Pietro Napoli Signorelli

1813

Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VII

2019
Pietro Napoli Signorelli, Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi, tomo VII, [3e éd.], Napoli, presso Vincenzo Orsino, 1813, 267 p. PDF : Google.
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{p. 2}

[Epigrafe] §

                     Ardito spira
Chi può senza rossore
Rammentar come visse allor che muore,
Metastasio nel Temistocle.
{p. 3}

STORIA CRITICA DE’ TEATRI.

LIBRO VII.

Teatri Oltramontani del XVII secolo. §

CAPO I.

Teatro Spagnuolo. §

Che influiscano potentemente sull’eloquenza i modelli che prendonsi ad imitare, oltre all’avvertimento di Orazio che inculcava lo studio ostinato de’ Greci esemplari, vien comprovato per la storia in ogni nazione e singolarmente dalla Spagnuola. Gli abitanti di quella penisola per natura d’ingegno acre, vivo, perspicace ed atto ad ogni impresa, possedendo una lingua figlia generosa di bella madre, ricca, espressiva, maestosa, pieghevole, armoniosa, {p. 4}e nobile, doveano fuor di dubbio segnalarsi nelle amene lettere tosto che ne’ buoni esemplari additata lor si fosse quella forma del Bello che il Gusto inspira ed alimenta negli animi gentili. Una lingua nascente non sempre imbatte alla prima a scegliere la versificazione più armonica e più acconcia a ricevere le forme leggiadre che gli antichi seppero ricavar dalla bella natura. Gli Spagnuoli ne’ tre secoli che precedettero il XVI conobbero in qualche modo i Latini e formaronsi alcuni metri nazionali come Alessandrini di diverso numero di sillabe detti fra loro di arte maggiore, e ridondiglie, decime, quintiglie, ed endecce. Dir però non saprei quando avrebbero essi trasportate nel loro volgare le antiche bellezze, se più lungamente persistevano ad usare la propria versificazione. Giovanni Boscano non prestò picciolo servizio alla nazione col porre in pratica il consiglio dell’italiano Andrea Navagero d’introdurre nella poesia castigliana la tessitura de’ metri italiani, {p. 5}Con ciò egli non solo venne a mostrare il meccanismo di una versificazione straniera, come taluno si diede buonamente a credere. La necessità di apprendere l’artificio e il portamento del nostro sonetto, della canzone, dell’ottava, della terzina, rendè loro famigliare la lettura di Dante, Petrarca, Sannazzaro, Ariosto e Bembo; ed in quel puro fuoco che spirano siffatti scrittori, si riscaldarono Garcilasso, Errera, Argensola ed altri valorosi poeti del secolo XVI.

Ma perchè nella drammatica non valse simile esempio? Forse perchè l’antica severa tragedia quivi originalmente si amò ben poco, e la commedia italiana non si confaceva gran fatto a’ patrii costumi del cielo ispano. Forse ciò avvenne ancora, perchè i primi traduttori spagnuoli delle antiche favole non ne diedero una idea capace d’invitare all’imitazione. Forse la novità tentata dal commediante Naarro coll’introduzione di battaglie, assedii, duelli, dovette allettare assai più una {p. 6}bellicosa nazione; e quindi determinare Lope de Vega, Castro, Mira de Mescua ecc. a ritrarre i costumi e gli evenimenti delle cronache nazionali. Forse lo spirito stesso di cavalleria, e l’amore delle avventure strane che spinse Cervantes a motteggiarne nel Don-Quixote, rendeva alla nazione accetto un teatro che n’era pieno. Forse tutte queste ragioni unite insieme contribuirono a dare a quelle scene un carattere particolare.

I nominati autori spagnuoli, de’ quali molti fiorirono anche sotto Filippo III, scorrendo con piede ardito per ogni parte del Parnasso, osarono calcar nella scenica un nuovo sentiero, e l’intemperanza e la soverchia fiducia gli menò sovente fuori di strada; a somiglianza di un fogoso destriero che trascorrendo a salti per iscoscesi dirupi urta, rovescia, calpesta quanto incontra, e finisce la carriera in un precipizio. L’amor di novità sedusse i contemporanei e i successori, aperse il campo alla soga della fantasia, e sursero {p. 7}i Gongora e i Gongoreschi.

Luigi di Gongora e Argote cordovese nato nel 1561 e morto nel 1627 sortì dalla natura vivacità, robustezza, energia, ma nella lirica battè il sentiero delle stravaganze, dipartendosi dalla gentilezza e verità seguita da Garcilasso ed Argensola. Le di lui poesie sublimi il Polifemo, le Solitudini, le Canzoni sono un tessuto di metafore strane e ridevoli. Noi non ne rechiamo quì gli esempi che avevamo raccolti per presentargli al signor Vicente Huerta che n’era cieco idolatra, perchè la di lui morte ci sciolse dall’impegno seco contratto di dargliele a conoscere. Oltreacciò non ignorano i sensati spagnuoli che l’istesso Lope de Vega, che non fu de’ più sobrii scrittori, caratterizzò come inintelligibili le poesie del Gongora. Quevedo se ne burlava ancora. Il giudizioso Luzan nel nostro secolo si è seagliato parimente contro gli spropositati groppi gongoreschi di matte metafore. La gioventù dee però esser prevenuta che {p. 8}Gongora non manca di merito in altri generi. Egli può dirsi l’inventore di una spezie di romance, in cui narransi avventure di Mori innamorati con moltissima grazia, leggiadria, affetto e naturalezza; nel che ha avuto un emulo gentile e felice nel mio da molti anni defunto amico Nicolàs Fernandez de Moratin. Tra’ sonetti del Gongora alcuno ve n’ha esente da notati difetti: le sue poesie burlesche hanno leggerezza, sale, vivacità: qualche canzone lirica è senza eccessi: vaga e semplice mi sembra la V delle sue canzoni amorose, che incomincia,

Buclas, o tortolilla,
Y el tierno esposo dexas.

Il giovane industrioso ne imiti le grazie additate, e prenda miglior modello nel sublime.

Coltivò Gongora anche la drammatica e scrisse las Firmezas de Isabela commedia, el Doctor Carlino commedia, e una favola Venatoria, le quali lasciò imperfette. Tutte le ciance e i traslati aggroppati del Polifemo {p. 9}e delle Solitudini si trovano nell’Isabella ma con delirio maggiore, perchè in questa parlano in proprio nome le persone introdotte, e non il poeta. Un personaggio chiama la morte alcalde de huesso; un altro parlando di un vecchio canuto chiama i di lui capegli raggi pettinati del sole della prudenza, e fila da cuipendono (come dalle pergamene de’ privilegii) i sugelli dell’esperienza, carte bianche della storia, in cuila penna della memoria scrivecon inchiostro d’argento; altrove la città di Toledo è chiamata turbante di lavoro affricano, a cui ilTago serve di benda di mosellina bianca listata de oro. In somma in ogni personaggio traspare tutto Gongora allorchè delira. Ne tralascio le buffonerie frammischiate alle cose sacre: l’infelice esposizione della favola, non avendo saputo introdurla se non con fare che il buffone in 160 versi ne racconti a se stesso i fatti che la precedono: le meschinità e improprietà dell’intreccio, l’insipidezza, la moltiplicità {p. 10}delle azioni, l’irregolarità e la mancanza d’interesse. Del Dottor Carlino non si ha che il primo atto e buona parte del secondo. Questa favola è più comica, e sebbene la solita pedanteria vi si trovi da per tutto seminata, non vi è però gettata col carro come nell’altra. Ma quello che ci fa godere che sia rimasta imperfetta, si è l’oscenità de’ fatti che vi si maneggiano con isfacciatagine da bordello. Carlino è un medicastro imbroglione ruffiano che professa tal mestiere senza verun rimorso; ed ha per compagna una Casilda civetta scaltrita che servegli di zimbello. Egli maneggia diversi intrighi amorosi, e specialmente uno di certo Gerardo con una Lucrezia maritata che traffica vergognosamente per compiacerlo a prezzo di cento scudi. L’innamorato chiede in prestanza tal danaro al marito, lo passa alla donna, e dice poscia al prestatore di aver restituito il danaro alla consorte. Questa novella copiata da Giovanni Boccaccio è più dispiacevole posta alla vista sulle scene che {p. 11}nella lettura. Da questa favola del Gongora si vede che la commedia spagnuola non è sempre sì onesta matrona qual se l’immaginava l’innocente Saverio Lampillas. La nominata Venatoria è appena incominciata, e mostra che altro non rebbe divenuta che una copia delle pastorali italiane; perchè il prologo fatto da Cupido imita in parte quello dell’Aminta; e nelle due sole scene che lo seguono si narra l’avventura del bacio dato da Mirtillo del Guarini ad Amarilli col pretesto di farsi guarire dalla puntura dell’ape.

Composero anche pel teatro sotto Filippo III gli autori che soggiungo. Contemporaueo del Gongora fu Giovanni de Tasis y Peralta conte II di Villamediana poeta distinto per la nascita, per le avventure e per la morte, essendo stato di notte in Madrid ucciso nella propria carrozza da braccio sconosciuto mosso, come si espresse Gongora, de impulso soberano. Tralle di lui opere poetiche impresse in Saragoza nel 1619 si legge la {p. 12}Gloria de Niquea recitata dalla Regina colle sue dame, dove intervengono pastori, deità, il Tago ed il mese di Aprile. Cristofero Suarez de Figueroa giureconsulto si distinse colla traduzione del Pastor fido impressa in Valenza nel 1609; ed il sivigliano Giovanni Jauregui buon pittore e poeta emulo del Quevedo e del Gongora che produsse in Roma la bella sua versione dell’Aminta nel 1607, ed in Siviglia con nuova cura nel 1618. Non furono così bene accolte le altre sue commedie. Naturale di Siviglia su ancora Feliciana Henriquez de Guzman che compose los Jardines y Campos Sabeos tragicommedia, cui poscia ne aggiunse un’ altra del medesimo titolo, le quali s’impressero nel 1624 in Coimbra. Bernarda Ferreira de la Cerda portoghese versata nelle matematiche e nella musica compose diverse commedie alla maniera allora dominante senza regolarità ed in istile lirico troppo ricercato; le quali si trovano nel II tomo delle opere di questa {p. 13}dama. Simone Machado anche portoghese poeta rinomato scrisse quattro commedie impresse in Lisbona, ciòè due sull’Assedio di Diu, e due sulla Pastorella Alfea. Scrissero ancora commedie verso la fine del regno di Filippo III e principio del seguente due castigliani Antonio Hurtado de Mendoza, ed Alfonso de Salas Barbadillo. Ma di questi ed altri portoghesi e castigliani che tralasciamo, non essendo state le sceniche produzioni nè per numero nè per fortuna nè per eccellenza degne dell’altrui curiosità, rimasero seppellite ed obbliate universalmente sopraffatte dalla celebrità di quelle che si composero sotto Filippo IV.

Questo monarca che guerreggiò con varia fortuna, specialmente con Anna di Austria sua sorella, come regina di Francia e madre di Luigi XIV, che non seppe riparare i mali dell’espulsione di un immenso popolo di Mori Spagnuoli, e che nutrì ne’ vasalli senza trarne vantaggio l’indole bellica ed il germe della decadenza nazionale, fu {p. 14}poeta e bell’ingegno egli stessoa, e nel proteggere le lettere moltiplico i bell’ingegni senza migliorarne il gusto. Gli spettacoli scenici ch’egli amò con predilezione, fiorirono sotto di lui a tal segno, che il Vega, il Calderòn, il Solis, il Moreto, si lessero e si produssero da’ Francesi che cominciavano a sorgere, e dagl’Italiani che andavano decadendo. Vuolsi che avesse egli stesso composta qualche commedia pubblicata con altro nome o con quello anonimo di un Ingenio secondo l’usanza spagnuola. È tradizione poco contrastata che frutto della penna di Filippo IV su il Conde de Essex conosciuto col titolo Dar la vida per su Dama, la qual commedia non cede a veruna nè per l’irregolarità, nè per le stranezze dello stile, benchè i caratteri vi sieno dipinti con forza. Quando anche Filippo non ne avesse {p. 15}dato che il solo piano, come molti stimano, essa merita di conoscersi originalmente sì in grazia del coronato inventore, che per la commedia stessa la quale da un secolo e mezzo quasi ogni anno si rappresenta in Madrid. L’argomento è la privanza di quel conte presso la regina Elisabetta d’Inghilterra, e la morte da lei ordinatane e pianta.

Giornata I. Bianca amante del conte e fiera nemica occulta d’Elisabetta ne trama la morte introducendo di notte alcuni congiurati in una propria casa di campagna, dove trovasi a diporto la regina. Il conte che veniva a veder Bianca, giugne opportunamente a salvar la regina, la quale coperta di una mascheretta grata al suo liberatore gli dà una banda, che a que’ tempi si reputava un favore e una prova d’inclinazione della dama verso del cavaliere che la riceveva. Si dividono scambievolmente obbligati senza conoscersi. Perchè sappia lo spettatore in qual guisa fu la regina assalita e difesa, il conte lo narra a Cosmo suo {p. 16}servidore fatto a tal sine dal poeta rimanere indietro. Questa sorte di racconti divenuti essenziali nelle commedie spagnuole diconsi relaciones; ed in esse l’autore arzigogola senza freno sfoggiando in descrizioni ampollose ed in concetti falsi e puerili, e l’attore seguendo i delirii della poesia con gesti di scimie delle mani, de’ piedi, degli occhi, del corpo tuttoa, va dipingendo, non già lo spirito del sentimento e delle passioni, ma le parole delle metafore insolenti accompagnandole tutte con un gesto che le indichi. Di maniera che ho veduto io stesso l’attore tutto grondante di sudore per lo studio che pone ad imitare i movimenti del becco, delle ali, degli artigli di un uccello, lo strisciar della serpe, il corvettar del cavallo, ed il guizzar del {p. 17}pesce. Il conte vuol riferire che entrò nel giardino, trovò una dama mascherata che si bagnava, cui fu tirato un colpo di pistola, e che la difese dalle spade degli assalitori, e ne ricevè una banda. In ciò si spendono ben 125 versi, ne’ quali entra una scarsa vena delTamigi che si fa un salasso di neve, una folta chioma arruffata di un boschetto pettinata dal vento con difficoltà, l’incertezza del conte in discernere, se le gambe della dama che si bagnava,correvano sciolte in acqua, o se l’acqua congelata formava le di lei gambe, come ancora il bere ch’ella fece dell’acqua colla propria mano, per la quale azione il conte si spaventò temendo non si bevesse parte della mano. Dopo queste scipitezze allora assai di moda parte il conte col servo, cangia la scena, e l’azione passa in città. Essex viene a veder Bianca, la quale piena della mal riuscita impresa ne parla coll’amante con tutto l’impeto di una cieca vendetta, e con tutta l’efficacia {p. 18}dell’amore tenta di tirarlo al suo partito. Il conte seco’ stesso detesta il tradimento, e risolve la distruzione de’ congiurati; ma per manifestar questo pensiero recita a parte 46 versi mentre Bianca attende la risposta. In fine a lei si volge, e si determina ad invitare con una breve lettera i congiurati a Londra, mostrandosi risoluto a dar la morte alla regina. Nell’incontrarsi col conte Elisabetta si avvede dalla banda di dovergli la vita, oltre alla potente inclinazione che glielo raccomanda. Essex da’ moti del di lei volto si accorge esser ella la donatrice della banda. Elisabetta si fa dall’amore abbassare sino al vassallo; egli innalza a lei le sue speranze; l’uno e l’altra frena la lingua che vuol trascorrere. Con un discorso interrotto mostrano i loro interni movimenti; pugna nell’una l’amore colla maestà, nell’altro la speranza di una fortuna brillante colla condizione di suddito.

Giornata II. Interessante è il secondo incontro della regina tiranneggiata {p. 19}dal fasto e rapita dalla propria debolezza, e del conte combattuto dall’amore di Bianca e dalla speranza del possesso di una regina dotata di bellezza. Ma questo punto dell’azione vien raffreddato dalle pedanterie del poeta. Si sente cantare questa redondiglia:

Si acaso mis desvarios
llegaren â tus umbrales,
la lastima de ser males
quitte el orror de ser mios.

Il conte prende l’occasione di scoprirsi amante della regina, parlandole sotto il nome di Laura e glossando (interpretando) questi versi. La regina riprende la timidezza dell’amante che si discolpa col rispetto; entrambi fanno pompa di acutezze, là dove era da disvilupparsi una tenerezza contrastata. Il conte recita anche un sonetto, la cui sostanza è d’insinuare il tacere: la regina con un altro sonetto obbligato alle stesse rime sostiene come più opportuno il parlare. Ognuno vede la stravaganza del secolo che convertiva {p. 20}i personaggi in poeti improvvisatori. Senza tali insipidezze l’azione da questo punto diverrebbe assai interessante e vivace. Il conte animato in tal guisa è in procinto di scoprirsi amante, quando comparisce Bianca colla banda che porta sopra di se, avendola ricevuta dal servo del conte. La regina l’osserva, si agita, dà ordini, gli rivoca, non vede che la sua gelosia. Partita Bianca, il conte comincia a dichiararsi; ma Elisabetta furiosa rivestendosi di tutto il rigore della sovranità irritata, a me temerario (gli dice interrempendolo)a me! mi conosci? sai chi sono? lo rammenti? Parti, allontanati, nè mai più ardire di entrar nella reggia; non so come in questo punto non fo recidere quel capo che nutrì pensieri cotanto audaci. (Oh grandezza tu sforzi il labbro a parlar contro del cuore!) Parte l’una colerica e gelosa, l’altro abbattuto e stordito. Bianca intanto si appiglia al partito di palesare alla Regina tutta la storia de’ proprii amori col {p. 21}conte implorando il real favore perchè le diventi sposo. Ma Elisabetta che dal suo racconto ha bevuto tanto veleno, trasportata le favella come una Regina gelosa che senza confessarlo ne ispira tutto il terrore. Tradurremo questo squarcio, nel quale la passione non è molto tradita dallo stile. Bianca dal suo racconto vuol conchiudere che il conte è suo sposo, e la Regina ripiglia:

Reg.

Come tuo sposo? (Io fremo, io più non vedo!)

Bia.

Come mio sposo? (o ciel che intendo!)

Reg.

Indegna,
Folle, debol…

Bia.

Regina!

Reg.

A un uom perverso
Di te obbliata, a un traditor ti rendi!

Bia.

Confusa io son!

Reg.

Sì l’onor tuo calpesti?
E alla presenza mia svelar non temi
Che il conte adori?

Bia.

Io non credei cotanto
Oltraggiar la maestà, se il conte…

Reg.

(O amore!
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Io deliro!) Il mio sdegno, o Bianca, è zelo
Del tuo decoro.

Bia.

E gelosia rassembraa.

Reg.

Io! Gelosa io non son ; mi offende il dubbio.
Ma di un vassallo pur fingi un momento
Presa chi regna, se contender seco
Alma nata a servirla ardisse indegna,
Se amasse il conte… amar? che amar mirarlo
Se ardisse solo, o cosa ancor che meno
Del mirarlo importasse, parti, o donna
Ch’io non saprei co’ denti, colle mani,
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Co’ detti ancor, col fiato, con gli sguardi
Trarle le indegne luci, il sangue berne,
Strapparle il cor, incenerir l’audace?
(Ah di me mi scordai?) Bianca, io gelosa
Mi finsi, e finta ancor la gelosia
L’ira in me risvegliò… Delirio strano!
Odimi attenta. Dal mio finto sdegno
Impara, o Bianca, ove tal caso avvenga,
(Ne soffra anche il tuo onor: chè l’onor tuo
È nulla ove son io) la tua sovrana
A non sdegnar; ove ella volga il guardo
Non mirar tu: mai non amar chi ella ami.
Non mi render gelosa; chè se finta
Sì terribile è l’ira in regio petto,
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Pensa tu qual saria se fosse vera.
L’onore ancora avventurar dovessi,
Pensa a qual rischio la tua vita esponi.
Specchiati in questa immagine del vero,
E ingelosir chi tutto può, paventa.

Così la lascia. Bianca rabbiosa ingelosita anch’essa, oltraggiata, giura vendicarsi colle proprie mani. La Regina tralle cure del regno e dell’amore si addormenta. Bianca esce con una pistola alla mano che porta il nome del conte. Questi sopraggiugne e l’osserva maravigliato. Bianca si accinge a tirare, il conte la trattiene guadagnando la pistola. Nel contrasto esce il colpo; la Regina si sveglia; accorrono i cortigiani. Dubita la regina; non sa qual de’ due sia il reo, e quale il suo liberatore. Il conte, nelle cui mani è rimasta la pistola nega che Bianca abbia tentato quell’eccesso. Sei tu dunque il traditore? ripiglia la Regina. {p. 25}Nol so, risponde il conte. L’uno e l’altro è arrestato.

Giornata III. Essex è convinto dagl’indizii evidenti di alto tradimento. Per sua difesa altro egli non dice che di essere innocente. E condannato a perdere la testa. Prima di morire chiede il conte di parlare a Bianca; gli è negato; altro non potendo le scrive una lettera, incaricando al servo di consegnarla poichè egli sarà morto. Ma la Regina che ha sottoscritta la sentenza per soddisfare in pubblico alla giustizia, pensa a liberarlo privatamente dalla morte per compensarlo della vita che le ha salvato. Entra a tal fine nella prigione colla mascheretta e coll’abito semplice che portò nella prima scena. La riconosce il conte; ma ella come una dama privata gli presenta la chiave della prigione perchè possa fuggire. Il conte la prega a scoprirsi, e la Regina il compiace dandogli prima la chiave. Il conte le domanda il perdono che suol concedersi a’ rei che veggono la faccia del sovrano. {p. 26}Nega la Regina di altro potere a suo prò dopo avergli dato il mezzo di fuggire. Sdegna il conte di fuggire, getta la chiave nel fiume sottoposto alla finestra della prigione, e le dice che se non vuol essere ingrata, dee cercar nuova guisa di soddisfare al suo debito. La Regina risponde di altro non potere, ed estremamente addolorata, ma conservando la durezza della maestà offesa, ordina l’esecuzione della sentenza. Legge il servo per curiosità la lettera scritta dal conte a Bianca. Scopre il di lei delitto e l’innocenza del padrone, e la reca alla Regina. Se ne rileva ch’egli invitava a Londra i congiurati unicamente per prendere in una volta tutti i ribelli. La lettera termina con un consiglio a Bianca di desistere dall’impresa di vendicarsi della Regina, aggiungendo:

Mira que sin mi te quedas,
y no ha de aver cada dia
quien, por mucho que te quiera,
por conservarte la vida,
por traydor la suya pierda.

{p. 27}Da questa lettera screduta la Regina ordina che si sospenda l’esecuzione della sentenza; ma il conte è già stato decapitato. Le parole della Regina per lo più sobrie e convenienti all’evento tragico ed al di lei carattere, malgrado di non pochi difetti, danno fine a questo componimento interessante. Tommaso Corneille lo spogliò in Francia de’ principali errori, e ne ritenne le situazioni tragiche nel suo Conte d’Essex; ma nella dipintura del carattere del conte egli rimane al di sotto dell’originale. Nella favola spagnuola Essex è un innamorato, tuttochè combatta nel di lui cuore l’ambizione e l’amore; ma eroicamente dà per Bianca la vita per non iscoprirla, e soggiace alla morte colla taccia di traditore. Nella tragedia francese egli comparisce mattamente innammorato, e, come ben dice il conte Pietro di Calepio, muore più per disperazione che per grandezza d’animo.

Il gusto del monarca a guisa del suono si propaga e si diffonde in tutti i {p. 28}sensi per la nazione. La corte di Filippo IV si empì di verseggiatori che produssero a gara un gran numero di favole. Talora si videro tre autori occupati al lavoro di una sola commedia, dividendosene gli atti; ond’ è che se ne leggono più centinaja col titolo di Comedia de tres Ingenios, i quali talvolta vi si nominano. Mendoza, Rosette, e Cancer ne composero molte in tal guisa. Una ne aveva io veduta rarissima intitolata la Balthasara, di cui il primo atto appartiene a Luis Velez de Guevara, autore di molte altre commedie allora stimate morto nel 1640, il secondo ad Antonio Coello, ed il terzo a Francesco Roxas, il quale molte altre favole pur compose. Il primo atto desta la curiosità ed è meno difettoso nello stile; gli altri sono pessimi per istile, per azione e per orditura. L’argomento è una commediante rinomata che si converte, si disgusta dalla propria professione e della vita passata nel più bello di una rappresentazione in Valenza, {p. 29}va a servir Dio e far penitenza in una solitudine, e muore santamente. Nell’atto del Guevara si vede alla prima la dipintura naturale di un teatro spagnuolo qual era a que’ tempi. Esce ad affiggere il cartello di una nuova commedia un servo della compagnia detta di Eredia commediante famoso di quel tempo che n’era il capo. Si figura che tal compagnia rappresenti in Valenza nel teatro dell’Olivera. Apparisce l’interiore del teatro, e si veggono nella platea sparsi alcuni venditori, che, come è stato costume anche in Madrid sino ad alcuni anni fa (prima del tumulto accaduto in tempo di Carlo III), vanno gridando avellanas, piñones, peros de Aragon, turron ecc. Passano i facchini co i fardelli de’ vestiti de’ commedianti. Si vedono venire al teatro Baltassarra, Leonora e la Graziosa. La gente impaziente grida, salgan, salgan, empiezen, per sollecitare i commedianti ad incominciare. Baltassarra rappresenta a cavallo in mezzo della platea (costume conservato {p. 30}sino agli ultimi tempi da’ commedianti) facendo la parte di Rosa Solimana. Nel meglio del recitare si distrae, e fa riflessioni morali sulla vanità de’ piaceri, che non entrano nella parte che rappresenta. Al fine rapita da pio entusiasmo, interrompendo i versi della favola, dice a vista degli spettatori e de’ compagni,

Afuera galas del mundo,
afuera ambiciones locas
que solo me haveis servido
en esta farsa engañosa
por testigos del delito;

e gettati via gli abiti teatrali parte precipitosamente. L’uditorio si scompiglia; chi grida da’ palchi, chi dalla cazuela, chi dalla grada; il Grazioso marito della Baltassarra ed Eredia capo della compagnia vengono fuori confusi e disperati per le loro perdite, e termina l’atto. Il secondo contiene la vita penitente di Baltassarra, le preghiere e le lagrime di un suo amante, i tentativi del demonio per distorla. Nell’atto terzo il Roxas continuò a {p. 31}mostrare le astuzie del demonio, finchè si vede Baltassarra già spirata.

Ma Francesco de Roxas ha prodotte molte favole interamente sue. In quelle che si chiamano istoriche, lo stile è sommamente stravagante, e la condotta difettosissima. Di ciò può servir di esempio quella che intitolò los Aspides de Cleopatra, azione tragica scritta in pessimo stile colla solita trasgressione di ogni regola, e mescolanza di buffonerie arlecchinesche, la quale anche verso gli ultimi tempi, in cui dimorai in Madrid, si vide comparir su quelle scene. Egli è però autore di varie favole non dispregevoli nel genere comico chiamato colà di spada e cappa. In quella intitolata Entre bovos anda el juego degno di notarsi è il carattere comico di un toledano chiamato Don Lucas del Cigarral bellamente dipinto. Vedasene uno squarcio tratto dalla relazione che ne fa un suo servo, da noi tradotto con fedeltà:

Don Luca Cigarral, il cui moderno
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Casato non vien già dalla famiglia,
Ma da una macchia o nido di cicale
Da lui piantato, è un cavaliere scarmo,
Gracile, macilento,
Cortissimo di busto,
Longhissimo di gambe, che ha le mani
Più ruvide di quelle de’ villani,
I piedi lunghi bassi al collo e piatti
Come hanno l’oche e pien di nodi e calli,
Goffo un poco, un pò calvo, verdinero
Più che poco, e ancor più schifoso e sozzo,
Più di quaranta volte molto porco.
Se canta la mattina,
Non sol, come si dice,
Spaventa le sue noje,
Ma tutta pur la gente a lui vicina;
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Se dorme al suo poder, con tale orrendo
Strepito russa, che s’ode in Toledo.
Mangia come un studente,
Beve come un Tedesco,
Come un signor di mille cose chiede,
Cinguetta al pari d’un ben grasso erede.
Con grazia tal ragiona,
Che ad ogni motto una novella appicca,
Che sempre è lunga, e non è giammai buona.
Non v’ha paese ov’ei stato non sia.
Cosa non sente dir ch’ei non fe pria.
Se taluno dirà d’aver la posta
Corsa sino a Siviglia,
Egli, ad onta del mar che si frappone,
Fino al Perù la corsi anch’io, ripiglia.
Di spade si favella?
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Ei solo se ne intende. Ad ogni lama
Che non ha impronta, egli un maestro assegna.
Cento commedie ha insino ad or composte,
E le conserva suggellate e chiuse,
E alle figlie che avrà, vuol darle in dote.
Ma vaglia il ver, benchè non sia gentile,
Benchè sia mal poeta e peggior musico,
Zotico, seccator, bugiardo e stolto,
Con un sol vezzo ogni suo neo compensa,
Che sì sordido ha il cuore e meschinello,
Che non daria quel che tacere è bello.

Questa dipintura, oltre all’essere ben graziosa, ha il merito di prevenire l’uditorio sul carattere del protagonista. Il poeta con altre pennellate ancora avviva il ritratto di Don Luca. Fa che egli imponga che nel passare Isabella {p. 35}sua sposa da Madrid a Toledo, si copra di una mascheretta. Ecco tradotta la lettera che le scrive, la quale spira tutta la gentilezza di Don Luca. Sorella, io possiedo seimila e quarantadue ducati di rendita di un maggiorato, e se io non ho figli, viene ad essere mio cugino il mio successore. Mi vien detto che voi ed io possiamo averne quanti vorremo. Venite questa notte a trattare del primo, che ci sarà tempo poi per gli altri. Mio cugino viene a prendervi;mettetevi una mascheretta, e non gli parlate;perchè finchè io viva, voi non dovete essere nè veduta nè udita. Nell’osteria di Torrejoncillo vi attendo; venite subito, che i tempi correnti non permettono di aspettar molto nelle osterie. Dio vi guardi, e vi dia più figliuoli che a me. Un altro bel colpo di pennello riceve da un altro suo foglio portato dal nominato cugino. Contiene una carta di quitanza così dettata. Ho ricevuto da don Antonio Salazar una donna che ha da {p. 36}essere mia moglie, con suoi contrassegni buoni o cattivi; alta di persona, di pelo nera, e pulcella nelle fattezze. E la consegnerò tale e quanta ella e, sempre che mi sarà domandata in occasione di nullità o divorzio. In Toledo a’ 4 di Settembre del 1638. Don Luca Cigarral. In conseguenza del suo carattere procede don Luca nella briga attaccata co’ passeggieri in Torrejoncillo, e nell’incontro colla sposa nell’atto I, che si rappresenta parte in Madrid e parte nel nominato villaggio. Non si smentisce nelle avventure notturne, quando tutti i passeggieri caminando verso Toledo pernottano in Illescas nell’atto II. Degno di lui è pure nell’atto III che si rappresenta in Cabañas, il pensiero di far maritare Isabella col suo cugino per vendicarsene; perchè essendo poveri, mal grado del loro amore, forza è che vivano malcontenti. I caratteri sono ben dipinti; l’azione non offende l’unità richiesta; il tempo si stende oltre il confine di un giorno, ma {p. 37}non tanto che la favola ne divenga inverisimile, restringendosi al più a due giorni; il luogo solo non è uno, passando l’azione in Madrid, in Torrejoncillo ed in Illescas, e terminando in Cabañas. Lo stile poi è comico, sobrio e vivace in tutto, eccetto nel dialogo degl’innammorati, perchè allora i poeti credevano di cader nel basso, nel famigliare, nel triviale, se i concetti amorosi si esprimessero con semplicità e naturalezza.

Seguace, ammiratore e quasi alunno di Lope de Vega fu Giovanni Perez de Montalbàn nato in Madrid da un librajo. Di anni diciassette cominciò a scrivere commedie che si recitarono con applauso e s’impressero in due volumi nel 1639. Oggi che pochissime commedie dell’istesso Lope si rappresentano, havvene più d’una del Montalbàn che si ripete quasi in ogni anno in Madrid, cioè la Lindona de Galicia, e los Amantes de Teruel.

La Lindona. Una mescolanza di {p. 38}avventure tragiche e comiche, di persone reali, basse e mediocri, un cumolo di fatti che formano anzi un romanzo che un dramma, in cui nell’atto I interviene Sancio re di Castiglia, e nel II l’azione segue sotto il regno del di lui successore Ferdinando, rendono mostruosa questa favola che prende il nome da una Rica-Fembra di Galizia. Due cose secondo me l’hanno fatta conservare in teatro ad onta di tante stravaganze, cioè il carattere vendicativo di questa dama che parla nel proprio dialetto galiziano, e spira certa non usitata bizzarria e fierezza raccomandata dalla beltà; e la bellezza selvaggia di Linda vestita di pelli e cresciuta senza saper parlare, che si va disviluppando a poco a poco per mezzo di una tenera simpatia che le ispira la veduta di un giovane principe. Linda viene indi conosciuta per la figliuola di Lindona che ella avea gettata in mare per vendicarsi del principe Garzia di lei padre.

Los Amantes de Teruel. In questa {p. 39}terra del regno di Aragona corre una tradizione degli amori infelici di due amanti virtuosi morti di dolore l’uno nell’arrivar ricco per isposare la sua innammorata e trovarla moglie del suo rivale, l’altra al vedere estinto l’amante. La tradizione è accreditata presso gli Aragonesi con un sepolcro che si addita in Teruel. Su tale argomento Giovanni Tagur de Salas formò un poema epico tragico intitolandolo los Amantes de Teruel impresso in Valenza nel 1617, e poi Montalbàn ne compose il dramma di cui parliamo.

Malgrado de i difetti consueti l’azione principale è sommamente interessante, e i caratteri degli amanti Diego ed Isabella con molta vivacità delineati. Ferdinando altro amante d’Isabella mal noto e mal gradito, ed Elena di lei cugina occulta amante di Diego formano gli ostacoli della loro felicità. Il padre d’Isabella la destina ad un ricco e Ferdinando è tale, essendo Diego povero di beni e pieno solo di virtù e di valore. L’uno e l’altro nell’atto {p. 40}I la chiedono ad un tempo in isposa. Il vecchio riceve con sommo piacere le istanze del ricco, ma alle fervide insinuanti preghiere del povero egli rimane intenerito ed irresoluto a segno che al fine la nega ad ambedue; al povero perchè è tale, ed al ricco per non dispiacere al povero valoroso degno di miglior fortuna. Diego si avvisa d’implorare un altro favore, cioè di permettergli di sperare la mano della figliuola nel caso che egli migliorasse di fortuna; ed a tale effetto chiede che destini uno spazio competente per tentar la sorte. Condiscende il buon vecchio, e si conviene che Isabella rimarrà senza prender marito tre anni e tre giorni, e questi scorsi nè tornando Diego più ricco, possa dare la mano a Ferdinando. Diego va a militare sotto Carlo V che muove contro Solimano.

Nell’atto II i maneggi di Elena fanno sì che per due anni e mezzo nè le lettere di Diego giungano alla cugina, nè quelle di lei sieno a Diego indirizzate. In oltre per abbattere di un {p. 41}colpo la costanza d’Isabella si fa arrivare un finto soldato colla falsa notizia della morte di Diego, che riduce agli estremi la vita d’Isabella senza indebolirne la passione. Dall’altra parte Diego ha fatti prodigii di valore, ha salvata la vita all’Imperadore, si è fatto ammirare nella Goletta, è stato il primo a montare sul muro di Tunisi, ma sempre sfortunato si trova tuttavia povero. Disperato si vuole ammazzare; giugne all’Imperadore la notizia di quel trasporto; ne intende le avventure ed i meriti; lo dichiara capitano della propria compagnia; gli assegna tremila scudi annui sulle rendite di Teruel per mantenersi, e gliene dà altri quattromila per le spese del viaggio.

Non può disporsi Isabella a sposar Ferdinando prima di compiersi lo spazio accordato al creduto morto suo amante de’ tre anni e tre giorni. Nell’atto III scorso questo tempo un’ ora dopo è costretta a dargli la mano. Dopo un’ altra ora giugne in Teruel Diego vivo ricco e glorioso. L’incontro {p. 42}de’ due amanti è tenero e doloroso. Vorrebbe Isabella narrare come sia condiscesa alle nozze, ma teme che sopraggiunga il marito. L’affretta a partire. Tradurrò esattamente qualche squarcio di questa scena. Vieni tu con salute? dice Isabella. Saprai poi del mio stato, risponde Diego; ma tu come stai? Morta sopra la terra, ella ripiglia e vuol partire. Addio, ella segue agitata:

Addio; con te restar non m’è concesso.
Ti dirò solo in breve, che un soldato
A noi recò di te nuove funeste;
Che sospirai, che piansi,
Che morir volli… Oddio! non è più tempo
Di rammentar quel che obbliare è forza.

Die.

E di che è tempo?

Isa.

Di pensar ch’è questa
L’ultima volta, oimè, ch’io ti favello,
Che tu mi vedi.. Addio… {p. 43} Ti amai, lo sai.
Partisti…

Die.

Die. E bene?

Isa.

Si ostinò Fernando,
L’interesse parlò, l’udì mio padre.
Corse il romor della mentita morte…
Ah maledetto sia l’infame, il falso,
Il comprato messaggio, onde mi vedo
A sì misero stato oggi ridotta!
Passò il tempo prefisso; amante invano
Volli oppormi al destin ; minaccia il padre;
Donna, priva di te, figlia, obedisco.
E infin…. deggio pur dirlo? In fin son moglie.
Vanne, tel dissi già, lasciami, parti,
Chè se ti miro più perdermi posso,
E perdermi non vò.

Die.

Pensa.

Isa.

Non giova.
{p. 44}

Die.

Ben mio…

Isa.

Vanne…

Die.

Ah tu speri invan, crudele,
Che tal freddezza e tal contegno io soffra.

Isa.

Che far poss’ io?

Die.

Al padre dir ch’io vivo.

Isa.

È vano.

Die.

Parlar chiaro a don Fernando.

Isa.

Sono già sua.

Die.

Prova la forza.

Isa.

È vana.

Die.

Vientene meco.

Isa.

L’onor mio m’è caro.

Die.

Fuggi sola.

Isa.

Ove?

Die.

A un giudice ricorri.

Isa.

A cui?

Die.

Dì che sei mia.

Isa.

Non è più tempo.

Die.

Uccidimi.

Isa.

Io che t’amo?

Die.

Segui dunque ad amarmi.

Isa.

Ah nobil nacqui!

Die.

Qualche rimedio alfin trovar conviene.

Isa.

E trovato.

Die.

Qual è?

Isa.

Morir tacendo.

Die.

Scelgo il morir, ma palesando al mondo
{p. 45}
L’amor tuo, la tua fe.

Isa.

Sai ch’ho un marito.

Die.

Io, io son tuo marito, e dal tuo fianco
Appartarmi potrà solo la morte.

Isa.

E l’onor mio?

Die.

Tutto si perda omai.

Isa.

E la tua vita?

Die.

Oggi finisca.

Isa.

E il mio
Consorte?

Die.

Non ti goda.

Isa.

E i miei parenti?

Die.

Versin tutto il mio sangue.

Isa.

Invano io priego?

Die.

Io nulla ascolto.

Isa.

Ed io con questa mano
Saprò morir.

Die.

Saprò morire anch’io.

Parte Isabella, la segue Diego; ma ella temendo che sia veduto dal marito, per far che vada via gli dice che l’abborrisce. L’anima dell’innammorato oppressa in tante guise dalla piena de’ violenti affetti non resiste a quest’ultimo colpo, e spira di puro dolore, cagionando colla sua morte quella d’Isabella che gli muore accanto. La {p. 46}relazione ch’ella prima di spirare fa della morte del suo amante al marito, e l’estreme sue querele mal corrispondono alla scena patetica e naturale che abbiamo tradotta, essendo il rimanente pieno di arguzie, sofisticherie, scipitezze e concettuzzi impertinenti. Questa composizione per lo più si rappresenta ogni anno sul teatro di Madrid sempre con piacere e concorso, quante volte la parte d’Isabella si eseguisca da un’ anima sensibile che per buona ventura o per arte non sia stata avvelenata da’ pregiudizii istrionici. Tal era negli anni che io vi dimorai, la delicatissima attrice Pepita Huerta mancata nel fior degli anni suoi.

Uno degli scrittori più fecondi trasportati da sfrenata fantasia fu frate Gabriel Tellez di Madrid religioso di s. Maria della Mercede morto verso il 1650. Le sue commedie impresse in tre volumi in Madrid ed in Tortosa nel 1634 portauo il finto nome di Maestro Tirsi de Molina. Egli accumolava di tal sorte gli avvenimenti che oltrepassava {p. 47}gli eccessi de’ suoi contemporanei. A lui appartiene la commedia delle imprese de’ Pizarri, in cui corre dalle Spagne al Perù con somma leggerezza. Il teatro odierno non parmi che di questo frate altra favola rappresenti eccetto il Burlador de Sevilla, per altro titolo il Convitato di pietra. Niuno ignora la fortuna di questa stravagantissima composizione. In Ispagna si è continuato a mostrarsi sulle scene sino al tempo che Antonio de Zamora non prese a trattar questo medesimo argomento con minori assurdità. In Italia però dal Perrucci siciliano si tradusse quella del frate, ed i pubblici commedianti la ridussero a sogetto rendendola ancor più grottesca. Il Moliere la rettificò, facendone una dipintura di un discolo, la spogliò della varietà intemperante, del bizzarro, del miracoloso, e ne dissipò il concorso. Fece altrettanto Carlo Goldoni. Il dramma originale del Tellez ha trionfato per più di cento anni su tanti teatri, e si riproduce da’ ballerini pantomimi; ad {p. 48}onta del re di Napoli che esce col candeliere alla mano ai gridi d’Isabella vituperata e ingannata da uno sconosciuto, di tante amorose avventure di don Giovanni Tenorio, de i di lui duelli, della statua che parla e camina, che va a cena, che invita il Tenorio a cenare, che gli stringe la mano e l’uccide, e dello spettacolo dell’inferno aperto e dell’anima di Don Giovanni tormentata.

Giambatista Diamante è autore di varie favole, alcune delle quali sino a’ giorni nostri si sono conservate in teatro, e nel giro di ciascun anno costantemente vi si ripetono. Ogni prima Dama del teatro spagnuolo per far pompa di abilità apprende a rappresentar la di lui Judia de Toledo. L’argomento appartiene al regno di Alfonso VIII re di Castiglia che per sette anni perseverò nell’amore di una Ebrea toledana chiamata nelle cronache nazionali Fermosa. Don Luis de Ulloa y Pereyra compose de’ fatti di lei un poema di 76 ottave {p. 49}intitolato la Raquel che si trova inserito nel Parnasso Spagnuolo. L’azione del dramma incomincia dall’esiglio degli Ebrei decretato da Alfonso, per cui viene Rachele ad implorar la clemenza del sovrano, prosegue col reciproco innammoramento, e termina colla morte di Rachele per mano de’ Castigliani sollevati. Le stranezze dello stile, l’irregolarità, la buffoneria alternata con gli evenimenti tragici, non offuscano del tutto l’energia e la verità che si osserva nella dipintura delle passioni e de’ caratteri di Rachele innammorata ed ambiziosa, e di Alfonso accecato dall’amore. Traluce agli occhi curiosi e sagaci qualche pensiero vigoroso e naturale, benchè sommerso, per così dire, da una tempesta di metafore spropositate. Tale parmi nella giornata I ciò che Rachele risponde al padre che vuol sugerirle quel che dir debba al re. Non ho bisogno, gli dice, delle vostre ragioni per persuadere; e quando mai, aggiugne, il {p. 50}di lui sdegno confondesse il mio discorso,

Yo harè que enmienden los ojos lo errores de mi labio.

Tale nella giornata II è la risposta data da Rachele ad Alfonso. Lascia il rispetto, le dice il re,

Hablame como à tu amante,
No como à tu rey.

Raq.

No puedo,
Que ha poco que eres mi amante,
Y ha mucho que eres mi dueño.

Tale nella giornata III il congedo che Rachele condotta a morire prende dal padre.

Diamante scrisse anche una favola sul Cid, e Pietro Cornelio ne trasse alcuni pensieri. A lui debbe questo sentimento di Chimene,

Je sai que je suis fille, et que mon pere est mort.

Diamante avea detto ciò forse con maggior precisione,

El Conde es muerto, y yo su hija soy.

Ma in fine che brami? si dice a {p. 51}Chimene, ed ella presso il poeta francese risponde,

Le pursuivre, le perdre, et mourir après luy.

Diamante disse prima,

Perseguille hasta perdelle,
Y morir luego con ela

Ma sotto questo lungo e fecondo regno fiorì principalmente il famoso Pedro Calderòn de la Barca assai conosciuto in Francia ed in Italia, de i cui drammi sacri e profani si valse frequentemente l’istesso Filippo IV. Egli compose almeno centoventi commedie oltre al gran numero di prologhi o loas, delle quali una gran parte sino a nostri dì continua a rappresentarsi, e secondo l’apparenza continuerà ancora. Sino all’anno 1664 non n’erano usciti che tre tomi, i quali poi {p. 52}crebbero a nove oltre a sei altri impressi in Madrid nel 1717, che contengono settantadue autos sacramentales. Ma il numero di questi e delle commedie apparisce molto maggiore perchè gliene attribuirono altre non sue per accreditarle col di lui nome.

Di questo celebre commediografo variamente giudicarono i critici, e forse sempre con ingiustizia. Deificato da alcuni fu trattato da altri qual mostro e corruttore del teatro. Non meritava la cieca idolatria de’ primi, avendo lasciate a’ posteri moltissime cose da migliorare; non le amare invettive degli altri a cagione di molti pregi che possedeva. Blâs de Nasarre, il quale cercò abbassare i più celebri drammatici spagnuoli, per sostituir loro un merito ideale di altri oscuri scrittori, declamò prolissamente contro le stravaganze, gli errori e l’ignoranza di Calderòn. Senza dubbio questo poeta (per accennarne alcuna cosa in generale prima di scendere alle particolarità di qualche sua favola) mostrò di {p. 53}non conoscere, o almeno non si curò di praticare veruna delle regole che è più difficil cosa ignorare che sapere: pensando far pompa di acutezza nell’elevare lo stile, si perdè, non che nel lirico, nello stravagante, e, per dirla col signor Andres medesimo suo compatriota, ne’ ghiribizzi e negli agguindolamenti: abbellì i vizii (errore sopra ogni altro inescusabile) e diede aspetto di virtù alle debolezze: fece alcun componimento di pessimo esempio come el Galàn sin Dama: cadde sovente in errori di mitologia, di storia, di geografia. Ma Calderòn ebbe una immaginazione prodigiosamente feconda: non cedeva allo stesso Lope nell’armonia della versificazione: maneggiò la lingua con somma grazia, dolcezza, facilità ed eleganza: seppe chiamar I’ attenzione degli spettatori con una serie di evenimenti inaspettati che producono continuamente situazioni popolari e vivaci. Sono, è vero, i suoi ritratti per lo più manierati e poco somiglianti agli originali che {p. 54}ci presenta la natura; ma non si allontanano molto dalle opinioni dominanti a’ giorni suoi. Oggi che si conosce colà tutto il ridicolo della smania cavalleresca e de i duellisti mercè del piacevole pennello di Miguèl Cervantes, i personaggi di Calderòn rassembrano tutti Rodomonti e Pentesilee erranti; ma era cosa comune al suo tempo che un cavaliere prendesse di notte le sue armi, andasse in ronda sospirando sotto le finestre della casa della sua bella, e si battesse con chi passava. Per giudicar dritto di un autor comico, non basta intender l’arte, ma convien saper trasportarsi al di lui secolo.

I generi scenici da lui coltivati furono tre, l’allegorico degli auti sacramentali, le favole istoriche, e le commedie di spada e cappa.

Quanto agli auti sembra che egli non avesse compresi gl’inevitabili inconvenienti attaccati al maneggiar sulla scena la delicata materia de’ misteri della nostra religione. Al vedere egli {p. 55}deliziavasi nell’interpretarli con mille giuochetti puerili sulle parole e con tante buffonerie de’ personaggi ridicoli. Eccone qualche prova. Cristo (dicesi in un auto) morì alla strada de las tres Cruces, alludendo con equivoco meschino alle croci del Calvario e alla calle de las tres Cruces di Madrid. Con simile equivoco si dice che la Samaritana abita alla calle del Pozo. Con istrano anacronismo intervengono in un medesimo auto personaggi divisi di tempi e di paesi, come la Trinità, il demonio, san Paolo, Adamo, s. Agostino, Geremia. L’Appetito, il Peccato, una Rosa, un Cedro, il Mondo, si trovano personificati negli autia. In quello intitolato gli Ordini Militari si figura insipidamente che {p. 56}Cristo venga a domandare la Croce al Mondo, e che questo personaggio per concedergliela voglia sentirne l’avviso di Mosè, Giobbe, Davide e Geremia, i quali affermano che egli la meriti pel quarto del Padre; dopo di che il Mondo si determina a dare a Cristo la Croce, affermando non averla sinora concessa a veruno se non per onore. Nel Laberinto del Mondo l’Innocenza rappresentata dalla Graziosa, che corrisponde alle nostre Servette e Buffe, in presenza di Theos che è Gesù Cristo venuto su di una nave a redimere il mondo, dice del mare,

… por mi cuenta he hallado
Que no es grazioso el mar aunque salado;
Mas fuera dicha suma
Que el chocolate hiciera tanta espuma.

Garcia de la Huerta per giustificar l’anacronismo di Calderòn di aver fatto usar l’artiglieria in tempo dell’imperadore Eraclio, citò Milton che pur l’introdusse nel combattimento degli {p. 57}Angeli, ed aggiunse che l’uno e l’altro sublime ingegno pospose con uguale ardire e felicità lo proprio à lo sublime y maravilloso. Non so se nell’auto riferito Calderòn si propose ancora in grazia del sublime e del maraviglioso di mentovar l’uso del chocolate prima della venuta di Cristo; almeno non costa che gli Angeli avessero fatto uso ancora di questa pozione Messicana.

Ma è inutile di più trattenersi su gli auti sacramentali banditi al fine per sempre da teatri spagnuoli. Erano già tre mesi nel settembre del 1765 quando giunsi in Madrid, che per real rescritto del gran monarca Carlo III se n’era proibita la rappresentazione per lo scandalo che producevano le interpretazioni arbitrarie e gli arzigogoli de’ poeti stravaganti su di così gran Mistero, e per l’indecenza di vedersi sulle scene una Laide rappresentar da Maria Vergine, una mima elevar la sfera sacramentale, e cantare il Tantum ergo.

Nelle favole istoriche dove {p. 58}introduconsi personaggi reali, regnano le principali stranezze tanto nello stile per cercarsi il sublime, quanto nelle apparenze e negli accidenti accumulati senza modo per correre dietro alle novità, ed all’inaspettato ad oggetto di chiamare il concorso. Calderòn ne compose moltissime che possono dirsi senza esitanza stravaganti; p. e. las Armas de la Hermosura, in cui Coriolano diventa un vero cavaliere errante de’ bassi tempi: Finezza contra finezza, in cui si ammassano evenimenti disparati ed apparenze senza numero, e si stravolge il bellissimo episodio di Olinto e Sofronia del gran Torquato: la Aurora en Copacavana che a stento m’induco a crederla lavoro del Calderòn. In essa i Peruviani sono delineati a capriccio, e la storia dello scoprimento di Pizarro vi è adulterata ed involta in miracoli ed apparenze senza oggetto e senza giudizio, divenuta tutta fantastica per mezzo dell’Idolatria personaggio allegorico, che si agita, medita, eseguisce mille incantesimi senza {p. 59}perchè e senza sapere ella stessa nè quel che si voglia nè quel che intenti.

Pur tra simili sue favole istoriche se ne leggono alcune più interessanti e più sobrie, per varii tratti poetici e per situazioni pregevoli, se voglia usarsi loro indulgenza per la solita manifesta irregolarità. Prescelgo in questo genere tragico, malgrado delle buffonerie, la Hija del aire, el Tetrarca de Jerusalen, la Niña de Gomes Arias.

Sotto il nome di Hija del aire (figlia del vento) Calderòn non altrimenti che l’italiano Muzio Manfredi, pubblicò due favole sulle avventure di Semiramide. Nella prima ne dimostrò la prima gioventù, l’educazione selvaggia avuta ne’ monti, le sue nozze con Mennone indi con Nino re degli Assiri. Nella seconda trattò del di lei regno dopo la morte di Nino, della maniera come tolse il freno del governo al figliuolo inetto e regnò sotto spoglie virili e della di lei morte. Nell’una e nell’altra è dipinto vivacemente {p. 60}il carattere di questa regina straordinaria piena di valore e di ambizione; ma nella seconda sono gli evenimenti assai più dilettevoli e più atti a tirar l’attenzione dell’uditorio.

El Tetrarca de Jerusalen contiene le avventure di Marianna ed Erode, ed è forse la più famosa delle sue rappresentazioni istoriche, e quella che più spesso ho veduta riprodursi sul teatro di Madrid. La favola si aggira sul timore che ha Marianna di una predizione di un astrologo che ella perirebbe preda di un gran mostro, e che Erode col pugnale che sempre porta allato darebbe la morte alla persona da lui più amata. Risaltano in questa favola il carattere di Marianna virtuosa quanto bella e quello di Erode eccessivamente amante e geloso.

Nell’atto I Erode tenta dissipare i timori di Marianna riguardo al mostro, e perchè non abbia a temere del pugnale, lo getta in mare, supponendo il poeta che Gerusalemme fosse città marittima. Ma questo ferro fatale va a {p. 61}cadere appunto su di un uomo che a nuoto tenta salvarsi da un naufragio, e questi è Tolomeo suo capitano da lui mandato in soccorso di Marcantonio contro di Ottaviano. È condotto questo Tolomeo col pugnale fitto nel corpo, e prima che spiri fa un racconto del trionfo di Ottaviano e dell’armata ebrea distrutta dalla tempesta. Ma egli a dispetto del pugnale che l’ha trafitto, vuole tutto ciò riferire in settantacinque versi ripieni di concettuzzi e di circostanze inutili, entrandovi il bucentoro di Cleopatra lavorato di avorio e di coralli, il mare divenuto Nembrot de’ venti che pone monti sopra monti e città sopra città, la tavola su di cui si salva Tolomeo fatta delfino impietosito, il ferro che l’ha trafitto divenuto cometa errante, che corre la sfera dell’aria contro l’umano vascello del di lui corpo. Un poeta più sobrio avrebbe ad un moribondo risparmiato almeno sessanta di questi versi ed un pajo di dozzine di pensieri stravaganti.

{p. 62}
Tout ce qu’on dit de trop est fade et rèbutant.

Intanto Ottaviano in Menfi per alcune carte comprende i disegni di Erode. E quali sono? Aspirare a divenire imperadore di Roma. È una ipotesi troppo inverisimile e ridevole per accreditar le situazioni che seguono, che un Idumeo signore di una parte della Palestina nel tempo che contendevano Ottaviano e Marcantonio dell’impero del mondo, concepisca il disegno di farsi padrone di Roma. Ottaviano tralle carte nominate appartenenti ad Aristobolo ha trovato un ritratto della bella Marianna, e gli vien dato ad intendere esser quella dipintura immagine di una bellezza estinta. Il poeta riconduce lo spettatore a Gerusalemme ad ascoltare un dialogo di Marianna ed Erode che aringano ed argomentano a vicenda.

In Menfi comincia l’atto II che poi termina nella Giudea. Nell’intervallo degli atti si figura il Tetrarca fatto prigioniero, ed è condotto alla presenza {p. 63}di Ottaviano, che ha nelle mani il ritratto di Marianna. Erode s’ingelosisce; Ottaviano lo minaccia e rimprovera, e gli volge le spalle; Erode tenta di ferirlo col suo pugnale. Per render verisimile questo attentato, dovrebbe supporsi che Ottaviano si trattenesse col nemico senza verun testimonio, senza corteggio, senza guardie. Ma chi lo salva dalla morte? Una copia grande al naturale tratta dal ritrattino, la quale cadendo dal muro si frappone e riceve il colpo destinato ad Ottaviano. Il pugnale tolto dalla percossa immagine rimane in potere di Ottaviano, ed Erode è condotto ad una torre per aspettar la sentenza della sua morte. La gelosia gli fa vedere la sua Marianna in potere del nemico che ne tiene varii ritratti. Pensa ad impedirgliene il possesso ancor dopo che egli sarà morto, ed in una lettera ordina la di lei morte, e la manda a Tolomeo. Per un intrigo amoroso di una damigella questa lettera passa nelle mani della stessa Marianna, che con somma {p. 64}maraviglia e dolore ne legge il contenuto. Le giuste sue querele sono patetiche, ma confuse in un mucchio d’espressioni fantastiche. È notabile la situazione di Marianna, dopo la lettura di quel foglio. La tormentano l’amore e l’indignazione; nè a questo punto patetico altro manca che una esecuzione più naturale ed espressioni spogliate da i delirii de’ secentisti.

L’atto III passa in Gerusalemme. Marianna si presenta ad Ottaviano coperta di un velo, e domanda la vita del consorte. Egli non vuole udirla, e le dice,

Si enternecer no espero mis iras, paraque con ellas luchas?

e Marianna con grandezza e vivacità ripiglia,

Paraque tu gobiernas sino esouchas?

Ottaviano convinto da tal detto si arresta, ma ricusa di ascoltarla se non discopre il suo volto. Marianna si discopre, ed è conosciuta per {p. 65}l’originale della pittura. L’imperadore concede la grazia domandata e nobilmente dilegua anche ogni sospetto svegliato in Erode alla vista de’ ritratti. Erode vuol mostrare la sua gratitudine alla moglie, ma ne ammira la somma mestizia e le lagrime. Ne vuol sapere la sorgente, e Marianna gli rimprovera l’ordine dato per farla morire, mostrandogli il foglio di lui. Molti pensieri patetici e vigorosi si trovano sparsi nelle di lei querele; ma sono frammischiati a varie impertinenze pedantesche di quel tempo. Ella si ritira al suo appartamento per mai più non vederlo, giurando por los dioses che adoraa che si getterà in mare, se ardisce entrarvi. Intende Ottaviano la strettezza in cui vive Marianna, e risolve di andar di notte a vederla. Quì Ottaviano diventa un innamorato di spada e cappa che {p. 66}si accinge ad un’ avventura notturna; là dove egli prima per dissipare i sospetti del Tetrarca magnanimamente diede ragione della maniera onde acquistato avea il ritratto, e di più lo lasciò in potere della stessa Marianna. Egli in fatti entra di notte nelle stanze di lei con poco decoro della maestà e con rischio della fama della regina. L’incontra, offerisce liberarla (quando che dovea e potea farlo decentemente colla propria autorità). Marianna gli dice che la sua prigionia è volontaria. Puerilmente ancora Ottaviano s’invaghisce un’altra volta del ritratto che spontaneamente le avea consegnato, e la regina glielo nega e vuol bruciarlo. Ottaviano insiste, l’impedisce, vuol prenderlo a viva forza. Ella minaccia di ammazzarsi col pugnale di Erode che Ottaviano porta al fianco. Non è questa una contesa tutta comica ed indecente contraria alla verisimiglianza ed al decoro di simili personaggi? Ottaviano si arresta; ella fugge e getta via il pugnale; egli le corre dietro. {p. 67}Chi riconosce più in tal conflitto e strano inseguimento l’Ottaviano del resto della favola? Il Tetrarca viene col disegno di tentar di parlare a Marianna. Si maraviglia de’ fregi donneschi sparsi per la stanza; si avvede del suo pugnale che era rimasto in potere dell’imperadore; ode la voce di lui e quella di Marianna; sente tutta la sua gelosia; imbatte in Ottaviano; l’affronta; Marianna per separargli smorza il lume. Erode perde la spada, impugna il pugnale, incontra Marianna e l’ammazza, e poi si getta in mare.

Questa è la favola del Tetrarca de Jerusalèn che l’autore volle chiamar tragedia, ad onta delle buffonerie che quì ho tralasciate, dell’irregolarità e delle avventure comiche notturne; conchiudendo, che quì termina la tragedia, restando adempiuto l’influsso. Ed in ciò ancora è da riprendersi il poeta; perchè in vece di prefiggersi l’insegnamento di una verità, cioè che le passioni sfrenate e la pazza gelosia cagionano ruine e miserie, egli si è {p. 68}studiato d’insegnare che esse provengono dall’influsso degli astri. Era questa una bella moralità da insinuarsi dalle scene? Si combattono in tal guisa gli errori volgari? È questa una dottrina concorde colla libertà umana e colla religione? Calderòn incorse nel medesimo difetto nell’altra sua favola reale la Vida es sueño.

Credè il signor Giovanni Andres che il Francese Tristano avesse tolto l’argomento della sua Marianna dal Tetrarca di Gerusalemme. Ma che mai trovò egli di rassomigliante nella condotta della tragedia francese e della favola spagnuola, in cui si vedono le additate tinte comiche miste alle tragiche, tante irregolarità, que’ ritratti adorati dal poco grave Ottaviano, quelle avventure notturne, il passaggio alternato da Gerusalemme a Menfi e da Menfi a Gerusalemme, la cura puerile del poeta di accreditar gli errori volgari dell’influsso? Ben però è certo che Lodovico Dolce precedè di un secolo Calderone e Tristano nel porre sulle {p. 69}scene l’argomento della morte di Marianna e della gelosia di Erode riferita da Giuseppe Ebreo, e ne formò una tragedia regolare recitata con tale applauso in casa di Sebastiano Erizzo che quando volle ripetersi nel ducal palazzo di Ferrara, la calca che vi accorse ne impedì la rappresentanza. E chi non vede quanto più la Marianna di Tristano rassomigli quella del Dolce, il quale, se ne togli qualche languidezza ed espressione troppo famigliare, formò con giudizio di quella storia una vera tragedia regolare ed interessante? Ma siccome non dubitiamo di affermare che il Dolce per invenzione ed arte di tanto precedè il francese e lo spagnuolo, così confessiamo che egli, non osando abbandonar la storia, non migliorò quanto doveva i caratteri di Marianna e di Erode; là dove a mio avviso Calderòn dipinse più vivacemente il geloso furor di Erode, e rendè più interessante il carattere di Marianna amante, offesa, virtuosa, sensibile e grande. Osserviamo ancora che l’Italiano nello {p. 70}scioglimento produsse assai meglio l’effetto tragico di quello che fece lo spagnuolo colla morte di Marianna seguita all’oscuro per un equivoco mal congegnato. Ci sembra però nel tempo stesso che il Dolce avrebbe meglio eccitato il terrore, se non avesse scemata l’odiosità prodotta dall’insana sevizia del tiranno coll’infruttuoso suo pentimento; o se dopo l’eccidio egli avesse con tutta evidenza fatto conoscere al geloso il suo inganno e l’innocenza di Marianna.

La Niña de Gomes Arias contiene la detestabile dipintura di un soldato discolo colpevole di più delitti, e segnatamente di tradire tutte le semplici donzelle che le prestano fede. Dorotea trafugata dalla casa paterna viene da lui, che già n’è sazio, abbandonata in un deserto mentre dorme a piè dell’Alpujarra, ne’ cui monti (presa Granata da Ferdinando ed Isabella) si permise che dimorassero alcuni Mori come tributarii, i quali di tempo in tempo calavano al piano e rendevano schiavi i passeggieri. Allo svegliarsi Dorotea, {p. 71}vedendosi dappresso un Affricano, cerca lo sposo. Questa situazioue esigeva altre espressioni che le seguenti false e inverisimili. Ella domanda al Moro:

Dime que has hecho del dia,
Atezada nube parda?
Sombra que has hecho del sol?
Noche que has hecho del alba?

È presa da’ Mori, ma vien liberata da alcuni soldati cristiani, e condotta in una casa dove dimora l’istesso Gomes suo traditore. Stà egli colà pensando di menar via un’altra donzella di quella casa stessa, e per errore porta seco Dorotea. All’apparir del dì nell’atto III la riconosce, e si trovano nel medesimo luogo dove l’abbandonò la prima volta, cioè a vista di Benamexì città de’ Mori. Dispettoso l’oltraggia, l’ingiuria, vuol di nuovo abbandonarla. Piagne la meschina, domanda la morte; ma l’inumano fa una risoluzione più barbara, e invitando i Mori a calare tratta di venderla. Meritano di notarsi le querele di Dorotea, malgrado de’ freddi concetti che le deturpano. {p. 72}Nedarò una mia traduzione, e ne’ passi dove i tratti patetici vengono traditi dalle false espressioni, non sostituirò ad esse i miei pensieri, ma le trascriverò a piè di pagina. Ecco come a lui parla Dorotea.

Mostro, barbaro, ingrato, ove, trascorria?
Vender mi vuoi tiranno? A un mostro vile
Vendermi! oimè! senza pensar che schiava
Se mi fe un folle amor, libera io nacqui?
{p. 73}
Di qual barbaro mai, di qual selvagio
Tanta infamia si udì? Quella che amasti,
Nè vo’ già dir la sposa tua, tu stesso
Meni di un altro in braccio? Il giusto cielo
Mi vendichi di te ; l’aria ti manchi,
Ti nieghi il sol la luce, e del tuo sangue
Ti vegga asperso, e dell’infame busto
Un cernefice vil quell’empio capo
Recida… Ma che dico ? Oimè, ben mio,
Mio sposo, mio signor, tua schiava io sono,
Fa di me quel che vuoi. Ma se ti offesi,
Se nel tuo sdegno incorsi, uccidi, mora
La schiava tua senza cangiar catena.
Splenda a te sempre mai propizio il sole,
{p. 74}
Placida l’aura ti vezzeggi, un terso
Specchio l’acqua ti sia, per te la terra
In ridente giardin tutta si cangi.
Il fiero Cagnerì cui tu mi vendi,
Quel dì che in preda mi lasciasti al sonno,
Amante si mostrò, chè il ciel dispone
Ch’io nell’essere amata ed abborrita
Sia del pari infelicea ! Or tu vorrai
Darmi in sua man, nè sentirai quel gelo
Che suol provarsi ancor per chi si abborre?
Se amor non può, ti renda onor geloso.
Io pure udii dal labbro tuo talvolta
{p. 75}
Che sposo mio saresti. Ah per sì caro
Nome che meritai qualche momento,
Signor, pietà, mercè,
Deh non lasciarmi, oimè!
Presa in Benamexì
In man del Cagneria
Chè se per non serbar la data fede,
Fuggir mi vuoi, ben ti prometto e giuro
Obbliarla per sempre ed in un chiostro
Girmi a chiuder di quì, dove co’ voti
Dal Ciel t’implorerò giorni felici
{p. 76}
Quel tempo che il dolor della tua assenza,
Della perdita tua, mi lasci in vita.
E se Beatrice ingelosir pur temi,
Se mi vedrà tornar teco a Granata,
Io stessa a lei dirò che per errore
Di sua casa salii, che vi ritorno
I suoi dubbii a calmar, che di mio padre
L’ira io fuggia, tu lei salvar credendo
Salvasti me ; ma che non v’è fra noi
Ne mai fu arcano onde si adombri e offenda.
E quando in servitù vuoi pur ch’io viva,
Dia legge a me chi innammorar te seppe ;
Lei servirò ; nè più avvilir si puote
Disingannato amor, femminil fasto.
Ma se il mio pianto a intenerirti è vano
Per quel che sono, a quel che fui deh pensa
{p. 77}
Nacqui di nobil padre, il sai, da lui
Amata mi vedesti, e rispettata
Nella patria da nobili e volgari.
Ti ascoltai, ti credei ; patria ed onore
O memoria crudel !) per te perdei.
Pietà, signor, quel miserabil vecchio
Pensa qual resterà, quando l’infausta
Novella a lui del mio destin pervenga.
Vendicarsi vorrà, quando non sia
Altri uccidendo, colla propria morte.
Ma già…. misera me…! mi manca il fiato..
Mi balza il cor… dalla funesta rupe
Già scende il Cagnerìa….
{p. 78}
Signor, mio bene,
Pietà di me,
In te stesso per te ; cangi il pentirti
In merito il delitto ; o tu vedrai
Congiurato in tuo danno e cielo e terraa.
Signor, pietà, mercè,
Non mi lasciare, oimè!
Presa in Benamexì
In man del Cagnerì.

Ma l’infelice è dall’inumano Gomes data la potere dell’Affricano. Viene poi liberata dalle armi della regina Isabella, la quale informata delle di lei {p. 79}aventure, ed avuto in suo potere lo spietato Arias, decreta ch’egli risa rcisca l’onore di Dorotea sposandola ed indi perda la testa su di un palco.

Ognuno vede che questo atroce misfatto è lo stesso che commise un mostro Inglese in persona di una Caraiba, la quale oltre all’avergli dato il cuore e il possesso di se stessa, gli avea di più salvata la vita. L’uomo ingrato in ricompensa, giunto con lei a salvamento nella Barbata, vendè la sua benefattrice. Se l’argomento della favola del Calderòn è finto, egli immaginò quel che eseguì il detestabile Inglese. Se egli trasse dal fatto della Caraìba l’argomento del suo dramma, perchè mai trasportò dalla nazione inglese alla propria quell’infamia che eccita il fremito dell’umanità? E se tralle antiche leggende spagnuole si rinviene eziandio questa spietatezza (di che lascio a’ nazionali la cura d’investigarlo) egli è da dire che l’umana malvagità volle copiare se stessa, e far ripetere nel declinar del passato secolo {p. 80}ad un Inglese quel che già avea eseguito uno Spagnuolo.

Ma il merito particolare del Calderòn non si appalesa nelle favole istoriche, ove per lo più volendo esser tragico, grande, sublime, diventa turgido, pedantesco, puerile. Egli trionfa nelle commedie dette di spada e cappa, presentando a’ sagaci osservatori un gran numero di situazioni interessanti, colpi di teatro curiosi disposti acconciamente, regolarità maggiore, stile più proprio del genere, e dialogo quasi sempre naturale. Quindi è avvenuto che mentre le commedie dello stesso Lope e di quasi tutti i suoi coetanei più non compariscono sulle scene di Madrid, vi si sostengono quelle del Calderòn. Noi qui potremmo addurne diverse degne di leggersi; ma ci contenteremo di quelle che più spesso si rappresentano, o che hanno alcun pregio particolare. Ben tessuto è il viluppo delle due commedie Casa con dos puertas mala es de guardar, e Tambien ay duelo en {p. 81}las Damas, le quali si rassomigliano ne’ colpi scenici. Tiene l’uditorio svegliato l’intrigo della commedia los Empeños de un acaso, dove per accidente più che per interesse passano i personaggi d’uno in un altro impegno. Lo stile è proprio del genere eccetto quando gli amanti vogliono parere spiritosi, fioriti, leggiadri, perchè allora diventano enimmatici e pedanteschi. Fu tradotta da’ Francesi col titolo les Engagemens du hazard.

Si rassomigliano in varie cose le commedie Nadie fie su secreto, ed il Secreto à voces; ma sono artificiose e naturali per alcune situazioni comiche. Nella prima un principe ama l’innamorata del suo favorito, e sapendone i secreti toglie agli amanti l’opportunità di parlarsi, di sposarsi, e di fuggirsi via. Nell’altra un servo diventa la spia del proprio padrone, che è il segretario di una principessa da cui è occultamente amato. Egli ama una dama della corte di lei, e la principessa ne sa l’amore, ma non {p. 82}l’amata. Gl’innamorati per comunicarsi anche in pubblico quanto passa, hanno stabilito tra loro una cifra, che rende inutili tutte le diligenze e gli avvisi della spia. Questo intrigo riesce piacevole, e sarebbe a desiderarsi che il poeta avesse renduta più verisimile la pratica della cifra. Senza mettersi per ipotesi che gli amanti sieno un Perfetti e una Corilla, cioè verseggiatori estemporanei, è impossibile persuadere all’uditorio ch’essi s’intendano. Ecco in che consiste la cifra. Colui che comincia a parlare, prende in mano un fazzoletto per avvisare all’altro che stia attento. Indirizza poi a’ circostanti un discorso diverso dal secreto, del qual discorso però ogni prima parola di un verso s’intende diretta all’amante; di modo che raccogliendo in fine tutte le prime voci, ne risulti l’avviso che si vuol dare. Questa cifra è soggetta a due opposizioni. Primieramente la prima voce da prendersi nella favola del Calderòn è sempre il principio di un verso, e non già {p. 83}di un periodo terminato. Di poi la lunghezza del discorso riesce inverisimile all’improvviso nel parlare, dovendosi fare due discorsi seguiti di materie differenti colle medesime parole. E se Calderòn vivesse, confesserebbe che a tavolino distese egli con qualche studio ciò che suppone che i suoi personaggi facessero estemporaneamente. Siane un saggio l’avviso che dà Laura all’amante nella giornata II. Ella vuol dirgli ciò che segue:

Flerida ha sabido ya
que de aqui no te ausentaste,
y que con tu dama hablaste,
de que muy zelosa està.

Ciascuna parola di questi quattro versi dee servire per prima parola di ogni verso del discorso generale indirizzato a tutti gli altri; di maniera che ciascuno di questi versi fornisce le quattro prime parole de’ quattro versi del sentimento che si dirige agli astanti. Eccone la prima strofa:

Flerida, cuya beltad
ha con tu ingenio igualado
{p. 84}
sabido es quanto ha mostrado.
ya mi afecto mi humildad.

Da ciò apparisce l’inverisimiglianza della pratica esecuzione di tal cifra parlando. Vi è però la maniera di migliorar tale artificio, per fuggir l’incoveniente che risulta dal far parere che il personaggio sappia esser la commedia scritta in versi.

Contansi tralle migliori commedie del medesimo autore per situazioni interessanti e per caratteri ben distinti: el Medico de su honra, Primero soy yo, Dicha y desdicha del nombre, el Garrote mas bien dado. La commedia No ay burlas con el amor contiene i caratteri di due sorelle che si contrastano; Leonora sensibile, facile e nell’espressioni e nelle maniere naturale: Beatrice schiva, ritrosa, nojosamente stoica, affettata. L’ostentazione dell’erudizione, greca e latina di Beatrice c’induce a sospettare che Moliere ne avesse tolta l’idea del suo componimento le Donne Letterate; ma ciò è incerto, e dall’altra parte {p. 85}è sicuro che il vivacissimo colorito della favola francese ha un impasto originale. La commedia Mejor està que estaba è fondata ( come la maggior parte delle spagnuole ) nel concorso di varii colpi di teatro. Ma ben notabile ( e l’avvertì anche il signor Lingueta ) è la situazione delle prime scene, in cui Carlo si ricovera in casa di Flora per avere ammazzato un uomo, ed è da Flora nascosto. Ella intende poscia che l’ucciso è il di lei cugino, nè perciò lascia di proteggerlò e salvarlo. In questa favola Calderòn non ha evitato il solito difetto di mescolar colle scurrilità le cose sacre. Il buffone stà parlando col Podestà, e gli è detto che si contenga nel dovuto rispetto alla presenza del Podestà. Norabuena, egli risponde,

Diciendo yo la verdad,
ser que importa en conclusion
el Trono, ò Dominacion,
{p. 86}
Quanto mas el Potestad.

In tutte le favole Calderoniche non è da cercarsi regolarità ed unità nel tempo, nel luogo, nell’azione e nell’interesse. Ma nella sola favola los Empeños en seis horas si trova di’ proposito racchiusa l’azione quasi nel tempo della rappresentazione. Ben si vede che l’autore volle tesserla con tale angustia, non per osservar le regole che prescrive la verisimiglianza, ma per desiderio di riuscire in una impresa allora forse riputata difficilissima. Di fatti egli si studiò sempre di trovare argomenti artificiosi capaci di recar meraviglia; senza industriarsi di cercarli idonei ad ispirare amore per qualche virtù o a rilevare alcuna massima istruttiva. E che insegna quest’intrigo degl’Impegni in sei ore? Per mezzo di un manto si prende senza verisimiglianza un equivoco, per cui Nisa è creduta Porzia da un personaggio che viene a sposar quest’ultima. E quando l’equivoco si scioglie, che mai vi s’impara? Sarebbe incessantemente da {p. 87}inculcarsi a’ poeti scenici, che il diletto non mai dee andar disgiunto dall’insegnamento. Ma ad onta di tanti difetti di regolarità, di stile ed istruzione, le favole di Pietro Calderòn de la Barca contengono molti pregi, pe’ quali piacquero e piacciono ancora in Ispagna, e trovarono traduttori ed imitatori in Francia prima di Moliere ed in Italia nel passato secolo. Chè se altrettanto non è concesso a tanti e tanti commediografi, bisogna dire che nelle di lui favole si nasconda un perchè, uno spirito attivo vivace incantatore, per cui, secondo Orazio, sogliono i poemi ascoltarsi con diletto quante volte si ripetono. Egli è questo perchè, questo spirito elettrico che sfugge al tatto grossolano di certi freddi censori di Calderòn.

Nel tempo che egli di tanti componimenti arricchiva il teatro castigliano, altri poeti fiorirono ancora, ma principalmente Agostino Moreto ed Antonio Solis, i quali per avventura nulla a lui cedevano per fantasia, e lo {p. 88}superavano per qualche altro pregio.

Moreto giusta il costume del secolo scrisse varie commedie in compagnia di altri poeti, e non poche ne produsse solo raccolte in tre volumi, de’ quali il primo uscì in Madrid l’anno 1654; ma cessò di comporne tosto che fu iniziato negli ordini sacri, ai quali indi ascese. In generale questo scrittore usa della libertà spagnuola meno dal Calderòn, per lo più nelle sue favole distendendosi la durata dell’azione a pochi giorni. Ha parimente più copia di sali e più lepidezza; dipinge i caratteri con maggior vivacità comica; i suoi colpi di teatro hanno più varietà. Se la moda e l’esempio non avesse rapito Moreto, forse in lui sarebbe surto il Moliere delle Spagne. La perizia che possedeva in rilevare il ridicolo di un carattere, comparisce singolarmente nella sua commedia el Marquès del Cigarral. Questo marchese è un ridicoloso vantatore tutto pieno di una sognata nobiltà, di cui pretende tirar l’origine da Noè. Il signor Scarron, {p. 89}la tradusse in Francia intitolandola Don Japhet, ma non contentandosi di ritenerne le grazie, la caricò fuor di proposito. Lo stile di Moreto generalmente è moderato e proprio del genere comico, eccetto quando parla l’innamorato, perchè allora egli si perde nel lirico e nello stravagante al pari degli altri. Le facezie ed i motteggi sono graziosi e frequenti; ma egli segue i compatrioti nell’usanza di scherzare sulle parole sacre. Don Cosmo dice nella giornata I ad Ephesios responsion, nella II giura il personaggio por el santisimo bote de la Magdalena santa, nella III esclama valgame todo el Psalterio. Lo spettatore volgare che altra scuola pubblica non suole avere che il teatro, si conferma con ciò nell’abito di abusare delle sacre espressioni. Moreto non pertanto pieno di buon senso vide molti difetti del teatro spagnuolo, e più di una volta ne rise. In questa favola motteggia sull’uso d’introdurre i servi buffoni, che sono gli arlecchini di quelle scene, ad {p. 90}assistere ai discorsi de’ principi, ed a mettervi il loro sale. Quanto alle unità di tempo e di luogo si vale de’ privilegii nazionali ma con discretezza. L’azione comincia in Ortaz e prosegue e termina in Consuegra, e vi s’impiega almeno lo spazio di dodici giorni; dicendo don Cosmo nella I giornata a Leonora che vada a Consuegra, dove egli si porterà passati dieci giorni e nella prima scena poi della II giornata,

Ayer se cumplio el plazo prometido,
En que ha señalado su venida.

Sono dunque trascorsi undici giorni, e l’azione principale non è pure incominciata,

Ma egli compose la Confusion de un Jardin, in cui seppe tessere un’azione regolare passata in un giardino nel giro di una notte. Anche in essa riprese i compatriotti che appiccavano indivisibilmente agli innamorati i buffoni con manifesto detrimento della verisimiglianza. Egli fa che l’innamorato all’entrar nel giardino dia {p. 91}congedo al suo servo, il quale si lagna di essere il primo servo con cui il padrone non si consigli, e che rimanga escluso da i di lui secreti maneggi. Si vede che Moreto volle comporre una favola dentro le regole senza dipendere dall’uso spagnuolo. Essa è tanto regolare quanto gl’Impegni in sei ore del Calderòn; ma è più semplice, meno caricata di accidenti, e non meno dilettevole. Ma queste commedie che noi con ingenuità mettiamo alla vista, sono state forse additate da’ Nasarri e da’ Lampilli? E lasciando gl’innumerabili insetti del Parnasso spagnuolo che professano di tutto ignorare, il signor Andres le ha mai contate fralle buone della sua nazione, egli che s’immaginò di avere assicurato il suo trionfo colla Celestina alla mano la quale, mel permetta pure, egli mal conobbe? E Garzia de la Huerta, inurbano Gongorista, che solo stava bene in Orano, le ha mai poste in vista? Si confrontino le loro scritture. Anche in questa favola si {p. 92} osservano le solite allusioni buffonesche alle cose sacre; essendo preso un cavaliere nel giardino, la Graciosa dice,

Es noche de Jueves santo,
Que se hace prision en huerto.

Non dee, però dissimularsi che nè gl’Impegni in sei ore, nè la Confusione di un Giardino ho mai veduto rappresentare in Madrid nella mia ben lunga dimora.

El desdèn con el desdèn, altra commedia del Moreto, comparisce sempre con nuovo diletto sulle scene castigliane. Benchè sottoposta ai soliti difetti d’irregolarità, vi si ammirano pennelleggiate con somma maestria le passioni di una dama bizzarra che vuol parere superiore all’amore. Moliere la tradusse intitolandola la Princesse d’Elide; ma questa copia, fatta per altro frettolosamente, sembra assai fredda a fronte dell’originale. Che vivacità in Moreto! Che delicato contrasto di un orgoglio nutrito sin dalla fanciullezza, e di un amor nascente nel cuore di Diana! Che interesse in {p. 93}tutta la favola progressivamente accresciuto a misura che si avanza verso il fine! Tutto questo si desidera nella copia che ne abbozzò Moliere. In prima questo gran comico francese trasportò l’azione fra remotissimi principi Greci d’Elide, d’Itaca, di Pilo e della Messenia; e con ciò alla bella prima ne diminuì l’evidenza e l’interesse, che fuor di dubbio noi prendiamo più facilmente per oggetti che più a noi si avvicinano. Di poi quel Moròn francese comparato col ben grazioso Polilla spagnuolo comparisce un freddo buffone. Appresso l’Eurialo di Moliere, che è il conte di Urgel di Moreto, introduce il suo stratagemma di fingersi nemico d’amore spogliato di circostanze che l’accreditino, ed in un modo languido che annoja coloro che conoscono l’originale spagnuolo. Inoltre l’insipidezza colla quale la principessa d’Elide entra nell’impegno d’innammorare Eurialo, copre di gelo l’invenzione di Moreto. Je vous avove (atto 2 scena 5)que cela m’a {p. 94}donnè de l’émotion, et je souhaiteroisfort de trover les moyens de chàtier cette hauteur. Qual differenza da queste parole a quelle della scena di Diana con Cintia in cui nasce l’impegno di lei! Con quanta energia ella s’irrita alla freddezza di Carlo! Qual pennellata maestrevole in questi due versetti:

Aunque me cueste un cuidado,
He de rendir à este necio,

ne’ quali tutta si manifesta l’anima orgogliosa di Diana, e la facilità ch’ella si lusinga d’incontrare a vincerlo! Giunto io in Madrid la prima volta m’imbattei ad udirli espressi dalla singolare attrice Mariquita Ladvenant con tal sagace misto di certa sicurezza maestosa, di dispetto, e di un riso ironico, che pareva di aver letto nell’anima di Moreto. Nè anche la copia francese rappresenta in menoma parte le vaghe tinte originali di una scena della II giornata, in cui Carlo cade a palesarsi amante, e vien trattato da Diana coll’ultima fierezza e col disdegno più altiero. Per la qual cosa egli scaltramente {p. 95}ripiglia la dissimulazione, ed ella rimane mortificata e sempre più impegnata ad innamorarlo davvero. Invano parimente si cerca nella copia la bellezza della scena della III giornata, in cui Carlo si finge preso di un’ altra e la chiede in isposa, così che la gelosia finisce di trionfare del cuore di Diana. E finalmente la languidezza, con cui la principessa d’Elide vuole esigere da Aglante che la vendichi rifiutando la mano di Eurialo, se si confronti colle infocate espressioni di Diana gelosa, superba e disprezzata, rassomiglia un suoco fiaccamente dipinto alla vista di una fornace ardente.

Anche l’altro valoroso comico francese Regnard rimase al di sotto di Moreto nell’imitare ne’ suoi Menecmi varie scene piacevoli della commedia di Moreto la Occasion hace el ladron. In essa una baligia cambiata ed un nome preso a caso da un cavaliere cui importa di non esser conosciuto, forma un intrigo assai vivace. Vi si veggono con molto artificio condotte {p. 96}le comiche situazioni, e con verità dipinti i caratteri, specialmente quello di don Manuel de Herrera in cui sí ravvisa un natural ritratto dei discendenti de’ nobili, che commettono azioni ingiuste degne d’ogni rimprovero, e pure credonsi onorati, purchè non rubino; quasi che l’infamia dipenda da questo solo genere di delitti. Il sign. Linguet ha renduto a Moreto tutta la giustizia per questa favola preferendola a quella de’ Menecmi di Regnard. Egli l’ha inserita nel suo Teatro Spagnuolo con altre due del medesimo autore, cioè col Parecido en la corte, e con No puede ser guardar la muger. Il Parecido è una commedia di rassomiglianza che ha varie scene piacevoli, e dove il buffone ha una parte competente. L’altra è stata adottata dagl’istrioni dell’Italia e recitata spesso estemporaneamente, ossia a sogetto. Ma in questa si vuole osservare che il poeta per sostenere il sentimento opposto introduce un fratello che non è la persona più scaltra del mondo nè {p. 97}la più atta a vegliare su gli andamenti della sorella; ed oltre a ciò essa è da riporsi tralle favole di cattivo esempio che danno peso appo i volgari alle massime perverse del libertinaggioa.

Termineremo di parlar del Moreto colla commedia intitolata el Valiente Justiciero, nella quale si ritraggono al vivo le tirannie baronali, quando regnava in Ispagna con tutto il vigore il governo feodale. Vi si rappresenta un Rico-Hombre di Castiglia padrone di Alcalà e delle città, castelle e villaggi che le sono intorno, vantandosi egli di passeggiare sempre per le proprie possessioni per dieci miglia di circuito, e queste non ottenute già per mercede da qualche sovrano, ma guadagnate contro i Mori a colpi di lancia. Egli gonfio non meno della ricchezza, che del legnaggio dice,

{p. 98}
… que en Castilla
viò Ricos-hombres mi casa
antes que Reyes su silla;

laonde rende a se stesso giustizia in questa guisa,

Pues quien ha de poner ley
en un hombre como yo,
que ya que Rey no naciò,
tampoco es menos que el Rey?

Queste pennellate eccellenti preparano ad intenderne le ingiustizie e le violenze; e vien descritto come ingannatore di nobili donzelle deluse con parola di matrimonio, e poi rifiutate con discortesia e disprezzo, come rapitore di spose illustri, come derisore dell’autorità reale quando si tratta della sua pretesa giurisdizione. È degna di osservarsi l’ultima scena della prima giornata, in cui il rico-hombre chiamato Don Tello riceve nella propria casa il re don Pietro detto il crudele in qualità di un privato cortigiano chiamato Aguilera. Don Tello parla con poco rispetto del re che crede assente, ed il finto Aguilera alzandosi ne lo {p. 99}riprende con bizzarria; ma don Tello quasi sdegnandosi di corrucciarsi con una persona tanto, al suo credere, a lui inferiore per nobiltà e per valore, gli dice con tranquilla superiorità,

Sientese el buen Aguilera.

Questo tratto di alterigia è vendicato nella II giornata. Don Tello è costretto dal re a venire a Madrid. Entra nella reale udienza, ed è obbligato ad aspettar lungo tempo il sovrano, il quale esce al fine ad ascoltarlo, ma mostrando di leggere una lettera, nè badando a don Tello che gli s’inginocchia davanti. Il buffone che al solito assiste a questo incontro, rileva cotal disprezzo, e motteggia sul padrone mortificato col ripetere quel verso

Sientese el buen Aguilera.

Dipoi don Tello pe’ suoi delitti è condannato a morte. Perchè egli più di una volta ha mostrato disprezzo del valor personale del re che si teneva per prode, per ordine secreto del sovrano è condotto fuori della prigione e di Madrid. Il re senza farsi conoscere {p. 100}duella con lui, lo disarma, e si scopre, godendo di avere umiliato e convinto l’orgoglioso vassallo non meno del proprio podere che della gagliardia.

Prima di passare alle commedie di Antonio Solis, quest’ultima favola del Moreto ci torna in mente quante volte i poeti spagnuoli hanno introdotti i sovrani, che deposta la maestà si trattengono in domestici colloquii con contadini senza scoprirsi. Distinguonsi in tal particolare altre due commedie applaudite, e solite anche al presente a rappresentarsi in Madrid, cioè el Montattes Juan Pasqual, ed el Sabio en su retiro. La prima dicesi composta da un Ingenio, e vi è introdotto anche il re Don Pietro il crudele, il quale andando alla caccia obbligato da una improvvisa tempesta si raccoglie in casa del lavrador Juan Pasqual, con cui nel tempo della cena ragiona allegramente, ed intende parlar di se senza le basse lusinghe cortigianesche da un uomo di buon carattere, e fornito di saviezza. L’altra commedia, el {p. 101}Sabio en su retiro, appartiene a Giovanni Matos Fregoso, ed è la migliore delle sue favolea. Notabili sono in essa il carattere del re Alfonso detto il savio, e quello di un uomo di campagna pieno di virtù, e di buon senso naturale. Interessante singolarmente è la scena della loro cena; ed i discorsi del re, e di Juan Pasqual sono ben degni degli elogii de’ giornalisti francesi, e di Linguet. I miei leggitori vedranno forse con piacere tradotto qualche squarcio di questa favola; ed io prescelgo un discorso di Juan Pasqual, col quale s’indirizza all’autore della natura, perchè ne manifesta il carattere.

Arbitro di natura, alto sovrano
Della terra e del ciel, quali non debbo
{p. 102}
Grazie alla tua pietà, che di tai doni
Sì mi colmasti, che quanto si scopre
Dalla vicina rupe a quella valle
Che di alte olive sì folta verdeggia,
Tutto a me serve! I copiosi favia
Quanto mele raccolgono, al suol quanti
Gravosi tralci di dolcissime uve
Inchina il ricco peso, quanti monti
Di dorato frumento ingombran l’aje,
Tutto, tua gran mercè, per me si aduna.
{p. 103}
Nè la ricchezza è la maggior ventura
Che mi donasti; un placido riposo
Una gioja innocente appien gradito
Rende lo stato mio; che l’uom felice
Tant’è quant’ei si reputa. Lontano
Da cure ambiziose infra i castagni
Infra le quercie, in rustico abituro
Nacqui, e dodici lustri io vissi lieto ;
Nè il re vidi giammai, nè di Siviglia
L’altera corte, e sol due leghe appena
Lunge è da quì; tal mi cagiona orrore
Il doppio mascherato cortigiano !
Meno tranquilli i dì fra miei pastori
Che mi onorano a gara, ed i miei voti
A’ cittadini onori io non sollevo :
Chè gir sì alto è ben somma follia
Per cader poi con più fatal ruina.
Temo l’esempio di robusta quercia
Che de’ venti al soffiar spesso si spezza,
{p. 104}
Quando debole canna il lor furore
Stanca cedendo, e col piegarsi vince.

G l’Inglesi hanno un picciolo componimento intitolato il Re ed il Mugnajo di Mansfield, cui l’autore Dodsley dà modestamente il nome di novella drammatica. Vi si vede un re d’Inghilterra che smarrito in una foresta si ricovera solo in casa del mugnajo, dove ascolta i propositi de’ campagnuoli e l’infedeltà usata da un suo cortigiano ad una contadinaa {p. 105}Verisimilmente l’autore ne tolse l’argomento dalle favole del Moreto e dell’anonimo o di Matos. Non per tanto m. Sedaine, che ha scritto in Francia le Roi et le Fermier, e m. Collet autore della Partie de chasse de Henri IV, confessarono di aver seguita la favoletta inglese, ignorando che questa era una debole copia delle mentovate commedie spagnuole.

L’altro degno contemporaneo del Calderòn e del Moreto è il celebre autore della storia della Conquista del Messico Antonio Solis. Senza eccettuarne l’istesso Moreto, egli ha rispettate più di ogni spagnuolo le regole del verisimile. Circa l’unità di tempo quasi mai non si valse della libertà nazionale nelle favole di spada e cappa, e si limitò a un giorno di ventiquatr’ore, e talora di poco eccede i due. Non manca di colpi di teatro e di comiche situazioni, e supera l’istesso Calderòn se non nell’eleganza nella proprietà della comica locuzione, non vedendosi nelle di lui favole que’ groppi di {p. 106} stravaganze ne’ quali cade Calderòn. Solis fa parlare i personaggi con naturalezza, giusta il carattere e la passione, e se alcuna volta sottilizza rapito dal turbine che tutti gli altri aggirava, non mai incorre in metafore stranissime, o nella mostruosa mescolanza del tragico col comico. M. Linguet hadel Solis tradotto soltanto Un bovo hace ciento, commedia avviluppata che si continua a rappresentare; ma forse poteva fare scelta migliore fralle seguenti: Amparar al enemigo, che dal Celano in Napoli si tradusse in prosa intitolandola Proteggere l’inimico che ha più di una situazione interessante, locuzione propria, nè l’azione dura più di due notti e tre giorni. La Xitanilla de Madrid si tradusse dal medesimo Celano col titolo la Zingaretta di Madrid. Una novella di Cervantes diede l’argomento a questa favola, che ha somma grazia in castigliano, e perde assai di naturalezza nelle traduzioni. Le communi passioni, le gelosie, gli amori, gli sdegni, {p. 107}le riconciliazioni, hanno in essa un grazioso e nuovo colorito. La durata dell’azione passa di poche ore le ventiquattro. Sebbene per le passioni generali e per l’intreccio si è veduto con piacere anche ne’ teatri italiani, tutta volta fuori delle Spagne è impossibile ritenere i tratti originali della dipintura degli zingani Andaluzzi che acquistano ancor grazia maggiore nella rappresentazione che ne fanno i nazionali. Più di una fiata ho veduta rappresentare questa commedia (perchè quasi ogni anno si ripete) or dall’eccellente attrice Pepita Huerta, morta da molti anni, or dalla Carreras che già si era ritirata dal teatro quando io nella fine del 1783 lasciai le Spagne. L’una e l’altra con pari applauso, benchè per differenti pregi, si segnalarono nel carattere di Preziosa. Rendevasi accetta la prima per certa grazia naturale tutta nobile che faceva trasparire in mezzo ai modi ed ai gerghi zingareschi. Questo bel misto di grazia, di spirito e di nobiltà mirabilmente {p. 108}conviene ad una giovinetta di sommo talento e vivacità ma disdegnosa e bizzarra ancor nell’amore, la quale in fine si scopre di esser nata di famiglia distinta. Si fece ammirare in seguito la Carreras nella rappresentazione fattasene nel 1781 per la viva imitazione delle maniere di quel ceto da non potersi migliorare. Stando poi nella convalescenza di una grave infermità si destinò l’anno 1782 a rappresentarla nel passar che fece il Conte d’Artois per Madrid andando al campo di San Roque; ma dopo la prima scena ella cadde in un profondo deliquio e convenne che la Graziosa per nome Apollonia supplisse sul fatto la parte di Preziosa; nè poichè si riebbe dalla nuova infermità volle la Carreras, benchè giovane, tornar più sulle scene. Altra commedia del Solis è il Doctor Carlino, la quale anche si contiene nel termine di poco più di un giorno. Il personaggio che dà il titolo alla favola è tratto della commedia imperfetta del Gongora, ed è felicemente dipinto; ma questa {p. 109}commedia non è rimasta al teatro. Nella commedia el Amor al uso (che Tommaso Corneille tradusse ed intitolò l’Amour à la mode) Solis ha pure rappresentata un’ azione che si compie in ventiquattro ore. Vi si dipingono vivacemente in istil faceto e naturale i costumi e le leggerezze giovanili. È posta in vista la galanteria di una dama ed un cavaliere che mostrano di amarsi, avendo però ciascuno più d’un intrigo amoroso per le mani. Solis sopravvisse a Calderòn, il quale morì assai vecchio nel 1681, e tutti si rivolsero a Solis, perchè succedesse all’estinto commediografo nel comporre gli autos sacramentales; ma egli risolutamente ricusò di porvi la mano, confessandosi insufficiente di seguirlo in tal carriera. Verisimilmente questo valoroso scrittore che non calcò le vestigia nè di Lope nè di Calderòn nè de’ loro seguaci, nell’irregolarità delle commedie e nello stile, conobbe ancora gl’incovenienti e le mostruosità annesse a quell’informe specie di dramma.

{p. 110}Si avvicinano a’ soprallodati poeti il messicano Giovanni Ruiz de Alarcòn, Antonio Zamora, Giovanni La Hoz e Francesco Bances de Candamo. Molte commedie essi diedero al teatro spagnuolo, benchè oggi poche se ne rappresentino.

Comparisce alcuna volta la commedia di Alarcòn intitolata No ay mal que por bien no venga, Don Domingo de Don Blas. Scorgesi in essa veramente la solita viziosa mescolanza di grandi interessi reali con avventure mediocri e di persone tragiche con caratteri comici senza rispettarvisi le unità. Notabile nonpertanto per le stravaganze è il carattere originale di Don Domingo, cavaliere onorato e valoroso, ma talmente innamorato del proprio comodo e così avverso a quanto possa torgli il menomo uso della propria libertà, che giugne all’eccesso e ne diviene ridicolo. Il re di Leone passa per Zamora? Don Domingo non si cura di andar con gli altri nobili a corteggiarlo. Il re manda a chiamarlo? {p. 111}Egli si affretta ad obedire sol per liberarsi presto da quella noja. Il re vuol fargli qualche grazia, e lo sprona a domandarne alcuna? Egli lo prega che se continua a dimorare in Zamora gli risparmii l’onore di più chiamarlo. Ode che in una casa si stà cantando? Per goder da vicino di quella musica, senza invito monta su e si pone a sedere. Giugne chi se ne ingelosisce e lo disfida; egli accetta, ma vuol battersi senza levarsi da sedere. Andando per la città mena seco un servo che oltre ad un parasole porta sotto il braccio uno scabello, di cui Don Domingo si serve in istrada quando vuol riposarsi. Questo personaggio capriccioso che tal volta eccede e si rende inverisimile e tocca il buffonesco della farsa, è non per tanto interessante pel valore di cui è dotato, e per la fedeltà che in ogni incontro mostra verso il sovrano.

Tralle commedie di Antonio Zamora che raccolte in due tomi si sono impresse ne’ principii del secolo XVIII, {p. 112}havvene due che oggi si rappresentano. La prima s’intitola No ay plazo que no se compla, ni deuda que no se pague, cioè non vi è tempo prefisso che non arrivi, nè debito che non si paghi; ed è il Convitato di pietra in parte rettificato. Zamora spogliò la mostruosa favola del frate di molte inverisimiglianze; colorì assai meglio il carattere del libertino; circoscrisse l’azione all’ammazzamento del comendatore, rammentando per racconto i trascorsi del Tenorio in Napoli, e ritenne solo il prodigio della statua convitata che parla e camina e convita ed uccide Don Giovanni. Quanto al tempo egli si permise la licenza di tre mesi d’intervallo dal I al II atto, nel qual tempo si scolpisce il magnifico sepolcro dell’Ulloa. Anche lo stile è più sobrio e lontano da molte stranezze nazionali di que’ tempi. L’altra commedia del Zamora solita a rappresentarsi è l’Hechizado por fuerza, l’ammaliato a forza, di cui lo stile, l’azione, i caratteri si contengono ne’ limiti {p. 113}di quel genere comico che si appressa alla farsa. Pecca ancora nell’unità del tempo, durando l’azione intorno ad un mese; come altresi in quella del luogo, benchè non esca da’ contorni di Madrid; ma l’uno e l’altro difetto rimarrebbe dissimulato sopprimendosene alcuni versi. Poche commedie spagnuole hanno la piacevolezza di questa ridicola favola.

El Castigo de la miseria, il castigo dell’avarizia di Giovanni La-Hoz lascia alla critica poche cose da censurare, e non poche da lodare. La sudicia avarizia di Don Marcos Gil, che oltrapassa gli Euclioni e gli Arpagoni, è colorita con tratti vigorosi e ben punita con un matrimonio di una finta ricchezza di una vedova indiana che in effetto è una povera donna di Salamanca. Anche questa favola partecipa assai della farsa; ma i caratteri sono felicemente dipinti, e lo stile è buono, comico, grazioso.

Francesco Bances de Candamo compose più commedie, delle quali {p. 114}tre sole si riveggono alcuna volta sulle scene, lo Schiavo in catene d’oro, il Sarto del Campiglio, il Duello contra l’Innamorata. Non v’ha regola di verisimile che in esse non si trasgredisca, nè stranezza di stile che non possa notarvisi; e pur vi si scorge un artificio che ne rende gli argomenti interessanti. Imprese Candamo a dar nella prima favola una lezione scenica a’ principi col medesimo intento che ebbe il signor di Marmontel ne’ discorsi di Giustiniano e Belisario. E siccome nel libro di tal Francese la morale e la politica che vi si spargono, vengono avvelenate da una perpetua languidezza, dall’inverisimiglianza, e da più errori di calcolo politico e morale, oltre a quelli di religione; così nel dramma spagnuolo la lezione che si pretende dare a’ sovrani tende a distruggere un principio erroneo ed a stabilire una falsità opposta. Un vassallo ardito che crede avere studiato, censura il governo di Trajano, e si ribella. L’imperadore benigno per {p. 115}castigarlo se l’associa al trono. Il suo disegno e di mostrare che non vale lo studio scompagnato dall’esperienza; ma viene a fondare questa massima: que no es ciencia que se studia la del reinar, cioè che l’arte di regnare non si studia, la quale è manifestamente falsa. Studio richiede il regno; ma studio saldo, profondo; studio di cognizioni immediatamente necessarie a’ diversi rami della politica, della pubblica economia e della legislazione; studio non iscompagnato dall’intelligenza degli affari. Il Camillo di Candamo avea studiato male; si doveva dunque insegnare che al principe conviene studiar bene. In fatti egli vien dipinto ignorante non solo ne’ principii politici che mettono capo nella ragion naturale e delle genti, ma ancor nella geografia e nella storia. Or che avea egli studiato? delle ciance pedantesche? Candamo dunque dovea insegnare, non a disprezzare i libri, ma bensì a saperli scegliere per l’oggetto di studiar l’arte di regnare, e che questa si {p. 116}apprende non meno ne’ buoni libri che nel maneggio degli affari; altrimenti il popolo nella scuola pubblica del teatro porterà a casa un grossolano pregiudizio contro il sapere. Se i principi studieranno l’arte di cantare, danzare e verseggiare come Nerone, in vece di quella di regnare, diventeranno musici, ballerini e rimatori, e non già principi illuminati dalla sapienza. Se come Alfonso che fu detto il Savio, studieranno l’astronomia a segno di credersi abili a dar consigli all’Autor delle cose per migliorare il sistema celeste, essi diventeranno astronomi temerarii e principi inetti. Ma se impareranno l’arte di ben conoscere i proprii popoli, di pesarne l’energia, di dirigerla a vantaggio dello stato, di calcolarne la forza e la debolezza, di moderarne gli eccessi e di correggerne i difetti, di animarne la virtù co’ premii in vece di scoraggiarla col disprezzo, di emendarne gli errori da padre e non da despoto; i principi che si dedicheranno a questo studio, {p. 117}calcheranno le orme de’ Titi e degli Antonini, i quali furono dotti non meno che grandi e degni principi. Se apprenderanno a ben ragionare, a sapere i doveri di ogni classe di uomini, a scemare i loro bisogni e per conseguenza i loro delitti, in vece di aumentarli, e si faranno istruire da’ veri filosofi, da’ Leibnitz, da’ Volfii, da’ Locki, da’ Montesquieu, da’ Genovesi, applicandone le dottrine al maneggio degli affari, ed imitando i regnanti benefici e scienziati, essi riscuoteranno gli applausi universali e l’approvazione di se stessi. Se s’illumineranno co’ viaggi, co’ libri savii e colla conversazione de’ sapienti e de’ buoni, come fece Pietro il grande di Russia, e come hanno fatto a’ nostri giorni diversi altri principi, essi sapranno in pochi anni, rifondere e rigenerare le nazioni, e divenirne i creatori. Se volgeranno le cure ad allegerire il popolo dal pesante fardello delle leggi senza numero fra se talora discordi e talora avverse all’umanità, e quasi {p. 118}sempre bisognose di una legione di comentatori, come pensò in Napoli Carlo III Borbone, e come eseguì in Pietroburgo Caterina II col codice Russiano, se veglieranno poi all’esecuzione della nuova legislazione; essi renderanno i soggetti e se stessi felici e gloriosi. Adunque dalla favola di Candamo risulta uno sciocco insegnamento, cioè che l’arte del regnare non s’impara se non col solo maneggio degli affari. Se per apprendere ogni arte si richiede disposizione naturale, studio ostinato e pratica ragionata, di grazia l’arte di regnare ch’è l’ultimo sforzo dell’umana ragione, si dovrà attendere dalla sola presenza de’ casi, i quali sempre sono infinitamente scarsi e fra se diversi, e quindi insufficienti a darne principii applicabili ad ogni evento? E come maneggiarsi bene senza una norma, senza bussola, senza aver coltivata la ragione? ogni arte che si acquista a forza di pratica materiale, s’impara errando, e gli errori de’ principi sono sempre fatali. Questo soltanto che {p. 119}nella favola di Candamo merita lode, è che vi si mostra coll’esempio di Camillo questa verità morale, cioè che un principe buono, che voglia bene adempiere il proprio dovere, è un vero schiavo, che col manto reale ricopre le proprie dorate catene, dovendo per bene de’ popoli rinunziare a non poche delizie concesse a’ privati. E questa verità imparata colla pratica di un lungo regno ha prodotto di tempo in tempo le abdicazioni di Silla, di Diocleziano, di Amorat, di Carlo V, di Cristina di Svezia ecc.

L’altra commedia di Candamo il Sarto del Campiglio è una mescolanza di affari pubblici di affetti privati, e di accidenti mal disposti con qualche situazione interessante. Io l’ho veduta tradotta in prosa italiana poco felice, ma spogliata in gran parte delle arditezze dello stile e delle solite irregolarità.

Il Duello contro l’innamorata chiama il concorso coll’azione principale, benchè si aggirì per vie tortuose. Una {p. 120}dama bizzarra esige dall’amante infedele un giuramento di non palesarla, e prende l’apparenza di un principe nella corte della sua rivale. Col nome finto, altro non potendo, sfida l’amante. Egli trovasi nell’angustia o di combattere contro una donna amata nella pubblica piazza, o di rimaner disonorato, o di mancare al giuramento fatto di non iscoprirla. Ma toccando a lui l’elezione dell’armi, esce dall’impegno scegliendo di combattere colla sola spada e col petto nudo non solo di armi ma di vesti. La donna altera vinta da questo artificio è costretta a palesarsi col pianto. Nel tempo stesso l’innamorato, il quale si era raffreddato nel di lei amore per un sospetto ingiusto, si trova disingannato per altri accidenti, e le dà la mano di sposo, Questo scioglimento curioso ha renduto noto questo dramma, ed il signor Linguet l’ha inserito nel suo Teatro Spagnuolo, intitolandolo poco felicemente la Fidelitè difficile.

Incredibile è il numero de’ {p. 121}contemporanei e successori del Calderòn, i quali con minor vena, fuoco e felicità hanno seguito il di lui metodo. Io potrei impinguare questa parte del mio libro con più migliaja di commedie e de’ già nominati scrittori e di molti altri, come Godinez, Bocangel, Cuellar, Paz, Huerta, Zarate, Monroy, Anna di Caro ecc. Ma qual vantaggio o diletto apporterebbe un catalogo di favole per lo più mancanti d’arte, di gusto e di giudizio? Qual gloria alla nazione numero sì grande di talenti abbandonati al trasporto di una immaginazione calda e disordinata, ed innamorati di un parlar gergone metaforico enimmatico gigantesco? Essi tutto posero lo studio a riempiere le sregolate loro favole di ripetute impertinenti descrizioni e pitture di cavalli, tori, armature, navi, giardini, palagi, duelli, battaglie navali e terrestri, naufragii, di avventure romanzesche di ogni maniera. Questi ornamenti ridondanti strani capricci osi contrarii al genere rappresentativo, formavano {p. 122}allora il sublime delle favole spagnuole e niuno de’ loro autori ne andò libero. Per la qual cosa tanti giudiziosi critici nazionali strepitarono negli ultimi tre secoli contro le follie teatrali, lusingandosi di arrestare l’inondazione fangosa colle loro letterarie querelea. Più grave ancora è l’accusa fatta a’ loro compatriotti per l’oscenità de’ loro drammi negata invano col solito capriccio dal nominato apologista Catalano, e ripresa con forti espressioni dal Canariese Giovanni Ceverio de Vera, morto in concetto di santità nel 1600, con un dialogo contro le commedie spagnuole; indi dal p. f. Giovanni della Concezione, dal lodato Nasarro, e dall’amico Nicolàs Fernandez de Moratin. Laonde confessando {p. 123}l’immensa fecondità degl’ingegni spagnuoli, ed il loro sale comico non bene avvertito da Saverio Bettinelli, che volle scherzare con una asserzione non vera, cioè che essi nè anche sapevano ridere senza gravità; per servire alle leggi della storia che sol del vero si alimenta e si pregia, osserviamo che rarissime sono le commedie che da tali rimproveri si esimono. Ma non lasciamo di dire che se essi al loro sale nativo, alla vivacità e fecondità dell’immaginazione, alla predilezione che hanno pel teatro, accoppiato avessero un prudente timore di offendere la verisimiglianza, e si fossero appigliati ad uno stile più conveniente al genere, superati forse avrebbero in tal carriera i loro vicini e i lontani.

Da quanto abbiamo ora quì appena accennato, ben si rileva perchè nel XVII ancor meno che nel precedente secolo si rinvengano vere tragedie. Montiano che ne fu il più diligente investigatore, appena giunse a contarne sette o {p. 124}otto e pure sregolate. Perciò (dirò sempre) voglionsi compatire alcuni forestieri, e fra questi il signor Linguet (cui non ha punto liberato dalle insolenze ingiuste per lo più del fu Vicente Garcia de la Huerta l’essere stato tanto benemerito del teatro spagnuolo) se avanzano che la vera tragedia o non si è coltivata o non si è conosciuta dalla maggior parte della nazione.

Quasi tutte le tragedie del secolo XVII appartengono a Cristofaro Virues, avendone egli solo prodotto cinque nel 1609. S’intitolano la Gran Semiramis, la Cruel Cassandra, Atila furioso, la Infelix Marcella, l’Elisa Dido. La prima sulla regina Semiramide non può a buona ragione reputarsi una tragedia divisa in tre giornate, o dicansi atti, ma sì bene una rappresentazione de’ fatti di essa in tre favole separate. Trattasi nell’atto primo dell’incontro di Nino con Semiramide moglie di Mennone, cui il re propone di cedergliela; e ricusando egli, il {p. 125}regliela toglie per forza, e Mennone s’impicca. Dal primo atto al secondo passano sedici anni, e l’azione consiste nell’esser Nino avvelenato, nel chiudersi tralle Vestali d’ordine della regina il proprio figliuolo Ninia avuto da Nino, e nel farsi ella stessa coronar re, essendo per la somiglianza creduta Ninia suo figliuolo. Corrono altri sei anni dal secondo al terzo atto, in cui si tratta della dichiarazione che fa Semiramide di esser donna, della cessione dello scettro a Ninia palesandosene innamorata, e della morte che ne riceve. La Cruel Cassandra contiene molti fatti e molte uccisioni, ed è la più spropositata delle favole del Virues. Ad eccezione di uno o di due personaggi che poco figurano nella multiplicità delle azioni contenute in tal componimento, tutti gli altri sono scelerati. Muojonvi otto personaggi, e nello scioglimento veggonsi sulla scena cinque cadaveri in una volta; talche soleva dire un erudito spagnuolo, che in vece di una tragica azione gli {p. 126}sembrava una rappresentazione di una peste. Tutto in essa è sconcerto, stranezza, puerilità; nè lo stile e la versificazione rendono tanti spropositi meno nojosi ed in certo modo tollerabili. Atila Furioso, non cede alle altre nelle scempiagini, e tutte le vince in atrocità. Muojono in essa intorno a cinquantasei persone, oltre di una galera bruciata con tutto l’equipaggio e i passeggieri. La furia di Atila non disapprovata dal signor Montiano, mi sembra poi la cosa più sciocca e ridicola del dramma. Atila dovrebbe dipingersi furioso, se non come Oreste pieno di rimorsi, almeno come dominato dall’ira in estremo grado, ma non già ridicolo e impetuoso come un pazzo. La terza tragedia la Infeliz Marcela non è solo una specie di novella, come diceva il medesimo Montiano, ma un tessuto di scene sconnesse, improprie, talvolta buffonesche, talvolta atroci. I personaggi per lo più sono inutili ed episodici, le inconseguenze continue, lo stile ineguale, ora plebeo {p. 127}della feccia del volgo, ora fuor di proposito elevato, sempre sconvenevole e lontano dalla tragica gravità, la versificazione in un luogo pomposa in un altro triviale. L’autore volle in Marcella rappresentare le sventure d’Isabella amata da Zerbino dipinte dall’Ariosto. Ed appunto nella prima parte Virues mostra il caso d’Isabella condotta da tre seguaci del suo amante e restata in potere di uno di essi preso per lei d’amore, il quale allontanato con un pretesto il più forte de i due, ferisce l’altro. Alarico nel componimento del Virues mentre Marcella dorme, invia Ismenio a procurare un cocchio, e ferisce Tersillo che ricusa di secondarlo. Marcella tenta di fuggire; Alarico la trattiene; accorrono alle grida di lei alcuni banditi, ed Alarico fugge. Formio capo della masnada consegna Marcella a Felina, come Isabella è data in custodia nell’Ariosto alla vecchia Gabrina. Manca poi al Virues la guida del Ferrarese, e si avvolge nel resto in avventure mal {p. 128}accozzate, in bassezze e indecenze. La favola di Elisa Dido non rappresenta questa regina di Cartagine amante di Enea come immaginò Virgilio. La favola spagnuola si aggira sul matrimonio che Jarba vuol contrarre con Didone. Ella tuttochè piena della memoria di Sicheo, promette nella prima scena di unirsi all’Affricano. Alcuni capitani suoi vassalli che aspirano alle sue nozze, per turbare il trattato, assaltano il campo de’ Mori, e rimangono uccisi. L’ambasciadore moro torna a Didone, ed a nome di Jarba le presenta una spada, una corona ed un anello. Didone presso a conchiudere le nozze con Jarba torna col pensiero a Sicheo; ma pur comanda che Jarba sia introdotto nella città. Questo re che non si è veduto ne’ primi quattro atti, comparisce nel quinto, ed il Coro apre le stanze ove dimorava Didone, e si vede questa regina trafitta dalla spada di Jarba ed ha la corona a’ piedi ed una lettera in mano. Jarba (che sembra venuto in iscena unicamente a leggere quel {p. 129}foglio e a disporre l’esequie di Didone) comprende dalla lettera che la regina per mantenere eterna fede a Sicheo ha scelta la morte. Impone dunque, altro non potendo, a’ Cartaginesi di adorarla come una divinità, e finisce la tragedia. Tutti i cinque atti sono ripieni d’inutili inverisimili e freddi amori de’ capitani di Dido e di un racconto de’ suoi andati casi impertinentemente cominciato nell’atto I, narrato a spezzoni ne’ seguenti, interrotto quattro volte, e terminato nel quinto. Il signor Montiano affermava che in questa favola si rispettano le regole; ma per regole egli intende soltanto le unità di tempo o di luogo. Il signor Lampillas poco intelligente di poesia che volle parlar di drammatica, stimò questa Dido una tragedia perfetta. Compete questo suo decreto ad una favola di cui tre atti almeno sono inutili, e nella quale Didone senza apparire la necessità che l’astringe a promettersi a Jarba, è posta nel caso di darsi la morte per non isposarlo? Ciò è tanto {p. 130}più sconvenevole, quanto più Jarba che viene in iscena sì tardi, si dimostra ben lontano da ogni fierezza, dotato di un cuor compassionevole e religioso. Si dirà perfetta una tragedia, in cui Seleuco, Carchedonio, Pirro e Ismenia, personaggi totalmente oziosi, la riempiono sino alla noja di declamazioni e di racconti gratuiti e seccanti ? È argomento di perfezione, che mentre i personaggi subalterni cianciano a buon dato, Elisa figura principale del quadro, in cinque atti appena recita 170 versi e Jarba non meno necessario all’azione è riserbato unicamente a sotterrar Didone? Piano così assurdo verseggiato inegualmente in istile lontano dalla gravità e dalla correzione, a chi poteva parer tragedia perfetta se non al signor Lampillas?

Una tragedia intitolata Pompeyo compose Cristofero de Mesa traduttore dell’Iliade di Omero, e dell’Eneide di Virgilio impressa nel 1615, ed anche dell’Ecloghe, e della Georgica pubblicate nel 1618 insieme colle proprie Rime {p. 131}Rime, e colla nominata tragedia. Reca però maraviglia che un ingegno così esercitato, e che oltreacciò pregiavasi di avere per ben cinque anni frequentato, ed ascoltato in Italia Torquato Tasso, avesse scritta una tragedia sì cattiva, seguendo il sistema erroneo de’ compatriotti, anzi che l’esempio degli antichi e di Torquato. Il suo Pompeo comparisce in Lesbo, passa in Farsaglia, s’imbarca, ritorna a Lesbo, e va a morire in Egitto.

Forse dopo l’Elisa Dido del Virues non possiamo contare altre tragedie del XVII secolo, che la traduzione delle Troadi di Seneca fatta da Giuseppe Antonio Gonzalez de Salas che s’impresse nel 1633, ma in essa quasi sempre egli superò l’originale in gonfiezza, come pure l’Hercules Furente y Oeteo di Francesco Lopez de Zarate pubblicata con altre opere nel 1651, nella quale si nota qualche squarcio sublime. Ma nè queste nè quelle del Virues sono mai state rappresentate {p. 132}ne’ teatri di Madrid negli anni che io vi dimorai.

Tale è la storia del Teatro Spagnuolo fino alla fine del passato secolo da me con pazienza e fede compilata senza averne trovato esempioa. Varie cose ne trattarono i lodati Montiano, Luzan, Nasarre, l’Antonio, le cui lodi o invettive non volli adottare senza averle pesate con imparzialità. Sopratutto ho atteso a schivare le loro inutili decisioni generali. E che {p. 133}giovano esse quando non sono verificate su i medesimi drammi? Io ne ho scelti ed esaminati i migliori, ed ho potuto su di essi particolareggiare, ed accennarne con fondamento i difetti assai noti, e le bellezze, delle quali non ancora si erano avvisati i nazionali di far diligente inchiesta. Possa questo mio lavoro inspirar loro il disegno di fare una collezione di favole sceniche spagnuole scelta e ragionata, mille volte promessa, e mai non intrapresa! Possa facilitarne l’esecuzione questa mia storia! Allora gli Spagnuoli che mostrano già molti progressi fatti nelle scienze, e nelle arti, vedranno a tutta luce le loro forze, e le debolezze teatrali, e si volgeranno a calcare miglier sentiero. Allora si avvedranno, che tralle potenti cagioni che vi ostano; son da noverarsi gli scritti de’ Lampillas, dei Garcia de la Huerta, e di altri simili tagliacantoni letterarii, ed infedeli adulatori di se stessi, e de i difetti del teatro nazionale. Allora (o che io m’inganno) da scrittore {p. 134}antispagnuolo qual mi vollero dipingere, sarò tenuto per uno de’ benemeriti di una nazione, di cui non meno nel Discorso sopra le sviste del Lampillas, che nell’Orazione funebre per Carlo III recitata ed impressa nell’aprile del 1789, ed altre volte reimpressa, abbozzai un sincero elogio dettato dalla verità a me sempre cara, e non già dalle sordide speranze, o da bassezze lusinghiere.

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CAPO II.

Tragedie latine d’oltramonti, Tragici Olandesi, e Teatro Alemanno. §

Prima di accennar qual fosse lo stato degli spettacoli scenici del secolo XVII in Alemagna, si vuol mentovare qualche sacra tragedia latina di alcun letterato di nome sparsa quà e là oltre le Alpi e i Pirenei. Giorgio Bucanano compose il Jefte ed il Batista impresse in Londra l’anno 1628, nelle quali sostenne i personaggi principali con molta dignità nel Collegio di Guyenne il celebre Michele Montagna. Daniele Einsio pubblicò la tragedia degl’Innocenti. Ugone Grozio, cui si dee una dotta collezione di frammenti di antichi tragici, scrisse il Giuseppe, o Sofamponea, ed il Cristo paziente stampate nel 1648 in Amsterdam.

Quanto ai componimenti nel nativo {p. 136}idioma, benchè in Olanda altro non sia stata la commedia che una farsa grossolana piena di stranezze e scurrilità indecenti, pur si trova qualche tragedia da mentovarsi. Vondel si distinse fra’ suoi con alcune tragedie al pari di Corneille e Shakespear, benchè a questi di molto inferiore. La lunghezza delle scene, le stravaganze e le irregolarità che vi si osservano, non lasciano risplendere abbastanza qualche pensiero nobile che in esse si rinviene. Il suo Palamede ebbe molta voga, perchè la morte di questo Greco si applicava a quella di Olden-Barnevelt gran Pensionario della Repubblica. I Fratelli o i Gabaoniti riscosse maggiore applauso, e si tradusse anche in tedesco. Antonide Van del Does scrisse pure una tragedia sulla Conquista della Cina, benchè di poco felice riuscita. Venghiamo al Teatro Alemanno.

A quel tempo comparve in Alemagna un ingegno elevato che sulle orme del Petrarca mostrò a’ suoi la buona {p. 137}poesia, e traducendo alcun dramma greco, latino ed italiano aprì il sentiero della vera drammatica sino a lui colà sconosciuta. Fu questi Martino Opitz di Boberfeld nato nel 1597 e morto nel 1639. Mentre nel 1625 Pietro Corneille produceva in Francia il suo primo componimento scenico, Opitz trasportò in tedesco le Troadi di Seneca. Tradusse poi nel 1627 la Dafne del Rinuccini, nel 1633 imitò un’ altra opera italiana intitolata Giuditta, e nel 1636 tradusse l’Antigone di Sofocle corredandola di dotte note. I signori Juncker e Lieubault nella dissertazione premessa al Teatro Alemanno uscito in Parigi nel 1772, affermarono parimente che Opitz imitò la sua Giuditta da un’ opera italiana. Anche l’abate Arnaud nel Giornale Straniero parlando di un dramma di Weiss nel 1760 asserì che Opitz non scrisse componimento veruno scenico tratto dal proprio fondo. Intanto l’abate Aurelio Giorgi-Bertòla es-olivetano nel capo III dell’Idea della {p. 138}Poesia Alemanna sostenne che nella Giuditta Opitz mostrò di saper caminare con egregia riuscita anche fuori delle tracce altrui. Egli però non ne addusse documento veruno, e non si diede la pena di rilevare la differenza della Giuditta alemanna dall’italiana. Così la sua fu semplice gratuita asserzione, che ci lasciò nella nostra opinione sostenuta da’ signori Juncker, Lieubault ed Arnaud. Certo è non pertanto che i mentovati componimenti di Opitz scritti con eleganza superiore a quanto erasi in quelle contrade prima di lui prodotto, bastarono ad additar la via, ma non a perfezionar la bell’opera di stabilirvi il vero gusto, e forse la morte che lo rapì di soli quarantadue anni del suo vivere, ne impedi il pieno trionfo.

Lo secondarono con debolezza alcuni scrittori; ma in vece di tener dietro alla luce permanente de’ buoni esemplari imitati da Opitz, essi corsero appresso ad uno splendore efimero che gli abbacinò e fè loro perdere le {p. 139}tracce del buon sentiero. Andrea Grifio corrotto dallo spirito secentista dal 1650 al 1665 pubblicò l’Arminio, Cardenio e Celinda, Caterina di Georgia, la Morte di Papiniano, e Carlo Stuardo, tragedie, di più Santa Felicità tratta da una tragedia latina di Niccolò Causin, i Gabaoniti tradotta dalla tragedia indicata del Vondel, la Balia versione della commedia italiana di Girolamo Razzi, il Pastore stravagante trasportata da un’ altra commedia francese di Giovanni de la Lande; e finalmente due proprie commedie gli Assurdi Comici, e l’Uffiziale tagliacantone, come ancora due opere Piasto e Majuma.

Daniele Gasparo di Lohenstein giunse all’accesso del mal gusto imitando con maggior caricatura il Marini. Compose cinque tragedie, Epicari, ed Agrippa pubblicate nel 1665, Ibraim nel 1673, Sofonisba e Cleopatra nel 1682, le quali presentano di quando in quando in mezzo alle mostruosità qualche lampo d’ingegno.

{p. 140}Uno de’ più noti imitatori di Lohenstein fu Giovanni Hallemann, il quale dal 1660 al 1763 compose sei tragedie, Marianna, l’Amor celeste, il Teatro della Fortuna, la Tenerezza paterna, la Vendetta divina, la Vendetta astuta; in oltre la Virtù trionfante commedia, l’Amore ingegnoso pastorale e l’Innocenza moribonda opera. Ma Hallemann con pari gonfiezza, e co’ medesimi difetti del suo modello vide i proprii drammi più lungo tempo applauditi e rappresentati.

Per far argine alle stravaganze de’ nominati scrittori, Cristiano Weisse rettore del Collegio di Zittau precipitò nel basso e nel triviale. Le sue favole comiche e tragiche si rappresentarono da’ collegiali dal 1677 in poi. Tutto congiurava a tener lontano dall’Alemagna il buon gusto teatrale. Quindi avvenne che i commedianti per mendicare ascoltatori ricorsero a i Gran Drammi Politici ed Eroici tragedie grossolane condite dalle buffonerie di Han Wourst, che vuol dire {p. 141}Giovanni Bodino o Salciccia, e corrisponde all’Arlecchino italiano e al Grazioso spagnuolo.

Adunque con giusta ragione il coronato filosofo di Sans-souci parlando dello stato delle arti del Brandeburgo al finir del secolo XVII ed al cominciar del XVIII ebbe a direa: «Gli spettacoli alemanni erano allora poco degni d’esser veduti. Ciò che da noi chiamasi tragedia, era un misto mostruoso di gonfiezze insieme e di bassezze buffonesche ignorando i nostri autori le più comunali regole del teatro. La commedia era ancor più deplorabile, altro non essendo che una farsa grossolana ristucchevole per chiunque abbia fior di gusto, di buon costume e di politezza. La regina Sofia Carlotta tratteneva in Berlino l’opera italiana, il cui compositore era il celebre Bononcini; e da quel tempo cominciammo {p. 142}a contare qualche buon musico nazionale. Erasi in corte introdotta una compagnia comica francese che rappresentava i componimenti di Moliere, di Cornelio ecc.»

Ed in fatti dopo la Dafne di Opitz, e l’Elena e Paride rappresentata in Dresda nel 1650, s’itrodusse fra’ Tedeschi il gusto dell’opera, ed ogni principe dell’Imperio Germanico volle avere una sala d’opera musicale. Una se n’eresse anche in Amburgo. Pensarono poi a formarsi un’opera nazionale, ma sia per debolezza di coloro che l’intrapresero, ovvero sia per l’indole dell’idioma, essi riuscirono così infelicemente, che atterriti dalle critiche tralasciarono di più comporre opere in lingua tedesca. Così l’opera italiana e la commedia francese furono i soli spettacoli ammessi nelle corti de’ principi Alemanni.

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CAPO III.

Teatro Inglese. §

Una potente convulsione nel cominciar del secolo XVII giva agitando gli umori del corpo Britannico sempre disposti a ribellarsi, e minacciava un prossimo sconvolgimento nella costituzione. La corte moveva diverse molle per allargare i confini della prerogativa reale, ed i parlamentarii pieni di grandi idee di libertà e di uguaglianza presbiteriana, ambivano di annientarla. Crebbe il male in guisa che si vide con orrore un buon re sentenziato da’ rei vassalli passar dal trono al palco, e lo stato che soffrir non volle nel re legittimo una soverchia autorità, si trovò effettivamente schiavo sotto gli speciosi nomi di repubblica e di protezione. Cromwel cassò con insolenza il parlamento, e ne convocò un altro composto de’ suoi parziali scelti fra il popolaccio, detto per derisione {p. 144}il parlamento di barebone, cioè osso spolpato. Tra gli atti di tal parlamento trovansi dichiarati inutili e d’istituzione pagana le scienze e le università dove s’insegnavano.

Quanto al teatro la nazione sin dal regno di Carlo I avea cominciata una guerra letteraria che durò dieci o dodici anni, altri sostenendo gli spettacoli scenici, altri contro di essi scagliandosi. I Puritani volevano estirparli. Pryne gli perseguitò col suo Histriomastix, mettendo alla vista le mostruosità e le indecenze de’ teatri inglesi. Queste contese e la grande rivoluzione avvenuta nella costituzione dello stato, impedirono il progresso della drammatica sino al ritorno di Carlo II. Fiorì qualche scrittore nelle intermissioni delle pubbliche turbolenze.

Beniamino Johnson nato verso il 1575 e morto nel 1673, occupò il posto di poeta regio, benchè per qualche tempo avesse esercitato il mestiere di muratore. Il genio che l’inclinava allo studio ed alla poesia, gli {p. 145}tolse di mano la cazzuola, e lo trasportò al teatro colla protezione di Shakespear. Scrisse tragedie e commedie; e tra le prime si tennero in gran pregio la Caduta di Sejano rappresentata nel 1601, e la Congiura di Catilina pubblicata nel 1608; e tralle commedie si ammirarono il Chimista e la Volpe. Ogni uomo ha il suo carattere può dirsi che sia piuttosto una raccolta di ritratti che una commedia ben tessuta. Vi si trova fra gli altri dipinto un geloso che non vuol parerlo. Johnson riuscì più nelle commedie, a segno che si ebbe pel più eccellente comico dell’Inghilterra. Nelle tragedie nè osservò le regole del verisimile nè si guardò dalla comica mescolanza. Egli a differenza del di lui protettore aveva una profonda conoscenza degli antichi, e gli copiava con molta franchezza, il che si osserva nel Sejano e nel Catilina; ma secondò il carattere degli spettatori, e trascurò l’esattezza degli antichi, contento (come disse nella prefazione del Sejano) di {p. 146}rispettar la verità della storia, la dignità de’ personaggi, la gravità dello stile e la forza de’ sentimenti. Egli non meno del Shakespear scrisse molti drammi poco degni de’ suoi talenti; con questa differenza che a Shakespear anche nelle cattive composizioni scappano fuori certi tratti inimitabili; ma Johnson dove cade, non mostra traccia veruna di sapere o d’ingegno.

Guglielmo d’Avenant successore di Ben Johnson coltivò parimente la poesia tragica; ma essendosi ricoverato in Francia, dove osservò lo spettacolo dell’opera in musica, volle introdurla nel teatro nazionale. A tal genere appartiene la Circe componimento del di lui figliuolo per nome Carlo. Giacomo Shirly cattolico scrisse più di un dramma. Lo storico Guglielmo Abington pubblicò una tragicommedia. Il famoso Milton diede al teatro Licida ed il Sansone Agonista che non uscì alla luce prima del 1671, e che poi si convertì in oratorio musicale con qualche cambiamento. Prima però verso {p. 147}il 1634 avea egli composta la famosa Maschera, intitolata Comus, produzione bizzarra che a guisa dell’opera dava luogo in un tempo al ballo ed al canto, di cui parla Paolo Rolli nella Vita di Milton, esponendone l’argomento, e commendandone la sublimità, di che non ci fa dubitare la vastità del suo ingegno. È però strana cosa che egli avesse voluto accozzare in un sol componimento personaggi allegorici, Angeli, Najadi, Bacco, Giove, Eufrosine, in somma le divine e le umane cose, la religione cristiana ed il gentilesmo, la sublimità e la bassezza.

Dal 1660 nella corte brillante di Carlo II amante della poesia e de’ piaceri cominciarono gli spettacoli teatrali a coltivarsi con novello ardore. Illustrò allora le scene inglesi l’eccellente attore ed autore tragico e comico Tommaso Otwai morto nel 1685 d’anni trentaquattro. Passano per le migliori sue tragedie Venezia salvata e l’Orfana. Nella prima però i caratteri più {p. 148}importanti sono alcuni ribelli e traditori, i quali fanno vedere le più belle qualità per affrettare la ruina del loro paese, là dove nell’imprenderne la difesa gli avrebbero fatti ammirare come grandi uomini. Raccontasi che la famosa attrice madamigella Barry rappresentando la parte di Monima non mai pronunziava senza piangere queste parole, ah povero Castalio! Tutti in effetto riconoscono in Otwai un’arte sopraffina di esprimere le passioni nella tragedia, e dipingerle con tutta naturalezza, e sovente di eccitare la più viva commozione. Il credito di lui pareggiò quello di Shakespear; e gl’Inglesi vollero in questo ravvisare un Cornelio per la sublimità, ed in Otwai un Racine credendo di vedere in lui pari tenerezza ed eleganza, titoli, come pur dice l’abate Andres,dispensati con troppa prodigalità. Voltaire confrontò alcuni passi della mentovata tragedia l’Orfana con quelli del Mitridate del Racine, e ne mostrò la gran distanza svantaggiosa all’Inglese. {p. 149}Riuscì Otwai più nel tragico che nel comico; ma non fu meno irregolare degli spagnuoli nell’uno e nell’altro genere, e non meno di loro gli confuse.

Anche Giovanni Dryden nato di una famiglia cospicua nel 1631, il quale divenne cattolico sotto Giacomo II, e morì nel 1701, ebbe il titolo di Racine dell’Inghilterra senza meritarlo meglio di Otwai. Il mentovato Andres a somiglianza del Voltaire, ha confrontate alcune scene della Giovane Reina del Dryden con altre simili della Fedra del Racine. E l’istesso Voltaire paragonò alcune tenerezze vere e decenti del Racine colle iperboli rettoriche e colle indecenze che si osservano nella Cleopatra del Drydena Quanto a me Dryden sembrami più simile a Lope de Vega tanto per la varietà, la copia e l’irregolarità de’ componimenti, quanto per avere al pari di Lope ben compresa la {p. 150}delicatezza dell’arte senza seguirla. E sebbene egli ceda di gran lunga al poeta spagnuolo per fecondità, non per questo diventa minore ne’ punti additati la loro rassomiglianza. Egli meritò gli elogii del celebre Alessandro Pope. Voltaire affermò ancora che Dryden autore più fecondo che giudizioso avrebbe goduto di un credito senza eccezione scrivendo la decima parte delle opere che lasciò, e se le avesse scritte (poteva aggiugnere) più a seconda dell’arte che non ignorava, che del gusto del suo paese che volle secondare. Niuno certamente meglio del Dryden comprese allora tutta la delicatezza della drammatica, e niuno la neglesse più di lui. Scrisse commedie e tragedie ed anche una specie di opera intitolata la Caduta dell’Uomo, nella quale pose in azione il Paradiso perduto.

Il traduttore di Giovenale Tommaso Shadwell morto nel 1693 compose pel teatro comico dopo di aver letto Moliere. Il di lui Avaro è una traduzione libera e ampliata dell’Avaro {p. 151}francese, in cui Shadwell non trovava azione sufficiente per le scene inglesi. Egli volle distenderla con fatti e personaggi episodici, e la rendette meno rapida, e ne fe sparire l’unità. Moliere (egli scriveva millantandosi) nulla ha perduto passando per le mie mani. Ma i lineamenti forti e grossolani del suo Goldingam accozzati colla finezza de’ tratti d’Arpagon formano veramente una dipintura assai men bella della francese, e men naturale di quella di don Marcos Gil dello spagnuolo La-Hoz. L’azione dell’Avaro inglese passa in Londra, ma in luoghi diversi. Secondo il gusto della nazione Shadwell introduce meretrici, ruffiani, dissoluti; e nell’imitarli la sfacciatezza è posta in tutto il suo lume. La satira e l’oscenità sono le note caratteristiche de’ poeti comici inglesi.

Le commedie più graziose di tutto il teatro inglese, per avviso del Voltaire, sono quelle che scrisse il cavaliere Van-Broug architetto grossolano, e poeta comico delicato morto nel 1704. {p. 152}Egli non meno che Congreve vollero opporsi, ma con poca riuscita al Collier, che nel 1698 produsse contro il teatro inglese il suo Quadro dell’empietà, e dell’irreligione.

Ma il celebre Wycherley sì caro alla duchessa di Cleveland favorita del re, e marito della contessa di Drogheda, il quale morì l’anno 1715, fu senza contrasto il miglior comico di quel tempo nell’Inghilterra. Uomo d’ingegno, osservator sagace, e spiritoso dipintore, ritrasse al naturale i costumi di quella corte, copiandone le ridicolezze e le bassezze con forti colori. Le sue commedie hanno invenzione, interesse, e stile proprio per la commedia. Sono ancor regolari, e se la scena non è rigorosamente stabile, si circoscrive ne’ luoghi della città di Londra. È da notarsi, che a’ suoi dì già sulle scene inglesi si satireggiavano i nobili e i titolati. Nell’atto II della sua Donna di Contado così favella un nobile sciocco che ha timore delle sferzate comiche: ”Si {p. 153}contentavano prima gli autori drammatici di trarre i loro personaggi ridicoli dal ceto de’ servi; ma questi baroncelli oggidì cercano i loro buffoni fra’ gentiluomini e cavalieri; di modo che io da sei anni vò differendo di prenderne il titolo per timore di esser posto in iscena, e di farvi una figura ridicola”. Seguendo l’indole della commedia inglese, le pitture del Wycherley sono forti, oscene, e satiriche. Nell’atto V della medesima commedia un cavaliere dissoluto dice a una dama: ”Grande era in me l’appetito delle vostre bellezze, ma grande altresì il timore che mi cagionava la vostra riputazione. La nostra riputazione (ripiglia Miledy)? Dovevate anzi pensare che noi altre donne al pari degli uomini ci serviamo di questa maschera per ingannare il pubblico. La nostra virtù, amico, è come la buona fede di un politico, la promessa di un quakero, il giuramento di un giocatore, e la parola e l’onore de’ grandi”. Questa commedia è ben condotta; ma {p. 154}il suo argomento che consiste in un cavaliere dissoluto, che per ingannare i mariti di Londra fa correr voce di essere stato in una malattia fatto eunuco da’ cerusici; i di lui progressi con tal salvocondotto; Lady Fidget che nell’atto IV esce fuori col catino di porcellana guadagnato; le azioni e i discorsi dell’atto V: tutto ciò, dico, convince che la commedia inglese punto non cede in oscenità alla greca commedia antica, e talvolta la sorpassa. Per la qual cosa non ebbe torto il signor di Voltaire in asserire, che questa singolare e troppo ardita commedia tratta dalla Scuola delle Donne di Moliere, se volete non è scuola di buoni costumi, ma sì bene di spirito e di buon comico. Le altre commedie di Wycheley più pregiate, sono l’Amore in un bosco rappresentata in Londra nel 1627, il Gentiluomo maestro di ballo, e l’Uomo franco tradotta e imitata dal Voltaire nella Prude o Gardeuse de cassette. Il carattere dell’Uomo franco rassomiglia al Misantropo del {p. 155}Moliere, cui però cede in finezza e decenza, benchè lo superi in movimento e interesse. A questa commedia chiamata in inglese Plain Dealer molto dovette l’autore. Giacomo II uscendo soddisfatto dalla ripetizione di questo dramma composto sotto Carlo II, richiese di colui che l’avea scritto; ed intendendo che da sette anni si trovava in carcere per non aver modo di soddisfare i suoi creditori, spontaneamente ordinò che si liberasse, se ne pagassero i debiti, e si provvedesse con una pensione alla di lui sussistenza. Bello e consolante esempio se non fosse così raro.

I soprallodati comici inglesi, parlando in generale, non mancano nè d’invenzione, nè di fantasia, nè di forza, nè di calore, nè di piacevolezza. Si desidera però in essi scelta e venustà, e la decenza richiesta nella dipintura de’ costumi, per cui Terenzio tanto sovrasta a’ suoi posteri, l’unità di disegno nel tutto, e la verità, l’esattezza, e la precisione nelle parti: un {p. 156}motteggiar lepido e salso, pungente ma urbano alla maniera di Menandro che ammiriamo in Ludovico Ariosto: le grazie e le pennellate franche di Nicola Machiavelli che subito caratterizzano il ritratto: la vivacità ed il brio comico di Agostino Moreto: finalmente il gusto, l’amenità, e l’inarrivabile delicatezza nel ritrarre al vivo i caratteri e le ridicolezze correnti che danno al Moliere il principato tra i comici antichi e moderni.

Ma vediamo in quale stato questo gran comico trovò in Francia la commedia, ed in quale la tragedia il maggior Cornelio.

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CAPO IV.

Teatro Francese prima della Medea di P. Corneille. §

Osserviamo lo stato del Teatro francese prima della Medea di Pietro Cornelio.

Lontana dall’arte di ritrarre al vivo, e con leggiadria la natura, di rappresentar sagacemente la vita civile, di dar con delicatezza la caccia al vizio, e al ridicolo, di toccar il punto vero del grandioso, e del sublime, per non picciolo tratto del secolo XVII si mantenne in Francia la scena sul sistema delle favole di Hardy. Tragedie languide e basse, commedie grossolane e buffonesche, tragicommedie informi, oscene, stravaganti, comparivano in prodigiosa copia sino al 1640 su quel teatro che indi a poco doveva risonar de’ nomi illustri di Cornelio, Racine e Moliere.

{p. 158}Giovanni Mairet, Rotrou, Ryer componevano favole poco vivaci, e poco decenti. Il teatro inglese ove l’oscenità trionfa, non ha scena piggiore di quella di Panfilo e Nisa della Celiana di Rotrou, e la sua Crisanta rappresenta una deflorazione. Nella stessa Sofonisba Mairet incorse nella taccia di mettere alla vista le troppe dimestichezze degli amanti. Ryer compose una tragedia di Lucrezia avvertire a qual segno sia indecente sulla scene simile argomento.

Quanto alle regole sino al 1640 si disputava ancora se dovessero per sempre rigettarsi. Lo stesso Pietro Corneille nel 1634 nella prefazione alla Vedova diceva di non volere nè totalmente seguirle, nè tutta usare la libertà del teatro francese. Un certo Dorval nel 1636 le metteva affatto in ridicolo. Contuttociò Lope de Vega morto nel 1635, per aver egli calpestata ogni regola mostrava di temer la censura non meno dell’Italia che della Francia, la quale nel di lui fiorire {p. 159}aveva un teatro tanto sregolato quanto l’Alemanno ed il Cinese, e di gran lunga inferiore a quel di Lope per invenzione e per ingegno eper vivacità.

Se vogliamo dunque risalir sino a i primi tentativi drammatici de’ Provenzali, il gusto e la ragione e l’esempio degl’antichi e dell’Italia quasi per questo secolo e mezzo lottarono contro la barbarie per discacciarla dalle scene francesi. Intanto uno scrittore di quelle contrade che volle anni sono filosofare a suo modo sulle nazioni, supponendo il teatro moderno, specialmente quello del suo paese, superiore all’antico, ne attribuisce l’effetto alla libertà delle donne, e da questa fa discendere la gran varietà de’ caratteri. Passi la supposta totale superiorità del moderno sull’antico; ma in Francia nella lunga riferita o provata barbarie teatrale perchè nulla giovò la libertà donnesca? perchè non somministrò copia e varietà di caratteri? perchè poi un medesimo principio produsse in diversi paesi diversi effetti, facendo nascere in {p. 160}Italia un teatro ingegnoso e regolare, in Ispagna sregolato e vivace, in Francia basso, languido, stravagante ed osceno? Nè anche vero parmi che il libero conversar delle donne somministri copia di caratteri differenti. Gli uomini quanto più si associano, tanto più s’imitano, e si rassomigliano ne’ costumi e nelle maniere. Colui pretese da un giudizio incerto ricavare effetti che altrove riconoscono una sorgente sicura.

Prima però che Corneille si avvedesse delle proprie forze nel genere tragico, e che comprendesse quanto la regolarità contribuisca all’accrescimento dell’istruzione e del diletto col partorir l’illusione, l’anzinominato Giovanni Mairet fece utilissimi passi nelle sue contrade. Nato in Besanzone nel gennajo del 1686, dotato d’ingegno e di sagacità, e studiando i tragici Italiani, si attenne alle regole prescritte dal verisimile quasi in tutto ciò, che compose. Lasciando di favellare delle sue prime tragicommedie la Criseide, e la {p. 161}Silvia, e la Silvanira, ossia la Morta viva, egli sulle tracce del Trissino produsse la sua Sofonisba, e benchè nell’imitarlo variasse la condotta della propria favola, osservò non pertanto le tre unitàa, ed il popolo nella rappresentazione seguitane nel 1609, ad onta dei difetti che vi notò e della debolezza dello stile, ne sentì il merito e l’applaudì. Nè dopo che lo stesso Pietro Corneille ebbe tratatto quest’argomento, il pubblico si dilettò meno della Sofonisba del Mairetb. {p. 162}Avvenne in fatti che mentre rappresentavasi quella di Cornelio molti spettatori correvano alla Sofonisba di Mairet, e dopo lo spazio di trenta anni in cui si andò tratto tratto ripetendo sul teatro francese, si manteneva ancora. Scorgesi il giudizio di Mairet nelle alterazioni che fece alla storia di quella regina, mentre anticipò la morte di Siface in battaglia, per evitar che ella si vedesse con due mariti vivi, e per destar compassione, alla morte di Sofonisba aggiunse quella di Massinissa, che secondo la storia visse sino all’estrema vecchiezza. Tralle situazioni che nella Sofonisba del Mairet il generoso Pietro Cornelio notò come inimitabili, novera il contrasto di Scipione e Massinissa e la disperazione di questo principe. Contuttociò lo stile di Giovanni Mairet rimane di molto {p. 163}inferiore alla sublimità di quello di Cornelio, e l’impudicizia che Siface rimprovera alla moglie, e gli artificii ch’ella adopera per ingannarlo, offendono la decenza e la gravità tragica. Mairet compose ancora altre due tragedie non molto inferiori alla Sofonisba, le quali si rappresentarono nel 1630, la Cleopatra favola ben condotta, ed il Grande ultimo Solimano regolare ed interessante, in cui l’autore afferma di essersi prefisso di vestire alla francese il Solimano del conte Prospero Bonarelli.

Rotrou dopo della Sofonisba di Mairet pubblicò il Venceslao, che la superò per lo stile; ed il Voltaire ne comendò la prima scena, e quasi tutto l’atto quarto. L’Antigone dello stesso vien censurata dagl’intelligenti per non aver saputo l’autore condurre sino al fine il suo assunto senza indurre verso la metà dell’azione principale una peripezia di un’altra azione differente.

Scudery si segnalò ancora con qualche dramma bene accolto. Ma lo {p. 164}stile che solo preserva i componimenti dall’obblio, ed il sublime tragico che eleva gli animi e concilia l’attenzione, attendevano un ingegno raro che giva disviluppandosi.

Pria però che di lui si parli diamo uno sguardo allo stato de’ teatri francesi del tempo di Giovanni Mairet e di Rotrou e di Scudery, accennando una parte di ciò che ne disse ne’ suoi Dialoghi m. Perrault. Essi non erano lontani dalla struttura e dalle decorazioni del teatro de’ ballerini da corda della Fiera di san-Germano. Le favole si rappresentavano all’aria aperta e senza lumi, i quali s’introdussero più tardi. La scena si adornava di tapezzerie, per le aperture delle quali entravano ed uscivano gli attori; appunto come avveniva per las cortinas del teatro di Madrid. L’illuminazione fecesi poscia con placche di latta appiccate alle tapezzerie; e perchè la luce percoteva di fianco ed alle spalle i personaggi e gli mostrava adombrati e neri, sostituirono a tali placche alcune {p. 165}lumiere o lampadari ciascuna di quattro candele poste davanti al teatro, le quali con corde visibili si abbassavano allorchè un uomo per ismoccolarle saltava fuori a bella posta. La musica consisteva in un flauto, un tamburo, e talvolta due violini sonati alla peggio.

CAPO V.

Teatro Tragico Francese nel XVII secolo. §

Pietro Cornelio nato in Roano nel 1606 il quale sin dal 1625 colla sua Melite cominciò a prendere superiorità su i contemporanei, e le cui sette commedie prime, benchè sì difettose, promettevano un ingegno non volgare che giva formandosi: prese in prima a purgar la scena nazionale dalle indecenze, indi ad ammettere la contrastatà regolarità, e a cercar la nobiltà nello stile co’ precetti e col proprio esempio. Il primo saggio che fe delle sue forze nel tragico, fu la Medea {p. 166}Egli amava con predilezione Lucano e Seneca, e nelle di loro opere attinse non meno l’amor del sublime che l’impeto e la foga che il trasportava al pari de’ suoi modelli nell’enfatico e nell’ampolloso. Il sublime Moi di tal tragedia tirò verso Cornelio gli sguardi della Francia, ed oscurò i drammi tutti de’ contemporanei.

Appresso ad impulso di certo m. Chalons segretario della regina Maria Medici ritirato in Roano, diessi a leggere le commedie spagnuole, e colpito dall’argomento del Cid di Guglielmo di Castro uno de’ mediocri drammatici della Spagna, ne formò una tragedia. Non fu questa la prima nè di Cornelio, perchè la Medea l’avea preceduta, nè del moderno teatro, come affermò l’esgesuita Andresa, {p. 167}perchè la Sofonisba fu la prima in Francia nel decimosettimo secolo, come pure era stato un secolo prima in Italia. Ben fu però la tragedia del Cid la più fortunata, e quella onde l’autore divenne l’oggetto dell’ammirazione e dell’invidia. Tutta l’azione appartiene alla commedia spagnuola, e da questa principalmente si trasse la scena, in cui nel tempo stesso implorano dal sovrano Chimene giustizia, ed il padre di Rodrigo pietà; e l’altra di Rodrigo e Chimene, quando parlando questa con Elvira, l’amante si tiene indisparte ad ascoltare, quella altresì del contrasto del dovere di figlia colla passione amorosa onde Chimene è tormentata, e della vendetta dell’ingiuria paterna coll’amore che ha per Chimene onde Rodrigo è posto in angustia. Vero è che Cornelio trasportando il fatto a Siviglia commise un anacronismo, mentre a tempo del Cid Siviglia trovavasi in potere de’ Mori, e non de’ Cristiani (che è il grande errore che nel Cid di {p. 168}Cornelio notò esultando colla solità insolenza Vicente Garcia de la Huerta); vero è parimente che Scudery e l’Accademia Francese la censurano per varii difetti non senza fondamento, anche per aderire al cardinal di Richelieu, che volle deprimerla non avendo potuto farla passar per sua. Ma il Cid è uno de’ felici frutti del genio che s’invidiano e si criticano più facilmente che non s’imitano.

La parte che il lodato cardinale ebbe a qualche componimento scenico, alcuni piani che ne distribuiva a Desmaret, Boisrobert, Colletet ed altri, i soccorsi che ne tiravano tanti letterati, la guerra stessa che egli faceva al Cid, ed i beneficii che in compenso versava sull’autore; tutto ciò, dico, contribuì a fomentare e a raffinare il gusto in Francia. Pietro Cornelio perseguitato e premiato per le critiche e per le largizioni, diede opera con ogni sforzo ad elevarsi sempre più su i drammatici di quel tempo. Egli impose silenzio agl’invidiosi e ai pedanti con le {p. 169}tragedie gli Orazii, il Cinna, il Poliuto.

Nel maneggiare l’argomento degli Orazii prese Corneille scorta migliore, o che ne dovesse a dirittura la via all’Orazia di Pietro Aretino, o che vi s’incaminasse sull’imitazione che di questa tragedia italiana fatta ne avea venticinque anni dopo Pietro de Laudun Degaliers. L’artificiosa traccia dell’azione, la vivacità de’ caratteri, la forza delle passioni episodiche rendono la tragedia degli Orazii di gran lunga superiore al Cid, e vincono anche pe’ nominati pregi la lodata Orazia dell’Aretino. Così avesse il Cornelio seguito questo modello italiano nel punto di maggiore importanza, cioè nell’interessar l’uditorio a favore del vittorioso Orazio. Egli però attese a rendere più degne di compassione Sabina e Camilla, per la qual cosa, secondo il Conte di Calepio, i primi tre atti riescono appassionatissimi, e gli ultimi due freddi ed inutili. Si vorrebbe ancora ravvisare in que’ primi Romani che {p. 170}prese a dipignere rassomiglianza minore co’ più moderni cortigiani Francesi. Non pertanto l’elevatezza dell’anima del poeta si scorge in diversi tratti. In quel fiero decantato qu’il mourut del vecchio Orazio sfolgoreggia il sublime di tutto il suo lume. Chi non sente elevarsi e commuoversi a ciò che dice Orazio a Curiazio suo cognato,

Albe vous a nommè, je ne vous connois plus;

ed alla risposta di Curiazio,

Je vous connois encore, et c’est ce qui me tue.

E chi oggi ignora i rari pregi del Cinna? Ampio campo aprì il Corneille al moderno coturno col grande oggetto politico dell’abdicazione dell’Imperio nella scena in cui Augusto chiede su di ciò il parere di que’ medesimi cortigiani che stanno congiurando contro di lui. Nella seduzione di Emilia, nella congiura di Cinna e nel perdono di Augusto, ci si presenta un saggio ingegnoso misto di grandi passioni private e di pubblici destini, in che {p. 171}è posto il carattere della vera. tragedia. La nobiltà ed il patetico che respirano le parole di Augusto nell’abboccamento con Cinna, formano un grande elogio dell’anima elevata di Corneille:

Tu t’en souviens, Cinna; tant d’heur et tant de gloire
Ne peuvent pas si tôt sortir de ta memoire.
Mai ce qu’on ne pourroit jamais s’imaginer,
Cinna, tu t’en souviens, et veux m’assassiner!

Queste memorande parole con quanto si contiene nell’indicata scena si trovano nel libro I cap. 9 de Clementia del filosofo Cordovese Anneo Seneca; ma pure è un tratto di gusto e d’ingegno l’averne ravvisata la bellezza e l’averla bene espressa. Confessiamo non pertanto che nè tragico timore nè compassione desta il pericolo del protagonista Cinna, che è un traditore senza scusa, che al proprio dovere verso un sovrano e un {p. 172}benefattore contrappone la sola propria compiacenza per una donna. Nondimeno questo desiderato vero effetto della tragedia, che in tal favola in verun conto si produce, vien compensato dal nobile perdono di Augusto quanto meno atteso tanto più accetto. Il pubblico plauso e le belle lagrime del gran Condè rendettero ben memorabili i versi dell’ultima scena del Cinna:a:

Je suis maitre de moi comme de l’univers,
Je le suis, je veux l’ètre. O siècles, o memoires,
Conservèz à jamais ma derniere victoire….
{p. 173}
Soyons amis, Cinna, c’est moi qui t’en convie.

Queste parole manifestano certamente l’anima grande di chi le profferisce; ma il poeta stesso ne minora la grandezza in più maniere. In prima con fare che Augusto rimproveri a Cinna son peu de merite, e dicendogli, tu faresti pietà anche a chi invidia la tua fortuna, se io ti abbandonassi al tuo demerito. Il popolo potrebbe dirgli; passi che tu gli doni la vita; ma puoi tu divenire amico di un uomo dispregevole e privo di virtù? Per la qual cosa non ebbe torto quel Maresciallo De la Fevillade, che udendo quest’altre parole orgogliose esclamò: oimè! tu mi guasti il soyons amis Cinna. Si abbassa altresì il perdono di Augusto, perchè il poeta fa che Livia, personaggio affatto ozioso, sia quella che esorti Augusto ad esser clemente, togliendoli con ciò il merito di quel perdono magnanimo.

Il Poliuto è un’altra delle applaudite tragedie del Corneille. Benchè le {p. 174}rappresentazioni de’ martiri Cristiani sieno poco atte ad eccitar la tragica compassione, per essere la loro morte un vero trionfo che non lascia allo spettatore luogo a dolersi; pure il Poliuto pel carattere eroico del martire e per l’amore che egli ha per la sua sposa Paolina che egli sacrifica ai doveri della religione abbracciata, è una tragedia che tira tutta l’attenzione. Non meno teatrale è il colorito degli affetti episodici della virtuosa e sensibile Paolina e dell’appassionato e nobile Severo.

Pregiavasi il Cornelio di aver procurato di far sentire nel suo Pompeo e ne’ pensieri e nelle frasi il genio di Lucano, e quindi di essersi elevato più che in altre sue tragedie. Ma gli ornamenti e le figure epiche e liriche, come niuno più ignora riescono troppo impertinenti nella poesia teatrale. I critici giudiziosi riprendono nel Pompeo varie espressioni nella descrizione degli effetti della strage di Farsaglia e non pochi concetti affettati del racconto di Acoreo dell’ammazzamento di {p. 175}Pompeo e del presente fatto a Cesare della di lui testa. Pur vi si scorgono alcuni tratti sublimi che non debbono nascondersi alla gioventù. Tale a me sembra l’immagine contenuta in queste parole:

                      Il s’avance au trepas
Avec le mème front qu’il donnoit des ètats.

Patetica e nobile è pur l’apostrofe di Cesare alla vista dell’urna delle ceneri di Pompeo:

Restes d’un demidieu, dont à peine je puis
Ègaler le gran nom, tout vainqueur que je suis.

Le altre tragedie reputate degne del gran Cornelio sono il Nicomede, il Sertorio e la Rodoguna. Quantunque il Nicomede non iscarseggi di difetti, nè sia un argomento che si elevi alla grandezza ed al terror tragico si pel viluppo che per la qualità de’ caratteri di Prusia, di Arsinoe e di Flaminio; pure il cuor grande di Nicomede innamora, e porta la magnanimità a un {p. 176}punto assai luminoso. Nel Sertorio si prefisse di mostrare un modello di politica e di perizia militare, e vi si nota più di un tratto nobile, come questo,

Rome n’est plus dans Rome, elle est toute où je suis,

che forse ebbe presente il Metastasio nel far dire a Catone,

Son Roma i fidi miei, Roma son io.

Con predilezione amava il Cornelio la Rodoguna come la migliore delle sue favole; ed i critici francesi singolarmente ne pregiavano l’atto quinto. Ma l’eccessiva crudeltà di Cleopatra, che qual altra Medea trucida Seleuco suo figlio, e perseguita gli altri, fa fremere lo spettatore ed ispira indignazione.

Poco pregiarono i Francesi, e singolarmente il Voltaire, le altre di lui tragedie, Eraclio, Pertarite, Teodora, Edipo, Berenice, Ottone, Sofonisba, Pulcheria, Agesilao, Sancio, Attila, il Vello d’oro, tutte, malgrado di varie scene eccellenti, si reputarono mediocri, ed insieme colla {p. 177}Medea caddero nel rappresentarsi, nè i posteri ne ristabilirono il credito; per la qual cosa poco parmi conducente al vantaggio delle gioventù particolareggiare su i loro difettia. Il Cornelio che dopo aver cessato di scrivere pel teatro, pure vi era stato di nuovo indotto, al fine da buon senno nel 1675 dopo la rappresentazione del Surena, che non fe scorno alla vigorosa vecchiezza di sì gran tragico, rinunziò alla poesia drammatica.

Questo padre e legislatore del teatro francese morto nel 1684 in Parigi, merita di studiarsi da chi voglia coltivar la tragica poesia. « Non è così facile (disse di lui con verità Giovanni Racine) trovare un poeta che abbia posseduti tanti talenti, l’arte, la {p. 178}forza, il discernimento, l’ingegno ». « Non sarà mai abbastanza ammirata (aggiugueva) la nobiltà, l’economia negli argomenti, la veemenza nelle passioni, la gravità ne’ sentimenti, la dignità e la prodigiosa varietà ne’ caratteri ». Dotato d’ingegno straordinario e soccorso dalla lettura degli antichi mostrò sulla scena la ragione accompagnata da tutta la pompa e da tutti gli ornamenti de’ quali è capace la lingua francese. In tutti gli oggetti egli spande la propria sensibilità. Riscalda ed avviva la stessa politica, come fece specialmente nel Sertorio e nell’Attila. Con un tratto di peunello imprime in chi legge o ascolta la più sublime idea. Palissot ebbe ragione di così dire: « Per mezzo de’ medesimi capi d’opera del Cornelio abbiamo noi imparato a conoscere l’esagerata mediocrità degli ultimi suoi drammi; e pure i più deboli di questi potrebbero passar per eccellenti oggi che ci troviamo sì bisognosi ». Ingegno raro tutte in se raccolse le più rilevanti doti della poesia tragica; il {p. 179}tenero, il patetico, il terribile, il grande, il sublime. Elevandosi all’eroismo più eccelso, solleva e tira seco gli animi tutti. Si è già detto ch’egli è un’ aquila che s’innalza sopra le nubi mirando il sole senza prender cura de’ baleni che si accendono e de’ fulmini che strisciano per l’atmosfera.

Ma perchè la gioventù non creda che tutto nel suo stile sia oro puro, vuolsi avvertire ch’egli pur troppo pagò il tributo al mal gusto delle arguzie viziose che dominava sotto il regno di Luigi XIII e nel principio di quello di Luigi XIV. Troppo abbonda di dialoghi romanzeschi, di monologhi ristucchevoli e di pensieri che oltrepassando i giusti limiti del sublime, cadono nella durezza di certa popolarità ricercata e strana. Per avviso dello stesso suo compatriotto Giambatista Rousseau egli in vece di esprimere negli amanti il carattere dell’amore, ha in essi dipinto il proprio, trasformandoli per lo più in avvocati, in sofisti, in declamatori, e qualche volta in {p. 180}teologi. Ma il Voltaire che poche volte si mostrò indulgente verso il gran Cornelio, colse nel segno affermando che “ il di lui ingegno tutto ha creato in Francia dove prima di lui niuno sapeva pensar con forza, ed esprimersi con nobiltà; appartenendo i suoi difetti al secolo in cui fiorì, e le bellezze unicamente al proprio ingegno ”.

Nel medesimo anno 1666 quando si rappresentò l’Agesilao del Cornelio, comparve sulle scene l’Alessandro di Giovanni Racine nobile e giovane poeta, da cui cominciò una specie di tragedia quasi novella. Nelle tragedie del Cornelio grandeggia la virtù e l’eroismo vi si tratta con una sublimità che riscuote ammirazione; ma vi si accoppiano certi amori per lo più subalterni che riescono freddi e poco tragici. In quelle del Racine trionfa un amor tenero, semplice, vero, vivace, forse non sempre proprio per la grandezza del coturno perchè non sempre principale e furioso, ma sempre idoneo a commuovere. Il felice pennello del {p. 181}Racine con grazia e diligenza al vivo e maestrevolmente ritrae la delicatezza delle anime sensibili. La gioventù, e specialmente le donne pieghevoli alla tenerezza, poco intendono, e poco prendono interesse, p. e., nelle vedute politiche di un tiranno, nell’ambizione di un conquistatore, nel patriotismo eroico di un Romano o di un Greco. Ma subito prestano attenzione a ciò che rassomiglia a quel che sentono in se stesse; e vanno agevolmente seguitando il poeta nelle commozioni che disviluppa, e ne favellano con vivacità e conoscimento. Qual giovinetta posta nelle circostanze di Ermione non vi farà le medesime richieste?

Mais as-tu bien, Clèone, observè son visage?
Goûte-t-il des plaisirs tranquilles et parfaits 
N’a-t-il point detournè ses yeux vers le palais?
Dis-moi, ne t’es tu point prèsentèe à sa vue?
{p. 182}
L’ingrat a-t-il rougi lorsqu’il t’a reconnue?

Tutte le donne possono comprendere senza stento la dolorosa separazione di Tito e Berenice; parrà loro di trovarsi nel caso; al pari di quella tenera regina si sentiranno penetrate da queste espressioni:

Je n’ècoute plus rien, et pour jamais adieu…
Pour jamais!… Ah seigneur, songez-vous en vous même
Combien ce mot cruel est affreux quand on aime?

Siffatte analisi delicate della tenerezza, o se vuol dirsi alla francese, del sentimento, anche senza tanti pregi che adornano le favole del Racine avrebbero bastato a farle riuscire in Francia è nella corte di Luigi XIV che respirava per tutto amoreggiamenti anche nelle spedizioni militari. Ma Giovanni Racine al tenero, al seducente accopiò il merito di una versificazione mirabilmente fluida e armoniosa, correzione, leggiadria e nobiltà di stile, {p. 183}ed una eloquenza sempre eguale, che è la divisa dell’immortalità onde si distinguono i poeti grandi da’ volgaria.

In quel secolo per la Francia fortunatissimo forse la poesia francese pervenne alla possibile venustà per le favole del Racine e pe’ componimenti del Boileau; ma il drammatico scrittore ebbe sul legislatore del Parnasso Francese il vantaggio del raro dono della grazia, che la natura concede a’ suoi più cari allievi, agli Apelli, a i Raffaelli, a i Correggi, a i Pergolesi, a i Racini, a i Metastasii.

Tralle tragedie del Racine senza dubbio più giudiziosamente combinate, meglio ordinate, e più perfette di {p. 184}quelle di Pietro Corneille, per avviso de’ più scorti critici, trionfano l’Ifigenia rappresentata nel 1675, in cui con singolar diletto di chi non ignora il tragico tesoro greco, si ammirano tante bellezze di Euripide, mal grado delle avventure di Erifile che muore in vece d’Ifigenia senza destar pietà, trovando lo spettatore disposto unicamente a compiangere la figliuola di Agamennone; l’Atalia uscita nel 1691, ove il poeta s’innalza e grandeggia imitando alcuna volta il linguaggio de’ profeti; il Britannico rappresentato nel 1670, in cui si eccita il tragico terrore per le crudeltà di un mostro di tirannia nascente in Nerone, e di passaggio s’insegna a’ principi ad astenersi da certi esercizii disdicevoli alla maestà; e la Fedra comparsa sulle scene nel 1677, la quale per tanti pregi contenderebbe a tutte il primato senza il freddo inutile innamoramento d’Ippolito ed Aricia. In fatti questa galanteria, per dirla alla francese, sconvenevole al carattere d’Ippolito, e fredda a fronte del {p. 185}tragico disperato amor di Fedra, non si approvò nè da’ contemporanei nè da’ posteri, benchè il dotto e giudizioso Le-Batteux quasi per gentilezza volle discolparne il Racine con dire che lo stesso Euripide posto nelle medesime circostanze del tragico francese non l’avrebbe rifiutato. Certo è che anche Luigi Racine disapprovò quegli amori episodici, e disse del padre che « doveva esser meno compiacente pel di lui secolo, e non introdurre un amor galante in un argomento in cui l’amor tragico dee regnar solo ». E quest’unico difetto trovava nella Fedra Arnaldo d’Antilly, il quale confessò che senza tal galanteria la Fedra nulla conteneva che non conducesse alla correzione de’ costumi.

Adunque (in tal proposito può dirsi da taluno) bandiremo l’amore dalle tragedie? Non so per quale gotica stranezza di gusto i Critici pedanti rendono problematiche le verità più manifeste. L’amore è una delle più attive passioni umane, e può al pari di ogni {p. 186}altro contribuire ad eccitar la compassione ed il terrore per correggere e dilettare. E chi può dubitarne? Muovasi un Polifonte per ambizione all’esterminio di una famiglia legittimamente sovrana, o apporti un Paride per una cieca passione per un’ Elena le fiamme nella sua patria, un ingegno grande saprà usar con arte di entrambe tali furiose passioni per destar le vere commozioni tragiche. Ma se quel Polifonte e quel Paride prendano il linguaggio de’ Celadoni, e si trasformino in pretti signorotti francesi, diventeranno personaggi comici malinconici, ed i loro amori si rigetteranno dal coturno. L’amore (si è ben detto mille volte) perchè sia tragico vuol esser forte, impetuoso, disperato, dominante; e se è mediocre ed episodico, qual è quello d’Ippolito, di Antioco, di Siface e di Farace presso Racine, di Teseo e di Eraclio e di altri nel Corneille, della maggior parte de’ personaggi di Quinault, di Filottete in Voltaire, di Porzia e Marzia e Marco e Porzio e {p. 187}Sempronio e Giuba in Adisson; allora un amor simile è semplice galanteria famigliare da bandirsi dalla vera tragedia. Ippolito innammorato di Aricia nulla ha di tragico; ma Fedra innamorata d’Ippolito figliuolo del di lei consorte, perturba ed atterrisce, e commovendo diletta ed ammaestra. Tragica è la situazione di Fedra:

Je sai mes perfidies,
Oenone, et ne suis point de ces femmes hardies,
Qui, goûtant dans le crime une tranquille paix,
Ont sçu se faire un front qui ne rougi jamais.
Je connois mes fureurs, je les rappelle toutes.
Il me semble deja que ces murs, que ces voutes
Vont prendre la parole; et prets à m’accuser
Attendent mon epoux pour le desabuser.
Mourons.

{p. 188}E nell’atto IV:

Moi jalouse? et Thèsee est celui que j’implore?
Mon èpoux est vivant, et moi je brûle encore?
Pour qui? quel est le coeur où pretendent mes voeux?
Chaque mot sur mon front fait dresser mes cheveux.

Funesti eziandio, disperati, tragici sono gli amori di Torrismondo e di Alvida in Torquato Tasso, di Semiramide e Nino e Dircea in Muzio Manfredi, di Mustafà e Despina nel Bonarelli, di Bibli nel Campi.

Al contrario sparisce ogni idea tragica allorchè Cesare presso Corneille dice di aver combattuto con Pompeo ne’ campi di Farsaglia pe’ begli occhi di madama Cleopatra, espressione tolta a’ marchesini francesi. Freddo è pure il complimento di Eraclio agli occhi tutti divini di Eudossa, e la protesta che egli fa di aspirare al trono unicamente per la sorte che ha di farne parte alla sua bella. Nel {p. 189}Sertorio si confonde l’idea del gran capitano e del gran politico colla poco grave immagine di un vecchio visconte o colonnello francese innamorato. La Sofonisba del Mairet, anco per avviso di Saint-Evremont, ci nasconde affatto la magnanima figliuola di Asdrubale, manifestando solo una coquette comunale. Tomiri che nella Morte di Ciro del Quinault va cercando sul teatro les tablettes perdute, fu ben meritevole della derisione del Boileau. Non si domandi dunque se l’amore entrar possa nelle tragedie come ogni altra eccessiva passione; ma si bene, qual sia l’amore che le degradi, e che indebolisca quasi tutte le tragedie francesi,

Giovanni Racine nelle sue belle favole non sempre si appressa alla perfezione, benchè sempre sia nobile, elegante, armonioso e saggio. Nulla più lontano dal carattere del vincitor di Dario e dalla tragica gravità quanto il di lui Alessandro che sembra uno degli eroi da romanzo. La Tebaide, per {p. 190}valermi delle parole di Pietro da Calepio, scopre anche la gioventù del poeta. Si vede nella Berenice tutto ad un tempo la delicatezza del mirabile suo pennello, e la natural pendenza del suo ingegno al molle e all’elegiaco. L’Oreste da lui dipinto nell’Andromaca, la cui rappresentazione costò la vita al commediante Montfleury, rimane inferiore alla dipintura fattane dagli antichi. Nel Mitridate la compassione è più per Monima che pel protagonista, il quale poco più del nome ritiene di quell’irriconciliabil nemico de’ Romani; e si vale di un’astuzia poco tragica per iscoprir gli affetti di Monima. Mai non si ripeterà abbastanza che la tragedia quando rappresenti un’azione rinchiusa in una famiglia, benchè reale, senza mostrare un necessario incatenamento degli affetti de’ personaggi coll’interesse dello stato, e quando singolarmente si aggiri su di amorosi interessi: simil tragedia, dico, rimarrà sempre nella classe delle favole malinconiche poco degne di Mel {p. 191}Melpomene. Così Racine, tuttochè mirabile per tanti pregi, non ci obbliga a fare una piena eccezione alle tragedie francesi, che quasi tutte sono un tessuto d’interessi proprii del socco trattati con tetra gravità. Dupin non a torto conchiudeva così: «Le nostre tragedie più gravi altro non sono che commedie elevate.» Dacier, fralle altre critiche fatte alle tragedie nazionali, diceva: «Noi abbiamo tragedie, la cui costituzione è sì comica, che per farne una vera commedia basterebbe cangiarne i nomi.» E Voltaire diceva ancora: «Non v’ha cosa più insipida, più volgare, più spiacevole del linguaggio amoroso che ha disonorato il teatro francese. Io già non parlo dell’amore energico, furioso, terribile che ben conviene alla vera tragedia; parlo… degli amori proprii dell’idilio e della commedia anzichè della tragedia.»

Circa lo stile di esse, senza derogare ai pregi inimitabili di Pietro Corneille e di Giovanni Racine e di altri {p. 192}che gli seguirono, vengono in generale tacciati i tragici francesi, e singolarmente il Cornelio, dal marchese Scipione Maffei, dal Muratori, dal Gravina e dal Calepio, di certo lambiccamento di pensieri, di concetti ricercati e tal volta falsi, di tropi profusi e ripetuti sino alla noja, di espressioni affettate, di figure sconvenevoli alla drammatica. A ciò che fra’ Greci e gl’Italiani chiamasi poesia, trovasi ne’ drammi francesi sostituito certo parlar poetico particolare. I vizii e le virtù ed anche gli attributi accidentali nelle loro favole (osserva il Calepio) diventano le persone agenti. L’odio giura, vede, teme; il furore si lascia disarmare; la virtù trema, l’ira chiama; l’amicizia e la gloria arrossiscono. I segni si usano per le cose, come i troni, le corone, gli scettri, gli allori, le catene. Non v’ha scena in cui non s’incontri tempesta per avversità, abisso per oppressione, fulmine per castigo, sacrificio per sofferenza ecc. Sono, è vero, tali figure ammesse an {p. 193}cora nelle poesie de’ Greci e degl’Italiani; ma da’ Francesi drammatici usate con troppa frequenza, e di rado variate colla mescolanza di altre formole poetiche non disdicevoli alla scena, per la qual cosa partoriscono rincrescimento.

Simili maniere abbondano anco nelle tragedia del Racine; ma ecco in qual cosa egli si distingue da’ tragici mediocri. In questi quel perpetuo tessuto di astratti i quali diventano persone, e la ripetizione de’ medesimi tropi forma l’unico fondo del loro stile; ma Racine le accompagna con altre maniere poetiche calcando da gran poeta le tracce degli antichi tragici che studiava e si proponeva per modelli e per censoria. Non è perciò meraviglia che avesse portato a così alto punto l’espressione, l’eleganza, l’armonia e la vaghezza dello stile ed il patetico. Gli si notarono tal volta alcune {p. 194}trasposizioni inusitate, e certe maniere non sempre limpide, di che giudichino di pieno diritto i nazionali. Certo è però che specialmente nell’Alessandro e ne’ Fratelli nemici si osservano molti concetti ricercati, il dolore espresso con troppo studio, varii contrapposti non proprii della scena, alcun sentimento freddo e qualche immagine superflua. Più rari sono tali difetti nelle altre sue favole, benchè alcuno se ne rinvengano anche nel Mitridate, nell’Andromaca e nell’Ifigenia. Nella Fedra, più che la soverchia pompa del racconto di Teramene da ognuno osservata, ferisce il gusto ed il buon senno il sentire con figure intempestive e con improprii e falsi pensieri, che il cielo guarda con orrore il mostro marino, la terra n’è scossa, l’aria infettata, e le onde che lo condussero alla riva, rinculano spaventate. Ma senza tali nei nel Racine che studiava sì felicemente il cuore dell’uomo e la poesia originale de’ Greci, Racine che possedeva il {p. 195}rarissimo dono dello stile e della grazia, che avrebbe mai lasciato alla gloria della posterità? Quante poche tragedie soffrono il confronto dell’Ifigenia, dell’Atalia, del Britannico e della Fedra? Questi componimenti saranno sempre le più preziose gemme del tragico teatro, per le quali Racine si acclamerà come principe de’ tragici del secolo XVII dovunque regnerà gusto, sapere, giudizio, sensibilità ed ingegno. Se pur una di simili prerogative avesse posseduto Vicente Garcia de la Huerta, quando tutto mancasse, può ricavarsi da ciò che osò affermar del Racine in un gran papelon chiamato Prologo. Al l’avviso di codesto arrogante spagnolo Giovanni Racine fu uno degl’ingegni più volgari della Francia (uno de los mas comunes): altro merito non ebbe che l’esatta osservanza delle regole, ed una scrupolosa prolissa pazienza in lavorare stentatamente: mancava di forza, di masculinidad, d’ingegno, di vivacità e di fuoco e d’immaginazione. Per simile Aristarco {p. 196}l’Atalia è un testimonio irrefragabile dell’imbecillità del Racine; e ciò per quali ragioni? perchè vi si contano tredici interlocutori, e vi si trova un’ affettata regolarità ed ellenismo, con che procurò di supplire alla mancanza dell’ingegno. Nella Fedra misero lavoro di tre anni ravvisò codesto tagliacantone pedante i più madornali difetti; e quali egli ne accenna? la scelta di un’azione tanto abbominevole e così piena di orrori, che egli stando in Parigi non ebbe valore di veder la seconda volta rappresentare alla Dumenil il carattere di Fedra, in cui così sensibilmente si oltraggia la decenza e la verisimiglianza. Il leggitore imparziale da se giudicherà tra Racine ed Huerta a qual de’ due meglio competano i gentili elogii d’ignoranza, d’imbecillità, di meschinità, d’incapacità che lo spagnuolo declamatore temerario profonde a larga mano sul tragico francese; e meglio se ne assicurerà allorchè getterà lo sguardo su i componimenti drammatici del {p. 197}signor Vincenzo, che sembra una immonda arpia di Stinfalo che imbratta e corrompe le imbandite mense reali di Fineo.

Aggiungiamo su questo insigne tragico nato in Fertè-Milon nel dicembre del 1639 e morto in Parigi nell’aprile del 1699, che lasciò tralle sue carte il piano di una Ifigenia in Tauride, dal quale apparisce che egli prima di mettere in versi una tragedia, formatone il piano ne disponeva in prosa tutte le scene sino alla fine senza scriverne un verso, dopo di che diceva di averla terminata; e non avea torto. Da ciò veniva la facilità mirabile che avea nel verseggiare (ciochè è diametralmente opposto alle falsità immaginate dal Garcia); e la ragione fu indicata da Orazio:

Verbaque provisam rem non invita sequentur.

Senza dubbio Racine apprese tal pratica da Menandro, il quale, come già osservammo, non cominciava a comporre i versi delle sue favole prima di {p. 198}averne disposto tutto il piano.

In simil guisa declinando il passato secolo pose in Francia il suo seggio una specie di tragedia inferiore alla greca per energica semplicità, per naturalezza e per apparato, ma certamente da essa diversa per disegno e per ordigni, forse più nobile per li costumi, fondata su di un principio novello. I Greci che nella poesia ravvisarono l’amore per l’aspetto del piacer de’ sensi, non l’ammisero nella tragedia come non convenevole. I moderni sulla scorta del Petrarca attinsero nella filosofia Platonica una più nobile idea dell’amore, e ne arricchirono la poesia, e quindi cosi purificato passò alle scene. Pietro Cornelio non mai se ne valse come oggetto principale, e Racine fu il primo a introdurlo nella tragedia con decenza e delicatezza; per la qual cosa dee dirsi che da lui cominciasse la scena tragica ad avere un carattere tutto suo. Adunque la tragedia greca e la francese in un medesimo genere presentano due specie differenti; e {p. 199}giudicar dell’una col rapportarla all’altra, è veder le cose foscamente, e quali d’alto mare veggonsi le terre che pajono un groppo di azzurre nuvolette. Il più volte mentovato avvocato Saverio Mattei nel Nuovo sistema d’interpretare i tragici greci osservò ancora che la tragedia de’ francesi non è la tragedia de’ greci; ma ne fece consistere la differenza nella mancanza de’ cori, la qual Cosa non là diversifica nell’essenza. Diceva poi altresì che le tragedie francesi possono definirsi drammi di Menandro e di Terenzio che contengono soggetti ed argomenti tragici non comici. Non so quanto i Francesi possano chiamarsi contenti di codesta specie d’indovinello, paradosso, o garbuglio.

Mentre i nominati due gran tragici fondavano la tragedia del lor paese ora seguendo i Greci, gl’Italiani e gli Spagnuoli, ora discostandosene, fuvvi qualche altro scrittore che pure vi si occupò con applauso. Tristano Eremita nato nel 1601 e morto nel 16.. {p. 200}rappresentandosi nell’inverno del 1636 il Cid, produsse laMarianne, in cui, facendo la parte di Erode il commediante Mondori declamò con tal vigore che offeso nel petto si rendette inabile a più comparire in teatro ed indi a non molto fini di vivere. Meraviglioso fu il successo di questa Marianne, essendosi sostenuta a fronte del Cid per tante rappresentazioni con estremo piacer del pubblico che la vide senza stancarsene comparire in iscena di tempo in tempo per lo spazio di quasi cento anni, come osservò il sig. di Fontenelle. La rammentò con disprezzo il sig. di Voltaire, nè senza ragione, se si riguardi allo stile generalmente basso e sparso d’inezie, di pensieri falsi e di ornamenti stranieri alla poesia scenica. Ma il carattere di Erode dipinto con bastante forza e verità, ed alcune situazioni che interessano, e l’intrepidezza di Marianne condotta a morire, mostrano che Tristano meritò in certo modo gli applausi che riscosse da’ Francesi di quel tempo. L’abate {p. 201}Giovanni Andres però affermò con troppa sicurezza ciò che la storia rigetta, dicendo che Tristano tratta avesse la sua Marianne dal Tetrarca de Jerusalen del Calderòn. Oltre a ciò che precedentemente noi affermammo della Marianna di Lodovico Dolce, di Don Pedro Calderòn de la Barca e di Tristano, vuolsi quì osservare ancora, che nell’anno 1636 quando si rappresentò la Marianne francese, il teatro spagnuolo non avea ancor veduto il Tetrarca de Jerusalen. Ciò si deduce dalla prima collezione che si fece de las Comedias de Don Pedro Calderòn da Don Joseph suo fratello, impresse in Madrid per Maria Quiñones nel medesimo anno 1636, non trovandosi fralle dodici che l’autore sino a quell’anno avea composte la favola del Tetrarca; la qual cosa sarebbe stata omissione rilevante, avendo tal componimento prodotto tutto l’effetto sulle scene. Noi al contrario possiamo più ragionevolmente assicurare, che se Calderòn non ebbe contezza della {p. 202}Marianna italiana composta cento anni prima, è ben più verisimile che l’autore spagnuolo tolto avesse questo argomento da’ Francesi, approfittandosi o della Marianne di Hardy rappresentata in Parigi nel 1610, o di quella di Tristano che fece recitare e stampò la sua prima che non comparisse il Tetrarca del Calderòn.

Tommaso Cornelio fratello di Pietro minore d’intorno a venticinque anni compose parimente varie tragedie fortunate. L’Arianna si rappresentò nel 1672 nel tempo stesso che si recitava il Bajazette del Racine tragedia di gran lunga superiore alla favola del giovine Cornelio; ma pure l’Arianna riscosse grandi applausi e si è ripetuta sino a’ giorni nostri, tuttochè soggiaccia al difetto generale di aggirarsi sugl’intrighi amorosi proprii di una commedia. L’autore spese in comporla quaranta giorni; ma il tempo si consuma nel lavoro e nel maneggio della lima sullo stile, ed è quello che manca {p. 203}all’Arianna. Trasse Tommaso Cornelio il suo Conte di Essex dalla commedia spagnuola del Coello o di Filippo IV Dar la vida por su Dama; ma rendendola più regolare ne peggiorò il carattere dell’Essex. Il di lui Timocrate (componimento cattivo carico di accidenti romanseschi poco verisimili e mal verseggiato) tante volte fu dal pubblico richiesto e si ripetè, che i commedianti infastiditi dopo ottanta recite chiesero in grazia di rappresentare altri drammi. Tommaso con più debolezza di stile e con minore ingegno del fratello merita ancor la stima de’ nazionali per essere stato più di Pietro castigato nell’uso delle arguzie viziose, per la scelta degli argomenti, per la vasta letteratura ond’era ornato, e per la purezza con cui parlava la propria lingua. Sotto di Pietro (pronunziò Voltaire) Tommaso al suo tempo era il solo degno di essere il primo, eccettuandone sempre Racine cui niuno de’ contemporanei fu comparabile.

{p. 204}Cirano di Bergerac nato nel Perigord nel 1620 e morto nel 1655 fece una tragedia della Morte di Agrippina, e nel personaggio di Sejano diede il primo esempio delle massime ardite usate poscia da moderni tragici della Francia con tal frequenza ed intemperanza, che, al dir del Palissot, ne sono essi divenuti ridicoli; or che diremo di certi ultimi Italiani che hanno portato al colmo questo difetto?

Filippo Quinault nato in Parigi nel 1634 e morto nel 1688, oltre alle opere musicali e alle commedie, delle quali parleremo appresso, compose otto tragicommedie e quattro tragedie. Tralle prime riscosse particolari applausi Agrippa re di Alba, ovvero il Falso Tiberino rappresentata nel 1660 per due mesi continui e rimasta su quelle scene. Piacquero altresì Amalasunta e le altre ad eccezione del Fantôme amoureux tolta dalla commedia spagnuola El Galàn Fantasma, la quale cangiando linguaggio non acquistò punto di {p. 205}vivacità ne’ colpi di teatroa. Le tragedie sono la Morte di Ciro uscita nel 1656, in cui si veggono stranamente avviliti i caratteri del gran Ciro, degli Sciti e della loro regina Tomiri, oltre ai difetti di arte e di verisimiglianza nelle situazioni e ne’ consigli; Astrato re di Tiro rappresentata per tre mesi nel 1663, e rimasto al teatro malgrado de’ motteggi di Boileau; Bellorofonte tragedia fischiata nel 1665 senza esser peggiore delle altre; e Pausania uscita nel 1666 che ebbe miglior fortuna. Invano si rileverebbe l’effemminatezza dello stile, la mancanza di verità nelle situazioni, l’inverisimiglianza de’ colpi, l’ineguaglianza de’ caratteri, ed altri difetti di quelle favole che si ascoltarono per qualche anno e {p. 206}sparvero senza ritorno. Quinault non fu letteratoa, non sapeva la storia, non aveva studiato nè il genio nè i costumi delle nazioni; non ebbe altra scorta che il proprio ingegno e l’immaginazione. Faceva versi ben torniti, ma non mostrò di esser nato per la poesia tragica. Nelle sue tragedie, come osservò Saint-Evremont, si cerca sovente il dolore, e si trova solo certa tenerezza per lo più intempestiva che degenera in mollezza. Fu segno a’ morsi satirici di Desprèaux Boileau amico di Racine e degli antichi, e fu lodato dal Perrault emulo di Boileau e adulatore de’ moderni. Anche Pradon cattivo scrittore di varie tragedie spesso rappresentate con affluenza di spettatori, prese contro il medesimo satirico francese la difesa di Quinault.

{p. 207}Duchè ajutante di camera di Luigi XIV ebbe l’onore di comporre alcune tragedie sacre pel teatro della sala di madama di Maintenon, le quali si recitarono dalla Duchessa di Borgogna e dal duca di Orleans col famoso commediante Baron che le dirigeva. Egli si valse di argomenti tratti dal Testamento Vecchio. Il suo Gionata e l’Assalonne non hanno veruna digressione amorosa che le deturpi, in ciò preferendo con senno la sola Atalia di Racine a tutto il teatro tragico francese. Non per tanto Achinoa moglie di Saulle colle sue figliuole introdotte nel Gionata, e Maaca e Tamar nell’Assalonne, sono persone oziose, inutili a quelle azioni. Viene egli ripreso eziandio per aver nell’Assalonne alterata la storia sacra, facendolo penitente per renderlo atto a muovere la compassione. Ma si loda con ragione l’elezione che egli seppe fare de’ principali personaggi proprii ad eccitar la pietà tragica. Anche l’abate Gênet compose altre tragedie rappresentate {p. 208}dalla duchessa du Maine colle sue dame.

Si composero parimente varie sacre tragedie latine. Le più note sono quelle del celebre Dionigi Petavio, di cui s’impresse in Parigi nel 1620 il Sisara, e quattro anni dopo l’Usthazane, ovvero i Martiri Persiani con altre. Nel medesimo anno 1620 uscirono alla luce la Solima e la santa Felicita di Niccolò Causin. Si pubblicarono nel 1695 anche in Parigi le quattro tragedie di Francesco Le Jay, cioè il Giuseppe riconoscente i Fratelli, il Giuseppe venduto, il Giuseppe Prefetto in Egitto, il Daniele.

Si crede che appartenga al secolo XVII parimente la Morte di Solone, di cui s’ignora l’autore, non mentovata dagli scrittori drammatici di quel tempo, e non rappresentata mai nè in francese nè in italiano. Può veramente accordarsi a’ compilatori francesi della Picciola Biblioteca de’ Teatri che veggansi in tal tragedia sparsi quà e là alcuni versi felici e certe bellezze. Ma essi con noi converranno che vi si {p. 209}scorge principalmente un tuono continuato di fredda elegia e di galanteria, per cui spariscono i tratti importanti di libertà che tutta ingombra l’anima di Solone. Le scene per lo più lunghe, oziose e quasi sempre fredde di quattro donne che v’intervengono, spargano per tutto, e specialmente ne’ primi tre atti, un languore mortale. A un tratto poi nel IV si enuncia la morte di Pisistrato, di cui non cercano di accertarsi nè gli amici nè i nemici, così che poco dopo Solone avvisa che Pisistrato combatte ancora, e la libertà soccombe; anzi Pisistrato stesso viene fuori, altro male non avendo che un braccio ferito. Nell’atto V Licurgo esce per far sapere alle donne del dramma che il Senato è condisceso all’innalzamento di Pisistrato al trono, e che Solone nell’opporsi a’ soldati di lui è stato mortalmente ferito. Dopo alcune scene galanti, elegiache al pari delle già indicate, comparisce nell’ultima Solone moribondo, il quale si mette a declamare lungamente con tutta {p. 210}l’inverisimiglianza per uno che stà spirando, e racconta verbosamente che Policrita, non è sua figlia e che si chiama Cleorante. In tutto il dramma egli ha usato un artificio ed una reticenza scrupolosa, poco tragica intorno a i natali di Cleorante ad oggetto di valersene per impedire con autorità di padre che Pisistrato che l’ama opprimesse la patria. Ma quale scopo si prefigge morendo con iscoprire il cambio fatto? Soltanto il far noto che il proprio sangue non si mescolerà con quello dell’oppressore di Atene. Sembra dunque che l’eroe legislatore diventi nullo nella tragedia, e che non si vegga in essa la sua virtù posta in azione sino a che non ne diviene la vittima. Il personaggio che più chiama l’attenzione è Pisistrato combattuto dall’amore e dall’ambizione, che vuole il regno e non vuol perdere Policrita. Interessa eziandio la stessa Policrita appassionata amante di Pisistrato e della libertà, e che seconda le mire di Solone a costo del proprio amore. Solone altro non fa che {p. 211}ondeggiare sperando nelle varie fazioni, e promettendo la pretesa figliuola a colui che contribuisca a distruggere il partito oppressore: opporsi alla fortuna di Pisistrato contro il volere del Popolo e del Senato Ateniese: e svelare l’inutile arcano. Tutto potrebbe condonarsi se nel dramma poi dominasse minor noja, freddezza e languore.

CAPO VI
Stato della Commedia Francese prima e dopo di Moliere. §

Pietro Cornelio che portò la tragedia alla virilità, lasciò in Francia la commedia quasi nella fanciullezza. Le prime sue sette commedie poco interessanti e difettose ebbero qualche merito in confronto de’ poeti contemporanei. II Bugiardo tratto dalla Verdad sospechosa e dal Mentiroso en la Corte degli Spagnuoli, si rappresentò dopo che avea Cornelio illustrate le scene con gli Orazii, col {p. 212}Cinna e col Poliuto, cioè nel 1641 e 1642. Questa commedia assai piacevole di carattere e d’intrigo, al dir del Voltaire, fu la prima ricchezza del comico teatro francese; ma secondo il signor di Fontenelle nella Vita di Pietro Cornelio, essa non bastò per istabilirvi la vera commedia. Non era al fine questo dramma se non una traduzione in parte corretta nella quale si cercava il ridicolo negli eventi immaginati con arte anzi che nel cuore umano che ne abbonda. Boisrobert, Scarron, Desmaret, Tommaso Cornelio seguendo l’esempio di Pietro trasportarono, come dicemmo, diverse favole spagnuole al lor teatro, purgandole per lo più dalle principali irregolarità, ma sovente sfigurandole e convertendo in bassezze scurrili le grazie originalia.

{p. 213}Da ciò si vede che dominava allora in Francia la commedia d’intrigo senza essere pervenuta al punto ove l’aveva portata in Italia il celebre Giambatista della Porta. Ma la dipintura delicata de’ costumi attendeva l’inimitabile Moliere, cui i posteri diedero e conservano il meritato titolo di padre della commedia francese.

Dopo le guerre civili che durarono sino al 1625 cominciò Giambatista Poquelin detto Moliere a girar colla sua comitiva per le provincie, e nel 1653 rappresentò in Lione, indi in Besiers, in Grenoble, in Roano sino alla state del 1658 con general plauso alcune farse piacevoli benchè irregolari, delle quali rimangono i soli nomi. Le prime sue commedie che più tirarono l’attenzione del pubblico, furono lo Stordito ed il Dispetto amoroso. L’una e l’altra appartengono al teatro italiano. I medesimi Francesi non ignorarono che l’azione ed i principali colpi di teatro della prima si tolsero da una {p. 214}commedia italianaa. Arlecchino servo balordo si rappresentava in Francia a soggetto da’ commedianti Italiani; e Niccolò Barbieri detto Beltrame nel 1629 diede alla luce per le stampe la sua commedia l’Inavvertitob, la quale servi di modello prima alla commedia di Quinault l’Amante Indiscreto, ossia il Padrone Stordito rappresentata nel 1654, indi allo Stordito di Moliere incomparabilmente migliore di quella di Quinault. La commedia di Niccolò Secchi milanese forni al Moliere la sua del Dispetto amoroso; ma l’italiana termina assai meglio della francese, il cui quinto atto mal congegnato raffredda tutta la favola. Dall’altra parte non vedesi nell’italiana vestigio della bella scena del Dispetto di Lucilla ed Erasto, in cui essi lacerano {p. 215}vicendevolmente i biglietti che conservavano e restituiscono i doni, rompono ogni corrispondenza, e finiscono con andarsene uniti. Il Riccoboni però ci assicura che Moliere nel Dispetto imitò anche un’altra commedia italiana detta Gli sdegni amorosi, e questo titolo ben può indicare che da tal commedia egli trasse probabilmente quella scena. Comunque sia la storia dimostra che siccome Guillên de Castro servi di scorta al gran Cornelio nella tragica carriera, così nella comica il gran Moliere ebbe per guida gl’Italiani, benchè senza tradirne l’interesse seppe dar loro un colorito nazionale.

Le Preziose ridicole si rappresentarono prima del 1658 in Beziers con molto applauso. Questa favola ha una tinta di farsa, ma vi si motteggia lo stile affettato romanzesco che le donne stesse prendevano nelle conversazioni. Allorchè poi si ripetè in Parigi, dove il ridicolo che vi si satireggia esser dovea più generale, si accolse così favorevolmente che se ne {p. 216}continuarono le rappresentazioni per quattro mesi, raddoppiandosi fin dalla seconda recita il prezzo ordinario dell’entrata. È ben noto che in una di queste un vecchio rapito dal piacere gridò dalla platea, coraggio, Moliere, questa questa è la buona commedia, voce della natura onde siamo avvertiti, che il pubblico polito, se la pedanteria non lo corrompe, sa giudicar dritto de’ componimenti teatrali.

Nell’autunno del medesimo annovenne Moliere co’ suoi nella capitale della Francia. Cominciò le rappresentazioni colla tragedia del Nicomede di P. Cornelio, e con una delle sue farse il Dottore innamorato; ed il modo di rappresentare di questa comitiva piacque alla corte, e Moliere ottenne dal re di stabilirsi in Parigi, e di alternare sul teatro del Picciolo-Borbone colla comitiva Italiana.

La dimora che Moliere fece in corte contribuì all’aumento de’ lumi di lui intorno al cuore umano e a’ costumi nazionali, e disviluppò sempre più il {p. 217}suo discernimento e buon gusto, e ne migliorò lo stile. Tutto ciò si conobbe nella recita del Cocu immaginario scritto più correttamente delle prime favole. Il carattere di questa parimente ricavata dagl’Italiani non è de’ più delicati, ma per la piacevolezza e per l’interesse che vi si sostiene, si rappresentò quaranta volte.

Sino alla state del 1662 diede Moliere al teatro il Principe geloso, in cui riuscì male come attore e come poeta; la Scuola de’ mariti tratta principalmente da Giovanni Boccaccio, la cui riuscita consolò l’autore, e cancellò la svantaggiosa impressione della favola precedente; e gl’Importuni commedia in cui non trovasi altra connessione se non quella che si vede in una galleria di bei ritratti; ma pure si accolse con indulgenza per essere stata composta, studiata e rappresentata in quindici giorni.

Intanto il graziosissimo attore comico conosciuto col nome di Scaramuccia, il quale nel mese di giugno del {p. 218}1662 prese congedo dal pubblico per venire in Italia, tornò dopo quattro mesi di assenza, ed al suo arrivo i Parigini accorsero con tale affluenza e transporto ad ascoltarlo, che il teatro di Moliere, malgrado del credito acquistato, rimase per tutto il mese di novembre desolatoa. Nè vi ritornò il concorso se non colla comparsa della Scuola delle Donne rappresentata nel dicembre, che Moliere ricavò da una novelletta delle Notti facete di Straparolab.

Essendo stata questa piacevole commedia criticata da certi smilzi letterati pieni d’invidia, più che di gusto e d’intelligenza, Moliere nel seguente anno se ne vendicò comicamente facendo ridere il pubblico a spese de’ suoi {p. 219}censori, e pubblicò la Critica della Scuola delle Donne, in cui dipinse vagamente i ridevoli critici colla grazia comica a lui naturale. Volle indi scagionarsi di un sospetto insorto che poteva nuocergli, cioè che nelle imitazioni ridicole avesse satireggiato alcuni ragguardevoli cortigiani; e se ne giustificò alla presenza del re coll’Improvvisata di Versailles recitata nell’ottobre del 1663, e poi in Parigi nel seguente mese. Derise in essa gajamente il modo di rappresentare de’ commedianti dell’Hôtel di Borgogna, contraffacendoli, e segnatamente pose alla berlina Boursault comico scrittore dozzinale, il quale aveva indegnamente ferito Moliere, motteggiandolo sulla condotta della moglie col Ritratto del Pittore.

Ma dopo che nel 1664 ebbe egli dato al teatro la Princesse d’Elide, il Matrimonio a forza intitolato Ballo del Re perchè vi danzò Luigi XIV, il Convitato di pietra che scrisse in prosa in cinque atti nel 1665 {p. 220}d’infelice riuscitaa, e la farsa dell’Amor Medico in tre atti, produsse nel 1666 il Misantropo che fu il primo capo d’opera della commedia francese.

Tutti i comici antichi e moderni hanno motteggiata e dipinta la civetteria, la maldicenza, l’ingiustizia, la {p. 221}vanità ed ogni specie di ridicolezza umana. Ma niuno ch’io sappia trovò mai il ridicolo di una virtù feroce ed austera. Un carattere virtuoso ma intollerante, che si meraviglia di tutto e tutto condanna: che per non tradire il vero, a costo della politezza e senza necessità, si pregia di dire ad un cavaliere, il quale ha la debolezza di voler esser poeta, che i suoi versi sono cattivi: che in vece di compatire gli errori umani vuol perdere la rendita di quarantamila lire, per lasciare a’ posteri nel suo processo un testimonio di una sentenza ingiusta; un carattere, dico, siffatto, sebbene amabile e caro a’ buoni per la virtù che ne fa il fondo, ha pure il proprio ridicolo degno di esser corretto; ed il genio di Moliere seppe seguirlo alla pesta e riprenderlo comicamente. Non mai Talia si elevò a così alto segno; e poche altre ridicolezze importanti come questa rimangono da esporsi allo scherno scenico. Il carattere di Alceste contrasta egregiamente con quello {p. 222}di Filinto, e dà movimento a tutti gli altri che lo circondano. L’intreccio veramente manca di vivacità, e i colori assai delicati non possono recarpieno diletto a chi è avvezzo alle tinte risentite che diconsi zingaresche. Ad onta della grazia de’ caratteri, della felice arditezza dell’idea, dell’eleganza e purezza dello stile, questo bel componimento non piacque la prima volta che si rappresentò; e Moliere scaltramente si avvisò di accompagnarlo colla farsa piacevole del Medico a forza; e con tal mezzo il Misantropo si riprodusse e piacque.

Una pastorale eroica, un’altra comica cantata nel medesimo anno 1666, ed il Siciliano commedia-balloa {p. 223}rappresentato nel 1667 precederono un altro capo d’opera, il famoso Tartuffo.

I tre primi atti di questo componimento si rappresentarono sin dal 1664, e se n’era sospesa la rappresentazione, Compiuta, corretta, riveduta e approvata, sulla permissione verbale ottenutane dal sovrano. Moliere la rimise {p. 224}cul teatro l’anno 1667, ma gridarono gl’ippocriti, e la commedia assai bene accolta dal pubblico fu di bel nuovo proibita. Il re assediava Lilla, e due attori spediti da Moliere gli presentarono un memoriale di tal divieto; pure non prima del 1669 si ottenne la permissione autentica di riprodursi il Tartuffo. Come esso si comprese, caddero le macchine dell’impostura, la quale temendo di essere smascherata voleva farlo passare per una satira della vera pietà e religionea, Mille pregi rendono questo dramma l’ornamento più bello della comica poesia e delle {p. 225}scene francesi. L’interesse che si desiderava nel Misantropo, comincia nel Tartuffo a sentirsi sin dalla prima scena della vecchia Pernelle. La vivacità ch’è l’anima delle scene aumenta per gradi col comparire nell’atto III il personaggio di Tartuffo, e col disinganno di Orgone nel IV.

Nel 1668 comparvero l’Anfitrione e l’Avaro, commedie tratte da Plauto e accomodate ottimamente a’ costumi più moderni, e Giorgio Dandino piacevolissima farsa, il cui soggetto non è de’ più innocenti, e che col sale comico scema in parte la riprensione meritata per la leggerezza di Angelica. Nel 1669 quando tornò sul teatro il Tartuffo, usci ancora la farsa di Monsieur de Pourceaugnac, in cui un avvocato di provincia viene aggirato da Sbrigani personaggio modellato su i servi della commedia greca ed italiana antica e moderna.

Gli Amanti magnifici altra commedia-ballo, in cui Moliere raccolse tutti i divertimenti introdotti nella scena, {p. 226}uscì nel 1670. La varietà degli oggetti che appagavano i sensi, fe mirare con indulgenza questo spettacolo, di cui avea suggerito il piano l’istesso Luigi XIV, il quale nel primo tramezzo ballò da Nettuno, e di poi da Apollo; ma fu l’ultima volta che questo monarca che si trovava nel trentesimosecondo anno della sua età, comparve in teatro a ballare, scosso da’ versi del Britannico:

Pour merite prèmier, pour vertu singuliere,
Il excelle à trainer un char dans la carriere,
A disputer des prix indignes de ses mains,
A se donner lui-même en spectate aux Romains.

La corte nel medesimo anno che applaudi gli Amanti magnifici, fu poco sensibile all’altra commedia-balletto le Bourgeois Gentilhomme che valeva assai più. Il solo Luigi XVI ne giudicò in Versailles più favorevolmente de’ suoi cortigiani, la qual cosa {p. 227}manifesta il buon gusto di questo monarca e la stima che faceva di Moliere. Parigi meglio della corte sentì la verità della comica dipintura di Monsieur Giordano, in cui si ridicolizza vagamente la comune vanità di parere quel che non si è. Tuttavolta vi si trovano molti colpi di teatro proprii della farsa; benchè gli uomini di gusto non pedantesco sanno bene che per rendere notabili certe utili dipinture conviene adoperar qualche volta un colorito risentito alla maniera del Caravagio.

Nè di grazia nè di arte scarseggia la commedia delle Furberie di Scapino recitata nel 1671, sebbene il sacco in cui si avvolge Scapino, e la scena della galera appartengano a un genere comico più basso. Psiche tragedia-ballo che si era rappresentata nel carnevale del 1670, si ripetè nel 1671. Essa fu notabile pel concorso degli autoriche vi lavorarono nel medesimo tempo per eseguir con prontezza gli ordini reali. Il piano ed i versi del prologo, dell’atto I e delle due scene prime {p. 228}del II e del III, sono di Moliere; il rimanente si verseggiò da Pietro Cornelio, ad eccezione delle parole italiane e dei versi francesi da cantarsi che si scrissero da Quinault, e si posero in musica da Lulli. Moliere, Lulli, Cornelio, Quinault lavorano ad un sol componimento, destinato al piacere di Luigi XIV. Bel regno! illustri nomi!

Le Donne Letterate altro capo d’opera venne alla luce nel 1672. Si dipinge in tal commedia il falso bell’ingegno e la superficiale pedantesca erudizione; ma da un soggetto così arido Moliere seppe trarne partito per la scena comica colla caparbieria di Filaminta preoccupata del merito ideale di Trissottino. Dietro a questa commedia nell’anno stesso venne la farsa della Contessa d’Escarbagnas, una pastorale comica di cui rimasero soltanto i nomi de’ personaggi, e la commedia-ballo l’Ammalato immaginario recitata nel 1673, ultimo frutto di questo raro ingegno. Alla quarta {p. 229}rappresentazione che se ne fece il di 17 di febbrajo, morì in sua casa questo principe della commedia francese, essendovi stato trasportato dal teatro moribondo.

Moliere nato nel 1628 con disposizioni naturali alla poesia comica più che alla seria, appena ebbe veduto il teatro di Borgogna che manifestò la sua inclinazione verso la scena. Coltivò i suoi talenti colle lettere studiando per cinque anni nel Collegio di Clermont, ed ascoltò le lezioni filosofiche di Pietro Gassendo, onde trasse l’abito di ben ragionare ed analizzare, che si vede trionfar nella maggior parte delle sue opere. E chi gli negherà il talento filosofico ove ponga mente a quella sagacità che lo scorge ad entrar da maestro nel mecanismo delle umane passioni? Ma la filosofia di Moliere non fu quella orgogliosa e vana che sdegna di piegarsi al calore della passione, o ignora l’arte sagace di mostrar di perdersi in esso per celare i suoi ordigni e le sue forze; non fu quella filosofia che fa pompa del suo {p. 230}compasso, de’ suoi calcoli e dell’austerità della sua dottrina. La filosofia di Moliere e di ogni uomo che pensa e medita per giovare, è quel fuoco secreto, benefico, necessario che tutto penetra, tutto avviva e tutto purifica per l’altrui ammaestramento. Or questa filosofia da quanti filosofi e matematici di ostentazione è conosciuta?

Scorrendo per le provincie egli giva studiando l’uomo e la propria nazione. Se imbatteva in qualche personaggio originale degno di ritrarsi sulla scena, nol perdeva di vista prima di averlo pienamente studiato. Riferisce m. Arnaud che avendo egli trovato un dì uno di tali uomini originali segnato con tratti caricati, gli si attaccò, e postosi seco lui in un carrozzino l’accompagnò sino a Lione e non l’abbandonò finchè non l’ebbe studiato in tutte le gradazioni di ridicolo che ne formavano il carattere. In Versailles ebbe saggio di osservare i costumi de’ cortigiani e di dipingerli al vivo; e si sa che essi stessi contribuirono talora {p. 231}talora colle loro notizie ad arricchire il suo tesoro comico.

Intorno a’ caratteri diversi delle sue favole, è da avvertirsi che egli da prima accomodò i suoi lavori al gusto dominante per le commedie d’intrigo; ma poichè ebbe acquistato maggior credito, si rivolse da buon senno a rinvenire il ridicolo ne’ costumi correnti. Dipinse a meraviglia i petits-maitres francesi divenuti ognora più ridicoli con passarne la caricatura alle altre nazioni. Espose graziosamente alla derisione il pedantismo, l’impostura de’ medici, la ciarlataneria de’ falsi eruditi, l’affettazione delle donne preziose, e delle pretese letterate, ed il difetto di una virtù troppo fiera ed intollerante.

Allo studio dell’uomo e della propria nazione Moliere accoppiò quello degli scrittori teatrali, e seppe approfittarsi delle loro invenzioni, non da plagiario meschino, ma da artefice sagace che abbellisce imitando. È incerto che in qualche scena del Borghigiano Gentiluomo e del Tartuffo {p. 232}avesse avuto la mira alle Nuvole ed al Pluto di Aristofane, come pretese Pietro Brumoy; benchè alcuna remota rassomiglianza si scorga delle nominate favole greche con qualche tratto di quelle di Moliere. Certo è però che sono imitazioni di Plauto l’Anfitrione e l’Avaro, e che i fratelli della Scuola de’ mariti sono modellati sugli Adelfi di Terenzio. Gli accidenti del velo della medesima favola, e nel Siciliano, il Convitato di pietra, la Principessa d’Elide, ed una parte della Scuola delle donne, si ricavarono dal teatro spagnuolo. Prese assai più dagl’Italiani. Da Straparola trasse l’argomento ed alcune grazie della stessa Scuola delle donne. Varie scene ed astuzie di Scapino e di Sbrigani si trovano nelle commedie del Porta; Giorgio Dandino deriva da una novella del Boccaccio già dallo stesso Porta trasportata sulla scena. Il Dispetto amoroso è del Secchi. Lo Stordito e il Servo balordo de’ commedianti Italiani e l’Inavvertito del {p. 233}Barbieri. Il Cornuto immaginario viene dalla favola italiana intitolata il Ritratto. Il Tartuffo stesso fu preceduto dal Bernagasso degl’Italiani. Di ciò convengono il Bailea, il Leris nel Dizionario de’ Teatri di Parigi, e l’abate Dubos mentovato dal sig. Bret nella sua edizione delle Opere di Moliere. Diceva Dubos che si ricordava di aver letto che Moliere doveva al teatro italiano il suo Tartuffo b. Si vuol notare però che il Bernagasso mentovato ed il Tartuffo vennero dopo di due altri componimenti italiani, ne’ quali si dipinse il carattere di un falso divoto, cioè dalla commedia latina di Mercurio Ronzio vercellese De falso hypocrita et tristi, e dall’Ipocrita di Pietro Aretino, in cui nulla {p. 234}si desidererebbe per raffigurarvi il Tartuffo, se l’autore non avesse voluto nella sua favola aggruppare gli eventi che nascono da una somiglianza, e quelli di cinque coppie d’innamorati, le quali cose gl’impedirono il rilevar tutti i tratti piû vivaci di tal secondo detestabile carattere che sempre con utilità e diletto sarà esposto alla pubblica derisione. Ora se gl’Italiani ebbero il Bernagasso che rappresentarono anche in Francia; se ebbero altresì l’Ipocrita del Ronzio e dell’Aretino, non comprendo come il sig, Palissot potè affermare nelle Memoriè Letterariè che il Tartuffo non aveva avuto modello in veruna nazione. È se tanti è tanti altri materiali e favole italiane Moliere imitò o tradusse con felice riuscita, ebbe torto manifesto Giambatista Rousseau, quando scrisse che Moliere nulla dovea agli Italiani, a riserba del modo di rappresentare pantomimico di Scaramuccia, e della commedia del Secchi e del Cornuto immaginario. Questo è {p. 235}confessare un debito per negarne uno maggiore. Da ciò si vede la difficoltà di esser critico e pensatore senza cognizione della storia.

Bisogna però mostrare ingenuità maggiore di codesti Francesi eruditi, e confessare che Moliere abbelliva le altrui invenzioni, accomodandole così acconciamente al suo tempo ed alla propria nazione, che, quando non lavorava con fretta, gli originali sparivano sempre a fronte delle sue copie. Niuno al pari di lui possedeva l’arte di scoprire il ridicolo di ogni oggetto: niuno mosse con più fortuna e destrezza la guerra agl’impostori: niuno innalzò la poesia comica sino al Misantropo: niuno copiò più al vivo la natura seguendola dapertutto senza lasciarla se non dopo di averne raccolti i tratti più rassomiglianti. Da ciò venne quella verità di carattere che costituisce il talento maggiore di quell’ingegno grande, e che lo rende superiore a tutti gli altri comici. La poca felicità notata da’ critici nello scioglimento delle sue favole; {p. 236}qualche passo dato talvolta oltre del verisimile per far ridere; alcuna espressione barbara, forzata o nuova nella lingua, di che fu ripreso da Fenèlon, la Bruyere e Baile; molte composizioni scritte per necessità con soverchia fretta; la mancanza di vivacità che pretesero osservarvi alcuni Inglesi che ne copiarono qualche favola alterandola e guastandola a lor modo; tutte queste cose, quando anche gli venisseso con ogni giustizia imputate, dimostrerebbero in lui l’uomo. Ma i sommi suoi pregi sino a quest’ora trovati coll’esperienza inimitabili, lo manifestano grande a tal segno, che al suo cospetto diventano piccioli tutti i contemporanei e i successori. Videsi allora al maggior Cornelio succedere l’immortal Racine, ed all’uno e all’altro qualche tragico del XVIII secolo; ma dove è il degno successore di Moliere? Egli è ancor solo.

Mentre egli fioriva altri scrissero ancora farse e commedie; ma noi non ci arresteremo su quelle di Poysson, {p. 237}Montfleury, Boursault, Hauteroche, Champmelè, Vizè, Baron ed altri commedianti, i quali o ne composero in effetto o prestarono il nome a chi le scrisse e non vole comparire. Trarremo solo da questa folla di poca importanza il Pedana burlato piacevole commedia di Cirano di Bergerac, i Visionarii di Desmaret morto nel 1676 commedia in quel tempo stimata inimitabile, benchè non sia se non una filza di scene di tratti immaginarii cattiva e maltessuta, e i Litiganti di Racine imitazione delle Vespe di Aristofane uscita nel 1667, cui credesi di avere in qualche nodo contribuito e Desprèaux e Furetiere ed altri chiari letteratia.

Dicasi pur anche alcuna cosa delle commedie di Quinault scritte nel fiorir di Moliere. Cortando egli nel 1653 il diciottesimo anno di sua età diede {p. 238}al teatro le Rivali favola tessuta alla spagnuola su di una deflorazione, sulla fuga di due donne rivali, e sul loro travestimento da nono, senza arte, senza regolarità e senza piacevolezza. Nel 1654 produsse l’Amante indiscreto, ovvero il Padrone stordito, tratto, come dicemmo, dagl’Italiani, commedia però difettosa per condotta, per economia e per arte di dipingere, e di molto inferiore all’Inavvertito del Barbieri, ed assai più allo Stordito di Moliere. Riconobbero i Francesi nella di lui Commedia senza commedia recitata nel 1655 gran fertilità d’ingegno. Vi si figura che alcuni commedianti per mostrare i loro talenti rappresentino nel secondo atto una pastorale, nel terzo una commedia, nel quarto una tragedia de la morte di Clorinda, nel quinto una tragicommedia decorata sull’innamoramento di Armida. La Mère coquette rappresentata con gran concorso nel 1664 è la migliore delle sue commedie, ma lontana dal sostenere il confronto di {p. 239}quelle di Moliere. La dipintura di une madre che si enuncia per civetta, mal corrisponde all’idea vera di tal carattere. Ella è una donna attempata che si belletta e vuol passare alle seconde nozze; ma basta ciò per caratterizzarla per coquette? L’autore ebbe principalmente in mira di tessere la sua favola sul disgusto di due amanti procurato per furberia di una serva. Vi si vede, è vero, abbozzato il ritratto di un Marchese stordito e imprudente, come accennò Voltaire; ma non vi si trova la verità e la vivacità comica che acquistò poi tal carattere per mezzo di Moliere. Voltaire stesso avendo riguardo a questa Mère coquette diceva che Moliere non trovò il teatro Francese totalmente sfornito di buone commedie; e che quando questa si rappresentò, non avea Moliere prodotto i suoi capi d’opera. Egli in ciò s’ingannò, come anche nel credere sì buona tal favola. Non era uscito nel 1664 il Misantropo; ma le Preziose ridicole, la Scuola delle donne, la {p. 240}Critica di questa, e l’Improvisata di Versailles, ed assai più i tre primi atti del Tartuffo preceduti alla Mère coquette, aveano già ben degnamente enunciato Moliere e la buona commedia.

Tre altri comici rinomati si vogliono mentovar con onore dopo Moliere, cioè Regnard, Brueys e Dancourt. Giovanni Francesco Regnard nato in Parigi nel 1674, secondo Voltaire, mori di anni cinquantadue, ma l’autore del Calendario degli spettacoli vuole che sia mancato di vivere nel 1710, e Palissot reca la di lui morte seguita nel 1709. Di genio allegro, giocondo, comico, meritò, per altro dopo lungo intervallo, di occupare il secondo posto appresso Moliere. Il suo Giocatore si avvicina molto al gusto di quel gran comico. I Menecmi tratta da Plauto viene pregiata dagl’intelligenti; ed è da notarsi che l’autore la dedicò a Boileau Desprèaux contro di cui poi acrisse una satira, parendogli di non essergli stata dall’Orazio della Francia {p. 241}renduta tutta la giustizia. Il Legatario universale buona commedia d’intrigo si distingue pel dialogo vivo e naturale. Il Distratto è piacevole per la bizzaria del carattere, ma il colore che l’avviva a me sembra soverchio risentito, e le distrazioni vi si ammassano in tanta copia che si rende poco credibile. Carlo Goldoni introdusse questo carattere in una sua favola, facendolo comparire pochissime volte come personaggio episodico, e le distrazioni non eccedettero nè in numero nè in istranezze, e la dipintura riuscì dilettevole e verisimile.

Davide Agostino Brueys, benchè morto nel 1723, passò la maggior parte della sua età nel secolo XVII, essendo nato in Aix nel 1640. Da teologo controversista divenne poeta comico non ispregevole, e conservò tra’ Francesi il gusto della vera commedia. Le Grondeur gli acquistò molto credito. Egli convisse con Palaprat per alcun tempo con molta intimità e da lui fu ajutato nel comporre la nominata {p. 242}commedia. Diceva però con la maggior naturalezza del mondo, che il primo atto era tutto suo ed era eccellente, il secondo in cui Palaprat avea inscrite alcune scene burlesche, era mediocre, il terzo che tutto apparteneva all’amico, era detestabile. Di lui è pure rimasta al teatro una imitazione dell’Eunuco di Terenzio intitolata il Mutolo. Egli abbelli ancora l’antica farsa dell’Avvocato Patelina.

Florent Carton Dancourt nato nel 1661 o 1662 e morto nel 1725 o 1726 fu un commediante di mediocre abilità. ed uno de’ buoni autori comici. Dialogizza con felicità e piacevolezza, se non che talvolta diventa affettato per voler esser concettoso. Riusciva principalmente nel dipingere le donne intriganti e i cavalieri d’industria, caratteri copiosi nelle nazioni numerose ed opulente, i quali sanno così ben {p. 243}coprirsi di politezza e di onestà, che merita ogni applauso il delicato comico che sappia smascherarli e denunciarli graziosamente al pubblico. Il Cavaliere alla moda, il Cittadino di qualità, il Giardiniere galante, sono le sue commedie più pregevoli. Tutte le sue favole vanno impresse in dieci volumetti; ma si crede che alcune sieno state pubblicate da autori anonimi sotto il di lui nome. Verseggiava languidamente, ma scriveva con vivacità in prosa.

Quanto alla Commedia Italiana di Parigi fu sostenuta, dopo i Comici Gelosi, prima da una comitiva che rimase in quella capitale sino al 1662 senza stabilimento fisso, poi da un’ altra più fortunata che alternava colla Compagnia Francese or nel teatro di Borgogna or nel Picciolo-Borbone or nel Palazzo-Reale. Sette anni dopo la morte di Moliere si unirono le due compagnie Francesi nel Palazzo di Guenègaud, ed il teatro di Borgogna rimase alla sola Compagnia Italiana sino al 1697, quando d’ordine sovrano {p. 244}rimase chiuso. Per lo più essa rappresentava commedie dell’arte ripiene sovente di apparenze e trasformazioni per dar luogo alle facezie e balordaggini dell’Arlecchino. Nondimeno il teatro Francese conserverà sempre grata memoria di Scaramuccia e della commedia Italiana frequentata da Moliere per istudiar l’arte di rappresentar con grazia nelle situazioni ridicole.

CAPO VII.

Teatro Lirico Francese, e suoi progressi per mezzo del Lulli, e del Quinault. §

Aveano in Francia nel XVI secolo eccitato il gusto musicale i Concerti del poeta Antonio Baif: e più i balletti di Baltassarino seguiti da quelli del Rinuccini del XVII. Di assai cattivo gusto furono in seguito il balletto delle Fate del 1625, in cui, come dicemmo, ballò Luigi XIII, e la festa della Finta Pazza mentovata da {p. 245}Renaudot, fatta rappresentare nel Picciolo-Borbone nel 1645 dal cardinal Mazzarini. Due anni dopo egli stesso introdusse in corte l’opera italiana chiamando da Firenze alcuni Cantanti che recitarono alla presenza del re l’Orfeo rappresentata in Venezia colla musica del riputato Zarlino. S’imitò poi la magnificenza dell’opera di Venezia nel 1650 coll’Andromada di P. Cornelio. Fu una semplice mascherata in forma di balletto la Cassandra di Benserade eseguita nel 1651 in cui ballò Luigi XIV.

Faceva intanto il Marchese di Surdeac rappresentare a sue spese nel Castello di Neoburgo in Normandia il Toson d’oro; e l’abate Perrin tentava di fare un’ opera francese componendo in cattivi versi una pastorale posta in musica da Cambert cantata la prima volta in Issy nel 1659. L’anno seguente il Mazzarini fe rappresentare nel Louvre l’Ercole amante in italiano che a’ Francesi non piacque. Allora il Perrin vide ravvivarsi le sue {p. 246}speranze di fondare un’ opera musicale francese, e nel 1661 compose l’Arianna ancor più infelicemente verseggiata; ma la morte del Mazzarini deluse ancor questa volta i suoi disegni. Senza scoraggirsi compose la pastorale Pomona, e l’applauso che ne riscosse l’animò a chiedere al sovrano la facoltà di stabilire un’ opera francese, ed ottenutene nel 1669 le lettere patenti si associò con Cambert per la musica, e con Surdeac per le decorazioni, e per otto mesi nel 1671 continuò a cantarsi in Parigi l’opera di Pomona. Col pretesto poi di avere anticipato molto danaro Surdeac s’impossessò della cassa, cacciò via il Perrin, e si valse del parigino Gabriello Gilbert che compose le Pene e i Piaceri d’Amore rappresentata nel 1672 colla musica del Cambert. Questi furono i deboli principii dell’opera francese, che dopo qualche anno per mezzo del fiorentino Giambatista Lulli passato in Francia, e del Quinault, fu portata nata appena all’eccellenza.

{p. 247}Lulli celebre violinista maestro di musica, e poi segretario del re, di cui ebbe in seguito tutto il favore sino alla sua morte, fece tosto sentire la superiorità del suo ingegno, e con alcune arie di balletti composti pel re, e colla musica posta ad alcuni versi di Quinault nella tragedia-balletto di Psychè. Per buona sorte, e gloria della scena musicale francese, Lulli favorito da madama di Montespan ottenne dal Perrin con una summa considerevole la cessione del privilegio, e nel medesimo anno preso per socio il Vigarani macchinista del re diede le Feste di Amore e di Bacco, opera composta di molti balletti. Morto Moliere nel 1673 Lulli ottenne la sala del Palazzo Reale, dove nell’aprile di quell’anno stesso comparve la prima opera del Quinault Cadmo ed Ermione. I Francesi ammirandone la versificazione tanto superiore a quella del Perrin, non avrebbero voluto trovarvi la mescolanza del burlesco introdotta già nella Pomona.

{p. 248}L’anno seguente si rappresentò Alceste, ovvero il Trionfo di Alcide, in cui le scene di Lica e Stratone si appressano non poco al burlesco. La varietà delle decorazioni in diversi luoghi della terra, e dell’inferno unita alla facilità armoniosa dell’espressioni apprestò al genio incomparabile del Lulli tutta l’opportunità di manifestarsi. Egli è vero che un viluppo condotto con tanta libertà riesce assai più facile a tessersi, e a snodarsi che un’ opera istorica incatenata al comodo della musica, e alle leggi del verisimile; ma il sapere scerre e interessare, come fe molte volte Quinault, nell’opera mitologica che non ha freno, merita distinta lode. I di lui contemporanei notarano nell’Alceste più di un difetto. Al loro intendere il poeta francese avea guastato l’argomento greco senza approfittarsi del più bello dell’Alceste di Euripide, ed aggiugnendovi episodii che converrebbero ad ogni favola, e che non hanno un legame necessario col fatto della moglie di Admeto.

{p. 249}Nella tragedia del Teseo cantata nel 1675 è teatrale l’angustia di Egle nella quarta scena dell’atto IV, che per salvar la vita a Teseo promette a Medea di sposare il re, e rinunziare all’amor di Teseo; come ancora nella scena quinta è delicato lo sforzo di Egle stessa per apparire infedele, e far credere a Teseo che più non l’ami.

Ati recitata nel 1676 dee reputarsi una delle favole più interessanti del Quinault. Vi si trova la solita varietà delle decorazioni mitologiche, ma accompagnata da alquanti colori patetici e vigorosi degni del tempo del gran Metastasio. Può servire di esemplo la bella scena sesta dell’atto primo di Sangaride, ed Ati, di cui diamo la traduzione, pregando i leggitori a compiacersi di consultare l’originale:

Ati

Sangaride gentil, de’ giorni tuoi
Il più bel giorno è questo.

Sangaride.

A te del pari
Che a me concesso è il vanto
{p. 250}
Di apprestar del gran dì sacro a Cibele
Il festivo apparato.

Ati

È ver, ma a questo
Che dividi con me, l’onor tu accoppi
D’esser d’un gran regnante oggi consorte.
Oh del re rara sorte!
Mai sì vaga e sì lieta io non ti vidi!

Sangaride

Ati però così d’amor nemico
Della sorte del re non fia geloso.

Ati

Lieti vivete; i voti miei son questi;
Così bel nodo io strinsi; i vostri amori
Io secondai, … Ah de’ tuoi dì felici
Questo il più glorioso
Sarà del viver mio l’estremo giorno.

Sangaride

Numi!
{p. 251}

Ati

Il funesto arcano
A te sola confido; ho finto assai.
A chi di vita ormai
Non riman che un momento,
Il simular che’ giova il suo tormento?

Sangaride

Io fremo; il mio timor deh rassicura,
Ati, per qual sventura
Morir tu dei?

Ati

Tu stessa
Condannarmi dovrai,
Morir mi lascerai.

Sangaride

Io! per salvarti
Tutto armerò tutto il poter supremo…

Ati

Vano soccorso! a superar me stesso
Mi manca ogni valore:
Per te senza speranza ardo d’amore.
{p. 252}

Sangaride

Che? Tu!

Ati

Pur troppo è ver!

Sangaride

M’ami?

Ati

Ti adoro;
Tel dissi già; condannerai tu stessa
Il mio foco il mio ardire,
Mi lascerai morir. Castigo io merto;
Un rival generoso,
Un mio benefattor pur troppo offendo.
Ah ma l’offendo invan, d’amore è degno,
E tu a’ meriti suoi giustizia rendi.
Oimè! questo è dolore!
Confessar che un rival degno è d’amore!
Senza ritegno il mio morir decreta.

Sangaride

Oh Dio!

Ati

Sospiri?… piangi?…
La mia fiamma funesta
{p. 253}
Forse qualche pietà nel senti desta?

Sangaride

Ati, la sorte tua di pianto è degna,
E pur tutta non sai la tua sventura.

Ati

Ah se ti perdo, ah se a morir son presso,
Che mi resta a temer?

Sangaride

Perdere è poco
L’oggetto del tuo foco:
Ciò che pianger tu dei
È che mi perdi, e l’idol mio tu sei.

Ati

Io? Ciel che ascolto? M’ami tu, mio bene?

Sangaride

T’amo, e lo stato tuo peggior divienea.

{p. 254}Delicato nell’atto IV è il lamento di Sangaride. Ella volle nel precedente atto manifestare a Cibele l’amore che ha per Ati, e questi l’interruppe perchè non si esponesse al furor della dea svelando l’arcano. Ciò ella attribuisce all’infedeltà di Ati, e dice,

Helas! j’aime un perfide
Qui trahi mon amour;
La Deesse aime Atys; il change en moins d’un jour;
Atys comblè d’honneur n’aime plus Sangaride!

Ati poi dal poter della dea renduto furioso rassomiglia l’Agave degli antichi tragici, e trafigge Sangaride più non conoscendola. La dea crudele gli rende la ragione nell’atto V, ed egli conosce l’eccesso ove ella l’ha spinto,

Quoi! Sangaride est morte! Atys est son bourreau ecc.

e si uccide alla presenza di lei, che pentita si duole di non poter morire, ed Ati allora dice spirando,

Je suis assez vengè, vous m’aimez, et je meurs.

{p. 255}Queste patetiche espressioni tengono svegliato lo spettatore in questa favola, e ne formano la vera bellezza; là dove il lavoro mitologico ne forma una specie di distrazione. Gli Zeffiri in gloria, i sogni piacevoli e i funesti che danzano intorno ad Ati addormentato, le divinità de’ fiumi e delle fontane che ballano e cantano, i voli, le trasformazioni di Ati in pino, erano cose buone, quando non si conosceva il melodramma Metastasiano; esse potevano occupare tutti gli occhi, ma non tutti i cuori.

Iside è la favola della figlia d’Inaco perseguitata da Giunone fatta tormentare dall’Erinni d’ogni maniera. Giove intercede per Io, e giura al fine di più non amarla purchè l’infelice cessi di patire. Giunone caccia allora la furia nell’inferno, ed Io sotto il nome d’Iside diventa immortale. Si osserva in tal favola il solito uniforme ammasso di personaggi allegorici, e la trasformazione di Siringa in canna, di Jerace in uccello di rapina, di Argo in {p. 256}pavone. Pur vi si trova una bella scena di Jerace ed Io. L’amante si lamenta della di lei freddezza che gli sembra incostanza, la ninfa si discolpa dicendo di temere un presagio funesto, e Jerace ripiglia:

Repondez-moi de vous, je vous repons des dieux:

Vous juriez autrefois que cette onde rebelle

Se ferois vers sa source une route nouvelle

Plutôt qu’on ne verroit votre coeur degagè,

Voyez couler ces flots dans cette vaste plaine,

C’est le même penchant qui toujours les entraine;

Leurs cours ne change point, et vous avez changè,

Questa osservazione dell’amante è tenera e vera e da preferirsi al pensiero ricercato di Ovidio, Xante retro propera ec. Il monologo e i lamenti di Jerace sono stati meritamente comendati dal Marmontel. {p. 257}Quest’enciclopedista nell’articolo Opera raccolse i migliori passi del Quinault per dare idea della bellezza del di lui stile e della versificazione in diverse passioni. Ed oltre alla citata scena dell’Iside, mentovò ancora quella dell’atto V dell’Ati Quoi Sangaride est morte ec; il discorso di Plutone nella Proserpina rappresentata nel 1680,

Les efforts d’un gèant qu’on croyoit accablè,

e la disperazione di Cerere, J’ai fait le bien de tous. Nel discorso di Medusa nel Perseo cantata nel 1682 diede l’esempio ancora d’un maschio stile,

Je porte l’èpouvante et la mort en tous lieux.

Nel Fetonte rappresentato nel 1683, nell’Amadigi il cui soggetto fu dato al poeta dallo stesso sovrano nel 1684, e nel Tempio della Pace balletto, e nell’Orlando tragedia, le quali favole si cantarono nel 1685, si ripetono le decorazioni delle altre sue composizioni che vengono interrotte da alcune scene che tirano l’attenzione.

{p. 258}Ma il capo d’opera del teatro lirico francese si rappresentò nel 1686. L’Armida tratta dal gran poema epico di Torquato più felicemente che non fu l’Orlando dal gran poeta Ariosto, fu il melodramma più fortunato del Quinault, in cui egli trionfò come poeta, Lulli come gran maestro di musica, e Rochois come attrice. L’azione si rappresenta ora in Damasco, ora in una campagna con un fiume che forma un’ isola, ora in un deserto, oltre l’oceano, o nel palazzo incantato di Armida. Con Idraotte, Rinaldo, Armida, ed altri personaggi reali intervengono gli allegorici l’Odio, la Vendetta, la Rabbia, le Furie, i Demoni, i Piaceri.

Nell’atto I si vede la disposizione dell’animo di Armida contro Rinaldo: l’applauso che ella riscuote per tanti cavalieri cristiani da lei imprigionati: la vendetta che medita contro Rinaldo che gli ha liberati. Nel II Idraotte ed Armida dispongono le loro insidie contro il guerriero nemico. Rinaldo arriva appunto nella campagna ove son {p. 259}tese, ed incantato della delizia del luogo si discinge parte dell’arnese. Vaghi armoniosi sono i versi che pronuncia:

Plus j’observe ces lieux, et plus je les admire.

Ce fleuve coule lentement,

Et s’eloigne à regret d’un sejour si charmant…

Un son harmonieux se mêle au bruit des eaux;

Les oiseaux enchantez se taisent pour l’entendre.

Tutto ciò è detto con leggiadria, ma con poca verità; per un poeta lirico è bello: per un personaggio drammatico è falso. È vero che diletta un fiume che placido e lento irriga i campi; è vero che incanta il mormorio armonioso delle acque: ma non è vero che il fiume con rincrescimento si allontana da quel soggiorno, anzi non è vero che se ne allontana; nè anche è vero che gli augelli tacciono per udire il gorgoglio delle acque. Il drammatico sagace dee sempre ciò mitigare almeno con un sembra. Rinaldo si {p. 260}addormenta, e Armida gli si avventa con un dardo ma non ferisce. La sua esitazione è bene espressa; la sua avversione si dissipa; desidera di renderlo suo amante; ordina a’ demoni che la trasportino insieme con Rinaldo au bout de l’univers. Tutto ciò chiama l’attenzione. Ma l’atto III è quasi tutto fantastico e miracoloso; e gli osservatori di buona fede confesseranno, che il dialogo dell’Odio con Armida è per lo spettatore ciò che è un sogno per chi è sveglio. Se l’apparenza sarà eseguita con qualche grazia, tratterrà l’uditorio senza noja, ma senza persuadere nè commuovere; se l’esecuzione sarà debole, si corre rischio di coprir l’azione di ridicolo. La favola già per ciò intepidita nell’atto III con gli esseri allegorici, in tutto l’atto IV diviene vie più fredda e nojosa per le apparizioni delle donne care ad Ubaldo, ed al Danese; ed i medesimi Francesi non disconvengono. Nel V si veggono benchè in iscorcio i vaneggiamenti de’ due amanti, la sorpresa di {p. 261}Rinaldo al raffigurare nello scudo incantato la propria mollezza, la deliberazione che egli fa di partire, l’arrivo e gli sforzi di Armida per trattenerlo, il di lei svenimento, la partenza de’ guerrieri, i pianti e la disperazione della maga. Tutto ciò nulla ha di mitologico, ed è quello appunto che commuove ed interessa, e che il Marmontel e chi l’ha seguito in encomiar Quinault, non hanno saputo osservare. Si aggiunga a questo, che l’Armida meno caricata di macchine ed apparenze è pure riuscita pienamente ad onta del freddissimo atto IV. Sono dunque le macchine spettacolo di un momento che non basta ad appagare l’uditorio. È l’interesse dell’azione, è la verità degli affetti, è la felice combinazione delle situazioni, ciò che costituisce la vera bellezza del melodramma.

Dopo l’Armida rinunziò Quinault al teatro, e Lulli ricorse a Campistron, che compose per lui Aci e Galatea rappresentata pochi mesi dopo, e piacque al sommo. L’istesso poeta {p. 262}scrisse poi Achille e Polissena; ma Lulli infermossi dopo aver fatta la musica dell’atto I, e l’apertura, ed il rimanente si pose in musica da Colasse. Lulli morì di tal malattia nel 1687 contando 54 anni di età. Quinault gli sopravvisse un solo anno, e cessò di vivere di anni 53 nel 1688.

Vivendo questi due genii insigni nel tempo stesso, parve l’uno nato alla gloria dell’altro. L’eleganza, le grazie dello stile, la facilità dell’espressione, l’armonia della versificazione del Quinault, davano ampio campo agli slanci mirabili dell’ingegno e del gusto del musico: la sagacità, la proprietà, la delicatezza, la forza delle note del Lulli, l’arte ch’egli possedeva di concertar le parti di una grande orchestra, svegliavano l’estro, le immagini, l’eloquenza del poeta. Da una banda la storia ci dimostra che Lulli riconosceva la superiorità del Quinault nel verseggiare e nello scerre e disporre i suoi piani. E ciò egli manifestò nel consigliar Tommaso Corneille a {p. 263}regolarsi col Quinault nel tessere il suo Bellerofonte; ed anche nell’inviargli i proprii versi de’ divertissemens perchè a quella misura ed a quel numero altri ne facesse migliori per la sua musica. Dall’altra banda la stessa storia ci addita che Quinault prima di collegarsi con Lulli avea cento volte corso l’aringo teatrale senza potere schermirsi da’ morsi di Boileau. Lulli all’opposto tutto dovendo a se stesso, tutti a suo favore raccolse i voti de’ Francesi, i quali confessano di doverglisi tutta la delicatezza della musica e la meravigliosa proprietà del canto. Lulli operava colle sue note i medesimi prodigi ancor quando non componeva sulle parole di Quinault; e ciò ben si vide nel mettere in musica tanto il Bellerofonte del minor Cornelio nel 1669, quanto l’Aci e Galatea del Campistron applaudita sommamente nel 1687 dopo la stessa Armida. Lulli anche prima di ottenere il privilegio del Perrin aveva mostrata la rarità de’ suoi talenti ne’ balletti da lui stesso {p. 264}composti ed in quelli verseggiati dal Moliere. Lulli finalmente serviva di scorta alla poesia del Quinault, avendogli mostrato in qual guisa debba il poeta recidere il superfluo e render semplici e facili i proprii soggetti per accomodargli alla scena musicale. Ecco in fatti ciò che narrasi del modo che tenevano Lulli e Quinault nel formare un’ operaa. Scelto che aveva il Sovrano uno de’ proposti argomenti, il poeta dava a Lulli la copia del piano eletto, perchè in esso andasse disponendo i balli, le canzonette e i divertimenti. Componeva in seguito il Quinault le scene, e le mostrava o all’Accademia o a i suoi amici Boyer e Perraultb. Dalle mani de’ letterati passavano a quelle del musico, il quale non le ammetteva se non dopo l’esame ch’egli ne faceva parola per {p. 265}parolaa, e talora ne risecava la mettà, nè contro del suo decreto si concedeva appellazione. Il poeta tornava a scrivere la scena criticata cercando di soddisfare al maestro. Lulli allora metteva tale attenzione alle parole che leggendo più volte la scena recatagli la mandava a memoria, la cantava a l’cembalo e vi metteva un basso continuo. Egli ne riteneva la cantilena senza errarne una nota, e venendo poscia l’Alouette o Colasse gli dettava ciò che avea composto, nè il giorno dopo se ne ricordava. Egli copriva le sue cantilene di stromenti quando non aveva ricevuta scena veruna dal poeta. Così concorrevano entrambi questi rari ingegni a stabilire l’opera in Francia. Ma ci si permetta di aggiugnere che Quinault fu rimpiazzato da alcuni scrittori, i quali composero dopo di lui opere francesi di felice riuscita; ma Lulli (ugualmente che Moliere) non ebbe un {p. 266}degno successore nel teatro lirico che ne compensasse la mancanza. Narrasi di questo eccellente musico che aspirò alla piazza di segretario del re e l’ottenne in questa guisa. Ripetendosi a San-Germano nel 1681 le Bourgeois-Gentilhomme, di cui Lulli avea composta la musica, rappresentò egli stesso a meraviglia il personaggio del Muftì, di che il re lo lodò grandemente. Lulli presa quell’occasione ripigliò: "Ma Sire, io aveva disegno di essere nel numero de’ vostri segretarii, ed ora essi non mi vorranno ammettere fra loro". Non vi vorranno ammettere (disse il re)? Essi se ne terranno onorati: andate dal cancelliere". Egli subito divenne segretario del re. La vostra (gli disse m. de Louvois) è stata una temerità; voi alfine altro merito non avete che di aver fatto ridere il re. He têtebleu! (ripigliò gajamente e con coraggio Lulli)vous en feriez autant, si vous le pouviez.

Fine del Tomo VII.

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