Pietro Napoli Signorelli

1813

Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VIII

2019
Pietro Napoli Signorelli, Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi, tomo VIII, [3e éd.], Napoli, presso Vincenzo Orsino, 1813, 295 p. PDF : Google.
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{p. 2}

[Epigrafe] §

                     Ardito spira
Chi può senza rossore
Rammentar come visse allor che muore,
Metastasio nel Temistocle.
{p. 3}

STORIA CRITICA DE’ TEATRI ANTICHI E MODERNI.
TOMO VIII.

LIBRO VIII.

Teatri d’oltramonti nel secolo XVIII. §

CAPO I.

Teatro Francese Tragico. §

Decadendo l’arte di Sofocle in Italia, e perdendosene le tracce nelle Spagne per l’intemperanza della scuola Lopense, mentre Cornelio e Racine l’innalzavano in Francia assai dappresso al punto della perfezione, una folla di {p. 4}loro imitatori nel seguirli sempre senza raggiungergli ne ripetevano i difetti più che le bellezze negli ultimi lustri del secolo XVII, e ne’ primi del XVIII. Racine singolarmente che avea scoperto il miglior camino, e prodotto l’Atalia, il capo d’opera della tragedia francese, senza avvilirla colla galanteria, avea cominciata una Ifigenia in Tauride, nel cui piano non entravano amori. Ma egli lasciò le occupazioni teatrali prima di depurar del tutto la tragedia, e la scena francese, dopo di lui si riempì della morale dell’opera di Quinaulta. Alcibiade (aggiunge il citato autore), Amestri, un Agnonide, il feroce Arminio, Amasi, un principe persiano nell’Atenaide, prendono il tuono effemminato de’ romanzi di madamigella Scudery, che dipingeva i borghiggiani di Parigi sotto il nome degli eroi dell’antichità. L’epoca {p. 5}de’ Virgilii, de’ Raffaelli, de’ Tassi, de’ Metastasii, de’ Pergolesi, suole esser seguita da una numerosa oscura prole della nojosa mediocrità. Ma la natura ha bisogno di riposo dopo di aver prodotto un ingegno raro.

In tal periodo non pertanto qualche buon talento mostrò d’intendere l’arte della tragedia senza appressarsi ai modelli grandi. Giovanni Campistron nato nel 1656, e morto nel 1723 scrisse diverse tragedie che non cedono per regolarità a quelle di Racine. Esse furono anche bene accolte nella rappresentazione a riserba di Virginia e di Pompea, le quali caddero; il suo Andronico ed il Tiridate restarono al teatro. Ma la lettura riposata è la pietra di paragone de’ drammi, ed essi non passano alla posterità quando mancano di vigore nello stile, di proprietà ed eleganza nella lingua, di armonia nella versificazione, e d’interesse nell’azione; ora in quelli del Campistron si desidera forza, energia, calore ed eleganza.

{p. 6}Diedero allora qualche passo nella poesia tragica La-Fosse, Riouperoux, e la Grange Chancel. Antonio La Fosse detto d’Aubigny nato in Parigi nel 1653, e morto a’ 2 di novembre del 1708, corse la tragica carriera, poichè Campistron avea rinunciato al teatro. La Fosse ne ravvivò il languore, e pieno com’era della lettura degli antichi Greci e Latini, nel 1696 se rappresentare ed imprimere la prima sua tragedia Polissena applaudita e ripetuta, e non per tanto censurata benchè con poco fondamento. Egli contava allora quarantatre anni della sua età. Nel Teseo manifestò ugual sublimità di pensieri, vivacità ne’ caratteri, giudizio nello scioglimento, nobiltà e purezza nello stile, armonia nella versificazione, benchè gli costasse fatiga. Nel Manlio Capitolino formato sulla Venezia salvata di Otwai col trasportare fra gli antichi Romani il fatto recente della congiura del Bedmar contro Venezia, diede un saggio più vigoroso e più deciso de’ tragici suoi {p. 7}talenti, e svegliò nel pubblico, e ne’ posteri viva brama che egli avesse potuto o calzar più per tempo il coturno, o prolongar più la vita.

Riouperoux compose Ipermestra tragedia regolare senza trarre tutto il vantaggio che presenta tale argomento.

La Grange Chancel nato nel 1678, e morto nel 1758 scrisse varie tragedie in istile debole e trascurato, e con viluppo romanzesco. Nel suo Amasi regna una molle galanteria sconvenevole all’argomento della Merope da lui appropriato a’ personaggi della storia dell’Egitto. Si recitò nel 1701. Il Voltaire riconosce nell’Amasi più arte ed interesse, che nella Merope di Jean la Chapelle recitata nel 1683, e non meno deturpato da un amore non tragico. La Chapelle compose anche una Cleopatra non migliore della sua Merope.

A simile mollezza universale seminata nelle tragedie francesi volendo rimediare il Longepierre compose una Elettra tutta sul gusto della greca {p. 8}tragedia, semplice, senza episodii, senza sfigurarne il tragico soggetto con un freddo intrigo amoroso. Ciò però finì di corrompere il tragico teatro francese. Longepierre non lavorava con diligenza i suoi versi, non si elevava con lo stile, non conosceva bene il teatro francese, e la sua tragedia annojò e cadde. I Francesi si confermarono nella credenza di esser passata la moda della greca semplicità, attribuendo al gusto di essa l’effetto della particolar debolezza del Longepierre.

Tale era lo stato della tragedia in Francia, quando cominciarono a fiorire La-Motte, Crebillon, e Voltaire, ne’ quali ravvisiamo caratteristiche diverse, merito disuguale, e difetti contrarii.

Antonio Hudard La-Motte nato nel 1672, e morto nel 1731 era veramente uomo d’ingegno, erudito, e non indegno di ricordarsi con lode; sebbene, al dir del Palissot, egli volle contraffare Omero, Anacreonte, Virgilio, La-Fontaine e Quinault, come la {p. 9}scimia contraffà l’uomo, e sostitui al naturale e al dilicato e al grazioso l’arte ed il bello-spirito, ed il parlar gergone. Nelle quattro sue tragedie i Macabei, Romolo, Edipo, Inès de Castro poco felicemente verseggiate e difettose nella linguaa, gl’imparziali riconoscono merito ed interesse.

Osservasi ne’ Macabei locuzione corrispondente al soggetto, sublime talora, ricca di nobili sentimenti, e lontana dalla generale affettazione di stile da’ Francesi adottata nelle tragedie. Le passioni son dipinte con vivacità; ma l’azione sembra difettosa. In fatti l’eccidio de’ Macabei che avviene nell’atto I, eccita tanta commozione che fa comparir languido il rimanente. Salmonea modello certamente di virtù eroica, è personaggio ozioso sino all’atto V. La {p. 10}condotta della favola merita riprensione per certi racconti intempestivi, per qualche soliloquio puramente narrativo, e per la poca corrispondenza del tempo della rappresentazione con quello degli evenimenti.

Lo stile nel Romolo si risente più che nella precedente del difetto generale delle tragedie francesi, cioè vi si scorge maggior copia delle stesse espressioni poetiche solite ad usarsi da’ Francesi, e più lontane dalla natura. Non può riprendersi che Romolo venga dipinto come innammorato a differenza de’ suoi soldati che altro non cercano se non che una donna; ma al Conte di Calepio sembra incredibile il di lui amore, perchè nato tra’ continui disprezzi di Ersilia. Più fondatamente potrebbe riprendersene la maniera di amare. Tante lagrime, tanta sofferenza, tante angosce sembrano convenire più ad un innamorato francese del tempo che si scriveva l’Artamene, che ad un Romolo eroe guerriero fervido feroce. Non è poi verisimile che Tazio vegga di {p. 11}lontano scintillare i pugnali nel volersi trucidar Romolo, troppo spazio dovendo correre trallo sfoderarsi i ferri e trafiggerlo. Ersilia che nell’atto III dice da parte di avere scritto il biglietto, manifesta mancanza d’arte nel poeta, ed oltre a ciò con poca verisimiglianza e ragione i versi ch’ella profferisce si sentono benissimo dagli spettatori, e non da Romolo.

Nel 1726 La Motte volle produrre un Edipoa, per avventura non contento di quelle tragedie che su di questo personaggio scrissero Corneille e Voltaire. In effetto La Motte purga tale argomento tanto dell’episodio degli amori di Teseo e Dirce, alieni dall’avventura di Edipo, introdotto con mal consiglio dal padre del teatro francese, quanto di quello non meno {p. 12}eterogeneo della galanteria di Filottete che con rincrescimento si legge nell’Edipo del Voltaire. La Motte provvidamente corregge pur anco la favola greca dell’inverisimile ignoranza di Edipo intorno alle circostanze della morte di Lajo. Egli però ne tolse ogni utilità col rendere Edipo pienamente innocente nell’ammazzamento del re di Tebe. Dividendo poi la riconoscenza rende meno meravigliosa la rivoluzione, ed incorre nel difetto del Voltaire. Nè anche si riconosce come vantaggioso alla favola il miglioramento de’ caratteri di Eteocle e Polinice contro l’idea lasciatane dagli antichi. Qual pro da un cangiamento che mena il poeta a lottare colle opinioni radicate negli animi di chi ascolta, e per conseguenza a rendere poco importante, perchè non credibile, la loro generosità verso del padre? Sarebbe lecito introdurre Achille dandogli i costumi di Tersite, ovvero Ascanio o Astianatte che combattesse con Diomede o Ajace?

La più applaudita delle quattro sue {p. 13}tragedie fu senza dubbio l’Inès de Castro mai sempre bene accolta dal pubblico; nè è da dubitarsi dell’asserzione dell’autore che niuna tragedia dopo il Cid siesi rappresentata in Francia con più felice successo, avendosene un testimonio glorioso nell’approvazione che ne diede m. de Fontenelle nel 1732 quando si volle imprimere, j’en ai jugè comme le public. Non saprei dire se La Motte nel comporla avesse avuto presente qualche modello in tale argomento. So però che oltre al poema di Camoens si maneggiò in Lisbona dal Ferreira, ed in Castiglia dal Bermudez e da Mexia de la Cerda, benchè al cospetto della Inès francese spariscano tutte le altre. Lo stile della Ines generalmente è migliore di quello del Romolo; ma essa non ha nè la versificazione nè l’eleganza nè la poesia nè l’abbondanza nè la grandezza nè la delicatezza de’ sentimenti di Giovanni Racine. Esposta questa tragedia alle critiche talvolta giuste spesso maligne de’ semidotti e de’ follicularii invidiosi, {p. 14}ha non pertanto sempre trionfato su i teatri per le situazioni interessanti ben prese e ben collocate di sì patetico argomento. Oltre a ciò che sugeri all’autore la nota sventura d’Inès, egli ne ha renduta vie più lagrimevole la morte, facendo che ottenuta da Alfonso compunto la sospirata grazia ella si trovi impensatamente avvelenata. I plagiarii di professione copieranno questo colpo teatrale del veleno che impedisce il frutto dell’impetrato perdono; ma se non sanno preventivamente commuovere con situazioni e quadri vivaci, che cosa in fine essi si troveranno fralle mani? L’arida spoglia di un serpente che rinnovandosi la depone e si allontana, Riconosce il Calepio in questa favola pregi assai superiori alle imperfezioni che vi si notano; ma non lascia di osservarvi certa mancanza di unità d’interesse, che La Motte nelle sue prose ostentava. Contra il tragico artificio (dice ancora il dotto critico) le belle doti di Costanza distraggono alquanto dall’attenzione che debbesi a {p. 15}quelle d’Inès, Pure potrebbe ciò mirarsi con più equità, e dire che una donna come Costanza rende più compassionevole Inès che non ha neppure ragione di lagnarsi di lei per la virtù che possiede. Riprende altresì di sconvenevolezza ciò che dice la reina nella scena quarta dell’atto I, cioè che all’arrivo di don Pietro in corte gli occhi di lui distratti altro non vi cercavano che Inès; sembrandogli ciò poco verisimile in un marito da più anni possessore dell’oggetto amato. Ma questa censura avrà ben poco peso per chi rifletta che don Pietro è un marito per ipotesi del poeta tuttavia fervido amante, il quale gode fra mille pericoli e sospetti il possesso dell’amata, ciò che dee mantenere sempre viva la sua fiamma.

Il signor di Crebillon nato in Digione l’anno 1674 e morto in Parigi nel 1762, è il primo tragico francese che in questo secolo possa degnamente nominarsi dopo Pietro Corneille e Racine. La sua maniera si distingue da quella dell’uno e dell’altro. Crebillon {p. 16}non eleva gli animi quanto Corneille, non gl’intenerisce quanto Racine; ma gli spaventa con certo terrore tragico assai più vero e con un forte colorito tutto suo. Lontano dalla grandezza del primo non meno che dalla delicatezza ed eleganza armoniosa del secondo, egli non cade però nè nell’enfatico di quello, nè nell’elegiaco di questo. La sua immaginazione piena di forza, di calore e di energia, ma talora troppo nera, lo scorge non di rado nell’aspro e nell’inelegante ed in certe costruzioni oscure, per non dirle barbare col Voltaire. Imita spesso i Greci, e se ne appropria molte bellezze; ma le sue favole assai più complicate delle più ravviluppate delle greche, rendono talora difficile il rinvenirvi l’unità di azione; potrebbero ancora notarvisi varie allegorie, apostrofi, perifrasi poco proprie della scena e della passione. In compenso i suoi caratteri mi sembrano pennelleggiati con molta vivacità. Soprattutto è mirabile e veramente tragico quello di Radamisto nella {p. 17}tragedia che ne porta il nome: il suo Pirro è più grande ancora del Pirro della storia. Grande feroce malvagio ambizioso e politico profondo si manifesta maestrevolmente il suo Catilina, benchè non a torto da Federigo II re di Prussia in una lettera scritta al Voltaire nel febbrajo del 1749 venga tutta la tragedia ripresa per trovarvisi sfigurata la Repubblica Romana ed il carattere di Catone e di Cicerone. Atreo, Tieste, Farasmane, Palamede sono dipinti con molto vigore.

Ciò che nell’Elettra riguarda la vendetta di Agamennone è trattato gravemente e con gran forza; ma quanto impertinenti son poi in tale argomento l’amor di Oreste, e quello di Elettra! Contrario è l’amor di Elettra all’idea del di lei carattere tramandatoci dagli antichi; intempestivo e senza connessione è quello di Oreste per la figliuola di Egisto.

Non per tanto l’Elettra e la Semiramide si reputarono dal medesimo re di Prussia tragedie de toute beautè al {p. 18}pari del Radamisto. A noi, oltre a ciò che dell’Elettra abbiamo detto, non sembra la Semiramide una delle migliori tragedie del Crebillon. Belo in essa è un traditore senza discolpa enunciato come virtuoso. Egli non sapendo se Ninia viva, macchina la rovina della propria sorella, cui, mancando il di lei figliuolo, apparterrebbe il trono. Questa Semiramide poi mal rappresenta la maschile attività e il valore attribuito dalla storia alla famosa conquistatrice reina degli Assiri. A vista della manifesta ribellione de’ suoi ella dimostrasi così inetta che non sa prendere verun partito per la propria salvezza.

Nel Serse si desidera ancora più decoro e più uguaglianza ne’ caratteri. Serse par che avvilisca il padre ed il monarca nell’adoperarsi in pro di un figliuolo favorito per sedurre la principessa innamorata dell’altro da lui non amato. Artaserse nella stessa favola è un carattere incerto, e più d’uno lo reputerà stolto o maligno nel giudicar suo fratello. Stolto o maligno {p. 19}parimente (contro l’intenzione dell’autore) sembra lo stesso Consiglio di Persia che condanna Dario alla morte senza punto sospettar di Artabano, il quale per mille indizii, risulta reo dell’ammazzamento di Serse al pari di Dario. Queste osservazioni non debbono gran fatto diminuire la meritata riputazione di ottimo tragico acquistata dal robusto Crebillon, che pure, come accenna il Voltaire, si vide tal volta in procinto di morir di famea. Possono però additarci la difficoltà di giugnere alla perfezione nella tragica poesia. L’ultima sua tragedia fu il Triumvirato che ha varii pregi, ma che si rende singolarmente degna di ammirazione per essere stata scritta trovandosi l’autore in età di anni ottantuno.

L’altro insigne tragico di cui può vantarsi la Francia nel nostro secolo, è il celebre Francesco Maria Arouet {p. 20}di Voltaire, la cui gloria niuno de’ suoi contemporanei sinora ha pareggiata, non che adombrata. Debbe a lui il coturno non solo varie favole degne di mentovarsi al pari del Cinna, dell’Atalia e del Radamisto, ma una poetica piena di gusto e di giudizio, talora superiore a molte sue favole stesse, sparsa nelle sue opere moltiplici e nell’edizione che fece del teatro del Corneille.

La prima direzione letteraria avuta da’ gesuiti Tournemine, Le Jay e Porèe, l’amistà dell’altro dottissimo gesuita Pietro Brumoy, gl’inspirarono l’amore della bella letteratura greca e romana; le opere del Crebillon e gli applausi che ne riscoteva, gli diedero i primi impulsi ad entrar nella tragica carrieraa.Non ancora avea letto l’Edipo di {p. 21}P. Cornelioa, contando appena ne 1718 anni 19 della sua etàb, quando scrisse e pubblicò il suo Edipo. Il pubblico l’accolse con applauso, e si recitò 45 volte di seguito, rappresentando il personaggio di Edipo il giovane Du Frene che poi divenne assai celebre attore, e quello di Giocasta la valorosa attrice Desmarès. Non ci curiamo di ripetere nojosamente o quanto l’autore scrisse in più lettere nel 1719 criticando l’Edipo di Sofocle, quello del Cornelio ed il proprio, o ciò che in una edizione del suo Edipo del 1729 scrisse contro La Motte. Ci basti dire che Voltaire conservò molte bellezze della greca tragedia, che non seppe scansarne alcune durezze nella condotta della favola, e che l’amoroso {p. 22}episodio di Teseo e Dirce da lui stesso riconosciuto per inutile e freddo nell’Edipo del Cornelio, non bastò a fargli evitare l’antica galanteria di Filottete colla vecchia Giocasta.

La Marianna pubblicata nel 1723 ebbe alla prima un successo poco felice. Il famoso Michele Baron già vecchio che sostenne il carattere di Erode, Adriana Le Couvreur insigne attrice che rappresentò quello di Marianna, le due persone che compresero tutta l’energia di una vivace rappresentazione naturale, e che insegnarono la prima volta in Francia l’arte di declamare senza la solita istrionica affettazione, non bastarono a farne soffrire sino alla fine la rappresentazione. L’uditorio ravvisò non so che di ridicolo nel veleno presentato a Marianna in una coppa. Nel seguente anno l’autore cangiò questo genere di morte in quello onde Ludovico Dolce in Italia fece morire questa reina, e la tragedia si rappresentò quaranta volte. Giambatista Rousseau fece allora anch’egli {p. 23}una Marianna, che fu l’origine della lunga contesa che ebbe con lui il Voltaire. La Marianna Volteriana non è senza difetti. Qualche durezza nella condotta dell’azione mostra nell’autore un’ arte ancora non perfezionata. La dichiarazione di amore fatta da Varo nella scena quarta dell’atto II con tanta poca grazia e fuor di tempo, cioè mentre la reina è in procinto di tutta abbandonarsi alla di lui fede, fa torto al carattere enunciato dell’uno e dell’altra. Innamora non per tanto ed interessa il magnanimo carattere di Marianna. La quarta scena dell’atto IV tra Erode e Marianna mostra egregiamente il bel contrasto degli affetti di uno sposo pieno di sospetti e di crudeltà, ma sensibilissimo ed innamorato, e di una consorte virtuosa che non si smentisce mai. La nobile patetica preghiera che gli fa Marianna, prenez soin de mes fils ec, è maestrevolmente espressa. Viva e teatrale è parimente la scena seconda dell’atto V, in cui ella posta nel maggior {p. 24}rischio della sua vita sdegna di seguir Varo che vuol salvarla.

Giunio Bruto rappresentata la prima volta in Parigi nel 1730 fu composta in Londra, e dedicata a milord Bolingbrooke. Gl’Inglesi e gl’Italiani la tradussero e rappresentarono; ma in Francia non ebbe sulle scene successo felice. L’azione vorrebbe esser meglio accreditata in qualche circostanza, e si desidera spazio più verisimile agli eventi. Nella scena terza dell’atto V Bruto manda i Padri Coscritti e Valerio in Senato; ma nel corto intervallo, in cui si recitano 14 versi, il Senato si è radunato, ha giudicati i ribelli, sono essi andati al supplicio, Tullia si è uccisa, Bruto è stato dichiarato giudice del figliuolo. L’incontro che ne segue sommamente tragico del colpevole Tito con Bruto, compie ogni aspettativa, vedendosi nella quinta scena dipinta egregiamente l’umiliazione di Tito, e la severità di Bruto combattuta dalla paterna tenerezza. Tito confessa l’istante che l’ha perduto seguito da’ rimorsi {p. 25}vendicatori, e cerca la morte, ma prostrato a’ suoi piedi gli domanda un amplesso. Ditemi, aggiugne, ditemi almeno: mio figlio, Bruto non ti odìa; basterà questa parola a rendermi la gloria e la virtù; si dirà che Tito morendo ebbe un vostro sguardo per mezzo de’ suoi rimorsi, che voi l’amate ancora, che alla tomba egli portò la vostra stima. Questa preghiera lacera il cuore di Bruto: oh Roma, egli esclama, oh patria! indi lo condanna e l’abbraccia. Ne traduco per saggio gli ultimi versi:

Procolo, che a morir menisi il figlio.
Sorgi, misero oggetto
Di tenerezza e orror, caro sostegno
Sperato invan di questa età cadente,
Sorgi, abbraccia tuo padre : ei ti condanna,
Ma se Bruto non era, ei ti salvava.
Oimè! del pianto che in sì larga vena,
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Sgorga dagli occhi miei, ti bagno il volto.
Va, non t’indebolir: porta al supplizio
Tu quel maschio valor che in me non trovo.
Più Romano di me mostrati a Roma.
Roma di te si vendichi, e ti ammiri.

Le poetiche di tutti i possibili Marmontel, i discorsi, le lettere, le infelici cartucce critiche meditate da’ pedanti nella loro povertà, non vagliono unite in un fascio quattro soli versi di questa scena.

Giva cosi il Voltaire avvicinandosi al Cornelio, al Racine, al Crebillon, mostrando però ne’ tratti del suo pennello una maniera a se particolare. Non gli manca alle occorrenze nè il sublime del creatore del teatro francese, nè la seducente tenerezza del dì lui elegante competitore, nè il maschio vigore tragico dell’autor dell’Atreo e del Radamisto. Ma egli si fa {p. 27}distinguere per l’umanità, pel patetico, per la libertà che regna nelle sue tragedie. Quel tetro e forte che hanno saputo dare alle tragiche passioni il Crebillon e il Voltaire, disse il chiarissimo Giovanni Andres. Io discordo da questo erudito spagnuolo. Il tetro e il forte non è il carattere dell’autore dell’Alzira, della Merope e della Zaira. Crebillon battè un sentiero ben differente da quello del Voltaire, il quale meglio si diffini da se stesso. C’est l’auteur (di se diceva nel discorso premesso all’Alzira)de quelques pièces qui nous ont fait verser des larmes, et de quelques ouvrages, dans les quels, malgrè leur defauts, vous aimez cet esprit d’humanitè, de justice, de libertè qui y regne. Ma che mancherebbe all’opera eccellente sopra ogni letteratura, se i fatti ed i giudizii ne fossero sempre sicuri? Tornando al Voltaire si osserva ancora che egli colla dipintura de’ costumi e de’ riti religiosi delle straniere nazioni ha saputo animare e render {p. 28}nuovi i soliti contrasti delle passioni, e questa novità l’ha preservato quasi sempre (sia ciò detto con pace de’ pedanti che asseriscono il contrario) dalla taccia imputata a’ suoi compatriotti di travestire tutti i personaggi alla francese. In fatti i Tartari e i Cinesi dell’Orfano della Cina, gli Arabi Musulmani e gl’idolatri del Fanatismo, i Romani del Bruto e del Giulio Cesare, i Greci dell’Oreste, si distinguono assai bene fra loro e da’ Parigini. Finalmente i suoi difetti medesimi sono diversi da quelli de’ lodati tragici. Non va nell’ampolloso del Corneille, non nell’elegiaco del Racine, non nell’aspro ed inelegante del Crebillon; ma cade nel brillante e nell’epico fuor di proposito.

La Morte di Cesare in tre atti divisa spogliata di ogni intrigo amoroso e piena di arditezze e di trasporti per la libertà, fu composta dopo il 1730 e prima del 1735 quando s’impresse. Shakespear ed il duca di Buckingam in Londra, l’abate Antonio Conti in {p. 29}Venezia, aveano maneggiato il medesimo argomento senza rassomigliarsi, ma ugualmente senza snervarlo con amori come era avvenuto in Francia nel principio del secolo. Voltaire colà lo ricondusse alla natural dignità in parte seguendo ed in parte correggendo il tragico inglese, ma facendo Bruto ancor più feroce. Inimitabili sono le due scene di Bruto con Cesare, cioè la quinta dell’atto II, in cui Cesare gli palesa di essere di lui padre, e la quarta del III, in cui Bruto supplica il padre a lasciar di regnare. Egli ha migliorato anche l’artificio della parlata di Antonio, facendo portare per ultimo colpo il corpo di Cesare in iscena, che il Shakespear con arte minore fa dimorare sempre alla vista del popolo Romano.

Zaira uscita alla luce nel 1732 fu scritta interamente in ventidue giorni, ed in un solo se ne concepì e dispose il piano. È la sola tragedia tenera composta dal Voltaire, in cui (egli dice) bisognò accomodarsi a’ costumi correnti {p. 30}e cominciar tardi a parlar di amore. Ma quest’amore troppo sventurato contrasta mirabilmente coll’onore e colla religione e colla patria in Zaira, e ne costituisce una persona tragica che lacera i cuori sensibili. Per l’oggetto morale che si cerca in ogni favola, sarebbe in questa la correzione delle passioni eccessive per mezzo dell’infelicità che le accompagna. Ma il Conte di Calepio critico non volgare oppone non senza apparenza di ragione, che essendo Zaira uccisa appunto quando abbracciando la religione de’ suoi maggiori è disposta a rinunziare alla felicità che attendeva dalle sue nozze, sembra che la di lei morte non possa concepirsi come castìgo della sua passione. Intanto questo quadro felice interessa, commuove, ottiene tutto l’effetto che si prefige la tragedia. Non basterebbe adunque rispondere alla proposta censura che non sarebbe questa la prima volta che si facciano giuste opposizioni a’ componimenti giustamente applauditi? Nondimeno la lettura riposata della {p. 31}tragedia toglie alla critica tutta la forza. Zaira è disposta a professare la religione Cristiana; ma non ha soggiogata la sua passione, non ha rinunziato ad ogni speranza. Il suo amore persiste in tutto il vigore. Io mi volgo piangendo a Dio (dice Zaira) ma, o Fatima, ben tosto

                 les traits de ce que j’aime
Se montrent dans mon ame entre le ciel et moi.

Ella non cerca che Orosmane. La medesima passione si manifesta in tutta la sua forza nell’atto V. Chiamata dal fratello col biglietto, Zaira cerca ancor pretesti, e Fatima vuole irritarla contro dell’amante. Che mi ha egli fatto? ella ripiglia, e lo giustifica. Ecco intanto il suo disegno. Vado ad ubbidire, vado a trovar Nerestano:

Mais dès que de Solyme il aura pu partir,
J’apprens à mon amant le secret de ma vie.

L’amore dunque in lei non è mai vinto, si oppone con ugual forza alla religione, ed il di lei castigo può ammaestrare. {p. 32}In fatti lo stato del cuore di Zaira vien dipinto nelle parole di Nerestano e di Fatima nell’ultima scena. Ella offendeva il nostro Dio, dice il primo,

Et ce Dieu la punit d’avoir brûlè pour toi.

Ella (dice Fatima insultando Orosmane) si lusingava che Iddio forse vi avrebbe riuniti! Oimè! a questo punto ella ingannava se stessa!

Tu balançais son Dieu dans son coeur allarmè.

Tutto ciò non mostra l’eccesso dell’invincibile sua passione? E contro questo eccesso non si espone utilmente l’infelice fine di Zaira? Le altre opposizioni di negligenze, di poca verisimiglianza, d’inesattezze fatte a sì bella tragedia in Francia, meritano indulgenza per li pregi che vi si ammirano, pel magnanimo carattere di Orosmane, per quel di Zaira sensibile e virtuoso, per l’altro di Nerestano generoso e nobile, per la dolce ed umana filosofia che vi serpeggia. Io non conosco altro dramma francese che più felicemente {p. 33}ne’ tre ultimi atti vada al suo fine senza deviare e progressivamente aumentando l’interesse senza bisogno di veruno episodio e ricco delle sole tragiche situazioni che presenta l’argomento. Essa vantar può eziandio il merito di essere stata la prima a mostrare sulle scene francesi i fatti della nazione. Shakespear ha preparata la materia della Zaira colla tragedia di Othello, che l’Inglese ricavò dagli Ecatomiti del Giraldi Cintio. Un eccesso di amore forma l’azione dell’una e dell’altra; la gelosia ne costituisce il nodo, ed un equivoco appresta ad entrambe lo scioglimento. Othello s’inganna con un fazzoletto, Orosmane con una lettera; l’uno e l’altro ammazza la sposa e poi si uccide. La Zaira piacque anche in Inghilterra quando vi si rappresentò tradotta da Hille. L’attrice Viber di anni diciotto sostenne con mirabile e colà non usitata naturalezza il carattere di Zaira; quello di Orosmane fu rappresentato da un gentiluomo e non da un attore di professione. In Italia {p. 34}tradotta da Gasparo Gozzi si è recitata con applauso. Tradotta dopo il 1772, in Madrid ed in Aranjuez si recitò con universale ammirazione dalla celebre attrice Andaluzza Maria Vermejo.

Riscuoteva da circa due lustri gli applausi concordi della più colta Europa la Merope del marchese Scipione Maffei, quando Voltaire s’invogliò di tesserne una francese degna di parteciparne la gloria. Nel 1736 egli l’avea già composta, ma si trattenne alcuni anni di pubblicarla, o per non farla comparire mentre si applaudiva l’Amasi di m. La-Grange, in cui sotto nomi differenti si trattava il medesimo soggetto, o per attendere che si rallentasse il trasporto che si aveva per la Merope del Maffei. Comunque ciò sia egli si valse del migliore della tragedia italiana, ma cercò di accomodarla meglio al gusto francese togliendole l’aria di greca semplicità e naturalezza che vi serbò l’autore italiano. Senza dubbio Voltaire ha talvolta sostenuti i caratteri con più dignità: ha dati {p. 35}sentimenti più gravi a’ personaggi: le bellezze de’ passi sono grandi e frequenti in tutta la tragedia: ha preparata benissimo la venuta di Egisto, prevenendo l’uditorio a suo favore: ha giustificato come tratto di politica il pensiero di Polifonte di fortificare la sua usurpazione col matrimonio di Merope: ha variata l’invenzione nell’atto IV, e mantenuti in maggior commozione gli affetti, dipingendo Merope in angustia tale che è costretta dal timore a scoprire al tiranno ella stessa il proprio figlio. Ma la sana critica non lascia di desiderare nel bel componimento francese qualche altra perfezione. Voltaire non ha totalmente scansate nè le scene poco interessanti delle persone subalterne, nè i modi narrativi ne’ monologhi, come sono quelli di Narba e d’Ismenia nell’atto III, nè il parlar da parte usato nel calore del maggior pericolo, come fa lo stesso Narba, ed altri ancora. Nell’interessante scena quarta del medesimo atto III di Merope che crede vendicare in Egisto la morte del proprio figlio, {p. 36}sorge alcun dubbio nell’uditorio mal persuaso. Tu hai all’infelice mio figlio rapita quest’armatura, dice Merope. Questa? è mia, le dice Egisto. Merope tutta commossa meritamente ripiglia: Comment? que dis-tu? Ed Egisto coll’ingenuità che lo caratterizza, je vous jure, le dice,

Par vous, par ce cher fils, par vos divins aïeux,
Que mon pere en mes mains mis ce don prècieux.

Merope sempre più sconcertata,

Qui? ton pere? en Elide? En quel trouble il me jette!
Son nom? parle, rêpons.

Se egli avesse detto che suo padre si chiamava Narba, siccome ella sperava di sentire, avrebbe in lui riconosciuto il suo Egisto. Ma egli dice che suo padre si chiama Policlete, e la reina torna a veder ben lontane le sue speranze; e ciò sarebbe giusto. Ella però senza altro esame si abbandona alle prime furie, lo chiama mostro, perfido, lo fa trascinare presso la tomba {p. 37}di Cresfonte, e gli si avventa per ferirlo. Ciò è senza ragione. La di lui candidezza che tutto confessa, dee almeno toglierle la sicurezza che esige la vendetta; tanto più che non si tratta solo di trucidare un innocente in vece di un reo, ma il figlio stesso in vece dell’uccisore del figlio. Se l’armatura apparteneva all’ucciso, l’ucciso è mio figlio (dir dovea Merope a se stessa): se all’uccisore, io trovo in lui mio figlio. Il nome che non combina, non basta a metterla nello stato di certezza della morte del figlio, potendovi essere diversi possibili pe’ quali l’armatura può essere, come è di Egisto, e colui che si chiama di lui padre, aver preso un nome ignoto alla regina, come è in fatti. L’uditorio dunque non può godere di sì interessante situazione, nè esser commosso quanto nel teatro greco e nella Merope del Maffei per affrettar col desiderio la venuta del vecchio che impedisca l’esecrando sacrificio di un figlio per mano della stessa madre che pensa a {p. 38}vendicarlo. In tal tragedia non è solo questa madre che ragiona male, ragionando assai peggio Polifonte. Usurpatore scaltrito che col matrimonio di Merope procura di mettere un velo agli occhi de’ popoli, non si smentisce apertamente e si dimostra inetto e stupido nel voler ch’ella passi nel tempio insieme col figlio, per costringerla alle abborrite nozze, facendola temere per la di lui vita? Egli dice:

Voila mon fils, madame, où voila ma victime.

Egisto non ambiguamente ha manifestato il suo odio verso di lui. Barbaro, tiranno, l’ha chiamato nella scena seconda dell’atto IV. Va, gli ha detto, quando ha saputo di esser figlio di Merope,

Va, je me crois son fils, mes preuves sont ses larmes,
Mes sentimens, mon coeur par la gloire animè,
Mon bras qui t’eût puni, s’il n’etait desarmè.

Un carattere così eroico, franco, {p. 39}temerario agli occhi suoi, non dovea far tutto temere al sospettoso Polifonte? Stravagante e senza utilità pel tiranno mi sembra la seconda scena dell’atto V, in cui egli vien fuori unicamente per dire all’ardito eroe: vieni a piè dell’altare

Me jurer à genoux un hommage èternel.

Egisto risponde da discendente di Alcide, rendimi il ferro, e ti risponderò, e conoscerai,

Qui de nous deux, perfide, est l’èsclave où le maître.

Ma Polifonte dovea dopo ciò persistere nel matto suo disegno? dovea conchiudere, t’aspetto all’altare,

Viens recevoir la mort, où jurer d’obèir?

Egisto anderà al tempio, ma come? incatenato, o libero? Non incatenato, altrimente non avrebbe potuto, come indi avviene, avventarsi al tiranno. Ma sé libero, Polifonte non dovea temere di un giovane sì intraprendente che senza armi ancora l’ha insultato? {p. 40}Incatenato poi o libero non dovea egli temere ancora che la di lui presenza commovesse un popolo così affezionato alla famiglia di Cresfonte? Alcuna di tali riflessioni non isfuggì al più volte lodato Calepio, e mal grado della di lui parzialità per la Merope Volteriana, non potè lasciar di dire che nel miglior punto della passione rimane una fantasima, una chimera. Ciò dovettero vedere eziandio i Parigini allorchè si rappresentò, giacchè sappiamo dalla critica che ne usci subito, che l’atto V punto non piacque. Se queste riflessioni imparziali parranno ben fondate, veggano certi eleganti ma ciechi panegiristi de’ drammatici francesi qual vantaggio essi rechino alle belle arti e alla gioventù col coprir di fiori i loro difetti.

L’epoca della pubblicazione e rappresentazione del Fanatismo o Maometto è dopo il 1740, benchè in una edizione del 1743 si dice composta fin dal 1736 e mandata allora al principe reale poi re di Prussia Federigo II. {p. 41}Tanto su questa tragedia disse lo stesso autore nelle sue prose or parlando al nominato sovrano or sotto il nome di altri più volte sino al 1743; e tanto con varia critica ne favellarono i giornalisti di Francia, e con maestria l’abate Melchiorre Cesarotti ed altri eruditi esteri ed italiani; che certi sedicenti profondi pensatori (i quali non pertanto galleggiano come cortecce di sughero in ogni materia), quando non vogliano ripetere al loro solito senza citare, non saprei che cosa potranno dir su di essa, come millantano, in vantaggio dell’arte drammatica. Noi seguendo il nostro costume quello ne diremo che possa darne la più adeguata idea, non pensando servilmente con gli altrui pensieri, nè vendendogli per nostri quando ci sembrino giusti.

Il Maometto tralle tragedie è quello che fu tralle commedie il Tartuffo, cioè un capo d’opera ammirato per sentimento dagl’imparziali e screditato e proibito per cabala degl’impostori, per gelosia di mestiere e per naturale {p. 42}malignità de’ follicularii. Voltaire che in simili opere spendeva talora pochi giorni, si occupò a perfezionare il Fanatismo intorno a sei anni. Egli riuscì a farne un’ opera eccellente da tenere forse il primato tralle sue tragedie, colla copia delle idee nuove ed ardite, colla pompa dello stile, colle immagini nobili e tratte sempre dal soggetto, colle situazioni meravigliose che portano il terrore tragico al più alto punto, coll’interesse sostenuto che aumenta di scena in iscena, coll’unione in un quadro grande ottimamente combinata di caratteri robusti animati colla forza del pennello di Polidoro e colla copia spiritosa del Tintoretto. Egli è vero che nella condotta dell’azione si desidera qualche volta più verisimiglianza: che non sempre apparisce dove passino alcune scene: che l’unità del luogo non vi si osserva: che l’azione procede con certa lentezza nell’atto II: che i personaggi talora entrano in iscena non per necessità, come dovrebbero, ma per comodo del poeta. {p. 43}Ma molte scene inimitabili invitano i più schivi a leggere e ad ascoltare il Maometto. Tali sembrano con ispezialità le seguenti. La quarta dell’atto I di Zopiro ed Omar in cui si disviluppano i caratteri e si prepara egregiamente la venuta di Maometto; la quinta dell’atto II sommamente maestrevole onde riceve le ultime fine pennellate il di lui ritratto, facendo che egli abboccandosi col suo gran nemico deponga la maschera e manifesti i grandi suoi disegni, e lo chiami a parte dell’impero mostrandogli la necessità che non gli permette altro partito; quelle dell’atto IV di Zopiro con Seide e Palmira, e singolarmente la quinta della riconoscenza, la quale se non è nuova, almeno avviene in una situazione ben patetica e non usitata; e finalmente l’interessante terribile scioglimento che rende sempre più detestabile il carattere del ben dipinto impostore.

Coloro che hanno veduto nel Maometto mille difetti mentre i Parigini si affollavano ad ascoltarlo, ed in seguito {p. 44}veniva dagli altri popoli pregiato, imputarono ad errore l’introdurre un personaggio sì scellerato qual è l’Arabo profeta impostore. Essi non hanno discordato dall’abate Giovanni Andres che per suo particolare avviso vorrebbe banditi dal teatro moderno i traditori, gli empii, i furbi solenni ec. La scena che richiede somma varietà, correrebbe rischio di rimaner presto senza spettatori riducendosi a que’ pochi argomenti atti a maneggiarsi senza bisogno di frammischiarvi scellerati che contribuiscono ad esercitar l’eroismo e la virtù in mille guise e a dar fomento all’energia delle passioni ed in conseguenza a mantenervi la vivacità che ne sostiene l’interesse. L’esempio dell’antichità più venerata, e de’ Francesi ne’ loro giorni più belli, e del rimanente dell’Europa che se ne vale, risparmia alla gioventù quest’altra inutile catena dell’ingegno che produrrebbe una nuova sorgente di sterilità. E quanto all’Arabo impostore essendo accreditato dalla storia stessa che tale l’ha {p. 45}a noi tramandato, e migliorato dall’arte del pittore, non può che inspirare per lui tutto l’orrore agli occhi dello spettatore per farlo detestare, e servire all’oggetto tragico.

Parve soprattutto una pericolosa e scandalosa rappresentazione a taluni quella di simile scellerato felice e trionfante a spese della virtù disgraziata. Lo stesso autore pensò di soddisfare a questa censura, mostrando che la passione amorosa gareggia in Maometto colla sua ambizione, e che la perdita di Palmira ed i rimorsi che in lui si svegliano alla vista del di lei sangue, danno a vedere al popolo lo spettacolo di un uomo potentissimo e non pertanto infelicissimo. Noi osiamo aggiungere qualche cosa alla stessa difesa del Voltaire. Perchè si cerca che lo scelerato rimanga punito sulla scena? Certamente per ricavarsene un frutto morale da far detestare il vizio ed amar la virtù. Ma l’autore del Maometto si prefige d’inspirare tutto l’abborrimento pel fanatismo, il quale abusa della religione e {p. 46}toglie l’orrore a’ più atroci delitti in pregiudizio della virtù. Il frutto morale dunque di questa tragedia è manifesto essere di prevenire gl’incauti contro l’illusione della superstizione; e per conseguenza la di lei rappresentazione lungi dell’essere scandalosa e pericolosa, diviene istruttiva ed utile alla società, malgrado della prosperità di uno scellerato.

L’Alzira una delle migliori tragedie del Voltaire composta e rappresentata dopo del Maometto era stata dedicata alla celebre marchesa du Chatelet autrice delle Istituzioni di Fisica secondo la filosofia di Leibnitz, e della traduzione de’ Principii del Newton, la quale terminò di vivere in agosto del 1749. In sì bel contrasto de’ costumi Americani ed Europei l’autore si prefisse il più bel fine a cui siesi elevata la tragedia, cioè mostrare quanto la forza della virtù della religione Cristiana che consiste nel perdonare ed amare l’inimico, sovrasti a tutte le virtù del gentilesimo. Quest’eroismo {p. 47}Cristiano trionfa nel perdono che dà il moribondo Gusmano all’idolatra che l’ha ferito a morte. Questo disegno non può abbastanza lodarsi; ma il Conte di Calepio stima che Voltaire non ebbe questo disegno prima di comporla, giacchè ne prese il titolo da Alzira e non da Gusmano. A me però punto non sembra che il titolo di Alzira cangi la veduta segnalata dall’autore. Alzira è l’anima e la sorgente dell’azione eroica di Gusmano; Alzira ama vivamente e mette in contrasto ed attività l’amore di Zamoro e di Gusmano; Alzira senza volerlo muove Zamora a danni del suo rivale; Alzira dà il più vivace colore ed il carattere di sublimità all’eroismo Cristiano di Gusmano, perchè s’egli non l’amasse sì altamente, il concederla al rivale sarebbe un’ azione non molto straordinaria; Alzira dunque porta giustamente il titolo di questa favola, e mostra che il disegno dell’autore fu bene di rilevare al possibile l’eroismo Cristiano e renderlo trionfante agli occhi dello spettatore.

{p. 48}

Sempre ne’ piani delle favole del Voltaire si desidera che ne sieno le circostanze più verisimilmente accreditate; sempre si vorrebbe che l’autore si occultasse meglio ne’ sentimenti de’ personaggi; ma sempre in compenso vi trionfano l’umanità, l’orrore al vizio, l’amore della virtù. Alzira, Zamoro, Gusmano ed Alvaro sono personaggi che non si rassomigliano ne’ costumi, nelle debolezze e nella grandezza d’animo; ma sono ugualmente dipinti colla tragica espressione di Raffaello e col vivace colorito di Tiziano. Quella meravigliosa opposizione di sentimenti che anima le più semplici favole, spicca soprattutto negli affetti di Zamoro e di Alzira. Quel contrasto di gioja e di dolore che passa nell’animo di Alzira al ritorno di Zamoro creduto morto, rende eccellente la scena quarta dell’atto III:

Alz.

O jours! o doux momens d’horreur empoisonnès!
Cher et fatal objet de douleur et de joie.
{p. 49}
Ah Zamore, en quel tems faut il que je te voie!

Zam.

Tu gemis, et me vois!

Le cristiane espressioni piene di nobiltà e grandezza del moribondo Gusmano meriterebbero di essere quì trascritte, ma ci contenteremo di un sol frammento rapportandolo colla bellissima traduzione dell’elegantissimo p. m. Giuseppe Maria Pagnini. Ravvisa, dice Gusmano a Zamoro,

De’ Numi che adoriam la differenza;
I tuoi han comandata a te la strage
E la vendetta, il mio, poichè il tuo braccio
Vibrommi il colpo micidial, m’impone.
Ch’io ti compianga e ti perdoni.

Alv.

Ah figlio,
La tua virtude al tuo coraggio è pari!

Alz.

Qual cangiamento, eterno Dio! qual nuovo
Sorprendente linguaggio!
{p. 50}

Zam.

E che vorresti
Forzar me stesso al pentimento?

Gus.

Io voglio
Anche di più : forzar ti vò ad amarmi.
Alzira insino ad or non è vissuta
Che sventurata per le mie fierezze,
Pel maritaggio mio. La moribonda
Mia man fralle tue braccia or la ripone.
Vivete senza odiarmi.

La Semiramide rappresentata nel 1748 non ismentisce la forza e la maestà dello stile di Voltaire, e le situazioni tragiche vi si veggono animate dalla pompa della decorazione. Tutta l’azione però è fondata sull’apparizione dell’ombra del re Nino intento a vendicarsi di Semiramide per mano di Ninia suo figliuolo che ignoto a se stesso vive sotto il nome di Arsace. Questa macchina prediletta del teatro spagnuolo e dell’inglese, mi sembra {p. 51}nella tragedia francese meno artificiosaa dell’ombra di Dario ne’ Persi di Eschilo. Il poeta greco la rende interessante per la Persia e per la Grecia; per la Persia coll’insinuare per bene del pubblico sentimenti di pace al suo successore, e per la Grecia col mettere con bell’arte le lodi de’ Greci in bocca dello stesso suo nemico. Ma l’ombra di Nino non ha altro oggetto che la vendetta di un delitto occulto, utile oggetto veramente all’istruzione dello spettatore, ma inferiore a fronte dell’interesse politico della tragedia nazionale di Eschilo. Soffre poi l’ombra di Nino molte e rilevanti opposizioni. In prima un’ ombra che apparisce nel più chiaro giorno alla presenza de’ principi, de’ satrapi, de’ maghi e de’ guerrieri della nazione, riesce così poco credibile al nostro tempo, che lascia un gran voto nell’animo dello spettatore e non {p. 52}produce l’effetto tragico. In secondo luogo manca di certa nota di terribile che simili apparizioni ricevono dalla solitudine e dalle tenebre che l’accreditano presso il volgo, e contribuiscono a far nascere o ad aumentare i rimorsi de’ colpevoli di grandi delitti. Oltre a ciò essa distrugge le speranze de’ penitenti, vale a dire di quasi tutti gli uomini; perchè una vendetta atroce che si avvera dopo tanti pentimenti, scoraggia senza riscatto tutti coloro che hanno perduta l’innocenza; e nell’Olimpia dice acconciamente l’istesso Voltaire,

Helas! tous les humains ont besoin de clemence.
Dieu fit du repentir la vertu des mortels.

Osserviamo parimente che simil piano si propone una solenne atrocità. Gli dei che vogliono vendicar la morte di Nino, ne ordinano l’espiazione con un parricidio? Il Gran Sacerdote enunciato come santo, intero, virtuoso, anima Ninia a passare il seno di una madre? Si dice, è vero,

{p. 53}
Au sacrificateur on cache la victime,

Ma intanto Ninia sa che la madre è la rea. Nino l’accusa e vuol vendetta ed invita il figlio alla sua tomba; or questi dee saper qual sarà la vittima. Ma se Ninia può ignorarlo, non l’ignora il Gran Sacerdote, ed approva il parricidio come un’ azione lodevole e dal cielo desiderata, e dice dopo il fatto,

Le ciel est satisfait; la vengeance est comblèe.

Che empio Sacerdote! Qual è maggiore scelleraggine, fare avvelenare un marito, o condurre un figlio a trucidare sua madre? Si dirà che si vuole impedire un incesto; ma Semiramide non conosce Arsace per suo figlio, ed Arsace è virtuoso ed innamorato di un’ altra, or non bastava di far loro sapere l’arcano? Il poeta si è perduto nel suo piano, e dà la più atroce idea della divinità. In oltre tutte le situazioni tragiche non hanno un solido fondamento. Qual sicurezza ha Ninia del {p. 54}delitto della madre? La lettera di Nino moribondo a Fradate non dice altro se non che: io muojo avvelenato, e soggiugne ma criminelle èpouse senza addurne nè indizio nè prova. Lascio poi che manca nelle circostanze dell’azione cert’arte che l’accrediti. Meglio combinata col mausoleo si vorrebbe nella scena sesta dell’atto III la sala dell’assemblea nazionale. Soprattutto dovrebbe mostrarsi evidente la necessità che obbliga Semiramide ad entrare nel mausoleo. Non ha ella altri mezzi più certi e più efficaci per liberare il figlio e punire Assur? L’evento tragico che ne segue, per non essere ben fondato, non persuade, e non produce pienamente l’effetto che si cerca. Lo sforzo dell’ingegno consiste nel ben concatenare i pensieri co’ fatti in guisa che gli eventi sembrino fatali e facciano pensare allo spettatore, che posto egli in quella situazione si appiglierebbe all’istesso partito, e soggiacerebbe a quel medesimo infortunio. E per ultimo si {p. 55}noti che Assur dice a Ninia al comparire Semiramide spirante,

Règarde ce tombeau, contemple ton ouvrage.

Ma come ha colui saputo ciò che si è passato dentro del mausoleo? come sa egli che la reina muore per mano di Ninia?

Voltaire che avea ricavate le precedenti favole dal Dolce, dal Shakespear, dal Conti, dal Maffei, pensò all’argomento della Semiramide o per la celebre tragedia del Manfredi, o almeno per l’Astrato di Quinault, o per la Semiramide del Metastasio o del Crebillon, che egli in una epistola a mad. di Pompadur chiamò suo maestro. Quest’ultimo scrittore col Triumvirato, coll’Elettra, coll’Atreo apprestò ancora la materia alla di lui Roma salvata recitata nel 1752, all’Oreste, ed a’ Pelopidi. Trasse anche Voltaire gli Sciti dall’Arminio indi intitolato i Figli de Cheruschi. Venne da una novella spagnuola la sua Zulime, i cui due ultimi atti deludono le speranze {p. 56}che sorgono da i precedenti. L’Orfano della China rappresentata nel 1755 non è la stessa azione dell’Eroe Cinese del Metastasio; ma a quest’opera si rassomiglia per l’eroico carattere di Zamti. L’Olimpia in cui trovansi scene molto interessanti, venne dalla Cassandra del sig. La Calprenede.

Scrisse anche l’autore dell’Erriade i Guebri, Erifile il cui piano gli costò moltissimo senza interessare abbastanza sulla scena, Ericia ossia là Vestale, Artemira disapprovata dal medesimo autore, Adelaide, ed il Duca di Foix tragedie mediocri di fatti nazionali; e Tancredi intrigo condotto con poco verisimili reticenze, ed in cui una parola di più scioglierebbe gli equivoci, e torrebbe Tancredi di augustia. Poteva in questa essere una cautela, benchè inutile, il tacere che fa Amenaide il nome di Tancredi nel biglietto che la rende colpevole; ma la dichiarazione interrotta dallo svenimento, indi dal ringraziamento che Tancredi non vuole ascoltare, lascia il lettore {p. 57}poco soddisfatto. Argiro troppo poco si sforza di sapere con distinzione l’apparente delitto della figlia; ella mal si difende; i giudici non mostrano la convizione del delitto. La concione di Orbassan della prima scena pieno di nobile indignazione al vedere la Sicilia in preda all’avarizia, alla ferocia e alla rapacità degli Arabi, de’ Greci, de’ Francesi e de’ Germani, ha certo che di grande:

Grecs, Arabes, Français, Germains, tout nous dèvore;
Et nos champs malheureux par leur fèconditè,
Appellent l’avarice et la rapacitè
Des brigands du midi, du nord et de l’aurore.

Nobile e proprio de’ tempi della cavalleria è pure il bell’orgoglio di Amenaide nella scena quinta dell’atto IV: lui me croire coupable!… il devoit me connoître. Ma sopra ogni altra cosa l’ultima scena è delicatamente toccata co’ più patetici colori nella morte dell’eroe.

{p. 58}Sabatier des Castres nel libro de’ Tre secoli decide che Alzira, Maometto, Merope e Zaira non sono comparabili con Cinna, con gli Orazii, con Poliuto e con Rodoguna. Questa decisione magistrale punto non ci trattiene dall’affermare che tralle migliori del Corneille e del Racine possono senza svantaggio veruno comparire queste cinque Volteriane, Alzira, Maometto, Zaira, la Morte di Cesare, Bruto. Dopo di queste meritano il titolo di buone Merope, Marianna, Roma salvata, Oreste, l’Orfano Cinese, Edipo, Semiramide, Tancredi, Olimpia. Tutte le altre costituiscono a’ nostri sguardi una terza classe di tragedie meno perfette e vigorose, sebbene vi si veggano varii tratti eccellenti del maestrevole suo pennello. Noi non abbiamo dissimulati alcuni difetti delle migliori sue favole, affinchè la gioventù non creda di trarre da si ricca miniera mai sempre oro puro; ma tralasciamo di spaziarci sulle altre più abbondanti di difetti che di bellezze. Il {p. 59}sagace osservatore manifesta con diletto le bellezze, lasciando alla critica comunale l’enumerazione de’ difetti. Anche i fanciulli sanno notare la mano con sei dita in una figura di Raffaello; ma il tragico del suo pennello, l’espressione inimitabile, la maestosa semplicità, la correzione del disegno, la verità del colorito, la vaghezza del chiaroscuro, non si sentono da chi non conosce l’arte. «Tutti coloro (diceva l’istesso Voltaire) che si vogliono far giudici degli autori, sogliono su di essi scrivere volumi; io vorrei piuttosto due pagine sole che ce ne additassero le bellezze.»

Poche altre tragedie di questo secolo sono da riporsi tralle bene accolte in teatro, e pochissime tralle applaudite con giustizia. Voltaire sostenne l’onore di Melpomene sulla Senna, a dispetto del cicaleccio de’ famelici impudenti gazzettieri pronti a sparger menzogne e tratti maligni sulle opere acclamate di coloro che non sono nel numero de’ loro benefattori. Una folla di {p. 60}bastardi Volteriani scimieschi apportarono su quelle scene la decadenza, ed il gusto inglese ne accelerò la ruina, coprendole di mostruosità, di orrori, di ombre, di sepoleri e di claustrali disperati, che in vece di toccare il cuore spaventano e fanno inorridire.

Non mancarono negli anni seguenti alcuni che cercarono di battere alla meglio il dritto sentiero. Guymond de la Touche nato nel 1729 in Chateu-Roux nel Berrì e morto nel 1760 in Parigi, compose una Ifigenia in Tauride, nella quale immaginò a suo modo lo scioglimento. Fu molto bene accolta in teatro, e vi rimase per varie situazioni interessanti, e singolarmente per l’atto III in cui si maneggia con energia la contesa di Pilade ed Oreste, e pel IV in cui segue la riconoscenza di Oreste ed Ifigenia. Non ostante l’autor giovane non ancora avea acquistata l’arte di pulir lo stile e di tornir meglio i suoi versi; ond’è che nella lettura che se ne fece, gli si notò la durezza della versificazione e la {p. 61}scorrezione dello stile. Da prima, a quanto ne dicono i nazionali, avea egli dato un figlio al re Toante facendolo innamorato d’Ifigenia. Ma il signor Collè dotato di gusto migliore gli avvertì che tali amori raffreddavano argomento sì tragico. Sentì La Touche la giustezza della critica, ed in otto giorni soppresse quel personaggio ozioso e quell’amor freddo.

Il maestro della Poetica Francese il sig. di Marmontel morto di ottanta anni ritirato a Gallion l’anno ottavo della Repubblica Francese, si provò più volte a calzare il coturno. Nel Dionigi sua prima tragedia, secondo l’espressione di Palissot, non tutti ravvisarono in lui la mancanza di gusto, e que’ difetti che gli furono poscia rimproverati, e singolarmente la versificazione dura ed ampollosa, le massime sparse a piena mano e senza scelta, le frequenti declamazioni sostituite alla passione. Nel suo Aristomene comparvero tali difetti più manifestamente; Cleopatra si tenne per inferiore alle {p. 62}precedenti; e gli Eraclidi molto più. Così quest’enciclopedista, al contrario di ogni altro, perdeva coll’esercizio; e forse disingannato al fine abbandonò un genere a’ suoi talenti inaccessibile.

Le Miere parigino, il quale secondo il citato Palissot, è a Marmontel quel che Campistron è a Racine, ha prodotto: Idomeneo, Tereo, la Vedova del Malabar, Guglielmo Tell, Artaserse, Ipermestra e Barnevel, tragedie non meno dure e secche di quello che fu la Pucelle di Chapelain. Vedasene un saggio ne’ seguenti versi tratti dal Guglielmo Tell:

Hâte-toi, fais marcher sous diverse conduite
Vers tes divers châteaux notre intrepide èlite,
Tandis qu’avec Waërner moi j’irai sur le Lac…
Je pars, j’erre en ces rocs, où par tout se hèrisse ec.

Saurin cominciò la carriera tragica coll’Amenofi e con Bianca e Guiscardo, le quali rimasero presto di {p. 63}menticate, per essere scritte in istile duro, inesatto, prosaico. Nel suo Spartaco verseggiato nella stessa guisa si osserva alcun tratto robusto, benchè tutti i personaggi introdotti trovinsi al solo Spartaco sacrificati.

Uno de i discepoli Volteriani m. La Harpe cominciò i suoi lavori tragici col Warwick tirando la sua favola dalla storia di questo generale che collocò sul trono britannico Edoardo donde il volle poscia discacciare. Fu egli l’eroe del partito de’ Yorck opposto ai Lancastri. Edoardo ricusò di prendere in moglie una principessa di Francia per cui l’istesso Warwick avea negoziato, e preferì Elisabetta Voodwil, Warwick fu posposto a’ di lei parenti ed amici a’ quali si profusero tutti gli onori e le dignità, di che cercando egli di vendicarsi perì nella battaglia di Barnet. Questi fatti istorichi non ebbero luogo nella tragedia. La sorgente della vendetta meditata da Warwick in questa si rifonde alla competenza nata per una donna amata ugualmente dal re e dal {p. 64}generale, il quale riduce agli estremi il suo rivale, ma penetrato di dolore dal di lui pericolo pentito dimentica che Eduardo è suo rivale, e si sovviene che è suo re. Quest’eroismo si applaudì in teatro, ma si criticò dagli eruditi cui parve che un carattere dipinto per quattro atti come amante vendicativo e geloso e come guerriero furibondo che non respira che vendetta, si cangia repentinamente nel V e diventa eroico e virtuoso. L’autore ebbro del buon successo del primo suo saggio tragico volle ergersi a legislatore del teatro e dare ad intendere che la sua tragedia dovesse tenersi per modello d’arte e di gusto. Discordarono dall’autore gl’intelligenti a dispetto di una lettera ch’egli scrisse al suo maestro Voltaire, in cui amaramente satireggia i difetti allor di moda sulle scene francesi, e profonde un torrente di encomii sul suo protettore. L’arbitro della letteratura francese allora universalmente idolatrato ben conobbe quanto lontano si trovasse La Harpe da’ {p. 65}veri talenti tragici, e quanta fosse la sua arroganza prematura, e la smania magistrale che enunciava da lontano l’autore di tanti volumi precettivi di letteratura e di altre produzioni tragiche mal riuscite e di una traduzione infelice della Gerusalemme del gran Torquato. Voltaire molto finamente in una risposta di poche linee che gli scrisse, accennò con acutezza alcune indiscrete asserzioni del suo allievo pieno di boria, fingendo di approvarle; e senza avventurare qualche inutile lezione che avrebbe senza correggerlo irritato il giovane baldanzoso, lo punì crudelmente, come accennò un gazzettiere, opprimendolo con perfide lodi capaci di condurre il di lui amor proprio a renderlo ridicolo.

Gli applausi riscossi col Warwick diedero a’ fautori di La Harpe grandi speranze. Ma l’istesso Palissot che mostrò all’apparenza di esserne uno, convenne che il rimanente delle sue produzioni drammatiche non corrispose ai voti de’ suoi amici. Pharamond, {p. 66}Timoleon, Gustave, Melanie religiosa disperata, videro appena la luce e disparvero. Non furono più felici nè Coriolano, in cui di più si notano gli accidenti accumolati in un dì senza verisimiglianza, nè Filottete publicata nel 1786 imitata dalla tragedia di Sofocle, quasi volendo rivenire dalle passate stranezze sulle orme de’ Greci, i quali pur si pretende da’ belli-spiriti di essere usciti di moda.

Colardeau altro giovane morto dopo i due suoi saggi tragici Astarbe e Calisto, fu preceduto dalle sue tragedie. Savigny compose la Morte di Socrate che è piuttosto un panegirico di quell’Ateniese che una tragedia. Scrisse anche Irza superiore alle tragedie di Colardeau; ma se ne riprende la versificazione poco armonica e l’ineguaglianza e la turgidezza dello stile. Ducis diede in francese l’Hamlet, Giulietta e Romeo, ed il Re Lear trascritte dal teatro del Shakespear. Sulla tracce di Ma Harpe alcuni altri si rivolsero alla Grecia; e Rochefort {p. 67}produsse una Elettra diversa da quella del Crebillon e dall’Oreste del Voltaire, seguendo Sofocle; Du Puis tradusse il teatro tutto di questo gran tragico; e Prevost quello di Euripide. In ambidue questi scrittori si desiderano i grandi originali greci. Lascio di favellare nè punto nè poco del Nadal, Le Blanc, Pavin ed altri ad essi somiglianti obbliati dalla propria nazione.

Qualche favola tragica meno negletta pubblicarono Madamigella Du Bocage, Ma Place, la Noue, Poinsinet de Sivry, Pompignan e Piron. Du Bocage scrisse le Amazoni che si trova nelle di lei opere impresse in Parigi nel 1788, se non si vede sulle scene. Ma Place trasportò in francese varie favole inglesi e compose Jeanne d’Angleterre, e Adele de’ Ponthieu. La sola sua Venezia salvata riuscì assai nel rapprensentarsi e rimase al teatro. Il commediante Ma Noue morto nel 1761 scrisse Maometto II che rimase al teatro. Voltaire gl’indrizzò un madrigale in occasione del suo Fanatismo. {p. 68}Poinsinet nato in Parigi nel 1735 tradusse varii poeti Greci, e specialmente Aristofane senza averne conservato il calore ed il sale, di che convengono anche i giornalisti francesi. Questo scrittore erudito ha dato anche al teatro Briseida rappresentata con applauso, racchiudendo in essa il piano dell’Iliade, in cui si valse di alcuni ornamenti Omerici. Pubblicò altresì un Ajace inferiore alle precedenti. Palissot ne commenda lo studio d’imitare la nobile semplicità di Giovanni Racine.

Il marchese Le Franc de Pompignan nato in Montalbano nel 1709 si esercitò in più di un genere poetico, ed oltre alla traduzione del Prometeo di Eschilo, compose una Didone, tirando le situazioni principali dalla Didone del Metastasio. Il Voltaire nella satira le Pauvre Diable lo motteggiò, dicendo della di lui Didone,

Le quel jadis a brodè quelque phrase
Sur la Didon qui fut de Metastase.

{p. 69}Scrisse parimente una Zoraide che l’istesso Voltaire non lasciò di mettere in ridicolo. Non a torto però Palissot lodava la versificazione di questo scrittore, cui il signor di Ferney non accordò la sua protezione.

Alessio Piron nato in Digione nel 1689 e morto in Parigi nel gennajo del 1755 fralle altre specie drammatiche coltivò la tragedia, e diede al teatro il Callistene nel 1730 tragedia di semplice viluppo che punto non riuscì sulle scene, e non vi tornò a comparire. Più complicato fu il suo Gustavo Wasa composto nel 1733 che ebbe venti rappresentazioni successive e rimasto al teatro vi si ripete sempre con pari successo. Fernando Cortes si rappresentò nel 1744 senza applauso. Il credito dunque che godè Piron di uno de’ tragici francesi degno di rammemorarsi con onore, vennegli dal Gustavo censurato da alcuni critici di poco conto e difeso dal proprio autore con forza e con buon evento. Tra’ pregi che in esso si notano, è la nobiltà e la virtù {p. 70}che regna in quasi tutti i personaggi, non eccettuandosi il tiranno Cristierno col suo confidente. Ogni atto presenta un punto importante dell’azione; le situazioni sono patetiche senza languidezza e senza esagerazione; lo stile è appassionato naturale e molte volte energico; gli accidenti dall’intervallo dell’atto IV per tutto il V sembrano troppo accumolati riguardo al tempo della rappresentazione; ma a giustificarne la verisìmiglianza non mancano esempi nella storia, e molto meno dee contrastarsi al poeta la facoltà di fingerne, purchè ne faccia risultare il diletto dell’uditorio ed il trionfo della virtù, come appunto avviene nel Gustavo.

Intorno al 1777 o 1778 si produsse con applauso sulle scene francesi Zuma tragedia del sig. Le Fevre, la quale vi si è veduta ricomparire sempre con diletto, e si rappresentò di nuovo nel 1793. È una dipintura de’ constumi selvaggi e spagnuoli in contrasto. La rassomiglianza che per questa parte ha con l’Alzira, non ha nociuto al buon {p. 71}succsso di Zuma. Le situazioni patetiche che vi regnano, l’interesse che produce, la pompa dello spettacolo e dello stile (benchè questo talvolta eccede e cade nell’enfatico) ed il personaggio di Zuma rappresentato in detto anno con molta energia da Madamigella Raucourt, tutto ciò fa che questa tragedia seguiti a ripetersi.

Prima di far parola de’ tragici componimenti prodotti sulle scene della Francia nel formarsi la Repubblica Francese, convien parlare di un altro tragico nato in Parigi, cioè del signor di Belloy morto nel 1775. Benchè privo egli si dimostri di certe qualità che enunciano l’uomo di gusto e d’ingegno, come altresì di ogni conoscenza dell’eroismo e del patetico vero, di naturalezza ed eleganza di stile e di armonia di versificazione; con tutto ciò il di lui Assedio di Calais, e Gabriela di Vergy ebbero una riuscita invidiabile sul teatro, ed i loro difetti non si manifestarono tutti se non nella lettura. Lo spettatore fu indulgentissimo verso questi argomenti {p. 72}domestici, ne’ quali a tutto andare si piaggia la nazione. L’adulatore non manca mai di colpire coll’adulato di buona fede. Ma perchè egli si arroga la gloria di essere stato il primo a recar sulla scena i fatti nazionali? E perchè i suoi compatriotti glie l’accordarono? Di grazia che altro rappresentano i Cinesi da tanti secoli? Che rappresentarono i Greci se non gli evenimenti della propria storia? Che i Latini stessi nella tragedia Scipione di Ennio, nelle Ottavie di Mecenate e di Seneca? Che gl’Italiani ne’ Piccinini, negli Ezzelini, negli Ugolini? Che gl’Inglesi e gli Spagnuoli in quasi tutte le loro favole? Tra’ medesimi Francesi fu egli forse il primo a calcar questo sentiero? Voltaire non l’avea preceduto colla Zaira, col Tancredi, col Duca di Foix, con Adelaide di Guesclin? Questo prurito di primeggiare in un modo o in un altro, quanti non abbaccina? Belloy talmente si appropriò questo vanto che nella prefazione al suo Gastone e Bajardo se ne pavoneggia sino all’estrema noja.

{p. 73}Ma che diremo di quest’altra tragedia parimente di argomento nazionale scritta in istile duro stentato e carico di puerilità? Che Belloy aveva nelle prime favole esauriti i suoi tesori, e che non seppe idear quest’altra senza ripetersi? Sarebbe pure il minor male. Egli cade in essa in assurdi manifesti, non vi guarda verisimiglianza, vi accumola alla rinfusa eventi pieni d’incoerenza, tradisce la storia, oltraggia e calunnia le nazioni straniere, e disonora in certo modo la propria colle impudenti sue menzogne. Gli eroi stessi suoi paesani diventano sotto la di lui penna dispregevoli e piccioli. L’Orazio Coclite della Francia, il famoso Bajardo detto il cavaliere senza paura e senza taccia, sì grande nella storia, nella tragedia apparisce vano millantatore meschino. Che relazione hanno poi colla congiura de’ Francesi gli amori non tragici di Gastone e di Bajardo e di Altamoro verso una Bresciana? Influiscono forse all’azione, o servono solo a renderla pesante e ad arrestarne {p. 74}la rapidezza? Chi può veder senza nausea un uffiziale come Bajardo mandare un biglietto di disfida al suo generale, ed accettarla costui preferendo un litigio privato alla causa del sovrano? Chi leggerà senza ridere la tagliacantonata del Bajardo del Belloy che vuole spaventar Gastone,

Si vous sçaviez le sort de mon prèmier rival!

o la graziosa antitesi di Gastone che abbraccia il rivale e sfodera la spada,

Embrassez un ami …. combattez un rival.

Non si comporta eroicamente Bajardo umiliato chiamando con tanto fasto ed apparecchio i Francesi ad ammirarlo? Egli dice in prosa rimata,

Contemplez de Bajard l’abaissement auguste,
Voyez comme il rempli le devoir noble et juste
Que l’honneur vèritable impose à la valeur,
Et comment un Heros se punit d’une erreur.

{p. 75}Che meschinità! Bajardo chiama augusta la propria umiliazione? Bajardo dà a se stesso il titolo di eroe? Si vede che l’anima di Belloy era ben poco eroica, se prestava tali bassezze a’ personaggi che voleva dipingere come eroi. Non è meno inconsideratamente delineato il carattere del Duca di Urbino enunciato come virtuoso, ma che intanto fin dall’atto I non ignora i tradimenti orditi da Altamoro e Avogadro, e pur gli dissimula, e nell’atto V, parlandogliene Bajardo, egli falsamente risponde di aver sempre sdegnato di comprenderne i segreti. È virtù questa falsità? L’autore che aspirava alla gloria di tragico, avea ben false idee dell’eroismo e della virtù. Ma se egli travide nel dipingere gli eroi ed i virtuosi, non si mostrò più abile in far operare due bassi traditori determinati. Essi vogliono proditoriamente dar la morte a Gastone e a Bajardo; ma intanto uomini sì scellerati non sanno prevalersi delle occasioni trovandosi a quelli dappresso e senza testimoni. V’ {p. 76}è giudizio in tale condotta? Essi attendono l’esito di una mina, di cui si parla sin dall’atto I, da scoppiare nel V. Infallibile, al lor credere, è la riuscita di questa mina; or perchè non attenderne l’evento sicuro? perchè disporre senza bisogno che uno di essi truciderà Bajardo e l’altro Gastone? Questa mina poi fu veramente una scelleratezza meditata da Avogadro? In niun conto. L’ho tolta (dice Belloy)da altre congiure. Perchè dunque mentisce dicendo di aver presi i fatti dalla storia nazionale? Dica piuttosto di prendergli dal fondo de’ suoi ghiribizzi e dallo spirito di menzogna che lo predomina. Un disertore Francese poi che piove dal cielo nell’atto V, scopre la congiura; ed a chi s’indirizza? forse a’ generali Francesi? Non già; ma ad Eufemia figlia del principale congiurato. V’ha in ciò punto di senso comune? Che si dirà poi di quella specie di contradanza che fanno nell’atto IV Gastone, Avogadro ed Eufemia? È una situazione maneggiata {p. 77}con gravità tragica o almeno con intelligenza e pratica della scenaa?

Abbiamo accennate queste poche cose senza curarci del rimanente deriso dal citato giornalista, il quale ne additò anche molte espressioni false, gigantesche e puerili. È piacevole p. e. questa di Bajardo ferito che vuol tornare alla pugna, e dice a’ soldati: Mort je puis vous guider, morto ancora posso condurvi; e quest’altra, in cui scoppiata la mina, si dice di Avogadro e del Disertore morti entrambi nel sotterraneo.

L’un et l’autre à la fois loin du palais en poudre
On vu leur corps èpars emportes par la foudre.

Saprà il Belloy in qual maniera due uomini videro i loro corpi stessi sparsi e trasportati dal fulmine. Rapportiamoci dunque su gli altri di lui difetti {p. 78}nè piccioli nè pochi come poeta a ciò che ne dissero i Francesi stessi, e diamo qualche sguardo a’ di lui maligni errori come storico. La sua favola è posta in mezzo a due baluardi istorici, cioè a una prefazione e ad alcune note stampate nel fine. Nell’una e nelle altre egli pretende giustificare le nere calunnie da lui seminate contro del conte Luigi Avogadro di Brescia, del principe d’Altamura napoletano, del marchese di Pescara, del pontefice Giulio II e di tutta la nazione Italiana.

Il tragico storico (che nè storico nè tragico si manifesta) denigra la fama dell’Avogadro formandone un basso traditore, ed un mezzano della propria figliuola, e con documenti istorici che alla storia contraddicono, pretende avvalorare le sue maligne asserzioni. Avogadro secondo lui è un ribelle. Ma è ciò vero? Avogadro era bresciano suddito de’ Veneziani, perchè Brescia sin dal 1426 si era data alla Repubblica, per le oppressioni che soffriva sotto Filippo Visconti, a cui sempre ricorse {p. 79}invanoa. Ne tennero i Veneziani il governo sino al 1509b. Luigi XII pretensore del ducato di Milano muove a conquistarlo, riporta la vittoria di Ghiara d’Adda, e Brescia atterrita gli si rende. Entranvi i Francesi allora poco capaci di disciplina, e di cattivarsi la benevolenza de’ popoli, abusano del potere, insolentiscono, e diventano, come dice il Muratori, gravosi anche agli amici per la loro arroganza e insolenza massimamente verso le donne, e quasi tutti i cittadini che non potevano più soffrire, al dir del cardinal Bembo, desiderano tornare sotto il dominio della Repubblica. Il conte Luigi viene particolarmente oltraggiato nella persona di un {p. 80}figliuolo dal figliuolo di Gambara natogli di una Francese, implora la giustizia de’ nuovi padroni della città, non è ascoltato, i mali pubblici, e le private offese fanno che si rivolga alla Repubblica, e promette di aprire alle di lei truppe la porta delle Pile. Rientrano i Veneziani in Brescia. Or non si potrebbe con qualche fondamento ribattere la taccia di ribelle che gli s’imputa? Furono ribelli gli Spagnuoli che per sette secoli combatterono contro de’ Mori per iscuoterne il giogo? Ma sia pure Avogadro un ribelle, cioè un suddito oppresso che non ha la virtù della tolleranza, e che disperando di ottener giustizia dal nuovo signore, si ricovera sotto la protezione dell’antico. È però la stessa cosa essere in questa forma ribelle, che scellerato, ruffiano della figliuola, traditore di Bajardo e Gastone, e vile e basso ed assassino? Questo Avogadro dipinto si neramente è figlio legittimo del Belloy, non della storia. Le scelleraggini, le infamie, gli assassinamenti, le {p. 81}frodi nacquero dal capo di codesto pseudotragico come Minerva da quello di Giove. Nè Avogadro fu un lâche che fuggì quando dovea morir combattendo. I Francesi negli andati secoli sono qualche volta fuggiti ancora. Non fuggirono con Carlo VIII abbandonando precipitosamente un regno? Non fuggì l’istesso Cavaliere senza paura dopo la giornata des Eperons sorpreso dagl’Inglesi, e poi non si rendè prigioniero? Non fuggirono i Francesi sopraffatti in Brescia, e si raccolsero nel castello? Non sempre la ritirata è viltà (lâchetè) mancanza di valore; ed Avogadro diede del suo coraggio non dubbie prove, entrando a viva forza intrepidamente per la porta mentovata. Or è giusto calunniare sul teatro! È questo il bell’esempio da proporsi a’ nazionali per tirar tragedie dalla storia patria?

Non fu Avogadro un traditore, un infame, un assassino, se voglia tenersi presente la storia, ma semplicemente un nemico de’ Francesi. Adunque la {p. 82}crudeltà che usò con lui Gaston de Foix, sembra inescusabile. Belloy calunniandolo attribuisce ad un immaginario suo tradimento la morte che gli fu data, se non per natural crudeltà, almeno per ragion di stato. «Tutto l’esercito (dicesi dell’esecuzione di Avogadro in una lettera istorica su di Gastonea), chiedeva ad alta voce il supplizio di lui, e del figliuolo… Invano per fuggir l’ignominiosa morte èssi rappresentavano di esser nati sudditi de’ Veneziani….Si ascoltò la politica, e non la giustizia.» «Soprattutto (si aggiugne) veniva compianto il figliuolo, la cui giovanezza, le virtù, il valore ammirato da Gastone stesso, meritavano sorte migliore. Egli punto non era reo, avendo soltanto seguito la natura ed il suo dovere.» Si descrive in seguito con tratti compassionevoli la gara del padre e del {p. 83}figliuolo per morir prima, ed il dolore del popolo intenerito. «A questo spettacolo (dicesi in fine della lettera) il duca di Nemours che sentiva commuoversi, e credeva necessario il rigore, fe un segno, e le due teste caddero a’ piedi suoi. Fu ciò un’ ombra che si mischiò al lustro del trionfo; ma i Francesi non videro che il trionfo.» Se il Belloy per natura, e per istudio fosse stato disposto alla tragedia, non avrebbe cercato di approfittarsi di questo tratto istorico proprio del coturno narrato da un suo nazionale? Ma il Belloy intento a calunniare la nazione italiana si sdegna contro l’autore delle Vite degli uomini illustri, perchè volle rendere interessanti il traditore Avogadro e suo figlio. Egli poi si accinge a discutere il fatto con esattezza; e l’esattezza consiste in osservare, che l’esposto non si dica dallo storico della vita di Bajardo, dando tutto il peso di una pruova istorica ad un’ asserzione negativa. Osserva in seguito che Du-Bos varia {p. 84}dal primo racconto in qualche circostanza dicendo, che i due figli di Avogadro furono giustiziati alcuni giorni dopo; ed anche di ciò vuol dubitare il Belloy per questa gran ragione che non sa d’où il emprunte ce recit. Ma se egli dubitava di quanto ignorava, di che non dovè egli dubitar vivendo? Du-Bos che ignorava molto meno di lui della storia, narrò ciò che si trova dagli storici riferito. Fu nel secondo giornoa ² il conte Luigi Avogadro, mentre in abito finto fuggia di città, riconosciuto, fermato e presentato a Gastone, che nella pubblica piazza il fe decapitare.. volendo vedere egli stesso il crudele spettacolo, e si compiacque poi di replicarlo ne’ due già presi figliuoli.

Volle poi il Belloy dare un complice ad Avogadro, e donde il prese? La storia gli avrebbe sugerito qualche {p. 85}Bresciano, se l’avesse saputaa; ma egli lo scelse tra’ Napoletani. A quale oggetto? Per non lasciare veruna specie di calunnia intentata. E da qual classe di Napoletani il tolse? Dalla più ragguardevole. L’assassino, l’infame, il poltrone Altemoro della tragedia si dice essere il Principe d’Altamura napoletano. Questo personaggio, dice il tragico meschino, e lo storico impostore, est de mon invention pour ce qui concerne le rang et les titres. È pur questo un bel modo di comporre tragedie nazionali sulla storia, valersi di un nome illustre per denigrarlo, e per vestirne un figlio infame del capo del Belloy! E che direbbero i suoi compatriotti se si mettesse sulla scena un ladrone infame col nome di qualche principe del real sangue di Franciab.

{p. 86}È inoltre precetto di poetica nelle tragedie nazionali il dir grosse villanie all’imperadore Massimiliano, a Ferdinando il Cattolico, al marchese di Pescara? E qual parte ebbe questo Scipione della storia moderna nelle furbesche trame uscite dal capo del Belloy? Di qual diritto’ poi questo picciolo scarabbocchiatore di carta osò nel suo garbuglio tragico trattare il pontefice Giulio II colla maggiore indegnità, come mostro come carnefice? Essendo amico della Francia avea quel pontefice desiderato che il famoso Bajardo accettasse, come era costume a que’ tempi, il comando delle sue truppe. Sia questo un fatto tres-vrai, come dice il Belloy. È però una cosa stessa col {p. 87}dipingere Giulio subornatore di Bajardo esortandolo a tradire il suo re, mentre egli era in arme contro la Francia? E ciò appunto gl’imputa il Belloy, facendò dire dal duca di Urbino al Bajardo

                 on peut sans effroi
Pour servir Rome et Jule, abbandoner son roi?

Qual fu poi in sostanza per rapporto a’ Francesi la reità di quel papa in quella guerra? Il proteggere la libertà Italiana. Temè in prima che le potesse nuocere la potenza e l’ambizione de’ Veneziani, e formò contro di loro la formidabil lega; vide poscia quanto più pericolosi nemici di tal libertà fossero gli stranieri, e se ne distaccò. Come principe e come politico chi può rimproverargli l’amore del proprio paese?

Ultimamente nella prefazione il Belloy imputa agl’Italiani generalmente «un raffinamento di perfidia e di crudeltà, che ci fa credere (aggiugne) oggi ancora che la vendetta sia più ingegnosa e più implacabile in Italia che {p. 88}altrove»? Quale impudenza! E chi più del Belloy ingegnoso in immaginar vendette atroci? E non è egli l’autore di Gabriela di Vergy? Non è francese il suo Fajele ed il più implacabile, il più vendicativo, il più inumano, che vince i Selvaggi e i Cannibali più accaniti e dà a mangiar per vendetta i cuori umani? E chi ha imbrattate le moderne scene francesi di maggiori atrocità? La candeur française (prosegue)ètait toujour trompèe, et dèdegnait souvent de punir. Il ciel conservi loro codesto candore e generosità naturale; ma la stomachevole vanità del Belloy ci obbliga a dire che i Francesi di que’ tempi non diedero molte pruove di candidezza ed umanità ne’ luoghi dove fecero la guerra e dove dimorarono. Poco in vero disdegnarono di punire nella presa di Brescia, se si attenda alla storia del cardinal Bembo e del citato Verdizzotti. Poco candidamente si condussero nell’isola di Sicilia, ond’è che diedero motivo a quel famoso Vespro conseguenza di una {p. 89}lunga tolleranza. Poco umanamente trattarono con gli abitanti di Castellaneto, spogliandoli e molestando le loro donne; e quando quel popolo si diede agli Spagnuoli, ed imprigionò que’ Francesi, qual fu l’implacabile vendetta Italiana? Gli tolsero le armi e gli diedero agli Spagnuoli, a condizione che gli rimandassero al campo francese. Ma lasciamo le istorie, le note e le prefazioni del Belloy, e conchiudiamo che delle sue tragedie l’Assedio di Calais, Gastone e Bajardo, Zemira, Don Pietro il crudele e Gabriela di Vergy, già più non rimangono che i nomi, mancando loro la nota del genio, l’armonia della versificazione, la correzione del linguaggio e la forza, la bellezza ed ogni altra dote dello stile.

Mentre la terribile procella tutto copriva di tenebre e d’orrore il cielo francese e seguiva il cangiamento della monarchia in democrazia, non mancarono di componimenti teatrali quelle agitate contrade, molti de’ quali si risentivano delle passioni esaltate e de’ {p. 90}sentimenti del tempo che correva. Quanto alla tragedia si coltivò da Chenier, Carion de Nizas, Arnault, Le Mercier, Lagouvèe, Mazoyer e qualche altro.

Il cittadino Chenier autore di varie tragedie, si è distinto negli ultimi anni del secolo XVIII singolarmente per Cajo Gracco e per Carlo IX. L’azione del Cajo Gracco è semplice ma languida, lo stile puro ed elegante, ma la versificazione non molto felice, il carattere del protagonista espresso con freddezza. Più celebrità ebbe Carlo IX in tempo della rivoluzione per certa analogia della strage di San-Bartolommeo con gli orrori e l’esecuzioni della repubblica che sorgeva in mezzo al sangue. L’orribil suono delle campane ad armi che accendeva i feroci petti nella mentovata esecranda strage del tempo della Lega sì ben descritta nell’Erriade, rinnovava la memoria dell’orrendo effetto che in quel tempo sovvertimento universale mise in fiamme la Francia. Quel suono continuava {p. 91}anche nell’intervallo dall’atto IV al V. Si ripetè questa tragedia nell’anno IX della libertà, e l’autore sin dalla prima ripetizione vi fece varii cangiamenti che accrescono la rapidità dell’azione e l’energia dello’ stile. Se si comparino le dipinture de’ caratteri nel poema epico del Voltaire, si trovano fuor di dubbio più forti e più vere di quelle che Chenier mette in azione. La morte di Coligni nell’Erriade assai più patetica eccita la compassione tragica che si desidera nella tragedia. L’incertezza per altro di Carlo IX sempre irrisoluto sino al punto che si avvicina il gran momento della strage deliberata, è assai ben delineata, e preserva dalla languidezza un soggetto per se stesso pieno di terrore ma che nella tragedia accenna ogni istante di cader nel languore veleno del teatro. Il cardinal di Lorena prende con Carlo IX il tuono di Maometto, ma Carlo non è posseduto dal fanatismo di Seide. Questo cardinale nel tempo della tremenda esecuzione si trovava in Roma, e Chenier, per un abuso {p. 92}della storia simile a quelli ne’ quali incorse il Belloy, lo mostra presente alla strage. Un giornalista francese chiamò questa libertà audacia stomachevole del poeta. La morale permette per istruire di relevare la malvagità, ma non di calunniare con falsità il malvagio.

Chenier riesce meglio in dipingere Coligny, il Cancelliere de l’Hôpital, ed Errico IV nascente. Lo stile di Chenier non profferisce bellezze luminose; merita però di esser applaudito per la purezza, per l’eleganza, e per varii tratti che mostrano lo studio da lui fatto ne’ buoni modelli; e lo meriterebbe ancor più se vi regnasse minor copia di declamazioni triviali. Alcuni pàssi diretti contro dal Romano Pontefice si accolsero con trasporto dall’uditorio. Tra gli attori che lo rappresentarono, si distinse Talma nella parte di Carlo IX, Monvel in alcuni squarci del Cancelliere, Battista nella parte diColigny, e La Fond che giva sorgendo, rappresentò con arte il carattere del Cardinale, benchè alieno da i talenti {p. 93}di quell’attore fatti per rappresentar felicemente le passioni tenere ed impetuose.

L’anno IX della repubblica si rappresentò ancora Teseo tragedia di Mazoyer giovane autore di felice riuscita, mal grado di alcuni difetti. Contiene il dominio che ebbe Medea in Atene sposando il re Egeo, e l’arrivo di Teseo erede del regno che Medea cerca di far morire. Il piano è ideato con giudizio; l’azione regolare condotta con arte, benchè non molto vivace; il carattere di Teseo è dipinto con nobiltà, quello di Medea con molto vigore, se non che ostenta soverchio gli eccessi da lei commessi. I primi quattro atti trattennero l’uditorio con piacere per varii passi pieni di forza e di estro, singolarmente per una felice descrizione dell’Eumenidi. Ma il V atto cui non rimane materia sufficiente, non contenendo che un lungo monologo di Medea, e Teseo che viene fuori a dire che ha vinto, mancò poco che non tirasse seco a terra tutta la tragedia. {p. 94}Lo stile è ineguale e trascurato sovente, e mostra la giovanezza dell’autore. Vi si notano nondimeno alcune scene degne di lode. Tali sono: quella di Medea che propone di avvelenar Teseo ad Egeo che ignora di esser suo figlio; l’artificio di Medea per giugnere al suo scopo rendendosi vie più padrona del cuore di Egeo; quella di Teseo, Pallante e Medea, in cui Teseo con acuta ironia le dice vous fûtes mère, rimproverandole la strage de’ proprii figli; quella di Teseo riconosciuto dal padre alla presenza del popolo e de’ sacerdoti. Madama Raucourt e Talma si distinsero nel rappresentar Medea e Teseo. Sul teatro de’ Troubadeurs di Parigi udii recitar di questa tragedia una parodia intitolata Taisez-vous.

Il cittadino Carion de Nizas compose a que’ dì una tragedia intitolata Montmorenci che si recitò nel mese Pratile nel Teatro della Repubblica. Ha il merito di essere un argomento nazionale scritto in istile convenevole. I Francesi osservarono dalla prima {p. 95}rappresentazione che sin da’ primi atti essa manca d’interesse e di azione. Vi si notano tre intrighi di amori, e di amori illegittimi posti in azione o almeno mentovati, de’ quali niuno chiama l’attenzione per esser subalterni e non tragici. Finchè io mi trattenni in Parigi l’autore avendo richiamato a se il suo componimento per ritoccarlo, più non curò di renderlo al teatro o di pubblicarlo per le stampe.

Lagouée prodotto aveva prima sull’istesso teatro della Repubblica Eteocle e Polinice che non si avvicina punto al Racine che lo precedette in trattar lo stesso argomento, ed ancor meno a Vittorio Alfieri.

Il sig. Arnault per quanto a me è noto, pubblicò tre tragedie negli ultimi due lustri del secolo XVIII recitate sul teatro della Repubblica. Oscar figlio di Ossian di cinque atti che si rappresentò l’anno quarto della repubblica, e si replicò sul cominciar del 1800; Cajo Mario a Minturno di tre atti recitata nel maggio del 1791, che più {p. 96}non si rivide; e Bianca e Montcassin di cinque atti rappresentata nel 1799. Quanto alla prima rende vie più manifesta la difficoltà di tornarsi a trattare i costumi di certi tempi mezzani e di certe popolazioni lontane dalla coltura de’ tempi a noi vicini ove non si rimuovano le idee ed immagini de’ tempi correnti. Cajo Mario in alcuni tratti mostra grandezza non aliena da quel Romano, ma non in tutto il componimento. Ci occuperemo un poco più di Bianca e Montcassin.

Atto I. L’autore suppone che Montcassin francese due volte abbia salvata la Repubblica, ond’è che il Senato si raduna per premiarlo dichiarandolo patrizio e senator veneto. Si propone nel tempo stesso una legge che stabilisce che qualunque senatore per imprudenza o per malizia abbia commercio con gli ambasciadori esteri, o si trovi nel recinto delle loro case, sia reo di morte. La legge è stabilita. Due de’ tre Inquisitori di stato nemici per interessi di famiglia, Contarini e Capello, per por {p. 97}fine alla loro nimistà, conchiudono che Capello prenderà in isposa Bianca unica prole di Contarini.

Atto II. La scena rappresenta un appartamento della casa di Contarini. Mentre Bianca si trattiene con Costanza sui i di lei amori con Montcassin, Contarini viene ad annunciare alla figlia di averle destinato uno sposo illustre, nè più soggiugne, per essere stato chiamato al Consiglio. Ella ne mostra piacere col padre, credendo che le abbia destinato Montcassin, niun altro al suo avviso potendo meritare il titolo d’illustre. Giugne Montcassin contento di essere ritornato a lei vicino. Viene Capello pieno di contento per avere inteso da Contarini che ella ha dato il consenso di prenderlo in isposo. Bianca resta a ciò turbata e addolorata, e Montcassin sbalordito. La confusione di Bianca attrista ugualmente i due amanti. Ella ricusa di dare una risposta precisa che si riserba di dare fra pochi istanti. Capello si ritira dicendo, pieno di rispetto, che {p. 98} l’attenderà. Montcassin con risposte pungenti trafigge Bianca, che gli dice che a torto egli di lei si lagna. Distruggi dunque (le dice) i miei sospetti. Io t’amo (risponde) ciò dee bastarti. Chi dunque (Montcassin) cagiona i nostri mali? L’amor mio, replica Bianca; quando mio padre è venuto a prevenirmi di avermi destinata al maggiore degli eroi di Venezia, ho creduto ch’egli con ciò ti avesse voluto indicare, ed ho dato di buon grado il mio consenso! Si dispera, si chiama imprudente, insensata; ed assicura Montcassin che si lagna della sua fortuna, che ella non sarà mai d’altri che di lui.

Atto III. Contarini viene a far premure alla figlia di non porre ulteriore indugio alla sua obedienza, potendosene a ragione offendere lo sposo. Bianca nettamente dice, che questa obedienza la fa tremare, e rivela di aver fatta un’ altra scelta. E chi è colui che hai tu scelto (dice Contarini)? Quello che arriva, dice Bianca, additando Montcassin che giugne. Contarini a lui {p. 99}rivolto gli dice: siete voi il seduttore di mia figlia? Montcassin: io l’ho sedotta! Contarini non siete amato? Montcassin: sono amato, ma amo,

Je suis seduit comme elle, et non pas seducteur,

Comunque sia, risponde Contarini, io non sono più l’arbitro del destino di mia figlia. La scena lunghissima alfine contiene che Contarini decisivamente gli fa sapere, che nulla sarà bastante a piegarlo, e Montcassin risponde: credete voi di costringere vostra figlia ad obedirvi finchè io esisterò? Vedo bene, ripiglia Contarini, che la vostra presenza può offendere l’autorità paterna; giurate di rispettar l’ingresso della mia casa fino a che Bianca non passi ad abitare in quella dello sposo. Montcassin ricusa. Contarini comanda che esca di sua casa. Montcassin minaccevole gli dice: Ah cet excès d’outrage

Comme à ta cruautè, met le comble à ma rage;

ho finito di supplicare; io tenterò {p. 100}tutto ciò che mi sugerirà un amor disperato, e parte. Capello viene a veder Contarini, ed a proporre le sue angustie ed i suoi dubbii. Contarini dice, io gli farò svanire; venite nel bel mezzo della notte nell’antica cappella del mio palazzo; riceverete coll’usata sacra cerimonia Bianca dalle mani di suo padre.

Atto IV. Il teatro cangia in una cappella particolare della casa di Contarini con altare, in cui una porta aperta nel mezzo lascia vedere una sala con finestre che danno sul palazzo dell’ambasciadore di Spagna.

In seguito della lunghissima scena dell’atto III della contesa poco tragica di Contarini, e Montcassin, si è questi risoluto a chiedere a Bianca con un bigliettino un momento di udienza secreta. Bianca glie l’accorda nel luogo indicato, stimandolo opportuno (in caso che il padre soparavvenisse) per l’evasione al palazzo vicino del ministro di Spagna. Egli viene; tutto è perduto, dice,

{p. 101}
                                          le sort
Ne nous laisse à choisir que la fuite où la mort.

Un ratto proposto da un uomo decantato per eroe, per virtuoso annunzia una delle tragedie di Hardy. Bianca trema alla proposta scelta di morte o di fuga. Montcassin l’affretta a fuggirà. In questo punto (dice Bianca)? Montcassin, e che aspetti tu ad abbandonare una dimora indegna, dove il solo interesse è quello della nobiltà, dove la voce dell’orgoglio copre la voce del sangue, dove la tua fiamma è un delitto, e la mia un’ingiuria? Ecco il linguaggio de’ romanzi, in cui il solo amore è virtù, ed i virtuosi esortano le fanciulle ad abbandonare la casa paterna per seguire l’amante. Bianca per provarglielo vuol giurarle fede di sposa in faccia al Crocifisso eh e è nella Cappella, aggiungendo che domani anderà a trovarlo. E: demain? mais aujourd’hui que peut-il arriver à… Ah fuggite ( viene a dir Costanza ), il padre viene e la {p. 102}chiama. Montcassin fuggire? per dove? Costanza, per la casa è impossibile, vi sono troppi testimoni; ma non vi è altra via che il palazzo di Spagna. Bianca: ah in esso ti segue la morte! Montcassin: e quì l’obbrobrio ti copre bisogna dunque incontrarla, e parte. Contarini dice a Bianca, che viene lo sposo col sacerdote. Io non diverrò mai spergiura, dice Bianca. E Contarini le dice, che se persiste a disubbidire, la maledirà. Nel punto in cui Bianca è astretta a profferire le parole che l’uniscono a Capello, ella sviene nelle braccia del Prete, e di Capello. Arriva Pisani a dire, che un evento disgraziato chiama i tre Inquisitori al tribunale; Montcassin ha violata la legge terribile ai nobili che la trasgrediscono; egli passava le mura del palazzo di Bedmar. Tutti lasciano Bianca, che ritornando in se domanda del suo destino, ed intende che Montcassin è ne’ ferri, e portato al tribunale coperto di un mantello. Risolve di {p. 103}volere andarvi anch’essa, e divider seco il suo destino.

Atto V. Il teatro rappresenta il luogo dell’assemblea de’ tre Inquisitori. Vi sono per essi tre sedie nere su di uno strato nero ancora. Il Greffiere al di sotto di essi siede con una tavola davanti. L’accusato è in piedi. Un velo nero chiude il fondo del teatro. Pisani e Montcassin; quegli compiange l’accusato, e lo spera innocente. Montcassin domanda che voglia dire quell’apparato funesto? Quello del Consiglio de’ Tre, gli dice Pisani; quì pronuncia, e nel fondo punisce. Montcassin e Pisani si ritirano, e la scena rimane vota secondo il più recente metodo de’ moderni. Sottentrano Contarini e Capello. Questi dice al Collega, perchè mi riveli in questo punto che Montcassin è mio rivale? per cangiar forse il suo giudice in amante irritato? Il cuore di Capello è lacerato da doveri contrarii di giudice imparziale, e di amante sventurato. Contarini gli fa riflettere che l’accusato è condannato dalla legge, e {p. 104}che non dipende dall’arbitrio de’ giudici. Arriva il terzo inquisitore, e seggono. Pisani introduce il reo. Segue l’interrogatorio. Montcassin risponde ingenuamente. Domandato se ha discolpa veruna da allegare; risponde di non averne alcuna. Capello gli dice: grande interesse avrete avuto ad infrangere la legge. Montcassin risponde:

Le crime est evident, le reste est mon secret.

Conferma quanto è scritto nel processo verbale, e sottoscrive. È condotto dietro al fondo del teatro. Si giudica. Contarini pronunzia il suo voto di morte. Capello prima di giudicarlo reo vorrebbe che su i suoi progetti egli avesse somministrate pruove, vorrebbe una convizione piena del delitto. Loredano profferisce, che quando anche potesse discolparsi de’ suoi progetti, non sarebbe meno reo di aver contravvenuto alla legge. Egli vota di morte, ed invita Capello a votare. Contarini lo chiama a parte, e gli dice: io ben comprendo che se non foste suo {p. 105}rivale, punto non esitereste a punire quel trasgressore dopo la prova, e la confessione dell’attentato:

Ainsi pour étre grand vous cessez d’être juste.

Odono da Pisani la costanza del delinquente in non addurre discolpa veruna, e Capello si risolve a votar di morte. Si ordina l’esecuzione. Si annunzia che un testimone arriva; e questo testimone è Bianca velata. Si svela, e dice di venire per l’accusato. Dice, Son crime c’est l’amour, l’hymen fût son projet;

Sa complice c’est moi.

Contarini la rimprovera. Capello vuole che prosegua. Bianca riferisce che Montcassin è venuto la notte nel palazzo da lei introdotto, e che ella giurò innanzi all’altare paterno di essere sua sposa. Sopraggiunto il padre egli si determinò a suggire pel muro della casa di Spagna. Gl’Inquisitori Loredano e Contarini per ciò non si rimuovono dalla sentenza data. Capello solo proibisce che si esegua. Si alza però il {p. 106}volo del fondo, e si vede Montcassin strangolato. Bianca si getta sul corpo dell’estinto, e sembra morta. Contarini tenta sollevarla.

Quest’argomento appartiene alla storia veneta. Si ha da essa che una gentil donna per nome Teresa nata nel 1601 fu moglie di un nobile de’ Contarini uomo zotico niente amabile ed immorale, ed amata da Antonio Foscarini dotato di bellezza, di cuor sensibile, di amabili costumi e di eloquenza incomparabile. Si amarono queste due persone; ma la necessità di andarla a vedere di notte passando per un muro del palazzo del Ministro di Spagna, cagionò l’ignominiosa morte del Foscarini, per la legge di cui nella tragedia francese si parla. Egli non potè allegare veruna discolpa, per non pregiudicare al decoro dell’amata, e creduto reo di stato fu dagl’Inquisitori condannato e mori strangolato. Questo fatto venne dal cavaliere Ipolito Pindemonte di Verona descritto in una novella in ottavarima da me pubblicata {p. 107}in Napoli insieme con un’ altra in prosa del cavalier Tommaso Gargallo di Siracusa.

Dimorando Arnault in Venezia trovò il caso degno del coturno, e ne formò la sua tragedia che dedicò a Napoleone Bonaparte membro dell’Istituto Nazionale di Parigi. Piacque all’autore di abbigliarlo a suo modo. Diede da prima all’azione un lieto fine, facendo che la donna da lui chiamata Bianca disperata offeriva la mano a Cappello a cui era stata destinata sposa a condizione che salvasse la vita all’amante, e che Capello salvandolo ne ricusasse generosamente la mano. Con ciò l’autore toglieva tutto l’effetto tragico alla lagrimevole istoria. Lo comprese Bonaparte sentendola leggere. Egli avea pianto alle circostanze di Bianca; je regrette mes larmes, egli disse al fine lieto inatteso; il mio dolore (aggiunse) è una emozione passeggiera, di cui quasi ho perduta la memoria al vedere gli amanti in piena felicità. L’autore si approfittò della giudiziosa avvertenza, {p. 108}e rendette alla favola il fine tragico, e così comparve sulle scene e per le stampe.

Ecco intanto ciò che rende la storia differente dalla tragedia. In prima il Foscarini veneto è trasformato in un Montcassin francese che si dice di aver salvata due volte Venezia. Ma è permesso in un fatto recentissimo falsificare la storia nel più essenziale, cioè nell’essere e nel carattere del protagonista? E qual vantaggio ne ricava il teatro? La tragedia suole alterare alcuna circostanza della storia, e con più frequenza quando l’evento risale alla remota antichità: ma ciò si concede per aumentar le molle della compassione e del terrore, ma non già per iscemarne l’energia. E ciò appunto avviene nella tragedia di Arnault. Allorchè il leggitore comincia ad intenerirsi, gli si presenta un francese militare forse in vece del veneto Foscarini nobil veneto avvocato insigne, e l’illusione che si sforza di occuparlo, ad ogni passo si allontana. In Venezia ciò senza dubbio {p. 109}avverrebbe, se si rappresentasse; e forse in Francia ancora non si riceverebbe con pieno applauso che un francese si credesse estremamente onorato per aver meritato un posto tra’ Nobili Veneziani. Montcassin dunque troverà per conseguire l’effetto tragico diversi ostacoli; e le lagrime di Bonaparte tutte si saranno versate per Bianca.

In secondo luogo osservo che l’azione nella tragedia ragionevolmente scema il pericolo dell’amante che in quella storia è inevitabile. In questa Foscarini va da una donna maritata furtivamente, e questo è un arcano tra i due, e passa sempre pel palazzo di Spagna. Se Foscarini volesse colla verità del fatto render nullo il delitto di stato prevenuto dalla legge, dovrebbe palesare la sua non lecita corrispondenza colla moglie del Contarini e coprirla d’infamia. Eccolo in un bivio tragico, ed eccolo ridotto per di lei decoro ad un silenzio che lo fa soggiacere alla pena di morte dovuta ad un reo di stato; e questo silenzio diventa nobile {p. 110}al pari di quello del Conte di Essex. Ben diversa è l’azione della tragedia di Arnault. Montcassin non può partecipare dell’importanza tragica del silenzio del Foscarini. Bianca non è moglie ma figlia nubile di Contarini, di cui egli frequenta la casa senza verun delitto. Contarini padre di Bianca ha saputo da lui stesso l’amore che nutre per la figliuola, e Capello promesso a lei in isposo ne ha sospetto. Montcassin in un sol momento è costretto dalla necessità a passare per la casa di Spagna; e non offenderebbe punto il decoro dell’amata, se per giustificarsi del delitto di stato confessasse che ama Bianca che vorrebbe sposare. Ciò niuna infamia a lei apporterebbe ed il pubblico saprebbe quello stesso che il padre non ignora. Il bivio dunque che rende glorioso e necessario il silenzio del Foscarini, non si può riconoscere nel Montcassin di Arnault. Quanto poi allo stile, i leggitori ben vedranno che l’autore sovrasta di gran lunga al Lemiere, al Belloy ed a’ loro simili, ma {p. 111}che non si avvicina punto ai Cornelii, ai Racini a i Volteri.

Appartiene parimenti a questo periodo la tragedia di Lemercier intitolata l’Agamennone. È tratta da quella di Vittorio Alfieri; ma quando se ne diparte e vi frammischia le proprie idee, cade in assurdi. Lo stile nulla presenta che tiri l’attenzione. L’autore ha composti varii altri componimenti teatrali ancor peggiori, de’ quali parleremo da quì a poco.

{p. 112}

CAPO II.

Tragedia Cittadina, e Commedia Lagrimante. §

Sulle tracce segnate dagl’Inglesi, come vedremo appresso, cominciò a comparire sulle scene Europee una picciola tragedia che non si eleva agl’interessi delle intere nazioni e de’ personaggi eroici, ma si spazia entro le famiglie private; ed è chiamata Cittadina. Non è questo un dramma da gareggiar punto colla grande e vera tragedia reale da Platone tenuta per più malagevole della stessa epopea, e fatta per ammaestrare ugualmente i principi e i privati. Essa però può anche ammettersi in grazia della varietà, e per servire al diletto e all’istruzione della parte più numerosa della società; specialmente quando non distragga lo spettatore con tratti troppo famigliari ed atti ad alienarlo dall’impressione del dolore e della pietà. I Francesi in {p. 113}questi ultimi tempi hanno avuto varii scrittori di tragedie cittadine ora più ora meno ingegnose e composte più spesso in prosa che in versi.

Francesco Maria d’Arnaud de Baculard nato nel 1709 si esercitò in simil genere. Il suo Fajele contiene l’argomento stesso della Gabriela di Vergy del Belloy, cui il marito dà a mangiare il cuore dell’amante, trattato colle medesime molle, ed atto come quella a partorir piuttosto orrore che terrore tragico. Più lugubri, benchè meno sanguinose, sono il Conte di Cominge e l’Eufemia. Nell’uno si rappresentano le avventure del Conte divenuto religioso della Trappa che geme tra’ cimiterii e le teste de’ morti; nell’altro una religiosa disperata, la quale nel proprio confessore ravvisa l’antico suo amante che vuole obbligarla a seguirlo fuori del convento. Più interessante è il Cominge, più nojosa l’Eufemia. Nell’una e nell’altra favola si tesse una serie di evenimenti romanzeschi che si narrano come {p. 114}preceduti all’azione. Il Merinval è pure un’azione tragica del medesimo scrittore avvenuta tra persone private, in cui si scorge la medesima energia nella passione e la medesima tinta lugubre e cupa. Un’altra religiosa disperata che si avvelena per essere stata dal padre astretta a monacarsi, dipinse il prenominato La Harpe nella sua Melania. Manca ancora a’ Francesi l’arte d’inseguire col sale comico e colla sferza del ridicolo questa vanità ed ingordigia de’ capi di famiglie che astringono le donzelle a seppellirsi per conservare a’ maschi intere le patrie ricchezze. Bernardo Giuseppe Saurin parigino nato nel maggio del 1706 morto nel novembre del 1781, oltre alle tragedie riferite tradusse quasi tutto dall’inglese il Beverley di Odoardo Moore che altri attribuisce a Lillo, altri a Tompson. Poche cose vi alterò il Saurin ne’ primi quattro atti, contento soltanto di toglierne le irregolarità. Ne cangiò lo scioglimento aggiungendovi il fanciullo Tomi figlio {p. 115}del giocatore, che occupa la maggior parte dell’atto V. Piacquero universalmente i primi quattro atti, e con ispecialità il quarto. Mirabile effetto partorì il quinto sugli animi degli spettatori. Parve però a molti che l’orrore giungesse a lacerare oltremodo il cuore, che dal compiangere uno sventurato è costretto a passare ad inorridire al furioso attentato di Beverlei, che in considerare a quale stato di miseria ha egli ridotto il figlio, per liberarnelo se gli avventa con un pugnale. Questo fanciullo non appartiene all’originale, che si recitò la prima volta in Londra nel 1653. L’ab. Prêvot lo tradusse in francese intitolandolo le Joueur che si stampò in Parigi nel 1762.

Il Socrate dramma in prosa che Voltaire pubblicò nel 1755 come una traduzione di quello di Tompson alunno di Adisson, dee collocarsi nella classe delle tragedie cittadine per la mescolanza del patetico e del famigliare. Senza qualche tratto troppo comico e malizioso ne’ caratteri di Anito, {p. 116}Melito e Drixa, e de’ pedanti Grafio, Como e Bertillo giornalista, sarebbe questo dramma il modello di tale specie di tragedia. Sotto i tre Consoli della Repubblica francese comparve un’altra tragedia cittadina intitolata Camilla, la quale cadde perfettamente nella rappresentazione, e si obbliò. Il prenominato Lemercier pubblicò in questo genere varii drammi che la Francia ha chiamati pessimi. Pinto è un suo dramma istorico rappresentato nel teatro Francese della Republica nel febbrajo del 1800, e si eseguì malissimo. L’autore gli diede il titolo di comedie-tragedie, vale a dire (si disse nell’Anno teatrale) composto bizarro e mostruoso di tutte le parti che costituiscono questi generi diversi. Ophis, Meleagro, Clarissa, la Prude sono drammi del medesimo autore riprovati da’ nazionali. Despazes autore delle quattro Satire, gli dice drammi senza piani, senza caratteri, senza correzione di stile. Piniere, autore dalla satira intitolata le Siècle, non ne parla {p. 117}diversamente, e si scaglia in ispecie contro la Prude, Ophis e Pinto, mostruosità, aggiugne, che fanno la vergogna del teatro francese.

Questi ed altri simili drammi sono discesi dalla tragedia cittadina, la quale, ove si preservi da colori comici, e si contenti di cedere i primi onori al sublime continuato della tragedia grande, potrebbe tollerarsi anche in un teatro che non ignori il buon sentiero. Ma le indicate mostruosità degenerarono enormemente, e ne venne un dramma senza contrasto riprensibile, la commedia lagrimamente, nella quale con pennellate ridicole si deforma un quadro tragico. Sedaine, Falbaire, Mercier (diverso da Lemercier) coltivarono questo genere comico lugubre con felicità in alcuni componimenti, cioè il primo nel Disertore che si è ripetuto in Francia ed altrove. Gli scherzi comici dell’uffizialetto in tal componimento non eccedono la natura, ma non si accordano colle situazioni patetiche del {p. 118}rimanente. Sedaine non riescì ugualmente in altri drammi, cioè nel Filosofo senza saperlo, nella Scommessa, come ancora nel Maillard, o Parigi salvato. Diede anche l’istesso autore le Roi et le Fermier che dee collocarsi in una classe men tetra della commedia piangente. Falbaire si applaudì nell’Umanità. Commuove certamente l’angustia cui vedesi ridotto un padre di famiglia che esce in piazza a rubare per sostentare i suoi, ed è condannato alla morte. Ma una ipotesi troppo rara scopre lo studio dell’autore di mettere in tali circostanze un uomo virtuoso che a stento si rinvengono ne’ processi criminali più famosi. Or qual pro dal rappresentare queste atrocità non comuni? L’esperienza ne convince che il patetico può risvegliarsi per lo più con un tratto semplice ma vero ricavato dal fondo del cuore umano; a che dunque caricar le tinte a sì alto segno? Il signor Mercier nell’Indigente confuse le tinte de’ caratteri comici colle tragiche, dando al suo dramma un {p. 119}portanento di somma tristezza senza bisogno. Spogliandolo dell’affettazione pantomimica e delle azioni scimiesche e della lugubre dettatura del testamento, l’azione e il carattere dell’Indigente acquisterebbe l’aria piacevole di una delicata tenerezza che meglio si adatterebbe col comico utile disviluppo dell’azione, e col cangiamento di m. de Lys affrettato bellamente dal Notajo. Il Mercier sembra di aver poi degenerato di molto nell’Abitante della Guadalupa. In quello che intitolò Natalia, rappresentato la prima volta in Parigi nel 1787, si notarono molti difetti ad onta dell’interesse che non lascia di trovarvisi.

Altri drammi piangolosi si erano presentali sulle scene francesi alcuni anni indietro non molto riusciti nella rappresentazione e meno nella lettura, riprovati da chi non ama la confusione de’ generi. Il sig. Louvais nel 1773 publicò l’Adone scritto in prosa, e l’Orfano Inglese ancor prima si era recitato nel 1769 anche in prosa e {p. 120}riprovato. Il sig. Fenouillot dal 1767 al 1775 diede al pubblico il Delinquente onorato in versi, il Fabbricante di Londra in prosa, ed il Beverley in versi. Il sig. Dudoyer è autore del Vendicativo in versi.

In alcuni drammi del Diderot e del Beaumarchais e di qualche altro dee riconoscersi una specie di rappresentazione men lamentevole e perciò men difettosa della pretta lagrimante, benchè ben lontana dal pregio della nobile commedia tenera. Nel Padre di famiglia del primo, nell’Eugenia del secondo, nel Figliuol prodigo del Voltaire non si vedono moribondi per mancanza di pane, testamenti, sentenze di morte, esecuzioni di disertori, non un padre che si getta a rubare sulla pubblica via vicino ad essere impiccato. Le passioni vi sono vive ma meno tragiche e più proprie della commedia nobile, o come dicono i Francesi, du haut comique, sebbene se ne vorrebbero correggere diversi eccessi. Osserviamone qualche particolarità.

{p. 121}Dionigi Diderot filosofo di molto nome morto nel 1787, vide il suo Padre di famiglia nel 1761 rappresentato in Parigi con felice successo, ed applaudito eziandio su’ teatri stranieri, principalmente perchè sin dalla prima scena il pubblico s’interessa per Sofia, e per Saint-Albin, la cui passione è ritratta con ottimi colori. Ecco come questo innamorato si esprime con naturalezza e calore: Elle pleure, elle soupire, elle songe à s’èloigner, et si elle s’èloigne, je suis perdu. È ben vago questo pronome elle posto prima di nominar Sofia ad imitazione di Terenzio. Delicato è pure ciò che dice nell’atto II; Si on me la rèfuse, qu’on m’apprenne à l’oublier… l’oublier? Qui? Elle? Moi? je le pourrois? je le voudrois? que la malediction de mon père s’accomplisse sur moi, si jamais j’en ai la pensèe. Ed allorchè il Commendatore vuole atterrirlo, dicendo, che se il padre l’abbandona, gli rimarranno appena per vivere 1500 lire di entrata, l’innamorato {p. 122}vivacemente ne deduce una conseguenza contraria, e dal suo zio non attesa. J’ai, dice,quinzecent livres de rente? Ah Sophie, vous n’habiterez plus sous un toit; vous ne sentirez plus les atteintes de la misere. Sono assai vaghi questi tratti, e lo studioso giovane gli osserverà, gl’imiterà, se ne abbellirà alle occorrenze; ma si terrà lontano da’ difetti del dramma. La dipintura del carattere del Padre di famiglia non corrisponde alle accennate bellezze. Egli altro non sa fare che piangere a tutte le ore, e filosofare cicalando y mentre è tempo d’operare. Non manca nè di buon cuore nè di tenerezza pe’ figli, ma di prudenza e di attività nelle circostanze scabrose; è ricco ed indipendente, e pure si contenta di rappresentare in sua casa il secondo personaggio dopo del Commendatore suo fratello, che colle sue maniere e stravaganze mette tutto in iscompiglio. L’invenzione di questa favola appartiene al nostro Carlo Goldoni, il quale scrisse in Italia il {p. 123}Padre di famiglia, commedia per altro non poco difettosa. Diderot la volle imitare e correggere, e ne snaturò il genere formandone una favola tetra, poco men che lugubre quanto una commedia larmoyante. Tolse egli ancora dal medesimo Goldoni la sostanza del suo Figlio naturale, dramma serio privo di ogni carattere comico. Questa favola discende dal Vero Amico dell’italiano, il quale mal grado di varii difetti, vale assai più del Figlio naturale, benchè Diderot nel tempo che si valeva della favola italiana, volle chiamarla farsa senza che ne avesse veruna caratteristica. Non si vedono nel Figlio naturale se non che situazioni semitragiche prese in prestito altronde, ed appiccate al piano del Vero Amico; e vi regna tale affettata nojosa saviezza in tutti i personaggi, e specialmente nel Figlio naturale, ed in Costanza, che farà sempre sbadigliare sulla scena.

Il disprezzo che aveva Beaumarchais per l’eccellente comico {p. 124}maneggiato da Moliere, congiunto alle minutezze su gli abiti, e all’affettata descrizione pantomimica de’ personaggi muti, poco danno indizio di un ingegno investigatore de’ grandi lineamenti della natura, e ricco di vero gusto. Nondimeno non parmi che si debba coll’autore de’ Tre Secoli collocare senza veruna riserba la di lui Eugenia tralle favole viziose, e contrarie alla scena di Talia. Confesso che egli dovea meglio contenersi nel recinto prescritto alla commedia nel toccare le passioni tenere; che nel piano si scorge qualche difetto di verisimiglianza; che i colpi teatrali di tutto l’atto IV prodotti dalla vendetta meditata da madama Murer, sembrano più proprii di un’ opera musicale eroica, che di una commedia. Ma la dilicata Eugenia non merita punto l’oltraggioso disprezzo che ne mostrarono alcuni. L’intreccio, l’argomento, i caratteri del Barone e di Murer appartengono alla commedia. Gli affetti di Eugenia son delicati, e sebbene eccedano alquanto passando {p. 125}oltre de’ limiti concessi alla commedia tenera, non hanno però la nota abbastanza furiosa qual si richiede nella tragedia. Il m’avait (dice Eugenia nella scena seconda dell’atto I)cachè ces bruits dans la crainte de m’affliger. Comme il m’a règarde en respondant! Ah ma tante que je l’aime! Questa delicatezza che pur si rinviene nelle favole Terenziane, non isconviene alla commedia, e nocerebbe spesso alla tragedia. La quinta e l’ottava scena dell’atto III sono belle e teatrali. È patetica ma non terribile la terza dell’atto IV, ed interessante la deliberazione del padre di Eugenia, il quale si lusinga di trovare in corte giustizia e pietà. Delicata infine è l’esclamazione di Clarendon, Elle me pardonne, colla quale per trasporto di gioja egli previene le parole di Eugenia già intenerita. Beaumarchais pubblicò anche i Due Amici del medesimo colorito dell’Eugenia; ma si astenne di chiamarle commedie, contentandosi d’intitolarle rappresentazioni. {p. 126}Fecero lo stesso altri autori di drammi semilugubri. Con miglior consiglio sacrificando qualche espressione o colpo teatrale troppo tetro, senza diminuirne l’interesse, si sarebbero contenuti ne’ giusti confini, senza bisogno di adoprar nuove voci che non possono cangiar la natura de’ generi. Beaumarchais ha composte altre due commedie lontane dalle tinte lugubri delle rappresentazioni, cioè il Barbiere di Siviglia, e la Giornata pazza, ovvero il Matrimonio di Figaro. Esse sono tratte da’ costumi spagnuoli, ed abbondano di colori teatrali, di piacevolezze, e di tratti satirici.

Ad accreditar questo genere che si allontana da’ tristi eccessi del comico larmoyant, ma che per qualche tinta soverchio tetra si diparte dalla buona commedia tenera, ha contribuito ancora il sig. di Voltaire con due buone favole malgrado di alcun difetto, cioè col Figliuolo prodigo rappresentato nel 1736, e col Caffè, ovvero la Scozzese. Mirabile nella prima è la {p. 127}dipintura de’ costumi. Tratteggiati con maestria, e con pennello comico sono i caratteri di Fierenfat, Rondon, la Baronne. Solo qualche riflessione troppo seria di Eufemone il giovane sembra trascendere il confine della commedia. Nel Caffe dipingesi la natura con sagacità. Polly, Friport, Milady Alton hanno tutta la vaghezza comica. Frelon giornalista basso, venale, impudente, maledico, e malfacente, fra’ tratti ridicoli che l’avviliscono, ne ha alcuno che muove a sdegno per la troppa malvagità che manifesta senza rimorso. Fabrizio cafettiere di ottimo cuore è copiato dalla Bottega del Caffè del Goldoni. Il carattere della Scozzese è nobile, delicato, interessante. Non v’ha che Monrose, il quale pieno de’ suoi spaventi e pericoli porta nella favola la propria tristezza quasi tragica. Voltaire pubblicò di aver tradotto questa favola da una di m. Hume fratello del celebre Hume istorico, e filosofo di Scozia.

{p. 128}

CAPO III.

Della vera Commedia Francese e della Italiana in Francia. §

Due specie della vera commedia noi contiamo, la Tenera, e la Piacevole, prima di parlar della Commedia Italiana che troviamo allignata in Francia.

I

Commedia Tenera. §

La tragedia grande e la domestica si prefige di eccitare il pianto, ed esclude ogni riso: la commedia ride più e meno e in diversi modi, e non esclude certo pianto. Se voi fate una tela lugubre di persone private che ecciti il terrore, producete la tragedia domestica o cittadina: se a tal favola frammischiate alcuni tratti comici, cadete nella sempre riprensibile alleanza del pianto e del riso della commedia {p. 129}lagrimante che distrugge l’unità dell’interesse contro l’oggetto del poeta: se le comiche dipinture non contrastano con situazioni terribili, ma servono a dar moto a’ dilicati interessi famigliari ed a quel patetico che nasce dalle amorose debolezze combattute dagli eventi; voi spogliate la commedia lagrimante de’ suoi difetti, e la cangiate in una lodevole commedia tenera. Adunque quest’ultima specie di commedia presenta tutti i vantaggi della sensibilità posta in tumulto nelle favole lagrimanti, ma ne sfugge gli eccessi lugubri, l’espressioni da coturno, il tuono di disperazione, i pericoli grandi. L’amor tenero dilicato che degrada quasi tutte le tragedie francesi, trova il proprio luogo nella commedia tenera, che non conobbe Moliere, ma che conobbero in Grecia ed in Italia Menandro, Apollodoro, Terenzio, Annibal Caro, Sforza Oddi, e Giambatista della Porta nel Moro e nella Sorella. Non sono le lagrime che rendono difettose le favole di Sedaine, Mercier e tanti {p. 130}altri; ma il tuono tragico, i delitti grandi, i patiboli. La commedia tenera si contenta della sobria piacevolezza che risulta dalla pittura comica de’ costumi, rigettando la tinta risentita del buffonesco; ed ammette le lagrime delicate, guardandosi dal terrore e dalla sublimità tragica. Tutto ciò dimostra i confini delle specie drammatiche, e fa vedere che la commedia lagrimante è l’abuso e la corruzione della nobile e gentile commedia Tenera. Guai al pedante folliculario intento a schiccherar deplorabili colpi d’occhio.

Colla veduta corta d’una spanna, il quale non sapesse distinguere il pennello dell’autore della Pamela e della Nanina da quello che colorisce le favole lagrimanti di Sedaine o di Mercier!

Gli autori francesi che a me sembra che siensi contenuti alcune volte in questa specie di commedia senza cadere nelle lagrimanti, sono: La Chaussèe, madama di Graffigny, Voltaire, e Collet.

{p. 131}Nivelle de la Chaussèe nato in Parigi l’anno 1691 e morto nel 1754 maneggiò questo genere qualche volta felicemente. Il suo Pregiudizio alla moda ben dimostra che la commedia può avere certe lagrime senza cangiar natura. Un marito che temendo di coprirsi di ridicolo agli occhi de’ pregiudicati suoi amici col mostrarsi innamorato della propria moglie, incorre nell’altro di voler palesare a lei il suo affetto colla segretezza che esige un amor colpevole, e con ciò cagiona le tenere lagrime della consorte che l’ama; simile argomento, dico, è un vago innesto di costumi correnti, di tenerezza e di piacevolezza comica, che manifesta il pregio della commedia tenera. A torto contro di questo genere si sarebbero scagliati Chassiron, Palissot e Sabatier des Castres, confondendolo col larmoyant e colla tragedia cittadina, se la Chaussèe avesse con pari felicità proseguito. Ma la di lui Melanida è una specie di romanzo fondato sul cangiamento di un nome, {p. 132}e troppo lontana dall’esser commedia, benchè vi si trovi qualche situazione interessante. Il suo componimento Amor per amore è sul medesimo gusto alieno dal vero comico, ma più languido ancora ed a parer mio meno pregevole per aver l’autore in tal favola voluto valersi delle fate e delle trasformazioni.

Francesca di Graffigny nata in Nansi nel 1695 e morta in Parigi nel 1758 diede al pubblico Cenia sotto il titolo di pièce nouvelle, nella quale imitò la Donna di governo di m. de la Chaussèe senza uguagliare l’originale. Non mancando d’interesse ed essendo stata rappresentata assai bene nel 1750, malgrado di essere sfornita di veri colori comici, riuscì mirabilmente e si è anche recitata e tradotta altrove. In seguito l’autrice diede al teatro la Figlia di Aristide del medesimo genere, la quale non ebbe ugual successo felice, perchè, disse Palissot, il tempo dell’indulgenza era passato.

La Pamela del Goldoni tratta dal {p. 133}celebre romanzo di Richardson mosse verisimilmente Voltaire a comporre la sua Nanina commedia tenera in tre atti. Essa si rappresentò nel 1748 la prima volta a Versailles; ma secondo il Giornale straniero del 1755, quando si replicò in Parigi, non si accolse troppo favorevolmente. L’azione è più semplice di quella della Pamela; ha di più il merito di essere bene scritta in versi; i costumi vi sono toccati con franchezza e le passioni dipinte delicatamente; lo scioglimento avviene senza la grande rivoluzione della condizione della fanciulla; perchè Nanina al più vien riconosciuta per figliuola di un soldato nato in una onesta famiglia, là dove il padre di Pamela nella commedia italiana si scopre un Signore Scozzese. Contuttociò le passioni hanno maggior forza nella Pamela: il contrasto nel cuore di Milord dell’amore e della nobiltà più vivace e teatrale: i costumi inglesi più atti a tener svegliata l’attenzione, specialmente col contrasto del Cavaliere viaggiatore pieno di {p. 134}leggerezze. In fatti la Pamela non invecchiò per lunga serie di anni finchè non si alterò il gusto comico italiano coll’imitazione de i drammi lugubri stranieri; e la Nanina non pare che torni spesso sulle scene francesi.

Carlo Collèt segretario e lettore del duca d’Orleans nato in Parigi nel 1709 è uno de’ Francesi che conservarono la giusta idea della comica giovialità, resistendo alla seduzione del cattivo esempio de’ comici lagrimanti. Nel di lui Teatro di società si osservano varie scene eccellenti. Senza soscrivere a tutte le lodi date dal Palissot alla commedia Dupuis et des Ronais rappresentata nel 1763, possiamo noverarla tralle commedie tenere non infelici. Benchè desti (dice il nominato critico) talvolta la tenerezza e le lagrime, per la verità de’ caratteri, e per la semplicità degli evenimenti è questa favola ben lontana da que’ drammi così poco degni di stima che vanno sotto il nome di tragedie cittadinesche e di commedie lagrimanti, pel cui cattivo genere {p. 135}il sig. Collè ha non di rado manifestato disprezzo».«Questa favola è nel gusto delle commedie di Terenzio, i sentimenti sono veri, i caratteri ben sostenuti, il dialogo è naturale». Da questo passo si scorge che il Palissot e il Collè compresero la differenza che passa tralla commedia tenera e la lagrimante. La comprese il Voltaire che compose la Nanina e il Figliuol prodigo, ed affermava che la commedia può appassionarsi, adirarsi, intenerire, purchè non trascuri poi di far ridere la gente onesta. Comprese questa medesima differenza fin anche Chassiron tesoriere di Francia, il più severo valoroso ed ingegnoso oppugnatore della tragedia cittadina e della commedia piangente. Nella sua dissertazione inserita nel tomo III della Raccolta della sua Accademia della Roccella conchiude dicendo, che» se in una commedia l’intenerirsi può talvolta giugnere sino alle lagrime, appartiene unicamente alla passione di amore di farle spandere». Al contrario non la {p. 136}comprese l’autore de’ Tre Secoli della Letteratura francese, che non ammette altra specie di commedia se non quella di Moliere, la quale è veramente ottima, ma non la sola pregevole. Sabatier des Castres pone nella classe riprovata delle commedie dolorose la Caccia di Errico IV del medesimo Collè. E perchè mai? Che ci presenta di lugubre? Forse le lagrime liete e gentili che versa Errico a i discorsi naturali e candidi del contadino? Ma passiamo alle commedie piacevoli prodotte in Francia.

{p. 137}

II.

Commedia piacevole. §

Dopo i felici seguaci di Moliere del XVII secolo Regnard, Brueys, Dancourt, troviamo tra’ buoni comici ne’ primi lustri del XVIII Du Fresny nato nel 1648 e morto nel 1724, il quale dopo di aver lavorato per l’antico teatro Italiano di Parigi insieme con Regnard, diede al Francese diciotto buone commedie. Nello Spirito di Contraddizione, che può passare per una delle migliori, e nella Riconciliazione Normanda, ed in qualche altra, il sagace osservatore scorgerà maneggiata con arte certa specie di ridicolo sfuggito al pennello di Moliere. Palissot mostra dispiacere di non vedersi più sulle scene di Parigi il di lui Falso sincero, ed il Geloso vergognoso di esserlo, a cui il prelodato Collè fece alcune felici correzioni. Quest’ultima commedia è tratta dalla commedia {p. 138}italiana il Geloso non geloso del Brignole Sale. I versi del Du Fresny (dice l’istesso Palissot) cedono in facilità a quelli di Regnard; ma il di lui stile è più puro. Io noto nelle sue espressioni certo studio non molto occulto di mostrarsi spiritoso.» Un personaggio comico (ben diceva il sign. di Voltaire) non dee studiarsi di mostrarsi spiritoso; e bisogna che sia piacevole a suo dispetto, e senza avvedersi di esserlo». Quindi avviene che la maniera del Du Fresny alcuna volta degenera in affettazione, e fa perder di vista i personaggi imitati palesando il poeta.

Filippo Nericault des Touches nato in Tours nel 1680 e morto nel 1754 le cui commedie cominciarono a rappresentarsi nel 1710, possiede arte e giudizio, ed anche spirito comico, benchè non possa sostenere il confronto della piacevolezza di Regnard, e molto meno dello stile e delle grazie di Moliere. Istruttiva è la commedia del Dissipatore e di sicura riuscita, e i {p. 139}caratteri vi sono assai ben dipinti: ma si vorrebbe che la di lui ruina venisse affrettata per altri mezzi, e sempre per le sue inconsiderate prodigalità, anzi che per un giuoco precipitoso di dubbio evento, che poteva eludere i disegni dell’innamorata divenuta scrocca all’apparenza. Il Vanaglorioso tradotta in toscano dal Crudeli e lodata con distinzione dal Voltaire, è l’altra commedia del Des Touches universalmente approvata. Non pertanto non a torto forse il Palissot desiderava che il protagonista avesse un tono più proprio della gente nobile. Il Filosofo maritato presso il medesimo critico passa per un capo d’opera; ma per meritare il nome di filosofo che ha vergogna di far sapere che sia maritato, non si doveano far contrastare un poco meglio i lumi suoi colla forza del pregiudizio, e dal non saperlo vincere trarne un ridicolo più vivace? L’Irresoluto per mio avviso è un carattere errato, equivocandosi talvolta l’irrisoluzione colla pazzia. Moliere avrebbe forse meglio {p. 140}scelti i lineamenti speciali e proprii dell’irrisoluzione, onde la pittura riuscisse vera, naturale e chiara, e per conseguenza piacevole. Nell’Uomo singolare egli ne prende le tinte dalla propria fantasia, o da qualche originale particolare da non poter riuscire importante pel pubblico che nulla in esso impara per correggersi, nè prende diletto di un ridicolo non manifesto. Le stravaganze solo potrebbero produrre qualche diletto, qualora quest’uomo singolare non fosse freddo. Egli scrisse ancora l’Agnese, i Nipoti ed altre commedie d’intrigo, ed il Tamburro notturno che viene da una favola inglese. In generale Des Touches è uno de’ buoni comici della Francia, e qualche sua favola riesce dilettevole, e molte interessanti; ma la piacevolezza non è il pregio caratteristico di questo commediografo pregevole.

Cristofaro Bartolommeo Fagan nato in Parigi nel 1702 e morto nel 1755 dotato di facilità e di naturalezza nel genere comico, ma dalle strettezze {p. 141}obligato a scriver troppo, mostra nelle sue favole l’effetto della precipitazione. Non si dovea stampare tutto ciò che produsse pel teatro. Bastava solo per suo onore d’imprimere la Pupilla, la Stolidità, l’Appuntamento, l’Inquieto, gli Originali, nelle quali commedie si dipingono con grazia e naturalezza i costumi, e vi si ammira molta piacevolezza comica.

Piron di cui si è parlato fra gli scrittori tragici, forse dovrà alla Metromania commedia ingegnosa, piacevole, spiritosa e scritta con regolarità in ottimo stile, la sua riputazione maggiore. Avea però nel 1728 prodotta la commedia i Figliuoli ingrati che poi intitolò la Scuola de’ Padri, ma non ebbe quel felice successo che prometteva l’ingegno dell’autore atto a rilevare acconciamente il ridicolo, e a dipingere i costumi correnti. Produsse in seguito l’Amante misterioso che cadde affatto, ed appena potè il poeta consolarsi coll’applauso che ottenne la sua pastorale le Corse di Tempe. Ma {p. 142}la sua gloria comica si assicurò colla Metromania. Il piano è ideato con pratica e scorgimento; l’azione semplice diletta ed interessa; i caratteri sono bene e vivacemente dipinti; i sali spirano urbanità e piacevolezza; lo stile spiritoso e proprio senza sforzo e senza pregiudizio della naturalezza è animato da una versificazione armonica per quanto può comportare la natural monotonia del verso alessandrino. L’argomento consiste in un giovane ben nato che sacrifica la propria fortuna alla smania di poetare. Giudiziosamente viene egli nella favola enunciato prima di comparire. La serva domanda notizie distinte di lui ad un servo, che risponde così dipingendolo bellamente:

Oh! c’est ce qui n’est pas facile à peindre. Non.
Car selon la pensèe où son esprit se plonge,
Sa face à chaque instant s’èlargi ou s’allonge.
Il se neglige trop, ou se pare à l’exces.
{p. 143}
D’ètat il n’en a point, ni n’en aura jamais.
C’est un homme isolè qui vit en volontaire.
Qui n’est bourgeois, abbè, robin, ni militaire.
Qui va, vient, veille, sue, et se tourmentant bien,
Travaille nuit et jour, et jamais ne fait rien.

Tralle scene dell’atto primo graziosa e caratteristica è la quarta, in cui Dami si trattiene col servo su i proprii amori per una pretesa letterata di provincia ch’egli non conosce se non per le di lei poesie recate nel Mercurio. Egli prevede che da questo matrimonio nasceranno

Des pièces de thèatre et des rares enfans.

Ei già conta almeno tre sigliuoli, e destina al primo la poesia comica, al secondo la tragica, all’ultimo la lirica, riserbando per se il pubblicare ogni anno un mezzo poema, e per la moglie un mezzo romanzo; tratti {p. 144}individuali del carattere che subito danno al ritratto la vera fisonomia. La Dulcinea di tale Don Chisciotte poetico allude all’avvenimento di m. Maillard poeta brettone, il quale avendo pubblicate alcune poesie mediocri sotto il nome di Mademoiselle de Malcrais, ne ricevè gli elogii de’ più noti poeti della Francia, e varie dichiarazioni di amore in versi, ma gli elogii e gli amori si convertirono in dispregi tosto che l’autore ebbe l’imprudenza di smascherarsi. Traspare nella scena sesta dell’atto terzo la grazia comica di Moliere oggidì perduta totalmente in Francia. L’incontro di Arpagone col-figliuolo nell’Avaro si è rinnovato in certo modo in quello di Balivò con Dami suo nipote, al cui vero stupore creduto effetto dell’arte da essi posta in rappresentare una scena, Francaleu grida attonito:

Comment diable! à merveille! à miracle! courage;
On ne sçauroit jouer mieux que vous de visage.

Sommamente comica è ancora la scena {p. 145}quarta dell’atto IV, nella quale Francaleu che ha data la sua parola a Balivò di far carcerare il di lui nipote, prega l’istesso Dami di cui si tratta, a prendere sopra di se tal carcerazione. Dami se n’era scusato sulla difficoltà che incontra un poeta a farsi luogo nella corte dove al suo dire,

Nous sommes eclipsès par le moindre minois,
Et la, comme autre part, les sens entrainent l’homme,
Minerve est èconduite, et Venus a la pomme.

Ma intendendo poi che si tratta di lui stesso, finge di addossarsene l’impegno, e dice.

Oh! je le servirai, si ce n’est que cela.

Francaleu allora ricusa, avendo pensato di valersi di un altro; Dami insiste, e le sue premure riescono piacevoli. Lepida è pure la sesta scena di Lisetta che scaltramente sa confessare a Dami di esser egli l’autore anonimo di una commedia che poi si sa di {p. 146}essere stata fischiata nella rappresentazione. La settima è ancora più vivace e piena di sale comico. In essa Durante ingannato dagli abiti di Lisetta la prende per Lucilla, e la rimprovera per averla sorpresa nell’atto che Dami le bacia la mano. Lo scioglimento corrisponde alle grazie di questa eccellente commedia, nella quale colla sferza comica ottimamente si flagella una ridicolezza comune a tutte le nazioni culte di far versi a dispetto della natura, il quale argomento su poco felicemente trattato in Italia da Carlo Goldoni nella commedia intitolata i Poeti.

Mentre Talia cangiava in Francia l’abito gentile che la rendette un tempo vezzosa, produssero alcune commedie pregevoli, a dispetto della moda lugubre, i seguenti scrittori. Giovanni Campistron diede fuori la buona commedia il Geloso disingannato rimasto al teatro. Le Sage nato a Ruys in Brettagna nel 1677 e morto nel 1747 scrisse la graziosa commedia Turcaret, e la piacevole Crispino rivale del {p. 147}padrone. Giambatista Rousseau nato in Parigi nel 1669 e morto nel 1740 pubblicò l’Adulatore ed il Capriccioso, commedie non esenti da difetti, ma pregevoli pe’ caratteri felicemente espressi. Giambatista Luigi Gresset nato in Amiens nel 1709, e quivi morto a’ 16 di giugno del 1777 autore della graziosa novelletta le Vert-vert (dopo aver dato al teatro Sidney scritto con eleganza ma che non ebbe compiuta riuscita, per esserne il soggetto lontano dal tempo presente e dal costume francese) pubblicò il Mechant buona commedia rappresentata nel 1740 con molto applauso. Vi si dipinge un Malvagio pieno di spirito, di cui veggonsi nelle società culte molti originali, che sotto di un esteriore polito nascondono un cuore il più nero e la più raffinata empietà. Il Voltaire nel Pauvre Diable poco bene affetto a Gresset pretende che alle di lui commedie manchi azione, interesse, piacevolezza e la necessaria dipintura de’ costumi correnti. Convenendo col sommo {p. 148}critico per la mancanza di piacevolezza ed in certo modo anche di azione, parmi di non potersi negare alla commedia del Mechant il merito di un vivace colorito ne’ caratteri, della buona versificazione e di uno stile elegante e salso. Ecco il carattere del protagonista preventivamente da Lisetta a gran tratti enunciato:

S’il n’avoit de mauvais que le fiel qu’il distile,
Ce seroit peu de chose, et tous les medisans
Ne nuisent pas beaucoup chez les honnètes-gens;
Je parle de ce goût de troubler, de detruire,
Du talent de brouiller, et du plaisir de nuire,
Semer l’aigreur, la haine, et la division,
Faire du mal enfin; voila votre Cleon.

Degne di essere singolarmente notate mi sembrano le seguenti scene: la terza dell’atto II piena di pitture naturali del {p. 149}gran mondo di Parigi; la settima dell’abboccamento di Valerio con Cleone; la nona dell’atto III che contiene un giuoco di teatro, in cui Cleone sottovoce ora anima Valerio a farsi credere uno stordito, ora fa notare a Geronte le di lui sciocchezze ed impertinenze; mentre che Valerio adopra tutta l’industria per riuscire a screditar se stesso; e Geronte s’impazienta, freme, si pente e risolve di rompere ogni trattato. Tralle scene bene scritte dee contarsi la quarta dell’atto IV in cui Aristo (personaggio virtuoso copiato dal Cleante del Tartuffo) volendo distaccar Valerio dall’amicizia di Cleone entra a dipingere i malvagi culti che si arrogano il diritto di dare il tono negli spettacoli, e quei che prendono l’aria beffarda, e quelli che affettano di parer gravi e laconici. Questa scena termina con una osservazione vera e gloriosa per l’umanità. Valerio temendo di comparir singolare per troppa bontà asserisce che tutti sono malvagi sulla terra; e Aristo distrugge {p. 150}questa opinione ingiuriosa al generè umano con una risposta notabile, la quale soffriranno di veder quì tradotta certi meschini ingegni non meno di Valerio ridicoli, i quali volendo passar per uomini di mondo escludono ogni probità dalla terra:

Sono tutti malvagi? È ver son tali
Certi perversi cuor che ognun detesta:
Tale è la calca, è ver, d’uomini falsi,
Di spregevoli donne, di buffoni,
Spiriti bassi, spiriti gelosi,
Senza onestà, senza principi, senza
Costume meritevole di stima;
Gente infingevol che a se stessa rende
Giustizia disprezzandosi a vicenda.
Ma questa detestabile genìa
Priva d’onor, di scrupolo e di freno
Ricoprir di ridicolo e di scorno
{p. 151}
Procura invan l’altrui boutà di cuore.
Per dissipar tal nebbia, e mostrar chiaro
Che per natura non è l’uom proclive
Alla malvagità, prender potete
Per giudice e ascoltar come un oracolo
Il popolo raccolto in un teatro.
Quivi quando alcun tratto si dipigne
Di candor, di bontà, dove trionfi
E del proprio splendor tutta sfavilli
L’umanità benefica e gentile,
Di pura voluttà s’empie ogni cuore,
Quivi s’intende di natura il grido.

L’ultima scena dell’atto IV contiene lo stesso artifizio usato da Elmira nel Tartuffo, benchè la copia venga dall’originale sorpassata per vivacità e maestria. Lo scioglimento del Mèchant avviene senza sforzo per mezzo di una lettera del medesimo Cleone. Dee {p. 152}però notarsi in questa bella dipintura che il malvagio è troppo abbellito dallo spirito che gli presta il poeta per renderlo simile agli originali francesi e a’ malvagi che brillano nelle società polite. Forse non inutilmente, perchè divenga più comico e più spregevole, poteva sulla malvagità caricarsi la tinta dando a Cleone un poco più di ridicolo e meno di politezza e d’ingegno. Ardisco dir ciò a mezza bocca, perchè rifletto dall’altro canto che con maggior buffoneria il carattere potrebbe guastarsi. In fatti il Mèchant com’è dipinto in tal commedia, trova in quella nazione ed in altre ancora una folla di malvagi di società che gli rassomigliano. E che sia ciò vero, odasi ciò che disse di tal commedia colla solita ingenuità l’eloquente filosofo Gian Giacomo Rousseau. Quando si rappresentò la commedia del Malvagio, non parve che il principal personaggio corrispondesse al titolo. Cleone sembrò un uomo ordinario; egli era, dicevasi, come tutti gli altri. Questo {p. 153}abominevole scellerato, il cui carattere cosi bene espresso avrebbe dovuto far fremere sopra loro stessi tutti quelli che hanno la disgrazia di rassomigliargli, si credette un carattere mal colpito, e le sue nere perfidie passarono per galanterie, imperciocchè tale che tenevasi per molto onesto uomo, vi si riconosceva tratto per tratto.

Allorchè venne alla luce si disse, che’ il Mèchant conteneva eccellenti versi di satira più che di commedia; ma la satira è tanto aliena dalla commedia? Più giustamente s’imputa all’autore l’aver dato a’ personaggi il proprio spirito in vece di farli parlare giusta i costumi e le condizioni, nel che segnalaronsi Moliere e Machiavelli. Scrisse parimenti il Gresset altre due commedie inedite perdute, o dall’autore stesso soppresse, cioè il Secreto della commedia da lui letta a’ suoi amici, ed il Mondo com’è, di cui solo si conosce il titolo.

Il sig. di Voltaire oltre alle riferite commedie tenere, altre ne produsse {p. 154}nel genere puramente comico. Compose in versi alessandrini l’Indiscreto commedia più dilicata del Chiacchierone del Goldoni, ma priva di azione. Scrisse ne’ medesimi versi la Donna ragionevole uscita nel 1758, la quale può dirsi una galleria di bei ritratti; ma v’introdusse m. Durn che poco verisimilmente si trattiene molto tempo sconosciuto nella propria casa. Pubblicò nel 1762 in versi di dieci sillabe ottimi per la commedia il Dritto del Barone interessante pel carattere di Acanta, ma tessuta di avventure romanzesche-sforzate. La Bacchettona ovvero la Conservatrice della Cassetta tratta da una favola inglese è parimente scritta in versi di dieci sillabe. Si vede in essa dipinta una falsa virtuosa contrapposta ad una sua cugina amante de’ piaceri, ma ingenua e di buon cuore, come anche ad un uomo candido, il quale giudica bene della prima, e male della seconda per prevenzione fondata sulle apparenze, che però al fine si disinganna a stento per {p. 155}opera di una fanciulla che si occulta sotto spoglie virili. L’istesso illustre scrittore compose eziandio la Contessa di Gibri, e la Principessa di Navarra commedia balletto ec.

Luigi di Boussy nato nel 1694 e morto nel 1758 compose intorno a trenta commedie fredde per lo più, ed inferiori a quelle del suo contemporaneo Des Touches, benchè l’autore abbondasse di talento. «Mancavagli (dice Palissot) la profonda conoscenza del cuore umano, quella del mondo, e dell’arte comica… Mai non possedè (soggiugne) il talento del buon dialogo drammatico fondato nell’imitazione fedele del miglior genere di conversazione.» Delle commedie del Boussy sono rimaste al teatro le Apparenze ingannevoli, il Chiacchierone, ed il Francese a Londra, le quali hanno un merito superiore alle altre, e si sono per lungo tempo ripetute con certo applauso.

Pietro Marivaux nato in Parigi nel 1688 e morto nel 1765 scrisse romanzi {p. 156}e commedie. Egli non pareggiò i contemporanei, ma ebbe certo modo di ridicolizzare a lui proprio, che gli fe un nome. Dotato di spirito e d’ingegno mancava di naturalezza nello stile, e gli noceva singolarmente certo parlar gergone a se particolare. Voltaire diceva di lui che conosceva tutte le vie del cuore, fuorchè la via reale, o maestra. Le sue opere sono state tradotte in Allemagna. Qualcheduna meritava che si conoscesse. Del resto senza pregiudizio di qualche merito del Marivaux, nulla prova, una traduzione di un’ opera infelice fuori del paese nativo, se non che l’analogia di meschinità tra l’autore, ed il traduttore. Possiamo chiamare il capo d’opera di questo autore la commedia les Fausses Confidences, che ha un piano romanzesco, ma un colorito pieno d’arte. Il dialogo contro il solito delle altre sue commedie è naturale, e la piacevolezza si trova in essa congiunta all’interesse. Questa commedia si è di nuovo rappresentata in Parigi nel 1793.

{p. 157}Antonio Bret nato nel 1717 scrittore della Vita di Ninon l’Enclos si esercitò pure nel genere comico. La Doppia stravaganza sua commedia d’intrigo è rimasta al teatro francese. Tratto poi dall’esempio abbandonò il sentiero della commedia piacevole, e si rivolse al genere serioso, e tutto di lui si dimenticò ben presto, fuorchè il Falso Generoso, in cui mostrò di saper maneggiare questo genere difettoso senza cadere ne’ soliti eccessi. La sua versificazione però richiedeva maggior diligenza.

Claudio Errico Voisenon scrittore ingegnoso che vedeva con pena il teatro francese allontanato dalle tracce di Moliere, compose il Ritorno dell’ombra di Moliere buona commedia recitata con ottima riuscita, indi i Matrimoni uguali, e la Civettuola (coquette) fissata lodate da’ nazionali, e dagli esteri ragionevoli. La dipintura di una cochetta esige sagacità per ricavare dal fondo del cuore umano, e da’ costumi correnti, e dalla {p. 158}conversazione i veri tratti comici che ad essa appartengono; pregi che non si negano al Voisenon. Anche il commediante la Noue autore del Maometto II riuscì in tal carattere nella sua Cochetta corretta. Spiritoso e giudizioso è l’avviso che in essa si dà a chi crede aver motivo di querelarsi della leggerezza donnesca:

Le bruit est pour le fat, la plainte pour le sot,
L’honnéte homme trompè s’èloigne et ne dit mot.

Il parigino Saurin che si esercitò in diverso specie di poesia scenica, che riuscì competentemente con Spartaco, e più con Beverlei, compose anche alcune commedie. I Rivali, e l’Orfana lasciata in legato non riscossero applauso. Il Matrimonio di Giulia non si recitò, perchè i commedianti la ricusarono, forse più per capriccio, o per piccioli interessi a noi ignoti, che per debolezza del componimento, e per mancanza di piacevolezza. L’Anglomano ritratto bene espresso {p. 159}si accolse con applauso. Singolarmente la picciola commedia in prosa i Costumi correnti piacque e riscosse gli encomii del Voltaire.

Appartiene l’Addio del Gusto commedia molto applaudita dal pubblico al parigino Claudio Pietro Patu nato nel 1726, e morto immaturamente nel 1757. Egli tradusse ancora alcune farse del teatro inglese, e le pubblicò in Parigi in due volumetti colla data di Londra del 1756. Non è priva di piacevolezza nè di brio l’Impertinente di Desmahys nato nel 1761. La Madre gelosa commedia in tre atti, ed in versi di m. Barthe dell’Accademia di Marsiglia, si rappresentò nel 1771, e s’impresse l’anno seguente. Vi si disviluppa bellamente il carattere delle madri che vedono con gelosia il merito nascente delle figliuole, e si studiano di tenerle lontane dalla conversazione, temendo che ne rimanga la loro vanità ecclissata. L’Inglese a Bordò di m. Favart si compose dopo la guerra della Francia coll’ {p. 160}Inghilterra, che fu la penultima del XVIII prima delle novità della prima, e riuscì sulla scena.

Per varii spettacoli scenici lavorò Germano Francesco Saint-Foix, scrivendo in prosa alcune picciole farse graziose in un atto notabili per la gentilezza che vi regna. Di questo genere sono le seguenti: l’Oracolo impressa nel 1740, in cui intervengono tre personaggi, cioè una Fata, Alcindoro di lei figlio e Lucinda, il cui carattere è un tessuto leggiadro di vezzi: le Grazie rappresentata nel 1744, ed impressa nel seguente anno, il cui soggetto si trasse dall’ode III di Anacreonte di Amore immollato dalla pioggia, e dalla XXX dell’istesso. Amore annodato con una catena di fiori dalle Muse secondo l’istesso Greco, o dalle Grazie secondo la vaga cantata del Metastasio recitata in Vienna nel 1735: gli Uomini vivace azione drammatica allegorica rappresentata nel 1753, in cui intervengono Mercurio, Prometeo, la Follia e le Statue animate dal fuoco {p. 161}celeste, le quali formano alcuni pantomimi allusivi ai caratteri, e alle passioni degli uomini. In questa favoletta si accenna, che il modo di rendere gli uomini meno colpevoli, non è già la sterile uguaglianza de’ beni che gli addormenterebbe, ma l’attività dell’amor proprio che rende operose e vivaci le loro passioni, e fa nascere tutto il mondo civile, leggi, onori, divisioni d’ordini, povertà, ricchezza. De l’indigence (vi si dice)naîtra l’industrie; l’industrie sera la mère des arts, des Sciences, du commerce; on batira des villes, dans des villes de’ superbes palais; la mere se couvrira des vaisseaux ec., le quali sagge idee di Aristofane ebbero luogo in una delle sue commedie, e furono quindi nobilitate dalla natural grazia e leggiadria del gran Metastasio nell’Astrea placata.

Carlo de Montenoy Palissot nato in Nansi l’anno 1730 autore della Dunciade francese compose due drammi comici. L’avversione al mal gusto letterario gl’inspirò il nominato poema {p. 162}satirico ad imitazione di quello di Pope; e l’abborrimento conceputo contro i suoi compatriotti, che davano il nome di filosofia ai loro capricciosi sistemi, gli dettò le commedie les Philosophes, e l’Homme dangereux. Nella prima rappresentata nel 1760 con amarezza e libertà aristofanesca motteggiò su i moderni filosofi francesi, servendo al piano delle Letterate di Moliere. L’oggetto fu lodevole, ma non perciò questa composizione fu tenuta per una delle buone commedie. Nella satira le Russe à Paris Voltaire lanciò alcuni amari motteggi su di essa. Palissot avea introdotto insipidamente Gian Giacomo Rousseau che cammina come le bestie carpone mangiando dell’erbe. Voltaire quindi deduce la decadenza del teatro francese:

Vous parlez de Moliere? oh! son règne est passè…
Nous avons les remparts, nous avons Ramponeau,
Au lieu du Misantrope, on voit Jacques Rousseau,
{p. 163}
Qui marcant sur ses mains, et mangeant sa laitue
Donne un plaisir bien noble au public qui le hue.

Nell’Homme dangereux impressa e non rappresentata Palissot vibrò pure contro i filosofi le più acerbe punture comiche. Il Valerio di quest’altra è una imitazione del Cleante del Tartuffo, e dell’Aristo del Mechant. Per tali favole veramente la poesia comica nulla ha guadagnato; benchè l’intenzione dell’autore fu di manifestar le conseguenze perniciose delle nuove massime de’ filosofi di ultima moda, per li quali non esiste nè legge nè virtù veruna. Serva di saggio l’ironico frammento che ne soggiungo tradotto. Il secolo (dice Dorante filosofo moderno)ha fatti tanti progressi che può oramai ridersi dell’odio e dell’invidia. Valerio risponde:

E chi può dubitarne? E quando mai
Vide la Francia tanti varii ingegni,
{p. 164}
Opre più vaghe, più puri costumi?
La nobil gioventù fu mai più saggia?
Seppe usar meglio delle sue richezze?
Ebbe mai miglior gusto? In altri tempi
Delle belle fe mai scelta più degna?
Ma soprattutto delle nostre donne
L’onor sicuro, la non dubbia fede
Con tal ragion si può vantar, che vinto
Dal rispetto, di lor più non favello.
I nostri dotti poi stupido ammiro.
La lor filosofia di quai non sparse
Delizie e fiori il viver de’ mortali?
Grazie alle lor fatiche al fin del peso
De’ vecchi pregiudizii e de’ doveri
Scarchi respiriamo. Abbonda solo
Di giolivi pedanti ogni adunanza:
Sulle orme lor nelle festive cene
Ragionar sanno ancor gli appaltatori:
Son di decenza esempio i nostri abbati:
{p. 165}
Di studio e di saviezza i curiali.
Non si può far di più, con voi convengo.
Meraviglioso in tutto è il secol nostro.

M. Dorat noto poeta morto nel 1780 di anni quarantasei coltivò anche la poesia drammatica per avventura poco propria de’ suoi talenti. Cominciò nel 1760 con Zulica, e Teagene tragedie di niuna riuscita. Fu un poco più felice il Regolo nel 1773, in cui imitò l’Attilio Regolo del Metastasio, e in ricompensa il censurò; al qual lavoro volendo noi mostrarci grati abbiamo mentovata la sua tragedia, perchè se ne conservi almeno il titolo. Sofferse il pubblico nel 1774 l’Adelaide. Mal ricevuto fu Pietro il Grande rappresentato nel 1779. Lasciò anche Zoramide altra sua tragedia non rappresentata. Quanto al genere comico troviamo che nel 1772 imitò il Desdèn con el desdèn di Agostino Moreto nella commedia Fingere per amore titolo infelice che non rileva pnnto lo spirito {p. 166}dell’argomento spagnuolo. Il Celibatario, la Rosalba, i Cavalieri Francesi, lo Sfortunato immaginario ebbero per qualche tempo felice riuscita sulle scene. L’ultima commedia che produsse fu Merlino bello spirito, nella quale punse gli autori drammatici suoi avversarii.

Monvel, Imbert, Cailhava ed altri lavorarono per la commedia per quanto poterono senza farla risorgere. Chabanon tralle sue poesie ha pubblicate due commedie lo Spirito di partito ovvero i Contrasti alla moda, ed il Falso nobile; ma neppure esse, benchè prendano a ridicolizzare certe debolezze correnti, diedero molta speranza nella decadenza che regnava. Rosalina e Floricourt, ovvero i Capricci commedia in tre atti ed in versi rappresentata in Parigi nel 1787, manifesta la mano di un giovane che potrebbe andar più oltre. La Contessa di Genlis compose due Teatri, l’uno per l’educazione della gioventù, e l’altro di società, ne’ quali si pregiano {p. 167}singolarmente la Buona Madre, la Rosiera, le Generose Nemiche, il Magistrato. Il sig. Pieyre colla Scuola de’ Padri in versi di cinque atti recitata in Parigi nel 1787 poteva animare la gioventù a ricalcare le orme della buona commedia e a ricondurre in Francia il socco festevole di Moliere.

Videro il ridicolo de’ semidotti che affettavano di darsi la riputazione di fisici e di chimici ignorando gli elementi primi di tali scienze, alcuni autori, e tentarono di rilevarlo comicamente. La Fisica in un atto è una imitazione debole per altro delle Letterate di Moliere. In essa una donna d’altro non vuol parlare che di magnetismo, di gas, di elettricità, di palloui volanti. Non fu migliore imitazione delle medesime Letterate la commedia intitolata le Riputazioni in versi in cinque atti rappresentata in Parigi nel 1788. Madama di Gouge scrisse in prosa una commedia enunciata da’ gazzettieri col titolo di episodica Moliere in casa di Ninon, che {p. 168}s’ impresse nel medesimo anno, nella quale intervengono le persone più distinte del secolo di Luigi XIV. La Giovane sposa del sig. di Cubieres in tre atti in versi si lodò per la morale e per la buona dipintura de’ caratteri nel giornale di Buglione; ma non si replicò. La Morte di Moliere anche in versi ed in tre atti altro non produsse che rinnovare il dolore della perdita di quell’ingegno raro. Il Matrimonio segreto di tre atti si tollerò in grazia de’ buoni attori.

Collin d’Harleville giovane ancora produsse ne’ tempi della Repubblica l’Ottimista, ossia l’Uomo contento di tutto, in cui prese a rilevare il ridicolo ove mena l’abuso della massima Leibniziana, tutto è bene. La migliore delle sue commedie e forse di quante se ne composero negli ultimi anni del secolo XVIII, è l’Ècole des jeunes femmes, o les Moeurs du jour. Scritta in istile puro ed elegante senza smentirsi mai, versificata felicemente, piena di tratti piccanti, fini, {p. 169}dilicati, riuscì compiutamente allorchè si rappresentò nel Teatro della Repubblica. Si desidera non pertanto in essa più interesse; e si osserva che il vizio fondamentale è nel carattere della giovanetta che, secondochè si espresse l’autore, servir dovea di norma e modello alle fanciulle che le rassomigliano.

Appartiene al cittadino Rigault la commedia intitolata i Due Poeti in tre atti ed in versi. Madama Armand che affetta bello spirito e letteratura, accoglie in casa varii letterati. Le sue adunanze sembrano al di lei marito ridicole. Ella s’intalenta di dare in matrimonio sua figlia ad un poetastro di madrigali sciocco e vano; mentre il marito disegna di concederla ad un altro poeta più meritevole, e dell’avviso del padre è la giovinetta contesa. I contrasti che ne risultano, determinano il sig. Armand a proporre alla moglie un partito di rimetterne la risoluzione e la scelta all’evento di due componimenti novelli appartenenti ai due rivali, e si stabilisce che l’autore {p. 170}di quello che sarà ben ricevuto dal pubblico, sarà lo sposo della loro figliuola. Con tal convenzione vanno al teatro. Floricourt poetastro protetto da Madama è fischiato. Dami suo rivale riscuote gli applausi degli spettatori. Con tutto ciò la donna riconvenuta di stare al patto ricusa e nega di consentire alle nozze della figliuola con Dami. Ma il marito per abbattere l’ostinazione della moglie, cava di tasca un manoscritto delle poesie di Floricourt, fralle quali si legge una satira fatta contro della stessa Madama Armand, la quale convinta della pessima sua scelta, fa scacciare il poetastro, e permette che Dami sposi la figliuola. Questo componimento manca totalmente di azione, di situazioni che chiamino l’attenzione, e di vivacità comica. In sostanza è un tessuto di tediosi dialoghi, ed un insipido riscaldamento delle Donne Letterate di Moliere, e della Metromania di Piron.

Non vogliono obbliarsi varii altri poeti comici degli ultimi anni del {p. 171}secolo XVIII, e de’ primi del XIX, i quali godettero, o godono tuttavia qualche nome. Fabro d’Eglantine morto nel 1800 si tenne per commediograso stimabile. Se ne commenda la commedia intitolata il Filinto di Moliere, e l’Arancio di Malta suo postumo lavoro che gli era stato involato.

J. N. Boully riuscì pienamente in Francia ed altrove colla commedia detta istorica intitolata l’Abbè de l’Epèe in cinque atti scritta in prosa. L’Abate de l’Epèe in fatti si stimò un tempo un personaggio istorico di cara memoria a’ Francesi, che istituì in Parigi un pietoso asilo per la parte più infelice degli uomini, cioè una scuola, pe’ sordi e muti. Quivi per segni convenuti si fanno rientrare ne’ diritti e nelle cognizioni del resto della società quegli sventurati privi di due sensi necessarii per comunicare gli oggetti esteriori all’immaginazione. Oggi sempre più fiorisce quella scuola dell’Abate de l’Epèe, e vi si contano molti che si sono innoltrati nelle matematiche e nelle altre {p. 172}scienze e nelle storie e nell’erudizione e nelle belle arti. Boully introduce nella sua favola un muto e sordo cui l’abate pone il nome di Teodoro, di cui si dice che otto anni prima era stato da un perfido suo zio e tutore trasportato in quella gran città da Tolosa, e colà vestito di rustici panni abbandonato, con far correre voce di esser morto, onde potè usurpare col braccio della magistratura i beni appartenenti al Conte di Haraucourt. Raccolto questo fanciullo che mostrava di contar nove o dieci anni di vita fu condotto alla scuola dell’Abate. Quest’uomo penetrante scorse negli sguardi di lui certa fierezza, e certa sorpresa di vedersi involto in panni rozzi; e ne argomentò di essere stato così trasformato a bella posta e smarrito. Ne diede perciò contezza ne’ pubblici fogli benchè senza riuscita. L’indole e là penetrazione che giva sviluppandosi nel fanciullo, l’affezionò a lui, e si studiò al possibile di coltivarlo talmente che a capo di tre anni aperse l’anima a varie cognizioni. Passeggiando un giorno {p. 173}l’istitutore della scuola e l’allievo davanti al palazzo della giustizia al vedere il fanciullo discendere dalla vettura un magistrato, mostrò grande agitazione. Domandato per segni, perchè mai si era così commosso, rispose che un uomo abbigliato in quella guisa soleva stringerlo affettuosamente fralle braccia e bagnarlo di lagrime. Trasse l’Abate da ciò indizio che potesse essere figlio o parente prossimo di qualche magistrato. Vide un altro giorno che passando l’esequie di una persona di qualità, Teodoro si alterò a misura che l’accompagnamento si avanzava; e co’ segni espresse che poco tempo prima di esser condotto a Parigi anch’egli piangendo avea seguito con simile accompagnamento in veste nera e con capegli sparsi la cassa del cadavere di quel magistrato che l’accarezzava. Ricavò quindi l’Abate che il suo allievo esser dovea orfanello erede di grandi beni probabilmente usurpati da qualche ingordo parente. Ciò che restava di più importante era {p. 174}l’indovinare la patria di quell’infelice. Gli domandò se si sovveniva del luogo dove la prima volta si trovò in Parigi. Egli disse di Averlo presente; e fatto con l’Abate il giro delle sbarre di Parigi, s’imbattè in quella, in cui vennero, a visitare la vettura nella quale egli sedeva con due persone che l’accompagnavano, delle quali perfettamente si ricordava. Argomentò dal luogo l’Abate che egli era venuto pel cammino di mezzogiorno, e domandando quanto tempo avea posto nel viaggio, disse Teodoro, che vi aveano spese molte notti, cambiando d’ora in ora i ’cavalli. Si assicurò con ciò che era venuto da una delle principali città della Francia. Per indovinare donde effettivamente era venuto, si determinò a caminare a piedi, e scorse diverse città, senza che Teodoro mostrasse di essere mai stato in esse, pervennero a Tolosa. Teodoro tosto la riconosce per quella donde era partito. Al ogni passo si anima, si scuote, gli occhi si riempiono di lagrime. Accenna di aver trovata la patria. Giungono {p. 175}in faccia al gran palazzo che è dirimpetto alla casa di un avvocato. Teodoro si abbandona sulle braccia dell’Abate, e gli addita la magione de’ suoi genitori. Dagl’informi presi ricava l’Abate esser quella la dimora de’ Conti di Haraucourt, de’ quali Teodoro è l’unico rampollo, e trovarsi oggi tutti i beni di tal famiglia in potere di un signor Darlemont zio materno, e tutore di Teodoro, il cui nome era Giulio; essendosene posto in possesso presentando un certificato della morte del legittimo erede. L’Abate ricorre al migliore avvocato di Tolosa, per cui mezzo vien confuso l’usurpatore, e costretto da più testimoni, e dal medesimo suo figlio, a cui Giulio avea salvata la vita. Giulio nobile quanto assennato divide col caro suo cugino ed amico l’eredità. Interessa quest’azione, o che istorica sia, o verisimilmente inventata; e l’evento felice la fa tuttavia conservare tralle applaudite commedie di questi ultimi tempi.

Alessandro Duval attore debolissimo {p. 176}ha date al teatro francese varie commedie bene accolte e ripetute. Gli appartengono: i Tutori vendicati in versi in tre atti, il Prigioniero, il Lovelace Francese, ossia la Giovanezza di Richelieu.

Tralle commedie pubblicate nel corso della Repubblica Francese, e chiamate Repubblicane, si contano le Brigand par amour, Crevecoeur, e le Mariage du Capucin di Volmerange, il quale, al dir di Piniere autore della satira le Siecle, pare che fosse tutto occupato a stomacare gli ascoltatori, e a rivoltare incessantemente la natura. Il Convalescente di qualità è una fredda dipintura delle affettate grandezze di quelli che si credono per esse farsi tener per nobili. Le Vittime claustrali mettono alla vista con tutta la mordacità ed asprezza le vere dolorose istorie de’ rigori inumani, e delle atrocità che si commettevano non di rado nell’interno delle case religiose da i despoti superiori.

Sono rimaste per qualche tempo al {p. 177}teatro francese le seguenti commedie: il Giudice benefico del sig. Puysegur, i Parlatori del Degligny attore ed autore imitati da una commedia di Collin d’Harleville, il Medico de’ Pazzi del sig. di Mimault, in cui si trova qualche imitazione del Ritorno inaspettato di Regnard, i Viaggiatori di Carlomagno, i Parenti di Dorvo. Contansi tra’ componimenti teatrali di Guilleman alcune commedie. Egli ne scrisse intorno a 360 per sostentare la sua famiglia. Possedendo undici lingue, e scrivendo tanto pel teatro, visse stentatamente, e morì mancando del necessario nel 1800.

Luigi Benedetto Picard nato in Parigi nel 1769, merita in preferenza di esser rammentato tra’ buoni compositori di commedie, e come attore, e capo di compagnia. In qualità di capo egli anima e governa i Societarii dell’Odeon di Parigi che prima passarono al teatro Feydeau, indi a quello di Louvois, e somministra loro tuttavia un buon numero di componimenti. {p. 178}Come attore nelle proprie favole rappresenta felicemente alcuni caratteri originali tratti al vivo dalla società; ma avea cominciato a rappresentar le parti de’ Crispini negli antichi repertorii. Come autore però a mio avviso egli primeggia tra gli ultimi autori comici, ed oscura i viventi. Studiando il mondo, e ritraendo la natura, egli ha appreso a ben dipingere, ed a variare gajamente i soggetti, ond’è ch’è stato denominato il Dancourt de’ giorni suoi. Varie commedie se ne applaudiscono, e si ripetono. Io ne conosco le seguenti: il Collaterale, in cui ad onta di qualche circostanza poco verisimile, da taluni si commenda quanto ogni buona commedia del mentovato Dancourt a cagione di più d’una situazione comica, della condotta facile ed ingegnosa, di alcune scene nuove e piacevoli, e del dialogo vivace e naturale; il Viaggio interrotto; il Presuntuoso; i Tre Mariti; la picciola Città; i Provinciali in Parigi; M. Musard; l’Ingresso nel Mondo da me tradotta {p. 179}e pubblicata l’anno 1804 in Venezia nell’Anno Teatrale; e les Tracassairies, o Monsieur et Madame de Tatillon pure da me tradotta cangiando il titolo in quest’altro I Pettegolezzi impertinenti, ovvero I Tatilloni intriganti.

III.

Commedia Italiana in Francia. §

Congedata l’antica Compagnia non vi fu più commedia italiana per lo spazio di anni diciannove, cioè sino al 1716, quando il Duca d’Orleans regente v’invitò la Compagnia di Lelio e Flaminia nomi teatrali presi da Luigi Riccoboni romano, e dalla sua consorte Agata Calderini, come la chiama l’abate Quadrioa. Questi {p. 180}nuovi attori detti prima commedianti di S. A., e poi del Re nel 1723 ottennero una pensione di 15000 lire. Rappresentarono ne’ primi anni componimenti stravaganti e buffoneschi per servire all’Arlecchino, ed il teatro rimase ben presto spopolato. Ripeterono indi i componimenti francesi de’ loro predecessori; ma non ritornando nel lor teatro il concorso, pensarono ad abbandonar Parigi. Il pubblico però benchè non pago delle loro favole compiacevasi della buona condotta, dell’urbanità, e del rispetto che essi mostravano per la nazione, e con pena gli vedeva partire. Ciò mosse alcuni Francesi a comporre per essi qualche favola nella propria favella, in cui cercarono di unire la ragione e la novità alle grazie dell’Arlecchino; e quindi nacque un genere di commedia che partecipava. della francese, e dell’italiana istrionica. In tal genere si distinsero tra’ Francesi Autreau, le Grand, Fuselier, Boussy, Marivaux, e singolarmente Sant-Foix, e poi l’attore

{p. 181}Favart, e l’abate Voisenon. Tra gl’Italiani della stessa compagnia ne compose anche il lodato Riccoboni che si stimò il Roscio Italiano di que’ tempi pregiato sommamente da Pier Jacopo Martelli, dal marchese Scipione Maffei, e dall’abate Conti, non meno che da varii leterati Francesi che frequentavano la di lui casa, e scrisse della tragedia e della commedia con molta erudizione e giudizio; come pure la di lui moglie che componeva assai bene in italiano, intendeva il latino, ed alcun poco il greco, e sapeva a fondo la poesia drammatica, e tralle altre sue opere scrisse alcune commedie, ed una dissertazione sulla declamazione teatrale che ella stessa egregiamente eseguiva, e singolarmente allorchè rappresentò ne’ nostri teatri la parte di Merope nella tragedia del Maffei. Nella medesima compagnia si segnalò con qualche commedia Romagnesi, e Colato morto nel 1778 che rappresentava da pantalone, a cui appartengono il Mostro Marino, gl’Intrighi d’Arlecchino, i Tre Gemelli {p. 182}Veneziani, da me ascoltata nel dicembre del 1777 in Mompelier, e della celebre attrice Carolina, i quali da molti anni si erano ritirati dal teatro. Al mentovato Romagnesi, o che m’inganno, parmi che appartenga la commedia intitolata le Arti e l’Amicizia in un atto recitata nel 1788, di cui per altro qualche giornalista giudicò che non era nè naturale, nè edificante, benchè condotta con interesse e semplicità.

La maniera di rappresentare di quegl’Italiani diede motivo agli scrittori Francesi di rimproverare a’ commedianti nazionali l’affettazione e la durezza. «Io preferisco (dicesi nel libro l’Anno 2440) quest’Italiani a’ vostri insipidi commedianti Francesi, perchè questi stranieri rappresentano più naturalmente, e perciò con maggior grazia, e perchè servono il pubblico con più attenzione» . Diderot diceva ancora. «I nostri commedianti Italiani rappresentano con più franchezza de’ Francesi. Nel loro gestire apparisce certo non so che di originale e di facile che mi {p. 183}diletta, e diletterebbe ognuno se non venisse sfigurato dal loro dialogo insipido, e dall’intreccio assurdo» . Da ciò si scorge, che la bella declamazione naturale del celebre discepolo di Moliere Michele Baron nato net 1653, e morto nel 1729, e della mirabile attrice Adriana Le Couvreur, sia andata degenerando. In fatti il signor Eximeno nel suo libro Origine e progressi della Musica, afferma che i commedianti (Francesi)pajono energumeni, che ad ogni atteggiamento vogliono staccar le braccia dal corpo, ed esprimono un affetto di pena colle contorsioni, con cui potrebbe un ammalato esprimere un dolor colico. Non so se il sign. Eximeno sia stato testimonio oculare di ciò che asserisce, ma ben lo fu il nostro Pier Jacopo Martelli. Ecco come egli ne ragiona con conoscimento nel dialogo sopra la tragedia antica e moderna nella sessione VI: Osservo ne’ Francesi piuttosto un poeta il quale recita le sue poesie, che un attore che {p. 184}esagera le sue passioni, mentre non solamente essi alzano in armonioso tuono le voci ne’ grandi affari, ma ne’ bei passi, e nell’enfasi de’ gran sentimenti; di modo che par che non solo essi vogliano rilevare la verità dell’affetto naturalmente imitato, ma anche l’artificio e l’ingegno dello scrittore tragico. Imperdonabile è veramente tal difetto a un attore, non dovendo egli pensare nè a se stesso, nè al poeta, nè allo spettatore, ma unicamente all’affetto che esprime, e al personaggio che imita. Parlano (segue il Martelli)gli attori francesi a voce bassa borbottando quando compariscono dal fondo della scena, e declamano più sonoramente quando si accostano al proscenio. Senza tale affettazione parlando essi secondo che esige la natura del dialogo stesso, le parole profferite con vivacità conveniente giungeranno meno sonore dal fondo della scena, e più spiccate a misura che l’attore si avvicini; l’arte che non sappia combinare il {p. 185}comodo di chi ascolta colla verità del dialogo, è la madrigna della natura. Si situano, aggiugne l’istesso Martelli)mostrando il profilo all’uditorio, e la voce va in un angolo del teatro. È un infelice attore colui che ignora l’arte di accomodarsi alla convenienza richiesta nel favellar con gli altri, alla decenza teatrale ed al comodo di chi ascolta. Riprende in oltre il Martelli nel Bouhour il vizio frequente di voltar le spalle al compagno, e nel Quinault di lui imitatore censura il soverchio vibrar delle braccia. Si ride poscia del vestito ballerino che sogliono dare agli eroi antichi. Ecco Agamennone (ei dice) col cappello e colla parrucca francese sino al collare, dal collo poscia in giù in giubbone e in braghe dintornate di giojelli, ricamate di oro, ridevole, nè francese nè greco nè di nazione che si sappia finora scoperta nell’universo. Quando arriviamo alle gambe, eccolo divenir greco in un tratto, ecco-applicati alla calzetta di seta i {p. 186}tragici maestosi coturni, di modo che parmi appunto quella figura d’Orazio Humano capiti ec.a. Nonpertanto non parlano diversamente dell’affettazione degli attori i Francesi di questi tempi. «L’arte della declamazione (dice uno di essi ironicamente) si è fra noi innalzata ad un punto sublime. Una principessa irritata impiega tant’arte per esprimere il proprio furore convulsivo che lo spettatore giugne a temer per l’attrice.» «Un bel principe le risponde con un atteggiamento geometricamente misurato.» «Gli abiti, i popoli, le damigelle, le guardie e le macchine vi fanno tutta {p. 187} l’azione.» Il signor Clement nelle sue Osservazioni critiche sul poema della Declamazione teatrale di Dorat scrive ancora: «Io vorrei coperti di ridicolo i nostri attori ossessi, i quali caricano tutto, e non sanno parlare se non per convulsioni, e fanno patire chi gli ascolta per gli strani loro sforzi di voce e pel dilaceramento del loro petto.» Con tutto ciò la Francia ha avuti valorosi attori; e fra gli uomini si sono segnalati Du Fresne e le Kain morto in Parigi nel 1778, e tralle donne, dopo la lodata insigne Le-Couvreur, la Desaine, la Gossin, la Dumenil che tutte superava le campagne ed anche se stessa nella parte di Fedra e di Merope, e la meravigliosa Clairon, la quale trionfava singolarmente rappresentando Medea, nella cui figura volle farla dipingere la principessa d’Anhalt. Voltaire l’ha più volte encomiata, e le diresse anche un componimento poetico nel 1761. Nella mia dimora in Parigi l’anno 1800 e ne’ primi due mesi del 1801 fioriva nella declamazione l’ {p. 188}attuale attore tragico Talma, e dalla buona scuola di Du Gazon usciva La-Fond, che cominciò a farsi pregiare rappresentando nella Semiramide la parte d’Arsace, e nella Zaira quella d’Orosmane. La di lui riputazione è cresciuta con gli anni. Gl’intelligenti allora desideravano in lui minore azione di braccia. Il sublime non richiede veruna esagerazione della natura, e la passione perde l’effetto nell’azione caricata, e la tenerezza (ciò che in Francia si chiama sentiment) meglio si manifesta con un colorito vivace senza studio soverchio. Sovvienmi che allorchè La Fond cominciò a comparire in teatro i Francesi notarono in lui il difetto di prolongar troppo l’e muta. Io gl’intesi profferire gouufre per goufre, forse per esprimere colla pronunzia il significato di questa voce. Tralle donne che in quel tempo si ammiravano fioriva sopra tutto la Raucourt (venuta in Napoli nel luglio del 1809) nella tragedia. Nulla v’ha di più maestoso e grande allorchè {p. 189}rappresenta Semiramide. Il suo portamento nobile, il contegno maestoso, una declamazione grave senza esagerazione, concorrono in lei perchè rappresenti agregiamente una gran Regina. Discendendo però all’appassionato la sua voce diviene falsa e rincresce all’orecchio. Accanto a lei rappresentava la parte di Azema la Fleury che diede speranza di grandi progressi. Degli attori La Rive, Manhove ed altri simili, mi rimetto a quanto ne accennano Despazes nelle Quattro Satire, e Piniere nella sua Le Siècle. Quanto alle commedie, nella declamazione delle quali i Francesi spiccano ancor più che in quella delle tragedie, chiudono in se quanto v’è di perfetto nell’uno e nell’altro sesso, madamigella Contat ed il sig. Molè. In questo ora si osserverà la decadenza che porta una grande età, benchè non vi si Veggano tutti gli svantaggi che adducono gli anni; ed io lo vidi trionfar sulle scene rappresentando la parte del Filosofo maritato del sig. Des-Touches. {p. 190}Ma la valorosa attrice Contat presenta in se tutti i talenti che esige una perfetta rappresentazione. Delicatezza di espressione, sensibilità dignitosa, facilità di azione, continenza inimitabile nel presentarsi in iscena, grazia che tutte ne condisce le posizioni ed i caratteri che imita, facilità di dire, dolcezza di voce e di sguardi senza stento ed artificio ricercato; tutti in somma possiede i pregi che la rendono un’ attrice senza pari.

Per conchiudere ciò che alla commedia italiana si appartiene, uopo è accennare che ad essa verso la fine del passato secolo si trovò aggregata l’opera buffa che si cantava nella Fiera; e che sogliono rappresentarvisi opere italiane de’ nostri più celebri maestri, e pastorali, e commedie, balletti, e parodie francesi, recitate senza canto fuorchè nelle arie, e ne’ cori e finali e duetti. Azemia è una commedia romanzesca in tre atti con ariette che si recitò con applauso nel 1787. Confessano i Francesi di dovere le prime idee {p. 191}delle vere bellezze musicali di genere comico alla Serva Padrona dell’immortale nostro maestro napoletano Pergolese, la quale si cantò in Parigi sin dal 1753.

Alcuni scrittori francesi somministrarono eziandio opere musicali alla Compagnia comica Italiana di Parigi. Vi si segnalarono Favart, Saint-Foix, Boussy, Marivaux, Marmontel, Sedaine e Framary autore di Nannete et Lucas, e dell’Isola disabitata traduzione di quella di Metastasio che si animò colla musica dell’insigne nostro Sacchini nel 1775, come ancora della traduzione dell’Olimpiade recitata colla musica del medesimo esimio nostro maestro. Il sig. Mayeur nel 1789 diede una commedia istorica in tre atti con musica intitolata il Barone di Trenck. Ma di quanto altro concerne la musica vuolsi osservare il capitole seguente.

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CAPO VII [IV].

Teatro Lirico: Opera Comica: Vaudeville. §

I.

Opera Eroica. §

L’Opera francese fondata dal Lulli e dal Quinault, che tira dal fondo dell’immaginazione e dall’allegoria e dalle favole un ammasso di prodigi e di stravaganze, nel secolo XVIII non calcò miglior sentiero. Il palazzo del Sole, la Reggia di Plutone, divinità, fate, silfi, incantatori, apparenze, miracoli, trasformazioni, edifizi alzati e distrutti in un istante, anelli che rendono invisibili le persone che pur si vedono, pugnali vibrati nel seno altrui che ammazzano chi li vibra, uomini miracolosi dalla barba turchina, ed altre simili stranezze, sono i tesori del teatro lirico della Francia. Un certo {p. 193}sig. de Leyre passato in Italia dimenticossi di quanto facevasi nel proprio paese, e scriveva da Parma a Parigi che gl’incantamenti e le stravaganze dell’Arlecchino fra gl’Italiani alimentavano l’ignoranza e gli errori popolari. Egli non seppe osservare che le arlecchinate e pulcinellate italiane si hanno in conto di prette buffonerie ancor dalle contadine e fantesche, nè vi è pericolo che possano dentro le Alpi alimentar l’ignoranza. Al contrario chi fosse dell’umore di codesto Francese, ben potrebbe con maggior fondamento dubitare che simile disgrazia avvenisse in Francia per lo stile serio e grave che può accreditare appo gli incauti le loro rappresentazioni liriche ripiene delle stesse mostruosità che, a suo giudizio, alimentano l’ignoranza e gli errori popolari.

Reca in vero stupore che i migliori letterati, i Fontenelle, i Voltaire, i Batteux, i Marmontel, lungi dall’inspirare a’ compatriotti il saggio gusto dell’opera istorica di Stampiglia, di {p. 194}Zeno, di Metastasio, alcuni di loro si applicarono a comporre opere puramente mitologiche, ed altri presero di proposito a screditar l’opera istorica per sostener la miracolosa. Fontenelle fu autore di Teti e Peleo, Voltaire di Pandora, Marmontel di varie favole musicali alla francese. Le Batteuxa, e lo stesso Marmontelb dicevano che le rappresentazioni favolose sono la parte divina dell’epopea posta in ispettacolo. Ma i francesi, facendo un aforismo delle parole del Voltairec, non dicono che i numi della favola, gl’eroi invulnerabili, i mostri, le trasformazioni, e tutti gli abbellimenti convenevoli a’ Greci, a’ Romani ed agl’Italiani del XV e XVI secolo, sono proscritti in Francia sin anco nell’epopea? Perchè dunque con gusto {p. 195}contraddittorio ammenttono tutto questo nella poesia scenica, in cui parlano gli uomini, e non già un poeta che si figura ispirato, ed i prodigii si rendono incredibili perchè smentiti da’ sensi? Se questo sistema al loro credere non può avere la verità richiesta nell’epopea, l’avrà poi sulla scena? Ebbe dunque ragione m. Diderot allorchè declamò contro l’assurdità del teatro lirico francese, e deplorò l’ingegno di Quinault occupato in un genere cattivo. Egli però non fu solo a sugerire miglior sistema sull’esempio degl’Italiani. Fortunamente all’articolo sull’opera fornito nell’Enciclopedia dal Marmontel (il cui ragionamento per mille guise assurdo svilupperemo meglio altrove) se ne trova soggiunto un altro più degno della filosofia, che, se ben m’appongo, appartiene al celebre filosofo Ginevrino. In questo si dimostra che tosto che la musica apprese a dipingere e a parlare, disparvero gl’incanti e la mitologia, e le divinità vidersi bandite dalla scena allorchè {p. 196}essa imparò ad introdurvi gli uominia. {p. 197}Scrissero ne’ principii del secolo {p. 198}pelteatro lirico La Mothe, Danchet, Menesson, la Roque, Pellegrin sovente deriso, ma lodato pel suo Jeste, Fuselier e Cahusac morto nel 1764 autore di Calliroe, e Bernard che compose le Sorprese dell’amore, e Castore e Polluce una delle migliori opere francesi, posta in musica dal famoso Rameau.

Ma il teatro lirico, e la poesia scenica pastorale nulla in Francia ebbe di più vago, di più dilicato, di più interessante per le parole, e per la {p. 199}musica del Divin du village di Gian Giacomo Rousseau. «In Francia (disse m. Romillya) non si ha idea di un colorito più fresco, nè di un tono più acconcio di semplicità campestre. Quante e quante volte non si sono ripetute queste giolive canzoni, Tant qu’ à mon Colin j’ai sçu plaire, e Je vai revoir ma charmante maîtresse! Ecco quello che dee piacere in ogni tempo; ecco il linguaggio che giugne al cuore, perchè dal cuor parte.» Merita pure di mentovarsi la novità musicale degna dello spirito singolare di Rousseau provata in Lione felicemente col Pigmalione, e ripetuta in Parigi nel 1775 con tutto l’applauso. Per dare un saggio della declamazione teatrale, e della melopea de’ Greci, fe recitare quella sua favola senza che se ne cantassero le parole. La musica {p. 200}esprimeva a meraviglia gli affetti del personaggio, ne secondava i pensieri, i movimenti, ne dipingeva la situazione, ma riempiva soltanto gl’intervalli e le pause della declamazione. Molti pezzi di tal musica si composero dallo stesso Gian Giacomo, ed alcuni da m. Coignet. Il sig. Elmotte volle imitare il Pigmalione colla sua scena lirica le Lagrime di Galatea, la quale lontana dal suo originale, non lasciò tal volta di commuovere.

In tal periodo del XVIII secolo mentre trionfava nella teoria, e nella pratica della musica il celebre filosofo Rousseau, si segnalò tanto in pratica che in teorica il riputato Rameau, ed i matematici profondi, le Sauveur, e d’Alembert, e de la Grange fecero ammirare gli esami musicali nella più colta Europa. Si distinsero parimente colle composizioni pratiche musicali Mouret, Campra, Destouches, ed il soprallodato Coignet.

Fiorirono intorno al medesimo periodo tralle attrici dell’opera madama {p. 201}Pellisier unicamente per la rappresentazione, e madama le More per l’eccellenza della voce. Si encomiò tralle ballerine mad. Camargo fiorendo nella danza alta al pari degli uomini, e la bella Sallè acclamata per eccellente nella danza seria, le quali sono state celebrate nelle opere del Voltaire. Anche madama Alard contasi tralle famose ballerine di quel tempo, come tra gli uomini di maggior nome si distinsero Dauberval, e l’italiano Vestris traspiantato in Parigi. Niuno ignora i meriti di Noverre tanto per le lettere che scrisse intorno all’arte sua, quanto per l’invenzione di varii balli, e pel modo di ballare, potendosi contare tra’ primi ristoratori dell’arte pantomimica, con aver rinnovata la muta rappresentazione con gesti e con passi graziosi e naturali misurati dalla musica in azioni compiute eroiche e comiche.

Verso gli ultimi tempi del precedente secolo e nel formarsi la Repubblica Francese e nel suo cangiamento in un vasto Impero, non sono mancati, nè {p. 202}componimenti eroici e piacevoli nè musiche fatighe, nè rappresentatori, nè ballerini.

Quanto alla musica possiamo noverare tra i drammi serii Ecuba di Milcent animata dalla musica di Fontenelle nuovo maestro che meritò qualche attenzione del pubblico, ad onta delle parole poco applaudite. Il sign. Leger in compagnia di un altro maestro che ignoro, compose Don Carlos lavoro romanzesco ed inverisimile non riuscito. Marsolier verseggiò le Rocher de Leucade posto in musica da Dalayrac, e non meno che le Cabriolet jaune di Sègur, e le Fruit defendu, ed Epicure di Dumonstrier posto in musica da Mèhul e Cherubini, sono tutte opere mal riuscite. Beniouski, o gli Esigliati a Kamschatka opera in tre atti di Alessandro Duval, ad onta delle inverisimilitudini, parve interessante. La sua musica di un’armonia sostenuta appartiene a Boïeldieu.

Praxitele, o la Ceinture di un {p. 203}atto solo contiene due azioni, l’una rappresenta Scopa che ottiene il premio con più ragione meritato da Prassitele, e l’altra tratta degli amori di questo per Aglae una delle Grazie. Venere vorrebbe a lui darla, ed Amore le si oppone, dicendo che disconviene ad un mortale possedere tutta intera una diva. Esige dunque che Prassitele ne scelga una parte sola, cioè o il cuore, o il cinto, ciò che fa una situazione poco decente. La musica fu di Devismes. L’Ariodante, e Montano e Stefania, sono due opere tratte dall’episodio di Ginevra dell’Ariosto, le quali riscossero molti applausi. La loro musica appartiene al riputato Mèhul, cui si deve anche la Stratonica che riuscì ancor meglio. Le Delire scritta da Saint-Cyr rappresenta un marito divenuto pazzo per aver perduta la moglie, il quale con ritrovarla ricupera la ragione. Fu posta in musica da Berton uno de’ migliori allievi francesi del nostro egregio maestro Sacchini, di cui con gran ragione pregiasi la Francia.

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II.

Opera Comica. §

Quanto a ciò che intendesi per opera comica, ossia buffa, ecco ciò che nel secolo XVIII precedette all’epoca della Repubblica Francese.

Nel 1715 si ripigliò lo spettacolo dell’opera comica, avendo alcuni commedianti della Fiera ottenuta la permissione dell’Accademia di musica per rappresentare farse piacevoli d’ogni sorte miste di prosa, e accompagnate da balletti, ed alcune parodie de’ componimenti che si recitavano nel Teatro Francese, e nel Teatro Lirico. Simili dilettevoli rappresentazioni chiamarono sì gran concorso che ingelosiva gli altri attori, ond’è che si divietò a tali attori della Fiera di più recitarle. Allora essi si avvisarono di supplirvi con certi cartelloni, ne’ quali scrivevano in prosa ciò che non potevano profferir con la voce; ma simile spettacolo al {p. 205}fine venne totalmente abolito, e si riprodusse l’opera comica che dal 1724 durò sino al 1745, dopo di che alla Fiera si rappresentarono soltanto pantomimi. Nel 1752 m. Monnet ristabilì l’opera a S. Germano con tutte le stravaganze e buffonerie, e con quelle ariette nazionali dette Vaudevilles così care a’ Francesi.

Gli autori che tirarono maggior concorso colle loro graziose farse musicali, furono le Sage, Colle, Fuselier, Roy, Ornerai, Crolet, Vadè. Panard morto nel 1764 scrisse un gran numero di componimenti buffi, di parodie, e di vaudeville tutti ben accolti. L’attore Favart dee contarsi tra’ più fecondi e piacevoli scrittori d’opere comiche e di vaudevilles. Scrisse ancora parodie e burlette con arie, come sono il Mondo a rovescio, Bertoldo in città, il Cinese in Francia, il Dottor Sangrado ecc. Ascendono a più di ottanta le di lui favole; ma in alcune fu ajutato da qualche altro. La sua Chercheuse d’esprit, dice {p. 206}Palissot, si reputa la più ingegnosa opera buffa francese. La moglie di lui attrice che gli premorì, altre ne compose bene ricevute, e fralle altre Bastiano Bastiana nel 1753, gli Ammaliati nel 1757, ed Annetta e Lubino nel 1762. Ma generalmente però fuvvi intorno a quel tempo un immenso numero di componimenti stravaganti in questo genere che eccede in iscempiaggini le più grossolane buffonerie musicali dell’Italia. Accenneremo soltanto che verso il declinar del secolo le magie, i delirii, e le stranezze le più scurrili crebbero soprammodo nel paese dove nacquero Fedra, Cinna e Zaira. Serva per pruova di ciò il Vello d’oro rappresentato nel 1786 la piggiore tralle cattive opere musicali, e l’Alcindoro di Chabannes rappresentato nel 1787, ed il Re Teodoro a Venezia del sig. Moline opera detta eroicomica che manca di comico e di eroico, posta in musica dal nostro Paisiello, e Tarara di Beaumarchais stravaganza in cinque atti con {p. 207}prologoche incresce al buon senso, benchè diverta i volgari colle decorazioni spettacolose, e l’Anfitrione in tre atti nato e morto in un giorno nel 1788.

Dopo simili mostruosità furonvi dall’epoca della Repubblica sino a questi dì alcune composizioni comiche in musica, le quali benchè colme di difetti non parvero stravaganti, e talora ebbero buon successo. Ne rammenterò una gran parte. Verso il mese di luglio del 1800 si rappresentò Zoe ovvero la Pauvre Petite di Bouilly colla musica di Plantade. Non incresce tanto in tal componimento un buon numero d’incoerenze, ed il piano mal congegnato, quanto il pessimo esempio che ne risulta per chi v’assiste, per cui meriterebbe d’escludersi dalle scene mal grado della riuscita che ebbe sul teatro dell’Opera comica della strada Favart.

Zoe abbandonata da’ parenti è costretta a sostentarsi col lavoro delle proprie mani. Il giovine Dulinval nobile e ricco amandola perdutamente {p. 208}vuole sposarla. Zoe vede gli ostacoli che si oppongono a tale unione, e prende il partito di partecipare alla di lui madre stessa il disegno del figlio, e ne implora ajuto e consiglio. Oltreacciò prega una buona donna venuta ad abitare presso di lei a compiacersi di conviver seco, e farle da madre. Questa donna è la stessa madre di Dulinval che ha accettato, ed abita con Zoe senza esserne conosciuta, per osservarne la condotta. Incantata della di lei virtù la stima degna di unirsi col figliuolo. Intanto un vecchio libertino chiamato Furard proprietario della casa di Zoe, e di lei amante viene a sollecitare l’effetto delle speranze che ella gli ha date, e si raccomanda alla pretesa vicina facendole sapere che già ella più volte ha ricevuto del danaro, e promesso di soddisfarlo. Madama Dulinval non la crede capace di sì infame convenzione; ma ad una nuova visita di Furard, essendosi tenuta celata, si assicura di avergli egli detta la verità. Di più giunge un altro uomo e vede, che Zoe {p. 209}loriceve con tutti i segni di viva affezione, e lo fa occultare nel suo gabinetto all’arrivo di Dulinval, cui già la madre avea accordato di sposar Zoe. Tal procedere sveglia lo sdegno di Madama che comparisce e dichiara che non consentirà mai a tale unione sconvenevole, e rileva quanto occulta ha ella osservato. Dulinval è penetrato d’orrore. Zoe fa uscire Delancourt dal gabinetto, e palesa esser colui che dall’infanzia l’ha protetta, soccorsa e sollevata nelle sue disgrazie, e che essendo ora nell’estrema povertà, ella per sovvenirlo ha preso danaro da Furard lusingandolo. Madama ne ammira la delicatezza e la riconoscenza, e permette che sposi suo figlio. Furard pieno di vergogna, e ravveduto riconosce anche in Delancourt il proprio cognato. Chi approverà un esempio siffatto sulla scena? Vedere una giovanetta virtuosa che in apparenza si prostituisce per esercitare un atto di beneficenza o di gratitudine! La virtù tutto può sacrificare, fuorchè se stessa. Mercatar {p. 210}favori illeciti, riceverne prezzo a più riprese, alimentar desiderii, e speranze infami, è scuola di morale da soffrirsi su di un teatro culto? Oltreacciò Zoe che ha un amante ricco di buona intenzione, non poteva più convenevolmente a lui ricorrere che pensa a sposarla, per sovvenir colui che nelle sue strettezze l’aveva sollevata? Poteva ancora fidarsi nella buona vicina per evitare il pericolo di tener occulto un uomo con iscapito della propria riputazione. Quanto poi al merito letterario di tal componimento, ne’ giornali stessi di Parigi se ne rilevarono molti difetti particolari, lentezze, inverisimiglianze, monotonia di scene, e non pochi vizii nello stile. Contuttociò ebbe felice riuscita nella prima rappresentazione. Sembra che non abbia in seguito ottenuti sì favorevoli suffragii, giacchè trovo nell’Anno VIII teatrale francese il seguente giudizio: Zoe, où la Pauvre Petite, pauvre petite piéce de Bouilly; pauvre petite musique de Plantade; pauvre petit succès; pauvre petite recette.

{p. 211}Nello stesso teatro di Favart l’anno medesimo 1800 si rappresentò con ottimo successo Una notte di Federigo II, in cui si osserva più di una scena ben maneggiata, e varie idee piacevoli e spiritose. Vi si recitò l’anno stesso le Locataire in un atto di Sèverin colla musica di Gaveaux. L’azione complicata produsse poco interesse, per non essersi, dice un giornalista, saputo trarre partito dal soggetto. In fatti gli espedienti dell’autore spesso falliscono per la debole opposizione di un tutore inetto e per la timidezza di un rivale. L’anno stesso si rimise nel medesimo teatro Annetta e Lubino opera pastorale dell’attrice Favart coll’eccellente musica del Martini che si reputa un modello di semplicità graziosa e di melodia.

Si sono parimente rappresentate nel medesimo teatro ed in altri di Parigi con varia fortuna le seguenti opere comiche. Le Tableau des Sabines operetta piacevole di Jouy, alla cui musica lavorarono i due maestri {p. 212}La-Foi e Long-champs. Le Maçon di Sèverin cadde affatto; ed i Francesi dissero, che da tale opera appare che l’autore conosceva meglio l’arte di muratore che l’arte drammatica. Le due Giornate di Bouilly si ricevette con applauso singolarmente per la musica del riputato maestro romano Cherubini. Anche il Marcellino opera di Bernardo Valville, benchè mancante di verisimiglianza, si ascoltò con piacere per la musica di Lebrun. Appartiene anche a Valville l’Ingannatore ingannato posta in musica dal maestro Gaveaux, che si rivede sempre con piacere in Parigi. Contansi tralle opere cadute: le Petit Page di Gilbert Pixerecour posto in musica da Lebrun, l’EsclaveGossè colla musica di Bruni, e le Roman del medesimo colla musica di Plantade, e Laure, o l’Actrice chez elle opera fredda di Marsollier e Daleyrac. D’Auberge en auberge di Dupaty presenta moltissimi cangiamenti di decorazioni e mille precauzioni per {p. 213}produrre picciolissimo effetto. La musica è del maestro Tarchi della buona scuola italiana, e non manca di vivacità. Piacque la Dame voilèe di Sègur il giovine posta in musica dal Mengozzi celebre maestro italiano e si reputa il suocapo d’opera. Le Calife de Bagdad opera di Saint-Just colla buona musica di Boieldieu piacque e si replicò più volte. La Maison du Marais, poesia di Duval con musica di della Maria, sermone soporifero, sentenze ribadite, tratti satirici rancidi stemperati in tre atti compongono quest’opera comica recitata nel teatro così detto l’anno 1800. La Fille en lotterie è componimento male avviluppato, che ha però alcune strofe ed arie piacevoli tanto di poesia quanto di musica. Altre opere possono parimente rammentarsi di non meno varia fortuna; ma ad accezione di alcune che ne accenneremo nel parlar del Vaudeville e de’ teatri materiali francesi, abbandoneremo tutto il resto all’obblio che le ricopre.

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III.

Vaudeville. §

Vaudeville chiamasi un piacevole componimento drammatico musicale proprio della nazione Francese, che si rappresenta principalmente in un edificio posto dirimpetto al Palais-Royal di Parigi. Dal nome del componimento prende il suo quest’edificio. La giovialità e leggerezza francese produsse simil genere che non è nè commedia nè tragedia nè opera nè parodia, ma che di tali generi partecipa ad un bisogno, dando luogo alla satira ed alla piacevolezza e alla buffoneria per eccitare il riso. I motteggi che vi campeggiano, consistono per Io più in una lotta di concetti e di scherzi mordaci sulla parola, de’ quali i Francesi de’ Dipartimenti comprendono a stento tutta l’acutezza, mentre i Parigini che l’assaporano pienamente, escono dallo spettacolo canticchiando le strofette {p. 215}ascoltate che bentosto si adottano e passano in moda.

Un tempo l’Opera Comica ed il Vaudeville furono due generi uniti, de’ quali il Vaudeville vien considerato come il produttore dell’Opera comica in Francia. Convenne indi far tacere l’uno e l’altro, finchè il solo Vaudeville forse per certa sua naturale insolenza rimase bandito e sacrificato per alquanti anni. Alcuni in seguito si avvisarono di riprodurlo facendone giudice il pubblico, e si ritenne, e nella mia dimora sulla Senna lo vidi frequentato.

Il repertorio del Vaudeville è assai copioso e vasto appunto come richiede simil genere, perchè possa sussistere, essendone l’anima la varietà, e mal comportandovisi la ripetizione. Questo repertorio è composto di commedietto alquanto serie che per buona fortuna non sono molte, di una galleria vastissima di ritratti di scrittori francesi e stranieri, di alcune pastorali, di parodie, di opere musicali e di tragedie e commedie altrove rappresentate, di {p. 216}arlecchianate, di parate ancora, tuttochè questo genere insipido sia già quasi totalmente abbandonato.

I componimenti che recitansi al Vaudeville per lo più non si pregiano per l’artificio e per la forza del piano. Un quadro piccante, una graziosa circostanza ben rilevata, qualche piacevole strofetta, l’insieme nell’esecuzione, un’acconcia distribuzione delle parti ossia de’ caratteri, basta per la riuscita.

Rare volte il Vaudeville è lavoro di un solo. Giungono spesso ad occuparvisi ben cinque autori; di maniera che la lode o il biasimo si divide sovente fra molti, e ciascuno ha poco da insuperbirsi del buon successo e poco da contristarsi del sinistro. Barrè, Radet, Desfontaine formano un triumvirato appellato de’ Tre autori, a’ quali suole unirsi per quarto Bourgueil. Si sono parimenti arrollati tra gli scrittori del Vaudeville Despres, Deschamps, e i due Sègur. I più giovani sono Chaset, Jouy, Long-Chams, che {p. 217}sogliono seminarvi a buon dato la satira e l’epigramma.

Tra’ componimenti in Vaudeville vien singolarmente esaltata la parodia che si fece dell’opera eroica di Prassitele intitolata Bilboquet. Essa si compose da i tre autori Radet, Barrè e Bourgueil, e si rappresentò al finir d’agosto del 1800 sul teatro del Vaudeville. Consiste in una serie di quadri l’uno più grottesco dell’altro che eccitano strabbocchevolmente il riso. In tal componimento (dice un Francese) «vi sono venti strofe che per la grazia e per la delicatezza de’ pensieri e pel giro della versificazione, e per la scelta felice delle rime, reggono al paragone di quanto si è mai prodotto in simil genere». Si recitò nel medesimo teatro a que’ dì il Dancourt che riscosse molti applausi. Qualche riuscita ebbe Young, ossia la Vita di Creuzet. Un anonimo produsse Champagnac et Suzette che ebbe un successo passeggiero in grazia di un travestimento di un’attrice. Boursault o {p. 218}la Barbe de frere Jean, ristretto della vita di Boursault composto dal Desfontaine si applaudì per la sua piacevolezza non imbrattata da indecenze. Si novera tra’ vaudevilli piu felici le Carosse Espanol di Gersain di un intrigo leggero condito di ariette spiritose e piacevoli, che contiene alcune scene comiche e salse. Il Viaggiatore sconosciuto, ossia m. Guillaume appartiene a quattro autori contandovi quelli che posero in musica le strofette, cioè Desfontaine, Bourgueil, Barrè, Radet. Il suggetto è semplice, l’azione naturale; convenevole lo stile. Passa per eccellente nel suo genere le Portrait de Fielding, Madama Deshoulieres, Plus heurreux que sage primo lavoro di Fievèe, Gesner, la Nièce curieuse, l’Entrevue, e le Rendez-vous de Maurice, ebbero nel proprio teatro mediocre riuscita. Ne tralascio un gran numero che caddero perfettamente.

Simili componimenti rappresentansi parimente in altri teatri. Nel {p. 219}repertorio de’ Troubadours si reputano fra’ migliori Cristophe Morin azione poco importante ma copiosa di piacevoli strofette. Men pregevole fu la Clef forèe di Leger e Creusè. Le Connoisseur de Marmontel si pose su quelle scene da Giuseppe Piis dopo molti altri che han maneggiato questo medesimo soggetto. I migliori Vaudevilli del teatro de la Gaitè sono: l’Amour remouleur, le Gagne-Petit, l’Horologe de bois. Nel teatro Favart si diede il Vaudeville intitolato Une Nuit d’ètè garbuglio di accidenti inverisimili senza decoro. Nel teatro de’ Giovani Artisti fecero qualche fortuna le Petit-Jule, e la Lanterne magique.

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IV.

Teatri materiali. §

Si amano in Francia, universalmente gli spettacoli scenici di ogni maniera. Havvi almeno venti case private di teatro solo in Parigi, dove varie società particolari rappresentano tragedie, commedie, e segnatamente alcune favole composte per tali brigate espressamente. Lo spirito di rappresentazione che anima i Francesi, i grandi modelli nazionali che riempiono le loro scene, il gusto di cui credonsi con privilegio esclusivo in possesso, non basta ad obbligarli a volgere un solo sguardo alla meschinità de’ loro pubblici teatri. Le sale di tutti gli spettacoli di Parigi (dicono i nazionali) cioè quelle del Teatro Francese, della Commedia Italiana, e del Teatro Lirico, sono senza magnificenza, strette, prive di ogni gusto, ingrate per le voci, incomode per gli attori, e per gli {p. 221}spettatori. Non è vero ciò, che diceva il Voltaire che solo in Francia prevale l’impertinente usanza di obbligare la maggior parte dell’uditorio ad assistere all’erta allo spettacolo. Anche in Madrid quei che chiamansi Musqueteros ne godono senza sedere. È però vero che nè in Ispagna, nè in Italia gli spettatori si frammischiano con gli attori sulla stessa scena, come avviene in Francia, lasciando appena dieci passi liberi alle rappresentazioni. Cinna e Atalia (al dir del medesimo autore) doveano rappresentarsi in sì meschini edifizii, e con decorazioni così grossolane? » In tal disordine può sperarsi veruna illusione teatrale? Di simili inconvenienti lagnasi pure l’autore del libro intitolato la Mimographe. Vero è però, che negli ultimi tempi del XVIII si è riparato all’inconveniente di mischiarsi sulla scena gli spettatori con gli attori. Vero è pur anche che il Teatro Francese ricevè in seguito varii miglioramenti. Vi si veggono eziandio i ritratti dipinti de’ più {p. 222}celebri autori drammatici della nazione. Nel Foyer architettato con magnificenza vi si collocarono i mezzi busti di marmo di Rotrou, de’ due Cornelii, di Racine, di Moliere, di Regnard, Des-Touches, Du Fresni, Dancourt, Piron, Crebillon, ed al piè della scalinata si alzò la statua intera marmorea del Voltaire. Nel teatro dell’Opera alzato in Parigi nel 1769 co’ disegni dell’architetto Moreau di figura ovale lunga, si contano quattro ordini di logge senza divisione, e nella platea larga 39 piedi e lunga 32 si vede una scalinata dirimpetto alla scena.

Nel palazzo di Versailles si edificò nel 1770 dall’architetto Gabriel un teatro di figura semicircolare con una scalinata che gira intorno, e con una sola loggia. La corte nella passata dinastia occupava il parterre, ed il sovrano sedea nel mezzo.

Ampliata Parigi nella parte detta i Baloardi si erano costrutti prima della Repubblica Francese altri cinque {p. 223}teatrini da fiera, ne’ quali si balla sulla corda, e si cantano drammi burleschi. I primi ad elevarsi furono quello di Nicolet intitolato i Gran Ballerini da corda, quello di Audinot detto l’Ambigu Comique, e quello dell’Ecluse nominato Varietà piacevoli. Gli ultimi due sono quello degli Allievi del ballo dell’opera, e quello de’ Commedianti fanciulli del Bosco di Bologna.

I nomi di alcune delle sale sceniche mentovate si sono posteriormente alterati, e se n’è costruita qualche altra nuova. Accennerò una parte di quel che vidi rappresentarvisi nella mia dimora nel 1800. Nel teatro de la Gaitè si recitavano componimenti di varii generi, ma per lo più l’opera comica. Nella classe delle commedie non se n’è rappresentata con successo che una intitolata il Pazzo supposto di Armand Charlemagne, in cui si trova piacevolezza, ed alcuna situazione comica tratta per altro dalla Metromania {p. 224}di Piron, e dal Medico de’ Pazzi di Mimaut.

Nell’Ambigu Comico vidi applaudito lo Statuario Greco, o Sophronime, imitazione di una novella di Florian, ed il Calderajo uomo di stato immaginario di Etienne, imitazione di un componimento Suedese.

Nel teatro de la Citè si rappresentavano componimenti d’ogni genere. La commedia de’ Viaggiatori di Charlemagne si recitò più volte con applauso. Non rincrescevano alcuni pantomimi in parte dialogizzati, come il Serraglio, la Festa del Gran Mogol, il Fanciullo del mistero, Armand di Joinville, i Cinesi. Non ebbero gran concorso alcuni drammi malinconici, come Jenny o gli Scozzesi, ed Eleonora di Rosalba dell’attore ed autore Saint-Pière.

Nel teatro de’ Giovani Artisti vedevansi diverse arlecchinate piacevoli che tiravano gran concorso, ed anche qualche composizione di spettacolo come le Chateau misterieux, e la {p. 225}Pastorella di Saluzzo, ed alcun vaudeville.

Havvi un altro teatro detto de’ Giovani Alunni, dove tralle commedie si rappresentavano con piacere, e con concorso le Petit-Figaro, e le Due Pastorelle, ed i Tre Uomini femmine.

Nel teatro detto Sans pretension si ascoltava volentieri la tragedia di Giuseppe già rappresentata a Nantes, ed il dramma intitolato l’Angelo ed il Diavolo, i quali si contrastavano la condotta di un giovane, imitazione stravagante di Shakespear.

Si vedeva a quel tempo nel teatro delle Vittorie nazionali Adela e Leonora, ed i Pericoli dell’ambizione, e la tragedia Arato liberatore di Sicione, e qualche vaudeville.

Nel teatro du Marais fece molto strepito senza valerne la pena la favola intitolata i Ciarlatani letterarii per le pretese allusioni.

Dentro Parigi il teatro des Troubadours è competentemente frequentato, e non è de’ più piccioli. Vi si {p. 226}rappresentano componimenti di ogni genere, commedie, vaudeville, opere. Vi si vede sovente la Pipe cassèe di Leger, Gouffe e George Duval, il Prestito forzoso lavoro dell’istesso Leger e Gouffe, e Prèvot d’Iray, e l’Armoire, ovvero i Tre Matrimonii. La Mote Houdart à la Trappe che appartiene a Piis ed Auger, non parve ad un giornalista condotto con felicità a quella pia ritirata. Momo a Parigi, Regnard ad Algieri, Piron à Beaune, Une heure d’intrigue, si recitavano con poco vantaggio. I migliori componimenti, e che vi si ripetevano spesso, sono: la Lezione conjugale, ed il Diavolo color di rosa.

Nel teatro Montausier che è nel recinto del Palais-Royal, si rappresentavano mal grado della loro caduta, le composizioni di Pixerecourt, Jacques, e Chazet. Il Gondoliere di Sègur maggiore, ed il Duello di Bambin di Dumaniant vi si veggono con maggior frequenza.

Ne’ teatri Feydeau e Favart {p. 227}concorrevano in folla gli spettatori alle opere comiche che vi si rappresentano sovente con decorazioni dispendiose.

Oltre de’ teatri nominati della Capitale altri ne ha la Francia ne’ dipartimenti. Quello di Marsiglia non è picciolo, e vi si recitano tragedie e commedie, ed opere. Allorchè io vi dimorai, si rappresentò con molta riuscita il pantomimo in cinque atti intitolato le Siège de Cythere, in cui i Ciclopi meditano, ed eseguiscono l’assedio di Citera. Ciascun atto ha una nuova decorazione e mutazione di scena; ma vi è l’inconveniente che in ognuno si cala il sipario, e l’uditorio dee attendere che si pianti con gran lentezza la scena.

Lione ha un teatro grande sopra tutti i teatri francesi dove compariscono componimenti recitati e musicali. Si eresse nel 1756 sui disegni dell’architetto Soufflot. Di figura ovale ha una platea lunga 54 piedi, e larga 40; vi sono gradini intorno, e dirimpetto alla scena, e tre ordini di logge {p. 228}continuate senza divisione di palchi similmente forniti di scalini. Questo edifizio (dicesi nel trattato del Teatro)è ben provvisto di convenienti accessorii, ed ha la facciata retta a tre ordini di finestre con gran ringhiera nel mezzo, e con balaustrata in cima arricchita di statue.

Più picciolo è il teatro di Mompellier benchè regolare e di migliore apparenza al di fuori. È costruito a campana lungo 44 piedi, e largo 30. Havvi un portico nella platea, e tre ordini di logge continuate divisi in palchetti soltanto da balaustri che impediscono il passaggio da un palco all’altro, ma non la veduta.

In Bordeaux il dì 7 di aprile del 1780 si aprì una nuova sala di spettacoli assai magnifica, e vi si rappresentò Atalia con i cori preceduta da un prologo allusivo all’apertura del teatro. E un edificio isolato che rappresenta un parallelogrammo circondato da portici, la cui facciata di 200 piedi consiste in un maestoso colonnato d’ordine {p. 229}corintio con peristilo, le cui colonne hanno tre piedi di diametro, e su di esse corre una balaustrata con piedistalli ornati di figure analoghe alla destinazione del luogo. Le facciate laterali e la posteriore sono decorate col medesimo ordine, ma in pilastri con una galleria in arcate su tutta la lunghezza. La facciata dell’entrata è sulla piazza di 50 tesi di lunghezza sopra 24 di larghezza. Sotto il peristilo si veggono cinque porte che introducono ad un vasto vestibolo ornato di sedici colonne doriche, il cui fondo ripete le cinque arcate dell’entrata che sono ad esse opposte, e formano altrettanti portici aperti. Tre di questi nel mezzo comunicano colla principale scalinata, e i due estremi terminano alla platea ed al paradiso da un lato, e dall’altro alla scalinata che mena al terzo ordine delle logge. La porta di entrata è riccamente adorna. Due cariatidi grandi rappresentano Talia e Melpomene, e quando l’edificio si costruì, eranvi al di sopra le armi del re con una {p. 230}iscrizione. La sala ha dodici colonne d’ordine composito che nella loro altezza comprendono due ordini di logge. I primi palchi seguono il piano circolare della sala composta di tre scaglioni in anfiteatro con balaustrata. Il secondo e terzo ordine di palchi sono negl’intercolunnii. Vi sono altresì tre scalinate in anfiteatro, cioè una in fondo che guarda il teatro, e l’altre due da’ due lati della sala, il cui fondo è di marmo bianco venato.

{p. 231}

LIBRO VIII.

Teatri settentrionali del XVIII secolo. §

CAPO I.

Teatro Inglese. §

I.

Tragedia reale. §

L’entusiasmo per la libertà, l’orgoglio e la malinconia britannica, l’energia delle passioni e della lingua, ed il gusto pel suicidio influiscono notabilmente nella tragedia inglese, e tanta forza e vivacità le prestano, che al di lei confronto sembra che la francese languisca alla guisa di un dilicato color di rosa accanto ad una porpora vivace. E se la regolarità, il buon gusto, la verisimiglianza, l’interesse e l’unità di disegno, pregi che si ammirano spesso {p. 232}nella francese, si congiungessero sul Tamigi alla robustezza e all’attività del britanico coturno, oggi che ha questo deposte le antiche buffonerie che lo deturpavano, sarebbe forse a suo favore decisa la lite di preferenza. Ma gli affetti universali dell’uomo trovandosi variamente in ogni nazione modificati, dovrà la drammatica sempre, in quanto al gusto, soggettarsi a certe regole relative e particolari dipendenti dal tempo, dal costume e dal clima ove non si offenda la verità e la natura.

Il celebre Adisson morto d’anni quarantasette nel 1719, il cui ingegno, senno e sapere l’elevarono fra’ suoi alla carica di segretario di stato, e gli diedero nella repubblica letteraria il nome di poeta de’ savii, aprì agl’Inglesi il sentiero della buona tragedia l’anno 1713 col suo Catone. Non avendo osato il sig. Hullin di tradurla interamente in versi francesi, dopo di averne fatto un saggio sulla prima scena, il sig. Boyer l’anno stesso ne fece in Londra una traduzione pur {p. 233}francese in prosa. I Gesuiti di s. Omero la trasportarono in latino, e la fecero rappresentare da’ loro scolari. Anton Maria Salvini la tradusse dall’originale in toscano idioma, e gli Accademici Compatiti di Livorno la recitarono nel carnovale del 1714, e l’anno seguente s’impresse in Firenze e riscosse compiuti applausi. Nel 1725 si reimpresse nella medesima città coll’originale accanto nella stamperia di Michele Nestenus.

Piena di energia e di quella maschia eloquenza che eleva gli animi singolarmente in quanto appartiene al carattere intrepido e virtuoso di Catone, questa tragedia si rende notabile per la sublimità e per la grandezza de’ pensieri e dell’espressioni. Dee parimente chiamarsi regolare, se la regolarità dipenda dal giusto riguardo per le regole sugerite dalla verisimiglianza, uno essendone il principal personaggio, uno l’interesse che in lui si rincentra, una l’azione che è la morte di Catone, la quale avviene nel dì che spira la {p. 234}romana libertà all’entrare in Utica i Cesariani. Perchè dunque il sig. Giovanni Andres la chiama favola assai irregolare e piena di assurdità?

Manca non pertanto al Catone moltissimo per dirsi l’opera più bella che sia uscita su di alcun teatro. Tutto ciò che non è Catone è in essa mediocre; e la sua mediocrità deriva da due sorgenti, cioè da una languida inutile congiura di due furbi che si esprimono e pensano bassamente, e da un tessuto d’insipidi e freddi amori subalterni di sei personaggi de’ dieci che entrano nella favola. Sventuratamente questi difetti ne menano al fine dell’azione senza interesse e con molta lentezza, e ne riempiono tutte le pause. Or lentezza, languore, amori insipidi, bassezze ed espressioni comiche, degradano si bene una tragedia, ma non la rendono irregolare ed assurda come pretese l’esgesuita lodato; il quale cadde nell’eccesso contrario di un Encidopedista, che nell’articolo tragedie la chiamò le chef {p. 235}d’oeuvre pour la regularitè, l’èlègance, la poesie, et l’èlèvation des sentimens. Noi vedremo nell’analisi che ne faremo, che questa elevazione di sentimenti è denigrata dalle basse espressioni di Sempronio e Siface, e che i freddi amori di sei personaggi che gelano l’azione principale, non permettono che col medesimo enciclopedista si creda il Catone di Adisson la pièce plus belle qui soit sur aucun thèâtre.

Non v’ha scena dell’atto I che non si aggiri su gli amori di Porzio, di Marco, di Giuba, di Marzia, di Lucia, di Sempronio, o sulla congiura tramata da questo scellerato con Siface che gli rassomiglia. L’atto poi termina all’inglese, cioè con una poetica comparazione compresa nell’originale in sei versi di una corrente imbrattata dal fango per le piogge, che poi si affina e per via diviene limpida come specchio,

Riflettendo ogni fior che a riva cresce,
E nuovo ciel nel suo bel sen ne mostra.

{p. 236}Dalla scena quarta dell’atto II, in cui Giuba manifesta a Catone il proprio amore per Marzia, tutto il resto si aggira su i maneggi di Siface e Sempronio pieno dell’idea di conseguir Marzia che desidera bassamente. Di più in mezzo a’ modi famigliari e talvolta indecenti di questi due malvagi frammischiansi impropriamente alcune poetiche immagini con intempestiva sublimità lirica espresse. Tale è quella in cui Catone è paragonato al monte Atlante; tale l’altra con cui termina anche quest’atto distesa in sette versi de i deserti di Numidia che scherzano per l’aria in fieri giri, e ravvolgono l’arena, ed il viaggiante, secondo la traduzione del Salvini,

A se d’intorno l’arido ermo scorge
Levarsi tutto, e dentro al polveroso
Turbin rapito ed affogato muore.

Tre prime scene non brevi dell’atto III si occupano intorno agli amori gelati, e fuor di tempo di Marco, Porzio e Lucia; viene Sempronio con i {p. 237}condottieri dell’ammutinamento dissipato dalla presenza di Catone; in seguito Siface e Sempronio si trattengono su’ loro disegni e sulla diserzione della cavalleria Numida. E mostrando Sempronio qualche pena di lasciar Marzia, Siface se ne maraviglia; ma l’altro risponde, erri se credi ch’io l’ami:

Stringere io bramo sol l’altiera donna,
E piegar l’inflessibile al mio foco.
Fatto ciò, la rigetto.

Egli determina di rapirla travestito con gli abiti di Giuba. Bella pensata! dice egli stesso, gran gioja avrò nel tenerla tralle braccia

Con beltà accesa e scarmigliate trecce!

e soggiugne, per terminar l’atto con una comparazione lirica di Plutone che rapiva Proserpina conducendola all’oscuro dell’inferno,

E torvo sorridendo lieto andava
Carco del premio suo, nè invidiava
Il firmamento e il suo bel sole a Giove.

{p. 238}Non sono dunque i tragici Italiani del secolo XVI quelli soli che adoperano ornamenti epici e lirici che fanno arricciare il naso a i critici spigolistri ammiratori ciechi anco delle frascherie straniere, giacchè due secoli dopo ne troviamo nel poeta de’ savii Adisson.

Seguono nell’atto IV i soliti amori.

Sempronio mascherato viene a rapir Marzia dicendo

La lepre è al covo, l’ho sin quì tracciata.

Si batte con Giuba, ed è ucciso. Marzia ingannata dalle vesti crede che l’ucciso sia Giuba, il quale stando da parte dalle di lei querele comprende di essere amato. Così procede quest’atto sino a una parte della scena quarta. Ma il rimanente contiene un tratto forte e patetico insieme ed opportuno a disviluppare il carattere veramente romano dì Catone.

L’atto V coll’indicata ultima scena del IV forma il grande di questa tragedia. Strana cosa è certamente che il saggio Adisson non abbia schivato {p. 239}nè gli abusi della scena tragica francese ed inglese riguardo agli amori, nè i soliloquii narrativi, come è quello di Sempronio nella scena terza dell’atto I, nè la mancanza d’incatenamento delle scene ad oggetto di non lasciar voto il teatro, come avviene più di una volta nel Catonea.

Rilevasi dall’esposte cose che non ebbe torto il giudizioso Conte di Calepio in censurar nel Catone le figure troppo poetiche che ne guastano talvolta la gravità, e verità dello stile, la peripezia malamente sospesa con intempestive scene di persone subalterne, i freddi intrighi d’amore, e più altri difetti che offendono l’arte rappresentativa. Non ebbe torto l’esgesuita Andres nel riprenderne la mal intesa cospirazione, gl’inopportuni freddi continui e complicati amori, ed alcune {p. 240}espressioni basse. Non ebbe torto il Voltaire, che ne disapprovò le scene staccate che lasciano il teatro voto, gli amori freddi ed insipidi, una cospirazione inutile. Ebbe però torto l’enciclopedista encomiatore del Catone non solo nel reputarla la più bella tragedia che siesi veduta in qualunque teatro, ma quando si accinse a difendere sconsigliatamente i languidi amori universalmente disapprovati. Ed ebbe maggiormente torto per la ragione che ne reca, cioè che l’amore di Marzia è degno di una vergine romana, e che Giuba ama in Marzia la virtù di Catone. In prima è da avvertirsi esser questa una risposta particolare ad una censura generale fatta per gli amori subalterni, non di Marzia e Giuba soltanto, ma di sei personaggi. Di poi l’enciclopedista fece una risposta, in cui perdè di vista l’oggetto vero della tragedia, il commuovere col terrore, e la compassione. Ebbe parimente torto lo stesso osservatore enciclopedista in lodar tanto la risposta di Porzio data

{p. 241}data a Sempronio nella scena seconda dell’atto I:

Ah Sempronio, vuoi tu parlar d’amore
A Marzia or che la vita di suo padre
Stà in periglio? Tu puoi carezzar anco
Una Vestale pallida tremante
Che già miri spirar la santa fiamma.

È nobile questa immagine di una Vestale, e ben collocata in bocca di un Romano. Ma Porzio che parimente ama mentre la vita del padre stà in periglio, non reca una ragione che dovea internamente rimproverargli la propria debolezza? E per finirla ebbe pur torto il sign. Andres in affermare che Voltaire la stimava una tragedia scritta da capo a fondo con nobiltà e politezza. Voltaire preferì il personaggio di Catone a quello di Cornelia del Pompeo di Pietro Cornelio, ed esaltò la sublimità, l’energia e l’eleganza del Catone; ma ne rilevò, come abbiamo {p. 242}osservato, molti difetti, e conchiuse che la barbarie et l’irrègulieretè du thèatre de Londre ont percè jusque dans la sagesse de Addisson. Non debbo lasciar di osservare che il merito eminente di questo scrittore è nella grandezza de’ sentimenti e nella forza energica dell’espressioni che non mai si smentisce in tutti i personaggi; e che l’espressioni che mancano di elevatezza e sono piuttosto comiche che tragiche, appartengono unicamente a Siface e Sempronio, personaggi che Adisson volle rendere bassi e disprezzabili d’ogni maniera.

Or vediamo ciò che soprammodo nella storia teatrale contribuisce ai progressi del gusto nella gioventù, cioè le bellezze più che i difetti de’ componimenti, che è la parte nobile della critica inaccessibile a i freddi ragionatori privi di cuore.

Se non diciamo come l’enciclopedista, che questa tragedia sia un capo d’opera e la più bella di qualunque teatro, ravvisiamo pure nel Catone {p. 243}dipinto da Adisson quel gran Romano della storia che solo osò contendere colla fortuna e colla potenza di Cesare e prolongare i momenti della spirante libertà di Roma, quell’uomo grande, per valermi dell’espressiòne di Pope,

                 Che lotta col destino
Tralle tempeste, e grandemente cade
Misto a ruine di cadente stato.

Nella scena quarta alla forza e destrezza del corpo lodata da Siface ne i Numidi è vagamente contrapposta l’arte di regnare, di dettar leggi, di render l’uomo all’uomo amico, propria de’ Romani.

L’atto II ha maggiore interesse perchè animato dal carattere dì Catone. Sempre giusto, senza timore, senza impeto, tutto della sua sapienza egli riempie il picciolo suo senato. Non si trasporta con Sempronio, ma non cede con Lucio, e conchiude nobilmente:

Siam sempre a tempo a chieder le catene.
{p. 244}
Perchè un punto anzi tempo cadria Roma?

La scena con Decio legato di Cesare è in quest’atto il trionfo del carattere di Catone. Cesare ( dice il legato ) vuol essere amico di Catone; proponetene il prezzo e le condizioni.Che licenzii ( risponde tosto Catone con magnanimità )

Le legion, la libertà alla patria
Restituisca, i falli suoi sommetta
Alla censura pubblica, e sì stiasi
Alla sentenza d’un Roman Senato.
Ch’ei faccia questo, ed è suo amico Cato.

Aggiugne che allora poi, per non farlo perire, egli stesso monterà su i rostri per ottenergli il perdono. Questa grandezza di pensieri e di espressioni meritò l’approvazione del gran Metastasio, che in simil guisa se l’appropriò emulandola nell’abboccamento di Cesare e Catone:

                 Lascia dell’armi
L’usurpato comando: il grado eccelso
{p. 245}
Di Dittator deponi: e come reo
Rendi in carcere angusto
Alla patria ragion de’ tuoi misfatti.
Questi, se pace vuoi, saranno i patti.

Cesare

Ed io dovrei…

Catone

Di rimanere oppresso
Non dubitar, che allora

Tu solo non basti, gli dice Cesare, ed io potrei

I giorni miei sacrificare invano.

Catone

Ami tanto la vita, e sei Romano?

La scena quinta dell’atto III, in cui Catone con dignità seda colla presenza sola l’ammutinamento, rende all’azione la gravità che le tolgono le troppe scene di amori tanto più intempestivi, quanto più si avvicina l’esercito di Cesare, e la ruina di Catone è imminente.

Dopo la languidezza del IV atto già riferita un improvviso nuovo vigore misto di eroico e di compassionevole {p. 246}chiama tutta l’attenzione dal punto che si enuncia la morte di Marco. Marco… incomincia Porzio… e Catone l’interrompe:che ha egli fatto? ha abbandonato il suo posto? No, dice Porzio; egli si è opposto a’ Numidi, ed è caduto da forte. Son contento, dice Catone; egli ha fatto il suo dovere; Porzio, quando io morrò, fa che la di lui urna sia posta accanto alla mia. È condotto in iscena il corpo di Marco, e Catone gli va incontro dicendo, Welcome mi son, «benvenuto, mio figlio; ponetelo alla mia presenza, lasciate ch’io conti le sue ferite; chi non torrebbe esser questo giovane? Disgrazia grande non poter morire che una volta sola!» Questa scena si accolse con ammirazione in Londra, e in alcune città d’Italia. Assicurava però Voltaire a milord Bobingbrooke che in Parigi non si sarebbe sofferta. Catone volgendosi a i circostanti che piangono, amici, dice, voi piangete per una perdita privata?

{p. 247}
Roma è quella che chiede il nostro pianto.

«Roma nutrice di eroi, donna del mondo, Roma non è più! Oh libertà! oh virtù ! oh patria! Tutto è di Cesare!

                Per lui i votati Decii,
I Fabii cadder, vinser gli Scipioni.
Anco Pompeo pugnò per Cesar! i maggiori
Non lasciar altro a vincer che la patria.

Questo gran sentimento non isfuggi al Metastasio; ed ecco in qual guisa l’espresse nella mutazione dell’ultimo atto del suo Catone:

                         Ecco soggiace
Di Cesare all’arbitrio il Mondo intero.
Dunque (chi ’l crederia?) per lui sudaro
Gli Scipioni, i Metelli! Ogni Romano
Tanto sangue versò sol per costui;
E l’istesso Pompeo pugnò per lui!
Misera libertà, patria infelice,
{p. 248}
Ingratissimo figlio! Altro il valore
Non ti lasciò degli avi
Nella terra già doma
Da soggiogar che il Campidoglio e Roma!

Adisson senza punto indebolire la fermezza del suo eroe sa colle disposizioni da lui date per la salvezza degli amici trarre certo patetico di nuova specie che commuove ed interessa. Egli dice addio agli amici; indi conchiude:

S’appressa il vincitor, di nuovo addio.
Se mai c’incontrerem, c’incontreremo
In più felici climi e in miglior spiaggia
U’ Cesar non fia mai a noi vicino.

Nell’atto V la prima scena filosofica è un prodotto del dialogò di Platone sull’immortalità dell’anima. Perchè l’alma (dice Catone col libro di Platone alla mano e colla spada sguainata davanti)

Ritirata in se stessa e impaurita
Alla distruzion s’aombra e fugge?
{p. 249}
È la divinità che muove dentro;
Il cielo è quel che l’avvenire addita,
E all’uom l’eternitate accenna, e mostra.
Eternità! pensier grato e tremendo!

Il sonno poi gli aggrava gli occhi, ed egli vuol prima soddisfare a questo bisogno del suo corpo, e dice,

                         Colpa o timore
Svegliano altrui, Caton non gli conosce,
A dormire o morire indifferente.

Catone poichè si è ferito conserva morendo la sua grandezza d’animo non meno che la tenerezza verso gli amici, pe i quali egli cerca se può far qualche cosa negli ultimi momenti. Sul finire gli sopravviene un dubbio sull’avere troppo affrettato, forse per quello che nel medesimo dialogo di Platone s’insegna, cioè che vieta il sommo Imperante di sprigionar lo spirito prima di un suo decreto.

                         O numi voi
Che penetrate il cuor dell’uomo e i suoi
{p. 250}
Intimi movimenti ne pesate,
Se fallito ho, a me non l’imputate.
I migliori erran: buoni siete, e…. oh!

Egli spira qual visse grande e virtuoso prima della libertà. Ed ecco quanto secondo me ha di pregevole la tragedia del Catone. S’essa non discendeva da tanta altezza sino a Sempronio e Siface, Adisson avrebbe forse nociuto all’arte togliendo a’ posteri ogni speranza di appressarglisi. De’ grandi ingegni giovano ancor le debolezze. Ad Omero che talora dormicchia e mostra l’uomo, dobbiamo i Virgilii ed i Torquati. In francese compose m. Deschamps una tragedia di Catone più regolata nell’economia, ma non meno carica di parti accessorie che sopraffanno l’azione principale e la rallentano, e deturpata nel carattere di Cesare che rappresenta innamorato.

L’amor della patria, della virtù e della libertà regna parimente nelle tragedie di Niccolò Rowe encomiatore e {p. 251}scrittore della vita di Shakespear. Nacque in Devonshire nel 1672 e morì in Londra di anni quarantacinque nel 1727. Regolare nell’economia, felice nella dipintura de’ caratteri, puro nella lingua, nobile ne’ sentimenti, quest’autore si novera in Inghilterra tra’ migliori tragici. Le più applaudite sono: la Suocera ambiziosa, ed il Tamerlano amato con predilezione dal proprio autore.

Il celebre Giorgio Villiers duca di Buckingam fautore de’ poeti Inglesi compose due tragedie, il Cesare, ed il Bruto regolari e non imbrattate da freddi amori. Egli scrisse ancora una commedia applaudita il Robersal, ossia la Ripetizione delle parti, in certo modo rassomigliante alle Rane di Aristofane.

Edoard Joung amico e socio ne’ lavori letterarii di Switf, Pope, e Richardson, ed autore delle Notti lugubre poesia sepolcrale, scrisse ancora tre tragedie, il Busiri tradotta in Francia da m. la Place, e rappresentata {p. 252}con applauso sul teatro di Drury-Lane nel 1719, la Vendetta uscita al pubblico nel 1721, ed i Fratelli che comparve nel 1753, riputata inferiore alla seconda per lo stile, ma meritevole d’indulgenza come frutto di un uomo pervenuto agli anni sessantanove dell’età sua.

Savage sventurato figlio dell’inumana contessa di Macclsfields, la cui memoria eccita il fremito dell’umanità, privo d’ogni umano soccorso coltivò fralle miserie la poesia. Contando diciotto o diciannove anni di età si acquistò qualche nome con due commedie, la Donna è un enigma, e l’Amor mascherato. Scrisse poi aggirandosi senza tetto e senza fuoco per le strade e per le taverne, la tragedia intitolata Tommaso Oversbury. Egli nacque dal nominato mostro nel 1698, e per opera della stessa barbara madre morì in carcere nel 1743.

Il famoso Tompson allievo di Adisson nato nel 1700, e morto del 1748, chiaro pel noto poema delle {p. 253}Quattro stagioni, non acquistò minori applausi colle sue tragedie, nelle quali si allontanò ugualmente dal sentiero calcato da Shakespear, e dal gusto di Adisson. Le sue tragedie Sofonisba, Agamennone, Alfredo, Coriolano furono dal pubblico assai bene ascoltate. Si replicò per più anni con applauso Sigismonda e Tancredi tragedia ricavata da una novella del romanzo di Gil Blàs, la quale in Francia s’imitò dal Saurin con la sua Bianca e Guiscardo, ed in Italia dal conte Calini colla Zelinda, dal conte Manzoli con Bianca ed Errico, e dal sig, Ignazio Gajone coll’Arsinoe. Ma la nazione malcontenta di Tompson per altri motivi, non volle ascoltare Edoardo ed Eleonora pubblicata nel 1739.

Il sig. Home forse tuttavia vivente che altri chiamò Hume, compose due buone tragedie, l’Agis e Douglas, le quali da’ suoi compatriotti non meno che dagli esteri che le conoscono, vennero concordemente applaudite.

Denny nemico di Pope scrisse in {p. 254}buono stile una tragedia regolare intitolata Appio e Virginia, argomento che ha un solo punto interessante, e per ciò poco atto a tener sospeso l’ascoltatore per cinque atti senza un’arte sopraffina. Un’ altra Virginia compose la signora Brooke, di cui favellò nel Giornale straniero di Parigi La Place nel 1757. In grazia del sesso per altro i giornalisti Inglesi trattarono con indulgenza l’autrice, la quale trasportò anche in inglese il Pastor fido. Non godè del medesimo favore l’autore della tragedia l’Amore ed il Dovere, ed ebbe la mortificazione di vederla rifiutata da i direttori di ambi i teatri, ed accolta con disprezzo, poichè fu impressa. Ugual destino toccò all’autore della tragedia di Atelstan.

Una efimera guerra critica si appiccò per essa trall’autore ed un censore geloso, cui forse appartiene la parodia di Atelstan intitolata, Turncoat, voltacasacca. Turncoat, Atelstan, ed i loro meschini autori, tutto si perde ben presto nel nulla.

{p. 255}Errico Brooke diede alla scena inglese una tragedia di Gustavo Wasa, ossia il Liberatore del suo paese, la quale dal sig. Du Clairon autore di una tragedia di Cromwel si tradusse felicemente in prosa francese, e fu impressa in Parigi nel 1766. L’argomento del Gustavo inglese non si aggira, come quello del Piron, intorno all’amore, ma tutto riguarda la libertà, per la quale ha solo combattuto Gustavo. L’azione è ben condotta e trattata con energia, e i caratteri si sostengono con nobiltà, e si esprimono con forza.

L’Andromaca di Racine si tradusse da Philipps di cui motteggiò Pope nella Dunciade. Smith ne tradusse la Fedra, ma vi congiunse anche l’intrigo del Bajazette del medesimo tragico francese. Il più grazioso si è, che Smith si vantava di aver tutta la sua filastrocca ricavata dall’Ippolito di Euripidea. Hille tradusse la Zaira {p. 256}con poche alterazioni, Cibber, Hoadley, Farquar, e qualche altro, composero varie tragedie che si trovano nella collezione de’ quaranta drammi usciti in Londra nel 1762 col titolo di Teatro Inglese.

Negli ultimi fogli periodici del secolo XVIII si lodano due tragedie pubblicate in Londra nel 1788, cioè la Sorte di Sparta, ossia i Re Rivali, ed il Reggente. Appartiene la prima alla parente di. Gay Mistriss Cowley, e rappresenta la rivalità pel trono di Leonida e Cleombroto, e le angustie della virtuosa Chelonice figlia del primo, e consorte dell’altro. Il Reggente del sign. Barthie Graathead rappresentata in Drury-Lane si dice ben condotta ed interessante; ma i personaggi subalterni parlano in essa in prosa, ed i principali in versi, giusta l’antica usanza de’ tragici inglesi.

Dall’opera sulla Tragedia Italiana dell’amico Cooper Walker rilevo tre altri tragici della Gran Brettagna, Oxford, Ravenscraft, e Preston. Lord {p. 257}Oxford compose la Madre Misteriosa tratta o da’ racconti della Regina di Navarra, o dalla novella 35 della II parte del Bandelli, in cui racconta che un gentiluomo sposa una propria sorella, e figliuola a un tempo senza saperlo. Oxford conduce artificiosamente la sua tragedia. La Contessa pel corso di quattro atti manifesta il suo pentimento, e fa ammirare varie sue azioni lodevoli, ignorandosi tuttavia il suo delitto. Ma nell’ultimo atto in un accesso di frenesia scoppia la verità, e l’orrore succede all’ammirazione. Il Walker la chiama tragedia inimitabile.

La tragedia di Ravenscraft s’intitola Tito Andronico, ovvero il Ratto di Lavinia. Atroce in ogni senso. Nuova Medea l’Imperatrice trafigge il proprio figlio. Il Moro che l’ha spinta all’eccesso esecrando, applaude al colpo della spietata madre. Mi ha superato, dice, nell’arte mia; di me più fiera ha trucidato il figlio; me ’l porgi, lascia che me ’l divori.

Dell’Irlandese Preston si hanno due {p. 258}tragedie, la Rosmunda e Messene libera. Trovasi la Rosmunda fralle di lui Opere postume pubblicate in Dublin nel 1793. È l’argomento stesso della Rosmunda del Rucellai, se non che l’Irlandese la mostra nell’atto V rea di adulterio, e l’Italiano la preserva dalla prostituzione, e dall’assassinamento. Il Walker ne commenta l’eccellente dipintura de’ caratteri del cupo Corrado, del magnanimo Astolfo, e della tenera Adelaide. L’argomento della sua Messene è appunto l’Aristodemo di Carlo Dottori; ma il Walker esalta quella del compatriotta, come più ricco di poetiche bellezze, e di più forte interesse. Il leggitore avrà cura di confrontarle, giacchè a me sinora non è dato di poterla leggere.

{p. 259}

II.

Abbozzo di tragedia Ersa o Celtica. §

Appartiene alla Gran-Brettagna, al secolo XVIII, e alla tragedia reale una traduzione di un dramma in lingua ersa pubblicata verso il 1762a. Il titolo è Comala, che n’è il personaggio principale. L’azione è fondata su di una tradizione conosciuta. Comala figliuola del re d’Inistore, e dell’isole Orhney amando Fingal figliuolo di Comhal lo segue in abito virile. È ravvisata da Hidallan seguace di Fingal, il cui amore avea ella disprezzato. Fingal l’avrebbe sposata se non l’impediva l’invasione di Caracul, che sembra essere Caracalla, il quale nell’anno 211 assalì i Calidonii. Fingal {p. 260}marcia contro il nemico, e lascia Comala in un colle, promettendo di rivederla la notte stessa rimanendo in vita. Vince, e spedisce Hidallan ad annunziarle il suo ritorno. Il traditore le narra, che Fingal è rimasto estinto. Il dolore riduce Comala agli estremi di sua vita. Torna l’amante vincitore, ed ella spira alla sua presenza. Eccone la traccia.

Dersagrena invita Melilcoma a deporre l’arco, e prender l’arpa essendo terminata la caccia coll’avanzarsi la notte. Melilcoma mostra temere per la vita di Fingal. Sopravviene Comala che si meraviglia che le acque del fiume Carun corrano torbide e sanguinose, e fa una preghiera alla luna. Arriva Hidallan colla funesta falsa notizia. Comala si scioglie in lagrime. Melilcoma dice, che ode un suono verso Arden, e che vede certo lume nella valle. «Ah, dice Comala, altri esser non può che il nemico di Comala, il barbaro figlio del re del Mondo… O spirito di Fingal, vieni, e dalla {p. 261}tua nube regola l’arco di Comala, sì che il tuo nemico cada come una lepre nel deserto… Ma che vedo! Fingal viene accompagnato da’ suoi spiriti, … Ombra diletta, vieni tu a spaventare insieme, e a consolare la tua Comala.» Ella fugge dall’amante credendolo estinto. Giungono i Bardi, e cantano la vittoria di Fingal; ma il loro canto è interrotto dall’avviso della morte di Comala. Fingal si dispera; Hidallan confessa il suo tradimento che ne ha cagionata la morte; Fingal lo discaccia; i Bardi cantano le lodi di Comala.

Questo picciolo poema rassomiglia più ad un dialogo che ad un dramma; ma chi rifletterà al luogo, all’entrate successive de’ personaggi, alla mescolanza del canto alla narrazione, vi troverà azione, spettacolo, movimento e patetico. Tra’ Celti cacciatori chi avrebbe sospettato di trovare un informe idea della poesia scenica, mancante per altro di un piano, rozza, senz’arte, ma non priva d’interesse? Ciò può sempre più rassodare quel che {p. 262}osservammo sin dal principio di questa istoria, che presto o tardi gli uomini raccolti in grandi o picciole famiglie sono tratti ad imitar per diletto più o meno imperfettamente le azioni umane a seconda del grado di coltura in cui si trovano.

III.

Tragedia Cittadina. §

Scendiamo dalla tragedia reale alla picciola cittadinesca, la cui invenzione appartiene agl’Inglesi, perchè qualche esempio che se n’ebbe in Italia ne’ passati secoli rimase obbliato. Giorgio Lillo giojelliere di Londra, il quale morì l’anno 1739, imprese a scrivere più d’una di simili favole tragiche di persone private sommamente atroci, per le quali si è communicata alle scene francesi ed allemanne la smania di rappresentare le più rare esecrande scelleratezze che fanno onta all’umanità.

L’anno 1735 si rappresentò in Londra la sua Fatal Curiosity, Fatale {p. 263}curiosità. L’Abate Arnaud che ne recò un estratto nel tomo VII della Gazzetta letteraria dell’Europa, «noi, dice, non abbiamo potuto leggerlo senza esserne commossi, non già per quella tenera generosa pietà cara ai cuori più sensibili, ma per certo tristo sentimento doloroso, onde l’anima rimane abbattuta, lacerata, istupidita». Eccone l’argomento e qualche tratto.

Wilmot e Aguese conjugi per fasto e per negligenza si trovano caduti nell’ultima miseria. Un di loro figliuolo savio ed onesto amante corrisposto di Carlotta bella e virtuosa giovane ma non ricca, per non comunicarle la propria indigenza, l’abbandona con la patria sperando di migliorare il suo stato nell’Indie, e si sparge poi il romore di esservi morto. I di lui genitori sussistono stentatamente per gli scarsi soccorsi della stessa Carlotta. Wilmot che sino a questo punto non si è imbrattato di alcun delitto, vacilla sotto il peso dell’infortunio, si pente di essere stato onesto senza frutto, e pensa {p. 264}ad ammazzarsi. Questa situazione è dipinta con forza nella prima scena. Avendo disegnato di’ morire congeda l’affettuoso servo Randal, ed essendo egli vicino a partire Wilmot gli dice: Addio… Ti arresta. Tu non conosci il mondo, a me costa caro l’averlo conosciuto; pria di separarci debbo darti un consiglio… asciugati gli occhi, o Randal; se piangi, non potrò parlare. Odi amico. Vuoi tu sollevarti? vuoi mutar fortuna? Lascia i libri, rinunzia alla filosofia, studia gli uomini; questo solo studio ti basterà. Tu da essi imparerai a nascondere i tuoi fini e a prendere la maschera dell’onore e della probità per arrivare al tuo intento a costo di chiunque sarà così sciocco di fidarsi della tua apparente onestà. Mi consigliate (gli dice il servo)a far quello che voi avreste vergogna di praticare. Ah! questa vergogna appunto (ripiglia Wilmot)mi ha rovinato. Io sono stato corrivo, vorrei che tu fossi più accorto; vorrei che {p. 265}tu trattassi gli uomini come essi meritano, come hanno trattato me, come ti tratteranno, amico… Approfittati del mio consiglio, e ricordati di questa lezione. Osserva il mondo, e sii malvagio e felice; addio.

Torna intanto il giovane Wilmot dall’Indie con una cassetta piena di gioje d’inestimabil valore, ed in abito indiano si presenta a Carlotta che trova tenera e fedele e la riempie di allegrezza. Intende lo stato de’ genitori; si rallegra pensando che è in sua mano il sollevarli; ma vuol presentarsi loro alla prima come un forestiere raccomandato da Carlotta. È accolto cortesemente; ma parlandosi di un figlio che hanno perduto, mostrano essi tanto dolore, che il giovane intenerito temendo di cagionarli una commozione troppo viva col palesarsi in quel momento, si ritira per riposare, consegnando prima alla madre la cassetta con dire di guardarla contenendo cose preziose. Agnese maravigliata della fiducia di quel {p. 266}forestiere è tentata dalla curiosità ad aprir la cassetta; resiste alquanto, poi l’apre e resta abbaccinata allo splendore di tanti diamanti. Quante ricchezze (ella dice)! Questo tesoro discaccerebbe da questa casa l’orrore che vi regna; ci vendicherebbe del disprezzo ingiurioso e della pietà più ingiuriosa ancora del mondo insolente. Esita, indi cede alla sugestione della necessità. Wilmot padre viene per dire che il forestiere è addormentato.

Wil.

Ma che miri tu? La di lui cassetta! L’hai tu aperta! indegna cosa! Se si sapesse…

Agn.

E chi lo saprà?

Wil.

Dobbiamo a noi stessi…

Agn.

Dobbiamo vivere. Stà bene l’essere delicato a chi non ha pane!

Wil.

Si ha tutto, quando si vive senza taccia, e si ha coraggio per morire.

Agn.

Io non vò morire.

Wil.

Ma quali mezzi hai tu di prolongar la vita?.

{p. 267}

Agn.

Eccoli. Mira questo tesoro.

Wil.

Oh cielo! che dici? vuoi tu provarmi? Ma bada bene; non v’è cosa più mostruosa che in certe circostanze il cuore umano non possa esser tentato ad approvare.

Agnese dice che essi possono evitare il suicidio detestabile per mezzo di un delitto minore. Ella piange, ella gli rimprovera la vita passata. Wilmot si fa sedurre. Oh Agnese Agnese, (le dice)se vi è inferno, egli è giusto che noi vi siamo tormentati. Egli entra. Agnese lo seguita con gli occhi, ne descrive i movimenti che esprimono i di lui pensieri di pentimento, di tristezza, di surore. Il giovane Wilmot esclama dalla prossima stanza: oh padre oh padre mio. Agnese atterrita chiama il marito. Arriva Carlotta, e intende l’orribile delitto. Si sentono gridi e gemiti. Agnese comprende di aver fatto uccidere il proprio figliuolo, e grida forsennata:

{p. 268}

Agn.

Tutto muoja sopra la terra; perda il sole la sua luce; una notte eterna ingombri la specie umana, perchè la nostra storia resti per sempre sepolta nell’obblio.

Wil.

Vane imprecazioni! Il sole continuerà a risplendere, e tutto compierà il suo corso, intanto che noi orrore e peso della terra saremo ridotti in polvere. Il nostro delitto, la nostra disperazione passerà di secolo in secolo per insegnare alle razze future, che il cielo irritato sa trovare certe vendette che l’umana mente non può prevedere. Muori prima di me; non mi fido della tua debolezza.

L’ammazza, e poi si ferisce.

Alla lettura di questo dramma orribile si crederebbe che l’autore fosse stato un uomo di una tetra immaginazione e di un carattere feroce. Ma la regola di giudicar dagli scritti del carattere dell’autore non sempre è {p. 269}sicura. Lillo era un uomo dolce, onesto, di costumi semplici, amato e stimato da quanti il conoscevano. Prima di questa Curiosità fatale egli compose George Barnwel o il Mercante di Londra, che rappresenta un personaggio nato con indole non prava che però sedotto da una donna che ama, ruba il padrone, assassina un suo zio e benefattore, ed è impiccato. Questo argomento è meno orribile del precedente. La gioventù ed una passione eccessiva possono eccitare qualche pietà per un delinquente, là dove nell’altro nulla scema l’orrore di una atrocità abbominevole conceputa a sangue freddo per un motivo vilissimo. Lillo compose ancora un altro dramma, in cui una bella e giovane donna maritata ad un uomo ch’ella non ama, e schiava di un malvagio che ama, vien dall’amante indotto ad esser complice dell’assassinamento del marito. L’autore di un Dizionario de’ Poeti e de i Drammi Inglesi osserva che Lillo era felice nella scelta de’ suoi argomenti. {p. 270}Questa scelta per gl’Inglesi felice tale non sembra agli occhi de’ più giudiziosi Francesi, Italiani e Spagnuoli. Sempre diremo che simili atrocità scelte a bello studio da’ processi criminali più rari o inventati da chi ignora il segreto di commuovere e di chiamar le lagrime su gli occhi con minor quantità di colori oscuri, potrà soltanto piacere in teatro al popolaccio che per aver la fibbra men dilicata si diletta dello spettacolo de’ rei che vanno al patibolo. Quanto poi alla morale istruzione, di grazia che mai può imparare da simili esempi un popolo, in cui passeranno molti e molti lustri senza che in esso avvengano misfatti sì atrocemente combinati? Dicesi che Lillo si prefigeva la correzione de’ costumi, e supponeva che le sue favole potessero prevenire i delitti grandi. Egli s’ingannava sul fine e sull’effetto delle rappresentazioni sceniche. Non tocca al pubblico l’uffizio di un esecutore di giustizia, e le anime atroci non si correggono col teatro. Malheur à la nation (diceva {p. 271}filosoficamente l’abate Arnaud)qui auroit besoin pour corriger ses moeurs de semblabes spectacles.

Una favola seria difettosa per la mescolanza comica è stata coltivata nel secolo XVIII come ne’ precedenti in Inghilterra. La nominata Miss Cowlei compose l’Evasione, e lo Stratagemma della Bella. Mistriss Moore scrisse Percy oltre ad alcuni drammi sacri.

Egli è però notabile che ad onta di tanti ammazzamenti, di tanto sangue e di tanti enormi delitti esposti sul teatro inglese, ogni dramma è preceduto da un Prologo rare volte serio, e seguito da un Epilogo ordinariamente comico anche dopo i più malinconici argomenti. Sovente avviene che la stessa attrice che sarà morta nella tragedia, venga fuori co’ medesimi abiti a far ridere gli spettatori. Un critico Inglese censura seriamente questo costume degli epiloghi nazionali, pretendendo che per mezzo del ridicolo che li condisce, si distrugga il frutto morale {p. 272}del dramma. Ma perchè ciò? Che connessione ha l’una cosa coll’altra? La di lui tetra morale quanto tempo dopo della tragica rappresentazione permette che si possa ridere? Passiamo alla commedia.

IV.

Commedia. §

La gloria della commedia inglese dopo del Wycherley è cresciuta per le favole piacevoli e regolari del sign. Congreve morto d’anni cinquantasette nel 1729. Varie ne compose tutte esatte ingegnose e piene di ben descritti caratteri assai di moda tratti da ciò che dicesi gran mondo, avendo animati con tinte vivaci e naturali gli uomini ben nati e male educati, falsi, doppii e furbi in fatti, ma nobili, onesti e virtuosi in parole. Si ha di Congreve parimente una favola tragica sommamente applaudita, la Sposa in lutto.

Riccardo Stèele membro del {p. 273}parlamento e compagno di Addisson nell’opera dello Spettatore Inglese scrisse alcune commedie popolari assai pregiate. Era sua massima che i componimenti teatrali debbano giudicarsi sulla scena e non impressi. Ma quanti di essi scritti pessimamente sono stati meritamente scherniti alla lettura, e non pertanto riuscirono di profitto a’ commedianti nel rappresentarsi a cagione di qualche situazione interessante, o di un’ attrice accetta al pubblico, o di un partito che mai non manca agl’impostori? Li chiameremo perciò buoni? La massima di Stèele presa di traverso può favorire i Pradroni in pregiudizio de’ Racini. Quelle distance immense (diceva Voltaire con tutto senno) entre un ouvrage souffert au thèatre et un bon ouvrage!

Nel 1733 si rappresentò in Londra l’Avare del Moliere ben tradotto dal Fielding miglior poeta e più modesto di Shadwel. Il dialogo non è trasportato parola per parola, ma imitato con libertà moderata e abbellito da qualche {p. 274}immagine. Questa commedia, con riuscita assai rara in Londra, si ripetè sempre con applauso ben trenta volte in circa.

Eduardo Moore nel 1756 se recitare nel teatro di Drury-Lane la Figlia ritrovata, che si scioglie pe’ rimorsi di una balia, e non lascia d’interessare mal grado di tal disviluppo mille volte ripetuto. Tutto il resto però può dirsi una filza di scene debolmente accozzate più che un’ azione ben combinata. Soprattutto il personaggio di Fadle basso triviale, poltrone, infame, preferito in casa di una dama ad un colonnello che la pretende in moglie, ma che intanto a guisa di un mascalzone è preso pel collo, scosso, minacciato, cacciato or da questo or quello, tal personaggio così spregevole dispiacque al pubblico, il quale obbligò l’autore a toglierne tutto ciò che era episodico. Egli poi nell’impressione lo produsse come l’aveva scritto da prima, e con questo lasciò una pruova dell’intelligenza del pubblico, e {p. 275}della propria indocilità ed imperizia.

Miglior pennello comico fu certamente quello di Murphy autore della commedia la Maniera di fissarlo rappresentata nel 1761. Egli l’accozzò co’ materiali di due commedie francesi, il Pregiudizio alla moda, e la Nuova scuola delle donne, ond’è che l’azione apparisce troppo complicata. Il leggitore si dispone nel tempo stesso agli eventi di Lovemore e di sir Constant e di madama Belmour. Ne risulta non pertanto uno scioglimento non infelice, ma da non compararsi però con altri che con un sol colpo mettono i fatti in tutta la necessaria chiarezza. Il ridicolo di un marito amante della propria moglie senza aver coraggio di manifestarsi, è più rilevato nella favola di Murphy che in quella di La-Chaussèe. Constant diviene totalmente piacevole allorchè parla con dolcezza alla moglie essendo soli, ed affetta asprezza ed umore al comparir de’ servi. Curiosa è la dipintura di coloro che aspirano ad entrare nel parlamento fatta da {p. 276}Constant nella propria persona. Che non ho io fatto per voi(dice alla moglie nella seconda scena dell’atto II)? Per darvi gusto non son diventato membro del Parlamento? Per essere eletto non mi son fatto vedere per un mese più ubbriaco del mio cocchiere? Per soddisfare la vostra vanità non mi sono esposto a tutte le insolenze di un popolaccio abbominevole? Non metto poi a conto quella maladetta cicalata che mi convenne recitare! Sa dio come la pronunziai e come la camera l’ascoltò! Io non sapeva dove mi avessi la testa. E che diavolo aveva io a fare col Parlamento?

Giorgio Colman traduttore di Terenzio produsse nel 1763 la Moglie gelosa commedia rappresentata in Drury Lane, e comparsa in seguito per varii anni sulle scene inglesi. Vi è calore, brio, vivacità. Il carattere della gelosa è dipinto con verità e naturalezza. Bene espresso è pure quello di sir Henns rustico occupato sempre de’ suoi cavalli. Graziosa nella prima scena {p. 277}dell’atto II è la genealogia di una giumenta rilevandovisi il ridicolo dell’eccessiva passione degl’Inglesi per le razze de’ loro cavalli. L’azione non ha luogo di languire per la moltitudine degli accidenti accumolati l’un sopra l’altro tratti in parte dal romanzo di Fielding. Si richiedeva però miglior destrezza nel prepararli, affinchè paressero condotti dalla natura, e non dal bisogno che ne aveva il poeta. Quando l’arte si mostra più della natura, lo spettatore si sovviene dell’autore, lo vede passeggiar tra’ personaggi, riflette alla realità, e l’illusione della fantasia è distrutta.

David Garrick il Roscio Inglese insieme col prenominato Colman lavorò al Matrimonio clandestino commedia in cinque atti rappresentata nel 1766 con sommo applauso. È una favola ravviluppata, in cui non si trascura la dipintura de’ caratteri tutti comici, e vi si veggono alcuni colpi teatrali che conducono lo scoprimento di un matrimonio segreto che ne forma il viluppo.

{p. 278}A differenza delle commedie francesi ove trionfa un solo carattere principale, rimanendo gli altri illuminati da una luce riflessa, in questa commedia tutti i personaggi hanno un colorito, e un carattere vivace, e compariscono a buon lume. Il suo merito principale consiste nella connessione delle scene, in una piacevolezza decente, e nell’eleganza dello stile. Colman e Garrick composero varie altre commedie ora uniti, ora separatamente. Appartiene al solo Garrick il Servo bugiardo, la cui traduzione intera si trova inserita nel Giornale straniero di m. La Place nel mese di agosto del 1757. É divisa in due atti, e scritta con gusto e forza comica. L’azione si rappresenta or nell’appartamento di Gayless giovane dissipatore ridotto alle ultime strettezze, ora in quello di Melissa da lui amata, la quale lo crede tuttavia dovizioso. Vi si scorge qualche tratto ricavato dal Dissipatore del des-Touches, specialmente nella prima scena. Le menzogne del servo Sharp ne {p. 279}formano il groppo. I Costumi del Mondo grande è un’ altra commedia del Garrick, in cui non si dipinge fuori della natura, ma si vede l’indole licenziosa del teatro inglese. Un marito offende la fede conjugale d’accordo con una cugina di sua moglie, e questa se ne vendica rendendogliene il cambio con un giovane militare. Garrick figliuolo di un Francese rifugiato in Inghilterra, ebbe per maestri il dottor Johnson e Colson di Rochester; e dopo avere esercitate varie professioni si unì al fine nel 1741 ad una compagnia comica, e per lo spazio di circa anni quaranta fece la delizia, e l’ornamento delle scene inglesi, e morì d’anni sessantatre in Londra nel 1779. Come attore Garrick non ebbe colà chi lo pareggiasse; ebbe bensì chi gareggiò con lui. Cibber altro attore inglese di non poco grido credeva di non essere a lui inferiore. Ciascun di loro resse un teatro per qualche tempo, ed ebbe un partito favorevole. Garrick alla lunga trasse a se tutti i {p. 280}voti, e sopraffece l’emolo. Cibber tuttochè non mancasse di talento, si vide ridotto ad esser capo di una compagnia subordinata, e poco accetta al pubblico, ed a rappresentare componimenti ajutati dalla musica e dal ballo. Egli con due dissertazioni su gli spettacoli che formano una specie di storia del teatro inglese, si lusingava di poter disingannare il pubblico sulle novità introdotte da Garrick, e sul di lui modo di rappresentare. Egli disacerbava così il proprio rancore, e Garrick seguitava ad esser amato ed ammirato.

Volendo il sig. Kelly prestar qualche omaggio al merito di questo attore, dedicogli una sua commedia la Falsa Delicatezza rappresentata nel 1768. Una fredda regolarità per quanto comportano tre intrighi amorosi, un fiacco interesse, alquanti difetti, poche grazie, non poca noja, caratterizzano questa favola. Terenzio e Moliere, dirò sempre, si leggono e si encomiano dapertutto, perchè dapertutto oggi s’ {p. 281}imitano sì poco? Nel 1781 si è impressa in Londra una commedia rappresensata in Drury-Lane the Disipation la Prodigalità. Non avendone veduto neppure qualche estratto, non saprei dire quanto ad essa convenga l’aggiunto di nuova, con cui si enunciò, non ostante che simile argomento, incominciando da Aristofane, e terminando a des Touches e Garrick, sia stato maneggiato tante volte dagli antichi, e da’ moderni.

Vuolsi parimente far menzione delle picciole commedie, o farse possedute dagl’Inglesi, nelle quali trionfa per lo più la satira, e la mimica buffoneria. Recheremo per esempio quelle di Dodsley da lui intitolate Novelle, o Satire drammatiche, e dedicate al Domani essere che non esiste ancora. Una di esse è il Re ed il Mugnajo di Mansfield, di cui si fe parola nel tomo precedente. Nella scena nona si trova un satirico ritratto della città di Londra che ne dà poco vantaggiosa idea, ma che è il ritratto di più di una {p. 282}società culta. Il Cieco di Betnal-Green (litolo che portava un’ altra favola antica del poeta Johnday del tempo di Giacomo I) è un argomento interessante pel contrapposto de’ caratteri bene espressi. Vi si vede dipinto a neri colori un milordo prepotente, ed un quakero ipocrita, i quali cercano di comprare, sedurre, e poi rapire una virtuosa fanciulla figlia di un cieco povero in apparenza. La Bottega di merceria (bijouterie) è tutta satirica. Un merciajo vende satireggiando, e moralizzando con grazia. Per esempio egli alle dame e agli zerbini che vengono in bottega, presenta uno specchio, in cui (egli dice) la civettuola può vedere la sua vanità, la bacchettona la sua ipocrisia, non poche femmine più bellezza che modestia, più smancerie che grazie, più spirito che buon senso. Presentando una scattola dice che è una rarità, perchè è la più picciola che trovisi in Inghilterra. Un cortigiano in essa può {p. 283}chiudere tutta la sua probità, un verseggiatore tutto il suo danaro.

Queste sono le tragedie, le commedie, e le farse del secolo XVIII, nelle quali si sono distinti al pari de’ migliori attori diverse attrici. Siccome l’Inghilterra può vantarsi di avere avuto in Garrick il suo Baron, così in madamigella Cibber ebbe la sua Le-Couvreur. Appena contava la Cibber diciotto anni della sua età, quando rappresentando la parte di Zaira nella traduzione di Hille, fe vedere alla nazione certa sensibilità spogliata da ogni caricatura istrionica, ed una declamazione naturale sino a’ suoi dì sconosciuta in quel clima. Nella fine del secolo trionfava sulle scene inglesi madamigella Siddons eccellente attrice, alla quale tributano gl’Inglesi tutti gli elogii per la verità, l’espressione e l’energia, che al loro dire ella possiede eminentemente. Bisogna dire che le attrici inglesi siano assai ben disposte alla declamazione. L’Inghilterra ha vantato prima della Siddons e della {p. 284}Cibber diverse altre attrici stimabili. Dopo la Nelly, cioè Elena Guyn attrice comica sì cara al re Carlo II, fiorì la celebre Ofields ammirata in vita, e sepolta poi accanto ai grandi poeti del suo paese in Westminster. Quins, Davesport, Marshall, Betteron, Lees furono parimenti attrici assai rinomate.

V.

Opera Inglese ed Italiana. §

Non mancò all’entrar del XVIII secolo quella specie di opera inglese che si chiamava mascherata, anche dopo della Circe di Carlo d’Avenant. La Rosamunda di Addisson fu una mascherata forse troppo da’ nazionali applaudita. Il Giudizio di Paride, e la Semele di Congreve portarono parimente il titolo di mascherate. Milord Granville che scrisse sull’opera musicale, una ne compose egli stesso, prendendo quasi per modello fra quelle di {p. 285}Quinault l’Amadigi di Gaula, e l’intitolò gl’Incantatori Brettoni.

Gl’Inglesi hanno avuta ancora un’opera buffa nazionale. Il Diavolo a quattro è una burletta musicale di caratteri comici ben combinati. Ma la più celebre in questo genere è quella del sig. Gay rappresentata nel 1728. Il titolo è Beggars’ Opera, cioè l’Opera del Mendico, e non già de’ Pezzenti, come la chiamarono alcuni Francesi, ed anche il sig. Giovanni Andres, impropriamente dandosi il titolo di pezzenti a’ ladroni facinorosi de’ quali in essa si tratta. L’autore la chiamò opera del Mendico, perchè nell’introduzione finse che un poeta mendico l’avesse composta, e presentata a’ commedianti. È un componimento di tre atti in prosa con sessantanove ariette da cantarsi. Incredibile è l’effetto che produsse in tutte le isole brittanniche. In Londra alla prima si recitò 63 volte, e si ripigliò nell’inverno. In Bath, in Bristol nel paese di Galles, in Iscozia, in Dublin, si {p. 286}rappresentò con insolito esempio or cinquanta, or quaranta, e non meno di trenta volte di seguito. L’attrice che rappresentò la parte di Polly, che si chiamava Miss Fenton, divenne la delizia di Londra. Se ne scrisse la vita, se ne lodarono i bei motti, se ne fecero più ritratti, ed in fine sposò pubblicamente il duca di Bulton uno de’ primi signori Inglesi. Il dottor Swift intimo amico di Gay nel suo Gazzettiere non meno che il Pope nella Dunciade, e che il Warburton nelle note che fece a questo poema satirico, l’esaltarono come un capo d’opera. È una viva imitazione, e un ritratto naturale de’ più scellerati della società, essendone gl’interlocutori spioni, traditori, ladroni di campagna e di città, bagasce le più impudenti, che abbracciando un loro amante lo disarmano, e lo consegnano alla forza pubblica. Il tutto è sparso copiosamente di oscenità, e di una satira ardita sopra tutti i ceti, non risparmiandosi i nobili, le dame, gli avvocati, le persone di {p. 287}corte, e fin anco i ministri di stato, i quali vi sono paragonati a i delatori de’ ladri ed alle persone più basse ed esecrabili. A mirar la nostra professione (dice l’infame Peachum ritratto di Jonathan Wild impiccato in Londra nel 1724)per certo aspetto si può chiamare disonesta, perchè noi rassomigliamo a’ ministri di stato nel dar coraggio a’ malvagi, affinchè tradiscano i loro amici. Il Mendico che nell’ultima scena torna in teatro col commediante, gli dice: Nel corso dell’opera avrete notata la grande rassomiglianza che hanno i grandi co’ plebei; è difficile decidere, se ne’ vizii di moda la gente colta imiti i ladroni di vie pubbliche, ovvero se questi ladroni imitino la gente colta.

Gay compose poi una continuazione dell’Opera del Mendico che intitolò Polly. Il Lord Ciambellano non ne permise la rappresentazione; ma una numerosissima soscrizione per farsi imprimere lo compensò ampiamente. Il riputato Giovanni Andres afferma che {p. 288}Pollyè meglio condotta e più interessante. Noi che non abbiamo ancor letta quest’altra opera, non possiamo altro dire, se non che m. Patu traduttore delle opere di Gay e di altri inglesi, ci fa sapere che Polly è fort inferieure à son prèmier ouvrage.

Gay nella sua Beggars’ Opera mottegiò l’opera italiana introdotta in Londra sin dal secolo XVII, come dal capo al fondo tutta fuori della natura. La musica italiana (dice lodandolo Swift) è pochissimo fatta pel nostro clima settentrionale e pel genio della nazione. I motti di Gay, di Swift, di Dennis, fecero bandir dall’Inghilterra la musica italiana, pretendendosi di averne corrotto il gusto, e cagionato nocumento agli spettacoli nazionali. Vi fu poscia richiamata; ma sembra che di tutti gli spettacoli scenici l’opera italiana sia colà la meno frequentata. Si spende nelle voci prodigamente, e ben poco nelle decorazioni e ne’ balli. I drammi, la musica, i cantanti, tutto chiamano dall’Italia.

{p. 289}Si concorre a questo spettacolo senza trasporto. Non disgusta la nostra musica, ma le donne specialmente (dicesi nel libro francese intitolato Londres) non possono assistere senza riso a uno spettacolo, in cui un Ati o un Eutropio teatrale si vede rappresentar seriamente Artaserse, Adriano, Enea; e quanto più codesti cantanti mal conci si sforzano di esprimere i loro affetti, tanto più si raddoppiano le risa femminili, In questa guisa la natura manifesta avversione e disprezzo per una mostruosità che l’ha oltraggiata per più secoli.

Per accennar qualche cosa della musica stromentale di quel paese, diciamo, che sino al regno di Riccardo cuor di leone era pressocchè selvaggia. Questo principe la coltivò con certa felicità sotto Blondel suo maestro. La regina Elisabetta che amava la melodia e che volle spirare ancora ascoltando un concerto di musica, contribuì agli avanzamenti di sì bell’arte, prendendone in parte il gusto {p. 290}dall’Italia dove fioriva. Nel passato secolo XVIII il famoso tedesco Hendel cagionò in Inghilterra la rivoluzione che aveva prodotto un secolo prima in Francia il fiorentino Lulli. Oggi gl’Inglesi vantano una musica nazionale discendente dalla Tedesca, la quale è figlia dell’Italiana. I concerti del Fax-Hall, e del Renelag, e quelli che si danno nella chiesa di san Paolo, e i particolari di tutta Londra, sono per lo più componimenti d’Inglesi.

VI.

Teatri materiali. §

I Teatri di Londra non son certamente i meno pregevoli dell’Europa. Quello dell’Opera, Drury-Lane, e Coven-Garden hanno una immagine della scalinata antica nella platea, e de’ moderni palchi nelle logge. L’edificio dell’Opera è un parallelogramma largo circa cinquanta piedi parigini e lungo trentasette sino all’orchestra. {p. 291}Sono in essi iscritti undici scalini per la platea, nell’ultimo de’ quali si alza una loggia di pilastri isolati con varie scalinate, e su questa una seconda colle sue scalinate, Sopra i lati della platea attaccati all’orchestra si elevano quattro ordini di logge, delle quali ciascuna contiene tre palchetti, presso a questi sono per ogni lato tre colonne isolate di ordine corintio con tre logge negl’intercolunnii, de’ quali ognuno ha tre palchetti l’uno sopra l’altro destinati per la famiglia reale. Le ultime di tali colonne formano il proscenio. Dello stesso ordine corintio sono le due colonne isolate che si veggono nel fondo delle scene. Questo teatro non manca di scale, corridoi e commodi ingressi. Dicesi però nel trattato del Teatro che tralle varie logge de’ palchetti e nell’anfiteatro manca quel necessario ricorso delle linee e quella concatenazione di parti, donde risulta l’unità e l’armonia di tutto l’edificio.

Di gusto e di capacità {p. 292}somigliante sono gli altri due teatri. Più armonia si scorge in quello di Coven-Garden, in cui le scalinate si uniscono colle logge, anche colle reali che sono ai due lati dell’orchestra e del proscenio, ed hanno solo due colonne per lato. Non sono perfette porzioni di cerchi, ma di poligoni tanto la parte anfiteatrale quanto gli scaglioni della platea. Il teatro di Drury-Lane verso l’ultimo lustro del secolo XVIII soffrì un incendio che lo distrusse e nell’ultimo anno di esso si pensò a riedificarlo.

Tutti i teatri di Londra hanno accessorii commodi e nobili; benchè per questa parte trovinsi in Europa diversi teatri che gli uguagliano ed alcuni che gli superano.

Ma niun teatro del mondo ha pareggiati ch’io sappia, non che superati i teatri di Londra in una decorazione altrove non più veduta, che dovrebbe accendere di bella invidia ogni nazione. Una società di marina destinata a fornire a’ poveri giovanetti i mezzi di {p. 293}fargli venire a Londra da ogni parte per apprendere il mestiere di marinajo per uso de’ vascelli di guerra, vi fu stabilita verso la mettà del passato secolo. Contribuirono volontariamente i membri di essa a sostenerla, ed il sovrano la soccorse con mille lire sterline, ed il principe di Galles con quattrocento. Concorsero ad aumentarne il fondo anche gli spettacoli scenici. Gl’impressarii prestarono gratuitamente la sala, e gli attori lasciarono in beneficio della società le loro porzioni. In una delle rappresentazioni di Drury-Lane si raccolsero intorno a 271 lire sterline. Per mostrar poi al pubblico il nobil frutto delle di lei cure e del patriotismo che univa gl’Inglesi a mantenere un’ opera così utile, si schierarono sul teatro 75 giovanetti, de’ quali niuno oltrepassava gli anni diciotto, e quaranta uomini provetti vestiti tutti dalla società. Che vaga pompa! che decorazione invidiabile! Oh chi potesse congiungerla con gli ornati, le dorature, i cristalli e le superbe {p. 294}illuminazioni in tutti i popoli che hanno mare e vagabondi, e che dovrebbero approfittarsi dell’uno e degli altri per avere una marina armata ed un commercio!

Fine del Tomo VIII.

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