Pietro Napoli Signorelli

1787

Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome II

2017
Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni di Pietro Napoli-Signorelli Napoletano, tomo secondo, In Napoli, Presso Vincenzo Orsino, 1787, 295-[1] p. PDF : Bayerische Staatsbibliothek, München
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LIBRO II §

CAPO PRIMO.
Antichità Etrusche fondamento delle Romane. §

Ogni riconoscenza ed applauso esigono dalla grata posterità le utili fatìche del Muratori, del Maffei, del Gori, del Guarnacci, del Passeri, dell’ Accademia di Cortona ed anche del Dempstero, i quali sparsero da non gran tempo non picciola {p. 2}luce nelle antichità Etrusche. Essi le vendicarono in parte delle ingiurie del tempo che di tenebre l’ avvolse, e ci rapì ancora la Storia degli Etruschi che ne avea in greco distesa in venti libri l’Imperador Claudio. Meritava al certo le cure di sì valorosi antiquarii una nazione che avea dominato in Italia prima de’ Romani e de’ Galli, che fiorì prima della stessa Grecia (Nota I), e che colla lingua, i riti, le arti e le usanze tanto contribuì all’origine e alla coltura dell’antica Roma.

Se voglia riguardarsi al suo dominio, l’Etruria di molto estendevasi oltre la Toscana presente; perciocchè i Tirreni, secondo Polibio1, abitavano tutte le terre poste tra l’Apennino e il mare Adriatico, e possedevano i Campi Flegrei che erano tra Capua e Nola. Capua stessa, anticamente chiamata Volturno, al dir di Livio, fu città Etrusca2. Lo stesso Storico ci fa sapere che gli Etruschi possedettero la massima parte dell’Italia, e colle colonie si sparsero per le alpi ancora, e tennero il paese de’ Grisoni anticamente chiamato Rhaetia3.

Se si attenda al grado della coltura a cui {p. 3}pervenne, essa inventò, e fece ne’ dilatati suoi dominii fiorir tante arti di comodo e di lusso. Testimoni indubitati della perizia di tali popoli nell’ architettura abbiamo non solo l’invenzione e il nome di un ordine diverso da quelli che ci tramandò la Grecia, ma le reliquie degli antichi edificii che in parte esistono ancora ne’ paesi Toscani. Sebbene dello stupendo e capriccioso Labirinto di Porsena, monumento sepolcrale fabbricato nell’antichissima città di Chiusi, giunso all’età di Plinio soltanto la memoria4, pure non pochi altri antichi rottami ci rimangono che manifestano la loro espertezza nel costruire. Nel luogo selvoso, ov’era Populonia una delle dodici principali città dell’Etruria, appajono molte vestigia di sì famosa città, e specialmente una porzione di un grande anfiteatro, che si congettura essere stato tutto di marmi: tralla Torre di San Vincenzo ed il promontorio dove era la nomata Populonia, veggonsi le reliquie di un altro anfiteatro, presso al quale giaceva un gran pezzo di marmo con lettere Etrusche: di un altro osservansi i rottami fralle antichità della città di Volterra5, {p. 4}Del magistero degli Etruschi nel dipingere, oltre ai vasi coloriti, de’ quali favella il Maffei6 e ad altri posteriormente scoperti, ci accerta il lodato Plinio7, affermando che quando in Grecia cominciava la pittura a dirozzarsi, cioè a’ tempi di Romolo, non avendo il Greco pittore Butarco dipinto prima dell’ olimpiade XVIII, in Italia già quest’arte incantatrice era perfetta, e le pitture di Ardea, di Lanuvio e di Cere erano più antiche di Roma fondata, secondo la cronologia del Petavio, nella VI olimpiade8. S’incideva parimente e si scolpiva per ogni dove nell’Etruria, giacchè tante tavole di bronzo e di marmo intagliate e tante statue ed altri marmi e bronzi scolpiti se ne rinvengono sparsi quà e là per l’Italia. Ammiravasi in Populonia la famosa statua di Giove fatta tutta di una vite che si conservò lungamente senza veruna macchia9. Mostrasi in Volterra una statua marmorea di Marte e molte urne di alabastro con grande artificio istoriate, nelle {p. 5}quali veggonsi incisi caratteri Etruschi, come ancora una statua di donna vestita con un fanciullino fasciato nelle braccia. Fecesi da uno scultore Toscano in Roma la statua di Giove Capitolino sotto Tarquinio Prisco. Disotterransi tratto tratto diversi monumenti da’ migliori antiquarii stimati Etruschi. Tale si giudicò il puttino di bronzo che Monsignor Carrara presentò al Pontefice Clemente XIV, da cui fu collocato nel Museo Vaticano. L’Auditore Giambatista Passeri nel 1771 l’illustrò con una dissertazione latina10.

In pruova poi di essersi nell’Etruria coltivata la poesia, il tempo ci ha conservate alcune tavole di bronzo, nelle quali leggonsi incisi alcuni inni sacri. Sappiamo altresì che essa aveva spettacoli teatrali, oltre ai dialoghi satirici Fescennini. E per le cose sceniche troviamo mentovate le tragedie e la ludicra degli Etruschi, e ci si dice che le donne ancora rappresentavano ne’ loro {p. 6}teatri11. Etrusco, secondo Livio, è lo stesso vocabolo Hister da’ Romani poi convertito in Histrio, ed usato in vece di Ludio per l’attore scenico, nel qual senso si è continuato ad usare in molte lingue volgari Europee. Volunnio, secondo Varrone, scrisse alcune tragedie in lingua Etrusca. Che sieno però esse state composte avanti che l’Etruria fosse soggiogata da’ Romani, siccome pretenderebbe dare a credere il Dempstero12, è cosa incerta, nè apparisce dal passo di Varrone; ed il chiar. Tiraboschi saviamente oppone, che anche sotto il dominio Romano potevano gli Etruschi poetare nella loro lingua patria. Ed in fatti ognun sa che gli stessi Romani studiavano le lettere Etrusche; e secondo Dionigi Alicarnasseo il Greco Demarato fece non meno nelle Greche che nell’Etrusche lettere ammaestrare i figliuoli.

Roma certamente si formò sopra la nazione Etrusca. Giusta l’usanza religiosa da questa tenuta Roma nascente volle descrivere il circuito delle proprie mura per mezzo di un solco fatto coll’ aratro tirato da {p. 7}un toro e da una vacca13. A imitazione degli Etruschi aggiunse Romolo il pomerio nella sua città14. Da essi15 fu presa la pretesta che i Romani portavano fino ai quindici anni, e la trabea ornamento reale, e la toga, e i fasci consolari, e le trombe militari, e la sedia curule de’ gran magistrati16. Feste, arte aruspicina, regolamenti politici, giuochi gladiatorii, baccanali, istrioni, tutto tolse Roma dall’Etruria. Ma tutto ne imitò di mano in mano a misura che andava prendendo forma. Gli spettacoli destinati al ristoro della società dopo la fatica, furono un bisogno conosciuto dalla nuova città più tardi di quello di assicurare contro gli attentati domestici e stranieri la propria sussistenza per mezzo della religione, della polizia e delle armi. Perciò {p. 8}quando l’Etruria sfoggiava con tante arti e con voluttuosi spettacoli, e quando la Grecia produceva copiosamente filosofi, poeti e oratori insigni, e risplendeva pe’ suoi teatri, Roma innalzava il campidoglio, edificava templi, strade, aquidotti, prendeva dall’aratro i dittatori, agguerriva la gioventù, batteva i Fidenati e i Vei, scacciava i Galli, trionfava de’ Sanniti, preparava i materiali per fabbricar le catene all’Etruria, alla Grecia, e a una gran parte del nostro emisfero.

CAPO II.
Prima epoca del teatro Latino. §

I.
Semi primitivi della scena in Roma. §

L’unico spettacolo Circense frequentato per lungo tempo in Roma erano le feste Consuali istituite da Romolo dopo il ratto delle Sabine. Ma nel Consolato di C. Sulpizio Petico e di C. Licinio Stolone, nel primo anno della CIV olimpiade e nel 389 della sua fondazione, Roma afflitta da una crudelissima peste, sospesa ogni cura bellica, per liberarsi da sì fiero nemico domestico, {p. 9}contro di cui ogni umano argomento riusciva inefficace, pretese placare lo sdegno celeste con un nuovo rito religioso, e compose alcuni inni. Questo sacro poetico omaggio passò poscia in costumanza, e la gioventù che lo cantava, incominciò a poco a poco ad animarlo scherzevole con atteggiamenti rozzi e scomposti, e lo convertì in ricreazione17. Ecco la sacra informe materia teatrale che nasce, per ciò che nel precedente volume divisammo, in ogni terreno, senza che se ne prenda da altri popoli l’esempio, nella quale per lungo tempo rimangono antiqui vestigia ruris. Essa rassomigliava ai primi inni ditirambici e ai cori rustici de’ Greci, e pose in voga i diverbii Fescennini, i quali insieme co’ modi Saturnii per centoventi anni in circa vennero da’ Romani coltivati18. Ma siffatti motteggi per la soverchia acrimonia e maldicenza personale abbisognarono col tempo di correzione, e furono dalla legge ridotti al solo oggetto d’instruire e dilettare. Orazio stesso ce ne trasmise la storia19:

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. . . . . . . Quin etiam lex,
Pœnaque lata malo quæ nollet carmine quemquam
Describi. Vertere modum formidine fustis
Ad bene dicendum, delectandumque redacti.

E la legge quì accennata era quella descritta nella settima Tavola de’ Decemviri: Si quis pipulo centasit, carmenve condisit, quod infamiam faxit, flagitiumve alteri, fuste ferito.

In Grecia però la rozza satirica materia de’ cori villeschi, senza esempio di altro popolo, avea prodotta la poesia scenica; ma tra’ Romani sì l’accennata sacra poesia gesticolata che i rozzi diverbii Fescennini ebbero bisogno dell’esempio degli Etruschi perchè essi passassero a conoscere e ad esercitar l’arte ludicra. Si pensò pertanto verso l’ anno 391 di Roma ad invitare un attore scenico dell’Etruria, il quale per la sua nuova, graziosa e dilettevole agilità (all’usanza de’ Cureti e de’ Lidii, da’ quali traevano l’origine gli Etruschi) riuscì ad essi molto grato. Ma confusa poscia quest’arte stessa con gl’ inconditi e quasi estemporanei surriferiti versi Saturnii e Fescennini, prima di partorire la poesia drammatica, diede l’origine alla satira tutta Romana20, nella {p. 11}quale, non già come prima alla rinfusa e rusticamente si motteggiava, ma con un canto regolare e con un’ azione assai più congrua e composta21.

Con tali passi lentamente preparavasi in Roma la strada alla poesia scenica, la quale nè anche dovea coltivarsi senza gl’ impulsi e gli esempii or degli Osci, or della Magna Grecia, or della Grecia transmarina.

II.
Osci colle proprie Atellane in Roma. §

Uno spettacolo appartenente con proprietà maggiore alla poesia rappresentativa recarono a Roma dalla Campania gli Osci, i quali vi furono chiamati a rappresentare le proprie favole mimiche celebri per la loro speciale piacevolezza. Esse nomaronsi Atellane, perchè fiorivano principalmente in {p. 12}Atella città Osca posta allora due miglia distante dalla presente Aversa nel regno di Napoli. Con quale applauso vi fossero accolte e con quanti privilegii onorate, si vede da’ seguenti fatti. I. Esse continuarono a rappresentarsi in Roma nella patria lingua Osca ancora nel fiorir della Latina favella e sino all’età di Augusto, quando scrivea il grave geografo Strabone22. E si ascoltarono con singolar diletto, perchè ignorando i primi Atellani la lingua Latina, si valeano della propria con molta grazia23; al che allude il noto verso di una favola di Titinio citato da Pompeo Festo24. E che a’ Romani non riuscisse malagevole il gustare delle grazie di quella lingua, può dedursi da ciò che scrive Tito Livio del Console {p. 13}L. Volunnio, il quale militando contro i Sanniti che la parlavano ancora, spedì alle vicinanze del fiume Volturno alcune sue spie pratiche del parlare Osco, per esplorar gli andamenti del nemico25. II. Stabilito questo spettacolo Campano in Roma la gioventù Romana volle sottentrare a rappresentarlo dopo gli attori nativi di Atella, e se ne riserbò il diritto privativo ad esclusione degl’ istrioni di professione, i quali erano schiavi e perciò mirati con disprezzo, e reputati infami. III. Gli attori Atellani non perdevano il nome ed il diritto di cittadini Romani, non erano rimossi dalla propria Tribù, non si escludevano dagli stipendi militari26. IV. Essi ottennero il nome di veri attori personati, non perchè soli usaffero della maschera, ma perchè soli ebbero il privilegio di non mai deporla sulla scena; là dove gli altri istrioni commettendo qualche fallo di rappresentazione, a un cenno del Popolo doveano smascherarsi e soffrirne a volto nudo le fischiate27.

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Ma per qual pregio particolare vennero in simil guisa privilegiate e conservate ancora dopo che la scena Latina ammise drammi migliori? Perchè, secondo il nostro avviso e del Casaubon28, gli arguti copiosi sali e le vivaci piacevolezze che le condivano, non erano da oscenità veruna contaminate, ma talmente dalla natural gravità Italica temperate, al dir di Valerio Massimo29, che non recarono veruna taccia a chi le rappresentava. Si è però preteso da taluni troppo leggermente che esse fossero sin dalla loro origine basse non solo e buffonesche ma oscene ancora. Pure da quale classico scrittore ciò si ricava? Non da Livio, non da Strabone, non da Valerio Massimo che ne favellano. Le favole Atellane (disse il Gesuita Francese Pietro Cantel nelle sue Illustrazioni all’epitome di quest’ultimo scrittore stimata opera di un Giulio Paride dal Vossio e di un Gianuario Nepoziano da altri) oscene per origine furono corrette e temperate dalla Romana severità, cangiando l’Italica di Valerio in Romana, {p. 15}quasi che fossero sinonimi, o quasi che i nostri Osci fossero fuori dell’Italia. Ma egli dovea sapere che da prima la denominazione d’Italia propriamente designava il paese che tennero gli Osci, gli Ausoni e gli Enotrii30, e che più tardi poi sotto nome d’Italia s’intese tutto ciò che Apennin parte e ’l mar circonda e l’alpe, e in conseguenza il Lazio con Roma. Sicchè l’Italica severità di Valerio si riferisce agli Osci festivi sì, ma non osceni da principio. Gli Osci (dice pure lo stesso Cantel) dall’usar che facevano parole turpi ed oscene sortirono il nome di Osci. Ma donde egli l’apprese? Osceno significò per avventura impudico, turpe, licenzioso nella lingua Osca, o nella Sabina, nell’Etrusca, nella Messapia ed altre antiche lingue dell’Italia? E se osceno è vocabolo Romano, come può stare che esso desse la denominazione agli Osci nazione più antica di Roma? Ma che giuochetto vizioso è poi questo di tal Francese! le parole impudiche dagli Osci furono dette oscene31, e gli Osci presero il proprio nome {p. 16}dall’ oscenità32. L’una cosa non distrugge l’altra? Ma che gli Osci non poterono così nominarsi dalla parola osceno, chiaro apparisce ancora agli occhi degli eruditi che ragionano, dal sapersi che tali popoli da prima chiamaronsi Opici (parola che si allontana di molto da osceno) o da οϕις secondo alcuni, o da un accorciamento di Etiopici secondo altri; e che in appresso i Romani pronunziando male il vocabolo Opici lo corruppero in Opsci, indi in Obsci e finalmente in Osci33.

Fuor di ogni dubbio i privilegii dati agli attori ingenui Atellanarii riguardarono la salsa giocondità delle loro favole da principio esenti da ogni oscenità. E la corruzione di esse fu posteriore e contemporanea agli eccessi degli altri attori, e da ripetersi verisimilmente dall’imitazione contagiosa de’ mimi Greci già ricevuti nella scena Romana. Tacito ci fa sapere che Tiberio dopo {p. 17}varie inutili lagnanze de’ Pretori, si determinò a riferire in Senato l’immodestia degl’ istrioni, i quali alimentavano le sedizioni in pubblico e le dissolutezze e le turpitudini in privato, essendo anche lo spettacolo Osco caro un tempo alla plebe a tal colpevole indecenza trascorso che bisognava reprimerlo coll’ autorità de’ Padri; ed allora gl’ istrioni furono cacciati dall’Italia34.

III.
Primi scrittori scenici Latini. §

Roma guerriera, ordinato lo stato della repubblica in libero popolare per la legge Petelia sin dal 419 della sua fondazione, avea successivamente disteso il proprio dominio oltre del Lazio, vinti i Sabini e i Lucani, trionfato più volte de’ Sanniti (vendicando l’onta delle Forche Caudine, cui soggiacquero per essersi fatti rinchiudere in {p. 18}un luogo di cui cercasi tuttavia il vero sito) e cacciato Pirro dall’Italia. Non avea guerreggiato ancora co’ Greci orientali; ma sin dall’anno 487 le obedivano le provincie Italogreche del regno di Napoli conosciute sotto il nome di Magna Grecia. Mancava alla gloria di Roma vincitrice quella coltura dell’ingegno che dalle nazioni allontana la barbarie e ingentilisce i costumi, e toccò a questa prima vinta Grecia il vanto di erudirla e abbellirla colle lettere. I primi suoi maestri, retori e poeti furono Semigreci, cioè Greci delle Calabrie, perchè i primi che v’introdussero l’amore della letteratura e la conoscenza della greca erudizione, furono Livio Andronico e Quinto Ennio i quali da Suetonio vengono chiamati entrambi Semigreci35.

Contava Roma circa 514 anni dalla sua fondazione e presso a centoventiquattro dalla venuta degl’ istrioni Etruschi, quando nel consolato di C. Claudio Centone figliuolo di Appio Cieco e di M. Sempronio Tuditano (cinquantadue anni in circa dopo la morte di Menandro) cominciò a fiorire secondo i Fasti Capitolini Livio Andronico. Egli fu liberto di M. Livio Salinatore, di cui ammaestrava i figliuoli, e Greco di nazione. {p. 19}Ma che non nascesse nella Grecia d’oltramare, può dedursi dall’osservare che Salinatore di cui egli era schiavo, non militò se non contro gl’ Italiani e i Cartaginesi; e che appartenesse ai Greci delle Calabrie si argomenta con molta probabilità dall’essere stata questa la Grecia vinta in guerra e soggiogata da’ Romani pochi lustri prima che Andronico vi fosse condotto schiavo. Nè dubbiamente l’indica il citato Suetonio, sì perchè se egli fosse nato nella vera Grecia, impropriamente l’avrebbe lo Storico chiamato Semigreco, sì perchè così lo nominò, come abbiam detto, insieme con Ennio, il quale senza controversia nacque tra’ Greci del regno di Napoli. Esercitava Andronico l’uffizio di gramatico, e coltivò più di un genere poetico, avendo l’anno 546 composto un inno che per placare i numi si cantò solennemente da ventisette verginelle. Acquistò maggior fama per la poesia drammatica, non solo per avere secondo Donato composte e recitate tragedie e commedie seguendo i Greci, ma per essere stato il primo a volgere gli animi degli spettatori dalle satire alle favole teatrali36, per la cui rappresentazione gli fu assegnato il portico del tempio di Pallade. {p. 20}La novità dello spettacolo lo rendè molto accetto, essendone egli medesimo l’attore. E non saziandosi il popolo di udirne talora ripetere i più bei pezzi, un di avvenne che fatto roco impetrò di far cantare per lui al suono della tibia un suo servo, a se riserbando di animare tacitamente le parole col gesto e coll’ atteggiamento37. Piacque al popolo ancor quest’altra novità, e ne nacque l’usanza di dividere la declamazione dall’azione, usanza che non so per qual singolarità di gusto serbossi poscia costantemente nel teatro latino. Ne’ Frammenti degli antichi tragici latini raccolti, dopo le cure degli Stefani e del Delrio, con diligenza maggiore dallo Screverio e pubblicati in Lione nel 1720, trovansi nominate le seguenti favole di Andronico: Achille, Adone, Ajace, Andromeda, Antiopa, i Centauri, il Cavallo Trojano, Egisto, Elena, Ermione, Inone, Laodamia o Protesilaodamia, Tereo, Teucro. Cicerone afferma che le favole Liviane non meritavano di leggersi la seconda volta38, ed Orazio le pregiava ancor meno. Questo è il destino di coloro che inventano o precedono ogni altro in qualche impresa; essi insegnano a’ {p. 21}posteri ad inoltrarsi sulle loro tracce per esserne censurati. Andronico però mostrò certamente sommo ingegno e gusto squisito pel tempo in cui fiorì, avendo trovati i Romani sforniti quasi di ogni letteratura e senza quasi di poesia rappresentativa. Egli sopravvisse al 546, ma s’ignora l’anno della sua morte.

Cinque o sei anni dopo che Livio ebbe introdotta la poesia teatrale in Roma, cioè verso l’anno 519, Gneo Nevio poeta nato nella Campania vi fe udire i suoi drammi tragici e comici. Si sono conservati i titoli di undici sue tragedie: Alcestide, il Cavallo Trojano, Danae, Duloreste, Egisto, Esione, Ettore, le Fenisse, Ifigenia, Licurgo, Protesilaodamia. Il Patrici conta fino a venti favole di Nevio che tutte trasportò dalle Greche, e tra esse nomina il Trifalo. Quella che intitolò Alimoniæ Remi & Romuli potrebbe credersi azione tragica. Le commedie ch’egli compose, gli furono fatali. Traducendo e imitando i Greci ne trasse lo spirito satirico della commedia antica. Ma la costituzione della Romana repubblica non soffriva la licenza della democrazia Ateniese. Il Popolo Romano, anche dopo la legge del Dittatore Publilio Filone, esercitava la somma potestà or ne’ Comizii Tributi, or ne’ Centuriati, or per bocca dell intero Senato. In siffatto governo molti erano i capi nobili della repubblica {p. 22}ognora potenti e degni di rispetto; e un privato censore non impunemente poteva arrogarsi il diritto di riprenderli. Nevio non per tanto pieno della lettura de’ Greci e della loro mordacità ardì satireggiare Metello ed altri illustri Romani, e fu imprigionato per ordine de’ Triumviri. Per implorar grazia e per emendare l’errore commesso, scrisse in carcere altre due commedie in istile più saggio intitolate Ariolo e Leonte, e ricuperò a stento la libertà col favore de’ Tribuni della Plebe39. Niuno degli antichi a lui contese il pregio di scrivere in latino con somma purezza, e Cicerone propone Nevio e Plauto come eccellenti modelli di pura latinità. Lo stesso Nevio conosceva il proprio merito, e ne volle lasciare a’ posteri la memoria nel bello epitafio che per se compose, in cui misto alla nobiltà e all’eleganza scorgesi l’orgoglio e la vanità40. Lo stesso Virgilio lo studiò, e ne imitò diverse frasi e invenzioni41. Ennio con certa invida rivalità {p. 23}ne’ suoi Annali volle motteggiar Nevio come poco elegante ne’ libri della prima guerra Punica, ne’ quali fece uso de’ versi Saturnii. Ma Cicerone osserva che Ennio, benchè miglior poeta di Nevio, scrivendo delle guerre Romane tralasciò quella che Nevio avea cantato quasi schivando il paragone. Tu stesso ne prendesti (dice poscia ad Ennio volgendosi) molte cose, se vuoi confessarlo, o le rubasti, se pretendi dissimularlo42. Nevio dunque non solo fu uno de’ primi poeti drammatici, ma il primo epico de’ Romani. Quanto alla comica poesia egli anche sotto gl’ Imperadori della famiglia Flavia fu creduto degno di essere nominato dopo Cecilio e Plauto, e preferito a Terenzio43. Nevio avea militato nella prima guerra Punica, per quel che da lui stesso ricavò Varrone44, e la di lui morte avvenne nel consolato di Publio Sempronio Tuditano e di Marco Cornelio Cetego, cioè l’anno di Roma 549, benchè Varrone stesso citato da Tullio ne allunghi ancor più la vita. Secondo Eusebio egli morì in Utica nell’olimpiade cxliv (che cade nel nominato anno 549) cacciato da’ {p. 24}nobili Romani che solea mordere nelle sue favole.

Contemporaneo di Andronico e di Nevio fu Quinto Ennio poeta di loro più chiaro per sangue, per valore, per illustri amicizie e per lettere. Questo scrittore che a’ suoi tempi recò grande ornamento alla città di Roma, e di anni settanta morì nel 584, l’anno 514 quando cominciò a comparire Andronico sul teatro Latino, nacque in Rudia nella Japigia secondo Plinio, Silio Italico e Pomponio Mela. Ennio affermava di esser egli nato ne’ monti Calabresi, ed Ovidio lo disse ancora Calabris in montibus ortus; ma vi fu una Rudia presso Lecce, ed un’ altra presso Taranto, ed alcuni autori trovano i monti additati nelle vicinanze di Taranto, ed altri in quelle di Lecce45. Ennio vantava la discendenza dal re Messapo, come accennò Silio Italico,

Ennius antiqua Messapi ab origine regis;

e dedicatosi alle armi fu Centurione e accompagnò {p. 25}in diverse spedizioni Scipione Africano il maggiore. Catone, secondo Cornelio Nipote, lo trasse dalla Sardegna, e il di lui acquisto si stimò da’ Romani tanto pregevole, quanto qualsivoglia amplissimum Sardiniensem triumphum. Egli instruì la gioventù nella buona letteratura, interpretando i migliori autori Greci46, e possedendo perfettamente tre lingue l’Osca, la Greca e la Latina, per la qual cosa solea dire di aver tre cuori, potè, come fece, arricchir l’ultima col soccorso delle altre. Trovò egli ancora che dopo la comparsa di Andronico e l’introduzione de’ drammi simili ai Greci, si erano a quelli cominciate a soggiugnere le farsette satiresche recitate dagli Atellani col nome di Esodii che poi rimase al teatro, e che i moderni hanno ritenuti nominandoli tramezzi all’Italiana, saynetes e fin de fiesta ed entremeses alla Spagnuola, e petites pieces alla Francese. Ennio stimò che anche fuori del teatro potessero piacere al popolo que’ poemi mordaci pieni di sale e di piacevolezze instruttive; e quindi si provò a comporre i primi Sermoni Latini simili agli Oraziani, a’ quali diede il nome di satire, se non che sull’esempio de’ Greci e dello stesso Omero {p. 26}meseolò insieme diversi metri, esametri, jambici, trimetri, tetrametri, trocaici47. Aureo è quel frammento Enniano in cui un’ altra specie di versi adoperando, con eleganza superiore a quell’età deride gli auguri, gli astrolaghi, gli opinatori Isiaci e gl’ interpreti di sogni, aggiugnendo con molta venustà:

Non enim sunt ii aut scientia, aut arte divini,
Sed superstitiosi vates, impudentesque harioli,
Aut inertes, aut insani, aut quibus egestas imperat:
Qui sui quæstus causa fictas suscitant sententias,
Qui sibi semitam non sapiunt, alteri monstrant viam,
Quibus divitias pollicentur, ab iis drachmam petunt.

Debbe in oltre da lui riconoscersi il primo poema epico latino in versi esametri in istile per quel tempo elegante; perchè Nevio che l’avea preceduto colla narrazione della prima guerra Punica, avea adoperati i versi saturnii. E quante gemme avesse tratte {p. 27}dai di lui poemi l’impareggiabile Virgilio per lo più trascritte da verbo a verbo, può ricavarsi dal sesto libro de’ Saturnali di Macrobio. Ond’è che i posteri sempre sospireranno coll’ erudito Scaligero la perdita delle opere Enniane degnissime degli encomii di Lucrezio Caro e di Vitruvio Pollione48.

Quanto alla poesia rappresentativa si è conservata la memoria di tre sue commedie Amphithraso, Ambracia, Pancratiastes, per le quali nel giudizio di Vulcazio Sedigito ebbe luogo tra’ Latini comici più pregevoli; ma fu posposto, non che a Nevio e a Terenzio, a Turpilio e a Lucio stesso, e solo in grazia dell’antichità collocato nel decimo luogo,

Decimum addo antiquitatis causa Ennium.

Le sue tragedie sono: Achille, Achille di Aristarco, Ajace, Alcmeone, Alessandro o Alessandra, Andromaca, Atamante, Cresfonte, Duloreste, Eretteo, Ecuba, l’ Eumenidi, Fenice, Ilione, Ifigenia, i Litri di Ercole, Medea Esule, Medo, Menalippe, Telamone, Telefo, Tieste, tutte o tradotte o imitate da’ Greci, e Scipione originale di argomento Romano. I frammenti che se {p. 28}ne conservano ancora49, ci fanno desiderare che il tempo avesse distrutta l’Ottavia attribuita a Seneca, purchè ci fosse pervenuta la tragedia di Ennio detta Scipione. Avremmo dato di buon grado il Tieste di Seneca che già conosciamo, per quello di Ennio da lui composto nel settantesimo anno della sua età, cioè in quello in cui finì di vivere. La sua Medea esule forse non temerebbe il confronto di quella di Seneca che pure è la migliore di questo Cordovese, giacchè Cicerone50 diceva: E qual mai sarà tanto, per dir così, nemico del nome Romano, che ardisca sprezzare e rigettare la Medea di Ennio? Forse il giudizio altrove mostrato da Ennio potrebbe indurci a credere che nell’Ecuba avesse schivata la duplicità dell’ azione di quella di Euripide e delle Troadi di Seneca. Certamente il Poeta Leccese non tradusse letteralmente {p. 29}la greca tragedia. Per vederne la guisa possono confrontarsi gli squarci che soggiungo. Nella tragedia di Euripide Ecuba così si lamenta nell’atto primo:

Τις αμύνει; ποία γενυα,
Ποία δε πολις.

cioè, Chi mi difende? qual gente? qual città? Ennio non copia, ma imita ed amplifica in questa guisa il sentimento:

  quid petam
Præsidii? quod exequar? quo nunc aut exilio, aut fuga
Freta sim? arce & urbe sum orba. Quò accedam? quò applicem?
Cui nec patriæ aræ domi stant: fractæ & dejectæ jacent:
Fana flamma deflagrata: tosti alti stant parietes.

In Euripide Ecuba nel persuadere ad Ulisse d’intercedere per Polissena profferisce questa sentenza:

Λόγος γαρ ἐκ τʹ αδοξούτω ἰὼν,
κακ τῶν δοκουντων, ἀντὸς ου ταντον τε τϑενει,

cioè, Non ha la medesima forza il medesimo discorso pronunziato da persone oscure che da illustri. Ennio imita questo pensiero, {p. 30}ma ne toglie giudiziosamente l’aria di massima:

Hæc tu, etsi perversè dices, facile Achivos flexeris,
Namque opulenti cum loquuntur pariter atque ignobiles,
Eadem dicta, eademque oratio æqua non æque valet.

Quest’insigne poeta de’ suoi tempi, che fu l’amico di Scipione Africano il maggiore e di Scipione Nasica e di altri celebri Cavalieri Romani, contemporaneo di Andronico, di Nevio, e di Plauto, sopravvisse a tutti, e morto fu onorato con una statua marmorea postagli nel sarcofago gentilizio degli Scipioni51, giusta la testimonianza di Ovidio:

Ennius emeruit, Calabris in montibus ortus,
Contiguus poni, Scipio magne, tibi.
{p. 31}

IV.
Teatro di Plauto. §

Il gastigo di Nevio contenne la mordacità de’ comici suoi contemporanei, e tutta ne rivolse l’energia alla pretta piacevolezza. Marco Accio Plauto nativo di Sarsina nell’Umbria mancato essendo consoli L. Porcio Licinio e P. Claudio l’anno 569, quindici anni prima della morte di Ennio, mostra in diversi tratti vigorosi sparsi nelle sue commedie che era dotato d’ingegno al pari di Aristofane, ma non passò oltre i confini di una prudente moderazione. Lasciata adunque la satira personale attese unicamente a far ridere imitando la maniera, i sali, e le lepidezze del Siciliano Epicarmo, disegno che manifestò in varii luoghi, e specialmente nel prologo del suo Pseudolo,

Ubi lepos, joci, risus, vinum, ebrietas, decent,
Gratia, decor, hilaritas, atque delectatio,
Qui quærit alia his, malum videtur quærere.

Egli non meno degli altri Latini si arricchì colle invenzioni delle greche favole, ma per evitare la satira de’ particolari, non altronde le tolse che dalla commedia nuova, {p. 32}siccome è manifesto da molte sue commedie. Essendo esse nelle mani di tutti non esigono minute analisi, e basterà per la gioventù che quì se ne osservino alcune particolarità che reputo più degne di notarsi.

Anfitrione. Se non è questa una favola tessuta alla foggia della Greca ilarodia, non saprei scerne altra fralle Latine che più se le avvicini. Rintone inventore, come si disse nel tomo precedente, di quel genere di drammi, compose appunto un Anfitrione, ed Archippo comico ne scrisse un altro, come leggesi in Ateneo. Da’ loro frammenti non si scorge la guisa che essi tennero nel condurre i loro Anfitrioni; ma è verisimile che come Plauto nel suo essi vi trattassero in una maniera tutta comica l’avventura di Giove con Alcmena, dipartendosi dal camino tragico probabilmente battuto da Euripide nella sua favola perduta intitolata Alcmena. Plauto nel prologo fa dire a Mercurio che la sua favola è una tragedia; ma prevedendo la maraviglia del popolo promette di convertirla in commedia senza alterarne i versi. Riflettendo poi che doveano favellare da una parte principi e dei, personaggi non proprii per la commedia, e dall’altra alcuni servi comici non convenienti alla tragedia, dice che la renderà una favola mista chiamata tragicommedia. Scherza egli in tal guisa sull’indole della propria favola che non ignorava di essere {p. 33}una vera commedia, come è da credersi che fossero ancora le Rintoniche. Dalla somiglianza di Sosia e di Anfitrione presa da Mercurio e da Giove derivano tutte le grazie comiche tante volte ripetute nelle moderne scene negli argomenti di somiglianza. Si trasse da tal commedia in Italia in prima la novella di Gieta e Birria attribuita al Boccaccio, ma scritta da Giovanni Acquetini che fiorì col Burchiello nel 1480, come dimostra l’ Argelati52. Indi altri Italiani cominciando da Pandolfo Collenuccio tradussero questa favola, e cento volte ne imitarono l’artificio e i comici colori sotto altri nomi. Oltramonti il celebre poeta Portoghese Luigi Camoens nel suo Anfitrione conservò molte bellezze del latino originale. Il Francese Rotrou contemporaneo di Pietro Corneille trattò lo stesso argomento nella sua commedia detta i Sosii. Sopra ogni altro il noto Moliere colse il fiore di tutte le bellezze Plautine nel suo Anfitrione, molte altre aggiugnendone. Mercurio nel prologo di Plauto accenna che per servire al Tonante la notte si è prolongata, e nella prima scena s’indirizza così alla notte stessa:

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Perge, nox, ut occœpisti: gere Patri morem meo.
Optume optumo optumam operam das, datam pulchre locas.

E Moliere prese quindi l’idea di far nel suo prologo un dialogo tra Mercurio e la Notte. Il nume la prega a compiacersi di ritardare la venuta del giorno, e la Notte risponde:

Voila sans doute un bel emploi
Que le grand Jupiter m’apprête.

Mercurio ripiglia che siffatte cose possono reputarsi viltà tralle persone volgari, ma che tra’ grandi non si guarda così sottile:

Lorsque dans un haut rang on a l’heur de paroître,
Tout ce qu’on fait est toujours bel & bon.

Al che la Notte con maliziosa sommessione risponde: “Su tali materie, mio Signor Mercurio, voi sete di me più esperto, e perciò mi rimetto alla vostra perspicacia. Bel bello (replica Mercurio) Madama la Notte, che di voi stessa corre voce che sapete in tanti climi diversi essere la fida conservatrice di mille dilettosi intrighi; {p. 35}ed io credo che in tal materia fra noi due si giostri con armi uguali”. Moliere accrebbe la piacevolezza di tale argomento col dare a Sosia per moglie Clèantis che è il personaggio di Tessala introdotto da Plauto, e coll’ immaginare che essa al pari della sua padrona Alcmena ammetta in casa come proprio marito un altro Sosia. Piace oggi questa graziosa ripetizione de’ colori comici impiegati nell’azione de’ personaggi principali; e Moliere stesso se ne valse felicemente nel Dispetto amoroso, e la praticarono alcuni Italiani del cinquecento e i comici detti dell’arte, ed anche nel teatro Spagnuolo del passato secolo il Grazioso ripete coll’ innamorata le parole de’ padroni, facendone per lo più una parodia. Ma agli antichi, e spezialmente a Plauto, forse ciò farebbe sembrato una spezie di povertà. Ogni popolo ha un gusto particolare ed è stravagante il pretendere ch’egli abbia ad essere una norma universale. Comprendo che la pratica del teatro dimostra, non esser priva di grazia simile ripetizione, e singolarmente quando si colorisce con vivacità, e si varia in parte, come ha fatto Moliere. Ma non ardirei per questo di asserire consoverchia franchezza (come seguendo il Bayle fassi da alcuni, i quali mirano gli oggetti da un lato solo) che in ciò il Francese abbia superato il suo modello. Dicasi la stessa cosa dello scioglimento usato {p. 36}dall’uno e dall’altro comico. Il Latino, secondo che ben conveniva in un teatro ripieno di superstiziosi adoratori di Giove, fa che questo padre degli dei preceduto dallo strepito de’ tuoni comparisca nel teologion o pulpito de’ numi, manifesti l’accaduto, e comandi ad Anfitrione di rappacificarsi colla moglie, e che costui piegando la fronte al decreto soggiunga,

Faciam ita ut jubes . . . .
Ibo ad uxorem intro.

Ma il Francese ora che tali divinità sono appunto divenute comiche larve, accomodando l’azione a’ tempi moderni, fa che Sosia con molta piacevolezza tronchi il complimento di congratulazione di Naucrate,

Le grand Dieu Jupiter nous fait beaucoup d’honneur.
Mais enfin coupons aux discours.
  Sur telles affaires toujours
   Le meilleur est de ne rien dire.

Egli è vero che non senza ragione Madame Dacier imputa a Plauto lo studio di filosofare con qualche affettazione; ma in questa favola sparge alcuna massima filosofica senza gonfiezza, e come si farebbe in una conversazione. Così nel prologo,

{p. 37}
. . . Injusta ab justis impetrare non decet:
Justa autem ab injustis petere, insipientia ’st.

e poco dopo,

Virtute ambire oportet, non favitoribus.
Sat habet favitorum semper qui recte facit.

e nell’atto secondo, scena seconda,

. . . Ita quoique comparatum
Est in ætate hominum,
Ita diis placitum, voluptati ut mœror comes consequatur.

Si osservi finalmente in qual maniera Anfitrione adirato nella scena terza dell’atto quarto sollevi il tuono, e minacci al sentire che Alcmena è in procinto d’infantare,

Numquam ædepol me inultus istic ludificabit, quisquis est &c.

A nostra istruzione Orazio avea già detto,

Interdum tamen & vocem comœdia tollit,
Iratusque Chremes tumido delitigat ore,

Ma che pro? I pedanti loschi vorrebbero ridurre questo poema a quattro riboboli del {p. 38}popolaccio e l’immaginazione della gioventù a un limitato numero di picciole idee. Ma essa che è la speranza delle belle arti, rompa oramai que’ ceppi pedanteschi, e si avvezzi a studiare la natura, a consultare il proprio cuore, a ritrarre la società, a ridere sul viso degli orgogliosi pedagoghi ascoltando i consigli suggeriti dal buongusto. Il Mureto, lo Scaligero, il Castelvetro, l’Einsio, hanno osservato che Plauto pecca in questa favola contro la verisimiglianza, facendo che Alcmena nel tempo solo della rappresentazione, cioè in una notte e un giorno resti incinta e partorisca. Non per tanto l’Anfitrione, come testifica Giambatista Pio nel suo comento, per consenso de i dotti si reputa la migliore delle commedie Plautine per la forza, la proprietà e e la Salsa facondia che regna nell’elocuzione, e per la sontuosa abbondanza dello stile veramente latino.

L’Asinaria. Onagos chiamavasi la favola del Greco Demofilo dalla voce όνος, asino, la quale Plauto imitò e nominò Asinaria. Demeneto padre troppo indulgente compassiona il figliuolo Argirippo innamorato di Filenia meretrice e bisognoso di danaro, senza che egli possa sovvenirlo, perchè le proprie entrate si maneggiano dalla moglie e da un servo a lei addetto chiamato Saurea. Ricorre a Libano suo servo assai trincato. „Io amo mio figlio (gli dice) e voglio {p. 39}esserne amato. Così pensò mio padre, così mi educò, nè si vergognò a mio riguardo d’ingannare un ruffiano, e vestito da marinajo menarmi la donna che io amava. Mio figliuolo ha bisogno di venti mine richiestegli dalla madre di Filenia; mia moglie rigida e spilorcia non gliene darà un picciolo, io non ne ho, perchè del mio non dispongo, e perchè

Argentum accepi, dote imperium vendidi.

Or dunque, Libano amato, ricorro a te, trova queste venti mine, usa del tuo ingegno, ingannami, aggirami, inganna mia moglie e ’l fattore Saurea, fa di tutto; purchè mio figlio abbia questo danajo, mi chiamerò di ogni cosa contento”. Egli sprona in tal guisa un cavallo sboccato; di buon grado il servo pregato dal proprio padrone si presta a quello che farebbe per naturale inclinazione. Intanto un mercatante che ha comprato da Demeneto alcuni asini, ne manda il prezzo a Saurea l’atriense, ma il messo non conosce questo Saurea, benchè conosca lo stesso Demeneto. Adunque col consenso di costui il danajo è consegnato a un altro servo additatogli come fosse Saurea. Lo riceve poi Argirippo, il quale con questa chiave riapre quell’uscio che l’era stato chiuso in sul viso. Si destina la cena, alla quale vuole intervenire lo stesso Demeneto. {p. 40}Essa però viene disturbata, perchè un altro amante di Filenia rimasto escluso si vendica con avvisare di tutto la moglie di Demeneto. Non senza ragione Plauto dice nel breve prologo,

Inest lepos, ludusque in hac comœdia.
Ridicula res est.

Essa in fatti per eccitare il riso sacrifica in più di un luogo il verisimile e il decoro. Un servo che pria di consegnare il danajo sospirato all’innamorato l’astringe a portarlo sulle spalle in una pubblica strada: un vecchio che cena colla bagascia del figliuolo, e si fa da lei baciare e abbracciare in presenza del figliuolo stesso, son cose immaginate per muovere il riso per qualunque via. Queste sono favole di cattivo esempio. Qual moderno teatro soffrirebbe senza bisbigliare lo spettacolo di un padre mentecatto che seconda sino a tal segno le debolezze di un figliuolo? In ciò mai abbastanza i moderni non si allontaneranno dagli antichi. Havvi non per tanto in questa favola molta vivacità comica. I caratteri della ruffiana, della meretrice e de’ servi sono dipinti con franchezza. L’ingordigia delle madri ruffiane delle figliuole, cui per una legge Imperatoria si dispose che si tagliasse il naso, come anche il costume delle donne prostituite, le quali combattono sovente {p. 41}coll’ amore e colla necessità di guadagnare, sono nella terza scena dell’atto primo e e nella prima del terzo delineate eccellentemente. Con pratica e maestria si ritraggono le arti della cochetteria, o sia civetteria nella prima scena dell’atto quarto:

Neque illæc ulli suo pede pedem homini premat,
Cum surgat, neque in lectum inscendat proximum,
Neque cum descendat, inde det cuique manum:
Spectandum ne cui anulum det, neque roget53.

Se si trattasse poi di un amore in qualche modo renduto meno illecito, meriterebbe tutta la lode il tratto patetico della divisione di Argirippo e Filenia nella terza scena {p. 42}dell’ atto terzo. Del rimanente la commedia è piena di bassezze triviali e di scherzi soverchio istrionici e tal volta indecenti, i quali piacquero assai nel tempo della repubblica, e si riprovarono nell’età del buongusto quando vivea Orazio e Mecenate, ed a torto nel passato secolo se ne dichiarò protettore l’erudito Benedetto Fioretti54.

Casina. Greca ancora è questa favola appartenente al comicissimo Difilo, e s’intitolava Clerumenoe, o forse piuttosto Cleronemoe da κληρος, sors, sortitio, e νέμω, tribuo. Plauto la nominò Sortientes. Due servi aspirano alle nozze di una serva loro compagna chiamata Casina. L’amano a competenza il vecchio padrone, ed il di lui figliuolo, e ciascuno di loro pel proprio intento favorisce uno de’ servi. La moglie del vecchio che ha educata la fanciulla, conosacendo la malizia del marito, ne manda fuori il figliuolo, e prende la protezione del servo da lui favorito. Per troncare ogni contrasto, convengono di commetterne il giudizio alla sorte, e si pongono i nomi de’ due pretensori nell’urna, e se ne estrae quello del servo protetto dal vecchio. Restano {p. 43}scornati quelli del contrario partito, e si preparano le nozze. Ma per rendere vano l’accordo e per deludere il vecchio insieme col suo villano fortunato, la moglie fa vestire cogli abiti di Casina il servo Calino rivale escluso, il quale fingendo la sposina ritrosa è menato alla casa destinata al ricevimento; e rimasto prima col rustico marito, indi col vecchio commarito, come dice Plauto, gli respinge a pugni ed a calci e gli caccia in fuga. L’azione termina, scoprendosi Casina ingenua e cittadina Ateniese, che è destinata per consorte al figliuolo del vecchio. Ma ciò si accenna appena con due soli versi dalla Caterva degli attori, che congeda l’uditorio:

Hæc Casina hujus reperietur filia esse e proxumo,
Eaque nubet Euthynico nostro herili filio.

La favola appartiene alla commedia bassa ed è piena di piacevolezze popolari. Essa ha prodotto un incredibil numero d’intrighi e di colpi teatrali usati da’ moderni, spezialmente nel XVI e XVII secolo. Niccolò Machiavelli ripetè finamente nella sua Clizia gran parte dell’azione della Casina, e ne imitò diverse espressioni, e quelle singolarmente della quinta scena dell’atto secondo,

Inimica est tua uxor mihi, inimicus filius, ecc.
{p. 44}

Difilo in questa favola non si dimostra indegno del soprannome acquistato in Grecia. Plauto ne compose la sua Casina sommamente applaudita la prima volta che si rappresentò, e, per quanto si dice nel prologo recitato nella ripetizione che se ne fece, superò tutte le altre favole,

Hæc cum primum acta est, vicit omnes fabulas.

La Corda (Rudens in latino) è pure una favola greca del medesimo Difilo, dalla quale parimente derivarono varie commedie moderne. Tra’ primi che l’imitarono in Italia fu Lodovico Dolce nella sua commedia detta il Ruffiano. Non so se Difilo avesse intitolata la sua favola προτονος che significa rudens, non avendocene Plauto conservato il nome greco, nè altrove ricordandomi di averlo letto tralle favole di quel comico citate dagli antichi. Eccone l’argomento. Un ruffiano vende una fanciulla a Pleusidippo giovanetto preso del di lei amore, e ne riceve la caparra, promettendo di menargliela nel tempio di Venere, ma colla speranza di farne un doppio guadagno senza curarsi del contratto s’ imbarca per la Sicilia. Una tempesta fracassa la nave, separa il ruffiano dalle sue donne e privo di tutto lo respinge alla spiaggia. Palestra con la compagna si ricovera nel tempio di Venere {p. 45}lungo il mare; vi arriva anche il ruffiano, le vede e vuol menarle via a forza; ma sono difese dal servo di Pleusidippo e dal vecchio Demone che abita in que’ contorni. Vi accorre lo stesso Pleusidippo e chiama il ruffiano in giudizio. Intanto un pescatore raccoglie nelle reti un involto appartenente al ruffiano, che contiene molte sue ricchezze e una cestina cogli ornamenti infantili della fanciulla Palestra e varii altri contrassegni per gli quali un dì potesse conoscere i proprii parenti. Queste cose pervenute nelle mani di Demone fanno ch’ei riconosca Palestra per la perduta sua figliuola. Il ruffiano ricupera le sue robe, il pescatore la sua libertà con un buon regalo, e Pleusidippo ottiene per consorte la sua bella Palestra. Arturo che impietosito della fanciulla e crucciato contra del ruffiano spergiuro ha svegliata la procella, forma il prologo della favola Plautina, nel quale scagliansi diversi tratti satirici contra gli spergiuri, i litiganti di mala fede e i falsi testimoni. Con molta grazia nella seconda scena dell’atto quarto negli arzigogoli del pescatore Grippo si fa un ritratto di coloro che da picciole speranze sollevati si promettono grandezze impossibili e fantastiche55.

{p. 46}

Il Mercatante. Filemone il giovane compose una commedia intitolata Ἐμπορος, mercator, e Plauto l’imitò ritenendone il titolo. Notasi nel prologo di questa favola una novità simile a quella che abbiamo osservata in alcune di Aristofane, cioè l’ illusione distrutta dal medesimo poeta. Aristofane in qualche coro ragiona a lungo delle {p. 47}proprie favole e delle altrui, cose che niuna relazione hanno coll’ azione rappresentata. Plauto introduce Carino ch’è il protagonista a parlar nel tempo stesso e come prologo e come personaggio che rappresenta nell’azione:

Duas res simul nunc agere decretum est mihi,
Et argumentum, & meos amores eloquar.

Quì la verità combatte colla finzione, in vece di prestarsi, come converrebbe, l’una e l’altra concordemente alle mire del poeta. Scorgesi da qualche commedia moderna l’effetto di simili esempii degli antichi. Gl’ Intronati di Siena ed alquanti altri Italiani hanno introdotti gli attori che parlano coll’ uditorio, mostrando di sapere di essere ascoltati. Gli Spagnuoli nelle commedie del passato secolo, che in questo continuano a rappresentarsi, fanno che il loro Grazioso quasi sempre narri al popolo ascoltatore i disegni del poeta. Moliere stesso nell’Avaro introduce Arpagone che s’indirizza agli spettatori. Gli abusi o le licenze però non mai partoriscono prescrizione contro i principii della ragion poetica. Ma vediamo l’argomento del Mercatante. Carino applicatosi alla mercatura per consiglio del padre, ne’ suoi viaggi s’innamora di una serva di un suo ospite e la riscatta. Rimpatria, scende {p. 48}dalla nave lasciandovi la fanciulla, e va in busca de’ suoi. Intanto per un’altra via arriva alla nave il padre che a prima vista rimane preso di Pasicompsa l’amata di Carino. Chiede a un servo chi ella sia, e gli è dato a credere essere una schiava comperata dal figliuolo per servire alla madre. Il vecchio si abbocca col figlio, gli parla della schiava, dicegli non esser propria per faticare nella loro casa, ma volerla comperare a conto di un amico che gliel’ha chiesta. Ripugna in vano Carino, e Pasicompsa è comperata a nome di Lisimaco, nella cui casa è condotta. La moglie di Lisimaco che era in villa arriva in sua casa in tal punto, e trovatavi la giovane non senza apparente fondamento sospetta ch’esser possa qualche intrigo del marito, e strepita contro di lui. Carino perduta Pasicompsa, nè sapendo ove esser possa, disperato pensa di prendere volontario esiglio da Atene. Eutico suo amico figliuolo di Lisimaco lo raggiugne, lo consola, intercede per lui presso il padre, e ne ottiene che gli ceda Pasicompsa. Notabile a mio avviso in questa commedia scritta con vivacità e piacevolezza è singolarmente la terza scena dell’ atto II per la graziosa competenza di Carino e del padre offerendo all’ incanto nella compera di Pasicompsa. Nella prima dell’atto terzo è un equivoco pieno di arte e di sale comico quello di Pasicompsa nel supporre che {p. 49}Lisimaco le favelli del suo Carino, mentre quegli intende del vecchio per cui l’ha comperata. Patetico è poi il congedo che Carino prende dalla patria nella prima scena dell’atto quinto. I gramatici e i critici de’ secoli precedenti hanno eruditamente rilevate negli antichi le veneri del linguaggio e dello stile, o le regole di Aristotile osservate o neglette, lasciando a i posteri più filosofi e di miglior gusto quasi intatta la più utile investigazione de’ loro drammi, cioè quella de’ tratti più vivaci, de’ vaghi colori scenici, dell’arte di maneggiar con delicatezza gli affetti, e di dipingere con verità i costumi.

Il Trinummo. Questa è un’ altra favola di Filemone intitolata in greco Θησαυρὸς, e da Plauto detta Trinummus forse meno felicemente da tre nummi pagati per incidenza a un Sicofanta. Il prologo vien formato dalla Lussuria e dall’Inopia di lei figliuola, la quale dalla madre è mandata ad abitare in casa del giovine Lesbonico, dopo che per le sue prodigalità ha dissipato quanto avea. Egli ha venduta fin anche la casa, ove Carmide suo padre avea nascosto un tesoro senza di lui saputa. Callicle vecchio onorato cui Carmide partendo raccomandò i figliuoli e rivelò il segreto del tesoro, affinchè questo insieme colla casa non andasse in altrui potere, prende il partito di comperarla egli stesso. Intanto Lisitele giovane {p. 50}ricco e ben costumato vorrebbe per moglie la sorella di Lesbonico senza dote; ma questi reputando cosa vituperevole per un uomo della sua condizione il dargliela indotata, vuole assegnarle un picciolo podere che gli è rimasto. Ripugna Lisitele per non ispogliarlo dell’unica cosa che può sostentarlo, temendo che ridotto alla mendicità non pensi indi a sparir dalla città per disperazione. Callicle intesa questa nobil gara, procura rimediarvi, e dar la dote alla fanciulla senza palesare il segreto del tesoro. E a consiglio di un suo amico finge due lettere mandate da Carmide, una a lui stesso, e l’altra al figliuolo accompagnata da mille filippi per la dote della sorella. Un sicofanta prezzolato con tre nummi che danno il titolo alla commedia, si addossa il carico di recar queste lettere. E volendo questo furbo eseguire il concertato, alla prima dà in Carmide stesso padre di Lesbonico che rimpatria, e ne risulta una scena sommamente piacevole imitata poi soventi fiate da’ drammatici Italiani del cinquecento. Alla venuta del padre si sospende la vendita della casa, e si conchiudono le nozze di Lisitele colla sorella di Lesbonico e di Lesbonico colla figliuola dell’onorato amico Callicle. Questa favola tutta decente e nobile e condotta con regolarità e piacevolezza, dimostra, che se Filemone inventava sempre con simil grazia accoppiando alla ben disposta tela {p. 51}lo stile, certamente con molta ragione venne tante volte in Grecia coronato. Notando al nostro solito le scene più belle, ci sembra ottima fralle altre la seconda dell’atto primo di Callicle e Megaronide. Questi riprende l’amico come uomo poco onesto ed ingordo per essersi approfittato della disgrazia di Lesbonico comperando la di lui casa, e dandogli, giusta la sua espressione, la spada in mano perchè si togliesse la vita. Si giustifica il buon vecchio, e mostra la malignità mal fondata di chi va spargendo tali voci senza essere delle cose appieno informato. Persuaso Megaronide dell’onoratezza dell’amico dal di lui racconto, non può darsi pace al riflettere alla malignità di coloro che vanno seminando novelle e giudicando sinistramente delle altrui azioni. E rimasto solo esclama in simil guisa, secondochè io ho tradotto:

Veracemente non si dà più matta,
Nè più stolida gente o più mendace,
Nè più vana cicala, nè più pronta
A vender come storie i proprii sogni,
E spergiurando accreditar le fole,
Di cotesti oziosi bigherai
Che passano la vita affastellando
Novelle, rattoppandole a lor modo,
Ripetendole ognor con nuove giunte.
Ned io mi traggo fuor di tal genìa
Che da’ lor detti inzampognar mi feci.
{p. 52}
O che gente! o che forche! o che linguacce!
O che sfacciati! Quanto in città passa,
Tutto fingon saper, ma nulla sanno.
Ciò che pensa ciascun, ciò che domani
O da quì a un mese ha da pensar, ben sanno.
Ciò che all’orecchio il re da solo a sola
Susurra alla regina, essi pur sanno.
Lodino a torno o a dritto, i panni addosso
Taglino a questo e a quello, il falso e ’l vero
Non gli trattien, purchè quanto alla bocca
Lor si presenta, possan dir che sanno.
Tutto il mondo volea che il mio vicino
Fosse d’Atene anzi di vita indegno,
Per aver sovvertito e messo al fondo
Il giovane Lesbonico. Io credendo
A questi maldicenti novellieri
Venni a rimproverar l’onesto amico.
Oh se qualor si leva un romor falso
D’una in un’ altra lingua rimontando
Si venisse a indagar da chi mai nacque,
E gastigato il novellier ne fosse,
Saria certo minor la maldicenza,
E i malvagi ciarloni assai più pochi,
Che sanno sempre quel che mai non sanno.

Il Penulo. In greco s’intitolò Καρκηδονιος, Cartaginese, e Plauto non ci ha conservato {p. 53}il nome dell’autore. Consiste l’argomento in un Cartaginese che va in cerca di un nipote e di due sue figliuole perdute dall’infanzia, trovate poi fortunatamente in Calidonia. I primi quattro atti si aggirano intorno agli amori di Agorastocle per la prima delle sue cugine a lui ignote, e di Antemonide soldato per la seconda. Nel quinto comparisce il Cartaginese Annone recitando sedici versi Punici. Essi presso a poco contengono il concetto degli undici seguenti Latini, ne’ quali ringrazia gli dei per essere arrivato salvo in quella città ove pensa far diligenza per sapere delle figliuole e del nipote, per mezzo di Agorastocle già adottato da un suo ospite chiamato Antidamante. Chi ha molto agio potrà consultare un gran numero di dotti comentatori, i quali seriamente si sono applicati a interpretare questi pochi versi scritti in una lingua morta e ignorata, e della quale non rimangono libri che accrescano le umane cognizioni, che sembrami il saggio fine dello studio delle lingue. Qual frutto si è ricavato dalle loro fatiche? Ciascuno volle in tali versi rinvenire il linguaggio da se coltivato. Giuseppe Scaligero56 considerò questa scena poco lontana dalla purità dell’ebraismo; {p. 54}e il Pareo la scrisse in lettere ebraiche nella sua edizione di Plauto. Giorgio Errico Safunio57 la riferisce al dialetto Arameo. Giovanni Errico Majo58 vuol provare non essere essa differente dall’idioma Maltese, nel quale secondo lui la lingua Punica si è conservata. La curiosità troverà da pascolarsi in quanto, oltre a’ nominati, dissero per illustrar questa scena il Salmasio, il Reinesio, il Petit, il Bochart, il Clerico, il Seldeno, il Casaubon, il Kirker ed altri gran letterati59. Chi poi volesse durare una fatica più leggera, si metta ad arzigogolare cogli etimologisti ghiribizzosi, i quali, a guisa dell’iride o del collo delle colombe cangiando colore ad ogni movimento, dalla semplice somiglianza di una o due lettere sanno trovare in ogni parola il linguaggio Cinese, Etiopico, Pehlvi, Zend, Malaico, Persiano e Copto. Un uomo che avesse sì strano gusto, copiando alla peggio gli scarsi dizionarii di tali lingue antipodiche, avrà l’ immaginario diletto di lusingarsi di abbattere tutte le verità istoriche {p. 55}e tutte le nozioni del senso comune; e chi l’ascolterà avrà quello di ridersi di lui. Noi intanto lasciando ad uomini siffatti i versi Punici di Plauto per confrontarli colle sillabe di tutti i linguaggi a noi e ad essi medesimi sconosciuti, e adorando senza seguirle le orme di cotali oracoli, con maggior senno e vantaggio osserveremo che nella seconda scena del medesimo quinto atto il servo Milfione che appena sa qualche parola Punica, va a parlare al Cartaginese, ma appunto per lo poco che sa del di lui idioma ne interpreta le risposte alla maniera degli etimologisti imperiti e di Arlecchino; per la qual cosa Annone gli parla nella lingua del paese, e viene a sapere che vive in Agorastocle il perduto suo nipote. Questa scoperta anima Milfione a tentare, per mezzo di questo zio, l’acquisto dell’innamorata del suo padrone, la quale trovasi in potere di un ruffiano. Propone perciò al Cartaginese che finga di conoscere le due sorelle del suo paese per due sue figliuole perdute. A ciò Annone prende un’ aria di tristezza, e dice che furono in fatti a lui rubate due figlie insieme colla loro balia. Bravissimo (ripiglia allegro Milfione): tu fingi a maraviglia bene: il principio non può esser migliore. Più che io non vorrei (replica Annone). Ottimamente (Milfione prosegue): o astutissimo, trincato, scaltrito Cartaginese! Che volto! che lagrime! che malinconia! {p. 56}Evviva. Tu superi me stesso che sono l’architetto di questa frode. Questo comico colore sempre piacevolissimo tante volte imitato da’ Francesi e dagli Spagnuoli, trovasi felicemente adoperato prima forse di ogni altro dal Boccaccio nella Novella del porco rubato a Calandrino, e da Giambatista della Porta in più di una commedia, e specialmente nell’Astrolago.

Il Persiano. Si tratta in questa favola dell’astuzia di un servo che aggira un ruffiano. Eccone la condotta.

Atto I. Tossilo servo fra se ragionando conchiude che la costanza di un amante povero supera le più gloriose fatiche di Alcide, perchè affrontar leoni, idre, cinghiali, uccelli Stinfalici e Antei, non sono sì dure imprese come è quella di combattere con amore. Trovasi egli in tal caso e cerca danajo per soddisfare alla sua passione, ma non ottiene altro in risposta che un non ne ho. Vede Sagaristione altro servo, e gli va incontro:

Tos.

O Sagaristione, il ciel ti salvi.

Sag.

Tossilo, egli a te dia quanto tu brami.
Come stai?

Tos.

Come posso.

Sag.

Cosa si fa?

Tos.

Si vive.

Sag.

Contento?

Tos.

Assai, se il mio pensier riesce.

Sagaristione osserva che l’amico è pallido e {p. 57}sparuto. Tossilo gli confessa di essere innamorato. Che mi dì tu! quegli risponde: è quì venuta la moda che i poveri servi facciano all’ amore? Tossilo risponde esser questo il suo destino; indi l’invita a viver seco durante l’assenza del suo padrone promettendo trattarlo con ogni lautezza. Afferma non aver egli altra cura che lo crucii se non quella di riscattare dalle mani di un ruffiano una bella schiava ch’ egli ama. Mancangli a tal uopo seicento nummi, e prega Sagaristione a volerglieli prestare per tre o quattro giorni. Stupisce costui a tal domanda:

Mentecatto, osi a me con tal franchezza
Domandar sì gran summa? A me seicento
Nummi! a me! Se mi vendo intero intero,
Sa dio se raccorrò quanto tu chiedi.
Tu vuoi che chi di sete sta morendo
Cavi acqua dalla pomice.

Chiedi almeno, dice Tossilo, ad altri questo danajo. Sagaristione promette, e si separano. Sopravviene il parassito Saturione e nel voler entrare in casa di Tossilo, per vedere se vi è rimasto dal passato dì qualche cosa da ingollare, vede aprirsi la porta e si trattiene. Torna fuori Tossilo, ed ha pensato con un’ astuzia di fare che lo stesso {p. 58}padrone della sua bella sborsi il danaro per pagarne il riscatto. Si avvede del parassito di cui abbisogna per l’esecuzione, e per adescarlo finge di non averlo veduto e di ordinare a’ servi di sua casa un banchetto per un suo amico che attende. Saturione con gran giubilo comprende esser lui l’amico atteso, e gli va incontro chiamandolo suo Giove terrestre. Tu giungi (Tossilo gli dice) bene a tempo, caro Saturione. Menti amico (egli risponde), che io non vengo miga Saturione, ma Esurione. Questi sali si passano a’ simili interlocutori e alla bassa commedia; ma fuori della scena riescono freddi, nè in teatro si ammettono in un genere comico più elevato. Oggidì per iscreditarsi un uomo in una conversazione di persone ben nate, basterebbe che profferisse alcuna di queste inezie, che i Francesi chiamano turlupinades. Tossilo gli dice ch’ei mangerà, purchè si ricordi di ciò che jeri gli disse. Mi ricordo, sì, risponde, che non vuoi che la murena e il congrio si riscaldino. Non di questo (l’ altro) ma de’ seicento nummi che dovevi prestarmi. Mi ricordo anzi (Saturione) che tu me ne pregasti, e che io non ebbi che darti. Un parassito con danajo è indegno di portarne il nome. Egli esser dee puro cinico di setta: pochi mobili a lui bastano, un vaso, una stregghia, un orinale, un pajo di zoccoli, un pallio e un picciolo borsotto da guardare alcuna coserella per divertirsi {p. 59}mentre sta in casa; questo è quanto può possedere un buon parassito. Orsù (dicegli in fine Tossilo) da te altro non voglio che la tua figliuola . . . . La mia figliuola? (interrompe Saturione) No, per Dio, che finora a quell’uscio non ha fiutato verun cane. No, no (dice Tossilo); io la vo’ per altro. Ella è vaga, è vezzosa, e tu non sei conosciuto dal ruffiano Dordalo. Certo che no (replica Saturione). Vuoi tu che io sia conosciuto da altri che da chi mi dà da mangiare? Or dunque (ripiglia Tossilo) tu puoi darmi il danajo che io cerco, permettendomi di vendere la tua figliuola. E Saturione: Tu vendere la mia figliuola? Anzi non io (Tossilo dice) ma qualche altro che possa fingersi forestiere, cosa non difficile, non essendo scorsi che sei mesi dalla venuta del ruffiano da Megara in questa città. Saturione si rattrista al’ vedere andare in fumo il banchetto, se dee dipendere da questo intrigo. Tossilo conchiude ch’egli rimarrà digiuno, se non vende la figliuola.

Satur.

Ah vendi me ancora, purchè tu mi venda satollo.

Toss.

Vanne dunque in casa, previeni la giovane, instruiscila di quanto dee dire, di chi si abbia a chiamar figlia, da chi debba favoleggiare di essere stata rapita, in qual guisa figurarsi nata lungi da Atene, come {p. 60}piangere al ricordarsi della patria e de’ parenti.

Satur.

Nè taci ancora? Ella è tre volte più astuta di quello che tu brami.

Toss.

Ottimamente. Prendi anche un vestito per mascherar colui che dee fingersi forestiere e vendere tua figlia.

Satur.

Molto bene.

Toss.

Alla stessa foggia vesti ancor lei.

Satur.

Ma donde prenderemo tali vesti e fregi?

Toss.

Prendetele dal Guardaroba del Coro: gli Edili le hanno già apparecchiate.

Nelle quali parole si vuol notare che mentovando il Corago e gli Edili si fanno sparire i personaggi immaginati, e venire avanti gl’ istrioni, siccome accennammo nel parlar delle commedie di Aristofane. Gli antichi da una banda dipingevano al naturale per ottenere la bramata illusione, e dall’altra la distruggevano alle volte con una parola. I moderni con gran senno gli emuleranno nel primo disegno senza fermarsi molto sulle loro picciole macchie, seguendo l’avviso Oraziano. Tossilo aggiugne che sborsato che avrà il ruffiano il prezzo di questa finta schiava, Saturione si farà avanti dandosi a conoscere per di lei padre, e si ripiglierà la figliuola.

Atto II. Lenniselene per la sua fante Sofoclidisca manda un biglietto a Tossilo suo amante, e questi con un altro spedisce a lei {p. 61}Pegnio, incaricandogli di affrettarsi in modo, che possa trovarsi in casa quando egli pensi che sia ancora da Lenniselene. Pegnio risponde, ti obedirò, e torna in casa. Dove vai? dice Tossilo: E Pegnio: in casa per trovarmici mentre tu pensi che io sia da Lenniselene; motto, ovvero, come dicono i moderni comici dell’arte, lazzo e botta adottatata da’ Pulcinelli ed Arlecchini. Parte Tossilo. Ma che fa intanto Sofoclidisca? Ella è fuori: non vede Tossilo a cui è spedita? Direi di no, perchè i teatri antichi potevano rappresentare in una medesima veduta più luoghi di tal modo che un personaggio posto a favellare in una banda della scena poteva essere coperto e non veduto da chi agiva in un’ altra fino a tanto che non venisse avanti nel pulpito. S’incontrano poi i due messaggi Sofoclidisca e Pegnio, e la loro scena è vivace e propria di tali persone, cioè di una fante di un ruffiano e di un ragazzaccio monello. É però lunga, inutile alla condotta, e contraria al comando di chi gl’ invia; ma in ciò vien dipinto il costume e l’indole de’ servi i quali sogliono volentieri trascurare il lor dovere per voglia di cicalare. Entrano nelle case rispettive dove sono stati mandati. Viene fuori Sagaristione allegro per avere avuto del danaro dal proprio padrone per mercare un pajo di buoi, e pensa valersene per prestarlo a Tossilo. Vede Pegnio che esce dalla {p. 62}casa del ruffiano, e vorrebbe domandargli di Tossilo, ma colui risponde colla solita insolenza e parte. Esce Tossilo dicendo alla fante che consoli la padrona, essendo già disposto e pronto il modo di liberarla. Sagaristione con uno scherzo basso e servile gli mostra un tumore nel collo formato colla borsa del danaro, dicendo di essere una vomica. Tossilo allegro lo ringrazia, e promette di renderglielo fra pochi momenti, sperando di cavarlo dal medesimo ruffiano. L’introduce in sua casa, perchè pensa che avrà bisogno della di lui opera.

Atto III. Viene Saturione colla Vergine sua figliuola abbigliata all’ orientale. Le rammenta a che viene, e come sarà venduta. La Vergine con saviezza e modestia procura di rimuoverlo ancora da tal disegno in questa guisa secondo la mia versione:

Verg.

Di grazia, padre mio, benchè sì spesso
Corri alle mense altrui, per la tua gola
Vendi forse tua figlia?

Sat.

Oh buon! Vorresti
Che per lo re Filippo ovver per Attalo
Vendessi il mio?

Verg.

M’hai tu per figlia o serva?

Sat.

Per tutto quello io t’ho che alla mia pancia
Tornerà conto. Io su di te comando,
Tu non già su di me, s’io penso giusto.

Verg.

Egli è così, tutto il comando è tuo.
{p. 63}
Pur benchè poveretti, è meglio, o padre,
Viver con poco e conservar l’onore.
Che se alla povertà l’infamia accoppi,
Persa è la fede, e povertà più grave
Diventa, o padre.

Sat.

Sei seccante, o figlia,
Anzi odiosa.

Verg.

No, nol son, nè credo
D’esserla, o padre, se in età sì verde
Ben dritto penso. Narreran la cosa
Di tua figlia a svantaggio i tuoi nemici,
Non attendendo al ver, bensì alla voce.

Sat.

Narrino a posta loro, ed in malora
Vadano pur: fo caso io de’ nemici?
Tanto gli stimo quanto un desco vuoto.

Verg.

Padre, l’infamia non si estingue mai,
E quando il pensi men, t’esce sul viso.

Sat.

Temi tu ch’io ti venda da buon senno?

Verg.

Nol temo, no, ma che si finga, spiacemi.

Sat.

Ti spiaccia pur, sarà quel che vogl’ io.

Verg.

Sarà?

Sat.

Sarà: che cianci?

Verg.

A ciò sol pensa.
Quando un padron di bastonar lo schiavo
Minaccia e sbuffa, benchè poi nol faccia,
Se il braccio è in alto, se il bastone è presso
A cader su di lui, s’ei già si spoglia,
{p. 64}
Non palpita il meschino in quell’istante?
Così tem’ io quel che accader non debbe.

Ma ella si affanna in vano: Saturione non si ricorda che delle cene di Tossilo e vuol compiere l’ordinata trama. La figlia altro non potendo si accomoda a bene eseguire i comandi paterni, ed entrano in casa di Tossilo. Dordalo risoluto vuole andar da Tossilo o perchè gli dia il pattuito prezzo della sua schiava, o per disporne a suo modo sciogliendosi dal contratto; ma si ferma al sentire lo strepito che fa la di lui porta nell’aprirsi. Esce Tossilo baldanzosamente, e vedendo Dordalo con disprezzo ed alterigia gli dice che prenda pure il danaro aspettato con tanta diffidenza. Con pari insolenza rispondegli Dordalo. Rimangono di accordo che il ruffiano giuridicamente dichiarerà libera Lenniselene, e poi per la parte dell’orto la menerà in casa di Tossilo.

Atto IV. Tossilo contento del bene ordito inganno chiama Sagaristione perchè conduca fuori la Vergine, e porti seco le lettere ch’egli ha finto di aver ricevute di Persia dal proprio padrone. Lo fa trattenere in disparte, avvertendogli di comparire poichè avrà egli parlato a Dordalo. Viene questi a dire a Tossilo di aver già manomessa la fanciulla e menatala nella di lui casa. Tossilo in segno di sapergliene grado, e di averlo per amico, gli dà a leggere le {p. 65}sinte lettere, ove si accenna di una Vergine Araba fuggitiva da vendersi, e mostrando desiderio di apportargli utile gliene propone la compera. Dordalo, dopo di avere alquanto esitato, cerca di vederla insieme col forestiere che l’ha condotta. La vede e secondo l’ usanza di chi vuol comperare per poco, l’approva a mezza bocca. Tossilo gl’ insinua di udirla un poco prima di parlar del contratto, per ben conoscerne le maniere e il pensare. La scena in cui esce Sagaristione favellando colla fanciulla mentre che gli altri due stanno ad ascoltare, è nella quale si effettua la vendita, è piena d’arte, di grazie, di latine veneri e di buon senso. Ne tradurremo qualche frammento.

Sagar.

Or che dici d’Atene? Non ti parve
Splendida e vaga?

Verg.

Io la città sol vidi,
Gli usi e gli abitator poco conobbi.

Tos.

O che savio principio!

Dord.

Da un sol motto
La saviezza di lei non si discerne.

Sagar.

Come di mura essa è munita e forte!

Verg.

Se cittadini avrà ben costumati,
A meraviglia fia munita e forte.
Se andrà perfidia fuor de’ suoi confini,
E il peculato, e l’avarizia, e poi
L’invidia, l’ambizion, la maldicenza,
Ed in settimo luogo lo spergiuro.

Toss.

Avanti.

Verg.

La pigrizia nell’ottavo,
{p. 66}
Prepotenza nel nono, e dietro ad esse
Ogni malvagità. Se da tal peste
Non si ripurghi, a conservarla, io penso,
Ch’è poco ancor di cento doppj un muro.

Toss.

Che ne dici?

Dord.

Che vuoi?

Toss.

Tu fra que’ dieci
Compagni ella ha contato, e quindi in bando
Andar dovrai,

Dord.

Perchè?

Toss.

Come spergiuro.

E’ ammirato tutto ciò ch’ella dice, e se ne tratta la vendita. Tossilo per accreditare l’inganno con finto zelo suggerisce a Dordalo, che nulla conchiuda prima di aver domandato alla fanciulla quel che conviene; indi di soppiatto avverte la Vergine a pensare alle risposte. Ella scaltramente soddisfa ad ogni domanda con parole di doppio senso che ingannano il ruffiano e danno piacere allo spettatore che ne comprende il vero significato. Quest’artificio riesce mirabilmente in ogni specie di commedia, ed è la più ingegnosa fonte del ridicolo, sempre che i sentimenti equivoci sieno naturali e non già tirati al proposito cogli organi. Serva di esempio quest’altro squarcio che io così traduco:

Toss.

Questi, o figliuola, è un uom dabbene
{p. 67}

Verg.

Il credo.

Toss.

Presso di lui non servirai gran tempo.

Verg.

Così lo spero, se i parenti miei
Faranno il lor dover.

Dor.

Non dei stupire,
Se della patria tua, se de’ parenti
Noi ti chiediam ragion.

Verg.

Stupir? perchè?
Non permette il destin che mi fa serva,
Che del mio mal meravigliar mi debba.

Toss.

Deh non piangere.

Verg.

Oh Dio!

Toss.

(Sia maledetta!
Che trincata, che scaltra! ha senno: oh quanto
Aggiustato risponde!)

Dor.

(Il nome tuo?

Toss.

Ora temo che sbagli.)

Verg.

Al mio paese
Lucrida era chiamata.

Toss.

O nome insigne,
O nome prezioso! Ed a comprarla
Indugi ancor? (Temei di qualche intoppo,
Ma saltò il fosso a meraviglia.)

Dor.

Io spero
Che se ti compro, Lucrida sarai
Ancor per la mia casa.

Toss.

Un mezzo mese,
Dordalo, non cred’io ch’abbia a servirti.

Dor.

Lo faccia il cielo.

Toss.

E perchè il faccia, adoprati
{p. 68}
(Tutto finor va bene)

Dor.

Ove nascesti?

Verg.

Per quello che mi disse un dì mia madre,
In cucina, in un canto a man sinistra.

Ella in somma sfugge con destrezza di mentire, rispondendo indirettamente, nè mai viene a nominar la patria, o sia perchè non voglia mentire manifestamente, ovvero perchè intenda il poeta mostrare ch’ella siasene dimenticato, e si salvi con dire che la sua patria è la città dove ora serve, e cose simili. Dordalo invogliato conchiude il contratto col finto Persiano, contandogli sessanta mine pattuite. Gli domanda poi del di lui nome, ed egli chiudendo nel nome tutta la serie della frode, mi chiamo, gli dice,

Vaniloquidorus, Virginisvendonides,
Nugidololoquides, argentiexterebronides
Tedigniloquides nummorum expalponides,
Quod semel arripides, nunquam postea eripides.

il che graziosamente s’imitò da Giambatista della Porta, nella cui Trappolaria il servo risponde, mi chiamo Nullacredimi, Tuttigabali, Ororubali, Donnatoglili. Partito Sagaristione e Tossilo esce Saturione padre della finta schiava, e la prende per {p. 69}mano. Ella lo saluta col nome di padre. Dordalo rimane attonito all’udirsi chiamare in giudizio dopo di essere stato inzampognato.

Atto V. Trionfa Tossilo colla sua Lenniselene e coll’ amico Sagaristione, e dispone un magnifico banchetto, non solo per tripudiare con gli amici e coll’ amata, ma per fare arrabbiare vie più lo scontento ruffiano. Viene costui lagnandosi del maladetto Persiano, e Tossilo l’invita alla loro mensa, e deridendolo e maltrattandolo danno fine alla commedia. Rimane qualche dubbio sul luogo della scena. I primi atti si passano in istrada; ma quel bagordo dove segue? Metastasio60 non istima che si celebrasse in istrada, e suppone che siasi cambiata la scena. Ma figurandosi cambiato il luogo in una stanza propria per una tavola, come può seguire la venuta del ruffiano da’ commensali schernito? O bisogna concepire un teatro alla maniera di quelli veduti in Napoli in tempo del Marchese di Liveri, ne’ quali senza cangiar la scena vedevansi azioni fatte nell’ interiore di una casa ancor dalla strada, ovvero immaginare che il servo {p. 70}baldanzoso Tossilo, per far disperar Dordalo, avesse disposta la mensa avanti la porta della propria casa per farsi veder da lui, come in fatti avviene. Or nell’uno e nell’altro supposto si conserverebbe l’unità del luogo senza mutazione di scena.

Pseudolo. Vedesi in questa favola un altro ruffiano aggirato e truffato, e tanto più graziosamente, quanto che n’è prima avvertito da un vecchio, il quale per una scommessa fatta con Pseudolo suo servo, e interessato a rendere il ruffiano attento perchè non rimanga col danno e colla beffa perdendo certa sua schiava. In genere di trappole servili è questa una delle più ingegnose e piacevoli di quante se ne sono esposte sulla scena; e Cicerone nel suo Catone ci fa sapere che Plauto stesso oltre modo se ne compiaceva. Tra i vantaggi che ci presenta l’esame delle opere degli antichi, è quello di vedervi la sorgente delle moderne. Il più volte lodato Cavaliere della Porta prese ad imitare questa favola Plautina nella poc’anzi mentovata Trappolaria, ma ne nobilitò l’argomento, e ne rendè più interessanti i caratteri, oltre all’avere alla trappola accresciuto movimento e vivacità con una promessa fatta dal servo per soprappiù di avvisare il ruffiano nel tempo stesso che l’ ingannava; la qual cosa eseguisce con graziosissimi colori comici, de’ quali gode {p. 71}estremamente lo spettatore inteso dell’ingegnosa astuzia. Notabile nella commedia di Plauto è la sfacciataggine del ruffiano, che con alacrità confessa tutte le sue malvagità. Callidoro gli dice, perjuravisti, sceleste, ed egli risponde con prava tranquillità,

. . . . At argentum intro condidi.
Ego scelestus nunc argentum promere possum domo,
Tu qui pius es, istoc genere gnatus, nummum non habes.

Questa è la solita risposta de’ furfanti che deridono i buoni, e si animano a continuare nelle loro infamie. Il poeta acconciamente la mette in vista per insegnare a detestarla, e per rendere più accetta al popolo la beffa che poscia ne riceve quell’indegno che la tiene in bocca e nel cuore. Si osservi che in questa favola ancora Pseudolo distrugge l’ illusione col volgersi nella fine dell’atto primo agli spettatori:

Suspicio est mihi, nunc vos suspicarier,
Me iccirco hæc tanta facinora promittere,
Qui vos oblectem, hanc fabulam dum transigam ec.

Parimente nella quarta scena dell’atto II nega di narrare l’accaduto agli altri attori, {p. 72}perchè non l’ignorano gli spettatori, per li quali si rapresenta:

. . . . horum causa hæc agitur spectatorum fabula.
Hi sciunt, qui hic affuerunt, vobis post narravero.

Il savio leggitore nota ciò e passa, senza fermarsi a trarne ridevoli conseguenze contro gli antichi. Egli non può ignorare che da essi non si vuole apprendere il modo di sceneggiare che varia secondo i tempi e le nazioni, ma la sempre costantemente mirabile semplicità artificiosa dell’azione; ma l’arte in tutti i tempi inarrivabile di dipignere i caratteri, i costumi, le passioni; ma la felicità di motteggiare e di mettere nel vero punto di vista le umane ridicolezze. Per tali cose la favola del Pseudolo fu da Gellio chiamata festivissima, e ammirata da’ moderni più sagaci interpreti, tra’ quali si distinse Federico Taumanno. Giovanni Dousa le da il titolo di ocellus fabularum Plauti61.

Curculione. Dal nome di un parassito che inganna un soldato millantatore, prende il {p. 73}titolo questa favola. Egli ruba al vantatore un anello, per cui mezzo acquista una Vergine venduta da un ruffiano, e la reca nelle mani di Fedromo di lei innamorato corrisposto. Quell’anello medesimo che ha servito all’inganno, fa che la Vergine venga riconosciuta per sorella del soldato. Se v’ha favola di Plauto, su cui a ragione cada l’ osservazione di Madama Dacier delle sentenze filosofiche affettate, è al certó la presente. Notabile in essa è il personaggio del Corago introdotto nell’atto quarto, il quale teme di perdere le vesti date in affitto a Curculione. Lo spirito di verità che rende i componimenti rappresentativi interessanti, non regnava molto in Roma al tempo della Repubblica prima di Terenzio.

Aulularia. Somministra il titolo a questa favola un vase o pentola ripiena di oro d’intorno a quattro libbre di peso trovata dal vecchio Euclione, il quale avvezzo alla miseria da tanti anni non sa far uso di quel danajo, e di bel nuovo lo seppellisce. Il di lui carattere con somma maestria e con cento grazie dipinto da Plauto, è stato mille volte copiato da Italiani, Spagnuoli, Francesi e Inglesi; e lo scioglimento di questa favola in molte commedie moderne si è ripetuto. Sebbene l’Aulularia non ci sia pervenuta intera, è stata pur tradotta nel secolo XV da Paride Ceresara, per quel che apparisce da una lettera di Lodovico Eletto {p. 74}Mantovano de’ 22 di giugno del 150162. L’ufficio del prologo si fa dal Lare famigliare della casa di Éuclione uno de’ penati custodi delle case degli antichi. Varie sentenze e bene applicate e lontane dall’affettazione possono notarvisi. Tali a me sembrano p. e. nella scena seconda dell’atto secondo queste,

. . . . Si animus est aequus tibi, satis habes, qui bene vitam colas.

e l’altra,

Altera manu fert lapidem, panem ostentat altera.

e ciò che risponde Megadoro all’avaro Euclione, il quale dice di non aver dote da dare alla figlia:

. . . . . . . . . Ne duis:
Dummodo morata recte veniat, dotata est satis.

Così parimente ne giudicò il poc’anzi lodato {p. 75}Dousa63: Nam præter dictionis genus vere Romanum, tota æthica est, & ad pudicos (unum, alterumve locum exceptes modo) honestosque mores facta videri potest. Perciò non ignobili critici la preferiscono a tutte le altre. Tutte le commedie Plautine (diceva il grande ammiratore di Plauto Udeno Nisieli64) sono altrettante muse; ma l’Aulularia risiede in cima senza fallo come dea di tutte quante le altre. In tanto si vuole osservare che Euclione nel fine dell’atto terzo dice volere andare a nascondere il suo tesoro nel tempio della Fede, e nella seconda scena dell’atto quarto egli comparisce nel luogo dove ha detto volere andare. O dunque bisogna dire col celebre Metastasio che i luoghi di tal favola sien due, o secondo noi concepire un teatro composto di più spartimenti in guisa che vi sieno segnati più luoghi richiesti per eseguire l’azione alla Liveriana. Antonio Codro Urceo Bolognese sotto Sigismondo e Federico III Imperadori supplì a questa favola alcuni versi, e l’illustrarono altri più recenti comentatori come Gioacchino Camerario, Giorgio Reimanno, Leibschütz, Stefano Riccio, {p. 76}Maurizio Sidelio65.

Cestellaria. Denominasi questa favola da un cestino cogli ornamenti infantili di una bambina esposta, ond’ella è riconosciuta da’ genitori. Delineati a maraviglia vi si scorgono i caratteri di una meretrice, di due ruffiane di costumi differenti, della fanciulla esposta, la quale è fieramente innamorata, e di un giovane di lei amante. Questo valoroso comico poeta non ha bisogno di perdersi in episodj. Corre allo scioglimento, e talvolta accenna soltanto quel che conduce alla catastrofe; e pure in così fatta semplicità di argomento e di condotta versa in tal copia i vezzi e le facezie che l’erudito Dousa ne rimaneva attonito. Ma tale è per lo più l’ indole e l’ingegno fecondissimo di Plauto. Si osserva nella Cestellaria una novità che altrove rarissime volte si rinviene. Il prologo fatto dal dio Ausilio non trovasi premesso all’ azione ma in essa inserito, e collocato nella terza scena dell’atto primo. Con Plautina felicità veggonsi nella scena di Alcesimarco, che è la prima dell’atto secondo, dipinte vivamente le contraddizioni, le pene e gli amareggiati diletti dell’amore.

{p. 77}

I Menecmi. Di questa commedia, che dalla compiuta somiglianza di due gemelli Siracusani prende le grazie, le scene equivoche, il groppo e lo scioglimento, non credo che siavi nazione moderna che non abbia traduzioni o almeno imitazioni. Nel XV secolo si rappresentò in volgare nella Corte di Ferrara. Gl’ istrioni la perpetuarono sulle scene recitando le loro commedie dell’ arte, e l’intitolarono i Simili di Plauto. Tralascio poi di tutte distintamente riferire le tante imitazioni che se ne fecero ne’ precedenti secoli in Italia co’ titoli de’ Gemelli, delle Gemelle, della Somiglianza ecc. Nel XVII la tradusse in Francia il faceto M. Regnard. Il teatro Spagnuolo conta eziandio un gran numero di favole di somiglianza, come el Parecido en la Corte, el Parecido de Hungria, el Parecido de Tunes, ecc.; ma queste per altro spesso prendono un portamento tragico, e di molto si discostano dal comico artificio latino. Ozioso adunque sarebbe il trattenersi lungamente a favellare di così nota favola, la cui varietà e lepidezza invita a replicarne la lettura66.

Mostellaria. Nell’assenza del padre un {p. 78}giovane di morigerato diviene dissoluto, spende trenta mine a liberare dalla servitù l’innamorata, dissipa, profonde, e si carica di debiti. Arriva il di lui padre in uno dei giorni ch’egli sta in compagnia di donne e di amici gozzovigliando. Un servo autore dei di lui disordini appena ha tempo da fare menar dentro un commensale ubbriaco e chiudere la casa. Incontrasi di poi col vecchio, e gli da ad intendere esser la casa posseduta da mostri e fantasime, perchè sessanta anni fa vi fu spogliato e ammazzato un forestiere da colui che vendè la casa al vecchio padrone. Questa menzogna creduta dal vecchio è quasi distrutta nel nascere dall’arrivo di un creditore; ma il servo per giustificare il debito finge che il figliuolo abbia comperata la casa di un altro vecchio vicino. E perchè Teuropide (padre del giovane) s’ invoglia di vedere quest’altra casa, il servo a forza di bugie ne ottiene la permissione dal padrone di quella, senza che nè l’uno nè l’ altro vecchio nulla penetri della fola. Si osservi che nell’andare a vederla il padrone della casa va via e Teuropide dice al proprio servo, sequere hac igitur, e questi risponde equidem haud usquam a pedibus abscedam tuis, e vanno a vedere l’interiore della casa, e il teatro rimane vuoto nel tempo che si spende a vedere il gineceo, o appartamento delle donne, ed il lunghissimo portico. Il {p. 79}primo verso della scena seguente, quid tibi visum est hoc mercimonii, che subito succede alle parole, equidem haud usquam a pedibus abscedam tuis, dimostra o che la scena, come abbiam detto, sia rimasta vuota nel tempo necessario a veder la casa, o che vi manchino forse de’ versi detti da Simo prima di partire, o che il poeta abbia contato sull’indulgenza dello spettatore. Lo scioglimento avviene per l’arrivo del servo di uno de’ commensali il quale scuopre a Teuropide la verità dello stato di sua famiglia. Il servo colpevole si rifugge all’ara e un amico si frappone, e intercede per lui e pel figliuolo. Nel moderno teatro Francese si trasportò questa favola, ed ebbe per titolo le Rétour imprevû. E’ stato osservato da Metastasio il bisogno che essa ha di mutazioni di luoghi per rappresentarsi67, ove non si sappia costruire una scena alla maniera di Liveri.

Il Soldato millantatore. Αλαζων, jactator, {p. 80}fu chiamata in greco la favola che Plauto intitolò Miles gloriosus; ed è il servo Palestrione che ciò manifesta nella prima scena dell’atto secondo, adoprata in vece di prologo, che per la seconda volta troviamo in Plauto fatto da uno degl’ interlocutori, e collocato nel mezzo della favola. Contiene una beffe fatta a quel vanaglorioso da un fervo per torgli di mano una fanciulla amata da un giovane Ateniese. Questi alla chiamata del servo espressamente viene in Efeso per tale oggetto; e si valgono della casa di un vecchio contigua a quella del soldato, aprendo un muro comune, per la cui apertura passa la donna a veder l’amante. Il servo che la custodisce, la vede nella vicina casa abbracciata coll’ Ateniese. Per rimediare a siffatto disordine Palestrione le insinua di fingersi una propria sorella gemella venuta da poco tempo coll’ amante in Efeso. Il muro aperto colla via occultata facilita la doppia apparenza. Finalmente lo stesso servo alletta il soldato colla speranza di possedere un’ altra donna che si finge una matrona onorata moglie di un vecchio e spasimata amante del soldato. Lusingato il vantatore da questo nuovo acquisto, per non ricevere disturbo dall’amica che ha in casa, risolve di lasciarla partire colla pretesa sorella e colla madre che già si dice imbarcata. Appena l’innamorato vestito da marinajo l’ha menata via, che il {p. 81}soldato pieno di speranza e di amore per l’ideata matrona entra nella vicina casa, corre pericola di esser castrato, e n’è discacciato a colpi di bastone, affetando il vecchio il carattere di marito onorato e geloso. Questa favola si vuol collocare tralle più piacevoli di Plauto per lo sale grazioso che la condisce, e per la vivace dipintura del vano carattere di Pirgopolinice.

Le Bacchidi sorelle. Il prologo col principio della prima scena affermò il Lascari di averlo trovato in Messina, e da alcuni si attribuisce a Francesco Petrarca68. Dipingonsi in tal commedia i costumi meretricj di due sorelle così chiamate. Esse adescano due giovani amici Pistoclero e Mnesiloco. Crisalo servo per favorire l’ intento del padrone Mnesiloco, con varie astuzie tira il danajo necessario dal di lui padre Nicobulo. Scopre costui le bugie di Crisalo, ne freme, ed unitosi col padre di Pistoclero con animo di vendicarsene vuole entrare in casa delle meretrici. Compariscono le sorelle sulla porta, e alla prima gli dileggiano; pensano poscia di accarezzarli per dissiparne lo sdegno, e riescono nell’intento. I vecchi cadono nelle debolezze che riprendevano {p. 82}ne’ figliuoli. Il parlare allo spettatore, il chiamare alla memoria la persona dell’ attore nel più bello del dramma, è cosa comune nelle favole di Plauto. E’ degno di osservarsi che nella scena seconda dell’atto secondo Pistoclero racconta al servo l’amore che Bacchide ha per Mnesiloco, e Crisalo annojato non ne vuol sentir parlare. T’incresce adunque (dice Pistoclero) di sentire la buona ventura del tuo padrone? Non è il padrone che m’incresce (risponde Crisalo) ma è l’attore che m’infastidisce e mi ammazza. Epidico, non dico altro, la favola prediletta e da me amata al pari di me stesso, mi diviene ristucchevole, quando rappresenta Pellione. Questo Pellione dovea essere un attore poco applaudito, e poco accetto allo stesso Plauto.

Epidico. Questa è la favola mentovata nelle Bacchidi. Epidico è un servo, che in vece di riscattare una figliuola naturale del vecchio Perifane suo padrone compra una donna che suona e canta sull’ arpa (fidicina) per secondare un amoroso capriccio del giovane Stratippocle. Oltre a ciò per procurargli quaranta mine che dee a un usurajo per aver comprata un’ altra donna, fa sì che lo stesso Perifane compri un’ altra cantatrice, che per altro è libera, dandogli speranza che non mancherebbe di esser ricomprata da un soldato che l’ ama. Ma il soldato ricusa di ricomprarla accorgendosi di non esser {p. 83}quella ch’egli desidera. Dall’altra parte Perifane che tiene in casa come sua figlia la sonatrice comprata da Epidico, colla venuta di una donna da cui egli l’ebbe, conosce di non esser tale. Per tanti inganni fulmina il vecchio contro Epidico. Ma per buona ventura di costui si scopre che l’ultima fanciulla comprata da Stratippocle era veramente la di lui sorella naturale, ed Epidico per tal felice evento ne ottiene, non che il perdono, la libertà. Contasi questa favola tralle Plautine più ben disposte e verseggiate; e meritò la predilezione dello stesso famoso autore per la traccia dell’azione, per la copia de’ vezzi e per la continuata eleganza69.

Stico. Il servo che presta il nome a questa commedia, è un personaggio episodico che per niun modo influisce nell’azione principale. Questa consiste nella costanza dimostrata da due matrone in amare i loro mariti bisognosi, i quali da tre anni partirono dalla patria cercando di migliorar col commercio il proprio stato. Il padre di queste giovani indarno tenta di persuaderle ad abbandonare la casa de’ mariti; e la loro fermezza è premiata col ritorno di {p. 84}essi già divenuti ricchi. Sembra che a Plauto non bastasse tale argomento per una intera commedia, e che avesse voluto supplirvi colla languida e in niun conto interessante giunta della cena di Stico colla serva Stefania.

Il Truculento, o sia il Burbero. Poco più del personaggio di Stico appartiene all’azione principale del Truculento il duro e salvatico servo onde prende il titolo. Riesce non pertanto instruttiva e interessante per la natural dipintura di una meretrice annunziata con una pennellata maestra nel prologo in tal guisa:

La giovane che alberga in quella casa
Fronesia è detta, e tutti in se raccoglie
Della moda e del secolo i costumi.
Ella non cerca mai quel che altri porse,
Ma cerca e toglie quel ch’egli pur serba.

Questa scaltra civetta, ovvero arpia, pela a un tempo stesso tre merlotti, uno della villa, uno della città, e un altro che viene da’ paesi esteri. A quest’ultimo da lei trattato in altro tempo ancora dà ad intendere di aver di lui partorito un bambino, per trarne regali e per richiamarlo all’antica amistà. Le arti meretricie che adopera variamente coi tre innamorati in compagnia delle sue fantesche, le quali con felicità lla secondano, sono copiate al naturale dalo {p. 85}procedure di simili femmine che trafficano i loro vezzi. Lo scioglimento avviene colla riconoscenza del bambino supposto che era preso da una giovane amata da Dinarco uno degli amatori di Fronesia. Questo Dinarco riconvenuto dal padre della genitrice del bambino è costretto a sposarla. Per le felici dipinture de’ caratteri, per la condotta e per lo stile, è questa commedia noverata tralle buone, e fu cara al poeta che la compose.

I Prigioni. Tralle antiche commedie rispettate dal tempo, la favola più decente e pudica è questa che Plauto intitolò Capteivei. Egione ha due figliuoli, uno che di anni quattro gli fu rubato da uno schiavo e venduto a uno straniero, e un altro già grande fatto prigioniero da’ nemici. Per avere l’opportunità di riscattare o permutare l’ultimo figliuolo prigione si mette a mercatantare di schiavi. Tra questi compera un giovane chiamato Filocrate e un di lui servo per nome Tindaro, i quali però per ogni evento dispongono di cangiar nomi e stato, facendosi il servo credere padrone col nome di Filocrate, ed il padrone rappresentando la figura di servo col nome di Tindaro. Per ventura il figliuolo di Egione trovasi per l’appunto cattivo nella città di Elide patria di Filocrate. Disegna adunque il vecchio di proporre a’ nemici la permuta del proprio figlio per Filocrate; {p. 86}e per trattarla concede al creduto Tindaro l’andare in Elide, stimandosi abbastanza sicuro avendo in mano, com’ egli crede, un pegno importante nella persona di Filocrate. Così rimane col nome del padrone il generoso servo Tindaro esposto al pericolo dell’indignazione di Egione, scoprendosi l’ inganno. Ciò di fatto avviene. Un altro prigioniero compatriotto di Filocrate tratto dal desiderio di vedere l’amico, va a parlare al creduto Filocrate, lo ravvisa per Tindaro e scopre l’inganno ad Egione, che vedendosi aggirato lo condanna a cavar pietre. Torna intanto Filocrate col figliuolo di Egione già liberato, e l’opportuno suo ritorno rende il virtuoso Tindaro libero dalla collera di Egione. Questi osserva con attenzione uno schiavo venuto in compagnia di Filocrate, e lo riconosce per lo stesso malvagio schiavo che rubò e vendè l’altro suo figlio di quattro anni, e nel ricercarsi le particolarità del ratto e della vendita, trovasi che il servo Tindaro è l’altro figlio di Egione. L’unità di tempo non si osserva in questa favola. Filocrate nel fine dell’atto secondo parte dal luogo della scena che è Calidone di Etolia: va in Elide: tratta quivi il cambio degli schiavi: si sa nell’ atto quarto che è tornato e nel quinto comparisce egli stesso, avendo corso nello spazio di poco più di un atto oltre a dugento miglia. I Latini assai meno rigorosi {p. 87}de’ moderni accordarono a’ loro poeti comici più ampii confini della verisimiglianza. Convengono i più sagaci critici in tener questa favola per una delle più eccellenti di sì gran Comico. Dousa n’era incantato. Gioacchino Camerario dice nel prologo: Inter Plautinas omnes hæc & argumento & expositione optima est, & elegantissima. Ipse etiam Poeta hanc commendat ut publice scriptam, multæque bonæ sententiæ in hac insunt, & eximiæ fidei exemplum servi erga herilem filium. Essa è tutta onesta e piena di motteggi innocenti e graziosi; e le stesse trappole servili tendono a un oggetto nobile e lodevole. Il poeta l’avea prevenuto nel prologo: “Non troverete (egli dice) in questa favola nè versi laidi, nè ruffiani spergiuri, nè perfide meretrici, nè soldati millantatori”. E nel congedo ripete lo stesso: “O spettatori (dice il coro degli attori col nome di grex) questa favola è composta per chi ama le dipinture de’ costumi pudici. Non vi sono debolezze, amore, parti supposti, danari truffati, e bagasce liberate da qualche giovane di nascosto del padre. Di siffatte commedie, nelle quali i buoni diventano migli ori, se ne inventano ben poche dai poeti di oggidì”. I pedanti orgogliosi, i quali appresero l’antica letteratura soltanto nelle scuole fanciullesche, e vogliono indi gludicarne canuti dalle idee elementari che ivi ne ricevettero, {p. 88}imparino dall’argomento di questa commedia, che gli antichi comici molte altre invenzioni avranno immaginate assai diverse da quelle che leggiamo nelle reliquie de’ loro scritti a noi pervenute; e cessino dal dettar pettoruti in tuono di oracolo aforismi generali che contraddicono all’ imitazione dell’immensa natura, e circoscrivono angustamente la poesia comica, ristrignendola a’ soli raggiri servili, a intrighi meretricii e ad una elocuzione bassa e triviale. I pedanti senza filosofia sono i selvaggi dell’orbe letterario: non ostentano che spalle nude, armi di legno e presunzione senza modo.

Ed ecco succintamente mostrato qual sia Plauto nelle venti commedie che di lui ci sono rimase. Osservatore non sempre esatto delle regole dell’ illusione teatrale, è non per tanto sempre vago, semplice, ingegnoso, piacevole e faceto, versando a piena mano a ogni passo sali e lepidezze capaci di fecondar largamente l’immaginazione di chi voglia coltivare un genere di commedia inferiore alla nobile. Contesero gli antichi intorno al numero delle commedie che scrisse. Altri secondo Servio gliene attribuirono trent’una, altri quaranta, altri cento, altri cento e trenta. Secondo Varrone e Festo Pompeo passarono presso alcuni per commedie di Plauto anche le seguenti: Artemone, Frivolaria, Fagone, Cestrione e Astraba. {p. 89}Aulo Gellio col filosofo Favorino riconosce per favole Plautine la Beozia che si ascriveva ad Aquilio, la Nervolaria, ed il Fretum; ma essi fondano il loro giudizio nel trovarsi in queste alquanti versi degni della penna di Plauto, argomento, a mio avviso, poco sicuro, quando tutto il rimanente non corrisponde. Spesso avviene che un numero limitato di versi non infelici scappi fuori dal fangoso talento del più meschino improvvisatore. Fin da’ tempi di Varrone mal si distinsero le commedie genuine di Plauto, la qual cosa l’incitò a comporre un opuscolo per isceverarle. Certo Plauzio, secondo lui, antico poeta comico scrisse diverse commedie, le quali dal di lui nome doveano chiamarsi Plauziane, e talvolta passarono per Plautine attribuendosi a Marco Accio Plauto. Il lodato Varrone solamente vent’una ne assegna a Plauto, e vuole che le commedie intitolate Gemini, Leones, Condalium, Anus, Bis compressa, Bœotia, Ἀγριχος, Commorientes, appartengano a Marco Acutico70. Certo è però {p. 90}che Plauto miglior poeta che mercatante caduto in miseria e postosi a lavorare con un mugnajo compose tre altre commedie, due delle quali s’intitolarono Saturio e Addictus, non avendoci Aulo Gellio conservato il titolo della terza. Ora queste tre aggiugnendosi alle venti che ne abbiamo, passerebbero il numero di vent’una da Varrone riconosciute per Plautine. Certo Lelio, al dir di Gellio, uomo eruditissimo affermava che venticinque veramente erano le commedie da Plauto composte, e che altre appartenevano ad altri più antichi comici, e furono da lui ritoccate nel ripetersene le rappresentazioni. E’ noto l’epitafio che Plauto compose a se stesso, in cui dimostra la perdita che nella sua morte era per fare la commedia:

Postquam est morte captus Plautus,
Comoedia luget, Scena est deserta.
Deinde risus, ludus, jocusque, & numeri
Innumeri simul omnes collachrymarunt.
{p. 91}

CAPO III.
Teatro Latino intorno alla seconda guerræ Punica. §

Nè presti furono nè grandi i progressi del teatro Latino. Roma dedita alle armi favoriva poco le arti che potevano ammollire il valore, e trascurò la drammatica. Se non molto amandola pure ne tollerò lo spettacolo, non permise però che vi si mettessero sedili (Nota III) affinchè il popolo obbligato a goderlo in piedi anche nel divertimento mostrasse virilità e robustezza71. Nell’anno di Roma 558 il Senato tuttavia assisteva allo spettacolo misto tra ’l popolo. Nel 599, essendo Censori M. Valerio Messala e C. Cassio Longino, vollero costruire nella città un teatro, ma il Console P. Cornelio Scipione Nasica vietò che si terminasse, e fece vendere all’incanto tutti i materiali a tale oggetto da essi accumulati72. Cresciuta poi la potenza Romana, {p. 92}le ricchezze apportatrici d’ozio e di riposo rendettero più necessarie le arti di pace. Allora gli spettacoli scenici si riguardarono più favorevolmente e si cercò l’agio degli spettatori col difenderli dal sole colle tende, si assegnò al Senato un luogo distinto dalla plebe, e si rimunerarono e protessero i poeti teatrali.

I.
Tragici di quest’epoca. §

Quando l’onore le alimenta, le arti prendono il volo, e si elevano sino all’altezza che può comportare un clima. Ciò avvenne al teatro Latino intorno alla seconda guerra Punica, trovandosi la lingua nel colmo dello splendore. Piena come è di gravità e maestà, servì felicemente coloro che impresero con coraggio a coltivar la tragica poesia. Calzarono allora con particolar lode il coturno Marco Pacuvio, Lucio Accio ovvero Azzio, Cajo Tizio, e secondo alcuni anche il Sessano satirico Cajo Lucilio.

Marco Pacuvio nato in Brindisi secondo Plinio da una sorella del prelodato Quinto Ennio, per concorde attestato de’ Latini scrittori, conservò la riputazione acquistata di {p. 93}dotto anche nell’età di Augusto73. Marziale motteggia sull’uso ch’ei faceva delle parole antiche; ma Varrone il più dotto de’ Romani, e giudice più competente di Marziale in fatto di lingua Latina, ne esalta l’ubertà della locuzione, nè si atterrisce dei di lui arcaismi. Cicerone prese da lui l’esempio di un ottimo tragico74; e nel dialogo dell’Amicizia rammenta gli encomii dati a una di lui tragedia ove introdûsse Pilade ed Oreste. Dalla sua Medea e da qualche altra non isdegnò Virgilio di trarre alcun verso75. Quintiliano lo commenda per la degnità e pel decoro de’ personaggi, per la forza dell’espressione e per la gravità de’ pensieri. Si riconobbe in lui qualche rozzezza nello stile; ma a’ suoi di non si fecero versi più colti. Nella raccolta de’ Frammenti degli antichi tragici Latini fatta dallo Scriverio colle note del Vossio si nominano le seguenti tragedie di Pacuvio: Anchise, Antiope, Atalanta, Crise, Duloreste, Ermione, Finide, il Giudizio delle armi, Ilione, Medea, Medo, Niptra, Paolo, Peribea, Pseudone, Tantalo, Teucro, Tieste. Vi si leggono altri di lui frammenti {p. 94}di favole incerte; ma non quello del sagacissimo imitatore degli antichi poeti Antonio Moreto che fu da lui stesso composto76. Pacuvio al pari di Ennio coltivò ancora la poesia satirica prima di Lucilio. Fu altresì pittore non ignobile, e dagli antichi si trova commentata la pittura che fece pel tempio di Ercole nel Foro Boario77. Egli morì quasi nonagenario in Taranto; e si è conservato l’epitafio ch’egli fece a se stesso come sommamente puro e degno della sua elegantissima gravità, oltre al pregio della verecondia che manca a quelli di Nevio e di Plauto, siccome altrove abbiamo pur detto78:

Adolescens, tametsi properas, hoc te saxum rogat,
Ut se adspicias: deinde quod scriptum est, legas.
Hic sunt Poetae Pacuvii Marci sita
Ossa. Hoc volebam, nescius ne esses: vale.
{p. 95}

Mentre ritirato in Taranto Pacuvio vi menava tranquillamente gli ultimi suoi giorni (Nota IV), capitovvi Lucio Azzio altro famoso tragico che passava in Asia. Pacuvio l’avea conosciuto in Roma, perchè essendo egli di ottant’anni avea data una sua favola ai medesimi Edili, a’ quali Azzio ne avea presentata un’ altra non contandone più che trenta79. Azzio almeno cinquant’anni più giovane di Pacuvio, secondo la Cronaca Eusebiana, avea avuto il padre schiavo in Roma. Nell’andare in Asia non mancò di visitare il vecchio tragico che cortesemente l’albergò per molti giorni. Trattenendosi un dì di cose teatrali Pacuvio mostrò desiderio di ascoltar l’Atreo di Azzio e fu compiaciuto. Grande e sublime ne parve lo stile al vecchio tragico, benchè alquanto duro ed acerbo. Lo veggo anch’io, ripigliò il giovane, nè me ne incresce; i pomi duri ed acerbi stagionandosi diventano dolci; quelli che da principio nascono teneri e quasi vizzi, crescendo in vece di maturarsi imputridiscono. Così sono gl’ ingegni: bisogna che si lasci al tempo l’ agio di ridurli a una maturità perfetta80. Niuno degli antichi tragici Latini giunse a superar la fama e il merito di Azzio. Era talmente {p. 96}rispettato, che per avere ardito un istrione soltanto di nominarlo in teatro, ne fu severamente castigato. Decimo Bruto che nel 615 fu console e nel 623 trionfò per tante vittorie riportate in Ispagna, fu l’amico e il protettore di Lucio Azzio. Egli de’ di lui versi che sommamente pregiava, volle ornare l’ingresso de’ tempj e de’ monumenti ch’egli fece costruire delle spoglie de’ nemici81. Lo stesso Azzio conosceva la propria superiorità su i contemporanei, e la sosteneva con degnità, se di lui favella Valerio Massimo82. Venendo (egli narra) nel collegio de’ poeti Giulio Cesare personaggio decorato nella repubblica non meno che di lettere adorno, Accio nonmai si levò in piedi; non già per noncuranza della di lui maestà, ma perchè a lui sovrastava ne’ comuni studj letterarii, gareggiandosi colà co’ libri non con le immagini degli antenati83.

{p. 97}

Certamente gli antichi ne hanno favellato con molto onore. Cicerone l’esalta molte volte, e solo nel primo delle Leggi parla con disprezzo di un poeta nominato Accio, e forse quì intende di qualche altro. L’elevazione, la grandezza, la forza formano il carattere dello stile di questo tragico. Orazio distinse Pacuvio per la dottrina, Azzio per la sublimità:

  aufert
Pacuvius docti famam senis, Accius alti.

Quintiliano riconosce nell’uno e nell’altro due chiarissimi scrittori di tragedie. La nitidezza però (aggiugne) e l’ultima mano nel limare i loro parti sembra di esser loro mancata, nè tanto per loro colpa, quanto del tempo in cui fiorirono. Da coloro che vogliono parere eruditi si attribuisce ad Accio maggior forza, a Pacuvio maggior dottrina84. Acrone interprete di Orazio passò più oltre, e antipose Accio allo stesso Euripide. Columella nomina come i più gran poeti Latini Azzio e Virgilio. Le tragedie di Azzio sono: Clitennestra, Andromaca, Filottete, Andromeda, Atreo, Meleagro, la Tebaide, le Troadi, Tereo, {p. 98}la Medea. A quest’ultima appartengono i versi citati da Cicerone85, ne’ quali si descrive la maraviglia di un pastore, che non avendo mai veduto un vascello, scoperse dall’alto di una montagna quello che portava gli argonauti, siccome apparisce da’ Frammenti de’ tragici Latini. Oltre a questi argomenti che Accio trasse da’ Greci, compose una tragedia interamente Romana intitolata Bruto. Paolo Manuzio86 pretende che questa fosse rappresentata celebrandosi i giuochi Apollinari, a’ quali presedè il fratello di Marco Antonio in vece di Bruto che si era allontanato da Roma. Mà Pietro Bayle colla II e IV epistola del XVI libro di Cicerone ad Attico dimostra, che la tragedia di Azzio allora rappresentata fu Tereo; e aggiugne essersi ciò ignorato da tutti gli altri comentatori, perchè Maturanzio credeva che vi fosse stato rappresentato l’Atreo, e Beroaldo e Hagendorphin il Bruto. Ma la poesia scenica guadagna cosa alcuna in discutere siffatte cose con gravità e lungamente? Non se ne ricava altro vantaggio se non il generale che sempre diletta, di porre alla vista senza errori un fatto istorico. Delle tragedie di Azzio fanno menzione {p. 99}Nonnio Marcello, Varrone, Aulo Gellio e Macrobio. Il Vossio trattando de’Poeti Latini afferma che Azzio scrisse ancora qualche commedia, e ne cita due, le Nozze e il Mercatante.

Cajo Tizio Cavaliere Romano oratore e poeta tragico visse intorno all’ anno di Roma 590. Erano, dice Cicerone87, così piene di esempj, di arguzie e di piacevolezze le sue aringhe, che sembravano quasi scritte in istile Attico, benchè ignorasse il Greco. Ma queste arguzie ch’ei volle trasportare con molta acutezza nelle tragedie, nocevano alla gravità del coturno. Tizio fu contemporaneo di Lucilio, ed aringò al popolo a favore della legge proposta dal console Fannio contra i festini. Macrobio ne ha conservato un frammento, nel quale vigorosamente dipingonsi gli eccessi della ubbriachezza de’ giudici Romani88.

Di un altro nobile oratore fa menzione Cicerone nel medesimo dialogo del Bruto, il quale sorpassò nell’eloquenza i predecessori e i contemporanei. Fu questi Cajo Giulio figlio di Lucio e contemporaneo di P. {p. 100}Cetego. Non era la veemenza il carattere del suo aringare, ma bensì l’urbanità, la grazia e la dolcezza. Egli scrisse alcune tragedie del medesimo gusto: somma grazia di stile ma senza nerbo.

Attilio che fiorì verso il cominciar del settimo secolo di Roma, scrisse pel teatro tragedie e commedie. La sua tragedia Electra non si reputò del tutto immeritevole di esser letta da Cicerone medesimo che lo chiama poeta durissimo89. Ma egli prevalse nel genere comico, e Volcazio Sedigito l’antiponeva a Terenzio.

Uno de’ rinomati poeti di quest’epoca fu Cajo Lucilio Cavaliere Romano avolo materno di Pompeo Magno, o bisavolo per parte di Lucilia di lui madre, o, secondo Antonio Agostino90, di lui prozio materno, eslendo stata la madre di Pompeo figlia di un fratello di Lucilio. Egli nacque nella città di Suessa degli Aurunci91 posta nella Campania di là dal Liri92, {p. 101}nel primo anno dell’olimpiade CLVIII, secondo Eusebio, e morì in Napoli nel secondo anno dell’olimpiade CLXIX, che cade nell’anno di Roma 651. Osserva però il Bayle che Lucilio mentova la legge Licinia stabilita l’anno 656; dunque egli visse cinque o sei anni di più. Egli militò nella guerra di Numanzia sotto Publio Scipione Numantino93. Secondo Francesco Patrizio nella sua Poetica Lucilio compose epodi, inni, tragedie ed una commedia intitolata Nummularia, di cui pur si conserva qualche frammento. Ma celebre singolarmente si rendè per trenta libri di satire, nelle quali, allontanandosi da Ennio e da Pacuvio, usò l’esametro senza mescolanza di altri versi nel medesimo componimento, benchè altri ne avesse scritti in versi ora giambici ora trocaici. Morse egli senza verun riguardo Rutilio Lupo, Carbone, L. Turbolo ed altri illustri Romani, e punse e motteggiò eziandio i poeti drammatici suoi contemporanei. A’ tempi di Quintiliano ebbe Lucilio molti ammiratori, i quali, non che a tutti i satirici, ad ogni altro poeta lo preferivano. Orazio intanto affermava scorrere la di lui poesia limacciosa {p. 102}e trovarvisi più cose da sopprimersi94. Non convengo con que’ suoi lodatori, diceva Quintiliano, ma discordo ancora da Orazio, perchè scorgo in Lucilio un’ erudizione maravigliosa, una libertà intrepida, acerbità e copia di sale (Nota V). I frammenti Luciliani si raccolsero dagli Stefani, e dal Douza furono illustrati con alcuni scolii e impressi in Lione nel 1597. Bayle però avverte che oltre alla diligenza del Douza essi aveano bisogno di essere anche rischiarati da qualche altro dotto comentatore.

II.
Comici del medesimo periodo. §

Fiorirono intanto nel genere comico, oltre al poc’anzi nomato Attilio, Quinto Trabea del quale Nonnio Marcello cita la commedia intitolata Ergastulum, Turpilio di cui Varrone pregia assai la commedia detta i Fuggitivi, C. Licinio Imbrice collocato dal Sedigito dopo di Nevio, cioè nel quarto luogo, e Luscio che presso lo stesso critico occupa il nono ed è preferito a Quinto Ennio. Ma oltre a questi e a {p. 103}Titinio, Aquilio, Ostilio, Pomponio e Dorsenno, de’ quali si conserva alcun frammento, la poesia comica Latina si gloriava di un Cecilio, di un Terenzio e di un Afranio.

Cecilio il quale dalla condizione di servo, come afferma Aulo Gellio, acquistò il cognome di Stazio che presso i Romani antichi era un nome di schiavo, per consenso di tutti gli antichi fu acclamato come il primo e il più eccellente di tutti i comici Latini per la felicità della scelta e per l’ottima disposizione degli argomenti; il che rende ben rincrescevole la perdita delle di lui favole. Nato però e allevato fuori dell’Italia nella regione Gallica inserì sovente ne’ suoi drammi voci non latine, e per tal mescolanza fu da Cicerone chiamato malus latinitatis author95. Tullio stesso96 cita i di lui Sinefebi, e Aulo Gellio la commedia intitolata Plozio, favole di Menandro da Cecilio imitate. Egli è vero, che Gellio, come dicemmo, pruova ch’egli fosse inferiore al suo modello; ma l’essere stato concordemente preferito, non {p. 104}che a Nevio e ad altri comici, a Plauto ed a Terenzio, ad onta della sua poco pura latinità, ci sveglia dei di lui talenti ben vantaggiosa idea. Due suoi versi dal medemo Gellio recati potrebbero dar motivo a’ fisici di rinnovare l’antica ricerca, se il parto, senza essere abortivo, possa anticipare, ovvero differire l’uscita dal seno materno oltre a’ soliti nove mesi. Menandro nella commedia detta Plozio o Monile97 affermò che il parto perfetto viene dopo il decimo mese, la qual cosa ripete Plauto nella Cistellaria. Cecilio nella sua Plotium pensò diversamente:

Insoletne mulier decimo mense parere?
Pol nono, etiam septimo, atque octavo98.
{p. 105}

Cecilio molto amico di Ennio godette una riputazione sì grande e sì bene stabilita, che quando Terenzio presentò agli Edili l’Andria, gli s’impose di leggerla prima a Cecilio. Si dice ancora che il novello autore male in arnese arrivò in tempo che Cecilio giaceva per cenare, ed a principio si fece sedere in una panca accanto al {p. 106}letto; ma dopo alquanti versi maravigliato Cecilio, e dall’eleganza e proprietà dello stile rapito, l’invitò a cenar con lui, e dopo la cena si proseguì l’intera lettura della commedia con somma continuata ammirazione del vecchio poeta. Quest’ abboccamento di Cecilio e Terenzio viene riferito da Elio Donato o da Suetonio autore della Vita di Terenzio. Dall’altra parte secondo la Cronaca Eusebiana Cecilio morì un anno dopo di Ennio, cioè l’anno di Roma 585, e la commedia dell’Andria fu rappresentata ne’ Ludi Megalensi l’anno 587, essendo consoli M. Claudio Marcello e C. Sulpizio Gallo. Adunque non potea essere stata letta prima a Cecilio già morto da un anno e più ancora. Il chiar. Tiraboschi99 con prudente ambiguità propone che quanto narrasi avvenuto con Cecilio debba intendersi di qualche altro rinomato poeta che allora ci vivesse. Non pertanto lo scrittore della Vita di Terenzio a chiare note parla di Cecilio e non di altri. L’Abate Arnaud eccellente letterato Francese nella Gazzetta Letteraria di Europa nel mese di luglio del 1765 ricorre a un Edile nomato Acilio, al quale pretende che Terenzio andasse a leggere l’Andria, e non a Cecilio; insinuando {p. 107}che il passo di Donato o Suetonio sia guasto e vi si debba leggere Acilio per Cecilio. Ma le parole del biografo son queste: Andriam cum Ædilibus daret, jussus ante Cælicio recitare, nelle quali sono ben distinti e gli Edili a’ quali la commedia si presentò e il poeta a cui per loro ordine si lesse. Che se Cecilio si converte in Acilio, il quale era nel numero di quegli Edili, si attribuisce al precitato biografo un modo di esprimersi alquanto fosco e poco felice, facendogli dire, cum Ædilibus daret, jussus ante Acilio recitare, non apparendovi la relazione che dovrebbe naturalmente vedervisi, della persona di Acilio col numero degli Edili. Oltre a ciò tutto il racconto e della non curanza da prima avuta del nuovo poeta, a cagione dell’ abito, da colui che stava cenando, e dell’attenzione che in lui cagionarono i primi versi, e della giustizia subito renduta al merito, e dell’ammettersi il giovane poeta a cenare confidentemente, e dell’ammirazione colla quale dopo la cena fu ascoltata la commedia, tutto ciò, dico, sembra meglio adattarsi a un veterano conoscitore di poesia comica di pari condizione col novello scrittore, che ad un Edile di classe più elevata. Finalmente noi sappiamo per un prologo dello stesso Terenzio che a’ suoi tempi destinavasi dal magistrato un poeta di nome per ascoltare i drammi prima di rappresentarsi, ed infatti {p. 108}egli dovè leggere al poeta Luscio la migliore delle sue commedie; ma non parmi che gli Edili si assumessero mai la carica di giudici letterarii delle poesie teatrali, carica che in appresso, come diremo, si vide addossata a cinque censori. Ora tutto questo c’induce a rifiutare la correzione dell’erudito Ab. Arnaud adottata pure da M. Millet, ed a credere che Cecilio ben due volte nominato nel passo del biografo fosse stato l’ascoltatore dell’Andria. E se quando mancano le storiche testimonianze lecito fia il congetturare, seguendo l’ordine naturale delle cose, piuttosto che cangiare il poeta revisore o sostituirgli un Edile, potrebbe dirsi che l’Andria per ordine degli Edili fosse stata anticipatamente letta al poeta Cecilio, e che questi dopo averla approvata si morisse prima che nel 587 si rappresentasse. É forse improbabile che passassero varii mesi ed anche un anno dal pensare e disporre lo spettacolo che solea farsi con tanta spesa, all’esecuzione di esso, e che intanto Cecilio si morisse? è improbabile che il giovane Cartaginese senza credito avesse bisogno di raccomandarsi a più di uno prima di venire a capo del suo intento?100.

{p. 109}

III.
Teatro di Terenzio. §

Quindi si scorge qual alta impressione facessero nell’animo di Cecilio pochi soli versi di Terenzio. Ma poteva mancar d’incantare un dotto e consumato conoscitore quella venustà di stile che indi rapì dalla scena gli animi tutti de’ più volgari spettatori? quell’eleganza che dopo tanti secoli conserva la medesima imperiosa forza su i posteri più remoti (Nota VI)? quella proprietà e purezza di locuzione approvata e imitata, non che da altri, da un Tullio e da un Orazio? quell’arte, quel giudizio, quelle sentenze tratte dalla più profonda filosofia e rendute proprie del teatro comico? quella prodigiosa maniera di rendersi originale traducendo ed imitando? quella vezzosa urbanità nel motteggiare? quella delicatezza {p. 110}e matronal decenza che trionfa nelle dipinture ch’ei fa de’ costumi? Le sei commedie che ne abbiamo leggonsi da’ fanciulli (o da quei che sono tali a dispetto degli anni) con una specie d’ indifferenza propria di quell’età: dagli uomini maturi con istupore e diletto: e con entusiasmo da’ vecchi instruiti. I letterati più accreditati, gli Erasmi, gli Scaligeri, gli Einsii, terminano la vita con Terenzio alla mano. Sembra inutile il dar pieni estratti delle sue commedie per essere troppo note, e temerità il tradurne alcuni squarci per la difficoltà di conservarne le bellezze. Non pertanto faremo su di esse qualche riflessione passeggiera101.

{p. 111}

L’Andria. Fu questa la prima sua commedia rappresentata nell’additato anno di Roma 587 dalla compagnia comica di L. Ambivio Turpione e di Attilio Prenestino colla musica di un certo Flacco figlio di Claudio o di lui liberto, come vuole Madama Dacier, benchè non apparisca donde l’abbia ricavato. Menandro scrisse su di un medesimo argomento due commedie, l’una intitolata Andria dall’isola di Andro, l’altra Perinthia da Perinto città della Tracia. Terenzio si prevalse di entrambe nell’accozzar la sua favola, e ritenne il titolo della prima. L’argomento si aggira intorno agli amori della fanciulla Gliceria venuta da Andro e del giovane Panfilo disturbati per le nozze che Simone padre di costui gli prepara con una figlia di Cremete, prima per finzione indi da buon senno. Lo scioglimento avviene col conoscersi Gliceria per un’ altra figlia del medesimo Cremete chiamata Pasibola. I giovani studiosi debbono {p. 112}ammirare nella prima scena dell’atto primo il modo di raccontare con grazia, eleganza, precisione, e, quel che monta più, con passione:

. . . . . . . . Funus interim
Procedit: sequimur: ad sepulchrum venimus:
In ignem posita est: fletur. Interea hæc soror,
Quam dixi, ad flammam accessit imprudentius
Satis cum periculo. Ibi tum exanimatus Pamphilus
Bene dissimulatum amorem & celatum indicat.
Accurrit, mediam mulierem complectitur.
Mea Glycerium, inquit, quid agis? cur te is perditum?
Tum illa, ut consuetum facile amorem cerneres,
Rejecit se in eum flens quam familiariter.

Tutto è qui animato dall’affetto, tutte le parole sono scelte e naturali, senza affettazione, senza superfluità. Osservisi ancora con quanta grazia e verità nell’atto stesso incontrandosi Panfilio colla serva Miside, le dice, quid agit? senza esprimere il nome di Gliceria; e di qual altra cercherebbe Panfilo con premura? Sommamente patetica ivi ancora è la preghiera di Criside moribonda {p. 113}narrata da Panfilo, che io ardisco di tradurre in simil guisa:

Mis.

Merita, io questo so, la poverina,
Panfilo, che di lei tu ti sovvenga.

Pan.

Ch’io di lei mi sovvenga? Ah in mezzo al cuore
Impresse io porto le preghiere estreme
Che per Gliceria Criside mi porse.
Presso a morir mi chiama, io mi avvicino,
Voi gite, noi restiamo; ella mi dice:
Panfilo, amato Panfilo, tu vedi
La beltà di costei, la giovanezza,
E non ignori che a guardar l’onore,
A conservar la roba entrambe sono
Armi assai frali. Deh per questa destra,
Per l’indole gentil, per quel bel cuore,
Per la tua fe, per questa istessa, Panfilo,
Derelitta fanciulla, io ti scongiuro;
Deh non l’abbandonar, se qual fratello
Sempre io ti ami, s’ella te solo apprezza,
Per te respira, a’ cenni tuoi s’acqueta.
Prendila, a te la do, tu a lei sarai
Amico, protettor, marito e padre.
Sì a me l’affida, e spira. Io l’accettai,
Io serberò la fede.

Bella e ingegnosa è parimente la scena quinta {p. 114}dell’atto quarto, nella quale Miside dopo avere esposto il bambino sulla porta di Simone per consiglio di Davo, è sorpresa da Cremete, e non sa come contenersi nelle risposte non vedendo più Davo. Ma l’astuto finge di sopraggiugnere e maravigliarsi del fanciullo, e colle sue pressanti richieste aumenta l’imbarazzo di Miside. Ella vorrebbe riconvenirlo sottovoce: ma Davo all’incontro vuol che risponda apertamente confessando la verità. Ognuno vede quanto sale contenga questo comico artificio. Ella gli dice con voce bassa, non tute ipse . . . . Ma Davo con alta voce e con volto che esclude ogni sospetto d’intelligenza, l’interrompe dicendo, concede ad dexteram. E perchè? Per quel che io ne penso, per farla avvicinare a Cremete, affinchè nulla egli perda di quanto ella dica. Ma l’annotatore Farnabio interpreta all’opposto, che Davo a lei parli sommessamente, e la faccia passare a destra per allontanarla da Cremete che si trova alla sinistra. Non si accorse quell’erudito ch’ egli distruggeva il disegno del poeta, Più volte e Plauto e Terenzio hanno in una scena usato questo colore di dire alcuna cosa a voce alta ed altre con poca voce. Ma in questa Terenzio lavora con maggior delicatezza. Egli vuole che Miside senza veruna prevenzione manifesti in presenza di Cremete la verità del parto, affinchè collo scoprirsi vada in fumo il contratto {p. 115}nuzziale. Il fargliene Davo qualche motto sottovoce scemerebbe il pregio del ritrovato e la grazia della scena. Davo nella precedente alla prima si accinge a scoprire a Miside la trama, Move ocius te, ut quid agam, porro intelligas; di poi vede venir Cremete e cangia consiglio, Repudio consilium quod primum intenderam . . . . tu ut subservias orationi, utcumque opu’ sit verbis, vide. Miside rimanendo nell’incertezza gli dice, Ego quid agas, nihil intelligo. Ma perchè mai Davo si appiglia al partito di esporre la serva senza prevenirla? Perchè pensa con ragione che costretta a rispondere quel che il caso esige, la verità senza il belletto dell’ arte più vivace si presenterà agli occhi di Cremete. E così avviene. Il vecchio ne rimane sì persuaso, che pensa di rompere il contratto, e a tal fine va in traccia del padre di Panfilo. Partito Cremete, Davo in segno di allegrezza vuole accarezzar Miside, che sdegnata lo ributta, dicendo, non mi toccare, furfante. Davo per giustificarsi le dice:

Hic socer est, alio pacto haud poterat fieri,
Ut sciret hæc quæ volumus.

Ma replica Miside, perchè non avvisarmelo, hem prædiceres; e Davo ripiglia egregiamente:

{p. 116}
Paullum interesse censes, ex animo omnia,
Ut fert natura, facias, an de industria?

Ecco il bellissimo pensiero del poeta di far parlar la natura; ed accennarle qualche cosa di soppiatto, come pretendeva Farnabio, avrebbe ripugnato a tal disegno. Alcuni critici ancora hanno detto, che questa favola conteneva due azioni, una degli amori di Panfilo, l’altra di quelli di Carino. Strana critica: perchè da un’ azione seguono due matrimonj, si dirà che sia doppia? Se si rappresentasse il ratto delle Sabine, sarebbero tante le azioni quanti i matrimonj che produrrebbe? L’ azione dell’Andria è quest’una, l’esito felice degli amori di Gliceria collo scoprirsi cittadina Ateniese e figliuola di Cremete; e se quindi nasce ancora la prosperità di Carino, questo non è narrare o rappresentare un’ altra azione, ma si bene accennar della vera e sola azione della favola una fortunata natural conseguenza. Fece di sì vaga commedia una elegante libera imitazione in prosa il Capuano Marco Mondo, l’ultimo de’ Segretarii della Città di Napoli che illustrarono la loro carica colla dottrina e colle lettere. Egli fe imprimerla verso il 1704 da Giuseppe Sellitto con altri poetici componimenti col titolo le Nozze. La divise in tre atti, diede a’ personaggi nomi e costumi moderni, e trasportò l’azione a’ tempi correnti e {p. 117}nella città di Livorno102.

{p. 118}

La Suocera. Questa commedia di Apollodoro prende il titolo di Ἐκυρα, socrus, secondo Donato, dalla gran parte che hanno le suocere nell’azione. Apparentemente l’umore di Sostrata suocera di Filomena sembra aver dato motivo alla discordia e alla separazione. Ma non è così. Filomena che aveva avuta la sventura di essere una notte violentata da un giovane sconosciuto, va alle nozze di Panfilo già incinta di due mesi, colla speranza di attribuir poscia al marito la gonfiezza del suo ventre. Sventuratamente Panfilo distratto negli amori di Bacchide, punto non le si appressa, comechè pel di lei bel costume prenda ad amarla; indi per impossessarsi di una eredità parte dalla patria, e dimora lontano dalla moglie sino al giorno in cui Filomena partorisce. Si avvicina il parto e Filomena col pretesto di stare inferma abbandona {p. 119}la casa del marito, torna alla paterna, e nè anche vuole ammettere la visita della buona e innocente suocera. Torna Panfilo tutto acceso dell’amor della moglie nel punto che questa partorisce, nè di lui al suo credere. Mirrina madre di Filomena gli narra la disgrazia accaduta alla figlia prima di maritarsi, e lo prega a tacere il caso, quando non voglia ritener la moglie. Panfilo si obbliga al silenzio, ma ricusa di ripigliarla; e per non esservi astretto dal padre si vale del pretesto della madre che non è di accordo colla moglie. All’incontro il padre di Filomena crede che l’amore di Bacchide tenga Panfilo avvolto negli antichi lacci, e il renda avverso al contratto nodo conjugale. Se ne querela con Lachete padre di Panfilo, il quale ne va a far romore con Bacchide. Costei co’ più solenni giuramenti si giustifica, e Lachete le insinua di persuaderne le donne. Ella che non è delle peggiori del suo mestiere, condiscende. Visita le donne portando in dito un anello a lei donato da Panfilo. Quest’anello avea egli tolto a una fanciulla una notte che la sforzò senza conoscerla; e questa fanciulla è per l’appunto la stessa Filomena. Panfilo adunque è il padre del nato fanciullo. Le donne riconoscono l’anello, e Panfilo venuto in chiaro del successo con estremo piacere ripiglia la moglie. Si osservi che il poeta nell’atto quinto fa {p. 120}che Bacchide entri in casa di Mirrina, e narri ed ascolti più cose, e ne avvenga la felice riconoscenza dell’anello, e che indi n’esca; ma intanto non si sono recitati che foli dodici versi, ne’ quali dee supporsi trascorso il tempo richiesto al congresso di Bacchide in quella casa.

Le bellezze di questa favola si presentano in folla, e noi ne accenneremo alcune colla speranza di eccitare la gioventù a leggere gli antichi con maggior riflessione, se vogliono ritrarre dalla drammatica quel diletto che ben di rado si prova nella lettura delle moderne favole. Mirabile nella seconda scena dell’atto primo è il ritratto della buona moglie che giugne a cancellare dal cuore di un marito l’amor di una cortigiana:

. . . . . . Atque ea res multo maxume
Disjunxit illum ab illa, postquam & ipse se,
Et illam, & hanc, quæ domi erat, cognovit satis,
Ad exemplum ambarum mores earum æstimans.
Hæc, ita ut liberali esse ingenio decet,
Pudens, modesta, incommoda, atque injurias
Viri omneis ferre, & tegere contumelias,
Hic animus partim uxoris misericordia
Devictus, partim victus huju’ injuriis,
Paulatim elapsu st Bacchidi, atque {p. 121}huic transtulit
Amorem, postquam par ingenium nactus est.

L’atto terzo riesce sommamente interessante e dilettevole. Panfilo mesto nella prima scena per la discordia della madre e della moglie, riflette alla sua miseria:

. . . . Matrem ex ea re me aut uxorem in culpa inventurum arbitror:
Quæ cum ita esse invenero, quid restat, nisi porro ut fiam miser?
Nam matris ferre injurias me, Parmeno, pietas jubet:
Tum uxori obnoxius sum: ita olim suo me ingenio pertulit
Tot meas injurias, quæ nunquam in ullo patefecit loco.

Mentre Parmenone si studia di consolarlo, ecco sentesi in casa della moglie un mormorio, un movimento, un andare avanti e indietro, onde essi pongonsi in curiosità e apprensione. Si avvicinano per ascoltare; odono alcun clamore; Mirrina esorta la figliuola a tacere, tace obsecro, mea gnata. Questa è la voce di Mirrina, dice Panfilo; nullus sum . . . . perii. Parmenone dice di avere udito, Philumenam pavitare nescio quid. Egli ha frainteso; le donne dovevano aver detto paritare. Paventa bene Panfilo di qualche grande sciagura, e corre su {p. 122}dalla moglie. Nella seconda scena la buona Sostrata vorrebbe andar di nuovo a visitar la nuora inferma. Parmenone ne la distoglie, e le dà notizia del ritorno di Panfilo. Esce egli dalla casa della moglie pieno di tristezza, e al veder la madre si sforza di dissimular la sua pena, benchè i segni ne scappino fuori ad onta della sua industria. Il loro dialogo non può essere più vago. Se ne ammiri l’eleganza, la verità, il patetico:

. . . . . . .

Soft.

O mi gnate.

Pam.

Mea mater, salve.

Soft.

Gaudeo venisse salvom, salvan’
Philumena est?

Pam.

Meliuscula est.

Soft.

Utinam istuc ita Dii faxint.
Quid igitur lacrumas? aut quid es tam tristis?

Pam.

Recte, mater.

Soft.

Quid fuit tumulti? dic mihi: an dolor repente invasit?

Pam.

Ita factum est.

Soft.

Quid morbi est?

Pam.

Febris.

Soft.

Quotidiana?

Pam.

Ita ajunt.
I, sodes, intro, consequar jam te, mater mea.

Soft.

Fiat.

Così tormentato dalle innocenti richieste materne rimanendo solo riflette con libertà sull’avventura della moglie e sul proprio stato. Egli si trova di lei innamorato, e pensa infanto che non può ritenerla per sua, avendo ella partorito di un altro. Per giunta {p. 123}non può palesare il vero, per la parola datane a Mirrina. Tale angustia è ben maneggiata in questa terza scena, e l’espressioni son tutte dettate dalla passione che vi domina. Egli ripete a se stesso il fatto, animandolo colle più patetiche immagini. Entra improvviso; le serve si rallegrano alla prima, indi si turbano, si scompigliano. Comprende da qual morbo la moglie sia oppressa, e piangendo vuol tornare in dietro. Lo segue Mirrina sciolta in lagrime, gli si butta a’ piedi, e palesa la disgrazia. Tutte le circostanze di questa scena presentano quadri vivacissimi, pieni di affetto, e non già semplici parole, o concettuzzi mendicati, o tratti di spirito leccati. Egli in fine che ha promesso di tacere, così conchiude:

Pollicitus sum, & servare in eo certum est, quod dixi, fidem;
Nam de reducenda, id vero neutiquam honestum esse arbitror:
Nec faciam: & si amor me graviter, consuetudoque ejus tenet.
Lacrumo, quæ posthac futura est vita, cum in mentem venit,
Solitudoque. O fortuna, ut nunquam perpetuo es bona!

Del pari interessante è la scena quinta di Panfilo col padre e col suocero, nella quale egli si trova in angustia per voler serbare {p. 124}la fede a Mirrina, e per addurre alcuna onesta ragione da ricusar la moglie. Degna è pure di notarsi la seconda scena dell’atto quarto di Panfilo con Sostrata. La madre il prega perchè ripigli in casa la moglie, proponendo di ritirarsi ella in campagna. La proposta di una madre sì buona aumenta il dolore del figlio. Lo stato di Panfilo va poi peggiorando a’ momenti. Fidippo ha saputo che Filomena ha partorito, e nella quarta scena viene a dirgli, che se vuol rompere il contratto, il faccia pure, purchè si prenda il bambino. Lachete si rallegra del nipotino che gli è nato. Panfilo sempre più si attrista, che se prima di esser nato il bambino poteva esitare intorno al riprendersi la moglie, e nel caso di riprenderla poteva esporre il bambino, e seppellire nell’obblìo l’accaduto, oggi però che è palese ch’ella abbia partorito, non dee riceverla, o nel riceverla dee riconoscere per suo un bambino che di lui non nacque:

Etsi jamdudum fuerat ambiguum hoc mihi,
Nunc non est, cum eam consequitur alienus puer.

Ma dall’altra parte che cosa risponderà egli a Lachete che fa premura che accetti il bambino? Con qual pretesto il rifiuterà? Questa nuova giunta al di lui dolore egregiamente {p. 125}si maneggia in questa scena. Lachete ascrive la di lui ritrosìa agli antichi amori. Panfilo replica, Dabo jusjurandum, nil esse istorum, tibi. E Lachete adirato ripiglia:

Redue uxorem, aut quamobrem non opus sit, cedo.

Pam.

Non est nunc tempus.

Lac.

Puerum accipias: nam is quidem
In culpa non est: post de matre videro.

Pam.

Omnibus modis miser sum, nec quid agam, scio.

Questa bella favola ha un patetico proprio della commedia nobile: vi si piagne ma un pianto conveniente alle domestiche discordie delle famiglie cittadinesche, e non già quel pianto corrispondente agli atroci delitti o inventati da una fantasia alterata per disonorare l’umanità, o ricavati da’ più famosi e rari processi criminali, secondo la pratica degli ultimi strani drammatici Inglesi, Francesi e Alemanni. Debbe nell’ Ecira ravvisarsi un ottimo modello della commedia tenera, la quale richiede un poeta di cuore assai sensibile e dilicato; genere che presso gli accennati oltramontani è degenerato in una poco plausibile e ben difettosa commedia larmoyante. Può sì vaga favola Terenziana tenersi per una delle più interessanti dell’antichità, ed anche potrebbe {p. 126}dirsi la prima e la migliore, se vi si trovasse moto e vivacità maggiore, così felicemente n’è scelto il punto onde incomincia l’azione, e vi sono sì maestrevolmente maneggiate le passioni. Non ha garbugli, non furberie servili, non buffoneria; ma ciò appunto manifesta che in tutt’altro può consistere la vera piacevolezza scenica. I personaggi sono tutti buoni; non di quella bontà immaginaria della scuole morali, nè dell’eroica che ha luogo nelle tragedie, ma di quella civile bontà che ci allontana dalle colpe senza preservarci dalle debolezze. Essa fu rappresentata più volte in Roma. La prima volta essendo Edili Curuli Ses. Giulio Cesare e Cn. Cornelio Dolabella, e per quel che dicesi nel prologo che ora la precede, il popolo impaziente per lo spettacolo de’ ballerini da corda e de’ pugili non si curò di vederla o di comprenderla. Alluse Orazio all’evento dell’Ecira, quando attribuì all’ardore che inspiravano simili spettacoli, lo scoraggimento de’ poeti:

. . . . . . media inter carmina poscunt
Aut ursum, aut pugiles. his nam plebecula gaudet.

La seconda volta si rappresentò anche imperfettamente ne’ giuochi funebri di L. Emilio Paolo, essendo Consoli Cn. Ottavio e T. Manlio, e neppur piacque, o per {p. 127}meglio dire neppure si ascoltò, perchè recitato appena l’atto primo che fu bene accolto, si levò un romore, che davansi i giuochi gladiatorj, ed ecco che il popolo abbandona il teatro e si affolla a prender luogo all’anfiteatro. La terza volta si rappresentò, essendo Edili Q. Fulvio e L. Marzio, dal famoso istrione L. Ambivio Turpione, il quale tolse sopra di se il carico di fare il prologo per raccomandarla al popolo, L’istrione accreditato, colle parole dell’incomparabile autore, nel bellissimo prologo mette in vista gli antichi suoi meriti; e siccome per opera sua alcune favole di Cecilio alla prima rigettate si riprodussero, e col meglio conoscersi riceverono migliore accoglimento, così si lusinga che abbia in questa di Terenzio a rinnovarsi il passato esempio, fidando nella benignità e nel silenzio degli ascoltatori. Piacque questa terza volta, e ciò avvenne nell’anno di Roma 588, e si replicò poi nel 589.

Il Tormentatore di se stesso. Non cambiò Terenzio il titolo di Heautontimorumenos a questa commedia di Menandro trasportandola interamente nell’idioma Latino. Ma come dice di averla fatta doppia di semplice ch’essa era?

Duplex quæ ex argumento facta est simplici.
{p. 128}

Giulio Scaligero dice che il poeta la chiamò doppia, perchè una metà se ne rappresentò la sera, e scorsa la notte ne’ giuochi si terminò all’ apparir dell’alba103. Passi che una commedia di giusta mole siasi recitata in Roma in due giorni, cioè la sera dell’uno i due primi atti e il rimanente all’albeggiar dell’altro, cosa, per quanto si sa, mai più non avvenuta, e di cui non potrà rendersi veruna adeguata ragione, siccome è stato anche da altri avvertito104. Ma questa cosa potrebbe fare che un poeta assennato chiamasse doppia una favola di argomento semplice? Tommaso Farnabio rigettando l’opinione di Scaligero giudica che il poeta dica di averla fatta doppia, perchè nella commedia di Menandro essendo uno il vecchio, uno il figliuolo, una la giovane, uno il servo, Terenzio raddoppiò nella sua tutti questi personaggi, introducendo due vecchi, due figliuoli ecc. Ma un comico di tanto valore e sì amico della proprietà delle voci, avrebbe senza sconcezza chiamata doppia una favola per averne raddoppiati i personaggi? E qual grazia avrebbe {p. 129}prodotto questo inutile raddoppiamento? Provisi poi chiunque ad eseguirlo in qualche favola, e vedrà di quali freddi oziosi personaggi riempirà la scena. Scorge da ciò ognuno non essere stata più felice l’interpretazione del Farnabio. Secondo me Terenzio, nel servirsi del semplice argomento Greco, v’ inserì al suo solito la traccia di un’ altra azione forse di sua invenzione, per fare la favola più ravviluppata, accomodandosi al piacere del popolo, cui già increscevano gli spettacoli troppo semplici, come suole avvenire allorchè il buon gusto comincia a vacillare. E quindi con tutta ragione la chiamò doppia, perchè in fatti doppia la favola ne divenne. L’argomento Greco consisteva negli amori di Clinia per Antifila, nello scoprimento della vera condizione di questa fanciulla, e nel carattere del vecchio Menedemo che si punisce della severità usata col figliuolo, mettendosi come un povero contadino a lavorar la terra colle proprie mani. Terenzio a questo aggiunse gli amori di Clitifone con Bacchide, e l’artifizio del servo nel cavar danaro dalle mani del vecchio Cremete. Si vede che questi sono due argomenti dal poeta connessi con molta arte, i quali formano una commedia ravviluppata e doppia, che sarebbe semplice senza il secondo. A qualche preteso veterano del Parnaso incresceranno simili osservazioni forse opposte a quanto {p. 130}egli avrà pensato delle opere teatrali; e quindi di se sicuro magistralmente, senza consultare l’urbanità, affermerà di non averle io ben lette o bene intese. Ma chi sa (dicasi ciò con buona pace di certe pretese divinità terrestri) che il male non consista, anzi che ne’ miei giudizj, in quel che da tanti anni pose nelle loro teste salde radici? Chi sa che a tali campioni emeriti di Elicona non debbano riferirsi le parole di Petronio Arbitro, quod quisque perperam discit, in senectute confiteri non vult?

Questa favola è scritta con particolare eleganza e purezza di lingua, e se ne vanta lo stesso autore nel prologo. Ma i critici vi desidereranno le famose unità di tempo e di luogo. Si offende quella di tempo perchè l’atto primo con qualche scena del secondo esige il giorno, viene poi la notte nella quale si celebrano le Feste Dionisie, e nell’atto terzo fa giorno. Un periodo però di 24 ore o poco più potrebbe contenere l’azione che vi si dipigne. Nuoce all’unità del luogo la comparsa di Menedemo che zappa, la qual cosa suppone un campo; e la necessità di una strada pubblica con varie case che richiede il rimanente della commedia105. Ma questa opposizione non avrebbe {p. 131}luogo, se si concepisse un teatro alla maniera di Liveri. Possono in essa notarsi diverse bellezze; ma noi accenneremo soltanto alcuna cosa della terza scena dell’atto secondo, la quale contiene venustà di più di un genere. Clinia attende la sua Antifila ch’egli lasciò povera con una sola fante. Vengono i servi che sono iti a prenderla, e dicono fra loro di aver lasciato indietro le donne con tutta la folla delle serve che le precedono e le seguono, e cariche di oro e di vesti di gran valore. Antifila oro, vesti e calca di fantesche! Quali palpiti per un innamorato ch’è stato assente! Egli esclama: væ misero mihi, quanta de spe decidi! Ma è un equivoco artifiziosamente condotto dal poeta, che all’apparenza giustifica le querele di Clinia. Siro però non soffre ch’egli più lungamente si attristi per un falso sospetto. Antifila è la stessa che era prima; ed eccone l’elegantissimo racconto che rasserena l’amante. Il poeta spiega in esso la sua maestria nel dipignere i costumi, e c’insegna l’arte di sviluppare i caratteri:

Ubi ventum ad ædes est, Dromo pultat fores:
Anus quædam prodit. hæc ubi aperuit ostium,
Continuo hic se confert intro, ego consequor:
Anus foris obdit pessulum, ad lanam redit.
{p. 132}
Hic sciri potuit, aut nusquam alibi, Clinia,
Quo studio vitam suam te absente exegerit:
Ubi de improviso est interventum mulieri.
Nam ea res dedit tum existimandi copiam
Quotidianæ vitæ consuetudinem,
Quæ cujusque ingenium ut sit, declarat maxume.
Texentem telam studiose ipsam offendimus,
Mediocriter vestitam veste lugubri,
Ejus anuis causa, opinor, quæ erat mortua;
Sine auro tum ornatam, ita uti quæ ornantur sibi,
Nulla mala re esse expolitam muliebri.
Capillus passus, prolixus, circum caput
Rejectus negligenter, pax! 106
{p. 133}

Si rappresentò da prima questa favola dal soprallodato L. Ambivio Turpione e da L. Attilio Prenestino, essendo Edili L. Cornelio Lentulo e L. Valerio Flacco colla musica di Flacco di Claudio figlio o liberto. Di poi si replicò cambiandovisi le tibie; e finalmente sotto il consolato di M. Giuvenzio e T. Sempronio si recitò la terza volta nell’anno di Roma 591.

Il Formione. Apollodoro cui appartiene questa favola, scrisse una commedia intitolata Epidicazomenos, e un’ altra detta Epidicazomene dal nome della fanciulla di cui in essa si tratta. Il Formione deriva da {p. 134}quest’ultima, e Donato, il più utile forse di tutti i comentatori antichi e moderni delle commedie Terenziane, osserva che l’autore Latino errò nel dire che la sua nasceva dall’Epidicazomenos, avendo dovuto dire dall’Epidicazomene. Formione è il nome di un parassito, che maneggia il più importante dell’azione. Egli dà ad Antifone il consiglio di farsi citare in giudizio, come se fosse prossimo parente della fanciulla Fannia rimasa povera, ad oggetto di essere in virtù di una legge astretto a sposarla; ed egli difende la pretesa parentela altercando con Demifone padre di Antifone. Finge poi di accordarsi a prender Fannia egli stesso per moglie, per uccellare il vecchio e per trarne trenta mine ovvero trecento scudi da dare a Fedria per liberare dalle mani del ruffiano la sua diletta sonatrice di cetera. Egli anche sapendo il secreto di Cremete che in Lenno sposò un’ altra moglie, essendo già marito di Nausistrata, e divenne padre di Fannia, fa tremare questo vecchio, e al fine scopre il tutto alla stessa Nausistrata; onde avviene che Antifone rimane sposo della sua Fannia riconosciuta dal zio per figlia.

É questa una delle commedie Terenziane pessimamente divisa nell’edizioni di Einsio e di Farnabio. L’atto primo a patto veruno non può terminare colla scena quarta e col verso, Succenturiatus, si quis deficiet. {p. 135}Ph. Age. Per comprenderlo, basta saperne l’azione. Geta annunzia a Fedria e ad Antifone il ritorno di Demifone. Antifone lo vede egli stesso da lontano nella piazza, e si ritira non avendo animo da presentarglisi. Rimane Geta e Fedria; e il servo dice, io mi occulto in questo luogo per soccorrere a tempo, e spinge Fedria ad incontrare il vecchio. Geta dunque rimane in iscena, ma nascosto, e Fedria sotto gli occhi dello spettatore attende l’arrivo di Demifone suo zio. Or come può quì terminare l’atto? Come la dissonanza musica non risoluta, finchè non cada in tuono, sembra un errore nemico dell’armonìa, così l’ azione quì disposta non soffre sospensione, ed è forza che si risolva; e la venuta di Demifone è la risoluzione della scena. Ed avendo Fedria e Geta con Demifone conchiuso che si chiami Antifone e Formione, que’ due partono per eseguirlo, e Demifone s’incamina verso la sua casa Deos penates salutatum. Quì sì che termina l’azione incominciata, e può essere acconciamente la fine dell’atto. I codici della Vaticana giustificano questa osservazione, e contraddicono alla divisione dell’edizioni comunali. Altro inconveniente nasce ancora dal collocarsi per prima dell’atto II la scena che incomincia, Itane tandem uxorem duxit Antipho injussu meo? Geta va in traccia di Formione; Demifone parte dopo aver recitati {p. 136}quattro soli versi, e Geta ha eseguito già l’ incarico, ha trovato Formione, e gli ha narrato l’accaduto. Ma se l’ atto II incomincerà dalla scena di Formione con Geta, tutto procederà con ogni verisimiglianza; lo spazio che corre da un atto all’altro darà luogo alla ricerca di Formione fatta da Geta e al racconto del fatto. Tuttavolta nel dividersi in tal guisa pare che non regga il rimanente, nè possa terminar l’atto II colla scena quarta, e col verso, Sed eccum ipsum video in tempore huc se recipere; inconveniente nè anche sfuggito da’ mentovati codici della Vaticana. Che se Geta cercando Antifone il vede venire sì opportunamente e l’attende, come mai può qui terminar l’atto II e cominciare il III Enim vero Antipho? E che hanno fatto frattanto Geta e Antifone che si è enunciato? Hanno dormito, mentre i Ludii o altri pantomimi saltavano? Converrà dunque congiungere le tre scene che ora formano l’ atto III con quelle del II, le quali non permettono veruno interrompimento. Ma ciò facendo sparirà l’atto II, ed il Formione sarà composto di quattro soli atti. Quanto a me io non vi troverei veruno sconcerto; ma i Latini furono più scrupolosi de’ Greci, come apparisce dal noto verso di Orazio,

Neve minor quinto, neu sit productior actu
Fabula,
{p. 137}

e allora leverebbonsi a romore i pedanti tutti. Madama Dacier comprese la difficoltà, e per evitare che gli atti diventassero quattro, e per lasciare il teatro vuoto ragionevolmente nella fine dell’atto, pensò di sopprimere il verso sudetto Sed eccum ipsum. Così sciogliesi il nodo alla foggia marziale di Alessandro. Egli ve n’ha un’ altra più giusta che consiste in ben dividerne gli atti senza mutilar la favola. Ed a me sembra potersi ciò fare in due sole maniere ragionevoli. Ecco la prima.

Atto I incominci col verso Amicus summus meus ecc.; e termini con questo, Puer heus nemon huc prodit? Cape, da hæc Dorcio:

Atto II incominci da Adeon’ rem rediisse, ut qui mihi, ecc., e termini, Ut no imparatus sim, si adveniat Phormio:

Atto III incominci, Itane patris ais conspetum veritus, e termini, Ph. Qua via istuc facies? Get. Dicam in itinere; modo te hinc amove:

Atto IV incominci, Dem. Quid? qua profectus causa, e termini, De. Rogabo. Ch. Ubi illas ego nunc reperire possim, cogito:

Atto V Quid agam ecc.

L’altra divisione che regge ugualmente, e lascia i giusti intervalli all’azione senza veruna violenza, è questa.

{p. 138}

Atto I incominci, Amicus summus, e termini, Ut ne imparatus sim, si adveniat Phormio:

Atto II incominci, Itane patris ais conspectum, e termini, Qua via istuc facies? Get. Dicam in itinere; modo te hinc amove.

Atto III incominci, Quid? qua profectus causa? e termini, Rogabo. Ch. Ubi illas ego nunc reperire possim, cogito:

Atto IV incominci, Sos. Quid agam? quem amicum inveniam, e termini, De. At tu intro abi. Ch. Heus ne filii nostri quidem hoc resciscant, volo:

Atto V Lætus sum, ut ut meæ res se se habent.

Questa seconda divisione è stata avvertita ancora dall’autore delle Note alla mentovata edizione di Terenzio fatta in Roma nel 1767107.

Molti passi assai vaghi possono notarsi in tal commedia. Leggiadra è la descrizione della bellezza senza artificj nella persona di Fannia nella scena seconda dell’atto primo; ed è preceduta da un patetico racconto fatto con ammirabile naturalezza, In quo hæc discebat ludo, ex adverso ei loco ecc., che qui riferiremo cogli eleganti versi del {p. 139}lodato Mons. Fortiguerra:

Si stava dirimpetto a questa scuola,
Ove andava ella, certa barberia.
Ivi lei solevamo quasi sempre
Aspettar, mentre sen tornava a casa.
Ora quivi sedendo, ecco ad un tratto,
Che in noi si abbatte un giovan che piangeva.
Abbiam di ciò stupore; e lui preghiamo
A dirci la cagione. Egli: non mai
Mi è paruto, come or, misero e grave
Peso la povertade; ho visto adesso
In questo vicinato una donzella
Misera, che facea tristo lamento
Per la sua madre morta, che giaceva
Ad essa dirimpetto, e niuno amico
Aveva, o conoscente, o di suo sangue,
Che desse mano al funerale, in fuora
Di una sol vecchierella: io mi sentii
Muovere a compassione. Avea la stessa
Fanciulla il volto bello a meraviglia.
Ma che più dico? Eravam noi già tutti
Commossi. Quando subito Antifone
Comincia: vogliam noi colà portarci
Per lei vedere? Un altro: andiamci pure:
E tu ne mena adesso. Andiam, torniamo,
Veggiamo. La fanciulla è bella molto.
E tanto bella più tu la diresti,
Quanto nulla ha, che sua bellezza aiti:
Scarmigliati i capelli, i piedi nudi,
Incolta, rozza, e col pianto sul viso,
{p. 140}
Vestita malamente: alla per fine,
Se in essa il fior della beltà non era,
Avrian tai cose ogni bellezza estinta.

Bella è la quarta scena dell’atto I, in cui Geta e Fedria cercano di animare Antifone abbattuto dalla venuta del padre. Non sum apud me, egli dice; e Geta:

. . . . atqui opus est nunc cum maxume, ut sis, Antipho.
Nam si senserit te timidum pater esse, arbitrabitur
Commeruisse culpam.

E perchè, per quando gli si dica, egli rimane sempre più costernato, que’ due fingono di voler partire e lasciarlo; alla qual cosa Antifone si scuote, s’incoraggia, e si sforza di far buon viso. Le parole non ricevono soccorso da veruna prosa marginale, che ne dichiari l’azione, e pure essa chiarissimamente si comprende; il che convince d’ignoranza qualche moderno mal instruito pedante, che crede essere state le antiche tragedie e commedie mutilate da’ gramatici di quella ideata prosa che notava le azioni de’ personaggi. E chi di grazia ha rivelato a costui sì bel secreto, che gli autori nel pubblicar le loro favole l’empivano di noterelle, come fanno oggidì i moderni? Gli autori Greci ed alcuni de’ Latini {p. 141}ne erano per lo più gli attori, nè abbisognavano di tali soccorsi marginali. Essi di più erano persuasi, che un poeta dovesse talmente nel dramma manifestate i proprii concetti, che facesse comprendere, di quale azione dovesse animarla e abbellirla il rappresentatore. Quelli che leggono con intelligenza e riflessione, non ne abbisognano; e sono le desiderate noterelle del pari inutili per le teste leggere di coloro che leggono pettinandosi o amoreggiando. Osservinsi le parole che seguono:

Quid si assimulo? satin’ est?

Get.

Garris.

An.

Voltum contemplamini, hem,
Satine sic est?

Ge.

Non.

An.

Quid si sic?

Get.

Sat est.
Hem istuc serva.

È chiaro che Antifone avrà accompagnato l’azione e il volto ad ogni espressione, cangiandosi sempre per piacere al servo. E che avrebbero fatte qui alcune meschine note marginali? Senza dubbio foscamente avrebbero accennato quel che con più vantaggio si lascia all’abilità dell’attore e al discernimento di chi legge. Questa scena è tanto più vaga, quanto le cose umili sembrano meno capaci di grazia e leggiadria. Per buona ventura nel fermarmi la state del 1779 in Parma, vidi manoscritta la versione Italiana del Formione fatta dall’elegantissimo {p. 142}traduttor di Teocrito, Mosco e Bione, il chiar. P.M. Giuseppe Maria Pagnini Pistojese Carmelitano, Professore di eloquenza in quella università, il quale si compiacque di permettermi di decorare la mia nuova storia teatrale con qualche frammento della sua bella versione e del di lui nome sì degno, sì noto, sì caro alle muse Italiane. Egli me ne trasmise a Madrid qualche scena. L’anno 1784 poi, mentre io già mi trovava in Napoli, si rappresentò nel Regio Ducal Collegio de’ Nobili da’ giovani studenti della nominata università, e dalla stamperia Reale si pubblicò col testo di Terenzio corredato di un nuovo prologo latino dell’incomparabile traduttore. Ecco intanto la versione dell’additata scena:

Get.

Geta, per te è finita, se non trovi
Qualche pronto ripiego. Ora mi veggo
Cento trappole intorno all’improvviso,
Nè so come schifarle, o come uscirne.
La nostra furberia non può più a lungo
Tenersi ascosa.

Ant.

Oh come è mai turbato!

Get.

Nè mi resta a pensar più che un momento.
Il padron m’è a ridosso.

Ant.

Che ha costui?

Get.

Quando il saprà, come farò a calmare
Il suo furor? Se parlo, si riscalda;
Se taccio, imbestialisce; se mi scolpo,
{p. 143}
É un gettar voci al vento. Oh me tapino!
Per me ho paura, e il povero Antifone
Mi strazia il cuor; mi fa pietà; per lui
Sono in travaglio. In grazia sua non svigno.
Se non fosse per lui, l’avrei sbrigata.
Avrei ben provveduto a’ casi miei.
L’ira del vecchio mi daria di barba:
Avrei fatto fardello, e preso il trotto.

Ant.

Qual fuga, o latrocinio in testa ordisce Costui?

Get.

Ma dove troverò Antifone?
Per quale strada mi farò a cercarlo?

Fed.

V’ha nominato.

Ant.

Ah sì, che me l’aspetto,
Di sentirmi annunziar qualche gran male.

Fed.

Siete impazzito?

Get.

Orsù torniamo a casa.
Ei vi sta per lo più.

Fed.

Chiamiamlo indietro.

Ant.

Fermati lì.

Get.

Poffare, un grande impero,
Sia chi vuol.

Ant.

Geta.

Get.

E’ quel cui cerco appunto.

Ant.

Di’ per pietà, che nuove porti; e sbrigati,
Se puoi, ’n una parola.

Get.

V’ubbidisco.

Ant.

Su parla.

Get.

É al porto.

Ant.

Il mio?

Get.

Ci avete colto,

Ant.

Son morto.

Fed.

Eh via.

Ant.

Che dovrò far?

Fed.

Che dici?

Get.

Ho veduto suo padre, vostro zio.

Ant.

Qual riparo porrò quì su due piedi
Alla rovina mia? S’io sono astretto
{p. 144}
A dovermi, da te, Fania, staccare,
Non so che far della mia vita.

Get.

O via,
Antifon, s’è così, vie più dovete
Star bene all’erta. La fortuna ai forti
Ajuto dà.

Ant.

Non sono in me.

Get.

Bisogna
Or più che mai, che siate in voi. Se il padre
S’avvedrà, che voi siate spaurito,
Farà giudizio, che voi siate in frodo.

Fed.

É ver.

Ant.

Non so cambiarmi.

Get.

E se doveste
Qualc’altra cosa far più faticosa?

Ant.

Non posso questa, men potrei far quella.

Get.

Questo è nulla e tutt’un. Fedria, è finita.
Perchè gettiamo il tempo? Io voglio andarmene.

Fed.

Anch’io.

Ant.

Per poco in grazia. E s’io mostrassi
Questo sussiego? E’ assai?

Get.

Ciance.

Ant.

Guardatemi
In volto. Ehi, così basta?

Get.

No.

Ant.

E così?

Get.

Quasi quasi.

Ant.

E così?

Get.

Così va bene.
Tenete su le carte, e rimbeccate
Ogni suo detto, ogni parola, ond’egli
Incollorito colle sue bravate
Non v’abbia a sopraffar.

Ant.

Capisco.

Get.

A forza
{p. 145}
La Legge, la Sentenza v’obbligò.
Avete inteso? Ma chi è quel vecchio,
Che veggo là nel fondo della piazza?

Ant.

E’ desso? Non ho cuor di rimanere.

Get.

Ehi, che fate, Antifon? Qui, qui restate.

Ant.

Il mio debol conosco, e il mal ch’ho fatto.
Raccomando a voi Fania e la mia vita. ecc.

Artificiosa finalmente è la scena di Geta e Formione, ascoltando da parte Demifone, che nelle communi edizioni è la terza dell’atto II, e nella lodata edizione della versione del P. Pagnini è la seconda del medesimo atto, ed incomincia, En unquam cuiquam contumeliosius. Eccone la di lui traduzione:

Dem.

Avete inteso mai, che altr’uomo al mondo
Abbia sofferto un più villano oltraggio?
Ajutatemi in grazia.

Get.

E’ forte in collera.

For.

Bada a te: zitto. Io leverogli il ruzzo.
Poter del mondo! e Demifon sostiene,
Che questa Fania non è sua parente?
Sostiene, che costei non gli è parente?

Get.

Sì certo.

Dem.

A quel ch’io penso, ecco quel furbo.
Venite meco.

For.

Ed ei non sa chi fosse
{p. 146}
Il genitor della fanciulla?

Get.

No.

For.

Egli non sa chi fu Stilfon?

Get.

No certo.

For.

Perchè è rimasta povera e mendica,
Non si vuol più conoscere suo padre;
Di lei non si fa conto. Osserva un poco
Quel che fa l’avarizia.

Get.

Se tu ardisci
D’avarizia tacciare il mio padrone,
Ti darò ben risposta.

Dem.

Oh che sfrontato!
Ei fin s’inoltra a querelarsi il primo.

For.

Io già non ho motivo di lagnarmi
Del giovin, se contezza non ne avea;
Perchè quel poveretto già attempato,
Guadagnandosi il vitto con le braccia,
Per lo più se ne stava alla campagna,
Ov’egli aveva preso un poderetto
Di mio padre in affitto. E quel buon vecchio
A me più e più volte ha raccontato,
Che questo suo parente a lui voltate
Avea le spalle. E che buon uomo! Io certo
A’ miei giorni il miglior non ho veduto.

Get.

Vedi bel paragon di te e di lui.

For.

Che ti venga la rabbia. E s’io per tale
Tenuto non l’avessi, espor vorreimi
Con questa vostra casa a nimicizie
Sì fiere per sua figlia, che in un modo
Tanto villano tuo padron disprezza?

Get.

E continui ancora, o lingua fracida,
{p. 147}
A strapazzare il mio padrone assente?

For.

Ben gli sta.

Get.

Vuoi chetarti, galeotto?

Dem.

Geta.

Get.

Furfante, storcileggi.

Dem.

Geta.

For.

Rispondi.

Get.

Chi mi chiama? Oh ....

Dem.

Bada a te.

Get.

Costui non ha fatto altro in vostra assenza
Che affibbiarvi tutt’oggi delle ingiurie,
Da voi non meritate, a lui dovute.

Dem.

Finiamla. Io prima vi domando in grazia,
Quel giovine, se pur non v’è d’incomodo,
Che mi diate risposta, e mi spieghiate
Chi è quel vostro amico, e in qual maniera
Si dichiarava d’essermi parente.

For.

Lo cercate da me, come se a voi
Non fosse noto.

Dem.

Noto a me?

For.

Di certo.

Dem.

Io vi dico di no. Voi, che volete
Che mi sia noto, fate che mi torni
Alla memoria.

For.

Eh via. Com’ è possibile
Che quel vostro cugin non conosceste?

Dem.

Voi mi fate crepar. Ditemi il nome.

For.

Il nome? Volentier . . . .

Dem.

Perchè nol dite?

For.

Oh me tapino! m’è sfuggito il nome.

Dem.

E così?

For.

Geta, il nome suggeriscimi,
Se ti sovviene, che abbiam detto or ora.
{p. 148}
Eh, eh non lo vò dir. Voi vi volete
Pigliar gioco di me, come se voi
Nol sapeste.

Dem.

Io pigliarmi di voi gioco?

Get.

Stilfone.

For.

Alfin, che importa a me? Stilfone.

Dem.

Chi?

For.

Stilfone, vi dico, era a voi noto?

Dem.

Nè io costui giammai conobbi, e alcuno
Parente di tal nome io mai non ebbi.

For.

Possibile? Oh vergogna! Ah s’egli avesse
Lasciato mai qualche migliar di scudi.

Dem.

Che ti colga il malanno.

For.

Allor sareste
Primo a dir su a memoria il vostro stipite,
Facendovi dal nonno e dal bisnonno.

Fu questa commedia rappresentata, essendo Edili L. Postumio Albino, e L. Cornelio Merola, dalla compagnia comica di L. Ambivio Turpione e L. Attilio Prenestino colla musica di Flacco. La quarta volta si recito nel consolato di Gn. Fannio Strabone e M. Valerio Messala l’anno di Roma 593. Il poeta memore della disgrazia dell’Ecira implora nel prologo il silenzio degli spettatori, dicendo:

Ne simili ut amur fortuna atqueusi sumus,
Cum per tumultum noster Grex motus loco est,
{p. 149}
Quem actoris virtus nobis restituit locum,
Bonitasque vestra adjutans atque æquanimitas.

Potrebbe aggiugnersi che la quinta volta fu nella stessa Roma nel secolo XVI dell’era Cristiana fatta rappresentare da nobili attori per ordine del Cardinale Ippolito da Este il giovane, e vi premise il prologo il celebre Antonio Mureto. La sesta volta sarebbe questa che si è rappresentata in Parma da’ giovani studenti di quell’università l’anno 1784, e vi fece un nuovo prologo il prelodato P. Pagnini, che per l’eleganza e la venustà secondo me merita di rendersi sempre più noto:

Ætate nostra pol nihil frequentius.
Ubique locorum, quam qui faciant comicam
Extra theatra. Nonne in hemycycliis,
In officinis, in tabernis, in foro,
In ædibus potentium, ac, si diis placet,
Ipsis in aulis principum quamplurimi
Suis relictis non suas partes agunt,
Ut sapientes, ut nobiles, ut divites,
Ut docti appareant incautis, non sine
Rei qua privatæ incommodo qua publicæ?
Nec ipsi turpiora officia despuunt,
Notos, ignotos fallere, assentarier
Supremis, imis, plenos fidei perdere,
Supponere acta, scripta, sycophantias
Moliri, ac si quid hisce est impudentius,
{p. 150}
Modo id sua cum re sit. Heu scelus! Heu nefas!
At nemo jure crimini aut probro duit
Huic nostro adolescentum ingenuorum cœtui
Sine pretio prodire ornatu scenico,
Moresque vitæ deteriores fingere,
Non ut cuiquam incommodet, sed ut simul
Spectatorum delectet animos & iuvet,
Terentiana agetur ergo fabula,
Cui Phormio nomen. ecc.

L’Eunuco. Questa commedia che Terenzio trasse da Menandro, fu dagli Edili comperata al prezzo esorbitante di ottomila nummi, cui verun’ altra mai non pervenne, e si rappresentò dalla solita compagnia di Turpione ed Attilio colla musica di Flacco. La seconda volta si recito nel consolato di M. Valerio Messala e Gn. Fannio Strabone l’anno di Roma 593. Non per tanto dalla Dacier e dal Fabro si vuole che non si fosse rappresentata la seconda volta nel suddetto consolato, ma bensì due volte in un medesimo giorno, così interpretando essi quell’acta II. Convengo non essere improbabile, che sì bella commedia piacesse a’ Romani per tal modo, che se ne volessero ripetere il diletto nel medesimo giorno, come avviene di qualche aria eccellente ne’ nostri teatri musicali. Ma la nota Romana II è molto frequente nelle iscrizioni, Consul II, Consul III, Pontifex VII, {p. 151}e s’interpreta la seconda, la terza, la settima volta; or perchè solo in questa favola vuolsi che significhi bis, puntellandola con supplirvi la parola die? Bis acta est, dice lo scrittore della di lui vita; e perchè ciò direbbe (argomenta il Fabro) se non s’intendesse nel medesimo giorno? L’Eunuco si sarà rappresentata diverse volte, e perchè far menzione di due sole? Potrebbe però rispondersi in prima, che il biografo intenda di dire, che siasi rappresentata due volte in poco spazio di tempo (non già in un giorno, perchè questo farebbe stato un avvenimento ben raro in Roma, e tale che avrebbe richiesto un racconto speciale) senza poi tenersi più ragione di altre ripetizioni, cosa che sarà avvenuta ad altre commedie di Cecilio, di Plauto ecc. E tale breve spazio di tempo ben potrebbe ristrignersi all’anno del riferito consolato, non essendovi maggior verisimiglianza nell’interpretazione del Fabro II die, che in questa II anno. L’analogia poi esige che s’interpreti la seconda volta, e non già due volte. Nel Tormentatore di se stesso si dice acta III nel consolato di Sempronio e di Giuvenzio, e si spiega la terza volta; nel Formione dicesi facta IV sotto Fannio e Valerio, e s’interpreta la quarta volta; nell’Ecira troviamo scritto relata III, e s’intende la terza volta. Or perchè mai solo l’ acta II dell’Eunuco ha da ricevere la spiegazione {p. 152}di due volte in un dì?

Che che sia però di questo, dobbiamo osservare che Terenzio in tutte le sue favole, e con ispecialità in questa, si scaglia contro il poeta Luscio Lavinio suo detrattore. Egli ne riprende due commedie tratte dalla Fantasima e dal Tesoro di Menandro; e ci racconta, come dopo che gli Edili ebbero comperata la commedia dell’Eunuco, Luscio si adoperò per modo che ottenne la facoltà di esaminarla (inspiciundi) e che si cominciò a recitare, forse dallo stesso Terenzio, in presenza del magistrato. Allora l’invidioso maledico Luscio chiamò Terenzio ladro e plagiario, gridando ridicolamente, come pur fassi a’ nostri dì quando altro non si sa dire: la sua sostanza è tutta tolta dal Colace, favola scritta da Nevio e da Plauto. Terenzio nel prologo si discolpa, negando di aver mai saputo che Nevio e Plauto l’avessero posta in iscena; ma confessa ancora colla ingenuità che accompagna sempre gli uomini che non iscarseggiano di merito, che dal Colace di Menandro egli ha tratto i personaggi del parassito e del soldato. L’azione dell’Eunuco consiste in un dono fatto da un suo amante a Taide di una fanciulla ch’ella sa esser cittadina Ateniese, e in un altro dono, fattole da un altro suo innamorato, di un Eunuco, in vece di cui vi è menato un vivace giovanetto preso repentinamente {p. 153}dalla bellezza di quella fanciulla, la quale di poi gli diventa moglie. La favola è condotta con buona economia e con ispecial grazia e vaghezza. Ma sopra ogni altra cosa le pitture degl’ innamorati Fedria e Cherea sono così vere e leggiadre, che diventano una tacita satira di quasi tutti gl’ innamorati scenici moderni, i quali o sogliono essere sofistici e ghiribizzosi metafisici, come nelle commedie Spagnuole, o manierati belli-spiriti, come nelle Francesi, o fantastici trovatori di ardite metafore, di studiati epigrammi e di strani rettorici pensamenti, come nelle Italiane specialmente di una gran parte del XVII secolo. Si sgomenta ogni scrittor di buon gusto nel voler prestare i concetti a un innamorato, rammentandosi di Fedria sulla soglia di Taide. Quattro versi che danno principio a questa favola, sono la disperazione degli scrittori teatrali intelligenti. Trascriverei di buon grado l’intera prima scena originale, ma per compiacere qualche volta a chi si conforma più volentieri all’uso Francese di addurre delle lingue morte i frammenti tradotti, ne recherò una mia versione qualunque essa siasi, sempre inculcando di leggersi i versi stessi di Terenzio:

Fed.

Che farò dunque? Non vi andrò? Nemmeno
Or che di suo volere a se mi chiama?
{p. 154}
O mi armerò piuttosto di costanza,
Per non soffrir mai più d’esser trastullo
Di femminacce lusinghiere e false?
Mi scacciò . . . . mi rappella . . . .!
Tornerò? . . . No, per dio, no, se venisse
A mani giunte a domandar mercede.

Par.

Purchè il possa tu far, non v’ha di questa
Nè più gloriosa, nè più forte impresa.
Ma pensa ben, che se cominci, e cessi
A mezza strada, se da lei lontano
Dimostri che la vita ti rincresca,
E senza esser chiamato, e nel più forte
Del cruccio, da te stesso ti presenti
Alla sua soglia, e l’amor tuo palesi,
E quanto in odio a lei, te stesso abborri,
Tu sei perduto. Si avvedrà che schiavo,
Che in lacci sei, che ti dibatti invano,
E del suo fasto diverrai lo scherno.
Pensaci ben, padrone, or che vi è tempo.
Ciò che in se non ha modo nè consiglio,
Guidar colla prudenza invan presumi.
Queste vicende e questi vizii tutti
Accompagnan l’amor: sospetti, ingiurie,
Inimicizie e tregue, e guerre e paci.
Tu se tai cose instabili con ferma
Norma regger vorrai, sarà lo stesso
Che volere impazzir colla ragione.
E quel che irato or nel tuo cuor rivolgi:
Io lei? che quel . . .? che me? . . . che non . . .? Vedrai . . .
{p. 155}
Oh! pria morrò; saprà qual uom mi sia.
Tutto questo apparecchio di disdegno
In fede mia ammorzerà repente
Solo una insidiosa lagrimuccia
Che, dopo lungo strofinarsi d’occhi,
In essi a stento imbambolar vedrai.
E tu anzi reo del meritato sdegno
Ti chiamerai, chiedendo in grazia ancora
Un supplicio che lavi ogni tua colpa.

Fed.

Ribalda, indegna! Or sì conosco bene
La sua nequizia, e la miseria mia,
E me ne incresce, e di amor muojo, e il veggo,
E il so, nè mi trattengo, e da occhi aperti,
Corro a morir, nè so che far mi debba.

Par.

Non sai che far? La libertà perduta
Al minor prezzo che possibil fia
Cerca di riscattar; e se non puoi
Con poco, abbi l’intento ancor con molto,
E con quanto possiedi, e ti consola.

Fed.

Così tu pensi?

Par.

E così far tu devi,
Se saggio sei, nè rendere maggiori
I mali e le molestie dell’amore,
E alla meglio soffrir quelle che ha seco.
Ma la tempesta de’ poderi nostri
Ecco fuori sen vien, che i dolci frutti
Che noi coglier dobbiam, via se ne porta.

Della bellissima scena seconda di Taide con Fedria e Parmenone potrebbero addursi {p. 156}varii squarci pregevoli; ma basti il seguente, che sempre più può ammaestrare gli scrittori teatrali ad esprimere col vero linguaggio il pensare di un innamorato. Addio, mia bella Taide (dice Fedria) sino a che passino questi due giorni. Addio, mio caro Fedria; vuoi tu da me qualche altra cosa? Ed egli:

. . . . . . Egone quid velim?
Cum milite isto præsens, absens ut sies:
Dies, noctesque me ames, me desideres,
Me somnies, me expectes, de me cogites,
Me speres, me te oblectes, mecum tota sis.
Meus fac sis postremo animus, quando ego sum tuus.

I quali pensieri così ha felicemente espressi il Fortiguerra:

. . . . . . . Quel che vogl’ io?
Vò che presente a codesto soldato
Tu stia come lontana: e notte e giorno
Me ami, me desti, me sogni e aspetti,
A me pensi, in me speri, e in me ti allegri,
In somma che di me tutta tu sii,
Quando io son tutto tuo.

Grande, forte, difficile ad esser raffrenata o a soggiogarsi è la passione di Fedria; ma infocata, vivida, impetuosa è quella {p. 157}del giovinetto Cherea. Che maestrevole varietà nel maneggiare un medesimo affetto! Odasi in qual maniera egli favelli nel volgare idioma per mezzo del medesimo Fortiguerra, e dalla bellezza della copia si argomenti la vivacità del colorito originale, e si confrontino:

Son morto: mi è sparita la fanciulla:
Ed io che fino a qui le tenni d’occhio,
Più non la vedo. E dove or cercherolla?
Ove rintraccerolla? E a qual persona
Domanderonne? E qual terrò camino?
Non sollo. Ma quest’unica speranza
Mi resta, che dovunque ella si sia,
Non potrà lungo tempo star celata.
O bellissimo volto! In questo punto
Cancello dal mio cuor tutte le donne,
Che mi fan noja i visi del paese.

Leggansi in quest’altro passo tradotto dalla medesima mano le di lui espressioni dopo essere stato in casa di Taide, donde esce pieno di giubilo e dolcezza:

Evvi alcun qui dappresso? Non vi è alcuno.
Evvi alcun che mi seguiti? Nessuno.
Or dunque potrò io liberamente
Tutta sfogar l’interna mia allegrezza
O Giove, adesso è il tempo certamente
Che soffro in pace, se mi fai morire,
{p. 158}
Acciochè a lungo andare alcuno affanno
Non contamini questo mio piacere.
Ma vorrei pure abbattermi in taluno
Che curioso mi venisse appresso,
E mi ammazzasse con cento domande,
Dove io vada? donde esca? e che pretenda?
Perchè tanta allegrezza e tanto brio?
Da chi preso abbia questo vestimento?
Se sto in cervello, o se sono impazzito?

Noi non rechiamo queste poche bellezze, se non per eccitare gli studiosi giovani alla lettura ragionata delle commedie di Terenzio, nella quale si abbatteranno in moltissime altre che lasciansi alla loro diligenza, abbondandone questa bella favola forse la migliore tralle Latine. Non vediamo però su qual ragionevol fondamento abbia l’autore delle Note della soprannominata edizione Romana di Terenzio del 1767 voluto opporsi alla solita divisione degli atti dell’Eunuco. A suo credere l’atto I non dee terminare colle parole di Taide, Concedam hinc intro, atque expectabo dum venit. Dice quest’erudito: Probari qui potest eorum sententia, qui finem huic actui imponunt (quod cœteroquin in omnibus fere Terentii comœdiarum editionibus fieri animadverti), quum adhuc Phædria & Parmeno scenam occupent. Suppone l’annotatore che Fedria e Parmenone, mentre Taide favella, stiano ancora {p. 159}in iscena, e quando quella n’è partita, proseguano il discorso tenuto dell’ancella e dell’eunuco da condursi nella di lei casa. Ma l’azione parmi che avvenga diversamente da quello ch’egli pensa. Fedria parte dal proscenio dopo il verso, Meus fac sis postremo animus, quando ego sum tuus, e con Parmenone entra nella propria casa per accingersi al picciolo viaggio che vuol fare in villa per passarvi il biduo penoso. Taide rimane affliggendosi di non esser creduta da Fedria ch’ella ama di buon senno; accenna di volere col dono della fanciulla che attende dal soldato, rendersi benevolo il di lei fratello; entra in sua casa; e così termina benissimo l’atto primo. Nel II esce Fedria con Parmenone, e, come a tutti gli uomini avviene e spezialmente agl’ innamorati, in procinto di andar via ripete al servo che eseguisca i suoi ordini intorno al menare l’ancella e l’eunuco a Taide. In tale azione così condotta e distribuita non havvi cosa irregolare per la quale abbiasi a rifiutare la comune divisione. L’unico motivo che ebbe l’annotatore di censurarla, è che Fedria parla della medesima cosa accennata con Taide. Ma sarebbe strano che in due parole la ripetesse nel momento di partire? Lascio poi da parte che la divisione da quel letterato proposta senza verun bisogno, mi sembri sproporzionata, perchè egli vorrebbe che i due primi atti ne formassero {p. 160}un solo, ed il II delle solite edizioni si dividesse in due ben piccioli.

Gli Adelfi. Non so come mai i gramatici che da varii passi degli antichi raccolsero le notizie appartenenti alla vita di Terenzio, abbiano francamente asserito che questa favola fosse tratta da una di Menandro. Niun critico, per quanto io sappia, ha considerato che Terenzio stesso a chiarissime note ha detto di doverla al comicissimo Difilo, e intitolarsi in Greco Synapothnescontes, che i comentatori interpretarono devoti, consecrati a correre la stessa sorte col loro sovrano. Ci dice in oltre che Plauto dalla favola di Difilo trasse la sua intitolata Commorientes; ma che avendo in essa lasciata intatta l’avventura del giovane che tolse a viva forza una meretrice a un ruffiano, egli ha voluto approfittarsi di questa parte non toccata, per tessere questa sua commedia. L’intitolò Adelphi per avervi introdotti due bellissimi caratteri di due fratelli di umore e di costumi opposti, i quali formano un piacevolissimo contrasto comico. Mizione e Demea sono gli originali di moltissime copie moderne di caratteri che graziosamente si combattono sulle scene. Mizione senza moglie, senza figli, pieno di comodi e di ricchezze, urbano, indulgente, piacevole, benefico: Demea ammogliato, con due figliuoli, pieno di cure, laborioso, severo, burbero, tenace. {p. 161}Quegli sempre tranquillo e lieto, questi sempre agitato e collerico. Mizione per sollevare alquanto il fratello adotta Eschino il primo de’ di lui figliuoli, e con una educazione dolce e indulgente, sebbene gli dà la facilità di soddisfare a’ suoi capricci giovanili, almeno l’incamina all’ingenuità e fasselo amico. Demea rigido e molesto coll’ educazione aspra, zotica e nojosa data a Ctesifone, senza correggerne i vizii della giovanezza, l’obbliga a ricorrere alla dissimulazione e all’ipocrisia, e da se lo aliena. Demea ignorando le passioni, il pensare e la vita del figlio da lui educato, lo crede dedito interamente alle cose rusticali e lontano dalle solite debolezze giovanili, e si occupa solo nel pensiero della vita menata da Eschino, e ne censura e riprende il fratello Mizione. Egli ha saputo che Eschino ha violentata la casa di un ruffiano, bastonandolo e togliendogli una meretrice. Ma egli ignora che questa donna è l’amata da Ctesifone, cui Eschino ha preteso favorire col torla al ruffiano. Crede egli che Ctesifone sia in villa, mentre si trova colla sua donna e con Eschino in casa di Mizione. Ognuno vede qual fonte di piacevolezza contenga il carattere di questo vecchio severo che s’immagina di essere abbastanza vigilante, e di sapere gli sconcerti di sua casa prima di ogni altro, quando egli è il solo che n’è sempre all’oscuro:

{p. 162}
Primus sentio mala nostra, primus rescisco omnia,
Primus porrò obnuncio. Ægre solus, si quid fit, fero.

Egli sel crede, e n’è deriso da Siro:

Rideo hunc, primum ait se scire, is solus nescit omnia.

Ne’ casi di Panfila fatta madre da Eschino gli avviene lo stesso. Ei tardi n’è instruito da Egione, e più tardi ancora e fuor di tempo ne viene a schiamazzare col fratello allorchè tutto è quieto, e si sono conchiuse le nozze di Eschino e di Panfila. Eccita parimente il riso quando, accorgendosi che l’indulgenza di Mizione lo rende a tutti caro ed accetto, pensa d’imitarlo, benchè a spese del fratello; e sforzando il proprio naturale lo consiglia ad usare varie liberalità ed a congiungersi in matrimonio con Sostrata. Tralle bellezze più degne di notarsi in questa commedia si vogliono collocare le ottime regole di educazione che si ricavano dalla prima scena, le quali usate colla dovuta moderazione incaminerebbero i giovani alla sincerità e alla candidezza, là dove l’educazione rigida e indiscreta gli scorge all’ ipocrisia e alla doppiezza. Dice Mizione:

. . . . . . Quæ fert adolescentia,
{p. 163}
Ea ne me celet, consuefeci filium:
Nam qui mentiri, aut fallere insuevit patrem, aut
Audebit, tanto magis audebit cæteros.
Pudore & liberalitate liberos
Retinere satius esse credo, quam metu.

Demea mio fratello (soggiugne Mizione) oltre al dovere è duro e severo:

Et errat longe, mea quidem sententia,
Qui imperium credat gravius esse aut stabilius,
Vi quod fit, quam illud quod amicitiæ adjungitur.
Mea sic est ratio, & sic animum induco meum;
Malo coactus qui suum officium facit,
Dum id rescitum iri credit, tantisper cavet,
Si sperat fore clam, rursum ad ingenium redit.
Ille quem beneficio adjungas, ex animo facit;
Studet par referre, præsens, absensque idem erit.
Hoc patrium est, potius consuefacere filium,
Sua sponte rectè facere, quam alieno metu.
Hoc pater ac dominus interest, hoc qui nequit,
Fateatur se nescire imperare liberis.

Io mi credo che questi aurei versi ben ponderati risparmierebbero a molti la fatica di {p. 164}accumular volumi sull’ educazione domestica. Per ciò che riguarda la comica piacevolezza merita di osservarsi la scena terza dell’atto III di Demea con Siro. Applaudesi il vecchio della propria maniera di pensare, e censura quella del fratello, coll’ occasione del trascorso di Eschino; ed il servo con graziosa ironia loda la di lui saviezza, il prudente antivedere, le massime assennate. Il vecchio entrato a far l’elogio di se stesso non la finisce mai, e il servo fa una parodia delle di lui sentenze applicandole alla sua cucina. Veggasi questo passo nella versione del Fortiguerra.

Dem.

Oh in questo ci sto tutto, e non mai lascio
Passargliene veruna, e in guisa tale
A bene oprar l’avvezzo. Finalmente
Gli comando, che come in uno specchio
Egli contempli di ciascun la vita,
E quindi apprenda dalle azioni altrui
A farsi esempio e regola a se stesso.
Questo, dico, è da farsi.

Sir.

Bene al certo.

Dem.

Quest’altre è da fuggirsi.

Sir.

Con giudizio.

Dem.

Questo degno è di lode.

Sir.

Util consiglio.

Dem.

Questo di biasmo.

Sir.

Insegnamento raro.

Dem.

Ma per meglio spiegarmi . . . .

Sir.

Non ho tempo
{p. 165}
Or di ascoltarti, che mi son comprati
Que’ pesci a gusto mio, e a me si aspetta
Lo stare attento, onde non vadan male:
Che tanto a noi si ascriverebbe a colpa
Una tal negligenza, quanto a voi
Quelle cose non far, che avete detto.
Però nel modo stesso a’ miei conservi
Che al figlio tu comandi, io pur comando.
Questo è troppo salato: arsiccio troppo
È questo: e lavato han poco quest’altro;
Quello è squisito, raro: un’ altra volta
Che tu lo debba cuocer, ti rammenta
Di non mutare intingoli; ed a tutti,
Per quanto so, do regole e precetti.
Insin comando lor che fissin gli occhi
Nelle stoviglie, come in uno specchio,
E mostro lor come hansi a contenere.

Siro stesso nella seconda scena dell’atto quarto, per allontanarlo da quelle vicinanze e dalla casa del fratello dove si trova Ctesifone, lo manda a cercar Mizione altrove, insegnandogli un camino lungo e intralciato, sì che non ne esca in tutto il giorno. Ciò è stato imitato da qualche commediografo Italiano, e spezialmente dal Porta. Nella quinta scena del medesimo atto quarto è notabile la riprensione moderata e savia che fa ad Eschino il buon Mizione, e che recheremo parimente colle parole del più volte lodato elegante traduttore:

. . . . . . . Or dimmi un poco
{p. 166}
In qual città ti credi tu di stare?
Facesti oltraggio ad una verginella
Cui di toccar nessun diritto avevi.
Già questa ella è gran colpa,
Ma pure umana, e che commiser molti,
E delle volte ancor que’ che fur buoni.
Ma perchè, dimmi, dopo fatto il male
Tu non pensasti a dargli alcun rimedio?
Forse da te cercasti a provvederci?
O già che ti prendea di me vergogna,
Nè da te stesso mel volesti dire,
Di alcun cercasti acciochè mel dicesse?
E in mezzo a queste tue tante incertezze
Eccoti dieci mesi già passati:
Così te stesso e quella sventurata
Hai rovinato, ed anco il tuo figliuolo,
Per quel che ti appartenne. Ti credevi,
Che a te, dormendo colla pancia all’aria,
Dovessero gli dei porgere aita?
E menarti la sposa insino al letto?
Non ti vorrei nel resto delle cose
Negligente, conforme fosti in questa.
Ma stammi allegro. Avrai costei per moglie.

Non è da omettersi la grazia della escandescenza di Demea, e l’epilogo delle disgrazie e dei delirii della sua famiglia che egli fa nella scena ultima del medesimo atto quarto coll’ impeto consueto del suo carattere:

. . . . . . . . . . . O jupiter?
Hanccine vitam? hoscine mores? hanc dementiam?
{p. 167}
Uxor sine dote veniet: intus psaltria est:
Domu’ sumptuosa, adolescens luxi perditus:
Senex delirans: ipsa si cupiat Salus
Servare prorsus, non potest hanc familiam.

L’ultima favola fu questa che Terenzio espose sulle scene Romane. Ciò avvenne, secondo l’epigrafe apposta alle comuni edizioni, ne’ giuochi funebri di L. Emilio Paolo fatti da Q. Fabio Massimo e P. Cornelio Africano sotto il consolato di L. Anicio Gallo e M. Cornelio Cetego l’ anno di Roma 593, secondo il Fabro de ætate Terentii, essendo rappresentata dalla compagnia di Attilio Prenestino e da Minuzio Protimo colla musica di Flacco. Anche questa commedia fu nel nativo linguaggio recitata nell’Italia moderna nel secolo XVI, allorchè si recò a Ferrara il Pontefice Paolo III, da i più nobili attori della corte del Duca Ercole II, cioè da’ medesimi di lui figliuoli.

Questo comico elegantissimo si vuole nato in Cartagine circa l’anno di Roma 560 nove anni prima della morte di Plauto. Fenestella affermò esser egli nato e morto tra il fornire della seconda guerra Punica e l’ incominciar della terza, cioè al terminar del sesto secolo. Dunque dopo non molto della recita degli Adelfi morì Terenzio, o per meglio dire sparì, nè altro se ne {p. 168}seppe dal consolato di Cn. Cornelio Dolabella e M. Fulvio Nobiliore in poi, che cade nell’anno 594. Vuolsi che di anni trentaquattro in circa s’imbarcasse per la Grecia o per l’Asia. Alcuno asserisce ch’ei morisse povero in Stinfalo di Arcadia; altri ch’egli naufragasse di ritorno dalla Grecia, e perissero con lui cento e otto commedie greche che avea tradotte. Ma chi leggerà attentamente le sei da lui con tanta eleganza e delicatezza composte in Roma, crederà con somma difficoltà che avesse potuto scrivere commedie a centinaja, senza supporre che vissuto fosse sino all’ultima vecchiaja in Grecia, e che avesse trascurato di tornare in Roma dove le sue fatiche erano così bene premiate ed onorate. E a qual altro oggetto avrebbe egli recate nella latina lingua tante greche ricchezze?

Afranio compose pel teatro comico dopo Terenzio, ma cercò d’imitarlo, e ’l tenne per incomparabile, siccome attestò nella sua commedia intitolata Compitalia,

Terentio similem non dices quempiam.

Egli studiossi ancora d’imitar l’oratore e tragico soprallodato Cajo Tizio; e Cicerone che ce ne istruisce, esalta l’ingegno, l’argutezza e l’eleganza di Afranio108. Anche {p. 169}Quintiliano109 lo commenda assai senza lasciar però di riprenderlo per l’oscenità degli amori da lui recati sulle scene. Suetonio mentova una di lui commedia togata detta l’Incendio, nella quale, quando si ripetè ne’ Giuochi Massimi celebrati da Nerone, quest’imperadore permise per magnificenza che gli attori saccheggiassero la suppellettile della casa che ardeva. Orazio ne dice che appo i Romani Afranio si considerava come il comico che più si avvicinava a Menandro,

Dicitur Afrani toga convenisse Menandro.

Senza dubbio lo studio che posero tali scrittori, e singolarmente Nevio, Plauto, Cecilio, Terenzio ed Afranio, in imitare i Greci, portò in Roma l’arte comica a un certo lustro notabile. Ma forse per non avere essi ad altra gloria aspirato che a quella di traduttori ingegnosi, si rimasero indietro, mostrando nell’ordinar le cose tolte a’ Greci una immaginazione più tosto temperata e giudiziosa che originale ed atta ad inventare. Quindi è che Quintiliano ingenuamente confessava esser la commedia la parte più debole de’ Romani110, e Giulio {p. 170}Cesare nell’urbana censura fatta a Terenzio riconosceva in lui Menandro ma dimezzato, e Aulo Gellio111 nel paragonar Cecilio con Menandro, Posidio, Apollodoro ed Alesside, vedeva ad occhi le latine favole, al confronto de’ greci originali onde traevansi, indebolirsi e scemar di pregio (Nota VII).

IV.
Splendidezza della scena Latina, e Censori teatrali. §

Ma già era cessata in gran parte la disistima in cui i Romani tennero per lungo tempo i poeti teatrali, secondochè affermò Cicerone112. I gran personaggi della repubblica già pregiavansi di esser detti amici de’ Terenzii tuttochè stranieri e servi. Già la scena spiegava tutto il lusso, il fasto e la magnificenza conveniente a un popolo arricchito delle spoglie di tanto mondo. Cajo Pulcro l’abbellì colla varietà de’ colori; Cajo Antonio la coprì tutta di argento, Petrejo di oro, Catulo di avorio; i Luculli la renderono versatile; Pompeo il grande, cui si attribuisce il primo teatro stabile fabbricato in Roma, colla frescura {p. 171}delle acque che fecevi serpeggiare, vi attemperò gli ardori estivi; e Marco Scauro v’introdusse una sontuosità straordinaria ne’ vestiti e nelle decorazioni, e fe costruire il suo magnifico teatro ricco di marmi e di cristalli, e pomposamente ornato di trecentosessanta colonne, il quale era capace di più di ottantamila spettatori113. Finalmente non istimarono i bellicosi Romani sconvenevole alla loro grandezza stabilire una deputazione di cinque censori destinati a rivedere i drammi da rappresentarsi, per contenere i poeti ne’ limiti dovuti. Senza l’approvazione di alcuno di essi non compariva sulla scena componimento veruno. I loro congressi facevansi nel tempio di Apollo o delle Muse, ove i poeti recavansi a recitar le loro favole. Spurio Mecio o Mezio Tarpa era il più assiduo e diligente de’ cinque censori. Cicerone parla di lui nella prima epistola del settimo libro delle Famigliari, ed Orazio ne fa menzione nella satira decima del primo libro:

. . . . . . . hæc ego ludo,
Quæ nec in æde sonent certantia, judice Tarpa114.
{p. 172}

CAPO IV.
Ultima epoca della Drammatica nel finir della Repubblica, e sotto i primi Imperadori. §

I.
Drammatici illustri di quest’epoca. §

Nel rimanente della Repubblica e sotto i primi Imperadori applicaronsi alla poesia rappresentativa, non che i liberti e gli stranieri eruditi, i più cospicui personaggi di Roma. Lasciando da banda il romore che correva nella città, che nelle commedie di Terenzio avessero avuto parte Lelio e Scipione, Plutarco ci fa sapere che il Dittatore L. Cornelio Silla compose varie commedie satiriche (Nota VIII). Il fondatore dell’Impero Romano Giulio Cesare scrisse una tragedia intitolata Edipo, oltre ad alcune altre chiamate Giulie, delle quali il di lui successore proibì di poi la pubblicazione. Sotto Augusto, il quale pure incominciò un Ajace, Aristio Fusco scrisse commedie togate: un altro Cajo Tizio (diverso dall’oratore soprannomato) secondo Orazio {p. 173}fu buon poeta lirico e scrisse ancora tragedie: Ovidio fece una Medea, della quale abbiamo un frammento in Quintiliano: e il famoso Mecenate, oltre a’ varii poemi, compose alcune tragedie, come il Prometeo citato da Seneca, e l’Ottavia mentovata da Prisciano. Tutto è perito quel che scrisse questo celebre favorito di Augusto, a riserba di qualche verso, come questo

Nec tumulum curo, sepelit natura relictos.

Sotto il medesimo Augusto fu composta l’eccellente tragedia intitolata Tieste tanto esaltata nel dialogo intorno agli oratori attribuito a Tacito, la quale, a giudizio di Quintiliano, poteva degnamente compararsi colle migliori tragedie Greche; e pure, come abbiamo accennato, egli riconobbe sinceramente la debolezza de’ comici Latini al confronto de’ Greci. Questo Tieste comunemente stimavasi produzione di Quinto Varo o Vario, che con Tucca e Plozio fu deputato da Augusto alla correzione dell’Eneide. Ma Elio Donato e Servio credettero che il Tieste fosse stato scritto da Virgilio, e dato alla moglie di Vario, la quale coltivava le lettere, e che di poi da costui si fosse pubblicata come propria. V’è chi sospettò che fosse opera di Cassio Severo Parmigiano, del quale parla Orazio nell’epistola ad Albio {p. 174}Tibullo115. Chiaro sotto il medesimo Augusto fu Cajo Asinio Pollione pe’ talenti tragici e per altri meriti letterarii, per la presa di Salona in Dalmazia, per l’onor del trionfo e pel consolato, e celebrato da i due maggiori ingegni onde si vanti la poesia Latina, Virgilio ed Orazio. Se di tragedie intenda di favellare quest’ultimo nell’ode che a lui indirizza116, Pollione ebbe anche il merito di uscire da’ soliti argomenti tratti da Omero e dalle favole Greche, ed esporre con nobile intrepidezza sul teatro di Roma la civile querela di Cesare, e Pompeo, ed il giogo imposto dal vincitore a tutta la terra, fuorchè al gran cuore di Catone,

Et cuncta terrarum subacta
Præter atrocem animum Catonis117.

Parve però il di lui stile così duro e secco, come quello di Pacuvio e di Accio, all’autore {p. 175}del dialogo De causis corruptæ eloquentiæ118.

Germanico figliuolo di Druso e di Antonia minore, insigne capitano, vero eroe ancor dopo estinta la Repubblica, e che colla posterità non ebbe altro demerito se non di aver prodotto Cajo Caligola, fu parimente orator grande e poeta esimio, e tralle altre sue fatiche letterarie compose alcune commedie Greche119. Mamerco Scauro sotto Tiberio scrisse anche una tragedia, la quale cagionò la morte dell’autore, senzachè gli giovasse l’amicizia di Sejano, essendo stato accusato occultamente da Macrone di averla scritta espressamente per mordere la condotta dell’Imperadore120. Per quel che narra Suetonio l’Imperador Claudio fe recitare nel certame Napolitano una sua commedia Greca per onorare il soprallodato Germanico suo fratello. Troviamo indi nel precitato autore del dialogo sulla corruzione dell’eloquenza sommamente esaltate le tragedie la Medea, il Tieste, il Catone, il Domizio del celebre poeta e giure-consulto Curiazio Materno. Oltre al nominato autore di quel dialogo, Tacito più di {p. 176}una volta negli Annali fa menzione di Pomponio Secondo di cui Plinio il naturalista avea composta la vita. Le tragedie di questo Pomponio, dal Marchese Maffei nella Verona illustrata tenuto per Veronese, furono sopra ogni altra pregiate per l’erudizione e per l’ eleganza, benchè i vecchi l’accusavano di non essere abbastanza tragico121 (Nota IX). Plinio il giovane, che, come egli stesso ci attesta122, nell’età di quattordici anni scrisse in Greca favella una tragedia, rammenta con grandi encomii le commedie togate di Virgilio Romano degne di aver luogo, secondo lui, fra quelle di Plauto e di Terenzio123. Un’ altra Medea prese anche a scrivere M. Anneo Lucano che lasciò imperfetta. Della tanto applaudita Agave di Stazio ci ha conservata la memoria Giovenale, come altresì dell’Atreo di Rubreno Lappa. Persio ci parla di alcuni suoi contemporanei che avendo composta una tragedia d’Issipile montarono essi medesimi sul pulpito a recitarla.

{p. 177}

II.
Tragedie attribuite a Seneca. §

Di tante produzioni drammatiche scritte a un di presso sotto i primi Imperadori da personaggi ragguardevoli, non sono a noi pervenute se non le dieci tragedie attribuite a Seneca, le quali (che che ne dica Martin Del Rio e qualche altro) appartengono fuor di dubbio almeno a quattro scrittori, se la differenza del gusto e dello stile può servirci di scorta a conoscerne l’autore. Danno i critici più scorti124 a Lucio Anneo Seneca il filosofo, la Medea, l’Ippolito e la Troade: a Marco Anneo Seneca il tragico, l’Edipo, l’Ercole furioso, l’Agamennone, il Tieste, e v’ha chi vi unisce anche l’Ercole Eteo: a qualche sofista imitatore di Marco la Tebaide, benchè Giusto Lipsio vorrebbe riferirla al felice secolo di Augusto: e ad alcun novizio declamatore l’Ottavia.

Se vogliansi queste tragedie paragonare in generale colle Greche, si troveranno assai {p. 178}inferiori, scorgendosi in tutte poco o molto la gonfiezza e lo spirito di declamazione sostituito alla vera sublimità e alla passione. Ma si tradirebbe la verità, se si trascurasse, come di ordinario avviene, di rilevarne colla serenità di storico critico alcune bellezze che in esse si trovano.

La Medea. Se v’ha tralle tragedie Latine conservate alcuna che possa sostenere il confronto delle Greche, è questa Medea. L’autore manifesta di avere abbastanza conosciuto il carattere del sublime tragico e sentenzioso. Il piano semplice è lavorato sulla Greca di Euripide; ma in alcune parti è alterato, e talvolta con qualche miglioramento. Tutto va senza intoppi al suo scopo, tutto è animato dalla passione, e pochi sono que’ passi, ne’ quali possa dirsi di aver più parte la mente che il cuore. Il soliloquio di Medea che forma l’atto primo e serve d’introduzione, è vigoroso. Invocati gli dei che presiedono alle nozze funeste, come furono le sue, e il caos e le furie (che può risentirsi alcun poco della declamazione che s’imputa all’autore) si determina a una vendetta orrenda. In parole altiere, e quali dall’acuto critico Boileau vengono accordate allo sdegno e all’indignazione125, dà ad intendere i delitti e la strage {p. 179}che medita:

Quodcumque vidit Phasis aut Pontus nefas,
Videbit Isthmos. Effera, ignota, horrida,
Tremenda cælo pariter ac terris mala
Mens intus agitat, vulnera, & cædem, & vagum
Funus per artus. Levia memoravi nimis:
Hæc virgo feci, gravior exsurgat dolor;
Majora jam me scelera post partus decent.

Nell’epitalamio cantato dal coro per le nozze di Giasone con Creusa vedesi il progresso dell’azione; e Medea dice nel cominciar l’atto II:

Occidimus, aures pepulit hymenæus meas.
Hoc facere Jason potuit?

Cresce il suo furore; numera i passati delitti da lei commessi per amore, e soggiugne,

. . . . . . nullum scelus
Irata feci.
{p. 180}

Sommamente energica è la risposta che dà alla Nutrice, quando questa le rappresenta che si trova priva di ogni soccorso. Ecco le parole di entrambe:

Tut.

Abiere Colchi, Conjugis nulla est fides,
Nihilque superest opibus tantis tibi.

Med.

Medea superest.

Questa sublime risposta è seguita da un dialogo enfatico e rapido:

Nut.

Rex est timendus.

Med.

Rex meus fuerat pater.

Nut.

Non metuis arma?

Med.

Sint licet terra edita.

Nut.

Moriere.

Med.

Cupio.

Nut.

Profuge.

Met.

Pœnituit fugæ.
Medea fugiam?

Nut.

Mater es.

Med.

Cui sim, vides.

Nella scena con Creonte scernesi il medesimo artificio della tragedia Greca; ma si vuol notare in questa Latina che Medea in mezzo alle preghiere serba certo nobile contegno che tira l’attenzione. Di più l’ interesse in questa par maggiore, perchè Seneca ingegnosamente suppone esser Giasone astretto a sposar Creusa per evitar la morte, perchè Acasto figliuolo di Pelia minaccia di saccheggiar Corinto, se Creonte non rende i colpevoli al castigo che gli attende. {p. 181}Or Giasone provvede alla sua salvezza promettendo di sposar la figlia di Creonte, e Medea rimane sola la vittima dello Stato, e quindi obbligata ad abbandonar tosto Corinto ottiene a stento la dilazione di un solo giorno. Nell’atto terzo è una scena piena di bellezze l’incontro di Giasone e Medea. Vi si mostra alla prima meno odiosa l’infedeltà di Giasone e in certo modo scusabile, trovandosi egli nella dura necessità di morire insieme con i figliuoli, o di tradir Medea:

. . . . . . . . . Si vellem fidem
Præstare meritis conjugis, letho fuit
Caput offerendum: si mori nolimus, fide
Misero carendum est. Non timor vincit virum,
Sed trepida pietas . . . . . . .
Nati patrem vicere.

L’indignazione, l’impeto, l’orgoglio, tutta in somma ad ogni tratto Medea si manifesta. Avvedutasi di Giasone gli va incontro con questa amara ironìa:

Fugimus, Jason, fugimus: hoc non est novum.

Ma dove andrà?

. . . . . . . Phasim & Colchos petam,
Patriumque regnum?
{p. 182}

la qual cosa è tratta dalla Medea di Euripide. Giasone le domanda,

Objicere crimen quod potes tandem mihi?

ed ella, quodcumque feci, risponde con enfasi, disdegno e calore. La stessa sublimità spicca nella risposta data all’altra di lui domanda:

Jaf.

Quid facere possim, eloquere.

Med.

Pro me vel scelus.

Si scusa lo sposo infedele col timore de’ due re Creonte ed Acasto, hinc rex & illinc; e Medea minaccevole gli ricorda quanto sia più da temersi la sola Medea,

. . . . . . . Est & his major metus Medea.

Alta extimesco sceptra, soggiugne Giasone; e Medea rinfacciandogli le di lui mire ambiziose replica, ne cupias vide. Giasone vuol troncare il discorso, ed ella freme, invoca Giove, ne implora i fulmini sopra qualunque di loro due. Tenta egli in fine di moderarne le furie ad ogni costo, insinuandole di chiedere qualche conforto; al che ella domanda i figliuoli per condurli seco. Ma il padre risolutamente si oppone, manifestando la somma tenerezza che ha per essi,

{p. 183}
Spiritu citius queam
Carere, membris, luce.

Come? tanto trasporto? Sic gnatos amat? dice Medea maravigliata: Bene est; tenetur; vulneri patuit locus. Questa bellezza, questa giudiziosa catena di pensieri, questa origine dell’ultimo gran delitto di Medea così scortamente disviluppata, è pure sfuggita ad Euripide. Ma le studiate bellezze poetiche profuse nell’ atto quarto, allorchè la Nutrice novera i veleni raccolti e gl’ incantesimi soverchiamente particolareggiati con descrizioni mitologiche e geografiche, appartengono a tutt’altro genere che al drammatico; benchè l’azione onde venivano accompagnati, dovea forse produrre sulla scena Romana un vago effetto. Bella in Euripide è la narrazione dell’ incendio e della morte di Creonte e della figliuola, che serve a far trionfare Medea per la ben riuscita vendetta; ma forse non men bellamente Seneca se ne disbriga in quattro o sei versi, scorrendo più rapidamente alla tremenda strage de’ figliuoli per trafiggere nella più tenera parte il cuor del padre. La Nutrice atterrita esorta Medea a fuggirsi. Egon’ ut recedam? risponde ella colla solita energìa e ferocia: Si profugissem prius, ad hoc redirem. E si accende, e si dà moto per eseguire ciò che le rimane a fare. Fas omne cedat . . . . Quidquid admissum est adhuc, {p. 184}Pietas vocetur . . . . Prolusit dolor Per ista noster . . . . Nescio quid ferox decrevit animus intus . . . . Ex pellice utinam liberos hostis meus Aliquot haberet! Quidquid ex illo tuum est, Creusa peperit. Tratti grandi ed espressi gravemente, che manifestano la serie de’ pensieri che la conducono al gran misfatto. E’ parimente maneggiata con vigore l’ esitazione ed il contrasto di Medea madre con Medea consorte oltraggiata:

. . . . . . . . Liberi quondam mei,
Vos pro paternis sceleribus pœnas date . . . .
Cor pepulit horror, membra torpescunt gelu,
Pectusque tremuit; ira discessit loco,
Materque tota, Conjuge expulsa, redit.
Egon’ ut meorum liberum ac prolis meæ
Fundam cruorem? . . . . . .
. . . . . . . Quod scelus miseri luent?
Scelus est Jason genitor, & majus scelus
Medea mater. Occidant: non sunt mei.
Pereant, mei sunt &c.

Ucciso un figlio giugne Giasone e porge a Medea lo spietato piacere di trucidar l’altro sotto gli occhi del padre:

. . . . . . Deerat hoc unum mihi,
Spectator ipse: nihil adhuc factum reor,
Quidquid sine isto fecimus sceleris, periit.
{p. 185}

Nuovo interesse, nuova situazione estremamente tragica, quadro fuor di modo orribile. Un figlio svenato, una madre in attodi trapassare il cuore all’altro, un padre trafitto dallo spettacolo del primo e spaventato dall’irreparabil morte imminente dell’altro. Egli prega, piagne, smania, vuol morire in vece del figlio, e la madre disumanata insultandolo risponde:

Hac quà recusas, quà doles, ferrum exigam.
In matre si quod pignus etiamnum latet,
Scrutabor ense viscera, & ferro extraham.

Che idee! che terribili pennellate! Esse risvegliano il fremito dell’ umanità, e giustificano il gusto di chi detestando il fatto ne ammira la dipintura. Non avea torto Orazio allorchè del latino linguaggio affermava che

. . . . spirat tragicum satis, & feliciter audet.

Da alcuni questa Medea latina è antiposta alla greca. Noi non osiamo giudicare del patetico che in entrambe si trova espresso con tanta verità che giugne al cuore. Ma la condotta della latina sembra più rapida e più regolare, e vi si eccita il terrore con tratti così forti e vivaci che farebbero nobile comparsa in qualunque tragedia di Eschilo {p. 186}e di Euripide126. Notava M. de Voltaire in tal tragedia come un principal difetto che essa, al suo dire, non produce interesse in pro di veruna persona. Medée (diceva) est une méchante femme qui se venge d’un malhonnête homme. La maniere dont Corneille a traité ce sujet, nous révolte aujourd’hui; celle d’Euripide & de Séneque nous révolterait encor davantage (Nota X). Affermava ancora che essa presso i Romani non ebbe felice incontro. Se quest’ultima notizia è vera (di che non mi si è presentato sinora verun documento), non sarà avvenuto perchè Medea è malvagia e Giasone un perfido. Medea tuttochè feroce alla prima ha dritto di lagnarsi dell’indegna incostanza di Giasone, ed allora ha per se i voti dell’uditorio; Medea indi eccede nel vendicarsi sino ad una inaudita spietatezza, e n’è detestata, ed eccita l’orrore dello spettatore. L’ un movimento e l’altro è naturale effetto delle ben dipinte gran passioni che perturbano ed interessano, se non per uno o per un altro personaggio, per {p. 187}tutta l’azione. L’essersi conservato quest’atroce argomento per tanti secoli, l’aver trattenute tante diverse nazioni ed acceso l’entusiasmo di tante penne e di tanti pennelli, c’induce a dubitare della giustezza dell’osservazione del Signor di Voltaire.

La stessa mano della Medea sembraci che abbia colorito l’Ippolito, benchè lo stile ne sia più ornato e talvolta più del bisogno verboso specialmente nell’atto primo. Molte ciarle in assai bei versi contiene la scena d’Ippolito e della Nutrice dell’atto secondo, dove poeticamente espongonsi le lodi della vita semplice rusticale, e vi si ammirano varie belle imitazioni di alcuni passi di Esiodo e di Ovidio. Il solo squarcio che convenga direttamente all’argomento si racchiude ne’ sei ultimi versi del ragionamento d’ Ippolito, Sed dux malorum fœmina; e quel che veramente caratterizza questo personaggio è la risposta data con impeto e vivacità a ciò che dice la Nutrice:

Nut.

Cur omnium fit culpa paucorum scelus?

Ip.

Detestor omnes, horreo, fugio, execror: Sit ratio, sit natura, sit dirus furor, Odisse placuit.

Eccellente è la scena della dichiarazione di amore fatta da Fedra ad Ippolito; e M. Racine che l’ha presso che interamente copiata nella sua Fedra, ne ha renduta meno {p. 188}vivace l’introduzione. L’autor latino mostra lo stato compassionevole della regina, e la fa cadere tramortita nelle braccia d’Ippolito. Rinvenuta esita ancora, non sa risolversi a parlare; al fine fassi animo alle parole d’Ippolito, Committe curas auribus, mater, meis. Questo nome di madre che pure la molesta, le somministra l’introduzione:

Matris superbum est nomen, & nimium potens;
Nostros humilius nomen affectus decet,
Me vel sororem, Hyppolite, vel famulam voca,
Famulamque potius.
Mandata recipe sceptra; me famulam accipe,
Te imperia regere, me decet jussa exequi,
Muliebre non est regna tutari patris.
Tu qui juventæ flore primævo viges,
Cives paterno fortis imperio reges,
Sinu receptam, supplicem, ac servam tege.
Miserere viduæ.

Questa offerta dello scettro fatta da Fedra con tanto garbo, ha servito a Racine per formarne una scena intera. Ippolito col promettere semplicemente di proteggerla,

Et te tuebor, esse ne viduam putes,
Ac tibi parentis ipse supplebo locum,
{p. 189}

avviva le di lei speranze, e l’anima a palesarsi amante. Ippolito o per farla ravvedere, o perchè ancora non ben l’intenda, le dice, Amore nempe Thesei casto furis? Sì, risponde Fedra già incapace di ritirarsi, di Teseo ma giovanetto:

  Thesei vultus amo
Illos priores quos tulit quondam puer;
. . . . . . genitor in te totus . . . .
Tibi mutor uni . . . . . . . .
Miserere amantis.

Bellissima è l’indignazione d’Ippolito:

Magne regnator deum,
Tam lentus audis scelera . . . . .?
In me tona, me fige . . . .
Sum nocens, merui mori,
Placui novercæ.

Commosse a questo segno le passioni, la scena prende maggior movimento e vigore. Non è meno vivace l’atto terzo in cui Fedra accusa della propria colpa l’innocente Ippolito, e Teseo in di lui danno invoca il soccorso di Nettuno obbligato a compiere l’ultimo di lui desiderio. L’ atto quarto cavato interamente da Euripide contiene il magnifico elegante racconto del mostro marino e della disgraziata morte d’ Ippolito. Vivace è la dipintura de’ cavalli inalberati:

{p. 190}
Tum verò pavidâ sonipes mente exciti
Imperia solvunt, seque luctantur jugo
Eripere, rectique in pedes jactant onus.

L’evento funesto chiama le lagrime sugli occhi di Teseo,

Occidere volui noxium (egli dice), amissum fleo.
. . . . . . Malorum maximum hunc cumulum reor,
Si abominanda casus optata efficit.

Nut.

Et si odia servas, cur madent fletu genæ?

Th.

Quod interimi, non quod amisi, fleo.

versi eccellenti, pensieri giusti, tragici, disviluppati leggiadramente, a tempo, e con passione. Il dolore, i rimorsi, le furie della madrigna, la funesta sua risoluzione di seguire Ippolito, tutto è con vigore espresso.

Con tutto ciò le bellezze della Fedra greca sorpassano di gran lunga quelle dell’Ippolito latino, che per altro per le additate maestrevoli pennellate merita non poca lode, ed ha molto contribuito ad arricchire la Fedra del gran tragico Francese, secondochè il lodato Brumoy con ingenuità parimente confessa (Nota XI.). Si è finora detto e ripetuto sino all’estrema noja: Seneca è gonfio, monotono, affettato; abusa delle {p. 191}sentenze e delle antitesi; declama; il suo stile sente di scuola. Ma è poi vero che alterò sempre la semplicità e verità della natura nell’imitare le greche tragedie, e che corruppe, come altri disse, quel vin Greco sì sano e sì grato colla sua mordente acquavite? Seneca spessissime volte per troppa voglia di farsi ammirare cade in una manifesta affettazione; ma Seneca ha molte bellezze che meritano di notarsi, e se non vince o non uguaglia sempre i Greci, talora ai soggetti medesimi di Euripide presta maestà e vigore127. Seneca dunque non sempre è affettato declamatore e secco filosofo; e doveasi dagl’ intelligenti (se volevano dare una pruova di non copiarsi alla cieca l’un l’altro) sceverar dal grano la paglia; ciò che rare volte si è fatto. Non si vuol decidere per sistema anticipatamente adottato, ma per esame ben ragionato. Se i giovani leggeranno le opere teatrali in simil guisa, ravviseranno molte bellezze degli antichi, e mostreranno a pruova di saper ben leggere e bene intendere, e daranno a’ critici di sistema occasione di rilegger canuti gli autori dal loro tripode approvati {p. 192}o condannati negli anni più verdi. Questa è la sola maniera di bene ed utilmente favellare di quello di cui tante volte si è scritto.

Accompagna degnamente le tragedie descritte la Troade, la quale abbraccia parte dell’Ecuba e parte delle Trojane di Euripide, aggirandosi sulla divisione delle schiave Trojane tra’ vincitori, sul sacrifizio di Polissena all’ombra di Achille, e sulla morte di Astianatte. Sublime n’è lo stile, molto vaghi ne sono i versi, nè vi si scorgono molte antitesi e sentenze affettate che la deturpino (Nota XII). Querelasi Ecuba nobilmente de’ mali della patria e della sua famiglia nell’atto primo, mal grado di quel falso pensiero, Priamus flammâ indiget ardente Trojâ. Tutti i cori delle tragedie latine, ancorchè ben verseggiati, cedono d’assai a quelli delle greche per artifizio, interesse e passione, che che ne dicesse nel secolo decimosesto il celebre gramatico Bartolommeo Riccio (Nota XIII). Ma questo primo coro della Troade accoppiato ai lamenti di Ecuba rassomiglia ad alcuni delle greche tragedie, e dovè riuscire assai comodo alla musica per gli oggetti diversi che le appresta. Nell’atto secondo la vivace contesa di Pirro e Agamennone presenta i caratteri del vecchio re e del giovane eroe coloriti con brio. Singolarmente il discorso di Agamennone, Juvenile vitium est regere {p. 193}non posse impetum, è grave, nobile, sobrio e ripieno di bellezza:

. . . . . . magna momento obrui
Vincendo didici.
Tu me superbum, Priame, tu timidum facis.
. . . . . . Exactum satis
Pœnarum, & ultra, est. Regia ut virgo occidat,
Non patiar. In me culpa cunctorum redit . . . . .
Qui non vetat peccare, cum possit, jubet.

Il giudizioso leggitore ammirerà sì gravi e saggi concetti senza fermarsi nel bisticcio,

O tumide, rerum dum secundarum status
Extollit animos, timide cum increpuit metus.

Ma l’originale bellezza dell’eccellente atto terzo gareggia colle più teatrali patetiche situazioni del greco coturno. Astianatte rinserrato nella tomba di Ettore e scoperto dall’astuto Ulisse, le materne agitazioni e preghiere, l’inflessibilità del greco, tutto in somma produce un movimento che tira l’attenzione universale, e lacera tutti i cuori sensibili. Il sogno di Andromaca è primieramente descritto con immagini patetiche e senza superfluità liriche:

{p. 194}
. . . . . ., Subitò nostros Hector ante oculos stetit,
Non qualis ultro bella in Argivos ferens,
Sed fessus ac dejectus, & fletu gravis.
Depelle somnos, inquit, & natum eripe,
O fida conjux. Lateat: hæc una est salus.
Omitte fletus. Troja quod cecidit, gemis?
Utinam jaceret tota!

La visione del consorte apporta con molta naturalezza la comparazione del padre col figlio somministrata da Virgilio, sic oculos, sic ille manus, sic ora ferebat:

. . . . . . . . Hos vultus meus
Habebat Hector, talis incessu fuit,
Habituque talis; sic tulit fortes manus &c.

Cerca poi Andromaca un luogo per sottrarlo alle inchieste, e si determina al sepolcro del padre:

. . . . . . . . Optimè credam patri.
Sudor per artus frigidus totos cadit.
Omen tremisco misera feralis loci . . .
Succede tumulo, nate; quid retrò fugis?
. . . . . . . . . Agnosco indolem,
Pudet timere. Spiritus magnos fuge,
Animosque veteres: sume quos casus dedit;
En intuere turba quæ simus super,
Tumulus, puer, captiva.
{p. 195}

Chiuso il fanciullo sopravviene Ulisse a chiederlo, Ubi natus est? al che Andromaca ripiglia,

. . . . Ubi Hector? ubi cuncti Phryges?
Ubi Priamus? Unum quæris, ego quæro omnia.

Finge poi di cedere forzata a confessare che Astianatte è morto, e con equivoco giuramento conferma che luce caret, inter extinctos jacet. Crede per un istante Ulisse, indi dubita, e dice a se medesimo: richiama le tue usate frodi e tutto te stesso, o Ulisse,

Scrutare matrem. Mœret, illacrymat, gemit:
Et huc & illuc anxios gressus refert,
Missasque voces aure sollicitâ excipit.

Gran verità! gran naturalezza! gran conoscenza de’ caratteri delle passioni! In questa scena veramente teatrale, non v’ha mordente acquavite che corrompa il vin grato e sano apprestato dalla natura. Indi con molta avvedutezza lo scaltro Itacense conchiude: magis hæc timet, quam mœret. E perchè totalmente scoppi la tenerezza materna, cerca atterrirla:

Tibi gratulandum est, misera, quod nato cares,
{p. 196}
Quem mors manebat sæva, præcipitem datum
E turre, lapsis sola quæ muris manet;

Alla qual cosa Andromaca sbigottisce:

Reliquit animus, membra quatiuntur, labant,
Torpetque vinctus frigido sanguis gelu.

Dice allora Ulisse che l’osserva attentamente:

En tremuit. hac hac parte quærenda est mihi.
Matrem timor detexit. Iterabo metum.

Comanda a’ seguaci che si cerchi Astianatte per tutto; indi finge che si sia trovato e preso alle spalle di Andromaca:

Bene est, tenetur. Perge, festina, attrache.
Quid respicis, trepidasque?

Porta l’ultimo colpo a questa infelice madre il pensiero che sopravviene ad Ulisse di spargere al mare almeno le ceneri di Ettore, abbattendo la di lui tomba, quando non si possa avere il di lui figlio per ucciderlo. Che farà la misera madre? Parlando palesa il figlio, e tacendo, senza salvarlo, soffre che si profanino e dispergano le amate reliquie del gran consorte. Vinta dunque dall’ {p. 197}astuto volgesi alle preghiere, confessando di esser vivo Astianatte; miserere matris, ella gli dice; ed Ulisse, exibe gnatum, & roga. Ogni passo di questa scena è un prezioso quadro della natura colorita maestrevolmente. Il fanciullo tratto dalla tomba da’ seguaci di Ulisse grida, miserere, mater, e la desolata Andromaca,

Quid meos retines sinus,
Manusque matris? cussa præsidia occupas;

immagine vaghissima presa da Euripide. La comparazione però da questo tragico Greco fatta e chiusa in un verso dell’augellino che si ricovera sotto le ali della madre, è assai più delicata e bella, che quella da Seneca quì usata e distesa in quattro versi e mezzo, del giovenco che impaurito dal ruggito del lione si appressa alla madre. Cresce l’ interesse e il lutto nell’atto quarto, vedendosi condotta con inganno Polissena al sacrifizio, e annunziandosi alle prigioniere, quali padroni sieno loro caduti in sorte. Si narra nell’atto quinto l’intrepida morte di Polissena, ed il precipizio di Astianatte. A questo terribile racconto però Andromaca si ricorda delle crudeltà esercitate in Colco, degli Scìti erranti, degl’ Ircani, degli altari di Busiride, de’ cavalli di Diomede; ma, oimè! l’uomo di buon gusto e discernimento quì vede il poeta, {p. 198}quando aspettava di vedere quella medesima madre trafitta e sì al vivo scolpita nell’atto terzo. Trovansi di questa tragedia varie espressioni bellamente imitate dal Metastasio. Seneca dice nell’atto secondo: Si manes habent curas priores, nec perit flammis amor, ed il Poeta Cesareo nel Catone,

S’è ver ch’oltre la tomba amin gli estinti.

Seneca nell’atto terzo: Levia perpessæ sumus, si flenda patimur, ed il Metastasio nell’Artaserse,

Picciolo è il duol, quando permette il pianto.

Seneca nell’atto quarto: Perge thalamos appara, quid tedis opus est, quidve solemni face? Quid igne? thalamis Troja prælucet novis, ed il nostro Drammatico nella Didone,

Va pure, affretta il piede,
Che al talamo reale ardon le tede.

L’autore dell’Edipo latino, sia per istile sia per condotta di azione, dimostra esser diverso da quello delle tre precedenti tragedie. Sofocle ha somministrata la materia di questa; ma la traccia della favola va peggiorando a misura che si scosta dall’ originale. L’apertura dello spettacolo, in vece {p. 199}di essere una decorazione teatrale e un quadro compassionevole, come è in Sofocle, quì si converte in una cicalata, in una declamazione di Edipo su i mali della peste ripetuti dal coro nell’ atto primo. Sofocle con saggia economia svolge gradatamente i fatti passati, per apportar con garbo quel felice scioglimento che diede alla sua favola; là dove Seneca accenna varie circostanze senzachè l’azione avanzi, ovvero se ne accresca l’interesse. Quel trivio con tanto senno riserbato da Sofocle per la bellissima scena di Giocasta con Edipo, viene da Seneca fatto accennare scioperatamente da Creonte nella prima scena dell’atto secondo, senza che Edipo mostri di ricordarsi che egli in simil luogo ammazzò ancora un uomo. Tiresia che nella favola greca viene alla presenza del re chiamato per ben due volte per ricordo di Creonte, nella latina si presenta spontaneamente senza esser la di lui venuta preparata o attesa; sebbene al volgo Romano superstizioso sarà riuscito grato e popolare lo spettacolo dell’auspicio. Ma ciò nè anche bastando all’augure, alia, dice, tentanda est via.

Ipse evocandus noctis æternæ plagis,
Emissus erebo ut cædis auctorem indicet.

E con ciò si prepara per l’atto terzo un lunghissimo racconto dell’ evocazione delle {p. 200}ombre e di Lajo. La scena di Edipo e Giocasta in Sofocle tira l’attenzione di chi legge, mentre quanto Giocasta adduce per dissipare i timori del re, tutto sventuratamente serve per aumentarli e per accendere vie più in lui la curiosità di abboccarsi col pastore. All’opposto in Seneca nell’atto quarto è magrissima e pressochè sfornita di passione. Lo scioglimento poi con somma arte maneggiato nella tragedia greca, qui si precipita, non avendo saputo il tragico latino mettere a profitto quelle patetiche situazioni che nello svilupparsi la stessa favola naturalmente appresterebbe. Le disperate riflessioni, i tratti terribili e compassionevoli suggeriti a Sofocle dalla situazione deplorabile e dall’ acciecamento di Edipo, trovansi presso Seneca sommersi in una piena di studiate e stravaganti locuzioni. Secondo il Messo che lo riferisce, mai Edipo non fu più sofistico ragionatore che sul punto di volersi ammazzare. Moreris? hoc patri sat est. Quid deinde matri? quid male in lucem editis gnatis? quid . . . . flebili patriæ dabis? Solvenda non est illa, quæ leges ratas natura in uno vertit Œdipode, novos commenta partus. É questo forse il linguaggio de’ rimorsi e di un dolor disperato? Egli vuol morire e vivere di bel nuovo e tornare a morire e rinascer sempre,

Iterum vivere, atque iterum mori
Liceat, renasci semper.
{p. 201}

Non vuol esser tra’ morti, nè dimorar tra’ vivi,

. . . . . . . . quæratur via,
Quâ nec sepultis mixtus, & vivis tamen
Exemptus erres.
Fodiantur oculi.

E in fatti gli occhi condannati a seguir le lagrime, impazienti appena si contengono nelle occhiaje; e finalmente

. . . . . . . suam intenti manum
Ultro insequuntur: vulneri occurrunt suo.

Se gli svelle dalle radici, e la mano non si sazia di lacerare fin anche le loro sedi, e temendo (dove giugne il delirio del poeta!) che vi abbia a rimaner qualche luce,

. . . . . . . . attollit caput,
Cavisque lustrans orbibus cœli plagas,
Noctem experitur.

Ecco a quali vaneggiamenti conduce nel genere drammatico la frenesia di dir cose non volgari. Egli è però da confessarsi che pur si trova in tal tragedia qualche imitazione fatta di Sofocle non infelicemente, e vi si veggono sparsi quà e là molti bei versi ed alcuni squarci pregevoli. Tale può parere quello dell’atto quarto, quando l’orrore s’impossessa di Edipo già noto a se stesso:

{p. 202}
Dehisce tellus, tuque tenebrarum potens
In tartara ima rector
Retro reversas generis ac stirpis vices.
Congerite, cives, saxa in infestum caput;
Mactate telis; me petat ferro parens;
Me natus; in me conjuges arment manus &c.

Meno riprensibile, declamatorio e ampolloso di quello dell’Edipo riferito e dell’Ercole Eteo che or ora osserveremo, sembrami lo stile dell’Agamennone. Non è molto infelicemente espressa nell’atto secondo la situazione di Clitennestra presso a rivedere il marito,

Quocumque me ira, quò dolor, quò spes feret,
Huc ire pergam. Fluctibus dedam ratem.
Ubi animus errat, optimum est casum sequi;

la qual cosa da Metastasio si pose in bocca di Massimo nell’Ezio così:

Il commettersi al caso
Nell’estremo periglio
E’ il consiglio miglior d’ogni consiglio.

Lo stesso nostro celebre Drammatico ne trasse un’ altra sentenza detta pure da Clitennestra,

{p. 203}
Remeemus illuc, unde non decuit prius
Abire: sic nunc casta repetatur fides.
Nam sera nunquam est ad bonos mores via.
Quem pœnitet peccasse, penè est innocens.

Fulvia così se ne vale nel’ Ezio:

Non è mai troppo tardi onde si rieda
Per le vie di virtù. Torna innocente
Chi detesta l’error.

Magnifica nell’atto secondo è la dipintura della tempesta che scompiglia e dissipa l’armata greca; e ciò che la rende più lodevole si è che cade in un luogo, in cui senza nuocere all’azione prepara la venuta di Agamennone. Tragicamente e con nobiltà si esprime Cassandra:

Vicere nostra jam metus omnes mala.
Equidem nec ulla cœlites placo prece.
Nec si velint sævire, quo noceant, habent.
Fortuna vires ipsa consumpsit suas.
Quæ patria restat? quis pater? quæ jam soror? &c.

I di lei furori fatidici sono pieni dell’entusiasmo che la trasporta:

Timete, reges, moneo, furtivum genus.
Agrestis ille alumnus evertet domum.
{p. 204}
Quid ista vecors tela fœmineâ manu
Districta præfert? . . . .
Quid me vocatis sospitem solam e meis
Umbræ meorum? Te sequor, totâ pater
Trojâ sepulte: frater, auxilium Phrygum &c.

La prima scena dell’atto quarto benchè breve presenta un rapido vivace dialogo di Agamennone lieto di vedersi nella patria, e di Cassandra che predice la prossima di lui morte senza esser creduta. I caratteri sono quali esser debbono, e le passioni non sono tradite dall’affettazione, benchè non mostrino di essere animate con que’ colori della natura che nella Troade e nella Medea enunciano la mano esperta di un buon pittore. Ciò abbiamo voluto con ingenuità rilevare, sebbene il piano di questa favola non sembrami disposto con quel giudizio che si richiede per tener lo spettatore attento e sospeso; e bisognerebbe che le scene vi fossero con più artificio concatenate. Soprattutto nell’atto quinto si scopre la poca destrezza e pratica di teatro che avea l’autor latino; e sempre più si desidera il bellissimo e veramente tragico atto quinto del coronato Agamennone di Eschilo.

Il Tieste è una delle più terribili tragedie per l’ atrocità dell’azione. Ma l’autor latino che d’altro non va in traccia che di declamare, prende a tale oggetto i punti {p. 205}principali dell’argomento l’un dopo l’altro, senza tesserne un viluppo verisimile insieme ed artificioso, come fa Sofocle, che con siffatta industria sin dalle prime scene si concilia l’altrui attenzione; e senza imitar la delicatezza di Euripide, che nulla trascura per ben dipignere gl’ interni movimenti del cuore umano, e riuscire in tal guisa a commovere, perturbare e disporre gli animi agli orribili evenimenti. Uno studio continuato di mostrare ingegno ad ogni parola fa sì che l’autore si affanni per fuggire l’espressioni vere e naturali, e per correr dietro a un sublime talvolta falso, spesso affettato e sempre nojoso per chi si avvede della fatica durata dall’ autore a portar la testa altà e a sostenersi sulle punte de’ piedi. Gli squarci più tragici vengono bruttati dal furore di presentar sempre pensieri maravigliosi. La strage de’ nipoti da Atreo atrocemente eseguita, è ben narrata ne’ seguenti versi:

. . . . . . . O nullo scelus
Credibile ævo, quodque posteritas neget!
Erepta vivis exta pectoribus tremunt,
Spirantque venæ, corque adhuc pavidum salit.
At ille fibras tractat, ac fata inspicit,
Et adhuc calentes viscerum venas notat.
Postquam hostiæ placuere, securus vacat
Jam fratris epulis.
{p. 206}

Ma tal maniera naturale di esprimersi è straniera all’autore di questa tragedia, il cui vero carattere torna a comparire nelle seguenti false espressioni dal verso 768 al 775: il fuoco arde di mala voglia, le fiamme piangono, il fumo stesso esce malinconico, e si piega in vece di ascendere direttamente. Avvegnachè alcune sentenze sieno ottime e non affettate, pure per la maggior parte esse hanno l’aria di aforismi, o di responsi di oracolo. Poetiche sono molte comparazioni, ma sembrano assai improprie nel genere rappresentativo, quando sono lunghe e troppo circostanziate. Tale è quella di Atreo nell’ atto terzo: Sic cum feras vestigat, & longo sagax Loro tenetur Umber &c. allungata per ben sette versi; e l’altra dell’atto quarto contenuta in cinque: Jejuna sylvis qualis in Gangeticis &c.; e anche un’ altra del medesimo atto, nè molto da questa lontana, spiegata in altrettanti versi: Sylva jubatus qualis Armeniâ leo &c. Può non per tanto osservarsi in essa più di uno squarcio in cui è sobria la locuzione. Tale è questo dell’atto secondo:

Per regna trepidus exul erravit mea.
Pars nulla nostri tuta ab insidiis vacat.
Corrupta conjux, imperii quassa est fides,
Domus ægra, dubius sanguis: est certi nihil,
Nisi frater hostis.
{p. 207}

Bella è pure la sentenza della atto terzo:

Habere regna casus est, virtus dare,

che Metastasio imitò nell’Ezio:

. . . . . . Se non possiedi,
Tu doni i regni, e il possederli è caso,
Il donarli è virtù.

Tratto dal vero è parimente ciò che dice Tieste al figliuolo Plistene nell’atto quarto:

Occurret Argos, populus occurret frequens,
Sed nempe & Atreus . . . .
Nihil timendum video, sed timeo tamen.
Placet ire, pigris membra sub genibus labant,
Alioque, quam quò nitor, abductus feror.

Degno è pur di leggersi quanto aggiugne Tieste un tempo scellerato, ma che nella tragedia si enuncia pentito e corretto dalle sventure, e bramoso della vita privata. Le di lui riflessioni filosofiche son ricavate con molta cura da varie epistole di Seneca. L’elegante descrizione del Bosco sacro e del Larario di Atreo spira magnificenza, e dispone all’orrendo sacrificio de’ figliuoli di Tieste. A taluno parrà soverchio lunga; ma se in qualche occorrenza è permesso al poeta drammatico di adornare ed essere pomposo, {p. 208}egli è in simil congiuntura, in cui l’orrore del luogo ben dipinto contribuisce a destare l’orrore del misfatto. Sublime è anche la risposta di Tieste nell’atto quinto, allorchè Atreo insulta al di lui dolore:

Atr.

. . . . . Gnatos ecquid agnoscis tuos?

Th.

Agnosco fratrem.

L’argomento dell’Ercole furioso è lo stesso di quello di Euripide, ma la condotta dell’azione è cangiata. Nel greco è più manifesta la duplicità della favola, e nel latino i due oggetti, cioè l’ ammazzamento di Lico e il delirio di Ercole colle conseguenze, sembrano più connessi a cagione del prologo di Giunone che forma l’atto primo. Ma poi la tragedia greca trionfa per la vivacità dell’azione e pel vero colorito degli affetti; là dove la latina al paragone par dilombata e senz’anima, e le passioni vi si veggono maneggiate più ad ostentare erudizione in una scuola di declamazione rettorica che a ritrarre al vivo il cuore umano e presentarne agli uomini la dipintura in un teatro. Il discorso di Megara nell’atto secondo sa desiderare il patetico che si ammira nella tragedia di Euripide, quando tutta la famiglia di Ercole spogliata del regno rifugge all’ara di Giove per evitar la morte. Il carattere di Megara si allontana dal gusto greco, e prende l’aspetto di certo {p. 209}eroismo più proprio de’ costumi Romani, il quale a poco a poco si è stabilito ne’ teatri moderni, e ne forma il sublime:

Patrem abstulisti, regna, germanos, larem
Patrium. Quid ultra est? una res superest mihi,
Odium tui;

la qual cosa vedesi dal Metastasio emulata:

. . . . . . . Sola mi avanza
(E il miglior mi restò) la mia costanza.

Cogere, le dice il tiranno; ed ella:

. . . . Cogi qui potest, nescit mori.

Lyr.

Effare, thalamis quod novis potius parem Regale munus?

Meg.

Aut tuam mortem, aut meam.

Venuto Ercole il poeta fa che egli intenda lo stato del regno e voli a trucidare il tiranno; ma intanto che la sua famiglia dovrebbe mostrarsi sollecita dell’esito dell’impresa, Anfitrione si diverte ad ascoltar da Teseo l’avvenimento di cerbero tratto fuori dell’inferno, e a domandare, se in quelle regioni si trovino terre feraci di vino e di frumento. Per altro tale racconto contiene più d’una bellezza, che a miglior tempo {p. 210}si farebbe ammirare. Tale è la nobile descrizione del Giove infernale:

. . . . . . . . Dira majestas deo,
Frons torva, fratrum quæ tamen speciem gerat,
Sed fulminantis. Magna pars regni trucis
Est ipse dominus, cujus aspectum timet
Quidquid timetur.

Tale è pure la pittoresca immagine di cerbero smarrito al vedersi esposto alla luce:

. . . . . . . . Vidit ut clarum æthera,
Et pura nitidi spatia conspexit poli,
Oborta nox est, lumina in terram dedit,
Compressit oculos, & diem invisum expulit,
Aciemque retro flexit, atque omni petiit
Cervice terram, tum sub Herculeâ caput
Abscondit umbrâ.

Meritevoli di particolar lode sono eziandio le preghiere di Ercole nell’ atto quarto. Anfitrione gl’ insinua d’implorar da Giove il termine delle sue fatiche; ed egli risponde, che farà de’ voti di Giove e di se più degni; cioè che il cielo, l’etere e la terra serbino concordi il luogo che ottennero nell’uscir dal caos: che gli astri non sieno turbati nel loro corso: che il mondo goda una perenne pace: che tutto il ferro s’impieghi {p. 211}negl’ innocenti lavori villeschi, e mai non si converta in armi; voti nobili e proprii di un cuor magnanimo. Non è da omettersi la bella espressione di Giunone nell’ atto primo:

. . . . . . Monstra jam desunt mihi,
Minorque labor est Herculi jussa exequi,
Quam mihi jubere;

ch’è una vaga imitazione di ciò che Ovidio con eleganza fe dire all’ istesso Ercole nel IX delle Metamorfosi:

. . . . . . . . Defessa jubendo
Sæva Jovis conjux, ego sum indefessus agendo.

Trovansi in tal tragedia altre sentenze ancora non meritevoli di riprensione.

Ars prima regni est posse te invidiam pati,

che da Metastasio s’inserì nell’Ezio,

La prima arte del regno
E’ il soffrir l’odio altrui;

e quest’altra,

Pacem reduci velle victori expedit,
{p. 212}
Victo necesse est,

pur da Metastasio nell’Adriano imitata,

. . . . . . . . Al fin la pace
E’ necessaria al vinto,
Utile al vincitor.

La Tebaide che non ci è pervenuta intera, contiene lo stesso argomento de’ Sette Capi a Tebe di Eschilo, e delle Fenisse di Euripide; ma questa Tebaide latina cede di molto alle due favole greche per istile e condotta. Nel lunghissimo atto primo, benchè pur tronco, presenta una verbosa declamazione di Edipo colla figliuola di circa trecento versi, de’ quali più di 275 esprimono la disperazione e la dolorosa rimembranza delle sventure di Edipo, e si aggirano in tutt’altro che nell’ argomento della Tebaide, di maniera che sembra piuttosto prepararsi l’ azione dell’Edipo ramingo in Colono trattata da Sofocle, che la guerra de’ di lui figliuoli. Ciò debbe da’ poeti fuggirsi con somma cura: perchè lo spettatore che ha motivo d’ingannarsi sul di loro disegno, se ne vendica col disprezzo. Nel frammento dell’atto secondo Edipo comparisce un mentecatto, perchè pregato a interporre la sua autorità fra i due fratelli, egli al contrario fulmina contro di loro varie maledizioni. Non satis est adhuc civile {p. 213}bellum, frater in fratrem ruat; nec hoc sat est &c. Ma perchè mai? qual motivo aveva Edipo di abbandonarli al loro furore? I Greci con più senno fecero derivare la di lui avversione e le maledizioni dal disprezzo e dall’ingratitudine de’ figliuoli verso di lui, come può vedersi nell’Edipo Coloneo. Nell’altro frammento dell’atto terzo si vede il falso gusto dell’autore che non sa internarsi nell’interesse de’ personaggi. Alla notizia della battaglia imminente Antigona prega la madre ad affrettarsi per impedirla: Scelus in propinquo est; occupa, mater, preces. Ed in fatti, come indi dice il messo, ella è accinta a precipitarsi in mezzo alle squadre, come fende l’aria veloce partico strale, come va una nave spinta da vento farioso, o come dal cielo cade una stella. Gran velocità! ma pure avanti di correre in tal guisa ella è arrestata dall’ urgente necessità, di che mai? di declamar sette versi per desiderare un turbine che la trasporti per aria, l’ali d’una sfinge, o di un uccellaccio Stinsalide capaci di ecclissare il sole, o di un’ arpia. Ad onta pure di tutto ciò che salta agli occhi, Giuseppe Scaligero scrivendo a Claudio Salmasio chiamava questa tragedia princeps omnium Senecæ, Martino Del Rio la stimava latinior & melior quam cæteræ, e Giusto Lipsio la riferiva all’aureo secolo di Augusto. Ma le sottigliezze, l’espressioni ampollose, i lampi {p. 214}d’ ingegno ricercati con istudio, l’ oricalco posto in opera in vece dell’oro di quella felice età, enunciano anzi l’indole del secolo in cui si corruppe e si perdè ogni eloquenza e si prese per entusiasmo vigoroso la foga di un energumeno. Dall’altra parte non solo non è, come diceva il dotto Brumoy, la più stravagante di tutte (perchè qual più stravagante dell’Ercole Eteo dallo stesso critico attribuita all’autore dell’Agamennone?), ma possono in essa senza oltraggio del buon senno ammirarsi varii tratti veramente sublimi, e certa vivacità di colorito nelle passioni che difficilmente si rinviene altrove. Rechiamone qualche esempio. Dice la tenera Antigona al padre:

Pars summa patris optimi e regno mea est
Pater ipse . . . . . . .
. . . . . . . . Prohibeas, genitor, licet,
Regam abnuentem. Dirigam invitum gradum.
In plana tendis? vado. Prærupta expetis?
Non obsto, sed præcedo. Quo vis utere
Duce me: duobus omnis eligitur via.
Perire sine me non potes, mecum potes.

Le mostruose nozze con Giocasta sono bene espresse dal medesimo Edipo:

Avi gener, patrisque rivalis sui,
Frater suorum liberum, & fratrum parens;
{p. 215}
Uno avia partu liberos peperit viro,
Ac sibi nepotes;

il che è stato nobilmente imitato da Metastasio nel Demofoonte, e forse migliorato per la facilità maggiore di rinvenirvi i rapporti de’ gradi di parentela:

. . . . . . Le chiome in fronte
Mi sento sollevar. Suocero e padre
M’è dunque il re! figlio e nipote Olinto!
Dircea moglie e germana! Ab qual funesta
Confusion di opposti nomi è questa!

Quem, genitor, fugis? dice Antigona al padre agitato, il quale risponde,

Me fugio, fugio conscium scelerum omnium
Pectus, manumque hanc fugio, & hoc cælum, & deos,

che pur dal medesimo drammatico Romano, e forse con più energìa, si trova espresso nel nominato dramma:

Dem.

Ma da chi fuggi?

Tim.

Io fugge
Dagli uomini, da’ numi,
Da voi tutti, e da me.

Vi è moto, affetto, robustezza senza veruna stravaganza in quest’altro squarcio:

{p. 216}

Ant.

Perge, o parens . . . . . . .
Compesce tela, fratribus ferrum excute.

Joc.

Ibo, ibo, & armis obvium opponam caput.
Stabo inter arma &c.

Pregevole è pure quest’altro della medesima Giocasta:

. . . . . Misera, quem amplectar prius?
In utramque partem ducor affectu pari.
Hic abfuit. Sed pacta si fratrum valent,
Nunc alter aberit. Ergo non unquam duos,
Nisi sic videbo?

La nobile semplicità delle Trachinie di Sofocle non si rinviene nel piano e nella condotta dell’Ercole Eteo latino che ne deriva. L’atto primo ci mostra Ercole che si trattiene a ciarlare nel promontorio Ceneo in Eubea, ed il rimanente poi si rappresenta in Trachinia. Uno spirito declamatorio senza freno ne contamina i punti più tragici che si ammirano nella tragedia greca (Nota XIV). Il Plautino Pirgopolinice che con un pugno spezza una coscia a un elefante, è un’ ombra a fronte di Alcide, il quale dice a Giove che si rincori, secure regna, mentre il suo braccio ha già fracassato quanto Giove avrebbe dovuto fulminare. Egli domanda in premio il cielo, cioè l’immortalità, poichè già la terra

. . . . timet concipere, nec mostra invenit.
{p. 217}
Feræ negantur. Hercules monstri loco
Jam cœpit esse.

Che se poi non avesse finora fatto abbastanza per meritarlo, egli farà di più, congiungerà Peloro all’Italia, cacciando in fuga i mari che si frappongono, muterà tutto l’orbe, darà nuovo corso all’ Istro e al Tanai &c. Il carattere di Dejanira sì bello e naturale presso Sofocle, diviene grossolano nella tragedia latina, e stanca il leggitore nell’atto secondo con mille discorsi che per far senno potevano omettersi. Quanto poi eloquente è il silenzio di lei nella greca, allorchè ha risoluto di andarsi ad uccidere, tanto disadatte sono a commuovere le antitesi, le sentenze affettate, le riflessioni e la nojosa declamazione della Dejanira del tragico latino. Non per tanto in questo lunghissimo componimento di circa duemila versi, fra tanti concetti affettati e strani trovansene alcuni giusti, bene espressi e spogliati d’ogni gonfiezza. Tali sono,

Nunquam est ille miser, cui facile est mori . . . . .
Felices sequeris mors, miseros fugis;

che Metastasio imitò nell’Artaserse:

Perchè tarda è mai la morte,
Quando è termine al martir?
{p. 218}
A chi vive in lieta sorte,
É sollecito il morir!
O si pateant pectora ditum,
Quando intus sublimis agit
Fortuna metus!

pure leggiadramente recato in Italiano dal medesimo poeta Cesareo:

Se a ciascum l’interno affanno,
Si vedesse in fronte scritto,
Quanti mai che invidia fanno,
Desterebbero pietà.
. . . . Tot feras vici horridas,
Reges, tyrannos; non tamen vultus meos
In astra torsi. Semper hæc nobis manus
Votum spopondit. Nulla propter me sacro
Micuere cælo fulmina. Hic aliquid dies
Optare jussit. Primus audierit preces,
Idemque summus. Unicum fulmen peto.
Effare . . . . . . . . . . . . . .
. . . . Vultu quonam tulerit Alcides necem?

Ph.

Quo nemo vitam. (Nota XV).

La snervata Ottavia sembra produzione di un rettorico novizio che mai non conobbe teatro, nè si curò di osservare l’artifizio de’ Greci poeti. Gherardo Vossio la crede opera di Floro, e Giuseppe Scaligero sospetta esser parto di Sceva Memore. Principia la prima scena con una declamazione {p. 219}o elegia generale di Ottavia, la quale esce e si ritira senza perchè. Le succede una Nutrice che si querela delle vicissitudini che accadono nelle reggie. Ottavia senza cagione ancora comparisce di nuovo a lamentarsi della fortuna. La Nutrice ne ascolta la voce, e facendo un’ apostrofe alla propria vecchiaja (cessas thalamis inferre gradus, tarda senectus) le va incontro, e cominciano le nenie a due. Apre l’ atto secondo Seneca che pur viene non si sa perchè, e si mette a moralizzare sulle diverse età del mondo, ravvisando in quella in cui egli vive i vizii di ciascheduna,

Collecta vitia per tot ætates diu
In nos redundant.

Ma ciò serve punto a fare avanzar l’azione? Al contrario; fin quì essa nè anche può dirsi incominciata. Sopraggiugne Nerone; insorge una disputa generica tra il discepolo e ’l maestro; sostiene ciascuno la propria tesi con caparbieria scolastica; lancia l’una e l’altra parte un cumulo di sentenze proposte o risposte ex abrupto; e dopo una lunghissima tiritera di più di cento versi, si manifesta l’ intento di Nerone di ripudiare Ottavia e sposar Poppea, che è la meschina azione della tragedia, sulla quale si favella appena in poco più di trenta versi. Ma diceva benissimo Boileau,

{p. 220}
Le sujet n’est jamais assez tôt expliqué.

Scappa dall’inferno nell’atto terzo l’ombra di Agrippina per precedere alle nozze di Poppea colla fiaccola accesa in Acheronte, declama a sua posta, indi accortasi forse ella stessa della sua nojosa cicalata si determina a partire:

Quid tegere cesso tartaro vultus meos?

Chiude l’atto Ottavia rimandata alla casa paterna, ed il Coro la compiange. Nell’atto quarto un’ altra Nutrice accompagna Poppea, intende i di lei timori cagionati da un sogno funesto, e sembra che vadano a cominciare una nuova tragedia. Il Coro loda la bellezza di Poppea; e un messo enuncia il tumulto del popolo pel ripudio di Ottavia. Narrasi nel quinto che il tumulto è già sedato. Nerone comanda che Ottavia sia relegata nell’isola Pandataria del golfo di Gaeta, che nel Napoletano dialetto oggi dicesi Vientotene; e in fatti ella viene fuori condotta da’ soldati per imbarcarsi. Che languidezza! che gelo! che noja! Qual differenza enorme tralla sublime terribile Medea, e questi dialoghi scolareschi senz’arte, senza interesse, senza moto, senza contrasti e senza tragiche situazioni.

Tale per mio avviso è Seneca, o per {p. 221}meglio dire ciascuno autore delle dieci tragedie latine che sotto il-di lui nome ci sono rimaste. Non so se in questo giudizio i leggitori sereni troveranno parzialità, ingiustia, o difetto di lettura o d’ intendimento; so però che il critico illuminato che ve ne scorgesse, dovrebbe avvertirne il pubblico con buone ragioni esposte con urbanità e moderazione, e non già con decisioni enfaticamente profferite in qualche prefazione e alla guisa degli oracoli, nelle quali sempre trovasi il mistero e di rado il gusto, o la verità, o la giustizia128.

{p. 222}

CAPO V.
Continuazione del teatro Latino. §

I.
Diverse specie di favole sceniche Latine. §

Ebbe il teatro latino due specie di tragedie, drammi Italici, diverse commedie, {p. 223}mimi, e pantomimi. Le tragedie erano o palliate che imitavano i costumi de’ Greci, a’ quali appartenevasi il pallio, o pretestate che dipingevano il costume de’ Romani che usavano la pretesta. Di quest’ultima specie erano la tragedia di Ennio intitolata Scipione, il Bruto di Azzio, l’ Ottavia di Mecenate, e l’Ottavia attribuita a Seneca ecc.

Le favole Italiche, delle quali parla Donato nella prefazione alle commedie di Terenzio, erano azioni giocose di personaggi pretestati, le quali doveano rassomigliare alle greche Ilarodie.

La commedia latina si copiò dalla nuova de’ greci, e non ebbe coro di sorta alcuna. La caterva introdotta nella Cistellaria di Plauto, e il grex che trovasi nell’Asinaria, ne’ Cattivi, nella Casina, nell’Epidico, e nelle Bacchidi del medesimo, altro non sono che il corpo o coro intero degli attori, il quale con pochissimi versi nella fine prende commiato dall’uditorio (Nota XVI). Terenzio neppure di tal gregge fece uso; ond’è che nè anche da ciò potè derivare il farfallone di certo Francese, il quale, come narra Madama Dacier, lodava i cori delle commedie di Terenzio (Nota XVII).

Se si attende all’attività dell’azione, la commedia latina dividevasi in motoria e stataria: se si mira alla natura de’ costumi imitati, essa era palliata, ossia greca, e togata, ossia Romana; e quest’ultima suddividevasi {p. 224}in togata propriamente detta, in tabernaria, e in Atellana. La togata propria era seria, e corrisponderebbe alla moderna commedia nobile, e talvolta giugneva ad essere pretestata, a cagione de’ personaggi cospicui che soleva ammettere, ed anche trabeata, così detta dall’antica trabea reale degli auguri e de’ re. Questo genere di commedia togata trabeata parve nuovo a’ tempi di Augusto; e fu inventato da Cajo Melisso da Spoleto, il quale nato ingenuo, ma esposto per la discordia de’ suoi genitori, fu poscia donato per gramatico a Mecenate, per la cui opera insinuatosi presso Augusto fu preposto a rassettare le Biblioteche nel Portico di Ottavia129. La tabernaria frammischiava l’eccellenza alla bassezza, e prendeva il nome da taberna, luogo frequentato da persone di ogni ceto. L’Atellana era una commedia bassa sì ma piacevole, lontana alla prima da ogni oscenità e licenza scurrile (siccome nel secondo capo del presente volume abbiamo osservato), indi contaminata dall’esempio de’ mimi. Essa per quel che ricavammo da Strabone, si recitò lungo tempo da attori privilegiati che godevano della Romana cittadinanza, e nella lingua nativa {p. 225}del paese degli Osci donde venne; ma dopo alcun tempo verisimilmente se ne continuò lo spettacolo anche nel comune linguaggio latino, giacchè troviamo diversi scrittori Atellanarii latini. Tra questi si distinse Lucio Pomponio Bolognese, il quale fiorì nel tempo che Tullio prese la toga virile. Nonnio, Prisciano, Carisio, Festo e Macrobio, hanno conservati i nomi di moltissime sue favole. Tali sono gli Adelfi, Agamennone supposto, l’Aruspice, l’ Asinaria, l’Atreo, il Citarista, i Campani, la Cena, il Collegio, la Conca, l’Ergastolo, i Galli transalpini, le Calende Marzie, il Lare famigliare, il Medico Pansa, o la Sposa di Pappo, le Nozze, il Zio, la Filosofia, i Pittori, i Pescatori, la Porcaria, il Rustico, la Satira, i Sinefebi, Verre ammalato, Macco esule, i due Macchi, Pitone Gorgonio, ed altre molte130. Di quest’ultima favola parlando Scaligero intorno a Varrone, dice: Pomponio poeta Atellanario intitolò certo esodio131 Pitone Gorgonio, il quale, a mio credere, altro non era che il Manduco, perchè il nome di Pitone è posto {p. 226}per incutere terrore, e Gorgonio equivale a Manduco, dipingendosi i Gorgoni con gran denti. Manduco era un personaggio ridicolo coperto di una maschera di gran guance con una gran bocca aperta e con certi dentacci che si moveano e facevano molto strepito, ond’è che i ragazzi se ne spaventavano132. Questo personaggio era menato intorno ne’ giuochi con altre maschere spaventevoli e ridicole, principalmente nel rappresentarsi le Atellane. Altre figure ridicole introducevano i poeti Atellanarii nelle persone del Macco e del Buccone, delle quali favellasi in un passo di L. Apulejo da Giusto Lipsio interpretato scrivendo a Niccolò Briardo133. Erano esse figure sceniche e notabili per la sordidezza, goffaggine e fatuità. Il dotto Anton Francesco Gori riconosce il Macco degli antichi in una figurina trovata nel Monte Esquilino e conservata nel Museo di Alessandro Capponi. Essa avea due gran gobbe nel petto e nelle spalle, coprivasi di ampie braghe insino a’ piedi, portava in testa una beretta aguzza, e una maschera in volto alterata da un gran {p. 227}naso. Stimava il lodato valoroso antiquario che la voce maccus appartenesse alla lingua Osca, la qual cosa non sembra improbabile; ma è pur certo che la Greca voce μακκαειν, delirare, e l’altra μακκοαω, far l’ indiano, usata da Aristofane ne’ Cavalieri, corrispondono alla goffaggine e alla stolidità del macco degli Atellanarii.

II.
Quali attori in Roma si reputassero infami. §

In proposito degli attori delle Atellane vuolsi osservare che tra’ privilegii loro accordati, era quello di escludere dalla rappresentazione de’ loro esodii e farse giocose gli altri istrioni, i quali per lo più erano schiavi e in generale pochissimo considerati fuori della scena. Non era dunque l’esercizio del rappresentare quello che disonorava gli attori in Roma, ma sì bene la loro condizione di servi accoppiata alla vita dissoluta che menavano; là dove gli Atellani liberi, e morigerati sino a certo tempo, godevano della stima della società e delle prerogative di cittadini. Egli è però da avvertirsi che anche gli altri istrioni allorchè vivevano onestamente e segnalavansi per l’eccellenza del loro mestiere, si onoravano e si ammiravano (Nota XVIII). Notissima {p. 228}è la stima particolare che Cicerone avea del tragedo Esopo e del dotto Roscio, come appare dalle di lui Lettere. Il medesimo Oratore, secondo Macrobio, riprese il popolo Romano in una orazione per avere una volta schiamazzato rappresentando Roscio134. E lo stesso Macrobio ci assicura che dal Dittatore L. Cornelio Silla venne Roscio onorato coll’ anello d’ oro, cioè fu ascritto all’ordine equestre. In fatti la disistima ch’ ebbesi poscia per le persone di teatro in Roma, non pare che cadesse su i tragedi e i comedi, ma su gli attori mimici de’ quali parleremo appresso. Senza ciò che dovremmo pensare di Augusto, il quale, non già per pena fulminata contro di loro, ma per grandezza, secondo me, espose alcuni cavalieri e matrone Romane a rappresentare in teatro135? Fu questo poi vietato con un Senatoconsulto; ma sembra che il divieto fosse andato in disuso, trovandosi appresso trasgredito. Domizio avo di Nerone, chiaro poi per gli onori trionfali, sotto Augusto fe rappresentare una farsa mimica in pubblico da matrone e cavalieri in vece de’ soliti attori136. Pisone, {p. 229}il quale fu in procinto di essere acclamato imperadore e sostituito a Nerone, se la congiura di tanti illustri Romani non si fosse scoperta, soleva esercitarsi a rappresentar tragedie137. Nerone stesso ne’ Giuochi Massimi prese dall’ordine Senatorio ed Equestre varie persone di entrambi i sessi, e le fe rappresentare138. L’eroe, il filosofo Trasea Peto, nel quale, al dir di Tacito, Nerone volle estinguere la virtù stessa, in Padova sua patria cantò vestito da tragedo ne’ giuochi Cestici istituiti dal Trojano Antenore139.

III.
Mimi. §

I mimi de’ latini furono picciole farse buffonesche che usaronsi da prima per tramezzi, e poscia formarono uno spettacolo a parte, avendo acquistato molto credito per l’eccellenza di alcuni poeti che ne scrissero, e molta voga per la buffoneria che gli animava, e per la sfacciataggine delle mime.

A tempo di Giulio Cesare fiorirono due {p. 230}celebri scrittori di favole mimiche, Decimo Laberio cavaliere Romano e Publio Siro schiavo e poi liberto. Laberio per suo esercizio e diletto compose moltissimi mimi che si rappresentavano, e forse da lui stesso ancora privatamente. La qual cosa per avventura non ignorando Giulio Cesare volle che negli spettacoli dati per lo suo trionfo Laberio stesso comparisse in teatro (siccome avea già obbligati i due principi reali dell’Asia e della Bitinia a danzare in pubblico la pirrica) promettendogli cinquecentomila sesterzii, cioè intorno a quattordicimila ducati Napoletani. Più di questa offerta valse forse, a persuader Laberio ad avvilirsi in simil guisa, la potenza di Cesare che invitando comandava. Obedì, ma volle vendicarsene in un prologo, di cui ecco una parte:

Necessitas, cujus cursus tranversi impetum
Voluerunt multi effugere, pauci potuerunt,
Quò me detrusit penè extremis sensibus!
Quem nulla ambitio, nulla unquam largitio,
Nullus timor, vis nulla, nulla autoritas
Movere potuit in juventa de statu,
Ecce in senecta ut facilè labefecit loco
Viri excellentis mente clemente edita
Submissa placide blandiloquens oratio.
Etenim ipsi dii negare cui nil potuerunt,
Hominem me denegare quis posset pati?
{p. 231}
Ego bis tricenis annis actis sine nota,
Eques Romanus lare egressus meo,
Domum revertar mimus. Nimirum hoc die
Uno plus vixi mihi quam vivendum fuit.

Nella stessa favola poi sparse altri tratti di satira che andavano a colpire il Dittatore. Col vestito di uno schiavo che era bastonato, gridava fuggendo,

Porrò, Quirites, libertatem perdimus.

Ed aggiunse appresso:

Necesse est multos timeat, quem multi timent;

al qual motto si rivolse il popol tutto à mirar Cesare140. Ma quantunque sentisse questi le punture, mantenne la parola quanto al premio, e gli diede anche l’anello quasi in segno di ristabilirlo nella dignità equestre, dalla quale pareva Laberio per di lui capriccio decaduto. Andò questo mimo cavaliere dopo la rappresentazione a prender luogo tra gli altri della sua classe, e si abbattè in Cicerone, il quale mostrandosi imbarazzato diceva non potergliene dar molto, {p. 232}a cagione della gran folla che vi era, alludendo al gran numero di senatori e cavalieri creati da Cesare. Ma Laberio che non cedeva all’Arpinate nel motteggiare, rispose che non si maravigliava che stimasse di stare a disagio in un solo sedile chi era solito ad occuparne due in un tempo; satireggiando in tal guisa la doppiezza ed incostanza dell’oratore. Orazio141 riprende i mimi di Laberio come poco eleganti; e veramente egli si arrogava una gran libertà d’inventar parole nuove, siccome leggesi in Aulo Gellio. Scaligero però stima ingiusta la censura di Orazio142; quasi che egli da’ frammenti soli che ne rimangono, potesse giudicar più drittamente di un Orazio che ne conobbe gl’ interi componimenti. Di varie di lui farse fanno menzione gli antichi, e specialmente il nominato Gellio143: Theophinus, Fullonica, Staminarii, Restio, Compitalia, Cacomemnon, Nacca, Saturnalia, Necromantia, Scriptura, Alexandra, nel qual mimo diffinisce il giuramento,

Quid est jusjurandum? emplastrum æris alieni.
{p. 233}

In un altro suo mimo intitolato Rector inserì i seguenti versi sull’acciecamento di Democrito da un vecchio avaro applicato a’ proprii casi:

Democritus Abderites physicus philosophus clypeum
Constituit contra exortum Hyperionis, oculos
Effodere ut posset splendore aereo, ita radiis
Solis aciem effodit luminis, malis bene
Esse ne videret civibus! sic ego
Fulgentis splendore pecuniæ volo
Elucificare exitum ætatis meæ,
Ne in re bona videam esse nequam filium.

Publio Siro così denominato dalla Siria ove nacque, fu schiavo in Roma, ma ottenuta la libertà andò rappresentando i suoi mimi per l’Italia. Tornato indi a Roma ne’ giuochi di Cesare riportò vittoria di tutti gli attori e poeti e di Laberio stesso. Cesare offeso dall’arroganza e maldicenza di costui abbracciò volentieri l’occasione di mortificarlo, dichiarandosi pubblicamente a favore de’ mimi rappresentati da Publio. Di questo liberto ci sono pervenute alcune centinaja di versi, i quali contengono eccellenti sentenze e insegnamenti per la vita civile, e la di loro eleganza ci rende molesta la perdita delle intere sue favolette. {p. 234}In sentimento di Cassio Severo144 i di lui detti sentenziosi reputavansi superiori a qualunque comico e tragico greco e latino. Aulo Gellio ce ne ha conservati moltissimi versi. Fra quelli che più volte se ne raccolsero e si stamparono, ne sceglieremo per saggio alcuni pochi che ci sembrano degni di osservarsi per la nitidezza ed eleganza e per le verità, che contengono:

Ad pœnitendum properat, citò qui judicat.
Amici vitia si feras, facis tua.
Bis vincit qui se vincit in victoria.
Citò ignominia fit superbi gloria.
Felix improbitas optimorum est calamitas.
Heredis fletus sub persona risus est.
Fortuna vitrea est, tum cum splendet, frangitur.
Ignoscito sæpe alteri, nunquam tibi. &c.

Altri non divulgati trovansene in fine di un codice del Capitolo Veronese, alcuni de’ quali sono riferiti dal Marchese Maffei nel suo trattatino de’ Teatri.

Vincere est honestum, opprimere acerbum, sed pulchrum ignoscere.
Pœnæ satis est, qui læsit, cum supplex venit.
{p. 235}
Etìam sine lege pœna est conscientia.
Sat est disertus, pro quo veritas loquitur &c.

Dopo questi si distinsero tra’ mimografi Lentulo, di cui favellano San Girolamo e Tertulliano, Gn. Mazio da Gellio appellato dottissimo, e Lucio Crassizio di famiglia Tarantino. Costui ebbe il cognome di Paside che poi trasformò in Panza ed attese da prima agli studii teatrali e compose alcuni mimi. In Ismirne acquistò rinomanza con un dotto commentario, ed in Roma insegnò le belle lettere a molti nobili e spezialmente a Giulio Antonio figliuolo del triumviro. Fu stimato al pari del famoso Verrio Flacco precettore de’ nipoti di Augusto. Terminò il suo corso dandosi alla filosofia dietro la scorta del filosofo Quinto Settimio.

I mimi prodotti da tali scrittori erano ingegnosi, morali e piacevoli, nè si scostavano moltissimo dalla commedia. Ma la buffoneria e l’oscenità a poco a poco corruppe queste picciole farse, specialmente coll’ introdurvisi le donne. Dicemmo nel teatro Greco che nelle commedie e tragedie non rappresentavano donne, ed in Roma avvenne lo stesso. L’ istrione Rutilio rappresentava le parti di Antiopa ed altre donne. Nerone stesso, secondo Suetonio, colla maschera finta a somiglianza delle femmine {p. 236}ch’egli amava, cantando rappresentò Canace che partoriva145. Non così nelle mimiche rappresentazioni, nelle quali, per condire di oscenità la buffoneria, s’introdussero le donne. Allora fu che de’ mimi degenerati si disse da Ovidio, imitantes turpia mimi, e che Diomede diffinì la mimica, factorum turpium cum lascivia imitatio (Nota XVIII). Da quel tempo s’intesero ne’ fasti scenici mentovati i nomi delle mime Origine e Arbuscula, delle quali favella Orazio ne’ Sermoni, e di Citeride mima favorita di Marcantonio, e di Lucilia mima che visse sino a cento anni nominata da Plinio. Della sfacciataggine di simili mime sono pieni gli scrittori. Mima e meretrice diventarono sinonimi. Sul medesimo teatro non che nelle case, campeggiava la loro impudenza. A un cenno del popolo dovevano nudarsi e fare spettacolo del proprio corpo. Ma in tal caso dir non saprei, se maggiore sfacciataggine mostrassero queste schiave in eseguirlo, o il popolo {p. 237}in comandarlo. Assisteva Marco Porcio Catone ai giuochi Florali fatti dall’Edile Messio l’anno di Roma DCXCVIII, ed il popolo si vergognò di chiedere che le mime deponessero le vesti, rispettando la presenza di quel virtuoso cittadino; ma egli avvertitone da Favonio suo amico uscì dal teatro, e il popolo contento l’accompagnò con plausi strepitosi, e richiamò sulla scena l’antico costume146.

{p. 238}

IV.
Pantomimi. §

I Pantomimi coltivati in Roma poterono derivare dalla tacita gesticolazione di Livio Andronico o dalle antiche danze Orientali {p. 239}e Greche surriferite; nè se ne può ragione-volmente attribuire la prima invenzione a Batillo e Pilade famosi istrioni ballerini del tempo di Augusto. Al più questi diedero un gusto più moderno all’antica arte pantomimica. C. Giulio Batillo di Alessandria dalla prisca danza comica formò l’Italica, la quale per la troppo oscenità diede motivo ai tratti satirici lanciati da Giovenale nella citata satira sesta. P. Elio Pilade di Cilicia spiccò ne’ balli tragici, e secondo Suida e Ateneo compose anche un libro in tal materia. Egli ebbe un discepolo chiamato Ila, il quale rappresentando co’ gesti una tragedia, nel voler esprimere queste parole, il grande Agamennone, sollevò la persona. Pilade lo disapprovò, affermando che il di lui gesto esprimeva alto, e non grande. Volle allora il popolo che sottentrasse il maestro a rappresentar la stessa cosa, ed egli obedì, e giunto a quelle parole {p. 240}si compose in atto grave colla mano alla fronte in guisa di uomo che medita cose grandi, e caratterizzò più aggiustatamente la persona di Agamennone147. Tale era l’ accuratezza degli esperti pantomimi antichi (Nota XIX). Altre delicatezze di Pilade e del di lui discepolo nel rappresentare vengono accennate dal citato Macrobio. Ila però come sommamente licenzioso ad istanza del Pretore fu da Augusto nella propria casa fatto pubblicamente bastonare148. Da Batillo e Pilade si formarono le due famose scuole, o partiti, chiamate i Batilli e i Piladi, i quali scambievolmente si disprezzavano e facevansi ogni male. Batillo favorito da Mecenate giunse a far bandire da Roma e dall’Italia il suo emulo Pilade, benchè Suetonio ci dica essere costui stato esiliato, per avere dalla scena mostrato a dito uno degli spettatori che lo beffeggiava. Ebbe egli poi tanti protettori che fu richiamato. Questi partiti produssero sanguinose fazioni nella città dominatrice del mondo. Nerone che se ne compiaceva, assisteva talora ascoso in teatro per goderne, e al vedere attaccata la mischia soleva anch’egli gettar pietre contro i partigiani della fazione {p. 241}contraria, e una volta ruppe il capo a un Pretore149; e in quale altra guerra avrebbe fatte le sue prodezze un imperadore che si gloriava di esser contato tra’ musici ed istrioni? Finì in Roma ogni gloria della poesia drammatica, allorchè cominciò a regnarvi la moda delle buffonerie e oscenità de’ mimi e de’ pantomimi, spettacoli più atti a trattenere un popolo che andava degenerando.

Ma le nostre querele e quelle di tanti scrittori contro de’ pantomimi, cadono sulla loro arte o anzi sulla scostumatezza? L’arte al fine non è altro che una vivace rappresentazione che unita acconciamente alla poesia drammatica serve ad animarla. Ora se gli attori pantomimi giunsero a rappresentare con tal verità e delicatezza che non soccorsi dalla locuzione tutta sapevano esprimere una favola scenica, come si può senza nota di leggerezza asserire, che l’arte pantomimica à la honte de la raison humaine fît les delices des Grecs & des Romains, secondo che declama M. Casthilon? I talenti possono mai far vergogna alla ragione, sempre che i costumi sieno puri? La tragedia di Medea espressa mirabilmente per gesti da Mnestere poteva recar vergogna {p. 242}alla ragione, perchè la vita del pantomimo era dissoluta, o perchè le matrone Romane innamoravansi di tali istrioni ballerini, o perchè essi prendevano dominio sugl’ imperadori e influivano negli affari del governo? Ma gli errori di tal Francese su i pantomimi ed altre cose teatrali e non, teatrali non sono nè piccioli nè pochi. Chi mai, se non costui, senza pruove, confondendo fatti ed idee, e passando di un salto leggiero sulle terribili vicende dell’Europa che per dir così la fusero e rimpastarono di nuovo, chi, dico, avrebbe francamente scritto che le fazioni per gli pantomimi perpetuaronsi per mille e dugento anni sino a produrre, che cosa? i partiti de’ Guelfi e de’ Ghibellini! È vero che in Roma e in Constantinopoli arsero le fazioni de’ Verdi e de’ Turchini nel circo e ne’ teatri; ma è vero ancora, che i pantomimi influirono negl’ interessi e nell’origine degli odii de’ Guelfi e de’ Ghibellini quanto v’influì la discordia de’ Tebani Eteocle e Polinice.

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CAPO VI.
Teatro Materiale. §

Roma prima del tempo di Pompeo ebbe teatri magnifici che per qualche occorrenza si eressero di legno e si disfecero. Tutto ciò che osservammo nella costruzione del teatro Greco, videsi ne’ teatri Romani innalzati estemporaneamente. Vitruvio ci fa sapere che in essi soltanto desideravansi que’ vasi di rame che rendevano la voce più sonora, e che questi non istimaronsi necessarii, perchè i tavolati a un di presso facevano l’effetto medesimo de’ vasi. Incredibile era la loro sontuosità. L’immaginazione de’ romanzieri la più fertile non avrebbe potuto ideare un teatro più magnifico di quello di Emilio Scauro quando fu creato edile. Ornavano la scena trecento sessanta colonne divise in tre ordini, nel primo de’ quali esse erano di marmo di trentotto piedi di altezza, nel secondo di cristallo e nel terzo di legno dorato. Tremila statue di bronzo vedevansi collocate fralle colonne. Tali e tanti poi erano i fregi e i quadri, e così pompose le decorazioni, che essendosi tali preziosi materiali bruciati per malignità de’ di lui schiavi in {p. 244}una casa di campagna che aveva in Tuscolo, ne montò la perdita a cento milioni di sesterzi in circa, cioè intorno a due milioni e ottocentomila ducati Napoletani. Qual Principe moderno ha mai profuso in un teatro momentaneo il valore che allora perdè quest’edile?

Il primo che pensò a costruirne uno stabile di pietra, fu Pompeo, e l’eseguì nel suo secondo consolato che esercitò insieme con M. Licinio Crasso l’anno di Roma 699 secondo Plinio e Plutarco; e i lodatori degli andati tempi e costumi ne ’l censurarono. Il disegno si tolse dal Greco teatro di Mitilene; ma si concepì assai più splendido, pieno di comodi e di delizie, e capace di circa quarantamila persone150. Nella stessa regione del Circo Flaminio, ove era questo teatro Pompeano, se ne vedevano tre altri, cioè il teatro nominato Lapideo, quello detto di Cornelio Balbo, e l’altro eretto da Augusto sotto il nome di Marcello, il quale era il più picciolo di tutti {p. 245}non potendo contenere che ventiduemila spettatori151. Nè anche in questi teatri stabili Romani si collocarono i vasi di rame o bronzo soprannomati, per quel che osserva il più volte lodato architetto Vitruvio. Tali vasi però si trovavano ne’ teatri d’Italia, e specialmente delle città di Greca origine, come Napoli, Taranto, ed altre del nostro regno; nè tutte gli avevano del nominato metallo, perchè nelle picciole città bastò agli architetti di porvigli di creta, e per esservi artificiosamente collocati vi producevano il medesimo ottimo effetto152.

In pochissime altre cose differivano da’ teatri Greci i Romani. Il pulpito Romano era più spazioso del Greco, perchè in Roma ogni spezie di attori operava nel pulpito; e all’opposto i Greci, come si disse; si valevano dell’orchestra per una parte degli attori, cioè per gli musici e i danzatori. In oltre il pulpito Romano non dovea passare l’altezza di cinque piedi, perchè posto più alto avrebbe incomodato i più ragguardevoli spettatori, i quali sedevano {p. 246}nell’orchestra che era ad esso pulpito immediata.

L’ordine di sedere agli spettacoli Romani era il seguente. Vedevasi nell’ orchestra il podio, in cui si collocava una spezie di cattedra o trono per l’imperadore, quando vi assisteva, oltre alle sedie curuli de’ magistrati. I Senatori occupavano immediatamente alcuni scaglioni superiori della medesima orchestra. Seguivano poscia i quattordici gradini destinati al Cavalieri. Più sopra sedea la plebe, e gli scaglioni da essa occupati chiamavansi popolari. Tutta adunque la scalinata dividevasi in tre spartimenti, basso, mezzano e superiore, detti da’ Latini ima, media e summa cavea, delle quali parti l’ima occupavasi da’ senatori e cavalieri, e la media e la summa dal rimanente del popolo. Era però la media più decente della summa, perchè in questa sedevano le persone più vili e malvestite. Forse allontanandoci da questa divisione di Giusto Lipsio, non incorreremo in errore, se col dottissimo nostro Mazzocchi divideremo tutta la scalinata in orchestra e in luogo popolare, e questo suddivideremo in equestre e popolare. Così l’ima cavea apparterrà a’ senatori, la parte della media piu vicina all’orchestra a’ cavalieri, e la più lontana insieme colla summa a’ plebei. Gli ambasciadori stranieri aveano luogo nel più basso spartimento co’ senatori: benchè poscia Augusto, {p. 247}al vedere che mandavansi spesso per ambasciadori i figliuoli de’ liberti, negò loro il luogo nell’orchestra. Oltre a ciò pose Augusto nel sedere un ordine diverso dall’antico. I militari si collocarono in un sito o cuneo separato: in un altro anche a parte i mariti plebei: in un altro i pretestati co’ loro pedagoghi: e alle donne, che prima solevano intervenire alla rinfusa, impose che soltanto dall’alto, ed in sito segregato, potessero vedere. Le Vestali occuparono un luogo distinto dirimpetto al seggio del Pretore153. Tra esse volle Augusto che si ponesse la sedia di Augusta allorchè veniva in teatro154. I luoghi più elevati si riserbarono alla plebaglia più sordida e abjetta155.

{p. 248}

CAPO VII. ed ultimo.
Vuoto della Storia teatrale. §

Chiamiamo vuoto della storia teatrale il lungo periodo interposto dalla corruzione della poesia drammatica sino alla perdita della lingua latina avvenuta principalmente per l’incursione delle nazioni barbare nell’impero Romano.

I.
Copia di teatri per l’impero. §

Non è già che sotto gl’ imperadori de’ tre primi secoli cessato fosse il gusto degli spettacoli scenici in Roma ed altrove. I teatri stabili sussistevano nella regione del Circo Flaminio, e alle occorrenze gl’imperadori ne rifacevano quel che dal tempo e dagli accidenti veniva distrutto. Napoli, Capua, Ercolano, Pompei, Nola, Pozzuoli, Siracusa, Catania ed altre città del regno di Napoli e della Sicilia, videro i loro teatri per quel periodo assai frequentati. Di moltissimi altri teatri rimangonci anche oggi gli avanzi nel rimanente dell’Italia. Oltre a quello di Padova, di Pesaro, dell’ {p. 249}altro presso il Lago di Bolsena rammentato nell’iscrizione pubblicata dal Muratori, di quelli della Toscana accennati dal Borghini, di quello di Anzio, di cui favella il P. Giuseppe Rocco Volpi, e del teatro di Brescia mentovato nelle Memorie Bresciane del Rossi, de’ quali tutti ha fatta menzione il chiar. Tiraboschi156, havvene non pochi altri che in parte ancora esistono, e frequentavansi sotto gl’ imperadori de’ primi secoli. Torello Saraina Veronese rammenta il teatro della sua patria157, oltre all’anfiteatro superbissimo che ancor si ammira e si conserva col nome di Arena. Vestigii di teatro veggonsi nel Piceno dove era Alia rovinata dal Goto Alarico, della quale a’ tempi di Procopio rimanevano appena poche reliquie. Nell’Umbria veggonsi in Eugubio alcuni rottami di un teatro, che ebbe le mura reticolate158. Spoleto ancora, secondo il Biondo e il Sabellico, ebbe un teatro rovinato da’ Goti insieme colla città dopo la morte di Teodorico. In Rimini havvi un rottame di un antico teatro fabbricato di mattoni. {p. 250}Oltre Terracina, seguitando la Via Appia, nel luogo dove fu Longola città descritta da Dionigi Alicarnasseo e da Livio, vedesi un teatro quadrato appresso il monistero di S. Angelo sul monte, del quale dice il lodato Alberti, descrivendo la Campagna di Roma, benchè io abbia veduto molti teatri & anfiteatri . . . . . . non però non ho mai veduto il simile a questo159.

Esistevano intanto in Grecia i già mentovati teatri di Corinto, di Tebe, di Atene, di Delo, di Sparta ecc. Bizanzio ebbe pure un gran teatro, il quale col resto della città fu rovinato dalle truppe di Severo160. Antiochia ne avea un altro, e i di lei istrioni furono cagione della trascuraggine e della fatal rovina di Macrino161. In Tebe di Egitto vuolsi che fosse un teatro, e che di là avesse Pilade tratte alcune novità che introdusse nell’arte pantomimica. Erode Ascalonita ne edificò uno assai grandioso {p. 251}in Gerusalemme162.

{p. 252}

Nel rimanente dell’Europa, dove giunsero le vincitrici armi di Roma, trovansi pur teatri. Vedevansene eretti in quella parte dell’ Inghilterra, in cui si piantarono colonie Romane. Tacito fa menzione della colonia de’ veterani di Camaloduno, dove era un tempio dell’ imperador Claudio, e un teatro, il quale, fra gli altri prodigii osservati nella ribellione de’ Trinobanti governando Paulino Suetonio i Britanni, s’intese risonare di gemiti ed urlamenti163. Nella Spagna solevano alle occasioni alzarsi alcuni teatri di legno. Così fece in Cadice il Pretore Balbo, il quale essendosi straricchito con inaudite estorsioni, rapine e ingiustizie, fe costruirvi un teatro con quattordici ordini di scalini per l’ordine equestre; e per potersi millantare di essere la scimia di Giulio Cesare, nell’ultimo giorno de’ giuochi donò l’anello d’oro all’istrione Erennio Gallo e lo fe sedere tra’ cavalieri164. Oltre a ciò si osservano tuttavia in Murviedro le rovine del teatro Saguntino, essendo questa città eretta nel regno di Valenza sulle ceneri dell’antica Sagunto. Era questo teatro capace di circa novemila persone, {p. 253}secondo il calcolo fattone dal dotto Decano di Alicante Don Manuel Martì tanto amico del nostro Gravina, nella lettera scrittane a Monsignor Zondadari. E alluse a questo teatro e ad altre antichità di Murviedro il poeta Leonardo Argensola quando scrisse:

Con marmoles de nobles inscripciones.
(Teatro un tiempo y Aras) en Sagunto
Fabrican oy tabernas y mesones165.

Alcuni moderni autori Spagnuoli fanno menzione di altre rovine teatrali che si trovano nella loro Penisola. Presso il luogo che oggi occupa Senetil de las Bodegas, dove fu l’antico Acinippo della Celtica mentovato da Plinio, trovansi tuttavia esistenti le tre porte della scena166. Una lega distante da Calpe, venendosi da Algecira, si osservano i vestigii di un teatro e di un anfiteatro con altre rovine dell’antica città di Tarteso (differente da Cadice che pure portò questo nome) detta da’ Greci Carteia. {p. 254}Tralle antichità di Merida, dove Augusto pochi anni prima dell’Era Cristiana mandò una colonia di Legionarii, vedesi tuttavia quasi intera quella parte del teatro che si appartiene all’uditorio, non essendovi rimasto verun vestigio della scena167.

II.
Magnificenza e profusione eccessiva negli spettacoli scenici. §

Non furono mai più sontuosi e frequenti i giuochi scenici quanto ne’ primi secoli dell’impero. Gl’ istrioni musici, ballerini e declamatori moltiplicaronsi oltremodo. Fin dal regno di Tiberio componevano un corpo sì numeroso, e riceveano paghe sì esorbitanti, che egli videsi obbligato a rimediarvi col minorarne la mercede168. Nè conseguì per questo di scemarne il numero, anzi a tal segno esso crebbe, che di sole ballerine forestiere, secondo Ammiano {p. 255}Marcellino169, contaronsi in Roma più di tremila, le quali coi loro cori e con altrettanti maestri furono privilegiate ed eccettuate da un bando di sfratto dalla città intimato per timore di carestia a tutti i filosofi, retori ed altri letterati stranieri. Era Tiberio uno de’ principi più avversi allo spettacolo teatrale. Egli punì come reo di maestà lesa un poeta che in una tragedia avea inserite alcune parole ingiuriose contro il re Agamennone. Assai di rado egli fecesi vedere nel teatro dopo che una volta a richiesta del popolo videsi astretto a manomettere il comedo chiamato Accio170. Avea promesso di riedificare il teatro di Pompeo bruciato casualmente, non essendovi nella famiglia del gran competitore di Giulio Cesare alcuno che potesse a suo tempo sostenerne la spesa. Ma Tiberio non mantenne la parola, e dopo molti anni fecene appena rifare la scena, che pure lasciò imperfetta, come afferma Suetonio, o almeno ne trascurò la dedicazione, come racconta Tacito171. Intanto però la gente da teatro avea di giorno in giorno acquistato tal predominio sopra i Romani, che i personaggi più {p. 256}illustri e le matrone più nobili facevano a gara nell’arricchirla, nel trattarla con somma famigliarità e nell’amarla follemente. Giulio Messala negò il proprio patrimonio a’ parenti, e lo divise tra gl’ istrioni. Diede a una mima la tunica di sua madre, a un mimo la lacerna del padre, a un tragedo il pallio dorato di color di porpora di sua nonna, e ad un coraulo un altro pallio in cui era ricamato il proprio nome e quello della moglie172. Peggio era avvenuto in tempo di Augusto, che dovè castigare col bando da Roma, dopo di averlo fatto menare scopando per tre teatri, Stefanione togatario, il quale giunse all’impudenza di farsi servire alla tavola da una matrona Romana in abito servile173. Il medesimo Augusto però ebbe sì caro il pantomimo Batillo, che lo creò edituo del suo tempio eretto nel proprio palazzo, siccome apparisce dall’ iscrizione scolpita nel di lui sarcofago recata dal Fabretto e dal Ficoroni. Sotto gli altri imperadori degeneri questi eccessi passarono a’ deliri. Cajo Caligola non avea ritegno di baciare in pubblico l’eccellente pantomimo tragico M. Lepido Mnestere; e quando egli ballava, se sventuratamente {p. 257}qualche spettatore facesse il più picciolo strepito, se ’l faceva recare innanzi e di propria mano lo flagellava174. Si sa per quali infami vie ottenne il favore di questo medesimo imperadore un altro famoso attore tragico chiamato Apelle, che giunse ad essere noverato tra’ suoi consiglieri. Ma i Caligoli sono come le fiere addimesticate, che mai non si spogliano di tutta la nativa ferità, e quando meno si attende, la riprendono. Trovavasi un dì Caligola presso ad una statua di Giove col suo Apelle, e gli venne il capriccio di domandargli, fra Giove e lui qual de’ due gli sembrasse più maestoso. E perchè Apelle indugiò alcun poco a rispondere, lo fece battere aspramente, insultando frattanto al di lui dolore, con dire che nel tuono lamentevole ancora spiccava la dolcezza della di lui voce175. Vitellio resse l’Imperio quasi sempre a voglia degl’ istrioni176. Eliogabalo distribuì le maggiori dignità a’ pubblici ballerini; molti di essi destinò procuratori delle provincie; uno ne pose nell’ordine de’ cavalieri, un altro nel senatorio; un altro che da giovane avea rappresentato nella medesima {p. 258}città di Roma, fu da lui creato prefetto dell’esercito177.

III.
Decadimento della poesia drammatica, e perchè avvenisse. §

Ma non ostante il numero e la magnificenza de’ teatri, e le ricchezze e gli onori prostituiti agli strioni, debbesi da questo tempo contare il vuoto della storia teatrale, perchè la poesia drammatica in tal periodo non ebbe scrittore veruno Greco o Latino che meritasse di passare a’ posteri. Appena in Roma ripetevansi le antiche produzioni, ed il popolo trovava insipido ogni altro spettacolo scenico, fuorchè i pantomimi e i mimi che occuparono interamente le scene.

Potrebbe qui domandarsi, perchè mai in Roma, ove la poesia si elevò sino al punto di partorire Orazii e Virgilii, non potesse, specialmente sotto gl’ imperadori, sorgere un Sofocle e un Menandro? Manifesta a me ne sembra la cagione. Sotto la repubblica si ebbe un Accio, un Cecilio, un Afranio, e un Terenzio, i quali se non uguagliarono i Menandri e i Sofocli, passarono {p. 259}innanzi a molti tragici e comici della stessa Grecia. Questi principii avrebbero accelerata la perfezione della poesia rappresentativa; ma la repubblica sotto gl’ imperadori, se non si estinse totalmente, almeno cangiò di aspetto, ed i costumi si alterarono enormemente. I Romani da eroi che erano e superiori a’ principi stranieri, come credevansi, divennero de’ proprii signori bassissimi cortigiani. La libertà cedette all’adulazione, l’ indipendenza al timore, e il despotismo atterrì i poeti drammatici, e ne raffreddò il genio. Agamennone Greco maltrattato in una tragedia Romana divenne un delitto di stato. Alcuni versi inseriti in un’ altra, e dalla malignità naturale de’ cortigiani interpretati contro del Principe, cagionarono la morte del poeta. Uno scrittore di favole Atellane per un verso ambiguo fu da Caligola fatto bruciar vivo in mezzo dell’ anfiteatro. E chi poteva amare e coltivare una poesia che menava alla morte e all’infamia del supplizio senza delitto178? Osservammo nel tomo precedente, {p. 260}che la legge or dirige or aguzza gl’ingegni, e l’ arte ne acquista perfezione; ma ciò s’intende quando la legge, cioè la ragione, gastiga i delitti, non già quando un’ arbitraria indomita passione infierisce contro l’innocenza, e punisce in essa i proprii sogni e vaneggiamenti. Il veleno è un antidoto, ma dà la morte, se si adoperi fuor di tempo, o se la dose ecceda il bisogno. Non è adunque maraviglia che anche in tempi sì luminosi la drammatica avesse avuti così pochi coltivatori. Egli è vero che Plinio ascrive a lode di Trajano, che il popolo stesso abborriva sotto di lui l’effemminatezza de’ pantomimi. Egli è ancor vero, che secondo il racconto di Sparziano, l’imperadore Adriano ne’ suoi conviti amava di far rappresentare commedie, tragedie e atellane. Ma le cagioni distruggitrici della drammatica sussistevano, e i costumi e gli studii aveano già preso nuovo cammino.

{p. 261}

IV.
Secoli, ne’ quali mancarono gli scrittori scenici. §

In tempo di Antonino Pio troviamo da Capitolino mentovato solamente Marco Marullo attore e scrittore di favole mimiche, il quale ebbe l’ardire di satireggiare i principali personaggi della città senza eccettuarne lo stesso imperadore. Marco Aurelio di lui figliuolo adottivo e successore diceva, che le commedie de’ suoi tempi altro non erano che mimi. In fatti sotto gli Antonini non troviamo mentovati con applauso se non Q. Trebellione pantomimo insigne della città di Telese due volte coronato179, e L. Acilio della tribù Pontina archimimo che fu decorato dalla città di Boville del decurionato180. Sino alla divisione del Romano Impero, per quanto io so, non si trova nominato scrittore alcuno drammatico.

E come trovarne dalla morte di Teodosio {p. 262}I sino allo stabilimento de’ Longobardi in Italia, periodo il più deplorabile per l’umanità a cagione del concorso di tante calamità, cioè di guerre, d’incendii, di fame, di peste che all’inondazione di tanti barbari desolarono l’intera Europa? Ausonio ci ha conservato memoria di un certo Assio Paolo retore che fioriva verso la fine del quarto secolo, e coltivava più di un genere poetico oltre alla storia. Ausonio gl’ indirizza sette delle sue epistole. Nella decima invitandolo in campagna gli dice che venga con tutti i suoi scritti:

Dactylicos, elegos, choriambum carmen, epodos,
Socci & cothurni musicam
Carpentis impone tuis, nam tota supellex
Vatum piorum chartacea est.

Nella decimaquarta poi l’invita a venire alla leggera:

Attamen ut citiùs venias, leviusque vehare,
Historiam, Mimos, Carmina lingue domi.

E forse era una spezie di mimo il componimento di questo Paolo intitolato Delirus mentovato nella lettera XI che è in prosa: Ergo nisi Delirus tuus in re tenui non tenuiter {p. 263}elaboratus opuscula mea, quæ promi studueras, retardasset ecc.181.

Abbiamo ancora la commedia intitolata Querolus, o Aulularia scritta senza aversi esatta ragione del metro, e quindi dal Vossio appellata dramma prosaico182. Essa fu impressa in Parigi nel 1564 appo Roberto Stefano con dotte annotazioni di Pietro Daniele Aurelio, e s’inserì poi nella bella edizione di Plauto di Filippo Pareo uscita nel 1619. Se ne ignora l’autore, e il dottissimo Fabrizio ci dice: Marci Accii certè minime est, quoniam author ipse in prologo hanc fabulam investigatam Plauti per vestigia profitetur183. Si congettura essere stata scritta intorno al principio del sesto secolo sotto Teodosio II. Ma queste rarissime {p. 264}ed oscure fatiche che mai potevano influire in tempi sì tristi a vantaggio della poesia rappresentativa?

Non ci somministra veruno scrittore il rimanente del secolo sesto, quando i popoli cominciarono a respirare alquanto. Troviamo bensì in esso i giuochi e i disordini teatrali. In oriente Giustiniano imperadore e legislator famoso chiamò a parte del suo letto e dell’alloro imperiale la mima Teodora: in Italia il Goto re Teodorico fe rialzare le terme di Verona e riparare in Roma il teatro che minacciava ruina184, e un anfiteatro e nuove terme fe costruire in Pavia: sotto Atalarico frequenti furono gli spettacoli teatrali in Italia, e vi si profusero ricchezze grandi per diletto e ristoro del popolo185: la Sicilia sin dal quarto secolo ebbe in costume di mandare a Roma i suoi abili artefici di scena che vi erano chiamati186. Ma non troviamo scrittori drammatici.

Non ne troviamo nel VII, VIII e IX secolo, ne’ quali sparì dal cospetto degli uomini {p. 265}pressochè interamente ogni vestigio di politica, di giurisprudenza, di arti e letteratura Romana, e s’introdussero nuovi governi, nuove leggi, nuovi costumi, nuove vesti, nuovi nomi di uomini e di paesi, e nuove lingue, cangiamenti maravigliosi che non poterono accadere senza l’esterminio quasi totale degli antichi abitatori. In Francia appena si ripeterono le sconcezze mimiche nel barlume che vi fe rilucere Carlo Magno187.

Non empiono questo gran vuoto nè le musiche, i balli e i travestimenti usati da’ Cherici nelle feste solenni dal VII sino al X secolo, nelle quali con istrana mescolanza di pagane reliquie e di cerimonie Cristiane danzando e cantando esponevano le favole delle gentili divinità188; nè gl’ ignorati {p. 266}o negletti sei dialoghi di Roswita monaca di Gandersheim intitolati commedie, che appartengono al decimo secolo189. Sono esse composte in un latino assai barbaro, e ripiene d’incoerenze ed apparizioni. La prima di esse è divisa in due parti, o atti, e s’intitola Gallicano, che è un pagano generale di Costantino, il quale va a combattere contro gli Sciti, n’è vinto, è ricondotto contro di essi da un angelo, vince, si battezza, e fa voto di castità; e nella seconda parte l’imperadore non è più Costantino, ma Giuliano, da cui Gallicano viene esiliato, e riporta la corona del martirio. Le altre cinque commedie di un atto solo s’intitolano: Dulcizio, Callimaco, Abramo eremita, Pafnuzio, e la Fede Speranza e Carità. Ciò che reca maggior maraviglia in tali dialoghi è che l’autrice amava gli antichi e traduceva Terenzio. I medesimi capi d’opera dell’antichità si lessero quasichè da per tutto, or perchè non riproducono da per tutto il loro gusto?

{p. 267}

Oltre a’ riferiti dialoghi o commedie, in tutto il secolo X, e nell’XI e XII, sebbene si videro comparire alcune incondite poesie nelle nuove lingue, non ve ne furono a patto alcuno teatrali. Egli è però evidente che non mancarono del tutto gli scenici spettacoli, benchè altre feste si fossero introdotte. Lasciando stare i travestimenti de’ Cherici, e le loro danze nella festa del Natale di Cristo e nell’Episania che duravano, per testimonianza di Teodoro Balsamone, anche nel XII secolo190; e i cantambanchi e buffoni che intervennero nelle famose nozze di Bonifazio Marchese di Toscana con Beatrice di Lorena fatte nel 1037191: alquanti anni prima di terminare il XII secolo troviamo nella storia del Basso Impero mentovate persone di teatro. L’usurpatore Andronico, l’uccisore fraudolento di Alessi Comneno, colui che al contrario di Tito diceva di aver perduto il giorno, in cui non gli era riuscito di fare strangolare o almeno accecare qualche personaggio illustre, costretto da Isacco Comneno {p. 268}a fuggire, s’imbarcò in un picciol legno colla moglie e con una mima che egli amava192.

Si pretende anche trasportare a questo medesimo secolo XII un informe abbozzo di dramma Latino intitolato Ludus Paschalis de adventu & interitu Antichristi, composto e forse rappresentato nella Germania, nel quale intervengono il Papa, l’ Imperadore, i Sovrani di Francia, della Grecia, di Babilonia, l’ Anticristo, l’Eresia, l’Ipocrisia, la Sinagoga, e il Gentilesimo. Così pensa il P. Bernardo Pez, che lo diede alla luce193. Ma più tardi che egli non istima uscirono nella Germania drammi somiglianti al riferito, come vedremo ne’ seguenti volumi; e per fissare l’epoca di questa rappresentazione Pascale al secolo duodecimo, bisognerebbe o averne monumenti storici sicuri, o addurne congetture convincenti, esaminando i costumi che vi si dipingono, e le dottrine ed opinioni, le quali potrebbero menarne a rinvenire il nascimento di questa farsa. Certo è però che il {p. 269}primo io non sono a dubitarne; e il dotto Scipione Maffei194 più cose (dice) alquanto difficultano il crederlo (del secolo XII) e tanto più, se ciò si fosse arguito dal solo carattere del codice, che è congettura molto fallace.

Don Blàs de Nasarre letterato Spagnuolo in una sua dissertazione pubblicata nel 1749, faceva sperare monumenti drammatici nella letteratura Araba ricavati dalla Biblioteca dell’Escoriale195. Fu illusione del suo desiderio. Tra gli Arabi non si trova se non quello che ebbero tutte le nazioni anche rozze, cioè musica, balli e travestimenti adoperati ne’ loro giuochi di canne, quadriglie e tornei. Furono anche versificatori; ma per lo più (almeno per quel che apparisce da i libri dell’Escoriale) si limitavano a’ componimenti di non moltissimi versi, ne’ quali facevano pompa di acrostichi, antitesi e giuochetti sulle parole, sembrando che i loro talenti non si fussero avvezzati {p. 270}a soffrire il peso di un poema grande e seguito come il drammatico. Certamente nel Saggio della Poesia Araba del Signor Casiri inserito nella Biblioteca Arabico-Ispana, da cui Nasarre si prometteva tali monumenti, si dice nettamente che gli Arabi non conobbero gli spettacoli teatrali196. E sebbene il lodato Casiri aggiunga che parlerebbe a suo luogo di una o due commedie Arabe, tuttavolta scartabellando la di lui Biblioteca io non trovai un solo componimento drammatico; non dico de’ secoli de’ quali ora favelliamo, ma nè anche de’ seguenti sino all’intera espulsione de’ Mori dalle Spagne. Altro non vi si legge se non che qualche dialogo, ma non teatrale, appartenente al secolo XIV e XV. Il primo del 746 dell’Egira scritto parte in versi e parte in prosa, è di Mohamad Ben Mohamad Albalisi, nel quale trattengonsi a darsi vicendevolmente il giambo cinquantuno artefici. L’ altro dell’anno 845 dell’Egira è di un Anonimo, e s’ intitola Comœdia Blateronis, in cui da diversi interlocutori si tratta di tre cose differenti: nella {p. 271}prima parte parlasi della vendita di un cavallo, nella seconda delle furberie di alcuni vagabondi, nella terza di certi innamorati. S’ingannò adunque Nasarre, e seco trasse Velazquez che gli credè buonamente. Costui nel libretto delle Origini della Poesia Castigliana asserisce primamente, che i Romani portarono in Ispagna i giuochi scenici, senza curarsi di addurne qualche pruova, siccome per altro avrebbe potuto, facendo parola di quanto noi abbiamo non ha guari riferito, cioè de’ giuochi teatrali dati in Cadice da Balbo, del teatro Saguntino e delle rovine teatrali di Acinippo, di Tarteso e di Merida. Egli si contentò solo di prorompere in invettive generali fuori di tempo contra Filostrato, perchè nella Vita di Apollonio affermò, che la Betica in tempo di Nerone neppur conosceva gli spettacoli scenici. Soggiugne poi che i Goti non permisero che la poesia drammatica allignasse in Ispagna; e conchiude, che gli Arabi (i quali, come si è dimostrato, non l’aveano) ve la portarono, adottando senza esame l’opinione di Nasarre, la cui solidità si è già notata.

Da quanto abbiamo in questo capo osservato, si deduce che il principio del vuoto della storia teatrale si trova a’ tempi de’ Tiberii, de’ Caligoli e degli altri imperiosi despoti, i quali fecero ammutolire i poeti, spaventandoli colle diffidenze e crudeltà, e {p. 272}furono cagione che i teatri risonassero unicamente di buffonerie e laidezze, per le quali ci vuole più impudenza che ingegno. Sorse poscia il Cristianesimo, e col divenire la religione dell’Impero, intimò la guerra a qualsivoglia superstizione della gentilità, e conseguentemente ai teatri consecrati alle divinità pagane. E non trovandovi nè anche salva la decenza e la morale, perchè le buone tragedie o commedie aveano ceduto alle leggerezze e agli adulterii delle mimiche rappresentazioni, gli zelanti Cristiani concepirono del teatro le più sozze idee, e scagliarono le più amare invettive contro gli spettacoli e gli attori scenici, sotto la qual denominazione compresero soltanto gl’ infami mimi e pantomimi e le impudentissime mime, cantatrici e ballerine. E quale orrore non doveano destare ne’ Padri Cristiani, ne’ Cirilli, ne’ Crisostomi, ne’ Basilii, ne’ Lattanzii, ne’ Cipriani, negli Agostini, quelle detestabili rappresentazioni di nefandi stupri, che Marsiglia gentile, ma non corrotta, escluse dalle sue scene197? E come avrebbero mirato senza indignazione gli adulterii mimici, che, secondo Lampridio, non bastò ad Eliogabalo di vedere fintamente rappresentati, ma ordinò {p. 273}che s’imitassero sulla scena al naturale198? Così ci avvezzammo a detestare indistintamente i teatri, e per fuggirne gli abusi, ci privammo ancor de’ vantaggi: a somiglianza di quegl’ impazienti coltivatori, i quali in vece di potare e recidere i rami lussureggianti, che fanno ombra inutile e perniciosa, danno al tronco e alle radici degli alberi, e privansi per sempre de’ loro frutti.

TAL fu nel mondo conosciuto l’antico stato degli spettacoli teatrali. L’ utile curiosità congiunta al bisogno che si ha di esempj, onde s’ infiamma e si alimenta il genio, ne renderà sempre accetta la narrazione con gusto e con senno particolareggiata, la quale per gradi e con sicurezza ammaestra; e la preferirà a que’ rapidi abbozzi poetici ove scelgonsi arbitrariamente i colori più vaghi, ed a capriccio si compartono l’ombre ed i lumi, per dipignere d’idea e di maniera, purchè si piaccia alla vista, a costo della verità. Eccone intanto i principali lineamenti raccolti in un sol quadro, quali vengono somministrati dalla storia verace che nulla vela con maligne reticenze.

L’uomo da per tutto imitatore, da per {p. 274}tutto osserva e contraffà i suoi simili per natura insieme e per suo giocondo trattenimento. I Selvaggi d’Ulietea, anzi d’ogni contrada e d’ogni tempo, non oltrepassando i balli o pantomimi accompagnati dal canto, danno a divedere al filosofo investigatore in qual distanza dalla coltura essi ritrovinsi. Con più regolate e più magnifiche danze e canzoni i Messicani, quei di Chiapa, i Tlascalteti, mostransi più prossimi ad emergere dalle ombre, perchè non lontani a rinvenir l’arte del dramma, indizio sempre di qualche coltura. Cinesi, Tunkinesi, Giapponesi, Giavani, culti senza raffinamento, artieri senza delicatezza, navigatori senza coraggio, filosofi quanto basta per distinguersi da’ barbari, imitano le umane vicissitudini senza sceverar ne’ loro drammi gli evenimenti ridicoli da’ lagrimevoli. Più filosofi quei di Cusco giunsero a separar le azioni domestiche e le pastorali dalle guerriere ed eroiche. Tutti poi, senza gli uni saper degli altri, i popoli sotto la linea o nelle opposte zone nell’incamminarsi alla coltura s’imbattono nella drammatica; la coltivano colle medesime idee generali; favoleggiano da prima in versi, ed hanno sacre rappresentazioni; passano indi a dipignere la vita civile, ad eccitar ne’ gran delitti l’orrore o la compassione, a schernire e mordere i vizj de’ privati, e ad esser dalla legge richiamati a temperar l’ amarezza {p. 275}della satira, dal che proviene la bella varietà e delicatezza delle nuove favole nate a dilettare ed instruire.

Fu la Grecia, fu Atene ne’ suoi dì luminosi che passando per tutte le solite fasi della drammatica, ne fissò l’arte e la forma. Fu Eschilo che oscurando Epigene, Tespi e Frinico, divenne il padre della tragedia, ed insegnò il sentiero a chi dovea su di lui stesso sollevarsi. Grande, robusto, eroico, pieno di brio e di fierezza, rendesi talvolta turgido, impetuoso, oscuro; e pure a traverso de’ secoli e delle vicende di tanti regni, giugne alla posterità che l’ammira nel Prometeo, ne’ Sette a Tebe, ne’ Persi. Sofocle si forma su di lui; rende il proprio stile più grave, più maestoso, più sublime; aumenta di vivacità, di decenza, di verità, di splendidezza la scena tragica; e diviene nostro modello con Edipo, Elettra, Antigona e Filottete. Dove tali atleti coglievano sì ricche palme, si presenta Euripide, ed occupa il raro l’intatto pregio di meglio parlare al cuore, avvivando col più vigoroso colorito tutti gli affetti che s’appartengono alla compassione. L’eloquenza e la gravità e la copia delle sentenze filosofiche caratterizzano il di lui stile. Qualche negligenza nell’economia scenica manifesta ch’egli attendeva più a colorir vivamente la natura che a consigliarsi coll’ arte. Ma Ifigenia, Alcestide, le Trojane, Ippolito {p. 276}s’ imitano sempre e non si oscurano mai.

Questi tre rari ingegni spiegavano tutta la loro energia nel delineare con maestria singolare le umane passioni, nel dipignere con naturalezza e verità i costumi, nel trionfare per una inimitabile semplicità di azione; sapendosi per tutto ciò egregiamente prevalere della più poetica e più armoniosa delle favelle antiche e moderne, e adoperando quasi sempre una molla per la loro nazione efficacissima, cioè la forza del fato e l’infallibilità degli oracoli consacrati dalla religione. Posero essi in quel clima la meta alla gloria tragica, che spirò pur con loro, ancor prima che la Grecia divenisse schiava.

Fu intanto il Siciliano Epicarmo filosofo pitagorico che diede forma alla commedia e ne fu chiamato il principe. Frinico, Alceo, Cratino, Eupolide ed Aristofane la perfezzionano, e la rendono più caustica. La natura del governo Ateniese inspirò a’ siffatti Greci l’ardita antica commedia allegorica. La poesia d’Aristofane da non paragonarsi punto con chi trattò un’ altra specie di commedia199, e degna degli applausi {p. 277}d’ una libera fiorente democrazia, appunto perchè osò intrepidamente inoltrarsi nel politico gabinetto e convertir la scena comica in un consiglio di stato, nulla ha di rassomigliante nè alla nuova de’ Latini nè alla moderna commedia. Le Cereali, le Nubi, il Pluto leggonsi oggi ancora con ammirazione, ed incantarono un popolo principe. Di grazia siamo sicuri che sarebbero state allora accolte con pari effetto da que’ repubblicani baldanzosi e pieni soltanto della loro potenza e libertà, la Perintia, Euclione, gli Adelfi, e ’l Misantropo?

Alesside illustrò la commedia mezzana colla grazia, e colla vivacità della satira senza appressarsi alla troppa mordacità di Aristofane. Non fu tragico Anassandride, come lo stimò il Signor Andres nel parlar rapidamente di ogni letteratura, ma comico della commedia mezzana, secondo Ateneo, ed in essa, e non nel teatro tragico, introdusse le deflorazioni e le avventure amorose. Egli ne fu anche la vittima, nella stessa {p. 278}guisa che Eupolide era stato sacrificato nell’antica al risentimento de’ potenti.

Per questi gradi passando la Grecia pervenne ad inventar la nuova commedia sorgente della Latina e dell’Italiana del secolo XVI. Domata la greca ferocia col timore delle potenze straniere, si avvezzò ad una commedia più discreta, più delicata, la quale si circoscrisse a dilettare con ritratti generali mascherati di modo che lo stesso vizioso deriso, senza riconoscersi nel ritratto, rideva del proprio difetto. Dopo il Cocalo ed il Pluto di Aristofane, e le favole de i di lui figliuoli, vennero ad illustrar questo genere gli Apollodori, l’uno e l’altro Filemone, Difilo, Demofilo, e più di ogni altro Menandro che divenne la delizia de’ filosofi e ’l modello di Terenzio, e fu il primo a cui la grazia comica si mostrasse in tutta la sua beltà. E chi poteva dopo di lui calzar degnamente il greco borzacchino? Cadde colla Grecia stessa la sua bella commedia per rinascere indi nel Lazio per mano di un Affricano.

Gli Etruschi e i Campani infondono l’amor del dramma negl’ Italiani che Romolo avea raccolti intorno ai sette colli. I Semigreci della Magna Grecia Livio Andronico, Ennio, Pacuvio, ed anche Nevio il Campano, insegnano loro ad amar le lettere e a coltivar la poesia drammatica. Plauto calcando le orme di Epicarmo, e {p. 279}non di Aristofane, ed imitando a un tempo Difilo, Demofilo e Filemone, diletta soprammodo un popolo guerriero. Dopo Cecilio, il Cartaginese Terenzio seguito da Afranio, colle spoglie di Menandro e degli Apollodori, introduce in Roma la bella commedia, la quale, non che a’ filosofi e letterati, piacque ai migliori della repubblica, ai Furii, agli Scipioni, ai Lelii. Ennio, Accio e Pacuvio vi riconducono con decoro e gravità la greca tragedia, e spianano il sentiero al Tieste di Vario, all’Ottavia di Mecenate, alla Medea di Ovidio, all’Ippolito, alla Medea e alla Troade di Seneca, e all’Agave di Stazio. La grandezza eroica campeggia nel loro stile con carattere particolare, meno attaccato alla naturalezza Greca, e più confacente alla maestà Romana. Il perno però su cui volgesi la tragedia Romana, è lo stesso della Greca, cioè il fatalismo, se tralle conosciute se n’ eccettui la Medea, che regge per la sola combinazione delle passioni, nè mette capo nella catena di un destino inesorabile.

Ma i Mimi e i Pantomimi trionfano del socco e del coturno sotto gl’ Imperadori, i quali, non che flagellare i togatarii e gli atellanarii, solevano punir coll’ ultimo supplicio i tragici che non rispettavano la memoria de’ re della stessa mitologia o della più remota antichità come Agamennone. Abbandonato il teatro a i Pitauli e Corauli, {p. 280}a i Mnesteri, a i Paridi, a i Piladi ed a’ Batilli, più non ammise la commedia Terenziana che parve fredda, insipida, indifferente ad un popolo snervato e corrotto, che sotto Eliogabalo si compiaceva de’ mimici stupri e adulterii, non che finti e imitati, rappresentati al vivo sulle scene profanate. Così la vera drammatica senza perfezzionarsi nel Lazio fu distrutta dalle depravazioni mimiche, ed il teatro divenne lo scopo dell’invettive de’ Cirilli, de’ Basilii, degli Agostini e de’ Lattanzii. Giacque colla mole dell’istesso Impero sotto i barbari del settentrione ogni coltura, e sparvero le arti involte in un caliginoso nembo almeno di dieci secoli di barbarie. A cui toccò la gloria di dissiparlo? Dove risorsero le arti, la drammatica, la coltura?

{p. 281}

NOTE E OSSERVAZIONI DI D. CARLO VESPASIANO in questa edizione accresciute. §

Nota I. §

Gli Etruschi che da’ Greci furon detti Tirreni, vennero in Italia, secondo l’opinione di dotti uomini, dalla Fenicia, e secondo Erodoto, dalla Lidia; e perciò disse Orazio lib. 1, sat. 6

Non quia, Mecænas, Lydorum quidquid Hetruscos
Incoluit fines, nemo generosior est te.

Che l’Etruria fosse fiorita prima della Grecia, e che a questa dato avesse molte arti e scienze, viene quasi ad evidenza provato con autorità e ragioni dal ch. Monsignor Guarnacci nel lib. VII dell’Origini Italiche, e sostenuto da altri nostri valentuomini di questo secolo. Che i Greci ricevuto avessero dagli Etruschi diverse cerimonie ed istituzioni religiose, apertamente è asserito da Platone nel lib. V delle Leggi.

Nota II. §

Ove stesse situata l’antichissima, e da molti secoli distrutta Rudia, si è in questa età disputato assai (Calogerà Raccolta d’Opuscoli T. IV, V, XI). Il Tafuri con molta probabilità pretende che fosse nelle vicinanze della {p. 282}città di Taranto, e che dalle ruine di essa sorgesse la terra delle Grottaglie. Altri anche con assai verisimiglianza sostiene, che fosse nel tenimento di Francavilla, ove oggi vedesi Rodia, che ne ha conservato il nome, e che trovasi a sei miglia ugualmente distante dalle montuose città d’Oira e di Ceglie, e diciassette in circa da Brindisi.

Nota III. §

Ovidio nel principio del libro I de arte amandi dice, siccome traduce l’Ab. Metastasio, che

Le disposte senz’arte
Semplici là del Palatino colle
Natie piante selvagge, eran la scena

delle prime rappresentazioni teatrali che si fecero in Roma. Egli è certo, che i Romani molto tardi ebbero teatri stabili, e che le favole drammatiche in tempo de’ Ludi si rappresentavano nel Foro dove con statue e pitture che dagli amici, ed anche dalla Grecia soleano gli Edili Curuli, cui apparteneva la cura degli spettacoli, farsi prestare, ornavano il luogo in modo di scena. Olim enim (così ci lasciò scritto Asconio Pediano nell’Azione 3 contro Verre) cum in Foro ludi populo darentur, signis ac tabulis pictis partim ab amicis, partim a Græcia commodatis utebatur ad scenæ speciem, quia adhuc theatra non fuerant.

Nota IV. §

Pacuvio, al dir di S. Girolamo in Chronico Eusebii, morì quasi nonagenario in Taranto: Marcus Pacuvius Brundusinus poeta Romæ picturam exercuit, & tabulas vendidit. Inde Tarentum transgressus, prope nonagenarius obiit. Chi ne desidera più ampla e distinta notizia, legga la dissertazione intorno alla vita di Pacuvio {p. 283}pubblicata in Napoli l’anno 1763 dal Canonico Annibale di Leo.

Nota V. §

L’Imperadore Adriano antiponeva Lucilio a tutti quanti i tragici con quello stesso gusto depravato di antiquario che antipor solea Catone a Cicerone, Ennio a Virgilio, Celio a Sallustio; egli preferiva pure Antimaco ad Omero. Vedi Spartiano nella vita di Adriano.

Nota VI. §

Terenzio imitatore e pressochè copista di Menandro, e perciò chiamato da Giulio Cesare dimidiate Menander, non si studiò tanto di piacere come Plauto al popolo quasi tutto, quanto agli Scipioni, a i Lelj, a i Furj, e ad altri nobili uomini di buon gusto, da’ quali, per quello che fin dal suo tempo si credeva, veniva ajutato a scrivere, o come è più verisimile, a ripulire le sue commedie (leggasi il prologo degli Adelfi e Donato). Il celebre Michele Equem Signor di Montaigne nel lib. II, c. 10 de suoi Saggi, parlando di questo elegantissimo comico Latino, ebbe a dire: les perfections & les beautès de sa façon de dire, nous font perdre l’appetit de son subjet. Sa gentillesse & sa mignardise nous retiennent par tout. Il est par tout si plaisant,

. . . . liquidus, puroque simillimus amni

(Horat. lib. II, Epist. 2. v. 120).

& nous remplit tant l’ame de ses graces, que nous en oublions celles de sa fable. Non vi ha dubbio che la bellezza dell’ elocuzione sì nel verso, come nella prosa, imbalsimi sempre tutti i componimenti ingegnosi; ma nel genere comico richiedesi pur anche gran vivacità e piacevolezza, grazia e naturalezza, verità ed arte con un’ azione, {p. 284}una favola, e un vero ritratto de’ costumi del tempo:

Un vers heureux & d’un tour agréable
Ne suffit pas; il faut une action,
De l’interet, du comique, une fable,
De moeurs du temps un portrait véritable,
Pour consommer cette oeuvre du démon,

dice benissimo il Signor di Voltaire.

Nota VII. §

“Noi (dice Gellio lib. II, c. 23.) leggiamo le commedie de’ nostri poeti prese e tradotte da quelle de’ Greci, di Menandro cioè, di Posidio, di Apollodoro, di Alessi, e di altri. Or quando noi le leggiamo, non ci dispiacciono esse già; che anzi ci sembrano con lepore e con eleganza composte. Ma se tu prendi a paragonarle cogli originali Greci, da cui furono tratte, e ogni cosa di seguito e diligentemente tra lor confronti, cominciano le Latine pur troppo a cader di pregio e a svanire al paragone, così sono esse oscurate dalle commedie Greche cui in vano cercano di emulare“. Orazio, giudiciosissimo poeta e precettore (scrive Anton Maria Salvini) rende ragione, perchè i Comici Latini non abbiano aggiunto all’ eccellenza de’ Greci, zoppicando in questa parte la commedia Latina, per usare in questo proposito la frase di Quintiliano, uomo di squisito giudicio, seguito in ciò dal Poliziano nell’erudita Selva de’ poeti, dice, che di questa infericrità n’è cagione, che i Latini non hanno amata la fatica della lima, e stati sono impazienti d’indugio, mandando fuori troppo frettolosamente i lor parti, ne’ quali più ingegno che studio si scorge. Fin quì il Salvini. Ma lo svantaggio de’ Comici Latini a fronte de’ Greci deesi più che ad altro attribuire al poco onore, in cui dagli antichi bellicosi Romani per lungo {p. 285}tempo (secondochè ci attesta Cicerone Quæst. Tuscul. lib. I, n. 2) si tennero i poeti, che per la maggior parte furono di vil nascita e stranieri. Tiraboschi nella Storia della Letter. Italiana T. I, P. III., lib. II.

Nota VIII. §

Athenæus (scrive Isacco Casaubono nel suo dotto trattato della Satira) fabulas a Sylla compositas, quæ vel Atellanæ fuerunt, vel Tabernariæ, aut certe Mimi quidam, appellat Satyricas Comœdias. Dicesi che L. Cornelio Silla amasse così eccessivamente i buffoni, o sia attori di farse, che quando essi riuscivano di suo gusto, regalava loro in ricompensa molte moggia di terra.

Nota IX. §

Di Pomponio Secondo, che fu amico di Seneca, racconta Plinio il giovane lib. VI, epist. 17, che allor quando alcuno de’ suoi amici esortavalo a far qualche cambiamento nelle sue tragedie, e che egli nol giudicasse opportuno, soleva provocare al giudizio del popolo, e ritenere ciò che esso col suo applauso approvasse. Ma nelle materie letterarie è sempre miglior consiglio l’attenersi al sentimento de’ giudici saggi e di buon gusto, i quali son pochi, e la cui maniera di pensare trae seco finalmente quella del pubblico. Orazio nella Satira X del libro I così consiglia:

Sæpe stylum vertas iterum, quæ digna legi sint
Scripturus, neque, te ut miretur turba labores,
Contentus paucis lectoribus.

In fatti sono assai pochi coloro che sanno, spezialmente in teatro, discernere e distinguere in un dramma gli errori di lingua, i versi cattivi, i pensieri falsi, e ciò che non conviene, e quell’ {p. 286}incantesimo che fin anco nelle cose non buone possono e sogliono produrre gli abili e destri rappresentatori e le decorazioni. Il n’y a que les connaisseurs, dice bene il Signor di Voltaire, qui fixent à la longue le mérite des ouvrages.

Nota X. §

Siccome i Greci non si stomacarono della Medea di Euripide, contuttochè l’ autore per l’oro de’ Corintj ne avesse affatto cambiato la storia che allora non era troppo antica, così Cicerone, così Quintiliano, e così altri Romani non rimasero nauseati nè della Medea di Ennio, nè di quella di Ovidio, nè delle due altre Medee di Pacuvio e di Azzio, nè probabilmente di questa di Seneca; perchè il gran segreto della scena tragica, come saviamente pensa un nostro chiarissimo scrittore, in due parole è compreso: grandi affetti e stile.

Nota XI. §

Leggansi le savie riflessioni del dotto Brumoy citato dal nostro Autore poste dopo il confronto da lui fatto tra l’Ippolito di Euripide e la Fedra di Racine. Pur della tragedia di Seneca parlando per incidenza Luigi Racine, dotto figlio dell’immortal tragico Francese Giovanni, parmi che troppo severamente ne giudichi, quando nelle sue osservazioni sopra la Fedra del Padre, e l’Ippolito di Euripide, fassi a dire: Cet auteur s’écartant entierement d’Euripide, n’observe ni conduite, ni caractére. Sa Piece, qu’on ne doit pas nommer tragedie, n’est qu’un tissu de sentences brillantes; & de descriptions poetiques, mises hors de leur place, parmi les quelles cependant on trouve quelques beaux traits.

Nota XII. §

Il celebre Marc-Antonio Mureto nelle varie lezioni lib. XVI, c. 15 dice: Ex omnibus {p. 287}Senecæ tragœdiis plurimum mihi semper placuerunt Troades.

Nota XIII. §

L’eloquente Ferrarese Bartolommeo Riccio, insigne Gramatico della lingua Latina, il quale morì d’anni 79 nel 1569, è di sentimento nel libro I de Imitatione, che Seneca ne’ suoi Cori, non solo per l’ abbondanza e per la gravità delle sentenze ch’essi contengono, ma per aver saputo formarli a cantare di ciò che, come dice Orazio, proposito conducat & hæreat aptè, abbia superato tutti i tragici Greci.

Nota XIV. §

Giusto Lipsio sopra l’Ercole Eteo così dice: Profecto tota hæc fabula præter cæteros argutatur, imò tumet, & cum poeta nubes & inania captat . . . Ejusmodi nimirum in hac tragœdia complures ampullæ & utres.

Nota XV. §

Il Conte di Calepio, parlando del decoro, osserva in questa tragedia dell’ Ercole Eteo, che con giudizio vien mitigato da Seneca il discorso che secondo Sofocle fa al figliuolo per obbligarlo ad esser parricida e divenire consorte della concubina paterna. Vi si osserva di più, che Seneca, per dar lieto fine alla sua favola, ne scioglie ragionevolmente il nodo per macchina, facendo comparire Ercole deificato a consolare e rallegrare Alcmena sua madre.

Nota XVI. §

Il Gregge o la Caterva, fu chiamato da Orazio nella Poetica Cantor, perchè cantando e sonando (siccome nel fine degli atti si costumava) chiedeva al popolo il favor dell’ applaudere. Son quest’esse le sue parole:

. . . . . . & usque
Sessuri, donec cantor, vos plaudite, dicat.
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Nota XVII. §

Non è cosa rara, nè strana, il sentire oggigiorno più che mai così rid colose scempiaggini in Parigi, ove fra tante arti e scienze siede e trionfa coll’ ignoranza, presunzione e vanità, la ciarlataneria letteraria. Ritrovandomi io un giorno in un luogo, in cui erano parecchi giovani alterosi di quella solita superficiale tintura di lettere, che basta in Francia a farsi ammirare dall’immensa turba degl’ infarinati, gl’ intesi discorrer sul merito degli antichi e moderni comici. Uno di loro antiponendo Moliere ad ogni altro, francamente vantavasi di aver letto tutte le commedie di Menandro. Gli altri anch’essi, per non parer meno eruditi, davansi lo stesso vanto; e tutti ce tamente non avrebbono scrupoleggiato di accertare sulla lor fede d’aver letto eziandio le commedie di Eupolide, Cratino, Filemone, Difilo, Apollodoro, Turpilio, Trabea, Cecilio, e tutte quelle altre de’ Greci e Latini, di cui o pochissimi frammenti o appena i nomi, rimasti ci sono. Un cert’altro letterato Francese di tal fatta, in un circulo d’uomini e di donne, gravemente affermò ancora, aver letto con sommo piacere l’Euripide di Sofocle. Queste non sono, e lo giuro, di quelle storiette e cantafavole che molti Francesi sogliono per natural malignità, e per porger grata pastura alla loro nazione, inventare e spargere nel descrivere i loro Viaggi d’Italia, di Spagna &c.

Nota XVIII. §

Io sono d’avviso (dice il P. Bianchi) che sebbene appresso i Romani il nome di strione fu reso ancora comune agli attori delle commedie e delle tragedie, contuttociò costoro furono esenti da quella macchia d’infamia, di cui erano notati i veri strioni, i quali senz’ordine de’ magistrati, e fuora de’ Ludi sagri, facevano i loro giuochi. Egli è certo, che quando Tiberio {p. 289}cacciò da tutta Italia gl’ istrioni per la loro somma petulanza e immodestia, e che quando Nerone medesimo, alcun tempo dopo averli richiamati, fu costretto per timor di qualche grave periculo a bandirli da Roma, non cessarono le rappresentazioni delle favole teatrali, segno evidentissimo che non vennero compresi nel bando sotto il nome d’ istrioni i tragedi e comedi, cioè coloro che recitavano e cantavano drammi regolati.

Nota XIX. §

Tertulliano chiamò il teatro concistorium impudicitiæ, S. Basilio communem & publicam lasciviæ officinam, e S. Gregorio Nanzianzeno scholam fœditatis. E sin da’ principj del terzo secolo il Cristiano Avvocato di Roma Minucio Felice così favella de’ Mimi verso il fine del suo Ottavio. In scenis etiam non minor furor, turpitudo prolixior; nunc enim mimus vel exponit adulteria vel monstrat; nunc enervis histrio amorem dum fingit, infligit. Item deos vestros stupra, suspiria, odia dedecorant. E un secolo dopo ebbe a dire il Cicerone del Cristianesimo Cajo Lattanzio Firmiano nel lib. VI delle sue Divine Istituzioni: Quid de Mimis loquar corruptelarum præferentibus disciplinam, qui docent adulteria, dum fingunt, & simulatis erudiunt ad vera? Lo stile in cui si scrivevano questi Mimi, si accostava al nostro Bernesco, secondochè pretende il dotto Ab. Arnaud.

Nota XX. §

Presso i Romani chiamavansi Pantomimi coloro i quali accompagnati da’ suoni appropriati esprimevano senza parlare ed animavano co’ gesti, segni, passi, salti, movimenti, e colle attitudini non pur le figure, o i personaggi ch’essi imitavano, ma le passioni, i caratteri, e gli avvenimenti ancora. Erano così destri e {p. 290}maravigliosi in ciò fare, che Manilio d’un d’essi ebbe a dire:

Omnis fortunæ vultum per membra reducet,
. . . . . . . cogetque videre
Præsentem Trojam, Priamumque ante ora cadentem;
Quodque aget, id credes, stupefactus imagine veri.

Nota XXI. §

Dalla citata Iscrizione lapidaria fatta al nominato Lucio Acilio archimimo che fiorì nel tempo di M. Aurelio, siamo anche istruiti, che vi erano allora Compagnie o Collegj liberi di Mimi, e che in quelle si aggregavano coloro che volevano servire alla scena, o nel rappresentar mimiche azioni, o nel saltare in teatro, e che costoro latinamente chiamavansi adlecti scenæ, ed aveano certo sacerdozio, per cui si diceano Parassiti di Apollo, il che si raccoglie ancora da altre lapidi. Dalle leggi che pubblicarono gl’ Imperadori Cristiani del IV e V secolo intorno agli scenici e agli spettacoli teatrali, ricaviamo che le rappresentazioni mimiche di parole, di canti, di gesti e di salti, erano divenute anco a’ loro tempi così necessarie in alcune festive solennità, che doveansi esibire da’ magistrati maggiori non solo nelle principali metropoli dell’Imperio e in Occidente e in Oriente, ma eziandio nelle città municipali da i Duumviri, o magistrati minori.