Pietro Napoli Signorelli

1787

Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome I

2017
Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni di Pietro Napoli-Signorelli Napoletano, [tomo primo], In Napoli, Presso Vincenzo Orsino, 1787, XVI-332 p. PDF: Bayerische Staatsbibliothek, München.
Ont participé à cette édition électronique : Eric Thiébaud (Stylage sémantique), Anne-Laure Huet (édition TEI) et Wordpro (Numérisation et encodage TEI).

[Epigrafe] §

Et vitæ monstrata via est, & gratia Regum
Pieriis tentata modis, Ludusque repertus,
Et longorum operum finis, ne forte pudori
Sit tibi Musa.
Horat. ad Pis.
{p. I}

A CHI AMA LA POESIA RAPPRESENTATIVA. §

Chi può ricusare alle matematiche pure tutta la riconoscenza pel ritrovato del metodo delle flussioni, onde il grande Inglese e ’l di lui emolo di Lipsia renderono tanto intelligibile il gran libro dell’universo? Chi all’astronomia contrastare il bel vanto delle maravigliose scoperte di Ticone, di Keplero, del Galilei, del Cassini? Chi negherà che oggi dietro la scorta di tali insigni corifei si penetri con agevolezza incredibile ne’ più riposti arcani della natura, e corransi con sufficiente sicurezza gli immensi spazj de’ cieli? Tutto però esser non debbe calcolo1e telescopio. Con non meno invidiabil riuscita i grand’uomini che portarono i loro sguardi su tutta la natura, seppero anche discendere alle più minute osservazioni degli esseri che la compongono. Gli animali poco all’apparenza {p. II}importanti, i polipi marini, le vipere, le tarantole, le api, gl’ insetti, le farfalle, occuparono sovente ingegni sublimi, nè men degni sono de’ più distinti encomj i Rai, i Grew, i Levenoek, i Reamur, i Goedart, i Templey, i Bonnet, i Redi, i Valisnieri, i Serai, i Buffon, allorchè spaziano per l’ampiezza dell’universo, che quando minutamente indagano la storia particolare di esseri picciolissimi e talora co’ microscopii stessi appena percettibili.

Se tutti esser dovessero Archimedi, Bernulli, Euleri e La-Grange, rimarrebbe sepolta nel proprio abisso la maggior parte delle maraviglie della natura. E che diverrebbe singolarmente delle belle arti? Raffaello, Correggio, Buonarroti, per una via totalmente aliena dal calcolo infinitesimale divennero immortali. Omero, Virgilio, Tasso, Ariosto (e con passi disuguali ancor Milton e Camoens) senza valersi delle ali dell’analisi e senza maneggiare l’astrolabio d’Urania, siedono nel tempio della gloria esposti all’ ammirazione concorde di tutti i secoli e di tutti i paesi.

L’uomo stesso poi, opera la più mirabile della mano del Creatore, non vuolsi considerare soltanto come una delle parti figurate e distese nello spazio, o come pianta che vegeti o animale che senta. Dotato della ragione, dono divino della suprema sapienza, epli è dalla natura formato per la società, alla quale inevitabilmente vien tratto dal {p. III}bisogno di sussistere agiatamente. Se dunque riscuotono giustamente i pubblici applausi le leggi del moto e del corso de’ pianeti, non ne meritano minori quelle che dirigono le azioni morali degli uomini divisi in tante gran famiglie che debbonsi reciprocamente molti riguardi. Scuoprono talora le scienze esatte alcune verità ingegnose che pur non recano utilità veruna2: a somiglianza, com’ altri pur disse, delle stelle chiamate nebulose, la cui esistenza è per gli ultimi telescopii Inglesi ugualmente assicurata che inutile a tramandare al nostro pianeta luce maggiore. E se la geometria, più che per le utili verità che insegna, si rende commendabile per l’attitudine che somministra agl’ ingegni tutti per bene e coerentemente ragionare, essa e tutte le scienze esatte contribuiranno sempre colla loro giustezza a formare i gran legislatori morali e politici tanto per ciò che l’una società debbe all’altra, quanto {p. IV}per quello che debbonsi mutuamente gl’ individui di ciascuna: ma esse non saranno mai nè più pregevoli nè più necessarie a conoscersi delle leggi che immediatamente gli uomini governano. V’ha dunque un alto seggio ancora per chi emulando i Montesquieu, i Beccaria e i Filangieri, saprà attendere ad illustrare e perfezionare la preziosa importantissima scienza della legislazione.

Ed in fatti se a conservar la tranquillità di ogni stato bastar potesse il castigare o prevenire i delitti che lo sconcertano, l’armata sapienza delle leggi è quella che presta alle società l’opportuno soccorso per atterrire o distruggere i colpevoli e per minorar la somma dei delitti, a’ quali trascorrono gli uomini abbandonati a’ proprii appetiti e alle passioni eccessive. Ma sventuratamente sono i delitti posteriori a’ vizii, e questi menano gradatamente agli eccessi dopo di aver corrotto il costume. Or quale antidoto forniscono le stesse leggi contro questo lento veleno che serpeggia per le nazioni e le infetta? Esse contente di recidere ad ogni bisogno i rami che lussureggiano, non cercano di correggere le radici viziate o le cagioni che le viziano ed affrettano la morte della pianta. Ma il mal costume invecchiato nè anche, al dir di Orazio, colla forca giugne a sterminarsi; ed osserviamo che da per tutto quasi sempre i costumi col tempo sogliono diventar leggi, e ben di rado le leggi si convertono {p. V}in costumi. Fa dunque mestieri di un altro ramo della sapienza che sappia correggere i costumi; e non essendo essi altro che abiti contratti per opinioni vere o false, nostre o straniere, a purificare i costumi bisogna raddrizzare le opinioni3. La sapienza adunque precettiva che si occupa a far la guerra agli errori naturali ed a correggere le opinioni per inspirar costumi confacenti al disegno del legislatore, non merita al pari delle altre scienze la pubblica gratitudine? E non ebbero ragione gli antichi che a questa scienza che migliora l’intendimento e rettifica la stessa volontà e che Socrate trasse dal cielo, diedero per eccellenza il nome di filosofia? Dietro adunque a Socrate, a Platone, ad Aristotile, a Cicerone, a Seneca, non meritano lode e rispetto i Muratori, i Genovesi e simili insigni filosofi morali?

Pur sono moltissimi quelli che svolgono i libri de’ moralisti? Tutto il popolo abbisogna di essere educato perchè possa concordemente serbar gli statuti prescritti dal pubblico bene; corre perciò tutto il popolo alle biblioteche de’ filosofi? L’educazione domestica è forse una fiaccola chiara a sufficienza e durevole {p. VI}per tutto il camino della vita? Il mondo ideale che si contempla nelle proprie case e ne’ collegii, è lo stesso che ci si presenta quando ne usciamo? Qual discordanza trall’uno e l’altro! Ciocchè nel mondo esterno si apprende (diceva l’autore dello Spirito delle Leggi4) sconvolge tutte le idee del mondo immaginato. Pugnano i doveri della religione e delle leggi con molte opinioni adottate dagli uomini, ed in tal contrasto, quando più ci farebbe d’uopo al fianco una Minerva sotto forma di un Mentore, ci troviamo abbandonati a noi stessi, alla nostra scelta, al nostro discorso. E quando pure gl’ insegnamenti domestici potessero in ogni occorrenza soccorrerci posti nel gran mondo, quanta parte di essi si apprende nell’età prima? quanta se ne ritiene? quanta non ne cancellano gli anni e la novità di tante forme esterne? quanta ne rimane all’uomo per norma delle sue passioni allorchè crescono coll’ età e diventano più robuste e imperiose?

Abbisogniamo adunque principalmente in tal tempo di un saggio educatore che alla giornata ci ammonisca, e ci mostri passo passo fedelmente il mondo civile e quale egli è infatti e quale esser dovrebbe. E perchè egli potesse produrre un pieno effetto generale, dovrebbe esser pubblico, per insegnare a tutti {p. VII}come da una scuola comune sotto l’occhio del governo. Vorrebbe soprattutto essere spogliato di ogni aria magistrale che riesce sempre nojosa, ed allettare il popolo che cerca ristoro dopo della fatica. Or se v’ha tra’ lumi somministrati dalla ragione rischiarata (oltre delle scienze esatte e delle leggi e della stessa moral filosofia) un Educatore di simili circostanze rivestito, non merita egli al pari delle scientifiche cognizioni gli applausi degli amici dell’ uomo?

E chi non ravvisa in un buon teatro siffatto educatore pubblico, saggio, retto, geniale, all’ombra del governo? Chi al pari di esso accoppia il diletto del passatempo all’utile dell’ insegnamento? il dolor della correzione al piacere dello spettacolo? Qual genere poetico ha saputo meglio deporre il portamento dottrinale e mascherarsi di piacevolezza? Ben possiamo dire, che a somiglianza de’ numi della mitologia che cinti di umane spoglie viaggiarono fra gli uomini per arricchirli di sapienza, la poesia drammatica si trasforma negli uomini stessi che prende ad ammaestrare. Può aggiugnersi che essa al pari dello scudo di Ubaldo ci dipigne quali veramente siamo, per avvertirci delle discordanze de’ nostri ritratti dalle bellezze della sapienza. La morale è la maestra de’ costumi, e la poesia drammatica è la stessa morale posta in azione: quella si trasmette per l’udito, questa si presenta alla vista: quella {p. VIII}fa supporre un rigido precettore che gravemente ammonisce, questa affabile e popolare in aria gaja e gioconda non mostra all’uomo che l’uomo stesso: quella parla nudamente all’ intendimento, questa l’intendimento stesso illustra commovendo gentilmente il cuore: quella è un farmaco salutevole ma amaro, questa una bevanda vitale insieme e grata al palato. La ragione umana che suggerì sì vaga ed utile morale rappresentativa, quanto vide profondamente nella natura dell uomo!

Adunque senza tener conto veruno della rigidezza affettata di alcuni sedicenti coltivatori de’ severi studii, i quali sdegnano tutto ciò che non è algebra, nè delle meschine rimostranze di qualche bonzo o fakir, nè delle insolenze di alcuni immaginarj ministri di non so qual filosofia arcana, e molto meno apprezzando le ciancie insidiose smaltite fra i bicchieri delle gran tavole da certi ridevoli pedanti che ostentano per unico lor vanto l’ essersi procacciati varii diplomi accademici, noi avremo sempre in pregio così amena filosofia in azione, di cui gli additati impostori ignorano il valore e la prestanza. Noi siamo persuasi più dall’esempio di tanti e tanti veri filosofi e grand’uomini che ne ragionano con sommo vantaggio 5 che dagli {p. IX}schiamazzi delle cicale letterarie che declamano contro di essa senza aver mai saputo che cosa è l’ uomo, che società, e che coltura generale delle nazioni. Niuno screditerà mai gli spettacoli teatrali o chi gli coltiva con felicità, se non colui che non paventa la censura. Dà del bastone sullo specchio chi teme di arrossire della propria deformità. Catone pretese in Roma la censura, e i nobili corrotti formarono un partito per contrastargliela.

Se io abbondassi d’ozio e di talenti, occupar mi vorrei da buon senno in sì utile poesia, e con novelle invenzioni vivacemente colorite destar sulle moderne scene quando il riso e quando la compassione. Ma per sì bella impresa, oltre di un raro ingegno affinato dal senno e dal gusto, vi bisognerebbe quel lieto nido, quell’ esca dolce, quelle aure soavi che bramano i cigni per elevarsi al Parnaso, ed a me di ciò invece sovrabbondano solo cure mordaci che me ne respingono. Mi contenterò intanto di narrare più pienamente di quel che altra volta non feci, gli sforzi fatti sino a questi tempi ne’ paesi conosciuti {p. X}per dipignere su’ teatri ora grandi sconcerti ora picciole ridevoli avventure. E giacchè con non isperata benignità accolse il pubblico il saggio che ne diedi l’anno 1777 nella Storia critica de’ teatri in un sol volume in ottavo, ho voluto, invece di riprodurla quale allora la pubblicai (come diverse volte ne venni gentilmente invitato dalla Società tipografica di Nizza, e da qualche librajo Veneziano e Napoletano), rifonderla ed ampliarla non di parole ma di nuove cose comprese in cinque volumi oltre di un’ appendice. Non è dunque l’opera presente una semplice seconda impressi ne della mia storia teatrale, ma sì bene un nuovo libro che con nuova sospensione d’animo presento al pubblico. E chi sa s’ egli accorderà a queste seconde cure il benigno compatimento che concesse alle primiere?

Contento di aver quì accennato succintamente l’eccellenza e l’ utilità della poesia rappresentativa, stimo inutile per chi ha da leggere l’ opera il prevenirlo delle moltissime cose che la rendono del tutto nuova. Dirò solo quanto allo stile, che dopo l’autorevole approvazione dell’ elegantissimo Bettinelli6non avrei osato dipartirmi da quella energica {p. XI}facile schiettezza che invita a leggere un libro istorico. Ho cercato anche di conservare la purezza del linguaggio evitando ugualmente la studiata fiorentineria che la dispotica libertà di alterarne l’indole. Quindi vedendo che il Cotta, il Salvini, il Conti, il Maffei, l’Algarotti, il Cesarotti ed il Bettinelli, non hanno avuto ritegno di adottare le voci analizzare, interessare nel senso Francese, e personificare, benchè non si trovassero registrate nel Vocabolario della Crusca, l’ho usate anch’io senza dar retta a’ rigidi puristi, colla sicurezza di svegliare le idee che io vo’ manifestare, e colla probabilità che simili verbi transalpini non tarderanno a ricevere la cittadinanza da chi pensa di aver diritto a torla o a donarla. Egli è vero che io usai ancora nella prima edizione e ritengo in questa, forse senza esempio, il termine tecnico della danza piroettare tratto dal Francese, che mi fu notato dal medesimo chiar. Bettinelli come vocabolo inusitato fra’ Toscani; ma io il feci senza pentirmene, perchè quell’istantaneo girare su di un piede che fa il ballerino, è così detto in Francia cui tanto debbe la danza moderna, e s’intende in Italia, dove la cosa è trasportata senza che abbiavi sinora un vocabolo patrio equivalente.

Nè anche ho del tutto bandito il latinismo interloquire che tecnico può dirsi della drammatica, sembrandomi chiaro, intelligibile, {p. XII}sonoro e di bella origine. I Toscani in ogni tempo dissero eloquio, eloquenza, loquela, loquacità, loquace, interlocutori; or perchè per acconcia analogia non dirassi anche interloquire ammesso in Lombardia, in Roma ed in Napoli, se non nella Toscana? Usò pure lo stesso Sig. Bettinelli non pochi latinismi non usitati fra’ Toscani7.

La parola gergone mi fu parimente dal medesimo letterato ripresa che pure oggi a me sembra pretta Italiana. Dessa è mai altro che un aumentativo di gergo che in Toscano significa un parlare oscuro di convenzione? Parlar gergone è frase Toscana inserita nel Vocabolario della Crusca coll’ esempio di Franco Sacchetti. Che se gergone rassomiglia anche al jargon de’ Francesi, quale in ciò è la mia colpa? Sono forse poche le parole comuni a queste due belle lingue sorelle? V’ha qualche regola che prescriva che si fuggano le parole domestiche quando rassomigliano alle straniere8? Dall’altra parte il {p. XIII}chiar. Bettinelli elegante senza dubbio e gentile scrittore Italiano non ischivò diversi gallicismi9, e talvolta a qualche voce Toscana diede il significato Francese10, o ne diede uno tutto nuovo11, o si valse di voci ch’egli chiamerebbe inusitate e strane12. {p. XIV}O dunque debbesi moderatamente far uso della severità de’ puristi intorno alle parole di straniera origine, o riceverne e concederne a vicenda il perdono, giacchè

Iliacos intra muros peccatur & extra.

Passando ad altro ho cercato esaminare con nuova diligenza le favole antiche e moderne, per presentare a’ giovani studiosi con sempre più accurata scelta le drammatiche bellezze da tenersi per esemplari. E giudicando degli autori secondo il mio criterio senza spirito di partito o di sistema, con moderazione insieme e con libertà, ho procurato conservare quella imparzialità che non può dall’onesto scrittore andar disgiunta13. Io ragiono senza la folle {p. XV}pretensione di certuni di proporre il proprio avviso per norma dell’altrui pensare. Io m’ingannerò talvolta (e chi non s’inganna!), ma al mio inganno non avrà mai parte il cuore, che

  non che farmi
Cieco su’ miei stessi capricci, ardisco
Contro de’ vizii miei darmi battaglia,

per valermi del concetto di Pope e delle parole del Gozzi che tradusse il di lui Saggio di Critica.

Non ho poi voluto defraudare il pubblico delle Note apposte alla prima storia de’ teatri dall’eruditissimo Professore di Eloquenza Italiana e di Storia nella R. Accademia di Marina di Napoli Don Carlo Vespasiano. Anzi questo valoroso letterato si è compiaciuto di sostituire ad alcune sue prime note che rimanevano fuor di luogo nell’essersi la mia storia dilatata, altre non meno pregevoli, interessanti ed erudite. Esse si collocheranno alla fine di ciascun volume, così per non alienar troppo spesso il leggitore dalla catena delle idee del testo, come per evitar gli equivoci e per non far che a me talvolta si arroghi il merito di ciò che avrà detto il mio dotto amico14.

{p. XVI}

Finalmente nel rendere più copiosa la mia narrazione ho fatto resistenza alla piena che soprabbondava per non accedere i cinque volumi, temendo di stancar la gioventù cui ho consacrato questo lavoro. Chi la bramasse ancor più distesa, potrà attendere gl’ immensi volumi di storia teatrale preparati da una intera compagnia di letterati Francesi.

Ecco quanto io ho fatto in quest’opera per diletto ed istruzione della gioventù che ama la poesia rappresentativa. Avrò colpito nel segno? Decidera il pubblico illuminato e imparziale. A me basterebbe che le mie vigilie o almeno i principi additati in questi primi fogli intorno all’ utilità e all’eccellenza della drammatica ottenessero il frutto d’ insinuare la necessità che hanno le società culte di preparare agli stranieri un buon teatro, che, in vece di essere un seminario di schifezze e di basse buffonerie, presenti una dilettevole polita scuola di educazione.

{p. 1}

LIBRO PRIMO §

CAPO PRIMO.
Origine della Poesia Drammatica. §

Infuse la Provvidenza nel cuore umano un affetto indagatore che mosso dal bisogno o dal comodo o dal piacere dovea condurre l’uomo a formarsi un mondo civile, a investigar le maraviglie e il magistero del naturale, e a tentare {p. 2}d’ internarsi fin anco ne’ segreti della divinità. Questa natural pendenza ed avidità di sapere dalla cura e dallo studio d’indagare chiamossi da’ latini e poi da noi curiosità, come quella che dalla stupida inazione dell’ignoranza ci guida all’attività laboriosa della scienza. Scortato l’uomo da un affetto sì vivo e per indole osservatore non potè non avvedersi di alcuni barlumi e di certe faville mal distinte che nel giro delle cose vanno scappando fuori, e vengono a lui quasi spontaneamente dalla natura presentate. Le vide egli, se ne approfittò, e più oltre spingendo lo sguardo esaminò con maggior diligenza la natura, la quale essendo solita per lo più di corrispondere con una specie di gratitudine a chi la contempla, si compiacque di premiarne le cure con manifestargli una parte de’ suoi misteri, e con alzare, per così dire, alcun poco quel velo di cui si ammanta. Nacquero da ciò le tante moltiplici osservazioni che col tratto del tempo ridotte a metodo si denominarono Arti.

Or perchè quella spinta industriosa è comune a tutti gli uomini e la natura da per tutto risponde a colui che ben l’interroga, è chiaro a chi dritto mira, che pochissime sono le arti che da un primo popolo inventore passarono ad altri, ed all’incontro moltissime quelle che la sola natura madre e maestra universale va comunicando a’ varj abitatori {p. 3}dell a terra. In effetto la maggior parte delle arti di prima e seconda necessità, le quali nascono da bisogni comuni, per lo più si ac quista senza esempio. Trittolemo e Cerere in Europa, Manco-Capac e Mama-Oela-Huaco nel Nuovo Continente, non ostante che gli uni nulla sapessero degli altri, insegnarono a seminar le biade e a raccorle e a valersene per sostentarsi. Scorrendo per diversi climi ben si vedrà che dove la terra non si smuove co’ vomeri di ferro si lavora co’ legni adusti, dove non si cuce cogli aghi si adoperano le spine, dove non si taglia coll’ acciajo si usano le selci; ma la coltivazione per obbligar la terra ad alimentarci, e le arti di accozzare e tagliar lane e cuoja per coprirci, si sono trovate in paesi lontanissimi colla scorta del solo bisogno. E forse che moltissime arti di lusso parimente non s’incontrano in varj luoghi senza esservi state traspiantate? Da sì gran tempo si dipigne, si scolpisce, si canta, si suona, si tesse, si ricama, si edifica da Pekin al Messico, ancorchè i popoli non abbiansi partecipate le loro scoperte. È noto dalla storia che le nazioni in se stesse ristrette esistono e fioriscono e per molti secoli si guardano dal comunicare insieme, perchè quel timore che raccoglie gli uomini in società regna lungamente e si conserva presso di esse e le rende inospitali e inaccessibili, siccome furono per gran tempo gli Ebrei, gli {p. 4}Egizj, gli Sciti, i Cinesi, i Messicani, i Moscoviti.

Ma una vanità comune a tutte le nazioni culte inspira loro l’ambizione di credersi le più antiche e le maestre del rimanente del genere umano. E un’ altra vanità forse non meno generale conduce i dotti ad attribuire alla propria nazione o a quella da loro più studiata tutte le arti e invenzioni quà e là disseminate. Dal che è avvenuto che per una forte accensione di fantasia fondata per lo più in una radice etimologica, in un monumento ambiguo, in un paralogismo erudito, ciascuno ha creduto di vedere prima che altrove nelle antichità predilette Fenicie, Egizie, Greche, o Etrusche, le origini di tante cose, che col soccorso della sola natura l’umana ragione disviluppata ha mostrate a tanti popoli.

Finchè si studiò con pedantesca superstizione la sola Grecia, senza volgersi un solo guardo al rimanente della terra, la storia del teatro Greco si prese per la sorgente di tutti gli altri. Ma fu un inganno che si dissipò tosto che apparve a rischiarar le menti una sapienza più sana, più sobria, più vasta, la quale insegnò con maggior fondamento a rintracciar tale origine nella natura dell’uomo ch’è da per tutto la stessa e vi produce effetti simili. In Grecia (giusta la luce di tal sapienza) non si vuol cercare se non l’origine del teatro Greco. {p. 5}L’uomo (essa insegna) nasce in tutti i climi irritabile per organizzazione alla presenza delle forme esterne. Da queste comunque egli avvenga passano nella fantasia le immagini che la rendono instruita del mondo. L’intelletto che in essa si spazia, nel vederle, separarle, combinarle, acquista la conoscenza de’ segni distintivi delle cose. Queste più o meno remotamente hanno un rapporto proporzionato alla sensazione che ne ricevè la machina nella quale esso signoreggia e discorre; di modo che se l’urto fu piacevole, cioè se scosse con soavità la tela de’ nervi, l’intelletto apprende per bene le forme che lo cagionarono: se la scossa fu dolorifica, cioè se con maggiore asprezza esse incresparono quella tela, le contempla come male. L’uomo adunque si avvezza dalla prima età per senso più che per raziocinio a fuggir quel dolore e quel male e ad appetir quel piacere e quel bene. Or che ne segue? che egli ne acquista l’abito di rappresentarsene le immagini. Al sovvenirsi di quel bene, per lo piacere che gliene ridondò, cerca di tornarlo a gustare formandosene esattamente l’idoletto, e allora che l’imitazione sembragli corrispondente agli oggetti da prima conceputi, si compiace della rassomiglianza e si rallegra. E perchè non se ne ripeterebbe il diletto? Si rammenta pure, benchè da prima con qualche ribrezzo, del male, cioè delle forme {p. 6}che gli apportarono dolore; ma a poco a poco si avvede che tale rimembranza non gli rinnova il dispiacere, e più non ischiva di rappresentarsele, anzi si accostuma alla dipintura che se ne forma, e della verità del ritratto si compiace ancora; e quindi nasce quel diletto che si pruova nel ripetere a se stesso o ad altri con tutte le circostanze i già passati disastri. Ora se l’uomo per natura si occupa continuamente a dipingersi le cose che lo circondano, in lui stesso si rinviene il principio di ogni imitazione, che è il perno, su cui volgesi la poesia; per la qual cosa Aristotile nella Poetica chiamava l’uomo animale attissimo a imitare che impara per rassomiglianza.

Di tutte le imitazioni però la più naturale è quella de’ simili, ed assai vi contribuisce l’uniformità de’ sensi e dell’organizzazione e la vicinità degli oggetti. Cantano gli augelli, latrano i cani, perchè gli organi che servono all’espulsione della voce, facilitano loro l’imitazione di quelli della propria specie i quali prima di ogni altro si avvezzarono a vedere. L’ oggetto, di cui l’uomo riceve da’ sensi le prime e le più frequenti notizie, è l’uomo stesso. I bambini tratti dal natural bisogno di nutrirsi si assuefanno alla vista della balia o della madre prima che si avveggano di ogni altra cosa. Fanciulli ci formiamo sugli uomini, e principalmente su quelli che ci sono più {p. 7}dappresso; e quindi diventiamo Don Chisciotti, Damerini, Bacchettoni, Spiriti-forti, secondochè il secolo avrà formati quelli che ne circondano puntigliosi, effemminati, ipocriti, o filosofi orgogliosi. Veggiamo, e facciamo. Perchè ungonsi di grasso i Cafri? perchè i loro padri se ne ungevano. Perchè fumano ancor tenere le fanciulle dell’Andalusia o di Lima? perchè imitano le loro madri. Se furono molli i Sibariti, magnifici e ghiottoni i Colofonj, trafficanti i Fenici, ospitali i Lucani, e i Romani superstiziosi: e se sono bellicosi e antropofagi gli Irochesi e i Tapui, cerimoniosi i Cinesi, pirati gli Algerini, seguono tutti l’occulta forza dell’esempio domestico che più di ogni altro è loro vicino.

A chi attribuiremo la prima invenzione dell’arte drammatica? Alla maggior parte delle nazioni. Essa s’ingegna di copiar gli uomini che parlano ed operano; è adunque di tutte le invenzioni quella che più naturalmente deriva dalla natura imitatrice dell’uomo, e non è maraviglia, che essa germogli e alligni in tante regioni come produzione naturale di ogni terreno.

Per natura la trovarono i Greci, e da veruno non ne presero l’esempio, siccome è chiaro a chi passo passo la vada seguitando dall’informe suo nascere per tutti i gradi de’ suoi avanzamenti. L’ebbero varj antichissimi popoli Italiani, come gli Etruschi {p. 8}e gli Osci, prima della fondazione di Roma, e certamente non la ricavarono da’ Greci che conobbero più tardi. Come poi sarebbe dall’Attica passata la scenica in Italia, quando varj monumenti istorici ci assicurano, che ancora dopo molte età, per la solita primitiva gelosia nazionale, neppure tutti i piccioli continenti Italiani si conoscevano tra loro? Il nome (non che altra cosa de’ Greci) il nome del famoso Pitagora, che secondo Ovidio visse a’ tempi di Numa Pompilio, secondo Tito Livio a quelli di Servio Tullio, e secondo Cicerone di Lucio Tarquinio Superbo, non era da Crotone penetrato sino a Roma. I Tarantini quando alla peggio oltraggiarono l’armata Romana che navigava a forza di remi avanti la loro città, non avevano, al dir di Floro15, piena notizia de’ Romani, ignorando anzi fin anche donde venissero, e pure già questi aveano non picciolo impero in Italia. Possiamo dire che gli stessi Romani, i quali senza contrasto riceverono la Drammatica dagli altri Italiani e da’ Greci, ne trovarono nulladimeno da se stessi i primi semi benchè rozzissimi. Fuori poi dell’Europa si trovano gli spettacoli teatrali {p. 9}da un lato nell’Oriente fra’ Cinesi sin da’ più remoti tempi, e dall’ altro nell’Occidente fra’ Peruviani ignoti a’ Greci, agli Etruschi e a tutto il resto del Vecchio Continente.

L’uomo adunque attivo da per tutto e imitatore, osserva gli uomini, si avvezza a copiarli, e passa in seguito a farsene un giuoco. Ecco l’origine de’ giuochi scenici.

CAPO II.
In quali cose si rassomigli ogni teatro. §

Una catena d’idee uniformi fece spuntar la poesia rappresentativa in tanti paesi che insieme non comunicavano; ed il concorso di altre simili idee sopravvenute a moltissime società pure senza bisogno di esempio le condusse a produrre alcuni fatti comuni a tutti i teatri.

Come il genere umano diviso in gran famiglie e società civili ha la di loro suffistenza assicurata coll’unione delle forze particolari, e provveduto al comodo colla fatica, tosto si volge a procacciarsi riposo e passatempi. Manifesta allora lo spirito imitatore, e chiede un teatro. Ma dall’idea complicata di società non può a ragione {p. 10}scompagnarsi quella di una divinità e di un culto religioso16 (mal grado de’ sofismi e delle sceme induzioni de’ moderni Lucreziani), e tali idee nell’infanzia delle nazioni agiscono con tanto maggior vigore, quanto minore è la fiducia che allora ha l’uomo nella debolezza del proprio discorso. Quindi è che non sì tosto egli comincia a far pruova delle forze del suo ingegno che ne dirige le primizie a quella Prima Cagione da cui sente interiormente di dipendere. Troviamo perciò nella storia anteriore ad ogni profana produzione gli oracoli composti da’ sacerdoti gentili, le Greche poesie nomiche e ditirambiche ad Apollo e Bacco, i versi saliari del Lazio, gl’ inni Peruviani al Sole, quelli de’ Germani alle loro guerriere divinità, e tanti altri. Pieni adunque i popoli di tali idee religiose molto naturalmente le trasportano {p. 11}eziandio ne’ loro passatempi, i quali in tal guisa quasi consacrati si cangiano in una spezie di rito; ond’è che per primo fatto generale osserviamo che in tanti paesi tutte le prime rappresentazioni furono sacre.

Il nostro intendimento poi, il quale da’ sensi attende le notizie delle cose esteriori, non in un tratto, ma successivamente si arricchisce. Egli si avvezza al facile, cioè ad osservare i particolari e a dipingerseli; e prima di avere acquistata una gran copia d’immagini, e di averle in mille guise combinate, non può per una piena induzione sollevarsi agli universali, donde comincia il sillogismo. L’uomo adunque procede per gradi ne’ lavori dell’ ingegno, ed è naturalmente prima poeta che filosofo. Perciò s’incontra da per tutto la poesia coltivata prima della filosofia, e l’esercizio di verseggiare anteriore allo scrivere in prosa. Cominciando dagli Ebrei l’ opera letteraria più antica sono i due Cantici del loro legislatore Mosè. Le memorie dei defunti scolpite nelle colonne Egiziane erano in versi. Tra’ Barbari le prime leggi dettaronsi in canzoni17. Secondo Ateneo nelle feste degli Ateniesi cantavansi le leggi del nostro Caronda. I Goti feroci popoli antichi delle {p. 12}Scandinavia che abitavano nelle coste del Baltico, ebbero le famose poesie Runiche che talora erano ancor rimate, e i loro poeti detti Scaldi18, i cui canti chiamaronsi Wyses. I Celti nazione più antica e più potente de’ Goti pregiarono sommamente i loro Bardi. Tra gli antichi Scozzesi ed Irlandesi di origine Celtica fiorirono moltissimi cantori appellati parimente Bardi, nel cui ordine sembra che avessero luogo ancor le donne, per quello che apparisce dal poema di Ossian intitolato Canti di Selma:

. . . . . . . . . . . Vedi con esso
I gran figli del canto Ullin canuto,
E Rino il maestoso, e il dolce Alpino
Dall’armonica voce, e di Minona
Il soave lamento19.
{p. 13}

Secondo Tacito i Germani non aveano altra storia che i canti de’ loro Bardi. Lino, Orfeo, Museo, Esiodo, Omero ecc. fiorirono in Grecia molto tempo avanti che scrivessero in prosa Cadmo ed Ecateo Milesii e Ferecide Siro maestro di Pitagora. Gli anzinomati versi saliari Latini sono anteriori alla prosa usata la prima volta da Appio Cieco contra Pirro. All’emergere dalla seconda barbarie le moderne nazioni Europee, prima di avere chi potesse dettare uno squarcio di prosa competente, abbondarono di Trovatori Provenzali e di Rimatori Siciliani. I Lapponi, popolo assai materiale e barbaro, fanno versi. Ne fecero in Affrica e in Asia molti Negri ed Indiani senza lettere. Nel Nuovo Mondo i Caraibi, gl’ Irochesi e gli Uroni compongono canzoni20. I Messicani ne insegnavano alcune a’ fanciulli, le quali contenevano le imprese de’ loro eroi e servivano d’istorie. “Strana cosa (diceva il Signor di Voltaire) che quasi tutte le nazioni abbiano prodotto poeti prima di altri scrittori”. Anzi non v’ha cosa meno strana di questa. La prosa colla quale si ragiona ordinatamente, {p. 14}abbisogna di metodo e di principj che non si acquistano prima che l’intendimento si perfezioni. La poesia che dipigne, abbisogna d’ immagini che rappresentano le cose, la cui storia dalla prima età si va imprimendo nella fantasia. Oltre a ciò gli scrittori primitivi ambivano di scostarsi dal favellar volgare, e non essendo ancor destri abbastanza per conseguirlo nella sciolta orazione che aveano comune con tutti, adoperarono la meccanica de’ versi, i quali subito e a poco costo allontanansi dal linguaggio naturale. Quindi si scorge perchè tutte le prime composizioni sceniche (come non molto lontane da’ primi passi delle nazioni verso la cultura) si trovino scritte in versi, che è il secondo fatto generale da notarsi ne’ teatri.

Ma quando le società diventano più culte veggonsi tosto gl’ inconvenienti che produce quel mescolarsi un divertimento colle delicate materie religiose. Allora le classi de’ cittadini si vanno aumentando, si assegnano a ciascuna di esse i limiti e le cure corrispondenti; e la religione intatta e rispettata va a sedere in un trono augusto e sublime, donde si vede a’ piedi gli autorevoli capi delle società, non che i poetici scherzevoli capricci. Da tal punto i poeti teatrali tutta rivolgono la curiosità verso gli oggetti non religiosi, notano le grandi rivoluzioni e gli evenimenti mediocri, ne {p. 15}scuoprono le ingiustizie, le stravaganze, le ridicolezze, ne tentano la correzione, e i teatri fortunatamente si cangiano in tante scuole di sana morale. È questo il terzo fatto osservato in tutti i teatri.

Cresce poi nelle nazioni colla coltura la popolazione, colla popolazione la ricchezza, colla ricchezza il lusso, e col lusso crescono nuovi bisogni e nuovi mali. Il teatro che vuol considerarsi come uno de’ pubblici educatori, per rimediare a que’ mali sovente eccede, trascorre e degenera in malignità, e talvolta avviene che si corrompa coll’ esempio del resto della società. Nell’uno e nell’altro caso viene dalla vigilanza della legge corretto e richiamato al dovere. Ma questo freno che apparentemente avrebbe dovuto inceppare l’attività degl’ ingegni, in tutti i teatri che conosciamo bene, ha prodotto avventurosamente un effetto assai diverso. Imperciochè in cambio di trattenere il volo dell’immaginazione de’ poeti, la legge gli ha costretti ad uscire dall’uniformità, a spianarsi nuove strade, ed a rendere il teatro più vago, più vario, più delicato. Ed è questo il quarto fatto da notarsi, che noi troveremo avverato in tutti i teatri Europei, e dall’analogia delle idee ci sentiamo inclinati a conchiudere, che troveremmo eziandio ne’ teatri orientali e in quello del Perù, se gli storici e i viaggiatori, da’ quali soltanto noi possiamo instruirci {p. 16}sulla legislazione e la poesia di tali regioni, si fossero avvisati di riguardarli nel punto di vista che quì presentiamo.

Or da quanto si è ragionato scende per natural conseguenza che la poesia rappresentativa non nasce nelle tribù de’ selvaggi, perchè essa richiede maggior complicazione d’idee per saper volgere l’imitazione in satira ed istruzione. In fatti nelle picciole nascenti popolazioni del vecchio e del nuovo continente trovansi si bene i semi della drammatica, cioè saltazione, canto, versi, ma non rappresentazione che meriti di chiamarsi teatrale. Ne segue parimente un’ altra filosofica, e sicura conseguenza, cioè che la poesia teatrale prende l’aspetto della cultura di ciascun popolo: se esso non eccede i costumi primitivi e semplici, l’imitazione scenica ne seconderà la materia: se ha costumi barbari, feroci, romanzeschi, il teatro gl’ imiterà: e se si giunga all’ultimo raffinamento e alla doppiezza propria de’ popoli culti, nasceranno i Tartuffi de’ Molieri e i Cleoni de’ Gresset21.

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CAPO III.
Teatri Orientali. §

I precedenti fatti principali variamente modificati dalla diversità de’ costumi, de’ tempi e de’ gradi di coltura, compongono la storia de’ teatri di tutta la terra. Ma {p. 18}quali sono queste modificazioni? a qual punto di eccellenza essi pervennero? come caddero, e dove? quando risorsero? sotto qual cielo acquistarono la forma più perfetta, cioè più dilettevole e più instruttiva? Tutto ciò si deduce agevolmente dalle storie particolari di ogni teatro. Cominciamo dagli Orientali.

Prima che altrove gli spettacoli scenici inventaronsi nel vasto antichissimo imperio della China. Sembra che non interrottamente abbia in essi dominato lo spirito religioso primitivo, da che sino a questi tempi la commedia si considera da alcuni Cinesi come antico rito del patrio culto. In Bantàm, che è la capitale dell’isola di Giava, ed è divisa in due gran parti, delle quali una è abitata da’ Cinesi che le danno il nome, qualunque sacrifizio si faccia nelle pubbliche calamità o allegrezze, è costantemente accompagnato da un dramma, il quale si riguarda come rito insieme e festa pubblica. Nel Tunkin si rappresentano ne’ tempj azioni teatrali, che formano una parte del culto di que’ popoli verso i loro idoli22.

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Verun teatro pubblico e fisso non si trova nella China, ma sonovi assai frequenti le rappresentazioni, dovendo formare una parte indispensabile di ogni festa e convito scambievole de’ Mandarini23. Girano perciò continuamente i commedianti Cinesi di casa in casa, innalzano in un attimo i loro teatri portatili, e recitano ne’ cortili o nelle piazze.

Parimente di città in città scorrono nel Giappone alcune compagnie comiche composte quasi interamente di donne schiave di un Archimimo, a conto del quale rappresentano. Donne tali schiave, abjette ed infami si prostituiscono a i nobili Giapponesi i quali le sprezzano e le incensano, le arricchiscono vive, e soffrono che appena morte vengano strascinate per le vie con una fune al collo, e lasciate insepolte in preda ai cani24. Nella stessa abjezione vivono le commedianti della China, avvegnachè non manchino ne’ fasti di questa nazione esempli di regnanti, che vinti da i vezzi delle sirene teatrali giunsero all’eccesso di prenderle per consorti, come fece l’Imperadore Kingn che regnò quaranta anni {p. 20}in circa prima dell’Era Cristiana25.

Ma se la prostituzione, la dissolutezza de’ costumi, e la schiavitù rendono infami i commedianti nell’Oriente, non si lascia di ammirare la loro abilità di rappresentare, e sono in pregio gli attori eccellenti, e si encomiano soprattutti quei del Tunkin26. Vedesi ancora comunemente in alcune corti orientali un Sovrano rappresentar sulla scena. Nel reame di Firando appartenente al Giappone si è veduto più di una fiata comparire in teatro il re colla real famiglia e co’ suoi ministri politici e militari27. Ed è tale l’esattezza che si esige nell’ imitazione de’ caratteri, ovvero il timore di avvilirsi rappresentando una parte inferiore, che ciascuno sostiene nella favola il medesimo carattere che lo distingue nello stato. Il re rappresenta da re, i suoi nipori o figliuoli da principi, da capitani o consiglieri i veri consiglieri o capitani, da servi i servi. Quindi è che, siasene qualunque la cagione, essi in tal modo avvivano la finzione co’ veri colori del costume che ne risulta la tanto desiderata incantatrice illusione che tiene sospesi ed attaccati alla favola gli ascoltatori.

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I Cinesi non distruggono questa bella imitazione colle maschere sempre nemiche della vera rappresentazione. Essi le usano soltanto ne’ balli come i Francesi, e ne’ travestimenti di ladro. Gl’ interlocutori delle favole Cinesi sogliono essere otto o nove; ma i commedianti non sono più di quattro o cinque, e ciascuno di loro rappresenta due o tre parti. Ed affinchè lo spettatore non confonda i varj personaggi, che sostiene lo stesso attore, nel presentarsi in teatro dice alla bella prima il nome che porta in quella scena. Ecco come si dà a conoscere il protagonista del dramma intitolato Tchao-Chi-Cu-Ell, o sia l’ Orfano della famiglia Tchao, tradotto dal P. Prèmare e tratto da una collezione di un centinajo di drammi scritti nella dinastia di Yuen: “Io sono Tching-poei, mio padre naturale è Tungan-cu; io soglio la mattina esercitarmi nelle armi, e la sera nelle lettere; ora vengo dal campo per veder mio padre naturale”.

Non si conosce nella China, nel Tunkino e nel Giappone la divisione Europea delle favole teatrali tragiche e comiche. Si cerca solo di copiare in un dramma le azioni umane col fine d’insinuar la morale, e vi si adopera indistintamente il ridicolo e il terrore. I casi più terribili, le riflessioni più sagge, le circostanze più serie, le {p. 22}situazioni più patetiche, rare volte vengono scompagnate da bassezze e motteggi buffoneschi. Ogni favola è divisa in più atti senza numero determinato, e il primo di essi, che equivale a un prologo, chiamasi Sie-Tse, e tutti gli altri Tche.

Quanto alla musica trovasi da tempo remotissimo nella China introdotta, essendo stata inventata da Hoang-ty, e coltivata dallo stesso Fo-hi inventore del Kin dolcissimo stromento di trentasei corde o secondo altri di ventisette. In sì vasto impero essa avea luogo in tutte le occasioni più solenni. Se Pitagora co’ suoi discepoli disponeansi alla contemplazione e all’esercizio colla musica, anche Chun uno de’ più celebri Imperadori Cinesi, che secondo gli storici della nazione regnava intorno a 22771 anni prima dell’Era Cristiana, col suono del Kin si accingeva a trattare gli affari dell’impero. E perchè ogni dinastia ebbe una musica particolare, quella di Chun si chiamò Chao-yo, e si usava principalmente ne’ sacrifizj, e nella venuta di ambasciadori stranieri. Nel primo e nell’ultimo giorno dell’anno, quando l’Imperadore presedeva all’amministrazione della giustizia, si eseguiva una musica chiamata Tchoung-hochao-yo, cioè che inspira concordia verace. Nel leggerglisi qualche elogio a lui indirizzato usavasi la musica detta Tao-yng, eccitatrice. {p. 23}Festeggiavasi colla musica più solenne la celebre cerimonia o festa di primavera del lavoro della terra fatto pubblicamente dall’Imperadore. I varj stromenti della coltivazione sostenevansi allora da venti musici, ed altri cinquanta rimanevano in guardia degli stendardi di cinque colori. L’Imperadore forma coll’ aratro un solco, ed è imitato da’ Regoli e Mandarini, indi monta in sedia per ritornare al real palazzo, ed allora incomincia la gran musica, la quale poi cessa nè si ripiglia se non giunto ch’egli sia presso a un grande altare nell’interiore della reggia, e di bel nuovo assiso che sia nella sala del trono. Oltre a ciò vengono dalla musica accompagnate tutte le cerimonie fatte negli appartamenti delle Imperatrici. Eseguivasi da prima in tali luoghi la musica da 24 donne sotto la direzione de’ maestri della campana e del tamburo, ma ne furono dopo alcuni anni escluse, e sottentrarono 48 eunuchi; e benchè passati altri venti anni fussero le donne richiamate, alfine sessanta anni dopo si decise che quivi più non si ammettessero se non musici eunuchi. Si fanno ancora nella China alcuni concerti di musica e quando si presenta all’Imperadore un libro novellamente impresso, e quando i Mandarini d’armi e di lettere si uniscono per gli esami, e quando il Capo de’ discendenti di Confugio ed il Generale de’ Bonzi vengono alla corte, {p. 24}e quando si costruisce qualche nuovo edifizio28.

Ora se tali cerimonie, solennità e affari venivano quivi dalla musica accompagnati, non doveva essa entrare negli spettacoli teatrali? Non solo ha fatto parte del dramma Cinese, ma essendo negli ultimi tempi caduta in disistima29 (siasi ciò avvenuto per l’ introduzione della musica Europea che pretese fare nel paese l’Imperadore Kam-hi per mezzo del Portoghese Pereira e del P. Pedrini, siasi per qualunque altra cagione) in appresso appena nella sola scena fu tollerata da’ nobili. Ma in qual modo vi ha luogo? Parte del dramma si recita semplicemente, e parte si canta; e quella parte se ne canta, in cui le passioni si trovano nel maggior calore e trasporto. Si annunzia ad un personaggio la notizia di essere stato condannato a morte? medita egli qualche grande impresa? si sdegna? minaccia? si dispera? Tutte queste passioni vivaci si {p. 25}esprimono cantando (Nota II.): il rimanente si recita senza musica.

Il dramma Cinese non si spazia in episodj estrinseci all’azione, perchè tutti prende a rappresentare i fatti rilevanti di una lunga storia. Passano poche scene, in cui non si uccida alcuno. In tre ore di rappresentazione si espongono gli evenimenti di trent’anni. Comparisce fanciulla, amoreggia e si marita una donna, la quale ha da partorire un bambino, che dopo quattro lustri si enuncia come il protagonista della favola. Mancano adunque i Cinesi d’arte e di gusto nel dramma che pur seppero inventare sì di buon’ ora; e con tanto agio non mai appresero a scerre dalla serie degli eventi un’ azione verisimile e grande atta a produrre l’illusione che sola può trasportare gli ascoltatori in un mondo apparente per insegnar loro a ben condursi nel vero30.

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Oltre alle rappresentazioni riferite hanno gli Orientali coltivati da gran tempo i balli pantomimici. Alcuni de’ commedianti Cinesi si sono addestrati a rappresentar senza parole seguendo le leggi della cadenza musica. In tale esercizio segnalansi singolarmente le ballerine di Surate nella penisola Guzurate posta fra l’Indo e il Malabar, chiamate da’ Portoghesi bayladeras. Vengono esse allevate in alcuni collegj e destinate a danzare ne’ Pagodi ed a servire ai piaceri de’ Brami. Ma varie compagnie di codeste cortigiane consacrate girano per divertire i ricchi Mori e Gentili sotto la direzione di alcune vecchie. Un solo musico di età avanzata e per lo più il più brutto di tutti gli uomini le segue e le accompagna con uno stromento di rame chiamato nell’India Tam. Mentre esse ballano, il brutto musico ripete questa parola con una {p. 27}vivacità continua, rinforzando per gradi la voce e stringendo il tempo del suono in maniera che egli palesa il proprio entusiasmo con visacci e strane convulsioni, e le ballerine muovonsi con una maravigliosa agilità, la quale accoppiata al desiderio di piacere e agli odori de’ quali tutte sono esse sparse e profumate, le fa grondare di sudore e rimanere dopo il ballo pressochè fuori di se. I balletti di tali donne voluttuose abbellite dal vago loro abbigliamento (descritto leggiadramente dal chiar. Ab. Raynal31) e dall’arte di piacere che posseggono in grado eminente, sono quasi tutti pantomimi amorosi, de’ quali il piano, il disegno, le attitudini, il tempo, il suono, le cadenze, respirano unicamente l’amore e n’esprimono i piaceri e i trasporti.

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CAPO IV.
Teatro Americano. §

Dalla scarsa popolazione dell’immenso continente Americano, dalla quasi generale uniformità de’ costumi e delle fattezze e dal gran numero di picciole tribù tuttavia selvagge, che poco più di due secoli e mezzo indietro vi trovarono gli Europei, dopo che seguendo le tracce immortali degli argonauti Italiani Christoforo Colombo, Amerigo Vespucci, Sebastiano Cabotto e Giovanni Verazzani l’ebbero riconosciute32, si deduce forse non senza fondamento {p. 29}che quelle terre non da gran tempo sono state popolate. Non crediamo adunque {p. 30}che i pochi monumenti teatrali ritrovativi abbiano preceduto la drammatica del Vecchio {p. 31}Mondo; ma per non interrompere poi la serie de’ teatri Europei, parleremo quì {p. 32}degli spettacoli scenici dell’America.

Prima che ci fossero note le contrade Americane, due sole nazioni erano ivi uscite dallo stato selvaggio, la Messicana e la Peruviana. Fioriva la prima in molte arti di lusso non che di necessità, ma non ebbe {p. 33}della drammatica se non que’ semi che sogliono produrla da per tutto, cioè travestimenti, ballo, musica, e versi accompagnati da gesti. Tutto ciò contenevano le danze Messicane chiamate mitotes, nelle quali i nobili e i plebei si trasformavano, e divisi in cori saltavano, cantavano, gestivano e beveano33. La sola Repubblica di Tlascala nemica dell’Impero Messicano e poi stromento della distruzione di esso e della propria schiavitù, amando la poesia e la danza, seppe usare l’una e l’altra nelle rappresentazioni teatrali; ma non se ne sa più oltre. Le tribù selvagge non soggette a quest’impero coltivavano eziandio con predilezione il ballo valendosene in diverse congiunture pubbliche e private. Gli ambasciadori di due diverse tribù solevano incontrarsi ballando. Col ballo s’intimavano le guerre, si placavano gli dei, si celebrava la nascita di un fanciullo e la morte di un amico. Il ballo usavasi per medicina in certi mali, e si vuole che in questa sola occasione fosse stato osceno e indecente. Tutti i balli Americani esprimevano con somma energia qualche azione, e possono giustamente chiamarsi pantomimi. Dilettavansi {p. 34}sommamente que’ popoli del ballo guerriero, che solea rappresentare una spedizione militare. La partenza dei guerrieri dai loro villaggi (così ne parla lo storico Robertson34), la marcia nel paese nemico, le cautele colle quali si accampano, l’accortezza con cui pongono alcuni del loro partito in aguato, la maniera di sorprendere l’ avversario, lo strepito e la fierezza della battaglia, lo strappamento del pericranio a quegli che sono uccisi, la presa dei prigionieri, il ritorno de i conquistatori in trionfo, ed il tormento delle vittime sventurate, sono tutte cose che vi si rappresentano una dopo l’altra. Gli operatori eseguiscono con tale entusiasmo le loro diverse parti, sono così bizzarri i loro gesti, il viso, la voce, e così bene accomodati alle loro varie espressioni, che gli Europei durano fatica a credere che sia una scena immaginaria, e non la vedono senza ribrezzo ed orrore.

Ma la nazione Peruviana senza dubbio la più colta di tutta l’America, oltre all’avere inventata e migliorata l’agricoltura con tante altre arti, seppe qualche cosa di geografia, meccanica e astronomia, ed ebbe polizia e legislazione eccellente per la natura {p. 35}e per l’ indole di que’ popoli, nella quale trionfa una sana morale. Ebbe pure gli Haravec (vocabolo corrispondente a inventore, trovatore, poeta) ne’ cui versi scorgonsi lampi di poesia; e l’Inca Garcilasso ci ha conservato un componimento in cui veggonsi le meteore bellamente personificate e arricchite d’immagini giuste e vivaci35. Qual maraviglia adunque che avesse spettacoli teatrali? L’Inca, ce ne dà alcune notizie senza entrare a indagarne l’origine, la quale con alcuna probabilità può rinvenirsi in una festa solenne che soleva celebrarsi in Cusco.

Un annuo sacrifizio e convito pubblico, in cui beveasi sino all’ ubbriachezza, e mescolavasi al ballo il canto e i motteggi, condusse i Greci a formarsi i loro spettacoli teatrali. Un annuo sacrifizio e convito pubblico colle medesime particolarità, e accompagnato da strani travestimenti e mascherate ridicolose, troviamo in Cusco. Or non ne poteva nascere come nella Grecia lo spettacolo scenico che pure in seguito vi si vede coltivato? Le circostanze che l’accompagnano, rendono probabile la congettura.

La più solenne festa celebrata da’ Peruviani in onor del Sole chiamavasi Raymi e durava nove giorni. V’intervenivano il Re, {p. 36}o sia il maggior Inca, gl’ Inchi tutti, i Capitani e i Curaci pomposamente armati e inghirlandati. Ognuno dava a conoscere nelle divise la propria origine o prosapia; chi si attaccava al dorso due grandi ale, chi si copriva di un cuojo di drago, chi di una pelle di leone36. Tutti portavano maschere spaventevoli, suonavano flauti e tamburi scordati, e facevano gesti e visacci da forsennati37. Seguiva il sacrifizio, si mangiava la carne delle vittime, beveasi con certo ordine e con brindisi scambievoli, e si danzava cantando, e facendosi da ognuno uso delle proprie insegne, maschere ed invenzioni. E’ probabile che un rito così strano precedesse gli spettacoli teatrali, ne’ quali veggonsi più ordinate idee. Forse il piacere prodotto in questa festa dal ballo, dal canto e dalle maschere, suggerì il disegno di formare di tali cose un tutto e una {p. 37}imitazione più ragionata. E chi sa che le armi portate da’ Curaci in un luogo di pietà, di pace e di allegrezza, sia per pompa sia per cautela sia per insegnare a’ popoli coll’ esempio di vegliar sempre a difesa della religione e della patria, non destassero l’idea di una rappresentazione eroica e marziale? Chi sa che quelle maschere ridicole, le quali dovettero esser simboli satirici delle stravaganze delle passioni smoderate, non si convertissero col tempo in dipinture comiche delle umane ridicolezze? Ci voleva un capitale di filosofia per dar questo passo, e appunto troviamo, che le favole drammatiche del Perù furono inventate e coltivate da’ filosofi colà chiamati Amauti. Essi composero due generi di drammi, eroico per rappresentar pubbliche imprese, vittorie, trionfi, e comico per imitar fatti domestici e pastorali. Tali rappresentazioni eseguivansi nelle sacre festività più solenni (una delle quali era la nominata Raymi), assistendovi il maggior Inca con tutta la Corte. Il luogo, il tempo e gli spettatori esigevano decenza e gravità, e gli Amauti vi conservarono questo lodevole carattere senza contaminare con oscenità il divertimento.

Cresce finalmente la probabilità delle congetture sull’origine degli spettacoli del Perù col riflettere che si eseguivano da’ medesimi Curaci, Inchi e Capitani che si mascheravano nella festa Raymi. Questi nobili {p. 38}attori, prima e dopo la rappresentazione, occupavano tra’ loro uguali i luoghi corrispondenti alla propria dignità e agl’ impieghi; e quei che si distinguevano per la delicatezza e proprietà di rappresentare ne riportavano ricchi doni e favori particolari38. Non erano adunque gli attori del Perù schiavi abjetti come i Cinesi, bensì persone nobili e decorate come in Grecia. Ma avvegnachè in questo ed in altro si rassomigliassero Greci e Peruviani, non diremo però che questi sieno da quelli discesi, ragionando alla maniera di Laffiteau. Simili idee (ripetiamolo) combinandovisi circostanze simili si risvegliano naturalmente senza bisogno d’imitazione; come senza questa vi si accozzano le particelle elementari necessarie alla produzione, e vi spuntano e vegetano le piante.

Dopo l’invasione fatta dagli Europei in quelle vaste regioni, che abbracciano forse poco meno della terza parte del globo terrestre, quando essi considerandole come poste nello stato di natura supposero di aver diritto ad occuparle e saccheggiarle senza tener conto della ragione degl’ indigeni che ne aveano antecedentemente acquistata la proprietà: dopo, dico, l’epoca della desolazione {p. 39}di sì gran parte della terra, le razze Affricane, Americane ed Europee, più o meno nere, bianche ed olivastre, confuse, mescolate, riprodotte con tante alterazioni, vi formano una popolazione assai più scarsa dell’antica distrutta alla giornata da tante cagioni fisiche e morali, la quale partecipa delle antiche origini nel tempo stesso che se ne allontana. Così le arti, i costumi, le maniere, le imitazioni, e sino il bestiame e i vegetabili sonoci piuttosto forestieri che naturali, nè più reca stupore il vedervi abbarbicato quanto si trova nell’antico continente. Nella Nuova Spagna non solo trovansi gli spettacoli dell’antica, ma la famosa città del Messico può pregiarsi di aver prodotto nel passato secolo uno de’ migliori commediografi Spagnuoli. Giovanni Ruiz de Alarcòn di origine Spagnuolo ma nato nel Messico, per purezza di lingua, per grazia comica, per abbondanza e per invenzione, merita di preferirsi a moltissimi suoi contemporanei.

La provincia di Chiapa contiene un popolo che forse conserva meno alterata l’indole e la natura Americana. D’ingegno, di forza, di statura e d’idioma più che altrove dolce ed elegante, vince tutti gli altri Messicani. Chiapa de los Indios è la città principale di tal contrada popolata da moltissime famiglie nobili Americane, dove si gode una giusta libertà e proprietà, che {p. 40}sono le cagioni onde ne’ popoli fioriscono l’industria e la coltura. In effetto non vi si trascurano le arti di necessità, di comodo e di lusso. Fabbricansi colà per eccellenza quadri e stoffe di penne antichi lavori Messicani non mai più da veruno imitati. Vi si eseguiscono poi con destrezza tutti gli esercizj ginnici Spagnuoli, come corse di tori e giuochi di canne: si fanno combattimenti navali sul gran fiume che bagna la citta: si formano castelli di legno coperti di tela dipinta, e se ne imprende l’assedio e la difesa: vi si esercita la pittura, la danza, la musica: e vi si trovano teatri.

Quanto a’ Peruviani, i quali gemono avviliti da più dura schiavitù, hanno de’ loro antichi riti e costumi conservata una viva e cara rimembranza, che solo gli attuali loro padroni potranno a poco a poco cancellare o almeno indebolire, rendendo agl’ infelici il giogo meno pesante e più conforme all’ umanità. Essi in certi giorni solenni prendono la loro antica foggia di vestirsi, e menano per le strade le immagini del Sole e della Luna. Alcuni di loro sogliono farsi lecito di rappresentare certe feste teatrali, e spezialmente una tragedia della morte dell’ultimo Inca Atabualpa accusato dall’Americano Filippetto divenuto Cristiano, e condannato con formalità giuridiche da Pizarro. Questa rappresentazione commuove siffattamente l’uditorio, che prorompe {p. 41}in un dirotto pianto, e talvolta entra in tal furore che non è maraviglia che ne sia divenuto vittima qualche Spagnuolo.

Ma in Lima celebre capitale del Perù edificata nel 1535 da Francesco Pizarro oggi si vede un teatro lodato per la grandezza e per la magnificenza delle decorazioni, nel quale si rappresentano le commedie Castigliane. Gli attori però sono tutti Americani, e tra essi intorno a diciotto anni fa (per quel che mi narrò un negoziante di Cadice che vi avea passata una parte della vita) spiccava una bella e giovane attrice figliuola di una Peruviana e di un Italiano chiamata Mariquita del Carmen, e conosciuta pel soprannome di Perra-chola.

CAPO V.
Tracce di rappresentazioni sceniche in Ulietea. §

Havvi nel mare del Sud alle vicinanze dell’isola degli Otahiti tralle altre un’ isoletta chiamata Ulietea, nella quale si è trovato qualche vestigio di rappresentazione drammatica. Gli abitanti di essa (si riferisce {p. 42}da Cook39) tra varj balli eseguirono una spezie di farsa drammatica mescolata di declamazione e di danza; benchè noi eravamo pochissimo versati nel loro idioma, e perciò incapaci di comprenderne l’argomento. Il giorno seguente alcuno del nostro equipaggio credette di veder rappresentar da essi una specie di dramma diviso in quattro parti. Non possiamo su tal racconto assicurarci di essersi da que’ popoli conosciuta la poesia rappresentativa. La scarsa cognizione della lingua toglieva all’equipaggio di Cook l’opportunità di distinguere per mezzo delle parole ciò che poteva essere un canto accompagnato dal ballo da ciò che avrebbe potuto chiamarsi spezie di dramma ancorchè informe.

Le danze e le farse che videro nell’isola medesima eseguire M. Banks e il Dottor Solander, sono parimente di equivoco carattere. In una di esse vedevansi due classi di attori distinti dal colore degli abiti; l’una di color bruno figurava un padrone co’ suoi servi, l’altra di bianco una comitiva di ladroni. Lasciava il padrone sotto la custodia de’ servi un paniere pieno di provvisioni: i ladri carolando con posizioni diverse aggiravansi per involarlo: i servi si studiavano {p. 43}di custodirlo e salvarlo da’ loro tentativi. Si addormentavano poi i bruni intorno al paniere, ed i bianchi approfittandosi del tempo caminando sulla punta de’ piedi sollevavano leggermente gli addormentati arghi, e toglievano loro il paniere. Svegliavansi i servi, avvedevansi del furto, si disperavano e terminava l’azione.

Scorgesi certamente in questo giuoco una semplicità regolare di un fatto drammatico; ma esso non passa più innanzi delle danze Messicane e de’ balli delle tribù selvagge. Esso non è che un ballo pantomimico accompagnato di quando in quando dal canto. Chi non vi ravvisa una copia esatta di ciò che per introduzione ai loro pas-de-deux i ballerini Europei hanno a sazietà rappresentato sulle nostre scene? Si vede adunque in queste danze o farse di Ulietea quello spirito imitatore universale che guida l’ uomo a copiare le azioni de’ suoi simili per farsene un trastullo; si notano i primi passi verso una spezie d’imitazione drammatica; si osservano congiunte alla danza le parole ed il canto; ma non si va più oltre. Poesia rappresentativa, favola di giusta grandezze, sviluppo di grandi o mediocri azioni e passioni umane per correzione e diletto, piano ragionato di competente durata, e quanto altro caratterizza l’azione scenica, e la distingue dal ballo, non si trova se non che nelle nazioni già molto innoltrate nella coltura.

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CAPO VI.
Teatro Greco. §

I.
Prima epoca sino a Frinico I. §

Quante novità forse un dì apporteranno i più comuni oggetti che ora ci veggiamo intorno senza prenderne alcuna cura! Da fonti lontani e quasi impercettibili scaturiscono spesso i più notabili evenimenti. Quel chimico che vide la prima accidentale esplosione del nitro, imprigionò Motezuma, strangolò Guatemazin, giustiziò Atabualpa, tradì e condannò l’innocente Cazica Anacoana, spopolò tutta l’America. Ma bisogna che un interesse personale determini il primo osservatore a fissarvi lo sguardo: che la sua osservazione per un interesse più generale si comunichi a’ circostanti: e che vada così di mano in mano continuando a prender forma, finchè pervenga a costituire un’ epoca notabile. Quanti capri avranno rose e guaste tante volte le viti delle montagne dell’ Attica senza produrre veruna novità! Ma quell’abitatore d’Icaria, che ne sorprese uno nel suo podere, fu per sicurezza {p. 45}della sua vigna consigliato dal proprio interesse a sacrificarlo a Bacco, e quei paesani che ciò videro, ricordandosi delle proprie vigne per somigliante interesse applaudirono al colpo, si rallegrarono, e saltarono cantando in onor del nume. Quindi nacque una festa, un sacrifizio e un convito rinnovato ogni anno in tempo di vendemmia, nel quale la licenza del tripudio e l’ubbriachezza svegliarono quella satirica derisione scambievole che piacque tanto e che perpetuò la festa. Quel motteggiarsi a vicenda e quegl’ inni sacri cantati ballando formarono a poco a poco un tutto piacevole, che da τρυγη, vendemmia, si chiamò trigodia40, e fu come il germe che in se conteneva la gran pianta della poesia drammatica, la quale vedremo di quì a poco ingombrar tant’aria e spandere per tutto verdi e robusti i suoi rami.

Continuando in tal guisa lungo tempo questi cori pastorali ed inni Dionisiaci doveano naturalmente partorir sazietà e svegliare in alcuno un desiderio di rianimargli con qualche novità. Così in fatti avvenne. Vi è chi attribuisce ad Epigene di Sicione il pensamento d’interporvi altri racconti chiamati Episodj, per rendere la festa {p. 46}più varia o per dar tempo a’ saltatori e cantori di prender fiato41. I primi cori contenevano le sole lodi di Bacco, e gli episodj parlavano di tutt’altro. Il popolo se ne avvide, e mormorò della novità42; ma continuò ad ascoltarli, e la novità parve felice e dilettevole. Questa istoria ci si presenta ad ogni passo nelle opere de’ più veridici scrittori dell’antichità, e punto non ripugna all’ordinata serie delle umane idee, le quali vanno destandosi a proporzione che si maneggia l’arte, e la società avanza nella coltura. Chi adunque arzigogolando sdegna di riconoscere da tali principj la tragedia e la commedia Greca, non vuol far altro che dare un’ aria di novità e di apparente importanza a’ proprj scritti, e formar la storia della propria fantasia più che dell’arte.

Solevano i riferiti cori ed inni nominarsi indistintamente tragedia e commedia, e chi ne scrisse ebbe il nome talvolta di tragico talvolta di comico poeta. Apollofane da Suida vien detto antico poeta comico, e nell’ Antologia tragico. Cefisodoro, Forono, Efippo {p. 47}sono chiamati ora tragici ed ora comici. Suida mentova una Medea ed un Tereo argomenti tragici come favole di un tal Cantaro, cui dà il nome di poeta comico. Il nomato Epigene vien detto comico da Suida, ma da Ateneo si citano l’Eroine e la Baccante di questo drammatico come favole tragiche.

Corsero intorno a mille anni dal tempo, in cui resse Minos lo scettro di Creta, alla venuta di Tespi, ed in tal periodo moltissimi Poeti coltivarono in Atene la tragedia, spiegando tutto il patrio veleno contro di quel re che dipinsero come ingiusto e crudele, pel tributo da lui imposto agli Ateniesi delle donzelle e de’ giovani da esporsi al Minotauro in vendetta dell’ucciso Androgeo di lui figliuolo43.

Ma il genere tragico sino all’olimpiade LX o LXI non si vide ben distinto dal comico. Tespi contemporaneo di Solone provveduto di competente gusto e discernimento gli separò; e perchè si attenne sempre al solo tragico, gli fu attribuita l’invenzione della tragedia44, avvegnacchè altri l’avessero preceduto {p. 48}(Nota III). I Giovani sacri, il Forbante, il Penteo sono nomi di alcune favole Tespiane. Appartiene a Tespi questo frammento rapportato e tradotto da Grozio45:

Vides ut alios Jupiter superet Deos;
Mendacium illi, & risus, & fastus procul:
Unus deorum est dulce quem non attigit.

Gli Episodj così purificati da ogni mescolanza comica, nel passare nell’ olimpiade LXVII nelle mani di Frinico discepolo di Tespi, di parte accessoria del coro divennero corpo principale del dramma, trattarono favole ed affetti, e formarono uno spettacolo si dilettevole, che meritò di essere introdotto in Atene. Cherilo l’Ateniese che fiorì nell’ olimpiade LXIV, avea trovata la maschera ed abolita la feccia, di cui prima tingevansi gli attori46, e Frinico {p. 49}accomodò quest’invenzione anche alle parti di donne.

Se abbiasi riguardo allo stato della drammatica di quel tempo, Frinico merita l’ammirazione de’ posteri. In una tragedia pose alcuni versi così pieni di robustezza, di energia e di arte militare, e gli rappresentò con tanto brio che scosse gli spettatori di un modo che nel medesimo teatro fu creato capitano; giudicando assennatamente gli Ateniesi che chi sapeva tanto solidamente favellare delle operazioni belliche, era ben degno di comandare alle squadre per vantaggio della patria47. Frinico inventò ancora il tetrametro. Le favole che di lui si citano, sono: Pleuronia, gli Egizi, Atteone, Alcestide, Anteo, i Sintoci e le Danaidi. Fu egli figliuolo di Poliframmone o di Minia o di Corocle, secondo Suida, e fu padre di un altro poeta tragico chiamato {p. 50}anche Poliframmone. L’Espugnazione di Mileto, di cui parla Eliano stesso48, appartiene a un altro Frinico figliuolo di Melanta, il quale per tal tragedia fu punito dagli Ateniesi con una multa di mille dramme. Questo Frinico di Melanta fu il poeta che rappresentando la mentovata tragedia preso da non so qual timore ovvero orrore naturale non potè proseguire, ed il popolo lo fe ritirare dalla scena49.

II.
Teatro di Eschilo. §

Epigene, Tespi e Frinico I furono tre uomini di talento, ognuno de’ quali sorpassò il predecessore e diede nuovo lustro alla tragedia. Con qualche passo di più forse l’ultimo di essi l’avrebbe condotta a quel grado di perfezione, in cui le arti, come {p. 51}ben dice Aristotile, si posano ed hanno la loro natura. Eschilo il settatore di Pitagora sopravviene in un punto sì favorevole, corre lo spazio che rimaneva intentato, coglie il frutto delle altrui e delle proprie fatiche, e giugne ad esser il primo meritamente onorato da Aristotile e da Quintiliano col titolo d’ingegno creatore e di padre della tragedia. Come poeta eccellente seppe con arte e felicità maggiore degli antecessori trasportar le favole Omeriche al genere tragico e maneggiarle in istile assai più grave e più nobile. Come direttore intelligente, valendosi dell’opera dell’architetto Agatarco, fece innalzare in Atene un teatro magnifico e assai più acconcio a rappresentarvi con decenza e sicurezza; là dove Pratina e altri tragici del suo tempo montavano su tavolati non solo sforniti di quanto può contribuire all’illusione, ma così mal costruiti che sovente cedevano al peso e cadevano con pericolo degli attori e degli spettatori. Eschilo abbigliò ancora le persone tragiche con vestimenti gravi e maestosi, fece ad esse calzare il coturno, e migliorò l’invenzione della maschera di Cherilo e di Frinico. Volle innoltre egli stesso e comporre la musica de’ suoi drammi, e inventar l’azione de’ balli, e prescrivere i gesti e i movimenti del coro che danzava e cantava negl’ intervalli degli atti, togliendone la direzione agli antichi maestri ballerini. {p. 52}Secondò parimente molto meglio il pensiero de’ suoi predecessori di scemare il numero degl’ individui del coro musico e ballerino per accrescerne quello degli attori degli episodj; e con questa seconda classe di rappresentatori rendè l’azione vie più viva e variata. Seppe in somma per molti riguardi farsi ammirare ed in se unire i meriti più rari di poeta, di musico, di attore e di direttore. Settanta, o come altri vuole, novanta, o cento tragedie egli compose, delle quali sette appena ce ne rimangono, e riportò la corona teatrale intorno a trenta volte. Guerriero, capitano, vittorioso nella pugna di Maratona per Atene sì gloriosa, mostra nello stile la grandezza, il brio militare e la fierezza de’ proprj sentimenti (Nota IV). Il suo carattere è robusto, eroico, grande, benchè talvolta turgido, impetuoso, gigantesco e oscuro. Le tragedie che se ne sono conservate, s’intitolano Prometeo al Caucaso, le Supplici, i Sette Capi all’assedio di Tebe, Agamennone, le Coefore, l’Eumenidi, e i Persi. Di queste non meno che delle altre favole greche a noi giunte, in grazia della gioventù curiosa e senza arrogarci l’autorità e l’infallibilità degli oracoli, andremo brevemente esponendo le bellezze principali senza dissimularne qualche difetto.

Traluce nel Prometeo l’elevazione dell’ingegno di Eschilo, e l’energia de’ suoi concetti {p. 53}mista si vede a certa antica ruvidezza che gli concilia rispetto. Intervengono in questa favola numi, ninfe, eroi e personaggi allegorici, come la Forza e la Violenza. Vulcano per comando di Giove annoda Prometeo al Caucaso con catene indissolubili, per avere involato il fuoco celeste, ed animati e ammaestrati gli uomini, indi l’abbandona al suo dolore. Prorompe in compassionevoli querele l’infelice benefattore degli uomini punito. Io ardisco per saggio recare in Italiano il principio di esse per coloro che non amano le latine letterali traduzioni e soffrono di vederne qualche squarcio comunque da me espresso:

O spazj immensi ove ogni cosa nuota,
O voi venti leggieri o fonti o fiumi,
E voi del mare interminabil onde,
O madre o terra, o sol che a tutti splendi50,
A voi ragiono, s’altri, oimè, non m’ode.
Vedete i mali miei: me nume un nume,
Nuovo signore de’ superni dei,
E preme e oltraggia e inesorabil danna
A lacci eterni e prigionia spietata.
Soffro il presente, e la memoria amara
Del par mi attrista del futuro danno.
Deh quale è a tanto duol termin prescritto?
{p. 54}
Oimè che parlo? oimè! la serie acerba
Di mie sventure antiveder m’è dato
Per tormento maggior! Lunga essa fia,
Eterna fia! e qual prevedo, ahi lasso!
Tutto avverrà; chè non si vince il fato,
E alla necessità nulla contrasta.

Un coro di Ninfe dell’Oceano viene a consolarlo, colle quali Prometeo parlando disacerba il suo dolore, e narra l’innocente ed utile suo delitto. Sopraggiugne il Padre Oceano a prestargli un amichevole uffizio, ed in gravi ragionamenti si trattengono sul nuovo regnator de’ numi, ed in tal proposito Oceano gli porge salutari consigli:

Deh te stesso conosci e al tempo servi;
Nuovi costumi un nuovo regno esige.

Prende Prometeo in buon grado le parole dell’amico, e dopo aver seco favellato di altri rigori da Giove usati con Atlante e con Tifeo, Prometeo l’esorta a partire, perchè non abbia anch’egli ad incorrere nell’indignazione del nuovo regnante. Favella poi col coro dei diversi ritrovati e di tante arti insegnate agli uomini, i quali prima poco differenti da’ tronchi viveano come le belve rintanati negli antri. L’ episodio degli errori della misera Io trasformata in giovenca accresce il terrore di questa favola; e benchè vi sia introdotta senza manifesta {p. 55}necessità o immediato vantaggio dell’ azione principale, pure dà luogo a sviluppare sempre più il carattere del benefico infelice protagonista. Ella in tal guisa entra nella scena, secondochè io traduco:

Quai terre? Ove son io? Chi a queste avvinto
Orride rupi ed al rigor del verno
Tal giace esposto o sventurato o reo?
Chi sei? qual tuo delitto o nume avverso
Così ti opprime? In quai contrade errante
Senza speme e consiglio il piè mi trasse? ....
Ma l’usato furor di nuovo annebbia
La mia ragione, e mi trasporta, e punge! ...
Sento già risuonar le note avene; 51
Sorger di nuovo, oimè! veggio dall’orco
Argo severo, e con orrenda face
In truce aspetto mi minaccia e fuga
Per erme arene e per solinghe vie!
Dove, misera me, superna forza
Dove mi spinge mai! Giove, e qual colpa
Sì in me punisci, e di terrore ignoto
L’alma riempi, ed a vagar mi sforzi?
Ah per pietà m’incenerisci, o il suolo
S’apra e m’ingoi, o di marini mostri
Esca infelice in mezzo al mar mi scaglia.
Abbastanza vagai, soffersi e vissi52.
{p. 56}

Dopo così bel passo energico, patetico, vigoroso, Io ascolta le sue future avventure da Prometeo, indi presa dal solito estro precipitosamente sen fugge. Mentre Prometeo affretta co i voti la venuta di un successore di Giove, ch’egli crede di prevedere, sopravviene Mercurio a minacciarlo da parte dello stesso Giove di più atroci pene, se non palesa questo nuovo successore. Traspare in Prometeo una grandezza d’animo che nelle disgrazie lo rende degno di rispetto. Non si piega ai comandi, non si avvilisce nelle minacce, non ispande gemiti nè preghiere per esser liberato, non si approfitta dell’occasione per impetrar grazia e perdono. Gli antichi Greci insegnano ai moderni ingegni l’arte d’interessare e piacere senza ampollose accumulate particolarirà e romanzesche azioni. E’ ciò picciol merito? Sì, per gli piccioli e manierati talenti, come furono i La-Mothe, i Perrault e i Cartaud de la Vilade, de’ quali per altro abbonda ogni nazione. Mercurio dopo di avere pregato invano, spiega tutta la serie de’ nuovi imminenti mali di Prometeo. {p. 57}Tuoni, venti, fulmini, scuotimenti di terra, sepoltura improvvisa nelle viscere de’ monti, aquile divoratrici del di lui cuore, apportano terrore agli spettatori e quando vengono minacciate e quando effettivamente agitano la scena. Prometeo l’ascolta, prevede il resto della minacciata sventura dal vederne i principj avverati, nè cede, nè si ritratta e solo si lagna invocando la terra sua madre e l’etere che circonda la luce in testimonio dell’ingiustizia che l’ opprime. Non ci fermiamo nelle minute obbiezioni del per altro erudito Robortelli fatte a questa favola che spira per tutto grandezza e nobiltà e un patetico interessante. Il giovane studioso impara inutilmente, per esempio, ch’egli è assurda cosa il trovarsi Prometeo in tutta la rappresentazione alla vista dell’uditorio, essere gl’ interlucutori tutti numi e cose simili. Leviamo un pò più su il guardo ed osserviamo che Prometeo è un personaggio totalmente buono e benefattore dell’umanità, e che il buono effetto che se in teatro, c’ insegna, che sebbene Aristotile ci diede una bellissima pratica osservazione nel prescrivere che il protagonista debba essere di una bontà mediocre mista a debolezze ed errori, non debba però tenersi per legge generale inviolabile, altrimenti ne mormorerà il buon senno che ci porta ad ammirare giustamente il bellissimo carattere di Prometeo, quello di Ajace in Sofocle, {p. 58}ed altri ancora di ottime tragedie moderne (Nota V).

Nella condotta delle Danaidi Supplichevoli si osserva una regolarità così naturale che con tutta la gran semplicità dell’ azione tiene sospeso il leggitore sino all’atto V, quando le Danaidi passano dall’asilo alla città, venendo discacciato l’araldo dell’ armata Egiziana nemica di queste principesse. Quest’araldo ne prende una per la chioma e la strascina verso i vascelli, la qual cosa esaminata colle idee de’ tempi correnti sembra disdicevole al decoro di persone reali; ma per giudicarne drittamente bisognerebbe risalire col pensiero agli antichissimi costumi de’ tempi eroici, altrimenti ci faremmo giudici di Omero e de’ tragici antichi senza comprendere la materia de’ loro poemi.

La tragedia de’ Sette a Tebe reca diletto ed invita a leggere anche a’ giorni nostri, essendo ripiena di bei tratti, di movimenti militari, di sospensioni maravigliose, fatta in somma per presentare uno spettacolo degno di ogni attenzione. Longino ottimo giudice ne cita un vago frammento dell’atto I, che nella nostra lingua potrebbe così tradursi:

Sette Guerrier spietatamente audaci
Stan presso a un’ ara di gramaglie cinta
In atto minacciosi e con orrendi
Giuramenti spaventano gli dei,
{p. 59}
Alta giurando insolita vendetta
A Gradivo, a Bellona, alla Paura,
Mentre le mani tingonsi nel sangue
Fumante ancor d’un moribondo toro.

Sommo impeto di vigorosa eloquenza scorgesi nel coro del medesimo atto primo, e la dipintura vivace del sacco di una città presa per assalto si legge con gran piacere nell’atto secondo. L’ultimo atto sembra veramente un accessorio superfluo, poichè si è sciolto l’assedio per l’ esito funesto del combattimento di Eteocle e Polinice.

La tragedia Agamennone fu coronata, e certamente anche a giudizio de’ posteri intelligenti meritava quest’onore. Il Viperani e lo Scaligero nelle loro Poetiche ne osservano la manifesta inverisimiglianza di vedervisi a un tempo stesso Agamennone ucciso e sepolto. Si può notare eziandio che o la rappresentazione di questa tragedia dee durare alcuni giorni, o, come riflette Metastasio53, Eschilo non ha creduto obbligata la sua imitazione alle circostanze del tempo. E la ragione si è perchè la guardia posta sulla cima di una torre a veder se risplenda la fiamma che dee di montagna in montagna da Troja ad Argo prevenire la {p. 60}venuta di Agamennone, vede appena il fuoco e ne porta la notizia a Clitennestra, che giugne il marito quasi nel medesimo punto. Noi ci contentiamo di osservare che quantunque l’azione sembri languire alquanto ne’ primi atti, pur questi preparano ottimamente l’ orribile evento dell’atto quinto, dove si veggono le passioni condotte al più alto punto. L’esclamazioni di Cassandra tutte piene di enimmi enfatici e d’immagini inimitabili manifestano la robustezza dello stile e dell’ingegno di Eschilo.

Le Coefore, ovvero Donne che portano le libazioni, rappresentano la vendetta di Agamennone presa da’ suoi figliuoli, argomento poi trattato ancora dai due gran tragici che vennero appresso. Sin dalla prima scena vi si espone lo stato dell’azione con arte e nitidezza tale, che l’antichissimo riformatore e padre della tragedia non ebbe bisogno dell’esempio altrui per condurre alla perfezione questa parte sì rilevante del dramma, nella quale tanti moderni fanno pietà, a differenza del celebre Metastasio che sempre mirabilmente vi riesce. L’energia e la forza del coro dell’atto I difficilmente può passare in altra lingua. La riconoscenza di Elettra e del fratello si fa nel II per mezzo de’ capelli gettati da Oreste sulla tomba e delle vestigia impresse nel suolo simili a quelle della sorella e di un velo da lei lavorato nella fanciullezza di Oreste. Euripide {p. 61}veramente non a torto nella sua Elettra si burla di simili segni; ed in fatti non si prenderà mai per modello delle agnizioni teatrali questa di Eschilo sfornita di verisimiglianza. Ma egli poi mostra molto giudizio nel medesimo atto, facendo che Oreste rifletta sull’impresa a cui si accinge: che si lagni dell’oracolo di Apollo onde è minacciato de’ più crudeli supplicj, se lascia invendicato il padre: che s’intenerisca alla di lui rimembranza: che si mostri ancora sensibile ai mali de’ popoli sacrificati agli usurpatori del trono. Tutto questo rende in certo modo sopportabile il gran parricidio che è per commettere. Nè di ciò pago il savio poeta, in una lunga scena di Elettra e del coro con Oreste, fa che questi appalesi la ripugnanza e l’incertezza che lo tormenta, la quale si va poi dissipando col sovvenirsi delle terribili circostanze dell’ammazzamento di Agamennone, alle quali fremendo dice che darà la morte a Clitennestra, indi a se stesso. Tali riguardi, sospensioni e cautele erano indispensabili per disporre l’uditorio ad uno spettacolo oltremodo atroce di un figlio che si bagna del sangue di una madre. Segue nell’atto IV l’uccisione di Egisto, ed il pianto che sparge Clitennestra per quest’usurpatore serve di cote al furor di Oreste e lo determina ad ucciderla. Nel V il poeta si dimostra parimente gran maestro, facendo vedere benchè {p. 62}in abbozzo l’ infelice situazione di Oreste che trasportato da’ rimorsi va perdendo la ragione.

Oreste medesimo perseguitato dalle Furie indi liberato dalle loro mani per lo favore di Apollo e di Minerva e per la sentenza dell’Areopago, è l’argomento della famosa tragedia dell’Eumenidi. Le Furie rappresentate da cinquanta attori ne formavano il coro, i quali furono dal poeta in tale spaventevole e mostruosa foggia mascherati e con si orribili modi e grida entrarono nella scena, che tutto il popolo si riempì di terrore, ed è fama che vi morisse qualche fanciullo e più di una donna incinta vi si sconciasse. Eschilo in questa favola trasgredì le regole del verisimile, facendo passare una parte dell’ azione nel tempio di Apollo in Delfo e un’ altra in Atene. Si vuol notare nella prima scena la pittura terribile dell’Eumenidi fatta dalla sacerdotessa, l’inno magico infernale pieno del fuoco di Eschilo cantato dal coro dell’atto III per aver trovato Oreste, ed il giudizio del di lui delitto fatto nel V coll’ intervento di Minerva che presiede agli Areopagiti, di Apollo avvocato del reo, e delle Furie accusatrici. Il coro che negl’ intermezzi è cantante, nel giudizio è parlante come ogni altro attore, ed uno solo favella per tutti, la qual cosa si osserva in tutte le tragedie antiche.

{p. 63}

Finalmente i Persi, tragedia data da Eschilo otto anni dopo la famosa giornata di Salamina sotto l’Arconte Menon, è fondata sulla spedizione infelice di Serse nella Grecia, argomento prima di Eschilo trattato da Frinico. La condotta n’è così maestrevole che il leggitore dal principio sino alla fine vi prende parte come nato in Grecia: tale essendo l’arte incantatrice degli antichi posseduta da ben pochi moderni, che la più semplice azione viene animata dalle più importanti circostanze con tanta destrezza, che il movimento e l’ interesse va crescendo coll’ azione a misura che si appressa al fine. Per non avere a tale artificio posto mente il dotto Scaligero ne censurò54 la soverchia semplicità, nè le diede altro nome che di semplice narrazione; ed il Nisieli che sì spesso declama contro gli antichi, ne adottò la decisione55. Nè l’uno nè l’ altro erudito nel leggerla consultò il cuore. Il racconto della perdita della battaglia nell’atto II bellamente interrotto di quando in quando dalle querele del coro de’ vecchi Persi, forma una delle bellezze di questo dramma. L’atto IV, in cui comparisce l’Ombra di Dario, è veramente un capo d’opera, {p. 64}con tanto senno vi contrasta coll’ambizione di Serse il governo di Dario divenuto pacifico, la prudenza del vecchio colla vanità del giovane regnante; e con tale delicatezza mettonsi in bocca di sì gran nemico le lodi della Grecia. La venuta di Serse nel V atto aumenta la dolorosa situazione del Consiglio di Persia. Queste bellezze che sfuggono alla pedanteria, non isfuggirono al giudizioso e dotto Brumoy. I Persi è tragedia da leggersi attentamente da chi voglia impadronirsi della grande arte d’interessare e in conseguenza di commuovere e piacere (Nota VI). Discordi pure da questo avviso chiunque si senta rapire dall’autorità de’ Nisieli e degli Scaligeri, purchè non mi si ascriva a delitto il dipartirmene per seguire l’affetto che m’inspira la lettura di questa favola. Io non mi sono punto proposto in quest’opera di copiar ciecamente gli altrui giudizj (che sarebbe un’ infruttuosa improba fatica), ma bensì di comunicare co’ miei leggitori l’effetto che in me fanno le antiche e le moderne produzioni drammatiche. Noi siamo persuasi che dopo di essersi la mente preparata co’ saldi invariabili sovrani principj della Ragion Poetica ed avverati e con una paziente e critica lettura e con una lunga esperienza del teatro, il cuore solo è quello che decide dei drammi e senza ingannarsi ne conosce e ne addita le bellezze.

{p. 65}

Dopo queste succinte notizie delle sette tragedie di Eschilo, non c’ incresca di ascoltare ciò che alla solita sua maniera ne dice il notissimo avvocato Don Saverio Mattei nel Nuovo sistema d’ interpretare i tragici Greci. Altro per lui non sono che feste teatrali di ballo serio preparate da alcune poetiche declamazioni. Se il leggitore conosce tali tragedie, non potrà non rimanere maravigliato al vedere in quella scrittura del Signor Mattei tutte le idee naturali scompigliate per lo prurito di dir cose nuove che al fine si risolvono in nulla. Se poi non le conosce, sulle di lui parole ne concepirà una immagine tutta aliena dal vero, e crederà che le patetiche declamazioni in Eschilo preparassero un ballo serio, come i discorsi di Tancia e Lisinga in Metastasio introducono al ballo Cinese. Che vuol dir mai festa teatrale di ballo serio? Le tragedie di Eschilo furono, come quelle di Sofocle e di Euripide, vere azioni drammatiche eroiche accompagnate dalla musica e decorate dal ballo del coro; nè altra differenza può ravvisarsi trall’uno e gli altri, se non quella che si scorge ne’ caratteri di diversi artefici che lavorano in un medesimo genere, per la quale distinguiamo ne’ pittori eroici Tiziano da Correggio, ne’ poeti melodrammatici Zeno da Metastasio, ne’ tragici moderni Corneille da Racine. Le prosopopeje (come il Mattei chiama le Ninfe, il {p. 66}Padre Oceano, l’Eumenidi, la Forza ecc.) punto non dimostrano, com’ egli crede, che allora la tragedia era una danza animata dall’intervento di questi genj mali e buoni piuttosto che una vera azione drammatica; ma pruovano solo che Eschilo introdusse ne’ suoi drammi le ninfe, i numi, le ombre, le furie, e diede corpo a varj esseri allegorici, come Sofocle ed Euripide si valsero delle apparizioni di Minerva, di Bacco, di Castore e Polluce, della musa Tersicore, d’Iride, di una Furia, di un’ Ombra, della Morte ecc. Di grazia in che mai essi discordano da Eschilo su questo punto?

Eschilo trasportato una volta dal proprio entusiasmo cantò alcuni versi notati di manifesta empietà, ed il governo che vigila per la religione e per li costumi, condannò alla morte l’ardito poeta. Ma Aminia di lui minor fratello, che nella pugna di Salamina avea perduta una mano, alzando il mantello scoperse il braccio monco, inteneri i giudici, ed il colpevole ottenne il perdono.

Per questo rigore usato seco Eschilo si disgustò di Arene sua patria, tanto più quanto cominciarono ad applaudirsi le tragedie del giovane Sofocle. La prima volta che questo nuovo tragico, contando anni ventotto di età, produsse un suo componimento e trionfo di Eschilo già vecchio, fu nel celebrarsi la solennità del ritrovamento e della {p. 67}traslazione delle ossa di Teseo, nella quale Cimone nominò i giudici scegliendone uno di ogni tribù (Nota VII). Or qual colpo per un veterano come Eschilo fiero per tanti trionfi poetici da lui riportati al vedersi vinto al primo saggio di questo novizio soldato! Egli prese il partito di allontanarsi volontariamente da Atene, e si ritirò presso Jerone in Sicilia, ove dopo alquanti anni morì, e secondo Plutarco56 fu sotterrato presso Gela. O servisi però che la contesa di questi due gran tragici avvenne negli ultimi anni dell’olimoiade LXXVII, e Jerone mori nel secondo anno dell’olimpiade LXXVIII57. Adunque Eschilo che secondo i marmi di Arondel morì nel primo anno dell’olimpiade LXXXI, dovette sopravvivere a Jerone intorno a dodici anni. Vuolsi in oltre che quando Eschilo si ritirò alla corte di Jerone, trovasse questo re occupato in riedificare l’antica città di Catania rovinata da’ tremuoti cui diede il nome di Etna, e su di essa Eschilo fece un componimento poetico. Ma la nuova edificazione di tal città, ove Jerone invitò ancora de’ nuovi abitatori, avvenne nell’olimpiade LXXVI. Adunque allora Eschilo {p. 68}non era ancora stato vinto da Sofocle58. Laonde converrà dire che egli due volte sia andato in Sicilia, l’una dopo la sua assoluzione in grazia del fratello Aminia, e trovò allora Jerone occupato nella ristaurazione di Catania, e l’altra volta dopo la vittoria di Sofocle, quando, dimoratovi qualche anno, seguì la morte di quel re. Si è però detto che Eschilo morisse tre anni dopo la vittoria di Sofocle, il che non può conciliarsi coll’ epoca della di lui morte, che seguì nell’ultimo anno dell’olimpiade LXXX, o nel primo della LXXXI, essendo egli di anni sessantanove59.

Ma il sommo credito che andava Sofocle acquistando, non nocque gran fatto alla riputazione di Eschilo. Gli Ateniesi diedero pubblici attestati della stima che facevano delle di lui tragedie, avendo decretato60 che si rappresentassero anche dopo la di lui morte, onore ad altri non compartito, pel quale potè Aristofane fargli dire nelle Rane, che la sua poesia non era morta con lui. In fatti alcuni tragici che si dedicarono a ritoccarne più di una, ne riportarono più {p. 69}volte la corona teatrale. Euforione figlio di Eschilo, oltre ad alcune tragedie da lui composte, vinse secondo Suida e Quintiliano quattro volte con alcune favole del Padre, alle quali diede novella forma.

III.
Teatro di Sofocle. §

Ma la soverchia semplicità delle favole di Eschilo non sempre animata da quella interessante vivacità che può renderla accetta, qualche reliquia di rozzezza nella decorazione e la scarsezza di moto, additavano a Sofocle una corona tragica non ancora toccata. E per conseguirla attese e a formarsi uno stile grave, sublime, maestoso ma spogliato della durezza e gonfiezza del predecessore, e a tirare l’attenzione dell’ uditorio più col movimento e colla vivacità e colla economia mirabile della favola, che colla magnificenza delle decorazioni. E perchè gli parve necessaria all’esecuzione del suo disegno un’ altra specie di attori, volle separar dal coro una terza classe di cantori e ballerini per aggregarla ai semplici declamatori61. Ed acciocchè tutto contribuisse {p. 70}all’illusione indispensabile per disporre gli animi alle commozioni che si vogliono eccitare, {p. 71}fe dipingere la scena, secondochè afferma Aristotile nella Poetica, probabilmente {p. 72}per mettere alla vista il luogo dell’azione. Ebbe ancora l’accortezza di scerre {p. 73}argomenti adattati al talento e alla disposizione de’ suoi attori, giacchè egli per mancanza di voce non potè rappresentare, come facevano gli altri poeti, i quali per lo più recitavano nelle proprie favole. Sino alle cose più picciole stese Sofocle le sue osservazioni per far risplendere l’abilità di ciascuno; e perchè si vedessero in teatro brillare i piedi de’ ballerini, fe calzar loro certe scarpe bianche. Scrisse centodiciassette, o centotrenta ed anche più tragedie, delle quali venti furono coronate; ma non ne sono a noi pervenute che sette, cioè: Ajace, le Trachinie, Antigone, Elettra, Edipo re, Filottete, Edipo Coloneo, le quali dovunque fioriscono gli ottimi studj, divengono gli esemplari de’ più pellegrini ingegni. Lo stile di Sofocle è talmente sublime, magnifico e degno della tragedia, che per caratterizzare la maestosa gravità di tal componimento, dopo Virgilio suol darsi al coturno l’aggiunto di Sofocleo (Nota VIII). Tale è poi l’aggiustatezza e la verisimilitudine che trionfa ne’ piani da lui disposti, che senza contrasto vien preferito a tutti i {p. 74}tragici per l’economia della favola.

Nell’Ajace, detto flagellifero dalla sferza, colla quale quest’eroe furioso percoteva il bestiame da lui creduto Ulisse e gli altri capi del campo Greco, tra molte bellezze generali e varj pregi della favola e de’ caratteri, si ammirino con ispezialità le tre seguenti bellissime scene: la situazione patetica di Ajace rivenuto dal suo furore col figliuolo Eurisace e colla sposa Tecmessa; la pittura naturalissima della disperazione di Ajace che si ammazza; ed il tragico quadro che presenta la troppo tarda venuta di Teucro, ed il dolore di Tecmessa e del coro allo spettacolo di Ajace ucciso. Oh quanto è vaga la natura ritratta da un gran pennello! Ma oh quanto si scarseggia di gran pennelli, che sappiano mettere in opera i bei colori della natura agli antichi sì famigliari! Or perchè mai trascurarono di osservare simili scene ricche di bellezze inimitabili il Robortelli, il Nisieli ed altri nostri critici, per nulla dire de’ transalpini falsi belli-spiriti la-Mothe, d’Argens, Perrault, in vece di perdersi a censurarne ogni minimo neo nello sceneggiamento e ogni leggera espressione che loro paresse bassa e grossolana, per non avere abbastanza riflettuto alla natura eroica di que’ tempi lontani che i tragici intesero di ritrarre? Il garrire degli eroi tanto da’ critici ripreso, era proprio {p. 75}de’ primi tempi della nazione Greca. I concetti sono figli de’ costumi, e le stesse passioni generali nel genere umano si modificano esteriormente sul genio delle razze o famiglie diverse nelle quali esso è diviso. Ognuno può osservare nelle aringhe de Greci oratori con quali forti ingiurie l’uno contro l’altro essi si scagliassero nel Pritaneo a’ tempi di Filippo, di Alessandro ed anche di Cassandro. Or quello che i Greci profferivano ne’ tempi della loro gran coltura, nè già nel solo teatro, ma dove gravemente decidevasi del destino della patria, ci dee far risalire sino al tempo eroico di Achille e di Ajace, e guarirci dal pregiudizio di giudicare dal decoro osservato ne’ moderni tempi di quello che convenisse a’ tragici Greci nel copiare Teseo ed Agamennone. Del rimanente nell’Ajace io non vedo nella contesa di Menelao e poi di Agamennone con Teucro, e spezialmente in quella di Ulisse, tante villanie obbrobriose quante nel Paragone della Poesia Tragica ne rimprovera a Sofocle il Conte Pietro di Calepio critico per altro assai saggio. In tutta la scena di Menelao e di Teucro trovo soltanto che quegli riprende nell’altro la soverchia baldanza, e questi di rimbalzo lo taccia di stoltezza; or dove sono gli obbrobrj esagerati? Più forte è la scena con Agamennone. Questi come re de’ re irritato per la resistenza di Teucro gli rinfaccia di {p. 76}aver egli, che pur non è che un figlio di una cattiva, σέ . . . . τὸν έκ της αιχμαλώτιδος, osato ricalcitrare agli ordini de’ supremi capitani. Lo chiama indi servo e barbaro di stirpe. Teucro mostra di esser nato di Telamone e di una Regina, e si maraviglia come a lui favelli a quel modo Agamennone nipote del barbaro e Frigio Pelope figlio di Atreo famoso per la scellerata cena e di Cressa colta con uno straniero. Dopo ciò arriva Ulisse, e cerca di placare Agamennone; nè in questa ultima scena trovansi punto le villanie decantate. Perchè dunque attribuire agli antichi i difetti che non hanno, oltre a quelli che hanno per essere stati i primi nell’arte? Perchè inventare nuovi errori? Non basta scoprire quelli che son veramente tali? Noi ultimi venuti possiamo dire nelle nostre poesie barbabaro, stolto, insano, vile, mostro, tralcio illegittimo di tronco oscuro ecc. ecc.; nè Corneille, Crebillon, Voltaire, Metastasio, Zeno, vengono tacciati (nè debbono esserlo) come villani e plebei, ed il Calepio vuol riprendere severamente queste medesime cose in Sofocle?62.

{p. 77}

Si rappresenta nelle Trachinie la morte di Ercole avvenuta per lo dono funesto di Dejanira, nella quale con tutta verità e delicatezza si vede delineato il carattere di una moglie tenera e gelosa. Nell’atto quarto Ilo viene a riferire alla madre l’effetto del regalo fatale della veste inviata al padre nell’atto terzo, ma Ilo l’ ha egli stesso veduto nel promontorio Ceneo, ed è venuto a narrarlo in Trachinia. É mai naturale che egli avesse due volte valicato in tempo sì corto uno stretto di sessanta miglia italiane interposte da Ceneo a Trachinia? D’altronde il giudizioso Sofocle avrebbe esposto agli occhi de’ Greci una inverisimilitudine sì manifesta, se il fatto non fosse sembrato comportabile per qualche circostanza allora nota ed oggi involta nell’oscurità di tanti secoli? {p. 78}Sommamente patetico in quest’atto è il silenzio dell’ingannata Dejanira alle accuse del figlio addolorato, silenzio eloquente artificioso che sempre in Sofocle precede le disperazioni e i suicidj. Nell’atto quinto trovasi quello squarcio maraviglioso che latinamente con molta eleganza tradotto da Cicerone adorna il II libro delle Questioni Tusculane, O multa dictu gravia, perpessu aspera ecc., del quale Ovidio nel IX delle Metamorfosi fece una bellissima imitazione. Tragica e degna del gran Sofocle è pure l’ultima scena.

Antigone conosciuta per moltissime traduzioni si aggira su gli onori della sepoltura che erano tanto a cuore dell’ antichità63, prestati da Antigone al fratello Polinice {p. 79}mal grado del vigoroso divieto di Creonte. E’ notabile nell’atto II la scena delle due sorelle Antigone ed Ismene, che disprezzando a competenza la morte accusano se stesse di aver trasgredita la legge. Questo contrasto tenero e generoso imitò il gran Torquato nell’episodio di Olindo e Sofronia, e l’immortale Metastasio lo ravvivò con tutto il patetico di una passione grande e lo rendè più interessante nel Demofoonte, quando Timante e Dircea si disputano a gara la reità principale della seduzione nel vietato loro imeneo. Antigone n’è sepolta viva, Emone figliuolo del re che ama questa principessa, si ammazza, ed Euridice di lui madre che ne intende il racconto, istupidita dal dolore parte senza parlare, e si uccide come Dejanira. Questa patetica tragedia rappresentata con sommo applauso ben trentadue volte, fe decorare l’autore colla prefettura di Samo (Nota IX). Dove si conosce il pregio dell’ arte, si premiano i talenti. In Groelandia rimarrebbero inonorati e confusi tralla plebe, se vi capitassero, gli Archimedi, i Borelli, {p. 80}i Galilei, i Newton64.

L’Elettra contiene lo stesso argomento delle Coefore di Eschilo maneggiato con e sattezza maggiore. L’intermezzo, ossia canto del coro dell’atto II, è congiunto alle querele di Elettra. La riconoscenza molto tenera fassi con più verisimilitudine di quello che avviene nella tragedia del predecessore, per mezzo di un anello di Agamennone. Il dolore di Elettra in tutta l’azione si trova espresso a maraviglia, ed il di lei carattere ottimamente scolpito spicca con ispezialità nella scena con Crisotemi. Quella poi in cui Elettra piagne la morte del fratello tenendo l’urna delle di lui ceneri si rappresentò da Polo che sostenevane la parte, con tal vivacità che trasse dagli spettatori copiose lagrime. Con tutti questi pregi parrà forse, nè senza fondamento, troppo orribil cosa a’ moderni quel vedere due figli tramare ed eseguire l’ammazzamento di una madre benchè colpevole. Chi oggidì non fremerebbe alle parole di Elettra che incoraggisce Oreste a replicare i colpi, παισον διπλῆν? La fatalità discolpava il poeta presso i Greci: ma avrebbe fatto male {p. 81}Sofocle a rilevar meglio il contrasto delle voci della natura colla necessità di obedire all’oracolo che dovea fuor di dubbio lacerare in quel punto il cuore di Oreste? Eschilo non gliene avea dato nello stesso argomento un bell’esempio? Sofocle a mio giudizio rimane pure ad Eschilo inferiore allorchè scema la sospensione dell’uditorio col far seguire la morte di Clitennestra prima di quella di Egisto, perchè ne rende meno interessante lo scioglimento.

L’Edipo re65 è la disperazione di tutti i tragici ed il modello principale di tutte l’età. Nulla di più tragico ha partorito la Grecia. Tutta la stupidità o il capriccio di certi pregiudicati incurabili moderni appena basta per ingannar se stessi sul merito di questo capo d’opera, e per supporre la tragedia ancora avvolta nelle fasce infantili nel tempo che si producevano simili componimenti che nulla hanno di mediocre (Nota X). Torresti tu (diceva col solito discernimento Longino66 di esser piuttosto Bacchilide che Pindaro, e nella tragedia Jone {p. 82}Chio che Sofocle? . . . . E chi sarà quegli che avendo fior di senno, messe tutte insieme le opere di Jone, al solo dramma dell’Edipo ardisca contrapporle? Certo niuno. Si apre sì bel componimento con uno spettacolo curioso e compassionevole. Vedesi in una gran piazza il real palagio di Edipo: alla porta di esso si osserva un altare, innanzi al quale si prostra un coro di vecchi e di fanciulli: si rileva dalle parole che in lontananza dovea vedersi il popolo afflitto radunato intorno ai due tempj di Pallade e all’altare di Apollo. Nè ciò era difficile ne’ teatri Greci, la cui grandezza non può ravvisarsi in niuno de’ moderni, benchè alquanti assai vasti se ne contino. Dopo il contrasto di Edipo e Creonte, Giocasta nell’atto III cercando di consolare il consorte con iscreditare le predizioni racconta come andò a vuoto un oracolo di Apollo, il quale presagiva che un di lei figlio dovea essere l’uccisore del padre; imperciocchè essendo stato il bambino esposto sul monte Citero, il padre cadde per altra mano, avendolo ucciso alcuni ladroni in un trivio. Questo trivio ricordato e descritto con esattezza presta all’azione un calore e un movimento inaspettato recando nella mente al re la morte da lui data a un vecchio in un luogo simile; e a misura che vanno i fatti rischiarandosi la favola diviene interessante. Si vuole osservare come quì Giocasta {p. 83}si studia di torre il credito agli oracoli; e nell’ atto IV Edipo all’udir che Polibo suo creduto padre è morto in Corinto, ne deduce per conseguenza l’inutilità di consultare l’oracolo di Apollo. Ma frattanto nel rimanente della tragedia si mostra appunto la falsità del raziocinio di que’ due spiriti-forti, e si accreditano col fatto le divine risposte, stabilendosi l’infallibilità di Apollo, e l’insuperabile forza del fato, quella forza che è il gran perno su cui si aggira il tragico teatro Greco. Che riconoscenza poi mirabilmente condotta per tutte le circostanze nell’atto IV e di qual tragica catastrofe produttrice! Aristotile quel gran conoscitore n’era con troppa ragione incantato. Giocasta, cui le parole del messaggiero non lasciano più dubbio alcuno dell’essere di Edipo, in se stessa concentrata e piena del proprio dolore, dovette essere agli spettatori Ateniesi intelligenti e sensibili un oggetto sommamente compassionevole. Ella giusta la maniera di Sofocle esprime col silenzio l’intensità della sua pena ed il funesto disegno che indi a poco eseguisce. E quì veramente si vede il patetico eloquente silenzio partorir tutto l’ effetto teatrale invano cercato dai declamatori e ragionatori. Edipo sicuro di essere egli quel figlio colpevole additato dall’oracolo, chiude con passione ed energia tutte le sue sventure in queste brevi querele:

{p. 84}
Terribile destino, ecco una volta
Tutti svelati i tuoi decreti! Io nato
Son di cui non dovea: ho un letto offeso
Cui d’innalzare anco un pensier fugace
Era scelleratezza: il giorno ho tolto
A chi mi diè la vita. O sol, fia questa
L’ultima volta che i tuoi raggi io miri67.

Ma quanto è tragico e spaventevole nell’atto V il racconto della morte di Giocasta e dell’acciecamento di Edipo! Che spettacolo Edipo acciecato! Quivi è il bel passo ammirato e citato da Longino, che il Giustiniani ha così tradotto nell’elegante, esatta {p. 85}e vivace sua versione dell’Edipo:

. . . . . . . . . . . O nozze o nozze
Voi me quì generaste, e generato
Poscia, o scelleratezza! ritornaste
Nel ventre de la madre il seme istesso
Concependo di lui parti nefandi.
Fratelli, padre e figli produceste
D’un sangue istesso, e d’un istesso ventre
E nuore e mogli e madri, in un mischiando
Tutto ciò che più turpe e più nefando
Tra’ mortali si stima.

In questi versi si vede egregiamente espresso quell’αῖμ’ εμφύλιον, sanguinem cognatum, che il dottissimo Brumoy desiderava nella per altro elegante traduzione di questo passo fatta da Niccolò Boileau. Lacera finalmente tutti i cuori che non ignorano la potenza della sensibilità, la preghiera di Edipo ridotto in sì misero stato per abbracciar le figliuole, e quando brancolando va loro incontro chiamandosi ora di loro fratello ora padre:

Figlie, ove sete o figlie?
Stendete pur le braccia all’infelice
Vostro . . . . fratello. Non fuggite, o care,
Queste man che dagli occhi a vostro padre
Trasser la luce.

e quando le abbraccia e non sa separarsene; tutte situazioni appassionate ottimamente dipinte. {p. 86}Il coro conchiude la tragedia colla sentenza di Solone. Tutti i cori dell’Edipo esprimono al vivo la sublimità dello stile di Sofocle, e si veggono mirabilmente accomodati alle particolarità dell’azione, nella qual cosa Sofocle riuscì più di ogni altro tragico. Qualche frammento di quello dell’atto I dell’elegantissima versione fattane dal lodato Giustiniani mostrerà alla gioventù studiosa l’arte di Sofocle ne’ canti de’ cori:

Santo oracol di Giove
Che sì soave spiri,
Con che annunzio venisti
Dagli eccelsi di Delfo aurati tempj
A la nobile Tebe?
Trema la mente in me stupida e tutta
Per timor sbigottita
Da sollecita tema
Scuotere il cor mi sento.
Sacro e possente Dio Signor di Delo
Che risanando sgombri
I perigliosi morbi,
Te col cor tutto riverente onoro.
Quali sono or le tue risposte? e quali
Ne l’avvenir saranno?
Dinnelo or tu, fama immortal, soave
Frutto d’amica e preziosa speme.

Invocata poi Minerva, Diana ed Apollo, si passa alla descrizione de’ mali di Tebe:

{p. 87}
Giace dal morbo afflitto il popol tutto,
Nè so donde io m’impetri
O soccorso o consiglio.
Già de li frutti suoi ricca e cortese
La terra or nulla rende,
Nè resister possendo
Cadon da morte oppresse
Le femmine dolenti
Ne le angosce del parto.
Come spessa d’augei veloce torma
Fende l’aria volando,
Tal da li corpi un sopra l’altro estinti
In largo e folto stuolo,
Più che il foco leggere
Fuggon l’alme di Stige ai tristi liti.
Ma l’infinita turba abbandonata
Da la pietate altrui
A cruda morte giunta,
Priva de l’altrui pianto,
Sopra il nudo terren giace insepolta.
E le tenere spose
E le madri canute
L’una de l’altra a canto
Piangon supplici e meste i loro mali.
In varie parti, dove
Son per le rive i sacri altari alzati,
Si raddoppiano gl’ inni,
E con lor risonando
Fanno il pianto e i sospiri
Un doglioso concento.
Levaci tu da tanti strazj omai ecc.
{p. 88}

Non poteva Sofocle esser da miglior penna trasportato in italiano. Simili traduzioni animate, fedeli, armoniose de’ nostri cinquecentisti fanno vedere quanto essi intendevano oltre il vano suono delle parole, e come ben sapevano recare con eleganza lo spirito poetico nella natia favella. Non so adunque come l’anzilodato Signor Mattei affermi nella citata dissertazione alla pagina 210, che i nostri antichi traevano da quelle miniere (de’ tragici Greci) solo il piombo, e lasciavano l’oro. E ne sono sempre più maravigliato in leggendo poco dopo nella pagina 218, che dalla Greca tragedia aveano i Francesi e gl’ Italiani con felice successo preso ed unito insieme tutto il bello. Di grazia, Signor Mattei, intendiamoci bene: gl’ Italiani hanno da’ Greci preso con felice successo tutto il bello, o hanno tratto dalle loro miniere tutto il piombo e lasciato l’ oro? Passiamo alle rimanenti tragedie di Sofocle.

Egli è un altro capo d’opera dell’antichità Filottete le cui saette fatali conducono in Lenno Ulisse e Neottolemo, perchè richiedevansi indispensabilmente alla caduta di Troja. Filottete è il più compiuto esemplare della inimitabile semplicità della tragedia antica, e della costante regolarità ed aggiustatezza di Sofocle nell’ economia dell’azione. Tutto in tal favola è grande e sino al fine sostenuto da un interesse ben condotto, tutto tende con energia al suo scopo. {p. 89}Dipinto a maraviglia è il carattere di Neottolemo. I moderni non vedrebbero con piacere sulle loro scene Filottete zoppicante e disteso nell’atto II colle convulsioni: ma ciò si rappresentava senza sconcezza sul teatro della dotta Atene. E ciò ne dimostra che certo sublime idropico e romanzesco, e che io chiamo di convenzione teatrale, perderebbe affatto il credito anche sulle scene moderne a fronte delle patetiche situazioni naturali, sempre che vi fossero introdotte con leggiadria da un ingegno sagace che sapesse renderle, sulle vestigia di Sofocle, tragiche e grandi. Può osservarsi in questa favola che i cori del primo e del terzo atto sembrano più parlanti del secondo; il che trovandosi ancora in altre può valer di pruova che non sempre terminavano gli atti con un canto sommamente lontano dalla declamazione del rimanente. Il coro del quarto è accoppiato ai lamenti di Filottete, i quali pajono una spezie de’ moderni recitativi obbligati o vogliamo dire accompagnati dagli stromenti. La prima scena dell’atto quinto è molto vivace pel vago contrasto della virtù di Neottolemo colla politica di Ulisse. Piacemi che il soprallodato Conte di Calepio osservi che sia figura lirica l’apostrofe di Filottete al proprio arco, ed al fragore del mare che sentiva stando nell’antro di Lenno. Ma sì lieve neo non meritava di esser tanto esagerato {p. 90}in una tragedia che gli presentava molte bellezze da esercitare il gusto e l’ erudizione di chiunque e da ammaestrare la gioventù. La tragedia termina per machina coll’ apparizione di Ercole, pel cui comando Filottete accompagna Neottolemo a Troja68.

L’Edipo Coloneo, o sia a Colona patria di Sofocle, contiene la venuta di Edipo cieco in Atene, fuggendo la persecuzione di Creonte re di Tebe. Egli si ritira colle figlie nel tempio delle venerabili dive, cioè delle furie, la cui memoria di tanto orrore colmava i Greci, che non ardivano quasi mai mentovarle col loro vero nome, o per antifrasi le appellavano eumenidi, cioè benevole, benigne, da εὐμενέω, benevolus sum. Il coro instruisce Edipo delle cerimonie praticate ne’ sacrificj che facevansi all’eumenidi, affinchè questo forestiere e le di lui figlie rifuggite al loro tempio non incorressero in qualche errore nel venerarle. Or perchè quest’opportuno episodio parve tanto fuor di luogo e ozioso al Signor di Calepio? Edipo avendo implorata la protezione di Teseo, secondo l’oracolo va a morire in un luogo a tutti ignoto. Fra questa tragedia e {p. 91}le Supplici di Eschilo scorgesi qualche conformità riguardo al piano. Sofocle decrepito poco prima di morire fu da Iofante suo figliuolo chiamato in giudizio e accusato di fatuità, ed il poeta, per convincere i giudici della falsità dell’ accusa, presentò e lesse loro l’Edipo Coloneo da lui scritto in età tanto avanzata; ed essendone stato ammirato rimase egli assoluto e l’accusatore stesso dichiarato insano69. Questo gran tragico, secondo Luciano nel catalogo de’ macrobj, morì strangolato con un grano di uva di anni novantacinque (Nota XI).

IV.
Teatro di Euripide. §

Era Sofocle già vecchio, quando Euripide, lasciata la palestra degli Atleti, tutto si dedicò alla poesia tragica e di anni diciotto osò metter fuori la prima sua tragedia (Nota XII). Ardua impresa per sì pochi anni, gareggiare colla rinomanza di un Sofocle! Pure quali ostacoli non vince l’attività, l’ingegno e lo studio? Egli vi si accinse con alacrità e coraggio; vi si accinse {p. 92}con tutti i soccorsi onde i frutti poetici si stagionano per l’immortalità, avendo appresa da Prodico l’eloquenza e da Anassagora le scienze fisiche; e vi si accinse con quella indefessa attenzione indispensabile per isviluppar l’ ingegno e rintracciar le bellezze vere di ogni genere. Egli per natura malinconico ed avverso alla mollezza cercò negli orrori e nel silenzio di una caverna nell’isola di Salamina70 tutto l’agio per insinuarsi negli avvolgimenti secreti del cuore umano e per istudiare e dipignere al vivo le passioni. Con tali mezzi pervenne a saper meglio di ogni altro l’arte di parlare al cuore e di rapire gli animi maneggiando un patetico sommamente dilicato nè più usato sulle scene Ateniesi, per cui Aristotile davagli il titolo di Τραγικωτατος, tragico in supremo grado. Certo il suo stile si distingue da quello de’ predecessori per l’arte mirabile di animare col più vivace colorito tutti gli affetti e quelli spezialmente che appartengono alla compassione. Euripide (dice Longino) è veramente assai industrioso in esprimere tragicamente il furore e l’amore, nelle quali passioni riesce felicissimo. La frequenza e la gravità delle sentenze, e una ricchezza filosofica ne caratterizzano {p. 93}lo stile; di modo che i Greci l’appellavano filosofo tragico, e davano alla sua filosofia l’aggiunto di coturnata. Si appressa, secondo Quintiliano, al genere oratorio con tale riuscita che a niuno de’ più eloquenti rimane inferiore (Nota XIII); ma per la stessa ragione talvolta si allontana dal vero dialogo drammatico. Gli s’imputa poi, nè senza fondamento, da Aristotile nella Poetica, un poco di negligenza nel condurre e disporre le sue favole; ciocchè pruova ch’egli poneva più cura a ritrarre la natura che a consigliarsi coll’arte. Secondo alcuni egli scrisse settantacinque tragedie; ma contando le diciannove intere che ne rimangono, e i frammenti di molte altre raccolti nella bella edizione del Barnès, si può con altri asserire con più ragione che ne componesse sino a novantadue, otto delle quali erano satiriche. Gli Ateniesi le accolsero sempre con avidità ed applauso, e la posterità più sagace le ha successivamente ammirate; ma nel certame drammatico cinque sole di esse riportarono la corona, e nelle altre egli soggiacque alla sventura de’ valentuomini per lo più posposti a’ competitori ignoranti. Tale era Senocle (figlio del tragico Carcino anteriore ad Euripide) che più di una volta venne a lui preferito da’ giudici, al dir di Eliano, sciocchi o subornati.

Le tragedie che ne abbiamo intere sono: {p. 94}Elettra, Oreste, Ifigenia in Aulide, Ifigenia in Tauri, Elena, Alcestide, Ippolito coronato, Ecuba, Andromaca, le Trojane, Reso, Medea, le Fenisse, le Supplici, gli Eraclidi, Ercole furioso, Jone, le Baccanti, il Ciclope. Per mettere con chiarezza sotto gli occhi quanto stimava necessario per intelligenza della favola, egli sempre fece uso del prologo, là dove Sofocle senza prologo esponeva a maraviglia lo stato dell’azione.

Nell’Elettra appunto per l’introduzione rimane Euripide a Sofocle inferiore. Egli nella riconoscenza di Oreste e della sorella perderebbe anche al confronto di Eschilo per cagione della vivacità che in questo è maggiore; ma quella immaginata da Euripide la supera di verisimiglianza, avvenendo con molta proprietà per mezzo dell’Ajo di Oreste e per una cicatrice che questi avea sulla fronte sin della fanciullezza. Sofocle però vince in tal riconoscenza e l’uno e l’ altro per l’effetto che produce in teatro; perocchè Oreste creduto morto che si trova inaspettatamente vivo, apporta la rivoluzione della fortuna di Elettra, e la fa passare da un sommo dolore a una somma gioja. Il carattere di Elettra si vede da Euripide dipinto molto più feroce e veemente che dagli altri due tragici. Elettra si prende da se stessa la cura di uccidere la madre, e manifesta l’artifizio con cui pensa di trarla nella rete, disegno e fierezza atroce in {p. 95}una figlia che nè anche è mitigato dalle savie prevenzioni che osservammo in Eschilo. Ma qual è mai l’artifizio di Elettra? Chiamar Clitennestra nella propria casa perchè l’assista nel finto parto imminente. Era però verisimile che una madre la quale lasciavala perire nell’indigenza, volesse appunto in quella occasione ripigliare la materna tenerezza? Tuttavolta il poeta fa che Clitennestra vada per tal menzogna a trovar la figliuola: ma quando? quando già era stato da Oreste ucciso Egisto in un solenne sacrificio. Un fatto di tanta importanza avvenuto pubblicamente, poteva ignorarsi con verisimilitudine dalla regina? Mal grado però di simili negligenze, che noi schiettamente rileviamo, ma senza il fiele de’ nemici dell’ antichità, la tragedia di Euripide ci sembra piena di moto e di calore, i costumi vi si veggono vivacemente coloriti, e le passioni vi sono espresse con grande energia.

L’Oreste, una delle di lui tragedie coronate, seguita la materia dell’Elettra. Egli non solo è perseguitato dalle furie vendicatrici, ma è vicino ad esser punito per l’uccisione della madre. Si legge nell’atto primo un breve dialogo di Elena e di Elettra sua nipote, le quali si motteggiano in una maniera poco conveniente al tragico decoro. Nel terzo si dipinge l’Assemblea Argiva, la quale par che alluda all’Areopago di Atene, {p. 96}e vi si satireggiano di passaggio alcuni oratori contemporanei del poeta, circostanza per noi perduta ma importante per chi allora ascoltava. Vi si osservano da per tutto tratti assai popolari, quasi comici, e lontani di molto dal gusto moderno. Ma la scena di Elettra con Oreste nell’atto quarto sommamente tenera merita di essere ammirata come degna di sì gran tragico. Vaga parimente è l’amichevole contesa di Pilade e di Oreste.

Ifigenia in Aulide è uno degli argomenti da Euripide maneggiati con forza e bellezza maggiore. Vi trionfa per ogni parte la maravigliosa sua maestria nel trattar gli affetti che destano la compassione. Chi ha giudizio, gusto e sensibilità noterà il dilicato contrasto che fanno nell’atto terzo le innocenti naturali domande d’ Ifigenia, e le risposte equivoche e patetiche di Agamennone, la di lei sincera gioja nell’abbracciare il padre, ed il profondo dolore di costui nascosto sotto l’esteriore serenità e allegrezza forzata71. Voglionsi appunto osservar {p. 97}negli antichi questi bei tratti per ravvisarne l’alto ingegno e la maestria, e non già le macchiette d’irregolarità e qualche accidentale espressione poco pensata. E’ questo il fuoco elettrico rinchiuso nelle loro opere, il quale non iscintilla per chi non lo cura o non sa l’arte di farlo scappar fuori. Io compiango coloro che ne giudicano con questo entimema, le nostre principesse non fanno così, dunque gli antichi offendono il decoro. L’azione di questa tragedia acquista dal principio dell’atto quarto gran calore e movimento per l’avviso dato dallo schiavo a Clitennestra e ad Achille. Vigorosa è quì la declamazione della regina, ed il discorso d’Ifigenia tenero e patetico e sostenuto da un vivo continuo interesse, benchè cominci con una spezie di rettorico esordio, augurandosi ella l’ eloquenza di Orfeo e l’arte onde egli seppe costringere i sassi a seguitarlo. Lodovico Dolce ha mitigato in parte quel cominciamento: ma la sua versione, benchè per più riguardi degna di lode, riesce quasi sempre languida e snervata, perchè al traduttore molto mancava del calore che riscaldava l’immaginazione del tragico Greco. Se Agamennone dovea piegarsi e cangiar consiglio, per questo bellissimo discorso il dovea, nel quale la figliuola gli mette innanzi le più tenere memorie. Eccone una parte adombrata comunque siasi in questa mia traduzione:

{p. 98}
Poichè altro non poss’ io, vedi il mio pianto,
Vedimi a’ piedi tuoi. Deh padre amato,
Non far che acerba senza colpa io pera.
Dolce è la vita, i rai del dì son dolci.
Guardami, caro padre, io quella sono,
Che a profferir di padre il dolce nome
Primiera appresi, quella a cui tu prima
Figlia dicesti; guardami, son io.
Me nel tuo grembo pria d’ogni altro assisa
Scherzar vedesti e a me dicevi allora:
Deh quanto fia che a nobile consorte
E di me degno e di fortuna amico
Ti vegga unita trarre i dî felici?
No, caro padre (io ti dicea pendendo
Da le tue guance ch’oggi ancora io tocco)
Non fia mai ver che in vecchia età ti lasci.
No, no, teco io vivrò: tu mi nutristi,
Io curerò di te, finchè avrò fiato.
Oimè! de’ nostri detti io mi sovvengo,
Tu l’obbliasti, e vuoi ch’estinta io cada!

Segue ella sempre con egual vigore a pregare il padre, ricercandogli in mille guise le vie del cuore; ma nulla ottiene. Al fine Agamennone benchè addolorato risolutamente le dice, κἂν ϑέλω, κἂν μη ϑέλω, voglia io o non voglia, non per Menelao, ma per la Grecia tutta son costretto a sacrificarti. Partito il re, l’ espressione d’Ifigenia è degna di notarsi. La madre ha detto: ah figlia, ah madre sventurata per cagione della tua morte; ed ella ripiglia: la medesima {p. 99}misura di versi conviene allo stato mio, o come traduce il dotto P. Carmeli:

Ahi sventurata anch’io,
Poichè lo stesso carme
Per la sciagura d’ambe
A noi convien.

Soggiugne a ciò l’erudito Brumoy: l’autore dee mai mostrarsi inteso di parlare in versi? Ma l’espressione Greca è figurata, e ve ne ha delle simili altrove. Euripide stesso dice nell’ Ecuba: incomincio il canto delle baccanti, cioè, prorompo in querele da forsennata. Non debbesi adunque l’espressione d’Ifigenia tradurre letteralmente per la stessa misura di versi, ma sì bene per lo medesimo lamento, come ben fece il Dolce:

Madre misera madre,
Posciachè questa voce
Di misero e infelice
Ad ambedue conviene.

Nuovo movimento acquista l’azione nella scena delle donne con Achille, ed il patetico delle preghiere di Clitennestra e la pietà che ne mostra quell’eroe, si converte in ammirazione per lo cangiamento d’Ifigenia. Ella durando il loro dialogo dovette mostrarsi sospesa e agitata da varj pensieri sulle conseguenze della difesa che di lei vuol {p. 100}prendere Achille. Una muta rappresentazione sommamente eloquente non veduta da’ semplici gramatici e da’ freddi critici, a’ quali fa uopo che sieno materialmente siffatte cose accennate in note marginali, dovette allora far comparire nel volto d’Ifigenia la riflessione del pubblico interesse che a lei sopravvenne e si contrappose al primo terror della morte. Or questo salva il poeta dalla pedantesca censura dell’ineguaglianza del carattere d’Ifigenia, che alla prima piange e prega per sottrarsi alla morte, e poi si offre vittima volontaria del pubblico bene, per acquistare, giusta la traduzione del Dolce,

Ne’ secoli futuri onore e gloria.

Un’ altra apparente opposizione sogliono fare i poco esperti al carattere di Achille, per essersi prima mostrato tutto fervoroso a difenderla, e per soffrirne poi pacificamente il sacrifizio senza nulla tentare in di lei prò. Achille avea promesso di salvarla dalla violenza; ma quando ella si offre di buon grado alla morte, secondo i principj della religione pagana non gli era lecito più di liberarnela senza esser sacrilego, e quindi desiste dalla promessa difesa. Segue a ciò una scena assai patetica, in cui Ifigenia rassegnata a morire prendre congedo dalla madre che le va rammentando i suoi più cari. {p. 101}Finalmente con somma perizia de’ moti del cuore umano questo grande ingegno mostra l’immenso dolore del padre più eloquentemente di quello che avrebbero fatto i moderni declamatori teatrali. Il Dolce così l’espresse:

Poichè fu l’innocente al loco giunta,
Dove i Greci facean larga corona
Al nostro re, come venir la vide,
Benchè fuori di tempo e troppo tardi,
Da paterna pietà gelossi il sangue,
E la pallida faccia addietro volse,
Indi col manto si coperse il volto.

Timante quel Greco pittore tanto vantato da Cicerone trasportò nel suo famoso quadro questa felice situazione. Volle ancora il celebre Racine conservarla nella sua Ifigenia. Ma egli rappresenta un’ armata divisa in due partiti pronti ad assaltarsi, uno de’ quali è retto dall’iracondo Achille. Ora in tal congiuntura la situazione di Agamennone che si cuopre il volto, è perduta, e debbe parer men bella e men propria. Essa ci fa vedere un Generale pieno del suo privato dolore, che si ricorda di esser padre e s’indebolisce in sì pericolosa occasione. Sembra anche una contraddizione del di lui carattere, perchè da per tutto si è dimostrato più ambizioso che tenero, e per ritenere il comando ed il titolo di re de’ re, era condisceso {p. 102}a sacrificar la figliuola. Si osservi come in varie scene e ne’ cori Euripide si vale di una misura di versi più corta come più idonea ad esprimere il dolore; e Lodovico Dolce ha seguitato in ciò l’originale, come ha pur fatto il P. Carmeli. Non è improbabile che gli atti di questa tragedia sieno sei, e che il quinto termini dopo la tenera scena dell’ultimo addio della madre e d’Ifigenia, colle parole che questa dice alle fanciulle perchè cantino in onore di Diana nella sua disgrazia. Non si vede però allora eseguito questo canto, e pare che vi manchi il coro. In tal caso l’atto sesto comincerebbe dalla nuova uscita d’Ifigenia Ἅγετε με, conducete me; o pure terminerebbe il quinto col coro Ἰὼ, Ἰὼ ἲδεστε, ahi, ahi, vedete, ed il sesto conterrebbe il racconto che fa il Nunzio a Clitennestra e la venuta di Agamennone che lo conferma. Il Carmeli conservando la divisione in cinque atti non solo racchiude nel quinto soverchie cose, ma lascia pochissimi versi cantati dal coro frall’incaminarsi d’Ifigenia al sacrifizio, e la venuta del Nunzio che racconta l’avventura già seguita, per la quale manca il tempo che dovea correre verisimilmente per tante cose narrate.

Ifigenia in Tauride rappresenta la riconoscenza di Oreste colla sorella sul punto di esser da lei come sacerdotessa sacrificato, e la fuga che eseguiscono seco loro menandone la {p. 103}statua di Diana Taurica. E’ da notarsi in tal tragedia la tenera scena di amicizia tra Pilade ed Oreste, colla quale termina l’atto terzo senza coro. Maneggiata poi con gran delicatezza e giudizio è la bellissima riconoscenza per mezzo della lettera che Ifigenia pensa di mandare in Grecia ad Oreste. Fra quante agnizioni si sono esposte sulla scena, questa ad Aristotile parve una delle eccellenti, ed a noi parimente pare la più verisimile, la più vivace e la più acconcia a chiamare l’attenzione dell’uditorio e a tenerlo sospeso. Osserviamo in questa favola che dopo la scena d’Ifigenia e Toante, il coro canta solo nella scena quarta dell’atto quinto, Celebriamo le lodi di Febo e di Diana. Or non sarebbe questo il finale di un atto? Allora potrebbe la tragedia dividersi in quattro atti così: il primo composto del primo e del secondo della prima divisione terminerebbe col canto del coro, O rupi Cianee che congiungete i mari; il secondo conterrebbe il terzo ed il quarto terminando col coro che incomincia, Tenero augelletto che errando vai; il terzo terminerebbe col coro sopraccennato della quarta scena dell’atto quinto; ed il quarto comincerebbe dalla scena quinta. Ma la divisione degli atti non mi sembra la cosa più essenziale per conoscere l’eccellenza degli antichi tragici. E che importa che una situazione ben dipinta si collochi più in uno {p. 104}che in altro atto, purchè sia ben preparata, e se ne comprenda tutta l’arte e la vaghezza? Egli è vero che il noto traduttor de’ Salmí e il degno autor delle Probole il Signor Mattei stima tal divisione così importante che al suo dire niuno Europeo ha capito ancora che cosa sieno le tragedie Greche, perchè niuno, a suo credere, le ha ancora ben divise. Ma queste esagerazioni enfatiche oggi fanno poca fortuna, e si comparano alle precauzioni che prendevano i sacerdoti gentili per accreditare i loro responsi e venderli per oracoli celesti.

Nella tragedia intitolata Elena si tratta di Elena virtuosa in Egitto, secondo ciò che ne racconta Erodoto72. Vi si maneggia la fuga di Menelao con quest’Elena ingannando astutamente Teoclimene che n’era innamorato. Per la disposizione sembra questo dramma gettato nella stampa dell’Ifigenia in Tauride; ma a mio giudizio cede a questa assai in patetico, in moto, in nobiltà, e in interesse.

Nell’Alcestide che si offre vittima volontaria alla morte in cambio di Admeto suo marito, desidererei che gli stupidi biasimatori degli antichi leggessero attentamente l’atto secondo per apprendervi a dipingere {p. 105}la natura con forza e vivacità (Nota XIV). Alcestide moribonda indi senza vita, i suoi figli, il marito, il coro, formano un quadro così compassionevole che farà cader la penna dalla mano a chi oggi voglia esercitarsi nella tragica poesia. Il contrasto però di Admeto col padre, e i rimproveri ch’egli fa a quel povero vecchio cui non è bastato l’animo di morire in vece del figlio, potevano forse tollerarsi presso i Greci, ma fra noi sembreranno sempre ingiusti, inurbani e in niun modo tragici. Non per tanto si dee riflettere che Euripide era un gran maestro, nè avrà egli presentato a’ suoi compatriotti una cosa che potesse contraddire ai loro costumi e alle passioni dominanti di que’ tempi.

Ippolito coronato produsse al poeta la corona tragica sotto l’Arconte Epamenone nel terzo anno della guerra del Peloponneso avendo Euripide trentacinque anni. Contiene la morte d’Ippolito per la falsa accusa di Fedra sua madrigna ed amante. S’inganna però chi crede che si dicesse coronato Στεϕκνηϕορος, dalla corona riportata dal poeta. Altre favole conseguirono la corona teatrale ne’ giuochi Olimpici o in Atene, e niuna si vede che ne avesse tratto il nome di coronata. Ippolito dopo il prologo viene in teatro con una corona in testa che indi offerisce a Diana, e per questa corona che egli porta, ricevè quell’aggiunto, della {p. 106}stessa maniera che l’Ajace di Sofocle s’intitolò Μαςτιγοϕορος per la sferza che egli portava in iscena. Nell’atto primo partito Ippolito resta solo il coro e si trattiene fullo stato di Fedra; or non potrebbe esser questa la fine dell’atto? Ma vi è attaccata anche la scena di Fedra, la quale naturalmente par congiunta colla prima dell’atto secondo. Quella felice distrazione di Fedra egregiamente dipinta dal Racine Dieu que ne puis-je assise, è una bellezza originale di Euripide. Fedra in mezzo alle donne del coro, assistita dalla nutrice, piena della propria passione, distratta, fuor di se, secondo la mia versione, favella in Euripide in tal guisa:

Fed.

Ah perchè non poss’ io spegner la sete
Nell’onda pura di solingo rio?
Perchè sul verde prato al rezzo assisa
I miei mali ingannar non mi è concesso?

Nut.

Che mai ragioni, o mia Regina? Ah pensa
Chi ti ascolta, ove sei: scopron que’ detti
Le tempeste del cuore,
De la mente i delirj.

Fed.

Al monte al monte:
Seguiam la traccia de’ fugaci cervi:
Giova aizzare il cacciatore alano
Col grido eccitator, Tessalo dardo
{p. 107}
Brandir, lanciar ver la tremante preda.

Nut.

Deh ritorna in te stessa: in quai ti perdi
Vani pensieri! oimè! cacce, foreste,
Ombre, ruscelli .... A queste torri appresso
Limpidi fonti non vi sono e piante?

Fed.

Dive di Linna, a presedere elette
A l’esercizio de’ corsieri ardenti,
Deh perchè non poss’ io con questa mano
Generoso destrier domare al corso?

Nut.

Ma, Principessa, ancor vaneggi? I cervi
Ora inseguivi per le alpestri rupi,
Or domi al piano un corridore? Un dio
Un dio nemico t’agita e confonde.

Fed.

Misera me! che parlo? Ove son’ io?
La ragion mi abbandona, è vero! Un nume
Avverso e crudo me la toglie! Ah sono
Pur sventurata! Ti avvicina, amica,
Ricomponi i miei veli onde mi avvolga.
Di me stessa ho rossor: coprimi, dico,
Nascondi agli occhi altrui questo che il volto
M’inonda e bagna involontario pianto.
Sento che avvampo di vergogna. O cruda
E pur cara follia! L’error mi piace;
La ragion mi rattrista. Ah cedi al fato,
{p. 108}
Cedi, meschina, al tuo delirio e mori.

La scena dell’atto secondo, in cui Fedra manifesta alla Nutrice la cagione del suo male, fu ancora trasportata quasi interamente dal Racine, a riserba di uno squarcio molto delicato, dove Fedra risponde alle istanze della Nutrice:

Ah prevenirmi perchè mai non puoi?
Perchè non dir tu stessa
Ciò che forza è scoprire?

Per altro l’illustre tragico Francese scorre più rapido e con maggior nerbo, nè si ferma come fa Euripide a far dire da Fedra alla Nutrice, sai tu che mai sia una certa cosa che si chiama amore? e giudiziosamente si appiglia subito a quelle parole, Conosci tu il figlio dell’Amazone? Anche la scena di Teseo e Ippolito dell’atto quarto è stata copiata maestrevolmente dal Racine; ma la Greca riesce più tragica e importante per lo spettacolo di Fedra morta. Racine in somma si è approfittato da grande ingegno della tragedia Greca; ma avendo preso un camino alquanto differente, ne ha dovuto perdere non poche altre bellezze, come il dolore di Teseo per la morte di Fedra, e la tragica scena d’Ippolito moribondo. Il racconto della di lui morte è vagamente ornato ma sobrio e naturale nel {p. 109}Greco, e presso il Racine è soverchio pomposo e poetico. Osserva il lodato Brumoy che all’incontro del mostro il poeta Greco pieno del terrore che ne presero i cavalli, non presta al suo Ippolito altro pensiero se non se quello di governarli: Seneca gli diede maggior coraggio facendolo disporre ad assalire il mostro: Racine passa più oltre, e fa che arrivi a lanciare un dardo e lo ferisca. Nel che (soggiugne quell’erudito) si scorge il progresso della mente umana che tende sempre alla perfezione. Io ardisco dissentire dal di lui avviso. Ognuno de’ tre potrebbe trovare qualche partigiano che ne approvi l’immagine che rappresenta, ma il Greco a me sembra assai più internato nella verità dell’orribil caso. E questo ci addita lo spirito de’ Greci ognora intento a copiare con esattezza la natura, e lo spirito de’ moderni propenso a spingerla oltre, a manierarla, a preferire al vero lo specioso. Questo confronto degli autori antichi e moderni in un medesimo argomento è il vero modo di pesarne il merito rispettivo, e di studiare nel tempo stesso l’arte drammatica con fondamento. In simil guisa si rileva l’ artificio usato da diversi scrittori nel maneggiare le passioni, materia essenziale della poesia drammatica che non varia per tempo nè per luogo. Il tacciar quelli o questi per le maniere, per un decoro locale, variabile e incostante, al pari della {p. 110}moda (siccome fanno certi critici moderni) è un far la guerra agli accidenti e sfuggire la sostanza della contesa, è un volere allucinar volontariamente se stessi e chi loro crede. Di grazia quando anche accorderemo a Udeno Nisieli, al Signor di Calepio e ad ogni altro, che Ippolito trafitto dalla sventura che soffre immeritamente, sia trascorso in una espressione che sente alcun poco d’irreligione verso gli dei, che cosa avremo appreso de’ pregi inimitabili di questa bella tragedia? I giovani non ne sapranno che un neo forse in parte scusabile per la veemenza della passione che rare volte lascia all’uomo tutto l’uso della sua ragione; e forse da queste critiche esagerate su i difetti più che su i pregi degli antichi proviene la moderna non curanza delle favole Greche e l’idolatria per le romanzesche degli ultimi tempi.

Con altro disegno leggeva i Greci il saggio Racine e ne ritrasse il vantaggio di rendersi superiore a tanti e tanti tragici. Con altra ammirazione e imparzialità giudicano de’ Greci i veri dotti e i critici profondi. Rechiamo l’eccellente parallelo fatto dal chiar. Ab. Le-Batteux dell’Ippolito di Euripide e della Fedra del Racine73. Osserva {p. 111}in generale che la tragedia Francese è più complicata, più involta in vicende, in intrecci, in episodj, che la Greca. Essa ha più parti, e queste hanno bisogno di maggior arte per conciliarsi insieme, e quindi riesce più difficile il formarne un tutto naturale. Vi entra maggior numero di passioni, alcune delle quali punto non sono tragiche. L’anima di chi si trattiene negli spettacoli moderni è così sovente sollevata dall’ ammirazione e dall’entusiasmo che abbattuta dal terrore e dalla pietà; sente in somma la sua forza mentre indi a poco si accorge della sua debolezza. Non è così della tragedia Greca, la quale sembra odiare tutto ciò che può distrarre dal dolore. Dessa è perfettamente semplice. Una sola azione incominciata dal punto che può interessare si estende dal principio al fine, si avanza, s’imbarazza, scoppia finalmente, diremo così, pel fermento di certe cagioni interne, dalle quali gli effetti si disviluppano con diverse scosse sino alla catastrofe74. “Tutto {p. 112}(prosegue il Signor Le Batteux) vi si trova disposto come nella natura. Non dee lo spettatore affaticarsi, non esercitare il suo ingegno. Il dolore nella natura si abbandona a se stesso e non ha più forza, e lo stesso dee seguire nelle opere dell’arte emule di quelle della natura”. Entra poscia l’erudito autore nel confronto delle due bellissime tragedie. Rende egli i dovuti elogj alla Fedra, ma conviene ancora che l’azione dell’Ippolito sia una ed unica, e che tutto vi succeda con maggior verisimiglianza. Racine congiunge all’azione principale l’azione episodica d’Ippolito e di Aricia che comprende più di quattrocento versi. Due amori, due confidenze, due dichiarazioni d’amore l’una accanto all’altra. Nell’Ippolito non si ragiona della morte di Teseo. Questa morte non è in verun modo preparata nella Fedra, nè produce altro effetto che d’ incoraggire la regina a dichiarare ad Ippolito il suo incestuoso amore. Più decenza {p. 113}in Euripide che in Racine. Fedra appresso il Greco confessa il suo amore non come una passione ma come un delitto. Ed il segreto è svelato ad Ippolito dalla Nutrice non ostante il divieto di Fedra. Questa non soffre avanti i suoi occhi il rifiuto, e l’ascolta senza essere veduta. Presso il Francese la stessa Fedra confessa una passione sì vergognosa, la confessa innanzi a tutti gli spettatori sposa del padre al figliuolo, e nel primo istante che si crede morto il marito. Euripide ha saputo conservare il pudore del poeta e degli attori. In Racine l’interesse dominante si divide tra Fedra, Ippolito e Teseo: in Euripide è tutto per Ippolito dal principio al fine. Tutto è lagrime in Euripide: lagrime di Fedra, lagrime d’Ippolito, lagrime di Teseo, lagrime del Coro e della Nutrice: tutto spira dolore e tristezza, tutto è veramente tragico. Il dramma di Racine è una serie di quadri grandi di amore: amor timido che geme, amore ardito e determinato, amor furioso che calunnia, amor geloso che spira sangue e vendetta, amor tenero che vuol perdonare, amor disperato che si vendica sopra se stesso: ecco la tragedia di Racine. Altrettanti quadri si trovano nell’Ippolito; ma quanto più sostenuti, quanto più austeri! I caratteri quanto non sono più virtuosi e più nobili nella {p. 114}tragedia Greca! Niun tratto, niun movimento, niun dialogo che raffreddi la pietà degli spettatori, Giovane, ornato di nobili costumi, sofferente nella calunnia senza accusare il calunniatore, rispettoso e tenero col padre benchè ingiusto, Ippolito non lascia un sol momento di agitare e tirare a se tutti i cuori sensibili. Fedra in Racine per varie ingiustizie e violenze intepidisce la compassione, ed il poeta con arte somma si affanna per coprirne e discolparne i difetti. Teseo attrae a se tutto l’ interesse dell’atto terzo. L’amore d’Ippolito per Aricia vietato dal padre quanto non toglie al carattere del giovane eroe, virtuoso sempre, sempre degno di compassione in Euripide, debole qualche volta, qualche volta ozioso nel poeta Francese!” Termina Le Batteux questo giudizioso eccellente parallelo con attribuire alle nazioni il diverso carattere dell’uno e dell’altro poeta. “L’amico di Socrate non sarebbe stato mai così mal accorto di presentare ai vincitori di Maratone e di Salamina un Ippolito amoroso ed avido d’intrighi. Il poeta Francese ha dovuto lusingare la debole delicatezza della sua nazione; ed Euripide nelle stesse circostanze non si sarebbe altrimente comportato, ed avrebbe avuta la stessa indulgenza per un popolo che dovea essere il suo giudice.”

{p. 115}

Questo esame ben degno della dottrina, del discernimento e del buon gusto del celebre autore delle Belle Arti ridotte a un principio, compensa solo tutte le fanfaluche affastellate lungo la Senna contro gli antichi dal Perrault, La-Mothe, Terrasson e dal Marchese d’ Argens, il quale colla solita sua superficialità e baldanza asseriva che i poeti tragici Francesi tanto sovrastano agli antichi, quanto la Repubblica Romana del tempo di Giulio Cesare superava in potenza quella che era sotto il Consolato di Papirio Cursore. Aggiungiamo qualche sentenza sparsa nel Saggio sul Gusto di Cartaud de la Vilade, affinchè il leggitore, dopo avere ammirato nel bel parallelo surriferito un prezioso monumento del buon gusto e del giudizio degli ottimi critici della Senna, possa divertirsi con un piacevole contrasto del gusto vero col fantastico, di una scelta erudizione colla leggerezza, e del dotto Le Batteux col bello-spirito La Vilade. Questo moderno derisore degli antichi si mostra nauseato di quell’Ippolito che Euripide ci dipinse, sembrandogli un Cavaliere fort peu galunt; e per maggior trastullo di chi ciò legge dice (pag. 48) colla solita sua sicura lettura e martellata erudizione, che questa tragedia è di Sofocle. Avventuratamente però per Ippolito La Vilade non ragiona con più fondamento e dottrina sull’Achillè dell’Ifigenia, supponendolo un innamorato, {p. 116}e trovando nella di lui passione un accento soprammodo grossolano. Si consolino intanto questi Greci Principi, e con loro Omero tacciato di non aver saputo descrivere i giardini di Alcinoo secondo il gusto di quelli di Versailles, perchè questo formidabile Gradasso non tratta con maggior gentilezza il resto de’ Greci, de’ Latini, degl’ Italiani, degli Spagnuoli e degli Inglesi. Per lui Erodoto narra da uomo ubbriaco; Tucidide è pieno di difetti essenziali e di racconti fuor di proposito, senza piano e senza verisimilitudine nelle aringhe; Polibio non è un storico, ma una spezie di parlatore che fa riflessioni sulla storia; gli Oratori Greci, senza eccettuarne Demostene, sono spogliati di ogni savia economia necessaria a condurre gli animi allo scopo prefisso; Pindaro è un poeta volgare e senza entusiasmo; Pitagora ed Archimede fanciulli in matematica incantati per la novità ad ogni picciolissimo oggetto. Questo Saggio che ben può chiamarsi del mal gusto e dell’imperizia di Cartaud, si accompagni colle sessanta pagine del Cavalier di Saint-Mars sopra la letteratura degli antichi. Per quest’originale de’ Marchesini della scena Francese le Ode di Orazio Flacco sono più oscure della notte, cattive, insoffribili, le di lui Satire e l’Arte Poetica un ammasso di nojosità, mostruosità e disordini. Egli ammirava la pazienza de’ Romani nell’ascoltare {p. 117}Cicerone chiacchierone che non la finisce mai; essi doveano (aggiugne) aver la testa d’ une furieuse trempe per resistere a un torrente di loquacità che nulla dice . . . . Ma è dunque una fatalità che gli antichi e chi gli ammira, abbiano ad esser perseguitati dai più ridicoli e dai più sciocchi delle nazioni moderne?

Varj argomenti ha somministrato ad Euripide la Guerra Trojana e gli eventi che ne dipendono. Oltre alle Ifigenie ed Elena, egli scrisse Ecuba, Andromaca, le Trojane e Reso che ci sono pervenute intere, e Palamede, Filottete, i Trojani, delle quali rimangono pochissimi frammenti. L’Ecuba si aggira sulla morte di Polissena e sulla vendetta dell’assassinamento di Polidoro. Parmi in essa singolarmente eccellente la scena di Ulisse con Ecuba e Polissena nell’ atto primo, dove coloro che intendono ed amano le dipinture naturali, si sentiranno, scoppiare il cuore per la pietà. Nel patetico racconto della morte di Polissena nell’atto secondo si ammirano varj tratti pittoreschi e tragici, come il nobile contegno di Polissena, che non vuole esser toccata nell’attendere il colpo: il coraggio che mostra nel lacerar la veste ed esporre il petto nudo alle ferite,

Ella poichè si vede in libertate
Volgendo gli occhi in certo atto pietoso,
{p. 118}
Che alcun non fu che i suoi tenesse asciutti,
La sottil vesta con le bianche mani
Squarciò dal petto insino all’ombilico,
E il suo candido seno mostrò fuori:

e finalmente l’atto grande e nobile di cadere con decenza dopo il colpo così espresso dal Dolce, cui appartengono anche i versi precedenti,

Cadd’ ella e nel cader mirabilmente
Serbò degna onestà di real donna.

Le riflessioni morali di Ecuba su i buoni e i cattivi, sull’educazione e la nascita, dopo tal funesto racconto, sembrano per altro intempestive. Serpeggia per tutto il dramma una forza tragica terribile; ma nell’atto terzo si tratta della morte di Polidoro, per la quale l’azione è manifestamente doppia, benchè tutta si rapporti ad Ecuba (Nota XV). Nella scena in cui le si enuncia la morte di Polidoro, osserva Brumoy che vi sono sparse alcune strofette, alle quali forse si congiungeva una musica più patetica. Le comprese il Dolce, e seguì l’originale, traducendole in versi più piccioli; la qual cosa con pace del Signor Mattei, fa vedere che gl’ interpreti de’ tragici Greci compresero il loro artificio per ciò che la musica riguarda. Egli stesso non fece di più nel tradurre questa medesima scena in {p. 119}maniera diversa dalla Salviniana. Non saprei però dissimulare che il terzetto preteso vi si è formato a piacere nella guisa che potrebbe formarsi, volendosi, anche nelle tragedie Inglesi o Russe, non che nelle Greche. Tale terzetto poi secondo me rallenta l’impeto della passione espressa con veemenza dopo le parole καταρχομαι νόμων Βακκειον, incipio numeros Bacchicos, o come traduce Erasmo, cantionem Mænadum ingredior, e dal Sig. Mattei amplificate, benchè con minor precisione. Egli dice:

Son io? vaneggio?
Qual furor mi trasporta? E’ cruda furia
Questa che il cor, la mente, infiamma, accende,
Lacera e squarcia? Io fuor di me già sono,
Comincio a delirar.

Dopo ciò mi sembrano ben freddi i versi da’ quali comincia il terzetto,

Dunque è ver? o questo è inganno.

A un furor da baccante che trasporta Ecuba fuori di se, far succedere un dubbio sul fatto? Ma questo dubbio corrisponde al senso ed alla lettera dell’originale? Ecuba con tutta sicurezza del suo infortunio e con enfasi afferma che vede una strage inopinata, incredibile, tutta nuova. Or perchè cambiar questo pensiero in peggio? Non crederei {p. 120}che il Sig. Mattei peritissimo nella Greca lingua e nel modo d’interpretarla, si fosse fatto ingannare dalla voce απιστα, quasi che Ecuba non credesse vero quel che avea sotto gli occhi. Sa egli bene che questa voce quì manifesta l’enorme, atroce, stupenda serie di disgrazie che l’opprime. Osserviamo in oltre che ne’ Greci i cantici per l’ordinario non hanno luogo se non conosciuta perfettamente la sventura. Ma in questo squarcio che si è voluto convertire in terzetto, si va cercando ancora l’autor della morte di Polidoro. Ecco come traduce il citato Erasmo poco allontanandosi dagli altri interpreti:

  Quo jaces
Fato? peremit te quis?

Fam.

Me latet; at hunc in littore offendi maris.

Hec.

Ejectum ab undis, an trucidatum manu?

Fam.

In littus arenosum
Marinus illum fluctus aestu ejecerat.

Hec.

Hei mihi ecc.

Tutto ciò nell’originale è parlante, e (secondochè oggidì si maneggia in teatro la musica, e si maneggerà finchè il sistema non ne divenga più vero) sarebbe anche ora contrario all’economia musicale il chiudere simili particolarità in un duetto o terzetto serio, perchè essi, a giudizio del celebre Gluck, abbisognano di passioni forti per dar {p. 121}motivo all’espressione della musica. I cori di questa tragedia sono tratti dal soggetto e pieni di passione non meno che di bellezze poetiche. Veggasi quello dell’atto primo, in cui le schiave Trojane sollecite del loro destino vanno immaginando in qual parte toccherà loro in sorte di essere trasportate75. Quello dell’atto terzo mi sembra il più patetico, ed il Dolce ne ha fatto una troppo libera imitazione. A noi piacque di tradurlo ancora, ed affinchè i giovani avessero una competente idea de’ cori di Euripide, c’ingegnammo di ritenere un poco più le immagini e lo spirito dell’originale senza violentare il genio della nostra lingua:

Patria (ahi duol che ne ancide!) Ilio superbo,
Or più non fia che a le nemiche genti
{p. 122}
Inaccessibil rocca Asia ti appelli,
Che già di greche squadre un nuvol denso
Ti copre, e cinge, e desolata e doma
E vinta giaci, e de le altere torri
Già la corona in cenere conversa
Nereggiano de’ muri i sassi informi
D’orride strisce di fuligin tinti.
Ahi più non ti vedrò! mai più le vaghe
Tue spaziose vie
Non calcherà il mio piè! Memorie amare!
Avea mezzo il camin la notte scorso,
Quando fin posto a le solenni danze
E a’ lieti canti, un placido sopore
Aggrava le pupille. Inerme ingombra
Già il mio consorte le sicure piume;
Nè a’ lidi intorno pei Trojani campi
Surgon le Argive tende. Io che raccolte
Le sparse trecce e in vago giro avvinte
Entro bende notturne, il mar mirando,
Al geniale talamo mi appresso,
Arme arme, ascolto in marzial tumulto
Per la Frigia città gridar repente;
Cessate, o Greci? Ah se veder vi è caro
Le native contrade, ite, abbattete,
Cada il forte Ilione . . . Il dolce letto
Lascio allor sbigottita in lieve avvolta
Semplice gonna: di Diana all’ara
Mi prostro, e piango, oh vani prieghi e pianti!
Tratta per l’onde io son, misera, e veggio
Trucidato il consorte, acceso il cielo
Di funeste faville, Ilio distrutto,
E le vele nemiche ai patrii liti
{p. 123}
Pronte a tornar, e dall’Iliaco suolo
A svellermi per sempre! Il duol mi oppresse,
Caddi abbattuta, mille volte e mille
Elena detestando e il suo rattore,
E le adultere nozze, e di un avverso
Genio persecutor l’odio potente,
Che l’avito terren m’invidia e fura.
Deh la femmina rea sempre raminga
Erri in balìa de’ minacciosi flutti,
Nè i patrii tetti a riveder mai giunga.

L’Andromaca di Euripide non contiene l’azione dell’ Andromaca di Racine; perchè questa è la vedova di Ettore che teme per la vita di Astianatte, e nella tragedia Greca è la stessa Andromaca, ma già moglie di Pirro, che teme per la vita di Molosso avuto da questo secondo matrimonio. Oggi desta più compassione il nobile dolore di Andromaca vedova di Ettore, che la semplicità di Andromaca moglie di Pirro. È notabile nella tragedia di Euripide il carattere di Ermione renduto poi senza dubbio dal Racine più delicato e diventato ognor più vero, attivo, vigoroso nell’ambiziosa Vitellia del Metastasio. Non sono più tollerabili sulle nostre scene le ingiurie scambievoli di Andromaca ed Ermione presso Euripide. Osservisi ancora che nell’atto quarto Ermione e Oreste fuggono da Ftia per andare a Delfo ad uccider Pirro, e nel quinto si narra in Ftia questa uccisione già avvenuta {p. 124}in sì poco tempo, e vien portato il cadavere di Pirro, la qual cosa sembra sconcezza che offende ogni verisimilitudine.

Nella tragedia intitolata le Trojane si tratta la morte di Astianatte insieme col destino delle prigioniere fatte in Troja. Le profezie di Cassandra nell’atto secondo, e l’addio che Ella dà alla madre e alla patria, sono degne di osservarsi, e rassomigliano in parte a quelle di Eschilo nell’Agamennone. Squarcia poi i cuori ancor meno sensibili il dolore di Andromaca nell’atto terzo al vedersi strappar dalle braccia Astianatte. Ma le traduzioni non giungono a farne conoscere tutto il patetico, e molto meno questa nostra che si ristrigne a un solo passo spogliato della situazione della scena:

Figlio, viscere mie, da queste braccia
Ti svelgono i crudeli. Ah tu morrai,
E di tuo padre il nome
Che tanti ne salvò, ti fia funesto.
A che sei tu d’Ettore figlio, io sposa?
Per dominar sull’Asia,
Non per morir tra’ barbari sì presto,
Credei produrti, o figlio ... Oh Dio! tu piangi?
Prevedi il tuo destin. Perchè mai stringi
L’imbelle madre tua, e ti raccogli
Nel seno mio, quale augellin rifugge
Sotto l’ali materne? Ahi non è questo
Più un asilo per te. Morì già Ettorre,
Nè dall’avello, per serbarti in vita,
{p. 125}
Fia che risorga. Di sostegno privo,
In man del crudo inesorabil Greco,
Chi può rapirti al precipizio orrendo?
Ahi dolce oggetto de’ timor materni,
A ciò ti porsi il seno e del mio sangue
Io ti nutrii? . . . . Vieni, ben mio, ricevi
Gli ultimi amplessi; i tuoi sospiri estremi
Fa ch’io raccolga . ., Oh barbari, spietati,
Inumani, tiranni, e che vi fece
Un misero fanciullo? Il furor vostro
A disarmar non giugne
Quella tenera età, quell’innocenza?
O al vinto e al vincitor fatale agnora
Elena, furia a’ Greci e a’ Frigj infesta.

Reso è una tragedia senza prologo, e senza que’ tratti patetici proprj di Euripide, ma in contraccambio ha molta arte nel dialogo e aggiustatezza nella distribuzione dell’azione, particolar pregio di Sofocle; per il che pretende alcuno che ad esso e non ad Euripide appartenga, benchè altri, come Samuele Petito, la toglie ad ambedue attribuendola a un tragico loro contemporaneo chiamato Aristarco, e Scaligero ne fa autore un altro ancor più antico76. Non {p. 126}è però il parere men sicuro quello del Barnès e del Carmeli che la stimano di Euripide, se si attenda tanto al vecchio consentimento di moltissimi critici che la noverarono sempre tralle di lui tragedie, quanto alle molte espressioni del Reso famigliari a questo tragico. L’argomento è lo strattagemma di Ulisse che con Diomede ammazza questo re di Grecia nel campo Trojano. Nell’atto quarto comparisce Minerva ad Ulisse e a Diomede, la quale vedendo sopraggiunger Paride, per salvarli fa che il Duce Trojano travegga, ed ella si fa credere Venere, mentre i suoi favoriti non lasciano di ravvisarla per Minerva. Tali cose allora convenivano a’ principj e alle opinioni de’ Greci, e perciò non parevano assurde e stravaganti. Lo scioglimento avviene per macchina (come in gran parte delle tragedie antiche) per mezzo della musa Tersicore madre di Reso, la quale apparisce in aria sopra di un carro, tenendo il di lui cadavere sanguinoso sulle braccia.

Medea è una delle più terribili tragedie dell’ antichità, donde trassero la materia {p. 127}tante e tante altre che portano il medesimo titolo. Contiene l’atroce vendetta presa da Medea contro Giasone, Creonte e la di lui figliuola. Degno singolarmente di osservarsi è lo squarcio dell’atto quarto, dove Medea intenerita co’ suoi figliuolini gli abbraccia e gli rimanda, gli compiange e gli destina alla morte, ascolta i moti della natura e la tenerezza di madre, e sente risvegliare i suoi furori alla rimembranza dell’infedeltà di Giasone. Il racconto della morte della nuova sposa di Giasone e del di lei padre Creonte è terribile. I figli che cercano scampar dalla madre che barbaramente gl’ inseguisce e gli riconduce dentro e gli trucida, formano un movimento teatrale sommamente tragico. Quello che mai non piacerà in questa favola è il personaggio di Egeo introdottovi senza veruna ragione per preparare un asilo a Medea, della cui salvezza lo spettatore è ben poco sollecito dopo l’orrenda esecuzione della spietata sua vendetta. Ma il poeta diligentissimo in ogni occasione in dar risalto a tutte le remote tradizioni e antichità patrie, non ha voluto omettere il ricetto che Medea trovò presso Egeo. Notisi però che la vendetta da lei presa contro Giasone ne’ proprj figli avuti da lui, non è istorica ma immaginata dal poeta. Medea lungi dall’ ammazzare quegl’ innocenti nell’accingersi alla fuga, gli depositò in Corinto in un tempio {p. 128}supponendolo asilo inviolabile. Ma i Corintii che odiavano questa straniera, gli uccisero, siccome narrano Parmenisco, Didimo e Creofilo presso lo Scoliaste di Euripide sulla Medea; e per ischivar l’infamia che ad essi ne ridondava, si avvisarono probabilmente di guadagnar qualche poeta per attribuirne l’assassinamento alla stessa madre. Carcino tragico anteriore ad Euripide introdusse Medea che si discolpava di tale imputazione77. Ma Carcino non era di tanto credito da distruggere una tradizione istorica sostituendovi una sua invenzione; e perciò non sembra inverisimile che i Corintii avessero ricorso ad Euripide poeta esimio, il quale, sia per dare, a cagione del suo odio naturale contro del sesso donnesco, un carattere odiosissimo a una donna, sia per essersi fatto corrompere con cinque talenti, come asserisce il nominato Parmenisco, compose la sua tragedia, facendo rea la madre stessa dell’uccisione di que’ fanciulli, e la menzogna per l’eccellenza del poeta passò alla posterità come storia. Egli è certo che Eliano78 afferma esser fama anche a’ suoi tempi (fiorendo egli dopo quelli di {p. 129}Adriano) che i Corintii solevano offerire quasi in perpetuo tributo alle ombre di que’ pargoletti certi sacrifizj espiatorj.

Le Fenisse, altra tragedia di Euripide coronata, contiene la morte di Eteocle e Polinice figli di Edipo e Giocasta avvenuta nell’assedio di Tebe. Lodovico Dolce che ne fece una libera imitazione, ne tolse il prologo, e fe che Giocasta narrasse a un servo tutti gli evenimenti passati di Edipo. E perchè narrare al servo ciò che era pubblico e noto ad ogni Tebano? Scarsezza di arte. Vi è poi in Euripide una scena fra un vecchio ed Antigone che da un luogo elevato osservano l’armata Argiva e ne vanno descrivendo i capi, che è una felice imitazione di un passo del terzo libro dell’Iliade, che dal Tasso pur si trasportò nella Gerusalemme. Il Dolce non si curò di questa bellezza, e la sua scena rimane sterile. Nè anche se n’è curato il Signor di Calepio cui sembra inverisimile che Antigone stando sulle mura di Tebe assediata potesse vedere e distinguere i personaggi del campo Argivo e le loro armature. É da credersi che prima di fare questa censura quel dotto critico si sarà assicurato della distanza del campo e dell’altezza delle mura, per convincere d’inverisimilitudine Euripide, Omero e Torquato. La scena vigorosa di Giocasta co i figli è degna di particolar riflessione per la maestrevole dipintura de’ {p. 130}due fratelli ugualmente fieri, ed accaniti nell’odio reciproco, ma di carattere diversi, e per lo dolore interessante della madre che s’interpone, e cerca di contenerli e disarmarli.

Le Supplici si aggirano sulle conseguenze dell’assedio di Tebe, e sulla sepoltura negata da’ Tebani a i Capi Argivi, là dove le Supplici di Eschilo parlano delle Danaidi; pure queste due tragedie hanno tra loro qualche relazione per la condotta. Lo spettacolo della prima scena dovea produrre un pieno effetto. Etra madre di Teseo stà coll’ offerta in mano a piè dell’altare in mezzo a’ sacerdoti: il tempio è pieno di donne che portano rami di olivo: Adrasto Re d’Argo resta nel vestibulo colla testa velata circondato dai figliuolini delle Argive in atto supplichevole. Oltre a molti altri tratti assai patetici, vi si trovano varie allusioni alle Greche antichità e tradizioni; il che, come altrove accennammo non lasciavano di fare i tragici Greci per mostrare la nobiltà remota delle loro leggi ed origini, e de’ loro costumi a gloria della nazione. Nell’atto secondo però Teseo risolve di portar la guerra a Tebe, e appena incominciato l’atto terzo la guerra è fatta e Teseo ritorna vincitore. È egli un miracolo? vi è corso il tempo necessario? È lo stesso difetto di verisimiglianza osservato nell’Andromaca.

{p. 131}

Ercole furioso sino all’atto terzo tratta della giusta vendetta presa da Ercole contro di Lico tiranno e oppressore degli Eraclidi: negli ultimi due atti cambia di oggetto, ed una Furia chiamata da Iride viene a turbare la ragione di Ercole a segno, che questi di sua mano saetta i proprj figliuoli. Nulla di più tragico, di più vivacemente dipinto di questa deplorabile strage, in cui eccitano ugual compassione il saettatore e i saettati.

Euristeo fatal nemico di Ercole ne perseguitò ancora la posterità, minacciando guerra a chiunque osasse ricoverarne i figliuoli. Jolao nipote di quell’eroe e la vecchia Alcmena di lui madre insieme co’ piccioli figliuoli cacciati di città in città fuggono in Atene all’ara della Misericordia sotto il governo di Demofonte e Acamante79. Copreo araldo di Euristeo viene a domandarli, Demofonte ricusa di concederli, e si accende aspra guerra tra gli Ateniesi e gli Argivi, per cagione degli Eraclidi, cioè de’ {p. 132}figliuoli di Ercole, onde prende il titolo questa tragedia. L’erudito Udeno Nisieli, ossia Benedetto Fioretti, ne’ suoi Proginnasmi intento tratto tratto a mettere in vista i più lievi difetti degli antichi, ed ora ad ingrandirli, ora ad immaginarseli, in tal guisa parla di questo dramma: Negli Eraclidi l’ambasciator di Euristeo si parte da Atene protestata la guerra a Demofonte, ritorna a Micene, si congrega l’oste e viensi contra Atene; fassi la guerra, nascene la vittoria, con altri successi da riempiere storie più che da formare una tragedia. La favola enunciata in questa guisa subito sveglierà ne’ lettori l’idea di un dramma Cinese o Spagnuolo che comprenda più azioni passate in molti anni. E pure essa ne contiene una sola, cioè la vittoria riportata sopra Euristeo a favor degli Eraclidi, e ristretta dentro un discreto periodo di tempo. Ecco quel che si legge nella tragedia di Euripide. Gli Argivi armati alla rovina degli Eraclidi, stando a’ confini di Atene, mandano un araldo a richiederli a Demofonte, e nel caso di negativa a intimargli la guerra. L’araldo Copreo per eseguir tale ordine viene in Atene, e la tragedia principia colla sua ambasciata, colla quale nulla ottenendo, protesta la guerra, e ritorna, non già a Micene, come affermò il Nisieli, ma ad Alcatoe, dove trovasi Euristeo alla testa di un esercito congregato prima {p. 133}d’incominciare il dramma, e non già che si congrega dopo il ritorno di Copreo come pur disse il Nisieli. L’esercito muove da Alcatoe città de’ Megaresi posta fra Atene e Corinto, siccome accennò l’araldo stesso: Mi aspettano le migliaja di guerrieri comandati da Euristeo medesimo (μυρίοι δε με μενουσιν ασπιςτῆρες Εύρυσϑευς τ’ ἄναξ αὐτὸς ϛρατηγῶν) negli ultimi confini d’Alcatoe (Ἀλκάϑου δ’ έπ’ εσχάτοις). Non sono dunque tante le azioni in poco tempo accumulate, quante, non so per quale utilità, volle numerarne il critico Fiorentino. Una bella aringa di Jolao, per determinar gli Ateniesi a proteggere gli Eraclidi, leggesi nell’atto primo. L’oracolo che comanda un sacrificio di una vergine illustre perchè gli Ateniesi possano trionfar degli Argivi, apporta una rivoluzione interessante, facendo ricadere gli Eraclidi in una penosissima incertezza, non essendo nè onesto nè sperabile che qualche illustre Ateniese s’induca in favore di persone straniere a versare il sangue di una propria figlia. Ode nell’atto secondo questo nuovo sconcerto la vergine Macaria figliuola di Ercole, e piena di eroismo e di pietà verso i fratelli si offre vittima volontaria. Interessante e tenero n’è l’ultimo congedo che prende da essi e da Jolao. Nell’atto terzo un Messo riferisce la venuta d’Illo figlio di Ercole con un esercito a favore de’ congiunti. Se ne rallegra {p. 134}Alcmena; ma è da notarsi che ella verun motto non fa sul destino di Macaria degna di tutto il suo dolore e per esser figlia del suo figliuolo e per l’azione eroica fatta in pro di tutta la famiglia. Nell’atto quarto essa riceve la notizia della vittoria d’Illo e di Jolao e degli Ateniesi, avvelenata però da quella della fanciulla immolata, ma neppure si mostra in alcun modo sensibile alla di lei morte. Si racconta ancora il miracolo di Jolao ringiovenito che ha imprigionato Euristeo, bene alieno dalle nostre idee, ma gli Ateniesi udivano siffatti prodigj in teatro senza restarne maravigliati, per tal modo era la religione congiunta allo spettacolo. Nell’atto quinto Euristeo prigioniero usa ogni viltà per ottener la vita; ma Alcmena inesorabile, contro il parere degli stessi Ateniesi, lo manda a morire. In questa tragedia ancora Euripide nulla omette che possa ridondare in onore di Atene sua patria80.

Jone, nato di Apollo e di Creusa figlia di Eretteo re di Atene, fondatore della Jonia, è l’eroe della tragedia così intitolata. {p. 135}Questo Jone a se stesso ignoto e alla madre, che di poi si congiunse in matrimonio con Suto, è allevato in Delfo tra’ ministri del tempio. Dopo il prologo fatto da Mercurio, mentre Jone attende alla cura delle cose sacre, il coro composto di donne Ateniesi va osservando curiosamente e con molta naturalezza il vestibolo. Jone si appressa a queste straniere e fa loro osservare i quadri e i bassi rilievi, diciferandone le storie.

Jon.

Vedete quì il figlio di Giove che colla dorata falce ammazza l’idra di Lerna.

Cor.

Lo vedo bene.

Jon.

E quest’altro che gli è dappresso e porta una fiaccola accesa.

Cor.

Chi è mai egli? Sembra una figura che siamo solite di rappresentare ne’ nostri ricami.

Jon.

Egli è Jola scudiere di Ercole. Vedete quest’altro su di un cavallo alato in atto di ferire quel mostro di tre corpi ecc.

E così è condotta tutta la scena. Virgilio in simil guisa descrive Enea che osserva le dipinture del tempio di Cartagine; ma Virgilio le anima colla passione e coll’ interesse dell’eroe Trojano, perchè esse tutte rappresentano la distruzione di Troja. L’immortale Metastasio fino discernitore delle bellezze degli antichi si vale di questa scena di {p. 136}Euripide nell’Achille in Sciro, ma sulle tracce di Virgilio rende le immagini utili all’ azione con alludere vivacemente alla situazione di Achille ozioso in quella reggia. Notabile nel medesimo atto primo è la scena di Creusa e Jone che non si conoscono. Il ragionamento di Jone a Suto nell’atto secondo è ben vago e naturale, e da Racine è stato imitato nell’Atalia e da Metastasio nel Gioas. Così non v’ha bellezza in Euripide che questi due gran maestri della poesia rappresentativa eroica non abbiano sáputo incastrare ne’ loro componimenti. L’altra scena di Jone e Creusa che termina l’atto quarto e che dovrebbe essere la prima del quinto, è una di quelle che meritano maggiore attenzione. Interessa ancora per la vivacità il riconoscimento che avviene nel quinto; ma le domande di Jone intorno al suo nascere mettono in angustia la madre, ed il poeta è costretto a far discendere Minerva per giustificarla. Questa tragedia è assai teatrale, benchè non lasci di abbondar d’incoerenze e di difetti. La situazione di una madre e di un figlio, che non conoscendosi per errore si tramano la morte, è molto vaga; e Metastasio non ha lasciato di approfittarsene nel Ciro Riconosciuto, dandole nuovo interesse e forse più leggiadria.

L’argomento delle Baccanti è l’avventura di Penteo fatto in pezzi dalla madre e {p. 137}dalle di lei sorelle descritta da Ovidio nel terzo delle Metamorfosi, e forse trattata anche da Stazio nella sua Agave. Questa tragedia di Euripide ha un carattere differente dalle altre sue, e si avvicina allo spettacolo satirico e alle antiche tragedie che trattavano soltanto di Bacco. Havvi nell’atto quarto una scena totalmente comica trall’infelice Penteo già fuor di senno vestito come una baccante e Bacco che glì va rassettando la veste e l’acconciatura. Molti tratti allusivi agli effetti del vino si veggono ne’ cori e nel rito delle Orgie di Bacco. É terribile il racconto dell’ammazzamento del disgraziato re preso per un cinghiale; ed assai tragica la scena in cui Agave riviene dal suo furore, e riconosce nella pretesa fiera il figliuolo dilaniato.

Il Ciclope è un dramma satirico, ed è il solo che ci è pervenuto di simil genere; ma di esso favelleremo nel trattar de’ Satiri.

Della Danae, del Cresfonte, dell’Auge, della Menalippe, del Meleagro, della Niobe, dell’Alcmena, del Telefo, della Penelope, dell’Edipo, del Frisso, del Teseo, dell’Archelao e di molte altre tragedie di Euripide, altro a noi non è pervenuto se non se alquanti frammenti, i quali talvolta appena bastano per conoscerne il soggetto. Famosa tralle tragedie perdute fu la sua Andromeda per la strana malattia degli Abderiti avvenuta a’ tempi di Lisimaco. Era {p. 138}questa una febbre che di ordinario durava sette giorni, e riscaldava di modo l’immaginazione degl’ infermi che faceva diventarli rappresentatori. In tal periodo essi non cessavano di recitar versi tragici, e specialmente quelli dell’Andromeda come se si trovassero in teatro. Vedevansi per le strade questi deplorabili attori pallidi e sparuti andar follemente declamando. Durò quell’epidemico delirio finchè non sopravvenne l’inverno. Luciano nell’opuscolo intitolato In qual modo debba comporsi l’ istoria, così ne racconta l’origine. Archelao buon commediante rappresentò in Abdera l’Andromeda in una state sommamente calda, e non pochi spettatori uscirono dal teatro febbricitanti. Ora avendo essi l’immaginazione piena della mentovata tragedia altro non vedevano se non Perseo, Andromeda, Medusa, e ne recitavano i versi, imitando il modo di rappresentare di Archelao. Il morbo fu contagioso, e potè contribuirvi tanto la vivacità ed energia dell’attore quanto l’azione del sole e la natural debolezza delle teste degli Abderiti. In fatti questa città marittima della Tracia era popolata da gente stupida e grossolana per testimonianza di Cicerone, Giovenale e Marziale, sebbene di tempo in tempo avesse prodotti non pochi uomini illustri, come Protagora, Democrito, Anassagora, Ecateo lo storico, Niceneto il poeta, ed altri, de’ quali vedasi {p. 139}Stefano Bizantino alla voce Ἅβδηρα, e il Dizionario Critico di Pietro Bayle.

L’autore di tante belle tragedie, sì gran filosofo, conoscitore sì savio del cuor dell’uomo, e ragionatore sì eloquente, dimorando in Macedonia per compiacere al re Archelao assai amante delle lettere e degli uomini dotti, dopo di aver cenato con esso lui, nel ritornarsene a casa fu lacerato da’ cani fattigli scatenare addosso da Arideo Macedone e da Crateva Tessalo poeti invidiosi, più che della gloria poetica, del di lui favore presso il regnante. Morì Euripide delle ferite nell’olimpiade XCIII (Nota XVI); e Archelao n’ebbe tal dolore, che al riferir di Solino volle recidersi i capelli, e fece in di lui onore innalzare un magnifico avello nella città di Pella. I Macedoni talmente si gloriavano di possederne le ossa, che le negarono concordemente agli ambasciadori Ateniesi che le domandavano per seppellirle nella patria terra81; per la qual cosa gli Ateniesi altro non potendo gli eressero secondo Pausania un cenotafio, ossia voto sepolcro lungo la via che da Atene conduceva al Pireo. Sofocle che ad Euripide sopravvisse, mentre vivea questo suo grand’emulo, compose contro di lui qualche {p. 140}epigramma; ma poichè fu morto mostrò un dolore sì vivo e sì vero, che non meno per ciò si rende meritevole degli applausi della posterità, che per aver prodotto l’Edipo e il Filottete. Ègli l’onorò col suo pianto, e impose a’ suoi attori di présentarsi sulla scena senza corone, senza ornamenti e con abiti lugubri. Con questi due rari ingegni finì la gloria della poesia tragica de’ Greci82.

{p. 141}

Discordarono gli antichi nel dar la preferenza a uno de’ nominati gran tragici Eschilo, {p. 142}Sofocle ed Euripide. Aristofane nelle Rane e il filosofo Menedemo presso Diogene Laerzio83 antepongono Eschilo agli altri due. Socrate l’amico di Euripide, sembra averlo preferito a tutti, ben di rado o non mai facendosi vedere in teatro se non quando Euripide vi esponeva qualche nuova tragedia, avendolo amato e per la bontà e bellezza de’ versi e per la sapienza con cui gli nobilitava. Quintiliano84 posponeva Eschilo di lunga mano a Sofocle e ad Euripide, e di questi due affermava non {p. 143}potersi facilmente decidere qual di essi fusse più riuscito ne’ due differenti sentieri che batterono. Plutarco tuttavolta presso Stanley nelle Note ad Eschilo senza preferirne veruno vuole che ciascuno di essi abbia avuto alcun pregio particolare, nel quale non sia stato dagli altri superato.

V.
Ultima epoca della tragedia Greca. §

Fra’ più insigni coltivatori della tragica poesia Greca avremmo contato un altro pellegrino ingegno capace di arricchirla di nuove maraviglie, se avesse continuato ad esercitarvisi il divino Platone, il quale secondo Eliano prima di dedicarsi totalmente alla filosofia scrisse tre tragedie e una favola satiresca, delle quali componeasi la tetralogia necessaria per concorrere nel certame85. Delle di lui tragedie non per tanto si racconta che avendole Socrate ascoltate l’insinuò di bruciarle, dicendo: questo Platone ha bisogno dell’opera tua, o Vulcano. Prima di dedicarsi dell’intutto all’eloquenza oratoria il famoso Isocrate si provò ancora {p. 144}nella poesia tragica. Il rètore Melito nemico di Socrate si esercitò parimente nella tragedia. Anche l’orator Teodette, il quale con Teopompo e Naucrite concorse nel certame panegirico instituito da Artemisia in onor del marito, compose fralle altre una tragedia molto applaudita intitolata Mausolo, la quale a’ tempi di Aulo Gellio ancor si leggeva.

V’erano stati altri poeti tragici di qualche nome o poco innanzi o intorno al tempo de’ tre nominati. Si segnalarono in tal carriera in Atene Platina, due Carcini, un altro Euripide, che secondo Suida compose dodici favole e vinse due volte, un di lui nipote dello stesso nome, ed Alceo tragico diverso dal comico, del quale favelleremo nel capo seguente. A questo Alceo tragico da alcuni si attribuisce la favola Cœlum, se è vero che sia stata una tragedia, come la chiama Macrobio che ne rapporta tre versi86. L’altra favola Endimione citata da Giulio Polluce non si sa a qual de’ due appartenga. Contemporaneo del grande Euripide fu tra gli altri Senocle che ne’ Giuochi Olimpici restò di lui vincitore colle tragedie Edipo, Licaone, Bacchide, e coll’ Atamante dramma satirico. Intorno al di {p. 145}lui tempo visse pure Euforione e Bione, e lo scrittore di tragedie non meno che di commedie Agatone che Platone onorò della sua amicizia. Che che di lui motteggi Aristofane nelle Tesmoforie, è certo che Aristotile nella Poetica celebra la tragedia di Agatone intitolata ἄνθος, il Fiore, nella quale i nomi e le cose erano tutte inventate dal poeta, e non tratte dalla storia o dalle favole87. Eraclide Pontico, di cui Laerzio ha scritta la vita, fu ancora poeta, ed Aristosseno scrittore musico afferma che avea composto alcune tragedie che volle pubblicare sotto il nome di Tespi. Egli passa per uno scrittore capriccioso, che talvolta attribuiva ad altri le proprie fatiche e talvolta si appropriava le altrui, cioè quelle di Omero e di Esiodo, di che l’incolpa Camaleone. Acheo Siracusano fu un altro poeta tragico, che compose dieci tragedie, e si vuole che dal di lui Etone satirico avesse Euripide imitato il suo verso

Saturis Venus adest, non iis quos premit fames.
{p. 146}

Empedocle celebre pitagorico Agrigentino e poeta fisico rinomato fu pure autore di ventiquattro tragedie88. Dionisio il maggiore tiranno Siracusano scrisse ancora favole tragiche che niuno volle con lui tener per buone. Coltivò pure la poesia tragica il celebre Dione cognato de i due Dionisii, e Mamerco tiranno di Catania, il quale più di una volta contendendo co’poeti della Grecia orientale riportò la tragica corona89.

A’ tempi di Tolommeo Filadelfo spiccarono nella poesia tragica sette scrittori celebrati sotto lo specioso nome di Plejade diversa in parte da un’altra Plejade mentovata da Isacco Tzeze, la quale si componeva di poeti di varj generi. Secondo Efestione la Plejade tragica si formava di Omero il giovane figlio di Mira poetessa Bizantina, di Sositeo, Alessandro, Anantiade, Sosifane, Filisco e Licofrone. Quest’ultimo è il più noto per l’erudito quanto oscuro poema di Cassandra, o Alessandra, e per varie tragedie, venti delle quali sono rammentate da Suida. Nominansi tra esse due Edipi, Andromeda, Iceta, Ippolito, {p. 147}Cassandride, Penteo, Pelopida, Telegono. Egli fu ammazzato di un colpo di freccia, per quel che appare da questi versi di Ovidio in Ibin notati dal dottissimo Pietro Bayle:

Utque cothurnatum periisse Lycophrona narrant,
Haereat in fibris missa sagitta tuis.

Declinando l’età e la sorte delle città greche non solo da esse mai più non uscirono Euripidi e Sofocli, ma per una specie di fatalità gli scritti de’ più chiari drammatici di quella nazione furono consegnati alle fiamme. Ecco come ne favellò presso l’Alcionio Giovanni Medici essendo Cardinale: Sovviemmi di avere nella mia fanciullezza udito da Demetrio Calcondila peritissimo delle Greche cose, che i Preti Greci ebbero tanto credito e tale autorità presso i Cesari Bizantini, che per di loro favore ebbero la libertà di bruciare la maggior parte degli antichi poeti, e specialmente quelli che parlavano di amori; alla qual disgrazia soggiacquero le favole di Menandro, Difilo, Apollodoro, Filemone e Alesside, e i poemi di Saffo, Erinna, Anacreonte, Minnermo, Bione, Alcmone e Alceo. Per la qual cosa su mestieri per instruire la gioventù in difetto de’ nominati sostituire i poemi di San Gregorio Nazianzeno, i quali comechè utilissimi fossero per infiammare i Cristiani ad un più {p. 148}fervoroso culto della religione, erano però ben lontani dall’inspirar l’atticismo e l’eleganza del Greco idioma. Nel quarto secolo si compose la nota tragedia sacra intitolata Cristo paziente, la quale per più secoli si attribuì al prelodato San Gregorio, e ne’ tempi più a noi vicini ad Apollinare seniore Alessandrino, scrittori che principalmente fiorirono sotto Giuliano Apostata. Quest’Apollinare, oltre a tale tragedia, espose sulle scene altri fatti del Vecchio Testamento imitando Euripide, e scrisse ancora commedie a somiglianza delle favole di Menandro90.

Si corruppe finalmente la Greca lingua, e se in appresso si compose alcuna favola drammatica, fu dettata nel Greco moderno. Leone Allacci nella Diatriba De Georgiis presso la Biblioteca Greca del dottissimo Fabricio mentova Giorgio Cortazio Cretese, il quale nel corrotto idioma Greco scrisse in verso una tragedia intitolata Erofila elegante per quanto comporta l’odierno linguaggio della Grecia serva, e l’unica che abbia meritato ne’ bassi tempi di esser letta e pregiata. Passiamo alla poesia comica.

{p. 149}

CAPO VII.
Continuazione del Teatro Greco. §

I.
Primi passi della Commedia Antica. §

Frattanto la parte ridicola e satiresca de’ cori che precedettero la poesia Tespiana, appartata dalla tragedia come scoria di niun pregio errava per li villaggi sotto nome di commedia preso dal vocabolo κομη che nel Peloponneso significava la villa, o da κομαζειν, banchettare. Ma il diletto che quantunque grossolano recava a tutti questo spettacolo, mosse alcuni comici industriosi a migliorarne la forma togliendo per esemplare la tragedia. Ed osservando poi che questa si arricchiva ne’ poemi eroici di Omero, vollero anch’essi giovarsi delle fatiche di questo gran padre della poesia, e presero ad imitare l’aria urbana, salsa e graziosa del di lui Margite. Vennero allora in tanta fama che furono chiamati e ammessi a rappresentare in città ed al pari de’ tragedi ottennero dal governo le spese delle decorazioni necessarie pel Coro (Nota XVII). Così quelle notturne querele, che secondo lo {p. 150}scoliaste d’Aristofane i villani oppressi da i ricchi andavano spargendo per gli villaggi indi per la città, trovarono ne’ poeti comici tanti zelanti avvocati de’ loro diritti offesi, ed il magistrato Ateniese permise che si pubblicassero i loro oltraggi in teatro, ed animò con ciò i poeti ad infamar poscia impunemente i cattivi e i prepotenti (Nota XVIII).

Se la voracità del tempo avesse rispettato il trattato della Commedia Antica di Camaleone o la Storia teatrale scritta da Juba re della Mauritania citata da Ateneo nel quarto libro, saremmo forse meno di quel che siamo incerti in molte cose necessarie per illustrarla. Questi libri ci avrebbero somministrati lumi maggiori e sull’origine della commedia e sull’ordine cronologico de’ poeti comici. Tuttavolta la diligenza di molti valentuomini ha supplito in alcun modo alla perdita di quella preziosa storia e di quel trattato. Lilio Gregorio Giraldi, Isacco Vossio, Giovanni Meursio, Francesco Patricj, squadernando i libri de’ comentatori, de’ lessicografi, degli scoliasti, de’ cronisti e de’ gramatici, e approfittandosi di quelli di Ateneo, Suida, Esichio, Giulio Polluce, Stobeo, Plutarco, gettano in tanta oscurità qualche barlume. Chi ami di essere minutamente informato di siffatte cose, consulti le opere de’ riferiti scrittori: noi intanto limiteremo le nostre cure a rilevare quelle notizie più sicure che appaghino la {p. 151}curiosità e rischiarino sobriamente la storia de’ predecessori di Aristofane senza opprimere la studiosa gioventù con rancide discussioni.

Secondo il soprallodato scoliaste di Aristofane ed il gramatico Diomede, il primo ad uscire sulla comica scena fu Sufarione o Sannirione d’ Icaria seguito da Rullo o Nullo e da Magnete. Aristotile però nella Poetica ci dice, che i Megaresi di Sicilia pretesero che Epicarmo fosse stato l’inventore della commedia regolare e che di non poco spazio preceduto fosse a Connida e a Magnete. Fiorì Epicarmo insigne filosofo non meno che comico illustre in Siracusa a’ tempi di Gerone il vecchio. Platone nel Teeteto lo decorò col titolo di principe della commedia, e Teocrito lo chiamò inventore di essa, avendogli data forma coll’introdurre nel teatro Siciliano il dialogo e gli attori. Il carattere delle di lui favole consisteva nel seminarvi acconciamente la sapienza Pitagorica e nella piacevolezza de’ motteggi, e Plauto secondo Orazio nell’una e nell’altra cosa calcò le di lui vestigia. Licone presso Suida attribuiva ad Epicarmo trentacinque favole; ma Giovanni Meursio ne raccolse quaranta titoli, anzi dal racconto del medesimo Suida deduce che ne avesse prodotte intorno a cinquantadue. A cagione dei nomi di Niobe, Busiri, Filottete, Prometeo, Pirra, Atalanta, i Persi ecc. che si registrano {p. 152}tralle favole di Epicarmo, volle Martino Del Rio collocarlo tra’ poeti tragici. Ma tale argomento è manifestamente fallace, perchè quanti comici antichi conosciamo introducevano i numi e gli eroi della mitologia, ma essi vi facevano però la meschina ridicola figura di scrocconi, di tagliacantoni, di mezzani, di paltonieri, siccome la fanno in Aristofane Ercole, Bacco, Mercurio91. Essendo Epicarmo già vecchio era giovanetto Magnete Icariese, il quale, secondo il medesimo Suida, compose nove commedie, e rimase due volte vincitore. Formide, Evete, Eussenide, Milo, non furono di molto ad Epicarmo posteriori. Dromone comico mentovato da Ateneo fiorì dopo di Sannirione, ed è diverso da Drumone o Drimone, il quale secondo Eusebio92 fu più antico di Omero. A’ giorni di Sannirione e di Filillio si vuole che scrivesse Diocle Ateniese o Fliasio. I titoli che ci rimangono delle di lui favole sono: Talatta nome di una meretrice secondo Ateneo, Thyestes, Bacchae, Melittae, Oniri. Corse fama secondo Suida di aver Diocle {p. 153}inventata certa armonia tratta dal suono di alcuni vasi di creta percossi con una bacchetta di legno.

Coltivarono l’antica commedia varj altri comici non molto da i nominati lontani, come Cratete, Archesila, Cherilo, Erifo, Apollofane, Ipparco, Timocle, di cui Ateneo ci ha conservato un frammento in lode della tragedia nel quale afferma essere agli uomini utilissima, e Timocreonte, il quale ebbe nimistà con Simonide Melico e con Temistocle Ateniese, contro di cui scrisse una commedia. Altri se ne possono nominare, i quali o di poco prevennero Aristofane, o vissero contemporaneamente o non molto dopo di lui. Tali sono Ermippo, Antifane, Eubolo, di cui Grozio rapporta qualche picciolo frammento della commedia intitolata Antiope, Efippo che scrisse una commedia intitolata Saffo, e Frinico comico più volte motteggiato da Aristofane, e che fiorì verso l’olimpiade LXXXVI. Alceo comico figlio di Micco era di Mitilene, e rinunziò alla patria per dirsi Ateniese. Lasciò questi dieci favole, una delle quali s’intitolava Pasifae, e con essa, secondo l’interprete di Aristofane nell’argomento del Pluto, contese con questo comico rinomato nel quarto anno dell’olimpiade XCVII. Ma Cratino, Eupoli ed Aristofane furono i più chiari comici di questo periodo.

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Trovavasi il teatro Ateniese nel colmo della gloria nell’olimpiade LXXXI, quando cominciò a fiorir Cratino poeta di stile austero, mordace e assai forte ne’ motteggi, dal quale si dee riconoscere il lustro di quel genere di commedia caustica e insolente chiamata Satirica e Antica. Una delle di lui favole intitolavasi Eolosicone, nella quale si satireggiavano Omero e i poeti tragici. Cratino che visse novantasette anni, fu seguito e imitato da Eupoli poeta più grazioso il quale compose diciassette commedie, ma solo sette volte riportò la corona teatrale. La commedia antica però ricevè tutta la perfezione dall’Attico Aristofane, che sempre colla grazia e colle facezie temperava l’amarezza della satira.

Osserviamo intanto in generale che l’emulazione de’ poeti, la natura del governo e la prosperità stessa della repubblica Ateniese diedero a questo genere di commedia i pregi e i vizj che la caratterizzano.

Ebbero appena i comici imitando i tragici data forma e disposizione al lor poema, che gonfj della riuscita presero a gareggiare co’ loro modelli, e ne sostennero arditamente il paragone e colla magnificenza dell’apparato e colla pompa poetica de’ cori. Impazienti poi dell’ uguaglianza ambirono di sovrastare, e per iscemare l’ammirazione che sino a quel punto aveano riscossa i loro emoli, valendosi delle proprie armi, cercarono {p. 155}di attenuare il merito de’ passi migliori delle tragedie col renderli ridicoli per mezzo di alcuni leggieri maliziosi cangiamenti. In ciò consisteva la parodia che fu l’anima della commedia antica. La vittoria si dichiarò per gli comici, se ad altro non si miri che al pregio dell’ invenzione e al piacere prodotto dalla novità degli argomenti. Imperciochè i tragici ricavavano i loro soggetti dalle favole di Omero e dalla mitologia: ma i comici soccorsi soltanto dalla propria immaginazione gli traevano, per così dire, dal nulla, e presentavano uno spettacolo tutto nuovo. Di là uscirono quelle maravigliose dipinture allegoriche le quali incantavano la Grecia. Accoppiavansi in esse alla esatta imitazione della natura i voli più bizzarri della fantasia e si nobilitavano colla più vigorosa poesia, colla morale più sana e colla politica più profonda i soggetti all’apparenza i più frivoli e meno interessanti. Con tale artificio erano lavorati quegli strani Uccelli geroglifici eloquenti di certi cittadini viziosi nati in Atene; quelle Vespe immagini de’ magistrati ingordi e venali; quelle Rane simboli de’ molesti verseggiatori ciclici; quelle Nuvole colle quali satireggiavasi l’ipocrisia morale e l’inutilità de’ calcolatori fantastici.

Ma se l’emulazione rendè gloriosa questa commedia, la fece oltremodo ardita il governo popolare Ateniese, nel quale i comici e {p. 156}gli spettatori erano membri della sovranità. Osò per questo un poema così straordinario internarsi impunemente nel segreto dello stato, trattar di pace, di guerra, di alleanze, beffeggiare ambasciatori, screditar magistrati, manifestare i latrocinj de’ generali, e additare i più potenti e perniciosi cittadini, non solo con una vivace imitazione de’ loro costumi, ma col nominarli e copiarli al naturale colle maschere.

E per ultimo riuscì tal commedia fuor di misura sfacciata e insolente a cagione della prosperità della Repubblica. La felicità continuata corrompe gli animi, spogliandogli del timore, potentissimo freno delle passioni eccessive. Atene che trovavasi in sì alto punto di prosperità, e per conseguenza di moral corruzione, mirò senza orrore il fiele che sgorgava da questo fonte, si compiacque della indecenza che vi regnava, vedendovi il ritratto fedele de’ suoi costumi, e applaudì a quella malignità che mortificava i potenti che essa abborriva, e i virtuosi che la facevano arrossire. Qual maraviglia adunque che i comici insolentissero a segno non che d’insultare i Cleoni poderosi, ma di offender Pericle (Nota XIX), di perseguitare in Socrate la stessa virtù, di motteggiare empiamente la religione, e di rimproverare a tutti i cittadini ciò che leggesi nel dialogo tenuto nelle Nuvole dal {p. 157}Ragionar Dritto e dal Torto93?

Risulta da queste cose che ciò che ora chiamiamo commedia, non rassomiglia punto alla Greca Antica, Allegorica, Satirica, la quale per invenzione, per novità, per grandezza {p. 158}di disegno, per sale e per baldanza si allontana da ogni favola comica moderna. I frammenti che ci rimangono de’ primi comici, non basterebbero a darne una compiuta idea, se il tempo non avesse rispettate undici delle commedie di Aristofane, le quali a sufficienza ce ne istruiscono. Non voglionsi però leggere colla speranza di trovarvi avventure piacevoli, intrighi amorosi, dipinture di caratteri simili a quelle delle commedie de’ nostri tempi. Altr’aria, altre mire, altri comici ordigni vi campeggiano, i quali non appariscono senza la fiaccola de’ principj sin quì riferiti, senza la cognizione della polizia e de’ costumi Ateniesi, e senza la pratica necessaria delle Vite di Plutarco e della guerra del Peloponneso che durò ventisette anni, e che fu così stringatamente e con tanto politico sapere descritta da Tucidide.

Non sarà forse senza profitto della gioventù, per ben conoscere il teatro Greco e l’arte usata da que’ repubblicisti nel maneggiare la loro commedia antica, il presentare ad essa qualche estratto un poco più circostanziato che non feci nella Storia impressa nel 1777, delle favole di Aristofane da tutti nominato, da pochi letto, e forse da pochissimi compreso.

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II.
Teatro di Aristofane. §

La poesia di questo comico vivace, animata, fantastica, faceta, e al tempo stesso acre, maligna, licenziosa e spessissime volte triviale, appartiene alla commedia bassa e alla farsa. Ma serpeggiano nelle sue favole tali tinte veramente comiche, tali politiche vedute, e tal conosenza de’ costumi e dello stato degli Ateniesi, che, mal grado delle bassezze e delle oscenità, piaceranno in ogni tempo a chi saprà trasportarsi a quello del poeta. Senza ciò qual commedia piacerà mai? Qualunque produzione d’ingegno porta la divisa del proprio secolo, del costume e del gusto corrente, impressavi con caratteri indelebili. Ma la commedia principalmente che dipinge per gli spettatori presenti e non per gli futuri, è sopra ogni altra esposta all’abbandono e al disprezzo, in cui cadono le mode già passate. Una commedia Italiana o Francese, dopo tre o quattro lustri con difficoltà diletta nelle scene nazionali senza notabili cangiamenti. Or che diverrà di una Greca di ventidue secoli indietro, se nelle nostre contrade tanto cangiate da que’ tempi remoti prendasi a leggere senza gli accennati requisiti? {p. 160}Questo basti ai giovani per non lasciarsi spaventare dalle critiche pedantesche del per altro dotto Nisieli contro Aristofane o dagli oltramontani ancor più ridicoli censori di tutta l’antichità. Mai abbastanza a costoro non si ripete che il tuono decisivo e inconsiderato è quello della fatuità, e che debbono apprendere e ritenere, per sovvenirsene nelle loro decisioni, che questo Aristofane era un Ateniese, e che fioriva sul principio del quarto secolo di Roma nell’olimpiade LXXXV, pochi anni meno di quattro secoli e mezzo prima dell’Era Cristiana.

Cinquanta e più commedie compose Aristofane, delle quali per la maggior parte è perita ancora la memoria. Di alcune si conserva qualche picciolo frammento, come dell’Anfiarao e del Cocalo; e delle undici intere che ne rimangono, son questi i nomi: la Pace, i Cavalieri, gli Acarnesi, gli Uccelli, Lisistrata, le Concionatrici, le Nuvole, le Cereali, le Rane, le Vespe, il Pluto.

La Pace (Ειρηνης). Nulla pruova con maggior evidenza che nel comico teatro de’ Greci agitavansi le quistioni politiche correnti, quanto i drammi di Aristofane. L’unico oggetto del poeta nella Pace si è di ritrarre con pennellate vivaci i danni della guerra posti al confronto de’ vantaggi della pace. Del sale comico di questa favola il lettore prenderà diletto a misura che si avvezzerà {p. 161}all’artificio dell’allegoria.

Trigeo lavoratore disgustato della guerra va esclamando: o Giove, metti giù quella granata, non iscopare la Grecia, lasciala stare in pace. Ma parendogli di non esserne inteso risolve di volare in cielo per lamentarsi con lui più da vicino. I servi e le figliuole di questo Greco Don-Chisciotte cercano rimoverlo dal proposito, temendo che si abbia a rompere il collo, o che ne divenga matto del tutto. Tu cascherai nel mare (gli dicono), ne rimarrai zoppo, darai motivo ad Euripide di far di te una tragedia. Tutto è inutile; egli è fermo nel suo pensiero; si congeda, cavalca uno scarafaggio sull’ autorità di un apologo di Esopo, e gli pare di essere arrivato alla Rocca di Giove. Olà (grida in aria) non mi aprite? Mercurio gli domanda chi sia. Sono, dice, Trigeo Atmoneo buon vignajuolo, che non sono nè spione nè ladro. Mercurio gli dice che se vuol parlare a Giove, è venuto a mal tempo, essendo fuori di casa con gli altri dei, per cedere alla Guerra la propria abitazione, e lasciare agli uomini il pensiero di se stessi. Dove sono essi andati? dice Trigeo. Più in alto (risponde Mercurio) per non veder combattere i Greci, nè ascoltar quelli che gli porgono suppliche. Aggiugne che per la loro ostinazione essi non vedranno più la Pace, che dalla Guerra è stata gettata in una profonda {p. 162}spelonca, coprendola e serrandola con gran sassi. Nè contenta questa fiera nemica della Pace ha fatto condurre nella celeste dimora un gran mortajo, dentro del quale vuol pestare le città. Questa immagine conviene al comico più basso; ma subito mostra popolarmente le perniciose conseguenze di tal flagello dell’umanità. Odesi intanto il suono del terribil mortajo, nel quale si è buttato il porro (in greco πρασον, donde viene il nome di Prasia città della Laconia) e l’aglio, particolar produzione di Megara. Comparisce la Guerra minacciando le Greche città:

Guer.

O Megara, Megara, tu sarai tosto schiacciata.

Trig.

Oimè, oimè, che la Guerra annunzia grandissimi guai a’ Megaresi!

Guer.

O Sicilia, in mal punto ti trovi tu nel fondo del mio mortajo; tu sarai pesta come ogni altro paese infelice. Io vò mettervi ancor dentro un poco di mele Attico.

Trig.

No, per dio, non fare; mettivi qualche altro mele, e risparmia l’Ateniese, ch’è di gran prezzo!

La Guerra però non bada alle parole di Trigeo, e chiama Cidemo perchè le porti un pistello. Cidemo finge di non trovarne nè presso gli Ateniesi, nè presso i Lacedemoni, {p. 163}che l’hanno prestato a’ Traci. Entratasene la Guerra, Trigeo intraprende di trarre la Pace dalla caverna, eccitando all’opera lavoratori, fabbri, mercatanti. Tutti di buon grado si accingono all’impresa, pregando Mercurio perchè non si opponga. Ma Trigeo dove ha trovati alla mano questi compagni? non era egli sulla Rocca di Giove? Non si sa veramente come veggasi sì bene accompagnato. Con tutto ciò la più vaga allegoria di questa favola consiste nel Coro che fa sforzi grandi, tirando alcune corde per ismuovere le gran pietre che chiudono la bocca della caverna, senza punto avanzar nell’opera. Alcuni tirano da un lato, altri dall’ opposto, e si ritarda l’esecuzione; il che allude alle discordie delle città Greche, per le quali sussiste la guerra. I soli agricoltori tirano concordemente e con sincerità, e co’ loro sforzi giungono a smuovere le pietre e a sprigionar la Pace; savia lezione di politica e di commercio. Tutti ne gongolano, e Mercurio fa osservare che le città prima miseramente saccheggiate durando la guerra, ora pacificate conversano insieme assai amichevolmente. I lavoratori con piena sicurezza tornano a’ loro campi senza spade e senza lance, e si rallegrano colle loro famiglie. Trigeo invita il coro a salutar la dea. Dopo il canto egli vuol sapere da Mercurio, onde avvenne che la Pace abbandonò la Grecia? Mercurio ne dà {p. 164}la prima colpa a Fidia indi a Pericle, il quale (ei soggiugne) accese il fuoco fralle città gettandovi dentro la picciola scintilla del visentimento di Megara, e in questa guisa destò un incendio così grande, che tutti i Greci per lo fummo ne lagrimavano, tutte le vigne ardendo strepitavano, tutto era orrore, travaglio, movimento, e la Pace si fuggì via. Così istrutto Trigeo pensa a partire. Il coro prende occasione di favellare degli spettacoli scenici di Atene, e di lodare il suo poeta, il quale (ei dice) è ottimo compositore di commedie e pieno di gloria. Rammenta come egli sia stato il primo ad acchetare gli uomini che contendevano, si calunniavano e combattevano per frascherie. Egli ha bandito (soggiugne) dal teatro gli Ercoli mangiatori, famelici, poltroni, ingannatori, come altresì que’ servi sempre piangenti che mostrano le piaghe ricevute e le lividure del bastone. Da ciò si ricava, che quanto i comici Latini dicevano di se e de’ poeti contemporanei ne’ prologhi, i Greci facevano dire in qualche parte de’ cori. Trigeo arrivato tra’ suoi narra varie cose vedute in aria quando ha volato. Si prepara un sacrifizio, e si fanno nuove preghiere alla Pace. All’odore del convito viene l’indovino Jerocle coronato di alloro. Spia, chiede, s’insinua, ma non gli è dato retta. Il ghiottone impostore usa ogni artifizio, e comincia a predicare {p. 165}e mostrare di esser volontà degli dei che non si cessasse dal guerreggiare avanti che il lupo menasse in moglie una pecora. Altercando con Trigeo asserisce che non potrà mai farsi che un gambero cammini dritto, che un guscio di castagna non sia irsuto, e nega di partecipare de’ licori adoperati nel sacrifizio, perchè non l’ha comandato la Sibilla. Ognuno vede quanto graziosamente quì si ridicolizzi l’aria di oracolo che prendono gl’ impostori, profferendo con affettata gravità sentenze enimmatiche e concetti oscuri. Ognuno vi apprende con diletto che il linguaggio dell’ impostura è sempre misterioso. Questo sacro impostore accumula sentenze e parole vuote di sostanza, per mostrarsi uomo grave, inspirato, interprete della divina volontà. Vedendo poi le vivande preparate vuole la sua parte delle interiora. Ma Trigeo gli risponde lepidamente:

Trig.

No amico, non possiamo fartene parte prima che il lupo meni moglie.

Jer.

Vi supplico.

Trig.

No fratello, tu supplichi invano: tu non farai mai liscio e polito un riccio di castagna. Mangiamo pur noi, amici miei.

Jer.

Ed io?

Trig.

Oibò, mangia tu la tua sibilla.

Il ribattere le altrui parole è un artificio {p. 166}scenico pieno di sale che sempre riesce vivace e dilettevole e ne’ gravi e ne’ lepidi drammi. Altra gente arriva in mezzo al tripudio per far vedere le felici conseguenze della pace. Un artefice di falci ringrazia Trigeo, perchè se prima non vi era chi comprasse falci nè anche a vilissimo prezzo, ora le vende a cinquanta dramme, cioè intorno a sei ducati Napoletani ognuna. Fabbri di celate, di aste, di corsaletti, di lance e di trombe guerriere, vengono a lamentarsi che muojono di fame nella pace, e i contadini gli deridono e seguitano a godere, cantare, saltare. Si vede trasgredita in questa favola l’unità del tempo in varie guise. Gli effetti partoriti dalla pace non possono vedersi eseguiti nel giorno che si pubblica. In oltre Trigeo dice appena di voler andare in cielo che vi si trova: appena vuol tornar fra’ suoi, che parla alla sua famiglia. Nè anche l’unità del luogo vi è osservata, perchè Trigeo si vede prima in Atmone, indi in aria, poscia in certe balze. Vi si trovano ancora varie immagini schifose, che svegliano idee di sporcizie puzzolenti da fuggirsi da ogni scrittore che sa rispettare il pubblico. Il lettore sagace lascerà tali difetti e bassezze al popolaccio Ateniese che le tollerava, e si appiglierà solo alle molte finezze comiche, delle quali abbonda la Pace non meno che al buon senno e all’amor patriotico che vi campeggia. {p. 167}Ma che censura è quella dell’erudito Nisieli94? La pace, ove consiste tutta la favola, non dice mai una parola. Non dice mai una parola, ed è pure il fondamento della favola; or che perciò? qual convenienza, qual regola in questo si trasgredi ce? Non sempre il titolo indica un interlocutore, benchè sempre manifesti l’argomento. La Casina di Plauto presa a difendere dal Nisieli contra l’Einsio, è l’oggetto interessante di tutta la favola, è la persona in cui cade una riconoscenza, e non dice mai una parola.

Lisistrata (Λυσιϛρατη). L’oggetto di questa favola è d’inspirar la pace come nella precedente, ma l’argomento n’è indecentissimo. L’Ateniese Lisistrata moglie di uno de’ primi magistrati si fa capo delle donne Greche, e ordisce una congiura per ridurre gli Ateniesi a pacificarsi cogli Spartani. Per riuscirvi si avvisano le donne di vietare a’ loro mariti di valersi dei diritti del contratto nuzziale, astringendovisi con un solenne giuramento. Un giuoco di teatro curioso nasce dall’atto del giur re fatto colle formalità tragiche, mettendo, in vece di sangue, del vino in uno scudo. I comici non lasciavano occasione alcuna di {p. 168}contraffare quanto esponevano sulla scena i tragici. La formola del giuramento dettata da Lisistrata e ripetuta a spezzoni da Calonica, è tale: Giuro di non badare alle carezze di uomo veruno, sia amico o marito: se mi verrà caldo, me ne starò a casa senza farmi toccare: mi metterò la vesta del più vago colore che mi abbia, mi raffazzonerò, mi farò trovare gaja ed ornata per destar le fiamme del consorte, ma insensibile a’ suoi ardori, tutto metterò in opera per non condiscendere. Veramente essa abbonda di pitture oscene, abominevoli e per niun modo confacenti per portare il nome di catechismo, come può dedursi dalla sola esposizione dall’argomento. E che laido catechismo non sarebbe la sfacciata e sozza scena di Mirrina con Cinesia suo marito nell’atto quarto? Le donne per mezzo di quel ritrovato la vincono, e costringono gli uomini a far la pace. Di passaggio in questa commedia è motteggiato Pisandro (Nota XX) che per avere occasione di rubare il pubblico danajo, consigliò e promosse la discordia e la guerra. I Pisandri non mancano in ogni tempo; mancano bensì gli Aristofani abili derisori e vindici delle pubbliche lagrime.

Le Concionatrici (Εκκλεσιαζουσαι). Una continuata ironia drammatica contro le donne sfacciate, altiere, ambiziose, si ravvisa in questa favola. Si ridicolizza la loro stravagante {p. 169}pretensione di togliere agli uomini il reggimento delle pubbliche cose. Mostra in prima il poeta la loro scempiaggine nel modo da esse eletto per ottenerlo. Si mascherano con abiti virili, lasciano crescere la loro lanugine, e si appiccano al mento delle barbe posticcie, per andare al Consiglio. Espone poscia la loro imperizia nel concionare. Prassagora stessa che se ne fa capo e sembra la meno sciocca, aringa stranamente valendosi de’ più ridicoli argomenti nel dimostrare che per migliorar la città debba concedersene alle donne il dominio. Con tal disegno e colle spoglie degli uomini s’incaminano al Consiglio. Un vecchio chiamato Blepiro viene fuori con una veste di donna indosso, essendogli stata dalla moglie portata via la propria. Egli è costretto a venir fuori da un bisogno naturale, per fare in piazza ciò che la decenza prescrive di farsi nel più segreto della propria casa. Le commedie sono la storia de’ costumi e delle maniere; e se Aristofane non ha commesso un errore nel costume, in questa scena si scopre la grossolana libertà e schifezza di que’ popoli. Blepiro in vero si discolpa per esser di notte: ma eravi in Atene tal costume di venire espressamente in istrada per siffatte cose? Di più se è di notte, sì che non possa esser veduto, ond’è che sopravviene un altro che lo ravvisa? e che vede il colore della veste che ha indosso? {p. 170}Non parlando ora dell’indecenza di tali scene, nei sono questi, durezze, negligenze da correggersi, se si vuol procacciáre un’ opportuna illusione in chi vede o legge. Noi di buon grado le notiamo, come faremo in seguito in ogni occorrenza, perchè si avveggano una volta coloro, cui incresce il nostro rispetto verso la dotta antichità, che noi in quest’opera collo spirito d’imparzialità che ne governa e con giusto sforzo (non so se felice) intendiamo di cogliere dagli scrittori di ogni tempo il più bel fiore per ispirare il buon gusto, e di osservarne anche i difetti che potrebbero guastarlo: differenti in ciò totalmente da certi moderni pedanti che si fanno gloria di esagerare tutti i difetti degli antichi e di negligentarne le bellezze. Blepiro adunque con naturale ma schifosa dipintura, e quel che è peggio, inutile per l’azione, si dispera per non potersi alleggerire del peso del ventre. Cremete viene dal Consiglio a raccontare quanto vi è passato, quali oratori hanno aringato, e la concione di certo giovanetto (una delle donne mascherate) il quale diffondendosi nelle lodi delle donne, ha dimostrato doversi dar loro il governo della città. Vengono indi le donne frettolose per metter giù i pallii, i bastoni e le scarpe de’ loro mariti. Quello di Prassagora la riprende di essere uscita sì di buon’ ora senza di lui saputa. Ella si discolpa col {p. 171}pretesto di avere assistito un’amica che volea partorire. Intende poi dal medesimo marito come sia stato conceduto alle donne il dominio della città. Ecco l’oggetto del poeta, far vedere gli sconcerti che ne seguirebbero. Prassagora che se ne rallegra, afferma che in tal guisa se ne correggeranno gli errori, e ne dimostra il modo. Bisogna (ella dice) mettere tutti i beni in comune, e da questo fondo della nazione prendere il sostentamento di ciascuno; perocchè non mi piace che uno straricchisca, mentre un altro manca del bisognevole: che uno possegga moltissima terra, intanto che un altro non ne abbia pure una spanna per esservi sepolto: che uno sia circondato da una folla di schiavi e un altro per bisogno sia costretto a servire. Vita comune, uguaglianza; questo è il mio progetto . . . . Tutte le cose adunque, terra, argenti, mobili, stabili faranno un tesoro comune, dal quale saranno tutti pasciuti. Ella non eccettua da questa comunità nè anche le donne. Se le oppone che tutti vorranno attaccarsi alle più belle. Ma a queste (ella risponde) non si passerà se non da chi avrà prima trattenute le più sparute e le vecchie. Si oppone ancora che non si conosceranno i figliuoli di ciascuno. Ma qual pro da questo? dice Prassagora. Così i vecchi passeranno per padri di tutta la gioventù. E chi lavorerà la terra? I servi . . . . In somma (conchiude) io voglio {p. 172}fare della città nostra una sola famiglia: Questo progetto suole in ogni paese trovarsi nella bocca de’ poveri che non posseggono, per invidia de’ ricchi e per rincrescimento della fatica. Ora il poeta sagace, per mostrarne l’insussistenza, lo fa uscire da teste femminili e poco ragionatrici, e con una satira graziosa ne espone comicamente gli assurdi. Quanto gusto e dottrina non ci vuole per discutere sulla scena col riso nella bocca le quistioni politiche, e per distruggere i pregiudizj sì che i volgari vi si ammaestrino senza tediarsi della lezione! Uno de’ principali inconvenienti che il poeta mette in vista, è che molti avvezzi a possedere non vorranno spogliarsi del proprio e defrauderanno il pubblico. L’altro inconveniente che subito manifesta la stranezza del progetto, nasce dall’uso delle donne. Le vecchie si bellettano, e stanno attendendo i giovani; le giovanette altercano con esso loro; i giovani vogliono avvicinarsi alle fanciulle senza tracannare l’amarezza delle stagionate. La commedia termina con una gran cena. Non è meno licenziosa e sfacciata della precedente, e secondo gl’ intelligenti lo stile è più sollevato che nelle altre, e si avvicina al tragico. Vi sono nominati e derisi Argeo, Jeronimo, Trasibulo, Cefalo, Neoclide, nè vi si risparmia la bruttezza ed il naso di Lisicrate, e l’effemminatezza di Nicia.

{p. 173}

Le Cereali (Θεσμοφοριαζουσαι). La satira de’ poeti contemporanei, e spezialmente de’ tragici, era uno de’ principali oggetti della commedia antica, non leggendosi favola veruna, ove contro di essi non si avventino strali di fuoco, e non si facciano de’ loro versi continue parodie. Una delle satire più vivaci contro delle invenzioni tragiche contiene questa commedia la quale prende il titolo dalle feste di Cerere e dal soprannome di Tesmoforo (legislatrice) dato a questa dea. Vi si tratta una comica difesa di Euripide allora vivente contro le accuse delle donne satireggiate da questo tragico che quì vien motteggiato a tutto potere.

Atto I. Mnesiloco suocero di Euripide si consiglia con lui e va cercando il modo di difenderlo dalle donne irritate, le quali nel celebrarsi le feste accennate debbono giudicarlo. Ambedue picchiano alla porta del giovane tragico Agatone per supplicarlo di prendere fralle donne la difesa di un suo compagno. Viene fuori il servo di Agatone, il quale colle sue comiche espressioni si dimostra preso (come ordinariamente avviene a’ servi de’ letterati) dalla smania di far da bell’ ingegno ad imitazione del padrone: Osservate, o popoli, un silenzio religioso ora che il coro delle muse disceso nel gabinetto del mio padrone gli sta inspirando nuovi poemi: ritenete, o venti, i vostri fiati: sospendete, {p. 174}o flutti, il mormorio.

Mnes.

Capperi!)

Eur.

Non taci?)

Ser.

E voi, augelletti, fate pausa a’ vostri gorgheggi: e voi, fiere selvagge, cessate di agitar correndo le boscaglie.

Mnes.

Cospettone!)

Ser.

Ecco il mio gentil padrone . . . . si accinge a verseggiare.

Ad istanza di Euripide viene fuori Agatone cantando. Mnesiloco è rapito dalla melodìa; indi maravigliato della di lui attillatura e mollezza, Donde sei (gli domanda) o tu che non sembri uomo del tutto? quale è la tua patria? che foggia di vestire adopri tu? che vivere ambiguo? come accoppi tu lo specchio e la spada? di che spezie sei tu? parla: hai tutto quello che sta bene ad uomo? Tu sembri allevato come una donna; ma dove sono le poppe? Questo tragico assettatuzzo risponde, che un poeta aver debbe i costumi convenienti alle favole che maneggia; e chi ne fa delle effemminate, uopo è che accomodi se stesso a quei costumi . . . . Ibico, Anacreonte Tejo ed Alceo versatissimi nella musica portavano creste femminili e ballavano alla Jonica; e Frinocoo che appariscente e vago era, vestiva leggiadramente; la natura fruttifica secondo i semi. Mnesiloco che è alquanto buffone risponde: Perciò dunque {p. 175}Filocle ch’è disonesto, compone disonestamente, e Senocle ch’è malvagio, sorive perversamente, e Teognide ch’è freddo, freddamente verseggia. Dopo ciò vien pregato di accompagnar Mnesiloco, e di parlare a favore di Euripide accusato come nemico delle donne. Agatone se ne scusa, ed è forza che il solo Mnesiloco tolga sopra di se l’ impresa. Euripide gli rade la barba e gli brucia i peli non senza dolore del vecchio, e in presenza dello spettatore lo trasforma in donna cogli abiti di Agatone. Fatto ciò, dopo di un giuramento di Euripide di non abbandonarlo nel pericolo, Mnesiloco affettando i modi e ’l portamento femminile vassi a mescolar tralle donne. Un coro composto di donne insieme col banditore invoca le deità tutte, pregando che muoja di mala morte colui che tende insidie al popolo, o che maltratta le donne, o che fa tregua o amicizia con Euripide, o che pensa di farsi tiranno della patria, o che manifesta qualche donna che espone un fanciullo, o la serva ruffiana che svergogna il padrone, o la messaggiera bugiarda che porta notizie e speranze false, o quell’indegno che inganna e non paga le donne, o la meretrice che tradisce il drudo, o le vecchiarde che regalano i loro mercenarj amanti.

Atto II. Il banditore intima l’aringa contro Euripide. Sorge una donna a concionare e va noverando tutti gl’ improperj {p. 176}detti dal tragico contro il loro sesso, e le debolezze e gli artificj donneschi da lui propalati. Un’ altra donna l’accusa di ateismo e che coll’aver negato l’esistenza degli dei, ella che vender solea ghirlande per gli sacrifizj, dopo le di lui tragedie, non vende la metà delle corone che prima vendeva. Appresso levasi Mnesiloco, e contraffacendo la voce femminile, e usando de’ tuoni acuti, sottentra ad aringare a favore di Euripide, e mostra quante e quante altre cose ha taciute quel tragico, le quali poteva pubblicare in isvantaggio e disonore delle donne. E quì il comico spiega tutta l’amarezza della satira contro il bel sesso, facendo raccontare a Mnesiloco mille e mille furberie donnesche alla giornata praticate. Tale aringa solleva l’assemblea femminile contro la finta oratrice che vien minacciata di esser pelata col fuoco. Continua non per tanto Mnesiloco a riferire gl’ inganni femminili, e i parti supposti, e i regali dati alle ruffiane nelle feste Apaturie, e i beveraggi apprestati ai mariti per farli impazzire ed altro. Il romore che eccita questa maligna orazione, è sospeso dall’ arrivo di Clistene (cui il poeta dà il nome di putto a cagione dei di lui costumi) il quale fa sapere alle donne di aver udito nel foro che Euripide ha inviato nel tempio di Cerere il vecchio suo suocero vestito da donna a prendere la sua difesa e a spiare i loro consigli. {p. 177}L’angustia di Mnesiloco vicino ad essere scoperto dovea produrre uno spettacolo assai piacevole. Egli si spaventa e l’assemblea si pone in iscompiglio. Chi sarà mai? vanno dicendosi le donne. Dove sarà questo vecchiaccio disgraziato? è costei? e quell’ altra? Cade infine il sospetto sulla finta donna, per non essere essa da veruno di loro conosciuta. Fanno sopra di lui tutte le necessarie ricerche per assicurarsi del sesso, e toccando la verità lo prendono per consegnarlo al magistrato. Un giuoco di teatro ben vivace dovea risultare dal movimento di tutta l’adunanza, e dalle diligenze che faceva il coro per accertarsi, se altri vi fusse ancora così mascherato.

Atto III. Il suocero di Euripide non so come si sviluppa e si distriga dalle donne che lo custodiscono, e strappata dalle braccia di una di esse una bambina tenta di fuggire. E con aria minaccevole, facendo forie una parodia di qualche scena tragica, No, dice, non sia che mai più tu allatti questa fanciulla, se non sono lasciato in libertà; con questo ferro le taglierò le vene, farò che ne sgorghi tutto il sangue e ne rosseggi quest’ara. La donna chiama le altre in soccorso, e minaccia di farlo bruciare. Mnesiloco furibondo si accinge a svenare la bambina: Incolpa o misera fanciulla (dice a lei rivolto), incolpa della tua morte la spietata tua genitrice: mori . . . . Che veggio? La {p. 178}bambina è diventata un’ otre di vino, ed ha le scarpe alla Persiana! Di quì Mnesiloco prende argomento per inveire contro l’ebrezza e intemperanza donnesca. Quello che rende più satirico e piacevole questo colpo teatrale, è che l’ azione si rappresenta nel terzo giorno delle Tesmoforie, le quali duravano cinque dì, e quello di mezzo era consacrato alla penitenza, e le donne lo passavano in un rigoroso digiuno. Ora il poeta dà ad intendere in qual modo esse digiunavano, e mette in vista la loro ipocrisia, mentre, provvedendo in segreto al loro ventre, osservano all’ apparenza le pratiche della religione. Adunque Mnesiloco per vendetta vuol forare la pelle dell’otre; ma Mica tenera madre della bambina implora la di lui clemenza, e chiama Mannia, perchè rechi almeno un vase da raccoglierne il sangue. Altre donne sopraggiungono, e Mica affrettasi di far noto al magistrato il di lui delitto. Mnesiloco vedendosi a mal partito incide su di un legno il proprio pericolo con intenzione di affrettare Euripide in suo soccorso. Il coro giustifica il proprio sesso, ed accusa gli uomini degli eccessi delle donne.

Atto IV. Mnesiloco aspettando invano il genero tenta la fuga, fingendosi Elena moglie di Menelao. Una donna lo rimprovera per questa nuova follìa; ma egli senza darle retta pronunzia alcuni versi tragici {p. 179}come se veramente fosse Elena. Questi versi non possono essere imitazione di alcun passaggio di tragedia? Questo dubbio può renderci cauti in non tacciar così spesso il comico di avere molte volte innalzato lo stile. Viene Euripide in forma di Menelao, e la scena è tragica e graziosa. Tutto ciò che vedesi sul teatro, viene da essi adattato alla storia di Elena: il paese diventa Egitto, il tempio chiamasi casa di Proteo, l’altare vien detto sepolcro, la donna ch’è presente detta Critilla, è presa per Teonoe figlia di Proteo. Dopo ciò il finto Menelao e la finta Elena fanno vista di ravvisarsi e riconoscersi. Ecco un dialogo ed un’ agnizione tragica, che accompagnata dalla parodia e caricata con azione buffonesca solea produrre sì piacevole effetto sulle scene Ateniesi. La donna intanto che custodisce il colpevole, annunzia la venuta di un arciero o fante della giustizia, ed Euripide si ritira. Mnesiloco è legato, ed il coro con balli e canti conchiude l’atto.

Atto V. Euripide non comparisce più, ed il suocero freme. Si avvede poi che di lontano gli fa qualche cenno, dal quale intende (per altro con poca verisimilitudine) che vuole che si finga Andromeda. Euripide torna vestito da Ecco, e la finta Andromeda recita alcuni versi tragici. Euripide la consola. Chi sei tu? gli dice Andromeda. Io sono Ecco che ripete i suoni e le {p. 180}parole; e seguita la scena della ripetizione delle parole. Ecco sen fugge con maraviglia della finta Andromeda. Ma Euripide ritorna in forma di Perseo; e da questo nuovo travestimento nasce un nuovo passaggio tragico. E’ chiaro che tutte queste trasformazioni tendevano a contraffare e ridicolizzare le tragedie più rinomate. Il coro invoca Pallade, ed Euripide dice alle donne, che se vogliono venir seco a patti, e liberar Mnesiloco, egli promette con giuramento di non dir mai più male di loro. Le donne sono di accordo, ma temono che il custode abbia ad opporsi; al che Euripide si traveste per l’ultima volta da una vecchia accompagnata da una giovanetta, per mezzo di cui adesca il custode, lo disvia, scioglie Mnesiloco, e si fugge con lui. La bellezza de’ tre primi atti non pare agli occhi miei continuata ne’ due ultimi; ma il comico contava certamente sulla varietà delle imitazioni e parodie, le quali presso la posterità già sazia delle trasformazioni degli zanni scemano di pregio in ragion del tempo che va tramezzandosi fra essa ed il comico. Anche in questa favola osserva il gran poeta Cesareo (nel capitolo V dell’Estratto della Poetica di Aristotile) che l’ azione incomincia in istrada, poi passa, continua e finisce nel tempio di Cerere. Ma se la scena si figuri, come agevolmente poteva eseguirsi nel vasto teatro Ateniese, che comprendesse {p. 181}due membri, de’ quali l’uno rappresentasse parte di una strada, e l’altro il tempio di Cerere adjacente, il luogo in tal caso sarebbe uno.

Le Rane (Βατραχοι). Eschilo, Sofocle ed Euripide erano già trapassati, quando fu composta e rappresentata questa favola, nella quale di que’ tragici si giudica, e si fa spezialmenre la comparazione di Eschilo ed Euripide, dandosi al più antico la preferenza, comechè vi sieno amendue acremente motteggiati. Vi s’introduce Bacco vestito ridicolosamente da Ercole, e si finge molto poltrone, per deridere probabilmente qualche poeta che era mal riuscito a vestire e a caratterizzare il figliuolo di Alcmena. Bacco in compagnia di Santia suo servo che porta alcuni vasi, il letto ed altro, batte alla porta di Ercole, e gli dice che in leggendo l’Antromeda di Euripide erasi invogliato di trarre questo tragico dall’inferno ed averlo seco. E che vuoi tu farne? gli dice Ercole:

Bac.

Vò che ritorni al mondo, perchè i tragici che vi sono rimasti, sono ignoranti.

Erc.

Tutti ignoranti? Ma non vive Jofone?

Bac.

Questo è l’unico che sia passabile; ma non so dire ove ei sia.

Erc.

Non sarebbe meglio portar què Sofocle anteriore ad Euripide?

Bac.

Io non vò altri che Euripide, perchè un {p. 182}furbo, com’ egli è, saprà contribuire dalla sua banda a far sì che io possa agevolmente condurlo meco.

Erc.

Ed Agatone dove egli è ito?

Bac.

Mi ha lasciato questo poetino tanto desiderato dagli amici.

Erc.

In che parte sarà andato?

Bac.

Nel convito de’ beati.

Erc.

Senocle poi?

Bac.

Egli è morto.

Erc.

E Pitangelo? . . . . E tanti altri giovani, i quali sono autori di più di diecimila tragedie e sono più loquaci di Euripide?

Bac.

Sono tutti cianciatori che fanno vergogna al mestiere.

Questo squarcio ne dà la storia de’ tragici che sopravvissero a Sofocle, fra’ quali, al dir di Aristofane, il meno cattivo era Jofone. Bacco poi vuole che Ercole gl’ insegni la via da calare speditamente all’inferno; ma vuole che gliene additi una che non sia nè troppo calda nè troppo fredda:

Erc.

Te ne additerò una bella, cioè quella di un legno ed una corda, impiccandoti.

Bac.

Oibò, questa via suffocatoria non mi piace.

Erc.

Ti dirò quella di un pistello e di un mortajo.

Bac.

Intendi tu con manipolare qualche veleno?

Erc.

Sì certo.

{p. 183}

Bac.

No no, questa mi farebbe subito gelar le gambe.

Erc.

Ne vuoi tu sapere una speditissima?

Bac.

Dì su.

Erc.

Andrai al Ceramico.

Bac.

E poi?

Erc.

Vi vedrai più bassa una lampada, e se chi ti vede vorrà farti la carità di mandarti giuso, vi andrai.

Bac.

Dove?

Erc.

Abbasso.

Bac.

Tu vuoi che ti rompa la testa. Io non vò miga andar per siffatte vie.

Erc.

E perchè?

Bac.

Perchè vò gire per quella che tu facesti.

Erc.

Oh! per quella avrai molto travaglio. Bisognerà calare in una palude profonda.

Bac.

E come la passerò io?

Erc.

Un vecchio barcajuolo ti tragetterà, se gli darai due oboli.

Bac.

Oh oh! anche nell’inferno hanno forza le monete? Ma in che modo vi andasti tu?

Erc.

Mi guidò Teseo ecc.

Ercole gli dice poi tutto il cammino e le difficoltà che incontrerà e parte. Bacco rimane fermo nel proposito di andarvi, ma Santia vorrebbe almeno ajuto da alcuno per portar la carica. Veggono un morto condotto a seppellirsi, e gli domandano, se voglia {p. 184}portar que’ vasi; il morto dice che gli porterà per due dramme. Due dramme a Bacco sembrano troppe; non convengono, e s’incamminano soli senza cercar di altri. Trovano Caronte che ammette solo Bacco nella sua barca, e Santia è costretto a fare a piedi il giro della palude. Si sente il molestissimo coro delle Rane, le quali coll’ ingrato gracidare Brecececex coax coax fanno montar la stizza a Bacco. Questa scena molto corta, ed il coro delle Rane, il quale, secondo lo Scoliaste, neppure compariva in iscena, ha dato il titolo alla favola. Finisce la navigazione, scende Bacco, ed incontra il servo. Domandagli se ha veduto tutte le cose accennate da Ercole. Santia risponde di no, e stima che le abbia dette per ispaventarlo; ma egli è bravo, non conosce timore. Sente però uno strepito, e comincia a temere. E’ curiosa in questo luogo la descrizione dell’Empusa, o sia della Fantasima, che per ventura possiamo far conoscere colla versione dell’eruditissimo Signor Abate Cesarotti95:

San.

Zitto, che non so che d’intorno rombami.

Bac.

Dove?

San.

Dietro le spalle.

Bac.

E bene arretrati.
{p. 185}

San.

Non più dietro, è dinanzi.

Bac.

Avanza.

San.

Ob canchero.
Io veggio colà giù la gran bestiaccia.

Bac.

Cos’ è?

San.

Tutto.

Bac.

Che tutto?

San.

Un cento-facce,
Un cento-forme: or è cavallo, or pecora,
Or bue cornuto, ed ora una freschissima
E bella giovinotta.

Bac.

Ah ch’io la brancichi.

San.

La giovinotta è già sparita, e restati
Per conforto una cagna, or vanne, e stringila.

Bac.

Oimè! questa è l’Empusa!

San.

Affè ch’io credolo.
Ve’ ve’ che il viso come bragia avvampale,
E una gamba ha di bronzo, e l’altra ....

Bac.

Io palpito.
Di sterco?

San.

Appunto.

Bac.

E’ dessa! ove rimpiattomi?

Un coro di sacrificatori canta di poi le lodi di Bacco, e dice quali sono i perversi, i furfanti, i traditori, che debbono star lontani da i cori sacerdotali. Qui campeggia tutta la mordacità del comico. Bacco batte alla porta di Plutone, e si annunzia per Ercole. Ercole? (risponde Eaco furibondo), colui che rubò il nostro cane Cerbero? Bacco s’impaurisce e prende il partito di cangiar vesti con Santia che mostra più coraggio di lui. Ma viene una fantesca di Proserpina, la quale accoglie Santia, {p. 186}credendolo Ercole, con molta cortesia e affabilità, e pensa di presentargli un buon pranzo; la qual cosa udendo Bacco, per goderne, riprende la clava e la pelle di leone. Vengono però altri servi che lo prendono per un rubatore, ed egli dice a Santia che torni ad esser Ercole. Torna Eaco, e per sapere quale di essi due è il ladro e quale Ercole, immagina questo espediente: colui che soffrirà le bastonate senza dar segno di dolore, sarà certamente Alcide. E’ battuto or l’uno or l’altro: vogliono lamentarsi, ma si trattengono, temendo di peggio. Questa scena è propria de’ pulcinelli e degli arlecchini, ma è vivace e ridicola. Un pianto, uno sdegno che convenga occultare, un riso o dissimulato o sforzato, ogni affetto in somma che sia conosciuto dallo spettatore, ma che si debba reprimere, produce in teatro un effetto assai piacevole. Al fine Eaco risolve di condurli al cospetto di Plutone e di Proserpina. Dopo il coro lo stesso Eaco parlando con Santia accenna la contesa di Eschilo ed Euripide, per la quale havvi tra’ morti un gran contrasto. E’ una legge dell’inferno che il più eccellente in un’ arte occupi la sede di Plutone, pronto a cederla a un altro di maggior nome che sopravvenga:

E perchè dunque (dice Santia) Eschilo è così adirato?

{p. 187}

Eac.

Perchè-egli avea la sede onorifica delle tragedie come ottimo artefice.

San.

Ed ora chi la possiede?

Eac.

Euripide . . . . . .

San.

E non n’è stato ancora discacciato?

Eac.

No, ma il popolo grida, e pretende che si esamini qual de’ due sia il più insigne.

San.

E Plutone che cosa ha deliberato?

Eac.

Farne l’esame.

San.

Ma Sofocle perchè non ha occupato il posto tragico?

Eac.

Quando egli discese giù, porse la mano ad Eschilo, lo baciò, e non volle aspirare al trono . . . . Ora che sa che si contende pel primato, ha risoluto di confermare ad Eschilo la cessione in caso che rimanga vincitore; se poi egli perda, fa conto di combattere contro di Euripide.

Si commette a Bacco il giudizio. Vengono i poeti altercando e ingiuriandosi. Bacco cerca di farli acchetare. Non è dovere, ei dice, che poeti, uomini di lettere, si vituperino, e dicansi villanie come due donnicciule che vendono del pane. Eschilo protesta di aver pena di contendere con un emulo la cui poesia è morta coll’ autore, dovechè la sua è ancor viva. Comincia la disputa.

Euripide in prima taccia l’emulo come {p. 188}superbo: gli rimprovera che in lui il coro solea guastar l’ordine del canto, quattro volte tacendo: ne censura l’uso delle parole strane ignote agli spettatori. A quest’ultima cosa Bacco aggiugne che in fatti egli avea un’ intera notte vegliato, per sapere che mai fosse un Equigallo. Ma a ciò Eschilo risponde: O ignorantissimo, impara che questa era una dipintura capricciosa fatta sulle navi. Segue Euripide: Non ho fatto io così, che avendo ricevuta l’arte da te che eri gonfio e pieno di jattanza, e che adopravi parole inintelligibili, primieramente l’ attenuai, le tolsi ogni turgidezza, le diedi un linguaggio più umano, più naturale, più adattato alle varie persone che imitai. Son io (soggiugne) che ho insegnato a parlare agli Ateniesi: son io che ho fatto discepoli migliori de’ tuoi; perochè tu non hai che Formisio, Menegeto, e Sarcasmo, ed io ho Clitofone e Teramene. Toccando ad Eschilo a favellare così prosegue il dialogo:

Esc.

Or dimmi tu, perchè si loda e si ammira un poeta?

Eur.

Per la destrezza e per l’ammonizione, sendo nostro dovere il render gli uomini migliori nelle città.

Esc.

Or tu all’incontro di buoni gli hai fatti divenire scellerati. Non così io che in vece di renderli sofisti, ciarloni, astuti come tu, gli ho fatti generosi {p. 189}e inclinati all’armi, di modo che chiunque ha veduti i Tebani, ha desiderato esser guerriere . . . . Facendo rappresentare i Persi, ho stimolato i compatriotti ad addestrarsi a superare gli avversarj con opere generose. Io non ho fatto come quest’ Euripide le Fedre meretrici, ne le Stenobee; anzi mi sono astenuto sempre di ritrarre donne innamorate. In oltre io non solo ho dato come conveniva parole magnifiche à semidei, ma gli ho ancora vestiti di abiti tragici, gravi e assai più nobili di quelli che comunemente usiamo; dovechè tu distruggendo questo bel ritrovato gli hai abbigliati trivialmente.

Dopo ciò Euripide riprende i prologhi di Eschilo, e in prima quello della tragedia intitolata Orestia. Eschilo ancora motteggia di quelli di Euripide; ed in qualunque cosa essi dicano, Bacco frammischia qualche facezia sullo stile de’ nostri zanni istrionici e de’ graziosi della commedia Spagnuola. Passano indi alla censura de’ canti o sia della musica apposta alla loro poesia. Sembra che Euripide ripetendo uno squarcio di qualche dramma di Eschilo, lo declami colla cantilena da Eschilo usata, esprimendola col ripetere per modo d’intercalare Flatto tratto flatto trat, come noi diciamo laralara laralà, {p. 190}e forse motteggiandola di monotonia. Ed Eschilo lo paga della stessa moneta, riprendendo la cantilena di Euripide Ei ei ei ei. Tali critiche benchè esagerate che Aristofane mette in bocca ai due tragici, ci conservano il giudizio de’ Greci contemporanei sulle tragedie, e non parrà nojosa e inutil cura l’averle quì opportunamente rapportate. In fine Bacco pone questi emuli a un nuovo cimento, volendo che profferiscano a vicenda un verso, per esaminare qual sia di maggior peso; ma vi buffoneggia su al solito, prendendo la parola peso materialmente, e dando la palma a colui che nomina in esso cose più gravi. Giudice siffatto dà la precedenza ad Eschilo, il quale si accinge a tornar tra’ vivi; ma prima dice a Plutone che conceda la sede tragica a Sofocle, affinchè gliela conservi, in caso che dovesse egli ritornare all’inferno, non istimando altri degno di occuparla in sua vece. Il giudizio derisorio, ed il fondamento della sentenza pronunziata da Bacco manifesta che Aristofane volle burlarsi di ambedue, benchè con più asprezza malmenasse Euripide. Il dotto Nisieli ha rilevate le sconcezze del viaggio fatto da Bacco in sì poco tempo dalla superficie della terra al centro, passando il semidiametro di essa di 3436 miglia; dalla qual critica s’impara il sito dell’inferno de’ Greci. Sarebbe a desiderarsi che i critici in ogni censura domandassero a se {p. 191}stessi, a qual genere appartiene la favola che io esamino? La maggior parte delle osservazioni di questo erudito contro Aristofane svanisce al considerarsi che egli volle misurare le di lui favole colla squadra della commedia, e dovea adoperarvi quella della farsa: egli non vide se non il teatro comico Fiorentino del secolo XVI, e dovea risalire al teatro allegorico Ateniese, e spiarne l’indole e le vedute.

Le Nuvole (Νεϕελαι). La più artificiosa, la più salsa, la più abbondante di colori comici tralle commedie di Aristofane, è questa intitolata le Nuvole composta nel nono anno della guerra del Peloponneso, la quale diede agli Ateniesi oziosi materia di ragionare anche due mesi prima che l’autore ottenesse la licenza di porla in teatro. Per gustarne le grazie e l’artifizio senza detestarla, altro far non bisogna se non che al nome del virtuoso Socrate che astiosamente vi è malmenato, sostituirne un altro fantastico di qualche impostore malvagio corruttore della gioventù. Non fu già vero ciò che s’imputò al poeta, cioè di essere stato subornato e pagàto da maligni sacerdoti professori di eloquenza Anito e Melito per comporre questa commedia col fine di procurar per tal mezzo la condanna del buon filosofo. Di ciò non v’ha pruova nè verisimiglianza. Socrate fu sentenziato ventidue anni dopo, ed il suo credito non iscemò {p. 192}punto per la rappresentazione delle Nuvole. Può ben dirsi però che in essa il comico temerario osò attaccare la stessa virtù e preparare gli animi degli spettatori a udir senza ribrezzo calunniare un uomo di merito eminente e a vederlo poscia denunziare all’Areopago, o sia al Consiglio de’ Cinquecento. Sappiamo dall’altra parte da Eliano accusatore di Aristofane, che Socrate non frequentava i teatri ed il Pireo, se non quando rappresentava e gareggiava Euripide il tragico più abborrito da Aristofane. Sappiamo ancora dal medesimo Eliano, che Socrate affatto non apprezzava i comici poeti, odiando come giusto e probo e sapiente la velenosa mordacità e l’indecenza della commedia antica. Ora non bastavano tali cose per accendere nell’animo di Aristofane un desiderio di vendicarsene in una commedia? Eliano stesso dice chiaramente, και ταῦτα οὺν της κωμωδιας ην αυτῶ τα ἀσπὲρματα, e queste cose (cioè il disprezzo che facea Socrate de’ comici maledici) furono ancora l’origine della commedia di Aristofane. Tutto l’altro che aggiugne della subornazione, non ha fondamento istorico, e lo asserisce per congetture ch’egli stesso distrugge col soggiugnere, ma queste cose non possono sapersi se non dal solo Aristofane. Basti ciò per l’origine di tal commedia bella insieme e scellerata, e passiamo a darne un estratto accompagnato da qualche passeggiera riflessione.

{p. 193}

Atto I. Strepsiade padre di Fidippide si vede oppresso da i debiti contratti per compiacere al figliuolo. Mentre tutti dormono, e il figliuolo sogna cavalli e carrette, egli vigila rivedendo i suoi conti. Va rimembrando lo sproposito fatto nell’essersi egli uomo di campagna voluto ammogliare colla nipote di Megacleo donna avvezza alla vita molle e oziosa e a una libertà eccessiva, e a raffazzonarsi, imbellettarsi, profumarsi. Eccovi tre comici caratteri da piacere in tutti i tempi nelle più colte città: una donna vana che dameggia, un figliuolo di un villano che fa da cavaliere e si occupa di carrette (ed ora diremmo di carrozze) a due, a quattro ed a sei cavalli, e un contadino mal accasato che a suo dispetto si tratta da gentiluomo e si carica di debiti e di angustie. Da questo matrimonio disuguale cominciarono a buon’ ora le discordie de’ consorti, che Strepsiade va rivangando nella prima scena. Il primo contrasto avvenne per lo nome che portar dovea il figliuolo. Io voleva chiamarlo Fidonnide dal nome dell’avolo, ed ella voleva che il nome terminasse in ippo, che dinota nobiltà e generosità96, e si chiamasse o Santippo o Carippo {p. 194}o Callippide. Al fine come al ciel piacque ci accordammo nel dirlo Fidippide. Ella di poi toglieva in braccio questo figliuolo e accarezzandolo diceva: E quando, o caro, verrà quel dì che tu fatto grande condurrai il cocchio in città come faceva Megacleo vestito di seta e di panni fini? Io all’incontro gli diceva: E quando menerai tu le capre da Felleo come faceva tuo padre vestito di grosso panno? Che comici contrapposti graziosissimi! I moderni non ne hanno immaginato di più veri nè di più vaghi. Con questi principj materni non è maraviglia che il figliuolo sia cresciuto con inclinazione al {p. 195}lusso, alla vanità, ai cavalli, alle carrette, ed abbia fatto caricar di debiti il padre. Bramoso intanto Strepsiade di uscire di guai sveglia Fidippide, il quale si mostra verso il padre molto rispettoso, e ciò ne darà motivo in appresso di ammirare l’arte del poeta. Gli dice che bisogna mutar vita e costumi, mettere da banda la cavalleria, e diventar discepolo di Socrate per imparare a rispondere a’ creditori. Non vi si accomoda il figliuolo; il bisogno stringe; e Strepsiade risolve di andare egli stesso a studiare. Batte alla porta di Socrate, e un discepolo che viene a veder chi picchia, lo sgrida perchè ha interrotte le sue meditazioni. Questo solo colpo di pennello manifesta subito lo spirito della casa; che se il servo o discepolo affetta tanto l’uomo d’ingegno e di conseguenza, che sarà il padrone o maestro? Strepsiade vuol sapere in che trovisi attualmente occupato il maestro. Ed il discepolo lo prega a conservare il segreto, e gli confida che sta misurando quanti de’ proprj piedi una pulce ha saltato dalla fronte di Cherefonte alla testa di Socrate. Strepsiade domanda in qual modo possa venirne a capo. Socrate, colui ripiglia, ha liquefatto della cera, e vi ha calata la pulce, e poichè si è raffreddata, ha tolto quella spezie di calzari di cera formati ai di lei piedi, e con essi ha misurato lo spazio corso nel salto. Strepsiade esclama:

{p. 196}

O Giove! che prodigiosa acutezza!

Disc.

E che dirai di quest’altra? . . . . . Domandato da Cherefonte, se la zanzara canti per la bocca o per lo foro posteriore, Socrate dopo lunghe e seriose esperienze è giunto a sciorre sì gran problema, e si è assicurato, che il canto venga per la parte deretana.

Strep.

Il di dietro adunque delle zanzare è una tromba?

Con simili inezie il poeta in due pennellate avvilisce le ricerche minute intorno a certi insetti di niun uso continuate per una serie di anni da’ pseudonaturalisti, i quali appo il volgo vogliono passare per ingegni rari applicandosi a indagare con affettata diligenza le meno importanti produzioni della natura. Di simili comiche sferzate si ha bisogno oggidì ancora in più di un luogo, ove l’impostura coglie le palme riserbate alla scienza: ma dove sono gli Aristofani? Il discepolo apre la porta, e sembra che Strepsiade sia introdotto nella scuola senza partire dal cospetto degli spettatori; siccome anche in simil guisa si è veduto nella propria casa, indi nella strada. In Grecia la vastità de’ teatri dava il comodo agli attori di agire in più luoghi contigui successivamente senza uscire dalla scena. All’aprirsi della scuola Strepsiade si maraviglia {p. 197}de’ visacci e degli strani gesti de’ discepoli, de’ quali altri incantato guarda al suolo, altri stralunato si affisa al cielo. Osserva indi le statue che rappresentano la geometria, e l’astronomia, e i mappamondi, su i quali gli va il discepolo mostrando Atene, l’Eubea, la Laconia. Vede in fine il maestro Socrate assiso in un cesto che sta sospeso, e gli domanda in prima che cosa faccia in quel cesto. Socrate risponde che egli va colla mente spaziando per l’aere e meditando sul sole, cosa che far non potrebbe se co’ piedi toccasse la terra, perchè questa attrarrebbe a se l’umore delle sue cogitazioni, le quali non avrebbero forza di elevarsi alla contemplazione delle cose superiori. Non sembra che favelli un cerretano che vada affastellando gran paroloni ch’egli stesso non comprende, per acquistar fama di scientifico appo di chi ne sa quanto lui? L’impostura de’ falsi coltivatori degli studj severi è bene antica, e si perpetuerà massime in que’ paesi che sono privi di teatro perfetto, ove possano senza pericolo smascherarsi con grazia ed essere esposti alla pubblica derisione. Strepsiade pieno del suo disegno, più non badando alle di lui ciance, il prega perchè voglia insegnargli ad aringare esponendo di trovarsi oppresso dalle usure e di avere impegnata tutta la sua roba per essere stato consumato da un maledetto morbo cavalleresco, e promette di rimunerarlo {p. 198}giurando per gli dei. Che sorte di dei giuri tu? ripiglia Socrate. Tu dei sapere che la prima cosa che quì s’insegna, si è che non vi sono dei. Ecco le conseguenze della falsa filosofia: la vera insegna ai Newton a provare l’esistenza di Dio dalle cose fatte97; e la falsa che tutto ignora il mirabile magistero dell’universo, manca del mezzo naturale per sollevarsi da esso gradatamente alla cognizione di un ente creatore, e si appiglia al partito di negarlo. Quest’ateo adunque da Aristofane introdotto con malignità col nome del buon Socrate, insegna che non vi sia altro nume fuor delle Nuvole, alle quali fa una preghiera con parole incomprensibili per aggirare l’ignorante Strepsiade, affinchè degnino mostrarsi a questo nuovo discepolo. Odesi quì il canto del coro delle Nuvole accompagnato o preceduto dallo scoppio del tuono; nel che si noti come i comici. Greci si approfittavano di ogni occorrenza per appagar l’occhio colla magnificenza delle decorazioni. Questo canto è lavorato con forza e arricchito d’immagini poetiche. Strepsiade domanda che cosa sono queste {p. 199}Nuvole, e se son regine? No, dice Socrate, sono Nuvole celesti, dee sublimi, che agli uomini pacifici e studiosi come noi siamo danno forza per meditare e disputare, fecondano la mente, e somministrano gloria, sapere, eloquenza. Questa è adunque la ragione, ripiglia Strepsiade, per cui udendo la loro voce io mi sento una voglia di volar su, di dir cose sottili, disputar del fumo, attaccarmi alle paroluzze, seminare equivoci, e contraddire. Vuole indi veder le Nuvole, e Socrate gli dice, che si volga verso il monte Parnaso, donde potrà vederle venire. Quì a poco a poco andavano esse empiendo il teatro, comparendo in sembianza di donne. Stupisce il candidato, perchè queste Nuvole non rassomigliano a quelle che ei suol vedere in aria, avendo queste l’aspetto donnesco, e quelle che volano per l’aria sembrando tanti volumi di lana che ondeggia. O sciocco, gli dice Socrate, non hai tu alcune volte veduto in cielo le Nuvole simili a un centauro, a un pardo, a un lupo, a un toro? Esse si trasformano in quello che vogliono. Se vedono uno zotico come Senofonte, prendono la forma di centauri: se un rapace come Simone, diventano lupi: se il poltrone Cleonimo, si fanno cervi: ed ora che hanno aocchiato l’ effemminato Clistene, si sono cangiate in femmine. Ecco in qual guisa seminavano i comici la sa tira personale e nominavano i {p. 200}viventi. Sparge indi il poeta varie empietà, facendo che Socrate neghi Giove, per renderlo odioso, giusta l’oggetto che si ha prefisso. Ma Giove, dice Strepsiade, non fulmina gli spergiuri? Ciance (replica Socrate): se ciò fosse vero, a quest’ora non avrebbe incenerito Simone, Cleonimo, e Teoro spergiuri e mancatori spacciati? Giove non fulmina se non il suo tempio, la cima della rocca Ateniese e le quercie.

Strep.

E perchè questo? le quercie forse giurano sul falso?

Socr.

Abbi per certo che non vi sono se non se queste tre cose, il caos, le Nuvole e la lingua.

Strepsiade promette di non più sacrificare, purchè col mezzo delle Nuvole diventi un esperto parlatore da poter aggirare i giudici e deludere i creditori. Le Nuvole gliel promettono ordinando che si dia in potere delle loro fantesche e si adatti ad obedirle. Socrate comincia a spiegare la sua dottrina; ma Strepsiade uomo materiale nulla ne comprende. L’atto si chiude con un coro, ma prima del canto vi si osserva una novità. Non solo il poeta mette in bocca di una delle persone del coro le proprie lodi, come si è veduto nella Pace, ma egli stesso si caccia avanti a favellar di se. E’ questo l’equivalente di un vero prologo che {p. 201}i Latini premisero alla favola. I Greci però sono scusabili, perchè il loro coro si fingeva composto di una parte del popolo per cui si rappresentava, e potevano i poeti trarne fuori chiunque per farlo ragionare, e tra tanti non sarà sembrato strano che venisse fuori lo stesso autore come un individuo di quel popolo. Tuttavolta il coro delle Nuvole si suppone composto di esseri immaginarj, ed il poeta che si presenta alla scoperta, pare che ne distrugga ogni illusione. Che che sia di ciò, egli parla di se stesso, loda le proprie invenzioni e satireggia quelle de’ suoi competitori e antepassati; dice di esser questa la migliore delle sue favole, e spera che l’uditorio l’accolga benignamente, tanto più che egli è in possesso della sua cortesia, da che non avendo l’età propria da presentar commedie (richiedendosi per legge che il poeta contasse almeno trent’anni, e, secondo altri, quaranta) ne produsse una anonima la quale fu ottimamente ricevuta. Spera adunque che la presente sia ugualmente accetta, perchè niuna indecenza nè bassezza porta seco, come quelle degli altri comici, i quali fanno uso di vesti lacere . . . per far ridere i fanciulli. Essa non si avvilisce a svillaneggiare i calvi, non a far dipinture e balli osceni, non a introdurre un vecchio che va col bastone percotendo quanto incontra, non a venire con siaccole alla mano {p. 202}a guisa di una furia. ma se ne viene unicamente adorna di bellezze naturali. In oltre io non cerco (egli aggiugne) come gli altri d’ingannarvi, riproducendo in iscena con poche apparenti variazioni due e tre volte la medesima favola. Io m’ingegno di comporne sempre delle nuove e spiritose con tal cura che l’una all’altra non rassomigli. E se una volta ho battuto Cleone, non torno a saltargli addosso mentre che giace in terra. All’incontro gli altri avondo preso a pungere Iperbolo non cessano mai di trargli de’ calci. Eupoli nella sua commedia intitolata Marica, altro non fece che trasformare la mia che nominai i Cavalieri, e solo vi aggiunse una vecchia ubbriaca che faceva un ballo lascivo, e questa ancora egli tolse da Frinico. Ermippo poi l’ introdusse di nuovo in iscena, scagliandosi contro Iperbolo98, e contro Iperbolo parimente si accanirono tutti gli altri, saccheggiando varie mie commedie. Un lungo coro termina l’atto.

Atto II. Socrate adirato contro Strepsiade che poco comprende, e nulla ritiene, {p. 203}lo chiama per dargli una lezione. La scena è molto salsa e piacevole:

Socr.

Orsù che cosa vuoi tu prima imparare di tante che ne ignori? Vuoi tu studiare di misure, di parole, o di canti?

Strep.

Di misure; perchè ultimamente da un venditor di formento sono stato burlato di mezzo stajo.

Socr.

Non ti parlo io di questo, ma di misure metriche, Dimmi quale stimi tu miglior metro, il trimetro o il tetrametro?

Strep.

Per me non v’ha cosa migliore del semisestario.

Socr.

Tu dici delle bestialità.

Strep.

O non è egli tetrametro il semisestario?

Socr.

Va alle forche, che tu sei troppo tondo e grosso. Queste cose non sono pe’ denti tuoi. Potresti pià tosto imparar di canto.

Strep.

O o, che giovano i canti alla farina?

In fine egli si dichiara di voler solo apparare il modo di persuadere l’ ingiustizia. Socrate replica, che prima bisogna apprendere molte altre cose; ma si affatica invano, perchè l’uomo di grossa pasta accomoda alle cose materiali tutte le fantastiche dettegli dal maestro. Finalmente conoscendo {p. 204}questi che per lo capo del vecchio altro non si aggira che il non rendere le usure, il persuade a raccorsi in se stesso e a meditare per rinvenire qualche espediente. Strepsiade si pruova, e poi dice:

Strep.

O Socrate carissimo, ho trovato il modo di non pagare.

Socr.

E quale è questo?

Strep.

Dimmi un poco.

Socr.

Che mai?

Strep.

Se io pagando una maliarda di Tessaglia tirassi giù di notte la luna e chiusala in un vaso rotondo me la serbassi?

Socr.

E che ti gioverebbe?

Strep.

Se non nascesse più la luna, non arriverebbe il tempo del pagamento.

Propone indi Socrate un’ altra questione:

Socr.

Se ti fosse scritta una pena di cinque talenti, a che modo la scancelleresti tu?

Strep.

A che modo . . . a che modo . . .! E’ cosa da cercare . . . Oh! l’ho trovata; è bellissima. Vedi tu, o Socrate, questa pietra de’ venditori di farmachi sì rilucente, colla quale si accénde il fuoco?

Socr.

La chiami tu vetro?

Strep.

Sì.

{p. 205}

Socr.

E bene?

Strep.

Se piglierò questa pietra, quando il Notajo sta imprimendo le lettere della pena, e mettendomi al sole farò struggere la cera e scancellar la scrittura.

Per simili puerilità e per la di lui smemoraggine Socrate s’ infastidisce, e le Nuvole consigliano il vecchio a menare alla scuola qualche figliuolo già grande se l’ha, non essendo egli più in età di apprendere. Strepsiade dice di aver bene un figlio, ma che non vuole imparare. Il coro replica che lo costringa, ed il vecchio va a chiamarlo.

Atto III. Non meno piacevole è la scena di Strepsiade col figlio. Il sale comico di questa, per avviso del dotto Brumoy, non è dissimile da quello della scena del Bourgeois-Gentilhomme, quando M. Giordano fa lezione alla moglie e alla serva. Ma se la copia (aggiugne l’avveduto scrittore) è più conforme a’ nostri costumi, non per tanto essa è men vivace dell’ originale. Strepsiade parlando al figlio impiastriccia alla rinfusa tutto quello che ha udito da Socrate di gallo, di gallina, di Giove che non esiste, del turbine che regna in sua vece ecc.; di sorte che il giovane crede che il padre sia diventato matto, e sta pensando, se debba farlo legare e menare in casa {p. 206}a forza. Strepsiade al fine l’obbliga ad andar da Socrate per imparar ciò che è giusto e ingiusto, o almeno solo l’ingiusto. Socrate per fare che il giovane impari più facilmente, vuole che ascolti il favellare del Dritto e del Torto. Vengono fuori due attori che rappresentano questi esseri allegorici, e diconsi di molte ingiurie aspramente altercando. Non v’è giustizia, dice il Torto; che se vi fosse, Giove che ha legato il padre, sarebbe stato punito. Il coro si frappone, e vuole che tanto il Dritto che ha insegnato a’ tempi antichi, quanto il Torto che insegna a’ giorni nostri, dicano pacatamente le loro ragioni, sicchè Fidippide e gli ascoltatori possano giudicare con fondamento. Il Dritto aringa lungamente a favore degli antichi semplici costumi. Il Torto mette in ridicolo siffatte cose come rancide e fuor di moda, per le quali l’uomo si priva di ogni piacere e delizia della vita. Risponde il Dritto che se i giovani prestassero orecchio a ciò che dice il suo nemico, diventerebbero tanti infami cinedi. E se ciò avvenisse, replica il Torto, che mal sarebbe? E quì il poeta lancia i più amari e velenosi tratti, rimproverando come impudenti cinedi tutti gli oratori, capitani, legati, magistrati e poeti tragici Ateniesi; e ardisce fin anche di andarli segnando a dito nell’uditorio, e dimostra di esser essi in {p. 207}così gran numero, che il Dritto stesso si confessa vinto, e passa dalla parte degli spettatori. Fidippide rimane in casa di Socrate per essere istruito. Le Nuvole esortano il popolo a pregiarle e tenerle per dee, mostrandogli i beneficj che da loro può ricevere, dispensando a tempo la piova e la serenità, e i danni all’ incontro che gli arrecheranno non essendo da esso onorate.

Atto IV. Vedendo Strepsiade avvicinarsi il tempo di pagare corre a chiamar Fidippide alla scuola. Secondo il racconto di Socrate il giovane è già perfettamente ammaestrato a negare il debito a fronte di mille testimonj. Il vecchio ne gongola. O care le mie viscere (gli dice vedendolo venire) io scorgo nella tuà fronte cert’aria novella d’impudenza che non avevi: tu hai un aspetto franco ed un colore degno di un impostore Ateniese. Sagace osservazione del poeta, per far rilevare al popolo il cangiamento di Fidippide. Egli dovette venir fuori con una baldanza e sfacciataggine totalmente contraria a quel modesto rossore, che, secondo Catone presso Plutarco, è il colore della virtù. Il gaudio del vecchio va crescendo a dismisura all’udire le cavillazioni e le risposte furbesche che dà il figliuolo. Si noti che questo Fidippide baldo, trincato, calunniatore, è diverso dal Fidippide modesto che il poeta maestrevolmente ci presentò nella prima scena, per {p. 208}mostrarci ora il frutto della corrotta scuola di un falso filosofo. Egli fa trapelare ancora, che per l’avvenire questo sfacciato andrà più oltre. Entrato il padre e ’l figliuolo nella propria casa, viene un creditore a domandare i suoi danari. Strepsiade nega, sfugge di rispondere con semplicità, si burla del giuramento fatto per gli dei, si vale delle follie apprese da Socrate, e lo discaccia. Ne sopravviene un altro; ma Strepsiade, in vece di rispondere congruamente, gli domanda, se pensi egli che Giove faccia piovere ognora acqua fresca, o se il sole attragga a se di bel nuovo l’acqua piovuta? Il creditore risponde che nulla sa di ciò, nè cura saperlo. Come dunque (ripiglia il debitore) ardisci domandare i tuoi danari, se nulla sai delle cose di sopra? Dammi almeno l’interesse (replica il creditore). L’interesse? (riprende Strepsiade); Or dimmi un poco: il mare è più pieno di quello che è stato prima? Io credo (il creditore) che sia sempre lo stesso. Come? (conchiude il mal pagatore) il mare non cresce col concorso di tanti fiumi, e pretendi tu che il tuo danajo si aumenti colle usure? E’ adunque discacciato ancor quest’altro. Il coro riflette alla malizia di questo vecchio, ed al figliuolo divenuto sommamente destro a guadagnare i litigj; ma chi sa (aggiugne) che il padre non abbia un giorno a piagnere e a desiderare ch’ei fosse mutolo!

{p. 209}

Atto V. Questo è quello che il poeta insegna nell’ultimo atto. Un giovane così corrotto dalla malvagità del padre e dalla perversa scuola del precettore, avvezzandosi a difendere l’ingiustizia, se ne innamora, e tosto arriva alle scelleraggini. Egli batte il padre, e colla solita sfrontatezza vuol dimostrare che sia ben fatto. Con mille ridicoli sofismi va puntellando l’empia proposizione, e aggiugne, prendendo ad ogni parola nuova baldanza, che sia lecito battere la madre ancora. Va scellerato (gli dice il padre tardi accorto del proprio errore), con tali eccessi ti getterai da te stesso col tuo abominevole maestro nel baratro infernale. O Nuvole, o Nuvole, questo mi avviene per voi. No (riprendono le Nuvole) tu sei stato a te stesso fabbro di questi mali. O perchè (replica il vecchio) non mi dicevate allora quello che mi dite adesso, in cambio di aggirare e ingannare come faceste un povero vecchio idiota ignorante? Noi (quelle ripigliano) facciamo sempre così, qualora conosciamo alcuno che è inclinato al male, fino a tanto che non lo gettiamo in qualche disgrazia per insegnargli a temer gli dei. Oimè! (conchiude Strepsiade) voi fate del male, ma non senza una spezie di giustizia! Ora mi accorgo che bisognava rendere i danari altrui ed esser giusto. Egli risolve di vendicarsi del perfido maestro; chiama i servi, si fa dare {p. 210}una fiaccola e attacca fuoco alla casa di Socrate che insegna i delitti, e ingiuria gli dei.

Così termina la più eccellente e artifiziosa commedia dell’antichità, ma la più infame ancora per esservi stato calunniato il più virtuoso degli uomini allora viventi. Detestabile adunque è per questo il comico. Ma travede l’eruditissimo Nisieli nel censurarlo e oltraggiarlo, perchè (a suo credere) Aristofane induce la gente a conculcare e perseguitare gli uomini giusti, sapienti ed utili99. Ciò non è vero. Aristofane induce la gente a conculcare e a perseguitare i corruttori della gioventù, gl’ impostori irreligiosi e i precettori di sofisticherie e cavillazioni, ed in ciò fece gran senno essendo il suo disegno utile e lodevole. Ma egli per malignità voleva far passare Socrate per tale, e ne merita l’indignazione de’ posteri. Nisieli non seppe distinguere questi due delitti: 1. calunniare un buono, 2. insegnare a perseguitare e a conculcare i giusti. Il primo fu il delitto di Aristofane, e vuolsi perciò detestare come maligno accusatore: il secondo che lo renderebbe un nemico del popolo, un distruttore de’ principj di giustizia e di morale {p. 211}non può imputarglisi senza ingiustizia, perchè l’ impostore da lui dipinto in tal guisa meriterebbe l’odio universale.

Stupirono alla prima gli Ateniesi a tale rappresentazione, non essendo preparati a uno spettacolo così strano. Ma lo stupore sì dissipò a poco a poco per l’arte del poeta, e le Nuvole furono avidissimamente ascoltate. E tali e tanti applausi egli ne riportò, che fu a pieni voti dichiarato vincitore, e s’impose a’ giudici, che niun altro nome a quello dell’autore delle Nuvole si preponesse100. Cartaud de la Vilade moderno preteso legislatore filosofo e storico del Gusto (cioè del proprio gusto) il quale nè arte nè ordine riconosceva in questa favola e si rideva della semplicità di Madama Dacier che l’ avea letta quaranta volte101, si sarebbe egli mai immaginato che contenesse tante bellezze, e tant’ arte, mal grado di alcuni pochi difetti che vi si notano, e dell’empia calunnia che la deturpa? Ma i Cartaud vogliono aver il piacer {p. 212}di giudicare, quantunque non sieno avvezzi a durar la fatiga di leggere con riflessione.

Si rappresentò questa favola nella festività de’ Baccanali con un prodigioso concorso di Greci e di forestieri. Socrate stesso vi assistette di proposito, sapendone il contenuto102. Or quale spettacolo meritava più gli applausi della Grecia, l’arditezza di un comico calunniatore che insolentiva contro la probità, o la tranquillità di un saggio che assisteva in piedi alla rappresentazione per farsi ravvisare da’ forestieri curiosi? Essi domandavano, chi fosse quel Socrate? Io sono Socrate (par che egli dicesse serenamente): vi pare che io sia quel malvagio corruttore che quì si morde? La virtù trionfa della malignità: ma oimè! la malignità opprime i virtuosi!

Gli Uccelli (Ορνιθες). Questa favola ha per oggetto gli affari politici di quel tempo colla Laconia, dove erasi rifuggito Alcibiade accusato in Atene. Essa abbonda di circostanze locali e di fatti particolari, piacevoli senza dubbio per gli contemporanei che ne comprendevano l’allusione, ma perduti per gli posteri, pe’ quali le bellezze sono divenute tenebre. Chi è {p. 213}quell’uccello raro di Fenicia dimorante nelle paludi chiamato Fenicottero? Chi l’uccello Medo che vaga alteramente per lo monte? Chi quell’uccello divoratore variamente dipinto? Chi quel Nibbio che signoreggiava la Grecia? Chi quel Cucco che dominava in Egitto e nella Fenicia? Tutte queste cose, mal grado de’ comentatori e degli scoliasti, oggi sono a noi indifferenti ed allora rapivano gli animi de’ Greci. L’argomento è una sollevazione degli uccelli contro gli dei per consiglio di un uomo. Dalla lettura delle commedie antiche e dal sapere qual religione professassero i popoli che le applaudivano, risulta una delle contradizioni delle nazioni. Atene venerava Giove e gli altri numi, e perseguitava i miscredenti; ma intanto facevano la delizia di Atene certe commedie, che inspiravano l’ateismo e l’irreligione.

Pistetero trasportato nel regno degli uccelli è una copia de’ viaggiatori progettisti che vanno disseminando novità negli altrui paesi per raccorne cariche e tesori. Mostra egli a’ volatili come essi sieno stati i primi regnatori delle regioni abitate, e che sieno più degli dei meritevoli di venerazione. Persuade loro che imprendano a edificarsi una gran muraglia, ad innalzarsi una nuova città, cui dà il nome di Nefelococcigia, a fare scorrerie in aria e ad intimar guerra a Giove. Cattivo esordio è questo {p. 214}certamente per cominciar gli Esercizj Spirituali al popolo Ateniese. Nel coro si ragiona del caos che precedette la creazione. Era prima di ogni altra cosa il caos, la notte, l’erebo e l’immenso tartaro. Non era la terra, non l’aere, non il cielo, ma ne’ golfi interminabili dell’erebo la notte, che ha le penne negre, partorì un uovo pieno di vento, dal quale nacque l’ amore dalle ale dorate. Quest’amore si accoppiò col caos alato nel tartaro, e produsse la razza degli uccelli. Come poi ebbe amore mescolata ogni cosa insieme, ne venne il cielo, l’oceano, la terra e l’incorruttibile generazione degli dei. Così noi uccelli siamo i più antichi di tutti i beati . . . Tutti i beni più grandi (proseguono) sono da noi compartiti a i mortali . . . Noi ad essi siamo Ammone, Delfo, Dodona, Febo, o Apolline . . . A noi destinar potrete aruspici ed are. Noi dalle nuvole sederemo al pari di Giove, e vi saremo propizj, dandovi salute, felicità, pace, vita, riso, gioventù, ricchezza. Gli argomenti poi onde invitano ed allettano gli uomini al loro culto, son questi. Se alcuno di voi, o spettatori, volésse per l’avvenire menar giorni felici e tranquilli, venga a vivere con noi uccelli. Ogni cosa turpe fra voi vietata per legge, diviene lecita e innocente nelle nostre contrade. Se è cosa abominevole e scellerata fra gli uomini il battere il padre, appresso gli {p. 215}uccelli è cosa utile e ben fatta. Questi esercizj spirituali sono pieni di pietà ed unzione. Questo coro grottesco di uomini con maschera di uccelli di varie spezie, imitava al possibile la fisonomia di coloro che si volevano additare e mordere; ed oltre a fare una capricciosa decorazione, serviva a dar motivo alla musica di essere varia e piacevole coll’ imitazione del canto di varj uccelli. Si trovano in questo coro ed anche in una scena antecedente di Epope alcune strofe, nelle quali le parole vengono alternate colla cantilena tiotio tiotinx e poi con quest’altra totototo totototo tototinx. Si prepara un sacrifizio alle nuove pennute divinità. Sopraggiugne in prima un verseggiatore cianciatore, il quale a forza di seccarlo cava dalle mani di Pistetero qualche vestito; indi un impostore che si spaccia per interprete degli oracoli; appresso un geometra che pretende misurar l’aria, compartir le strade, mischiare in tutto il suo compasso, a cui Pistetero insinua a misurar solo se stesso: ottima lezione per uno stuolo di sedicenti matematici. Tutti questi oziosi vengono discacciati, come anche uno spione ed uno che si spaccia per giureconsulto e venditore di giudizj. Dopo il canto del coro viene un messo a riferire le gran fabbriche alzate da soli uccelli nella nuova città. Il verisimile drammatico viene offeso in questa favola manifestamente, {p. 216}formandosi il progetto ed eseguendosi così presto e mostrandosene le conseguenze. Ma si vuo! riflettere che non è già una commedia di Menandro o di Moliere o di Ariosto, ma una farsa allegorica, dove quasi tutto si opera per macchina. L’azione prende poscia nuovo movimento per un altro avviso di una formidabile spedizione minacciata da Giove e dagli altri dei. Viene Iride a dire che bisogna sacrificare agli dei.

Pist.

A quali?

Ir.

A quali! A noi che siamo dei del cielo.

Pist.

Voi dei?

Ir.

Ve ne sono forse altri fuori di noi?

Pist.

Gli Uccelli sono presentemente dei, e ad essi, e non a Giove, si ha da sacrificare.

Ir.

O pazzo, o scellerato, non voler tentare gli dei, se non vuoi vedere la tua malvagia generazione giustamente oppressa e incenerita dalla potenza di Giove.

Pistetero la schernisce, minaccia il suo Giove, e la manda via. Riceve poi notizie degli applausi e onori fattigli da tutti a cagione de’ beni loro apportati colla nuova città e religione. Accorrono ad abitare fra gli Uccelli fortunati, ma ne sono esclusi, un malvagio che pensa di poter secoloro {p. 217}percuotere impunemente il padre, un ridicolo verseggiatore ditirambico chiamato Cinesia, e un calunniatore che vorrebbe le ali per far del male e guadagnare illecitamente. Dopo il coro comparisce Prometeo:

Prom.

Oimè! . . . . Che Giove non mi vegga! . . . Dov’è Pistetero?

Pist.

Che cosa è questa? Chi è costui che viene così coperto?

Prom.

Vedi tu alcuno degli dei che mi seguiti?

Pist.

Non veggio alcuno io. Ma tu chi sei tu?

Prom.

Che ora abbiamo?

Pist.

E’ un poco più del mezzodì. Ma dico chi sei tu?

Prom.

Boleto, o Peretero . . .

Pist.

O che mai dì tu!

(conoscendolo per Prometeo)

Prom.

Che fa Giove? Dà serenità o nuvole agli uomini?

Pist.

Povero il mio Prometeo! . . .

Prom.

Taci di grazia, che mi scopriranno!

Pist.

Caro Prometeo, io . . .

Prom.

Non gridare, ti dico.

Pist.

Perchè?

Prom.

Non nominarmi; me la pagherai, se per tua colpa sarò scoperto da Giove. Ma affinchè io possa tutto narrarti, prendi questo parasole, e tienlo sopra {p. 218}di me sì che non sia veduto daglì dei.

Pist.

Ottima invenzione e di te degna. Ecco ti copro. Di su ora senza timore.

Prom.

Odi adunque.

Pist.

Ti ascolto.

Prom.

Fa conto che Giove sia morto.

Pist.

Morto!

Prom.

Morto.

Pist.

E quando?

Prom.

Quando voi prendeste ad abitare in aria. Già niuno più sacrifica agli dei. ecc.

Prometeo prosegue il discorso narrandogli che fra poco verranno a lui ambasciatori di pace da parte di Giove; ma l’avverte a star saldo, e a non sacrificargli, se prima Giove non prometta di rendere l’imperio agli Uccelli e di dare a lui per consorte certa donzella che sta presso Giove e dispone di tutto; col quale avviso e consiglio Prometeo mostra al folito benevolenza verso gli uomini e avversione agli dei. Gli ambasciatori annunziati sono Nettuno, Ercole e un Triballo. Ercole viene di mal talento e bravando e minacciando di volere strangolare quell’ ardito ribelle che con un muro ha chiuso fuori gli dei. Nettuno gli ricorda che essi vengono per trattar di pace. Si propone in prima una tregua, e poi la pace, a condizione che Giove {p. 219}e gli Uccelli godano unitamente il dominio dell’universo, e che Pistetero abbia a congiungersi colla donzella accennata da Prometeo. Dopo qualche disparere tra Ercole e Nettuno si accordano, e dispongonsi le nozze del felice ed empio progettista Pistetero, e terminano gli esercizj spirituali dell’empietà. In questa favola che parmi la più strana e bizzarra e la più irregolare di ogni altra, si nominano e motteggiano Spintaro, Essecestide, Clistene, Cleonimo come divoratore delle pubbliche sostanze, e Metone Astronomo.

Le Vespe (Σφηκες) I giudici vengono in questa farsa caratterizzati come vespe. Vi si dipinge la follia di Filocleone giudice, che mal grado della debolezza della mente pretende tuttavia esercitar la sua carica, ed è rinserrato da Bdelicleone suo figliuolo per tentarne la guarigione. I servi alla bella prima prevengono l’ uditorio della strana malattia del vecchio, e dell’espediente preso dal figliuolo di tenerlo chiuso; e intanto parlano con gli spettatori della qualità della favola. Non aspettino (dice un di essi) da noi gli spettatori nè il riso rubato da Megara, nè le noci gettate da un servo in mezzo dell’uditorio, nè Euripide ingannato e burlato nella cena, nè la magnificenza di Cleone da noi motteggiata. Pur non vo’ lasciare di dirvi cosa che forse non vi piacerà, cioè che la commedia satirica è la {p. 220}più giudiziosa e la più dotta. Filocleone cerca ad ogni patto di sprigionarsi per andare a giudicare. Il coro delle Vespe ode le di lui querele, e si presta a soccorrerlo, facendolo calar giù da una finestra. Avvertitone il figliuolo accorre co’ suoi famigli. Filocleone implora il soccorso delle Vespe amiche. O giudici, o Vespe acutissime, volategli sopra, pungetegli di su di giu il viso, gli occhi, le mani. I servi e le Vespe attaccano briga. Bdelicleone vorrebbe senza lite comporre l’affare. Le Vespe lo rimproverano di tirannia. Egli riprende il carattere sospettoso degli Ateniesi e il loro costume che si andava disusando ed ora torna a venire alla moda, cioè d’incolpare per ogni poco di tirannia. Trovasi questo passo tradotto dal chiar. Ab. Cesarotti103.

Fra noi, siano le colpe o grandi, o picciole,
Tutte congiura son, tutte tirannide.
Eran già forse cinquant’anni, che io
Non udiva un tal nome, ora si dà
Più a buon mercato del salume, e aggirasi
Tutto giorno per piazza. Se alcun compera
{p. 221}
Una triglia per cena, e non vuol muggine,
Tosto grida il vicino pescivendolo,
Gnaffe! cena costui cene tiranniche.
Tal, poichè il pesce comperò, per giuntu
Domanda un porro per la salsa; bieco
Lo guata l’erbajuola, e porro porro,
Dice, tu osi domandarmi? Oibò!
Vuo’ tu farti tiranno? Eh! la repubblica
Ha forse a mantenerti anche d’intingoli?

Dopo varie altercazioni la contesa si riduce a parole, ed il giudice stravagante s’industria di provare l’autorità e superiorità che hanno i giudici nella città esercitando la loro carica, ed il figliuolo vuol provare che essi sono meri schiavi. Quest’ultimo riesce più felicemente nell’impresa; e benchè il coro alla prima si era rallegrato dell’ aringa del padre credendo di non potervisi replicare, all’udir poscia il figliuolo cangia di avviso, approva quanto questi ha detto, e così riprende se stesso: Non voler mai giudicare prima di avere ascoltato ambedue le parti. Persuaso il coro e convinto il padre, il figliuolo lo prega a desistere dal giudicare in pubblico ed a contentarsi di esercitare il suo impiego nella propria casa e nelle domestiche occorrenze. E per mantenere in certo modo appagato il vecchio {p. 222}che pargoleggia, gli prepara il ridicolo giudizio di un cane che ha rubato un formaggio di Sicilia. Tutto è ordinato colle formalità giudiziarie di Atene, e si tratta con tutta la serietà il gran litigio. E’ reo il cane? La legge lo condanna. L’accusatore è un altro cane. A tale attore e a tal reo ben conveniva un giudice mentecatto. Al giudizio precede l’usato sacrifizio agli dei; nel che si noti che quasi sempre sul teatro soleva introdursi la pompa di un sacrifizio. Dopo l’aringa dell’accusatore, si dà il termine delle difese al reo, si esaminano i testimonj, si fa in somma quanto può caratterizzar per matto il giudice, e per ridicolo, stravagante e non più udito il giudizio. Mi viene in mente a tal proposito un altro litigio agitato in un intermezzo sul teatro Spagnuolo avanti di un ridicolo giudice pedaneo, o sia Alcalde di un picciolo villaggio. Un cane avea bevuto una gran quantità di oglio in una casa. Il padrone dell’oglio volea esser pagato dal padrone del cane. Il giudice per procedere con ordine comanda che si prenda la dichiarazione e deposizione del cane; indi decreta che al cane reo sia ficcato dove meglio stia uno stoppino e che si accenda e si consumi l’ oglio a beneficio dell’attore. M. Racine dalle Vespe cavò i suoi Plaideurs, ma non potè seguire l’originale nel copiare le minute formalità de’ tribunali, nè anche valersi {p. 223}della piacevolezza che nella Greca farsa risulta dal processo allegorico, nè introdurvi il cane accusatore, che appartiene unicamente alla commedia antica. Oltre a ciò in Racine il reo è veramente un cane, ed il cappone rubato non è altro che quel che si dice; là dove in Aristofane il cane rubatore di un formaggio di Sicilia allude a un capitano, il quale avendo condotte le truppe in quell’isola, si se corrompere co’ formaggi, cioè co’ regali di quel paese104. Simili circostanze e allusioni per noi perdute accrescevano pregio alle finzioni di Aristofane, e fanno in generale rimaner la copia Francese di gran lunga superata per vivacità e interesse dal Greco originale. Io non seguirò il prelodato erudito Fiorentino Nisieli per tutte le critiche fatte aspramente ad Aristofane. Egli sempre lo condanna co’principj della commedia nuova ed io sempre dovrei ripetere che questa differisce di molto dalla farsa allegorica, cioè dalla commedia antica di Atene. I personaggi principali derisi nelle Vespe sono Alcibiade, Cleonimo, Teoro, Cleone, Filosseno, Eschine, Fano, Acestero, e Mesato {p. 224}poeta tragico figliuolo di Carcino.

I Cavalieri (Ιππεις). L’oggetto del poeta in questa favola denominata da un coro di Equiti o Cavalieri che vi s’introduce, fu di fare sul teatro una denunzia di stato contro Cleone cittadino potente, manifestando le di lui estorsioni e ruberie. Quale ardire! accusare ridendo un uomo che disponea del popolo, come suol dirsi a bacchetta! Osò il comico poeta assalirlo nel tempo ch’egli era più rispettato e temuto. Osò accusarlo a dispetto di ogni difficoltà, avendo gli artefici timorosi ricusato di farne la maschera, e niuno attore volendo montare in iscena a rappresentarlo. Aristofane non perdè coraggio. Assunse egli stesso la cura di far la parte di Cleone, e tingendosi il volto di feccia ne imitò alla meglio la fisonomia, e la foggia di vestire; e riuscì così bene nella favola a svelarne i ladronecci e gli artifizj, che il popolo condannò Cleone a pagar cinque talenti, cioè intorno a tremila scudi che furono regalati al poeta. Si finge in questa commedia che Demostene e Nicia capitani mentovati insieme con Cleone da Diodoro Siculo e da Tucidide, sieno schiavi in compagnia di Cleone, ma di lui nemici occulti. Essi l’abborriscono e lo temono. Servono a un padrone (sotto la cui immagine si adombra il popolo Ateniese) colerico, iracondo, maremmano, fastidioso, ciarlone, mangiator {p. 225}di fave (cioè avido di giudicare e dar voto per mezzo delle fave, colle quali davasi il sì ed il no nelle deliberazioni) e debole anzi che no per la vecchiaja e quasi sordo. Con quale ardita satirica allegoria dipingevasi dalla scena un popolo principe! Noi oggidì favelliamo con altro rispetto, e per lo più con manifesta adulazione anche de’ popoli che servono nelle monarchie o nelle aristocrazie. Questo nostro padrone (aggiugne Demostene) al principio del passato mese ha comprato uno schiavo tintore di pelli, di nazione Paflagone, calunniatore e ribaldo105. Costui che ha ben conosciuto il carattere e la maniera di vivere del padrone, non risparmia riverenze, inchini, umiliazioni e lusinghe; e tal volta con regalucci di pezzi di corame tiene soddisfatto il vecchio sbalordito. Egli poi allontana tutti gli altri schiavi dalla di lui presenza, si fa bello di quello che gli altri fanno di buono, accusa e calunnia i compagni e ne carpisce danaro, se vogliono ch’egli loro non rechi nocumento. Questa anticipazione del carattere di Cleone è giudiziosa e piena d’arte. {p. 226}Un poeta che cerchi dirigere l’attenzione di chi ascolta al proprio scopo, non riuscirà se non imiti sì gran maestro nel preparare l’uscita del personaggio principale. Per far cadere il loro nemico pensano gli schiavi congiurati di valersi di un oracolo che annunzia la rovina di Cleone per mezzo di un venditore di salcicce. Agoracrito è tale, ed essi gli persuadono che si addossi l’impresa di far fronte a Cleone, e di accusarlo in faccia al popolo, dandogli speranza di signoreggiare nel foro, ne’ porti, nel consiglio, nell’ esercito. In qual modo avverrà tutto questo (domanda Agoracrito), se io non sono che un venditor di salcicce? Giusto per questo tu diverrai grande, risponde Demostene. Ma io (dice l’altro) non sono uomo molto dabbene, ignoro colla musica ogni bell’ arte, appena so leggere. Baje (replica Demostene); questo è il tuo vero merito l’essere odioso, vile, ignorante: anzi è sventura che tu conosca, benchè a stento, l’abicì. Ma (il salcicciajo) come volete che io sappia il modo di regolarmi nel governare il popolo? E Demostene: Non v’ha cosa più agevole. Fa quel che fai ora delle tue salcicce; scomponi e rattoppa a tua posta, purchè abbi cura di cattivarti l’animo del popolo, indolcendolo con belle parolette, a somiglianza de’ cuochi. Animo; nulla a te manca di ciò che può rendertelo benevolo; hai la voce {p. 227}chioccia e spiacevole, sei cattivo, sei plebeo, e gli oracoli ti favoriscono. E chi mi ajuterà? dice Agoracrito. I ricchi hanno timore di Cleone, e de’ poveri non si fa caso. Demostene: Havvi un migliajo di cavalieri dabbene che odiano Cleone, e ti ajuteranno; havvi un buon numero di ottimi discreti cittadini e di spettatori che ti proteggeranno, ed io con tutti questi ti spalleggerò. Non temere no; che sebbene per la paura che si ha della di lui potenza, niuno degli artefici finora ha osato di farne la maschera, pure sarà siffattamente imitato, che verrà tosto conosciuto, essendo questo teatro pieno di spettatori savj e sagaci. Or in queste parole non sembra che la finzione tutta svanisca, e si converta in verità? Si passa dal teatro alla repubblica, dallo schiavo Paflagone immaginato al vero cittadino tolto di mira. Al comparir di Cleone si sgomenta Agoracrito e vacilla; ma al vedere che una parte del coro l’insulta ed oltraggia, ripiglia l’ardire non altrimenti che Pulcinella divenuto principe a forza e Sganarello fatto medico a suo dispetto, i quali con dispiacere e ripugnanza entrano nell’impresa, ma poi con baldanza la proseguono. Agoracrito adunque è stato in parte il modello di queste moderne farse. Egli si avanza a poco a poco ad accusarlo cogli altri, sempre più rinforzando le grida e gli schiamazzi e rimproverandogli {p. 228}varj furti. Dopo una viva altercazione vanno al Pritaneo, ed il coro esorta il suo campione salcicciajo a portarsi arditamente, incolpandolo, mordendolo, mangiandogli il collo. Intanto il coro si trattiene a favellare del poeta. Degno di lode (ei dice) è questo nostro al pari de’ poeti antichi, perchè egli abborrisce que’ medesimi che noi detestiamo, e perchè non teme di dire confranchezza ciò che è giusto . . . Egli è vero, che da alcuni di voi, o spettatori, gli è stato amichevolmente insinuato di astenersi dal troppo accusare; ma egli ne ha imposto di rammentarvi la gran difficoltà di comporre ottime commedie atte a piacere, e quanti pochi sinora vi sieno riusciti. Magnete, per quant’arte usasse, non bastò a sostenersi fino alla vecchiaja, perchè cessò di dir male. Cratino che meritò sì gran lode, stette in fiore finchè fu mordace; ma perchè ora altro non fa che cianciare, si vede andar con una corona secca e morto di sete; e pure per le vittorie riportate meriterebbe di bere nel Pritaneo. E quanto non sofferse dal vostro sdegno il comico Cratete, che pure profferiva tante e sì belle e urbane sentenze? Voi adunque benignamente compatite e perdonate al nostro poeta, e animandolo con applauso strepitoso fate che parta lieto dal teatro. Torna Agoracrito vittorioso dal consiglio ed è ricevuto con festa. Arriva ancora Cleone, il quale dopo nuove villanie {p. 229}invita l’avversario a parlare al popolo, e Agoracrito baldanzoso non ricusa il nuovo cimento. Cleone che conosce l’indole del popolo che ama di esser lusingato con parolette melate, si sforza di mostrargli il suo amore; ma l’emulo usa il medesimo artifizio con maggior felicità. Il dotto traduttore di Demostene altre volte lodato106 trasporta colla solita grazia alcuni squarci di questa scena per mostrare le smancerie adoperate da ambedue verso quel vecchio rimbambito:

Cle.

Popol mio, babbo mio, esci.

Salc.

Sì, escine,
Popoluccio, belluccio.

Pop.

E chi mi chiama?

Cle.

Son io, son desso, il tuo Cleon, che a torto
Da costui son battuto.

Pop.

E perchè questo?

Cle.

Perchè ti sono spasimato amante,
Perchè ti adoro.

Pop.

E tu chi sei? rispondi.

Salc.

Son di costui rivale, e ti amo, e bramoti
Da lungo tempo, e di giovarti struggomi.
{p. 230}

Ecco poi le offerte che essi gli fanno a gara:

Salc.

Oimè, tu siedi in queste dure pietre,
Nè costui n’ha pietà. Sorgi, io ti arreco
Un buon guanciale sprimacciato, adagiati
Bellamente su questo, onde non abbia
A logorar le Salaminie natiche.

Pop.

Chi sei tu valent’uomo? or se’ tu forse
Della schiatta di Armodio? ah questo al certo
Fu un atto generoso e democratico.

Cle.

Vedi con che moine ei lo si ha compero!
Ma 107 non mi vincerai ) Voglio, o mio Popolo,
Che sfaccendato colle mani a cintola
Tu sorba una scodella capacissima
Di un brodetto Eliastico108.

Salc.

Ed io porgoti
{p. 231}
Un alberello pien di unguento, ond’ungerti
Gli stinchi incancheriti.

Cle.

Ed io vo’ svellerti
Ad uno ad uno i grigi peli, e renderti
Un giovinastro rigoglioso.

Salc.

Or abbiti
Questa coda di lepre, o caro, e forbiti
Dagli occhietti la cispa.

Cle.

Ah se ti moccica
Talora il naso, o mio buon babbo, in grazia
Spazzati nel mio capo.

Salc.

Anzi nel mio.

Cle. )

Nel mio, nel mio.

Salc. )

Nel mio, nel mio.

Il popolo finalmente disingannato per le cose dette dal venditore di salcicce, si avvede di essere stato lungo tempo aggirato da Cleone, e gli ritoglie l’anello che aveagli dato, discacciandolo dal suo servizio. L’ultima contesa si aggira intorno agli oracoli. Cleone propone i suoi interpretandoli a suo favore: Agoracrito i suoi altresì, distruggendo la spiegazione di Cleone. Finalmente si verificano nella persona del salcicciajo tutte le circostanze dell’oracolo, e Cleone rimane convinto, ed è costretto a cedergli la corona e ad esercitare il di lui mestiere vendendo trippe, salcicce e carne cotta in una bottega di piazza. Oltre a’ nominati pongonsi in berlina ne’ Cavalieri Iperbolo, {p. 232}Tufane, Cleonimo, Clistene, Stratone, Cratino comico, Morsimo tragico, e Lisicle che succedette a Pericle da mercatante di montoni che egli era, e sì buono che il poeta lo nomina per terzo dopo Cinna e Salabacca, due famose meretrici di que’ tempi. Nisieli al solito inveisce contro Aristofane chiamandolo stoltissimo d’invenzione per aver ordinato un vilissimo pizzicagnolo per governatore del popolo Ateniese. Atene però che dovea intendersi meglio del Nisieli delle qualità richieste ne’ suoi governatori, premiò l’autore per questa commedia. Il dotto critico ciò scrivendo non badò alla costituzione democratica di Atene; ed obbliò quanto poco bastava per divenirvi cittadino ed influire nel di lei governo, avendo danajo ed eloquenza. Cleone era cuojajo, Iperbolo artefice di lanterne e l’anzi nominato Lisicle co’ suoi montoni non era pet origine più illustre dell’ allegorico pizzicagnolo de’ Cavalieri.

Gli Acarnesi (Αχαρνεις). In questa favola ancora si vuole insinuar la pace, mostrandone i vantaggi confrontati coi disastri della guerra. Diceopoli, il quale par che rappresenti il personaggio del poeta, gode di aver fatto punir Cleone colla multa di cinque talenti per mezzo della commedia de’ Cavalieri; ma si attrista, perchè la città non si curi di trattar di pace nel Pritaneo. Egli vede ammessi i Legati del re, e {p. 233}disperando della pace per l’intera nazione, pensa di mandare Amfiteo a conchiudere co’ Lacedemoni una tregua particolare per se e per la sua famiglia. Questo Amfiteo tornando avvisa che gli Acarnesi lo perseguitano co’ sassi per aver portata la pace alla famiglia di Diceopoli. La deliberazione di costui, la partenza di Amfiteo, il di lui ritorno col trattato di pace conchiuso, e le conseguenze che ne risultano, sono cose dal poeta aggruppate con poca verisimiglianza per lo tempo che dovrebbe corrervi in una commedia regolare; ma gli Ateniesi ed Aristofane erano tacitamente convenuti di stendere i confini della verisimiglianza un poco più oltre nella farsa allegorica. Diceopoli per la pace ottenuta ordina un sacrifizio in ringraziamento, celebrandosi le feste Dionisie. Sopraggiungono gli Acarnesi, e vogliono lapidarlo, ed a stento egli ottiene di essere ascoltato. Per prepararsi alla concione va a battere alla porta del tragico Euripide, e lo prega di prestargli alcune vesti cenciose della tragedia antica per aringare al popolo. Ottiene quelle di Telefo, colle quali si abbiglia per rassembrare un povero. Con tal vestito favella al popolo, alterca con Lamaco, e gli riesce di convincere gli ascoltatori della sua innocenza per aver procurato di ottenere per se solo la pace. Havvi un coro che parla a favore del poeta ed accenna il {p. 234}pericolo ch’egli corse l’anno precedente per aver detto la verità agli Ateniesi accusando Cleone. Vi si trova un colpo che caratterizza l’indole di que’ repubblicani amici di esser piaggiati, e facili a prendersi colle lodi esagerate. Trovo questo squarcio tradotto ancora bellamente dal Sig. Ab. Cesarotti109:

Quando gli ambasciatori della Grecia
Bramano di accappiarvi a qualche trappola,
Vi chiamano violi-ghirlandi-feri.
All’udir questa voce melatissima
Di gioja vi traballano le natiche.
Che se poi vezzeggiandovi vi aggiungono,
Mia grassa Atene, ogni domanda accordasi
Sol per quel grasso, e il popolo ne gongola,
Che di un majale riportò la gloria.

In vece di majale trovasi nel testo nominato il pesce apua assai celebrato dagli Ateniesi. Le lodi di portatori di ghirlande di viole e l’aggiunto di grassa, lusingavano sommamente la vanità e puerilità Ateniese. {p. 235}Disbrigatosi Diceopoli felicemente della molestia che gli dava il coro per la pace fatta, ne va godendo i frutti. Prima conseguenza di tal pace si è la libertà del commercio per lui, e non già pel bellicoso Lamaco. Si vede una dipintura naturale del mercato di Atene per decorare la favola, e vi accorrono varj venditori di Megara e della Beozia. Tra questi un povero Megarese, il quale trasforma due sue donne in guisa che sembrino porci per farne mercato, e l’esorta a contraffare il grugnito porcino per invitare alla compera. Questa è una scena episodica del comico più basso e triviale, che forse per qualche allusione potè allora piacere agli Ateniesi, e che ha dato al Nisieli motivo di declamar fortemente, quasi in essa consistesse tutto il pregio della farsa degli Acarnesi. L’abbondanza colma la casa del pacifico fortunato Diceopoli arricchito dal commercio. Il coro riflette che a lui tutto va a seconda ed ogni bene corre dietro, e che accade il contrario a chi ama la guerra. Diceopoli commendando la pace amica di Venere e delle Grazie, fa preparare un magnifico convito, e il coro ammira la copia e la squisitezza de’ cibi, la diligenza e lo zelo di coloro che servono, e i preziosi regali che da ogni banda gli vengono tributati. Intanto sopravviene un messo a Lamaco e un altro a Diceopoli, e ne nasce {p. 236}una scena piacevole e artificiosa, nella quale si mostrano le ore tranquille che si passano nella pace, e gli agitati momenti della vita di chi si trova in guerra. Si avvisa Lamaco, che tenga pronte le schiere, perchè i ladroni Beoti minacciano di volerli assaltare. Si avvisa Diceopoli da parte del sacrificatore che venga a cena, tutto essendo pronto, tavole, letti, coscini, corone, unguenti, confetture, meretrici e ballerine.

Lam.

Servo, cava fuori la mia sporta.

Dice.

Serva, portami i miei cestoni.

Lam.

Dammi del sale e delle cipolle.

Dice.

Dammi i miei manicheretti, che le cipolle m’increscono, ecc.

Così l’inevitabile frugalità del soldato contrasta colla dovizia del cittadino che gode la pace. Lamaco va a combattere, Diceopoli a cenare e a dormire. Un nuovo nunzio avvisa la famiglia di Lamaco che prepari lenzuola, balsami, empiastri, e bende da fasciar piaghe, trovandosi Lamaco ferito in una gamba e colla testa rotta. Giugne egli stesso lamentandosi e considerando per cordoglio maggiore che se Diceopoli il vede così piagato, si riderà di lui. Quest’amator della pace, il quale in fatti si è di lui avveduto, per fare vie più manifesto il suo trionfo si rallegra a misura che Lamaco si lamenta. Forse il Nisieli non si avvide {p. 237}di questo artifizio, allorchè asserì, che in questa favola era una confusione di cose parte orribili e parte ridicole. Così termina la commedia degli Acarnesi, nella quale dal principio al fine si scorge, lo scopo principale del comico spettacolo Greco essere stato di maneggiarvisi le questioni politiche, le quali secondo gli affari correnti si agitavano in Atene. Espongonsi principalmente in essa alla pubblica derisione Lamaco generale della repubblica soverchiamente appassionato della guerra, Teoro orgoglioso senza fondamento, Ctesia calunniatore, Lisistrato mendico benchè impostore, Artemone codardo, Stratone e Clistene effemminati, Euripide introduttore di vestiti laceri e meschini nella tragedia, Amfiteo povero e fiero dell’albero genealogico della sua schiatta, oltre a Cleone prepotente, a Cleonimo ingordo, e al freddo poeta Teognide e al comico Cratino, i quali entrano pressochè in tutte le favole di Aristofane.

Il Pluto (Πλουτος). Quarant’anni dopo che Aristofane produsse sotto l’Arconte Diotimo la prima sua favola sulle scene Ateniesi, fu scritta la commedia del Pluto in un genere comico totalmente nuovo. De’ pubblici affari non vi si favella punto nè poco: havvi un coro di villani nulla mordace: vi si ritraggono e satireggiano ben pochi particolari, pochissimi vi si nominano: {p. 238}la maldicenza antica cede il luogo alla finzione, la quale sola ne forma tutta la piacevolezza. La spoglia allegorica di questa favola cuopre un tesoro di filosofiche verità, e mette in azione, sotto l’aspetto piacevole e popolare di una favoletta anile; quanto nel profondo discorso sulle grandi ricchezze ragionò con vigor sommo e salda dottrina l’immortale filosofo non mai abbastanza ammirato e sospirato l’Ab. Antonio Genovesi. Ecco la materia e la traccia dell’azione. Cremilo uomo dabbene povero e disgraziato si consiglia coll’ oracolo di Apollo intorno al modo di migliorare la propria condizione, e al genere di educazione che dovrà dare all’unico suo figliuolo. Vuol sapere, se dee fargli cangiar costume, e renderlo malizioso, scaltro, disleale, malvagio, affinchè abbia miglior fortuna e più ricchezza del padre. Apollo risponde che all’uscir del tempio si ponga a seguitare il primo che incontri sulla strada non mai abbandonandolo, finchè non l’induca ad entrare nella sua casa. Cremilo obedisce all’oracolo, imbatte in un cieco mendico e lo va seguitando. Carione suo servo se ne maraviglia, e vuol sapere ad ogni patto, perchè tenga dietro a quel cieco. Forzato dalle di lui importunità Cremilo gli narra la risposta dell’oracolo; indi prega il cieco a volergli dire chi egli fia. Ricusa il cieco di palesarsi; {p. 239}ma pressato con minacce da Carione manifesta di esser Pluto il dio delle ricchezze e di trovarsi sì mal condotto, sporco e privo degli occhi per l’invidia di Giove. Tutto il mio male (ei dice) mi viene da Giove invidiosó del bene altrui. Essendo io giovane mi proposi di andar soltanto in traccia di uomini savj, giusti e probi, ed egli mi tolse la vista, affinchè non potessi distinguere i cattivi da i buoni, a’ quali egli porta sì grande invidia. Cremilo gli domanda, se ricuperando la vista eviterebbe i malvagi e arricchirebbe i buoni? Pluto risponde di sì, e vuol partire. Cremilo nol permette, gli dice ch’egli è uomo dabbene, e gli fa sperare di adoperarsi per fargli ricuperar la vista. Pluto non osa condiscendere per timore di Giove e Cremilo riprende la di lui pusillanimità: Credi tu che i fulmini di Giove saranno più rispettati riacquistata che avrai la vista? . . . A Giove si sacrifica unicamente per l’oro che se ne attende. Per te solo, o Pluto, tutte s’inventarono le arti e le astuzie: per te solo uno taglia corami, uno è fabbro, un altro muratore, un altro ruha e fa buchi nelle case altrui: tu sei l’autore di tutti i beni e di tutti i mali. L’ incoraggisce mostrandogli la di lui onnipotenza sulla terra, e promette d’investigare la maniera di guarirlo. Per mezzo poi di Carione invita i suoi compagni, uomini {p. 240}probi che mancano di pane, a venire a partecipare de’ favori di Pluto. Pur questi non sa risolversi ad entrare nella di lui casa. Se io (dice) entro in casa di qualche avarone, incontanente mi sotterra in una fossa, e se un povero il richiede di qualunque minimo soccorso, nega di avermi veduto mai a’ giorni suoi. Se entro in casa di qualche pazzo dissipatore, tosto egli scialacqua colle femmine e col giuoco quanto io posso dargli, e mi costringe in poco tempo a fuggir nudo dalla sua casa. Bellissime allegorie fatte per insegnare con popolarità! Al fine Pluto si determina ad entrare nella casa di Cremilo. Intanto i di lui compagni non sanno dar fede a Carione, nè persuadersi, come un cieco pitocco e pieno di malanni possa arricchirli. Anzi Blessidemo nettamente dice allo stesso Cremilo, che a lui non piace di vederlo tutto a un tratto divenuto ricco, ed ha timore ch’egli abbia rubato a qualche nume. Cremilo giura, stragiura, e al fine rivela il segreto di tenere in casa il dio delle ricchezze. Se ne maravigliano i villani, e bramano di parteciparne. No, dice Cremilo, non è possibile, se prima non si tenta di fargli ricuperare la vista. Deliberano di condurlo nel tempio di Esculapio. Frattanto viene fuori la Povertà e svillaneggia gli astanti, perchè col macchinate di dar la vista a Pluto, pensano di scacciarla dalla città. Noi (rispondono {p. 241}i villani) cerchiamo di far del bene con isbandirti dalle nostre terre. Io (replica la Povertà) vi farò toccare con mano, essere io sola la cagione di ogni bene, e non potersi commettere maggiore eccesso che procurare di arricchire i giusti . . . Se Pluto torna a vedere, le ricchezze saranno divise ugualmente, e niuno più si curerà di provvedersi di dottrina, nè di esercitar le arti. E chi vorrà più fare il fabbro? chi costruir navi? chi cucire, fabbricare, tigner pelli, mietere, arare? Io, io vi somministro tutte queste cose: io col bisogno costringo gli uomini alla fatiga. Rousseau e tutti i nostri migliori filosofi non hanno insegnatodipiù investigando il principio delle società e dell’economia politica. Quali popoli furono codesti Greci, fra’ quali nella stessa buffoneria s’insegna a pensare e a ragionar dritto, e a sviluppar la scienza politica ed economica! Quanta filosofia si nascondeva

Sotto il velame degli versi strani

di questo comico così spregevole agli occhi cisposi di molti scioli oltramontani ed Italiani! Il coro oppone che la povertà riempie anzi il mondo di miserie. Parti (dice) una bella impresa il far nascer mendici da’ mendici, l’infettare la terra di pulci, e d’insetti molesti e schifosi, il colmarla di miserabili che non hanno pane da satollarsi nè letti {p. 242}da dormire? Questi sono i beni che tu fai all’uomo . . . O semplicioni (ripiglia la Povertà) voi non sapete quello che vi pescate. Voi me confondete colla miseria; ma dovete sapere che noi siamo due cose ben distinte. La povertà nulla patisce de i disagi che voi dite, nè mai gli patirà. La vita del mendico che dipingete, consiste in mancare delle cose più necessarie: quella del povero in vivere parcamente e lavorare, in non abbondar di beni ma in non mancar di nulla. Io, vi dico, io sono quella che rendo gli uomini saggi e prudenti e di buono aspetto, a differenza di Pluto che gli fa diventare gottosi, panciuti, grossi di gambe e lascivi. I miei seguaci sono magri, sottili, svelti, accorti, ingegnosi e robusti. Osservate un’ altra cosa; gli Avvocati prima di uscire dalla povertà sono giusti, circospetti, onorati per acquistar credito, divenuti poi ricchi, cangiano costume, e si fanno impostori, falsi, doppj, nemici veri ed amici apparenti, insidiatori della plebe, oppressori e consiglieri e ministri d’ingiustizie. Queste verità ristuccano il coro avido già di ricchezze, il quale ricusa di più ascoltarla, fosse anche certo di essere interamente persuaso. Carione reca l’avviso della felicità del suo padrone e della guarigione di Pluto. Racconta la cura fattagli da Esculapio, e molti ridicoli accidenti a lui stesso avvenuti nell’andar la notte pel tempio rubando delle {p. 243}schiacciate ecc. La casa di Cremilo si converte in una reggia dell’abbondanza per le ricchezze che vi versa Pluto guarito. Ne vola intorno la fama: ognuno vi accorre. Viene un uomo giusto per ringraziarlo della mutata sua fortuna; e nella dipintura che ne fa Aristofane maestrevolmente, possiamo ravvisare il modello di tutti i prodighi, dissipatori e discoli comparsi sulle moderne scene, convertiti e ravveduti nella miseria per l’ingratitudine degli scrocchi che gli adulavano nell’abbondanza. Viene un Sicofanta110 per ingiuriar Pluto, perchè gli uomini divenuti ricchi a lui più non ricorrono. Viene una vecchia per {p. 244}querelarsi della sua sventura. Ella nutriva e vestiva un giovane bisognoso, il quale per tali comodi mal grado delle grinze la corteggiava; ma oggi che col favore di Pluto è egli uscito di miseria, l’ha abbondonata. Viene poi questo medesimo giovane, il quale in veder la sua vecchia motteggia sulle di lei rughe e sulla bocca senza denti. Viene Mercurio stesso per minacciar comicamente tutta la famiglia di Cremilo, perchè col far ricuperare la vista a Pluto non vi è più chi si ricordi di sacrificare agli dei. Ben vi sta, dice Carione, perchè di noi nulla vi curate. Adunque nè anche in una favola sì moderata si tralasciava di motteggiar contro la provvidenza; tanto lungi erano di lor natura le commedie Greche di quel tempo dall’essere gli esercizii spirituali della nazione vedutivi solo dal traduttor de’ Salmi ed autore de’ Paradossi. A me, ripiglia Mercurio, non importa un frullo di tutti gli dei, ma mi dolgo per me che muojo di fame. Questo Mercurio pezzente fa una scena da parassito. Prega di poi il servo ad accomodarlo in casa promettendo di prestare ogni servigio più vile, ed il servo lo manda a lavar delle budella. Finalmente si ricovera in casa di Cremilo un Sacerdote di Giove, il quale non ha più modo di sostentarsi ora che Pluto cogli occhi sani vede e distingue i buoni e gli arricchisce. {p. 245}Osserva giustamente l’erudito Benedetto Fioretti, che in questa favola l’azione abbraccia lo spazio di due giorni, ma la preferisce a tutte le altre, in tal guisa esaltandola111: Le Nebbie sono per tutto un giardino fioritissimo di tutte le vaghezze comiche e mimiche più desiderabili, o vuoi di motti o di concetti o di episodj o di persone o di relazioni allegoriche o d’invenzioni stranissime. Con tutto ciò il Pluto per mio giudizio par che tenga il principato di tutte quelle favole; perocchè quivi non sei stomacato da laidezze, nè scandalizzato da oscenità, nè immalvagito da perversa imitazione quanto si vede nelle altre. Il ridicolo a sufficienza; la speculazione considerabile; e la moralità infinita.

Variano assai i giudizj degli antichi e de’ moderni intorno al merito d’ Aristofane. Platone, Aristotile, Cicerone l’ebbero pel più gran poeta comico dell’antichità. Plutarco, Eliano ed altri antichi si vendicarono col disprezzo di questo maligno persecutor di Socrate, e al lor parere si sono appigliati il Fioretti o Nisieli, il Rapin ed altri moderni. Il Sig. di Voltaire però copiando la censura di Plutarco o di Rapin, {p. 246}volle aggiugnere del suo che Aristofane non era nè comico nè poeta; il che certamente avventurò con tutta la leggerezza di un petit-maître. M. Marmontel volle ancora dar su di ciò il suo parere e derise Madama Dacier che avea tanto encomiato Aristofane. Ma questa famosa letterata, sebbene mancava di certo gusto poetico necessario a ben tradurre i poeti, almeno intendeva pienamente il Greco, ed ha voto autorevole allorchè afferma che Aristofane è fino, puro, armonioso, ed empie di piacere coloro che hanno la fortuna di leggerlo originale, fortuna che auguriamo al traduttore di Lucano e all’ autore della Poetica Francese (Nota XXI). Il celebre Gian Vincenzo Gravina così perito nelle materie poetiche e nella lingua Greca versa a piena bocca su questo comico le sue lodi per la verità e naturalezza delle invenzioni, per la proprietà de’ costumi, per la felicità delle allusioni, per la bellezza de’ colpi, e per la fecondità, la pienezza, il sale Attico di cui abbonda, e che oggi a’ nostri orecchi non può tutto penetrare. Daniele Einsio, Tanaquil le Fevre, M. Boivin, ottimi giudici di poetica e di Greca lingua, ammirarono Aristofane. Il dotto Brumoy non dissimula i di lui difetti non pochi, ma ne va con profitto degli studiosi additando l’arte e le bellezze dello stile. Questi, sì, che possono farsene giudici; ma sono pur {p. 247}troppo rari giudici di simil fatta provveduti d’ eccellente criterio, e di gran perizia nel Greco idioma, e d’ intelligenza della poesia e di giudizio purgato e di gusto vero per decidere intorno alle opere degli antichi. Avea egli tutti questi pregi M. de Chamfort che nell’Elogio di Moliere volle malmenare Aristofane? Facciamolo giudicare dal buon critico M. Freron112? Aristofane (egli dice) le cui commedie empivano con tanto applauso il teatro Ateniese 436 anni prima dell’Era Cristiana, è il più gran poeta comico dell’antichità. Pieno di coraggio e di elevazione, ardente dichiarato nemico della servitù, e di quanti tentavano di opprimere il suo paese, esponeva agli occhi di tutti nelle sue favole la segreta ambizione de’ magistrati che governavano la repubblica e de’ generali che comandavano gli eserciti. Era nelle di lui mani la commedia diventata una molla del governo, il baluardo della libertà, l’organo del patriotismo. Egli vituperava con vigore tutti i vizj dell’amministrazione: or qual carriera più vasta, qual più nobile, più sublime scopo? Ei non si prefiggeva per oggetto principale il far ridere gli spettatori {p. 248}con facezie o piagnere con avventure compassionevoli, ma sì bene l’additar loro i più sacri doveri, il fortificarli contra ogni nemico domestico o straniere e l’ instruirli piacevolmente con sode lezioni. Gli Ateniesi provando sommo diletto nelle di lui commedie non contenti di applaudirlo in teatro, a piena mano gettavano fiori sul di lui capo, e menavanlo per la città tra sestive acclamazioni; anzi con pubblico decreto gli diedero la corona del sacro olivo, che era il maggior onore che far si potesse a un cittadino. Il gran re (cioè il re di Persia) domandando di questo poeta agli ambasciatori Spartani, e de’ soggetti ordinarj delle sue satire, ebbe a dire, che i di lui consigli erano diretti al pubblico bene, e che se gli Ateniesi gli seguivano, si sarebbero impadroniti della Grecia. Il gran Platone, l’idolo de’ nostri filosofi, al quale cercano con tanti inutili forzi di parer simili, scriveva a Dionigi il tiranno, che per ben conoscere gli Ateniesi e lo stato della loro repubblica, bastava leggere le commedie di Aristofane. Lo stesso Platone studiavasi di formare la propria maniera di scrivere sullo stile elegante, polito, dolce, e armonioso di questo poeta, e se n’era talmente invaghito, che onorò un sì eccellente comico con un distico del tenor seguente: Avendo le grazie cercato da per tutto un luogo per farvisi un tempio eterno, {p. 249}elessero il cuore di Aristofane, e mai più non l’abbandonarono (Nota XXII). Ecco quello che agli occhi de i dotti era Aristofane. Dopo di ciò che pensereste di un giovane Gaulese, il quale più di due mila anni dopo la morte di tal valoroso scrittore viene a dirci che egli altro non era che un satirico sfrontato, un parodista, un superstizioso, un bestemmiatore, un buffone da piazza, un Rabelais sulla scena, e che le di lui commedie sono un ammasso di assurdità, donde qualche volta scappano fuori alcune bellezze inaspettate? In tal guisa viene egli malmenato da M. de Chamfort. Probabilmente costui e di Greca lingua e di poesia113 s’intende meglio del popolo Greco il più illuminato dell’universo, meglio di Platone, meglio di Aristotile, meglio di Moliere stesso, meglio di tanti e tanti grand’ingegni antichi e moderni, i quali tutti hanno avuta la compiacenza di ammirare Aristofane. Fin quì M. Freron critico dotto, sagace, pregevole. Quello che è più notabile si è che le scempiaggini profferite da M. de Chamfort furono approvate, coronate e premiate nel 1768 dall’Accademia Francese.

{p. 250}

III.
Commedia Mezzana. §

Alterossi indi in Atene il governo e nell’oligarchia cangiò la commedia di portamento. Que’ pochi cittadini, tra’ quali tutta si concentrò la pubblica autorità, posero il freno alla licenza di tal dramma, e più non soffrirono di essere impunitamente sulla scena nominati e motteggiati. Eupoli che fiorì nell’olimpiade LXXXVIII fu la vittima della loro potenza, essendo stato gettato in mare, secondo che ci attesta Platone, per ordine di Alcibiade allora prefetto della flotta Ateniese114. E quantunque si pretenda da alcuni che dopo quel tempo altre favole avesse composto, e che egli non morisse in mare ma in Egina, pure è sempre certo che per un editto de’ Quattrocento sotto Alcibiade115, o de’ Trenta Tiranni nell’olimpiade XCIII o XCIV116, non si potè più nominare in {p. 251}teatro verun personaggio vivente, e così cessò la commedia chiamata Antica.

Da questo editto nacque la Mezzana. I poeti doveano obedire, ma volevano conservar la satira. Cercando adunque di conseguir coll’industria l’effetto stesso che produceva il nominare i cittadini, gli dipinsero sotto finti nomi con tale artificio che il popolo non s’ ingannava nell’indovinarli, e con maggior diletto gli ravvisava. In questa specie di commedia per la legge divenuta più ingegnosa e più dilettevole, il coro, nel quale più che in altra parte soleva senza ritegni spaziare l’acerbità e l’acrimonia, fu tuttavia satirico e pungente. Ma non tollerando il governo di veder delusa la sua speranza di correggere la mordacità de’ poeti, vietò il far uso in qualunque modo di soggetti veri, e impose silenzio al coro incapace di cambiar natura (Nota XXIII). Platone, poeta comico contemporaneo di Aristofane, è tenuto pel primo tra quelli che si distinsero nella commedia mezzana. Egli compose intorno a trenta commedie, delle quali a noi non son pervenuti che pochi frammenti.

Assai di lui più chiaro in tal commedia fu Alesside di Turio zio o patrocinatore di Menandro, potendosi interpretare dell’una e dell’ altra guisa la voce πατρως presso Suida. Meursio raccolse delle di lui favole {p. 252}in torno a cento tredici titoli, ma egli ne scrisse dugentoquarantacinque, i cui frammenti si leggono sparsi nelle opere di Ateneo, Polluce, Stobeo, Laerzio ed Aulo Gellio, e raccolti nelle compilazioni dello Stefano, del Morello, dell’Ertelio e del Grozio. La grazia e la vivacità della di lui satira non veniva amareggiata dalla soverchia malignità come in Aristofane. Pungeva vagamente coi motteggi gli uomini in generale, ed alcuni ceti, come le scuole Pitagoriche, e spiccava nelle dipinture naturali de’ costumi e delle nazioni117. Secondo Plutarco questo comico eccellente finì di vivere sulla scena in mezzo agli applausi essendo stato coronato per una delle sue favole. Stefano di lui figliuolo seguì, secondo Suida, le orme del padre coltivando anch’egli con applauso la commedia mezzana, ed Ateneo cita un frammento del di lui Filolacone o sia fautore degli Spartani.

Appartiene a questa commedia ancora Antifane, che fiorì al tempo di Filippo il Macedone, e tralle sue commedie tutte perdute si mentova particolarmente l’Aulete, ovvero il Flautista, in cui per ischerno introdusse {p. 253}Betalo sonatore di flauto inesperto nel suo mestiere, di che vedasi Plutarco nella Vita di Demostene.

Fiorirono parimente nella commedia mezzana Sofilo, Sotade, Efippo, Mnesimaco, Filippide, Stratone, Anaspila, Epicrate, ed Anassandride. Nacque quest’ultimo comico in Camira nell’isola di Rodi, e fiorì particolarmente verso l’olimpiade CI. Ma se Eupoli fu la vittima del risentimento del governo nel tempo della commedia antica, Anassandride lo fu nella mezzana, perchè avendo osato motteggiare del governo, gli Ateniesi lo condannarono a morir di fame. Suida ci dice che questo comico portò la prima volta sulle scene le avventure amorose e le vergini deflorate, le quali cose si rappresentarono con frequenza nella commedia nuova, da cui passarono alla Latina. Si trovano citate dagli antichi venti delle favole di Anassandride, benchè ne avesse composte intorno a sessantacinque, per le quali solo dieci volte riportò la corona teatrale. Questo poeta di vantaggiosa statura, amico di vestire pomposamente e di cavalcare, fu così altiero, che soffriva con impazienza che le sue favole rimanessero superate nel certame, e tal dispetto ne concepiva che incontinente le lacerava. Dal conoscersene però più delle dieci coronate, sembra verisimile quel che coll’ autorità di Camaleone asserisce Ateneo nel libro IX, cioè che non {p. 254}prima che pervenisse alla vecchiaja, avesse cominciato ad aver tanto a sdegno l’esser vinto.

IV.
Commedia Nuova. §

Niuna cosa pruova più pienamente ciò che sul bel principio ragionammo ne’ fatti generali della scenica poesia, quanto il nuovo rigore usato contro Anassandride, e il silenzio imposto al coro, onde furono atterriti e incatenati i poeti della commedia mezzana. Questo rigore raccolse come in un centro tutte le forze del loro ingegno, e ne ingrandì l’attività. La necessità di schivarlo suggeri l’idea di una commedia che fu chiamata Nuova, senza dubbio più delicata e discreta, e meno acre delle precedenti. Di essa pare che avesse gettati i fondamenti il medesimo Aristofane col Pluto, dove abbiamo, sì, trovato un coro, ma ben lontano dall’antica baldanza e mordacità. Anzi in una delle di lui commedie smarrite intitolata il Cocalo si ravvisa la vera sorgente ed il modello della commedia nuova118. Ebbe Aristofane {p. 255}tra gli altri figliuoli Ararote, Nicostrato e Filetero, i quali e si valsero delle di lui fatighe per farsi luogo sulla scena, e composero essi pure delle favole coltivando la commedia nuova; ed uno di essi spiccò singolarmente più nel rappresentare che nel comporre119.

{p. 256}

Fiorì la nuova commedia nel secolo del grande Alessandro, quando la formidabile potenza Macedone dando nuovo aspetto agli affari de’ Greci, avea richiamato in Atene quell’utile timore, che rintuzza l’orgoglio, rende men feroci i costumi, e induce a pensar giusto. Or perchè eccitato una volta {p. 257}in qualunque guisa lo spirito filosofico rinasce l’ordine, e ogni cosa rientra nella propria classe, il gabinetto allora si separò dal teatro, nè più si agitarono questioni politiche in uno spettacolo di puro divertimento. Si circoscrisse adunque la commedia nuova a dilettare la moltitudine col ritrarre la vita comune, e a dirigerne le opinioni secondo le vedute del legislatore e gl’ insegnamenti della morale. Rifiutò ogni dipintura particolare, perchè apprese dalla filosofia che i difetti di un solo privato {p. 258}sotto una potenza che tutto adegua, non chiamano la pubblica attenzione. Attese adunque ad osservare le debolezze più generali, ne raccolse i lineamenti più visibili, ne vestì un carattere poetico, e con mirabile sagacità in un preteso ritratto particolare espose alla derisione i difetti di un ceto intero. Gioconda, ingegnosa sapienza! A dispetto della magia dell’amor proprio ha saputo astringere i viziosi e i ridicoli motteggiati ad accompagnare il riso universale, e vituperar se stessi nella dipintura immaginaria. Ciascuno da se può discernere che queste idee della nuova commedia Greca passate da’ Latini a noi, in forza di governo e di costumi furono ed esser doveano posteriori alla commedia di Aristofane; e se tanti critici pedanti condannano i comici allegorici antichi chiamandoli marrani, maremmani, auzzini, e notandone gli artifizj come sconcezze, ciò avviene perchè non seppero nelle loro fantastiche poetiche giammai distinguere tempi, generi e costituzioni, nè seguire con ordine la marcia, per così dire, dell’umano ingegno e delle diverse società civili.

Contavansi tra’ principali coltivatori di quest’ultima delicata commedia gli Apollodori, Demofilo, Posidio, Difilo, i Filemoni e Menandro. Tanti sono stati gli Apollodori, che l’erudito Scipione Tetti (infelice letterato Napoletano condannato al {p. 259}remo come reo d’impietà per avere della divinità parlato con troppa imprudenza) ne compose un dotto trattato impresso in Roma nel 1555 insieme colla Biblioteca di Apollodoro tradotta in latino da Benedetto Egio120. Degli Apollodori che coltivarono la poesia teatrale, se ne trovano tre, uno Siciliano di Gela, uno Ateniese, ed uno Carisio. Essi fiorirono nella commedia nuova; ma gl’ intelligenti non sono sempre tra loro concordi circa le favole intitolate Galatæ, Ephebi, Lacæna, Icetes, Hecyræ latinizzata da Terenzio, non sapendo a qual di loro esse si appartengano. Il Meursio le attribuisce all’Ateniese, il quale secondo Suida ne compose quarantasette, e fu cinque volte dichiarato vincitore. Si dubita se sieno dell’Apollodoro Carisio, o del Geloo gli Adelphi, Dauli, i Pafii, Danae, Anfiarao, i Filadelfi, Sisifo, ed altre commedie mentovate da Polluce, Stobeo, Fozio, Suida, Ateneo, Festo e Plutarco. Al Carisio si attribuisce la favola detta Mactata, della quale Grozio reca questo frammento, τό γῆρας εστιν αὐτό νοσημα, la stessa vecchiaja è un morbo.

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Del poeta Difilo che meritò il soprannome di κωμικωτατος, comicissimo, come ad Euripide si diede quello di tragicissimo, oltre a’ varj frammenti rapportati da Ertelio e da Grozio, è mentovata da Ateneo121 la favola intitolata Saffo, alla quale dà per innamorati Archiloco e Ipponatte. Alcune delle di lui favole furono trasportate nel teatro Latino da Marco Accio Plauto. Di Demofilo e di Posidio incontriamo alcuni frammenti; ma da una commedia del primo detta Onagos, Plauto compose la sua Asinaria.

Due Filemoni vanta la Grecia tra’ poeti della nuova commedia. Filemone il maggiore nacque e visse in Siracusa secondo Suida; ma Strabone afferma che nascesse in Soli o Pompejopoli della Cicilia. Egli fiorì regnando Alessandro Magno poco prima di Menandro, e di anni 94 in circa morì sul teatro ridendo smoderatamente, dopo aver composte novanta favole, delle quali Giulio Pollice, Ateneo e Stobeo hanno conservati varj nomi, e Grozio ne ha raccolti i frammenti122. Portò il di lui {p. 261}figlio natogli in Siracusa il nome di Filemone il minore, e fu contemporaneo di Menandro, e più volte con lui contese per la corona scenica, e quasi sempre il vinse. Menandro riputavasi di gran lunga a lui superiore, e mal soffrendo di vedersi a Filemone posposto, il punse un dì con questo motto conservatoci da Aulo Gellio: Senza andare in collera, dimmi di grazia, Filemone, quando ti senti proclamar mio vincitore, non arrossisci? Filemone il giovane compose cinquantaquattro commedie. Un curioso frammento del suo Mercatante tradotto da Grozio leggesi da noi volgarizzato nel citato tomo I delle Vicende della Coltura delle Sicilie.

Ma Menandro Cefisio figliuolo del capitano Diopete e discepolo di Teofrasto spiccò sopra tutti i contemporanei e successori. Egli nell’ olimpiade CXV nobilitò la commedia nuova e scrisse cento e otto, o cento e nove commedie, ma solo otto volte fu coronato nel certame. Egli fu il modello di Terenzio, il quale di quattro di lui favole si valse, cioè dell’Andria, della Perintia, dell’ Eunuco e del Tormentatore di se stesso. Citansi ancora con molti elogj altre di lui commedie, il Colace, il Fasma, la Taide, della quale si ha questo frammento,

Colloquia mores prava corrumpunt bonos,
{p. 262}

i Fratelli, di cui si conservano questi versi,

Communia amicos inter, non pecuniæ
Tantum, sed & mens pariter & prudentia,

l’ Incensa, di cui Grozio traduce quest’altro,

Pereat male qui uxorem ducere
Instituit primus, tum secundus qui fuit,
Tum tertius, tum quartus, tum qui postumus,

e la commedia intitolata Plozietta (Plotium) imitata da Cecilio il più accreditato comico Latino. Non lieve argomento del pregio di queste ed altre favole di Menandro si è l’uso e il saccheggio fattone da’ poeti Latini. Oggi in essi se ne ammirano le invenzioni ma sfigurate come per lo più sogliono essere le copie. “Se leggiamo (dice Aulo Gellio123) le commedie Greche di Menandro, Posidio, Apollodoro, Alesside ed altri nelle traduzioni Latine, ci riempiono di diletto, e pajono scritte con grazia e venustà da non potersi migliorare. Quando poi si esaminano minutamente, e si confrontano le copie cogli originali, quando se ne alterna la lettura, comparisce la debolezza de’ Latini, i quali disperando {p. 263}di emularle con dignità, alle bellezze native sostituiscono le proprie immodizie”. In pruova di ciò Gellio adduce la nominata commedia Plozium recata in latino da Cecilio. Tutto quello che Menandro espresse con giudizio, nitidezza e piacevolezza, Cecilio sì studiò inutilmente di voltare in Latino con ugual leggiadria, e si appigliò poi al partito di saltarne più cose, riempiendo il vuoto con qualche cicalata meramente mimica. Eccone un esempio (prosegue Gellio) cui giova premettere l’argomento della favola. Una figliuola di un cittadino povero, deflorata senza che nulla ne sappia il padre, e rimasta incinta, benchè tuttavia passasse per pulcella, a suo tempo partorisce. A questo punto disastroso giugne un servo dabbene, e stando già presso la soglia, senza veruna prevenzione dell’accaduto, ode i gemiti e le grida della meschinella in procinto d’infantare, e come uomo di buon cuore e pieno di affetto per la famiglia, prende parte nella di lei sventura, teme, si adira, sospetta, compassiona e si attrista. Tutte queste patetiche commozioni dipingonsi nella Greca commedia, le quali nella Latina divengono pesanti, pigre, snervate, disadatte alle circostanze, e spogliate di ogni grazia. Dopo ciò il servo a forza di domandare viene in chiaro del succeduto, e così favella in Menandro:

{p. 264}
O quanto è sventurato il mal accorto
Che nulla possedendo a nozze corre,
E di figliuoli caricarsi brama!
Quanto mal si consiglia! Egli non pensa
Ciò che conviensi, pien del suo disegno
Che tristi giorni e lunghi guai gli appresta.
Ei dal bisogno oppresso, angusto tetto
Non ha per ricovrarsi, e d’ogni cosa
Avendo inopia tra miserie geme,
E si difende mal dall’aspro inverno
Reso di povertà fido compagno.
Da ciò che ad un rinfaccio, ogni altro impari.

A questa bella naturalezza e verità non si attenne Cecilio, ed in tal guisa troncò, stravolse e riempì di tragica gonfiezza il concetto del comico Greco:

Il povero pur troppo è sventurato
Carico di figliuoli e di miserie.
Nulla a lui si perdona: i suoi difetti
Manifesta ciascun senza ritegno.
Ma del ricco gli errori e le follie
Il folto stuol de’ bassi adulatori
Agli occhi altrui, per suo guadagno, invola.

Fin quì Gellio. Un altro de’ più pregevoli frammenti di Menandro parmi quello recato da Plutarco De Consolatione ad Apollonium, {p. 265}che noi in tal guisa recheremo in Italiano, consultata la traduzione del Silandro:

Se quando al dì la madre tua ti espose,
Con questa legge tu fra noi venisti,
Che a tuo piacer girar dovesse il mondo:
Se tal felicità propizio un nume
A te promise, a gran ragion ti sdegni,
Poichè la fe che ti giurò, non serba.
Ma se alla stessa legge, a cui soggetto
Nasce ognun, tu nascesti, a parlar franco,
Ti lagni a torto, e tollerar dovresti,
E più dritto pensar. Uomo al fin sei,
Nè dell’uom v’ha chi più repente ascenda,
O più repente giù piombar si vegga,
E strisciar per lo suolo. E ben gli stà:
Che infermo oltre ogni creder per natura,
Oltre ogni creder temerarie imprese
Tentar non cessa, e vi s’involve, e tutti
I beni suoi precipitando perde.
Tu poi nè di tant’alto al fin cadesti,
Nè de’ mali è il maggior quel che ti avvenne.
Or come saggio, se a’ capricci esposto
Di fortuna pur sei, t’acqueta e soffri.

Ammirasi in simili bellissime reliquie di Menandro una locuzione nobile sì che non eccede la mediocrità comica, e vi si sente quel grazioso sale che stuzzica il gusto e non amareggia il palato (Nota XXIV). {p. 266}Con perdita irreparabile della poesia rappresentativa, niuna di tante sue favole potè salvarsi intera dal tempo distruttore. Ma perchè le mirabili sue dipinture della vita civile e le preziose sue riflessioni filosofiche inserivansi a gara nelle migliori opere de’ sacri scrittori Cristiani, non che de’ più illustri filosofi gentili, se ne sono conservati molti versi. Il più onorevole testimonio del merito di questo comico filosofo, si è il verso di una sua commedia che leggesi nella I Epistola dell’ Apostolo San Paolo ai Corintii. Or chiunque aspiri a riuscire nella commedia nobile, cerchi di approfittarsi delle incomparabili reliquie che ne abbiamo, e vi apprenderà l’arte di persuadere da oratore, d’ istruir da filosofo e di dilettare da poeta comico124. Per norma ancora della gioventù rapita di ordinario dal proprio fuoco prima a scrivere che a pensare, si vuol ripetere quello che di sì gran comico riferisce il Giraldi125 coll’ autorità di Plutarco e di Acrone. Menandro non mai si applicava a verseggiar la favola prima di averne formato tutto il piano e ordinate {p. 267}le parti. E sì gran caso faceva di simil pratica, che quando avea ordita la traccia dell’azione, tutto che non ne avesse composto un solo verso, diceva di aver terminata la commedia. Ora che si dirà di que’ commediografi, i quali sogliono avvertirci in qualche prefazione di essersi essi trovati intrigati dopo di aver distesi due atti de’ tre di una loro commedia, non sapendo di che trattare nel terzo? Questo terzo dovea pensarsi interamente avanti di animar colla locuzione la prima scena. La natura non produce una per volta le parti di una pianta, ma tutte in picciolo le racchiude nel germe che prende posciaa disviluppare e nutrire. Bisogna imitarla.

. . . . . Ubbidienti
Fian le parole, ove la merce abbondi126,

Un Francese diceva ancora:

Le moment du génie est celui de l’ esquisse.

In questa guisa appunto l’intendeva Menandro, la delizia de’ filosofi, l’ oggetto di {p. 268}tanti elogj, la misura de’ voti di tanti poeti diammatici, il modello di Terenzio.

CAPO VIII.
Continuazione del Teatro Greco. §

Oltre alle favole tragiche e comiche coltivarono i Greci altre specie di drammi che nomaronsi diversamente. I Satiri, l’Ilarodia, la Magodia, la Parodia, i Mimi, i Pantomimi, i Neurospasti, appartengono alla scena.

I.
Satiri. §

Chiare tracce dell’antica origine della poesia drammatica osservansi in quel dramma che da’ Satiri trasse il nome. Sileno e i Satiri che formavano il corteggio di Bacco, erano i naturali interlocutori della poesia satiresca che partecipava del tragico, del buffonesco e del pastorale. I poeti tragici più illustri in essa dovettero esercitarsi, perchè la Tetralogia colla quale si aspirava alla corona teatrale, conteneva, come si è detto, tre componimenti tragici ed un satirico. Tralle favole di Euripide citansi {p. 269}otto drammi Satirici; ma il solo Ciclope ci è pervenuto intero. A chi non potesse consultar l’originale, o increscessero le versioni Latine letterali, o non avesse alla mano l’Italiana del dottissimo Anton-Maria Salvini, presentiamo l’annessa analisi di questa favola, di cui Omero fornì l’ argomento nel IX libro dell’Odissea. Spinto Ulisse da una tempesta in Sicilia non lungi dalla spelonca del Ciclope Polifemo, per salvarsi dalle di lui mani, dopo che ha perduto alcuni compagni, lo sbalordisce e addormenta col dargli a bere del vino generoso, l’ accieca, e fugge con tutto il coro de’ Satiri, i quali intervengono nella favola con Sileno, Ulisse e Polifemo.

Atto I. Sileno vecchio si trattiene seco stesso delle giovanili sue imprese e de’ travagli che sta soffrendo in vecchiaja, per aver voluto per affetto verso Bacco seguir le tracce de’ pirati Tirreni, i quali favoriti da Giunone aveano rapito questo nume a lui caro. Senza ciò egli non avrebbe corso il mare e patita la fiera tempesta che il gettò fra saffi dell’Etna in cui signoreggiano i Ciclopi che pasconsi di carne umana; non servirebbe in quelle caverne attendendo a preparar la cena a Polifemo; nè i suoi figliuoli menerebbero i di lui armenti a pascolare per quelle terre. Gli vede scendere dal monte cantando, e mesto dice,

{p. 270}
E’ questa, oime! l’antica illustre danza?
Questi quei cori son che al nostro Bacco
Si cantavano un tempo? In tal Timele
Canterà il nostro coro!

Si avanzano i Satiri lamentandosi della loro vita laboriosa e piena di pericoli, e cantano un coro, il quale naturalmente adduce un giuoco di teatro che risulta dal guardar le capre e richiamare quelle che si scostano dalla greggia, e dà a conoscere il carattere del dramma misto di pitture pateti che, campestri e comuni.

Atto II. Sileno interrompe il coro additandogli un legno di Greca costruzione approdato al lido, dal quale sono discesi alcuni uomini che portano vasi per provvedersi d’acqua. Compiange gl’ infelici che sono quivi capitati ignorando i costumi de’ Ciclopi. Ulisse viene fuori coll’ intento di fornirfi d’acqua e di viveri, e si mar aviglia al vedere i Satiri in tal luogo. Il dialogo di Sileno e di Ulisse nel darsi vicendevolmente contezza de’ proprj casi e di quanto importa al secondo per propria instruzione, è giusto, naturale, preciso, degno di Euripide. Nè l’uno nè l’altro prende a parlare per mezz’ora almeno senza dar luogo al compagno, come suol farsi da non pochi drammatici moderni. Quì ogni proposizione non eccede un giambico, e le domande e le risposte sono così acconce, che {p. 271}il lettore tratto tratto è obbligato a confessare a se stesso che non si poteva chiedere nè rispondere più a proposito. Di questa precisione e aggiustatezza abbiamo pochi esempj tra’ moderni, i quali per lo più fanno rispondere a’ personaggi quel che comanda la rima o l’armonia de’ versi. Ulisse si rende benevolo Sileno dandogli del vino. Morde questo licore? (dice Ulisse); ti solletica dolcemente la gola? Per bacco (risponde) mi è arrivato fino a’ piedi. Il vecchio si mette in allegria, bee, ribee, domanda notizie di Troja, di Elena: Voi l’aveste pur tralle mani codesta bagascia perfida e carnajuola. E che ne faceste? Passò ella di mano in mano? Oh avesse avuto a far meco questa sorella di Polluce! avrebbe trovato scarpa pel suo piede! Affè che le avrei dato il premio delle sue belle opere. Ulisse l’interrompe per la venuta del Ciclope, e Sileno lo fa nascondere. Il dialogo di Polifemo che chiede il solito latte per cenare, e di Sileno che ha bevuto, è grossolano ed assai conveniente a’ tali personaggi. Si avvede Polifemo dei capretti legati e del latte portato fuori da Sileno per Ulisse nella scena precedente, cose che indicano un furto. Osserva ancora che Sileno è rubicondo fuor dell’usato. Chi ha legati questi capretti? Chi ti ha dato de’ pugni sul viso? Parla. Sileno sbigottito accusa Ulisse, dicendo che voleva rubarli, e {p. 272}per essersi egli opposto, n’è stato così mal concio. Ulisse si discolpa narrando il vero e accusando Sileno, ma il coro favorendo il padre lo smentisce. Patetiche ed eloquenti sono le preghiere di Ulisse, e se un Ciclope poteva intenerirsi, l’avrebbe conseguito. Ma questi gonfio della propria robustezza e potenza prende il linguaggio di uno spirito-forte e beffeggia gli dei nominati da Ulisse. Descrive poi la propria felicità e le ricchezze pastorali di cui abbonda: Per me solo pasce questa greggia immensa; per me si scanna, per questo ventre per questa gola, e non già per alcuno di questi tuoi numi. Il ventre è più vicino di Giove: trescare, ingollare, empiere la pancia, ecco la mia religione. A queste impietà aggiugne il comando funesto di entrare nella spelonca per esser pasto gradito del suo gran ventre. Alle querele e preghiere che Ulisse indirizza a Pallade, succede il canto del coro il quale sospetta di ciò che dentro farà il Ciclope. Egli senza dubbio taglia le membra di quegl’ infelici sulle mense; altre ne destina ad esser bollite, altre in arrosto; l’odore scellerato già ne va insino al cielo, e Giove ancora nol fulmina!

Atto III. Narra Ulisse al coro pateticamente la strage de’ suoi compagni divorati da Polifemo, indi il pensiere suggeritogli per avventura da qualche nume di dargli del vino in copia, per mezzo di cui potrà {p. 273}vendicarsene. Il coro vuol concorrere al disegno e fuggir seco. Ulisse manifesta il pensiero di acciecare il Ciclope con un legno bruciato nella punta per renderlo più duro e penetrante. Il coro lo seconda, e per dissimulare canta in lode del Ciclope.

Atto IV. Polifemo pieno di vino esce brancolando, e secondato dal coro canta una specie di ecloga invitando la sua Galatea. Dice poi di voler far parte del vino ai Ciclopi suoi fratelli, dal che Ulisse e ’l coro il dissuadono. Polifemo rimane persuaso, e si fa mettere accanto il vaso del vino. E’ buffonesco l’artifizio di Sileno che tenta di berne di nascosto, e vi si pruova più di una volta, e sorpreso nel fatto si scusa con varj ridicoli pretesti. Il Ciclope bee senza veruna misura e perde totalmente la ragione. Io veggio (dice già ubbriaco) girar la terra, il mare e ’l cielo; veggio il trono di Giove e seco tutta la folla degli dei. Oh ve’! Si alza Ciprigna per venire ad abbracciarmi. Si animano i congiurati a compiere l’opera; poichè entrato Polifemo nella spelonca si mette a giacer supino e russa fortemente. Parte del coro entra per eseguir l’impresa, e parte rimane al cospetto degli spettatori.

Atto V. Esce Polifemo acciecato urlando e gemendo. Ulisse allorchè fu domandato del suo nome, rispose di chiamarsi Niuno; ed ora il Ciclope fremendo si querela {p. 274}di Niuno che l’ha acciecato. Il coro domanda, chi abbia in lui commesso quest’eccesso? Niuno, ei risponde. Di chi dunque ti lagni, ripiglia il coro, se niuno colpa al tuo male? Oimè! (dice il Ciclope) il forestiere mi ha fatto bere, ed è egli quel perfido Niuno che mi ha privato del lume dell’ occhio. Egli poi si mette all’entrata della caverna, perchè non ne esca alcuno. Ma il coro l’avverte che vanno uscendo. Da qual parte? . . . . Volgi a man destra . . . no no, corri alla sinistra . . . di quà, di là, di nuovo alla destra . . più su, ora più giù. Il Ciclope si volge a seconda delle parole del coro brancolando; ed essendo in tal guisa aggirato Ulisse ha luogo di uscire, e con tutti i compagni, col coro e con Sileno si salva sulla nave, deridendo il Ciclope che inutilmente minaccia.

II.
Ilarodia. §

Non molto diversa dalla tragedia era l’ilarodia o ilarotragedia. Per l’idea lasciatane da Ateneo era una favola festevole di lieto fine, nella quale intervenivano personaggi grandi ed eroici, ma vi si dipingevano i fatti che ad essi accadevano come uomini, e non come eroi. Il Tarantino Rintone che visse sotto Tolommeo {p. 275}Lago, sembra che avesse accresciuto il numero degli spettacoli teatrali de’ Greci con queste nuove favole, che dal suo nome chiamaronsi ancora Rintoniche. Ateneo cita il di lui Anfitrione, e l’Ercole recandone un frammento. Giulio Polluce nomina tre altre favole di Rintone, cioè due Ifigenie in Aulide e in Tauri ed il Telefo. In qual guisa egli maneggiasse questi argomenti tragici scostandosi dalla tragedia senza cadere nella commedia, non si divisa da que’ pochi frammenti che se ne adducono. Un altro elegante scrittore d’ilarodie fu Simo Magnesio, del quale favella Aristocle presso Ateneo, e da questo Simo gli attori ilarodi chiamaronsi ancora simiodi. Coltivò parimente questo genere Scira nativo di Taranto, di cui Ateneo stesso dice che fu uno de’ poeti Italici, e si sa che Italiche si dissero ancora le favole del di lui compatriotto Rintone. Il Meleagro è una favola di Scira di cui recammo un frammento nel citato tomo I delle Vicende della Coltura delle Sicilie.

III.
Magodia. §

Approssimavasi l’ilarodia alla tragedia, e la magodia non molto si allontanava dalla commedia. Aristosseno affermò {p. 276}che l’ilarodia era il dramma più importante dopo della tragedia, e la magodia dopo della commedia. Da principio questa farsa limitavasi a rappresentare gli artificj e le imposture de’ maghi e de’ medici. Secondo Ateneo127 essa non esigeva nè molta fatica nè molta spesa, e gli Spartani se ne compiacevano come di uno spettacolo assai proprio per la loro frugalità. Essi v’ introducevano ladroni che rubavano frutta e cose simili, e medici specialmente forestieri. Dicelisti chiamavansi fra gli Spartani gli attori magodi: fallofori presso i Sicioni: voloni o volontarj fra’ Tebani: autocabdali dagli altri Greci orientali: e fliaci nella Magna Grecia. Egli è intanto cosa degna di notarsi come in tante regioni abitate da’ Greci si fossero congiunte verso i medesimi soggetti le stesse idee d’imposture mediche e magiche. Ma i Greci non furono soli ad accoppiarle. Vedremo appresso che gli Arabi aveano dialoghi, ne’ quali satireggiavano gl’ impostori medici, maghi ed astrologi128. Nel Nuovo Mondo tra’ selvaggi medico e mago erano quasi sinonimi. Uno de’ primi e più intendenti storici {p. 277}dell’America (dice Robertson129) restà sommamente colpito in vedere questa connessione fra la magia e la medicina in mezzo ai popoli della Ispaniola. Ciò però non era particolare ad essi soltanto. L’Alexis, il Piayas, l’Autmoins, o qualunque fosse il nome che distingueva i loro indovini, o ciurmatori in altre parti d’America, erano tutti medici delle loro rispettive tribù nella stessa maniera che i Buhistos nell’isola Ispaniola.

IV.
Parodia. §

La Parodia, di cui credesi inventore Ipponatte, non fu in Grecia soltanto un artifizio usato di passaggio nelle loro favole da Epicarmo, Carcino, Eupoli, Ermippo, Aristofane ed altri comici, i quali, come si è detto, convertivano in ridicole le più energiche espressioni tragiche con lievi cangiamenti; ma formò eziandio uno spettacolo e una farsa particolare così chiamata. Nel secolo di Filippo il Macedone il più celebre parodista fu Eubeo Pario {p. 278}sommamente ammirato da’ Siciliani. Caro però oltre ogni credere fu agli Ateniesi certo Egemone Tasio soprannominato Lenticula scrittore e attore di parodie citato da Camaleone Pontico130. Rappresentava un giorno nel teatro di Atene quest’industrioso attore una sua parodia, quando dalla Sicilia vennero le amare novelle di una disfatta luttuosa, e quantunque la maggior parte degli spettatori piangesse coprendosi il capo per avervi perduto qualche parente, tutti però si trattennero nel teatro, sia per occultare agli altri Greci la loro perdita, sia per certa spezie di riguardo avuto per questo favorito parodo. Fu egli una volta chiamato in giudizio come reo; ma Alcibiade di propria mano cancellò gli atti formati contro di lui.

V.
Mimi. §

Dal verbo μιμέομαι imitor, ricavasi la voce Mimo; e quello che appartiene a tutte le arti d’ immaginazione, non che alla poesia drammatica, siccome bene avvertì Giulio Cesare Scaligero131, divenne poi nome {p. 279}particolare di un picciol dramma, e quindi di una specie di attori. Erano da prima i Greci mimi un’ azione morale dialogizzata e nulla aveano di osceno e buffonesco. Sofrone Siracusano figlio di Agatocle e di Dannasillide contemporaneo di Euripide si esercitò felicemente in questi piccioli onesti mimi, che si chiamavano ηθολογοι, morali. Secondo le dipinture che vi si facevano appartenenti ad uomini o a donne, i suoi mimi scritti nel dialetto Dorico si dissero Virili o Femminili. Suida, Esichio e Aristotile col Castelvetro, il Riccoboni, il Robortelli, il Minturno, pretesero ch’egli scrivesse in prosa. Francesco Patrizio coll’ autorità di Demetrio Falereo e di Ateneo dimostra di aver Sofrone composto in versi; e versi infatti sono i frammenti che si conservano de’ suoi Trofei Femminili e Virili. Il Mazzoni, il Vettori, il Beni, il Nisieli sono dell’ avviso del Patrizio. Niccolò Calliachio vorrebbe conciliare tali dispareri, dicendo esser probabile che i mimi di Sofrone fossero scritti parte in prosa e parte in versi, come la Satira Menippea di Terenzio Varrone ed il libro di Petronio Arbitro132. Simili questioni in altri tempi {p. 280}accendevano vive guerre tra’ critici; ed oggi si ascoltano, nè senza ragione, come ciance pedantesche, e pascolo di una curiosità passeggiera. Platone che dalla sua repubblica escludeva i poeti, pregiava altamente i mimi di Sofrone. Diogene Laerzio afferma che egli se ne serviva per ammaestrare e migliorare gli Ateniesi, e Quintiliano che egli si addormentava tenendo il di lui libro sotto il guanciale133. Stazio dà a Sofrone l’ aggiunto d’implicito (Sophronaque implicitum) dovendo parere il di lui stile astruso e difficile, benchè condito dell’ingegnosa socratica ironia. Figliuolo di Sofrone fu Senarco parimente mimografo commendato dagli antichi. Suida lo chiama comico, e ci dice che egli ad insinuazione del tiranno Dionisio tacciò i Regini di codardia134. Gli antichi rammentano ancora un mimografo nomato Filistione; ma Suida pretende che fosse stato contemporaneo di Socrate, ed Eusebio di Cesarea afferma che viveva trecento anni dopo, cioè a’ tempi di Augusto. Non sarebbe (dice M. Le Fevre) strana cosa che Eusebio si {p. 281}fosse ingannato; ma potrebbero parimente due diversi scrittori di mimi, l’uno coetaneo di Socrate l’altro di Augusto, aver portato lo stesso nome. Certo è però che il meno antico di essi, se furon due, non inventò i mimi, come erroneamente asserì Cassiodoro che ne fu ripreso dal Calliachio135.

Appresso degenerarono i mimi in rappresentazioni buffonesche e basse, e gl’ itifalli, specie di attori mimici, rappresentavano ubbriachi, adulteri, ruffiani, e meretrici. Erano da prima attaccati alla commedia, e si recitavano o nel principio formandone una specie d’introduzione, o nel mezzo come tramezzo, o nel fine come conchiusione dello spettacolo; ma a poco a poco vennero a separarsene. Ecco come ne favella Diomede coll’ autorità di un frammento di Svetonio: Ne’ primi tempi quanto introducevasi nella scena s’incorporava alla commedia. Pantomimi, Pitauli e Corauli tutti in essa cantavano e confabulavano. Ma questi rappresentatori non potevano mostrar sempre la loro eccellenza, perchè quando i comedi rendevansi celebri nell’ arte, pretendevano {p. 282}passar per capi e regolatori di tutto lo spettacolo. Di quì nacque che non volendo gli attori mimici esser tenuti da meno nell’arte di rappresentare, si divisero dalla commedia, e l’esempio eccitò altri rappresentatori ancora a separarsene, lasciando ai comedi la nuda commedia, e così ciascuna specie di attori diessi a rappresentar separatamente le proprie farse.

Si confuse intanto la voce mimo, e quando dinotava un dramma così chiamato, e quando un attore buffonesco. Nell’ultimo significato la prese Diodoro Siculo parlando dell’indole di Agatocle portata a buffoneggiare. Per basso attore ridicolo l’usò ancora Polibio presso Ateneo, allorchè scrisse del re Antioco Epifane, che si avviliva tra’ mimi, e con esso loro gettavasi nel suolo, gestiva e ballava.

VI.
Pantomimi. §

Tra tanti attori mimici che separaronsi da’ comedi, spiccarono in seguito i Pantomimi, istrioni ballerini che presero il nome dal contraffare con atteggiamenti senza parlare tutte le cose. Lasciando a parte la riferita ambizione di tanti diversi rappresentatori, ciascuno de’ quali cercò di distinguersi da se, vuolsi riflettere all’osservazione che soggiugniamo. La rappresentazione {p. 283}e la danza composero sempre un corpo solo con la musica e la poesia. Versi non potevano cantarsi dal coro che non si animassero con misurati atteggiamenti. Ma la poesia rappresentativa meglio sviluppata negli episodj, si appropriò certi attori più esperti nel declamare, cioè nel recitare i versi con azione naturale e con un canto parlante, il quale sebbene accompagnato dagli stromenti non lasciava di appressarsi più al favellare che al canto del coro. Allora questa classe ad altro non attese che ad animare con vivace energica rappresentazione la poesia, usando di una musica semplice moderata, la quale contenendo la voce nell’armonico sistema de’ tuoni produceva un’ armonia regolata nel salir dal grave all’acuto o nel calar dall’acuto al grave, che imitava artificiosamente il parlar naturale. Rimase al coro il pensiero d’intrecciar carole cantando; e in questo il canto fu vera melodia spiegandovi la musica tutte le sue forze e gli artificj con sempre nuove combinazioni di tempi e di movimenti; la poesia per accomodarsi al canto fu più lirica ed ornata; e la rappresentazione per servire al ballo fu meno naturale. Ma i movimenti ginnastici del saltatore il quale era nel tempo stesso cantore136, bentosto ingrossavano il fiato, e ne {p. 284}rendevano debole la voce; per la qual cosa convenne dividere tutti gl’ individui del coro in istrioni musici dediti al solo canto e in istrioni ballerini destinati alla danza. La rappresentazione continuò a serpeggiare per entrambi gli esercizj, perchè tutto abbisognava di espressione; ma nel canto animato dalle parole con alcuni movimenti regolati, qual è quella de’ cori tragici o comici, ebbe minor parte che nel ballo figurato così propriamente detto, il quale privo delle parole tutto cercò dall’azione. A misura che le arti imitatrici si perfezzionavano, il ballo si prestava alle leggi del buon senso, e da una capricciosa saltazione senza perchè, si volse ad imitare azioni vivaci e più simili al vero, e lo spettacolo ne fu più desiderato. Quindi uscì l’arte pantomimica portata dagli antichi all’ eccellenza. Avanti di quest’epoca, cioè avanti che la rappresentazione indirizzasse il ballo ad imitar favole compiute o comiche o tragiche o satiresche, e a dire in tal guisa per mezzo de’ sensi qualche cosa allo spirito, altro non era la danza che una saltazione quasi senza oggetto, come il piruettare de i Dervisi Turchi. Presso gli antichi Coribanti e Cureti essa era un rito strepitoso e bellico più che un ballo leggiadro. I Traci spiccarono nella saltazione bellica, della quale facevano uso ne’ gran {p. 285}conviti. Senofonte137 ci dice che i Traci saltarono armati scuotendo e vibrando le spade nel convito di Seute; e che infine un ballerino finse di essere percosso, e fu creduto morto e compianto dagli astanti, con tanta verità si espresse la finta pugna e l’ammazzamento. Si vuole che Androne di Catania sia stato il primo che sonando la tibia vi accompagnasse i passi e il movimento del corpo in cadenza; e perciò presso gli antichi σικελιζειν significò saltare138. Del rimanente la saltazione è un esercizio che trovasi presso tutti i popoli ancor barbari e selvaggi, e Frigj e Cretesi e Indiani ed Etiopi ed Egizj e Traci ed Arabi ed Americani, tutti hanno avuto il loro Androne, cioè uno che prima di ogni altro si avvisò di saltare e di muoversi a seconda del suono. Il graziosissimo Luciano dopo di avere ironicamante commendata la saltazione, fino a lodare come esperto ballerino l’eroe Merione celebrato da Omero per l’agilità e destrezza onde scansava i colpi de’ nemici, passa a nominare le tre principali spezie di danze introdotte nella scena, la Cordace, la Scinnide, e l’Emmelia. Apparteneva la cordace alle commedie ed era a tal segno ridicola e lasciva che da essa venne la parola oscena cordacizo, e il cordacismo {p. 286}nominato da Demostene nelle Filippiche139. La Scinnide conviene propriamente a i Satiri, i quali ne furono indi chiamati Scinnisti, e se ne crede autore Sicinnone barbaro o Cretese, benchè altri l’attribuisca a Tersippo. Pare che la Scinnide fosse anche saltazione comica usata anticamente da’ Frigj nella festa di Dionisio Sabazio. L’Emmelia era saltazione tragica. Di tali cose possono consultarsi le opere di Giulio Polluce, Dionisio Alicarnasseo, Ateneo, e Suida che distesamente ne favellano.

I Pantomimi dal Mitileneo Lesbonace presso il medesimo Luciano si chiamavano χειρισοφοι, manu sapientes. Fino a cinque maschere solea cangiare un solo pantomimo per contraffare tutti i personaggi di una favola; la qual cosa avendo osservata uno straniere, quest’abile danzatore c’inganna, esclamò; poichè avendo un sol corpo, mostra di aver più anime. Il cinico Demetrio disprezzava i pantomimi parendogli inutile e irragionevol cosa imitare col solo gestire quello che ottimamente esprimeva la poesia e la musica, senza che la favola ne divenisse più perfetta. Della quale osservazione poco contento un ballerino assai celebre a’ tempi di Nerone, pregò quel filosofo a compiacersi di vederlo danzare senza soccorso {p. 287}delle parole e della musica, e quindi, ove giusto gli sembrasse dispregiasse pure la danza e il danzatore. Condiscese il filosofo, ed il pantomimo prese ad esprimere l’avventura di Venere e di Marte scoperti dal Sole e accusati da Vulcano, le insidie di questo zoppo affumicato marito, la rete che annodava gli amanti, i numi presenti allo spettacolo, il rossore di Venere che si raccomandava a Marte, e quanto altro apparteneva a questa favola, ma con tale perspicuità, con tanta leggiadria, che Demetrio attonito e rapito proruppe in queste voci: Io ti ascolto, attore insigne, non che ti veggo.

VII.
Neurospasti. §

Quali ordigni, quante molle non mette in opera il bisogno che ha l’uomo di riposare e divertirsi! Fra tanti magnifici ingegnosi spettacoli de’ Greci ne troviamo uno assai puerile. Non mancava la Grecia di ciurmatori, e tra questi alcuni che portavano il nome di neurospasti. Essi lo prendevano da quelle immaginette cui per mezzo di nervi e cordicelle occulte davano movimento, facendole gestire, muovere e camminare come se fossero animate. Tali fantocci da’ volgari d’Italia nominati pupi, dagli {p. 288}Spagnuoli titeres e da’ Francesi marionettes, dicevansi da’ Greci neurospasta140. Potino neurospasto soleva colle sue figurine (benchè con rincrescimento de’ buoni cioè de’ pochi) rappresentare alcune burlette o spezie di mimi in Atene e in quel medesimo teatro dove declamavansi le immortali tragedie di Euripide141. Or che perciò? Volgo, idioti, fanciulli di dieci, di trenta e di settantacinque anni (che sono i peggiori) trovansi in ogni popolo. N’ebbe Atene, n’ebbe Roma, ne hanno le patrie de’ Newton, dei Des-Cartes, de’ Galilei e de’ Borelli. Criticastri infelici, che non meritando neppure, per la vostra superfizialità, di essere ascritti tra volgari eruditi, vi vantate orgogliosamente sacri ministri della filosofia che nominate sempre e non conosceste mai, oserete voi gonfiando la bocca rinfacciare i Potini ad Atene, gli orsi e i funamboli a Roma, i duelli de’ galli e il teatro delle teste di parrucche di M. Fout a Londra, gli spettacoli delle fiere e de’ baluardi a Parigi (Nota XXII) e l’arlecchino all’ Italia? Scrivete pure, cianciate, stampate a vostra posta, che sarete sempre una dimostrazione {p. 289}evidente dell’ esistenza del volgo e de’ fanciulli canuti della vostra nazione.

CAPO IX.
Dell’uso delle antiche Maschere. §

Tanti rappresentatori e ballerini non mai comparvero sulla scena Greca a volto nudo, ma si coprirono di una maschera, la quale nè sempre fu la stessa, nè si usò sempre pel medesimo oggetto, nè sì presto servì per eccitare il rìso.

Un poco di feccia alterò da principio il volto dels’ attore. E perchè questo? Forse per far ridere? Non possiamo sapere se il primo che volle introdurla, avesse avuto tal disegno, perchè l’inventore della maschera s’ignorava anche a’ tempi di Aristotile142. Per indagare a qual fine essa si adoperasse, gioverà recare ciò che leggesi nel trattato de Theatro del Bulengero143. Ecco quel che egli riferisce coll’ autorità dello Scoliaste di Aristofane: “I villani oltraggiati da’ cittadini anticamente venivano di notte nel villaggio ove dimorava l’offensore, {p. 290}e pubblicavano la propria ingiuria e ’l di lui nome. Al ritorno del dì il cittadino offensore veniva da tutti riconvenuto del fatto e ne rimaneva scornato, ed indi per non soggiacere a tale affronto, si asteneva dall’usare prepotenza. Conoscendo adunque i cittadini tale espediente utilissimo ne’ villaggi vollero che gli offesi venissero di giorno in mezzo della piazza a narrare le oppressioni sofferte. Ma per timore de’ potenti essi comparivano tinti di feccia per non essere ravvisati”. Il timore adunque e la necessità di occultarsi suggerirono il pensiere di alterar colla feccia il sembiante; e gli attori conformaronsi a questa usanza per celare il proprio volto e dare a credere di esser quello del personaggio rappresentato.

Potrebbe dirsi che negl’ informi cori de’ villani dell’Attica, i quali nelle vendemmie cantando saltarono su per gli otri e s’imbrattarono di feccia, si rinvenga l’origine di una maschera ridicola. Ma quei cori non erano tuttavia ciò che poscia si disse poesia drammatica; e quando questa cominciò a pullulare da que’ semi, l’attore fece uso della feccia, delle capigliature e indi delle scorze, delle foglie e di simili cose, per imitare il personaggio rappresentato, e non già quell’antica buffoneria villesca. Ed in fatti Tespi che purgò la tragedia da ogni mescolanza comica, tingendosi {p. 291}di feccia, poteva mai farlo con intento di eccitare il riso? Alla feccia succedette la maschera decente trovata da Eschilo. Ora chi direbbe che l’autore dell’Eumenidi avesse inventata una maschera per far ridere? Essa allora ben lontana dal servire alla buffoneria, accoppiò al modo di trasformar l’ attore una diligente imitazione de’ volti, de’ vestimenti, e delle divise usate da’ personaggi tratti dalla storia, dalle poesie Omeriche e dalla teologia. Che se con Suida voglia attribuirsi l’invenzione della vera maschera, non ad Eschilo tragico, ma al Cherilo Ateniese ch’ei chiama comico, non perciò potrà negarsi, che la maschera allora si ammettesse ugualmente nella tragedia che nella commedia; e i tragici con somma sciocchezza avrebbero ne’ loro drammi adottata un’ invenzione destinata a far ridere. Questo Cherilo però, per quel che si è veduto, fiorì nell’ olimpiade LXV, e Tespi che rappresentava tragedie e si era alla meglio trasformato, l’avea preceduto di quattro olimpiadi almeno.

Del resto nulla dimostra con maggiore evidenza che la maschera si usò per bene imitare i personaggi, quanto la commedia. Questa che alla prima satireggiava i personaggi viventi, come Cleone, Lamaco, Demostene, Nicia, Socrate, per farli riconoscere dall’uditorio, oltre al nominarli, ne imitava esattamente i volti e gli abbigliamenti, {p. 292}marcandoli, per così dire, con ferro rovente alla presenza di un popolo fiero e geloso della sua libertà. Aureo in tal proposito è il passaggio della commedia degli Equiti di Aristofane, in cui si scorge la diligenza posta dal poeta per contraffare il sembiante di Cleone e supplire alla maschera che gli artefici ricusarono di formare per timore di quel potente cittadino. Confermasi ancora questa verità istorica con un passo di Eliano, il quale nel ragionare della commedia delle Nuvole, in cui compariva il personaggio di Socrate, scrive così144: “Essendo Socrate mostrato sulla scena e nominato tratto tratto (della qual cosa non è da stupirsi perchè egli era ancora raffigurato nelle maschere degl’ istrioni, essendo stato spesse volte ritratto sin da’ vasaj) i forestieri andavano in teatro domandando chi mai fosse quel Socrate” ecc.

Anche allora che si mordevano gli estinti, la maschera rappresentava le persone nominate, come quando Aristofane pose in teatro Eschilo ed Euripide già morti (Nota XXV). I Romani stessi usarono la maschera ne’ funerali de’ principi per imitarne esattamente il volto; e Suetonio racconta, che nel funerale di Vespasiano l’archimimo {p. 293}Favore rappresentò colla maschera e coll’ imitazione, giusta il costume, la persona dell’imperadore rinnovandone le azioni e le parole.

Cessò di poi nella commedia nuova il fine di rassomigliare i personaggi satireggiati, e restò solo quello di coprire gli attori, trovandosi già il popolo assuefatto a vederli sempre coperti. Furono in quest’epoca tutte le maschere stravaganti, mostruose, deformi, aliene dall’ essere umano. Ed a questo tempo si rapportano i personaggi descritti da Luciano145 mostruosamente lunghi con una grandissima pancia, colla boccaccia spalancata, e che camminavano con certe scarpe altissime come se andassero a cavallo. Allora s’inventarono i Manduci ridicoli che davano timore ai fanciulli, accennati da Festo e da Plauto nella Corda, i quali aprivano un’ ampia bocca e facevano coi denti un grande strepito. I Batavi, gli Etiopi, i Germani, rappresentati allora stranamente in aspetti spaventevoli, e tutte le altre maschere deformi e buffonesche ricordate da Giovenale e da Giulio Polluce appartengono ancora a’ tempi della nuova commedia. Nè anche queste medesime maschere mostruose nacquero tutte per istudio {p. 294}di far ridere, ma per quel medesimo timore che anticamente mosse i villani a tingersi di feccia. La libertà della Grecia avea ceduto alla potenza de’ principi Macedoni, e Menandro e gli altri comici ebbero paura di soggiacere al fato di Eupoli e di Anassandride. Per sicurezza adunque della propria vita sacrificarono la verità dell’imitazione, facendo dagli artefici formar le maschere capricciose e stravaganti per fuggire il pericolo che alcuna per disgrazia riescisse simile al volto di qualche sovrano146.

Svanì poscia questo timore ancora a poco a poco coll’ essersi i comici avvezzati al rispetto verso i principi, e questi renduti certi della totale sommissione de’ poeti teatrali alla loro autorità. E allora continuando la commedia a rappresentare finte azioni di finte persone private, la maschera nata solo a mostrare il vero, benchè piu non rassomigliasse a’ personaggi conosciuti, copiò al naturale i volti umani seguendo l’età, lo stato, e fino le fisonomie che esprimessero i costumi. Così il teatro si empì di maschere tragiche e comiche naturalissime, rimanendo le altre stravaganti per diverse spezie di mimi. Quindi vi furono maschere {p. 295}naturali di vecchi di più di un carattere, cioè del curioso, del burbero, del barbuto, e fin anche di un padre che avea un ciglio eccessivamente innarcato, ed un altro naturale e composto147; di giovani diversi, del bruno, del ricciuto, dell’appassionato, del gioviale, del rustico, del minaccevole, del ben costumato; di donne diverse, di matrona, di più di una ruffiana, di due false vergini, della meretrice magnifica, della nobile, della coronata, di quella che portava l’acconciatura de’ capelli che terminava in una punta; in fine di varj servi, {p. 296}soldati, mercatanti, eroi, numi, e di altre mentovate nell’Onomastico di Giulio Polluce148. E di questa naturale imitazione della maschera approfittandosi Nerone, si compiacque allorchè cantava di fare nelle maschere ritrarre il proprio volto e quello di Sabina e di altre dame, come leggesi nelle opere di Suetonio e di Sifilino.

Finalmente, oltre all’imitare e coprire l’attore, erano le antiche maschere necessarie per un altro uso. Lungo tempo in Grecia e in Italia si diedero gli spettacoli scenici in teatri aperti e senza tetto in piazze spaziosissime, ne’ quali la voce naturale degli attori dissipata per l’aria aperta male avrebbe soddisfatto al gran concorso senza un mezzo artificiale di comunicarla e distenderla. Per la qual cosa al tempo stesso che colla maschera copiavansi gli altrui sembianti, si cercò di farla servire come una specie di tromba da spingere oltre la voce, e perciò la facevano capace di coprire il capo tutto, non già il solo volto, affinchè raccolto ne uscisse il fiato, e producesse un’ articolazione piena, chiara e sonora149. Nè poi questa maschera di tutto il capo {p. 297}rimase inutile allorchè si costruirono i teatri chiusi, come quelli di Corinto e di Atene fatti a spese di Erode Attico, e gli altri de’ Romani; perchè in quel tempo ancora l’uditorio rimaneva allo scoperto, e que’ teatri erano così vasti e magnifici che potevano agiatamente contenere qual venti, qual trenta e quale quarantamila persone, per non parlare di quello di M. Scauro capace di ottantamila. Fu perciò necessario che quella gran maschera di tutto il capo che portava la voce in gran distanza, fosse accompagnata dal rimanente del vestito in guisa che ingrossando l’attore e facendone una figura gigantesca lo rendesse visibile agli ultimi spettatori. Nè questa figura colossale noceva all’illusione; perchè se da vicino appariva mostruosa, veduta in lontananza riducevasi alla giusta proporzione di uomo regolare, appunto come avviene alle gran figure del Correggio nella cupola del Domo di Parma.

La maschera adunque presso gli antichi servì per occultare il volto dell’ attore, per imitare quello del personaggio rappresentato, e per ajutar la voce; nè mai nelle tragedie e commedie si adoperò per eccitare il riso colla stravaganza, come s’intonò parecchi anni sono dalle scene e per le stampe in prosa e in versi martelliani dall’Ab. Pietro Chiari in Venezia e in altre chiare città Italiane.

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CAPO X ed ultimo.
Teatro Materiale, ove de’ più rinomati teatri, e della condizione degli attori Greci. §

Poichè sul Greco teatro ειδικῷ, formale, preso come spettacolo abbiamo in grazia della gioventù ragionato a sufficienza, non increscerà per diletto ed erudizione, quando per altro non fosse, formarsi di esso una meno confusa idea, considerandone la struttura ύλικην, materiale.

Copiose ricerche intorno al teatro materiale degli antichi trovansi sparse nelle opere degli eruditi150. Tuttavolta recheremo quì alcune delle notizie più curiose e necessarie {p. 299}all’ intelligenza degli scrittori.

Riguardando all’origine degli spettacoli, il nome di teatro che da ϑεαομαι, intueor, ebbe l’edifizio ove si rappresentavano, e che da Cassiodoro nell’epistola scritta dal Re Teodorico a Simmaco151 fu tradotto visorium, è più moderno di quello di scena che si diede al luogo delle prime rappresentazioni. É noto che scena deriva da Σκιας, umbra, per quell’ombra che formavano i rami e le fronde soprapposte ai tabernacoli o alle tende fatte di tela, di lana, o di pelli per difendere gli attori dal sole e dalle piogge prima che essi fossero ammessi a rappresentare in città. I noti carri di Tespi menati d’uno in altro luogo dovettero essere una specie di tenda portatile che prontamente si rassettava alle occorrenze ad imitazione del primo semplice apparato campestre.

Passato lo spettacolo tragico in Atene a’ tempi di Frinico e de’ suoi coetanei si eresse estemporaneamente nelle gran piazze un tavolato con scene formate dagli alberi; nè si pensò a migliorarle se non dopo che in tempo del tragico Pratina quelle mal accozzate tavole cedendo al peso, forse con danno degli attori e degli spettatori, convenne {p. 300}innalzare un edifizio più solido. Agatarco celebre architetto da noi altrove mentovato, colla direzione di Eschilo152, costruì in Atene il primo teatro. Un altro ancor più famoso tutto di marmo dedicato a Bacco se ne alzò dal chiaro architetto Filone 330 anni prima dell’Era Cristiana, del quale insino ad oggi veggonsi gli avanzi153. Vastissimo, secondo Pausania, fu il teatro edificato dagli Arcadi in Megalopoli. Policleto ne architettò uno in Epidauro, che sorpassò in vaghezza e in proporzione gli altri teatri Greci. Delo presenta a’ nostri giorni ancora nel pendio di una collina a cui si appoggia, e intorno a trecento passi lontano dal mare, che riguarda la punta del gran Rematiari, qualche reliquia di un bel teatro di marmo, il cui diametro preso con tutta la profondità degli scaglioni è di 250 piedi e la periferia di 500154. Oggi pure si osserva in Samo lo spazio che occupava il suo teatro, i cui marmi furono trasportati per edificarne Cora155. Uno de’ più {p. 301}magnifici teatri di marmo dell’Asia minore era quello di Smirne, il quale probabilmente fu il luogo dove bruciarono vivo San Policarpo primo vescovo di quella città in età di anni 96 sotto Marco Aurelio o Antonino Pio. I Turchi hanno interamente demolito questo teatro, e de’ suoi marmi costruito un bellissimo Basar o Bezestein, ossia mercato, e un gran Caravanserai, ovvero alloggio delle caravane156. Perinto città della Tracia poscia conosciuta sotto il nome di Eraclea, e si vicina a Bizanzio che l’una e l’ altra si reputarono come una città sola, a’ tempi di Filippo il Macedone ebbe un teatro di marmo di tale magnificenza che passava per una delle maraviglie del mondo. Argo, Tebe, Corinto, Creta, ed altre illustri città Greche furono decorate di famosi teatri. Considerando, come abbiamo praticato nel teatro formale, la Sicilia come diramazione della nazione Greca, si vogliono quì rammemorare i teatri di quell’isola, e singolarmente il massimo di Siracusa, quello di Agira patria di Diodoro Siculo, di Palermo, di Agrigento, di Catania, di Messina, di Segesta e di Taormina157. Similmente degni di ricordarsi {p. 302}sono i teatri della Magna Grecia, come il Capuano, il Nolano, il Puzzolano, e quelli di Minturno, di Pompei, di Ercolano e di Napoli158.

Sparta medesima, l’austera Sparta, ebbe un teatro assai magnifico, della cui bellezza favellano Pausania e Plutarco nella Vita di Agesilao. In fatti nulla parmi che si possa aggiugnere a ciò che adduce M. Guillet159 per confutare l’ errore del Cragio, il quale ha creduto che gli Spartani mancassero di spettacoli scenici ed ha indotti nel medesimo errore altri scrittori nè volgari. Quel teatro, i cui vecchi fondamenti si additano presso la tomba di Pausania vincitore de’ Persiani nella battaglia di Platea, era veramente fatto per gli esercizj ginnici; ma vi si facevano anche pubbliche rappresentazioni delle ridicole farse de’ nominati Dicelisti spezialmente al secondo giorno delle feste Giacintie, che celebravansi ogni anno nel mese di agosto in Laconia ad onor di Apollo e del fanciullo Giacinto da lui amato e per disgrazia ucciso. In Suida troviamo ancora che il gramatico Sosibio Spartano compose un trattato sul genere di commedia {p. 303}usato dalla sua nazione. Cornelio Nipote nel proemio del suo libro degli uomini insigni riferisce una cosa assai più notabile, cioè che in Isparta ogni vedova quanto si voglia nobile compariva sulle scene prezzolata. Il dottissimo Marchese Maffei nel trattato scritto contro le stravaganze del P. Concina si maraviglia di ciò che asserì Cornelio, non parendogli probabile che Plutarco nel parlare degl’ Instituti Laconici avesse tralasciata tale particolarità, se fosse stata vera. Ma essa poteva esser vera dopo che si rallentò quel rigore degli statuti di Licurgo, il quale non permise agli Spartani di essere nè anche spettatori delle rappresentazioni sceniche. Certo è che a poco a poco s’ introdusse in Isparta una riforma delle cose stabilite da quel severo legislatore. Certo è pure che dopo dell’introduzione del danajo fattovi da Lisandro, insensibilmente gli Spartani e le loro donne in particolare si avvezzarono al lusso e a’ piaceri del resto della Grecia. Cornelio Nipote afferma con tal franchezza il fatto riferito, senza timore di essere smentito da’ contemporanei, che sembra escludere ogni sospetto suscitato dal Maffei di essersi egli lasciato ingannare da qualche falsa relazione. Da questo medesimo fatto possiamo eziandio rilevare che le rappresentazioni Spartane altro non fossero che burlette, o mimi; non essendovi esempio in Grecia che le donne rappresentassero {p. 304}in tragedie o commedie. Le parti femminili, come bene osserva il medesimo Maffei, si rappresentavano dagli uomini solamente; e viene ciò con ispezialità assicurato da Platone, cui rincresceva appunto che gli uomini comparissero sulla scena da donne160. Plutarco nella Vita di Focione racconta ancora di un tragedo che nell’uscire sul pulpito richiese una maschera degna di una regina e un corteggio proporzionato. E nella Vita di Silla egli pur mentova un certo Metrobio attore Lisiodo, cioè che rappresentava solo parti di donne, a differenza de’ Magodi che facevano quelle dell’uno e dell’altro sesso. É notissimo il passo di Aulo Gellio161 intorno all’attore Polo, il quale sostenendo la parte di Elettra nella tragedia di Sofocle, in vece delle ceneri di Oreste pose nell’urna quelle di un suo figliuolo, ed espresse vivamente il proprio dolore in quello di Elettra. Quanto poi alla condizione nobile delle Spartane che rappresentavano per prezzo, non è da stupirsene; e Cornelio l’adduce appunto per uno degli esempj della diversità de’ costumi de’ Greci e de’ Romani. La musica era uno de’ pregi di Epaminonda e di altri grand’ {p. 305}uomini della Grecia, e la declamazione teatrale vi si esercitava come nobile e degna di ogni distinto personaggio. Quasi tutti i poeti scenici erano attori, quando non gli teneva lontani dal rappresentare l’erà o alcun difetto personale, o la mancanza della voce, come avvenne a Sofocle. Frinico rappresentatore e autore fu, come abbiam veduto, creato capitano dagli Ateniesi in grazia de’ suoi versi. Eschilo musico, attore e saltatore non meno che poeta, era uno de’ valorosi capitani del suo tempo, e sotto di lui godeva la pubblica stima il saltatore Teleste che si segnalò nella rappresentazione de’ Sette a Tebe. Si è già riferito a qual segno godesse il favore del re Archelao e dell’amicizia di Socrate il celebre Euripide. L’attore Cefisonte che recitava nelle di lui tragedie, era rispettato in Atene, e sommamente caro allo stesso gran tragico, ne’ cui drammi correva romore di avere anche lavorato alcun poco come scrittore. Si è veduto similmente quanto fosse pregiato e rispettato Egemone il parodo. Eschine celebre oratore fu prima attore teatrale, e si distinse nel rappresentare il personaggio di Enomao, benchè non facesse che le terze parti, siccome gli è rimproverato dal suo gran competitore Demostene nell’aringa per la Corona. Aristodemo ambasciadore al re Filippo, e Neottolemo tanto da questo principe favorito, erano poeti ed attori sommamente {p. 306}stimati in Atene, i quali mirabilmente influivano nelle politiche deliberazioni, e attraversarono le mire di Demostene. Neottolemo stabilito in Macedonia, mentre Filippo si accingeva alla spedizione meditata contro la Persia, e celebrava le nozze di Cleopatra di lui figliuola con Alessandro re de’ Molossi, rappresentò un suo componimento intitolato Cinira, di cui Diodoro Siculo ci ha conservato un frammento notabile, tradotto o imitato dal chiar. Cesarotti162. E per finirla in grande stima era Satiro celebre attore, al quale secondo il racconto di Plutarco dovè Demostene tutto il vantaggio che ricavò dalle sue aringhe, avendo da lui appreso ad animarle con azione vivace e con tuono decente e alle cose accomodato. Ma veniamo alla struttura del teatro greco.

La sua figura era rettangola dalla parte che serviva alla rappresentazione, e circolare da quella dell’uditorio. Della prima il luogo più elevato e visibile, e quasi la fronte dell edifizio, era la Scena, la quale veniva coperta da un tetto, e presentava agli spettatori tre porte, delle quali quella del mezzo dicevasi βαοιλειον, reale, e l’una, e {p. 307}l’ altra de’ lati ξενοδοχειον, ospitale163. Questa scena, a seconda dei drammi che vi si esponevano, diveniva tragica mostrando statue, colonne e ornati nobili, comica imitando piazze e finestre di edifizj particolari, e satirica presentando rupi, caverne, boscaglie. Le decorazioni accennate proprie di ciascun genere comparivano al bisogno per mezzo di macchine, le quali secondo Servio164 cangiavano l’aspetto della scena o col volgere velocemente i tavolati o col ritirarli, per togliere dalla vista una dipintura e farne comparire un’ altra165. Nell’alto della scena eravi il Θεολογειον, cioè il luogo onde parlavano le divinità. Nell’alto era ancor situata la macchina versatile, dalla quale giove lanciava i suoi fulmini, come dinota la voce Κεραυνοσκοπειον che le diedero. Dietro della scena era il βροντειον, il luogo, in cui con otri ripieni di selci che si agitavano, imitavasi lo strepito de’ tuoni. Anche al di dietro era il coragio che oggi si direbbe la guardaroba del coro, serbandovisi quanto faceva d’uopo alla rappresentazione. {p. 308}Il luogo spazioso e libero posto innanzi alle porte della scena (secondo Isidoro e Diomede) chiamavasi Proscenio, ed in mezzo di esso benchè alquanto più basso alzavasi il Pulpito che dicevasi λογειον, dove recitavano gli attori tragici e comici, e i planipedi, o sieno mimi che non usavano nè coturni nè socchi. Al di sotto del pulpito e nel bel mezzo del teatro era l’orchestra destinata al canto e ai movimenti compassati del coro, la quale così chiamavasi dal saltare, dal verbo ορχεομαι, salto. Vedevasi in essa un luogo particolare chiamato Θυμελη, che secondo Polluce non era già il pulpito descritto, siccome scrisse il Calliachio, ma sì bene una specie di ara o tribunale che si occupava da’ musici. E quì termina la parte del teatro destinato alle operazioni degli attori e de’ musici e de’ ballerini.

Un semicircolo col suo diametro comprendeva la parte del teatro occupata dagli spettatori. In essa seguendo la circonserenza si elevava dal basso all’alto una continua scalinata. Veniva questa interrotta da tre piccioli piani formati da scaglioni più spaziosi degli altri, i quali facevano la figura di fasce, e da Vitruvio chiamaronsi Precinzioni166 e da’ Greci διαξωματα. Facevansi in {p. 309}queste varj aditi, entrate, o porte che dall’introdurre il popolo si dissero da’ Latini vomitoria, o anche vomitaria, come scrive il dottissimo Mazzocchi; e a questi aditi si ascendeva per gradi anteriori. Viæ, itinera, o scalaria dicevansi alcune scalinate più anguste, fatte, non per sedere, ma per montare a i rispettivi cunei. Ogni coppia di queste picciole scalinate conteneva uno spazio, che dall’andarsi sempre ristringendo nel calar giù presentava la figura di un cuneo, e secondo Giusto Lipsio167 diede il nome agli spartimenti de’ sedili assegnati a i diversi ceti degli spettatori. Tutti gli spartimenti erano di modo divisi, che gli apici degli angoli de’ gradini sarebbero stati toccati da una retta tirata dal primo dell’ima all’ultimo gradino della summa cavea; cosa secondo l’anzilodato architetto Latino ben necessaria in un edifizio teatrale, affinchè la voce possa diffondersi senza impedimento. Osserva ancora lo stesso Vitruvio non essersi senza molto senno, per la scalinata, scelta da’ Greci architetti la figura circolare, ed averne gradatamente innalzati e ingranditi i cerchi a misura che si allontanavano dal centro. Nella qual cosa secondarono la naturale espansione del suono, il {p. 310}quale, non come l’acqua percossa forma de’ circoli concentrici in una superficie piana, ma bensì gli forma nel mezzo dell’aria in tutti i sensi come in una superficie di una sfera, il cui centro è il corpo sonoro. A render poi sempre più chiare e soavi le voci degli attori, immaginarono i Greci certi vasi di bronzo chiamati echei artificiosamente lavorati e collocati in alcune cellette sotto gli scaglioni. Erano essi fra loro accordati con musica ragione in guisa che scossi dalla voce la rimandavano più sonora e modulata. Ponevangli a tal fine in un luogo vuoto rivolti verso la scena e sostenuti da cunei che si ponevano sotto di essi, perchè non toccassero le pareti. L’ultima gran curva della scalinata terminava in un portico che pareggiava l’altezza della scena ed era anche coperto da un tetto, rimanendo il resto alla scoperto. Formavano ancora una parte del teatro alcuni gran portici edificati dopo la scena, i quali servivano al popolo per ricoverarvisi quando le piogge dirotte interrompevano la rappresentazione. Adjacenti al teatro facevansi pure spaziosi passeggi, ne’ quali il popolo trattenevasi attendendo l’ora prefissa allo spettacolo.

Marmi, bronzi, statue, colonne ed altre preziose reliquie di tanti teatri Greci, a dispetto degli anni che gli abbatterono, ne manifestano la solidità e la magnificenza. Non è da stupirsene. Gli spettacoli come {p. 311}scuole di destrezza, di valore, e d’ingegno formavano una delle cure predilette de’ Greci, e tralle prime di queste cure erano i teatrali. Se ne occupavano perciò con tutta l’accuratezza i Temistocli e i Pericli per cattarsi la benevolenza popolare. Il Demarca principal magistrato Ateniese prendeva a suo carico lo spettacolo; e reputavasi impiego così onorifico che Adriano stesso poscia imperadore ne fu decorato. Due splendidi campi di onore aperse agl’ ingegni la Grecia, l’uno ne’ giuochi Olimpici e l’altro in Atene; e nell’uno e nell’altro si gareggiava per la palma drammatica. Quale ardore destar non dovea ne’ generosi scrittori un’ adunanza composta di quanto avea di più cospicuo la dotta Grecia destinata ad assistere al certame e pronta a coronare il vincitore! Questa onorata fiamma di gloria, questa bella utile contesa così chiamata da Esiodo perchè nulla avea di quella bassa malignità che tormenta gl’ invidi impostori e gli stimola a perseguitare il merito innocente, questa, dico, regnava singolarmente in Atene. Quivi collocò il suo luminoso trono la gloria drammatica; e le sceniche contese accadute in sì celebre città vinsero di gran lunga di fama le stesse gare Olimpiche. Nelle più solenni feste di Minerva dette Panatenee e di Bacco dette Dionisie famose pel gran concorso de’ Greci, aveano luogo gli spettacoli {p. 312}scenici. Colui che ad essi presedeva, riceveva un presente o sussidio considerabile che esauriva l’erario pubblico, e pure non bastava alle spese necessarie. Ne’ Baccanali quando si esponevano a gara le nuove tragedie, preparavasi al popolo in teatro un gran rinfresco di vivande e di licori, e si facevano correre da più parti fontane di vino168. Ebbero anco gli Ateniesi alcune leggi intorno al danajo degli spettacoli. Il popolo che vi accorreva con estrema avidità, soleva azzuffarsi e spargere anco del sangue per avervi luogo. Or per moderare alquanto questo pericoloso concorso, si emanò una legge che niuno potesse sedervi, se non pagava un picciolo prezzo fisso a favore de’ fabbricatori del teatro, perchè si rimborsassero delle spese fattevi. I poveri per questa legge rimanevano esclusi, e i ricchi pagando per gli poveri approfittaronsi di tale occasione per comperarsene i voti ed il favore. Pericle in grazia della plebe decretò che certo danajo pubblico riserbato per l’occorrenze di qualche invasione straniera si desse a’ cittadini in tempo di pace per abilitarli ad assistere agli spettacoli; ed è questo il danajo {p. 313}chiamato τόϑεωρικὸν o sia degli spettacoli. Sull’incominciar della guerra di Olinto volle Apollodoro fare un decreto che questo danajo ritornasse all’uso antico; ma egli fu per questo accusato e punito con una grossa pena pecuniaria. Laonde Eubulo cittadino potente e adulatore del popolo promulgò una strana legge, cioè che chiunque proponesse di trasportare ad uso di guerra il danajo che si chiamava teatrale, fosse reo di morte169. Incredibili erano, per conseguenza di tanto ardore e di tanta avidità per gli spettacoli, gli applausi, le ricchezze, le corone, e gli onori che a piena mano versavano gli Ateniesi su i poeti che n’erano l’anima e su gli attori che n’erano gli organi.

Qual magnificenza, qual concorso, qual lusso, quali profusioni per un semplice divertimento di una repubblica sì picciola in confronto di tanti poderosi stati moderni arricchiti dalle miniere Americane, ne’ quali son pure così meschini e spregevoli i teatri! Ma quell’Atene che con tale ardore correva al teatro e fuggiva gli accampamenti, che profondeva in quello tanti tesori, e negavali ai patriotici progetti di Demostene, {p. 314}si corruppe170, rovinò per questo appunto, divenne schiava e poi barbara. Se il divertimento non occupa solo una picciola porzione del tempo lasciando il rimanente agli affari, se il piacere prende il luogo del dovere, la nazione è perduta. Non per tanto dove i costumi mancano di una pubblica scuola teatrale che ammaestri il popolo sotto gli occhi di un provvido governo: dove il teatro, in cambio di essere scuola, fomenta le laidezze, le goffaggini, le assurdità, le bassezze, i pregiudizj, e resta abbandonato dalla gente colta e di buon gusto: dove la poesia drammatica si trascura, si pospone alle farse informi, e si avvilisce per le declamazioni degl’ imperiti, de’ pedanti orgogliosi e raggiratori, o de’ filosofi e matematici immaginarj: dove in somma si cade nell’eccesso contrario delle repubbliche Greche, ognuno vede che in un popolo così guasto si chiudono le cattedre di educazione e di morale che sono le ausiliatrici della legislazione. I selvaggi ignorano gli spettacoli scenici: i barbari vanno a ridere in un teatro rozzo e goffo e ne tornano quali vi entrarono; i soli popoli illuminati consacrando sempre le prime cure ai doveri, sanno promuovere la {p. 315}poesia rappresentativa e cangiarla (senza escluderne la parte che diletta) in un morale e politico sostegno. Io auguro ad ogni nazione questa bell’ epoca teatrale.

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NOTE E OSSERVAZIONI DI D. CARLO VESPASIANO in questa edizione accresciute. §

Nota I. §

Le sublimi e vive dipinture, e le grandiose e robuste immagini d’Omero faceano dire al celebre Statuario Francese Bouchardon: sempre che ho letto Omero, ho creduto aver venti piedi di altezza; e una volta servirono anche di scusa a un bravo Disegnatore, che essendo stato ripreso di aver fatto una figura di Capitano d’esercito alquanto smisurata, rispose: Io avea letto pur dianzi Omero, e tutto pareami più grande dell’ordinario. Egli è il vero, che ’l Poeta Greco dormicchia talora e sogna, spezialmente nell’Odissea da lui composta in vecchiezza; ma egli è pure il vero, che le sue fole, e i suoi sogni (come dice bene Longino de sublim. cap. VII) sono belle fole, e pretti sogni di Giove.

Nota II. §

Il celebre Hennino Medico Tedesco riferisce che nella China si mette a una certa distanza dagli Attori un Coro di Musica, che regola da lungi le variazioni delle loro voci, e che, quantunque non si sentisse ciò che dicono, pure fa sì, che l’ascoltatore a forza di quel suono sia commosso dalle passioni, ch’essi vogliono destare.

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Nota III. §

Tra coloro che precedettero Tespi vuolsi noverare Arione, il quale, al dire del Patrizi nel lib. I della Poetica nella Deca istoriale, su il primo inventore del verso tragico, e del Coro similmente tragico, ed introdusse Satiri in scena a parlare in versi. Costui, al riferir del medesimo Patrizi, fiorì nell’Olimpia. de XXXVIII, cioè l’anno innanzi Cristo 628, e della fondazione di Roma 126.

Nota IV. §

Eschilo, secondo il testimonio di Sofocle, e secondo che dice Callistene presso Luciano, e Plutarco nel Simposio, scrivea le sue tragedie tra’ bicchieri, quando era già caldo di vino. Anzi da Ateneo vien biasimato di aver il primo introdotto con mal esempio le persone degli ubbriachi nella tragedia, e da Aristofane nelle Rane atto V, sc. 1, fu condannato di frase asaphis non intelligibile per bocca di Euripide. Alcuni altri dotti hanno rimproverato ad Eschilo uno stile gonfio, e troppo ardito; ma questo rimprovero dovea farsi, al dire del dotto e giudizioso Ab. Arnaud, meno al Poeta che ai Greci di quel tempo; perocchè la lingua altro non suol essere, che l’espressione e l’ immagine del carattere e del costume regnante presso di una nazione.

Nota V. §

Il Prometeo di Eschilo fu, secondo Andrea Dacier, una tragedia allegorica sopra i Re, e forse sopra Serse, e sopra Dario, come dice il P. Pietro Brumoy. Æschile dans son Promethée (osserva l’Ab. Arnaud) a voulu peindre l’ ame des Grands, & il y a représenté au naturel l’injustice profonde, & réfléchie de la plupart des Souverains, qui n’ont dû leur élevation, qu’aux secours & sur tout à la sagesse éclairée de leurs amis.

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Nota VI. §

Lo scopo della Poesia e dell’Eloquenza (dice ottimamente il Signor Raimondo di Saint-Marc) è di commuovere e dilettare; e la vera pietra di paragone de’ componimenti ingegnosi è l’impressione che fanno nell’animo de’ leggitori. Bisogna però esser dotato non che d’ingegno per esaminare, ma di cuore per sentire, e di buon senno per apprezzare; perchè altrimenti si portano giudizj strani, e si può anche giungere alla ridicolosa balorderia e scempiataggine di farsi uscire di bocca ciò che in fine della recitazione della famosa Fedra Francese disse all’Autore un Geometra di lui amico e compatriota assiderato dal compasso di Urania: È che prova cotesta vostra Fedra? Al che non si avrebbe dovuto altro rispondere, se non che, voi siete un puro e vero matematico.

Nota VII. §

Cimone avendo con grande stento e industria ritrovate nella conquistata Isola di Sciro le ossa di Teseo, e secondo l’avviso dell’Oracolo portatele in Atene, n’ebbero gli Ateniesi una così gran gioja, che a fine di perpetuar la rimembranza di sì fausto avvenimento, istituirono quell’annuo arringo letterario fra gli scrittori tragici, che divenne molto famoso, e che grandemente contribuì all’avanzamento delle composizioni drammatiche per l’ emulazione ch’esso destava, e per gli sommi onori e applausi, che ne riscuoteva il vincitore. V. Plutarco nella Vita di Cimone.

Nota VIII. §

Sophocles (dicesi nella Vita di Sofocle tradotta dal greco per Giovanni Lalamanti) Homericam venustatem & majestatem exprimit, ut Jonicum quemdam dixisse ferant, solum Sophoclem Homero esse discipulum. Senofonte nel libro I delle Cose Memorabili dice: {p. 319}Homerum in carminibus Epicis, in Tragicis Sophoclem admiratus sum maxime; e Cicerone chiama doctissimum hominem, poetam quidem divinum, Sophoclem; e diceva ancora per antonomasia, an pangis aliquid Sophocleum? Plinio lib. VII, c. 29, Sophoclem tragici cothurni principem.

Nota IX. §

Oltre alla prefettura di Samo ebbe Sofocle l’onore di esser fatto Arconte di Atene, e attese con lode al governo della Repubblica. Ei segnalossi non pure col suo bell’ ingegno nelle Tragedie, ma col suo gran cuore da Capitano in compagnia di Pericle nella guerra, che gli Ateniesi fecero contro quelli di Samo nel terzo o quarto anno dell’olimpiade LXXXIV. Ipsos scenicos (dice de’ Greci S. Agostino nel lib. IV della Città di Dio cap. 28) non turpes judicaverunt, sed dignos etiam præclaris honoribus habuerunt.

Nota X. §

Alle censure fatte dal Signore di Voltaire contro all’Edipo Tiranno di Sofocle in alcune lettere che trovansi nel primo volume del suo Teatro dopo l’Oedipe, rispose il Conte di Calepio con una bell’ apologia; e ultimente sin anche il Sig. Geoffroy nell’Année litteraire 1783, num. II, lett. 19, ha confutato l’ignoranza, l’ingiustizia, e la mala fede del medesimo Sig. di Voltaire. Quello che non si può mettere in dubbio si è che otto Poeti Francesi, senza contare quelli delle altre nazioni, hanno lavorato intorno al medesimo soggetto, Brisson, Garnier, Prevost, Bedouin, Pietro Corneille, M. de la Motte, il Sig. di Voltaire, e ’l Gesuita Folard, e niuno ha finora potuto nemmeno dalla lunga tener dietro a questa incomparabile favola del più famoso Tragico della Grecia.

{p. 320}

Nota XI. §

Fu posta sulla tomba di Sofocle la figura di uno sciame di api per perpetuare il nome di ape, che la dolcezza de’ suoi versi gli avea procacciato; il che probabilmente fece immaginare, che le api si erano fermate sulle di lui labbra quando stava in culla.

Nota XII. §

Euripide l’anno primo dell’olimpiade LXXV, cioè 479 anni innanzi alla venuta del Redentore, e 224 della fondazione di Roma, nacque in Salamina, ove per la famosa spedizione, che preparavasi da Serse contra la Grecia, si erano ritirati i suoi genitori Mnesarco e Clitona, i quali gli diedero il nome di Euripide per la celebre vittoria dagli Ateniesi di loro compatriotti riportata sopra i Persiani presso alla bocca dell’Euripo in quel medesimo giorno ch’egli uscì alla luce del mondo.

Nota XIII. §

Euripide (dice Quintiliano nel lib. X delle Istituz. Orat:, c. 1.) & vi & sermone . . . . magis accedit oratorio genere, & sententiis densus & rebus ipsis, & in his, quæ a sapientibus tradita sunt, pene ipsis par, & in dicendo, ac respondendo cuilibet eorum, qui fuerunt in foro diserti, comparandus. Quindi avvenne, che que’ due gran luminari della Greca e Latina eloquenza Demostene e Cicerone, col molto esercitarsi nello studio delle tragedie di Euripide, mirabili progressi fecero nell’arte loro. A buon diritto adunque il nostro dotto e facondo Gian-Vincenzo Gravina nel lib. I della Ragion Poetica chiama le tragedie di Euripide vera scuola di eloquenza. Plutarco però nell’opuscolo de Poetis audiendis riconosce in Euripide una certa loquacità; ed Aristofane nella Pace lo tassa col nome di Causidico più che di Tragico, facendo maggiore {p. 321}stima di Eschilo e di Sofocle, perchè questi aspirano con molta felicit à sempre all’altezza elocutoria.

Nota XIV. §

Veggasi il giudizio che di questa tragedia porta il dotto e assennato P. Brumoy contro M. Perrault.

Nota XV. §

Pier Vettori sopra la Poetica: Hecuba Euripidis fabula duplex erit, sunt enim in illa gemini casus tragici; nam priori materiæ, quæ nex est Polydori, animadversioque in consceleratum hospitem, adjungitur interitus Polyxenæ.

Nota XVI. §

Crudelitas fati tanto ingenio non debita, di lui dice Valerio Massimo lib. IX, cap. 12. Da ciò che il dotto le Fevre e M. Rollin dicono, Euripide dovette morire il secondo anno dell’olimpiade XCII, e non nella XCIII; perciocchè Aristofane nelle sue Rane, le quali furono certamente rappresentate nell’olimpiade XCII, parla di Euripide come di un uomo ch’ era già morto; e Sofocle, per quanto ci assicurano parecchi autori, sopravisse di sei anni ad Euripide, e morì nonagenario nel quarto anno dell’ Olimpiade XCIII.

Nota XVII. §

Aristotile Poet. 48: Chorum Comœdorum sero Magistratus dedit; sed voluntarii erant. Lo Scaligero così illustra queste parole, Poet lib. VII, c. 7.: Dari Chorus a Magistratu dicebatur, quia sumptui non sufficeret Poeta; itaque ære publico id curabatur: neque vero parva erat impensa illa, quando magnus personarum numerus conducendus esset, atque in iis Choragus, & Coryphæus, unde illi discerent. Oportuit enim fuisse bene doctos artis {p. 322}Musicæ. Gratis ergo nolebant prodire, qui eo quæstu vitam sibi parabant. Idcirco ibi Philosophus ait εθελοντας se olim obtulisse aliquot ad Choros, quasi Volones dicas; hoc est ultro, non quæsitos, neque allectos precio. Ed il Piccolomini così interpreta sopra la Particella 30: Dal pubblico e dal comune su ordinato un magistrato, il quale avesse cura di quello che ai Poeti Tragici facesse per la recitazione delle loro tragedie bisogno. E particolarmente teneva cura d’aver persone atte al Coro, facendole a spese pubbliche instruire e nel canto e nell’arte del salto e del ballo: e così instruite ed instrutte a tale ufficio destinate e salariate teneva; ed a quei Poeti, che ad esso paresse che ne susser degni, ed a quelle tragedie che ad esso pareva che lo meritassero, lo concedeva. Così fatti favori non ebbe la Commedia per molto tempo . . . . Onde i Poeti Comici si servivano per il Coro, non delle persone date loro dal Magistrato, ma di quelli che eglino stessi a voglia loro o di esse, si provvedevano.

Nota XVIII. §

Giano Parrasio, o sia il dotto Cosentino Gio: Paolo Parisio, nell’epistola 64 così rapporta ciò che il Signorelli asserisce sull’autorità dello Scoliaste di Aristofane: Qui Atticæ pagos habitabant, injuria a divitibus affecti, noctu peragrantes urbem querebantur. Ea res cum multum prodesset moribus Civitatis, cum unusquisque caveret a culpa, Atheniensium Magistratus ultro rusticos impulerunt, ut quæ perpessi suissent a malis civibus, interdiu propalam in theatro cum eorum qui gesserant, nomine decantarent. Deinde plebiscito facta potestas acri ingenii viris est, ut his de rebus carmina componerent, impuneque probo notarent malos indifferenter omnes.

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Nota XIX. §

Cicerone ne’ frammenti della Repubblica lib. IV parlando della Commedia antica de’ Greci saviamente biasima una sì licenziosa e sfrenata libertà in questa guisa: Quem illa non attigit, vel potius quem non vexavit? Esto, populares homines, improbos, in Rempublicam seditiosos, Cleonem, Cleophontem, Hyperbolum læsit: patiamur . . . sed Periclem, cum jam suæ civitati maxima auctoritate plurimos annos domi & belli præfuisset, violari versibus & eos agi in scena, non plus decuit, quam si Plautus noster voluisset, aut Nævius P. & Cn. Scipioni, aut Cæcilius M. Catoni maledicere. Da questo passo di M. Tullio, e più da ciò che il nostro Signorelli osserva nelle commedie di Aristofane, si scorge chiaramente che S. Agostino studiava con maggior cura e attenzione le materie della Grazia che l’antica letteratura; giacchè in un luogo della Città di Dio egli avanza, che la licenza del Teatro Greco non fu mai così sfrontata che giugnesse ad offender Pericle, il quale non che da Aristofane, venne pur da Ermippo posto in iscena.

Nota XX. §

Pisandro uomo di bella statura, e che andava adorno e armato galantemente per darsi un’ aria di Eroe, avendo in un combattimento gittato le armi, venne nella Lisistrata da Aristofane così ben deriso, ch’egli passò in proverbio presso i Greci, più codardo di Pisandro.

Nota XXI. §

Di quest’opera del Signor Marmontel ecco come favella M. Palissot: La Poétique de M. Marmontel, ouvrage en deux gros volumes plein d’hérésie en matiere de gout. {p. 324}Elle n’est pas dangereuse parcequ’on ne la lit point. Fralle altre cose rare vi si trova paragonato con somma finezza di giudizio Aristofane a Catilina e a Narciso, e antiposto Lucano a Virgilio, il quale anche graziosamente viene accusato dal Sig. Marmontel di aver comparato Turno a un asino, comparazione che non rinviensi affatto presso il Poeta Latino. Insigni ancora sono le sentenze da codesto nuovo legislatore di Poetica pronunciate contro l’Italica nazione in fatto di poesia. L’ardire e la franchezza, colla quale i Francesi (parlo per sinecdoche) soglion discorrere, giudicare e scrivere della letteratura forestiera, ch’essi poco o nulla conoscono, è un dono particolare, che la natura ha conceduto loro solamente.

Nota XXII. §

Platone per mostrare più particolarmente la stima, ch’egli faceva di questo poeta, gli diede il miglior luogo nel suo Convito, ch’è uno de’ suoi più belli dialoghi, e mette sotto il di lui nome il bel discorso, ch’egli fa dell’amore, dando con ciò ad intendere che Aristofane era il solo che potesse con vaghezza e diletto parlare di questa passione. San Gio: Crisostomo mettevasi Aristofane sotto del capezzale, come Alessandro il Grande faceva di Omero.

Nota XXIII. §

Orazio nell’Arte Poetica:

. . . . lex est accepta, Chorusque
Turpiter obticuit, sublato jure nocendi.

Quando principiò a fiorire la commedia mezzana, Chori loco (dice il dotto Scaligero nella Poet. lib. I c. 9.) Parabases quædam fiebant, in quibus aliorum Poetarum dicta, scriptaque {p. 325}sine maleficii crimine, aut pœnæ suspicione irridebantur.

Nota XXIV. §

Menandro (afferma il dotto Ab. Winckelmann nella sua Storia delle Arti del disegno) il primo, a cui la grazia comica mostrossi in tutta la sua beltà, comparve sulla scena, menando seco in treno le grazie e venustà di un polito linguaggio, un’ armonica misura, un dolce concento, purgati costumi, il piacevole mescolato coll’ utile, e la fina critica condita di sale attico. Di lui scrisse Vellejo Patercolo, inveniebat, neque imitandum relinquebat.

Nota XXV. §

Si vede che non ebbe vigore alcuno in Atene, almeno a’ tempi di Aristofane, quella savia legge di Solone, dalla quale veniva proibito il dir male de’ morti, a cagion che la religione porta a tenere i defunti per sagri, la giustizia a risparmiar coloro che non più esistono, e la politica a non sofferire che gli odj sieno eterni.

Nota XXVI. §

Si dee sapere, che fra gli altri ciarlatani, empirici ed istrioni, che a’ nostri giorni han fatto e fanno grandissima fortuna in Parigi, vi sono con carrozza ed equipaggio un certo Nicole, e un certo Nicolet, de’ quali il primo a forza di far correre avvisi stampati per guarire il mal francese, e ’l secondo a forza di rappresentar farse e buffonerie sopra i Baluardi e alle Fiere di San Germano, e di San Lorenzo, seppero così ben fare i fatti loro, che da molti anni sono padroni di varie terre, le quali hanno titolo di Signorie.