Pietro Napoli Signorelli

1813

Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome IX

2019
Pietro Napoli Signorelli, Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi, tomo IX, [3e éd.], Napoli, presso Vincenzo Orsino, 1813, 237 p. PDF : Google.
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[Epigrafe] §

                     Ardito spira
Chi può senza rossore
Rammentar come visse allor che muore,
Metastasio nel Temistocle.
{p. 3}

STORIA CRITICA DE’ TEATRI
Tomo IX.

LIBRO IX.

Continuazione de’ Teatri Oltramontani del XVIII secolo. §

CAPO I

Teatro Alemanno. §

La turgidezza, u frizzi e le metafore stravanganti di Lohenstein, non meno che le bassezze di Cristiano Weisse, andavano sin dal principo del secolo XVIII cadendo nel meritato disprezzo. La giustezza e la verità de’ pensieri, e la correzione dell’espressioni già campeggiava nelle opere di Wolf, di Canitz, di Breitinger, Neukirck, Haller, Hagerdorn, Mosheim, Bodmer, {p. 4}Gottsched. Il solo teatro trovavasi tutavia sino alla fine del 1730 in preda all’Arlecchino, a Giovanni Salciccia, ai Gran Drammi politici ed eroici. Ed a chi debbonsi in primi tentativi per la riforma del teatro alemanno? Una donna, un’ attice, la famosa Neuber ebbe il coraggio di pensarvi e d’intraprenderne l’esecuzione, coll’animare Gottsched, e con lavorarvi ella stessa inoltrandosi nell’ardua impresa, ad onta delle persecuzioni, e scrorrendo per la Sassonia, e facendo la guerra a mal gusto. Kock abile attore ne secondò coraggiosamente gli sforzi traducendo alcuni componimenti francesi.

L’entusiasmo della Neuber passò al nominato professore di Lipsia Gottsched pieno della lettura de’ drammi francesi, e persuaso della giustezza de ’ loro princippii. Tradusse dal francese, compose, fe da altri comporre diversi drammi comici da sostituirsi alle antiche buffonerie, i quali dalla compagnia della Neuber si rappresentarono in Lipsia ed in Brunswich. A {p. 5}norma ancora del Catone di Adisson compose il sua Catone moribondo. Zelante osservatore delle regole ne formò una tragedia regolare; freddo, depresso, e poco nobile verseggiatore la vesti umilmente. I di lui colleghi produsseto Dario, Benisa, il Bello-Spirito, l’Ippocondrico, ed altre tragedie e commedie modellate freddamente alla francese. Gottsched unì a’ suoi tutti questi componimenti, e gli publicò in sei volumi. Mad. Gottsched conferi pure ai di lui disegni col Penteo tragedia, e colle commedie il Testamento ed il Matrimonio disuguale scritte con purezza, ma pesanti, sprovvedute di calore, e spesso per la lunghezza nojose.

La nazione posta un movimento applaudi al disegno di una riforma, ma molti ne disapprovavano il mezzo scelto, cioè l’esempio de’ Francesi. «Il nostro gusto e i nostri costumo (osservavasi nelle Lettere sulla moderna Letteratura pubblicate dal 1759 sino al 1763) rassomigliano più agl’Inglesi {p. 6}che a’ Francesi; nelle nostre tragedie amiamo di vedere e pensare più che non si pensa, e non si vede nella timida tragedia francese; il grande, il terribile, il malinconico fanno sopra di noi più impressione del tenero e dell’appassionato, e in generale noi preferiampo le cose difficili e complicate a quelle che si veggono con una occhiata.» Simili riflessioni contrapposte a quelle de’ seguaci di Gottsched fecero nascere in scrupolosi osservatori delle regole imitatori di Corneille e Racine, e quello de’ seguaci di Shakespear ed Otwai anche nelle mostruosità. Applaudiva il pubblico or l’uno or l’altro partito, e la sua approvazione data a due gusti contrarii provava contro ambedue, che l’un cammino e l’altro corso con genio poteva menare al medesimo scopo. Venue poscia chi ne propose un terzo.

Questa emulazione purgò in gran parte il teatro tedesco delle passate stravaganze. L’Alemagna già conta {p. 7}varii scrittori dramatici degni di lode. Tale è in prima Giovanni Elia Schlegel benchè morto nel più bello della carriera. Suoi lavori scenici furono cinque tragedie in versi, Arminio, Didone, Canuto re di Danimarca, le Troadi di Seneca, e l’Elettra di Euripide, e tre commedie in prosa, il Trionfo delle Donne sagge, la Bellazza mutola, ed il Misterioso. Spicca tralle prime il Canuto, benchè dicasi che contenga molte belle scene senza formare una bella tragedia. Tralle commedie si applaude il Misterioso per la decenza e per la moralità, benchè vi si desideri la piacevolezza comica. La morte gl’impedì di riuscir quanto poteva. Il re di Danimarca Federigo V l’aveva tirato ne’ suoi dominii, ove Schlegel godeva di una commoda fortuna essendo cattedratico a Soroë.

Giovanni Behermann negoziante di Amburgo morto da non molti anni compose due tragedie ben verseggiate il Timoleone, e gli Orazzi, ed in questa imitò Cornelio. Esse hanno un {p. 8} merito competente; ma i critici vi desiderano più calore e sfoggio minore di massime filosofiche.

Cristiano Gellert nato nell’alta Sassonia nel 1713, e morto nel 1769 mostrò buon gusto in più opere, e diede al teatro alcune commedie pregevoli. Spiccano fra esse la Falsa Divota, la Donna ammalata, il Biglietto del Lotto, nelle quali si dipingono al naturale i costumo correnti. Nel Biglietto del Lotto è ben colorito il sordido ed avaro Damone, e la vana e invidiosa et ciarliera mad. Orgone. Ma l’azione dovrebbe essere più vivace, il disegno più unito, lo sceneggiamento più connesso, l’entrare e l’uscire de’ personaggi più ragionevole, e soprattutto il costume più decente. A questi dì in Italia, in Francia, e nelle Spagne fremerebbe lo spettatore a una scena simile alla terza dell’atto III. Un piccolo ristoro, madama,dice Simone a mad. Orgone, e la bacia. Tristarello, ella risponde, chi vi permette questa libertà? Non temete di {p. 9}ammalarvi abbracciando una inferma? Ella poi si sente suffocare, respira con difficoltà… il seno se le discopre senza accorgersene… Simone torna ad abbracciarla dicendo, che seno di alabastro! che vista! Piggiore è la seconda scena dell’atto IV. Madama, dice Simone, è gran tempo che io non vi ho abbracciata. Ah mio caro, ella risponde, sento venire alcuno, ho paura che ci osservino; sentite; io men vado fingendo di essere con voi in collera, seguitemi, ma non si presto, perchè non s’insospettiscano. Se la modestia in questa favola è offesa, l’arte non vi è risparamiata. Lo scioglimento è seguito, si è ricuperato il biglietton, se n’è destinato il guadagno, e mentre lo spettatore attende di essere congedato, comparisce nell’ultima scena un nuovo personaggio, un signor Antonio amante di Carolina, e incominciano esami, discussioni, proteste di amore e disinteresse, e tutto così a bell’agio come si farebbe nel bel mezzo della favola.

{p. 10}Giovanni Cristiano Krüger nato in Berlino, e morto in Amburgo di anni ventotto nel 1750 costretto dalla povertà entrò nella compagnia comica di Schonemann,e lavorò come attore e come poeta. Corse poi per l’Alemagna, e connobbe molti letterati. Tradusse le opere di Marivaux e di altri. Le più stimate sue commedie sono; i Candidati, il Duca Michele, e lo Sposo ciecoa. L’abate Bertòla, che per altro raccolse varie notizie recenti del teatro tedesco, disse di quest’ultima, che oltre all’essere stata imi tata in Francia, passò anche in Napoli, e comparve in un’ opera buffa. In ciò s’ingannò di ogni maniera. Egli per l’opera buffa vedutasi sulle scene napoletane ebbe la mira al Finto cieco di Pietro Trinchera; ma quest’opera è ben diversa dallo Sposo cieco del Krüger, perchè il Finto cieco {p. 11}napoletano è un padre trincato che coll’apparente difetto de’ suoi occhi dà opportunità alle sue figluole di scroccare; là dove il Krüger dipinge uno Sposo che si finge cieci per gelosia. Esiste poi in Napoli un’ altra opera buffa intitolata lo Cecato fauzo, ed è appunto uno sposo che si finge cieco per gelosia, come quello del Krüger. Ma il dramma napoletano lo Cecato fauzo comparve sulle scene di questa città sin dal 1727 allorchè Krüger era bambino. Al contrario dunque di ciò che suppose il Bertòla, lo Sposo cieco del Krüger è copia della riferita opera buffa del 1727 quando il Krüger contava anni cinque d’età. Giovanni Federigo barone di Cronegh nato in Anspach poteva forse divenire un tragico eccellente, sì patetico e dilicato si dimostra nelle sue tragedie e nelle Solitudini, ovvero un gran comico per la facilità che ebbe nel dipingere i caratteri, e per la grazia che riluce in qualche sua favola; ma cessò di vivere acerbamente nel {p. 12}1756 in età di ventisei anni. Egli amava i buoni drammatici della Francia, e dimorando in Venezia acquistò la conoscenza de’ nostri grandi poeti. Il suo Codro tragedia regolare e ben colorita prometteva in breve un gran tragico. Olindo e Sofronia non inferiore rimase non compiuta. Riusci similimente nel genere comico. Il suo Diffidente non iscarseggia nè di verità nè di piacevolezza. Vi si dipinge un sospettoso allevato in campagna, e menato ad un tratto a studiar legge senza l’accompagnamento di altre cognizioni sociali che sogliono ripulire la zotichezza scolaresca, e correggere lo spirito di sottigliezza, e di cautela facile a degenerare in diffidenza. Questa commedia si trova tradotta dall’abate Arnaud nel Giornale straniero di Parigi nel mese di aprile 1762.

Intorno al medesimo tempo fiorì il sig. Brawe mostrando i medesimi talenti teatrali, e morì parimente negli anni suoi più verdi. Scrisse varie tragedie regolari, benchè l’espressioni non {p. 13}sempre fossero naturali. Il suo Deista riscosse grandi applausi nella Germania e ne’ paesi esteri.

Tre autori tedeschi si distinsero più nel genere pastorale, Rost, Gessner e Gaërtner. Il primo nato nel 1711 in Lipsia scrisse diverse pastorali in un atto rappresentate per tramezzi nelle tragedie e nelle commedie. Ad onta degli applausi che ne riscosse, non si trovarono abbastanza esatte e decenti. Il delicato Salomone Gessner nato a Zurigo nel 1730, e morto prima del 1789, il quale in tante guise ritrasse felicemente la bella e semplice natura, volle pure mettere sulle scene le bellezze pastorali che egli leggiadramente seppe colorire. Degna di molte lodi fu la sua pastorale Evandro ed Alcimna tradotta ed imitata in Francia. Cristoforo Gaërtner professore di eloquenza nato in Freiberg compose parimente una pastorale molto applaudita la Fedeltà al cimentoa. Noi ne {p. 14}commendiamo la bella scena di Filli e Mirtillo, in cui la ninfa gli propone di amare un’ altra ch’ella dipinge assai vezzosa, ed egli risponde naturalmente con quel motto pieno di fuoco replicato a tempo, ma non è Dori. Bello è pur l’altro di Dori stessa nella scena decima. Egli dice, Mirtillo infelice! chi ti consolerà? Io, risponde facendosi vedere la sua Dori.

Cristiano Felice Weiss nato nel 1726 ha mostrato nelle sue poesie di più di un genere or la delicatezza di Guido Reni e dell’Albano, ora il terribile di Michelangelo, or la piacevolezza di Teniers. Tali idee ci risvegliano le sue poesie liriche, le Canzoni di un’ Amazone, e le sue favole tragiche e comiche. Egli vedeva ugualmente gli errori tanto di chi contento della regolarità de’ Francesi non sentiva il gelo e la languidezza di una servile imitazione, quanto di chi trasportato dall’entusiasmo di Shakespear senza possederne l’ingegno, ne contraffaceva piuttosto le mostruosità che le bellezze, {p. 15}il patetico, il sublime. Volle dunque tentar di accoppiare al giudizio di Cornelio il colorito e la forza dell’Inglese. Con questo intento compose più tragedie, tralle quali si distinguono Edoardo III, Riccardo III, ed Atreo e Tieste. Singolarmente la prima si ha meritati gli applausi degli stranieri intelligenti per la saviezza del piano, per la felice distribuzione delle parti; per la graduazione dell’interesse, per la forza del nodo, per lo sviluppamento e per l’elevatezza delle idee, per la verità de’ caratteri, per la rapidità dello stile, pel calore del dialogoa. Quanta energia non ha la virtù in bocca di Edmond! Quanta verità non si scorge nel virtuoso carattere di Edoardo depresso dall’autorità materna! Qual contrasto di doveri, di rimorsi e di fiacchezza in Isabella! Il monologo di lei nella seconda scena dell’atto II n’ {p. 16}esprime con vivacità il fatale amore per Mortimero che la predomina, e la memoria del re suo sposo che languisce ne’ ferri, e del figlio ch’ella tiene lontano dal trono. Ma non piacemi che nell’atto III si ripetano le istanze di Mortimero per la perdita del re e di Edmond e di Lancastro, ed i rimorsi della regina senza grande varietà di concetti. Patetica però è la seconda scena dell’atto IV, in cui Lancastro dipinge ad Edmondo il padre che geme nella prigione. Le agitazioni d’Isabella nella terza scena dell’atto V, poichè l’esecrando delitto è compiuto, sono dipinte con forza. È da osservarsi ancora l’effetto che fa in lei l’immagine del corpo di Edoardo grondante di sangue. Interessa grandemente il di lei dialogo col figlio. Secondo me Weiss ha portata in Alemagna la tragedia reale al più alto punto.

Egli tentò parimente la riforma dell’opera comica spogliandola delle buffonerie irragionevoli con alcuni suoi componimenti scritti in prosa {p. 17}frammischiata con versi. Nella sua commedia i Poeti alla moda,, ben disegnata, bene scritta e ben tradotta dal Riviere in francese, Weiss si prefisse di correggere col ridicolo due partiti egualmente stravaganti. L’Alemagna era divisa in due opposte schiere di verseggiatori. L’una a forza di stentati esametri tedeschi, d’iperboli insane, di pensieri enigmatici, di tenebre e di gonfiezze si lusingava di pareggiar Milton e Klopstock; l’altra con versi rimati, radendo il suolo con freddi snervati e bassi concetti, pretendeva di avere acquistata la dolcezza, la grazia e la semplicità di Gessner. Weiss satireggiò i primi dipingendoli nel carattere del sig. Gergone, e ritrasse al vivo i secondi in quello del signor Rima-ricca. Il buon tuono, la piacevolezza, il sale comico campeggia nella sua favola.

Conta l’Alemagna tra’ suoi tragici il celebre ministro Federigo Amadeo Klopstock autore del poema la Messiade nato nel 1732 in Quedlinburgo. Egli compose quattro tragedie la Morte di {p. 18}Adamo, il Salomone, il Davide, la Battaglia di Arminio. La prima in tre atti ha una bellezza originale. L’autore filosofo retrocedendo sino a’ tempi primitivi ha conseguito di rilevare i sentimenti che doveano occupare il primo uomo nell’imminente termine del suo vivere. E con un fatto sì comune, come è la morte naturale di un uomo decrepito, è giunto a destare quel terrore tragico, che con impotente sforzo cercano di eccitare i moderni scrittori di favole romanzesche ed atroci. Uscì in Magdeburgo nel 1764 il Salomone divisa in cinque atti, in cui si rappresentano gli errori ed il pentimento di Salomone. Tra’ personaggi s’introducono in essa Moloch e Chamos falsi numi personificati; ma l’autore se ne giustifica, considerandoli come demonii che prendono forma umana. L’interesse nel Salomone scritto in versi alla foggia antica e non rimati, non è sì vivo come quello dell’Adamo; perchè, come egli stesso osserva, le bellezze proprie de’ caratteri e de’ costumi delle {p. 19}nazioni sono meno universali di quelle che si traggono dalla natura umana. Egli non pertanto con tal arte ne prepara gli eventi e ne maneggia le passioni che sa commuovere ancora col Salomone. L’arte stessa si scerne nel Davide, in cui si legge una robusta descrizione della peste. La Battaglia di Arminio scritta parte in prosa e parte in versi per cantarsi contiene la sconfitta di Varo ricevuta da Germani condotti da Arminio.

Ma se Weiss e Klopstock coltivarono con competente felicità la tragedia grande o reale in Alemagna, si è nella cittadinesca sommamente segnalato Amodeo Efraim Lessing imitatore degl’Inglesi nato nel 1730 in Kamenz. Le sue favole lugubri a noi note sono: Minna de Barnhelm, Filota, Natan, Emilia Gallotti, Miss Sara Sampson. Tutti i voti si sono riuniti a tener quest’ultima per la migliore delle sue tragedie urbane, essendo scritta con precisione, discernimento ed intelligenza nel colorire i caratteri e le {p. 20}passioni. Ne recheremo uno squarcio che darà qualche idea del patetico che vi si maneggia e dello stile. Io cominciava (dice Sara all’amato suo rapitore Mellefont)a gustarle dolcezze del riposo, quando tutto ad un tratto mi e sembrato di trovarmi in una ripida balza. Voi mi precedevate ed io vi seguiva con passi timidi ed in certi, e pareva che mi deste coraggio con qualche sguardo che di tempo in tempo rivolgendovi gittavate sopra di me. Incontinente ascolto una voce che dolcemente mi comanda di arrestarmi. Era la voce di mio padre… Misera me! non posso dimenticarlo! Ah se la mia rimembranza è a lui così amara e crudele, se anche me egli non può obbliare… Mano; egli a me più non pensa… almeno lo spero… lo spero? ah qual consolazione, qual terribil sollievo per Sara! Nell’istante ch’io mi volgo verso dove veniva la voce, il piè mi manca, vacillo, son presso a precipitare nel fondo dell’abisso, ma {p. 21}mi sento trattenere da uno che pareva che mi rassomigliasse. Io co’ più vivi ringraziamenti esprimeva la mia gratitudine, quando egli trattosi dal seno un pugnale che teneva nascosto, alza il braccio e l’immerge nel mio petto, dicendomi, io ti ho salvata per perderti. Questo sogno che adombra la sostanza dell’azione, è un espediente mille volte praticato; non pertanto dispone a quel piacevole dolore che commuove e tocca gli animi sensibili nelle tragedie. Forte, odioso, detestabile è il carattere dell’empia Marwood, e rassomiglia a quello di Milvoud del Barnwelt Inglese; ma perchè lasciarla impunita nel fine? Trovasi in generale nel drammi lugubri di Lessing invenzione, forza, patetico e giudizio ed economia nell’azione; e ne incresce che tutti sieno così lunghi e che si disviluppino sì lentamente. Ciò che dispiace ancora a coloro che amano l’urbanità al pari delle lettere, è che egli non meno del francese Belloy attribuisce i più infami tradimenti usciti {p. 22}unicamente dal suo, alle famiglie più cospicue italiane, come la Gonzaga, l’Appiana, l’Orsina, di che ebbe ragione di riprenderlo anche il sig. Bettinelli. L’abate Andres errò nel parlar di Lessing in diverse guise. In prima egli non istimò composizione di Lessing l’Emilia Gallotti che egli non senza ragione disprezza per le bassezze e le assurdità; ma io credo piuttosto all’alemanno Federigo II il grande, il quale diceva che egli avrebbe stimato più questo scrittore, se non avesse composta Emilia Gallotti. Di poi egli senza esitare sostiene che Lessing sorpassò tutti i tragici nazionali. Egli avrebbe dovuto riflettere alla gran distanza che distingue una tragedia reale dalla cittadina maneggiata dal Lessing; ed alla malagevolezza di riuscire in un piano vasto che chiami l’attenzione de’ popoli interi più che delle famiglie private; ed in fine all’arduità di mostrarsi eloquente in versi e nel genere drammatico senza alterarne la natura. Attenderà dunque il sig. Andres che un {p. 23}autore di tragedie urbane, ancorchè buone, riesca del pari nella grand’arte de Sofocli e de’ Cornelii, per anteporlo in Alemagna al Klopstock ed al Weiss.

Lessing compose altresì commedie spiritose e delicate per la dipintura de’ costumi. Le più pregiate sono; lo Spirito-forte in cinque atti, gli Ebrei, il Tesoro in un atto solo. Nella prima ha ben colorita la malvagità del dissoluti ridotta a sistema, vizio di moda degno di essere schernito e corretto. Combatte nella seconda il pregiudizio volgare di supporre incapace di virtù morali chi ha la disgrazia di esser privo del vero lume rivelato, ed all’opposto incapace di vizii chiunque nasce ne’ paesi che ne sono rischiarati. Il Tesoro più della precedente sembra propria della scena, meno della prima prolissa, ed in generale più comica ed interessante. Si ammira singolarmente in essa il tratto di generosità di Filto che vuol perdere per qualche tempo piuttosto la stima in apparenza che mancare di fedeltà all’amico. L’idea poi {p. 24}della scena di Raps e Anselmo è quasi degna del pennello di Moliere.

Giovanni Guglielmo di Gerstenberg nato nel 1737 a Tundern, imitatore della maniera di Ossian nelle sue Poesie di uno Scaldo, ha dato al teatro tedesco l’Ugolino tragedia terribile sul gusto inglese. Giovanni Brandes ha prodotta l’Ottavia tragicommedia in prosa in cinque atti, e la Locanda commedia rattoppata di ritagli della Scozzese e del Beverley. Due tragedie in prosa sul gusto inglese si coronarono verso il 1780 in Amburgo, cioè i Gemelli di Klinker , ed il Giulio di Taranto di Leusewitz, nell’ultima delle quali si notano alcune bassezze ed assurdità. Il colonnello Ayrenhoff uno de’ letterato dell’Austria compose più tragedie e commedie, e tralle prime viene sommamente celebrata dall’abate Bertòla la Cleopatra, la quale però si pretende che non abbia secondato il disegno dell’autore di produrre una tragedia tedesca da paragonarsi con alcuna di Racine, cosa che sembrava {p. 25}tanto difficile al Wieland autore del Mercurio tedesco. Ma il Postzug, cioè il Tiro a quattro commedia del medesimo Ayrenhoff oltremodo felice nella rappresentazione, in cui si dipingono al naturale i costumi e le ridicolezze della nazione, in cui si dipingono al naturale i costumi e le ridicolezze della nazione, fe dire al re di Prussia Federigo II che i Tedeschi sono più felici nella commedia che nella tragedia. Egli stesso questo coronato capitano, filosofo e poeta volle calzare una volta il comico borzacchino colla sua Ecole du monde commedia scritta in prosa francese in tre atti pubblicata tralle di lui opere postume sotto il nome di m. Satirico, e fatta , com’egli disse per recitarsi incognito. L’oggetto morale è di mostrare l’importanza dell’educazione della gioventù; e la satira vi lancia i suoi strali su di coloro che per falsi principii la corrompono. Vi motteggia contro di un falso analista e metafisico che tiene stipendiato un professore che scrive per lui, ed attribuisce gli errori politici dello stato all’ignoranza dell’algebra. Di più vi si {p. 26}si dipinge un di lui figliuolo che dall’università degli studii ha riportato ignoranza, libertinaggio e rozzezza, e che domandato dal padre, come vanno le monadi? risponde pieno d’imbarazzo, esse sono, come sempre furono, molto stimate. Ma l’azione, benchè condotta con regolarità, manca d’interesse, di vivacità, di forza comica e di delicatezza. Il barone di Gemmingen ha composto il Padre di famiglia Tedesco, che si trova nella collezione de’ drammi tedeschi tradotti in francese fatta dal Friedel. L’autore si prefisse la più bella azione che possa onorare un buon padre di famiglia per farlo trionfare utilmente sulla scena; cioè l’obbligare, ad onta della propria nobiltà, il figliuolo a mantener la fede ad una fanciulla di condizione inferiore ch’egli avea renduta feconda. Giovanni Goete nato nel 1749 in Francfort sul Meno, oltre ad alcune favole comiche in prosa sparse di versi per cantarsi, ha composto una tragedia patriotica, che chiamò spettacolo intitolata Göz di {p. 27}Berlichingen, notabile per la lunghezza, equivalendo almeno a quattro tragedie regolari, pel numero degli attori che passano i trenta, e per le assurdità non inferiori a quelle di Shakespear. Non pertanto si accolse in Berlino con trasporto di piacere, e con quegli applausi che nelle società che conservano qualche idea di libertà spirante, tributerà sempre il patriotismo a chi ne fomenta l’amore.

Per ciò che riguarda la musica tedesca, manifesti ne sono i progressi fatti dopo che si sparsero per quelle contrade i capi d’opera della musica italiana. Chi può ignorare la celebrità de’ famosi maestri di musica nazionale vocale, il rinomato Hendel, il chiaro Hass detto il Sassone alunno insigne de’ conservatorii di Napoli; il patetico ed armonico Back, l’impareggiabile Gluck onorato alcuni anni sono di una statua in Parigia. Quanto a’ poeti {p. 28}melodrammatici tedeschi, malgrado dell’esempio del gran poeta Cesareo italiano, essi hanno coltivata l’opera mitologica rifutata dall’Italia. Federigo Augusto Werthy di Wietemberg nato nel 1748 ha composte due opere musicali mitologiche, Orfeo, e Deucalione, Cristoforo Martano Wieland nato nel 1733 in Biberach, il quale prodotto avea prima la tragedia Giovanna Grais, compose la Rosamunda, la Scelta di Ercole, l’Aurora, l’Alceste drammi musicali alla francese. Brandes ed Engel ne scrissero ancora, e l’Arianna è un monodramma tedesco in cui lavorarono entrambi {p. 29}sulle trace del Pigmalione. Monodramma è parimente la Medea del Gotter. Essi però chiamarono monodrammi tali componimenti scritti in prosa, benchè in essi non sia un solo il personaggio che v’interviene. E piacesse al cielo che fosse questa la sola ragione che sino a questi di tiene tanto lontani codesti freddi monodrammisti dal Pigmalione che pretendono imitare privi come sono d’ingegno! Ma l’augusta Marianna Walburga di Baviera che era elettrice di Sassonia discordando da’ nazionali coltivò il melodramma istorico di Zeno e Metastasio, ed ella stessa l’animò colla musica; valendosi anche dell’idioma italiano più del tedesco pieghevole alla melodia tanto nella Talestri opera eroica, quanto nel Trionfo della fedeltà pastorale.

Può anche contarsi per certo pregio dell’Alemagna l’aver contribuito al risorgimento dell’arte pantomimica con intere favole. Hilverding nativo di Vienna pose in iscena varii balli di azioni compiute, ed ebbe in ciò un abile {p. 30}seguace nell’italiano Angiolini.

Un paese sì vasto popolato e diviso in varii potentati, e dedito nel secolo XVIII a coltivar con tanto ardore la poesia teatrale, dee fuor di dubbio aver teatri materiali per numero, e per magnificenza convenienti al lustro di ciascuna città di primo ordine. Sappiamo che tutti sono costruiti alla foggia moderna a più ordini di palchetti, e con platea di forma per lo più ovale. Il teatro della corte di Vienna che sin dal secolo XVII fu addetto all’opera italiana, dal 1752 cominciò ad ammettere anche la commedia francese. È un edificio nobile e capace per le decorazioni, e per gli balli. Il ridotto del giuoco fatto nel recinto di tale edifizio comunica col teatro. Le rappresentazioni tedesche si eseguiscono in Vienna in un teatro diverso, ed anche più grande di quello della corte.

I teatri dell’opera e della commedia nazionale di Praga superano in grandezza quelli di Vienna, e tutti poi {p. 31}cedono al teatro di Dresda. Meritano di mentovarsi anco i teatri di Monaco e di Amburgo. La sala ossia il teatro dell’opera di Berlino si costruì sotto il gran Federigo II, e si reputa il più bello di tutto il settentrione, ed è il solo che può gareggiare in qualche modo con quelli di Torino e di Napoli. Il re quasi appena asceso al trono tra i travagli e le spese della guerra volle dedicare questo monumento al gusto della musica e delle arti, e vi chiamò con molta spesa gli attori musici dall’Italia, e la compagnia de’ balli da Parigi. La prima opera che vi si rappresentò nel I di dicembre del 1742, fu Cleopatra colla musica di Graun. Una delle opere assai applaudite in Berlino fu l’Ifigenia di cui fa menzione l’Algarotti. In Potsdam eravi un altro teatro, in cui Federigo ascoltava l’opera buffa italiana.

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CAPO II.

Teatro Olandese: Danese: Suedese: Polacco. §

Benchè gli Olandesi nelle antichissime loro Assemblee di verseggiatori anche estemporanei, tra’ quali vuolsi che siesi distinto nel secolo XVII il poeta Poot, recitarono ancora favole sceniche; nondimeno lenti colà saranno sempre i progressi di un’ arte che non si pregia, e che da buoni talenti si sdegna di coltivare. Dopo del loro Vondel, e del Van-del-Does appena si lodano tralle migliori favole del paese due tragedie di Rotgans, ed un’ altra della signora Van-Winter nata Van-Merken autrice (che viveva ancora verso il 1789) del bene applaudito poema in sedici canti intitolato il Germanico.

Tardi, ma più felicemente la Danimarca cominciò a coltivar la drammatica per le cure del re Federigo V {p. 33}benemerito della letteratura e del teatro. Egli non solo invitò ne’ suoi dominii Schlegel e Klopstock, ed altri chiari letterati, ma fondò un’ accademia per fomentar la poesia scenica tedesca, facendovi esaminare i drammi presentati, e coronando i buoni approvati. Il teatro di Copenaghen, finchè sussistette tale accademia, parve degno della publica considerazione. Si segnalò a’ nostri di tra’ Danesi il barone Holberg con varie commedie che non mancano di merito. Giovanni Ewald morto verso il 1780 compose la Morte di Balder, ed altre favole che gli fecero onore fra suoi. Dee però singolarmente pregiarsi la Danimarca della signora Passow nata in Copenaghen, e morta nel 1757. Era ella stata celebre attrice del teatro nazionale, e poi nel 1753 divenne moglie di un tenente del re che nel 1731 era stato capitano della compagnia dell’Indie. Oltre della traduzione da lei fatta del Filosofo Inglese e del Don Quixote, e di varie sue poesie, ella scrisse pel teatro in {p. 34}più di un genere. I Difetti dell’amore re pastorale in versi di un atto riscosse applausi da’ suoi e dagli stranieri per il piano ben condotto e ben colorito a. Il suo Amor non previsto o Cupido filosofo altra favola in versi, ed in un atto, fu parimente favorevolmente ricevuta dal pubblico. La Marianna, ovvero la Scelta libera in prosa in cinque atti si rappresentò dopo la di lei morte con particolari encomii. Questa ingegnosa poetessa, che possiam chiamare l’Isabella Andreini de’ Danesi, contribuì anche all’intrapresa, e all’esecuzione della prima opera musicale danese rappresentata a spese di alcuni particolari nel 1757 in Copenaghen colla mira di dimostrare che la lingua patria ben si adatta alla musica.

La Suezia incoraggita da’ proprii sovrani si è con più ardore nell’inoltrarsi il secolo XVIII dedicata alla poesia {p. 35}scenica, e circa il 1780 ha innalzato in Stokolm un teatro non inferiore agli altri d’Alemagna. La regina Cristina si valse della penna del Messenio per far comporre favole in idioma suedese tragiche e comiche da rappresentarsi da cavalieri e dame di corte. Questi primi tentativi vennero in qualche modo superati da Olao Dahlin nato nel 1708, che alcune ne scrisse meno imperfette. La nazione allora gli diede il nome di padre della poesia suedese per la tragedia di Brunhilde soggetto ricavato dall’antica storia del settentrionea. Il defunto re Gustavo per animar la nazione congedò la compagnia francese, e compose egli stesso la Generosità di Gustavo Adolfo recitata da cavalieri e dame di corte sul teatro di Utrichsdahalb. Adlerbeth {p. 36}suo segretario secondo con buon successo le reali vedute con Ifigenia in Aulide tragedia con cori ricavata dagli antichi, e con Cora ed Alonso componimento posto in musica dal Nauman, e con altre favole musicali imitate dalle francesi, cioè Procri e Cefalo, Anfione, Nettuno ed Anfitrite. Il conte Gillemborg compose il Petimetre commedia, Birger Jarl drama eroico, e Sune Jarl tragedia. Alcune traduzioni di opere musicali francesi ed italiane composero Lalin, Rotmar, Wellander. Flintberg, autore di un componimento intitolato il Sole risplende per tutto, tradusse l’Orfano della China del Voltaire; Manderstroom, oltre ad un’ opera francese intitolata Silvia, trasportò in isuedese l’Ifigenia del Racine, e i Due Avari del Falbaire; Ristel la Merope del Voltaire; Folberg la Zaira; Murberg l’Atalia; e finalmente la poetessa Holmstedt il Mercante di Smirne; e la sig. Malmstedt il Lucilio del Marmontel, e Zemira e Azor.

{p. 37}In Polonia oltre alle rappresentazioni musicali italiane eroiche e buffe, si è da taluni incominciato a migliorare il dramma nazionale. Nel Giornale Enciclopedico di Buglione si è recato un estratto dell’Avaro magnifico commedia di un magnate, lodandosene la verità de’ caratteri, e il dialogo e lo stile. La Sposa per vanità nel bisogno, ed il Giovane castigato sono due commedie polacche lodate ne’ giornali. In Varsovia il principe Martino Ludomirski fondò un conservatorio per istabilirvi una scuola di attori polacchi.

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CAPO III.

Spettacoli scenici della Russia. §

Il vasto Imperio Russiano che comprende un paese disteso da occidente in oriente quasi per 2000 leghe, ed intorno a 700 da mezzodi a settentrione, che giugne da levante per diversi punti alle frontiere della China, e alla Gran Tartaria, e confina da ponente colla Suezia, col Baltico, e colla Polonia, da settentrione col Mar Glaciale, e dal mezzogiorno s’innoltra verso il Mar Nero minacciando l’Ottomano: quest’Impero quasi sino al terminar del XVII secolo non molto differiva pe’ costumi selvaggi da’ Samojedi, Morduati e Siberiani che ad esso appartengono. Ignoti quasi interamente al resto dell’Europa i Moscoviti privi di libertà, immersi in una profonda ignoranza sostenuta da un’ antica legge che proibiva ad ognuno l’uscir dal proprio {p. 39}perse sotto pena di morte senza la permissione del patriarca, non aveano idea se non di quello che era sotto i loro occhi, e ignoravano tutte le arti, a riserba di quelle che la sola natura ed il bisogno sugerisce.

In tale stato potevano essi conoscere altri spettacoli scenici, che quelle prime rozze, ed informi rappresentazioni chiamate sacre, nelle quali si accoppiavano sconciamente la farsa, e la religione? In effetto altre non ebbero sino al XVIII secolo, e si rappresentavano ne’ monisteri in occasione di qualche festa, concorrendovi tal volta il sovrano con i grandi della corte. Pietro il grande che dal suo famoso viaggio tornò ne’ suoi vasti dominii, come dicesi che Osiri entrasse nell’Indie, accompagnato da tutto il cortegio delle muse, chiamar si può il vero fondatore e legislatore della nazione Russa, avendo cambiata la stessa natura de’ suoi stati ed i costumi di que’ popoli, ed introdotto fra loro lo spirito d’industria ed arti e scienze e {p. 40}collegii ed accademie e librerie e stamperie. Benchè però egli amasse la poesia e la musica, limitaronsi i suoi piaceri ai balli in maschera e ad altre feste che diede alla nazione.

Gli spettacoli teatrali non cominciarono a desiderarsi e a comparire in Pietroburgo se non sotto il regno dell’imperatrice Anna, essendovisi allora chiamata la prima compagnia comica italiana ed un’ opera musicale bussa.

Nel seguente regno di Elisabetta s’introdusse nella corte una compagnia francese ed un’ opera musicale seria italiana. I Russi, ad esempio dell’Alemagna, cominciarono a far contribuire al proprio diletto le nazioni più ingegnose, l’Italiana e la francese, le quali da gran tempo si disputano la preferenza nell’arte di piacere. L’opera buffa e la seria italiana e la commedia francese si rappresentavano alternativamente in tre giorni della settimana.

Dee sotto la medesima sovrana fissarsi ancora il vero nascimento del teatro nazionale. Lasciando le incondite {p. 41}favole di Trediakouski e le deboli di Lomonosow, possiamo considerare Sumarocow di una famiglia distinta come il primo tragico della Moscovia. Egli compose dieci o dodici tragedie tratte dalle storie nazionali recitate in Pietroburgo ed in Mosca con molto applauso. I compatriotti n’esaltano la regolarità e la versificazione. Levesque ne commenda l’eleganza, ma aggiugne che volendo esser savio come Racine, rimase freddo assai più e privo di attività e di moto. Altri nazionali sul di lui esempio hanno parimente contribuito a fornire di tragedie russe le native contrade. L’uffiziale militare Macikow pubblicò la tragedia del Falso Demetrio.

Intorno a questo tempo venne la moda di tradursi le migliori commedie francesi, danesi e tedesche; ma la nazione non approva se non che tre o quattro commedie originali scritte in quel genere di comico grossolano che si avvicina alla farsa.

Nel regno di Caterina II la nazione {p. 42}prese volo più elevato. Le arti, le scienze, un commercio fiorente, una forza marittima, una superiorità d’armi sul possessore di Costantinopoli, la Crimea aggiunta alle Russie, Oczakow ricuperato, un codice degno della miglior filosofia, rendono il regno di Caterina II e la Russia oggetto di ammirazione all’Europa. Per gli spettacoli scenici continuano a fiorire ed a rappresentarsi con magnificenza. La Czarina ha fatto di più, ha somministrati tutti i commodi opportuni a varii attori nazionali per viaggiare in Francia e in Inghilterra ad oggetto di perfezionarsi nell’arte di rappresentare. A me però non sembra questa la via reale a conseguir l’intento. Bello è vedere ciò che fanno nelle colte nazioni gli attori distinti; ma una scrupolosa imitazione osta al disviluppo del genio e ne deprime le forze. Incoraggir bisogna innanzi altro i poeti che sono l’anima degli spettacoli teatrali; cercare ogni via perchè si sollevino dalla turba de’ versificatori; instruirli della ragion poetica stella {p. 43}polare delle rappresentazioni; essi così formati sapranno l’arte di dipingere i caratteri e le passioni, e guidati da un soprio discernimento inspireranno il proprio entusiasmo agli attori, i quali pieni di questo spirito rappresenteranno con energia, naturalezza e sensibilità quanto la natura umana loro presenta; là dove copiando unicamente gli attori stranieri confonderanno gli eccessi e le bellezze per mancanza di vero lume e rappresenteranno sempre con istento e durezza. Baron, Le Couvreur non comparvero in Francia prima che vi risplendesse Racine e Moliere. Nonpertanto gli attori nazionali delle Russie sento che abbiano migliorato di molto dopo l’incoraggimento sovrano indicato.

Sin dal 1741 quando nelle Russie cominciò l’opera italiana, vi si ammirò un’ orchestra magnifica, vi cantarono le più rinomate cantatrici, vi si chiamarono i più celebri maestri di musica dell’Italia e spezialmente di Napoli. Il veneziano Buranelli fu il {p. 44}primo maestro e direttore dello spettacolo musicale. Gli succedette il nostro celebre Tommaso Traetta. Entrambi ne ritrassero 3500 rubli di paga. Andovvi in seguito il nostro Giovanni Paisiello di Taranto cui si segnalarono 4000 rubli di soldo. Lo seguì il napoletano Cimarosa che vi fu applaudito ugualmente.

I cori dell’opera di Pietroburgo sono composti di venti persone in circa che per lo più vengono dall’Ukrania, o Picciola Russia, dove si studia molto la musica vocale. Le opere serie si rappresentano in quella corte imperiale circa venti volte l’anno, ma se ne compone una sola in ogni anno, cambiandovisi soltanto dieci o dodici volte i balli. Nell’opera-comica francese che pure vi si rappresenta, bisogna mutare spessissimo il componimento perchè si soffra. L’abate Coltellini toscano fornì alcun melodramma al teatro Russo, e vi fu applaudita la sua Antigona. I balli sono magnifici. Il tedesco Hilverding vi dimorò sette anni con 3000 {p. 45}rubli di paga. Gli succedette l’Angiolini che n’ebbe 4000. Negli ultimi anni del passato secolo il primo ballerino Bublicow molto applaudito era nazionale.

Quanto al teatro materiale del real palagio di Pietroburgo si costruì sotto l’imperatrice Elisabetta col disegno e colla direzione del conte Rastrelli veneziano. Ne trascrivo la descrizione dal trattato del Teatro. Il palco scenario è lungo circa 72 piedi parigini; il resto del teatro che è una specie di ellissi, ha la lunghezza di 103 piedi. Havvi cinque ordini di logge ciascuno diviso in diciotto palchetti. Il primo ordine è una balaustrata; il secondo ha i palchetti con bocche centrali; il terzo a specchio di tavoletta; il quarto in piatta banda; il quinto è tutto aperto senza veruna separazione. La loggia imperiale che è nella fronte, fu dal francese La Motte ornata di quattro colonne che la sostengono e di un baldacchino che si eleva per tutto il terzo ordine. La corte gode da questa {p. 46}loggia i balli, ed escolta l’opera in un palco accanto all’orchestra. La scena communica colla platea per due scalinate laterali che partono dal proscenio.

CAPO IV.

Letteratura e Commedia Turca. §

Declinando dal settentrione e dando uno sguardo a Costantinopoli (ad oggetto di lasciar le ultime pennellate di questa istoria al teatro Italiano) termineremo questo libro IX, dopo un breve saggio sul grado di coltura della Turchia Europea e della commedia che vi si rappresenta, con descrivere il teatro Spagnuolo degli ultimi tempi.

Un pregiudizio volgare va impicciolendo in noi l’idea della coltura delle nazioni a proporzione della loro lontananza. Ciò che non ci rassomiglia, sembraci indegno della nostra stima e incapace di buon senso e di gusto. Questo pregiudizio rinfacciato da {p. 47}Saint-Evremond e dal presidente di Montesquieu alla nazione francese, trovasi abbarbicato presso tutte le altre ancora senza eccettuarne la Greca e la Romana; e soltanto alcuni pochi osservatori, a forza di riflettere e di comparare, ne vanno esenti.

Generalmente i Turchi, malgrado della loro comunicazione con varie corti Europee, che potrebbero darne più giuste idee, si reputano barbari e rozzi totalmente. La storia ci dimostra non esser sì grande la loro rozzezza e barbarie. Questa nazione guerriera che da più di 340 anni occupa il trono imperiale di Costantino, ebbe molti principi illustri ed abili in pace ed in guerra. Orcano stabilì varii collegii per istruzione e comodo della gioventù. Amurat I creò e disciplinò la temuta milizia de’ Giannizzeri. Amurat II si segnalò come guerriero e come monarca contro de’ Greci e degli Ungheri; conchiuse una tregua col re di Polonia ch’egli osservò, e che i Cristiani violarono ad onta de’ giuramenti. Ebbe anche il {p. 48}cuore sì nobile e superiore al trono, che l’abdicò in favore del figliuolo, nè ripigliò lo scettro se non per assicurarglielo colla disfatta che diede a Ladislao in Bulgaria, e per rinunziarlo la seconda volta. Il di lui figliuolo Maometto II sempre dipinto con nerissimi colori mostrò senza dubbio molta moderazione in permettere che il padre ripigliasse l’impero, e dee contarsi tra’ grandi conquistatori e tra’ principi magnanimi e prudenti. Egli possedeva varie lingue, amava le arti e la musica, e coltivava l’astronomia. Compiacevasi della pittura, e Gentile Belino pittore veneziano per alcun tempo dimorò nella sua corte, e se ne tornò carico di doni a. Soprattutto si dilettava della storia, e singolarmente di quella di Augusto e degli altri Cesari e di Alessandro e di Costantino e di Teodosio, i quali aveano regnato ne’ paesi a lui {p. 49}soggetti, e ne fece fare le traduzioni in lingua turca a. Al l’amore della storia debbesi la beneficenza usata da questo principe con uno storico italiano. Giammaria Angiolello vicentino compose in lingua italiana e turca la storia delle di lui gesta, gliela dedicò, e ne fu largamente rimunerato. Dopo di lui altri principi Ottomani si segnalarono in guerra senza trascurar le arti di pace. Selim I formidabile a’ nemici coltivava in pace felicemente la poesia turchesca. Solimano di lui figliuolo ancor poderoso e gran conquistatore e legislatore si formò sulla storia che studiava, e soprattutto su i Comentarii di Cesare che fe tradurre in lingua turca. La milizia musulmana nel secolo XVI era la più disciplinata di tutta l’Europa. Non si vá così in alto senza cognizioni e coltura. È un errore {p. 50}volgare che i Turchi abborriscano di ogni maniera le lettere e le scienze. Essi studiano l’arabo idioma ed il latino. Quei che attendono alle cose della religione e alla giurisprudenza, studiano i comenti dell’Alcorano, i decreti de’ Gran-Signori, e i Fetfà de’ Muftì, come noi ci occupiamo sulla Sacra Bibbia, su i santi Padri e sulle costituzioni de’ nostri legislatori. Sin dal XVI secolo abbondavano nella Turchia Asiatica ed Europea le biblioteche. L’olandese Golio ne’ suoi viaggi in Aleppo, nell’Arabia, nella Mesopotamia ed in Costantinopoli, trovò molti Turchi cortesi e illuminati, i quali gli permisero di osservare i codici delle loro libreriea In tutte le moschee considerabili si trovano collegii, dove s’ensegna a leggere e scrivere e spiegar l’Alcorano, ed anche l’aritmetica e l’astronomia e la poesia, la quale conserva {p. 51}l’indole orientale ripiena d’immagini forti e di metafore ardite. Si trova fra Turchi alcun poeta che passa per eccellente. Saadi autore del Gulistan, ovvero dell’Imperio delle Rose, fin dal secolo XVI passava per quelle regioni pel principe de’ poeti Turchi e Persiani. Egli viveva a’ tempi di Francesco Petrarca, ed il suo poema si tradusse nel secolo XVII da Oleario in tedesco, e da Genzio in latino. Ibraim Gran Visir e genero dell’imperadore Acmet III, fu un poeta che ne’ versi fatti da lui per la sultana che poi gli divenne moglie, mostrò d’intendere e sapere esprimere con grazia le delicatezze dell’amorea.

A tutto ciò si aggiunga quanto riferimmo sin dal 1789 nel tomo V di questa istoria sulla fede dell’ab. Giambatista Toderini veneziano che dimorò {p. 52}cinque anni in Constantinopolia. Egli dimostra che i Turchi hanno libri di rettorica, logica, aritmetica, geometria, algebra, chimica, metafisica musulmana, medicina, storia naturale, e macchine per osservare e misurare, come telescopii, globi terrestri, quadranti, ottanti, astrolabii, sfere, e tavole per la trigonometria. Nevi Efendi è un autore turco che ha insegnata la fisica come mezzo per giugnere alla cognizione divina, e Lari e Casmir filosofi nazionali l’hanno commentato. Sotto Mustafà III si è stabilita in Costantinopoli un’ accademia di marina chiamata Muhendis Khanè, cioè camera di geometria aperta verso il 1773. Il primo precettore in essa è stato Seit Hassan Choja algerino perito nella nautica e nelle lingue araba, turca, inglese, francese, italiana, al quale succedette Seit Osman Efendi nativo di {p. 53}Costantinopoli abile geometra, che vi godeva una pensione di quaranta piastre al mese oltre a tutto il mantenimento necessario.

Per ciò che propriamente appartiene alla nostra storia teatrale, osserviamo che lo spirito imitatore, fecondo da per tutto, ha prodotto ancor fra Turchi uno spettacolo scenico. Ma la drammatica di questi moderni signori della Grecia troppo è lontana da quella del tempo di Socrate. Differiscono tanto le moderne favole sceniche, quanto da Atene il borgo di Setina.

Ecco un argomento di una commedia turchesca rappresentata in casa di un ambasciadore di Moscoviaa. Un padre parte da Costantinopoli per Aleppo, e raccomanda a un suo figliuolo una schiava Giorgiana, di cui egli è innamorato. Nell’assenza del padre se ne invaghisce anche il figliuolo, manifesta la sua passione, ed è ascoltato e {p. 54}corrisposto. Temono gli amanti del ritorno del padre, e pensano di fuggirsi ad Andrinopoli. Sono prevenuti dal di lui arrivo. Una somma tristezza s’impossessa del giovane amante, e cade infermo. Tenero il padre indaga l’origine della sua malinconia, la trova, riflette, compatisce, si vince e cede al figliuolo la bella Giorgiana. L’azione è comica, interessante, capace di viluppo e di scioglimento popolare, dà luogo al maneggio della tenerezza, e nulla ha di romanzesco e stravagante, nè abbisogna del volgar soccorso di macchine e di magie e trasformazioni. Dura tre anni, cioè a dire incomparabilmente meno, non dico delle favole cinesi, ma delle alemanne, spagnuole ed inglesi del secolo XVII. Lo stile delle commedie turchesche è sommamente osceno; ma abbiamo osservato che non sono più decenti le commedie di Aristofane, le inglesi, alcune francesi di Hardi, la Celestina dialogo drammatico spagnuolo, ed il dottor Carlino della medesima nazione, e la Calandra dell’Italia.

{p. 55}I commedianti turchi non hanno teatro fisso, ma vanno come i Cinesi rappresentando nelle case dove sono chiamati. Per un uditorio di uomini vi sono compagnie di uomini senza veruna donna, nelle quali scelgono giovanetti di vago aspetto che rappresentono le parti di donne; e per una adunanza femminile vi sono compagnie di sole donne, alcune delle quali rappresentano da uomini.

Comuni sono ancora fra Turchi le rappresentazioni de’ Pupi. In occasione di nozze si passa la giornata della cerimonia ballando, o vedendo rappresentare i Pupi. Le notti di quaresima della luna di ramazan si spendono a mangiare, fumare, prender caffè e sorbetti, sonare e vedere le burlette de’ Pupi al lume delle lampadi, di che può vedersi il Viaggio al Levante del Tournefort. Si compiacciono parimente i Turchi e i Persiani de’ pantomimi, ne’ quali riescono eccellentemente i Costantinopolitani.

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CAPO V.

Teatro Spagnuolo Tragico. §

Il sistema delle scene spagnuole non ha ricevuto alterazione sino alla mettà del XVIII secolo. La nazione nè vide sulle scene nè più si ricorda di essersi impressa nel 1713 una traduzione del Cinna di Francesco Pizzarro Piccolomini. Rammenta bensì con giusto disdegno come un esempio di pazzia la goffa tragedia del Paolino alla moda francese uscita nel 1740 che Montiano stesso nomina coll’ultimo disprezzo.

La gloria di aver prodotta la prima tragedia debbesi al nominato Agostino de Montiano y Luyando. Egli nel 1750 con un discorso istorico sulle tragedie spagnuole di tre secoli pubblicò la sua Virginia, e tre anni dopo l’Ataulfo non mai recitate nelle Spagne, e conosciute in Francia per essersi fatte enunciare in un giornale. Il {p. 57}sig. Andres afferma di esservi di questa Virginia una traduzione francese, di cui a me nè in Italia nè in Parigi è riuscito di trovar vestigio; e forse avrà egli chiamata traduzione la notizia datane in quel giornale. Regolarità, decenza, purezza di locuzione e scelta giudiziosa del verso endecasillabo sciolto all’italiana, formano il merito di tali favole. Mancano però d’anima, di grandezza, di moto. Nella Virginia si esprimono con proprietà i caratteri di lei e del padre; ma nè proprietà nè verità apparisce nel carattere d’Icilio, quando nell’atto III corteggia il Decemviro con umili espressioni proprie delle moderne cerimonie che nulla hanno di Romano del tempo di Appio Claudio. Icilio repubblicano, popolare, rivestito una volta della tribunizia potestà, prende il linguaggio insignificante di un verboso e basso cliente :

Y a que la suerte quando no esperava que pudiera ofrecerse tan propicia, me dà, señor, motivo de obsequiaros, permitidme que atento y reverente {p. 58}consiga el alto honor de iros sirviendo. È poi da notarsi che ne’ primi tre atti Appio non dà indizio veruno di meditata violenza contro Virginia. Appena come innamorato da commedia si è raccomandato a Publicia; appena una volta ha parlato a Virginia senza trasporto e senza minacce. A che dunque tanto furore d’Icilio e tante declamazioni degli altri? L’azione e la violenza di Appio che occasiona la morte di Virginia, comincia nell’atto IV, ed i tre primi atti altro non sono che una lenta protasi. Pari lentezza si scorge ne’ primi tre atti dell’Ataulfo, e si protrae a una parte anche del IV. Le passioni in quest’altra tragedia non disdicono al genere tragico; ma vi si desidera la forza da’ Greci chiamata energia nemica d’ogni soporifera languidezza. Forse vengono indebolite in qualche modo dalle arti cortigianesche che in esse campeggiano aliene dalla ferocità de’ Goti non da molto tempo avvezzi alla coltura che raffina gli artificii. La favola sino all’atto V {p. 59}si aggira sulla delicatezza dell’amore di Placidia offeso da certe reticenze di Ataulfo, e su i sospetti di costui, de’ quali egli si querela più perchè offendono il suo amore, che perchè tema che possano nuocere allo stato. Queste diffidenze artificiosamente seminate da Sigerico, ad impulso di una donna ambiziosa, ritardano la pace ed insieme l’azione ne’ primi quattro atti. Sembra poi che ad un tratto nel V tutta svapori la ferocità e la tracotanza de’ congiurati a danno di Ataulfo. Manca adunque questa favola di quella saggia graduazione che progressivamente crescendo conduca le passioni al punto da farne scoppiare l’evento tragico. Vuolsi parimenti riprendere l’inverisimiglianza dell’equivoco preso nella scena ottava da Rosmunda. Ella entra dicendo a Sigerico che l’attenda, nè torna se non dopo due lunghe scene, essendo partito Sigerico. Ella in vece di lui trova in iscena Ataulfo, e vedendolo per le spalle gli parla come se fosse Sigerico, e gli rivela con molte {p. 60}parole tutti i suoi disegni. Ciò potrebbe con verisimiglianza accadere proferendo due o tre parole; ma la natura presenta ragionevolmente l’equivoco del Montiano in una narrazione che non si faccia con gli occhi chiusi? Nè anche può piacere nel medesimo atto V che un Goto sovrano impetuoso soffra che un temerario vassallo alterchi con lui insolentemente, contentandosi solo di ripetergli più volte, detente, calla calla, e ponendo inutilmente la mano sulla spada. Morto Ataulfo si spendono tre altre non brevi scene nello svenimento di Placidia, nell’uccisione di Vernulfo, nelle insolenze di Rosmunda e nella di lei volontaria morte, cose che doveano soltanto accennarsi in pochissimi versi per non iscemare o distrarre l’attenzione ad altri oggetti che al gran misfatto dell’uccisione di Ataulfo. Lascio poi che l’istruzione morale che dee prefigersi un buon tragico non si scorge quale esser possa in tal tragedia. Noi scorgiamo nelle favole del Montiano la regolarità nascente {p. 61}nella nazione non raccomandata dal gusto e dalla forza tragica che la rendano amabile.

Tenne dietro al Montiano il di lui amico Nicolàs Fernandez de Moratin, e dopo dieci anni nel 1763 pubblicò la sua prima tragedia la Lucrezia. La versificazione che vi adoprò è una specie di selva (come chiamasi in Ispagna) entrandovi assonanti, consonanti e versi sciolti ad arbitrio del poeta. Nè anche si rappresentò. Lotta in essa l’autore coll’invincibile difficoltà di ben riuscire in siffatto argomento; vi frammischia certi amori subalterni riprovati dal gusto; e lo stile non si eleva abbastanza per giugnere alla sublimità tragicaa. Scioccamente {p. 62}l’autore di un foglio periodico spagnuolo intitolato Aduana critica, ignorando che l’indole della poesia tragica è di abbellire utilmente e non già di ripetere scrupolosamente la storia, pretendeva che il Moratin avesse introdotto nella sua favola Bruto finto pazzo. Ma questa è la smania de’ follicularii famelici, voler, tutto ignorando, dar legge di tutto.

Sette anni dopo, cioè nel 1770 l’istesso Moratin fe rappresentare ed imprimere Ormesinda altra sua tragedia colla medesima versificazione, e la prima di quel secolo XVIII comparsa sul teatro di Madrid. Vi si vede lo stile migliorato, e con più giudizio l’azione incatenata e sciolta. Ma essa presenta una eroina violata da un Moro che incresce oggi che si esige una rigorosa decenza negli argomenti teatrali. Un {p. 63}racconto della battaglia di Tarif e Rodrigo (forse poco necessariamente congiunta all’avventura di Ormesinda) contiene diversi squarci d’imitazioni virgiliane. In ogni modo l’autore che fra’ suoi correva una via sì poco battuta, non meritava la persecuzione che sofferse degl’inetti efimeri libelli e de’ motteggi del volgare scarabbocchiatore di sainetti insipidi e maligni, Ramon La Cruz chiamato irrisoriamente da’ suoi el poetilla.

Con nobil coraggio l’indefesso scrittore non abbandonò per questo la tragica carriera, e nel 1777 diede alla luce la terza sua tragedia Guzman el bueno dedicata al duca di Medina Sidonia don Pedro de Guzman el bueno discendente da quell’eroe. L’effetto primario di questa favola è l’ammirazione che risulta dall’eroismo di Gusmano, il quale preferisce la propria fede alla vita di suo figlio. Assediava il Moro con pochissima speranza di riuscire la piazza di Tariffa fortemente difesa da Gusmano, quando il di lui {p. 64}figliuolo in una uscita rimane prigioniero. Il Moro propone al governadore di comprarne la libertà colla dedizione di Tariffa, o di vedergli mozzare il capo. Il padre trafitto dal dolore ma sempre eroe gli getta dalle mura la propria spada perchè esegua la minaccia. Benchè l’autore avesse divisa la favola in tre atti, pure si trovò in angustia e gli convenne ripetere qualche situazione o pensiero. La stessa necessità di darle una giusta grandezza l’obbligò ad un maneggio tra il Moro e l’assediato Gusmano, ed a fargli parlare l’uno dal suo campo l’altro dalle mura. Non bene apparisce in qual maniera avesse l’autore ideato il luogo dell’azione per rendere in tanta distanza quanta esser dovea tra un campo che assedia ed una piazza assediata, verisimili tali conferenze, e specialmente tutto l’atto III. Ciò può nuocere alla verità, all’illusione, al fine tragico. Ma l’eroico carattere di Gusmano è dipinto e sostenuto felicemente. Che risposta recherò al mio re? dice l’ambasciadore {p. 65}moro nell’atto I; e Gusmano:Che i Castigliani non rendono le fortezze finchè possono sostener laspada;

Ami.

Y de tu hijo?

Guz.

El Moro determine.

Interessa la scena dell’atto II, in cui Gusmano esamina il valore del figliuolo che ha conseguito un momento di libertà sotto la parola d’onore di tornare al campo nemico. L’autore si prefisse l’imitazione di una scena della Clemenza di Titoa. Temi la morte? dice Gusmano al figlio;

Confiesalo à tu padre que te estima,
no hablas ya con Guzman el riguroso,
nada sabrà el Alcayde de Tarifa.

{p. 66}In fatti la mancanza di coraggio non potrebbe confessarsi che ad un padre. Di poi non senza bellezza ripete questa tinta con artificiosa variazione, e vuole che a lui fidi il di lui amore considerandolo solo come amico e militare, e non come padre severo:

Cuentaselo al Alcayde de Tarifa,
nada sabrà Guzman tu adusto padre.

Soprattutto chiama l’attenzione l’atto III, quando il re Moro mostra voler ferire il prigioniero incatenato sugli occhi del padre, e sopraggiugne la madre. Le di lei lagrime, la costanza di Gusmano, la fierezza del Moro, la nobile rassegnazione del giovane Gusmano, formano una situazione tragica assai teatrale, che si risolve colla magnanimità di Gusmano che getta la propria spada al nemico. Intanto questa tragedia che compensa i nei con situazioni teatrali, e con un patriotismo che rileva un atto eroico della storia nazionale, non si è nè pregiata nè premiata nè rappresentata in Madrid.

{p. 67}La seconda tragedia che quivi comparve fu don Sancho Garcia di Giuseppe Cadahalso y Valle d’illustre famiglia, la quale si recitò un anno dopo dell’Ormesinda. L’argomento tratto parimente dalle storie nazionali è proprio per eccitare il tragico terrore. Una Contessa di Castiglia cieca d’amore per un principe Moro appresta il veleno al proprio figlio per rendere l’ambizioso amante signore di se stessa e del suo stato. Qualche verseggiatore del secolo XVII avea scioccamente maneggiato quest’argomento, ed il signor Cadahalso volle rettificarlo trattandolo con arte e decoro ed in buono stile; ma la versificazione di due endecasillabi rimati perpetuamente per coppia produce qualche rincrescimento. Gli affetti della Contessa combattuta da un eccessivo amore per l’avido Moro, e dalla tenerezza materna, sono bene espressi. Solo vi ho sempre desiderato che la richiesta del Moro fosse preparata con più arte. Per prova di amore egli esige da una madre {p. 68}la morte dell’unico di lei figlio; ed in che fonda la speranza di conseguirlo? nella sfrenata passione che ha per lui la Contessa. Ma non dovea il poeta riflettere che, perchè il Moro potesse fondare sulla di lei passione, avrebbe dovuto con più artifizio velare la sordidezza de’ suoi disegni, i quali colla cruda richiesta scoprendone tutta l’ambizione, potevano atterrirla, e rendere meno cieca la di lei passione? L’arte del poeta dovea sugerire al Moro un colore da occultar meglio la di lui avidità di regnare in Castiglia per non indebolire l’unica molla della di lui speranza. Si osserva per altro in questa tragedia più di una scena di gran forza, e specialmente la quarta dell’atto II, in cui vedesi ben colorito il contrasto di una passione sfrenata colla tenerezza di madre. L’atto termina con quest’ottima riflessione, che fa la combattuta Elvira :

Que lexos de la culpa està el reposo!
y que cerca del crimen el castigo!

{p. 69}Siffatta tragedia in una nazione che ne ha sì poche, dovea accogliersi, ripetersi, acclamarsi, e pure fu essa lo scopo delle maligne satire de’ piccioli rimatori. Maria Ignacia Ordoñes, già prima dama ne’ teatri di Madrid rappresentò non senza energia tanto la parte di Ormesinda nella tragedia del Moratin, quanto quella di Elvira nel Sancho Garcia, e morì pochi mesi dopo. Il Cadahalso autore di varie poesie, e del piacevole libretto los Eruditos à la violeta, e di un altra tragedia inedita la Numancia, graduato colonnello terminò gloriosamente i suoi giorni l’anno 1782 nella trincea del campo di San-Roque sotto Gibilterra.

L’esposta mia critica moderata, imparziale, lodativa ed amichevole, anzi che no, punto non dispiacque allo stesso autore, che accoppiava gusto e buon senno alla domestica e straniera erudizione, ed onorò la mia Storia, e queste mie osservazioni lettegli prima d’imprimersi {p. 70}di un suo sonettoa. Approvò il mio giudizio parimente Giovanni Sampere, o dottor Guarinos che siasi, il quale dopo la mia partenza da Madrid compose una Biblioteca di autori Spagnuoli del tempo di Carlo III. Egli ebbe la compiacenza di convenir meco in quanto al dover {p. 71}essere mas vestida aquella declaration del Moro. Discorda però sulla versificazione degli endecasillabi rimati per coppia usata dal Cadahalso, e da me non approvata. Si es un vicio (egli dice gravemente)la rima de los pareados, està autorizado con el exemplo de los mejores drammaticos franceses Corneille, Moliere y Voltaire. Ma senza pregiudicare alla sua erudizione, mi permetta di dirgli che egli ha indebolito codesto suo argomento, per avere ignorato forse che non solo i tre nominati poeti, ma tutti i Francesi non possono altrimenti scrivere in versi se non rimati. Si contenti in oltre che gli faccia sovvenire di poche altre cose se non le ignora; e primieramente che il Sancho è scritto in castigliano e non in francese, e che i Francesi rimano sempre per necessità, e non per elezione, perchè mancano del verso bianco che noi chiamiamo sciolto; di più che la poesia castigliana al pari dell’italiana, e dell’inglese ha il suo bel verso suelto, {p. 72}oltre di un endecasillabo coll’assonante ottimo per la scena nazionale. Se a queste cose avvertiva il bibliografo, mi avrebbe conceduto parimente che i versi rimati per coppia nella scena non sono i migliori tra’ metri castigliani, e non si sarebbe appoggiato sull’esempio di chi non ha che un solo vestito, per togliere l’arbitrio della buona scelta a chi ne possiede di molti e cari. Ma perchè (potrà egli dire) dee preferirsi il verso sciolto o quello coll’assonante à los pareados? Domandi ciò egli stesso al proprio orecchio, il cui giudizio vien da Cicerone chiamato superbissimum. Io compiango i dottori e i bibliografi che non sentissero la monotonia dell’endecasillabo pareado perpetuamente in tutto un dramma.

Due anni dopo, cioè nel 1773 don Tommaso Sebastian y Latre aragonese pubblicò una tragedia rappresentata l’anno stesso, in cui pretese rettificare la favola di Francesco de Roxas Progne e Filomena. La buona intenzione, ed il patriotismo dell’autore {p. 73}desideroso del miglioramento del teatro nazionale merita ogni lode. Ma il mezzo che scelse di ripetere le antiche favole del teatro patrio col solo vantaggio di renderle più regolari, secondò male il di lui disegno. Nocquegli per avventura anche l’elezione di un argomento della rancida mitologia pagana a’ nostri dì poco interessante, come ancora quel radicale ostacolo che oggi secoloro portano in teatro le deflorazioni, e simili violenze, senza parlare della mancanza di novità e d’invenzione nelle situazioni, e di spirito tragico, e di sublimità di stile.

Ignazioa Ayala andaluzzo regio professore di poetica in Madrid morto {p. 74}nella sua patria nel 1789, volle pure contribuire agli avanzamenti del teatro nazionale, di cui da più anni era censore. Egli pubblicò nel 1775 la Numancia destruida in cinque atti verseggiata con endecasillabi con l’assonante. La storia di sì famosa città è senza dubbio compassionevole, e basterebbe ad apprestar materia per un poema epico; ma nella guisa che si vede maneggiata dall’Ayala, divide per tal modo l’interesse colla distruzione di un popolo intero per mezzo della fame e del ferro e del fuoco, che, in vece di commuovere, esaurisce il fondo della compassione senza fissarla a un oggetto principale, e non ottiene il fine della tragedia. L’autore dotto nelle greche e latine lettere v’incastrò varii squarci di poeti {p. 75}antichi. Vi si nota un dialogo elegiaco uniforme più che un’ azione tragica, e non poca durezza nello stile. Annojano parimenti le frequenti declamazioni contro Roma, le quali a tempo, e parcamente usate converrebbero a’ Numantini, ma colla copia e col trasporto manifestano troppo il poeta.

Tali cose da me dette nella prima storia teatrale in un volume, dispiacquero in parte al prelodato bibliografo de’ viventi, e prese a giustificare l’Ayala, il quale non pertanto dopo la pubblicazione del mio libro erami rimasto amico fino alla mia partenza da Madrid. Il dottor Guarinos punto non risentissi di ciò che accennai del dialogo uniforme ed elegiaco, e della durezza dello stile. Gl’increbbe sì bene che avessi reputato tale argomento più proprio per un poema epico che drammatico, come anche l’osservazione sulle frequenti declamazioni intempestive e soverchie prodotte da un eccessivo affettato patriotismo. La censura del Napoli-Signorelli (dice il {p. 76}difensore) suppone pochissima riflessione sulla natura del poema epico e della tragedia. Secondo il Guarinos il poema epico ha sempre un esito felice, e la distruzione di Numanzia funestissima, all’epopea non conviene. Domando in prima, perchè tale distruzione non potrebbe avere un esito felice? Un encomiatore di Scipione non se ne varrebbe degnamente a gloria del suo eroe? Or non sarebbe ottima materia, benchè funestissima, per l’epopea, come io dissi? Chi ha poi insegnato a codesto bibliografo che il poema epico aver debba sempre un esito felice? Se ciò è vero, errò Omero che nell’Iliade si prefisse di cantar solo l’ira perniciosa (μηνιν ουλομενεν) di Achille che tanti dolori cagionò agli Achivi? Errò Stazio cantando la Tebaide, cioè le discordie fraterne ed il regno alternato combattuto con odii profani e scellerati? Errò Lucano nella Farsalia cantando le funestissime guerre più che civili, la scelleratezza divenuta diritto, ed {p. 77}un popolo potente che converte la destra vincitrice contro le proprie viscere? Errò Milton nel Paradiso perduto facendo un poema eroico del funestissimo precipizio di tanti angelici cori? Se codesto Sampere o Guarinos non ha prestato (come mi fu dato a credere) alla guisa di un automato la bocca al fiato altrui nel compilar la sua gazzetta bibliografica, io l’esorto a provvedersi di più pure e chiare idee di poetica prima di altro scrivere. Ma venghiamo a più stretta pugna.

Perchè mai affermò il Napoli-Signorelli che tale argomento nella guisa che l’ha trattato l’Ayala, mal conviene ad un’ azione drammatica? Perchè (degni notar ciò il patrocinatore de los menesterosos) una distruzione collettiva, vaga, generica di un popolo intero istupidisce i sensi, distrae a mille oggetti l’attenzione e l’interesse, e non determina la compassione ad uno scopo principale per serbar l’unità dell’azione e del protagonista. Un poco più di filosofia gl’insegnerebbe l’arte {p. 78}usata da’ tragici della Grecia nelle Trojane, nelle Fenicie, negli Eraclidi, nelle Supplici, ne’ Persi, nelle quali favole essi presero un oggetto principale per iscopo collocando quasi in lontananza il rimanente o serbandolo al Coro. Lo spirito umano nella mescolanza delle tinte e de’ suoni non meno che nella moltiplicità mal graduata delle stragi rimane, diciam così, ottuso, rintuzzato, privo di sensibilità; là dove la tragedia esige energia ed elasticità per eccitar la commiserazione e conservar la sua natura, e non convertirsi in flebili nenie elegiache, in lugubri epicedii. Circa poi le declamazioni dice il protettor dell’Ayala che il Napoli-Signorelli doveva farsi bien cargo della situazione de’ Numantini. Ma egli stesso no se ha hecho bien cargo di ciò che io dissi e ripeto, cioè che esse converrebbero a’ Numantini, usate a tempo e parcamente, la qual cosa tradotta in volgare significa che esse sono proprie di un popolo irritato contro Roma, ma non dovrebbero {p. 79}occupare il luogo dell’azione essenza del dramma; non risentire l’affettazione ma derivare naturalmente dalle situazioni, e non essere, come sono quasi tutte, una pretta borra intempestiva. Noi avremmo dimostrato subito e pienamente tutto ciò con pubblicare l’analisi intera che scrissi sulla Numancia; ma me ne distolse lo spiacevole annunzio che ricevei della morte dell’erudito autore. Ci saremmo contentati poi del semplice primo giudizio moderato che già ne demmo senza gli stimoli del cattivo avvocato bibliografo. A lui dunque s’imputi, se, per renderlo avveduto del suo torto, ne soggiugneremo alcuni tratti.

L’atto I è composto di due principali lunghissime scene. Nella prima s’imita l’apertura e l’oracolo dell’Edipo tiranno mostrandosi il popolo supplice all’ara del nume Endobelico e narrandosi con inutili circostanze un oracolo di Ercole Gaditano dato quattordici anni innanzi, che però in niun modo si appressa alle bellezze del {p. 80}greco oracolo, essendone la rancida risposta nè semplice nè interessante nè necessaria all’azione. Terma sacerdotessa dipinge a lungo quel che tutti sanno, cioè la strage che fa la fame ne’ Numantini ridotti, mancate l’erbe e le foglie stesse degli alberi, a cibarsi di cadaveri umani. A questa lugubre scena una ne segue amorosa di sette pagine di Olvia ed Aluro che conchiude l’atto. Giudichi il leggitore se in tale argomento siesi convenevolmente inserito un languido amore subalterno che contrasta coll’immagine di un popolo che stà morendo di fame. E pur non è il peggior male un amor sì impertinente. Olvia innamorata vicina a morir di fame insieme coll’amante e con tutti, di che si occupa singolarmente in questa scena? forse del prossimo esterminio della patria? no; ella pensa a vendicare certo suo fratello già morto col sangue dell’uccisore che non sa chi sia. Dopo ciò mostrasi sorpresa da un nuovo doloroso pensiero. Aluro amante sì paziente vuol saperne {p. 81}la cagione, ed ella dopo di aver posto in contrasto l’amore che Aluro ha per lei con quello della patria, dopo di aver tenuto sulle spine Aluro e l’ascoltatore per altri ottanta versi, dice; Senti la tua pena e l’angustia mia. Giugurta… quì si trattiene soggiungendo…ma viene Megara frettoloso, te lo dirò poi; e finisce l’atto così, senza che niuno nè frettolosò nè a bell’agio venga fuori. Essi partono. Non dubiti però chi ascolta; essi nulla diranno senza che vi sia chi ascolti. Ma (si dirà) se ne anderanno uniti o disgiunti? se uniti non diranno più una parola sola di ciò che hanno incominciato a dire? Non dubiti punto lo spettatore che Olvia non paleserà ad Aluro l’arcano fino a che il poeta non riconduca l’uno e l’altra nel medesimo luogo e nel medesimo punto del loro discorso; ma bisogna attendere che passi tutto intero l’atto II. Notisi intanto che è questa una delle scene patetiche in cui Olvia delibera e risolve il sacrificio del {p. 82}suo amore, la quale ha riscosse tante lodi dal precitato bibliografo.

L’atto II incomincia con una scena di Olvia stessa e di Aluro. Essi come partirono senza perchè, senza perchè sono tornati, e nella stessa maniera dell’atto I viene appresso Megara. Hanno però essi nulla detto o in quella scena o nell’intervallo dell’atto di ciò che voleva Olvia nell’atto I narrare all’amante? Non è ancor tempo; bisogna attendere ancora. Fa poi l’autore venir Giugurta come ambasciadore de’ Romani per la ragione che egli è imparziale. Ma questo principe affricano che dicesi imparziale, e milita a favor de’ Romani con diecimila soldati e venti elefanti, viene a consegnare il console Cajo Ostilio rimesso dal Senato di Roma. Egli per dar altra prova d’imparzialità tradisce i Romani, e consiglia i Numantini a non accettare la vile soddisfazione. Il leggitore o l’ascoltatore sin dal principio osservato avrà in questa favola accozzata una serie di minuti fatti spogliati della {p. 83}necessaria dipendenza che risveglia e sostiene l’attenzione, guidandola ad un oggetto grande. Il resto dell’atto s’impiega a proporsi qualche mezzo da cacciar via la fame. Non vi sono più cadaveri umani, e si pensa a tirare a sorte tra’ vivi chi debba morire e servire d’alimento de’ superstiti. Si propone altresì che si ammazzino i vecchi per prolongare la vita de’ giovani. Un popolo ridotto nell’atto II a tanta estremità presenterà nel proseguimento quel necessario progressivo incremento nell’azione? Il poeta ha bisogno di Megara in tale occasione, e lo fa venire di nuovo. Egli vuole esser incluso nella sortizione, cui resiste Dulcidio per questa ragione; perchè è proprio solo de’ Romani il discacciare per politica i Tarquinii. Questo pensiero eterogeneo aumenta ovvero diminuisce e copre di gelo l’espediente patetico proposto? Dovea il buon sacerdote Numantino risalir col pensiero a’ Tarquinii Romani? E quale analogia v’ha tra Megara capo e {p. 84}difensore amato da’ Numantini per vantaggio de’ quali offre di morire, con Tarquinio tiranno oppressore abborrito dal suo popolo? Ci dica il bibliografo Guarinos, qui è forse la situazione de’ Numantini (di cui se ha da hacer bien cargo il Signorelli) che eccita Dulcidio a motteggiare e a declamare contro i Romani, ovvero è questa una scorreria del poeta che vuol comparire tra’ personaggi?

Eccoci all’atto III, in cui Olvia torna con Aluro a soddisfare alla promessa fatta nell’atto I e rimasta sospesa senza perchè sino a questo punto. Essi trattengonsi in tre soli versi sulla picciola bagattella del tirarsi a sorte colui che dee morir prima; e si occupano per cinque pagine intere di un più grave affare. Olvia dunque palesa al suo idolatrado Aluro che Giugurta preso di lei promette di passare a Numanzia colle sue schiere, purchè ella l’accetti per isposo. Ella gli chiede su di ciò consiglio. Questa situazione rimane priva dell’usato effetto di simili {p. 85}dolorose alternative per essere assai mal combinata. In prima Olvia può disporre di se stessa senza intelligenza del fratello capo della repubblica? In secondo luogo Olvia ha considerato che diecimila persone vogliono mangiare, e che Numanzia manca pur di cadaveri da ripartire co’ nuovi alleati? Per terzo Olvia ignora che oggi la salute della patria non dipende dal minorar le forze nemiche, ma dal provvedere di nutrimento i Numantini? Ignora che le utili conseguenze dello scemare il numero degli assalitori, sono assai più lente de’ funesti rapidi progressi della fame? Appresso Olvia è sicura poi che la diserzione di Giugurta sia sincera, e che non possa essere uno stratagemma? È sicura in oltre che la salute della patria dipenda da Giugurta ancorchè fosse solo? E che altro spererebbe Olvia se avesse pattuito collo stesso Scipione? Anche questa scena fondata su ipotesi tutte false e mancante d’interesse, di verisimiglianza e di grazia, sembrò pregevole al buon bibliografo {p. 86}encomiatore. Stanno poi in essa assai bene accomodate allo stato de’ Numantini ridotti a mangiarsi l’un l’altro, le care espressioni di Aluro; addio, Olvia, col tuo nuovo amante vivi felice? (morendo di fame?) loro stanno pur bene le risposte della savia e tenera Olvia? Dulcidio annunzia al figlio Aluro che dee morire essendo il di lui nome uscito dall’urna. Piange con lui per due pagine intere, dopo delle quali si ricorda di dire che vuol morire in di lui vece. Gareggiano su di ciò; ma tutto dee sospendersi, perchè Scipione viene a trattar di pace. La fame numantina discretamente vi si accomoda. Scipione senza ostaggi da pessimo capitano mettendo a rischio la sorte dell’armata e la speranza di Roma viene a parlare in mezzo a’ nemici disperati, i quali incolpano i Romani di tradita fede. In questa conferenza tutta declamatoria Scipione soffre con indicibile bassezza le ingiurie del Numantino, e questi insolentisce quasi altro oggetto non avesse che d’irritar gli assalitori. {p. 87}E questa scena inutile e cattiva viene anche prescelta come eccellente dal dottor Guarinos.

Nell’atto IV quando dovrebbe l’azione accelerare il suo moto mirando al fine, si vede graziosamente fare un passo retrogrado, e si consumano tre lunghe scene a ricordare ed esagerare un antico tradimento fatto da Galba a’ Numantini rammemorandosi divotamente le ossa sacrosante, reliquie venerabili, di Spagnuoli assassinati. Può lodarsi simile distribuzione di materiali? Megara partendo dice ad Olvia, observa esta parte; ella rimane a far l’uffizio di sentinella; e Giugurta vedendola sola viene a parlarle; di maniera che i nemici colla facilità di un attore che esce al proscenio, potevano penetrar fra’ Numantini. Or chi non ne conchiuderà che erano due inettissimi generali Megara che sì male guardavasi dalle sorprese, e Scipione che non sapeva approfittarsi delle negligenze? Incogruo è pure l’abboccamento di Giugurta con Olvia. Ella gli dice che {p. 88}passi co’ suoi a Numanzia, perchè ella l’attenderà presso di un sepolcro che si eleva più degli altri, e gliele addita. Si, si (ripiglia lo stupido Giugurta) colui che vi giace fu da me ucciso, e perchè spirando ti chiamava in soccorso, io m’innammorai di te. Salta agli occhi l’inetta origine di un insipido innamoramento, e la balordaggine di vantarsi di un fatto che poteva averla offesa. Olvia sdegnatá lo discaccia, indi vuole che impugni la spada disfidandolo; Giugurta pensa a fare a suo modo, e parte. Un andare e venire de’ personaggi senza perchè empie le scene 6, 7 ed 8. Terma dà avviso a Dulcidio che Olvia se disfraza (si traveste; e quanto opportunamente ella va in maschera!); Dulcidio al vederla venire la ravvisa. Olvia viene (dice il poeta) con algun disfraz che si lascia immaginare al discreto lettore, o alla cura del capo di compagnia. Ella va esclamando, o cenizas infaustas! (o ceneri infauste) colla stessa grazia della Tomiri di Quinault {p. 89}che cercava per terra ses tablettes. Dulcidio l’esorta a sposar Giugurta (quante belle disposizioni mentre si stà morendo di fame!) per corrispondere a un tempo

A amante, à patria, al padre i al hermano,

che verso eccellente per numero e per regolarità, come ognuno che ha orecchio, ben sente! Olvia dopo un contrasto inutile di cinque pagine, in cui Dulcidio la chiama boja della patria, e ramo indegno della sua stirpe, si rende, e gli dà la propria spada per mandarsi a Giugurta in segno di pace, geroglifico per altro mal sicuro, ma l’Affricano per compiacere al poeta riconoscerà subito essere di Olvia. Dulcidio è il più savio sacerdote del mondo; egli ha persuasa Olvia, ha spedito un soldato a Giugurta senza prevenirne il generale, si è sull’affare trattenuto per cinque pagine, ed al fine si ricorda di domandare ad Olvia, se Megara sappia nulla del trattato. Nò, ella risponde, ho taciuto per timore {p. 90}e per vergogna, perchè (notisi il di lei talento politico)chi comanda ama di vedere eseguite certe cose che sapute prima egli non permetterebbe che si tentassero. Da tale potente ragione rimane persuaso il dolce Dulcidio.

Annotta nell’atto V, e Giugurta al solito va e viene liberamente dal campo Romano al Numantino senza che Megara abbia mai saputo prevedere simili visite nemiche. Olvia viene parlando sola a voce alta, e l’ode lo spettatore e Giugurta che dice,

Olvia es, i su espada me asegura.

Viene anche Terma, e più fina, a dispetto della notte, e della mascherata, e senza udirne la voce, raffigura Olvia e la rimprovera. Giugurta che avea udito Olvia che parlava sola, ora non ode più ciò che esse dicono. Terma vuol sapere in ogni conto i disegni della sorella; ma questa che gli ha comunicati a Dulcidio e ad Aluro, ed ha pure fidata al soldato la sua spada, {p. 91}si guarda gelosamente della sorella senza vedersene la ragione. Giugurta si ritira nè per altro motivo se non perchè abbia Olvia tutto l’agio di dire a Terma una inutile bugia. Le dice dunque che si è travestita per uccidere Giugurta; ma è questo il fine per cui gli ha mandata la spada? Stando altercando esce Aluro in tempo che Terma dice, refrena tu furor, ed egli ciò udendo dice; questa che parla è Olvia; certamente questo è inganno di Giugurta. Onde ciò deduca, non appare. E poi Aluro non sa distinguere la voce della sua innamorata da quella di Terma, due persone a lui sì note? Di più due voci femminili possono svegliargli l’idea di un nemico che a quell’ora è verisimile che si trovi nel campo Romano? Viene per quarto Dulcidio, e benchè sia notte, riconosce Aluro, il quale avea presa l’innamorata per un guerriero affricano, Megara ti attende, dice Dulcidio al figlio, e questi differisce di obedire per ammazzare prima Giugurta. Dulcidio {p. 92}parte; e seguitando le donne a contrastare, Terma grida, Numantinos, ed Aluro sempre la crede Olvia, e ferisce l’altra da lui mattamente creduta Giugurta. Olvia trafitta grida, ai de mi. Non importa; Aluro la crede sempre il traditore Giugurta. Torna Dulcidio con fiaccola accesa, ed Olvia spira mentendo con dire che ella amava Giugurta, quando Io spettatore non ignora che ella amava Aluro. L’autore dunque ne ha sì destramente condotto il carattere e l’affetto, che il sangue di lei non muove veruna compassione tragica. Se tali garbugli notturni, tali languidi amori ed equivoci mal fondati, e così fatta mascherata senza oggetto, convengano col genere tragico, e colla distruzione di Numanzia, ne giudichi il leggitore. Durando apparentemente la notte, Megara che ha saputa, la disfatta de’ Luziani ausiliarii, e la debolezza de’ Vasei che si sono dati a’ Romani, chiama al campo di Scipione, come alla porta di una casa vicina. Gli risponde {p. 93}un soldato, cui egli dice; giacchè la tenda di Scipione stà vicina (verisimilmente nè la notte nè le trincee gliene impedivano la veduta)ditegli che vò parlargli. Che pretendi, Numantino? Risponde Scipione affacciandosi. Megara lo riconosce subito alla voce, quando poco prima i suoi parenti e seguaci di orecchio più duro non hanno saputo distinguere le voci delle sue sorelle. Megara domanda o che Scipione gli dia l’assalto, o che mandi le legioni a trucidarli. A questa richiesta senza sale risponde Scipione: spada o catena, gettando giù l’una e l’altra. Ma i Numantini determinati a morire abbisognano dell’opera e del consenso di Scipione? Non possono essi stessi assaltar le trincee, e morir nell’impresa? I valorosi Numantini della storia riescono nella tragedia inetti, cicaloni, insensati. Risolvono al fine di uccidersi fra loro, indi si vede il tempio e la città incendiata. Mentre Numanzia arde, Megara predica recitando più di cento versi, e declama {p. 94}sulle discordie della Spagna, ed esita nel voler dar la morte ad un suo figliuolo, che non prima di allora comparisce, e va a precipitarsi nelle fiamme, come fa Megara stesso dopo di aver recitati altri cinquanta versi.

Così termina la tragedia di Numanzia distrutta, il cui piano tessuto per quattro atti e mezzo di episodii mal connessi, e di freddi amori, sconvenevoli, intempestivi, e di equivoci inverisimili, abbiamo voluto esporre agli occhi imparziali del pubblico. Vedrà per se questo supremo giudice, se nel 1777 siesene da me portato un moderato giudizio, e se dovea rincrescere al bibliografo de’ viventi. Vedrà l’istesso giudice se alla Numanzia dell’Ayala convenga ciò che ne disse il sig. Andres, cui piacque di collocarla in ugual grado col Sancho del Cadahalso così fuor di ragione, e di affermare che essa non sia priva di calore e di spirito tragico. Dobbiamo credere che avesse egli mai letta la Numanzia? Non è possibile.

{p. 95}Giovanni Giuseppe Lopez de Sedano compilatore del Parnaso Español accrebbe le tragedie moderne del suo paese colla Jahel in versi sciolti in cinque atti, là dove la morte di Sisara appena darebbe materia per un oratorio di due parti. Quindi nasce la mancanza d’azione e d’intreccio, e quella serie di lunghe dicerie, e de’ sermoni di Debora. Non manca di regolarità, e di qualche tratto lodevole; ma vi si desidera calore ed interesse. La maggior parte de’ personaggi introdotti, e segnatamente Haber e Barach, sono oziosi. Lo stile è diffuso e pesante, e sparso nel tempo stesso di formole famigliari, e poco gravi, sia per esempio questa della prima scena

Romper de mi silencio la clausura, e quest’altra
Basta à quedar solvente de mi cargo,
Y aùn tal vez accreedor à gracias tuyas.

Lascio poi che tal favola non ha {p. 96}verun carattere, non eccitando nè compassione, nè terrore, nè ammirazione.

Era inedita nel 1777 la Raquel tragedia di Vincenzo Garcia de la Huerta, ma s’impresse poi in Barcellona e in Madrid nel 1778. La Raquel (dice l’editore di Madrid) si compose quando uscirono la Lucrecia, la Hormesinda, e le altre già riferite; dal che si deduce che l’autore tardò a produrla quindici anni in circa. Rileva di più l’editore, che se i Francesi dividendo le favole in cinque atti hanno la libertà di abbandonar quattro volte la scena, l’autore della Rachele privandosi spontaneamente di sì comodo sussidio riduce a un atto la sua, perchè quantunque divisa in tre giornate, nè vi s’interrompe l’azione, nè da una giornata all’altra s’interpone tempo, la qual volontaria legge impostasi dal poeta, dà un singular merito à su obra. Conchiude l’editore che il piano della Rachele è pur sistema particolare del poeta, persuaso che ammaestra più e corregge {p. 97}meglio i costumi, e diletta maggiormente il gastigo del vizio, ed il premio della virtù, che la compassione. Sappiamo in oltre per mezzo del medesimo editore, che si rappresentò repetidas veces, e che ne corsero manoscritte più di duemila copie per America, Spagna, Francia, Italia, e Portogalloa. Che che sia di ciò in Madrid si rappresentò quindici anni dopo che fu scritta, e vi sostenne la parte di Rachele la sensibile attrice Pepita Huerta morta nell’ottobre del 1779 nell’acerba età di anni ventuno in circa, ma recitatasi appena due volte fu per ordine superiore proibita. A chi non ne avesse veduta qualche copia {p. 98}delle duemila che se ne sparsero per li due mondi, non increscerà di vederne quì il più breve estratto che si possa. L’argomento e la condotta a un di presso è la stessa della Judia de Toledo del poeta Diamante da noi mentovata nel secolo XVII, cioè la morte data da’ Castigliani a una Ebrea di Toledo, di cui il re Alfonso VIII visse per sette anni ciecamente innamorato.

Giornata I. Apresi con un dialogo di Garceran Manrique, ed Hernan Garcia, dicendosi che Toledo è in festa, perchè compie quel dì il decennio da che Alfonso VIII tornò da Palestina dopo aver dalle forze del Saladino tolto il Sepolcro di Cristo perduto dal francese Lusignano. Non so se ciò dica l’autore come storico o come poeta. So che nella terza crociata Riccardo re d’Inghilterra detto Cor di lione, e Filippo Augusto re di Francia, e Corrado marchese di Monferrato fecero guerra al Saladino soldano di Egitto, e di Siria per ricuperare {p. 99}Gerusalemme tolta da questo saracino nel 1187 a’ Guido Lusignano. So di più che nella difesa di Tiro si segnalò l’italiano Corrado e distrusse due eserciti del Saladino, e co’ nominati re fece meraviglie nell’assedio di Acra o Tolemaide, che venne in lor poterea; e che poi si accordarono col Soldano, restando a Lusignano il titolo di re di Gerusalemme da passar dopo la di lui morte al prode Corrado. Ma in ciò altri non ebbe parte, e molto meno Alfonso VIII occupato sin da’ suoi più teneri anni al riacquisto delle terre Castigliane, tutte le operazioni in Terra Santa non avendo allora passato oltre del 1192, quando il re Filippo tornè in Francia, ed il marchese di Monferrato fu assassinato in Tirob. So {p. 100}ancora che il Saladino seguitò a possedere Gerusalemme col Sepolcro, e colla maggior parte di quel regno, nè i Cristiani lo molestarono, finchè non vi ando Federigo II imperadore di origine Suevo, di nascita Italiano, e re di Sicilia e di Gerusalemme sin dal 1225 quando ne acquistò le ragioni per cessione di Giovanni di Brenna padre di Jolanda da lui sposata, che era figlia ed erede di Maria primogenita d’Isabella figliuola di Amorico re di Gerusalemmea. Fu questo imperadore e re di Napoli e di Sicilia che nel 1228 passò in Terra Santa, guerreggiò, conquistò il regno di Gerusalemme, ed aprì il Santo Sepolcro alla devozione de’ Cristiani; benchè per accordo fatto col Saladino lasciato si fosse in mano de’ Saracini colà avvezzi ad orare senza escludersene i {p. 101}Cristiania. So che a tale spedizione accorsero molte migliaja di fedeli dalla Francia, dalla Baviera, dalla Turingia, e spezialmente dall’Inghilterra, donde, secondo il medesimo Abate Uspergense, ne vennero ben sessantamila. Ma niuno de’ citati cronisti ci dice che Alfonso VIII vi fosse andato con gli altri. Era egli troppo angustiato dentro di casa, e spogliato da’ Mori di Spagna, e dai quattro re Cristiani di Leone, di Portogallo, di Aragona, e di Navarra. Ora se tutto ciò è storia non contrastata, perchè il sig. de la Huerta individuo dell’Accademia dell’Istoria afferma che Alfonso guerreggiò in Palestina, e conquistò Gerusalemme ed il sepolcro? Non è questa una menzogna garrafal? Ciò verifica vie più il dettato di prudenza e di critica, cioè che non sempre le ricerche istoriche debbono attendersi da’ {p. 102}possessori de’ diplomi di un’ Accademia d’Istoria sa Dio come conseguiti!

Direbbe de la Huerta, se ancor vivesse, che in una tragedia egli è poeta e non istorico. Ma niuno ignora che nelle circostanze istoriche delle persone introdotte, e de’ fatti noti e sicuri il poeta non ha la libertà di mentire grossolanamente ingannando il popolo, benchè gli si permetta qualche discreto anacronismo specialmente nelle cose remote. Omero non avrebbe decorato col reame di Persia l’Itacese Ulisse. Virgilio potè in tanta antichità avvicinare Didone ed Enea (quando anche non fossero stati contemporanei, come pretese di aver dimostrato il sig. Andres); ma sarebbe stato incolpato d’ignoranza facendo quel pio Trojano padrone della Betica, ovvero la fondatrice di Cartagine regina di Numanzia o di Sagunto. Sofocle ridicolosamente avrebbe enunciato Edipo tiranno di Tebe come conquistatore de’ Turdetani o de’ Cantabri. Huerta accademico della Storia commise {p. 103}quest’errore madornale, perchè il poeta Diamante sua fida scorta vi era caduto prima.

Manrique aggiugne che Alfonso sette anni prima vinse i Saracini nella battaglia data en las Navas di Tolosa tra Sierra-Morena e Guadalquivir, la quale però fu posteriore alla morte di Rachele. Ciò potrebbe comportarsi, se per rendere cospicuo il carattere di Alfonso la storia non ci additasse altre sue splendide vittorie riportate prima del suo innamoramento. In somma in tutta la scena Manrique conta false vittorie del re, e Garcia gliele mena buone, sol che questi si lagna che sia il re divenuto schiavo di Rachele, ed il popolo sacrificato si vegga

De esa ramera a vil à la codicia.

I medesimi errori di storia ripete Garcia a Rachele nella scena seconda, la {p. 104}quale accoglie con fasto le adulazioni di Manrique e manifesta avversione per Garcia. Egli ne sprezza le minacce, dicendo che i suoi pari

Aquellos que en sangrientos caracteres

de heridas por su nombre recebidas llevan la executoria de sus hechos sobre el noble papel del pecho escrita.

In prima i Castigliani che anche nella prosa schivano con senno la vicinanza delle cadenze simili delle voci, udiranno’ con nausea il cattivo suono di un verso sciolto rimato nel mezzo, come è il secondo, che con heridas recibidas diventa verso leonino. Di poi que’ caratteri sanguigni e quella carta di nobiltà scritta nel foglio del petto è un contrabbando Gongoresco ridicolo nel secolo XVIII, ed assai più nel genere drammatico. Ed ecco una delle prove che dimostrano che il Signorelli non ebbe torto in asserire nelle Vicende della Coltura delle Sicilie che de la Huerta gongoreggia. Rachele {p. 105}resta con Ruben fremendo, e viene Alfonso irritato per le voci sediziose del popolo minacciando,

Tiemble Castilla, España, Europa, el Orbe,

e parte senza dar retta a Rachele che resta con Ruben in una seconda sessione. Si vanno distinguendo le voci che chiedono la morte di Rachele, la quale fugge all’avviso di Manrique. Alfonso che va e viene in quella sala senza sapersi perchè, torna frettoloso, intende che Garcia conduce i sollevati, e si sdegna, e dice,

                   su garganta
El hilo probarà de mi cuchilla
centella de las nubes desprendida.

Una spada figuratamente può chiamarsi fulmine per esagerarne i rapidi funesti effetti; ma aggiugnere che questo fulmine figurato siasi spiccato dalle nubi, è falsità di sentenza gongoresca. Garcia si presenta al re, e gli dimostra che coloro che chiedono la morte di Rachele, sono i più leali vassalli, quelli stessi che l’accompagnarono in {p. 106}Palestina, che lo coronarono re di Gerusalemme (Alfonso ben poteva dargli una sollenne mentita) che insieme con lui in Alarcos furono terrore degl’immensi squadroni Affricani. Garcia mentova imprudentemente anche le battaglie date in Alarcos, perchè Alfonso non ignora che quivi appunto egli superiore di truppe, d’esperienza e di valore, fu pur da’ Mori sconfitto, e restò in loro balìa il regno di Toledoa. Alfonso ravveduto alle sue ragioni pronunzia il bando di Rachele e degli Ebrei. Ma per togliere al di lui cangiamento un’ aria di volubilità, non conveniva manifestar l’interna pugna della propria ragione con una passione eccessiva di sette anni di durata? Rachele cui è già nota la sua disgrazia ed {p. 107}è stata chiamata, ambiziosa e amante viene a tentar di commuoverlo. M’hai chiamata, o signore, gli dice, per darmi in potere de’ sollevati? Lagnasi il re di tali parole, e le dice che egli l’esilia per salvarle la vita. Ella vuole riaccendere la di lui collera, e l’incoraggia a resistere a’ ribelli. Io stessa, aggiugne,gli affronterò. Ciò poteva bastare, ma Huerta con una tirata istrionica di primiera dama la fa continuare così :

Pues si enciendo la collera en mi pecho,
si el hierro empuño, si el arñes embrazo,
Semiramis segunda oy en Toledo
à tus pies postrarè quantos osados
quantos rebeldes quantos alevosos
aliento dàn al sedicioso bando.

bravata da farsa. Convengono queste inutili tagliacantonate alla molle ramera Rachele dipinta in tutta la tragedia timidissima nelle avversità?

{p. 108}Giornata II. Esce Rachele piangendo con Ruben. Ma frall’intervallo de’ due atti che cosa è avvenuta? nulla? l’azione si è riposata? Ciò sarebbe contro la verità e la savia pratica de’ nostri tempi. Oggi si esige che l’azione inevitabilmente si avanzi al suo fine o sulla scena o fuori di essa. Diceva l’editore che l’azione della Rachele è tutta alla vista. Ma si può arrestare il tempo in quell’intervallo in cui i personaggi non compariscono? Che hanno essi fatto sinora (può dire lo spettatore)? Rachele che esce di nuovo con Ruben, fa supporre che la di lei disperazione, il suo pianto, l’accingersi alla dolorosa partenza, abbiano empiuto quel voto. Or ciò essendo l’editore (cioè l’autore sotto il di lui nome) invano si millantò di aver fatta una tragedia più artificiosa di ogni altra, perchè per questa parte (e non è poco) in essa nè si migliora nè si peggiora il metodo degli antichi e de’ moderni. Ruben la consiglia ad impiegare tutto l’artificio di un pianto insidioso per {p. 109}vincere il re; ma ella già poco spera nelle proprie lagrime. Altra volta, ella dice,avrebbe per esse dichiarata la guerra a chi che sia, e ciò non è fuor di proposito; ma soggiunge che avrebbe fatto retrocedere il Tago verso la sorgente e convertita la notte in giorno; e ciò è scherzare, mentre queste espressioni appena si permettono al genere lirico in cui parla un poeta ispirato, ma si reputano sulla scena false fantastiche contrarie all’effetto ed allo stato di Rachele. Anche Ruben scherza facendo in tal punto pericoloso una enumerazione lirica delle perle di Oriente, dell’oro dell’Arabia, delle sete del Catai, delle porpore di Tiro, degli odori Sabei, de’ tapeti di Turchia, delle tele di Persia, e aggiunge infine,

quanto oro encierra en sus abismos
el hondo mar, y quanta plata, cuentan,
sudaron los famosos Pirineos
quando Vulcano liquidò sur venas.

{p. 110}Con minore sfoggio il medesimo pensiero produrrebbe migliore effetto, e sarebbe più proprio di chi vuol persuadere. Ma quel Vulcano della gentilità per dir fuoco, conviene ad un Ebreo? Quel sudor d’argento de’ Pirenei, mentre Vulcano ne rende liquide le vene, è alchimia del secolo XVII. I Pirenei non sudano argento se non in bocca di Garcia de la Huerta, come sudarono una voltai fuochi in un sonetto italianoa. Il popolo è sedato; ma il re per cautela ba ordinato a un campo di duemila cavalli e cento bandiere che maroiavano verso Cuenca, a tornare a Toledo per fortificare la Rocca di San-Cervantes. Questi ordini quando si sono dati? queste marce {p. 111}quando si sono eseguite? Dopo che il re ha disposto il bando di Rachele verso la fine dell’atto I. Ordini a un campo di dodicimila soldati di partire, loro marcia diretta verso Toledo, presidio introdotto nella fortezza, esigono tempo, e due scenette non bastano per tutto ciò, se voglia attendersi alla verisimiglianza. Adunque anche nell’intervallo degli atti è passata questa parte importante dell’azione, ed essa non è tutta alla vista, come si gloriava l’autore senza utilità e senza verità. Alfonso riposando su tali disposizioni riflette sulla condizione de’ principi bene infelice, e si vale di alcuni pensieri di Orazio, o

fortuna invidiabile del villano ec.
, ornamento tutto lirico, impertinente in bocca di un appassionato e ridondante, e vi si compara oziosamente la vita rustica e la reale per cinquantotto versi. L’immortale Metastasio sobriamente adoprò questo colore nella Clemenza di Tito, ma v’impiegò soli dieci versi, e Tito era un sovrano pieno di cure, ma non un Alfonso dominato da una {p. 112}cieca passione. Viene Rachele piangendo, ed Alfonso dice: Raquel llora! mucho de ti recelo valor mio. Anderebbe bene questo suo dubbio di non poter resistere, se Rachele non avesse pianto un’ altra volta nell’atto I senza aver nulla ottenuto. Rachele viene a fare l’ultima pruova del potere del suo pianto. Alfonso però, come se non l’avesse mai veduta piangere, si meraviglia dell’ardore straordinario che in lui produce;

           quando se ha visto
sino en mi daño tan extraño exemplo,
fenomeno tan raro y peregrino?

Non si capisce come possa dirsi fenomeno rarissimo e pellegrino l’ardore che in lui cagiona il pianto di Rachele. Huerta che in altro non si è occupato in tutto il tempo della sua vita che in verseggiare, non si accorgeva de’ versi leonini che gli scappavano dalla penna di tempo in tempo, quale è il secondo di questi tre pel daño tan extraño. Egli alfine mal grado {p. 113}delle di lei lagrime le rinnova l’ordine di partire; ma tosto ripiglia; che ho io profferito? posso pensarlo? posso permetterlo? Perchè no (potrebbe dirgli lo spettatore) se poche ore prima l’avete eseguito senza tanto dolore? La scena dell’atto I rende incostante il carattere di Alfonso, e scema la verità ed il patetico di quest’altra. Rachele stessa non può dissimularlo, e gli dice; non ordinaste voi stesso il mio esiglio? È vero, dice Alfonso, ma ne fu cagione la paura che io ebbi, temor lo hizo. Questa ingenua confessione del timoroso Alfonso potrebbe far ridere chi si ricordasse delle di lui speciose minacce trasoniche dell’atto I,

Tiemble Castilla, España, Europa, el Orbe.

In somma il carattere di Alfonso è picciolo ed inconcludente; ed il poeta Diamante un secolo prima ne fece una dipintura più uguale. Dopo ciò Rachele affetta desiderio di partire, ed il re si ostina a farla rimanere, perdona agli Ebrei, vuol pure che ella governi per {p. 114}lui, e colla maggior gravità di sovrano impone alla guardia che a lei obedisca e la colloca sul trono. Rachele ammette al bacio della mano i Castigliani trattandoli con sommo orgoglio. Essi si meravigliano della leggerezza di Alfonso, e non hanno torto, giacchè ora minaccia, ora teme, ora ordina il bando degli Ebrei, ora si pente, ora esiglia Rachele, ora la pone sul trono, e non è mai lo stesso.

Giornata III. I medesimi personaggi escono con altri sollevati della scena ultima dell’atto precedente. Or perchè entrare per uscir di nuovo? Se per unirsi in maggior numero e deliberare, dunque nell’intervallo degli atti si è fatta qualche altra cosa che non si vede in iscena a dispetto della jattanzia dell’autore che si arrogava un merito esclusivo. Se poi nulla si fa nel voto degli atti, cade Huerta ancora nel ridevole difetto di lasciar l’azione interrotta, che abbiamo notata in Ayala patrocinato dal Sampere o Guarinos. È però assai piacevol cosa vedere {p. 115}nella stessa regia sala di udienza in faccia al trono raccorsi i congiurati, machinare, altercare, schiamazzare, sguainar le spade e gridar muera muera, senza che vi sia almeno un domestico del partito del re o di Rachele che gli ascolti o gli osservi. Essi partono ad istanza di Garcia che ne ottiene che si differisca l’eccidio di Rachele sino a che il re vada alla caccia. Maurique fa sapere a Garcia che Rachele l’esilia da Toledo, al che egli risponde magnanimamente. Quì l’autore fa nascere per incidente un contrasto fra loro, e Garcia rimprovera a Manrique varii tradimenti commessi dalle famiglie de’ Lara e de’ Castro, rimprovero nulla conducente all’argomento, ed inserito dall’autore per astio o per adulazione per la famiglia Garcia contro di quell’altre; e ciò unito alla menzione della predilezione del re per la caccia che svegliava l’idea di qualche allusione temeraria, sembra che avesse dato motivo alla sospensione della rappresentazione della tragedia. Rachele si {p. 116}presenta di nuovo piangendo, perchè il re ha determinato di andare alla caccia senza riflettere ai di lei pericoli. L’autore è caduto in quest’altro incoveniente per seguire anche quì la traccia di Diamante. Ma nel componimento di costui che non si limita alla durata di un giorno, ma abbraccia sette anni, la caccia per cui il re si allontana dalla reggia non è ripiego inverisimile, là dove nella favola congegnata da Huerta il re s’invoglia risolutamente di andare a caccia poche ore dopo che il popolo ha chiesta la morte di Rachele, quel popolo ch’egli ha poco prima mortificato con far sedere l’abborrita favorita sul trono e con rivocare il bando degli Ebrei. Ed in che egli si fida? Ne’ soldati che ha chiamati in Toledo? Ma la sua passione dovea sugerirgli che que’ nobili vantati da Garcia potevano aver fra essi qualche aderenza. Le lagrime di Rachele, cagione poco fa di fenomeni rari e pellegrini, riescono questa volta infruttuose. Il re va alla caccia. Rachele si {p. 117}consola alla meglio, si asside un’ altra volta sul trono, parla de’ pubblici affari, decreta, e fa quello stesso ch’ella un secolo prima fece nella favola di Diamante la Judia de Toledo. Pensa di far troncar la testa a Garcia, ma viene interrotta da nuovi schiamazzi de’ Castigliani. Chiama impaurita la guardia che l’ha abbandonata; si volge a Manrique che si ritira per avvertirne il re; s’indrizza a Ruben che le dà un freddo consiglio e parte. Queste circostanze esigerebbero un discorso rapido, cocente, e non ciò che ella dice in ventiquattro versi freddi anziche nò, per li quali si spende più tempo che non dovrebbero darle i Castigliani irritati, e non trattenuti da ostacolo veruno. L’azione si rallenta ancora per altri trenta versi recitati da Garcia prima di offerirle di salvarla facendola uscire per una porta secreta. Questo punto dell’azione richiedeva più moto che parole. Rachele non accetta l’esibizione di Garcia, ed i congiurati tornano colle spade alla {p. 118}mano e vanno in traccia di lei. Garcia vorrebbe pur liberarla dalla morte e trattenerli, ma vedendo Ruben sì ferma per rimproverargli con molte parole i perversi consigli dati a Rachele. N’era questo il tempo? L’azione corre, vola, e non permette indugio veruno. Osservo che la favola di Diamante in questo passo è più rapida. Ruben si nasconde dietro del trono, Rachele vuol far lo stesso, e trovandovi Ruben gli rinfaccia i pravi suoi consigli. Giungono i Castigliani, e Rachele va loro incontro, dicendo,

Traidores… mas que digo? en vano animo!
Nobleza de este reyno, asi la diestra
Armais con tanto obbrobrio de la fama
Contra mi vida?

Questo tratto è copiato, benchè male, dal poema Raquel inserito nel Parnaso Español. Luis de Ulloa che n’è l’autore, dice così :

{p. 119}
Traidores, fue decirles, y turbada viendo cerca del pecho las cuchillas,
mudò la voz, y dijo, caballeros,
asi infamais los inclitos aceros?

Ognuno si accorge che tal pensiero si è peggiorato dal copiatore Huerta. Nel poema si concepisce, ma non si pronuncia la voce traidores, e con ciò si lascia luogo alla preghiera; nella tragedia l’ingiuria è scoccata, e la correzione giugne fuor di tempo. Nel poema Rachele vuol dire che ferendola essi macchiano i loro acciari col sangue di una femmina; nella tragedia si chiama obbrobriosa l’azione di armarsi contro di lei, ritrattando così la correzione; e rinfacciando loro la ribellione, la qual cosa rende inutile la preghiera. Inclitos aceros nel poema contiene una lusinga, che nobilita la condizione de’ congiurati, il che non esprime la diestra detto nudamente nella tragedia. Finalmente la stessa energica concisione dell’originale nelle parole

{p. 120}
Asi infamais los inclitos aceros

si snerva nella tragedia distendendosene il pensiero in due endecasillabi e mezzo.

Mentre Fañez pensa a fare uccidere Rachele, Ruben in mezzo a tanti robusti armati solo debole e vile cava fuori un pugnale (come dice) per difendersi. Fañez per non far macchiare le spade de’ compagni nel sangue di una femmina, impone all’Ebreo di ucciderla promettendo a lui la vita. Ruben non si fa pregare, e la ferisce. I Castigliani si ritirano. Si domandi al poeta, perchè mai Ruben non seguita coloro che gli hanno promessa la vita? perchè rimane colà stupidamente col pugnale insanguinato alla mano? Rachele spirando chiama Alfonso, che giugne, ed ella ha tanto di fiato che può dirgli che la plebe sollevata l’ha destinata alla morte, e che Ruben l’ha ferita. Alfonso recita un lamento di venticinque versi. Ruben si sente accusare da Rachele, vede il furore del re, ascolta ciò che egli dice, e non {p. 121}fugge. Chi vide rappresentar la tragedia, mi assicurò che il pubblico si stomacò di vedere quell’insipida figura rimasta sì lungo tempo col pugnale alla mano. E doveva così avvenire. Il poeta voleva farlo morire, e non seppe trattenerlo in iscena con verisimiglianza. Alfonso alfine a lui si volge, gli strappa il pugnale, e glie l’immerge nel seno macchiando la sua mano reale del sangue vile dello scellerato Ebreo. Alfonso nella conchiusione procede in conseguenza del carattere datogli dal poeta, e le prime sue riferite incostanze non sono smentite dalle ultime. Egli incomincia dal fare l’uffizio del carnefice nella persona di Ruben; ma benchè prima alla sola idea che Rachele dovea allontanarsi avea chiesto ad un vassallo che gli togliesse la vita, ora alla vista del sangue e del cadavere di Rachele caldo ancora, repentinamente acquista dominio sulla sua disperazione, ed ammette in quel medesimo istante gli uccisori alla sua presenza e gli perdona, contentandosi {p. 122}dire che serva loro di pena,

Contemplar lo horroroso de la hazaña.

Così termina questa tragedia di Garcia de la Huerta lavoro di quindici anni.

L’autore nella morte e nel carattere di Rachele non ha alterata la storia (benchè in tanti altri fatti l’abbia senza necessità falsificata) perchè era persuaso che corregge meglio i costumi il gastigo del vizio ed il premio della virtù. Quì di premio di virtù non si favella, se l’autore non istimasse virtù la ribellione ed il conculcare ogni riguardo dovuto alla maestà. Si tratta solo del gastigo del vizio. Rachele enunciata come una prostituta, ramera, avara, ambiziosa, nociva allo stato, cagione del letargo del re, merita la morte; nè può eccitare veruna compassione tragica, ma quella soltanto che detta l’umanità per gli rei che vanno al patibolo. Per convenire alla tragedia dovea rendersi meno odiosa senza lasciarla impunita. Questa è la {p. 123}differenza che passa tra una vera esecuzione di giustizia ed un evento esposto sulla scena tragica. L’esecuzione reale lascia il fatto come è, la teatrale l’accommoda al fine della tragedia. Il poeta dee maneggiarlo in guisa che il personaggio destinato a commuovere si renda degno di pietà, affetto ammesso come naturale all’uomo ed opportuno a metter l’anima in agitazione per disporlo a ricevere l’ammaestramento che è l’oggetto morale della poesia. Rachele (eccetto la gioventù e la bellezza) non ha qualità veruna che faccia sospirare per la sua morte. Il poeta Diamante in questa medesima guisa dipinse la sua Rachele, ed Huerta calcandone le orme si diede un vanto non vero, dicendo esser tal piano un suo sistema particolare. Si noti però che la Rachele del Diamante desta più acconciamente la tragica compassione, perchè, oltre alla gioventù e alla bellezza, la mostra più innamorata, e nel fatal momento in cui è uccisa, le pose accanto il canuto suo padre, il quale {p. 124}maltrattato da’ sollevati ne aumenta l’infelicità, e la rende più compassionevole. La Rachele dunque di Huerta manca d’invenzione, perchè ne tolse la traccia tutta da Diamante. Ed il sig. Andres errò anche in ciò che la stimò originale e propria di Huerta, non sapendo che egli altro non fece che versificare in nuova forma la Judia de Toledo. In questa guisa il sig. Sebastian y Latre non fece che verseggiar diversamente la Procne y Filomena di Francesco Roxas; nè altra differenza vi è tra questi due autori, se non che l’Aragonese ingenuamente ne prevenne il pubblico, ed Huerta lo dissimulò. Egli fe peggio ancora. In ricompensa di quanto egli prese dal Diamante, stimò bene di escludere la Judia de Toledo dalla collezione che eseguì al fine del Teatro Spagnuolo. Questa abbraccia trentacinque favole oltre della sua Rachele e delle sue traduzioni di cui bentosto parleremo. Ma qual pro reca alla nazione una collezione che non è nè ragionata, nè {p. 125}completa, nè scelta? Non è ragionata perchè nulla addita nè degli errori nè delle bellezze de i drammi; non completa perchè non pochi altri componimenti dovrebbe contenere; non iscelta, perchè alcuni in essa s’inserirono senza merito particolare. Chi avrebbe (diamone un esempio) omessa nelle favole eroiche o la Judia de Toledo, o Dar la vida por su Dama, o los Amantes de Teruel, le quali sempre riempiono di spettatori le scene spagnuole, per eleggere Eco y Narciso nojosa favola mitologica di Calderòn de la Barca che più non si recita? La Raquel moderna per altro supera la Judia del Diamante per la versificazione che non è senza dolcezza, e per lo stile, eccetto ne’ passi indicati dove degenera in gongoresco. È anche dell’antica più regolare, benchè per questa parte già si erano prima di Huerta distinti Montiano, Cadahalso, Moratin, Ayala, Sedano.

Ne’ due tometti delle Opere Poetiche di Garcia de la Huerta si vede {p. 126}un rame coll’incisione di Rachele moribonda, e dell’oziosa figura di Ruben, che col pugnale alla destra stà aspettando colla sinistra nel mento che venga Alfonso e l’uccida. Questo rame è animato dal seguente distico dell’autore :

Plebs ferro me saeva petit; pereoque libenter
Carnificis doctâ sic mage pulcra manu.

Il lettore non ne può comprendere il pensiero. Rachele (egli dirà) non può morir di buon grado, nè per l’esperta mano del boja divenir più bella. Ma eccone il comento. L’incisione del rame fu opera di don Isidro Carnicero; e l’autore per lodarlo volle fare una puerile allusione al di lui cognome Carnicero, scherzando sulla parola carnifex con darle erroneamente un doppio significato. Carnicero in castigliano dinota ciò che i Latini dicono lanio, e gl’Italiani macellajo. Huerta voleva che carnifex destasse l’idea di boja insieme, e di {p. 127}macellajo, di boja per adattarsi alla morte ricevuta da Rachele, e di macellajo per alludere al nome dell’incisore. Ma carnifex in latino significa soltanto il verdugo dell’idioma castigliano, che è il manigoldo dell’italiano; nè mai nella lingua degli Orazii e de’ Tullii significò il bottegajo di un macello, come significa carnicero, e perciò il pensiero rimane nella testa dell’autore.

Volle anche il sig. Huerta rifare la Venganza de Agamemnon del maestro Perez de Oliva che la compose in prosa, e la scrisse sul gusto stravagante del Bermudez con ottave, odi, stanze, e con ogni sorte di versi rimati, ed anche con assonanti. Egli nell’azione si attiene al Perez, che seguita le orme di Sofocle, facendo anche riconoscere Oreste per mezzo dell’anello. Huerta in una nota coll’usata sua modestia si vanta di correggere Sofocle per far che quedase con menos impropriedades, cioè rimanesse spoglio della maggior parte de’ suoi errori. Per conseguirlo bisognava in {p. 128}prima che egli sapesse quali errori ed improprietà appartenessero a Sofocle, e quali a’ suoi traduttori ed indovini; di poi che egli avesse giuste idee delle proprietà convenienti al greco argomento, ed a’ greci costumi, volendo rimpastare quella tragedia. Osservo intanto che egli ha preso un cammino che lo conduce al contrario della sua promessa. In prima tratto tratto egli ingigantisce le idee semplici naturali e patetiche del greco originale; ne perde le bellezze del Coro senza rimpiazzarle in verun modo; rende la favola pesante colla nojosa lunghezza e languore de’ ragionamenti; per troncarne le pretese improprietà, rimoderna alcune usanze, e ne aggiugne altre nuove inescusabili. Che utile cambiamento è quello d’introdurre una cassa capace di un cadavere intero da portarsi sugli omeri de’ Greci alla guisa de’ facchini, in vece di lasciarvi l’urna antica che conteneva le ceneri di un estinto, e che poteva portarsi in mano, come rilevasi da Aulo Gellio nel {p. 129}parlar di Polo, e dall’istesso Sofocle. Egli sin dalla prima scena fa dire ad Oreste; torneranno portando nelle mani χεροιν) una picciola urna di bronzo, fingendo che contenga il mio corpo bruciato, e ridotto in cenere. Anche nella scena della riconoscenza Elettra indirizzando la parola ad Oreste che crede morto, dice come io traduco,

Vieni pondo ben lieve in picciol vaso,

che picciol vaso significa quell’εν σμικρῷ κυτειν, e non già un atahud o cataletto, come è tal passo deformato dal miglioratore Huerta. Che miglioramento è quest’altro di far che nasca in iscena, e si proponga da Cillenio il pensiere di singere l’arca che ha da contenere un peso proporzionato ad un corpo umano, quando Sofocle provvidamente suppone questi preparativi già fatti prima che Oreste capiti coll’ajo in Micene? E perchè in oltre non imitare la vivacità dell’originale nella riconoscenza di Oreste in vece di raffreddarla sgarbatamente con {p. 130}fanciulleschi enigmi? Chi sei? dice l’Elettra dell’Huerta, ed il di lui Oreste risponde a maniera di oracolo,

Un hombre soy que en su sepulcro sulca
los mares de fortuna.

Queste sciocchezze doveano in Ispagna esser sostituite alla sobrietà di Sofocle? Così si sarebbe spiegato Gongora nel colmo del delirio, e così si è spiegato il di lui ammiratore Huerta, il quale apparentemente cambiò l’urna in atahud, per mettere in bocca di Oreste l’indovinello, io sono un uomo che nel mio sepolcro solco i mari della fortuna. Sofocle si era ben guardato dall’avventurare in faccia all’uditorio Clitennestra moribonda; ed Huerta nemico delle improprietà ve la spinge senza perchè, ed a solo oggetto di declamar tutta sola venti versi, e poi senza perchè ancora se ne torna dentro. Ora quando in argomenti sì rancidi, e trattati ottimamente da più di cento poeti, non si sanno combinar nuove situazioni patetiche che formino quadri {p. 131}terribili alla maniera di Michelangelo; quando si hanno da riprodurre con nuovi spropositi, perchè esporsi a far di se spettacolo col paragone? Huerta ha pur tradotta (dicesi) la Zaira da me non veduta; e mi auguro che ne abbia tolte le improprietà meglio che non ha fatto nell’Agamennone di Sofocle. Il suo compatriotto Andres disse di tal fatica di Huerta sull’Agamennone, che egli volle far gustare a’ suoi le bellezze del greco teatro. Si è veduto che diverso fu l’intento dell’orgoglioso traduttore. Dovea però dire che volle rendere in castigliano tale argomento; perchè quale greca bellezza vi ha egli trasportata in vantaggio del teatro moderno? Ma neppure rettificando così il suo giudizio avrebbe profferita una giusta sentenza, perchè l’argomento dell’Agamennone già era nato in Ispagna per la traduzione del Perez. Tanti giudizii mal fondati, e tanti fatti erroneamente esposti, non che sulla letteratura straniera, sulla spagnuola, mostrano ad evidenza essersi il sig. {p. 132}Andres ben poco curato di leggere gli scrittori nazionali, de’ quali volle prendere la difesa. Senza ciò, come conciliare i lumi e i talenti di questo letterato colle sentenze che pronunzia?

Altre tragedie si composero in Madrid finchè io vi dimorai, ma non si rappresentarono. Lorenzo de Villaroel marchese di Palacios produsse una tragedia intitolata Ana Bolena, ed un’ altra il Conde Don Garcia de Castilla, lodate dal sig. Huerta, ma da me non lette a cagione del mio passaggio in Italia. Vi erano ancora rimaste inedite il Pelagio, l’Eumenidi, i due Gusmani. Il sig. Andres rigido investigatore del perfetto a segno che in Italia non trova altra buona tragedia che la Merope, non ha poi trascurato d’inserire nella sua bell’opera non solo i componimenti gesuitici fatti rappresentare nelle loro scuole e colà rimasti, Filottete, Gionata, Giuseppe, Sancio de Abarca, ma quelli che pubblicarono Bazo, Quadrado, Guerrero, Sedano, Ibañez tutti derisi da’ {p. 133}nazionali al pari del Paolino di Aüorbe y Corregel e della Briseida musicale di don Ramon La-Cruz. Io rispettando l’ingegnosa sua nazione lascio tutte siffatte filastrocche a i di lui sforzi per rapirle all’irreparabile dimenticanza.

Con più vantaggio ed onore della nazione rammenteremo alcune traduzioni delle tragedie francesi uscite dopo del Cinna del Pizzarro Piccolomini. Eugenio Llaguno y Amirola tradusse ottimamente l’Atalia del Racine spregiata dall’Huerta, e la pubblicò nel 1754. È verseggiata in endecasillabi sciolti interrotti da qualche rima arbitraria. La tradusse eziandio in Portogallo il dotto p. Freire prete dell’Oratorio occultandosi col nome di Candido Lusitano sotto di cui pubblico più opere nel 1758. Vi premise una erudita dissertazione, in cui additò le bellezze di quell’originale capo d’opera che il sig. Huerta ingannando gl’innocenti suoi ammiratori stimò componimento cattivo di un imbecille. L’Ifigenia del medesimo Racine (a giudizio del famoso {p. 134}Huerta) poeta dozzinale, si trasportò con tutto il garbo in castigliano dal duca di Medina-Sidonia Pietro de Guzman, e si pubblicò nel 1768. Questo medesimo cavaliere nel 1776 fece imprimere la sua versione del Fernando Cortes di Alessio Piron. Egli cessò di vivere nel 1778.

Rimane a parlare di tre esgesuiti spagnuoli tra noi traspiantati, i quali spesero onoratamente il loro ozio in comporre alcune tragedie nell’idioma italiano, cioè dell’abate Giovanni Colomès catalano, di Emmanuele Lassala valenziano, e di Pietro Garcia de la Huerta fratello dell’autore della Raquel.

L’ab. Colomès nel 1779 pubblicò in Bologna il suo Marzio Coriolano, argomento trattato colla solita irregolarità dal Shakespear e dal Calderòn de la Barca, e languidamente da altri. Non è tanto la sterilità che lo renda scabroso a maneggiarsi, quanto l’impossibilità di combinare verisimilmente in un giorno ed in un luogo l’angustia di {p. 135}Roma assediata da’ Volsci, e quella di Marzio combattuto dalla vendetta che vuol prendere de’ suoi nemici nazionali e dall’amor filiale. Chi vuole spaziarsi sullo stato di Roma, è costretto a render Marzio invisibile, come fece nella sua tragedia il nostro Cavazzoni-Zanotti. Chi vuol trattare dell’inflessibilità di Marzio espugnata da Vetturia, troverà sterile la materia per cinque atti. Non so però perchè non si è procurato di trattare in soli tre atti il contrasto dell’amor filiale, e del desiderio di vendicarsi nel cuor di Marzio, colla vittoria del primo che ne cagiona la morte. Il Colomès ha unito lo stato di Roma, la vittoria di Vetturia, la morte di Coriolano; ma ne riduce l’azione ne’ contorni di Roma, ora nel campo Marzio, ora nel tempio di Marte, ora nel campo de’ Volsci, e tutta la ristringe con qualche violenza nel tempo prescritto dal verisimile. Essa incomincia da un punto lontano trattenendosi i Romani ne’ Comizii senza punto sapere dell’invasione de’ Volsci, {p. 136}i quali hanno già espugnata Lavinio, cacciati i Coloni Romani da Circe, Trebbia, Vitellia e Polusca, dilatati i proprii confini sino al Tebro. Si rinserrano poi troppe cose nella durata di un giorno, dovendosi fare accampare i Volsci, dar luogo ad una tregua, superare il Gianicolo, tramarsi una congiura contro Marzio dichiarato dittatore, rompersi la tregua, venirsi a un altro fatto d’armi, allestirsi barche e legni per passare il Tevere, farsi due abboccamenti colla madre, una zuffa nel campo de’ Volsci, seguir la morte di Tullo, la sortita de’ Romani, la fuga de’ Volsci, l’uccisione di Coriolano. Contuttociò lodevoli soprammodo sono gli sforzi dell’autore per averla scritta con felicità in un linguaggio straniero. E chi oserebbe far motto di qualche squarcio prosaico, di alcun verso duro, o di qualche sentimento spiegato men precisamente? Questo è il caso in cui l’indulgenza è giustizia. Accennerò anzi con piacere qualche tratto pregevole. Nell’atto I si osserva una {p. 137}felice imitazione di un pensiero di Metastasio. Zenobia dice,

Salvami entrambi,
Se pur vuoi ch’io ti debba il mio riposo,
E se entrambi non puoi, salva il mio sposo.

Vetturia nel Marzio dice :

Ad una madre
Tu ridona il sostegno, e con la patria,
Se puoi, lo riconcilia; ma rammenta,
Che di Roma sei padre. Salva entrambi,
Ma se il figlio non puoi, Roma almen salva.

Patetico è il discorso del sacerdote nell’atto III; felice l’immagine che Volunnia rappresenta a Marzio di se stesso posseduto da’ rimorsi nel caso che trionfasse di Roma; grave la seconda scena dell’atto V, in cui Vetturia espugna la durezza del figlio; buone imitazioni di Torquato Tasso si scorgono nella scena sesta descrivendosi la rotta {p. 138}de’ Volsci; interessante in fine l’ultima scena per la morte di Coriolano.

Del medesimo abate Colomès è l’Agnese di Castro uscita in Livorno nel 1781. La Castro del Ferreira, come già narrammo, copiata e piggiorata dal Bermudeza, è la sorgente delle {p. 139}Agnesi posteriori. La Cerda ed altri Spagnuoli la trasformarono in un mostro tragicomico. La Motte ne fece la felice sua Inès. Apostolo Zeno trasferendola ad un’ altra nazione ne compose il melodramma Mitridate. Più felicemente si allontanò dalle altrui vestigia Pietro Metastasio nel Demofoonte, il quale mette capo ancor più nell’Edipo di Sofocle, e nella Semiramide del Manfredi, che nella Inès. Il sig. Colomès ha seguita l’Inès del La-Motte nelle principali situazioni e nello scioglimento, benchè non lascia di render nobilmente giustizia alla bella produzione del Cesareo poeta Romano. La sostanza dell’Inès e dell’Agnese è la stessa, variando solo in alcune circostanze. Ciocchè nella tragedia del La-Motte opera la regina, viene nell’Agnese del Colomès eseguito {p. 140}dal siniscalco del regno; ma i motivi che agitano la regina sono assai più attivi, perchè concernono direttamente la persona di Agnese, per cui viene rifiutata la propria figlia; là dove l’odio di Alvaro è contro Ferdinando, e non contro la di lui sorella. La parola data da Alfonso al re di Castiglia cagiona nell’uno e nell’altro dramma il pericolo di Agnese, e la ribellione del principe. Ma il carattere di Alfonso nella favola francese è di un padre sensibile che ama il valore del figliuolo, benchè sia disposto a punirlo, nè il poeta Cesareo ha calcato diverso sentiero nel Demofoonte; là dove il Colomès fa nascere perturbazioni meno tragiche col formare il suo Alfonso severissimo per natura, poco sensibile agli affetti di padre, e prevenuto contro del figliuolo. Il secreto delle nozze occulte svelato al re forma una scena interessante dell’atto V dell’uno e dell’altro dramma. Nel francese però fa più grande effetto; perchè l’arcano si è conservato solo tra il principe e {p. 141}la consorte, e bisogna dire a gloria di Metastasio che è maggiore ancora nel Demofoonte, perchè la sola necessità lo strappa dalla bocca di Timante per salvar Dircea dal sacrifizio. Nel dramma del Colomès però in prima non è sì pressante la necessità di svelare il secreto alla regina sin dal principio, e poi ne restano di mano in mano istruiti molti personaggi. Nel dramma francese al racconto d’Inès il re si commuove e concede il perdono, la riconosce per moglie del principe ed abbraccia i nipoti; ed il Colomès si è bene approfittato di questa bella scena. Il veleno apprestato dalla regina ad Agnese, per cui diviene inutile il perdono ottenuto, e ne rimane estinta, è ritrovato dell’autor francese, e gli è stato rubato da diversi tragici dozzinali. Certo La-Motte non lo dee a veruno, nè gli fu sugerito dalla storia della Castro. Era dunque più bello che il Colomès, ingenuo per altro, e probo uomo, dopo di averlo trascritto, lo riconoscesse da quel Francese, che {p. 142}dire con poca gratitudine, che per necessità dell’azione ha dovuto incontrarsi con lui. La sua candidezza avrebbe accresciuto il proprio merito di avere abbellito questo colpo con nuove acconce espressioni. La stessa istorica imparzialità che ci obbliga a tal confronto, ci fa dire, che il Colomès ha prestate a questo argomento nuove bellezze. Tale ci sembra la voce sparsa ad arte dal falso Alvaro della finta morte del re, per leggere nell’animo del principe, e per assicurarsi che Agnese sia da lui amata. Per lo stile lascia rare volte di esser grave, ed il patetico n’è ben sostenuto, e con passi armoniosi e robusti compensa certe espressioni che parranno intralciate, più prosaiche, e meno precise e vibrate. Debbo pur anche far notare che la ricchezza, l’energia, e la maestà della lingua italiana, e le maniere usate da’ nostri poeti grandi, danno all’Agnese un certo che più grande che manca al cattivo verseggiatore La-Motte. Pieno di poetica vivacità non iscompagnata {p. 143}dalla passione, è il racconto di Agnese alla regina nell’atto II; quanto ella dice nell’atto V, è parimente espresso con verità ed affetto; chiama l’attenzione il discorso ch’ella sa al re quando discolpa il principe. In somma il sig. Colomès con iscelta più felice in questa seconda tragedia ha dato al teatro un’ Agnese non indegna degli sguardi degli eruditi; e la Spagna dovrebbe gloriarsene, come la più regolare ed appassionata uscita da un suo figlio, e desiderare che fosse stata composta in castigliano. Si rileva da una lettera dell’autore scritta al sig. Pignatelli, che egli avrebbe accompagnata l’Agnese con altre due tragedie, se la sua salute gli avesse permesso di aggiugnere l’ultima lima al suo lavoro.

Uscì nel 1779 in Bologna l’Ifigenia in Aulide dell’abate Lassala, che nel dedicarla alla contessa Caprara descrive l’invenzione del pittore Timante di dipingere Agamennone col volto coperto. Timante però posteriore a Polignoto che fioriva verso l’olimpiade XC, {p. 144}non fu l’inventore di tal ripiego che appartiene all’istesso Euripide nato l’anno primo dell’olimpiade LXXV. Euripide disse di Agamennone che volse il capo indietro, pianse dirottamente, e si coperse gli occhi con la veste,

… καμπάλιν στρεψας καρα
Δακρυα προηγεν ὀμματών πεπλον προθεις.

Nocque al sig. Lassala la scelta di un argomento incapace di migliorarsi dopo di Euripide e Racine, i quali a’ posteri non lasciarono se non l’alternativa o di copiarli o di traviare. Egli debbe a quest’ingegni originali la semplicità, l’orditura, lo scioglimento e le situazioni principali dell’azione. Sarebbe a desiderare che vi si fosse anche attenuto in certi passi. Il carattere di Menelao, che pure nella tragedia greca sembra in certo modo incostante, in questa del Lassala comparisce ancor più difettoso. In prima egli è inoperoso, si esprime con bassezza, e villania col fratello, e nel cangiamento che fa si dimostra arrogante, {p. 145}incongruente, ed opposto a’ proprii interessi. Il tragico Greco compensa il difetto accennato prestando al marito di Elena discorsi lontani da’ colori adoperati dal suo imitatore Valenziano. Con più senno egli ad esempio del Francese si sarebbe dipartito dal Greco nello scioglimento, in vece di adottarne la macchina a’ nostri tempi non credibile. Si allontana poi il Lassala dall’uno e dall’altro tragico nell’oziosa scena seconda dell’atto II, in cui Achille con gli occhi bassi dice alle principesse che gode del loro arrivo, e che non può trattenersi, e parte. Sconcio, intempestivo, e mal espresso e falso è il seguente pensiero di Agamennone :

Nel cristallo stesso
Dinanzi a cui ordinando il crine sparso
L’arte accresceva a sua beltà ornamento,
Cercherò almen di te la fida immago
{p. 146}
Impressa un dì, ma fuggitiva altrove,
Sarà disparsa, e cancellata ovunque
Esser solea.

Delicatezza e proprietà si desidera anche nell’atto III nella scena di Clitennestra ed Achille. Lo stile manca di precisione, di proprietà, di forza, e di sublimità, lussureggia, ed enerva i sentimenti col distenderli con verbosità. La frequenza e non variata spezzatura del verso ne toglie ogni armonia. La locuzione è prosaica talmente che scrivendosi seguitamente come si fa in prosa, non vi si distinguerebbe il numero de’ versi. Circa la lingua tutto si dee perdonare a uno straniero che si studia di coltivar quella del paese ove abita. Osservo nonpertanto che vi si trova espresso con passione e felicità ciò che nell’atto IV dice Ifigenia al padre, tratto dal greco, e ciò che ella dice ancora nella conchiusione della settima scena dell’atto V.

L’esgesuita Pedro Garcia de la {p. 147}Huerta non prese a tradurre o imitare favole straniere; ma pieno dello spirito di Vincenzo suo fratello volle recare al nostro idioma in versi sciolti la di lui Raquel, com’egli dice.

Per la gloria di dare all’un germano
Dell’altro un segno di verace amore.

Egli ad eccezione di aver soppresse le millanterie stomachevoli della prefazione dell’edizione matritense della Rachele, e ratificata alcuna delle varie espressioni false e gongoresche dell’originale, attende unicamente a servire al dovere di fedel traduttore, e nella sua copia non altera punto la traccia della favola spagnuola, nè rende meno ineguale e più congruenti i caratteri, nè dà più fondamento alla compassione tragica, nè corregge gli errori di storia, nè tutte castiga le intemperanze dello stile. Questo semplice giudizio portato sulla versione della Rachele non è stato punto alterato dopo che seppi che Don Pedro de la Huerta, {p. 148}in non so quale sua operetta che avea trasmessa per istamparsi a Madrid, abbia trattato l’autore della Storia critica de’ Teatri con tutta l’animosità e l’asprezza fraterna. Noi annojati dalle inette sofistiche cicalate de’ piccioli entusiasti apologisti che sacrificano all’amor di partito le arti e la verità, e turbano la tranquillità delle lettere con gli orrori e gl’impeti de’ fazionarii, lasceremo per ora borbottare in pace, ed insolentire a sua posta quest’altro esgesuita, e ci contenteremo per suo meglio di augurargli miglior gusto e minor villania e spleen del di lui fratello.

{p. 149}

CAPO VI.

Teatro Spagnuolo Comico e Tramezzi. §

I.

Commedie. §

Quanto più siamo persuasi dell’acutezza dell’ingegno spagnuolo nel trovar nelle cose il ridicolo, e dell’eccellenza della ricchissima lingua di tal nazione che si presta con grazia e lindura alle festive dipinture de’ costumi; tanto maggior meraviglia ci reca il vedere in quelle contrade sì negletta la buona commedia nel secolo XVIII, in cui anche nel settentrione vanno sorgendo buoni imitatori di Terenzio e di Machiavelli, Wycherley e Moliere.

Non possiamo rammemorare senza ribrezzo tra’ comici scrittori nella prima mettà del secolo altri che Giuseppe Cañizares, sebbene da’ satirici del suo {p. 150}tempo motteggiato come cattivo verseggiatore. Seguitando il sistema de’ passati drammatici, egli scrisse commedie sregolate ma dilettevoli per la buffoneria, e prossime alla farsa. Debbo però prevenire la gioventù che la farsa non è mica opera spregevole o facile. L’esperienza giornaliera dimostra che per mille drammatici che tesseranno tragedie regolate, ma insipide destinate a morire il dì della loro nascita, a stento se ne incontrerà uno che sappia comporre, una farsa piacevole atta a resistere agli urti del tempo, come son quelle di Aristofane o di Moliere. Le favole del Cañizares da me vedute ripetere in Madrid sono; El honor da entendimiento, el Montañes en la Corte, el Domine Lucas. Nella prima si dipinge una specie di Cimone di Giovanni Boccaccio, il quale non per amore ma per onore diviene scaltro, cangiamento che si rende verisimile per la durata dell’azione di più mesi. Nella seconda si fa una piacevole pittura locale della vanità degli abitatori delle {p. 151}montagne delle Asturie, i quali si tengono per nobili nati, ed ostentano la loro executoria ossia carta di nobiltà in ogni incontro. Il titolo del Domine Lucas è tolto da una commedia di Lope de Vega che ebbe luogo nel Teatro Spagnuolo del Linguet. Ma la favola del Cañizare è assai più piacevole, ed è la sola che con tal titolo comparisce su quelle scene. Il Domine Lucas è uno studente de’ monti Asturiani sommamente goffo ed ignorante; ed il di lui zio che esercita l’avogheria, non è meno ridicolo. Ha costui due figliuole, delle quali la prima egli destina a don Lucas, il quale però ama l’altra sciocca e semplice al pari di lui. Aumenta il ridicolo del carattere di don Lucas il capriccio di volere esperimentar Leonora a lui promessa, e prega un suo amico che è di lei occulto amante, a fingere di amarla, e gliene dà tutto l’agio.

Ma il primo che abbia osato pubblicare in Ispagna una commedia senza stravaganze, fu l’autore di una {p. 152}buona Poetica Spagnuola Ignazio Luzàn. Diede egli nel 1751 alla luce in Madrid sotto il nome del Pellegrino una giudiziosa traduzione in versi coll’assonante del Pregiudizio alla moda di La-Chaussèe intitolandola la Razon contra la moda.

L’avvocato Nicolàs Fernandez de Moratin mentovato fra’ tragici si provò anche nel genere comico, e nel 1762 impresse la sua Petimetra, nella quale, ad onta di una buona versificazione, e di una lingua pura, e della natural vivacità e grazia dell’autore, riuscì debole nella dipintura di donna Geronima, e sforzato ne’ motteggi, e cadde ne’ medesimi difetti ch’egli aveva in altri ripresi. Ne scrisse un’ altra intitolata El ridiculo don Sancho che rimase inedita. Essendosi compiaciuto l’autore di permettermene la lettura, vi ammirai pari armonia nella versificazione e grazia di locuzione, ma parvemi priva di energia e d’interesse nella favola e nel costume.

Nel Saggio teatrale del sig. {p. 153}Sebastian y Latre si pubblicò anche una di lui riforma del Parecido en la corte, in cui procurò di conservare le unità, ma poche volte ritenne le grazie dell’originale.

Nel 1770 usci in Madrid la commedia intitolata Hacer que hacemos, cui noi potremmo dare il titolo di Sex Faccendone, di uno che vuol mostrarsi sempre affaccendato, ma che nulla ha da fare. L’autore si occultò sotto il nome di Tirso Ymareta. Questo nome si vuole anagramma di Tommaso Yriarte, di cui parleremo da quì a poco; ma se egli ricusò di riconoscere per sua tal commedia, non è giusto attribuirgliela, benchè gli appartenga, tanto più che egli si è nominato in altre due favole. Tirso dunque racchiuse in un giorno l’inazione di questa favola con particolare nojosità. Egli avea in mente un embrione accozzato di molti tratti ridicoli di un uomo che vuol mostrarsi pieno di affari, e non fa mai nulla; ma gli mancò la necessaria sagacità nella scelta {p. 154}de’ più teatrali, nel dar loro la dovuta graduazione, nell’incatenarli ad una azione vivace propria della commedia, e nel prestarle interesse e calore.

Tutte le altre favole pubblicate nella penisola sono tali che ci rendono preziose le irregolarità, e le stravaganze ancora del secolo XVII. E quando mai al tempo del Calderòn venne alla luce una favola più mostruosa del Koulican di un tal Camacho? Quando si videro più sciocche fanfaluche di quelle che portano il titolo di Marta Romorandina mostruosità insipide di trasformazioni e magie, che nella state del 1782 per un mese intero si recitarono con meraviglioso concorso ogni giorno? Quando si tradussero ottimi drammi forestieri più insulsamente e sconciamente di quello che Ramòn La-Cruz, ed altri simili poetastri fecero del Temistocle, dell’Artaserse, del Demetrio, dell’Ezio, dell’Olimpiade deteriorate e tradite da capo a fondo, e segnatamente imbrattate coll’introdurvi un buffone che interviene ai {p. 155}trattenimenti de’ re, e degli eroi Greci e Romani? Quando ne’ secoli più rozzi di ogni nazione si sono presentate sulle scene favole più incondite di quelle rappresentate in Madrid dal 1780 inclusivamente sino al carnevale del 1782 della Conquista del Perù, del Mago di Astracan, del Mago del Mogol? Io non ne nomino i meschini autori per rispettar la nazione; ma probabilmente essi troveranno ricetto nella Biblioteca de’ viventi del Sampere per morire ed esser seppelliti in coro in siffatto scartabello, di cui sento che in Ispagna altri già più non favella se non che il proprio autore.

Gli ultimi anni del secolo XVIII ci presentano pochi componimenti ma ben degni di nominarsi con onore. Non si cerchino però negli scritti apologetici, nè del Nasarre, nè dell’Huerta, nè del Lampillas, nè dell’Andres. È il Napoli-Signorelli preteso scrittore antispagnuolo, che con dispendio se gli ha fatti venire dalle Spagne per rendere loro giustizia; e se gli apologisti ne {p. 156}faranno per ventura menzione nelle ristampe de’ loro libri, non ne saranno obbligati che alla Storia de’ Teatri in sei volumi, ed alle Addizioni che vi feci nel 1798.

Los Menestrales (gli artigiani) commedia di cinque atti in versi endecasillabi con assonante di Candido Maria de Trigueros si rappresentò e s’impresse in Madrid nel 1784 in occasione della pace conchiusa coll’Inghilterra, e della nascita de’ due reali gemelli Carlo e Filippo. Lodevole fu il disegno dell’autore di esporre sulla scena alla pubblica derisione la ridicola vanità degli artigiani, i quali abbandonando il proprio mestiere sorgente della loro opulenza, sacrificano tutto per parer nobili, ed o si coprono di ridicolo, o cadono nelle ultime bassezze, e giungono anche ai delitti. Trigueros osserva in questa favola le regole dell’unità, si attiene scrupolosamente alla pratica moderna di non mai lasciar vota la scena, e si vale di una locugione propria della mediocrità de’ {p. 157}personaggi imitati. Vi si spargono quà e là acconciamente varie invettive contro de’ pregiudizii, e delle gotiche opinioni de’ nobili, che per puntigli ereditati dalla barbarie conculcano la virtù e la giustizia. Un villano p. e. con un asino carico di paglia urta, e spinge al suolo un nobile immaginario, ed un altro impostore che ha preso il titolo di barone essendo di origine e di mestiere ciabattino, dice con disdegno, no merece mil muertes? y el honor? Ma don Giovanni personaggio sensato lo riprende.

No hay mas que dar mil muertes?…
Dar la muerte por un capricho solo
à un hombre! al que es mi hermano! me extremezco.
Quando llegarà el dia alegre y santo
que olvidemos que huvo en toscos tiempos
estos nombres odiosos y crueles
de pundonor, venganza, punto y duelo?

{p. 158}La giovane Rufina carattere freddo ma di buona morale nella scena seconda del II atto vorrebbe che Cortines suo padre (sarto di mestiere che si adira se altri se ne sovvenga, e vuol passar per nobile) venisse richiamato alla ragione col mostrarglisi per qualche via gl’inconvenienti della sua vanità; ma come buona figliuola teme che tal disinganno accader possa con danno o dispiacere del padre. Quindi nella scena seguente domandandole Giusto che cosa mai pensi di ciò che si va disponendo, ella con tenerezza risponde :

                   que à mi padre
me manda obedecer el santo cielo;
si tu remedio encuentras, sin que tenga
pesar Cortines, me daràs contento.
Pero vè que es mi padre.

Non posso con tutto ciò lasciar di dire che la favola procede con lentezza e languore, e si disviluppa sforzatamente usandosi ne’ primi atti varie reticenze senza vedersene il motivo {p. 159}perridurre tutto allo scioglimento. Anche i caratteri abbisognano di maggior naturalezza ed energia, specialmente quelli di Rafa e di Pitanzos. Scarseggia finalmente di sali e lepidezze urbane, e di partiti piacevoli, ed è ben lontana da quella forza comica che chiama l’attenzione, rapisce e persuade con diletto. Ma perchè la sua regolarità e giudizio, e l’oggetto morale che vi si nota, non ha stimolato a conoscerla qualche apologista nazionale degli ultimi anni?

Andres, nè Lampillas, nè Huerta esageratori sur parole del merito comico delle favole di Naharro e della Celestina (che battezzano per componimento teatrale), mostruose produzioni che mal conobbero, hanno procurato d’informarsi, se in mezzo alle stravaganze anche a’ nostri dì esposte sulle scene spagnuole siesi recitata una commedia pastorale in cinque atti con cori, e con prologo eziandio composta, ed impressa in Madrid l’anno stesso 1784 per la pace fatta coll’ {p. 160}Inghilterra, e per la nascita stessa de’ reali gemelli? Essa appartiene a don Juan Melendez Valdès, e l’antispagnuolo preteso Napoli-Signorelli ne dà contezza in Italia, e provvede all’indolenza degli apologisti spagnuoli sempre ingrati, e declamatori, e sempre copisti desidiosi.

Il Valdès ha posta in azione la novella di Basilio e Chiteria leggiadramente descritta dal celebre Cervantes nella Parte II del Don Quixote, e l’ha ingenuamente citato, intitolandola las Bodas de Camacho, le nozze di Camaccio. Lo stile sobrio per la giustezza de’ sentimenti e per la proprietà dell’espressione, ricco e copioso d’immagini e di maniere poetiche ammesse nel dramma pastorale, appassionato ne’ punti principali della favola; la verificazione armoniosa di endecasillabi e settenarii alternati e rimati ad arbitrio; i caratteri singolarmente di Basilio, di Chiteria, di Petronilla, Don-Chisciotte ben sostenuti; la passione espressa con vivacità e naturalezza; lo {p. 161}scioglimento felicemente condotto sulle tracce dell’autor della novella; l’azione che in ciascun atto dà sempre un passo verso la fine; tutto ciò raccomanda a’ contemporanei imparziali questo componimento e l’avvicina in certo modo alle buone pastorali italiane. Quanto dice Chiteria meriterebbe di trascriversi interamente. In un monologo pieno di un patetico che giugne al cuore, dice la pastorella nella scena prima del atto II :

Ay! Esta misma vega
Testigo fue de nuestro amor, testigo
De mil hablas suaves,
De mil tiernas promesas, y mil juegos,
Que eran un tiempo gloria,
Y ahora son dolor en la memoria.
Aqui dulce cantaba,
Alli allegre reia,
Aquì con su guirnalda me ceñia,
Y alli me la quitaba!
{p. 162}
Ay triste! el valle dura,
Y acabò mi ventura!

Nella terza scena del III in cui si parlano la prima volta dopo la lor divisione Basilio e Chiteria, la tenerezza disgraziata aumenta a meraviglia l’interesse, e commuove e penetra nell’intimo dell’animo di chi legge o ascolta. Cresce nel IV il movimento pel festivo e lauto apparecchio delle nozze, e per la protezione che Basilio implora di Don Chisciotte, raccontandogli il vero della propria disperazione misto col finto soccorso del mago e del presagio di lui che dispone lo scioglimento condotto con verisimilitudine e con espressioni confacenti allo stato di Basilio ed al concertato disegno.

Urtarono due altri moderni scrittori teatrali verso gli ultimi tre lustri del secolo XVIII contro la corruzione del teatro spagnuolo sostenuta da’ commedianti e dal La-Cruz e suoi colleghi in mostruos tà sceniche. Furono tali due scrittori Tommaso Yriarte e Leandro Fernandez de Moratin. Il primo fu {p. 163}Archivario della real Segreteria di Stato, che si vuo e l’autore della riferita commedia Hacer que hacemos, e scrisse due commedie assai migliori, intitolate El Señorito Mimado, ossia la Mala Educacion, e la Señorita Malcriada impresse nelle opere dell’autore, indi separatamente nel 1788, due lodevoli argomenti felicemente scelti per istruire e dilettare.

Si rappresentò la prima nel 1788 in Madrid nel Coral del Principe, e piacque. La dipintura di un giovane educato con moine e carezze senza verun freno da una madre debole e compiacente, e cresciuto senza virtù e abbandonato alla leggerezza e al libertinaggio, dovè interessare pel vivo ritratto degli effeminati sbalorditi originali, i quali abbondano nelle società culte e numerose. I caratteri di don Mariano mal educato, di sua madre che chiama amor materno la cieca sua condiscendenza, di donna Monica avventuriera che si finge dama, e serve di zimbello in una casa di giuoco, sono {p. 164}comici ed espressi con verità e destrezza. Conveniente è quello di don Cristofano tutore e zio del Signorino accarezzato che si occupa a riparare gli sconcerti della famiglia. Sono figure subalterne, e tal volta fredde, donna Flora, don Alfonso e don Fausto. Nell’ultimo atto esce una sola volta in teatro don Taddeo Trapalon che è un ritratto degli antichi sicofanti. La favola consiste nel discoprimento e nella punizione di donna Monica e nell’esiglio di don Mariano per essere stato sorpreso in un giuoco proibito che porta in conseguenza il dolore della madre ed il matrimonio che non interessa punto di Flora con Fausto. L’azione si conduce regolarmente con istile proprio della scena comica, e colla solita buona versificazione di ottonarii coll’assonante. Taluno troverà soverchie le operazioni della favola nel periodo che si racchiude dall’ora di sesta all’annottare. Il trage de por la mañana di don Mariano indica che egli venga a casa prima dell’ora {p. 165}dipranso; e se egli non ha desinato nella propria casa, non dovea dirsene un motto? La venuta di donna Monica nell’atto III in casa di don Cristofano dopo essere stata ravvisata per la stessa Granatina, sembra poco verisimile, e con un solo di lei biglietto poteva invitarsi don Mariano al giuoco e rimetterglisi le lettere falsificate di Fausto e Flora. Soprattutto vi si desidererà più vivacità e più necessario incatenamento ne’ passi dell’azione. Noi facciamo notare tralle cose più lodevoli di questa favola le origini della corruzione del carattere di Don Mariano indicate ottimamente nella seconda scena dell’atto I, e la di lui vita oziosa descritta da lui stesso in pochi versi nella settima del medesimo atto. Voi non sapete vivere, egli dice a Fausto, siete schiavo del vostro impiego; aggiugne,

No señor, la liberdad…
Por eso, quando ha dicho algo
Mi Madre sobre buscarme
Destino, se lo he quitado
{p. 166}
De la cabeza… La vida
Es corta. Se pasa un rato
De paseo, otro de juego,
Quattro amigos, al teatro,
Algun baile, la tertulia,
Tal qual partida de campo;
Y uno gasta alegramente
Lo poco que Dios le ha dado.

Stimabile finalmente è l’incontro comico della scena dodicesima dell’atto II di donna Monica dama riconosciuta per Antonietta di Granata, ed artificiosi i di lei raggiri per ismentir don Alfonso.

Gettata sul conio della precedente è la Señorita Mal-criada impressa e non rappresentata ch’io sappia, nella quale si descrive una fanciulla ricca guasta dall’educazione di un padre spensierato, come nell’altra è una madre oscitante e mattamente indulgente che corrompe il costume del figliuolo. Vi s’introduce una donna Ambrosia vedovetta trincata di dubbia fama, che alimenta nella Pepita capricciosa impertinente intollerante tutte le dissipazioni {p. 167}della gioventù senza costume, e fomenta la di lei sconsigliata propensione per un vagabondo ciarlatano; come nella prima favola donna Monica avventuriera contribuisce alla ruina di don Mariano. Don Eugenio onorato cavaliere che ama Pepita e vorrebbe correggerne i difetti, equivale al Fausto della prima commedia; don Basilio che fa riconoscere nel finto marchese un vero truffatore di mestiere, corrisponde ad Alfonso, per cui viene a scoprirsi la falsa dama dell’altra favola. Il viluppo e lo scioglimento di questa è fondato, come nella precedente, nell’artificio di due finte lettere. La critica potrebbe sugerire che meglio forse risalterebbero gli effetti della pessima educazion di Pepita, se la di lei zia si mostrasse meno pungente in ogni incontro, e don Eugenio innamorato meno nojoso, che ostenta sempre una morale avvelenata da un’ aria d’importanza e precettiva. Questo Eugenio poi non dovrebbe continuare nè a moralizzare nè a correggere Pepita promessa {p. 168}ad un altro a cui il padre ha già contati diecimila scudi per le gioje. Pepita in tali circostanze non dovrebbe nell’atto II innoltrarsi in una lunga e seria conferenza deliberativa col medesimo Eugenio e con la zia. Il carattere di Bartolo portato a tutto sapere e a tutto dire non dovrebbe permettergli di tacer come fa in tutta la commedia l’importante secreto della finta lettera posta di soppiatto in tasca di don Eugenio, che egli non ignora sin dall’atto I. Sembra in fine che in una favola che l’autore vuol che cominci di buon mattino e termini prima di mezzodì, non possano successivamente accadere tante cose, cioè diverse conversazioni riposatamente, consigli, trame, deliberazioni, una scena di ricamare poco propria in campagna, un giuoco di tresillo, indi un altro di ventuna, ballo, merenda, accuse contro Eugenio e Chiara, discolpe, arrivo di un nuovo personaggio ec.. Chechesia però di tutto ciò la favola merita lode per la regolarità, per lo stile conveniente al {p. 169}genere de’ caratteri di Pepita, di Ambrosia, di Gonzalo e del marchese, nel qual personaggio con molta grazia si mette in ridicolo il raguettismo di coloro che sconciano il proprio linguaggio castigliano con vocaboli e maniere francesi, del cui carattere in Italia diede l’esempio Scipione Maffei nel suo Raguet, ed in Ispagna il riputato Isla, autore del Fray Gerundio.

L’altro stimabile moderno autore sì benemerito della buona commedia nazionale il sig. Leandro Fernandez de Moratin, è nato in Madrid dal prelodato don Nicolàs, di cui ha ereditato l’indole poetica, l’eleganza e la grazia dello stile, la dolcezza del verseggiare e la purezza del linguaggio. Se ne hanno quattro commedie, che s’intitolano, el Viejo y la Niña (il Vecchio e la Fanciulla) la Mogigata, che noi potremmo intitolare la Bacchettona trattandosi di una giovane che dà ad intendere di volersi chiudere in un chiostro austero, la Comedia nueba, el Baron. Le due prime divise in tre atti {p. 170}ed in versi ottonarii coll’assonante erano composte sin dal 1786, ma la prima s’impresse nel 1790 quando si rappresentò con piena approvazione nel teatro detto del Principe. La seconda a me per amicizia rimessa dall’autore manoscritta, non so quando rappresentata, s’impresse nel 1804 col nome arcadico dell’autore Inarco Melenio. La terza in due atti ed in prosa si rappresentò in Madrid nel medesimo teatro a’ 7 del febbrajo del 1792 quando s’impresse. L’ultima in due atti ed in versi si pubblicò col medesimo nome arcadico nel 1803. Sono state tutte e quattro da me rendute italiane.

Ecco il contenuto del Vecchio, e la Fanciulla. Un perverso tutore a condizione di non essere astretto a dar conto dell’amministrazione de’ beni d’Isabella sua pupilla che conta poco più di tre lustri, la sacrifica facendola sposa di un vecchiaccio caduco mal sano rantoloso che ne ha passati quattordici ed ha atterrate tre altre mogli. Ella amava un giovanetto della sua età che {p. 171}era andato in Madrid, e per dissiparne la ripugnanza, le danno a credere con false lettere che egli abbia colà preso moglie. Si conchiude l’inegualissimo matrimonio, e dopo due o tre settimane arriva l’amante e trova Isabella sposata a don Rocco suo corrispondente, in casa di cui viene ad albergare. La virtù della fanciulla è a cimento colla sua passione. Il giovine si determina a partire per recarsi in America. Ella ode il tiro di leva, sviene, e come ripiglia i sensi, con mille ragioni obbliga don Rocco a consentire che ella vada a chiudersi in un ritiro. Questa commedia è nel buon genere tenero, ed insinua la giusta avversione per le nozze disuguali di una fanciulla di quindici a venti anni con vecchi che ne hanno corsi più di settanta. Il giudizio, la regolarità, la morale, la delicatezza delle dipinture, la versificazione e la locuzione eccellente, ne formano i pregi principali. Merita ben di essere dagli esteri conosciuta, e singolarmente per le seguenti cose. {p. 172}Piacevoli trovo tutte le scene del vecchio don Rocco col suo domestico Muñoz; eccellenti quelle d’Isabella col suo amante e specialmente la dodicesima dell’atto I, e l’undecima dell’atto II; delicatamente espressa l’angustia d’Isabella astretta dal vecchio a parlare all’amante, mentre egli da parte ascolta ed osserva, la quale scena, benchè non nuova, produce tutto l’effetto; commovente quanto comporta il genere comico è la scena in cui Isabella ode il tiro di leva del vascello nel quale è ito ad imbarcarsi l’amante; finalmente tira tutta l’attenzione l’ottima aringa d’Isabella, in cui svela i secreti del suo cuore al marito, detesta l’inganno del tutore, assegna le ragioni di non essersi ella spiegata liberamente, rifondendone la cagione all’educazione che si dà alle donne, onde si avvezzano alla dissimulazione. Ne adduco per saggio la mia traduzione di buona porzione della scena undecima citata dell’atto II :

Isabella

Vien gente… oimè! Desso è che viene? Io vado…
{p. 173}
Misera che farò? Veder nol voglio.

Giovanni

Isabella?

Isabella

Se amore e gentilezza
Quì vi scorge, o signor, per congedarvi,
Il ciel vi guardi, e vi conduca (aimè!)

Giovanni

A dirti io vengo sol…

Isabella

Sì che ten vai.
Lo so; va pur, te lo consiglio io stessa,
Vanne, crudel; se hai tu valor bastante
Per eseguirlo, anch’io, se pria non l’ebbi,
Tanto or ne avrò per affrettar co’ prieghi
L’infausto istante.

Giovanni

Ah che non sai qual pena…
{p. 174}

Isabella

Eh sì, quanto io ti debba io non ignoro,
So… parti, fuggi, lasciami morire.
Ma infin ten vai? ma certo è dunque? è certo?
Dopo un sì fido amor, dopo tanti anni,
Dopo tante speranze ecco qual premio
Mi preparò la sorte! Ah l’amor mio
Ciò meritò?

Giovanni

L’ho meritato io forse?
Ingrata donna, e che facesti mai?
Per te, per te… tu la cagion tu sei
D’ogni tormento mio! Qual fu la tua
Facilità crudel! Dunque ha potuto
In breve ora un rispetto una violenza
Astringerti a disciorre il più bel nodo
Fatto per man d’amor, dal tempo stretto!
{p. 175}
Oh tempo! oh lieti dì! te ne rammenti?
Ti rammenti, Isabella..

Isabella

Io vengo meno…

Giovanni

Quando di nostra sorte appien contenti
D’un innocente amor dolci gustammo
E teneri momenti! La strettezza,
Il concorde voler, l’etade, il genio,
Gli scherzi, i finti sdegni…

Isabella

Ah tu m’uccidi!

Giovanni

Un motto, un guardo tuo, qualche sospiro
Era de’ voti miei gloria e misura.
Tutto è finito? S’io t’amai, se un tempo
Ci amammo, un’ ombra or ne rimane, un sogno.
D’un vil cedesti agli artifizii indegni!
{p. 176}
Vana illusione e gelosia fallace
In te si armaro del mio amore a danno!
Fralezza femminile!

Isabella

Il cuor mi scoppia;
Tardi ne piango.

Giovanni

Tardi, è ver; la morte
Terminerà il mio male.

Isabella

Il ciel nol voglia.
Io, sì, ne morirò, chè in me non sento,
Valor per tante pene… ahi sventurata!

Giovanni

Addio, mio ben; non ci vedrem più mai.
Lungi da te cercherò climi ignoti.
Tu la memoria almen di tanto affetto
Serba, mia cara; altro da te non bramo.
Amami, pensa a me; forse ristoro
Troverò al mio dolore, immaginando
{p. 177}
Ch’una lagrima almen, qualche sospiro
Potrò costure alla beltà che perdo.

Più piacevolezza più forza comica scorgesi nella Mogigata, i cui caratteri, sebbene non tutti nuovi, veggonsi delineati con circostanze proprie a svegliare l’attenzione perchè tratte con garbo dal puro tesoro della natura. Due coppie di personaggi dissimili, cioè due fratelli e due cugine in continuo contrasto danno acconcio risalto non meno alla moralità che al ridicolo, Ne’ due fratelli vedesi l’immagine degli Adelfi di Terenzio. Don Martino simile a Demea burbero difficile avaro intrattabile, rileva la sua figliuola Chiara con tanta asprezza che ne altera l’indole, e la rende falsa e bacchettona. Don Luigi simile a Mizione nella dolcezza ma con più senno indulgente, e più felice ancora nel frutto delle sue cure paterne, educa la sua Agnese con una libertà onesta, la forma alla virtù alla sincerità alla beneficenza. Trionfa la geniale ragionevolezza di don Luigi e l’amabile {p. 178}franchezza di Agnese, al confronto dell’aspro e tetro umore di don Martino e dell’ipocrisia di Chiara. Ma questi caratteri disviluppandosi con maestrevole economia lasciano alla bacchettona il posto di figura principale nel quadro ossia nell’azione che consiste nel discoprimento della di lei falsa virtù e santità, per mezzo di un tentato matrimonio clandestino. Discostandosi questa favola dalla precedente nella sola specie, ne conserva i pregi generali della buona versificazione, del buon dialogo, della regolarità, della grazia, dello stile e del giudizio. Lodevoli singolarmente sono nell’atto I; la scena prima in cui si espone il soggetto, si dipingono i caratteri, e si discopre con senno la sorgente della dissimulazione di Chiara; le due seguenti ove si manifesta il carattere leggiero stordito e libertino di Claudio; gli artifizii dell’astuto Pericco proprii della commedia degli antichi ed accomodati con nuova grazia a’ moderni costumi spagnuoli. Anima l’atto II un colpo di teatro che {p. 179}rileva l’ipocrisia di Chiara e la vera bontà di Agnese, perchè quella per discolparsi di un suo errore all’arrivo di suo padre prende il linguaggio melato degl’ipocriti e fa credere colpevole la cugina. Nell’atto III son da notarsi le seguenti cose; un altro colpo di bacchettona allorchè parlando Chiara con Perrico delle sue nozze clandestine, si accorge che viene il padre, e senza avvertirne il servo muta discorso, e dice, io voleva mettermi tralle cappuccine per meritare con una vita più austera una corona più gloriosa, ma bisogna obedire al padre: la scena in cui don Luigi vorrebbe che ella si fidasse di lui e gli dicesse se inclinerebbe allo stato conjugale, ed ella punto non fidandosi continua sempre col tuono di bacchettona; l’artificio con cui si prepara lo scioglimento colla mutazione non prevista che fa un parente del suo testamento. Questo parente deliberato avea di lasciar Chiara erede del suo; ma sapendo che era determinata a farsi religiosa, dispone de’ suoi {p. 180}beni a favore di Agnese e muore. Ciò forma la disperazione ed il castigo dell’avido vecchio don Martino, di Chiara e di Claudio. Tutto per essi è sconcerto, amarezza, desolazione; quando Agnese umana pietosa magnanima intercede per la cugina da cui era stata offesa, promette di rinunziarle parte de’ beni ereditati per non lasciarla cadere nella miseria, e la riconcilia col padre. Questo scioglimento interessante è accompagnato da una felice esecuzione. Sebbene io l’abbia tradotta interamente in prosa, come feci altresì della precedente, pure ne addurrò quì lo squarcio che ne pubblicai in versi nel 1790 nel sesto volume di quest’opera: Vada (dice della figliuola l’irato don Martino)vada da me lontana, viva infelice, sappia a quante disgrazie la soggetta il pessimo suo procedere. Ma Agnese in questa guisa gli si oppone :

No, non fia mai che la disgrazia io vegga
Di mia cugina, e non la senta io stessa
{p. 181}
Nel più vivo dell’alma. Amato Padre,
Poichè appresi da te le altrui sventure
A deplorar, ed a mostrar con fatti,
Non con parole, una pietà verace,
Concedimi (e ben so che mel concedi)
Ch’io le porga la man; misera, errante,
Abbandonata io la vedrò, nè seco
Dividerò i miei beni? Ah nò, detesto
Una ricchezza sterile che il uumero
Degli oppressi non scemi. Oggi assicuri
Legittimo contratto in suo favore
Quanto a lei cedo; un generoso amplesso
Del padre suo idubbii miei disgombri,
E a tutti il suo perdon renda la calma.
Deh piaccia al ciel, cugina, che tu vegga
Dal sincero amor mio rassicurata
{p. 182}
La tua felicità, giacchè vi prende
Tanta parte il mio cuor, ch’esser non voglio
Felice io stessa, se non sei tu lieta.

Queste due commedie bene scritte di un vivace poeta pieno di valore e di senno; le quali secondate potevano formare una fortunata rivoluzione nelle scene ispane, incontrarono i soliti ostacoli de i commedianti di Madrid. Io converrei secoloro per la seconda accomodandomi alle circostanze del paese, sino a che l’autore non vi avesse sfumate certe tinte risentite d’ipocrisia onde, per altro, ben s’imita l’abuso che fanno i falsi divoti delle pratiche ed espressioni religiose. Ma perchè rifiutarono per tanto tempo la prima? Ciò che in Italia nuocono alle belle arti le combriccole de’ semidotti che si collegano contro del merito e degl’ingegni ben coltivati, e le mignatte periodiche e gli scarabbocchiatori di mestiere di ciechi colpi d’occhi e di articoli per giornali venduti, noceva a que’ di nelle Spagne ai progressi teatrali {p. 183}la turba inetta degli apologisti ed i colleghi di quel poetilla La Cruz che tiranneggiava i commedianti nazionali.

Dopo di avere l’ingegnoso autore nel 1789 data la caccia a’ poetastri con un piacevole opuscolo intitolato la Derrota de los Pedantes (la sconfitta de’ pedanti) nel quale gli spaventa, gli schernisce, gli dipinge giocondamente, gli confonde e gli caccia in fuga con piacer del pubblico che gli riconosce; il sig. Moratin compose la nominata in terzo luogo Commedia nueba, ove espone una fedel dipintura (a quel che si dice nel prologo) dello stato attuale del teatro spagnuolo. Una parte, vi si aggiugne, assai numerosa della nazione mira con dolore la decadenza del nostro teatro, e desidera che si dissipino gli ostacoli che ne impediscono il miglioramento. Si ay no obstante (si conchiude)una clase de gentes, à quienes la falia de principios, la indolencia, el interès, y otras pequenas pasiones hacen obstiuadas en el error, contra allas se dirige la censura.

{p. 184}Il soggetto di tal commediola è un povero giovane chiamato Eleuterio carico di famiglia, il quale facendo cattivi versi imprende la carriera teatrale per accorrere a’ proprii bisogni. Ha una sorella nubile destinata in moglie a don Ermogene pedantaccio arrogante non men povero di lui. Nè l’uno nè l’altro è nel caso di effettuare tali nozze non avendo danari pel bisognevole. Il poetastro attende l’esito di una commedia che ha data al teatro, e col prezzo di essa promessogli nel caso che la commedia riesca accetta al pubblico, e col frutto sperato della impressione, si lusinga di ammobigliare la casa per la sorella, pagare i debiti dello sposo, e sostentar la propria famiglia. La commedia è fischiata, e non se ne vendono le copie impresse, il poeta perde il prezzo convenuto, e si dispera, il perfido pedante si ritira impudentemente, e senza il caritatevole soccorso di un ricco uomo dabbene impietosito, la famiglia del tapino poeta sarebbe perita nell’indigenza. La locuzione è propria e {p. 185}naturale, l’azione semplice condotta felicemente, lo scioglimento fa onore all’umanità ed in conseguenza all’autore. Sento che il pubblico di Madrid la vide con particolar diletto, e l’applaudì. La traduzione che io ne feci indirizzandola all’apologista Lampillas si trova nella parte IV de’ miei Opuscoli varii.

Il Barone è l’ultima commedia che io conosco del sig. Leandro de Moratin, ed è pure in due atti e scritta co’ soliti ottonarii coll’assonante. L’avea l’autore molti anni indietro composta e destinata a recitarsi in musica in una casa particolare; ma non essendo venuto a capo tal disegno, corse per alcun tempo manoscritta con più applauso che non isperava chi la scrisse. L’assenza dell’autore che viaggiò in Francia, in Inghilterra ed in Italia, facilitò ad alcuni d’impadronirsene e considerandola come cosa senza padrone, la rimpastò, la deformò con nuovi personaggi, ed accidenti e grazie e disgrazie novelle. Tutti i difetti acquistati si vollero {p. 186}attribuire all’autore. Ad onta delle critiche alcuni amatori come chiamansi in Francia, o affezionati come si dicono in Ispagna, vollero recitarla in case particolari, dalle quali passò a rappresentarsi in Cadice nel pubblico teatro mutilata e deformata. La geniale indolenza dell’autore mal resse a questa prova, nè soffrì il di lui amor proprio che un componimento che tanti gli attribuivano, così malconcio corresse per quelle contrade. Presolo dunque di nuovo per mano, lo purgò delle variazioni fattevi da mano aliena, ne soppresse ciò che apparteneva alla musica, ne variò il viluppo, diede all’azione più moto ed interesse, e più forza e verità a’ caratteri. Così l’ha pubblicato, e me ne fornì un esemplare che pure a petizione di alcuni io tradussi in prosa giusta la richiesta. Consiste in un avventuriere che si finge barone spagnuolo imparentato con tutti i grandi della corte, della quale è in disgrazia per maneggi de’ suoi nemici. Egli adula, lusinga e spoglia con grandi promesse {p. 187}una vedova d’Illesca a cui dà a credere che ama la di lei figlia. Un Leandro innamorato che si vede cacciato di casa, ne tasta il coraggio, lo conosce poltrone, e lo mette in fuga. Una lettera del finto barone astringe la vedova a ravvedersi. L’azione che si aggira su di un impostore smascherato, non è nuova, ma è scritta con piacevolezza e vi trionfa il grazioso carattere di don Pedro fratello della vecchia delusa. La favola semplice e verisimile, i caratteri tratti a dirittura dalla natura, i costumi nazionali vivacemente dipinti, un dialogo naturale, schietta urbanità nello stile, vezzi comici senza esagerazione istrionica, ottima morale e facile a praticarsi, sono i pregi che gl’imparzialì non possono negare di riconoscere in questa favola.

{p. 188}

II.

Tramezzi. §

I Tramezzi che oggi nelle Spagne si rappresentano nell’intervallo degli atti delle commedie, non sono più gli antichi entremeses buffoneschi di tre o quattro personaggi che recitavansi per lo più dopo l’atto I. Essi negli ultimi anni della mia dimora in Madrid cominciarono a tralasciarsi, e seguiva all’atto la sola tonadilla. In vece di tali tramezzi si posero in moda quelli che chiamansi sainetes. Il significato proprio della voce sainete esprime ciò che noi diciamo condimento. Ma figuratamente si applica a tutto ciò che rende saporoso un accidente, un discorso, un trattenimento. Introdotto sul teatro equivale all’intermezzo degl’Italiani, e alla petite-pièce de’ Francesi. Simili favolette introducono per lo più molti personaggi vestiti di caratteri proprii de’ tempi presenti, de’ quali si rilevano {p. 189}le ridicolezze ed i vizii. Sogliono recitarsi con tutta la naturalezza, e senza la cantilena declamatoria e l’affettata gesticulazione delle commedie. Ora quando a tali sainetti ossiano salse comiche sapessero i poeti dar la giusta forma e grandezza, essi a poco a poco introdurrebbero la bella commedia di Terenzio e Moliere, che con tentativo felice ebbero in mira Trigueros, Valdès, Yriarte e Moratin senza essere stati nè approvati nè seguiti. Ma coloro che dal settembre del 1765 sino alla fine del 1783, tempo della mia dimora in Madrid, fornirono di simili tramezzi le patrie scene, non seppero mai dar si bel passo, per le ragioni che soggiungo. In prima perchè non si avvisarono d’apprendere l’arte di scegliere i tratti nelle società più generali, allontanandosi dalle personalità, per formarne pitture istruttive. In secondo luogo perchè quei che se ne sono occupati non hanno mostrato di saper formare un quadro che rappresenti un’ azione compiuta. Inoltre perchè {p. 190}hanno dato a credere che essi ignorassero la guisa di fissar l’altrui attenzione su di un solo carattere principale che trionfi fra molti; e sino al tempo che io vi fui, esposero per esempio alla vista una sala di conversazione composta di varii originali con ugual quantità di lume, i quali dopo di avere successivamente cicalato quanto basti per la durata del tramezzo, conchiudono, perchè si vuole, non perchè si dee, con una tonadilla.

Un gran numero di tali sainetti e forse la maggior parte si compose dal più volte mentovato don Ramon La Cruz, di cui con predilezione e privilegio esclusivo fidavansi i commedianti di Madrid. Le sue picciole farse spesso si riceveano con applauso, ed in grazia di alcune di esse talvolta si tollerarono goffissime commedie e scempie traduzioni del medesimo autore. Per natura egli ha lo stile dimesso ed umile assai accomodato a ritrarre, come fece, la plebe di Lavapies e de las Maravillias (contrade di Madrid {p. 191}abitate solo da un popolo minuto insolente) i mulattieri, i furfanti usciti da’ presidii, i cocchieri ubbriachi e simile gentame che alcuna volta fa ridere e spesso stomacare, e che La Bruyere voleva che si escludesse da ogni buon teatro. Può vedersene un esempio nel sainete intitolato la Tragedia de Manolillo, in cui intervengono tavernari, venditrici d’erbe e castagne, facchini ec., e l’eroe Manolo che si figura venuto di fresco senza camicia e lacero dopo di aver compito il decennio della sua condanna nel presidio di Ceuta. L’azione consiste nella morte di Manolo ferito da Mezzodente di lui rivale, cui tutti gli altri personaggi fanno compagnia buttandosi in terra e dicendo che muojono, ma subito l’istesso feritore ordina che si alzino, ed essi insieme col trafitto Manolillo obedendo risuscitano belli e ridenti. Il disegno di simile insipida farsaccia fu di mettere in ridicolo gli scrittori di tragedie e l’osservanza delle unità. Gli scherzi ed i motteggi si {p. 192}aggirano sulle corna, sulle frodi de’ tavernari, su i ladroni, su varie donnacce da partito condotte all’Ospicio e a San-Fernando luoghi di correzione per le prostitute, su i pidocchi uccisi in presidio da Manolo, che dice,

Y en las noches y ratos mas ociosos
mattava mis contrarios treinta a treinta

Mat.

Todos Moros?

Nan.

Ninguno era Cristiano.

In far simili ritratti dell’infima plebaglia La Cruz ha mostrato somma destrezza. Segno a’ suoi strali mimici furono frequentemente gli Abati che ostentavano letteratura. Se egli avesse posseduta fantasia atta ad inventare e disporre acconciamente favole compiute in tanti anni, non l’ha certamente manifestato. In effetto ad eccezione di certe favole allegoriche, le quali per lo più non si comprendono a, egli si {p. 193}limitò a tradurre alcune farse francesi, e particolarmente di Moliere, Giorgio Dandino, il Matrimonio a forza, Pourceaugnac ec.. Ma in vece di apprendere da sì gran maestro l’arte di formar quadri di giusta grandezza simili al vero, egli ha rannicchiate, poste in iscorcio disgraziato e dimezzate nel più bello le di lui favole, a somiglianza di quel Damasto soprannomato Procruste ladrone dell’Attica, il quale troncava i piedi o la testa a’ viandanti {p. 194}mal capitati, quando non si trovavano di giusta misura pel suo letto a.

CAPO VII.

Opera musicale nazionale ed italiana. §

I.

Opera Spagnuola. §

Cominciò l’opera nazionale sin dal secolo XVII. Sotto Filippo IV l’infante don Fernando di lui fratello {p. 195}formò due leghe distante da Madrid verso il settentrione in mezzo a un querceto una casa di campagna che denominò Zarzuela a. Egli soleva in essa trattenere il re e la famiglia con magnifiche feste singolarmente teatrali ricche di macchine e decorazioni, nelle quali accoppiavasi alla recita nuda di tutta la favola il canto di certe canzonette frapposte che diremmo arie. Tali rappresentazioni dal luogo ove eseguironsi trassero il nome di Zarzuelas, ed ora così seguitano a chiamarsi in Ispagna i drammi nazionali cantati. La Nazione poco prima disposta ad ascoltare tutto un dramma cantato, accolse più favorevolmente le proprie Zarzuelas, benchè in esse il canto riesca più inverisimile che nell’opera vera. Non ne hanno però gli Spagnuoli un gran numero. Di quelle del tempo di Filippo IV più non si favella {p. 196}nè anche. Le ultime sono pur poche. Io ho vedute ripetersi quasi sempre le medesime sarsuole composte per lo più da Ramòn La Cruz, cioè las Segadoras (mietritrici) de Vallegas, las Foncarraleras, la Magestad en la Aldea, el Puerto de Flandes, e qualche altra, cui danno il titolo di folla. Oltre a queste si sono tradotte e accomodate a foggia di sarsuole alcune opere buffe italiane, cioè rappresentandosi senza canto il recitativo e cantandosi le sole arie e i duetti e i cori ed i finali. Così vi si rappresentarono la Buona Figliuola, le Pescatrici, il Filosofo di Campagna, il Tamburro notturno.

Si tentò nel 1768 aprir camino ad un’ opera eroica spagnuola originale, rappresentandola alla maniera delle sarsuole. Il peso di comporne la poesia si addossô al La Cruz, il quale scrisse Briseida zarzuela heroica in due atti posta in musica da don Antonio Rodriquez de Hita maestro di musica spagnuolo. Essa però fu così mal {p. 197}ricevuta e derisa, specialmeate in alcune Lettere graziose e piene di sale scritte da don Miguèl Higueras sotto il nome di un Barbero de Foncarral, che Briseida fu la prima e l’ultima opera seria spagnuola. Essendo quasi impossibile agli esteri curiosi imbattersi in tal fanfaluca, e ben difficile a’ nazionali che se ne curino, diamone qualche contezza. Essa contiene l’intiera sostanza de’ diciannove libri dell’Iliade in compendio, perchè incomincia dal contrasto di Achille ed Agamennone per far rimandare Crisia al padre, nè finisce se non dopo l’ammazzamento di Patroclo, per cui Achille torna a combattere contro i Trojani. Tutto ciò si racchiude in due piccioli atti divisi in dodici scene. Ebbe dunque tutta la ragione del mondo il sig. La Cruz di declamar tanti anni contro i compatriotti che inculcavano le moleste unità; e non ebbi io torto in affermare ch’egli rannicchia e pone in pessimi scorci le altrui invenzioni {p. 198}soggettandole al coltello anatomico di Procruste.

Ma ciò sarebbe il minor male, se col misero sacrificio della poesia si servisse almeno alla musica. Egli però ignorando i punti del dialogo più opportuni per le arie, ed altri pezzi musicali, nè sa valersene a rendere meno ristucchevole il recitativo, nè sa con questo interromperne la frequenza, ed evitar la sazietà che si produce anche coll’armonia quando è perenne. Per esempio la prima aria dell’atto I si canta dopo centoventisei versi recitati, e soli trentadue versi poi sono seguiti da due arie; nell’atto II si recitano cento cinquanta versi prima di udirsi un’ aria, e poi settanta versi soli danno luogo a ben cinque pezzi di musica, cioè tre arie, una cavatina ed un recitativo obbligato, ed altri novantotto versi in seguito precedono un’ altra aria. Con tale pessima economia e distribuzione trovansi nella Briseida incastrati dodici pezzi di musica quasi tutti parlanti, e senza affetti.

{p. 199}Cinque scene compongono l’atto I, in cui deliberata la restituzione di Crisia, Agamennone comanda che si tolga Briseida ad Achille, il quale irato si allontana dal campo greco. Nella prima scena mille pensieri sublimi, ed espressioni nobili energiche e poetiche possono notarvisi. Agamennone chiamato re de’ mortali (titolo per altro dato nella poesia greca e latina al solo Giove) Ioda Achille e dice con poetica bellezza che il di lui nome solo è definizione degna di Achille. Di Agamennone si dice che gli eroi della Grecia si gloriano di essergli soggetti, nivelando su conducta por su prudencia, livellando la sua condotta dalla sua prudenza. De’ Greci si dice,

separamos los brazos de los cuellos
de las esposas,

volendosi spiegare che si distaccarono dagli amplessi delle consorti, benchè separar le braccia da i colli, può parere piuttosto esecuzione di giustizia o di erudeltà. Di un reo che involge {p. 200}gl’innocenti nella propria ruina, dicesi con felicità, proprietà, ed eleganza, hizo partecipantes del castigo gl’innocenti. La Cruz dà braccia ad una pecora, dalle quali il lupo strappa gli agnelli. Per dirsi che Agamennone nè vuol cedere Criseida, nè permettere che sia riscattata, si dice con proprietà castigliana ni cederla quiere ni redimirla. Or tocca al La Crux o al Sampere, e a tutta la turba che lo encomia, a conciliar tutto ciò colla propria lingua, colla poesia, e col senso comune. Si conchiude l’atto con un’ aria, in cui Calcante profetizza che il sole irritato convertirà en temor nuestras alegrias: ma di grazia quali allegrie sono nel campo greco, di cui Achille ha descritta la mortalità onde l’ha coperto la peste ? Si aggiugne un’ altra aria di paragone di un fresco rio, che coll’umor frio feconda le piante, ma se poi è trattenuto da un pantano vil altivo, questo rivo annega quanto incontra. Veramente un rivo che sbocca in un pantano, altro non fa {p. 201}che impantanarsi anch’esso, e nulla può sommergere prima di vincere l’ostacolo che si oppone al suo corso; ma passi ciò. Non si capisce però dagli spagnuoli, come un pantano possa dirsi vil altivo.

Dopo alenni soporiferi discorsi di Briseida e Crisia, Achille partecipa a questa la di lei libertà, ed ella grata gli augura una corona di lauro che Apollo idolatra; ma immediatamente poi nell’aria gliene augura un’ altra di mirto, nè le basta, se non vede su i di lui capelli fiorire i rami di tal mirto, e nella seconda parte di essa (che conviene alla prima come il basto al bue) si dice :

Y de nuestras vidas
con afectos nobles
aprehendan los robles
à permanecer.

Achille nella scena quarta dice a Briseida,

Al beneficio de los ayres puros
Nuestras naves y tropas veràs luego
{p. 202}
A su primer vigor restituidas.

Che cessando la peste la gente riprenda vigore, ben s’intende; ma le navi sono anch’esse soggette al contagio? ed in qual vigore esse ritornano coll’aria pura? Che Achille non solo voglia chiamarsi figlio, ma primogenito di Teti, è buona scoperta genealogica per gli antiquarii. Lasciamo la sintassi irregolare di quel no se acuerda de quien soy y quanto ec.; lasciamo quel suppongo yo mas, espressione castigliana, sì, ma troppo famigliare per un dramma eroico. Disconviene però al carattere del magnanimo Achille quel gettar motti maligni e cavillosi contro di una verità notoria dell’elezione di Agamennone, con dirsi che forse sia stato eletto per capo dell’esercito da pocos hombres. Graziosa è la di lui determinazione di non voler suscitare una guerra civile contraddetta dall’aria tutta minaccevole, nella quale paragona se stesso al mar tempestoso, e medita vendetta, e nella seconda parte, che non ha che fare col primo pensiere, si dice,

{p. 203}
Sin tus perfecciones
serà à mis pasiones
dificil la calma,
quando à mi alma
la quietud faltò.

Ciò in castigliano si direbbe una pura quisicosa, ed in francese un galimathias.

Agamennone nella scena quinta domanda a Taltibio, se abbia eseguiti i suoi ordini, quando pur co’ suoi occhi vede in quel luogo Briseida ed Achille; ed il servo, contro l’indole de’ Taltibii, disubbidiente dice che gli ha enunciati, ma non è passato oltre per compassione, e canta un’ aria al suo re di un tronco che cede alla forza, ma mostra colla resistenza il proprio dolore, sentenza che quando non fosse falsa, impertinente, ed inutile per la musica, sarebbe sempre insipidamente lirica e metafisica. Termina l’atto con un terzetto di Achille, Briseida, ed Agamennone (restando per muti testimoni Patroclo e gli altri) i quali tutti e tre cantano questi versi :

{p. 204}
Dioses que veis la injuria, vengadme del traidor.

In prima in quest’azione niuno de’ tre può dirsi traditore; e l’istesso Agamennone col togliere Briseida ad Achille usa una prepotenza una tirannia, ma non un tradimento. Pure quando voglia concedersi agli amanti un’ espressione men misurata per soverchio sdegno, come mai Agamennone che offende Achille col togliergli la donna, che per diritto di guerra e di amore gli appartiene, può per soprappiù lagnarsi di essere ingiuriato e tradito da Achille?

Stancherò io i leggitori con una circonstanziata analisi dell’atto II? Contentiamoci di accennare che pari meschinità di concetti, trivialità di espressioni, abuso ed improprietà di termini si trova nel rimanente. Ne servano di esempio soltanto le seguenti poche formole; sospender el animo con dones, per ispiegare di vincere con regali; chiamare argonautas marinari che non navigano sulla nave Argo, {p. 205}nè si distinguono almeno per eccellenza; concretar las gracias per esprimere l’accumular le grazie; il borrar triunfos y escribir tragedias, metafora di controbando, ed antitesi puerile attribuito all’ira del guerriero Achille; l’idiotismo di advitrio per arbitrio o alvedrio ec. Aggiungiamo solo alla sfuggita che tutte le arie sono stentate, inarmoniche, difettose nella sintassi, e contrarie o distanti dal pensiero del recitativo; che si trova in quest’atto secondo uguale ignoranza delle favole, ed invenzioni Omeriche, e degli antichi tragici; che Briseida augura ipocritamente ad Achille che giunga

à gozar del amor de su Ifigenia;

ignorando che la sacrificata figlia di Agamennone per miracolo di Diana ignoto a’ Greci si trova viva trasportata nel tempio della Tauride; che l’istessa Briseida la prega di volersi intenerire,

y no qual fuerte hierro à tu Briseida
{p. 206}
aniquiles, abrases y consumas;

colle quali parole attribuisce al ferro che non è rovente, le proprietà del fuoco di annichilare, bruciare, consumare; che Achille vuole che gli augelli loquaci siano muti testimoni, los pajaros parleros sean mudos testigos  che lo stesso Achille dice di avere appreso da Ulisse

â despreciar la voz de las sirenas,

la qual cosa dimostra di possedere uno spirito profetico, perchè Ulisse si seppe preservare dalle sirene dopo la morte di Achille e la distruzione di Troja; che l’istesso Achille pure profeticamente indovina che l’uccisore di Patroclo sia stato Ettore, perchè nel dramma del La Cruz niuno glie l’ha detto; che Agamennone dice ad Achille che vedrà al campo il corpo di Patroclo

pasto fatal de las voraces fieras,

bugia che contraddice al racconto di Omero che lo fa venire in potere de’ Mirmidoni; nè poi Achille potrebbe {p. 207}mai vedere una cosa già seguita, purchè le fiere a di lui riguardo non vogliano gentilmente differire di manicarselo sino al di lui arrivo; in fine che La Cruz dovrebbe informarci perchè Briseida di Lirnesso, cioè Frigia di nazione mostri tanto odio contro le proprie contrade a segno di desiderarne l’annientamento anche a costo di dover ella rimaner priva di Achille? È mentecatta questa insipida figlia del frigio Briseo, ovvero La Cruz che le somministra sì strani affetti ed espressioni?

E questa è la Briseida di Ramòn La Cruz Cano y Olmedilla ecc. ecc. I critici nazionali decideranno qual siesi più scempiato componimento del secolo XVIII, se questa Briseida o il Paolino di Añorbe y Corregel. Essi investigheranno ancora chi sia quel poetilla ridiculo autor de comedias goticas, todas aplauditas en el teatro, todas detestables à no poder mas, y todas impresas por suscripcion, con {p. 208}dedicatoria y prologoa.

Il teatro spagnuolo ha un’ altra specie di rappresentazione musicale, cioè la tonadilla e la seguidilla narrazioni in musica che tal volta si distendono a più scene, e si cantano anche a due, a tre ed a quattro voci. Ecco come le diffinisce nel poema della Musica Tommaso Yriarte :

Canzoneta vulgar breve y sencilla,
Y es hoi a’ veces una escena entera,
A veces todo un acto,
Segùn su duracion y artificio.

Negli ultimi anni del XVIII secolo è passata dalle grazie naturali delle venditrici di aranci, di frutta e di erbaggi, all’elevatezza della musica più {p. 209}seria, ai gorgheggi, alle più ardite volate; di maniera che con mala elezione ha cangiato il proprio carattere, e sovente nella stessa tonada si congiunge l’antico ed il moderno gusto, la musica nazionale e l’Italiana. Odasi il nominato Yriarte :

Pues uno eleva tanto
El estilo en asuntos familiares,
Que aun suele para rusticos cantares
De heroicas arias usurpar el canto 
Otro le zurce vestidura estraña
De retazos ni suyos ni de España.

Riguardo alla poesia l’insipidezza, i delirii, la scempiaggine delle ultime tonadas è pervenuta alle più viziose estremità. In una di esse si personificarono ed introdussero a confabulare le due statue di Apollo e Cibele, e fin anco l’istesso Passeggio del Prado; in un’ altra si personificò la Cazuela e la Tertulia, due palchettoni de’ teatria.

{p. 210}

II.

Opera Italiana. §

L’Opera Italiana non tradotta si è in diversi tempi interrottamente rappresentata nella penisola. Nel real palazzo del Buen Retiro di Madrid sotto Ferdinando VI si cantarono le più famose opere di Metastasio e qualche serenata di Paolo Rolli da’ più accreditati attori musici e dalle più celebri cantatrici dell’Italia, senza balli ma con alcuni tramezzi buffi, dirigendone lo spettacolo il riputato cigno napoletano Carlo Broschi detto Farinelli, che quel Cattolico Sovrano dichiarò cavaliere. La Nitteti del Cesareo poeta Romano, in cui il viluppo interessante, e le patetiche situazioni vengono arricchite da maravigliose decorazioni {p. 211}tutte ricavate dalla natura, su espressamente composta pel teatro ispano a richiesta del suo amico Farinelli. Ma questo spettacolo veramente reale, cui si ammettevano gli spettatori senza pagarne l’entrata, terminò colla vita della regina Barbara e di Ferdinando VI.

Nel teatro detto de los Caños del Peràl di Madrid fin dal 1730 si rappresentarono opere comiche, ma dopo alquanti anni vi si recitarono commedie spagnuole, le quali erano pur cessate nel 1765 quando io giunsi in Madrid. Qualche concerto ed opera buffa vi si eseguì di passaggio l’anno stesso, in cui si sospesero le rappresentazioni de’ siti reali. Di bel nuovo poi dal 1786 vi si tornarono per qualche altro anno a rappresentare opere musicali italiane.

In Aranjuez, nell’Escorial, in San-Ildefonso, e nel Pardo dimorandovi la corte dal 1767 s’introdussero le opere buffe con balli, le qualí alternavano colle rappresentazioni francesi {p. 212}tradotte in castigliano eseguite da une compagnia di commedianti Andaluzzi. Ma l’uno e l’altro spettacolo cessò nel 1776 per sovrano divieto.

In Cadice, in Barcellona, in Saragoza, in Cartagena, e talvolta nel Ferol, si è rappresentata eziandio per alcuni anni l’opera italiana. Anche in Bilbao se n’è cantata alcuna, ma tradotta in castigliano. In Lisbona sotto il padre della regina Maria Francesca, l’opera italiana fece lungamente le delizie di quella corte.

CAPO VIII.

Teatri materiali. §

I Teatri di Barcellona e di Saragoza da me veduti nella fine del 1777 erano più regolari e più grandi di quelli che oggi esistono in Madrid; ma sventuratamente in diverso tempo entrambi soggiacquero ad un incendio che gli distrusse. Sussistono quelli di Cadice e di Lisbona, e sento anche che in {p. 213}questa capitale del Portogallo nel 1793 siesi costruito un nuovo teatro aperto alle rappresentazioni dopo lo sgravamento della principessa del Brasile seguito nel mese di maggio. La platea è di forma ellittica. N’è stato l’architetto il portoghese Giuseppe Costa, il quale, come affermano i nazionali, studiò più anni in Italia.

Madrid ha quattro teatri, cioè quello della corte nel Ritiro, l’altro de los Cañòs del Peràl, e i due nazionali detti Coràl del Principe, e Coràl de la Cruz.

Del real teatro mentovato nel precedente capitolo che prende il nome dal Ritiro, fu l’architetto Giacomo Bonavia; ma il bolognese Giacomo Bonavera in compagnia del Pavia lo ridusse nella forma presente, tanto per farvi maneggiare le mutazioni delle scene non di sopra del palco, ma di sotto di esso nel comodo e spazioso piano che vi soggiace, quanto per agevolare l’apparenza delle macchine che il Bonavera inventava. La sua forma è {p. 214}circolare alla foggia moderna con platea, e con palehi comodi e nobili, e quello del re sommamente magnifico fu arricchito di belle dipinture dall’Amiconi pittore veneziano assai caro a Ferdinando VI. Non è spazioso l’uditorio, perchè si destinò ad occuparsi esclusivamente da’ grandi, da ambasciadori, da’ ministri, e da’ dipendenti della corte, e da un numero moderato di galant’uomini invitati. Ma la scena, eccetto quella di Parma e di Napoli, è una delle più vaste dell’Europa. Essa ha di più il vantaggio singolare di valersi alle occorrenze del gran giardino che le stà a livello, e presta spazio conveniente alle vedute lontane, e alle apparenze di accampamenti, e simili decorazioni. Vi osservai tuttavia esistenti le macchine che servirono per la rappresentazione della Nitteti, cioè un gran sole, la nave che si sommergeva, un gran carro trionfale, alcuni lunghi tubi ottagoni all’esteriore, ed al di dentro lavorati a lumaca, che ripieni di petruzze col solo voltarsi, e rivoltarsi {p. 215}all’opposto imitavano lo strepito della grandine continuata a piacere.

Il teatro de los Caños del Peràl pur si costrusse alla foggia moderna con platea e palchetti, e si destinò per le opere buffe. Ma nel 1767 se ne cangiò la forma interiore dall’architetto spagnuolo don Ventura Rodriguez per uso de’ pubblici balli in maschera. Per acquistar luogo senza alzarne il tetto, o ingrandirlo in altra forma, l’architetto prese il partito di profondarne il pavimento, in guisa che per andare alla platea dovea scendersi. Ciò si disapprovò da i più, tra perchè si tolse a chi entrava la prima vaga e dilettevole occhiata di tutta la gran sala illuminata e abbellita dalle maschere, tra perchè il luogo ne divenne freddo, umido, e nocevole ai mascherati vestiti di seta leggera. Dopo di tale occasione che durò per due carnevali, l’edificio ripigliò l’antica forma, e tornò a dividersi in palco scenico ed uditorio per le rappresentazioni musicali.

Rimane a far parola de i due {p. 216}corales destinati alla commedia nazionale, la cui struttura si allontana dalla forma de’ nostri teatri. Coràl propriamente significa una corte rustica dietro di una casa, e talvolta comune a più casucce abitate da famiglie plebee non ricche, ed un simil luogo servì talora nella Spagna per le rappresentazioni sceniche, ancor quando non eranvi teatri fissi. Natural cosa era che le famiglie abitatrici di tali casettè avessero diritto di affacciarsi alle proprie finestre o logge o balconi, e godere dello spettacolo. Quando poi si costruirono edifizii chiusi addetti unicamente agli spettacoli scenici, essi presero la forma di quelle case e corti nella costruzione sì de’ palchi superiori, e della platea, e dello scenario inferiore che ne occupava una porzione, e ritennero il nome di corales. Madrid ne ha due che appartengono al corpo amministrativo che rappresenta la Villa che tra noi si diceva Città, e dalle due strade ove essi sono dette del Principe, e della Cruz, chiamaronsi Coràl del {p. 217}Principe, Coràl de La Cruz. Ignoro il tempo in cui edificaronsi; nè l’autore del Viaggio di Spagna cel seppe dire. Se ne trova per altro fatta menzione in una delle commedie di Francesco Roxas scrittore comico del XVII secolo da noi già mentovato. Si sa solo che quello della Cruz più difettoso dell’altro, e posto in una strada meno ampia, fu il primo a costruirsi. Entrambi sono un misto di antico edificio, e moderno per la scalinata anfiteatrale, e per gli palchetti che hanno. La figura di quello del Principe si scosta meno dall’ellittica; dell’altro è mistilinea, congiungendovisi ad un arco di cerchio due linee che pajono rette, perchè s’incurvano ben poco, onde avviene che da una buona parte de’ palchetti vi si gode poco comodamente la rappresentazione. La scena di entrambi è di una grandezza proporzionata agli spettacoli ai quali son destinati. L’apparato di essi sino al 1770 in circa consisteva in un proscenio accompagnato da due telai o quinte {p. 218}laterali, e da un prospetto con due portiere dette cortinas, dalle quali solamente entravano, ed uscivano gli attori con tutti gl’inconvenienti che nuocono al verisimile e guastano l’illusione. Per antico costume compariva in siffatta scena con cortinas un sonatore di chitarra per accompagnare le donne che cantavano, raddoppiandosene la sconvenevolezza, perchè tra’ personaggi caratterizzati giusta la favola, e vestiti p. e. da’ Turchi, Mori, o da selvaggi Americani, si vedeva dondolar quel sonatore abbigliato alla francese. Verso l’epoca indicata las cortinas cedettero il luogo a diverse vedute ben dipinte convenienti alle azioni rappresentate; ed alla chitarra sparita dalla scena succedette una competente orchestra di musici sonatori collocata, come in ogni altro teatro moderno, nel piano della platea. I più distinti e ricchi spettatori occupano dopo l’orchestra quattro file, ciascuna composta di diciotto comodi sedili, e questo luogo chiamasi luneta. Altri spettatori {p. 219}seggono in alcuni scaglioni posti in giro l’uno sopra l’altro a foggia di anfiteatro che chiamano la grada. Circonda la fascia superiore di tale scalinata un corridojo oscuro che anche si riempie di spettatori, ed a livello del primo scaglione inferiore havvi un altro corridojo, nel quale v’è gente in parte seduta in una fila di panche chiamata barandilla (ringhiera) ed in parte all’erta. Il rimanente del popolo assiste parimente senza sedere nel piano dopo la luneta, il quale si chiama patio, cortile. Le donne di ogni ceto separate dagli uomini coperte dalle loro mantillas seggono unite in un gran palco dirimpetto alla scena chiamato cazuela, che congiunge i due archi della grada. Entrambi i teatri hanno tre ordini di palchetti simili a quelli de’ teatri italiani per le dame, ed altra gente agiata; l’ultimo de’ quali men nobile è nel mezzo interrotto da un altro gran palco chiamato tertulia perpendicolare alla cazuela, dal quale gode dello spettacolo la gente più seria, e {p. 220}singolarmente gli ecclesiastici. Attaccati al proscenio havvi due spezie di palchi laterali a livello del corridore della barandilla, chiamati faltriqueras, cubillos, i quali, in vece di avere il punto di vista verso la scena, girano di tal modo, perchè non impediscano la vista ai corridojo, che guardano al punto opposto, cioè alla cazuela.

Il sig. abate Saverio Lampillas esgesuita catalano che ha dimorato in Genova sin dal tempo dell’espulsione, e che non mai avea veduto Madrid, volle dubitare della verità di questa descrizione, per natural costume di non credere che a se stesso ed a’ suoi corrispondenti che tante volte l’ingannarono con false notizie. Dal suo dubbio inurbano sin dal 1790, quando uscì il tomo sesto della Storia de’ Teatri in sei volumi, io appellai al testimonio di circa censettantamila abitatori di Madrid, e ad un milione almeno di altri Spagnuoli viventi che avranno veduti i due descritti teatri. Essi diranno se procedano con politezza gli {p. 221}apologisti nazionali con dubitare a siffatto modo dell’altrui veracità senza verun fondamentoa.

La capa parda ed il sombrero chambergo, cioè senza allacciarsi, ancor di cara memoria a’ Madrilenghi, un uditorio con tante spezie di nascondigli e di ritirate di certa oscurità visibile, per valermi dell’espressione di Milton, e l’abuso di mal intesa libertà, facilitava le insolenze di due partiti teatrali denominati Chorizos y Polacos, simili in certo modo a i Verdi e a’ Torchini dell’antico Teatro e del Circo di Costantinopoli. Los Chorizos erano i parteggiani del teatro della Croce; i Polacchi di quello del Principe. Ma di tali nomi rintracciar non potei la vera origine, tuttocchè ne richiedessi varii eruditi amici che frequentavano i teatri. Udii da alcuno che il nome di Polacchi venne da un intermezzo o {p. 222}da una tonada di personaggi polacchi rappresentata con applauso nel teatro del Principe; ma nulla di positivo avendone ricavato, non mi curai d’insistore più oltre iu simili bagattelle. La famosa Mariquita Ladvenant, morta verso l’anno 1766 degna di nominarsi tralle più sensibili e vivaci attrici rappresentava nel teatro della Croce, e los Chorizos suoi fautori furono da lei distinti con un nastro di color di solfo nel cappello, mentre i parteggiani opposti ne presero uno di color celeste. Qualche sconcerto nato tralle due fazioni, e l’animosità che ne risultava, determinò chi governava a troncar colla prudenza questa scenica rivalità, formando delle due compagnie un sol corpo, una sola cassa, un interesse solo. Rimase in fine di cotali partiti di Chorizos e Polaccos appena una fredda serena parzialità, che ad altro non serviva se non che a sostenere un momento di conversazione ne’ caffè senza veruna conseguenza.

A provare in ogni circostanza {p. 223} l’esattezza e l’innocenza del mio racconto, basti accennare quanto contro di esso si oppose da’ capricciosi apologisti e da’ villani declamatori. Rimettendoci al citato Discorso storico-critico riguardo al Lampillas, trattenghiamoci ora sul sig. Garcia de la Huerta, il quale contro questa mia breve evidente narrazione de i teatri di Madrid diresse una tremenda batteria fluttuante di undici pagine ed otto versi del suo formidabile Prologo, cui nulla manca che un morrion.

A penas hay (egli intona per antifona)clausula alguna de estas, en que no se halle error, ligereza, equivocacion, o falta de instruccion del Signorelli. Aggiugne che anche i meno affezionati alle commedie saben (sanno) ciò che ignora il Signorelli; e questo saben si ripete ben sei volte. Io mi era accinto e preparati avea sessantasei no saben verificati in lui ed in ogni sorta di Huertisti; ma la di lui morte mi reca il vantaggio di risparmiar la spesa di farli imprimere. {p. 224}Vediamo intanto ciò che importino i sei saben di codesto picciolo pedante.

I Saben «che i partiti de’ Chorizos y Polacos sussistono nel primo stato di vigore». Ciò sarà come sussisteva Dulcinea nella testa del di lui compatriotto Don-Quixote. Se in castigliano ed in italiano questo primo saben significa che di questi partiti non si sono ancora aboliti i nomi, io vorrei che mi si rinfacciasse, dove abbia io detto il contrario. Avendo io scritto che di essi rimane oggi appena una fredda e serena parzialità, non ne ho anzi espressa implicitamente l’esistenza? È colpa mia s’egli ignorava la lingua italiana? Ma simile pacata parzialità dimostra benissimo che il primo stato di furore o vigore ch’egli diceva di sussistere, era cessato colle provvidenze del Governo.

II Saben «che il nome di Chorizos venne da’ Chorizos che mangiava certo buffone in un tramezzo, e quello di Polacos da un fatto che Huerta sa {p. 225}ma che non vuol dire». Notizie pellegrine,

Di poema degnissime e d’istoria!

Io volendo far la riferita descrizione, richiesi intorno all’inezia di tali nomi gli eruditi amici Nicolàs de Moratin, Ignazio Ayala, Miguèl Higueras, Yriarte, Cadahalso, Robira, Morales ec., nè costoro più ne sapevano di quel che io ne ho narrato. Io non poteva informarmene da Garcia de la Huerta che dimorava nel presidio di Oràn, altrimenti avrei arricchita la mia storia colla mangiata de’ chorizos, e manifestata l’origine famosa’ de’ Polacos, dicendo che consisteva in certa notizia che Huerta sapeva e che non voleva dire. E qual risalto non avrebbe ciò dato al mio racconto?

III Saben «che è una crasitud affermare che questi partiti si distinguono per la loro passione agli edifizii materiali, come erroneamente suppone il Signorelli». Mi dicano gli Huertisti, giacchè il loro archimandrita ha cessato di spacciar fanfaluche, in {p. 226}quallibro ciò suppone o dice il Signorelli?

IV Saben «che non vi sia stata mai altra insolenza di tali partiti se non quella di darsi los apasionados alternativamente alguna puñada». Se Garcia de la Huerta credeva che colla parola insolenza io avessi preteso indicare qualche conflitto sanguinoso, o una giornata campale simile a quella de’ Mori e degli Spagnuoli sotto il re Rodrigo che decise del dominio delle Spagne, o le guerre plus-quam civilia e la battaglia di Farsaglia, ebbe tutta la ragione di sostenere di non esservi state fra Chorizos y Polacos giammai insolenze, ma solo battaglie senza armi e pugni scambievoli. In quali puerilità non diede il sig. Vicente nel suo famoso prologo! Pareva a lui una bagattella decidere delle rappresentazioni de’ due teatri a colpi di pugni? Era bagattella quel che soggiugne senza avvertire alle conseguenze delle sue parole? Vediamolo passando al

V Saben «che la disposizione data di unire i prodotti de’ due teatri non {p. 227}venne nè da’ nastri nè da’ disordini derivati da i due partiti». E qual ragione adduce di ciò? Questa; che il regolamento di fare una cassa sola seguì due anni dopo. Molto bene! egli ha tutta la ragione! la medicina dovea precedere i mali. Non capi codesto pedante che senza le precedenti insolenze, senza que’ pugni scambievoli, non si sarebbe ricorso a reprimerli dopo due anni con quell’espediente? Nega in oltre che vi fossero stati sconcerti e contese (perchè contava per nulla il venire alle mani); ed il più bello è che dell’unione delle casse deliberata dal Governo mostra che fu la causa il rimediare alla prepotenza alternativa de’ due partiti che rendeva disuguale il guadagno, e cagionava intrighi e maneggi nella formazione delle Compagnie de’ commedianti. Chi crederebbe che ciò si allegasse a provare che tali partiti non produssero contese e sconcerti? E gl’intrighi e gli sconcerti ed i pugni scambievoli e la prepotenza vicendevole che alimentava la discordia {p. 228}in una capitale della monarchia ed influiva nella formazione delle compagnie, si contava per nulla dal ragionatore Vicente de la Huerta? Confessa in oltre che allora si unirono gl’interessi delle due compagnie, e si fece una cassa sola; ma sostiene però che per questo non divennero esse un corpo solo. Unico corpo secondo lui avrebbe potuto dirsi, se esse non avessero rappresentato le commedie del rispettivo repertorio in due teatri. Frattanto sopprime la notizia che il Governo intento a dissipare ogni motivo di parzialità dispose che le due compagnie alternassero le proprie recite così che i Chorizos in un anno recitavano nel teatro de los Polacos, e questi passavano a quello de los Chorizos, e nell’anno seguente mutavano luogo. Ora questa provvidenza del Governo dimostra appunto ciò che Huerta negava, cioè che ciascun partito avea una predilezione decisa pel proprio teatro; ed il Governo stimò conveniente di distruggerla di ogni maniera ed evitare le contese, gl’intrighi, le {p. 229}prepotenze ed i pugni che il Signorelli chiamava insolenze. Dissimulò ancora l’ingenuo sig. Vincenzo che le due compagnie aveano un solo monte che alimentava gl’individui di entrambe dopo aver servito dieci anni continui il pubblico di Madrid. Ora avere un monte e una cassa sola e cambiare annualmente a vicenda il luogo delle rappresentazioni, ed avere tal volta un solo capo di compagnia come qualche anno avvenne al Ribera ed a Martinez, non è l’istesso che fare un corpo solo? Fu ciò nel sig. Huerta abbondanza di mala fede o mancanza di raziocinio? Venghiamo all’ultimo e

VI Saben, cioè «che il sombrero chambergo non è in Ispagna più antico della Guardia Chamberga che ne fece uso in tempo di Carlo II». Se il sig. Vincenzo avesse detto ciò nel tempo che io ancora dimorava in Madrid, gli avrei mostrato facilmente che s’ingannava anche in questo, e che la voce Chamberga potè forse usarsi in proposito di detta Guardia; ma il {p. 230}cappello slacciato, rotondo, e non à tres picos, era stato adoperato dagli Spagnuoli ancor prima dell’epoca di Carlo II. Non era certamente à tres picos il cappello che usarono i Goti in Ispagna, in Francia ed in Italia, la qual cosa quando non potesse altronde dedursi, si vedrebbe da ritratti di tali popoli fatti nella mezzana età e nell’infima, e copiati sulle scene Europee. Che se il cappello Chambergo di detta Guardia fu forse un poco più grande, ciò non vuol dire che fosse nuova invenzione e precedente soltanto a quello allacciato a tre punte venuto a coprire le teste spagnuole con Filippo V. Ed il Signorelli quando parla di sombrero chambergo altro non dinota che un cappello slacciato che involava una parte del volto e proteggeva in certo modo la baldanza popolare. Sicchè l’essere stato il cappello della Guardia slacciato non dava una nuova origine al cappello usato in Ispagna prima di Carlo III che volle abolirlo. Ciò detto sia soltanto per dissipare quest’altra {p. 231}cavillosa accusa del sig. Huerta. Ma lasciando ciò, mi dicano gli Huertisti (se pure oggi ve n’ha alcuno oltre del sig. don Pedro fratello del sig. Vincenzo) codesta profonda erudizione tutta chamberga, cioè che cade da tutti i lati, che cosa mai fa al caso nostro? Diede forse il Signorelli al cappello gacho qualche origine determinata onde Huerta dovesse andare in collera?. Ha egli il Signorelli mentovato per altro il cappello rotondo (qualunque stata ne sia l’origine) che per indicare le varie cagioni della male intesa libertà del popolo che assisteva alle rappresentazioni teatrali? Quanti fanciulleschi sofismi formicavano in quel capo, e di quante ciance imbrattò i suoi scartafacci!

Tutta in somma la cavillosa cicalata de’ saben si riduce a negare rotondamente il fatto notorio delle popolari impolitezze ed insolenze commesse ne’ teatri di Madrid. Ma per giustificare vie più il mio racconto e per manifestare a un tempo la poca sincerità del {p. 232}sig. Huerta, rammento agl’imparziali, che tali furono le insolenze del volgo, che prima il Governo di Madrid, indi il riputato conte di Aranda già Presidente di Castiglia cercarono di rimediarvi. Indebolì il primo, come si è già detto, ogni rivalità e prepotenza de’ due partiti formando de’ commedianti un sol corpo ed una cassa. Compiè l’opera l’Aranda con isbandire da entrambi i teatri las cortinas, sostituendovi bellissime vedute di scene; con far succedere alla comparsa ridevole della chitarra sulla scena una buona orchestra; con decretare che all’alzarsi del sipario tutti dovessero togliersi il cappello; che per la platea e per la scalinata più non vagassero i venditori di aranci, di nocciuole, acqua; che più non si fumasse, non si fischiasse, non si schiamazzasse gridando fuera fuera contro gli attori mal graditi. Simili inconvenienti che e prima della Guardia Chamberga e sin dal secolo XVII avea additati Luis Velez de Guevara nell’atto I della Baltassara, e molto {p. 233}dopo di detta Guardia sussistevano, e ne fui io stesso testimone. Con tali provvidenze non rimase alla mala intesa libertà la testudine de los sombreros gachos e il presidio delle grida e fischiate, nè i recessi e l’oscurità de corridoi bastarono ad assicurare alla plebe prima sì indocile l’impunità contro le disposizioni del vigilante rispettato Presidente. E da allora la decenza che si loda e si pratica nelle nazioni polite regnò ne’ teatri di Madrid, siccome si è pur da me accennato. Huerta ignorando l’idioma in cui sono scritti i miei libri teatrali che pur voleva mordere, cadde ne’ riferiti strafalcioni sulle parole e sul sentimento che ne attaccò. Egli (non senza il solito ricco corredo di villanie) conchiuse che nella mia Storia io dovea verificare le importanti particolarità istoriche da lui accennate (vale a dire, se il nastro dispensato dalla Ladvenant era di color di solfo o di oro, se i commedianti facessero un solo corpo come aveano una cassa, se il nome di {p. 234}Chorizos venisse dalle salcicce che mangiava Francho, e se quello di Polacos veniva dalla notizia che Huerta sapeva e che non voleva dire) in vece di perdere il tempo nella parte critica que tanto resplandece nell’opera del Signorelli, perchè critica (si noti la sapienza in ogni cosa che proferisce don Vicente) nel vocabolario di lui equivale a satira, a maldicenza, ed è pruova della poca istruzione e dell’intenzione poco retta del Signorelli.

Con tal dottrina, solidità, buona fede, urbanità e logica combatteva in ogni incontro Huerta a se sempre uguale, tuonando ne’ Caffè e ne’ passeggi e ne’ papelillos che scarabbocchiava, servendogli d’eloquenza l’arroganza. Il di lui Prologo decantato (in cui declama in 106 pagine contro l’imbecille Racine, l’ignorante Voltaire e tutti i Francesi e gl’Italiani che non dican o che il teatro della sua nazione sia il primo del mondo, ed egli il Principe de’ letterati de’ suoi giorni) serve di scudo a una Collezione di commedie {p. 235}spagnuole di figuron, di capa y espada ed heroicas. È forse questa una scelta ragionata delle migliori, siccome ognuno attendeva dopo tanti anni? Non è che una semplice reimpressione di trentacinque favole buone, mediocri e cattive, le quali e nel male e nel beno si rassomigliano a molte altre dal primo e secondo collettore tralasciate. Or qual prò da simile infruttuosa reimpressione non meno all’istruzione della gioventù spagnuola che al disinganno degli esteri male istruiti? Certo è che dopo di tal raccolta manca ancora a sì culta nazione una scelta di componimenti teatrali ragionata, campo ben glorioso da coltivarsi da un letterato filosofo nazionale fornito di gusto, di buona fede, d’imparzialità, di lettura e di senno, il quale sappia sceglier bene, e vagliar meglio non tanto i difetti, quanto le bellezze de i drammi. E tutto questo sarebbe da intraprendersi all’ombra di quella parte critica non conosciuta e detestata dall’Huerta come satira maligna, ma da me con predilezione amata e {p. 236}studiata, e che vorrei che sempre nelle mie opere risplendesse, a costo di esser perpetuo segno di tutti los papelillos del signor Vicente, di tutti i possibili opuscoli del signor Don Pedro, di tutte le biblioteche de los Guarinos, e di mille scartabelli teatrali di Ramòn La Cruz muniti di prologhi,  dedicatorie, e soscrizioni.

Affrettiamoci a conchiudere questa istoria generale con quella del Teatro Italiano del secolo XVIII e XIX.

Fine del Tomo IX.

[n.p.]

[Errata] §


ERRORI CORREZIONI
Tomo VIII
Pag. 273, 16 Pradroni Pradoni
Tom. IX Pag. 13, lin. 1 Deistà Deista
43, 4 soprio sobrio
60, 6 anhe anche
72, 13 assonante à los pareados assonante o à los pareados
107, 13 collera colera
129, lin. ult. raffreddalla raffreddarla
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