppo ingegnoso senza sforzo, attivo senza trasporto e naturale senza languidezza. Diasi agli eccellenti comici Francesi venuti dopo di lui il bel vanto di essersi segnalati ogregiamente nella bella commedia che dipigne i caratteri correnti; ma si riserbi al Porta il trionfo nella commedia di viluppo. Non entro quì ad esaminare a qual delle due commedie debbasi la preminenza. Quando l’uno e l’altro genere siano trattati con {p. 300}maestria, meritano ugualmente la corona comica. Ogni scrittore ha pregi a se proprii (possiamo dire con madama Dacier che tante buone cose conobbe a molti de’ suoi posteri sfuggite) e siccome non v’ha cosa più vasta della poesia in generale e della drammatica in particolare, così non v’ ha carriera dove mostrino gli uomini maggior diversità di talenti. Tutti i generi sono buoni secondo l’avviso di Voltaire, fuorchè il nojoso, e (aggiungerei) fuorchè lo spropositato e l’eterogeneo. Quei che pretendono che tutta l’arte comica consista nel solo ritrarre i costumi senza molto aver cura d’istoriar l’azione, riflettano che i costumi, spezialmente locali, sono come le mode passeggieri, ma l’azione esposta con bell’arte in vaghi quadri appassionati o piacevoli conviene ad ogni tempo. I caratteri forti, niuno l’ignora, sono di numero limitati, e dipinti bene una volta, se vogliano replicarsi, riescono per lo più languide e fredde copie. Ma gli accidenti o le {p. 301}combinazioni del verisimile ben modificato producono in teatro la sempre bella e sospirata varietà. Or tale è l’arte che serpeggia nella Trappolaria, nell’Olimpia, nella Tabernaria ed in altre del Porta  e questo dilettevole genere comico dopo di alcune prime commedie del Moliere e del Bugiardo del Cornelio, fu da Francesi totalmente negletto. Gli Spagnuoli lo maneggiarono molte volte con felicità, ma sempre trascurando ogni saggia regola adottata dalla culta Europa, e talvolta violentando la verità nel condurre lo scioglimento. Il Porta lo fece suo particolar retaggio maneggiandolo con piacevolezza, ingegno, nobiltà e giudizio, senza infrangere le regole, e senza ricorrere a’ soliti partiti di manti, nascondigli, evenimenti all’oscuro e case che si compenetrano.

Parvero, è vero, al signor di Marmontel le commedie spagnuole meglio intrecciate delle italiane  e noi rispetteremmo ciecamente il suo giudizio, se avesse egli mostrato di aver letta {p. 302}alcuna delle buone commedie erudite dell’Italia. Il solo Porta che avesse letto, bastato sarebbe a guarirlo del suo preoccupato avviso; ma il Porta soffrirà con Ariosto e Machiavelli e Bentivoglio ed altri illustri Italiani che scrissero commedie, la disgrazia di non essere stato letto dal Marmontel. Di grazia quale ingegnoso artificio lodevole può campeggiare in una favola che di ogni modo si agevola il sentiero aggruppando in due ore di rappresentazione la storia di mezzo secolo, e presentando in quattro spanne di teatro tutto il globo terraqueo, ed anche il mondo mitologico, e l’inferno e il paradiso? Intende egli per intreccio un cumolo di avvenimenti romanseschi ammonticati a dispetto della natura in mille guise?

Secondo me l’arte di avviluppare consiste nel concatenare gli avvenimenti in maniera che vi si ravvisi sempre una ragione che soddisfaccia in ogni passo dell’azione. Direi ancora che il viluppo più acconcio ad appagar chi {p. 303}ascolta, altro non sia che una giudiziosa progressione di un’azione solo per la via del maraviglioso condotta al suo fine a. Ma questo maraviglioso in che mai è posto? Nell’accumolar fatti come si fa nelle commedie romanzesche? Aristotile lo caratterizzò egregiamente con questo esempio: cada una statua nel punto che passi sotto di essa l’uccisore di colui che rappresenta, e questa caduta naturale per combinazione diventa maravigliosa. Il Porta ne diede di belli esempi. Ecco l’intrigo dell’Astrologo. Un impostore dà ad intendere ad un credulo ignorante innamorato che per mezzo di arcane scienze trasformerà talmente {p. 304}un servo che rassembrerà un vecchio creduto morto  e nel punto che si aspetta la promessa metamorfosi, per mero caso arriva quel vecchio stesso, e tolto in cambio cagiona maraviglia, sconcerto e movimento di molte passioni con diletto dello spettatore. Una sola è la molla ma attivissima e ben collocata dà moto a tutta la macchina. Pari industria si scorge nella sua Sorella. Un padre spedisce in Costantinopoli un suo figliuolo per liberare dalla schiavitù la moglie e una figliuola. Questi s’innamora in Venezia di una bella schiava, e senza eseguire la commissione del padre riscatta quella giovine, la sposa e la mena nella casa paterna facendola credere la sorella liberata, ed affermando di aver trovata già morta la madre. Ma questa madre per buona ventura ottiene la libertà, ed arriva in un punto che disturba la tranquillità degli amanti. Il primo a vederla è il figliuolo che prevedendo di dovere al di lei arrivo fuggire dal rigore del padre giustamente sdegnato, piangendo {p. 305}le manifesta la sua colpa, e vuol partirsi disperato, quando ella impietosita dar non voglia a credere al marito che la giovane che è in casa, sia appunto la perduta sua figliuola. La madre condiscende e promette. S’ incontra con la giovane, ed effettivamente la riconosce per la figlia ed è da lei riconosciuta per sua madre. Le reciproche tenerezze, il pianto che produce naturalmente quest’incontro, vien dal figlio creduto pietoso artificio della madre affettuosa. Ma quando intende che quella è veramente sua sorella, cade nelle smanie di Edipo senza però oltrepassare i limiti prescritti alla commedia, e la vivacità delle passioni che risveglia questo evenimento, agita e scompiglia la casa tutta, la quale avventuratamente si rassetta col manifestarsi uno scambio accaduto in fasce alla fanciulla, per cui si riconosce per figlia di un altro concittadino. Il viluppo della Trappolaria e quello dell’Olimpia sono ugualmente ingegnosi e felici  una sola ipotesi verisimile {p. 306}tutto avvolgendo e mettendo in movimento, ed un solo fatto che necessariamente, e non già a capriccio del poeta, si manifesta, riconducendo la tranquillità tra’ personaggi ed un piacevole scioglimento.

Tre altri buoni scrittori Napolitani fin dal principio del secolo si segnalarono con ingegnose favole comiche regolari, l’Isa, lo Stellati, il Gaetano duca di Sermoneta. Cinque commedie portano il nome di Ottavio d’Isa capuano, la Fortunia impressa verso il 1612 e poi molte altre volte, l’Alvida del 1616, la Flaminia del 1621, la Ginevra dell’anno seguente, e poi del 1630 in Viterbo, che è l’edizione citata dal Fontanini, ed il Malmaritato del 1633 secondo il Fontanini e l’Allacci, benchè il Toppi ne registri una edizione del 1616 col titolo di Malmaritata che le conviene meglio. Esse veramente non portano il nome dell’autore che le compose, cioè di Francesco d’Isa sacerdote erudito che dimorava in Roma, dove morì sull’ {p. 307}incominciar del secolo. Sono tutte artificiose e facete scritte ad imitazione de’ Latini con intrighi maneggiati da servi astuti e talvolta con colori tolti da Plauto, come il raggiro de’ servi per ingannare un Capitano nell’Alvida, che con poche variazioni si trova nel Miles del comico Latino. Rancida parrebbe ancora l’invenzione degli argomenti delle sue favole fondati sulla schiavitù di qualche persona in Turchia o in Affrica  ma si vuole avvertire che in quel secolo essi doveano interessare più che ora non fanno, perchè tralle calamità specialmente delle Sicilie sotto il governo viceregnale non fu la minore nè la meno frequente quella delle continue depredazioni de’ barbari sulle nostre terre littorali non più coperte dalle potenti armate di mare di Napoli e di Sicilia. Aggiugni a ciò le devastazioni nelle provincie del regno taglieggiate e saccheggiate da compagnie di banditi, i quali non rare volte tolsero a’ ricchi abborriti i beni e le figliuole. Ed in fatti su questa lagrimosa {p. 308}parte della storia di Napoli è fondata la schiavitù di Alvida menata via da’ banditi Abbruzzesi, come ella stessa racconta ad Odoardo nell’atto IV. Capuano fu ancora Lorenzo Stellati autore pregevole di altre due commedie, cioè del Furbo uscita in Napoli nel 1638, e del Ruffiano impressa nel 1643 assai comendate da Gio: Vincenzo Gravina. Le commedie del duca Filippo Gaetano di Sermoneta parimente con ragione lodate dal Gravina per la loro regolarità e per la dipintura de’ caratteri e degli affetti, sono la Schiava impressa in Napoli sin dal 1613, e reimpressa dopo molti anni in Palermo, l’Ortenzio rappresentata in Rimini alla presenza del cardinal Gaetano e stampata in Palermo nel 1641, e i Due Vecchi impressa colle altre dal Ciacconio in Napoli nel 1644.

Piacevole e senza inverisimiglianze grossolane è il Trimbella trasformato commedia in versi del Martellini stampata nel 1618. Si recitò in Firenze nel medesimo anno in cinque giorni con {p. 309}generale applauso la Fiera commedia urbana del festivo Buonarroti il giovine, la quale è uno spettacolo di cinque commedie concatenate diviso in venticinque atti a. Tra’ piacevoli Trattenimenti di Antonio Brignole Sale impressi in Genova, trovasi il Geloso non geloso commedia in cui lepidamente si ritrae un uomo posseduto dalla gelosia, che per non incorrere nel ridicolo attaccato a’ gelosi, vorrebbe comparirne esente e ne diviene doppiamente degno di riso. È questa una bella dipintura di caratteri qual si richiede dalle persone di gusto e qual si è eseguita poi in Francia nel Pregiudizio alla moda.

Assai giocondamente il messinese Scipione Errico schernì le affettazioni e le arditezze dello stile detto secentista e criticò con sale e giudizio diversi poeti di quel secolo colla sua commedia {p. 310}le Rivolte di Parnaso per le nozze di Calliope, che s’impresse in Messina nel 1620, ed altrove diverse volte. Compose anche l’Altani quattro commedie che possono mentovarsi con onore l’Amerigo del 1611, la Prigioniera del 1622, il Mecàm Bassà del 1625 e le Mascherate del 1633. Gli Abbagli felici del conte Prospero Bonarelli della Rovere si pubblicò in Macerata nel 1642, e non è commedia da confondersi colle buffonesche accette al solo volgo. Carlo Maria Maggi compose quattro piacevoli commedie con intermezzi e prologhi da cantarsi il Barone di Birbanza, il Manco male, i Consei de Meneghin, ed il Falso Filosofo impresse poi in Venezia nel 1708. Esse hanno molta grazia comica, specialmente per chi ha pratica del dialetto milanese, e vi si veggono acconciamente delineati i caratteri, e sopra tutti quello del falso filosofo è pittura vera vivace e pregevole, di cui s’incontrano alla giornata frequenti originali.

{p. 311}Adunque anche in un tempo di decadenza nelle belle lettere debbono distinguersi le additate commedie erudite da ciò che in seguito si scrisse in Italia col disegno di piacere alla plebe  ed esse debbono tanto più pregiarsi quanto più si vide il secolo trasportato dallo spettacolo più seducente dell’Opera in musica.

Dalle descritte erudite tragedie e pastorali e commedie del XVII chiara quanto il meriggio ne risulta questa istorica verità, che allora il Teatro Italiano conservò l’usata regolarità, quando anche volesse notarsi in esso qualche alterazione nello stile.

Intanto non posso dispensarmi dall’osservare che il chiarissimo abate esgesuita Giovanni Andres asserisce con una franchezza che fa meraviglia, che il Teatro Italiano regolare da principio ma languido e freddo (di che vedasi ciò che si è detto nel precedente volume della nostra Storia)sbandi poi nel passato secolo e nel principio del presente (parla del decimottavo)ogni {p. 312}legame di regolarità, e lasciate le tragedie e le castigate commedie altro non presentava che pasticci drammatici, come dice il Maffei. Dopo ciò che abbiamo narrato, e che si può verificare ad ogni occorrenza, non pare che questa sentenza dell’Andres sia stata dettata da giusta critica, da lettura diligente e da perizia della poesia drammatica. Non bisogna fare atti di fede in letteratura. Rileggendo la citazione del Maffei egli si accorgerà subito che quel nostro letterato non intese al certo di parlare di tanti buoni componimenti de’ quali non ignorava l’esistenza e conosceva la prestanza, perchè avrebbe fatto gran torto a se stesso e non mai all’Italia. Parlò bensi effettivamente de’ pasticci reali eroici regiocomici oltramontani adottati in un breve periodo del passato secolo da commedianti di mestieri e da Italiani ignoranti e di pessimo gusto. Il critico universale che s’innoltra a parlare d’ogni letteratura, conviene che tutto legga e che bene interpreti gli scrittori. Ma quando {p. 313}anche il dotto Maffei e qualunque altro uomo di lettere più illustre pretendesse formare un mucchio spregevole di tutto ciò che si scrisse in quel secolo pel teatro, noi gli diremmo con rispetto ma con franchezza che s’inganna, ed avremmo dal canto nostro gl’imparziali e meglio informati. Gli faremmo risovvenire delle tragedie dell’Ingegneri, del Chiabrera, del Bracciolini, del Bonarelli, del Dottori, del Pallavicino, del Delfino, del Caraccio  come ancora delle pastorali dell’altro Bonarelli, del medesimo Chiabrera, del Bonarroti il giovine e dell’Errico  e finalmente delle commedie del Guarini, del Brignole Sale, del Malavolti, dell’Altani, del Maggi, del Porta, dell’Isa, dello Stellati, del Sermoneta, del Buonarroti, e di altre indicate. A tutte queste chi negherà il pregio della regolarità? Chi oserà dare il titolo in tutti i sensi sconvenevole di pasticci drammatici, che solo appartiensi agl’Inglesi, agli Spagnuoli ed agli Alemanni, ed anche a’ Francesi prima di Corneille e Moliere?

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CAPO IV.

Opera Musicale. §

Quando con ardir felice il Rinuccini accoppiava al dramma una musica continuata, e chiamava l’attenzione dell’Europa con uno spettacolo, che tutte raccoglieva le sparse delizie che parlano efficacemente a’ sensi  quando, dico, nacque l’Opera, l’Italia trovavasi ricca di opere immortali di pittura, scultura ed architettura. Essa gloriavasi allora de’ talenti, e delle invenzioni di varii celebri pittori e machinisti, che seguirono Girolamo Genga, e il matematico e architetto Baltassarre Peruzzi. Possedeva illustri pittori di quadratura, come Ferdinando da Bibiena, Angelo Michele Colonna comasco scolare del Dentoni, Agostino Mitelli bolognese, il cavalier d’Arpino architetto e pittore insigne. Non vedeva fuori del suo recinto nè Noverri, nè Vestris, nè Hilverding, anzi inviava i {p. 315}suoi ballerini oltramonti, e i Francesi stessi scendevano dalle Alpi per apprendere la danza a. I suoi Peri, Corsi, Monteverde, Soriano, Giovannelli erano allora quel che oggi sono Piccinni, Gluck, Sacchini, Cimarosa, Guglielmi, Paisielli. Or qual meraviglia che uno spettacolo, in cui poteva trionfare l’eccellenza di tanti valorosi artefici, venisse nelle prime città Italiane a gara accolto e coltivato?

Non furono delle ultime a goderne Venezia, Bologna, Roma, Torino, Napoli. Claudio Monteverde che aveva posta in musica l’Arianna del Rinuccini divenuto maestro della cappella di San Marco introdusse tra’ {p. 316}Veneziani il novello spettacolo armonico  e vi fu con tal magnificenza e pompa decorato, che ne volò la fama, non che per l’Italia, oltramonti. Cominciò da prima a coltivarsi il dramma musicale nelle case private de’ gentiluomini, indi passò su’ teatri. L’Andromeda di Benedetto Ferrari reggiano celebre sonatore di tiorba vi si cantò nel 1637. Vi comparve anche il Pastore d’Anfriso  ed innoltrandosi il secolo la Divisione del Mondo, dramma del parmigiano Giulio Cesare Corradi che altri ancor ne compose, vi si rappresentò con tanta splendidezza, che la città si riempì d’un numero prodigioso di forestieri. Si ripetè in Bologna sin da’ primi anni del secolo L’Euridice del Rinuccini. La di lui Arianna si rappresentò pure in Roma, dove da un Porporato si compose l’Adonia lodato dal Crescimbeni. Più tardi poi nella medesima città si ammirarono le maravigliose invenzioni onde nobilitava la scena musicale il cavalier {p. 317}Pippo Acciajolia. Torino si contraddistinse nel 1628 per la sontuosa rappresentazione del Vascello della felicità, e dell’Arione. Prima che Napoli e Sicilia avessero un’opera tutta cantata, ebbero una festa teatrale composta di danza, di musica, e di macchine eseguita nel 1639 sotto il vicerè Ferrante Afan de Ribera nella sala del real palazzo di Napoli, nel passar che vi fece l’infanta Maria sorella di Filippo IV, che andava in Ungheria a trovare il re Ferdinando suo sposo. Vi si eseguirono quattro balli differenti  il primo della Fama con sei cigni, il secondo delle Muse con Apollo, il terzo di nani e ciclopi, il quarto di varie deità  e vi comparve la Notte su di un carro di stelle tirato da quattro cavalli, e si cangiò più volte la scena rappresentando successivamente un tempio, il Parnasso, la fucina di Vulcano e i Campi {p. 318}Elisi. Quali però si fussero i versi che animarono tali invenzioni, da noi s’ignora a. Tra primi melodrammi rappresentati in Napoli e ripetuti altrove si contano la Deidamia del messinese Scipione Errico che si replicò in Venezia nel 1644, ed il Pomo di Venere del napolitano Antonio Basso rappresentata in Napoli nel 1645, ed il Ciro di Giulio Cesare Sorrentino pur napolitano stampato e recitato in Venezia ed altrove tante volte. Si segnalarono per la magnificenza ne’ musicali spettacoli i sovrani di Mantova e di Modena stipendiando esorbitantemente cantanti dell’uno e dell’altro sesso.

Bisogna però confessare che la cura maggiore non si pose nell’elezione de’ poeti. I deputati de’ principi, e più {p. 319}gl’impressarii particolari, badarono a provvedersi di ottimi dipintori di prospettiva, di pratichi macchinisti, di voci squisite, e de’ migliori sonatori e maestri di musica. La bella poesia che sola può somministrare alla musica il vero linguaggio delle passioni, cominciò ben presto ad occupare l’ultimo luogo.

Non è già che ne’ primi tempi dell’opera mancassero in Italia buoni poeti, ma il genere stesso era tuttavia nell’infanzia. Il Chiabrera che nella lirica poesia aveva gloriosamente calcato uu sentiero novello, scrivendo qualche componimento musicale, non si avvisò di seguire l’opera de’ Greci. Non mancavagli l’opportunità di spiegare anche in tal genere i poetici suoi talenti avendolo il granduca di Toscana Ferdinando I prescelto ad inventare i componimenti musicali per le feste delle nozze della principessa Maria. In tale occasione compose il Rapimento di Cefalo piccolo melodramma di cinque atti. Tanta pompa di metri lirici, tante macchine, tanti cori, ci mostrano {p. 320}l’opera nascente al tempo del Rinuccini, benchè da questo Fiorentino rimanesse il Savonese superato per interesse e per affetto. In Firenze si rappresentò ancora alla presenza di Cosimo II sotto il nome di Vegghia l’altro suo dramma intitolato Amore sbandito pubblicato in Genova nel 1622   ma si vuole avvertire che il tanto decantato Chiabrera non si decantò mai in Italia nè pel Rapimento di Cefalo nè per tal Vegghia.

Un componimento scenico per la musica composta pel dì natalizio di Maria Farnese duchessa di Modena diviso in tre atti leggesi nelle poesie di Fulvio Testi. Espero recita il prologo e v’intervengono i personaggi allegorici la Notte, la Religione, la Gloria .Il primo ballo vien formato da i Crepuscoli seguaci di Espero, il secondo dalle Ninfe marine, ed il terzo da un coro di Amazzoni che intrecciano una danza guerriera. Altra breve festa fatta a Sassuolo nel dì natalizio di Francesco da Este duca di Modena scrisse {p. 321}il medesimo poeta, in cui cantavano varie deità. Precede i recitativi di Cerere il coro seguente 

Di rai più belli
    Cinto i capelli
    Il Dio di Delo
    Ride nel cielo.
    A’ bei splendori
    Di nuovi fiori
    Tutte superbe
    Ridono l’erbe.
Del caldo austro ai fiati gravi
    Ardan pur le arene Maure 
    Quì tranquille, quì soavi
    Susurrando ridan l’aure ecc.

Termina la festa con un altro coro che pur contiene tre strofe anacreontiche. Or quando anche non vi fossero state ariette anacreontiche sin dal XV secolo, come altrove dimostrammo, basterebbero queste del Testi a provare che il Cicognini non fu il primo ad introdurle ne’ drammi  perchè le poesie del Testi cominciarono ad imprimersi sin dal 1613, e terminarono nel 1645 in vita dell’autore  ed in {p. 322}conseguenza prima della rappresentazione del Giasone. Vuolsi però osservare che le accennate feste del Testi sono snervate, senza azione e tessute di parti che possono sopprimersi senza che il componimento ne perisca, la qual cosa è la più sicura prova dell’imperfezione di un dramma.

Giulio Rospigliosi cardinale e poi pontefice col nome di Clemente IX si esercitò nell’opera sotto Urbano VIII. I suoi drammi di argomento cristiano recitati in Roma con applauso s’intitolano, la Comica del cielo, la Vita umana, la Sofronia, la Datira, oltre ad altri due di soggetto morale intitolati Dal male il bene, e Chi soffre spera. Essi insieme con s. Eustachio tragedia rimasero inediti, e se ne serbano copie manoscritte da alcuni signori Romani.

Si distinse nell’opera intorno al 1628 Andrea Salvadori fiorentino, i cui melodrammi Santa Ursola, Flora, Medora ed altri si fecero rappresentare con magnificenza da’ granduchi di {p. 323}Toscana. Alla buona riuscita di essi contribuì singolarmente la dolcissima voce e la maestria di cantare di Vittorio da Spoleto attore maraviglioso, quo nemo neque nostra neque patrum memoria toto orbe terrarum praestantior est auditusa  e pure in quel tempo si ammirarono per la voce e per l’arte di modularla il Campagnuola, l’Angelucci, il Gregorio,

Con lode particolare coltivò l’opera Ottavio Tronsarelli pur fiorentino morto nel 1641. Riscosse molti encomii il di lui dramma intitolato Catena di Adone composto espressamente per una contesa insorta fra due cavalieri di gran riguardo Giovanni Giorgio Aldobrandini e Giovanni Domenico Lupi, per due famose cantatrici, ad oggetto di decidersi qual delle due fosse la più eccellente per soavità di voce e per arte di cantare. Chiamavasi l’una {p. 324}Checca della Laguna, perchè abitava in quella parte della città che conteneva alcune acque stagnanti a modo di laguna. Era l’altra Margherita Costa pel canto e pel suo vergognoso traffico famosa. Davasi nel melodramma ad entrambe parte eguale perchè potessero a competenza mostrare senza svantaggio il proprio valore. Ma la prudente consorte del principe Aldobrandini non ne permise l’esecuzione  e l’opera fu rappresentata da eunuchia nel palagio del marchese Evandro Conti a’ Monti, e secondo il racconto del Baglioni toccò all’insigne pittore ed architetto regnicolo il cavalier d’Arpino ad ordinarne e a dipingerne le scene.

Ma questi eunuchi sostituiti alle cantatrici nel dramma del Tronsarelli ci chiamano alla memoria un osservazione fatta sulla nostra Storia de’ Teatri del 1777 dall’erudito estensore di quel tempo delle Romane Efemeridi {p. 325}letterarie. Egli desiderava che vi si fosse mentovata l’inumana usanza, malgrado delle leggi introdotta, di mutilare i giovanetti cantori, investigando in qual tempo fossero stati ammessi sulle scene. Per soddisfare in parte a tal curiosità nell’ampliar quest’opera sin dal 1780 cercammo di supplire colle illazioni che soggiugneremo, al difetto di decisivo monumento.

Chi non sa quanto antica sia questa barbarie, ed in quanti paesi per diversi fini tutti abjetti e vili adoperata? Sin tra gli Assiri, se crediamo ad Ammiano Marcellino, Semiramide introdusse nella sua reggia l’uso di mutilare i cortigiani, allorchè ella regnava sotto il nome e gli abiti del suo figliuolo, per confondere la propria voce femminile colle altre effemminate per arte. Secondo Gioseffo ebreo Nabucco ne diede il primo esempio facendo smaschiare gli schiavi Ebrei. Claudiano contra Eutropio pretese che i Parti, per raffinamento di lascivia, cominciassero a praticarlo per conservare più lungo {p. 326}tempo la gioventù de’ loro cinedi. Alcuni usurpatori dell’altrui regno per mezzo della castrazione vollero togliere a’ popoli la speranza di successione ne’ legittimi signori detronizzati e lasciati in vita. Presso gli Egizii, secondo Diodoro Siciliano, essa fu pena dell’adulterio. I Persiani, secondo Pietro della Valle, se ne valsero per castigo delle deflorazioni. Gli Affricani poveri la convertirono in un ramo di commercio abominevole divenuto necessario per la matta gelosia de’ serragli orientali. Gli Eunuchi fra’ Romani furono servi addetti alla cura de’ letti, come accenna Apulejo, e per tal uso venivano per vanità e per lusso ricercati fin anco dalle meretrici, a quel che leggesi in Terenzio, da cui un eunuco è chiamato monstrum hominis. Alessandro Severo, secondo Elio Lampridio, dava agli eunuchi il titolo di terza specie umana, e gli escluse affatto dal suo servigio , confinandoli ai bagni delle femmine  di che è da vedersi Lorenzo Pignorio de Servis et {p. 327}eorum apud veteres ministeriisa. Per una descrizione di Petronio citata da Girolamo Mercuriale de Arte Gymnastica libro II, cap. 5 , troviamo ancora i servi spadoni occupati a segnare i falli de’ giocatori di palle. Chi ignora poi quanto poco fossero gli eunuchi favoriti da’ legislatori? Soggiaceva alla pena della legge Cornelia chi avesse castrato un uomo b. Domiziano, al dir di Stazio c, e Nerva, secondo Dione, vietarono espressamente la castrazione. Adriano con un suo rescritto condannò alla morte chi si lasciasse castrare, chi l’ordinasse, ed il norcino che l’eseguisse. Pena di morte posevi ancora Costantino d. {p. 328}Léone Augusto in niun luogo permise a’ Romani quest’atrocità, ed ai barbari solo in qualche parte a.

Contuttociò, per quanto gli eunuchi venissero perseguitati dalle leggi, avviliti negli esercizii più immondi, spregiati nelle società, scherniti dagli scrittori amici dell’umanità b, non mai si giunse ad estirpare quest’abuso inumano, ch’empie la terra di mostri imbelli schifosi detestabili. Gli eunuchi si sono perpetuati, e ad onta della ragione e del buon senno non solo nella China, nella Turchia e nella Persia, dall’abjezione della schiavitù più umiliante passano a’ posti ragguardevoli  non solo nella decadenza dell’Impero molti di essi divennero consoli e generali, come i Narseti, i Rufini, gli Eutropii: ma noi, noi stessi gli ascoltiamo gorgheggiare nelle chiese, e rappresentar da Alessandro e da Cesare ne’ nostri teatri.

{p. 329}Contenti gli antichi delle voci naturali de’ loro attori ancor nelle parti femminili, non mai pensarono a valersi degli eunuchi sulle loro scene. I Ginesi soli par che avessero avuti musici castrati  ma sebbene di essi, come narrammo nel tomo I, si servissero ne’ musicali trattenimenti dati nelle stanze delle imperatrici, non gli adoperarono mai nelle recite teatrali. Ne’ tempi mezzani nè anche in Europa si ammisero nelle grandi feste musicali, ne’ tornei, ne’ caroselli. Nè tra’ giullari e ministrieri che cantavano per le case de’ signori, nè tra’ buffoni che in qualunque modo, secondo Albertin Mussato, cantarono su’ teatri d’Italia, si vide mescolata cotal genia.

Potrebbe affermarsi sulla storia che tra’ Greci cominciasse la castrazione ad usarsi per mestier musicale, trovandosi tra essi introdotta intorno al secolo XII. Ciò rilevasi da un passo di Teodoro Balsamone già da noi citato, il quale visse in quel secolo: olim cantorum ordo non eunuchis, ut hodie fit, {p. 330}constituebatur, sed ex iis qui non erant ejusmodia. Eranvi dunque in Grecia nel XII secolo musici castrati  ma dal non trovarsene poscia fatta menzione può argomentarsi che fosse cessata si bella usanza di assottigliar la voce per l’ordine de’ cantori.

Le Nazioni settentrionali aliene da questo obbrobrio in ogni tempo, nel venire a dominare ne’ paesi occidentali del Romano Impero, non poterono comunicar loro ciò che esse detestavano o felicemente ignoravano.

Forse gli Arabi soggiogata la Spagna ed acquistatane la naturalità, ed oppressa la Sicilia ed alcune terre della Puglia e delle Calabrie, colla voce de’ loro laidi eunuchi Affricani ne poterono risvegliar l’idea. Certo è che la Spagna e l’Italia hanno avuto sopra le nazioni moderne il vergognoso primato di rinnovare l’usanza di smaschiare la gioventù, e di {p. 331}addestrarla così malconcia ad esercitare il canto, e par che abbiano l’abbominevole privilegio di continuarlo. Io ho unita la Spagna all’Italia per la rinnovazione di questa usanza infame. Alcuni declamatori però traspiantati in Italia quando dalla Spagna si discacciò la Società Gesuitica, vennero ad inveire contro L’Italia per sì vituperosa consuetudine, e con filosofica saviezza si guardarono di accennare neppure a mezza bocea che la Spagna ugualmente partecipi di questa vergogna. Fu ciò in essi mala fede o ignoranza? Io nel fior degli anni miei ascoltai cantare per le chiese di Napoli el tiple (il soprano) Pepito castrato Spagnuolo, prima che mi recassi in Ispagna  e poi il rividi, ed ascoltai in Madrid per più anni in compagnia di Narciso, di Pellegrino ed altri più oscuri castrati tutti Spagnuoli. La real Cappella di quella corte (al cui servizio era addetto il nominato Pepito e Narciso allorchè io colà dimorava) è servita da {p. 332}numeroso coro di castratini educati espressamente in un collegio per cantaro in essa le divine laudi. Nella real chiesa dell’Incarnazione pure di Madrid tra’ sacerdoti che vi uffiziano, si veggono (almeno vi si vedevano nel lungo mio soggiorno di diciotto anni colà) molti vecchi ecclesiastici smaschiati. Ciò è storia nota in Europa  ed il celebre Giorgio Luigi le Clerc conte di Buffon riconobbe in Ispagna non meno che in Italia lo stesso mal tollerato abuso. Or perchè l’Arteaga ed altri apologisti suoi confratelli dissimularono che la Spagna ha coll’Italia commune siffatta taccia? All’occhio della filosofia moderna è forse detestabile sol quando è italiano un cantante evirato? E come poterono cotali declamatori credere che tutti ignorassero che sin dal XVI secolo, tanto abbondassero gli eunuchi nella penisola di Spagna, quando una bolla di Sisto. V ci convince che non erano pochi, e che arrogavansi il diritto di contrarre matrimonii colle donne, {p. 333}siccome i veri uomini fannoa? L’Italia poi che, al dir dell’erudito Maffei, e nel bene e nel male suole andare innanzi ai concorrenti e soprastare, addottrinò così bene nel canto i suoi castrati, e tanti n’ebbe che potè fornire all’Europa tutta molte voci soprane conservate in quest’infelici con tanto oltraggio della natura.

Ma qual fu l’epoca vera in cui codesti moderni non guerrieri Narseti, in vece di occuparsi ne’ ministeri de’ serragli e de’ giardini orientali, si rivolsero nell’una e nell’altra Esperia ad esercitar la musica? Non apparisce. Sì nota solo dagl’intelligenti che i teologi moralisti del XVI secolo non muovono la questione, se lecito sia castrare per formare un musico  nè pare che ciò prendesse ad investigarsi prima del secolo XVII. Adunque non molto {p. 334}prima di tali ricerche dovettero esser numerosi i musici castrati.

Cerchiamo almeno con qualche argomento negativo di farci la strada ad indagare il tempo in cui salirono sulle scene. Il mentovato modanese Orazio Vecchi nel voler far cantare l’Anfiparnaso si sarebbe ridotto a valersi del Brighella, del Dottore, del Pantalone, se a suo tempo si fossero usate in teatro le voci artificiali de’ castrati? E se il fiorentino Rinuccini gli avesse ne’ suoi melodrammi adoperati, il Vecchi gli avrebbe ricusati? L’ultimo dramma del Rinuccini s’impresse nel 1608  nè da più diligenti scrittori che del tentativo da lui fatto insieme col Peri, col Corsi e col Caccini hanno favellato, si accenna che si valessero di eunuchi  cosa che certamente non avrebbero omessa a cagione della novità. Possiamo dunque con molta probabilità affermare che almeno sino a i primi dieci anni del secolo XVII i teatri italiani non risonarono delle note di siffatti cigni infelici che mercano {p. 335}a si gran prezzo l’inutile acutezza della voce. Sappiamo poi che il lodato Tronsarelli finì di vivere nel 1641, e che la Catena di Adone si cantò qualche anno prima, giacchè egli ebbe agio di raccorne le censure e replicarvi, scagionandosi della mancanza d’invenzione imputatagli, siccome narra L’Eritreo. Ma questo letterato parlandoci di eunuchi sostituiti alle cantatrici nel dramma riferito non mostra che gli spettatori se ne fossero maravigliati, nè scrive di essersi proposto quel cambio come novità. Da ciò si deduce che molti anni prima del 1640 (in cui scrisse Pietro della Valle che erano essi assai comuni sulle scene italiche) gli eunuchi si erano introdotti ne’ nostri melodrammi, Ora riducendo discretamente questi molti anni a soli dodici o quindici, noi risaliremo intorno al 1625, E così se per ora non possiam dire precisamente l’anno del primo melodramma recitato dagli eunuchi, avremo almeno stabilito che l’epoca della loro introduzione sulla scena si chiuda {p. 336}certamente nello spazio che corre dall’anno 1610 al 1625.

In questo periodo adunque l’opera italiana contrasse coll’umanità il demerito di aver tolto ogni orrore alla castrazione, facendo assaporare e premiando esorbitantemente l’artificiale squisitezza delle voci. Ma chi sa quando l’Italia si purgherà di tal macchia colla gloria di bandir dalle sue scene la nojosa uniformità recatavi dagl’invincibili pregiudizii di tali attori che per tanto tempo ne ha scemato il diletto? Ciò avverrà appunto quando scosso il volontario stupore gli uomini giungano a comprendere che oltre a i Tenori con tanto diletto ascoltati, le dolcissime naturali voci delle femmine fanno in iscena, senza che si violenti la natura, quanto mai sanno eseguire le non naturali de’ castrati. Noi nel nostro secolo XVIII ne abbiamo avuti luminosi esempli nella Cuzzoni, nella Tesi, nella Faustina, nell’Astroa, nella Mingotti, nella Gabrieli, nella Toti, nella Bandi, nella Correa Spagnuola. Soprattutto quale {p. 337}concepibile superiorità non avea Angelica Bilington sopra il castrato Mattucci sul nostro teatro di San Carlo, tutto che questi avesse una voce eccellente?

E forse di tali esimie voci femminili mancarono nell’età passata? Sin dal principio del secolo si ammirarono singolarmente la romana Caterina Martinella morta in Mantova nel 1608, la Caccini, le Lulle Giulia e Vittoria, la Moretti, L’Adriana ecc. Oltre alle prelodate Checca della Laguna e Margherita Costa, Erirreo ne nomina un’altra come una delle più eccellenti de’ tempi suoi, cioè Leonora Baroni figlia della nominata bella Adriana di Mantovaa. Non incresca al lettore di udire con qual trasporto favelli di questa Leonora un intelligente di musica che l’avea più volte ascoltata.” Ella è fornita d’ingegno e di ottimo gusto, capace di discernere la buona dalla cattiva musica, intendendola benissimo ed {p. 338}avendo anche composto alcuna cosa, ond’è che canta con fondamento e sicurezza. Esprime anche e pronunzia perfettamente. Non si pregia di esser bella, ma senza essere civetta sà piacere. Canta con pudore ma franco, con modestia ma nobile e con grazia e dolcezza. La voce di lei è soprana distesa, giusta, sonora, armoniosa. Ha l’arte di addolcirla e rinforzarla senza stento, senza far visacci, boccacce, storcimenti ”… » I suoi slanci e sospiri non son punto lascivi: gli sguardi nulla hanno di impudico: il gestire proprio di una donzella onesta. Passando da un tono all’altro fa talvolta sentire le divisioni de’ generi enarmonico e cromatico con tal destrezza e leggiadria che incanta tutti ”a. Che se tanto può attendersi dallo studio delle {p. 339}donne, quali vantaggi maggiori ne presentano le voci de’ castrati, perchè non abbiano a sbandirsi dalle scene italiche? Sarebbe tempo che l’arte e la natura oltraggiate rivendicassero i loro dritti. Un filosofo Italiano per amor dell’umanità impiegò le sue meditazioni per salvar dalla morte gli uomini rei  or non sarebbe ancor meglio impiegata la voce de’ veri dotti a muovere la potenza e la pietà de’ principi spagnuoli ed italiani per salvar tante vittime innocenti dalla spietata ingordigia che consiglia e perpetua sì barbara ed umiliante mutilazionea ?

{p. 340}Giacinto Andrea Ciccognini fiorentino mostrò tanta inclinazione alle cose teatrali, che, oltre allo studio che pose in inventare o tradurre varii drammi, non eravi compagnia comica ch’egli non conoscesse, nè attore abile di cui non cercasse l’amicizia. Arrivò a tal cecità che è fama di aver pensato una volta a dare un suo figliuolo in potere di Frittellino notissimo attore di que’ tempi perchè apprendesse da lui l’arte di rappresentarea. Coltivò ancora il dramma musicale, e ne compose uno assai allora applaudito nelle nozze di Michele Porretti principe di Venafro e di Anna Maria Cesi fatto rappresentare {p. 341}con magnificenza reale. Nel suo Giasone pubblicalo nel 1649 interruppe il recitativo con quelle stanze anacreontiche le quali diconsi arie usate ancor prima di lui dal Testi, dal Salvadori e dal Rinuccini, c prima di tutti dal Notturno nel XV secolo.

Ma una filza inutile di nomi di scrittori di opere in musica di tal secolo sarebbe una narrazione ugualmente nojosa per chi la legge e per chi la scrive. Essi furono assaissimi e quasi tutti al di sotto del mediocre, se si riguardi ai pregi richiesti nella poesia rappresentativa. Furono i loro drammi notabili per le sconvenevolezze, per le irregolarità, per le apparenze stravaganti simili a’ sogni degl’infermi, per un miscuglio di tragico e di comico e di eroi, numi e buffoni, per istile vizioso , in somma per tutto ciò che ottimamente vi osservò il prenominato abate Arteaga. Di maniera che allora non fu il dramma musicale italiano meno stravagante che le rappresentazioni spagnuole, inglesi ed allemanne. {p. 342}Solo è da notarsi che ne’ primi tempi l’opera tirava i suoi argomenti dalla mitologia, la quale agevolmente apprestava di grandi materiali per le decorazioni e per le macchine che maravigliosamente si eseguivano da insigni artefici. Si rivolse poi a ricavarli dalla storia, pigliando il miglior sentiero  ma pure la poesia vi avanzò poco, e lo spettacolo scemò di pregio per l’apparato. I primi ad esercitarvisi non ne acquistarono nome migliore. Appena possiamo eccettuar dalla loro calca, il dottor Giovanni Andrea Moniglia lettore in Pisa satireggiato da Benedetto Menzini sotto il nome di Curculionea Egli fu poeta nella corte di Toscana, e morì all’improvviso nel settembre del 1700. I di lui melodrammi ebbero allora gran voga, ed oggi appena si sa che si rappresentarono. Anche il Lemene cavaliere lodigiano poeta non dispregevole ad onta de’ {p. 343} difetti del suo tempo, compose melodrammi non cattivi. Ne compose anche il Capece, il Minato poeta della corte di Vienna, ed Andrea Perruccì siciliano autore della Stellidaura impressa nel 1678 e cantata nella sala de’ vicerè in Napoli e dell’Epaminonda impresso e cantato nel 1684. Laonde non ci tratterremo su tanti altri melodrammatici rammentati dal Mazzucchelli, dal Crescimbeni: e dal Quadrio, nè sull’Achille in Sciro del marchese Ippolito ferrarese rappresentato in Venezia nel 1663, nè sull’Attilio Regolo del veneziano Matteo Noris impresso nel 1693 in Firenze, i quali illustri nomi de’ tempi andati attendevano un ingegno assai più sublime per trionfar sulle scene musicali. Accenneremo solo di passaggio che Alessandro Guidi pavese dagli Arcadi convertito alla buona poesia, scrisse prima della sua conversione letteraria l’Amalasunta in Italia rappresentato in Parma nel 1681. Nè passeremo oltre senza aver fatto motto dell’opera buffa che si coltivò {p. 344}con qualche successo e forse con molto minore stravaganza anche per la poesia, come si vede nelle Pazzie per vendetta di Giuseppe Vallaro, nel Podestà di Coloniola, nelle Magie amorose del nominato Giulio Cesare Sorrentino vagamente decorato, e nel piacevole componimento allegorico di due parti la Verità raminga di Francesco Sbarra.

CAPO V.

Rappresentazioni chiamate Regie: Attori Accademici: Commedianti pubblici. §

Siccome non va nella società esempio più pericoloso per la virtù che il favore dichiarato per un immeritevole: così non v’ ha nelle lettere più dannoso spettacolo che il trionfo della stravaganza. Il mal gusto prosperoso perverte i deboli e gli conquista, mentre il vero buon gusto ramingo va mendicando ricetto fra pochi sconosciuto dalla moltitudine  nella stessa guisa che {p. 345}un uomo probo e pieno di non dubbio merito fimane confuso tralla plebe in una società corrotta, dove tutti gli sguardi e gli applausi e le decorazioni e le ricchezze si attira la malvagità ingorda e l’impostura luminosa.

Le stranezze dell’opera in musica accompagnata da tutti gli allettamenti della vista e dell’udito fecero sempre più intorno alla metà del secolo comparire insipide e fredde le rappresentazioni regolari tragiche e comiche  e queste si videro in un tempo stesso abbandonate dagli attori accademici e dagl’istrioni e commedianti pubblici. Gli uni e gli altri s’invaghirono della nuova foggia di commedie spagnuole, che gl’Italiani, non osando dar loro il nome di commedie e tragedie, chiamarono opere regie, opere sceniche, azioni regicomiche, nelle quali alternava il buffonesco e l’eroico, le apparenze fantastiche e la storia, e la vita civile cd il miracoloso. Altre favole si formarono ad imitazione di quelle dette di espada y capa ripiene {p. 346}di evenimenti notturni, di ratti, puntigli, duelli, equivoci, raggiri e sorprese al favor de los mantos. Queste novità tirarono per qualche tempo l’attenzione  ed allora si tradussero Calderòn, Moreto, Solis, Roxas ecc.

Allora si composero le commedie di Giambatista Pasca napoletano, il Cavalier trascurato, la Taciturnità loquace, il Figlio della battaglia, la Falsa accusa data alla Duchessa di Sassonia, imitazioni libere del teatro spagnuolo pubblicate dal 1652 al 1672. Raffaele Tauro bitontino allora produsse dal 1615 al 1690 le Ingelosite Speranze, la Contessa di Barcellona, il Fingere per vincere, l’Isabella o la Donna più costante, la Falsa Astrologia  traduzioni alterate del Calderòn e di altri spagnuoli. Allora il Pisani toscano compose le sue favole sul medesimo gusto. Lionardo de Lionardis nel 1674 pubblicò il Finto Incanto, che è el Encanto sin encauto del medesimo Calderòn. Il canonico Carlo Celano nato in Napoli nel 1617 {p. 347}e morto nel 1693, col nome di Don Ettore Calcolona tradusse con libertà e rettificò varie commedie spagnuole, come può osservarsi nelle sue date alla luce più Volte in Napoli ed in Roma, l’Ardito vergognoso, Chi tutto vuol tutto perde, la Forza del sangue, l’Infanta villana, la Zingaretta di Madrid, Proteggere l’Inimico, il Consigliere del suo male ecc. Ho detto che rettificò (con pace del Lampillas) i difetti principali degli originali, perchè in fatti ne tolse le irregolarità manifeste  sebbene non vò lasciar di dire che alle favole che fece sue traducendole liberamente, manchi la grazia e la purezza e l’eleganza della locuzione del Solis e del Calderòn, e l’amabile difficoltà della versificazione armoniosa. Similmente tradussero ed imitarono le commedie spagnuole Ignazio Capaccio napoletano, Pietro Capaccio catanese, Tommaso Sassi amalfitano, Andrea Perrucci traduttore ed imitatore nel 1678 del Convitato di pietra, ed Onofrio di Castro autore {p. 348}della commedia la Necessità aguzza l’ingegno,in cui si vede qualche regolarità unita ad un’ immagine di comico di carattere alla maniera spagnuola, con uno stile che spira tutta l’affettazione di quel tempo di corruttela.

I pubblici commedianti che aveano inventate in quel secolo con lor vantaggio e buon successo nuove maschere per contraffare le ridicolezze delle diverse popolazioni che compongono la Nazione Italiana, recitavano le loro commedie dell’arte tessute solo a soggetto senza dialogo premeditato, come le cinquanta pubblicate nel 1611 dal commediante Flaminio Scala. Ma l’Arlecchino che ogni di ripeteva in mille guise le medesime lepidezze, cominciava ad invecchiare, mentre l’opera in musica stendeva rapidamente i suoi progressi. Laonde alla mancanza del concorso nel loro teatro pensarono i commedianti di riparare colle accennate imitazioni delle commedie spagnuole, e con altre ancora più difettose, come il Conte di Saldagna, Bernardo del {p. 349}Carpio, Pietro Abailardo ecc. E queste sono le commedie spagnuole sfigurate più dagl’istrioni, come accenna Carlo Goldoni, le quali il Lampillas supponeva che fossero le altre soprannomate tradotte da’ letterati e purgate,come dicemmo, da’ difetti principali. E questi sono, e non altri i pasticci drammatici accennati dal Maffei, che il lodato Andres applicava per difetto di perizia nella storia teatrale, a tutto ciò che si compose in quel secolo pel teatro italiano.

Ma queste cose toglievano di giorno in giorno il credito al teatro istrionico, senza impedirne la desolazione. La moltitudine si affollava sempre con maggior diletto ed avidità alla scena musicale piena di magnificenza che allettavano potentemente più di un senso. Opposero allora i commedianti decorazioni a decorazioni e musica a musica, e si sostennero anche un poco con farse magiche ripiene di apparenze, di voli, di trasformazioni, e con {p. 350}intermezzi in musica, passeggieri ripari a’ loro continui bisogni.

Contribuiva parimenti al loro discredito la destrezza degl’Italiani più culti nell’arte rappresentativa. Gl’Istrioni non furono sempre i migliori attori. Le Accademie letterarie de’ Rozzi e degli Intronati che tornarono a fiorire nel XVII secolo, quella brigata di nobili attori che rappresentava in Napoli le commedie a soggetto del Porta, gli Squinternati di Palermo, di cui parla il Perrucci ed il Mongitore, i nobili napoletani Muscettola, Dentice, Mariconda che pure recitarono eccellentemente, facevano cadere in dispregio la maniera per lo più plebea caricata declamatoria de’ pubblici commedianti, Il celebre cavalier Bernini nato in Napoli, e che fiorì in Roma dove morì nel 1680, rappresentava egregiamente diversi comici caratteria Il famoso {p. 351}pittore e poeta Satirico napoletano Salvador Rosa morto in Roma nel 1673 empì quella città non meno che Firenze di meraviglia per la copiosa eloquenza estemporanea, per la grazia, per la copia e novità de’ sali, e per la naturalezza onde si fece ammirare nel carattere di Formica personaggio raggiratore come il Coviello ed il Brighella, ed in quello di Pascariello, La di lui casa in Firenze divenne un’ accademia letteraria sotto il titolo de’ Pencossi, ove intervenivano l’insigne Vangelista Torricelli, il celebre Carlo Dati, l’erudito Giambatista Ricciardi, i dotti Berni e Chimentelli ecc.  ed in essa rappresentavansi in alcuni mesi dell’anno piacevolissime commedie. Le parti serie sostenevansi da Pietro Sacchetti, Agnelo Popoleschi, Carlo Dati e dal Ricciardi. Il dottor Viviani fratello del riputato matematico Vincenzio faceva la parte di Pasquella, Luigi Ridolfi nella parte contadinesca di Schitirzi da lui inventata fu decantato come il miracolo delle scene. {p. 352}Quanto poi al Rosa (aggiugne il citato Baldinucci che ciò racconta)non è chi possa mai dir tanto che basti, dico della parte ch’ei fece di Pascariello  e Francesco Maria Agli negoziante Bolognese in età di sessanta anni portava a maraviglia quella del Dottor Graziano, e durò più anni a venire a posta da Bologna a Firenze lasciando i negozii per tre mesi, solamente per fine di trovarsi a recitare con Salvadore, e faceva con esso scene tali, che le rise che alzavansi fra gli ascoltatori senza intermissione o riposo, e per lungo spazio, imponevano silenzio talora all’uno talora all’altro  ed io che in que’ tempi mi trovai col Rosa, ed ascoltai alcuna di quelle commedie, sò che verissima cosa fu che non mancò alcuno che per soverchio di violenza delle medesime risa fu a pericolo di crepare.

Oltramonti ancora si fecero applaudire nelle parti graziose e piacevoli Michelangelo Fracanzano figliuolo di {p. 353}Cesare celebre e sfortunato pittore napoletano, e Tiberio Fiorillo. Michelangelo rappresentava estemporaneamente la parte di Pulcinella avendola studiata sin dalla fanciullezza da Andrea Calcese ammirato in tal carattere in Napoli ed in Romaa, e da Francesco Baldo, dal quale ricevè anche in dono la maschera stessa usata dal primo di lui maestro il nominato Calceseb. Alcuni francesi testimoni oculari degli applausi che riscuoteva la maniera graziosa ed il motteggiar di Michelangelo in Napoli, tornando a Parigi ne divolgarono di tal maniera i pregi che egli venne colà chiamato nella {p. 354}giovanezza di Luigi XIV. Piacque il sua giuoco scenico naturale e grazioso   ma come poteva dilettar pienamente in Francia un carattere di cui non aveasi idea veruna, ed un dialetto sconosciuto come il napoletano? Pur non lasciò di eccitare il riso e di fare in parte conoscere il proprio valore, e gli fu continuata la pensione assegnatagli di mille luigi, colla quale soccorse e chiamò presso di se i suoi genitori, ed in seguito prese moglie e visse con decenza sino al 1685. Più ammirato fu nella medesima città di Parigi l’altro napoletano Tiberio Fiorillo conosciuto col nome di Scaramuccia. Egli seppe meglio mostrare a’ Francesi i suoi talenti facendo valere la somma sua arte pantomimica di maniera che poco o nulla gli nocque il patrio linguaggio. È troppo noto che egli come attore soltanto controbilanciava il gran Moliere che come autore ed attore quivi spiegava gl’inimitabili suoi talenti. Non è men noto che il Moliere non isdegnò di {p. 355}apprendere da Scaramuccia i più fini misteri dell’arte di rappresentare, assistendo incessantemente ad ascoltarlo per copiarne l’espressiva grazia e naturalezza. È noto altresì che lo stesso Moliere non vide mai così pieno il proprio teatro come ne’ quattro mesi che Scaramuccia abbandonò Parigi l’anno 1662 per venire in Napoli a vedere i suoi parenti  e che al di lui ritorno i Parigini accorsero di bel nuovo alla Commedia Italiana, ed in tutto il mese di novembre non si curarono de’ capi d’opera che produceva Moliere. Scaramuccia poi rinunziò al teatro  e Menagio applicò a lui quel motto, homo non periit, sed periit artifex, perchè più non vi comparve. «Egli (aggiugnesi nella collezione de’ di lui motti detta Menagiana) fu il più perfetto pantomimo de nostri tempi  Moliere original francese non perdè mai una rappresentazione di quest’originale italiano.» Egli morì vecchio in Parigi nel 1694, lasciando ad un suo figliuolo {p. 356}sacerdote il valsente di centomila scudia.

CAPO VI.

Teatri Materiali. §

Molti teatri si eressero in Italia nel secolo XVII da’ valorosi architetti  ma i più considerabili furono quello di Parma, di San Giovanni Crisostomo in Venezia, di Fano, e di Tordinona in Roma.

Il teatro di Parma non fu opera del Palladio terminata dal Bernino come alcuno affermò  nè si chiamava Giambatista Magnani l’architetto che vi fu impiegato, come leggesi nel trattatodel Teatro, e nelle Lettere sopra la Pittura dell’Algarotti, e nel Discorso premesso alle sue tragedie dal Bettinelli. Giambatista Aleotti di Argenta ingegnere {p. 357}illustre nell’architettura idraulica, nella civile e nella militare, il fe costruire d’ ordine del duca Ranucio I Farnese nel 1618. Si aprì secondo la prima costruzione nel 1619, dedicandosi a Bellona e alle Muse, come leggesi nell’iscrizione latina soprapposta al proscenio. Si ampliò poscia e si prolungò dal marchese Enzio Bentivoglio, e si rendè capace di tal numero di persone che nelle feste celebrate l’anno 1690 per le nozze di Odoardo Farnese con Dorodea Sofia di Neoburgo, vi si contarono quattordicimila spettatoria.

La figura di questo teatro è mistilinea congiungendosi a un semicerchio due rette laterali. La scena dal muro alla bocca del proscenio ha di lunghezze 125 piedi parigini e 93 di larghezza. La platea larga 48 ha una {p. 358}scalinata di quattordici scaglioni ed un gran palco ducale nel mezzo. Sopra di essa si alzano due magnifiche logge, l’una d’ordine dorico, l’altra d’ordine jonico, ciascuna con una scalinata di quattro sedili. Il nominato autore dell’opuscolo del Teatro osserva che la bocca del palco scenico eccessivamente angusta e molto lontana dalla scalinata nuoce al vedere, là dove si avrebbe potuto far più larga e più vicina agli spettatori  e così parve anche a me allorchè vidi la prima volta quel gran teatro. I lati retti della platea congiunti alla strettezza della bocca del palco occultano a chi siede lateralmente buona parte della scena. Oltre a ciò si oppone al solito effetto della simmetria l’architettura dei due grandi ingressi laterali posti fra la scalinata ed il proscenio, essendo ornati di due ordini diversi dal rimanente. Ma la magnificenza, la vastità, l’artificio onde è costrutto, per cui, mal grado di tante centinature, colonne isolate, agetti e risalti, parlando ancor sottovoce da {p. 359}una parte si sente distintamente dall’altra  tutto ciò farà sempre ammirar questo teatro come uno de’ più gloriosi monumenti dell’amor del grande e della protezione delle arti che mostrarono i principi Farnesi. Ed oggi singolarmente che i teatri trovansi tanto lontani dall’antica solidità e magnificenza, non è picciol vanto per l’Italia e per lo stato di Parma il potere additare un teatro tanto magnifico e poco lontano dalla maniera antica, specialmente agli stranieri avvezzi a’ loro teatri assai meschini. Non pertanto per la medesima vastità (per cui ha potuto un tempo servire per una specie di naumachia, come dimostrano le antlie e i sifoni, per li quali ascendeva l’acqua per inondare l’orchestra) esso non è più in uso, e solo rimane esposto alla curiosità de’ viaggiatori  ed incresce il vedere che sin dal 1779 quando io lo vidi, mostrava talmente i danni del tempo e dell’abbandono che non senza qualche ritegno si {p. 360}montava sulla scena per osservarsi minutamente.

Celebra per le pompose rappresentazioni musicali che vi si eseguirono, è il teatro di San Giovanni Crisostomo di Venezia. Non fu il principe che fe costruirlo, ma alcuni nobili particolari che soggiacquero alla spesa. La costruzione fu nella nuova maniera con palchetti sostituiti modernamente alle antiche scalinate, cioè con più ordini di stanzini collocati a guisa di gabbie l’un sopra l’altro, i quali avendo l’uscita a’ corridoi, lasciano il passaggio alla voce per dissiparvisi, in vece di essere rimandata alla scena. Non può negarsi che tali stanzini diano alle brigate che vi si chiudono, comodo di conversare, prender rinfreschi e giocare. Ma se si riguarda al fine principale delle sceniche rappresentazioni, essi riescono a tutt’altro opportuni che a godere di uno spettacolo destinato a commuovere per dilettare. I palchetti del teatro nominato di Venezia non bastando al gran concorso che cresceva, {p. 361}ebbero indi un aumento di altri tre per ciascun ordine su i lati del proscenio. Gli altri teatri Veneti per lo più innalzati sopra rovine di antichi edifizii, appartengono parimente al secolo XVII, a riserba di quello di San Benedetto. Ma niuno di essi sembra degno di sì cospicua città, la quale può gloriarsi di aver prima di ogni altra avuti teatri costruiti a norma del compasso immortale de’ Palladii e de’ Sansovini.

Giacomo Torelli ed altri cinque cavalieri di Fano vollero supplire alla spesa di un teatro nella patria  e su i disegni dello stesso Torelli verso il 1670 fecero costruire il bel teatro di quella città. Un arco accompagnato a due lunghe rette laterali terminate nel proscenio formano la figura mistilinea di tal teatro. La lunghezza è di 84 piedi parigini e la larghezza non giunge ai 50. Ha cinque ordini di palchetti alla moderna. Il proscenio per ogni lato ha due pilastri con una nicchia nel mezzo di essi colle figure di Pallade, e nel mezzo vi è scritto Theatrum Fortunae, Si {p. 362}osserva da chi ha veduto questo teatro che non è sottoposto al difetto comune quasi a tutti gli altri, che la voce si perda ne’ buchi de’ palchetti, perchè tutti convengono che vi si sente egregiamente ogni parola.

Roma non ha un teatro moderno corrispondente a sì famosa capitale. Niuno di quelli che vi si veggono eretti, si avvicina alcun poco a quegli antichi monumenti onde abbonda, e specialmente al teatro di Marcello. Quello di Tordinona fu opera di Carlo Fontana, e la sua figura inclina alla circolare, avendo nel maggior diametro piedi 52, e nel minore 48. Ila sei ordini di palchetti  ma (dice l’autore dell’opera del Teatro)de’ comodi interni, e dell’abbellimento esteriore, non vi è occasione di poterne fare neppure un cenno.

Molti altri teatri si eressero nel medesimo secolo e quasi ogni città n’ebbe uno qual più qual meno magnifico a proporzione, tutte volendo partecipare del piacere di uno spettacolo {p. 363}pomposo come l’opera in musica. Sono dunque da riferirsi a quel tempo il teatro di Urbino, in cui si ammirarono le invenzioni del Genga esaltate dal Serlio degli alberi fatti di finissima seta, prima che la prospettiva avesse insegnato in qualunque occorrenza a mostrare i rilievi a forza di ombre e di punti ben presi. Il teatro antico di Bologna era nella piazza, ma più non esiste  era di forma quadrata diviso in gran palchettoni. Quello di Modena detto della Spelta, su opera del cavalier Vigarani distrutto nel 1767. Quello di Milano s’incendiò nel secolo XVIII innoltrato. Vi su un Teatro in Pavia. In Ferrara vi fu quello di Santo Stefano. Quello di Siena degl’Intronati si rifabbricò verso il 1670. Il teatro di Marco Contarini in Piazzuola nel Padovano fu di tal vastità che nel 1680 si videro in esso girar nella scena tirate da superbi destrieri sino a cinque carrozze e carri trionfali, e comparire cento Amazzoni e cento Mori a {p. 364}piedi e cinquanta a cavalloa:

Ed è questa la storia scenica Italiana del secolo XVII. Fioriscono ne’ primi lustri poeti tragici degni di mentovarsi al pari de’ precedenti, il Bracciolini, lo Stefonio, il Bonarelli, il Dottori, il Pallavicino, il Delfino, il Caraccio: si producono alla poesia pastorale drammatica componimenti da non arrossirne al confronto de’ primi in tal genere, la Filli, la Rosa, l’Armonia d’ Amore, la Gelopea, la Tancia: si contano tralle commedie ingegnose regolari e piacevoli quelle del Porta modelli della commedia d’intrigo, e degl’Intronati, del Malavolti, del Guarini, dell’Altani, dell’Isa, dello Stellati, del Gaetani, del Brignole Sale, del Bonarelli, del Maggi. Si attese poscia a spiegare tutte le pompe delle arti del disegno e della musica nell’opera  ma vi si neglessero le vere bellezze, la regolarità e la sublimità della poesia, e si avvili {p. 365}coll’introduzione degli eunuchi, che, sebbene sin dal XVI secolo contraevano matrimonii nelle Spagne, non aveano per anche profanate le scene. Alterando al fine il sistema drammatico degli antichi si prese a tradurre ed imitar con furore il teatro spagnuolo, di cui si corressero alcuni difetti, si adottarono le stravaganze, e si perderono non poche bellezze. Nel Rosa, nel Bernini, nel Viviani, nell’Agli, nel Ridolfi, nel Dati si ebbero egregii attori accademici  si mandò a Parigi il Fracanzano ed il Fiorillo o Scaramuccia da cui apprese Moliere, si costruì il gran teatro di Parma, e si sostituirono alle antiche scalinate i palchetti negli altri teatri di Fano, di Bologna, di Modena, di Roma, di Venezia.

Fine del Tomo VI.

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