Pietro Napoli Signorelli

1788

Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome III

2017
Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni di Pietro Napoli-Signorelli Napoletano, tomo terzo, In Napoli, Presso Vincenzo Orsino, 1788, 328 p. PDF: : Bayerische Staatsbibliothek, München
Ont participé à cette édition électronique : Eric Thiébaud (Stylage sémantique), Anne-Laure Huet (édition TEI) et Wordpro (Numérisation et encodage TEI).
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LIBRO III §

CAPO PRIMO.
Ritorno delle rappresentazioni teatrali dopo nate le lingue moderne. §

L’Orrore e la desolazione che alla venuta de’ barbari settentrionali si distese per le provincie del Romano impero, nè le sole furono nè le più fatali conseguenze di quel rapido incendio di guerra che le sconvolse. Col tempo si riparano le rovine, gli edificj si rialzano, ripopolansi i paesi, {p. 2}quando il nuovo signore lascia intatti i costumi, e molto non altera la natura del governo. Egli stesso in tal caso parrà in certo modo conquistato dal popolo vinto; la qual cosa avvenne in fatti agli ultimi Tartari conquistatori della China, i quali ritenendo la polizia, la legislazione e i costumi del paese, diventarono i primi Cinesi. Ma i figli degli antichi Tartari che inondarono l’impero Romano sotto i nomi di Goti, Unni, Eruli, Gepidi, Vandali e Longobardi, con istabilir nelle conquiste una nuova forma di governo assai peggior dell’antica, ci tolsero i patrj costumi ed il linguaggio, e ci trasformarono nella loro barbarie. Ed oh quanto tardi il tempo col soccorso di molte favorevoli circostanze giugne a distruggere gli effetti perniciosi di sì luttuose vicende! Alzò sulle nostre rovine il suo trono il governo feudale, tremenda polizia sino a quel punto a noi ignota e per natura poco propizia all’ordine e alla pubblica tranquillità. Usciti que’ conquistatori da paesi, ove regnava l’ indipendenza, ove i primori riconoscendo un capo della nazione conservavano una gran parte de’ loro diritti, stabilirono fra noi un governo fatto per dividere in vece di unire. Le regioni conquistate formarono un corpo di varie picciole signorie col nome di feudi, le quali appena in tempo di guerra si congiungevano per bisogno, e nella pace nulla fra {p. 3}loro convenivano e poco si attenevano al tutto1. L’ Italia, la Spagna, l’Inghilterra empieronsi di piccioli tiranni gelosi degli acquisti e sempre pronti a guerreggiar sotto di un capo contro gli stranieri, o ad avere in conto di stranieri ora i compagni ora lo stesso sovrano per difendere i proprj diritti. Quindi il continuo sospetto che alimentava la discordia delle parti: quindi vennero quelle fortezze e castella opposte ad ogni nemico domestico o straniero, delle quali e nella Spagna e nel regno di Napoli ed altrove scorgonsi tuttavia in piedi su ripide balze grosse reliquie: quindi tante guerre intestine e tanti diritti di Leudi e Antrustioni, di Fedeli o Comiti e Gastaldi, di Ricos-hombres e Infanzones: quindi i guidrigil o tasse degli uomini, per le quali un uomo ucciso valutavasi tal volta al vilissimo {p. 4}prezzo di venti soldi: quindi le misere condizioni di tanti vassalli angarj, parangarj, schiavi prediali, censili, terziarj, filcalini ed altre specie di servi ed aldioni2.

Ora quando trovansi gli uomini in una mutua guerra, quando poca è la sicurezza personale e pressochè nulla la libertà, quando gli spiriti gemono agitati dal timore e depressi dall’avvilimento, come mai coltivar le scienze e le arti, polire i costumi e le maniere, e richiamare il gusto? Spazia allora senza ritegni una cieca e stupida ignoranza, e tutto è rozzezza, oscurità e squallore. Era tale presso a poco l’aspetto dell’ intera Europa sino all’undecimo secolo.

In mezzo a tanta barbarie pur non mancò in alcune regioni qualche solitario allievo della sapienza, il quale appressandosi al solio di Carlo Magno potè co’ suoi consigli eccitarlo alla magnanima impresa d’ingentilire e illuminare i popoli. Essendo in età di anni trenta calato questo gran principe in Italia nel 773, sfornito de’ rudimenti gramaticali della latina lingua, conobbe in Pavia il diacono Pietro da Pisa ed {p. 5}esser volle suo discepolo. Dopo sette anni in circa apprese dall’Inglese Alcuino la rettorica, la dialettica, l’aritmetica e l’astronomia; e così iniziato ne’ misteri del sapere concepì il bel disegno di spargere la coltura ne’ suoi vasti dominj, che oltre la Francia stendevansi in gran parte dell’Italia, della Germania e della Spagna. Il primo che in Francia tenne scuola nel di lui palagio, fu lo stesso Pietro Pisano. Altri maestri di canto, di gramatica, di aritmetica e di tutte le sette arti liberali, vi chiamò dall’Italia ad insegnare, mosso probabilmente da Paolo Diacono e da Paolino II di Aquileja, due uomini de’ più dotti del suo tempo. In simil guisa pervenne questo sovrano ad inspirar ne’ suoi sudditi l’amore delle scienze3. Alfredo intanto attese con pari {p. 6}ardore a rischiarare la Gran-Brettagna. Ma questo barlume passeggiero sparso per le provincie oltramontane sparì sotto i successori dell’uno e dell’altro principe, e si ricadde {p. 7}nell’oscurità primiera. Dimenticate le leggi scritte, il dritto Romano, i capitolari, sorsero da per tutto le costumanze4. La giudicatura cadde nelle mani di {p. 8}uomini senza lettere, i quali non di rado venivano dalle parti astretti a pruovar coll’ {p. 9}armi la propria integrità e la giustizia della sentenza profferita, per la qual cosa in {p. 10}essi richiedevasi più forza di corpo che di mente. La maggior parte degli ecclesiastici {p. 11}intendeva a stento il breviario (Nota I). La lingua latina non solo degenerò negli {p. 12}scrittori imbarbariti, ma pugnando con cento idiomi oltramontani si cangiò in certi {p. 13}nuovi parlari gergoni, i quali presero un carattere nazionale e distinto in Italia, in Francia e nelle Spagne.

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Chi avrebbe mai allora indovinato che in queste nuove lingue dovea col tempo rifiorire la più sfoggiata eloquenza Ateniese e {p. 15}Romana? che tutte le muse doveano abbellirle di tutte le loro grazie (Nota II)? E pure il corso naturale delle nazioni apportò {p. 16}rivoluzione sì vaga e sì mirabile. Per un flusso e riflusso costante avverato da’ fatti corrono le nazioni dalla barbarie alla coltura, indi da questa a quella, giunta che sia l’una e l’ altra al grado estremo. L’estrema barbarie produce inopia, e questa col divenir per forza industriosa reca successivamente ricchezza e coltura. L’ estrema coltura degenera in lusso eccessivo, il quale diventa padre della mollezza e poltroneria, ed allora trascuransi le arti, si deprava il gusto e si rientra nella barbarie5.

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L’Italia governata da’ savj pontefici Romani e in gran parte dagl’ imperadori Greci, per consenso degli stessi oltramontani, prima d’ogni altro popolo emerse dalle ombre. Eravisi meglio conservato l’uso della scrittura ed i semi dell’industria6. Venezia, Genova, Pisa, Amalfi ed altre città Italiane furono senza contrasto le prime a vedere il camino d’arricchire per mezzo del commercio (Nota III). In questi paesi (dice Robertson nell’ introd. alla Stor. di Carlo V) i più coltivati e civilizzati di tutta l’Europa, scendevano i crocesignati prima di passare in Asia, e vi lasciavano immense somme pel trasporto verso Terra Santa7. Le guerre d’Asia poi, la presa di Costantinopoli fatta da’ Latini, il passar che fecero le più fertili isole dell’arcipelago con una gran parte del Peloponneso sotto il dominio de’ Veneziani, de’ Genovesi e d’altri Italiani, produssero lo stabilimento del commercio in Italia come nella sua più nobil sede. E questa sorgente di ricchezza ridestò fra noi il sopito natural desiderio di libertà, sotto i cui soli auspici escono gl’ ingegni {p. 18}dalla stupidezza e dall’inazione. Al commercio fiorente si dovettero i mezzi di scuotere il giogo de’ signori e di stabilire un governo libero ed eguale che agli abitanti assicurasse la proprietà de’ beni, accrescesse la popolazione e incoraggisse le arti. Uno spirito generoso d’indipendenza e di libertà fermentava nel cuor dell’ Italia con tal vigore, che prima di terminare l’ultima crociata tutte le città considerabili aveano dagl’ imperadori comperati e ottenuti tanti privilegj che si potevano chiamar libere8.

Qual maraviglioso insolito spettacolo non fu allora agli oltramontani l’ Italia florida e coraggiosa che osava la prima assalire e battere l’orribil mostro del governo feudale! La Francia vicina (dice il lodato Storico Inglese) prima di ogni altra regione verso il XII secolo approfittossi del bell’ esempio, il quale di mano in mano si comunicò all’Alemagna, indi alla Spagna, all’Inghilterra ed alla Scozia. Così dietro le ardite tracce dell’ Italia libera videsi quel terribil mostro in tanti luoghi perseguitato e mortalmente ferito. Così venne a indebolirsi {p. 19}l’ indipendenza de’ baroni; le corone accrebbero la propria prerogativa; ed il popolo spezzate le sue catene diede allo stato cittadini utili ed industriosi. Ed ecco che intorno a questo tempo cominciarono i talenti a mettersi in movimento, e fiorirono in copia i versificatori volgari Provenzali, Piccardi, Siciliani e Toscani. Lusingossi qualche apologista straniero di partecipar delle glorie Italiane di quel tempo col seminar dubbj pedanteschi sulla nascita di qualche scrittore e col procurare di appropriarlo alla sua nazione presupponendo scambi di sillabe ne’ codici adulterati. Non si curino gl’ Italiani di segnalarsi in queste ridevoli picciole guerre di lettere posposte, le quali sprezzate risolvonsi in nulla. Basti alla moderna Italia il pregio singolare, non efimero, non equivoco, non mendicato con sofismi, reticenze ed artificii Lampigliani, nè con invettive e declamazioni de’ sedicenti filosofi, nè con villanie e tagliacantonate; ma certo, veduto e confessato da classici scrittori transalpini, cioè quello di avere insegnato alle nazioni ad esser libere.

Rinate colla libertà le opere dell’ingegno svegliossi lo spirito imitatore e rappresentativo. Fece il commercio stabilir le fiere, nelle quali ad oggetto di chiamarvi e trattenervi il concorso s’ introdussero le danze e i divertimenti ludrici. Il clero cui importava che i popoli non venissero distratti {p. 20}dalla divozione, alla prima proscrisse siffatti spettacoli, indi cangiando condotta e seguendo lo stile delle precedenti età, quando ad onta dei divieti si videro introdotti nelle chiese, ne ripigliò egli stesso l’usanza, esercitando l’ arte istrionica e mascherandosi e cantando favole profane nel Santuario9. Teodoro Balsamone autore del XII secolo sul canone 62 del Concilio Trullano che proibisce agli uomini il prender vesti femminili e coprirsi con maschere, osserva che a suo tempo ancora nel natale di Cristo e nell’epifania i chierici si mascheravano in chiesa. Mediante però la legge del pontefice Innocenzo III riportata nel citato capitolo del decretale si conseguì finalmente nel principio del XIII secolo l’abolire questa contaminazione de’ templi. Restovvi tuttavia la musica e l’uso di celebrarvi con una specie di rappresentazione certe feste bizzarre, le quali oltramonti ebbero più il carattere di follia che di giuoco. Era notabile nella cattedrale di Roano il dì di natale la sesta asinaria, nella quale compariva Balaam su di un’ asina e varii profeti che {p. 21}aveano predetta la venuta del Messia, e Virgilio e la Sibilla Eritrea e Nabucdonosor e i tre fanciulli nella fornace10. Correva il popolo volentieri alla festa de’ pazzi che si celebrava dal natale all’epifania in molte chiese greche e latine. In Costantinopoli l’ introdusse verso il X secolo il patriarca Teofilatto11: si celebrava in Francia in Dijon, in Autun, in Sens, in Viviers: in Inghilterra anche verso il 1530 trovavasi nella chiesa di Yorck un inventario, in cui si parla della mitra e dell’anello del vescovo de’ pazzi12. Non riusciva {p. 22}men cara a’ popoli di quel tempo la festa degl’ Innocenti, che era un tralcio di quella de’ pazzi e si celebrava nel dì de SS. Innocenti13.

Posero in oltre i monaci di mano in {p. 23}mano in dialogo le vite de’ santi, come quella di S. Caterina recitata nel convento di S. Dionigi. Altri simili dialoghi senza numero in Francia, in Alemagna, in Italia e nelle Spagne, recitaronsi nelle chiese o ne’ cimiteri dove passava il popolo dopo la predica.

Ma sino al principio del XIII secolo, fra tante poesie nella Piccardia, nella Provenza, nella Sicilia e nella Toscana, non si rinviene cosa veruna appartenente al teatro. Si favella di tragedie e commedie di Anselmo Faidits nella poco esatta storia de’ poeti Provenzali del Nostradamus (Nota IV) ma quell’ Anselmo fiorì nel XIII secolo, essendo morto nel 1220. Non ostante poi il titolo di tragedie e commedie, le di lui favole altro esser non doveano che meri monologhi o diverbii per lo più satirici, senza azione, posti in musica da lui stesso, e cantati insieme colla moglie che egli menava seco in cambio de’ ministrieri, e de’ Giullari (Nota V). L’Heregia dels Preyres è il titolo rimastoci di uno de’ dialoghi del Faidits, che si vuole che fosse una commedia da lui recitata in Italia stando al servigio del Marchese Bonifazio da Monferrato.

I mentovati ministrieri erano compagni de’ trovatori, e per lo più giravano per li castelli de’ signori per divertirli nell’ora del desinare, cantando su proprii stromenti de’ {p. 24}versi accompagnati da musica da loro composta. Inglesi, Scozzesi e Danesi ebbero ancora i loro ministrieri, che cantavano i proprii versi14, e forse precedettero a i Bardi ed agli Scaldi (Nota VI). Due fatti istorici manifestano in quale stima essi erano ne’ primi tempi appresso i Sassoni e i Danesi. Alfredo gran re d’Inghilterra in un tempo di barbarie, cioè nell’878, volendo spiare la situazione dell’armata Danese che avea fatta irruzione nel suo reame, prese le vesti di un ministriere, e si presentò al campo Danese. Fu veramente conosciuto per Sassone, ma pel carattere rispettato di ministriere fu introdotto alla presenza del re e cantò molti versi, e poscia esaminato il campo formò un piano di assalto, col quale tagliò a pezzi il di lui esercito. Sessanta anni dopo, cioè nel X secolo, Anlaff re di Danimarca collo stesso travestimento volle osservare il campo di Atelstan re d’Inghilterra, ma lo stratagemma riuscì infruttuoso15.

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Tornando al secolo XIII fiorivano in Alemagna i minnesoenger, ovvero cantori d’amore, nelle cui poesie tuttavia esistenti non si rinviene pezzo veruno teatrale. Si mentovano nelle Spagne i versi cantati da’ pellegrini che visitavano in Galizia il sepolcro dell’ Apostolo San Giacomo, da’ quali seppe Don Blàs de Nasarre rintracciar la famosa origine delle orazioni de’ ciechi. Fiorì però in tali paesi a quel tempo il monaco Gonsalo Berceo forse il più antico Spagnuolo che poetò in lingua Castigliana. Pure nè anche vi si trovano poesie teatrali.

L’Italia che già contava varj dotti poeti, come Guitton d’Arezzo che perfezzionò il sonetto invenzione degl’ Italiani, Dante da Majano, l’Abate Napoli, Cino da Pistoja, Guido Cavalcanti, Brunetto Latini ed il migliore di tutti Dante Alighieri, pare che sia l’unica nazione che ci presenti qualche teatral monumento del secolo XIII. Nel 1230 si celebrò in Piacenza nel borgo e nella piazza di S. Antonino un giuoco, che nella cronaca Piacentina16 così seccamente {p. 26}si enuncia: Fuit Ludus Imperatoris, & Papiensium, & Regiensium, & Patriarchæ. Apparentemente fu questo un ludrico spettacolo, in cui s’introdusse Federigo II co’ suoi aderenti i Pavesi, i Reggiani ed il Patriarca17. Ma sulle riferite parole non può assicurarsi che fosse rappresentazione animata dalle parole. Apostolo Zeno chiaro per erudizione, probità ed accuratezza ricavò da varie cronache, che in Padova nel Prato della Valle fecesi una rappresentazione spirituale nel dì di Pasqua di Resurrezione del 1243 o 124418. Pretese il Bumaldi che Fabrizio da Bologna nel 1250 componesse volgari tragedie; ma ciò afferma perchè nel libro di Dante della Volgare Eloquenza Fabrizio è chiamato poeta di stile tragico, la qual cosa ognun sa che in Dante vuol dir sublime, e non già autore di tragedie19. Quel che però non ammette dubbio veruno, è che in Roma nel 1264 fu istituita la Compagnia del Gonfalone, {p. 27}che per oggetto principale si prefisse il rappresentare i misteri della passione di N. S., siccome per lungo tempo continuò ad eseguire nella settimana santa20. Un’ altra rappresentazione de’ misteri della passione di Cristo trovasi fatta dal clero con molto applauso nel Friuli l’anno 1298 nel dì di pentecoste21.

Il dottissimo storico della Letteratura Italiana argomenta giustamente sopra varie feste fatte per mezzo degli strioni e buffoni nel secolo XIII rammentate dal Muratori22, asserendo non potersi mettere in conto di teatrali. Vuole altresì con fondamento che il nominarsi versi recitati su’ teatri non sempre additi un’ azione drammatica. Passa in oltre a dubitare che le accennate {p. 28}rappresentazioni di Padova, del Friuli, della Compagnia del Gonfalone, sieno state eseguite con dialogo, stimandole semplici apparenze mute figurate dal clero in tempo di pasqua e di pentecoste. Veramente noi che reputiamo drammatiche ed espresse con parole quest’ultime, non possiamo recarne nè squarcio che il dimostri, nè testimonio sincrono che espressamente l’ affermi. Tuttavolta la parola ludus usata da’ cronisti par che più favorisca il nostro avviso che il dubbio del celebre storico. Forse non si direbbe con ogni proprietà ludus un mistero espresso con un groppo di statue; nè perchè in vece di quelle statue si mettessero degli uomini, tal rappresentazione diventerebbe un giuoco. Ma ciò lasciando, la Compagnia del Gonfalone istituita nel XIII secolo per rappresentare i misteri, ne’ tempi più a noi vicini ciò fece con parole a tenore del suo istituto. Nel XV secolo rappresentava pubblicamente nel coliseo di Roma la passione; e le parole del dramma si composero dal vescovo di S. Leo Giuliano Dati Fiorentino che fiorì circa il 1445, e per gran parte del XVI seguitò esso a rappresentarsi nella stessa guisa, siccome attesta Andrea Fulvio23. Verisimilmente {p. 29}ciò che continuò a farsi nel XV e XVI, praticossi nel XIV, e venne dal XIII quando surse la Compagnia. Che se le parole vi fossero introdotte non già dal XIII, come a noi sembra, ma dal XV, in cui si compose indubitatamente il dramma del Dati, nell’imprimersi che si fece nel declinar del secolo XVI il libro degli statuti della Compagnia, non avrebbe in essi dovuto esprimersi questa varietà essenziale, cioè che le rappresentazioni da mute che furono nel XIII, passarono poscia ad animarsi con parole? Appresso. Il Ludus Paschalis de adventu & interitu Antichristi recato dal Muratori24 e poi dal Tiraboschi25 e da me nel tomo precedente, fu senza contrasto azione drammatica atta a recitarsi. Qualche altra ne accenneremo appresso dell’Alemagna. Vedrassi nel seguente capo che in Francia sin dal tempo di Filippo il Bello vi fu una festa simile con canti e con parole. Alcuni squarci di simili misteri fatti in Napoli nel tempo degli Angioini recammo nel III volume delle Vicende della Coltura delle Sicilie. Or perchè quelli del XIII secolo debbono soltanto essersi rappresentati mutamente? Forse perchè {p. 30}niuno se n’è conservato26? Ma per essere periti tanti drammi greci e latini potrà negarsi che si composero e recitaronsi nella Grecia e nel Lazio, e che rassomigliavano a quelli che ci rimangono? Egli è vero che in Francia, nelle Fiandre ed altrove furonvi alcuni misteri rappresentati alla muta per le strade; ma gli scrittori che ne parlano, dicono espressamente che si esposero solo alla vista; or quando poi tal circostanza non si specifica, sembra ragionevole il credere che allora si parli di rappresentazioni cantate e recitate. Per altro non può negarsi quel che osserva il medesimo chiar. Cavalier Tiraboschi, cioè che siffatti misteri, ed i versi cantati su’ teatri dagl’ istrioni e giocolieri a que’ tempi, non meritino rigorosamente nome di vere azioni teatrali. Con tutto ciò debbono entrare nella storia drammatica come primi saggi che ricondussero a poco a poco in Europa la poesia scenica. I cori Dionisiaci in Grecia non erano vere azioni teatrali; nè tal fu la ludrica {p. 31}degli Etruschi introdotta in Roma; ma di quelli e di questa si conservano le memorie da quanti imprendono a favellare dell’origine e del progresso della poesia teatrale greca e latina; essendo come le povere scaturigini de’ gran fiumi, che con ogni diligenza e con diletto curiosamente si rintracciano.

CAPO II.
La Poesia Drammatica ad imitazione della forma ricevuta dagli antichi rinasce in Italia nel secolo XIV. §

Mentrechè risorgeva dentro le alpi la lingua latina coll’ ammirarsene i preziosi codici scappati alla barbarie, nasceva da’ rottami greci, latini, orientali e settentrionali la lingua italiana, la quale per mezzo di Dante che è stato nella moderna Italia quello che furono Omero in Grecia ed Ennio nel Lazio, giva sublimandosi e perfezionandosi, e conscia delle proprie forze cercava ognora nuovo campo per esercitarle. Era questo il grato frutto della libertà e de’ governi moderati che ritornarono in Europa per mezzo degli stessi Italiani. E ciò fra noi venne a produrre nel XIV secolo {p. 32}poesie teatrali latine ad esempio delle antiche, le quali precedettero quelle che nel XV si scrissero in volgare.

I teatri d’Italia risonarono di versi latini cantati sin dal secolo precedente. Albertino Mussato Padovano, nato nel 1261 e morto nel 1330, ci fa sapere che già nel 1300 scriveansi comunemente tra noi in versi volgari (cioè facili ad esser compresi da’ volgari, benchè latini) le imprese de’ re, e si cantavano ne’ teatri27 (Nota VII). Se però verso l’anno 1300 erano comuni in Italia tali divertimenti ne’ teatri, di qualunque spezie si fussero, non dee dirsi che essi cominciassero nel 1304 allorchè nella Toscana fecesi la festa, in cui s’imitava l’inferno con i demonj e i dannati che gridavano28. Il Crescimbeni giudicò tal rappresentazione di argomento profano; ma noi accordandoci di buon grado col chiar. Tiraboschi, lungi dal crederla cosa {p. 33}teatrale sacra o profana, la reputiamo un semplice spettacolo popolare senza verun dialogo29. Nel Friuli ancora nell’anno stesso 1304 si rappresentarono dal clero e dal capitolo la creazione d’Adamo ed Eva, l’annunziazione e ’l parto della Vergine30.

Ma dobbiamo al prelodato Mussato, promotore dell’erudizione e dello studio della lingua latina, l’aver richiamata in Europa la drammatica giusta la forma degli antichi. Egli compose due tragedie latine, cioè l’Achilleis detta così da Achille che n’era il personaggio principale, e l’Eccerinis, in cui introdusse il famoso Ezzelino da Romano tiranno di Padova. Quest’ultima piacque talmente a’ suoi compatriotti, che ne fu solennemente coronato della laurea poetica31. {p. 34}I curiosi delle prime orme delle arti ne vedranno volentieri un succinto estratto.

Atto I. Adeleita madre di Ezzelino e di Alberico palesa a’ figli di esser essi nati dal demonio, e nell’accingersi a scoprire questo gran secreto perde i sensi, indi rivenuta racconta l’avventura, Qualis (avendole domandato Ezzelino) is adulter, mater? Ella così lo descrive:

. . . . . . . Haud tauro minor
Hirsuta aduncis cornibus cervix riget,
Setis coronant hispidis illum jubæ,
Sanguinea binis orbibus manat lues,
Ignemque nares flatibus crebris vomunt.
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Favilla patulis auribus surgens salit
Ab ore spirans. Os quoque eructat levem
Flammam, perennis lambit & barbam focus. &c.

Di tale origine soprannaturale rallegrasi col fratello Ezzelino, indi si rivolge a fare una preghiera al padre. Leggonsi però prima cinque versi narrativi, cioè detti dal poeta, e non da qualche attore; per li quali l’ azione si vede trasportata ad un luogo diverso:

Sic fatus imâ parte recessit domus
Petens latebras, luce & exclusa caput
Tellure pronum sternit in faciem cadens:
Tunditque solidam dentibus frendens humum,
Patremque sæva voce Luciferum ciet.

L’atto termina col coro che si dimostra timido e dolente per li pubblici disastri.

Atto II. Un messo racconta le disgrazie della patria e la prosperità d’Ezzelino, il quale con insidie e crudeltà già regna in Verona ed in Padova. Tutto ciò si finge avvenuto nell’intervallo degli atti, ed è affare di non pochi giorni. Il coro deplora la pubblica miseria, ed implora la vendetta celeste contro lo spietato oppressore.

Atto III. Parlano i due fratelli de’ dominj acquistati e di quelli a cui aspirano. Ziramonte enuncia la morte di Monaldo, {p. 36}piacevole novella pel tiranno. Ma un messo il conturba coll’ avviso di essersi presa Padova da’ fuorusciti entrativi col favore de’ Veneziani, de’ Ferraresi e del Legato del Papa. I suoi commilitoni l’esortano a marciar subito contro di loro:

Invade trepidos, tolle pendentes moras ....
Fortuna vires ausibus nostris dabit.

Il coro chiude l’atto raccontando in pochi versi tutta la spedizione d’ Ezzelino contra Padova, il suo ritorno in Verona e la barbara vendetta da lui presa contro de’ prigionieri. Ma qual tempo è corso dal consiglio di marciare al racconto del coro? e come ha egli saputo ciò che è passato fuor di Verona? Le irregolarità sono manifeste, ancor quando voglia supporvisi qualche laçuna.

Atto IV. Narransi brevemente da un messo gli eventi della guerra fatta in Lombardia a tempo di Ezzelino, ed al fine la di lui morte. Con un’ ode saffica il coro chiude l’atto, dando grazie al cielo per la morte del tiranno e per la ricuperata pace.

Atto V. Si racconta la strage della famiglia d’Ezzelino e la morte d’Alberico. Qual fu il di lui fine? domanda il coro; ed il messo così racconta:

Tum plura stantem tela certatim virum
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Petiere, pressit unus in dextrum latus
Gladium, sinistra parte qui fixus patet.
Perutrumque vulnus largus effluxit cruor.
Effulminat spatulis alius ense tenus,
Cervice cæsa murmurat labens caput,
Stetitque titubans truncus ad casum diu,
Donec minutim membra dispersit frequens
Vulgus per avidos illa distribuens canes.

Il coro moralizzando conchiude:

Petit illecebras virtus supernas,
Crimen tenebras expetit imas.
Dum licet ergo moniti stabilem
  Discite legem.

Si vede non esser questo un componimento senza difetti. L’azione non è una; il tempo basterebbe per un lungo poema epico; ed il protagonista Ezzelino ha un compagno in Alberico. Lo stile è facile; gli eventi dipingonsi con evidenza, benchè vi si desideri eleganza e purezza, ed oggi più, leggendosi molto scorretto. Ma vi si trovano le passioni ritratte con vigor grande; e un interesse nazionale ravviva tutte le parti del dramma. Non è in somma una tragedia lavorata da un discepolo di Sofocle; ma se si riguardi a’ tempi, alla barbarie e allo stato delle lettere nel rimanente dell’Europa, recherà maraviglia e diletto. In certi paesi a’ nostri giorni ancora contansene pochissime di {p. 38}questa più regolari. Per mezzo adunque del Mussato ebbe l’Italia sin da’ primi lustri del XIV secolo tragedie fatte ad imitazione degli antichi.

Reca diletto il poter vantare un Petrarca tra’ primi coltivatori della drammatica, benchè non ci sia rimasta la sua Filologia, commedia da lui scritta in assai tenera età ch’egli volle involare agli occhi de’ posteri32. Delle altre due composizioni drammatiche registrate in un codice della Laurenziana, che a lui si attribuiscono, non è da favellare. Lasciando da parte il non rinvenirsi di esse indizio veruno nelle di lui opere, i critici più accurati sospettano fortemente che esse sieno opere supposte al Petrarca, come fece prima d’ogni altro l’Ab. Mehus, il quale recò un saggio dello stile di esse molto lontano da quello del Petrarca33. Furono esse però scritte nel XIV secolo, e s’ aggiravano l’una sulle vicende di Medea, l’altra sull’espugnazione di Cesena {p. 39}fatta dal Cardinale Albornoz nel 1357, la quale viene piuttosto attribuita al dotto amico del Petrarca Coluccio Salutato eloquente segretario di tre pontefici morto in Firenze sua patria l’anno 1406. Troviamo ancora nell’opera del Petrarca mentovato onoratamente un erudito attore de’ suoi giorni chiamato Tommaso Bambasio da Ferrara, della cui amicizia gloriavasi il principe de’ lirici Italiani, come il principe degli oratori Latini di quella di Roscio, a cui lo comparava per la dottrina e per l’eccellenza nel rappresentare34. Basta questo racconto de’ pregi del Bambasio a provare la frequenza delle rappresentazioni sceniche di quel secolo. Se non avesse questo Ferrarese dati in Italia continui saggi della sua eccellenza in tale esercizio, l’avrebbe il Petrarca paragonato a Roscio? E che mai avrebbe egli rappresentato? forse i muti misteri? o le buffonerie de’ cantimbanchi? Ma con simili cose avrebbe meritati e gli elogii che sogliono darsi a’ dotti artefici e l’amicizia d’ un Petrarca? Dovettero dunque in quell’età esservi favole sceniche in copia maggiore di quello che oggi possa riferirsi.

Conservasi nell’Ambrosiana di Milano35 {p. 40}in un codice a penna una commedia di Pier Paolo Vergerio il vecchio, uno degli accreditati filosofi, giureconsulti, oratori e storici del suo tempo, nato in Capo d’Istria circa il 1349 e morto nel 1431 in Ungheria presso l’imperador Sigismondo. La scrisse nella sua età giovanile, e l’intitolò Paulus comœdia ad juvenum mores corrigendos.

Giovanni Manzini della Motta, nato nella Lunigiana, scrisse verso la fine del secolo alcune lettere latine, ed in una parla d’una sua tragedia sulle sventure di Antonio della Scala signore di Verona, e ne reca egli medesimo, dice il chiar. Tiraboschi, alcuni versi che non ci fanno desiderar molto il rimanente. Non per tanto egli è degno di lode, sì per essere stato uno de’ primi a tentar questo guado, sì per avere dopo del Mussato preso a trattare un argomento nazionale veramente tragico.

Luigi Riccoboni nella storia del teatro Italiano vorrebbe riferire alla fine di questo secolo la Floriana commedia scritta in terza rima mista ad altre maniere di versi, e stampata nel 1523: ma non apparisce su qual fondamento l’asserisca. Il Marchese Maffei nell’Esame dell’Eloquenza Italiana del Fontanini afferma che nella seconda edizione della Floriana del 1526 vien chiamata commedia antica, e così leggesi nella Drammaturgia dell’Allacci; ma ciò non basta per farla risalire sino al secolo decimoquarto.

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CAPO III.
Memorie drammatiche d’oltramonti nel medesimo secolo XIV. §

Mentre l’Italia già avea l’Ezzelino e l’Achilleide tragedie, e la Filologia, e ’l Paolo commedie, al di là delle alpi i soli Provenzali scrissero componimenti rassomiglianti ai teatrali, benchè lontani assai in qualunque modo dall’imitar gli antichi. Non trovavasi tra’ Provenzali nè un Mussato, nè un Petrarca, nè un Vergerio, nè un Salutato. Essi ignoravano, dice M. de Fontenelle, di esservi stati al mondo Greci e Latini. I loro pezzi chiamati drammatici nudi di azione, erano anzi dialoghi che drammi, dicesi nell’introduzione alla Biblioteca Poetica Francese. Batista Parasols Limosino morto nel 1383 compose cinque dialoghi chiamate tragedie contro Giovanna I contessa di Provenza e regina di Napoli ancor vivente. Luca de Grimaud Genovese satireggiò ne’ suoi drammi o dialoghi che scrisse in volgar Provenzale, il Pontefice Bonifacio VIII.

Non entro io quì di proposito ad esaminare se i Provenzali abbiano a dirsi piuttosto Spagnuoli che Francesi, perchè i conti di Barcellona dominarono alcuni anni in {p. 42}Provenza, e perchè la lingua Catalana e la Provenzale si rassomigliarono molto. Dico solo di passaggio quanto alla prima parte, che siccome i Napoletani, i Toscani, i Parmigiani, i Milanesi, i Corsi, per essere sottoposti al dominio Spagnuolo, Alemanno e Francese, non si chiamarono mai Spagnuoli, Alemanni, o Francesi, così i conti di Barcellona non faranno che i Provenzali chiaminsi Spagnuoli. Quanto alla seconda parte io credo che nell’origine degl’ informi dialetti moderni, e specialmente nel fermento del X e XI secolo, fuvvi per necessità molta somiglianza ne’ parlari, più sensibile tralle provincie confinanti che tralle lontane. Ma come dedurre da ciò, che la lingua Provenzale derivi dalla Catalana? L’amor del dialetto nativo fe dire all’Ab. Lampillas36 che sin dal nono secolo i conti di Barcellona introdussero in quelle provincie di Francia, in cui dominarono col titolo di duchi di Septimania, il loro nativo idioma; e credè ciò provato a maraviglia coll’ epitafio del conte Bernardo avvelenato nell’anno 844. Quest’epitafio prova bene la somiglianza della lingua Catalana colla Provenzale, ma in niun conto può provare che la Catalana fu da’ conti di Barcellona introdotta {p. 43}in Provenza. Laonde noi quì distingueremo sempre i Provenzali dagli Spagnuoli; tanto più che ci sembra ingiusta e sconvenevol cosa il distendere il giudizio del Fontenelle, intorno all’ignoranza de’ trovatori Provenzali, anche alle provincie Spagnuole.

Parlando adunque delle regioni che portano incontrastabilmente il nome onorevole di Spagnuole, noi troviamo nella Catalogna prima in Barcellona, indi in Tortosa l’accademia della Gaya Ciencia, e parimente tra gli Aragonesi alcuni poeti degni di mentovarsi. Vi troviamo ancora i Giullari, e nel 1328 celebrandosi le feste per la coronazione del re d’Aragona, i giullari Ramaset e Novellet cantarono molti versi composti dall’infante Don Pietro fratello del re. Tuttavolta insino a questo giorno con molta diligenza (anche dopo le ciance apologetiche e le bravate e i lampi e i tuoni strepitosi ed innocui de’ Lampillas, degli Garcia de la Huerta ed altri simili trasoni, sofisti e declamatori) a me non è riuscito raccorre, nè dalla storia, nè da’ romanzi apologetici stessi, cosa veruna teatrale di questo secolo, siccome nè anche riuscì al dotto bibliotecario D. Blàs de Nasarre, nè all’Ab. Andres.

Si avvicinano bensì alle teatrali alcune farse sacre de’ primi anni di questo secolo che si trovano mentovate nella storia di Francia, {p. 44}ma che si sono ignorate dall’anonimo Francese che nel 1780 cominciò a pubblicare in Lione una collezione del Teatro Francese. Quando il re Filippo detto il Bello morto nel 1314 armò cavalieri i suoi figliuoli, trovasi in un’ antica cronaca37 che si diede una festa, in cui si vide la persona di N. S. mangiar de’ pomi ridendo con sua Madre, dire de’ paternostri cogli Apostoli, e risuscitare e giudicare i morti: vi si udirono i beati cantare in paradiso in compagnia di circa novanta angeli, e i dannati piangere in un inferno nero e puzzolente in mezzo a più di cento diavoli che ridevano del loro supplizio: vi si vide ancora una volpe prima semplice clerico, indi di mano in mano vescovo, arcivescovo e papa, sempre cibandosi di polli e pulcini. Per questi passi si venne in Francia ad introdurre l’uso di rappresentare i misteri che nel 1380 si stabilì sul teatro per mezzo del Canto Reale. Esso consisteva in versi in lode della Vergine e de’ Santi, cantati a competenza da’ varj branchi di pellegrini venuti da’ Santuarj38. Fermavansi da principio a cantar nelle piazze, facendo {p. 45}come uno steccato co’ loro bordoni, e di poi montarono su d’un rustico palco in una casa comprata espressamente da alcuni per trarre profitto dalla folla che concorreva a questo nuovo devoto divertimento.

Trovansi pure in questo secolo i misteri teatrali in Inghilterra, che allora contava due poeti Giovanni Gover e Gualfrido Chaucer di lui migliore. N’erano attori gli ecclesiastici e scolari, i quali andavano talmente altieri dell’usanza privativa di rappresentarli, che non soffrivano che altri se ne ingerisse. Gli studenti di San Paolo nel 1378 presentarono una supplica a Riccardo II, affinchè vietasse a certi ignoranti di rappresentar le storie del Vecchio Testamento in pregiudizio del clero39.

Senza contrasto sul principio del secolo XIV furono in Alemagna alcune rappresentazioni sacre. Varie cronache addotte dal Menkenio40 recano che Federigo margravio di Misnia e langravio di Turingia {p. 46}assistette a una rappresentazione delle dieci vergini del Vangelo eseguita pubblicamente in un gioco piacevole da’ preti della città di Eisenach nel 1322 quindici giorni dopo Pasqua destinata al pubblico divertimento41.

CAPO IV.
La drammatica nel secolo XV fa ulteriori progressi in Italia. §

Due ben differenti aspetti, all’apparenza contradittorj, presentano agli osservatori quelle nazioni che si renderono chiare per le cose operate o patite nella pace e nella guerra. Mirate dal punto che discopre i loro progressi nelle scienze e nelle arti, sembra che un’ aurea pace abbia fornito tutto l’agio a’ filosofi ed agli artefici tranquilli per gir tant’ oltre. Viste poi dal punto che tutte manifesta le loro politiche e militari turbolenze, si temerà pel destino delle arti e delle scienze. Ma simili dubbj e timori giusti nelle distruttrici inondazioni de’ barbari, ben di rado si avverano nelle {p. 47}guerre de’ popoli culti, nelle quali la nazione che soffre, fida nel sovrano che vigila pel tutto, e conta ne’ casi avversi sulla moderazione del vincitore; ond’è che gli artisti e i letterati non intermettono i loro lavori.

Arse l’Italia nel XV secolo di un alto incendio di guerra in più luoghi: ma le contese de’ Pisani co’ Fiorentini, de’ Veneziani co’ duchi di Milano, degli Angioini cogli Aragonesi, non impedirono l’avanzamento degli studj e delle arti, nè il favore e la munificenza di tanti principi e ministri verso i coltivatori di esse (Nota XIII). Quindi è che dedicaronsi quasi generalmente gli uomini di lettere ad apprendere profondamente le due più famose lingue de’ dotti, ed anche a disotterrar nelle lontane regioni i codici Greci e Latini, ed a moltiplicarne le copie, a correggerli, a confrontarli, ad interpetrarli. Si raccolsero da per tutto diplomi, medaglie, camei, statue, iscrizioni ecc. Stabilironsi accademie, università, cattedre novelle, biblioteche pubbliche e stamperie. Si promosse lo studio della filosofia di Platone. Risorse l’epopea. Si coltivò l’una e l’altra eloquenza ed ogni genere di erudizione, specialmente per le cure del famoso segretario e consigliere de’ re Aragonesi Napoletani Giovanni Pontano, e del precettore di Leone X Agnolo Ambrogini detto il Poliziano, {p. 48}e del regnicolo Giulio Pomponio Leto.

Chi non sa che nel XV secolo foriero dell’aureo seguente divenne l’Italia l’emporio del sapere: chi nella propria casa non vide spuntar altrettanta luce, stenterà a credere42 che dentro delle alpi gli studj teatrali nelle mani di molti cospicui letterati fossero divenuti comuni e maneggiati con maggior arte. Ebbero intanto gl’ Italiani in tal periodo 1 farse per lo più italiane sacre e profane, 2 drammi regolari latini e 3 componimenti eruditi dettati in volgare idioma.

Quanto alle farse non cessarono in Roma le rappresentazioni de’ misteri, ma si fecero con maggior sontuosità. Scritta in volgare fu la rappresentazione di Gesù Cristo, a cui lavorarono il Fiorentino Giuliano Dati vescovo di S. Leo, il Romano Bernardo di Mastro Antonio e Mariano Particappa, e s’ impresse in Milano per Valerio e Girolamo di Meda fratelli, e si ristampò in Venezia l’anno 1568 per Domenico de’ Franceschi43. Altre ne scrisse anche in volgare Feo Belcari, di cui l’Isacco composta in ottava rima fu la prima volta recitata in {p. 49}Firenze nel 144944. Posteriore alle nominate ma appartenente al medesimo secolo fu la Conversione di S. Maria Maddalena di Jacopo Alamanni divisa in cinque atti. La Conversione di S. Paolo si rappresentò in Roma verso il 1380 d’ordine del cardinal Riario. Si vogliono al medesimo secolo riferire le sette farse spirituali inedite recitate in Napoli da me descritte nelle Vicende della Coltura delle Sicilie45; come ancora le favole drammatiche allegoriche recitate da’ Fiorentini nel 1442 nell’ingresso trionfale di Alfonso I di Aragona in Napoli; e i misteri della Passione ivi fatti rappresentare nella chiesa di Santa Chiara con magnifiche decorazioni dal medesimo re nella settimana santa l’anno 1452, in cui vennevi Federigo III imperadore; ed anche le farse buffonesche inedite di Antonio Caracziolo rappresentate per lo più alla presenza di Ferdinando I; e finalmente li gliuommere nel dialetto napoletano di Jacopo Sannazzaro e la farsa toscana del medesimo della presa di {p. 50}Granata rappresentata in quella reggia in presenza di Alfonso duca di Calabria nel 148946. In questo secolo ancora, e propriamente nel 148947, da Bergonzo Botta gentiluomo Tortonese si diede in Tortona quella tanto magnifica festa nelle nozze d’Isabella d’Aragona figlia di Alfonso duca di Calabria con Giovanni Galeazzo Maria Sforza duca di Milano, nella quale, per quanto vedesi presso il Corio ed altri, la poesia, la musica, la meccanica e la danza spiegarono tutte le loro pompe48.

{p. 51}

Passando poi a’ componimenti veramente scenici latini composti in tal secolo da non volgari ingegni, troviamo una tragedia di Gregorio Corraro patrizio Veneto morto nel 1464 composta in versi latini nell’età di soli anni diciotto, intitolata Progne, alla quale fanno plauso, secondo Lilio Gregorio Giraldi, moltissimi eruditi del XVI secolo, e nel nostro col marchese Maffei altri letterati ragguardevoli. Si produsse la prima volta in Venezia nel 1558, ed il Domenichi la tradusse in Italiano, spacciandola come cosa propria.

Un’ altra tragedia latina sulla Passione di Cristo compose in questo secolo Bernardino Campagna dedicata dall’autore al pontefice Sisto IV, della quale fa menzione il lodato Maffei nella Verona illustrata.

Un’ altra tragedia latina in versi giambici dedicata al duca di Ferrara Borso da Este fu composta da Laudivio cavaliere Gerosolimitano nativo di Vezzano nella Lunigiana49, il quale fu della famiglia Zacchia {p. 52}ed ascritto all’Accademia del Panormita, benchè dal Pontano poco pregiato. Si aggira sulle vicende del famoso condottiere conte Jacopo Piccinino, arrestato improvvisamente nel 1464, e poi l’anno seguente ucciso per ordine di Ferdinando re di Napoli. Vidi il codice Estense di tal tragedia in Modena nel fermarmivi per alcune ore nel 1779, ma non avendo l’agio necessario per leggerla interamente, degnò trasmettermene un breve estratto e qualche verso l’umanissimo cav. Tiraboschi. Eccone il titolo De Captivitate Ducis Jacobi tragædia. Contiene cinque atti senza divisione di scene, e solo in margine si segnano i personaggi che parlano, e qualche volta s’indica l’ argomento della scena. Nell’atto I leggesi nel margine Rex Borsius loquitur; ed in fatti egli seco stesso parla a lungo delle prodezze del Piccinino; indi sopraggiugne un sacerdote che narra varii funesti prodigi, e dopo aver molto l’uno e l’altro cianciato termina l’ atto con un coro. Trattasi nel {p. 53}secondo de’ mali apparsi dopo la pace fatta, e gl’ interlocutori sono un augure, il coro ed un messo che nulla dice di più degli altri. Nel terzo la scena passa da Ferrara a Napoli, ed in esso un ambasciadore del Piccinino al re Fernando dà avviso della venuta del generale, ed il re promette accoglierlo onorevolmente. Termina quest’atto col coro che canta le lodi di Drusiana moglie del Piccinino. Il quarto atto è il più bizzaro. Il re alterca col carnefice, esaminando se debba uccidersi il Piccinino tosto che fidando nel trattato venga in suo potere. Il carnefice insinua che si uccida, e la di lui eloquenza prevale. Si vede poscia il Piccinino nella prigione. Il carnefice viene ad intimargli l’ordine della di lui morte:

Dux Jac.

En jam satelles adest, meque petit.

Satel.

Dux, martis auctor potens, bellis inclyte,
Piget, dicam, piget: tibi fero necem:
Sic rex jubet, jam colla tende gladiis.

Il duce si sottopone alla condanna ed è ucciso; dopo di che dice il carnefice:

Quam graviter diram constans tulit necem.
Indolui huic tam duram sortem accidere.
{p. 54}
Sed redeo ad regem; jam perfectum est scelus.

L’atto termina col coro che in compagnia di Drusiana compiange la prigionia del Piccinino. Nel quinto atto la scena torna a Ferrara. Un messo racconta al duca Borso la sventura del Duce, e la tragedia termina con un coro. E’ un componimento languido e difettoso; nè la condotta, nè lo stile invita a desiderarsene l’impressione; ma pure è tragedia, ed ha il pregio di essere una delle prime di argomento tratto dalla storia moderna nazionale.

Giovanni Sulpizio da Veroli, il quale sotto il pontificato d’Innocenzo VIII teneva scuola di belle lettere in Roma, vi fece rappresentare un’ altra tragedia. Secondo ciò che ne scrive lo stesso Sulpizio nella dedicatoria delle sue Note sopra Vitruvio al cardinal Raffaello Riario nipote di Sisto IV, essa fu la prima veduta in Roma dopo molti secoli. Pietro Bayle, citando il P. Menestrier, afferma che questa tragedia fu cantata come un’ opera musicale d’oggidì, fondandosi sulle parole del medesimo Sulpizio: tragædiam quam nos agere & cantare primi hoc ævo docuimus. A me sembra però che il Menestrier e ’l Bayle facciano significar troppo a quell’agere & cantare. Potrebbero, è vero, tali voci indicare che la tragedia tutta si fosse cantata, a somiglianza {p. 55}delle moderne opere in musica dal principio sino al fine. Ma potrebbero forse avere due altri significati, in ciascuno de’ quali sparisce ogni idea di opera. Perchè in prima non potrebbero esprimere rappresentare e declamare? Cantare dicesi pur da’ latini e da noi il recitar versi, per quella specie di canto con cui si declamano; ed ogni poeta dice de’ suoi versi, io canto. Perchè poi non potrebbe dirsi che Sulpizio avesse voluto dinotar coll’ agere il rappresentar nudamente la tragedia, e col cantare il cantarne con vera musica ciò che va cantato, cioè i cori, la qual cosa direbbesi acconciamente e con latina proprietà agere & cantare tragœdiam, senza convertirla in melodramma moderno? Sopra simili fondamenti il P. Menestrier e ’l Bayle, seguiti pochi anni fa dal cav. Planelli, veggono l’opera in musica dovunque cantaronsi versi, ne’ canti de’ pellegrini di Parigi, nelle sacre cantate delle Chiese, nelle cantilene riferite dal Mussato. E potevano allungarne la lista co’ versi cantati da’ Mori prima delle giostre, con i corei Messicani, colle musiche Peruviane, co’ rustici canti de’ selvaggi, e con che no? Ma i moderni alla voce operæ aggiungono un’ idea complicata e talmento circostanziata che la diversificano, non che dalle cose accennate, dagli stessi pezzi drammatici de’ Greci e de’ Latini, a’ quali pur s’avvicina. Aggiungasi che dicendo Sulpizio {p. 56}di aver dopo molti secoli fatta rappresentare in Roma una tragedia, ci fa retrocedere col pensiere almeno sino a’ Latini, nè possiamo concepir altrimenti la tragedia di cui fa motto, se non come quella degli antichi. Ciò che solo con certezza si deduce dalle di lui parole, si è, che quel componimento fu una tragedia. Che poi questa si cantasse tutta, come pretese il Menestrier, ovvero se ne cantassero i soli cori, come noi stimiamo, ambedue queste opinioni sono arbitrarie, ed hanno bisogno di nuova luce istorica.

Verso la fine del secolo, cioè nel 1492 Carlo Verardo da Cesena nato nel 1440 e morto nel 1500, che fu arcidiacono nella sua patria e cameriere e segretario de’ Brevi di Paolo II, di Sisto IV, d’Innocenzo VIII e di Alessandro VI, compose due drammi fatti rappresentare in Roma solennemente dal mentovato cardinal Riario. Parla del Verardi e del suo Fernandus servatus Apostolo Zeno nelle Dissertazioni Vossiane; ma non pare che avesse conosciuto la prima edizione in quarto fatta de’ di lui drammi in Roma per Magistrum Eucharium Silber, alias Franck nel 1493 a’ 7 di maggio50. {p. 57}Vi si trova impresso il Fernandus servatus, la Historia Bætica, e una ballata in fine colle note musicali. Il piano del Fernando fu dal Verardo ideato in occasione dell’ attentato di un traditore contro la vita del re che per miracolo di San Giacomo sanò della ferita; ma fu disteso in versi esametri da Marcellino suo nipote. Carlo dedicò il componimento all’arcivescovo di Toledo e primate delle Spagne Pietro Mendoza, e l’intitolò tragicommedia. Dicesi nella dedicatoria che fu ascoltata con sommo applauso dal pontefice e da’ cardinali e prelati. Nell’azione che non ha divisione di atti, intervengono Plutone, Aletto, Tisifone, Megera, Ruffo (ch’è il traditore), la Regina, una Nutrice, San Giacomo, il Re, il Cardinal Mendoza, il Coro. Nel parlarsi da Plutone della religione di Cristo e di Maometto si frammischiano i nomi e i fatti di Piritoo, Castore, Oreste, ed Ercole. Questa mescolanza poco plausibile è compensata dall’unità dell’azione, che è condotta regolarmente nel giusto tempo con gravità, e con facilità e nitidezza, se non con tutta la maestosa eleganza Virgiliana51. L’altro componimento intitolato {p. 58}Historia Bætica rappresenta l’ evenimento dell’espugnazione di Granata, ed è scritto in prosa, eccetto l’ argomento ed il prologo che sono in versi giambici. Anche si fece rappresentare dal cardinal Riario nel suo palazzo in un teatro erettovi espressamente, e fu ascoltata con grande applauso. Dicesi nel prologo:

Requirat autem nullus hic comœdiæ
Leges ut observentur, aut tragœdiæ;
Agenda nempe est historia, non fabula.

Ed in fatti par che l’autore si proponesse di narrare in un dialogo continuato l’azione {p. 59}esposta nell’argomento. In fine di questa composizione si trova scritto: Acta ludis Romanis, Innocentio VIII in solio Petri sedente, an. a Nat. Salvatoris MCCCCXCII, undecimo kalendas maii.

Leonardo Bruni che da Arezzo sua patria si disse Aretino, nato nel 1369 e morto nel 1444, avea composta una commedia intitolata Polixena stampata più volte in Lipsia nel principio del secolo XVI. Leon Batista Alberti nato secondo il Manni e il Lami nel 1398, e secondo il Bocchi nel 1400, e secondo che con maggior probabilità congettura il Tiraboschi, nel 1414, scrisse in prosa latina nell’età di venti anni una commedia intitolata Philodoxeos, creduta per due lustri opera di un antico scrittore, perchè ha non poco dello stile degli antichi comici, e mostra lo studio fatto dall’Alberti della latina favella. E benchè poi giunto l’autore all’età di trent’anni l’avesse ritoccata e divulgata col suo nome, dedicandola al marchese di Ferrara Leonello da Este, non per tanto Aldo Manuzio il giovane volle pubblicarla nel 1588 sotto il nome di Lepido comico poeta antico. Alberto da Eyb ne inserì molti squarci nella Margarita Poetica, ma chiamò l’ autore Carlo Aretino. Nella medesima opera dell’Eyb si mentova un’ altra commedia latina di quel tempo di Marcello Ronzio Vercellese intitolata De falso hypocrita & tristi, adducendosene molti passi. Ugolino {p. 60}Pisani Parmigiano52 compose alcune commedie latine, per le quali da Angelo Decembrio vien chiamato valoroso imitatore dello stile Plautino53. Una ne presentò al nominato Leonello succeduto al padre nel 1441, nella quale confabulavano le masserizie di cucina, secondo il medesimo Decembrio. Un’ altra in prosa intitolata Philogenia54 trovasi manoscritta nella R. Biblioteca di Parigi e nella Vaticana55, e nell’Estense benchè senza nome dell’autore56. Quella che ne ho veduta nella Biblioteca di Parma s’intitola Ephigenia57. {p. 61}Secco Polentone, ossia da Polenta, cancelliere della repubblica Padovana, chiamato dagli scrittori di que’ tempi Sico o Xicus Polentonus, cui i Padovani aggiungono il cognome di Ricci, compose pure latinamente verso la metà del secolo una commedia in prosa intitolata Lusus ebriorum, la quale serbasi manoscritta fra’ codici di Giacomo Soranzo.

Ma non composero gl’ Italiani altro che farse e componimenti latini in questo secolo? Non ne scrissero alcuno in volgare che loro assicuri l’anteriorità anche per questa via? Ve ne furono almeno dodici recitati e stampati, che qui recheremo, sebbene per esperienza io sia certo che neppure un solo vogliano vederne i Lampigliani, tra’ quali con rincrescimento sembraci che si debba noverare il Signor Andres.

Appunto dal nominato Lusus ebriorum venne la più antica commedia volgare che abbiasi alle stampe. Modesto Polentone ne fece una traduzione Italiana, intitolandola Catinia da Catinio protagonista della favola, e pubblicolla in Trento nel 147258.

Venne poi l’Orfeo del Poliziano, nel quale dee riconoscersi la prima pastorale {p. 62}tragica fra noi composta in volgare con qualche idea di regolata azione. L’autore non oltrepassava l’anno diciottesimo di sua età, quando la scrisse in tempo di due giorni (com’ egli accenna in una lettera a Carlo Canale) intra continui tumulti a requisizione del Reverendissimo Cardinale Mantuano Francesco Gonzaga, in occasione che questi da Bologna, ove risedea Legato, portossi a Mantova sua patria, ov’era vescovo, nel 1472, come col Bettinelli stabilisce il lodato P. Affò, o almeno prima del 1483, nel quale anno morì il Cardinale, come bene osserva il Tiraboschi. Il Bibliotecario di Parma nel 1776 fe pubblicarlo in Venezia, così intitolandolo: L’Orfeo tragedia di Messer Angiolo Poliziano tratta per la prima volta da due vetusti codici, ed alla sua integrità e perfezione ridotta ed illustrata. Precede al dramma un argomento rinchiuso in due ottave. Ciascuno de’ cinque atti, ne’ quali è diviso, porta un titolo particolare. Chiamossi il primo Pastorale, il secondo Ninfale, il terzo Eroico, il quarto Negromantico, il quinto Baccanale.

Contiene il primo un’ ecloga amorosa di Aristeo, che poi va in traccia della ninfa Euridice. Nel secondo egli la trova, e le corre dietro, ed indi a poco una Driade piangendo annunzia alle compagne la morte di Euridice, e vedendosi venir da lungi Orfeo, la Driade manda le altre a coprir di {p. 63}fiori la morta ninfa, ed ella ne reca a lui l’ amara novella. Nel terzo esce Orfeo ignaro della sua sventura cantando un tetrastico latino ad Ercole, che incomincia Musa, triumphales titulos, & gesta canamus, e s’interrompe alla venuta della Driade da cui ode la morte di Euridice punta dal morso velenoso di un serpente. Istupidito dal dolore parte Orfeo senza far motto alla maniera di Sofocle, rimanendo in iscena il Satiro Mnesillo, indi ritorna piangendo la consorte, e risolve di calar giù nell’inferno,

A provar se laggiù mercè s’impetra.

Trattasi nel quarto di ciò che avvenne ad Orfeo nell’inferno. Ma quì si chiederà, come debba concepirsi la scena, passando tutta l’azione in due luoghi. Giudica il prelodato P. Affò essersi dovuta in Mantova formar la scena ad imitazione delle antiche, che figuravano a un tempo stesso più luoghi, e mostrar da un lato la via che faceva Orfeo nell’avvicinarsi alla reggia di Plutone, e dall’altro l’inferno stesso. Ma tale scena bipartita converrebbe all’atto IV, e non al rimanente. I sospiri d’Aristeo, i lamenti delle Driadi, il pianto d’Orfeo, cose che passano negli atti precedenti, e l’ammazzamento del poeta amante eseguito nel quinto dalle Baccanti, esigono un’ apparenza diversa da quella dell’atto IV. Dovè dunque {p. 64}cangiarsi la scena nella guisa che oggi avviene ne’ drammi musicali, servendo all’azione. La scena dell’atto I dovea rappresentare una campagna a piè d’un monte con una fonte, presso di cui era Aristeo:

. . . . appresso a questa fonte
Non son venuti in questa mane armenti,
Ma ben sentii mugghiar là dietro al monte;

ed in tale scena potevano passare anche il II e III atto parlandovisi del medesimo monte. Rappresentò forse il IV il dilettevole orrore della dipintura di tante pene infernali sospese al cantar di Orfeo (siccome l’ espresse il Poliziano seguendo Virgilio), e la reggia di Pluto, e la strada tenuta da Orfeo. Nel V potè tornare la mutazione de’ primi tre atti, accennandovisi eziandio il monte, questo monte gira intorno, ovvero cangiarsi il teatro in una foresta su questo monte destinata dalle Baccanti alla celebrazione de’ loro riti. Che se di tutte queste cose volesse idearsi una scena stabile, non riuscirebbe difficile il compartirvele; ma allora sorgerebbe un dubbio inevitabile, cioè, come mai ninfe e pastori scorrendo per ogni banda, non si sono avveduti della via che mena all’inferno e delle apparenze dell’atto IV? Lascio poi stare il poco artificio di tener sotto gli occhi dello spettatore {p. 65}per tutta la rappresentazione la più vistosa decorazione della reggia di Pluto, mentre altrove espongonsi cose assai men vivaci. Adunque la scena nell’Orfeo fuor di dubbio cangiossi, servendo anche allo spirito di magnificenza del secolo XV, in cui amavansi all’estremo (e ben l’accenna l’erudito annotatore) le maravigliose rappresentazioni e le macchine sorprendenti. In quest’atto Orfeo implora il ritorno di Euridice tra’ vivi; Proserpina intercede per lui; e Plutone gliela concede a condizione, che non abbia a volgersi indietro per mirarla per tutta la via infernale. Sembra che dopo ciò dovesse chiudersi la porta ferrata della reggia. Orfeo lieto seguito da Euridice profferisce un altro tetrastico latino:

Ite triumphales circum mea tempora lauri:
Vicimus: Euridice reddita vita mihi est.
Hæc mea præcipue victoria digna corona.
Credimus, an lateri juncta puella meo?

L’ultimo pentametro indica la curiosità d’Orfeo, che contro il divieto si volge a mirar la moglie, e torna a perderla per sempre. Euridice sentendosi tirar indietro, stende invano le braccia al marito, ed è tratta di nuovo nel regno della morte. Il Poliziano anche quì calcando l’orme Virgiliane così la fa parlare:

{p. 66}
Aimè! che troppo amore
Ci ha disfatti ambidua!
Ecco che ti son tolta a gran furore,
E non son or più tua.
Ben tendo a te le braccia, ma non vale,
Che indietro son tirata. Orfeo mio, vale.

Orfeo vuol tornare per ridomandarla, ma vien respinto da Tisifone. Nel quinto atto Orfeo vaneggiando per lo dolore risolve di non mai più innamorarsi d’ alcuna donna; ed era questo un natural sentimento nella disperazione in cui si trovava. Ma dovea il Poliziano farlo passare ad abborrir le donne, che non aveano a lui mancato, e a detestarle con certe espressioni solo convenienti ad alcun Orlando tradito da qualche Angelica? Dovea mettergli in bocca que’ versi che mostrano l’autor del dramma proclive al più detestabile sfogo della lascivia? Questi sono errori dell’età giovanile, o di quegl’ ingegni vivaci che troppo a se fidando mettono giù i loro parti senza scelta e senza lima a somiglianza de’ verseggiatori estemporanei59. I sentimenti di Orfeo ingiuriosi {p. 67}al sesso femminile muovono a sdegno le Menadi furibonde che ne risolvono ed eseguiscono la morte, e con una canzonetta ditirambica termina la favola (Nota IX). Egli vi si vuol notare ancora che molte cose dovettero cantarsene, spezialmente alcuni pezzi delle scene di Orfeo, e le canzoni de’ cori.

Due altre azioni teatrali volgari leggonsi nelle Rime del Notturno poeta Napoletano, le quali appartengono a questo periodo. La prima s’intitola Tragedia dil maximo & dannoso errore in che è avvilupputo il fragil & volubil sexo femineo, la quale nella Drammaturgia dell’Allacci s’intitola Errore femineo. In questa pretesa tragedia si trovano alcune scene comiche. Il metro è vario, contenendo arbitrariamente ottave e terze rime, ed alcune strofe anacreontiche con {p. 68}un intercalare cantato da quattro musici60. {p. 69}La seconda azione scenica del Notturno è detta commedia nuova nell’edizione Milanese, ed in alcune Veneziane Gaudio d’amore; ed il di lei carattere è nel basso comico, seguendo la condizione de’ personaggi antichi, servi, ruffiani, parassiti, meretrici. Ma tempo è di accennare alcuni altri passi teatrali dati in altre città Italiane, e singolarmente in Roma ed in Ferrara.

In Milano il duca Ludovico Sforza fe aprire in questo secolo un magnifico teatro, di cui si parla in un epigramma di Lancino Corti61. In Firenze il celebre traduttore di Tito Livio Giacomo Nardi, secondo il Fontanini, al più tardi produsse nel 1494 la sua commedia composta in vario metro intitolata l’Amicizia. In Roma senza verun dubbio uno de’ principali autori del risorgimento della drammatica fu il rinomato Calabrese Pomponio Leto. Per quanto leggesi nella di lui Vita composta da Marcantonio Sabellico, cominciò il Leto a {p. 70}farvi recitare ne’ cortili de’ prelati più illustri le commedie di Terenzio e di Plauto ed anche di qualche moderno, insegnando egli stesso ad alcuni civili giovanetti il modo di rappresentarle. A tempo di Paolo Cortes, per quanto egli stesso racconta, fecesi anche sul colle Quirinale la recita dell’Asinaria. Nel Diario di Jacopo Volterrano pubblicato dal Muratori62 si parla di un dramma intorno alla vita di Costantino rappresentato a’ cardinali nel carnovale del 1484, nel quale sostenne il personaggio di Costantino un Genovese nato e cresciuto in Costantinopoli, che da quel tempo sino alla morte fu chiamato sempre l’imperadore.

Con maggior magnificenza ancora cominciarono nel 1486 a rappresentarsi in Ferrara feste e spettacoli teatrali sotto la direzione dell’infelice Ercole Strozzi figlio di Tito Vespasiano Ferrarese63, e niuno vi ebbe (dice il Tiraboschi) che nella pompa di tali spettacoli andasse tant’oltre quanto Ercole I Duca di Ferrara principe veramente magnifico al pari di qualunque più possente sovrano. A’ venticinque di gennajo {p. 71}del nominato anno, secondo l’antico diario Ferrarese, questo splendido duca fe rappresentare in un gran teatro di legno innalzato nel cortile del suo palazzo la commedia de’ Menecmi di Plauto, alla cui traduzione egli stesso avea posto mano64. A’ ventuno poi del medesimo mese del seguente anno vi si rappresentò la favola di Cefalo divisa in cinque atti e scritta in ottava rima dall’ illustre guerriero e letterato Niccolò da Correggio (che non so perchè vien detto dal Bettinelli Reggiano); ed indi a’ ventisei dello stesso mese l’Anfitrione tradotto in terza rima da Pandolfo Collenuccio da Pesaro, il quale a richiesta parimente di Ercole I compose la sua commedia, o a dir meglio azione sacra, intitolata Joseph impressa poi in Venezia nel 1543, e nel 1555, e nel 1564 corretta da Gennaro Gisanelli. Sotto il medesimo duca e pel di lui teatro Antonio da Pistoja della famiglia Camelli secondo il Baruffaldi e secondo altri della Vinci, compose alcuni drammi, e specialmente la Panfila tragedia in terza rima ed in cinque atti stampata in Venezia nel 150865. Pietro Domizio scrisse un’ altra {p. 72}tragedia pel medesimo teatro, che dovette rappresentarsi nel 149466. Per uso dello stesso teatro furono tradotte anche in terza rima da Girolamo Berardo Ferrarese la Casina e la Mostellaria stampata in Venezia. Il famoso Matteo Maria Bojardo conte di Scandiano, ad istanza del medesimo duca, compose in terza rima e in cinque atti il Timone commedia tratta dal dialogo così chiamato di Luciano, la quale trovasi impressa la prima volta senza data, ma certamente si scrisse prima del 1494, anno in cui seguì la morte dell’autore, e se ne fece nel 1500 una seconda edizione67.

Non ci curiamo di recare in questo secolo le due commedie Italiane di Giovanni di Fiore da Fabbriano, e l’altra di Ferdinando di Silva Cremonese intitolata l’Amante fedele rappresentata nelle nozze di Bianca Maria Visconti col conte Francesco Sforza68. A noi basti l’aver mostrato ad {p. 73}evidenza con altri non ambigui monumenti ciò che incresce a’ Lampigliani, che l’Italia può vantarsi d’aver coltivata la drammatica ad imitazione degli antichi con quella felicità che altri non ebbe. Aggiugneremo con pace del Signor Andres, che essa parimente prevenne le altre nazioni Europee in produrre i primi indubitati pezzi teatrali in lingua volgare (giacchè è piaciuto a quest’autore altro non potendo ricorrere a quest’asilo) nè solo coll’ Orfeo, ma con altri drammi eziandio, per cui vedere basterebbe agli apologisti oltramontani rileggere i nostri libri senza gli occhiali colorati di Plutarco. E chi allora metterebbe più in confronto una ventunesima parte di una novella in dialogo, che ebbe nel secolo vegnente per altra mano il compimento e mai non si rappresentò, a tanti per propria natura veri drammi Italiani, rappresentati con plauso e per tali riconosciuti, cioè alla Catinia, al Cefalo, al Gaudio d’amore, alla Panfila, ai Menecmi, all’Anfitrione, alla Casina, alla Mostellaria, all’Amicizia, al Timone? Passiamo a vedere lo stato della drammatica tra gli oltramontani.

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CAPO V.
La Drammatica oltre le alpi nel XV secolo non eccede le Farse e i Misteri. §

Mentre sull’orme degli antichi giva risorgendo in Italia la poesia rappresentativa in latino ed in italiano, l’ombra che n’ebbero i Provenzali si estinse e svanì totalmente, ed in Parigi rozza ed informe si restrinse a’ sacri misteri ed alle farse. Avea qui vi già preso forma di dramma il Canto Reale, rappresentandosi la Passione di Cristo nel borgo di San Mauro. Chi riflette alla vittoriosa forza della religione su gli uomini, non istupirà dell’ universale accettazione ch’ebbe sì importante argomento per tutta l’Europa Cristiana. In Francia tirò una prodigiosa folla di spettatori. Ma perchè difficilmente possono le cose sacre presentarsi ne’ pubblici teatri senza inconvenienti e senza certa profanazione, convenne al Prevosto di Parigi proibir tali rappresentazioni. Gli attori che ne traevano profitto, implorarono il favore della Corte prendendo il titolo di Fratelli della Passione, e nel 1402 ne ottennero da Carlo VI l’ approvazione. Posero allora il teatro nell’ospedale {p. 75}della Trinità, rappresentandovi per tutto il secolo varie farse della Passione, e diversi misteri del vecchio e del nuovo testamento. Uno di questi drammi della Passione scritto circa la metà del secolo si crede composizione di Giovanni Michele vescovo di Angers morto in concetto di santo. Conteneva la vita di Cristo dalla predicazione del Precursore sino alla Resurrezione, e consisteva in una filza di scene indipendenti l’una dall’altra senza divisione di atti, e si recitava in più giorni. V’intervenivano il Padre Eterno, Gesù Cristo, Lucifero, la Maddalena e i di lei innamorati: vi si vedeva Satana zoppicando per le bastonate ricevute da Lucifero per aver tentato Gesù Cristo senza effetto: la figlia della Cananea spiritata vi proferiva parole soverchio libere: l’anima di Giuda non potendo uscire per la bocca che avea baciato il divino Maestro, si figurava che scappasse fuori del ventre insieme colle interiora: Gesù Cristo sulle spalle di Satana volava sul pinacolo ec. Tali rappresentazioni si adornavano con decorazioni curiose, e se ne cantavano gli squarci più rilevanti, come le parole del Padre Eterno.

Sotto la denominazione di Misteri vengono parimente le vite de’ santi poste sul teatro Francese in questo secolo. Nominansi da’ collettori de’ pezzi teatrali Francesi la Vita e i miracoli di S. Andrea, la Vita di {p. 76}S. Lorenzo, la Pazienza di Giobbe. La Vita di S. Cristofano impressa in Grenoble nel 1530 fu composizione del maestro Chevalet, il quale conseguì il titolo di sovrano maestro in siffatti drammi. Narrasi in essa la conversione del gigante Reprobo chiamato poi Cristofano, il quale serve a varii re, perchè gli crede potenti; indi al diavolo da lui stimato di essi più potente; ma vedendo che si spaventa d’una croce, e dal diavolo stesso udendone la cagione, ne abbandona il servizio e va in traccia di colui che l’avea vinto. Nel tragittar che fa, per consiglio di un eremita, i viandanti da una sponda all’altra di un fiume, porta sopra le spalle un bambino, il cui peso crescendo a dismisura in mezzo all’acqua, si avvede della propria debolezza e ne stupisce. Il bambino che era Gesù Cristo si fa ravvisare circondato da’ raggi della propria gloria e vola sopra le nuvole. Reprobo riceve il battesimo. Termina il dramma col di lui martirio, e colla conversione del re di Licia, il quale per un miracolo è ferito in un occhio da una saetta che dal petto di Cristofano ritorna verso di lui, e per un altro miracolo ricupera la vista giusta la predizione del martire gigante. Il mistero del Re che ha da venire, l’Incoronazione e la Nascita, sono altre farse spirituali di quel tempo, nelle quali solevano intervenirvi or cento, or settanta, or cinquanta personaggi.

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Furonvi in Francia sotto Carlo VI morto nel 1422, oltre a’ Fratelli della Passione, varie altre compagnie di rappresentatori. Gli Spensierati (les enfans sans souci) che aveano un capo chiamato il principe degli sciocchi, mettevano sul teatro avventure bizzarre e ridicole. I clerici de la Bazoche, che cominciarono con alcune farse dette Moralità, proseguirono rappresentando mere buffonerie. I Cornards di Normandia sotto un capo chiamato l’abate de’ Cornards il quale portava la mitra e ’l pastorale, rappresentavano farse satiriche e insolenti. Tutti questi spettacoli francesi di questo secolo erano scuole di superstizione, d’indecenza e di rozzezza69, nè colà pensavasi ancora che nella drammatica eranvi modelli antichi da imitar con profitto70.

Nella penisola di Spagna il popolo trattenevasi {p. 78}colle buffonerie de’ giullari degenerati in meri cantimbanchi. Nelle chiese recitavansi le farse sulle vite de’ santi così piene di scurrilità che sulla fine del secolo ne furono escluse per un canone del Concilio Toledano tenuto nel 1473. Per dar giusta ed istorica idea dello stato della drammatica del XV secolo in Ispagna, ho voluto rileggere con somma pazienza quanto ne scrissero di passaggio o di proposito i critici e gli storici della nazione: ho voluto pormi di bel nuovo sotto gli occhi il prologo di Miguèl Cervantes, la dissertazione del bibliotecario Nasarre, i discorsi del Montiano, e del mio amico Moratin, il tomo VI del Parnaso Español del Sedano: non ho voluto trascurar di rivedere nè gl’ infedeli sofistici saggi apologetici del Lampillas, nè le maligne rodomontate e cannonate senza palla di Garcia de la Huerta, nè i rapidi quadri d’ ogni letteratura del Signor Andres. Dopo questa nuova cura nulla ho trovato di più di quello che altra volta ne accennai, cioè dei due componimenti quasi teatrali di Don Errico di Aragona marchese di Villena e di Giovanni La Encina. Era il primo di essi una serenata o favola allegorica, nella quale favellava la giustizia, la pace, la verità e la misericordia, che secondo il cronista Gonzalo Garcia di Santa Maria citato anche dal Nasarre, si rappresentò avanti del sovrano in Saragozza. Fu {p. 79}il secondo una festa fatta rappresentare dal conte de Ureñas nella propria casa ospiziando il re Ferdinando che passava a Castiglia per isposare la regina Isabella71, e non già in occasione delle nozze de’ Cattolici re, come afferma il Lampillas. Questo medesisimo apologista su di cui si fonda l’Ab. Andres, di questa sola festa teatrale dell’Encina ne fa diversi componimenti drammatici sacri e profani del XV secolo, convertendo al suo solito la storia in romanzo72. {p. 80}Il Sig. Andres osa collocare in questo secolo ancora, e mettere in confronto dell’Orfeo vero dramma compiuto e rappresentato, la Celestina, dialogo, come confessa lo stesso Nasarre, lunghissimo e incapace di rappresentarsi, di cui il primo autore Rodrigo Cotta appena scrisse un atto solo de’ ventuno che n’ebbe poi nel seguente secolo per altra mano. Lo spirito d’apologia nemico della verità e del merito straniero imbratta molte belle opere in più d’un luogo.

In Alemagna erano a que’ tempi assai usitati i giuochi di carnovale, dialoghi che la gioventù mascherata giva recitando nel carnovale per le case. Essi piacquero oltremodo per li colpi satirici che vi si lanciavano con lepidezza, e se ne composero non pochi. I più antichi che si sieno conservati, si scrissero verso la metà del secolo da Giovanni Rosenblut in Norimberga. Se ne contano sei così intitolati: I Giuoco di Carnovale, II i sette Padroni, III il Turco, nel quale il Soldano viene a Norimberga per pacificare i Cristiani, a cui un Legato del pontefice partecipa di aver commissione di caricarlo ben bene di villanie, IV il Villano ed il Capro, il V tratta di tre persone che si son salvate in una casa, ed il VI contiene una dipintura della vita di due persone maritate. Oltre a questi giuochi cominciarono gli Alemanni verso la fine del secolo a volgere gli sguardi alcun poco agli {p. 81}antichi, e tradussero Terenzio. Si conserva nel Collegio di Zwickau un estratto di due commedie Terenziane destinate a rappresentarsi dagli scolari. Nel 1486 s’impresse in Ulm una traduzione dell’Eunuco, e nel 1499 quella di tutte le commedie del comico latino.

Nelle Fiandre troviamo a stento quella rappresentazione muta che solea praticarsi ne’ dì festivi nelle chiese, e ne’ pubblici ingressi de’ sovrani nelle città. Allorchè Carlo ultimo duca di Borgogna entrò in Lilla nel 1468, i Fiaminghi rappresentarono per mistero senza parole il Giudizio di Paride. Tre femmine nude erano le tre dive: una ben robusta, pingue e di statura gigantesca figurava Giunone, Venere era di una magrezza straordinaria, e Pallade si rappresentava da una nana, gobba e panciuta73.

Continuarono in Inghilterra i misteri e le farse, come può vedersi nel Dizionario di Chambers.

Tale è la storia teatrale dal risorgimento delle lettere sino alla fine del XV secolo. Chiaramente da essa si ravvisa che dentro delle alpi, dove appresero gli altri popoli a vendicarsi in libertà, e propriamente in {p. 82}Piacenza, in Padova, in Roma, colle rappresentazioni de’ Misteri rinacque l’informe spettacolo scenico sacro: che quivi ancora, e non altrove, nel XIV secolo se ne tentò il risorgimento seguendo la forma degli antichi coll’ Ezzelino e coll’ Achilleide tragedie del Mussato, e colle comedie della Filologia del Petrarca e del Paolo del Vergerio: che nel XV che fu il secolo dell’ erudizione, in latino continuarono a scriversi tragedie dal Corraro, dal Laudivio, dal Sulpizio, dal Verardo, e commedie dal Bruni, dall’Alberti, dal Pisani e dal Polentone; ed in volgare assicurarono alle Italiche contrade il vanto di non essere state da veruno prevenute nel dettar drammi volgari, la Catinia, l’Orfeo, il Gaudio d’amore, l’Amicizia, molte traduzioni di Plauto, il Giuseppe, la Panfila, il Timone: finalmente che gl’ Italiani nel XIV e XV secolo nel rinnovarsi il piacere della tragedia non si valsero degli argomenti tragici della Grecia, eccetto che nella sola Progne, ma dalle moderne storie trassero i più terribili fatti nazionali, e dipinsero la morte del Piccinino, le avventure del Signor di Verona, la tirannide di Ezzelino, la ferita del re Alfonso, la presa di Granata, l’espugnazione di Cesena.

Che se l’esser primo nelle arti reca qualche gloria, e questa non può negarsi all’Italia per la serie de’ fatti narrati e finora {p. 83}non contraddetti da pruove istoriche, sarà il ridirlo un delitto dello Storico, un’ oltraggio al rimanente dell’Europa? Dovea egli perciò meritare di esser lo scopo delle villanie del superficialissimo Vicente Garcia de la Huerta seminate in un Prologo da premettersi a una immaginaria collezione di componimenti Spagnuoli, che non avea ancor fatta, e che non poteva mai far bene per mancanza di gusto, di materiali e di principj? Ci si presenterà nel proseguimento della nostra storia la gloria drammatica delle altre nazioni in qualche periodo talmente luminosa, che la stessa Italia ne rimarrà quasi offuscata; ed allora nel riferirla ci faremo un pregio non solo di tributare al merito straniero le dovute lodi, ma d’impiegar la nostra diligenza in rintracciar quel bello, che sembra sovente esser fuggito agli stessi panegiristi e declamatori nazionali. In attendendo non attribuisca a’ pregiudizj Italiani ciò che quì si è narrato, nè se ne offenda qualche appassionato straniero. Il vero mal si nasconde, ed il saggio non se ne offende. L’affettar dovizia nella nudità, l’affastellare smunte ironie e sofisticherie, l’inorpellare o tacer la storia, il dissimular la forza dell’altrui ragionamento, l’andare accumulando contro l’Italia quanto di maligno altra volta ne ha seminato l’invidia, ed il sopprimer poi quanto se n’è detto in vantaggio, l’esaltare i nomi de’ Lampillas, degli Huerta, de’ {p. 84}Sherlock e degli Archenheltz pel solo merito di aver maltrattato l’Italia; tutto ciò, dico, che costituisce la tremenda batteria degli apologisti antitaliani, piacerà a pochi entusiasti, i quali per un mal inteso patriotismo si lusingano di potersi accreditare per amici zelanti del proprio paese mostrandosi nemici del vero. Ma di grazia che cosa guadagnano i declamatori di mestiere nell’applauso fugace di un branco di compatriotti che vivono di relazioni, quando della di loro sottile eloquenza, della dialettica cavillosa, della mal digerita erudizione e della maschera filosofica, avveggonsi tosto gli uomini migliori della culta Europa?

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LIBRO IV §

CAPO PRIMO.
Risorge in Italia nel secolo XVI la tragedia Greca, ed il teatro materiale degli antichi. §

Grandi furono nel precedente secolo gli sforzi degl’ Italiani in prò della poesia drammatica. Essi che aveano assicurato al lor paese il vanto di farla risorgere, compresero prima d’ogni altro che per riuscirvi bisognava ridurre le incondite farse sacre o profane di que’ tempi alla forma servata dagli antichi, e l’eseguirono. Seppero ancora sull’esempio dell’Ezzelino del Mussato preferire a’ tragici argomenti greci i fatti nazionali, al notare con qual particolare avidità si vedessero sulla scena le patrie gesta. Chi tanto avea felicemente tentato, avvezzo già alla lindura delle opere degli antichi disotterrate, non tardò col confronto ad avvedersi della rozzezza de’ proprii drammi, e conchiuse che più efficace espediente si richiedeva per richiamare in trono Melpomene e Talia. In un tempo in cui rinacque l’aurea età di Pericle o di Augusto; in cui si udì risonar per mezzo del Sannazzaro, del Fracastoro e del {p. 86}Vida la tromba Virgiliana; in cui sursero i temuti rivali di Apelle e di Fidia ne’ Raffaelli e ne’ Michelangeli; nel secolo XVI al fine non fu difficile il ravvisar l’enorme distanza interposta tra’ moderni drammi Italiani e Sofocle e Menandro. E per rappresentarsene al vivo i pregi inimitabili occuparonsi in prima gl’ Italiani con somma cura a calcar le stesse orme de’ Greci traducendone ed imitandone le favole; indi, assuefatti all’antico magistero, ad immaginarne altre nuove su que’ modelli. Così troviamo un gran numero di greche imitazioni, e poi un altro ugualmente grande di nuove favole sulle greche modellate. L’evento giustificò il bel disegno; perchè da allora rifiorì in Europa la drammatica vaga e vigorosa emula de’ Greci e de’ Latini. Di grazia poteva sperarsi che nascesse al teatro un Racine ed un Voltaire subito dopo un Mussato o un Laudivio? ed un Moliere dopo il Polentone o il Bojardi? Nò; bisognava che prima calcasse il coturno un Trissino ed un Rucellai, un Tasso ed un Manfredi, ed il socco un Bentivoglio e un Machiavelli e un Ariosto. I salti immaturi (ed a ciò, per non farsi deridere, dovrebbero riflettere tanti e tanti moderni filosofi critici che per affettar gusto sopraffino rimproverano all’Italia la languidezza e ’l portamento tutto greco de’ drammi del cinquecento) i salti, dico, troppo pronti ed immaturi o son vicini a’ precipizj, {p. 87}o non avvengono felicemente che per prodigj; ed i prodigj sono pur così rari in natura. Prima dunque di pervenire a’ Cornelj, a’ Racini, a’ Metastasj, a’ Maffei, veggansi in questo volume con miglior critica e filosofia i passi della poesia rappresentativa i quali all’epoca de’ lodati grand’ingegni condussero i moderni. Si troveranno in tal periodo in Italia 1 favole scritte in latina favella, 2 tragedie e commedie italiane di greca invenzione, 3 drammi modellati su gli antichi ma di nuovo argomento, 4 nuovi generi drammatici ignoti a’ greci, 5 i primi avanzamenti d’un melodramma diverso dall’antico. Per soprappiù tutto ciò si troverà animato da un puro ed elegante stile, da quel balsamo che solo può conservare incorruttibili (non che i drammi ed ogni genere poetico e tutta l’amena letteratura) le scienze stesse.

I.
Drammi Latini. §

Leone X che illustrò i primi anni di sì bel secolo, amando l’erudizione, la poesia e gli spettacoli scenici, gli promosse in Roma come gli avea favoriti nella sua patria, e ciò bastò per eccitare i più grand’ingegni a coltivar la drammatica. Quindi è che si videro da prima in quella gran {p. 88}città divenuta centro delle lettere rappresentate le favole degli antichi, come il Penulo di Plauto nel 1513 in occasione di essersi dichiarato cittadino Romano Giuliano de’ Medici fratello del pontefice, le Bacchidi del medesimo comico nel celebrarsi le nozze de’ Cesarini coi Colonnesi, il Formione di Terenzio con un prologo del Mureto fatto recitare dal cardinale Ippolito da Este il giovine, e l’Ippolito di Seneca rappresentato avanti il palagio del cardinale Raffaele San Giorgio, in cui sostenne il personaggio di Fedra con tanta eccellenza il canonico di S. Pietro Tommaso Inghiramo74 dotto professore di eloquenza ed orator grande che sin che visse ne portò il soprannome di Fedro.

Oltre poi a queste rappresentazioni si composero in latina favella nuove tragedie e commedie. Il dotto Francesco Benzi75 scrisse {p. 89}due drammi Ergastus, e Philotimus coll’ usata sua eleganza, ne’ quali introdusse personaggi allegorici, l’Onore, la Fama, la Virtù, la Gloria, l’Inganno. Bartolommeo Zamberti Veneziano compose la Dolotechne, e Giovanni Armonio Marso la Stephanium commedia76, nella quale fece egli stesso da attore77. Antonio Mureto, benchè per nascita all’Italia non appartenga, avendo non per tanto qui composta la sua tragedia Julius Cæsar, stimiamo più opportuno registrarla fralle molte latine degl’ Italiani, che lasciarla sola nel teatro Francese di questo secolo. Giano Anisio, ossia Giovanni Anisio Napoletano dell’Accademia del Pontano compose la tragedia Protogonos pubblicata nel 1536, sulla quale fe poscia il commento Orazio Anisio suo nipote. Altre tragedie scrisse Giovanni Francesco Stoa.

Ma le più pregevoli tragedie latine di questo secolo uscirono da Cosenza. Antonio Tilesio celebre Cosentino dimorando in Venezia l’anno 1529 diede alla luce la sua tragedia intitolata Imber Aureus, che si reimpresse nel 1530 in Norimberga, e si rappresentò {p. 90}ancora magnifice, feliciterque frequentissimo in theatro, siccome scrisse Cristofano Froschovero l’anno 1531 dirigendo il discorso alla gioventù raccolta nel collegio Tigurino. I contemporanei ed i posteri riconobbero la forza e lo splendore delle sentenze e delle parole di questa Pioggia d’oro, per la quale la tragedia cominciò a favellare con dignità e decenza. L’argomento consiste nella prigionia di Danae nella torre di bronzo, e nella discesa di Giove in essa convertito in pioggia d’oro. Eccone un breve sunto imparziale.

Atto I. Acrisio re degli Argivi avendo consultato l’oracolo sulla scelta di un genero intende che di Danae sua figliuola uscirebbe il di lui uccisore, e spaventato congeda i pretensori della di lei mano, risolve di non accoppiarla a veruno, e si raccomanda a Vulcano. Chiude l’atto un coro di Argive, la cui eleganza e leggiadria poetica gareggia co’ migliori di Seneca, e forse gli supera per lo candore. Ma intanto che compiange la principessa destinata a morir vergine, vede il popolo che in atto di stupore accorre alla reggia. Egli stesso vi si avvicina (e ciò dinota di aver egli mutato luogo senza lasciare di esser presente agli spettatori), e vede alzata una gran torre di bronzo opera istantanea di Vulcano, in cui è rinchiusa Danae con la sua Nutrice.

Atto II. Ode il coro le voci lamentevoli {p. 91}di Danae che deplora la sua sventura. Ella desidera la morte, e tenta di darsela; la Nutrice la dissuade. Il loro dialogo ha tutta l’energia della passione, ed è soprammodo lontano dalla durezza delle sentenze lanciate ex abrupto alla maniera di Seneca. Danae s’ accorge dell’aquila ministra di Giove, e ne prende felice augurio, e va a fare una preghiera al Tonante.

Atto III. Gioisce Acrisio per l’opera stupenda in un momento costruita dal suo nume Vulcano, e si accinge a sacrificargli un’ ecatombe, e fa apprestare un lauto banchetto e dell’oro, per rimunerare i ciclopi che ne sono stati i fabbri. La mercede ad essi distribuita, l’ebbrezza che gli opprime, la pugna che ha con gli altri Polifemo, e la di lui morte, empiono la maggior parte dell’atto. Sarebbesi ciò tollerato sulle scene Ateniesi, nelle quali ebbero luogo le contese piuttosto comiche che tragiche delle Baccanti, di Jone, di Alceste; ma dalle latine tragedie in poi si sono rigettate come impertinenti. Io non debbo dissimulare questo neo della tragedia del Tilesio; ma non è giusto poi lo spregiarla tanto, come al tri ha fatto, per questo episodio.

Atto IV. Ammirasi in quest’atto il racconto della pioggia d’oro penetrata nella torre pieno d’eleganza e di vaghezza, che viene così preparato dalle commozioni di Danae che vuol parlarne alla Nutrice:

{p. 92}
Nutrix, age, mea nutrix,
Perii!

Nu.

Quid est?

Da.

Quæ vidi!

Nu.

Quid, mea, stupes?

Da.

Heu!

Nu.

Fare.

Da.

Jam jam occidi.

Nu.

Miseram me!
Quid passa?

Da.

Juppiter . . .

Nu.

Te,
Mea, sospitet; quid trepidas
Exterrita? quid horridula
Riget coma? quid hoo? eheu.

Da.

Hic ipse, Juppiter ipse . . .
Deliquit animus. O quæ
Spectare contigit!

Gajamente è delineata la nuvoletta di color di rosa che si leva dal mare, ed a guisa di un augelletto si appressa alla torre, pende dalla di lei sommità, comincia a sciogliersi in leggiera rugiada e s’introduce per la finestra. Giova udire il medesimo vago poeta nel rimanente:

Crebrescit Imber diffluens mox Aureus
Illapsus undique, penetransque, qua domus
Junctura, qua diem inferunt spiracula,
Mentis mihi quid fuerit ibi tum, cogita,
Concreta cum pars, grando ut aurea, crepitans,
Circumque resiliens peteret ultro sinum.
Obrigui, ac ipso auro magis tunc pallui.
Sed ubi animum tandem recepi perditum,
Munus rata deum, subdidi explicans sinus,
{p. 93}
Aurumque colludens, micansque sedula,
Flavis, sonansque rivulis fluentibus
Ignara sponte condidi in gremium mihi,
Legens ubique quod jacebat protinus.

Con ugual nitore e leggiadria si descrive la trasformazione di quest’oro in un vaghissimo giovanetto che si palesa pel gran padre degli uomini e degli dei. Danae ode da lui la serie de’ futuri suoi casi misti di gloria e di disgrazie vicine e lontane. Il coro da questa pioggia d’oro coglie l’opportunità di parlar della potenza di Cupido, indi lo prega ad esser propizio al genere umano ed a contentarsi di sospiri, di lagrime, di dolci sdegnetti, ed a bandire dal suo regno i ciechi furori, i lacci, i ferri, i precipizj, le stragi.

Atto V. Vi si narra come al sospettoso Acrisio sembra aver veduto nella finestra della torre il capo di Danae con quello di un uomo. Ne apre la porta, cerca il nemico insidiatore, si avventa alla figliuola, indi risolve di castigarla con una morte men pronta e più atroce. La fa chiudere in un’ arca di pino, ed inesorabile alle di lei lagrime la spinge egli stesso in mare. Il coro col messo ne geme, inveiscono contro dello spietato vecchio, e pregano Anfitrite di salvar l’infelice principessa. Termina la tragedia con tali parole indirizzate a Melpomene:

{p. 94}
Jovis, o Melpomene, decus,
Roseo vincta cothurno,
Lyra cordi cui lugubris,
Delatum hoc tibi munus
Faxis perpetuum, rogo.

La regolarità, la convenevolezza del costume, la verità delle passioni dipinte, l’eleganza, il candore e la mirabile vaghezza dell’aureo stile, salveranno sempre dall’obblìo questa favola: la languidezza e l’ episodio poco tragico dell’atto terzo ne sono i nei che possono notarvisi, e che forse tali non parvero all’autore pieno della lettura degli antichi.

Contrasta colle grazie e colle veneri dello stile del Tilesio la maestà e la grandezza del suo compatriota ed amico Coriolano Martirano celebre vescovo di S. Marco in Calabria. Fiorendo verso il 1530 egli divenne il Seneca del regno di Napoli anzi dell’Italia, per lo studio che ebbe di recare egli solo nella latina favella molte delle più pregevoli favole greche. Trasportò da Euripide Medea, Ippolito, le Baccanti, le Fenisse il Ciclope; da Eschilo Prometeo; da Sofocle Elettra; dal Cristo paziente il suo Cristo; da Aristofane il Pluto e le Nubi; e con tal senno e garbo e buon successo egli il fece, che niuno de’ moderni latini drammi composti prima e dopo di lui può senza svantaggio venire a competenza colle sue {p. 95}libere imitazioni. Per dar conveniente idea del suo gusto e giudizio additeremo in ciascuna favola la maniera da lui tenuta nel tradurre i Greci.

Nella Medea non potè Martirano approfittarsi delle bellezze del piano di quella di Seneca, perchè seguì la greca; ma intanto scansò il difetto del tragico latino di far parlare nell’atto IV pedantescamente la nutrice accumulando tante notizie mitologiche e geografiche, e l’altro della pomposa evocazione de’ morti. Seguì l’ originale nell’economia della favola; ma si permise nel dialogo di dar talvolta nuovo ordine alle stesse idee, di sopprimerle in un luogo se in un altro si erano già accennate, di rendere con più precisione in latino ciò che in greco si disse con copia. Facendo moderato uso delle sentenze, schivò ugualmente l’affettazione di Seneca e gli ornamenti rettorici famigliari ad Euripide. Ciascuno (dice in Euripide nell’atto I il Pedagogo alla Nutrice) ama più se stesso che gli altri, e chi ciò fa per giustizia e chi per proprio comodo. Martirano conserva l’idea originale e si esprime con più semplicità e nettezza:

Quilibet sibi vult melius esse quam alteri.

I trasporti de’ re (dice nel greco la Nutrice) sono veementi e da lievi principj prendono incremento, e con difficoltà poi si cangiano {p. 96}i loro sdegni. Martirano così trasporta questo concetto:

. . . Superba magnorum indoles
Regum semel commota, non temere silet.

Euripide rende al solito assai ragionatrice Medea, e per più di quaranta versi lussureggia con varie sentenze morali, e con riflessioni generali sulle donne incominciando da Κορινϑιαι γυναικες. Martirano risecando quasi tutto questo squarcio attende solo alla passione di Medea per l’ ingratitudine ed infedeltà di Giasone consumandovi appena intorno a quindici versi,

Corintbiæ puellæ, acerbus est quibus &c.

Ma in contracambio dove campeggia il patetico del greco pennello egli ritiene interamente le più importanti scene, come quella di Medea che cerca ed ottiene da Creonte un giorno d’indugio alla sua partenza, tutte quelle che ha con Giasone, il racconto della morte del re e della figliuola, nel quale si è però il Cosentino nella conchiusione astenuto dalla sentenze accumulate dal Greco.

L’Ippolito del Martirano accompagna degnamente e senza arrossire al confronto quelli d’Euripide e di Seneca e la Fedra del Racine. Merita di notarsi singolarmente la {p. 97}scena del delirio di Fedra da noi recata nel romo quarto delle Vicende della Coltura delle Sicilie. Anche il racconto del mostro marino è una prova del gusto del Cosentino, che orna moderatamente l’originale senza pompeggiare, come fanno Seneca e Racine, senza l’inverisimile ardire che si fa mostrare ad Ippolito nell’affrontare il mostro78, senza imitar Seneca, che quando Teseo dovrebbe solo essere occupato della morte del figliuolo, lo rende curioso di sapere la figura del mostro79.

Nelle Baccanti segue Martirano al solito l’economia dell’originale esprimendone i concetti; ma negl’ incontri di Penteo con Bacco e nel di lui travestimento si contiene dentro i confini tragici, nè con Euripide scherza o motteggia comicamente. L’ammazzamento inspira tutta la compassione. {p. 98}Gli si avventano Agave, Ino e le baccanti, ed egli perchè lo riconosca così favella alla madre senza frutto:

. . . . Quo, mater, ruis,
Clamabat. Ipsa hæc membra, quæ scindis, creas.
Echionis, tuoque sum partu editus.
Unde hic furor? me cerne; sum natus; tene
Manus cruentas, mater, & Bacchum abjice,
Quem cerno vestra terga quatientem anguibus.

Desta tutto il terrore la riconoscenza di Agave che nella pretesa testa del leone ucciso ravvisa quella del figliuolo.

Traducendo ed imitando le Fenisse sembra aver voluto dopo quindici secoli mostrare l’autore, in qual maniera avrebbe dovuto Seneca o qual altro sia stato l’autore della Tebaide, recare nella lingua del Lazio, senza i difetti di stile che le s’ imputano, le Fenisse di Euripide. Per nostro avviso niuna delle bellezze originali si è perduta nella versione del Cosentino. Vi si vede con somma naturalezza e vivacità espressa felicemente la scena di Giocasta co’ figliuoli, la dipintura assai viva de’ loro caratteri, la robustezza dell’aringa della madre, la descrizione dell’assalto dato a Tebe, l’uscita degli assediati, la rotta degli Argivi, Capaneo {p. 99}fulminato, il duello de’ feroci fratelli con tutta l’energia delineato.

Pari verità e sobrietà di stile e giudizio si scorge nell’imitazione del Ciclope di cui mi sembra singolarmente notabile il coro dell’atto I da noi tradotto e recato nel IV t. delle Vicende della Coltura delle Sicilie.

Spicca parimente il di lui gusto nella scelta fatta nel voler tradurre l’ Elettra. Delle tre greche tragedie rimasteci sulla vendetta di Agamennone, benchè egli amasse con predilezzione Euripide, si attenne però a quella di Sofocle che per gravità di dizione e per economia sorpassa l’Elettra di Euripide e le Coefori di Eschilo. Manifesta parimente in essa il suo buon senno col seguire più fedelmente che non in altre l’originale, non avendo dovuto risecar molto del dialogo giusto, naturale e patetico di Sofocle. Egli appena vi si permette qualche picciolo cangiamento. Non insinuarmi (dice Elettra a Crisotemi) a non serbar la fede a chi la debbo. No (quella risponde) io ciò non insinuo, ma si bene di cedere ai potenti80. Martirano muta solo l’idea della forza che presenta la potenza, in quella {p. 100}della giustizia, col sostituire la regia potestà:

Non ajo. At ipsis obsequendum regibus.

E’ degna di osservarsi la di lui maniera di tradurre con sobria libertà nel famoso lamento di Elettra avendo in mano l’urna delle pretese ceneri di Oreste, che noi pur traducemmo con esattezza nel IV volume delle Vicende della Coltura delle Sicilie81.

Colla stessa signoril maniera è cangiato in latino il Prometeo al Caucaso di Eschilo, benchè con più libera imitazione, specialmente nel descriver che fa la situazione di Tifeo atterrato dal fulmine di Giove e sepolto sotto l’Etna, nella narrazione fatta da Prometeo de’ beneficj da lui procurati agli uomini, e nelle veramente tragiche querele d’Io. Insomma il leggitore intelligente, oltre all’eleganza e alla maestà dello stile, ammirerà nelle di lui nobili imitazioni ora più ora meno libere ugual senno e buon gusto in quanto ritiene, in quanto altera e in quanto annoda con nuovo ordine.

Quanto al di lui Cristo, ben possiamo {p. 101}con compiacenza e sicurezza affermare che per sì maestosa e grave tragedia debbe in questo Cosentino raffigurarsi un Sofocle Cristiano; sì savio egli si dimostra nell’economia dell’ azione, e sì grande insieme, patetico e naturale nelle dipinture de’ caratteri e degli affetti, e sì sublime nello stile. Meriterebbe un lungo estratto, ma cel vieta l’ampiezza del nostro lavoro. Contentiamci di recare un solo frammento dell’eccellente racconto della morte di Cristo fatto da Gioseffo a Nicodemo:

Jamque artubus se Cristus e pallentibus
Solvebat, inque extrema vexatus diu
Tendebat, imo corde cum gemitum ciens
Erexit oculos morte tabentes polo,
Summamque acuto verberans auram sono,
O rector, inquit, orbis omnipotens Deus,
Cur me tuum relinquis? Afflicta excidit
Ex artubus vis omnis. O tandem, Pater,
Mortalibus me liberum vinclis cape.
Vix hæc; & ecce pectori accidit caput:
Lethique durus lumina obsedit sopor.
Tum de repente magnus exoritur fragor,
Tellusque ab imis mota sedibus diu
Immugiit: vulsisque nutarunt jugis
Montes: hiulcus saxa quatiebat tremor.
Sol & repente (mira res) moriens velut
Suam tenebris obruit densis facem:
Terrisque dirus noctis incubuit nigror.
{p. 102}

Anche il lamento sommamente patetico di Maria sopra la crudeltà Ebrea meriterebbe di trascriversi. Non cede questa tragedia in regolarità di condotta alle migliori; e in vivacità e verità di colorito ne’ caratteri e nelle passioni, e in grandezza e sobrietà di stile va innanzi a quasi tutte le tragedie di Seneca.

Ma per vedere Aristofane ritratto con tutte, le sue grazie comiche senza che si rimanga offeso dalla di lui oscenità, bisogna consultare l’ eleganti traduzioni fatte dal nostro Cosentino delle Nubi e del Pluto, le più felici commedie di quel gran comico. Noi esortiamo la gioventù a leggerle, colla sicurezza che il travaglio di confrontarle coll’ originale e colle languidi ineleganti traduzioni de’ fratelli Rosetini di Prat’alboino, verrà compensato con usura dal diletto. In somma il vescovo Martirano quasi ne’ primi lustri del secolo colle otto sue tragedie e colle due commedie eseguì egli solo con ottima riuscita quanto a fare imprese in tutto il secolo l’Italia tutta, cioè fe rinascere con decenza e maestria la maggior parte del teatro Greco. Dovrà tutto ciò coprirsi d’ingrato obblio, perchè più di un secolo dopo surse Racine in Francia? Sono pur degni di compatimento certi critici e ragionatori d’ultima moda! Passiamo alle tragedie Italiane.

{p. 103}

II.
Tragedie Italiane. §

La prima tragedia scritta nel nostro volgare idioma fu la Sofonisba di Galeotto del Carretto de’ Marchesi di Savona nato in Casal Monferrato nel secolo XV. L’autore nel 1502 la presentò ad Isabella d’Este Gonzaga Marchesa di Mantova; ed alcuni anni dopo si pubblicò in Venezia con una commedia del medesimo Carretto intitolata Palazzo e Tempio d’Amore. La tragedia è verseggiata in ottava rima ed ha qualche debolezza e varj difetti, ma non è però indegna di esser chiamata tragedia; nè so donde si ricavasse il compilatore del Parnasso Spagnuolo la rara scoverta che questa Sofonisba fosse stata una spezie di dialogo allegorico82. Chiama egli dialogo allegorico un’ azione eroica tragica tra’ personaggi storici, reali, palpabili, Sofonisba, Siface, Masinissa? Egli ha dunque parlato di tal componimento per volgare tradizione ovvero secondo che gliel dipinse la propria {p. 104}immaginazione. Scrisse il Carretto tre altre commedie, una delle quali s’intitolava I sei Contenti; ma esse non videro la luce, per esserne forse gli eredi stati distolti da tanti altri drammi di maggior pregio che dipoi apparvero. Per la stessa ragione meritano ben poco di rammemorarsi alcuni componimenti del principio del secolo descritti dal Quadrio nel tomo I. E che giova trattenersi sul Filolauro di Bernardo Filostrato, che esso Quadrio chiama atto tragico, ma che nella Drammaturgia dell’Allacci è detto solacciosa commedia? Essa fu impressa nel 1520 in Bologna senza nome di autore, e contiene un atto solo senza distinzione di scene con vario metro, e in linguaggio per lo più Lombardo. Tali cose traggonsi dalle tenebre de’ secoli rozzi quando vogliono scoprirsi i principj delle arti; ma quando queste già vanno altere di grandi artisti, lasciansi nella propria oscurità gli operarj volgari. E chi si perde ad osservare una casuccia mal costrutta di loto e di paglia dove sorgono marmorei edificj reali83? Volgiamoci dunque alle ricchezze {p. 105}che ci appresta un secolo così fecondo.

La Sofonisba di Giovan Giorgio Trissino, patrizio Vicentino nato nel 1478 e morto in Roma nel 1550, assai più famosa della precedente corse indi a non molto fra’ letterati e riscosse gli applausi universali. L’autore così versato nelle greche lettere nella dedicatoria a Carlo V della sua Italia liberata, poema ricco di varie bellezze Omeriche, afferma di aver nel comporre la sua tragedia tolto Sofocle per esemplare. Fu dedicata a Leone X e rappresentata magnificamente nel 1514 in Vicenza ed anche in Roma, ma s’ impresse la prima volta nel 1524. Non ha divisione di scene nè di atti; ha il coro alla greca; ed è per la maggior parte composta in versi sciolti, ed in qualche squarcio con rime rare e libere; e tal volta vi si osserva un troppo rigoroso accordamento di consonanze alla maniera delle nostre canzoni. La narrazione di Sofonisba ed Erminia incominciata dalla remota fondazione di Cartagine, lo studio di calcare con soverchia superstizione le vestigia de’ Greci, alcune ciarle, certe comparazioni liriche, lo stile non portato a quel punto di sublime richiesto nella tragedia, sono difetti con abbondante usura compensati dalla novità dell’argomento che l’autore non {p. 106}dovè nè alla Grecia nè al Lazio84, dalla regolarità ed economia dell’azione, dal carattere bellissimo di Sofonisba che interessa in ogni parte dell’azione (in ciò superiore di gran lunga a quella di Pietro Cornelio) e da un patetico animato da’ bei colori della natura che sempre trionfa nella vivace semplicità; quella semplicità che attinse il Trissino ne’ greci fonti. Un cuore non indurito da’ pregiudizj verserà pietose lagrime al racconto del veleno preso dalla regina, a’ di lei discorsi, alla compassionevole contesa con Erminia, ed al quadro delle donne affollate intorno a Sofonisba che trapassa, di Erminia che la sostiene e del figliuolino che bacia la madre la quale inutilmente si sforza per vederlo l’ultima volta sul punto di spirare. Veggasi nel seguente frammento il colorito di questa scena lagrimevole:

{p. 107}

Sof.

A che piangete? non sapete ancora
Che ciò che nasce a morte si destina?

Cor.

Ahimè! che questa è pur troppo per tempo,
Che ancor non siete nel vigesimo anno

Sof.

Il bene esser non può troppo per tempo.

Erm.

Che duro bene è quel che ci distrugge!

Sof.

Accostatevi a me, voglio appoggiarmi,
Ch’io mi sento mancare, e già la notte
Tenebrosa ne vien negli occhi miei.

Erm.

Appoggiatevi pur sopra il mio petto.

Sof.

O figlio mio, tu non avrai più madre;
Ella già se ne va, statti con dio.

Erm.

Oimè! che cosa dolorosa ascolto!
Non ci lasciate ancor, non ci lasciate.

Sof.

I’ non posso far altro, e sono in via.

Erm.

Alzate il viso a questo che vi bacia.

Cor.

Riguardatelo un poco.

Sof.

Aimè! non posso.

Cor.

Dio vi raccolga in pace.

Sof.

Io vado . . . addio.

Non in Italia soltanto si accolse e si rappresentò questa tragedia con ammirazione; in Francia ancora sin dal XVI secolo si tradusse, e s’ imitò molte volte; di tal maniera che la Sofonisba oggi serbasi nel teatro tragico come un tesoro comune di sicuro evento al pari delle Ifigenie, delle Fedre, delle Medee85. La tradusse in prosa con {p. 108}i cori in versi Mellin de Saint Gelais, ed in versi Claudio Mermet nel medesimo secolo in cui si compose: Monchretien, Montreux, Mairet e Pietro Cornelio la tradussero e imitarono nel XVII: l’ha tradotta Millet, ed imitata lo stesso Voltaire nel XVIII (Nota X). Adunque la prima istruzione che ebbero i Francesi di un dramma in cui venissero osservate le regole delle tre unità, debbono riconoscerla dalla Sofonisba del Trissino. Si vedrà in appresso quante altre produzioni sceniche Italiane si tradussero o s’imitarono in Francia. Per la qual cosa non si capisce perchè il famoso avvocato Linguet86 abbia avanzato {p. 109}che i Francesi, quanto al teatro, non hanno dall’Italia ricevuto quasi verun favore, e che la prima idea delle bellezze che essi hanno profuse sul teatro e ne’ loro scritti, l’abbiano presa da’ buoni autori Castigliani. Accordiamogli di buon grado quel ch’egli aggiugne, cioè che il Dante, l’Ariosto e il Tasso stesso, non hanno fatti allievi alcuni tra’ Francesi (senza andarne rintracciando il motivo, ch’egli stesso per avventura con tanti altri suoi dotti compatriotti troverà poco glorioso per la testa e per la lingua Francese); e che Lope de Vega, il Castro e ’l Calderon si sieno più facilmente prestati alla loro imitazione. Ma quanto alla prima idea delle bellezze teatrali, la storia contraddice all’asserzione del Linguet che brucia que’ grani d’incenso ad onore degli Spagnuoli. Piacemi ch’egli a nome de’ Francesi si mostri grato a quella colta e ingegnosa nazione, e che ripeta quel che altre volte ed assai prima di lui osservarono i Francesi stessi, gli Spagnuoli e gl’ Italiani; ma è giusto che per confessare un debito voglia negarne un altro?

Giovanni Rucellai autore del vaghissimo poemetto delle Api, cugino germano del pontefice Leone X, nato in Firenze nel 1475 e morto verso il 1526, corse poco dopo del Trissino il tragico aringo colla Rosmunda che fece recitare nel suo giardino {p. 110}in Firenze alla presenza di quel pontefice nel 1516, e che si stampò poi in Siena nel 1525. In essa prese ad imitare l’Ecuba di Euripide; e par che avesse voluto renderne lo stile più magnifico della Sofonisba. Sulle tracce poi dell’Ifigenia in Tauri del medesimo tragico Greco compose l’altra sua tragedia intitolata Oreste, dalla quale (se allora si fosse pubblicata) sarebbe rimasta oscurata la Rosmunda. Ma l’Oreste non si diede alla luce se non dopo due secoli per opera del Marchese Maffei, che la fece imprimere nel 1723 sull’esemplare posseduto prima dal Magliabecchi e poi dal Cavaliere Anton Francesco Marmi87. I caratteri vi sono degnamente sostenuti e le passioni dipinte con verità. L’autore non perde veruna delle interessanti situazioni del greco originale, e tocca collo stile la nota del sublime assai più del Trissino. Dall’altro canto mostra talvolta qualche affettazione nell’ elevarsi, corre dietro alle forme troppo poetiche e alle parole troppo latine, come osservò anche il Conte Pietro da Calepio, e non va esente dal cicaleccio; il che si vede sin dalla prima scena nella narrazione che fa Oreste delle {p. 111}proprie avventure incominciando dalla guerra di Troja. V’è di piu; egli le narra all’ amico Pilade cui doveano essere così note come a se stesso; egli le narra ancora intempestivamente nel metter piede nella terra de’ barbari. Ma per tali nei si priveranno i leggitori del piacere che recano tanti bei passi pieni di eleganza e vaghezza sparsi nelle tragedie del Rucellai? Uno storico della letteratura lascerà seppellirgli nell’ obblio, non vedendo nell’Oreste che languidezza ed imitazione del greco? Quanto a me esorto la gioventù ad osservare con qual felicità quest’illustre autore dipinga il prospetto del tempio e le teste e i busti ed il monte di ossa degli uccisi che vi biancheggia; la bellezza del racconto che fa Ifigenia della propria sventura quando fu in procinto di esser sacrificata in Aulide; quello del coro della pugna de’ due Greci co’ pastori; quello d’Oreste della morte di Agamennone. Molti squarci della generosa patetica contesa de’ due amici meriterebbero d’ esser trascritti; ma ci contenteremo delle seguenti parole di Pilade:

E pensi or ch’io ti lasci? e puoi pensarlo?
Dove ti lascio! donde son partito!
Chi lascio? a cui voio? che porto? ahi lasso!
Porto la morte del suo re; a cui?
{p. 112}
Al miser popol di Micene e d’Argo.
Porto la morte del mio Oreste; a cui?
A Strofio; e quella del fratello; a cui?
A le sorelle triste e sventurate;
Le quai trepide or forse e spaventose
Del tuo ritorno stanno inginocchioni,
E raddoppian le mani e i voti al cielo.
E queste fian le già sudate palme,
Gli aspettati trionfi e la vittoria
Del simulacro che portiamo in Argo?
Con che volto potrò veder mio padre?
Con che occhi guardar mai potrò Elettra
Sorella a te, a me dolce consorte,
Senza te, senza me, senza il cuor mio?

E ciò fu poco quando l’Europa tutta più non conosceva la drammatica? quando non si sapeva la maniera di farla risorgere? poco meno di due secoli prima di Cornelio e Racine?

Dietro la scorta de’ Greci corifei e coll’ esempio del Trissino e del Rucellai seguirono pure le insegne di Melpomene molti altri celebri letterati. Ludovico Martelli illustre poeta Fiorentino morto in Salerno nell’acerba età di anni ventotto, secondo il Crescimbeni nel 1533, e secondo il Rolli ed altri con più probabilità mancato in Napoli nel 1527, parlandosi di lui come già morto in una lettera di Claudio Tolomei {p. 113}scritta a’ sette di aprile del 153188, compose una tragedia impressa indi colle altre sue opere in Firenze nel 1548, ed oggi registrata nel tomo III del Teatro Italiano antico stampato in Livorno sotto la data di Londra nel 1787, nella quale si allontanò dagli argomenti greci, seguendo in ciò piuttosto il Trissino che il Rucellai. Egli trasse dalla storia de’ re di Roma l’eccesso della spietata Tullia per esporlo sulle scene. La purezza ed eleganza dello stile non farà tollerare il carattere estremamente scellerato del protagonista. Tullia non solo calpesta le più sacre leggi della natura ed aspira al regno paterno per immoderata ambizione, ma, peggiorandosi nella tragedia la storia stessa, ella spiega la più detestabile avversione contro de’ genitori rinfacciando loro de’ misfatti, ed eccita contro di se l’indignazione di chi legge. Il coro continuo poi che vi si adopra alla greca, disdicevole manifestamente ad un’ azione Romana, obbliga il poeta ad incoerenze, com’ è quella che L. Tarquinio gelosissimo del proprio secreto si scopra alla moglie alla presenza d’un coro di donne che sono seco89. Per simili riflessioni a noi sembra questa {p. 114}Tullia una delle nostre tragedie più difettose, benchè il Gravina l’abbia noverata tralle migliori del cinquecento.

Seguirono i greci esemplari piuttosto traducendo che imitando l’ Alamanni, l’Anguillara e ’l Giustiniano. Luigi Alamanni celebre autore dell’elegantissimo poema della Coltivazione recò in Italiano ritenendone il titolo l’Antigone di Sofocle, che si stampò in Venezia nel 1532. Per testimonio degl’ intelligenti non cede in eleganza alle tragedie del Trissino e del Rucellai, e le vince per gravità di stile. Giraldi Cintio fa onorata menzione dell’Antigone Italiana, noverando l’autore tra’ benemeriti della toscana lingua Bembo, Trissino, Molza, Tolomei90:

E quel che ’nsino oltre le rigid’ alpi
Da Tebe in toscano abito tradusse
La pietosa soror di Polinice;
I’ dico l’Alamanni.

Il Fontanini la colloca tralle migliori tragedie Italiane (Nota XI). L’Edipo, la più bella tragedia di Sofocle, fu tradotto prima da Andrea Anguillara indi da Orsatto Giustiniano. Dell’Edipo dell’Anguillara impresso e {p. 115}rappresentato in Padova nel 1556 parla in una lettera citata dal Tiraboschi Girolamo Negri, ma con disprezzo dando all’Anguillara il nome di poeta plebeo. Giason di Nores nella sua Poetica riprende ancora come viziosi gli episodj di quest’Edipo dell’Anguillara. Non per tanto sembra che i contemporanei avessero vendicata l’opera e l’autore, essendosene con somma pompa ed applauso ripetuta la rappresentazione nel 1565 in Vicenza in un teatro di legno costruito espressamente nel palagio della Ragione dal celebre Palladio. Noi stimiamo col Conte di Calepio assai più difettoso l’Edipo dell’Anguillara che de’ tre pur difettosi Edipi francesi di Cornelio, di Voltaire e del P. Folard; e col Nores troviamo riprensibile l’ episodio della discordia de’ figliuoli di Edipo, per cui si rende la favola doppia e si commette un anacronismo totalmente inutile. Assai migliore fu la traduzione fedele che fece di tal tragedia il Veneziano Giustiniano. Per la nobiltà e l’eleganza dello stile essa gareggia colle più celebri tragedie di quel tempo. Si rappresentò nel 1585 con sontuosissimo apparato nel famoso Teatro Olimpico di Vicenza opera del prelodato Palladio, che per la morte di questo insigne architetto seguita nel 1586 si terminò dallo Scamozzi. La parte di Edipo che si accieca, fu sostenuta egregiamente dal famoso Luigi Groto detto {p. 116}il Cieco d’Adria tale divenuto otto giorni dopo nato, il quale a quest’oggetto recossi in Vicenza nel carnovale del 1585, e morì poscia in Venezia nella fine dell’anno stesso. Questo maraviglioso ingegno scrisse anch’egli due tragedie la Dalida e l’Adriana; ma esse colle altre di lui produzioni drammatiche non sono le migliori di quel tempo, specialmente per lo stile talvolta troppo ricercato e più proprio di certi anni del seguente secolo che del cinquecento.

Sperone Speroni degli Alvarotti dottissimo Padovano e l’oratore più eloquente della sua età, morto d’anni ottantotto nel 1588, compose la Canace tragedia pubblicata la prima volta in Venezia nel 1546, che dovea rappresentarsi in Padova l’anno 1542 dagli Accademici Infiammati, de’ quali era principe; ma ne fu interrotto il disegno per la morte seguita di Angelo Beolco detto il Ruzzante che dovea recitarvi. L’autore sostenne per essa una gran contesa con varj letterati; e sebbene si fosse gagliardamente difeso, volle riformarla e toglierne fralle altre cose le rime e i versi di cinque sillabe, ed all’ombra da prima introdotta nel prologo sostituire il personaggio di Venere. Vide questo gran letterato che il veleno de’ tragici componimenti de’ suoi contemporanei consisteva nella noja e languidezza dello stile, e pensò rimediarvi ornando ed infiorando la sua Canace con certe studiate espressioni {p. 117}che nuocono alla gravità tragica. E pure queste medesime servirono di modello agli autori dell’Aminta e del Pastor fido, e parvero più convenienti alla tenerezza di quelle celebri pastorali. Ma le forti e perturbate passioni della Canace esigevano stile più grave e la favella della natura più che dell’arte manifesta. Questo, e l’introduzione di molti personaggi subalterni dipinti scioperatamente, e non poche scene vuote ed oziose e slogate, ed i racconti di cose che meglio avrebbero animata la favola poste alla vista ed in azione, e ’l non essersi l’autore approfittato de’ rimorsi che doveano insorgere in Canace e Macareo ne’ loro mortali pericoli; questi, dico, mi sembrano i veri difetti sostanziali della Canace; e pur questi difetti appunto, per quanto mi ricorda, sfuggirono a’ censori contemporanei che in essa criticarono le rime, i versi corti e cotali altre pedanterie. Ma la dipintura nell’atto V di Canace sul letto funesto col bambino allato e col pugnale alla mano dono di Eolo suo padre, e le di lei parole nell’ atto di trafiggersi sperando di sopravvivere nella memoria di Macareo, e quelle indirizzate al figliuolino, hanno una verità, un patetico, un interesse sì vivo, che penetra ne’ cuori e potentemente commuove e perturba.

Giambatista Giraldi Cintio nato in Ferrara nel 1504 e morto nel 1573 trasse da’ suoi {p. 118}medesimi Ecatommiti più argomenti per la scena tragica, e ci lasciò nove tragedie, l’Orbecche, l’Altile, Didone, Antivalomeni, Cleopatra, Arenopia, Eufimia, Selene, Epitia. La prima che scrisse, a quel che egli dice, in meno di due mesi, e che si stima la migliore, si rappresentò alla presenza del Duca Ercole II nel 1541 in casa dell’autore, avendone apparecchiata la magnifica scena Girolamo Maria Contugo suo amico il quale l’avea stimolato a comporla. Fu rappresentata ancora alla presenza de’ Cardinali Ravenna e Salviati; ma sembra che alla prima rappresentazione, e non a questa, si fosse trovato il prelodato Luigi Alamanni, facendo il Giraldi dire alla Tragedia,

I’ dico l’Alamanni, che mi vide,
Per mio raro destino, uscire in scena.

Sebastiano Clarignano di Montefalco, il quale, dice il Giraldi nella dedicatoria, si puote sicuramente dire il Roscio e l’Esopo de’ nostri tempi, ne fu uno de’ principali attori. Giulio Ponzio Ponzoni vi rappresentò la parte di Oronte, e un certo giovane chiamato Flaminio quella di Orbecche. Dovea questo medesimo Flaminio rappresentare anche nell’Altile da recitarsi per ordine del Duca nell’aprile del 1543 alla venuta di Paolo III; ma nel giorno destinato alla rappresentazione quest’infelice Flaminio rimase {p. 119}disgraziata mente ucciso. L’ Orbecche s’impresse in Venezia nel 1543, nel 1551, e poi con tutte le altre nel 1583. Come nella Sofonisba la compassione è posta nel suo maggior lume, nell’Orbecche si eccita il terrore co’ più vivi sanguinosi trasporti della crudeltà. Sulmone re di Persia gareggia colle atrocità degli Atrei, ed Orbecche che svena il padre, va del pari coll’ Elettre matricide. Un matrimonio occulto contratto da questa sua figliuola con un valoroso avventuriere di oscuri natali aguzza la spietatezza naturale di Sulmone, e sotto la fede avuto in sua balia il genero e i due suoi figliuolini, di propria mano gli trucida, e ne presenta indi le mani e le teste alla figliuola, la quale tratta da un eccesso di dolore e di disperazione trafigge il padre e se stessa. Ha servito di modello a questa tragedia il Tieste di Seneca. Nemesi colle Furie, e l’Ombra di Selina madre di Orbecche formano l’atto I, come nel Tieste l’Ombra di Tantalo e Megera. L’atto IV nel quale Atreo ammazza i nipoti, e delle loro membra prepara al fratello le vivande scellerate, ha prestato molti colori alla terribile carnificina del quarto atto dell’Orbecche. Dalla descrizione del bosco secreto nella reggia di Atreo, Arcana in imo regia recessu patet ec., è imitata quella del luogo ove segue la strage di Oronte e de’ figliuoli:

{p. 120}
Giace nel fondo di quest’alta torre
In parte si solinga e si riposta
Che non vi giunge mai raggio di sole,
Un luogo destinato a’ sacrifici,
Che soglion farsi da’ re nostri all’ombre,
A Proserpina irata, al fier Plutone,
Ove non pur la tenebrosa notte,
Ma il più orribile orrore ha la sua sede.

Il Giraldi nonpertanto si è guardato dall’affettazione di certi squarci della tragedia latina e da qualche ornamento ridondante. E’ divisa l’Orbecche in atti e scene e scritta in versi sciolti, se non che, come in quella del Trissino, havvi più di un passo rimato con troppo studiato accordamento. Il Calepio conta quasi tutte le tragedie del Giraldi e specialmente l’Orbecche fralle Italiane che conseguiscono l’ottimo fine della tragedia di purgar con piacevolezza lo sregolamento delle passioni per mezzo della compassione o del terrore. Ed in fatti a suo tempo si accolse l’Orbecche con molto applauso, e destò in tutti cotal compassione che niuno degli ascoltatori potè contenere il pianto. Oggi stimo che farebbe lo stesso effetto in una città colta che ha assaporato il piacer delle lagrime del teatro, purchè se ne troncassero acconciamente alcune ciance della nutrice, l’espressioni di Oronte appassionato nell’atto II che si trattiene per molti versi su i casi del nocchiero, la maggior parte della lunga {p. 121}scena seconda dell’atto III, quando Malecche esorta Sulmone alla pietà, e i lamenti del coro delle donne dopo essersi Orbecche trafitta.

Pietro Aretino, la cui penna in un tempo non di tenebre ma di luce si rendette, non so perchè, fin anche a’ più gran principi formidabile, uomo ad onta della sua mercenaria maldicenza, di qualche talento, sì, ma di volgare erudizione, di poca dottrina e di niuno onore, contribuì non poco alle glorie della tragedia Italiana. Fu egli il primo a porre sulla scena l’avventura degli Orazii (che nè anche è argomento greco); ed ebbe la sorte di coloro che tentando un mare sconosciuto hanno il vanto di scoprire e vincere, senza arricchirsi e trionfare. Egli scrisse l’ Orazia impressa in Venezia dal Giolito nel 1549, e dedicata al pontefice Paolo III sin dall’anno 1546. La Fama vi fa il prologo diffondendosi nelle lodi del pontefice, de’ Farnesi e di altri principi Italiani, ed anche di Carlo V; ed è questo il primo esempio de’ prologhi che servirono di poi a onorare i principi; ed il Calepio osserva a ragione che Pietro Cornelio s’inganna nel dire che sieno invenzione del suo secolo. Un coro di virtù in ciascun atto per tramezzo vi recita alcuni versi. Si espone nell’atto I la pugna stabilita dagli Orazj e Curiazj per decidere il fato di Alba e di Roma; e Celia Orazia moglie di un Curiazio è oppressa {p. 122}dall’immagine di una pugna che debbe in ogni evento riuscire per lei funesta. Nel II Tazio venuto dal campo racconta a Publio Orazio l’esito della pugna, nella quale Roma ha trionfato, ed egli ha perduti due figli, dal qual racconto è abbattuta la misera Orazia colla notizia della morte dello sposo. Arriva nel III un servo che appende al tempio di Minerva le spoglie degli estinti Curiazj. Celia in esse riconosce la veste del marito traforata e sanguinosa, e trasportata dal dolore inveisce contro il fratello uccisore, indi vedendolo venire circondato dal popolo e acclamato, gli si presenta colla chioma scarmigliata e con tutti i segni del più vivo dolore. Orazio indignato la trafigge. Nell’atto IV Tullo destina i Duumviri per giudicare Orazio, i quali lo condannano alla morte, contraddicendo invano il di lui afflitto padre che appella al popolo. Nel V il popolo libera il reo dalla pena di morte, ma vuole che soggiaccia all’infamia del giogo. Sdegna il magnanimo di sottoporvisi: Publio prega: il popolo è inesorabile: si ascolta una voce in aria che comanda ad Orazio di ubbidire. La regolarità di questa tragedia è manifesta; gli affetti sono ben maneggiati; i caratteri dipinti con uguaglianza, verità e decenza; il fine tragico di commuovere colla compassione e col timore egregiamente conseguito. Increscerà in essa in primo luogo {p. 123}il titolo di Orazia che dimostra esser essa il principal personaggio, e che morendo prima di terminar l’ atto III, abbandona ad un altro l’interesse, che era tutto per lei. Orazio le succede; e l’interesse in tutta l’azione trovasi diviso tra due personaggi. Non si unirebbe in un solo se il titolo di essa fosse l’ Orazio? Parranno poi piuttosto foglie che ingombrano che fregi che abbelliscono l’azione alcune cose episodiche sparse quà e là, di che può servire di esempio la dipintura di un cavallo a cui si rassomiglia la gioventù, distesa in dodici versi, che incomincia

La gioventù furor de la natura ec.

Si troverà poi soverchio ardita e viziosa qualche espressione, come questa del feciale nell’atto I,

Fattor degli astri larghi e degli avari,
Che nell’empiree logge affiggi il trono
Del volubil collegio de’ pianeti;

e quest’altra del II,

Gli abbracciamenti e i baci sono i frutti
Che le viscere, il cor, gli spirti e l’ alma
Colgono con le mani affettuose
Negli orti de la lor benivolenza;
{p. 124}

e questo del medesimo atto,

Orazio vincitor per la mia lingua
Con la bocca del cor ti bacia in fronte,

e questa del V,

. . . . . . . . . . e però vuoi
Piuttosto al collo del tuo corpo un laccio,
Che la corda a la gola del tuo nome.

Ma in generale lo stile è puro, sobrio, e più d’una fiata grave e vigoroso, e sparso di utili massime or sulla legislazione or sul governo or sulla religione. Dice il sacerdote:

Il valore de l’asta e de la spada
E il timore dei riti e de le pene
Non tiene in alto le cittadi magne,
Come la riverenza e l’osservanza
De la religione e degl’ iddii.

Dice Publio:

Nè cupidigia d’uom, nè ardir di stella,
Può ciglio alzar dove pon mente Iddio.

Sorda e cieca è la legge, dicono i Duumviri nell’atto IV; e bene, dice Publio, si punisca il mio figliuolo,

Se la sorella ha de la vita spenta;
{p. 125}

io stesso, se ciò fusse, il punirei; e i Duumviri ripigliano,

E che ha fatto il furioso dunque?

E Publio,

Estinte quelle lagrime insolenti
Che aveano invidia a la Romana gloria,

risposta sublime in bocca d’un padre. Quanto alla passione di Celia da per tutto ben colorita presenta spesso espressioni giuste, patetiche e naturali. Perdendosi l’impresa, ella dice, ognuno in Roma altro non perde che la libertade,

Ma io, io, se Roma vince, perdo
Il marito dolcissimo e i cognati;
E vincendo Alba, qual vincer potria,
Oltre il dominio de la libertade,
De i fratelli privata mi rimango.

Soprattutto è da vedersi la di lei dipintura dopo udita la morte dello sposo e alla vista delle di lui spoglie sanguinose, e quando si presenta al fratello perduta, semiviva, la chioma sparsa ed il volto bagnato di lagrime. Un cuore veramente Romano trasparisce in quanto fa e dice Publio; ma quando è in procinto di perdere il valoroso Orazio, l’unico figliuolo che gli rimane, allora {p. 126}fa vedere tutto il padre, implorando la pietà del popolo. Lo spirito d’ingenuità e di gratitudine che mosse prima il Cornelio, indi il Linguet a confessare il debito contratto con Guillèn de Castro pel Cid, non avrebbe dovuto stimolarli ugualmente a riconoscere nell’Orazia dell’Aretino gli Orazj del padre del teatro Francese, componimento di gran lunga superiore al Cid? Non l’avea l’Italiano preceduto d’un secolo intero nell’arricchire il teatro, e non infelicemente, di sì bell’ argomento non mai prima tentato nè dagli antichi nè da’ moderni? Vedesi veramente negli Orazj più artifizio nella condotta, e più forza; delicatezza e vivacità ne’ caratteri e nelle passioni; ma ben si scorge ancora nell’Orazia più giudizio nell’aver sempre l’ occhio allo scopo principale della tragedia di commuovere sino al fine pel timore e per la compassione; e si comprende che se il Cornelio l’ avesse anche in ciò imitato, avrebbe fatto corrispondere gli ultimi atti della sua tragedia che riescono freddi ed inutili, ai primi pieni di calore, d’interesse e di passione91.

Lodovico Dolce morto d’anni sessanta in Venezia nel 1568 vi pubblicò più d’una volta {p. 127}varie tragedie tratte da’ Greci, e da’ Latini. Nel 1566 se ne fece un’ edizione che conteneva Tieste, Giocasta, Didone, Medea, Ifigenia, Ecuba. La sua Marianna si diede alla luce nel 1565, e fu rappresentata con indicibile applauso in quella città nel palazzo di Sebastiano Erizzo a uno scelto uditorio di più di trecento gentiluomini; e quando volle ripetersi in Ferrara nel palazzo del Duca, tal fu il concorso, che non potè recitarsi. Questa frequenza delle rappresentazioni tragiche, questi applausi reiterati, quest’avidità di ascoltarle, indicano per avventura la mancanza di gusto per la tragedia imputata agl’ Italiani? Indicano ancora la languidezza e la noja perpetua a cagione delle greche imitazioni rimproverata ai componimenti tragici del cinquecento? Or chi non ignora la storia teatrale potrà mai senza infastidirsene leggere gli arzigogoli de’ sedicenti filosofi e critici declamatori d’oggidì, i quali sostengono sempre massime singolari contraddette dal fatto e dall’evidenza?

Assai di buono troveremmo esaminando la Progne di Girolamo Parabosco pubblicata nel 1548, la Cleopatra, la Scilla, e la Romilda di Cesare de’ Cesari uscite alla luce nel 1550 e 1551, la Cleopatra del Napoletano Alessandro Spinello stampata in Venezia nel 1550, la Medea del Galladei impressa nel 1558, l’Altea di Niccolò Carbone comparsa in Napoli nel 1559, la Fedra {p. 128}di Francesco Bozza uscita nel 1578 oscurata per altro di gran lunga da quella del Racine nel secolo seguente, e l’ Atamante di Girolamo Zoppio data al pubblico nel 1579, di cui nella 50 del IV libro delle sue Epistole fa un bell’ elogio il Mureto.

Potrebbe anche pascere alquanto la curiosità de’ leggitori la tragedia di Angelo Leonico intitolata il Soldato impressa in Venezia per Comin del Trino nel 1550 scritta in versi sciolti. L’azione passa tra personaggi particolari; privati ne sono gl’ interessi, ed in quel tempo non parvero degni della tragedia reale. Ne facciamo menzione perchè in essa può ravvisarsi il primo esempio di una tragedia cittadina, che i nostri scrittori nè seguirono nè pregiarono, e che poscia gl’ Inglesi, i Francesi e i Tedeschi hanno tanto nel nostro secolo coltivata, e che ha trovato un apologista nel Signor Ab. Andres92.

{p. 129}

Quattro tragedie pubblicò Antonio Cavallerino Modanese nel 1582 e 1583, delle quali parlano l’Allacci ed il Zeno nelle Annotazioni all’Eloquenza Italiana. Esse sono Telefonte, Rosimonda, Ino, ed il Conte di Modena, la quale non contiene argomento greco ma nazionale. Si crede che ne componesse sino a venti, tralle quali una del caso di Meleagro, la quale (dice il Manfredi nelle sue lettere) mi diceste che sarebbe l’idea della tragedia Toscana93. Sappiamo dal Cav. Tiraboschi che il Cavallerino tradusse anche il Cristo paziente attribuito al Nazianzeno. Il di lui Telefonte ha il pregio della scelta del più bel soggetto dell’antichità, cioè del Cresfonte di Euripide che il tempo ci ha invidiato. Il Cavallerino ha la gloria di averlo prima di ogni altro recato sulle scene moderne.

L’immortale Torquato Tasso colla tragedia del Torrismondo si elevò sopra la maggior parte de’ contemporanei, ed a pochissimi di quel secolo lasciò la gloria di appressarglisi. Nel 1587 s’impresse in Bergamo, e dall’autore si dedicò a D. Vincenzo Gonzaga Duca di Mantova e di Monferrato. Ma alquanti anni prima comparve un abbozzo {p. 130}di questa tragedia nella II Parte delle Rime e Prose del Tasso raccolte per Aldo il giovane nel 1582. Nell’edizione delle opere di Torquato fatte in Venezia da Stefano Monti nel 1735 quest’abbozzo vien chiamato tragedia non finita, e contiene un atto primo senza coro di quattro scene, e due altre di un secondo atto, le quali tutte si distribuiscono poi nel primo e nel secondo della tragedia compiuta. I passi più belli della non finita si sono ritenuti nella perfezzionata; alcuni di essi si veggono in questa migliorati; ma qualche volta trovansi i concetti espressi nell’imperfetta con maggior naturalezza. Eccone un esempio. Torrismondo nella perfetta oppresso da rimorsi, nel narrare al consigliere i suoi passati casi, e l’essersi imbarcato con Alvida per ritornare ad Arana e l’aver per una tempesta preso terra in un seno sicuro tra’ curvi fianchi di un monte, descrive minutamente con mille poetiche immagini questa tempesta. Era però più proprio del genere drammatico e dello stato di Torrismondo il sacrificare al vero quella copiosa descrizione, come prima avea fatto. Galealto nella non finita l’avea con giudizio appena accennata:

Quando ecco la fortuna e il cielo avverso
Con amor congiurati, un fiero turbo
Mosser repente, il qual grandine e pioggia
Portando, e cieche tenebre sol miste
{p. 131}
D’incerta luce e di baleni orrendi,
Volser sossopra l’onde, e per l’immenso
Grembo del mar le navi mie disperse,
E quella ov’era la donzella et io
Scevra di tutte l’altre a terra spinse ecc.

Torrismondo è un immagine di Edipo. Caduto in un errore per debolezza, trovasi per dissavventura involto in un delitto. Offende la fede data all’amico Germondo nell’effettuare con Alvida le nozze che avea contratte solo in apparenza; ma conosciutala poscia per sua sorella, si giudica contaminato da una scelleraggine, cagiona la morte di Alvida col narrargliele, e si ammazza. L’errore che dà motivo a tanti disastri (ottimamente affermò il dottissimo Marchese Maffei nel II tomo del Teatro Italiano) non potendo essere più umano, nè più compassionabile, non saprebbe incontrar meglio l’idea dell’ arte. Anche il Conte di Calepio ottimo giudice in tali materie ravvisa nel Torrismondo un carattere compiutamente tragico e degno della perfetta tragedia che va felicemente al vero suo fine di purgar con diletto le passioni per mezzo della compassione e del terrore.

Non per tanto il gesuita Rapin benchè pieno di erudizione e di dottrina, o poco giusto o poco provveduto di certa sensibilità necessaria a giudicar dritto de’ componimenti teatrali, non fu mosso nè dalla tragica {p. 132}maestà dello stile, nè dal patetico che regna nel Torrismondo. Egli che tralle altre pregiudicate sue opinioni pose in un fascio i tragici Italiani e gli Spagnuoli, asserì che il Tasso ed il Trissino aveano la testa stravolta da’ romanzi e che perciò non poterono arrivare al carattere di Sofocle. Non parliamo ora del Trissino, nella cui tragedia si scerne subito il torto manifesto di quel gesuita, ed appuntino l’opposto di ciò che egli afferma, cioè in vece di una testa guasta da’ romanzi, un genio pieno di giudizio e di sobrietà e un amore forse anche troppo eccessivo per la greca semplicità e ben lontano da una intemperanza romanzesca. Più plausibile e meno incongrua all’apparenza potrebbe parere la di lui asserzione riguardo al Tasso, il quale ideò i suoi personaggi su i modelli della cavalleria de’ bassi tempi. Ma Rapin dovea dimostrare prima di ogni altra cosa, che ne’ tempi della cavalleria non potevano regnare nel cuore umano passioni grandi atte a destar terrore o compassione. Da’ più severi critici oltramontani nè prima nè dopo di Rapin non si è mai pensato a sostenere contro i nostri poeti romanzieri che i costumi della cavalleria errante fossero improprj per le gran passioni. Solo si è detto che hanno essi abusato del maraviglioso con tanti voli d’ ippogrifi, con Atlanti e Melisse, con eroi fatati, avventure incredibili ecc. Ora niuno {p. 133}di tali eccessi avrebbe potuto il Rapin riprendere nel Torrismondo, e si rivolse a riprovare i costumi stessi di que’ tempi come incompatibili col carattere tragico. Egli che tanto affettava d’insistere sull’osservanza delle regole di Aristotile, in quale aforismo di quel grande osservatore avea appreso che il carattere tragico consista nella modificazione de’ costumi e non già nella qualità delle passioni? di più che le gran passioni umane appartengano più ad un tempo che ad un altro? E quando pure ciò fosse, per qual capriccio volle negarle a’ tempi del governo feudale e della cavalleria notabili appunto pel vigoroso fermento delle perturbazioni più robuste? Io non so come non vedesse egli quel che tanti altri, anche suoi compatriotti, osservarono, cioè che l’epoca de’ duelli, delle giostre, de’ beni della lancia è appunto un ritratto, appena da piccioli lineamenti alterato, de’ primi tempi eroici degli Ercoli, de’ Tesei e degli Achilli puntigliosi. Che se, in vece di un Edipo che per timore di un oracolo si esiglia volontariamente dalla patria, e fugge invano le minacciate nozze incestuose, s’introduce un principe Goto che per servire all’amicizia si presta a sposare apparentemente una donzella, trascorre per fragilità ad amarla, e la riconosce in fine per sua sorella per un’ avventura conforme a quella dell’Edipo; di grazia da tali picciole differenze quale ostacolo {p. 134}o pregiudizio ridonda alla sostanza dell’azione e degli affetti, e alla gravità tragica? La censura del Rapin appoggia in falso.

L’altra cosa che non seppe veder questo critico Francese, è che i costumi dell’età in cui s’immagina che abbia dominato nella Gozia questo Torrismondo, riescono per gli moderni più verisimili degli antichi. E forse non se ne trovano le immagini nelle favolose storie di Turpino, e nel romanzo della Tavola Rotonda del re Artù, di cui parla il Camden in Britannia, e in altri simili, i quali (al dire dell’erudito benchè infelicissimo verseggiatore Chapelain) sono storie che rappresentano i costumi Europei di que’ tempi? Ma a che mentovare i romanzi, quando la storia di quella bassa età ci è quasi sotto gli occhi? Non erano generali in Alemagna i torneamenti, il primo de’ quali, secondo Bastiano Munster94, si tenne nel 938? Allora che Rapin andava criticando l’Ariosto, il Trissino ed il Tasso pe’ costumi della cavalleria, non si sovvenne del combattimento di Guiglielmo duca di Normandia assediato nel 1079 nel castello di Gerberoi? Non erano e in Inghilterra e in Francia, come altrove, generali i costumi {p. 135}della cavalleria nel secolo XIII ancora? Non si ricordò Rapin della giostra data nella Borgogna nel 1272, nella quale dal principe di Châlons fu disfidato Eduardo I che dalla Sicilia tornava in Inghilterra? Non pensò al cartello di disfida mandato al re Filippo di Valois da Eduardo III nel secolo XIV? Non al combattimento del medesimo re col cavaliere Ribaumont nell’assedio di Calais? Non all’eroine militari che v’ intervennero celebrate dallo storico e filosofo M. Hume, la contessa di Montfort, quella di Blois e la regina d’Inghilterra che marciò in Iscozia alla testa di un esercito contra il re Davide Brus? Non al combattimento de’ trenta Brettoni con trenta Inglesi, nel quale Beaumanoir gridava, or si vedrà chi di noi abbia più belle dame? Non all’ordine della Giarrettiera instituito in questo tempo in occasione degli amori del nominato Eduardo III per la contessa di Salisbury? Questi medesimi torneamenti, queste bizzarrie e disfide non continuarono e divennero frequentissime, specialmente in Francia, nel secolo XV? Non fu allora che con buon senno disse un inviato della Porta che assisteva ad una giostra, per un vero combattimento è poco, e per uno scherzo è troppo? Potè almeno obbliar del tutto il Rapin il famoso combattimento de’ tredici Italiani con tredici Francesi che rimasero vinti ed uccisi con tanta gloria del valore Italiano? Potè dimenticare {p. 136}le speciose disfide di Carlo V e di Francesco I? il duello del barone di Jarnac col favorito di Errico II la Chateigneraie che vi fu ferito a morte? in fine la disgrazia del medesimo Errico II ammazzato in una giostra dal conte di Mongommeri condannato poscia a morire sotto altro pretesto dalla vedova regina Caterina de’ Medici nel 1574? Or tutti questi combattimenti e queste disfide non seguirono nel secolo XVI, cioè in quel tempo in cui fu composto il Torrismondo? Ora se la tragedia di Torquato che con tanta energia dipigne le passioni generali e comuni a tutti i tempi, quanto ai costumi ritrae al vivo quelli che regnavano in Europa e che più si avvicinavano alle idee famigliari a quelli che viveano nel tempo stesso dell’autore, chi non vede quanto ella ne divenga più pregevole sopra le dipinture tutte greche, perchè più credibile e per conseguenza più interessante? Se dunque havvi de’ nei nella tragedia del Torrismondo, essi certamente non provengono da’ costumi della cavalleria additati dal Rapin come contrarii al carattere tragico di Sofocle.

Nel nostro secolo, oltre ad altri scrittorelli gregarii95, anche Egidio Saverio La {p. 137}Sante non meno pregiudicato del suo confratello Rapin, benchè più prudente, senza compromettersi con entrare a render ragione del proprio giudizio contro del Torrismondo, si lusingò, in una sua orazione recitata nel gennajo dell’anno 1728 in Parigi96, di poterne oscurar la gloria con un suo magistrale, quid habet Torrismundus? e che pregio ha mai cotesto Torrismondo. Che pregio egli dice? Ecco quello che a me sembra che abbia di eccellente. Un carattere tragico scelto con sommo giudizio ottimo per conseguire il fine della tragedia: una fina dipintura delle passioni: un piano regolare: un movimento nell’azione progressivamente accelerato: una versificazione armoniosa: una nobile, elegante e maestosa gravità {p. 138}di stile: un patetico vivace che empie, interessa, intenerisce, commuove ed eccita il bel piacere delle lagrime. Sono forse moltissime le tragedie più moderne che possono vantarsi d’altrettanto? Ne presentiamo qualche squarcio che ci sembra degno degli sguardi di un leggitore imparziale e sensibile. Veggasi in prima l’eleganza, l’ energia e la verità che campeggia nella descrizione delle notturne inquietudini dell’innamorata Alvida nell’atto I:

. . . . . . Oimè! giammai non chiudo
Queste luci già stanche in breve sonno,
Che a me forme d’orrore e di spavento
Il sogno non presenti: ed or mi sembra
Che dal fianco mi sia rapito a forza
Il caro sposo, e senza lui solinga
Gir per via lunga e tenebrosa errando,
Or le mura stillar, sudar i marmi
Miro, o credo mirar di nero sangue,
Or da le tombe antiche, ove sepolte
L’alte regine far di questo regno,
Uscir gran simulacro e gran rimbonbo
Quasi di un gran gigante . . . . . .
E mi scacci dal letto, e mi dimostri,
Perchè io vi fugga da sanguigna sferza,
Un’ orrida spelonca, e dietro il varco
Poscia mi chiuda.

Notisi con qual tragica gravità ella esprima la delicatezza e sensibilità che avviva tutti i di lei concetti:

{p. 139}
Madre, io pur vel dirò, benchè vergogna
Affreni la mia lingua, e risospinga
Le mie parole in dietro: a lui sovente
Prendo la destra, e m’avvicino al flanco;
Ei trema, e tinge di pallore il volto,
Che sembra (onde mi turba e mi sgomenta)
Pallidezza di morte, e non di amore;
O in altra parte il volge, o il china a terra
Turbato e fosco; e se talor mi parla,
Parla in voci tremanti, e co’ sospiri
Le parole interrompe.

Poichè per lo scoprimento di essere Alvida sua sorella si avvisa il re Torrismondo di proporle le nozze di Germondo, odasi in qual guisa ella ne frema e si creda schernita:

Mentre il crudel così mi scaccia e parte,
Prende gioco di me, marito vostro,
Mi dice, è il buon Germondo, ed io fratello:
Et adornando va menzogne e fole
D’un ratto antico, e d’un’ antica fraude;
E mi figura e finge un bosco, un antro
Di ninfe incantatrici, e ’l falso inganno
Vera cagione è del rifiuto ingiusto;
E fia di peggio. E Torrismondo è questi,
Questi che mi discaccia, anzi m’ancide,
Questi ch’ebbe di me le prime spoglie,
Or l’ultime n’attende, e già sen gode.
E questi è il mio diletto, e la mia vita?
Oggi d’estinto re sprezzata figlia
Son rifiutata! O patria, o terra, o cielo,
{p. 140}
Rifiutata vivrò? vivrò schernita?
Vivrò con tanto scorno? Ancora indugio?
Ancor pavento? e che? la morte, o ’l tardo
Morire? et amo ancor? ancor sospiro?
Lacrimo ancor? non è vergogna il pianto?
Che fan questi sospir? timida mano,
Timidissimo cor che pure agogni?
Mancano l’arme all’ira, o l’ira all’ alma?
Se vendetta non vuoi, nè vuole amore,
Basta un punto a la morte; or mori, et ama
Morendo.

Alvida dopo ciò parte furiosa ed eseguisce il suo pensiero. Io invito le anime tenere a vedere il quadro di Alvida moribonda e di Torrismondo addolorato. Ecco parte del racconto che se ne fa:

. . . . . . . . Il re trovolla
Pallida, esangue, onde le disse, Alvida,
Alvida, anima mia, che odo, ahi lasso!
Che veggio? ahi qual pensiero, ahi qual inganno,
Qual dolor, qual furor così ti spinse
A ferir te medesma? oimè, son queste
Piaghe de la tua mano? Allor gravosa
Ella rispose con languida voce:
Dunque viver dovea d’altrui che vostra,
E da voi rifiutata? . . . . . .

Torrismondo giurando e lagrimando le conferma il cambio fatale, ed ella allora quasi pentita dell’attentato

{p. 141}
Parea d’abbandonar la chiara luce
Nel fior degli anni, e rispondea gemendo:
In quel modo che lece io sarò vostra
Quanto meco durar potrà quest’alma,
E poi vostra morrommi.
Spiacemi sol che il morir mio vi turbi,
E v’apporti cagion d’amara vita.
Egli pur lagrimando a lei soggiunse.
Come fratello omai, non come amante,
Prendo gli ultimi baci; al vostro sposo
Gli altri pregata di serbar vi piaccia,
Che non sarà mortal sì duro colpo.
Ma invan sperò, perchè l’estremo spirto
Ne la bocca di lui spirava, e disse:
O mio più che fratello, e più che amato,
Esser questo non può, che morte adombra
Già le mie luci.
Da poi ch’ella fu morta, il re sospeso
Stette per breve spazio muto e mesto
Da la pietate, e da l’orror confuso
Il suo dolor premea nel cor profondo;
Poi disse: Alvida, tu sei morta, io vivo
Senza l’anima? e tacque.

Per non riconoscere il carattere tragico e lo spirito or di Sofocle or di Euripide ne’ riferiti tratti naturali, patetici e veri a segno che con ogni picciolo cambiamento si guasterebbero; per non commuoversi nel leggerli (or che sarebbe rappresentandosi!); per resistere in somma alle potenti perturbazioni che risvegliano, bisogna avere l’anima {p. 142}preoccupata o poco sensibile di Rapin e de la Sante, o l’ignoranza del Carlencas, o la stupidità de’ nostri scioli che affettano nausea per tutto ciò che non è Francese. Io non sono cieco ammiratore di questa buona tragedia di tal modo che non mi avvegga di varie cose che oggidì nuocerebbero alla rappresentazione. Non si vedrebbero, per esempio, volentieri nelle scene odierne i nunzj, le nutrici, l’indovino alla foggia antica. Siamo oramai avvezzi a una maniera di sceneggiare diversa da quella del Torrismondo. C’increscerebbe ne’ fatti precedenti il bosco e l’antro delle ninfe incantatrici che servono di base al cambio di Rosmonda e d’Alvida. Si vorrebbe purgata la favola di qualche scena di poca importanza della nutrice, com’ è la seconda dell’atto I; della descrizione troppo lunga e troppo circostanziata della tempesta in bocca dell’angustiato Torrismondo; delle lungherie della scena terza del medesimo atto di Torrismondo col consigliere, in cui l’autore amplifica, esagera e replica in varj modi e sotto varie forme le medesime cose; del racconto della Regina Madre de’ piaceri amorosi per indurre la figliuola a maritarsi; della minuta numerazione che fa Torrismondo de’ giuochi da prepararsi per la venuta di Germondo; di quel cumolo di varj impossibili ammaslato dallo stesso Germondo nell’atto III, Dal freddo carro muover prima vedrem ecc. Si {p. 143}bramerebbe in oltre che in certi passi lo stile non s’indebolisse. Tali cose veramente non possono nuocere alle bellezze essenziali di questo componimento; perchè presso i veri intelligenti la modificazione delle maniere esteriori ed alquanti nei di poca conseguenza nulla pregiudicano alla sostanza ed al merito intrinseco che vi si scorge; ma vero è però che spogliato di tali frondi spiccherebbe meglio la vaghezza del frutto d’un ingegno in ogni incontro sublime97.

Questa tragedia non tardò molto ad essere conosciuta in Francia per la traduzione che ne fece Carlo Vion Parigino signor di Delibrai, che si stampò in Parigi nel 1626, e si ristampò nel 1640 e nel 1646. Allora i Cornelii non aveano ancora lette le commedie Spagnuole. E’ dunque (dicasi un’ altra volta con pace del Linguet) il Torrismondo una delle produzioni Italiane che diedero {p. 144}a’ Francesi le prime idee delle bellezze teatrali.

Un’ altra buona tragedia Italiana conobbe la Francia prima delle composizioni Spagnuole, cioè il Tancredi di Federico Asinari nobile Astigiano conte di Camerano, nato nel 1527 e morto nel 1576, la quale come osserva il Zeno, falsamente dall’editore fu attribuita a Torquato Tasso. Uscì la prima volta in Parigi nel 1587 col titolo di Gismonda. Di poi col proprio titolo di Tancredi si pubblicò in Bergamo nel 1588, benchè col nome di Ottavio Asinari fratello dell’autore; ma per quanto afferma il conte Mazzucchélli, gli autori del catalogo de’ codici mss della real libreria di Torino ne fanno autore Federico, e così pensò ancora il Signor Apostolo Zeno. Le particolari bellezze di questa tragedia vennero manifestate dal Parisotti in un discorso inserito nel tomo XXV della raccolta degli opuscoli del Calogerà.

Il Vicentino Giambatista Liviera d’anni diciotto ebbe tanto di gusto che potè comprendere la bellezza dell’argomento del Cresfonte di Euripide, e ne compose la sua tragedia che col medesimo titolo s’impresse in Padova nel 1588; ma egli lasciò a una penna più felice e più esercitata il pregio di tesserne un’ altra con più tragico ed elegante stile.

Bongianni Grattarolo di Salò sul lago di Garda coltivò ancora a que’ dì la poesia {p. 145}tragica talvolta con felicità. In età assai giovanile compose in versi sdruccioli l’Altea che s’impresse nel 1556, e la Polissena, della quale non fe menzione il Fontanini. Scrisse di poi l’Astianatte in miglior metro stampato in Venezia nel 1589, che nel nostro secolo s’inserì dal Maffei nel Teatro Italiano. L’autore vi premise un argomento in cui si distingue il contenuto di ciascun atto. La scena dell’azione dimostra Troja distrutta ed ardente col sepolcro di Ettore intero. Quante particolarità si sono narrate ne’ poemi di Omero intorno alle dissensioni degli dei favorevoli a’ Trojani ed a’ Greci, ad oracoli, fatalità, predizioni, ad antichi delitti e spergiuri de’ principi Trojani, tutto trovasi ammassato nell’atto I fatto da Giunone ed Iride, che è insieme prologo e parte dell’azione. Risparmiar tante ciarle sarebbe stato pregio dell’ opera. Nel rimanente si va dietro le orme di Seneca nel bellissimo atto III delle Troadi, ma col miglioramento che l’azione è una, restringendosi alla sola morte d’Astianatte. Molti passi del Latino autore vi si veggono non infelicemente imitati; qualche altro non corrisponde all’energia dell’originale. Allorchè si fa entrare Astianatte nel sepolcro: l’Andromaca del Grattarolo esprime i concetti di Seneca con maggior naturalezza, e forse con robustezza minore. Ma bisogna confessare che nell’atto IV l’Italiano rimane {p. 146}ben al di sotto del Latino. Lascio i tre versi d’Andromaca in occasione che il vecchio vuole imbrattare di sangue i cenci di cui si ha da coprire Astianatte:

Fia meglio trarre il sangue dal mio core,
Che sendo il sangue suo conforme al mio,
La fraude ne sarà meglio ajutata;

puerilità priva di gusto, di verità e di passione. Ma quello che più importa è che tutta la vaga scena di Seneca vi si vede malconcia. Andromaca nella tragedia latina dissimulando e piangendo con Ulisse dice che il figliuolo è morto. Nell’italiana Ulisse dice alla prima che cerca Astianatte per menarlo ad essere sacrificato, ed Andromaca atterrita esclama subito,

Oimè! che religion crudele è questa?
Che gran male hai tu detto in poche voci;

e poi

Ah Calcante crudel! forse Calcante
Vi esorta questo, e vi minaccia questo?

Queste sono esclamazioni imprudenti che contro al disegno di Andromaca debbono far conchiudere all’astuto Ulisse, che Astianatte è vivo. Per la stessa ragione non doveasi appresso far dire che egli si è perduto, e che non si sa dove sia; ma col tragico latino dirsi alla prima ch’è morto; perchè {p. 147}questa notizia ben accreditata dal dolor materno toglieva ad Ulisse ogni speranza; là dove l’essersi perduto stimola sempre più all’inchiesta. Di più il personaggio ozioso del vecchio colla sua presenza nuoce alla scena; perchè il sagace Itacese non lascerebbe di trarre anche da lui qualche notizia, e nol facendo, come nella tragedia del Grattarolo, manca in certo modo al proprio carattere. Ma dopo queste aggiunzioni svantaggiose fattevi dal moderno, la scena risorge, e si rende interessante, ripigliando gli antichi colori del materno timore, onde Ulisse prende argomento per la vita di Astianatte.

Passando all’atto V, non posso tralasciare di esaltare il giudizio di Torquato per ciò che soggiungo omesso nell’esame del Torrismondo. Egli superiore a Seneca, ed anche a più d’un moderno, fa raccontare il suicidio di Alvida e Torrismondo a persone che non vi hanno il principale interesse. E come avrebbe la regina di loro madre potuto verisimilmente attendere il fine di una relazione circostanziata, piena com’ ella trovasi dell’orrore della sua perdita? I personaggi estremamente addolorati o debbonsi tener lontani dal racconto, o fargli operare secondo il proprio dolore; or questa passione non è capace di soffrire un racconto minuto se non dopo i primi impeti, e per così dire nell’intermittenza. Seneca fa raccontar la {p. 148}morte di Polissena e di Astianatte ad Ecuba e Andromaca; e il Grattarolo l’ha seguito anche in questo, benchè per altro il suo racconto a più di un riguardo sia pregevole. Anche da Seneca egli ha tratta la magnanimità di Astianatte nell’incontrar la morte, e la dipinge in bei versi, ad eccezione di poche foglie, presentando degnamente lo spettacolo del campo greco, e del precipizio del real fanciullo dalla torre.

Appartengono a quest’ultimo periodo del secolo parimente l’Irene, l’Almeone, l’Ermete e l’Arianna del Giusti, l’Arsinoe di Niccolò degli Angeli, l’Elisa del Closio, l’Acripanda di Anton Decio da Orta, la Ghismonda del Razzi, il Principe Tigridoro del Miari, la Tullia feroce di Pietro Cresci, ed alcun’ altra mentovata dal Quadrio. Vi si vede talvolta troppo studio della semplicità greca, talvolta un’ imitazione delle sentenze di Seneca poste come aforismi, e sovente degli ornamenti più proprii dell’epica e della lirica poesia. Non per tanto esse, come ognun vede dal loro titolo, non sempre son tratte da argomenti maneggiati da’ tragici greci, ed apprestano più di una scena appassionata ed interessante; ma io non mi fermo su ciascuna, per non abusare della pazienza di chi legge con formare estratti e critiche di qualunque opera teatrale.

Ravviva la storia delle tragedie degli ultimi {p. 149}anni del secolo la Semiramide di Muzio Manfredi da Cesena, il quale dal Ghilini si disse Ravennate, perchè alcuni della di lui famiglia abitarono ancora in Ravenna. Questa tragedia che s’ impresse in Bergamo per Comin Ventura in quarto nel 1593 stando il Manfredi a Nansì, a giudizio di Francesco Patrizj può servire d’esempio a chi vuol comporre tragedie. Anche il dotto editore del Teatro Italiano ne portò un vantaggioso giudizio, al quale si soscriverà di buon grado chiunque la legga. Si distingue (egli dice) talmente con l’eloquenza, colla franchezza del dire, e col giro e spezzatura del verso, che quel luogo che tiene l’ Edipo per l’orditura, la Sofonisba per l’ affetto, e l’ Oreste per la bellezza de’ passi, può questa giustamente pretendere per lo stile. Riconosce parimente il Conte Calepio nel Nino di questa favola un carattere sommamente idoneo al fine della tragedia.

Il soggetto di essa è fondato nella famosa regina degli Assiri Semiramide, la quale, secondo Diodoro e Giustino, trasportata ad amare il figliuolo viene da lui uccisa. Figura il Manfredi ch’ella voglia sposare questo suo figliuolo chiamato Nino, il quale da sette anni si trova occultamente maritato con Dirce e arricchito di due pargoletti chiamati Nino e Semiramide anch’essi. La notizia di questo secreto nodo mette la {p. 150}regina in tal furore, che medita la strage di Dirce e de’ figliuoli e l’eseguisce in un sotterraneo. All’ avviso fatale che ne riceve Nino, s’accoppia lo scovrirsi Dirce per sua sorella. L’orrore e la disperazione lo perturbano a segno che novello Oreste diventa matricida, indi trafigge se stesso nel medesimo luogo ove giacciono immersi nel proprio sangue Dirce e i figliuoli. Alla maniera greca e latina l’ombra di Nino indi quella di Mennone mariti di Semiramide, facendo le due prime scene dell’atto I, preparano al terrore che indi spazia per la reggia di Babilonia. Non è un secco e digiuno racconto ma una scena animata e interessante la terza, nella quale questa virile regina narra alla confidente Imetra quanto ha disposto di Nino e di Dirce. Imposi (ella dice) a Simandio che dicesse

A Nino ch’egli omai fosse disposto
A meco unirsi in matrimonio, e ch’oggi
Voglio che insiem celebriam le nozze,
E che a questo non sia risposta o scusa.
A Dirce dissi: al mio ritorno, o figlia,
Fa ch’io ti trovi tutta lieta e culta,
Ch’oggi sposa sarai di tal marito,
Che a me grado n’avrai che tel destino.

Prevede Imetra le vicine funeste conseguenze del di lei empio disegno, ed a costo di qualunque rischio proprio tenta distoglierla {p. 151}dal proposto con una eloquenza vera e robusta nè aliena dal di lei stato, la quale fa ammirare l’arte del poeta senza ch’egli si discopra. Fralle altre cose cerca in tal guisa muoverla per l’ambizione e per la gloria:

Ma tu, Semiramis, che in tutto il mondo
Di gloria avanzi ogni famoso eroe .....
Tu che figlia di dea ti chiami e sei,
E dea sembri negli atti e nel sembiante,
Se la tua gloria gira al par del Sole,
A che cerchi oscurarla? a che defraudi
La fama? a che le tronchi i più bei vanni?
Qual dio, qual legge è che consenta al figlio
Farsi consorte de la madre, e nasca
Di lor chi sia fratello e figlio al padre,
Ed a la madre sia nipote e figlio?

Tutta traspare la feroce Semiramide nello sdegno che manifesta a tale ardito discorso. Non è ella una timida Fedra che ama insieme e paventa la vergogna di palesar l’amore: è una imperiosa conquistatrice cui tutto par lecito perchè può tutto bastandole di velar la sfrenatezza colla politica. Avvezza agli eccessi nè più ravvisandone l’orrore, afferma con baldanza, che la ragione di stato soltanto la determina a siffatte nozze, e ne palesa i politici impulsi. All’opposizione poi delle leggi risponde,

{p. 152}
Quanto alle leggi, ogni dì nascon leggi;
Ed io che posso, e mi conviene il farlo,
Una faronne che da ora innanzi
Lecito sia al figliuol sposar la madre.

Invano replica Imetra; la regina non cangia parere, e la spinge a Dirce. Riflette poi che Imetra debbe aver qualche secreto nel cuore contro al disegno delle sue nozze e di quelle di Dirce, e soggiugne, faccia

La sua fortuna, anzi la lor fortuna
Ch’io non discopra in ciò cosa diversa,
Non pur contraria al desiderio mio;
Che a Dirce, a lei, a Nino istesso, a quanti
Colpa n’avranno, io mostrerò che importi
Il macchinar contro il voler di donna
Che possa quanto vuol.

Preparata con tal maestria sì pressante angustia alla fortuna di Nino e Dirce, per le nozze detestabili del figlio colla madre, e per quelle di Anaferne con Dirce, riesce nell’atto II interessantissimo l’ abboccamento di Dirce oppressa dal dolore con Nino che cerca consolarla. E ciò avremmo desiderato che il Signor di Calepio avesse allegato per uno degli ottimi esempj delle tragedie Italiane, dopo di avere in alcune di esse ripresa la poca congiunzione dell’atto II col I, e il vedervisi li trattati d’una scena non di {p. 153}rado diversissimi da quelli dell’ altra98. Manfredi ha congiunte mirabilmente le premesse, i mezzi e le conseguenze della sua favola ingegnosa. E’ notabile nella scena quarta dell’atto II l’orrore che protesta di aver Nino per l’incesto, nel che si mette sempre più in vista il tragico contrasto del carattere di Nino colla passione di Semiramide, e si prepara la di lui disperazione per lo scioglimento. Nel medesimo atto si è disposto che Simandio vada francamente a scoprire alla regina l’occulto matrimonio di Nino e Dirce. Semiramide all’ intenderlo si accende di una rabbia tremenda, ed in conseguenza nell’ atto III minaccia di trarre a Dirce di propria mano il cuore. Simandio, Imetra, il sacerdote Beleso con sobria insieme e maschia eloquenza e con calore parlano in pro degli sposi. Semiramide rimane inflessibile. Al fine Beleso nulla sperando dalle armi della ragione ricorre a quelle del suo ministero, e la minaccia per parte degli dei, benchè senza perder di vista il rispetto dovuto come vassallo alla sua sovrana. La regina intanto si è fra se appigliata all’esecrabile partito di quietarlo dissimulando; e mostrandosi commossa dalle {p. 154}sacre sue minacce invia Simandio a Nino e Imetra a Dirce perchè gliela conduca coi figliuoli, affettando di voler veder tutti, a tutti perdonare, e con festa degna di sì gran re rinnovare le loro nozze. Ella accredita col sembiante l’inganno, e riscuote applausi e ringraziamenti. Seneca nel Tieste e Giraldi nell’Orbecche usarono il medesimo colore della dissimulazione; ma secondo me Semiramide comparisce in ciò assai più grande e più tragica di Atreo e Sulmone. Chiude nel più profondo dell’animo l’orrendo disegno, e tutti accoglie con somma tranquillità ed allegrezza; ma nell’equivoche espressioni che adopra, fa trasparire da lontano la perversità dell’intento. In fatti questa Medea dell’Assiria avuta appena Dirce ed i nipoti in sua balia con ispietatezza inaudita gli trucida. Atirzia ch’è stata presente alla strage, atterrita, disciolta in lagrime viene a narrarla nell’atto IV. Il racconto fatto con colori veri e vivaci è degno del pennello di Euripide, e forse di Dante e di Omero, sì terribili ed evidenti sono le immagini degli uccisi, e sì compassionevole la situazione di Dirce. Assiste veramente a questo racconto l’infelice Nino, ma coll’ interromperlo tratto tratto, ne aumenta il patetico. Udito in fine l’ ammazzamento di Dirce Nino freme, non respira che vendetta, minaccia la madre, invano volendo Simandio e Beleso farlo accorto {p. 155}della scelleraggine che vuol commettere. Egli va pur risoluto. Ma nell’atto V egli torna fuori senza avere nulla eseguito nel vuoto dell’uno atto e dell’altro. Il suo furore ha una specie di riposo. Or che ha egli fatto frattanto? Ha forse combattuto trall’ orrore della vendetta e l’enormità dell’offesa? Un motto almeno di ciò avrei voluto ne’ di lui discorsi della prima scena, nella quale torna ad accingersi alla vendetta. Imetra nella seconda scena narra a Nino come Anaferne si è sommerso nell’Eufrate, e la regina ha manifestato che Dirce era sua figlia. Ella ha sperato che tolta Dirce di mezzo, non rimanga altro ostacolo da vincere in Nino che quello del peccato; ma saprà Nino (ella dice per bocca d’Imetra) ch’egli

Sette anni è stato nell’error ch’ei chiama
Peccato incestuoso: era mia figlia
Dirce e sorella sua.

Qual orrore non cagiona sì tremenda notizia a Nino che ha sempre manifestato spavento particolare per l’incesto! Egli in prima va ripetendo le ragioni che accreditano la verità di tal notizia. A che (dic’egli) avrebbe ella

Chiamata Dirce da sua madre? e come
Promessa sì l’avria liberamente
Ad Anaferne, non l’essendo figlia?
{p. 156}
Ma quel che importa più, l’Armenia in dote?
Non si dan regni alle altrui figlie in dote.
Oltra di ciò facea ridendo un atto99,
Che la regina il fa sempre che ride:
Nè il vidi mai che non scemasse molto
Il piacer ch’io prendea d’esser con lei
Rimembrando mia madre.

Certo Nino della disgrazia da lui maggiormente tenuta diviene un Oreste agitato da trasporti furiosi. Cerca la regina di Assiria, non chiamandola madre, corre a lei, l’affronta, la trafigge, la mira e piange; indi s’invia al luogo della strage della sposa e de’ figliuoli, e s’uccide. Nel racconto della morte di Nino il poeta imitando in parte l’attitudine di Tancredi al sepolcro di Clorinda, principia colla pittura più espressiva del di lui dolore alla vista de’ figli e di Dirce:

Giunto al fiero spettacolo si stette
Pallido, freddo, muto, e privo quasi
{p. 157}
Di movimento: e poco poi dagli occhi
Li cadde un fiume lagrimoso, e insieme
Un oimè languidissimo dal petto
Fuori mandò, così dicendo . . . .100.

Ma poi la stessa guida illustre lo sedusse, ed in vece di cercare nella natura e nelle circostanze di Nino il linguaggio di un dolor disperato, seguendo il Tasso anche in ciò che in lui si riprende, fa rivolgerlo a parlare al luoco, benchè poi la natura lo riconduce in istrada, e gli suggerisce molti concetti naturali e patetici. Un’ immagine anche bene espressa è la seguente:

Parve di morte empirsi, e restò chiusa
Sua vita io non so dove, e fu simile
Nel viso ai morti, e per buon spazio tacque.

Feritosi al fine Simandio gli toglie dal petto il pugnale,

Dicendo, ah Nino! E’ questa la virtude
Onde sì risplendevi? A questo modo
{p. 158}
Si governano i regni?

ed egli:

Non mancherà chi darà vita al regno ....
  Io troppo vissi, ahi lasso!
Regnino i cari al ciel, vivano i cari
A la fortuna: lascia pur ch’io mora ....
  Sai ch’anzi eleggeva
Il parricido che l’incesto, e vuoi
Ch’or viva incestuoso e parricida?
Tu non m’ami sel vuoi: che se per questo
Morta è mia madre, i miei figliuoli e Dirce,
Come viver poss’ io cagion del tutto?
Disse, e nel volto diventò di neve,
E volendo seguir, di voce in vece
Singhiozzò, chiuse gli occhi e spirò l’ alma.

Bisogna confessare che questa Semiramide per uguaglianza, nobiltà e grandezza di stile e per versificazione vince quasi tutte le tragedie del cinquecento. Il Manfredi è stato il meno avido di sollevarsi a forza di ornamenti stranieri alla drammatica, cioè a dire epici e lirici. Si lascia vedere di quando in quando qualche superfluità ed affettazione: ma per quel tempo, in cui tutti correvano in traccia di mostrarsi poeti quando meno abbisognava, può dirsi che Muzio ne sia stato esente. Invano la censurò il suo contemporaneo Angelo Ingegnieri. La Semiramide trionfò dell’invidia e della pedanteria; e se in vece di criticarla i pedanti {p. 159}che sono alle lettere quel ch’è la ruggine al ferro, si fossero dedicati a rilevarne ciò che avea di migliore per additarlo alla gioventù, forse avrebbero impedita nel seguente secolo l’escursione e i progressi del mal gusto. Quasi a’ giorni nostri il celebre Marchese Maffei vi fece alcuni troncamenti del meno importante, e la fe rappresentare in Verona e piacque sommamente. E quando essa non piacerà dove si ami la poesia tragica? E chi potrà dubitarne? Certo niuno che l’abbia letta, che comprenda il vero merito d’un componimento tragico e che non abbia un interesse contrario alla verità101. {p. 160}Notisi ancora che il Manfredi è stato il primo in Europa a mostrare sulle scene questa regina famosa degli Assirj, e senza averne trovato modello veruno fra gli antichi ne ha inventata e disposta con tanta regolarità ed artificio la favola e con tale eccellenza vigore ed eloquenza scolpiti i caratteri e animate le passioni, che ha invitati i posteri a contar la Semiramide tragli argomenti teatrali. Quindi è che il Capitano Virues e Don Pedro Calderon de la Barca s’ avvisarono di maneggiarlo in Ispagna nel {p. 161}secolo seguente; e nel nostro vi si sono appigliati il Crebillon e ’l Voltaire, i quali vedrà il Signor avvocato Linguet se vi sieno stati determinati piuttosto dalla tragedia del Manfredi abbigliata alla greca, che da’ gotici drammi del Virues e del Calderon.

Al Manfredi dobbiamo parimente un volumetto di Lettere famigliari da lui scritte nel 1591 dimorando in Nansì, nelle quali trovasi conservata la memoria di varj componimenti specialmente tragici rimasti per la maggior parte inediti. Nella diciottesima egli anima Eugenio Visdomini Parmigiano a stampare due sue tragedie l’Amata e l’Edipo. Era colui suo compare; e forse questo titolo gliele fe parere degne di uscire alla luce dopo la Merope del conte Torelli. Nella decimanona indirizzata a Gabriello Bambasi altro Parmigiano accademico Innominato dice che pubblichi le sue tragedie la Lucrezia e l’Alidoro. Stimola nella ventesima il Signor Antonio Scutellari a produrre la tragedia di Giacomo suo fratello intitolata l’Atamante, la quale, ei dice, è nobilissima e perfetta. Dell’Alessio tragedia di Vincenzo Giusti censurata parimente dall’Ingegnieri parlasi nella lettera 31 scritta a Udine ad Erasmo di Valvasone, e nella 161 scritta all’istesso Giusti; e se ne favella ancora insieme coll’ Eraclea tragedia di Livio Pagello pur criticata dall’ Ingegnieri. Nella 181 indirizzata ad Orazio Ariosto a {p. 162}Ferrara si rammemorano alcuni suoi componimenti non impressi, un poema epico, una tragedia e una commedia. In fine nella 346 scritta al Signor Muzio Sforza a Venezia desidera che gli si mandi un esemplare della traduzione di Girolamo Moncelli del Cristo, avendo saputo di essersi stampata.

Furonvi allora altre due tragedie di penne non volgari rimaste inedite, l’Edipo principe traduzione di quello di Sofocle di Bernardo Segni, e le Fenicie di Euripide recata in latino da Pietro Vettori, che con altre di lui produzioni pur manoscritte si trovava in Roma nel 1756 in potere del commendatore Vettori parente di Pietro102.

Rimettiamo i leggitori alle drammaturgie, all’opera del Quadrio ed a qualche altro che si ha presa la cura di spolverarli nelle biblioteche ove si tarlano, molti drammi sacri parte impressi e parte inediti del medesimo periodo. Tra essi possono togliersi dalla folla i due che soggiungo perchè ridotti alle leggi della vera tragedia, cioè Jefte di Girolamo Giustiniano Genovese impresso nel 1583, e l’altro Jefte di Scipione {p. 163}Bargagli pubblicato in Venezia nel 1600. Il nome di Giammaria Cecchi fa che rammentiamo ancora l’Esaltazione della Croce di lui opera rappresentativa recitata nelle nozze de’ GranDuchi di Toscana e stampata presso il Martelli nel 1592. Alcune tragedie Cristiane perdute si vuole che scrivesse ancora il Benedettino Mantovano Teofilo Folengo morto nel 1544, bizzarro ed ingegnoso autore delle poesie maccaroniche sotto il nome di Merlin Cocajo e del raro poema romanzesco l’Orlandino pubblicato col nome di Limerno Pitocco, del quale nel 1773 fece in Parigi una elegantissima edizione, pochi giorni prima di partirne, il dotto nostro amico Don Carlo Vespasiano sotto il nome Arcadico di Clariso Melisseo, corredandolo di curiose ed erudite note. Lo stesso Folengo, ad istanza del Vicerè di Sicilia Don Ferrante Gonzaga, compose in Palermo, ove erasi rifugiato, un’ azione drammatica intitolata la Pinta, o la Palermita intorno alla creazione del mondo e alla caduta di Adamo.

Col bellissimo soggetto del greco Cresfonte maneggiato dal conte Pomponio Torelli col titolo di Merope possiamo chiudere la storia delle tragedie Italiane del cinquecento. Fioriva in Parma verso la fine del secolo l’Accademia degl’ Innominati, di cui era il Torelli uno de’ principali ornamenti. Egli vi recitò cinque sue tragedie la Merope, {p. 164}il Tancredi, la Galatea, la Vittoria, il Polidoro, spiegandone eziandio l’artifizio in due grossi volumi di Lezioni sulla Poetica di Aristotile, che trovansi manoscritti nella Ducal Biblioteca di Parma. Cita Mons. Fontanini nell’Eloquenza Italiana l’edizione della Merope e del Tancredi fatta in Parma nel 1598, e poi quella di tutte le cinque tragedie del 1605, cioè tre anni prima della morte dell’autore. Ma la Merope s’impresse prima del 1591, per quel che ne scrisse il prelodato Manfredi a’ 18 di gennajo di quest’anno: Ora (egli disse) che il Signor Conte Pomponio Torelli vi ha fatta la strada collo stampare la Merope; la qual cosa confermò nelle seguenti 19 e 20.

Noto n’è l’argomento e i punti interessanti dell’azione, che debbonsi al greco inventore; ma la regolarità, l’economia, la gravità delle sentenze, l’eleganza dello stile, e la vivace dipintura de’ caratteri e delle passioni debbonsi prima di ogni altro al Torelli, onde merita la sua tragedia di collocarsi fralle buone Italiane. Può singolarmente notarsi fin dalla prima scena assai bene espresso il carattere di Merope agitata ed oppressa dal pensiero di esser pur giunto il tempo prefisso alle sue nozze col tiranno; e nell’atto II lo stato del tiranno tormentato anche in pace da mille moleste cure. Egregiamente vi si disviluppa il di lui tirannico sistema e la ragion della forza che {p. 165}giustifica le scelleraggini. Ecco in qual guisa argomenta contro del Capitano della sua guardia:

Le leggi e ’l giusto, di che tanto parli,
E per parlarne assai poco ne intendi,
Non hanno sovra i principi potere,
Che mal si converria, s’essi le fanno,
Ch’essi all’opera lor fosser soggetti.
Ma quella legge che in diamante saldo
Scrisse di propria man l’alma natura,
Sola può dare e variar gl’ imperi.
Per questa sola tremano i potenti,
A questa sola ogni gran re s’inchina.
Ella comanda che colui prevaglia
Che di genti, di forza, e di consiglio,
Di stato e di ricchezze gli altri avanzi.
Che mal si converria che un uom sì degno
Obedisse a chi men di lui potesse ecc.

Di maniera che l’ingiustizia mai non trascura di prevalersi a suo pro della massima d’Achille, il quale

Jura negat sibi nata, nihil non arrogat armis.

Notabile sembrami parimente nell’atto V l’artificio del poeta nel rendere verisimile l’ardito colpo di Telefonte. Per ordine del tiranno fa che i satelliti rimangansi all’entrata del tempio, e che Gabria nel darne {p. 166}e farne eseguir gli ordini vada esortando i fedeli amici di Merope, mostrando loro Telefonte, instigando gli audaci, spirando ardire a tutti; e preparato in tal guisa il colpo, lo fa scoppiare:

Già morte eran le vittime, e le fibbre
Erano apparse liete alla regina.
Fa condur Polifonte un bianco toro
Con le corna dorate: a Telefonte
Che s’appresenti accenna: ei la bipenne
Alzando, disse; o sommo Giove, prendi
Questo che per mio scampo t’offerisco.
Ciò detto a Polifonte che rivolto
Mirava fiso la regina nostra,
Con improvviso colpo il capo fiede.
Senza difesa far, senza parola
Traboccò nel suo sangue singhiozzando.

Non ho addotti gli squarci delle situazioni somministrate dall’antico argomento, bastando animare la gioventù ad osservarle, colla sicurezza di trovarle egregiamente rappresentate. In somma se un movimento più vivace rendesse l’azione di questa tragedia meno riposata e più teatrale: se le robuste sentenze non fossero talvolta quasi ravviluppate in una soverchia verbosità: se Merope tentasse di uccidere il figlio, tale non credendolo, con una situazione più verisimile e più vigorosa: se Polifonte col most arsi un innamorato sì fido e costante, a segno {p. 167}di attendere dieci anni la conchiusione delle nozze, non venisse a combattere colla propria ambizione, affetto in lui dominante, e a debilitare il suo carattere essenziale di usurpatore avido di sangue: finalmente se Merope dopo il sommo odio mostrato contro Polifonte in tutta la tragedia non iscendesse fino a piangerlo nella di lui morte e a dirgli,

Fosti leal, fosti fedele amante:

se tutto ciò, dico, non contrastasse con tanti pregi che ha, potrebbe questo componimento contarsi fra gli eccellenti. Ma quanto al metodo greco che vi si tiene, ed al coro continuo che spesso nuoce a’ secreti importanti della favola, è un difetto comune alla maggior parte delle tragedie di quel tempo. Non ne vanno esenti le altre tragedie del Torelli, e nè anche la Victoria e ’l Tancredi, le quali per altro debbono esserci care essendo nel numero di quelle che si allontanano dagli argomenti greci, e dipingono, siccome insinuava il gran Torquato103, costumi non troppo da noi lontani; e l’ultima singolarmente si rende pregevole {p. 168}per l’attività di purgare le passioni, per la qual cosa il Conte di Calepio stimava doversi preferire alla stessa Merope.

Da questa ragionata narrazione, e non da arbitrarie decisioni, può ricavarsi l’indole della tragedia Italiana del XVI secolo. Ella fu un nobile ritratto della Greca, da cui riportò qualche neo e qualche lentezza, volendola troppo imitare; ma ella non si arrestò a’ soli argomenti greci, come talvolta da’ critici moderni si è asserito. Per lei divenne più ricco il teatro cogli argomenti della Sofonisba, del Torrismondo, della Semiramide, del Tancredi, della Tullia, dell’Orazia, ignoti a’ Greci, e somministrati a’ posteri dagl’ Italiani del cinquecento. Ma quando anche queste nuove favole non si dovessero all’ Italia, non basterebbe per eternarla l’aver fatto risorgere in tante guise il greco teatro (Nota XII)? Imitare, emulare con aurea eleganza e purità di stile i tragici antichi, inventare a loro norma favole eccellenti, farne risonare le scene per tante città, quando il rimanente dell’Europa altro quasi non avea che mostruose farse in lingue tuttavia rozze e e barbare, era l’unico opportuno espediente per diffondere il vero gusto della tragedia, e il fecero gl’ Italiani, contuttochè non avessero, come indi non ebbero mai, teatro tragico fisso e permanente, nè speranza di lucro e di premio. E da qual altra cosa {p. 169}doveano essi incominciare, se non dallo studiare e ritrarre talora con più recenti colori le bellezze de’ greci esemplari? E che pedanteria ed affettazione transalpina è quella di tacciare senza riserva di pedanteria e di greca affettazione i tragici Italiani del cinquecento? E senza prima osservare le vestigia de’ migliori, quando mai i moderni si sarebbero inoltrati sino all’odierna delicatezza di gusto che rende ingiusti ed altieri ancor certuni che non saprebbero schiccherare una sola meschina scena, e che pur sono i più baldanzosi a regger giustizia e a dettar leggi teatrali? Ed a chi se non all’Italia si debbe l’aver fatte risorgere le sagge regole del teatro? Or non sognava Voltaire allorchè scrisse: Les Français son les prémiers d’entre les nations modernes qui ont fait révivre les sages regles du théâtre; les autres peuples ont été long-temps sans vouloir recevoir un joug qui paraissoit si sévére? Non dovea sovvenirsi di ciò che fecero gl’ Italiani un secolo e mezzo prima di Cornelio introduttor delle regole tra’ Francesi? Non pensò, ciò scrivendo, a quello che erano nel XVI secolo nella drammatica i suoi nazionali (Nota XIII)?

Conviene intanto osservare che i soprallodati ingegni Italiani, benchè per far risorgere la tragedia si avvisassero di seguire l’orme de’ Greci, pure la spogliarono quasi totalmente di quella musica, qualunque {p. 170}ella sia stata, che in Grecia l’ accompagnò costantemente. Si contentarono i nostri di farne cantare i soli cori, come si fece in Vicenza, in Roma, in Ferrara, nel rappresentarsi Sofonisba, Orbecche ec.. Essi altro allora non si prefissero se non di richiamare sulle moderne scene la forma del dramma de’ Greci, e non già l’intero spettacolo di quella nazione con tutte le circostanze locali, che a’ nostri parvero troppo aliene da’ tempi e da’ popoli, al cui piacere consacravano le loro penne.

Ma per essere stata spogliata della musica dovea dirsi che la tragedia moderna non sia tale? E pure anche questo ha voluto avanzare a’ giorni nostri l’Avvocato Mattei ornamento del paese ammaestrato da Pitagora. Questa (egli dice104) che noi ora chiamiamo tragedia, è una invenzione de’ moderni ignota del tutto agli antichi. Crede egli dunque che il canto esclusivamente la costituisca tragedia? Con sua buona pace egli s’ inganna. Dessa è tale per l’azione grande che interessa l’intere nazioni, e non già pochi privati, per le vicende della fortuna eroica (secondo la giudiziosa diffinizione di {p. 171}Teofrasto), per le passioni fortissime che cagionano disastri e pericoli grandi, e pe’ caratteri elevati al di sopra della vita comune. Per tali cose essenziali le greche tragedie che noi leggiamò, si chiamano così, e non già perchè si cantarono in Atene. Euripide e Sofocle non sono meno tragici nella lettura e nella nuda recita che in una rappresentazione cantata. Ora i nostri imitarono la tragedia greca appunto in quello che ne costituisce l’essenza; mostrando con ciò maggior saviezza che non volea dargliene il Signor Mattei, il quale osò ancora oltraggiare que’ valentuomini con parole poche urbane, per non dir temerarie. Essi vollero (dice degl’ Italiani il nuovo interprete de’ Greci tragici) lavorare le loro tragedie all’uso de’ Greci, senza sapere che fossero le Greche tragedie. Un Tasso! Un Trissino! uno Speroni! E sa il Signor Mattei quello che dice egli stesso? Ma come non seppero essi che cosa fossero le greche tragedie? Non furono i primi nostri scrittori, specialmente del cinquecento, quelli che mostrarono all’Europa l’erudizione del greco teatro? Non insegnarono essi tutto ciò che poi si è ripetuto in altre e simili guise di là da’ monti? E che si è scoperto di più a’ giorni nostri? Qual nuova cosa ci ha rivelato la singolare erudizione del Signor Mattei? Forse che la tragedia e la commedia greca si cantava? Ma quante e quante {p. 172}fiate si è ciò ripetuto a sazietà intorno a tre o quattro secoli prima che nascesse il Signor Don Saverio!

III.
Teatri materiali. §

Conobbero così bene e fondatamente per tutte le sue parti gl’ Italiani la greca erudizione, che seppero allora mettere alla vista fin anche nel teatro materiale l’antico magistero.

Qual vanto per una privata, benchè nobile accademia, e per la città di Vicenza, che non è delle maggiori d’Italia, il possedere un teatro come l’Olimpico sin dal 1583 costruito alla foggia degli antichi? Ma essa ebbe la ventura di aver veduto dentro il recinto delle sue muraglie nascere un Trissino, che mostrò all’Europa il sentiero della vera tragedia, e insegnò l’architettura all’incomparabile Andrea Palladio. La figura di questo teatro non è un semicircolo, ma una semiellissi: ha una scalinata di quattordici scaglioni di legno senza precinzioni, senza aditi, senza vomitorj: su di essa posa una loggia di colonne Corintie con una balaustrata ornata di statue: la scena è di pietra a tre ordini, e mostra nel prospetto tre uscite, e due laterali. Sussiste ancora a’ nostri dì questo teatro ben {p. 173}conservato per diletto de’ viaggiatori, e per gloria de’ Vicentini.

Non è così ben tenuto il teatrino di Sabbioneta che pure sussiste; ma è parimente di forma antica e bellamente architettato dal rinomato Scamozzi, il quale avea terminato il teatro Olimpico sul disegno del Palladio. Fu eretto questo teatro dall’istesso Vespasiano Gonzaga Duca di Traetto, che fabbricò Sabbioneta, uomo dottissimo e fautore de’ letterati, nato nel regno di Napoli in Fondi l’anno 1531 e morto nel 1591. Vide ancora la famosa città di Venezia eretti nel medesimo secolo teatri semicircolari ideati su gli antichi modelli, e costruiti da’ più chiari ingegneri il Sansovino e ’l Palladio, i quali perchè furono di legno, già più non sussistono. Essi servirono per le compagnie de’ Sempiterni, degli Accesi e della Calza. Quello del Sansovino si alzò in Canareggio, e quello del Palladio nella Carità. In quest’ultimo si rappresentò l’Antigono tragedia di M. Conte di Monte Vicentino stampata nella stessa città nel 1565; ed in esso furono dipinti dodici gran quadri dal celebre pittore Federico Zuccaro105.

{p. 174}

In Andria si costruì ancora un teatro nel 1579; e il famoso cieco Luigi Groto che ivi sortì i natali, compose per tal teatro una delle sue commedie intitolata l’Emilia.

Essendo così grande il numero d’ogni sorte di drammatici componimenti rappresentati in tante città Italiane, vi si videro alle occorrenze eretti moltissimi teatri. Le accademie degl’ Infocati, degl’ Immobili e de’ Sorgenti in Firenze, e quelle de’ Rozzi e degl’ Intronati in Siena, ebbero i loro teatri. Nella corte di Ferrara, dove fin dal secolo precedente fiorirono gli spettacoli scenici, il duca Alfonso da Este fece innalzare un teatro stabile secondo il disegno che ne diede l’immortale Ludovico Ariosto. Ma di questi ultimi teatri non sapremmo dire in quali parti avessero seguiti gli antichi, ed in quali altre se ne fossero allontanati.

CAPO II.
Progressi della poesia comica nel medesimo secolo. §

All’edizione delle sue belle tragedie premise il chiar. Ab. Bettinelli un Discorso intorno al teatro Italiano, dal quale traggonsi moltissime osservazioni di buongusto. Vi si dice però che la prima epoca gloriosa della {p. 175}poesia regolare drammatica è al 1520, che secondo me dovrebbe risalire qualche altro lustro. Il lodato autore ha la mira alla Sofonisba del Trissino, alla Rosmunda del Rucellai, ad alcune commedie dell’Ariosto, a quelle del Machiavelli, alla Calandra del Bibbiena. Ma queste tragedie e commedie hanno certamente la data più indietro del 1520, e per conseguenza la prima epoca gloriosa della drammatica può mettersi al principio del secolo. Secondo Lilio Gregorio Giraldi106 intorno a’ primi anni del secolo il Trissino avea per le mani la sua tragedia, benchè prima del 1514 non erasi tuttavia recitata. Si rappresentò poi la Rosmunda nel 1516, o 1517, secondo il Zeno, e fu la seconda tragedia rappresentata. Nè anche il Signor di Voltaire volle negarci questi pochi anni, e confessò che la ville de Vicence en 1514 fit des dépenses immenses pour la représentation de la premiere tragédie, qu’on eût vue en Europe depuis la decadence de l’Empire. Quanto alle commedie poi dalla narrazione a cui ci accingiamo di quelle dell’Ariosto, del Bibbiena e del Machiavelli, si vedrà che furono scritte assai prima del 1520, cioè {p. 176}intorno al 1498 o poco più; e per conseguenza che l’epoca gloriosa della poesia regolare drammatica dovrà fissarsi sul bel principio del secolo XVI.

I.
Commedie chiamate Antiche ed Erudite. §

Una felice combinazione per la poesia drammatica trasse i più chiari epici Italiani a coltivarla. Per mezzo degli autori dell’Italia liberata e del Goffredo fiorì tra noi la buona tragedia; e pel cantore dell’Orlando furioso risorse la commedia nuova degli antichi. Questo poeta prodigioso nato nel 1474 a corre le prime palme in tutti i generi che maneggiò (che che abbia voluto gratuitamente asserire in iscapito delle di lui satire e commedie l’Ab. Andres), per divertire la corte del Duca di Ferrara compose cinque commedie, la Cassaria, i Suppositi, la Lena, il Negromante e la Scolastica. Alfonso d’Este per farle rappresentare fe costruire un teatro stabile secondo il disegno dell’istesso poeta, il quale parimente ebbe la cura dell’ ottima esecuzione ammaestrando alcuni gentiluomini; anzi più di una volta egli vi sostenne ancora la parte del prologo, come ci dice Gabriele suo fratello in quello della Scolastica:

{p. 177}
. . . . . Quando apparve in sonnio
Il fratello al fratello in forma e in abito
Che s’era dimostrato sul proscenio
Nostro più volte a recitar principj,
E qualche volta a sostenere il carico
Della commedia, e farle serbar l’ordine. 107

Ariosto da prima, cioè ne’ suoi verdi anni, cominciò a scrivere le sue favole in prosa circa il 1498108; e così furono scritte i Suppositi e la Cassaria. Ma avanzato in età le riscrisse in verso, del quale però soltanto si servì nelle altre tre. Scelse lo sdrucciolo, in cui alcuni pretesero raffigurare l’immagine dell’antico giambico; ma solo la grazia della locuzione e la maestria inarrivabile di un Ariosto potè renderlo soffribile e compensarne l’irreparabil caduta e la manifesta monotonia. Non istancherò i leggitori analizzando minutamente queste commedie; ma ne anderò solo notando alcune bellezze per istruzione della gioventù, e per {p. 178}rimproverarle agli ultimi detrattori transalpini, i quali o non vogliono o non sanno vederle da se stessi.

I Suppositi. Nell’edizione che se ne fece in Venezia nel 1525, si vede questa favola preceduta da un prologo in prosa, nel quale l’autore confessa di avere in essa seguitato Terenzio nell’ Eunuco e Plauto ne’ Cattivi. E veramente parte dell’argomento trasse da que’ comici antichi; mentre l’innamorato Erostrato padrone si fa credere pel suo servo Dulippo, e questi è tenuto per Erostrato, prendendone il nome e la condizione. Ma la modestia dell’autore gli fe dissimulare il merito principale della sua favola, che consiste nell’ averla avviluppata e sciolta con mirabile naturalezza senza bisogno di scorta, e renduta notabilmente interessante colla venuta di Filogono padre di Erostrato; di che non fu debitore agli antichi. In fatti la gloria principale dell’Ariosto e di tanti altri comici Italiani, de’ quali ragioneremo, è questa appunto di aver migliorati gli argomenti degli antichi, e di averne poi tratti tanti e tanti altri dalla propria fantasia; la qual cosa gli rende superiori a’ Latini per invenzione, ed in conseguenza per vivacità. E se il nostro dottissimo Gravina avesse da questo punto riguardata la commedia Italiana del cinquecento, certamente non avrebbe senza veruna riserba avanzato nella lettera scritta al {p. 179}Maffei, che i nostri Comici son di gran lunga inferiori a’ Latini. E’ vero poi che l’Ariosto si valse di alcuni caratteri antichi, ma seppe adattarli alla propria età e nazione con un colorito fresco ed originale; e moltissimi nuovi ne introdusse, come avvocati, cattedratici, teologi. Per la qual cosa possiamo fare osservare che il gesuita Rapin diede al Moliere una lode immaginaria, allorchè affermò che fu questo celebre Francese il primo a far ridere con ritratti di nobili, uscendo da’ servi, parassiti, raggiratori e trasoni. Io trovo che i Cinesi, gl’ Indiani, i Greci, i Latini, gl’ Italiani, gli Spagnuoli e i Francesi stessi, prima del Moliere, dipinsero i nobili ridicoli109. {p. 180}Lo stile dell’Ariosto in questa e nelle altre si presta mirabilmente, alla maniera di Menandro, a tutti gli affetti e a tutti i caratteri. Motteggia con grazia senza buffoneria di piazza: ragiona con tutta la naturalezza ignota alla pedanteria: famigliare e piacevole non lascia di adornarsi di quelle sobrie bellezze poetiche che a tal genere non isconvengono: satireggia con sale e vivacità senza addentar gl’ individui. E su di ciò si vuol riflettere che la commedia Italiana di tal tempo non pervenne all’insolenza della greca antica, a cagione de’ governi delle Italiche contrade assai differenti dall’Ateniese. Ma non fu già timida e circospetta quanto la latina; imperciocchè i nostri autori comici erano per lo più persone nobili e ragguardevoli nella civile società, o almeno non furono schiavi come la maggior parte de’ Latini. Quindi è che nelle commedie dell’Ariosto e de’ contemporanei si trovano proverbiati coraggiosamente signori, ministri, governatori, giudici, avvocati, frati ecc. Eccone un saggio de’ {p. 181}Suppositi. Lizio servo nell’atto IV attribuisce a coloro che presiedono al governo, gli sconcerti privati. Un Ferrarese discolpa i Rettori:

Che san di questo li rettori? credi tu
Che intendano ogni cosa?

E Lizio risponde:

. . . . . Anzi che intendano
Poco e mal volentier credo, e non vogliano
Guardar, se non dove guadagno veggano;
E l’orecchie più aperte aver dovrebbono,
Che le taverne gli uscj le domeniche.

E quì si avverta che si parla appunto dei rettori di Ferrara, dove si rappresentava la commedia in presenza del principe e forse di que’ medesimi rettori. Non meno penetrante è il colpo che questo satirico di Lizio dà a’ giudici, che oggi forse non si permetterebbe sulle scene; ed in fine con somma grazia e piacevolezza comica pongonsi alla berlina gli avvocati. Io non parlo poi della regolarità della condotta di questa favola, e delle altre, non dell’Ariosto solamente, ma degli altri che scrissero dopo; perchè pregio degl’ Italiani fu il non avere incominciato dal comporre favole mostruose, come le Cinesi, le Inglesi, e le Spagnuole, {p. 182}ma regolari scrupolosamente contenute ne’ limiti prescritti da Aristotile e da Orazio. Dovrei bensì additare l’arte del poeta nella rivoluzione apportata all’azione dalle notizie rilevate opportunamente, e l’interesse che va gradatamente crescendo col disordine che mena allo scioglimento; ma tali cose meglio si sentono nella lettura continuata che nel racconto.

La Cassaria. Benchè in questa favola ricca di sali, di grazie e di passi piacevoli, si veggano introdotti servi, ruffiani ed altri personaggi usati nelle antiche comedie, l’argomento però tutto appartiene al nostro poeta. Una cassa lasciata in deposito nella casa di Crisobolo, la quale dal di lui figliuolo Erofilo innamorato della giovinetta Eulalia vien data in potere di Lucramo padrone di questa bella schiava, forma un groppo ingegnoso, ed adduce senza stento uno scioglimento felice. Quando l’autore la scrisse in prosa, vi pose un prologo in terza rima, ove dimostra sommo rispetto per gli antichi; ed allora che la ridusse in versi sdruccioli, nel prologo abbellito di vaghe e graziose dipinture si valse del metro medesimo del rimanente. In alcune circostanze le immagini ritratte al vivo par che si scostino dalle caricature de’ nostri giorni; ma chi non sa che di tutta la poesia, la comica è la più soggetta ad alterazioni per le maniere e i costumi? Il Ferrarese valoroso {p. 183}dipintore della natura, il quale imitò i costumi de’ suoi paesani tre secoli indietro, avea quella freschezza di colorito e quella rassomiglianza agli originali che poteva attendersi dal suo pennello, ma che noi venuti sì tardi più non sappiamo rinvenirci. Con simili prevenzioni debbono leggersi i ritratti della vanità ed incostanza delle donne nell’ adornarsi, ove ravvisasi un’ elegante parafrasi del verso Terenziano, Dum moliuntur, dum comuntur, annus est; e poi la dipintura degli effeminati giovinastri che si bellettano come le femmine, la quale per altro troverebbe i suoi ridicoli originali ancor fra noi:

. . . . Anch’essi perdono
Non meno in adornarsi, e fino a mettere
Il bianco e ’l rosso. Fan come le femmine
Tutte le cose: han lor specchi, lor pettini,
Lor pelatoj, lor stuccetti de’ varii
Ferracciuoli forniti: hanno lor bossoli
Lor ampolle e vasetti ecc.

Non è totalmente passata di moda la pittura di certi titolati ridicoli, de’ quali si burla lepidamente, essendosene conservata la razza sino a questi dì, ed avendola dopo di lui trovata Moliere in Francia, e schernita Wycherley in Inghilterra. Il nostro insigne poeta così ne parla:

{p. 184}
. . . . Che fuor che titoli
E vanti e fumi, ostentazioni e favole,
Ci so veder poco altro di magnifico.
Tutto ciò ch’hanno in adornarsi spendono,
Polirsi, profumarsi come femmine,
E pascer mule e paggi, che lor trottino
Tutto dì dietro, mentre essi avvolgendosi
Di quà e di là, le vie e le piazze scorrono,
Più che ognuna civetta dimenandosi,
E facendo più gesti ch’una scimia, ecc.

Ma giova osservare in qual maniera si esprima in questa favola un innamorato. Eulalia lo rimprovera perchè le sembra che non si curi di liberarla; egli punto da ciò manifesta i suoi sensi con tale opportuna esagerazione:

Ch’io non la faccia chiara del grandissimo
Ben ch’io le voglio? e ch’io non la certifichi
Ch’io non amo altra persona, nè voglione
Mio padre, . . . che mio padre? me medesimo
Non ne vo’ trarre ancor, quanto la minima
Parte di lei?

Notisi il calore che spirano le di lui parole, quando sa che gli è stata menata via Eulalia:

{p. 185}

Volp.

Ove ir vuoi tu? che pensi tu far?

Erof.

Vogliola
O riavere, o morire.

Volp.

Non correre
In tanta fretta, Erofilo: ricordati
Che noi siamo in pericolo di perdere
La cassa; attendi a quella, e poi.

Erof.

Che attendere?
Che cassa? Più m’importa la mia Eulalia,
Che quanta roba è al mondo. Ove ti pensi tu,
Ch’abbian presa la via?

Trap.

Di quà mi parvero
Andar.

Volp.

Non ir, padron, che non ti facciano
Qualche male.

Erof.

E che peggio mi potriano
Far, se già m’han levato il cuore e l’anima?

In questa guisa nelle commedie Italiane del cinquecento parlano gl’ innamorati con tutto il calore de’ Panfili o de’ Cherei Terenziani, e ben lontani dalle sottigliezze metafisiche degli Spagnuoli, e dalle tirate e da’ tratti spiritosi de’ Francesi. La natura in quell’animato linguaggio si riconosce, e se ne compiace.

La Lena. Piacevole è l’intrigo di questa commedia, che su di un semplice fondamento aggirandosi produce varj ridicoli colpi di teatro, i quali con tutta naturalezza apportano {p. 186}lo scioglimento. Flavio amante di una giovinetta contratta per lei con la Lena ruffiana inesorabile; e per tenerla contenta fa del danaro impegnando la roba e la beretta. Il servo Corbolo sì per discolparlo del pegno fatto, come per trarre altro danaro da Ilario di lui padre, gli narra una immaginaria sorpresa notturna, la quale nell’atto terzo forma una scena incomparabilmente più graziosa per lo stile e più naturale di quella della galera del Moliere, perchè questo comico Francese la trasse da altri comici, ed Ariosto la copiò dalla natura e ne diede l’esempio a tutti gli altri. La giunteria di Corbolo è sconcertata dalla venuta del Cremonino colla veste di Flavio nelle mani. Corbolo con molte astuzie cerca di puntellare la sua menzogna cadente; ma il vecchio insospettito mena seco il Cremonino per esaminarlo in casa senza che Corbolo possa interromperlo. Flavio intanto che è in casa della Lena, è deluso, ed obbligato a nascondersi in una botte quivi lasciata in deposito. Sventuratamente il padrone di tale botte viene a riprenderla, per dubbio che per gli debiti del marito della Lena, non abbia a pericolare. Ed appunto nel cacciarla fuori (standovi Flavio dentro) sopraggiugne un creditore con gli sbirri, e la vuol torre in pegno. Fazio ch’è il padre di Licinia amata da Flavio, arriva in questo punto, ode il contrasto, {p. 187}si frappone, e per metter pace offre di tener egli la botte in deposito, la fa condurre in sua casa, e ne segue il matrimonio di Flavio e Licinia. Non è questa una commedia nobile; ma nel genere inferiore ha tutte le grazie del viluppo e della piacevolezza de’ colpi teatrali senza discendere sino alla farsa. È da notarvisi ancora che vi si tratta di un intrigo amoroso e di un giovine trovato in casa di una fanciulla onorata, ma non per questo produce risentimento veruno di funeste conseguenze. Or dov’è mai quella gelosia, e quella vendetta Italiana tanto esagerata nella Poetica Francese dal moderno filosofante M. Marmontel come principio universale di tutti gl’ intrighi delle nostre commedie? ma di ciò nella favola seguente.

Il Negromante. Questa commedia (che ci suggerirà alcune curiose osservazioni critiche) e per la vaghezza dello stile e per l’ artifizio del groppo e pel calore e ’l movimento dell’azione e per la vivace dipintura de’ caratteri e per la grazia de’ motteggi, merita che si legga con attenzione che sarà ben compensata dal diletto.

Massimo vecchio astringe il giovine Cintio destinato suo erede a sposare una donna ch’egli non può amare trovandosi preoccupato dall’amore di Lavinia figliuola di Fazio. Cintio obedisce, ma in tutto un mese non si accoppia colla moglie, fingendosi, {p. 188}impotente e sperando di far disciogliere le nozze. Massimo per guarirlo dopo varie pratiche e molti rimedj tentati invano ricorre ad un furbo che passa per astrologo e negromante. Costui cercando di arricchire a spese di Massimo ed anche di Camillo Pocosale innamorato di picciola levatura, senza volerlo fa sì che si manifesti l’amore di Cintio e Lavinia, rimanendo egli scornato e scoperto per impostore.

Delle molte bellezze di questa favola additiamone alcuna che ne sembri più piacevole e più degna di esser notata. Cintio teme che il Negromante colla sua scienza possa scoprire il proprio secreto, e con Fazio e col servo Temolo parla della fama delle di lui opere prodigiose. Cose mirabili (egli dice)

Di lui mi narra il suo garzone:

Tem.

Fateci,
Se Dio v’ajuti, udir questi miracoli.

Cint.

Mi dice che a sua posta fa risplendere
La notte, e il dì oscurarsi.

Tem.

Anch’io so similemente cotesto far.

Cint.

Come?

Tem.

Se accendere
Di notte anderò un lume, e di dì a chiudere
Le finestre . . .
Or sa far altro?

Cint.

Fa la terra muovere
Sempre che ’l vuole.

Tem.

Anch’io talvolta muovola,
{p. 189}
S’io metto al foco, o ne levo, la pentola:
O quando cerco al bujo, se più gocciola
Di vino è nel boccale, allor dimenola.

Cint.

Te ne fai beffe? e ti par di udir favole?
Or che dirai di questo, che invisibile
Va a suo piacere?

Tem.

Invisibile? avetelo
Voi mai, padron, veduto andarvi?

Cint.

Oh bestia,
Come si può veder, se va invisibile?

Tem.

Che altro sa far?

Cint.

De le donne e degli uomini
Sa trasformar sempre che vuole in varii
Animali e volatili e quadrupedi.

Tem.

Si vede far tutto il dì, nè miracolo
E’ cotesto.

Faz.

U’ si vede far?

Tem.

Nel popolo
Nostro . . . .

Faz.

Narraci
Pur come?

Tem.

Non vedete voi che subito
Ch’un divien podestate, commissario,
Notajo, pagador degli stipendii,
Che li costumi umani lascia, e prendeli
O di lupo, o di volpe, o d’alcun nibbio?

Faz.

Cotesto è vero.

Tem.

E tosto ch’un d’ignobile
Grado vien consigliere o segretario,
E che di comandare agli altri ha ufficio,
Non è vero anche che diventa un asino?

Faz.

Verissimo.

Tem.

Di molti che si mutano
In becco, io vo’ tacere.
{p. 190}

Queste trasformazioni satiriche d’uomini in animali sono accennate con somma lepidezza, nè hanno minor grazia comica di quella che osservammo in Aristofane nelle Nubi che prendono varie forme; se non che l’Italiano satireggia con più artificio i ceti interi, e non le persone particolari.

Reca singolar diletto al filosofo che non arzigogola, cioè che ragiona con sicurezza di dati, il rintracciar nelle commedie alcun materiale da supplire alla storia stessa delle nazioni intorno all’alterazioni de’ costumi e delle maniere ed all’epoche de’ loro abusi. Per questo aspetto mirava Platone le Nubi, quando inviò tal favola al re Dionisio per dargli a conoscere gli Ateniesi. Di questa utilità e diletto privansi per certo spirito di superficialità molti Italiani che non curansi di esaminare le ricchezze teatrali che posseggono, contenti di averne false e superficiali notizie nell’opere oltramontane. E che può sapere, per esempio, dell’indole dell’Italica commedia quel meschino Italiano che prende per sua scorta la Poetica Francese del Marmontel, dove trovansi stabiliti principj contraddetti dal fatto? Ecco ciò che con filosofica franchezza disse quel Francese degl’ Italiani: Un popolo che per gran tempo ha posto il proprio onore nella fedeltà delle donne (io son pronto a mostrare ad un bisogno a quest’ enciclopedista, che tutta l’Europa, e singolarmente i {p. 191}Francesi, hanno in certo tempo posto il proprio onore nella fedeltà delle donne), e nella vendetta crudele de’ tradimenti amorosi (e pure dovrebbe sapere l’autore del Belisario che non sono stati Italiani quelli che hanno portato più d’una fiata sulla scena a’ giorni nostri i Fajeli che per gelosia strappano il cuore agli amanti delle Gabrieli di Vergy) per necessità dovè inventa e nelle commedie intrighi pericolosi per gli amanti, e capaci di esercitare la furberia de’ servi. Pongasi da parte che questo maestro di poetica ciò scrivendo non si ricordò de’ Greci e de’ Latini, i quali sono pieni, e ’l sanno i ragazzi, di quest’ intrighi e di questa furberia servile. Osserviamo solo che questo principio è fabbricato sulla rena.

Le commedie da noi chiamate antiche avute dal Sig. Marmontel in pensiero, e non mai sotto gli occhi, sono, per quel che si stà narrando, frutti per la maggior parte del secolo XVI. Ora per verificare il principio posto da questo autore che ha dato al teatro la Cleopatra, bisognerebbe dimostrare, che gl’ Italiani in tal tempo fossero stati, com’ egli immagina, ad esclusione di ogni altro popolo, tutti gelosi e vendicativi. Ma io gli proverò colle medesime commedie, ch’egli anfana a secco, e che non si è curato di bene osservare. Ariosto è il primo ad ismentirlo con tutte le sue cinque commedie, perchè in veruna di esse non si vede pesta {p. 192}di quegl’ intrighi di gelosia e di vendetta funesta da lui urbanamente chiamata Italiana, per essersi dimenticato delle storie delle altre nazioni e della propria. Io gli presento un ritratto del costume Italiano di quel tempo della maniera di conversare insieme l’uno e l’altro sesso, somministratomi dalla favola del Negromante. Ecco quel che dice Cintio a Massimo lodatore della ritiratezza delle donne de’ tempi passati:

. . . . Ma in quali case essere
Sentite donne voi ch’abbiano grazia,
Che tutto il dì non vi vadano i giovani,
Essendo o non essendovi i loro uomini,
A corteggiar?

Mass.

Nè l’usanza è lodevole.
Cotesto al tempo mio non era solito.

Cin.

Doveano al vostro tempo avere i giovani,
Più che non hanno a questa età, malizia.

Mass.

Non già, ma bene i vecchi più accorti erano.
Mi meraviglio ch’al presente gli uomini
Non sieno affatto grossi come tortore.

Cin.

Perchè?

Mass.

Perchè hanno tutti sì buon stomaco.

È questa l’esagerata gelosia Italiana che corre di bocca in bocca tra’ Francesi? E con tal conoscenza de’ costumi Italiani ha fondato il suo filosofico principio della nostra commedia il Signor di Marmontel? Il filosofar {p. 193}sulle arti reca utile alla gioventù e lode al ragionatore; ma col fantasticar su di esse con osservazioni mal digerite si distrugge e non si edifica.

Continuando la ricerca di alcune bellezze e dell’artificio del Negromante, osserviamo che il carattere di Mastro Giachelino furbo vagabondo viene sin dal principio dell’atto II enunciato da Nibio. Egli dice che avendo appena appreso a leggere e scriver male, ha l’arte di spacciarsi per filosofo, alchimista, medico, astrologo e mago, sapendo di tali cose quello stesso

Che sa l’asino e ’l bue di sonar gli organi.

Aggiugne, che egli e ’l maestro vanno come zingari

Di paese in paese, e le vestigie
Sue tuttavia dovunque passa, restano
Come de la lumaca, o per più simile
Comparazion, di grandine, o di fulmine.

Ma si sviluppa affatto il di lui carattere, quando egli stesso parla con Nibio, e svolge la sua economia furbesca nello scorticare differentemente i creduli suoi merlotti, con tal arte e tal grazia, che è da dolersi che la gioventù la quale trascura la lettura di tali commedie, rimanga priva di tante bellezze comiche.

{p. 194}

Or questo furbo così trincato si ha prefisso, giusta le sue regole economiche, di tosar prima a poco a poco Massimo e Camillo, e poi di scorticarli fin sul vivo e fuggirsi. Al primo egli promette di portare in casa una cassa con un cadavere per fare uno scongiuro; e per preparare la stanza alla finta evocazione, domanda di molte ricche tele, argenti, ed altre cose. All’altro promette il possesso dell’ innamorata, purchè si faccia trasportare nella di lei casa in una cassa. Condiscende il Pocosale, e si fa chiudere. Questo maneggio in parte trapelato mette in agitazione Temolo e Fazio già insospettiti del Negromante che prima aveano cercato di guadagnare. Essi temono qualche male da questa cassa, e vedendola portare verso la casa di Massimo si turbano:

. . . .

Faz.

Ah che la cassa arrecano
Che hai detto!

Tem.

Ov’è?

Faz.

Vieni ove sono, e vedila.

Tem.

Chi la porta?

Faz.

Un facchin.

Tem.

Solo?

Faz.

Accompagnala
Pur quel suo servidore.

Tem.

Ecci l’Astrologo?

Faz.

L’Astrologo non ci è.

Tem.

Non ci è?

Faz.

No, dicoti.

Tem.

Lascia far dunque a me.

Faz.

Che vuoi far?

Tem.

Eccola.
Avvertisci a rispondermi a proposito.

Faz.

Che di tu? Ma con chi parl’ io? Ove diavolo
{p. 195}
Corre costui? perchè da me sì subito
S’è dileguato? io credo che farnetichi.

Ma no; Temolo non ha tempo d’istruirlo di ciò che ha pensato, e si ritira, per lasciar venir fuori Nibio con la cassa; indi per allontanarlo di là inventa una fola verisimile, e l’accredita con patetica vivezza. Egli vien fuori esclamando:

O terra scellerata!

Faz.

Di che diavolo
Grida costui?

Tem.

Non ci si può più vivere.
Tutta è piena di traditor.

Faz.

Che gridi tu?

Tem.

E d’assassini.

Faz.

Chi t’ha offeso?

Tem.

O povero
Gentiluomo!

Faz.

Mi par che tu sia ...

Tem.

O Fazio,
Gran pietà!

Faz.

Che pietade?

Tem.

O caso orribile!
Non m’ho potuto ritener di piangere Di compassione.

Faz.

Di che?

Tem.

Aimè d’un povero
Forestier, ch’ho veduto or ora uccidere
D’una crudel coltellata.

Con tal preludio e co’ meriti a Nibio non ignoti del suo padrone, non è molto ch’egli creda che Mastro Giachelino, secondo il racconto di Temolo, sia stato ucciso. Egli vuole accorrere a vederlo, Temolo {p. 196}gl’insegna la via, e poi soggiugne,

Ma che voglio insegnar? Non è possibile
Errar. Va dietro agli altri; grandi, e piccioli
V’accorron tutti.

Nib.

Oh dio?

Tem.

Non posso credere,
Che ’l trovi vivo.

Nibio parte precipitosamente. Temolo per cogliere il frutto della sua astuzia e distruggere i disegni dell’Astrologo, in vece di far entrare la cassa nella casa di Massimo, la fa condurre in quella di Fazio. Torna poi Nibio arrabbiato per essere stato beffato, e cerca della cassa. Graziosissima è la seconda burla che riceve. Fazio gli dice, che il facchino l’ha portata in dogana, cosa verisimile, che spaventa Nibio d’ altra sorte, e lo sbalza verso la dogana; colpi maestrevoli tanto più artifiziosi e piacevoli, quanto più naturali. Un vivo disordine e movimento reca all’azione questa cassa condotta in casa di Fazio. Camillo che v’è rinchiuso, intende il secreto dell’unione degli animi di Cintio e Lavinia, e fugge in farsetto per riferirlo a Massimo. Cintio sommamente afflitto pel caso va in cerca di Camillo per pregarlo di tacere. Fazio gli dice che faccia conto che Massimo abbia già saputo il fatto, essendo iti a lui Camillo ed Abondio. Sono iti? dice Cintio;

{p. 197}

Faz.

Sì, sono.

Cin.

Io son spacciato, io son morto, apriti,
Apriti, per dio, terra, e seppelliscimi.

Ogni parola dà un nuovo moto un nuovo calore alla favola. Cintio disperato pensa a fuggire, egli dice,

Tanto lontano che giammai più Massimo
Non mi rivegga: aspettar la sua collera
Non voglio: addio: vi raccomando Fazio,
La mia Lavinia.

Fermiamoci qualche istante in questo punto dell’azione. Se non è questa la forza (vis) comica da Cesare desiderata in Terenzio, e qual sarà mai? Dessa è appunto, la quale, a quel che io ne penso, non è altra cosa, se non che un movimento proprio della comica poesia, il quale crescendo per gradi senza intermissione, infonda e conservi l’ attività ne’ caratteri, e la vivacità nella favola110. Diede Cesare a tal movimento il nome di forza per contrapporla alla languidezza, {p. 198}mortal veleno della scena: vi aggiunse comica, per dinotare che tale esser debba e nelle situazioni e ne’ colpi di teatro e negli affetti, quale alla commedia si convenga; e con ciò la distinse da quella forza più energica richiesta nelle passioni, e ne’ caratteri della tragedia.

Chi ripose tal forza comica nella copia de’ sali e de’ motteggi, non parmi che si apponesse. Una languidissima favola non mai avrà la forza accennata da Cesare, per quanto sia cospersa di sali e motti graziosi. I pulcinelli, gli arlecchini, i graziosi del teatro Spagnuolo, con tutte le loro possibili lepidezze, non credo che ispirerebbero forza e calore a una favola fredda e dilombata. Della stessa maniera una tragedia languida, lenta, snervata, sarà sempre priva di forza tragica, tuttochè abbondasse di gravi sentenze politiche e morali. Direi che meno di altri critici e precettori di poetica si fosse allontanato dalla mente di Cesare il prelodato Sig. Marmontel, il quale pone la forza comica ne’ gran tratti che sviluppano i caratteri, e vanno a cercare il vizio sino al fondo dell’anima, se l’arte di cogliere questi gran tratti fosse mancata a Terenzio. Ma è troppo noto che il pregio maggiore di questo Cartaginese fu appunto il sapere disviluppare i caratteri, e cercarne le tinte sino al fondo dell’anima. Cesare dunque ad altro ebbe la mira nel richiedere {p. 199}in lui la forza comica; e certamente vi desiderava quel piacevole e comico calore e movimento che anima la favola, e tiene svegliato lo spettatore111.

Or questa forza comica, questa vivacità piacevole dell’azione noi ravvisiamo appunto nel Negromante. Nulla v’ha di freddo, nulla di superfluo. La piacevolezza aumenta a misura che l’azione s’inviluppa, e va crescendo sino all’ultimo grado comico lo scioglimento. Nè dee recare stupore, che per questa parte rimanga il comico Latino superato dall’Italiano. Terenzio, poco o molto che il facesse, piegava il proprio ingegno a seguire le greche guide; e l’attenzione che dava a spiegare le idee altrui, gli toglieva quel portamento originale, libero, franco, vivace, che l’Ariosto inventore manifesta ad ogni tratto112.

{p. 200}

Questa favola fu rappresentata in Roma a’ tempi di Leone X, che la richiese all’autore, il quale nel rimettergliela l’accompagnò con una lettera de’ 16 di gennajo del 1520. Or questa data, e le parole del secondo prologo di tal commedia, ci danno l’epoca delle prime commedie dell’Ariosto. Ivi si dice:

. . . . Questa nuova commedia
Dic’ella aver avuta dal medesimo
Autor, da chi Ferrara ebbe di prossimo
La Lena, e già son quindici anni, o sedici,
Ch’ella ebbe la Cassaria e li Suppositi.
Oh dio! con quanta fretta gli anni volano!

Essa parimente si tradusse in prosa Francese, e s’impresse in Parigi nel medesimo secolo, {p. 201}cioè assai prima che vi si conoscesse il teatro Spagnuolo (Nota XIV).

La Scolastica. Quest’ultima commedia tessuta interamente da Lodovico fu solo da lui verseggiata sino alla quarta scena dell’atto IV, e terminata poi da Gabriele fratello del poeta. Non era stata se non abbozzata dal primo autore (secondo il Pigna ne’ Romanzi), e pure si ravvisa in essa la diversità della seconda mano. Anche Virginio figliuolo dell’autore fu indotto a lavorarvi, e da prima tutta la ridusse in prosa, indi la riscrisse in verso; ma il di lui travaglio si è perduto113.

Eccone il soggetto. Eurialo scolaro in assenza di Bartolo suo padre riceve in casa la sua innamorata Ippolita, facendola passare per figlia di Messer Lazzaro cattedratico che si aspettava, e che per notizie sopravvenute si sapeva di non dover più venire. La rivoluzione nasce graziosamente dal ritorno improvviso del padre di Eurialo, da un famigliare della padrona d’Ippolita, e dall’arrivo di M. Lazzaro. Il servo Accursio e Bonifazio amico di Eurialo vanno {p. 202}alla meglio rimediando agli sconcerti. Venendo M. Lazzaro, il quale non conosce personalmente l’amico Bartolo, Bonifazio ne prende il nome, e come tale lo riceve colla famiglia nella propria casa. Regge così la macchina finchè Bartolo che si trova in istrada, non vede uscir Bonifazio insieme con Lazzaro, e non sente che questi dà all’ altro il nome di Bartolo. Si trova introdotto in questa favola un frate teologo con cui Bartolo si consiglia. Costui trent’anni prima avea ricevuto in deposito molti beni da un suo amico che morì, per renderli alla di lui moglie e figlia. Bartolo si fe sedurre da quell’avere, nè curò di cercare di queste infelici; ed al fine dopo tanti anni scorsi pensa a fare un pellegrinaggio per andarne in traccia, e per espiar la colpa. Il buon teologo (i falsi teologi non pregiudicano a i veri e virtuosi che sono i più, e che nel consigliare non hanno la mira che alla giustizia) l’esorta a risparmiarsi l’incomodo del viaggiare essendo vecchio, ed a consegnarne a lui le spese; e quanto al ritener le altrui ricchezze depositate, conchiude che si potrà commutare in qualche opera pia, non essendovi obbligo sì grande,

Che non si possa scior con l’elemosine.

Trovasi in questa commedia più d’una imitazione {p. 203}di Terenzio. Simile alla risposta data da Davo a Miside nell’Andria è ciò che quì dice Accursio:

Ma non sapete voi che Messer Claudio
Meglio dirà che non ci son, credendosi
Di dir la verità, che conoscendosi
Bugiardo? e meglio le parole vengono
Che si partan dal cuor, che quelle ch’ escano
Sol dalla bocca all’intenzion contraria.

L’olim istuc olim cum ita animum induxti tuum, è ancora imitato nell’atto IV. Un’ altra imitazione Terenziana si scorge nell’allegrezza di M. Claudio. Ma degna di notarsi è singolarmente con quanta verità parlino in essa gl’ innamorati. Nell’atto II una vecchia che conduce Ippolita ad Eurialo, l’esorta ad esser prudente, ed a ben fingere il personaggio di figlia di M. Lazzaro. La giovane promette; ma appena dice Accursio

Ecco la casa là del nostro Eurialo,

che trasportata dice,

O cuor mio caro, o vita mia, difficile
Sarà potermi tener di non correre
Ad abbracciarlo;

e s’incamina con tutta fretta. Sono queste {p. 204}le pennellate maestrevoli che di un sol tratto spiegano tutto quanto è l’ affetto. Ella non cessa di rampognare la tardanza della vecchia coll’ impazienza propria della gioventù e dell’amore.

Altro non aggiugneremo intorno alle commedie dell’Ariosto, se non che egli è sì in gegnosamente regolare e semplice nell’economia delle favole, sì vivace, grazioso e piacevole, sì alle occorrenze patetico e delicato ne’ caratteri e negli affetti, sì elegante e naturale nello stile, e con tanta aggiustatezza e verità dialogizza senza aggiugnere una parola che non venga al proposito, che stimo, che mai non termineranno con lode la comica carriera que’ giovani, che allo studio dell’uomo e della società, per la quale vogliono dipingere, e alla ragionata lettura de’ frammenti di Menandro, e delle favole di Terenzio e di Plauto, non accoppino principalmente quella dell’Ariosto114.

Si novera tralle prime commedie di questo {p. 205}secolo la Calan dra del cardinal Bernardo Dovizio da Bibbiena terra del Casentino, nato nel 1470 e morto non senza sospetto di veleno l’anno 1520. Un pieno applauso riportò questa favola nelle replicate rappresentazioni che se ne fecero in Italia, ed anche in Francia. Apostolo Zeno narrò col seguente ordine le recite della Calandra in Italia: la prima in Roma a’ tempi di Leone X; la seconda in Mantova l’anno 1521; la terza di nuovo in Roma quando vi venne Isabella d’Este Gonzaga marchesa di Mantova; e l’ultima volta in Urbino115. Probabilmente però la prima di tutte le recite fu questa di Urbino, come ben riflette l’insigne Storico della nostra letteratura116; giacchè il Castiglione dice di questa recita che non essendo ancor giunto il prologo del Bibbiena, aveane egli composto uno, la qual cosa può indicare che la di lui commedia fosse scritta di recente, anzi non del tutto compiuta. Le parole colle quali si conchiude l’argomento che vi è apposto dopo il prologo, indicano che la rappresentazione non si faceva in Roma, ma in un’ altra città. Nel parlarsi de’ gemelli si dice {p. 206}che essi sono in Roma, e che gli spettatori vedranno comparirli nella propria loro città. Nè crediate però (si soggiugne) che per negromanzia sì presto da Roma vengano quì . . . . perciocchè la terra che vedete quì (cioè nella scena) è Roma, la quale già esser solea sì ampla . . . . e ora è sì picciola diventata, che, come vedete, agiatamente cape nella città vostra. L’altra recita si fece in Roma alla presenza di Leone X, per quel che accenna il Giovio nella di lui Vita, e le magnifiche scene furono opera di Baltassarre Peruzzi Sanese117; ed allora fu che v’intervenne anche la nominata marchesa di Mantova, costando da una delle lettere inedite del Castiglione conservate in Mantova, che ella fu in Roma nel 1514, cioè su i principj del pontificato di Leone X118. La terza recita seguì in Mantova avanti alla medesima marchesa nel 1521, siccome afferma il Signore Zeno coll’ autorità di Mario Equicola. Fu poi rappresentata in Lione nel 1548 in presenza del re Errico II e della regina Caterina Medici dalla nazione Fiorentina, e quei sovrani {p. 207}distribuirono agli attori un regalo di ottocento doppie; e ciò anche accadde più di un secolo prima che i Francesi conoscessero Castro, Lope e Calderon.

Si premette all’azione un prologo ed un argomento. Si espone nel primo la qualità della favola, ed in fine si dà una graziosa discolpa dell’ accusa che si potria fare all’autore di essere ladro di Plauto. A Plauto (si dice) staria molto bene lo essere rubato, per tenere il moccicone le cose sue senza una chiave, senza una custodia al mondo. Tuttavolta con giuramento si aggiugne di non averglisi furato cosa veruna; e che ciò sia vero, si cerchi quanto ha Plauto e troverassi che niente gli manca di quello che aver suole. Coll’ argomento poi narrato da un altro attore viene l’uditorio instruito che la favola si aggira sulle avventure di due gemelli nati in Modone, l’uno maschio chiamato Lidio, l’altra femmina per nome Santilla, di forma e di presenza similissimi, i quali nella presa fatta da’ Turchi della loro patria rimangono divisi sin dalla fanciullezza, e per varj casi, senza che l’uno sappia dell’ altro, giungono in Italia, apprendono la lingua del paese, e Santilla vi dimora in abito virile col nome del fratello. Dopo alcuni scambiamenti avvenuti per l’amorosa follia di Fulvia moglie del dissennato Calandro (onde la favola prende il nome) i fratelli lietamente si riconoscono. {p. 208}Calandro che ha veduto Lidio vestito da femmina quando visitava la moglie, se n’è anch’egli mattamente innamorato.

Lo stile puro ed elegante della Calandra non può essere nè più grazioso nè più proprio per gli personaggi che vi s’imitano. I caratteri vi sono dipinti con brio e verità, e nelle passioni mediocri che vi si maneggiano, si manifesta in bel modo la ridicolezza che ne risulta. Soprattutto è dipinta al vivo la scempiaggine di Calandro che rassomiglia al Tofano del Boccaccio. Piacevoli sono i dialoghi che fa coll’ astuto Fessenio che se ne burla e l’aggira. Egli l’ha persuaso ad andar chiuso in un forziero a vedere la sua fanciulla; egli in altra scena passa più avanti, e gli dà a credere, che possa morire e resuscitare a sua posta, e così gliene insegna il modo:

Fes.

Tu sai, Calandro, che altra differenza non è dal vivo al morto, se non in quanto che il morto non si muove mai e il vivo sì; e però, quando tu faccia come io ti dirò, sempre risusciterai.

Cal.

Di su.

Fes.

Col viso tutto alzato al cielo si sputa in su, poi con tutta la persona si dà una scossa, poi si apre gli occhi, si parla, e si muove i membri: allor la morte si va con Dio, e l’ uomo {p. 209}ritorna vivo. E stà sicuro, Calandro mio, che chi fa questo, non è mai morto . . . .

Calandro contentissimo pruova a morire e rivivere col bel secreto. Fessenio gli dice che guardi a farlo bene:

Cal.

Tu ’l vedrai. Or guarda: eccomi.

Fes.

Torci la bocca; più ancora; torci bene; per l’altro verso; più basso . . . . Oh ob, or muori a posta tua. Oh bene. Che cosa è a far co’ savj! chi avria mai imparato a morir sì bene come ha fatto questo valentuomo, il quale muore di fuora eccellentemente? Se così bene di drento muore, non sentirà cosa che io gli faccia, e conoscerollo a questo. Zas: bene. Zas: benissimo. Zas: ottimo. Calandro, o Calandro, Calandro?

Cal.

Io son morto, io son morto.

Fes.

Diventa vivo, diventa vivo: su, su, che alla fe tu muori galantemente. Sputa in su.

Ed ecco che i lavaceci Italiani hanno la fisonomia de’ Pourceaugnac Francesi, nè è a noi mancato un pennello nazionale che abbia saputo ritrarli un secolo e mezzo prima de’ Molieri.

Ma sebbene tutto fia comico e pîacevole {p. 210}in questa favola e tutto lontano dalla decantata gelosia e vendetta Italiana, non a torto però il dotto Lilio Gregorio Giraldi nel confessare che essa abbondi di sali e facezie, affermò che mancava d’arte. L’intrigo non è di quelli che ben concatenati prestano all’azione forza ed interesse. In molte sue parti si desidera quel verisimile che accredita le favole sceniche e chiama l’attenzione dello spettatore. Non si vede, per darne qualche esempio, nell’atto I la ragione, per cui Fulvia che altre volte ha avuto in casa Lidio vestito da femmina, pretenda poi che Ruffo per via d’incanti lo trasformi in femmina per l’istesso intento; e perchè non usa del modo più agevole già praticato? Allora che nell’atto V i fratelli di Calandro ci hanno colto Lidio e Fulvia insieme, non si vede chiaro, come nel tempo che si aspettano i di lei fratelli, sieno gli amanti così mal custoditi, che possa a Lidio sostituirsi Santilla per far rimaner Calandro scornato, e riuscire la riconoscenza de’ gemelli;

Quodcumque ostendis mihi sic, incredulus odi.

Meglio condusse il Boccaccio la novella di Tofano, in cui si vede un’ avventura simile, e che suggerì al Moliere la piacevole farsa di George Dandin. Il pudore poi richiesto {p. 211}ne’ moderni colti teatri vuol che si schivino gli amorazzi di Fulvia; come altresì le scene equivoche della natura di quella di Samia chiusa con Luscio119; poichè quivi il Dovizio imita anzi l’oscenità di qualche passo della Lisistrata di Aristofane, che la piacevolezza di Plauto. In oltre Fessenio che incomincia l’atto III dicendo, ecco, spettatori, le spoglie ecc. segue i nominati comici antichi, ma si allontana anche per questa ragione da Terenzio universalmente approvato, il quale mai non si rivolge agli spettatori. Tutte queste cose, delle quali niuna se ne scorge nelle commedie dell’Ariosto, rendono a’ miei sguardi il gran poeta Ferrarese di gran lunga superiore al cardinal Bibiena nella poesia comica.

Quasi al medesimo tempo scrisse le sue commedie il celebre segretario Fiorentino Niccolò Machiavelli nato in Firenze nel 1469 e morto nel 1547. Egli compose la Mandragola, la Clizia e l’Andria.

La Mandragola. La freschezza e la vivacità del colorito di questa favola, se l’oscenità dell’argomento non la tenesse lontana da’ moderni teatri, potrebbe rendere accorti i forestieri di quanto abbiano gl’ Italiani preceduto la nazione Francese nella {p. 212}bella commedia di carattere. L’autore vi morse alcuni viventi cittadini, le orme calcando di Aristofane. Volle ancora esporvi alla berlina l’abuso fatto da un tal Timoteo del credito dovuto a certo stato rispettabile; e quantunque se ne potesse con copiosi esempi giustificar la pittura, pure ad onor del tutto consiglia la prudenza a risparmiar la parte mal sana e a non motteggiarla in iscena, affinchè dagl’ inesperti o maligni non se ne traggano scandalose conseguenze generali. Essa non per tanto allora si fece e si rappresentò in Firenze con tal plauso generale, che giusta il racconto di Paolo Giovio120 “i medesimi cittadini proverbiati e punti altissimamente nella favola di Nicia soffrirono con pazienza l’ ingiuria e la marca che gli segnava, in grazia della mirabile urbana piacevolezza; e Leone X che da cardinale l’avea veduta nella patria, volle goderla anche in Roma essendo papa, e v’invitò gli attori stessi, e vi fe trasportar anche l’intero apparato comico, col quale erasi in Firenze rappresentata”. Il Giovio chiama Nicia questa favola, perchè n’è il personaggio principale il balordo M. Nicia Calfucci, il quale cade nella sciocchezza {p. 213}di dare alla bella sua moglie una pozione di mandragola colle circostanze che l’accompagnano, per averne un figliuolo maschio. Un prologo in versi serve a dar conto della qualità della scena, dell’azione e degl’ interlocutori. Vi si dice fralle altre cose:

La favola Mandragola si chiama:
La cagion voi vedrete
Nel recitarla, com’ io m’indovino.
Non è il compositor di molta fama;
Pur se voi non ridete,
Egli è contento di pagarvi il vino.

Nè vano è questo vanto della piacevolezza che promette, che ridicolissima essa riesce per tutte le sue parti. Per conoscere M. Nicia che avrà la ventura di aver de’ figliuoli, vedasi uno squarcio della seconda scena dell’atto I. Ligurio parassito gli dice, ch’egli forse avrà briga di andar colla moglie a’ bagni, perchè non è uso a perdere la cupola di veduta.

Nic.

Tu erri. Quando io ero più giovane, io sono stato molto randagio, e non si fece mai la fiera a Prato, che io non v’ andassi, e non ci è castel veruno all’intorno, dove io non sia stato; e ti vo’ dire più là; io sono stato a Pisa e a Livorno, o và.

Lig.

Voi dovete avere veduta la carrucola di Pisa.

{p. 214}

Nic.

Tu vuoi dire la verrucola.

Lig.

A sì, la verrucola. A Livorno vedeste voi il mare?

Nic.

Ben sai che il vidi.

Lig.

Quanto è egli maggior che Arno?

Nic.

Che Arno? Egli è per quattro volte, per più di sei, per più di sette, mi farai dire; e non si vede se non acqua, acqua, acqua.

Nella scena undecima dell’atto terzo si trovano a maraviglia espresse le apparenti ragioni usate dagl’ impostori seduttori per indurre la credula innocenza a cadere in fallo. Tutti i discorsi dello scempio Dottore

Che ’mparò in sul Buezio leggi assai,

hanno somma grazia, e rilevano la di lui goffaggine senza bisogno di sforzo veruno istrionico per far ridere, come non rare volte si nota ne’ migliori comici stranieri. Soprattutto è da vedersi il di lui carattere in ciò che dice di sua moglie nella scena ottava dell’atto IV, quanti lezj ha fatto questa mia pazza ecc. Ligurio anche graziosamente motteggia sull’avventura di Nicia, stando in aguato egli, Nicia stesso, Siro e Frate Timoteo travestiti per cogliere alcuno giovinaccio spensierato per lo bisogno che ne hanno:

{p. 215}

Lig.

Non perdiam più tempo quì. Io voglio essere il capitano, ed ordinare l’esercito per la giornata. Al destro corno fia preposto Callimaco, al sinistro io, tralle due corna starà quì il dottore; Siro fia retrogrado per dare sussidio a quella banda che inclinasse; il nome fia San Cocu.

Nic.

Chi è San Cocu?

Lig.

E’ il più onorato santo che sia in Francia.

L’atto IV si conchiude colle parole di F. Timoteo indirizzate agli spettatori, le quali a parer mio distruggono l’illusione teatrale sino a questo punto mirabilmente sostenuta. Aristofane e Plauto seducevano gli eruditi comici del secolo XVI.

Se si attenda alla felicissima dipintura de’ caratteri introdotti che non può migliorarsi, e all’ardita satira de’ licenziosi costumi allora dominanti, e a i sali e alle grazie dello stile, noi converremo di buon grado col celebre conte Algarotti che in essa ritrova la eleganza del dire di Terenzio e la forzæ comica di Plauto. Ci scommetterei (egli aggiugne) che avrebbe mosso a riso l’istesso Orazio, a cui non garbeggiavano gran fatto i sali Plautini. Essa fu tradotta in Francese dal celebre Giambatista Rousseau, encomiata per l’intreccio e per lo vero comico dal Sig. di Voltaire, e ammirata da M. {p. 216}il primo a portare in iscena gli amori de’ pescatori.

Il più volte nominato Cieco d’Adria ebbe il vantaggio, disse Apostolo Zeno, di comporre una pastorale prima del Guarini e dopo del Tasso, intitolata il Pentimento amoroso. Ma questa si pubblicò in Venezia nel 1583, ed io trovo, che nella stessa città un’ altra se ne impresse nel 1581 di Aluise Pasqualigo detta gl’ Intricati, la quale, come appare dalla dedicatoria fattane al principe dell’Accademia Olimpica, ed anche dal prologo, era stata rappresentata qualche anno prima a Zara. È un cattivo componimento fondato sopra incantesimi che producono nojose e inverisimili situazioni, e vi s’introducono per buffoni Calabaza Spagnuolo e Graziano Bolognese che parlano ne’ proprj idiomi. Altro dunque non ha di notabile che di aver preceduto il Pentimento amoroso. Il Groto scrisse indi un’ altra pastorale intitolata Calisto pubblicata per le stampe nel 1586.

Contemporanea al Pentimento fu la Danza di Venere di Angelo Ingegnieri. Era stata già rappresentata in Parma in presenza di Ranuccio Farnese giovanetto nel 1583, quando fu dedicata alla nobile Camilla Lupi che vi sostenne la parte d’Amarilli; e si stampò poi nell’ anno seguente in Vicenza. L’intreccio è più complicato dell’Aminta, e si sviluppa con un’ agnizione. Venere {p. 217}languidezza. Ciò che dice poi dell’oscenità di tali commedie, potrebbe sì bene esser questa giusto motivo di vietarne la lettura a’ fanciulli, ma non già una prova contro la loro prestanza. Oltrechè starà bene il riprendere le laidezze della Mandragola a chi si fa prolissamente il panegirista dell’osceno benchè puro ed elegante libro della Celestina ruffiana famosa?

La Clizia. É questa una libera imitazione o una bella copia della Casina di Plauto o di Difilo. Nel prologo che è in prosa come tutta la commedia, lo confessa l’istesso autore. Egli dice, che un caso anticamente avvenuto in Grecia, è poi seguito anche in Firenze: E volendo questo nostro autore l’uno delli due rappresentarvi, ha eletto il Fiorentino . . . Prendete intanto il caso seguito in Firenze, e non aspettate di riconoscere o il casato o gli uomini, perchè l’autore per fuggire carico ha convertiti i nomi veri ne’ nomi finti. Passa indi a discolparsi, se ad alcuno paresse esservi cosa men che onesta, benchè egli non creda che vi sia; ma quando pur vi fosse, sarà in modo detta, che queste donne potranno senza arrossire ascoltarla.

Parmi che dalla prima scena possa rilevarsi che si sia tal commedia rappresentata intorno al 1506. In narrando Cleandro a Palamede quando e in qual modo venne in casa la Clizia, dice: Quando dodici anni {p. 218}sono nel 1494 passò il re Carlo per Firenze, che andava con un grande esercito all’impresa del regno, alloggiò in casa nostra uno gentiluomo della compagnia di monsignor di Fois chiamato Beltramo di Guascogna. Dalla terza scena poi dell’atto II, in cui altercano Sofronia e Nicomaco, parmi che si vegga che l’autore compose prima la Mandragola. Nicomaco propone alla moglie di prendere per arbitro de’ loro domestici dispiaceri sulle nozze di Clizia, qualche religioso. A chi andremo? dice Sofronia.

Nic.

E’ non si può ire a altri che a F. Timoteo, che è nostro confessore di casa, ed è un santarello, ed ha già fatto qualche miracolo.

Sof.

Quale?

Nic.

Come quale? Non sai tu che per le sue orazioni Monna Lucrezia Calfucci che era sterile, ingravidò?

Questo motto non riuscirebbe grazioso e vivace, se per la passata commedia non fosse nota la novella di Nicia.

Tralle dipinture lodevoli di questa favola ci si presentano i bellissimi ritratti del buon padre di famiglia e del traviato coloriti egregiamente nella quarta scena dell’atto II fatti da Sofronia nella persona stessa di Nicomaco, vivi, veri, naturali, senza massime generali, senza sforzi di spirito, senz’affettazioni, {p. 219}senza tirate istrioniche da Pantalone.

Calca l’autore, come si è detto, le tracce della Casina latina; ma senza dubbio ne migliora di molto l’economia e ne accresce la verisimiglianza, specialmente nello scioglimento colla venuta del padre di Clizia. Il Machiavelli ha fatto con molta felicità della Casina quello che Plauto stesso e Cecilio e Nevio e Terenzio ed Afranio fecero delle favole greche. E sarebbe a desiderare che nella nostra illuminata età, in vece di farsi scempiate traduzioni delle favole Plautine, se ne facessero sulle orme del Machiavelli fresche imitazioni libere che si rendessero interessanti appunto per adattarvisi l’espressioni latine ai costumi moderni. I Francesi stessi e la conobbero e la pregiarono e ne ragionarono con senno e buongusto, ancor prima di conoscere i drammatici Spagnuoli. E latina bona (disse Balzac121) hetruscam fecit meo judicio non malam. Clitia siquidem illius eadem est quae Plauti Casina. Alcune cose (e’ soggiugne) fedelissimo interprete ne rendette quasi da verbo a verbo, altre ne corresse con arte, molte ne imitò con singolare felicità, qualcheduna però ne trascrisse aut impudenter {p. 220}aut perverse. E per esempio di ciò che ne dice in ultimo luogo adduce il passo della scena quinta dell’atto II della Casina, Quid istuc est, quicum litigas, Olympio, che il Machiavelli traduce ed imita nella sesta dell’atto III della sua Clizia:

Pirr.

Prima che io facessi ciò che voi volete, io mi lascerei scorticare.

Nic.

La cosa va bene. Pirro stà nella fede. Che hai tu? Con chi combatti tu, Pirro?

Pirr.

Combatto ora con chi voi combattete sempre.

Nic.

Che dice ella? che vuole ella?

Pirr.

Pregami ch’io non tolga Clizia per donna.

Nic.

Che l’hai tu detto?

Pirr.

Ch’io mi lascerei prima ammazzare che la rifiutassi.

Nic.

Ben dicesti.

Pirr.

Se io ho ben detto, io dubito non avere mal fatto; perchè io mi sarò fatta nemica la vostra donna, e il vostro figliuolo, e tutti gli altri di casa.

Nic.

Che importa a te? Stà ben con Cristo, e fatti beffe de’ santi.

Pirr.

Sì, ma se voi morissi, e’ santi mi tratterebbero assai male.

Quest’ultima espressione stà ben con Cristo ecc. parve a Balzac meno castigata; e veramente {p. 221}non può negarsi che avrebbe potuto esporsi con minor impudenza o irriverenza. Non per tanto la veste allora addossata in Italia alla Casina, ha la foggia, il colore, i fregi, tutto vivace e moderno, e sì ben rassettata, che par nativa di Firenze e non della Grecia; per le quali cose tira l’ attenzione di chi legge o ascolta, e l’interesse che risveglia la preserva dalla pretesa lentezza e dal languore.

Questa commedia in prosa è accompagnata da sei corte canzonette. La prima va innanzi al prologo, ed è cantata da una ninfa e da due pastori; le altre cinque ancor di questa più corte son poste per tramezzi nella fine di ciascun atto. Adunque coloro che pretendono, sol perchè l’asserirono la prima volta, trasformare le pastorali del XVI secolo in opere in musica per sapere che vi furono poste in musica le canzonette de’ cori, dovrebbero contare ancora tralle opere musicali questa commedia in prosa del Machiavelli per la medesima ragione; la qual cosa sarebbe una rara scoperta del secolo XVIII.

Oltre a questa libera imitazione della Casina si provò il Machiavelli a fare anche una pretta traduzione dell’Andria di Terenzio, la quale parmi che per la prima volta si sia impressa nell’ edizione di Parigi delle di lui opere che porta la data di {p. 222}Londra del 1768. Se questo celebre segretario Fiorentino ignorò il latino linguaggio, come si è preteso, certamente ciò non apparisce nè dalle sue riflessioni politiche sulla storia di Tito Livio, nè da questa traduzione dell’Andria.

Intorno a cinquanta altri letterati non volgari produssero in tal secolo ben regolate e piacevoli commedie parte in prosa e parte in versi, le quali forse passano il numero di centotrenta. Noi faremo menzione della maggior parte di esse, senza trattenerci su di tutte lungamente. Non perchè tutte non ci presentino pregi degni da osservarsi; che ingegnose e regolari esse sono, e in grazioso e sempre puro stile da’ Toscani e non Toscani dettate; ma unicamente perchè non permette tante minute ricerche e continue pause un racconto che abbraccia tante età e nazioni e tanti generi di drammi. Ci arresteremo dunque in alcune più notabili per qualche ragione che interessi ed instruisca.

Tra’ primi nostri letterati che ci arricchirono di ottime commedie, contisi il nobilissimo poeta Ercole Bentivoglio per nascita Bolognese, ma Ferrarese per domicilio, essendo stato d’anni sette e qualche mese nel 1513 condotto dal padre alla corte del duca Ercole d’Este suo suocero. Questo illustre letterato morto in Venezia d’anni {p. 223}sessantadue nel 1572122, che nella satira e nella commedia si avvicinò di molto al principe de’ nostri poeti Lodovico Ariosto suo amico, compose tre commedie il Geloso, i Fantasmi e i Romiti, e una tragedia intitolata Arianna mentovata dal Ghilini, le quali probabilmente si rappresentarono nel teatro ducale di Ferrara. Il Geloso e i Fantasmi videro la luce delle stampe nel 1545; ma de’ Romiti e dell’Arianna non ci è rimasto che il nome.

Il Geloso. Avrebbe mai il glorioso maestro della Poetica Francese, nel parlar della gelosia e vendetta delle commedie Italiane, avuto in pensiere questa favola? Quì in fatti abbiamo un vecchio medico geloso ingiustamente della moglie. Quegl’ intrighi pericolosi per gli amanti atti ad esercitar le furberie de’ servi, i quali non abbiamo potuto finora rinvenire nell’Ariosto, nel Bibbiena e nel Machiavelli, regneranno per avventura come nel proprio elemento in questa favola del Bentivoglio che di proposito dipinge un geloso? Vediamolo.

Ermino incerto della fedeltà della moglie, per assicurarsene, finge un’ assenza di un giorno o due; e soccorso da uno ch’egli {p. 224}crede mercatante, si traveste, appiccasi al mento una finta barba nera per coprir la sua ch’è bigia e va a mettersi in aguato all’uscio di dietro della propria casa. Il creduto mercatante ch’è un furbo, per ajutar Fausto giovane innamorato di Livia nipote del medico, lo consiglia a travestirsi colle vesti che gli ha lasciate Ermino, perchè senza difficoltà venga nella di lui casa ammesso. Fausto travestito sul punto di picchiare è trattenuto prima da una donna che toltolo pel medico vuole che vada a visitar suo marito infermo, indi da due palafrenieri di un cardinale che il chiamano da parte del padrone, e finalmente da un servo di casa pieno di vino, per cui è costretto a ritirarsi. Rimpatria intanto nello stesso giorno Folco fratello d’ Ermino, che di soldato divenuto mercatante, di povero schiavo ricco e libero, viene a rivedere la sua famiglia. Picchia: ma il servo ubbriaco, dopo aver detto che Ermino è morto di peste e che Livia è fuggita via, serra l’uscio, ed il lascia fuori pieno di sospetti. Egli però si sovviene di aver per ventura conservata una chiave dell’uscio di dietro della casa, e pensa per quella introdursi. Il medico che stà in osservazione vede entrare questo mercatante in casa senza raffigurarlo, si dispera, vuol ire su a cogliere sul fatto la moglie, batte la porta, ma non essendo ravvisato dalla fante per essere nella guisa {p. 225}accennata travestito, è ingiuriato ed escluso. Ripigliate le sue vesti, e toltasi la finta barba, va in casa, trova il fratello, si disinganna, chiede perdono alla moglie del torto che le faceva col sospettar di lei, e si conchiude il matrimonio di Livia con Fausto.

Sono questi gl’ intrighi pericolosi e le stragi che somministrano la gelosia e la vendetta Italiana? Sono essi più pericolosi, non dico de’ Fajeli d’ultima data, ma del Principe geloso, di Sganarello e di Giorgio Dandino, che da circa un secolo e mezzo si rappresentano in Francia, dove giusta il pensare del Marmontel, non vi dee essere nè gelosia nè vendetta? Nè il Geloso del Bentivoglio avrebbe dovuto essere da lui ignorato, per poco che avesse l’uso di fornirsi di dati certi prima di fondar principj filosofici; mentre le poesie e le commedie di questo nostro illustre scrittore s’ impressero in Parigi dal Furnier l’anno 1719, e si dedicarono da Giuseppe di Capoa a monsignor Cornelio Bentivoglio d’Aragona nunzio di Clemente XI al re Cristianissimo.

L’argomento di questa favola è nuovo. L’autore stesso dice nel prologo che si è sforzato di comporre una commedia

Nuova d’invenzione e d’argomento,
Non tolta da Latin nè Greco autore,
Non mai più udita nè veduta in scena;
{p. 226}
Il suo nome è il Geloso. Questa è Roma. ecc.

E sia questa una delle tante evidenti prove per ismentire quegl’ imperiosi critici filosofi di buongusto, i quali tacciano senza conoscerle tutte le nostre antiche commedie, come se fossero state sempre fredde e languide copie e traduzioni de’ Greci e de’ Latini.

Tralle grazie comiche di questa favola son da notarsi gl’ impedimenti che sopravvengono a Fausto nell’atto III, ne’ quali si rinviene la piacevolezza degl’ Importuni (les Facheux) del Moliere, ma col maestrevole vantaggio che essi sono utili a fare avanzar con moto l’azione. Il discorso di Ermino ingannato dalle apparenze nella quinta scena dell’atto IV, è proprio, naturale, vivace ed elegante. Piacevole è nella scena seguente il di lui contrasto colla Nuta non essendo da lei raffigurato. Buona ed imitata da un frammento di Plauto è pure la disperazione di Fausto che nella scena quarta dell’atto V vuole andar via per vincere la propria passione; e bella è poi la quinta in cui riceve la notizia del suo conchiuso matrimonio con Livia. Macro congedando gli spettatori mostra lo scopo morale della favola:

Voi che avete moglier giovane e bella,
Da lui pigliate esempio, e non ne siate
{p. 227}
Gelosi più, che certo fate peggio;
Perchè il più delle volte è temeraria
La gelosia che vi presenta cose
Che ’n effetto non sono; e non è doglia
Nè miseria di lei peggiore al mondo.

I Fantasmi. Una libera elegante imitazione della Mostellaria di Plauto si ammira in quest’altra favola del Bentivoglio. Egli che pur sapeva sì bene inventare e disporre senza altra scorta che la natura, volle non per tanto dare un bell’ esempio del modo di trasportare nelle moderne lingue le antiche favole con grazia e con franchezza e vivacità di colorito nelle maniere. Nel prologo mostra gran rispetto per la dotta antichità. Noi, dice, nulla faremo di perfetto, se dietro a i di lei vestigj non andremo:

Che come uno scultore, un dipintore
Non potrà mai dipignere, o scolpire
Figura ond’abbia onor, se pria non vede
E le sculture e le pitture antiche
Di cui tolga il model; così ancor noi
Non possiam fare alcuna cosa bella,
Se quest’antichità per nostro specchio
Non ci mettiamo innanzi.

Lo stile è al solito felice ed elegante da per tutto, di che molti passi assai belli si potrebbero addurre in pruova; ma ci contenteremo {p. 228}di un solo dell’atto III, cioè di una parte del racconto che fa il servo al vecchio Basilio intorno ai fantasimi che gli dà a credere che appajono nella loro casa. Accorro, egli dice, a i gridi di Fulvio, e gli domando,

Che avete? che vi duol, padron mio caro?
Su su (disse ei tremando come foglia
E pallido nel viso come un morto)
Datemi le mie calce e ’l mio giubbone,
Ch’io non voglio dormire in questa casa,
Nè mai più porvi alla mia vita il piede.
Voi dovete sognar: Che v’è incontrato?

Nol posso dire, egli mi risponde, prima de’ nove giorni, e vestitosi si va di buon passo a dormir con Flaminio suo amico; io resto con più sonno che paura, ridendo e compassionandolo.

Così mentre di lui meco sol penso,
E che mi chino a spegner la lucerna
Col destro braccio, ch’era sulla panca,
E col suo lume mi toglieva il sonno,
Sento un subito strepito, il maggiore
Che mai sentissi alla mia vita, e veggo
L’uscio che s’apre da sua posta, ch’io
Pur dianzi chiuso avea col chiavistello.

Basil.

Miracolo! oh dio! ch’è quello ch’odo?

Ne.

Poi veggo un uom, che del sepolcro uscito
{p. 229}
Allor allor verso il mio letto viene.
Pelle nè carne avea, ma le ossa sole,
Ch’eran cinte da vermi e da serpenti;
E la squallida barba, e li capelli
Tutti di sangue avea macchiati e tinti.
Io vi lascio pensar s’ebbi paura.

Basil.

Io di paura sarei morto allora.

Ne.

Negro (disse ei con spaventevol voce.)
Or odi quel che ancora a Fulvio ho detto:
Non mettete mai più quà dentro il piede,
Ch’io non vi lascerò riposar mai
Giorno nè notte, ch’io son quì sepolto,
E starvi mi conviene eternamente.

In questa guisa arricchirono gl’ Italiani la propria lingua delle antiche invenzioni, e rendettero le belle espressioni antiche interessanti per li moderni, sapendo dar loro (con pace anche quì del Sig. Andres) un’ aria fresca, delicata, moderna e tutta lontana dalla lentezza e dal languore. L’eleganza e la facilità di esprimersi e di verseggiare del Bentivoglio riscosse da’ più dotti contemporanei le meritate lodi. Il Lollio, il Pigna, il Giraldi, il Doni, il Varchi, il Domenichi applaudirono a tutte le di lui poesie e soprattutto alle commedie. Il più vicino all’Ariosto per la commedia di quel tempo egli è senza dubbio questo nobile scrittore, il quale nell’elezione poi del metro ha vinto l’istesso immortal cantore {p. 230}del Furioso. Egli gareggiò pure con felicità grande colla Clizia del Machiavelli, per aver sì acconciamente avvicinata l’antica Mostellaria ai nostri costumi; e lo superò ancora colla sempre dilettevole difficoltà del verso, onde accrebbe leggiadria e vaghezza ai suoi Fantasimi.

Cinque commedie compose allora Pietro Aretino che si discostano dalle commedie degli antichi, e dipingono costumi moderni con motti osceni e con amarezza satirica, il Marescalco, l’Ippocrito, il Filosofo, la Cortigiana, e la Talanta. Il Marescalco pubblicato nel 1530 è una lunga commedia di cinque atti priva d’azione, di vivacità ed interesse, benchè sottoposta alle leggi teatrali del verisimile; e consiste nell’estrema avversione che ha un Marescalco al matrimonio posta alla tortura dal di lui padrone con fingere di avergli destinata moglie con ricca dote, la qual poi trovasi essere un paggio vestito da femmina. Questa commedia, e l’Ippocrito impresso nel 1542, e ’l Filosofo uscito nel 1549 furono da Jacopo Doroneti pubblicate nel seguente secolo sotto nome del celebre Tansillo coi titoli del Cavallerizzo, del Finto e del Sofista; ma è ben noto che fu impostura scoperta poi dal Crescimbeni. La Cortigiana altra lunghissima commedia di cinque atti tessuta di molte scene oziose mordacissime ed aliene dal fatto, contiene due azioni staccate di {p. 231}poco momento e di niuno interesse, i cui passi rispettivi senza dipendenza tra loro si succedono alternativamente. Vi si pongono alla berlina due personaggi ridicoli, cioè un Sanese scempiato che viene in Roma per farsi cardinale imparando prima ad esser Cortigiano, da che nasce il titolo della commedia, ed un Signor Parabolano Napoletano sciocco, vano ed innamorato aggirato da una ruffiana e da un furbo suo servidore. Francesco Buonafede altro impostore letterario che avea data alla luce la Talanta altra commedia dell’Aretino nel 1604 col titolo di Ninetta, pubblicò anche la Cortigiana nel 1628 col titolo dello Sciocco, attribuendole ambedue al faceto poeta Cesare Caporali123. Queste commedie non possono notarsi di veruna superstiziosa cura di rendere Italiane le maniere latine, e non pertanto mancano di ogni vivacità; il che pruova contro del Sig. Andres, che la lentezza ed il languore provengono da tutt’altra fonte che dallo studio di adattare le antiche frasi alle moderne lingue.

L’Arcivescovo di Patras Alessandro Piccolomini nato nel 1508 da collocarsi tra gli uomini illustri del cinquecento, oltre a {p. 232}tante opere riferite dal Ghilini e meglio dal Tiraboschi, compose tre commedie in prosa. La prima intitolata l’Amor costante fu recitata nel 1536 in presenza dell’ imperador Carlo V quando entrò in Siena, e s’impresse nel 1559. La seconda è l’Alessandro che si stampò nel 1553. L’Ortenzio che fu la terza, si rappresentò nel 1560 entrando in Siena il duca Cosimo I, e si pubblicò per le stampe l’anno 1571. Trovansi parimente impresse tralle sei degli Accademici Intronati di Siena uscite nel 1611. Giovanni Imperiali nel Museo Istorico parla delle due prime con molta lode, e cita Trajano Boccalini, da cui stimavasi il Piccolomini come principe de’ poeti comici Italiani. Egli però seguì Plauto ed Aristofane nel far che gli attori s’indrizzino agli spettatori. Panzana nell’Amor costante dice: Scoppio di voglia di ridere, e per rispetto de’ forestieri tengo la bocca che non rida. Un Napoletano che vi è introdotto, domanda: E dove songo li forastiere? E Panzana additando l’uditorio dice, Eccone quà tanti. De chiste (l’ altro ripiglia) non importa, ride pure, isse songo a Siena, e nuje simmo a Pisa. Lo stesso Panzana favella indi al medesimo uditorio e descrive il carattere del Napoletano Ligdonio.

Ariosto, Bentivoglio, Aretino, Dovizio, Machiavelli si valsero per tutti i personaggi delle loro commedie del solo linguaggio toscano. {p. 233}In quelle degl’ Intronati comincia a vedersi alcun personaggio buffonesco subalterno che parla in qualche dialetto particolare, come il Ligdonio del Piccolomini, o in una lingua straniera, come il Giglio Spagnuolo di bassa condizione sedicente Hidalgo (gentiluomo) motteggiato di spilorceria nella commedia degl’ Ingannati de’ medesimi accademici Sanesi. Si notano in essa varj motteggi sugli Spagnuoli di quel tempo. Dice Fabrizio nell’atto I, dove alloggiano gli Spagnuoli? E l’altro risponde, io non m’impaccio con loro; cotesti vanno al Rampino. Lo stesso Fabrizio nel III dubitando d’una fante, dice: crede farmi stare a qualche scudo; ma è male informata, che io sono allievo di Spagnuoli. Degni però di qualche scusa sono gl’ Italiani d’allora come troppo vicini al funesto sacco di Roma, che sì gran parte ne ridusse in miseria; e la commedia nominata degl’ Ingannati si recitò due giorni dopo del Sacrificio che fu come una introduzione agli spettacoli del carnovale del 1531. Domandando Gherardo dell’età della figliuola di Virginio, questi risponde: Quando fu il sacco di Roma, che ella ed io fummo prigioni di que’ cani, finiva tredici anni. Di quel sacco parlò pure nel Geloso il prelodato Bentivoglio, ed ancor l’Aretino nella Cortigiana. La commedia degl’ Ingannati è regolare e scritta puramente, in istile proprio, e con pratica {p. 234}e felicità vi si dipingono i costumi e le passioni; ma già questi accademici si dipartono dalla semplicità degli anzilodati autori, e vanno in traccia del ravviluppato assai complicato negli accidenti. Abbondano gl’ Ingannati di sali e lepidezze, ma talvolta sono soverchio liberi, come pajono gli equivoci del lunghissimo prologo. Io non approverò mai le scene simili alla quinta del V atto di Cittina: Io non so che trispigio sia dentro a questa camera terrena; io sento la lettiera fare un rimenio, un tentennare che pare che qualche spirito la dimeni ecc. Si lascino queste imitazioni impudenti alla sfacciataggine de’ repubblicani Ateniesi di venti secoli indietro che se ne compiacevano.

Regolari e piene di sali e motteggi sono le cinque commedie di Lodovico Dolce, colle quali contribuì all’avanzamento della scena comica. Due ne scrisse in versi che furono il Capitano uscita alla luce per le stampe nel 1545, e il Marito nel 1560; le altre tre sono scritte in buona prosa, il Ragazzo che s’impresse nel 1541, il Ruffiano tratta dal Rudente di Plauto, e la Fabrizia, le quali si pubblicarono nel 1549.

Nel 1548 videro la luce quattro altre buone commedie in diverse città, i Simillimi, l’Aridosio, la Sporta, e la Filenia. La prima fu una comica imitazione in versi fatta dal celebre Vicentino Trissino de’ Menecmi di Plauto, ove però, come afferma {p. 235}egli stesso, volle servare il modo di Aristofane, e v’introdusse il coro. L’Aridosio appartiene a Lorenzino de’ Medici, e la Sporta a Giambatista Gelli, Fiorentini. Scrisse anche il Gelli l’Errore altra commedia che non s’impresse che nel 1603. Tralle migliori commedie in prosa di quel secolo si noverano queste del Gelli, che Moliere non isdegnò d’imitar nell’Avaro ed in altre sue commedie. La protestazione ch’egli fa nel prologo della Sporta, mostra l’intelligenza ed il buon gusto che possedeva in questo genere: In essa (egli dice) non si vedranno riconoscimenti di giovani, o fanciulle, che oggidì non occorre, ma accidenti di una vita civile e privata sotto una immaginazione di verità, e di cose che tutto il giorno accaggiono al viver nostro. Con tutto ciò questo conoscimento e questa squisitezza di gusto non l’hanno salvato dalla negligenza de’ posteri; e le di lui belle commedie non si leggono come se scritte fossero nell’idioma Tibetano. Questo piacevolissimo scrittore che morì d’anni sessantacinque nel 1563, fu calzolajo, ma si distinse in Firenze per molte lezioni recitate nell’Accademia Fiorentina, e per alcune traduzioni.

La Filenia fu una piacevole commedia di Antonio Mariconda cavaliere Napoletano, che sebbene s’impresse nell’anno 1548, era stata rappresentata sin dal 1546 da alcuni {p. 236}gentiluomini Napoletani, mentovati nel I libro della Storia di Notar Castaldo, nella sala del palazzo del principe di Salerno (in Napoli) dove stava sempre per tale effetto apparecchiato il proscenio.

Intorno alla metà del secolo scrissero commedie con maggior felicità il Contile, il Firenzuola, il Lasca ed il Cecchi. Luca Contile letterato di grido compose in buona prosa la Pescara, la Cesarea Gonzaga e la Trinuzia che si pubblicarono con applauso nel 1550. Agnolo Firenzuola cittadino Fiorentino ed Abate Vallombrosano e letterato che si distinse in più di un genere, e visse sotto Clemente VII e Paolo III, e morì in Roma poco prima del 1548, scrisse in prosa due belle commedie i Lucidi impressa da’ Giunti di Firenze nel 1549, e la Trinuzia uscita alla luce nel 1551. Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, uno de’ cinque fondatori dell’Accademia della Crusca e assai benemerito della nostra lingua, compose più commedie in prosa elegante e graziosa, tralle quali spiccano la Gelosia (che non è certamente quella de’ Fajeli) pubblicata in Firenze nel 1551, e la Spiritata nel 1560, le quali insieme colla Sibilla si ristamparono in Venezia nel 1582. Giovammaria Cecchi, cui si confessano i Fiorentini assai tenuti per aver fatta la loro patria uguale a Roma e ad Atene, oltre ad alcune pastorali, pubblicò nel {p. 237}1550 e nel 1561 varie commedie in prosa ed in versi, intitolate i Dissimili, l’Assiuolo, la Moglie, gl’ Incantesimi, la Dote, la Stiava, il Donzello, il Corredo, lo Spirito, e il Servigiale; e per quel che ne dice il Quadrio molte altre ne rimasero inedite.

Dalla metà del secolo sino all’ottanta in circa uscirono al pubblico altre commedie lodate. Il Vignali contemporaneo dell’Aretino, del Franco, e del Francese Rabelais, e di un genio conforme, compose la Floria commedia in prosa, secondo Apostolo Zeno, licenziosa anzi che no, che si pubblicò nel 1560. Il Capitano bizzarro commedia in terza rima di Secondo Tarantino si recitò in Taranto, e s’impresse in Venezia nel 1551. Giordano Bruno di Nola compose la commedia del Candelajo che si pubblicò in Parigi nel 1582, vi si reimpresse nel 1589, e vi si tradusse nel secolo seguente pubblicandosi col titolo Boniface & le Pedant. L’Eustachia commedia in prosa del Guidani Leccese s’impresse in Venezia per Aldo nel 1570. Il Trappa pure in prosa di Massimo Cameli Aquilano si pubblicò nell’Aquila nel 1566. La Virginia che il secondo Bernardo Accolti fece sulla sua serva, dal Fontanini è posta tralle commedie in prosa, ma è scritta per la maggior parte in ottava rima, il che osservò il Zeno. La Flora di Luigi Alamanni s’impresse in Firenze nel 1556 per cura {p. 238}di Andrea Lori che la fece recitare nella compagnia di San Bernardino da Cestello con alcuni suoi intermedj124. Questo elegante scrittore della Coltivazione, dell’Antigone e di belle satire (ma non già della Libertà tragedia attribuitagli dal Ghilini composta da un apostata della Cattolica Fede) volle usare in tal commedia un nuovo metro, cioè uno sdrucciolo di sedici sillabe125, fatica e invenzione inutile intrapresa da altri Italiani ancora per imitare superstiziosamente il giambico greco e latino126. Ma tutti i vantaggi che essi speravano {p. 239}co’ nuovi metri poco o nulla grati all’orecchio Italiano, presenta a chi sa maneggiarlo il solo endecasillabo sciolto. La commedia della Flora è bene scritta, in istile puro e piacevole e copiosa di grazie comiche, e per questa parte degna di sì leggiadro scrittore. Tuttavolta (sebbene non vi si vegga punto uno studio affettato di trasportare in essa l’espressioni latine, che altri ha creduto che nelle commedie Italiane sia sorgente di lentezza) sembraci ben lenta e languida nell’avvilupparsi e nello sciogliersi, e da non soffrire, per vivacità e sceneggiatura ed economia, il paragone di quelle dell’Ariosto, del Machiavelli e del Bentivoglio.

Lodate da molti, e singolarmente da Adriano Politi, son le commedie di Bernardino Pino da Cagli. Nel prologo degl’ Ingiusti Sdegni sua commedia impressa nel 1553 havvi una descrizione lodevole della commedia, nella quale si afferma che tutti i vantaggi della pittura, della musica e della {p. 240}storia si trovano raccolti nella commedia. Nel leggerla non mi trovai molto contento del linguaggio dell’innamorato Licinio, il quale così dice alla sua Delia che gli parla da dentro senza aprirgli la porta: Licinio è quì che come smarrito augello cerca di ridursi nel vostro nido, come aquila che stà per fissar l’occhio in voi suo bel sole: deh uscite fuori, acciocchè i raggi del vostro aspetto illustrino questo luogo, come io illustrato da voi veggio ogni cosa nelle più oscure tenebre della notte. Quanto sono lontane simili studiate espressioni dal linguaggio infocato de’ Fedrj, de’ Panfili e de’ Cherei di Terenzio, o degli Erostrati dell’Ariosto! L’ affettazione, il raffinamento, la falsità de’ concetti cominciavano a fare smarrire a’ poeti il sentiero della verità e della natura. In ricompensa ben mi colpì in tal commedia la saviezza della fanciulla, che tutto che innamorata dissuade Licinio dal rompere le porte, non essendo in casa la di lui madre, come proponeva, per parlarle con libertà. Egli poi tutto ardore vuol tirarle un anello in segno di volerla sposare, ed ella l’impedisce dicendo: Non gittate, non gittate che io l’accetto, e come mio ve lo ridono, acciocchè se a Dio piacerà mai che io possa, come vorrei, esser vostra, ne leghi eternamente ambedue; e tenete per certo, che ogni mio desiderio, ogni mio pensiero, ogni {p. 241}mia speranza è che voi o per serva, o per altra che mi vogliate, abbiate ad essere scudo dell’onor mio: questo vi basti: ricordatevi di me. Non si possono mai abbastanza lodare questi tratti di saviezza che spandono per l’uditorio un piacere indicibile, specialmente quando sono espressi, come in questa scena, senza affettazione e senza farne un sermone da pulpito anzi che da teatro. Le oscenità, gli equivoci impudenti eccitano il riso negli sfacciati col cui genio simpatizzano, ed il pudore se ne offende. Le altre commedie del Pino sono lo Sbratta impressa un anno prima degl’ Ingiusti Sdegni, e due altre uscite alla luce più tardi, l’Evagria nel 1584, e i Falsi Sospetti nel 1588.

Francesco d’Ambra gentiluomo Fiorentino morto in Roma nel 1558127 scrisse più commedie pregiate dagl’ intelligenti, e citate per la lingua nel Vocabolario della Crusca. Le più stimate sono: i Bernardi in versi sciolti che si produsse in Firenze nel 1563 e 1564; la Cofanaria parimente in versi sciolti recitata cogl’ intermedj di Giovanbatista Cini nelle nozze di Don Francesco de’ Medici e della regina Giovanna {p. 242}d’ Austria, e stampata in Firenze nel 1561; ed il Furto scritta in prosa impressa nel 1560, e poi più volte ristampata, la quale vivente l’ autore si era rappresentata dagli accademici Fiorentini nel 1544, ed appresso raccolse gli applausi più distinti in varj altri teatri Italiani.

Nel medesimo periodo comparvero le commedie di Girolamo Parabosco. Una ne compose in versi ch’è il Pellegrino impressa nel 1560, e sette in prosa, cioè l’Ermafrodito, il Ladro, il Marinajo, la Notte, i Contenti, il Viluppo e la Fantesca pubblicate dal 1549 al 1597. Nè in regolarità nè in grazia comica cedono gran fatto a quelle de’ contemporanei.

Il capitano Niccolò Secchi compose quattro commedie in prosa noverate tralle migliori Italiane. Gl’ Inganni (tradotta poi nel seguente secolo dal principe de’ comici Francesi, ed imitata nel nostro dal Napoletano Niccolò Amenta) si recitò con sommo applauso in Milano alla presenza di Filippo II allora principe delle Asturie nel 1547, e s’impresse nel 1562. L’Interesse, la Cameriera ed il Beffa si pubblicarono dal 1581 al 1584 l’una dopo l’altra.

La Spina ed il Granchio del cavaliere Lionardo Salviati; la Suocera di Benedetto Varchi; la Balia, la Cecca e la Costanza di Girolamo Razzi; il Pellegrino ed il Ladro del Comparini; il Furbo di Cristoforo {p. 243}Castelletti; la Cingana e la Capraria di GianCarlo Rodigino; l’Amore Scolastico del Martini; il Medico del Castellini; il Commodo di Antonio Landi; la Vedova di Giambatista Cini; la Teodora del Malaguzzi; il Capriccio del Cosentino Francesco Antonio Rossi, i Furori di Niccolò degli Angeli; tutte queste commedie scritte parte in prosa, e parte in versi nel periodo di cui parliamo, si faranno leggere da chi vuol conoscere il teatro Italiano, per la regolarità, per le lepidezze, per la purezza ed eleganza dello stile, benchè per la licenziosità di que’ tempi i motteggi e i sali non sieno sempre in alcune i più decenti, ed in altre la favola sia soverchio complicata.

Al declinar del secolo non declinò il gusto della buona commedia. S’ impresse in Venezia nel 1582 la commedia intitolata gli Straccioni del commendatore Annibal Caro Marchigiano, la quale però molti anni prima era stata composta e rappresentata con gran plauso in Roma. Niuno meglio di lui seppe seguir gli antichi dando all’ imitazione la più gaja e fresca tintura de’ costumi della sua età. Scusandosi nel prologo di avere ideato senza esempio un argomento, non solo doppio, come facevano gli antichi, ma interzato, dice però di avere in ogni altra cosa seguitato il loro uso. E se vi parrà (e’ soggiugne) che in qualche parte l’abbia alterato, considerate, che sono {p. 244}alterati ancora i tempi e i costumi, i quali sono quelli che fanno variar l’ operazioni e le leggi dell’operare. Chi vestisse ora di toga e di pretesta, per begli abiti che fossero, ci offenderebbe non meno che se portasse la beretta a taglieri o le calze a campanelle. Il Caro congiunse egregiamente l’artificio del viluppo alla piacevolezza comica (lasciando a parte la solita sua maravigliosa eleganza e purezza e grazia del dire) e pose nel tempo stesso nella passione di Gisippo e Giulietta un interesse che avvicina questa bella commedia al genere dell’Ecira Terenziana, e la salverà sempre dal cadere in dimenticanza. E’ una verità costante, che le dipinture delle maniere locali, benchè eccellenti, variano, per così dire, in ogni pajo di lustri, ma quelle delle passioni generali conservano la loro freschezza in ogni tempo. Anima mia (dice nell’atto II Gisippo che crede morta la sua bella Giulietta) tu sei pure in luogo da poter chiaramente vedere la costanza dell’animo mio, la grandezza del mio dolore, e il desiderio di venir dove tu sei. Tu senti che il tuo nome m’è sempre in bocca. Tu vedi che la tua immagine mi stà continuamente nel cuore. Tu sai che d’altri che tuo non posso essere quando bene ad altri sia dato. Dovrebbero i giovani studiosi specchiarsi in simili naturalissimi esempi ed apprendere in questi sentimenti pieni di calore e di verità il linguaggio {p. 245}della natura; quel linguaggio che sarà sempre ignoto a certuni che si hanno formato un picciolo frasario preteso filosofico che vogliono applicare in ogni incontro ed in ogni situazione. Gisippo poi intende nell’atto V che Giulietta è viva. Satiro servo gliene reca la novella. E’ risuscitata la Giulietta, la Giulietta, egli dice.

Gisip.

Che Giulietta, bestia?

Sat.

Oh padrone, che ho io veduto!

Gisip.

Che hai spiritato?

Sat.

Io ho veduta, io ho veduta la Giulietta, e l’ho veduta con questi occhi.

Gisip.

Qualcuna che le somiglia forse?

Sat.

Lei stessa.

Gisip.

La Giulietta?

Sat.

La Giulietta.

Gisip.

La mia?

Sat.

La vostra.

Gisip.

Viva?

Sat.

Viva.

Gisip.

Dove?

Sat.

In casa di Madonna Argentina.

Gisip.

Stai tu in cervello?

Sat.

Io non ho bevuto, io non vaneggio, io non dormo; io l’ ho veduta, io le ho parlato, ella ha parlato a me, e mi ha data questa lettera e quest’anello che vi porto.

Dem.

Questo è il giorno delle maraviglie.

Gisip.

Oh dio, questo è l’anello con che la sposai, e questa è sua lettera.

Dem.

Non m’avete voi detto ch’ella è morta?

Gisip.

Oimè! s’ella è morta! ah!

Dem.

E quest’anello?

Gisip.

E’ suo.

{p. 246}

Dem.

E questa lettera?

Gisip.

E’ di sua mano.

Dem.

O come può star questo? lasciatemela leggere.

Merita di osservarsi la naturalezza di questo dialogo, in cui non si dice o si risponde cosa che non sembri l’unica espressione richiesta nel caso. Ma la bella lettera poi spira tutto il patetico della tenerezza sfortunata di un cuor sensibile che offeso si querela senza lasciar d’ amare. A’ leggitori non assiderati dalla lettura di tragedie cittadine e commedie piagnevoli oltramontane; a quelli che non hanno il sentimento irrugginito dalla pedantesca passione di far acquisto di libri stampati nel XV secolo, fossero poi anche scempj e fanciulleschi; a quelli che sanno burlarsi di coloro che non vorrebbero che altri rilevasse mai le bellezze de’ componimenti quasi obbliati, per poterli saccheggiare a loro posta; a quelli in fine che non pongono la perfezione delle moderne produzioni nell’accumulare notizie anche insulse, perchè ricavate da scritti inediti, ma sì bene nella copia delle vere bellezze delle opere ingegnose atte a fecondare le fervide fantasie della gioventù onde dipende la speranza delle arti; a siffatti delicati leggitori, dico, non increscerà di ammirar meco questa bellissima lettera degna del pennello maestrevole del Caro. Gisippo in essa è chiamato Tindaro che è il suo nome primiero.

{p. 247}

Tindaro, padron mio (così convien ch’ io vi chiami, poichè mi trovo serva de’ servidori della vostra moglie), gli affanni che io ho sofferti finora grandissimi e infiniti, sono stati passati da me tutti con pazienza, sperando di ritrovarvi, e consolarmi d’avervi per mio consorte. Ma ora che finalmente vi ho ritrovato, poichè a me tolto vi siete, sconsolata e disperata per sempre desidero di morire.

Gisip.

Oimè! che parole son queste? seguitate.

Dem.

(leggendo) Ahi Tindaro, voi vi maritate; or non siete voi mio marito? se non mi siete ancor di letto, e non volete essermi per amore, mi siete pur di fede, e mi dovete essere per obbligo. Non sono io quella, che per esser vostra moglie non mi sono curata di abbandonar la mia madre, nè di andar dispersa dalla mia patria, nè divenir favola del mondo? Ricordatevi, che per voi sono state tante tempeste, per voi sono venuta in preda de’ corsari, per voi si può dire, che io sia morta, per voi son venduta, per voi carcerata, per voi battuta, e per non venir donna di altro uomo, come voi siete fatto uomo di altra donna, in tante e sì dure fortune sono stata sempre d’animo costante, e di corpo sono ancor vergine; {p. 248}e voi non forzato, non venduto, non battuto, a vostro diletto vi rimaritate.

Gisip.

E Giulietta scrive queste cose?

Dem.

(leggendo) Il dolore che io ne sento, è tale, che ne dovrò tosto morire; ma solo desidero di non morir serva nè vituperata; per l’una di queste cose io disegno di condurmi, col testimonio della mia verginità, a mostrare a’ miei, che io per legittimo amore, e non per incontinenza, ho consentito a venir con voi: per l’altro vi prego (se più di momento alcuno sono i miei prieghi presso di voi), che procuriate per me, poichè non posso morir donna vostra, che io non mi muoja almeno schiava di altri; o ricuperate con la giustizia, o impetrate dalla vostra sposa la mia libertà: che, per esser ella così gentile, come intendo, ve la dovrà facilmente concedere: e, bisognando, promettete il prezzo, che io sono stata comperata, che io prometto a voi di restituirlo.

Gisip.

Oh che dolore è questo!

Dem.

(leggendo) E quando questo non vogliate fare, mi basterà solamente di morire: il che desidero, così per finire la mia miseria, come per non impedire la vostra ventura. E per segno che io non voglio pregiudicare alla libertà {p. 249}vostra, vi rimando l’anello del nostro maritaggio. Nè per questo si scemerà punto dell’amor che io vi porto. State sano, e godete delle nuove nozze. Di casa della vostra moglie. Giulietta sfortunata.

Chi non senta a questa lettura correr sugli occhi suoi copiosamente le dolci lagrime della più delicata tenerezza, dica di sicuro di avere il cuore formato di assai diversa tempera da quella che costituisce un’ anima nobile. Ogni parola è una bellezza per chi l’analizza, nè l’ analizza chi non ha il cuore fatto per ciò che i Francesi chiamano sentimento.

Non si vede nelle commedie di Luigi Groto nè la verità e naturalezza dello stile, nè la patetica delicatezza degli Straccioni del Caro: ma son pur bene ravviluppate e ingegnose, e solo quanto al costume si vorrebbero più castigate. Esse sono tre, il Tesoro impressa nel 1583, l’Alteria nel 1587, e l’Emilia nel 1596, tutte scritte in versi e collo spirito d’arguzia che domina ne’ componimenti di questo famoso cieco d’Adria.

Di Cornelio Lanci si hanno impresse sette commedie in prosa dal 1583 al 1591, la Mestola, la Ruchetta, la Scrocca, il Vespa, l’Olivetta, la Pimpinella, e la Niccolosa, regolari per la condotta, naturali nello {p. 250}stile, vivaci ne’ caratteri, ma alquanto libere ne’ motteggi.

Il Fiorentino Raffaello Borghini volle oltrepassare i confini comici. Nella sua Donna costante ci diede un esempio (raro in tal secolo) di un intrigo pericoloso e più proprio per le passioni tragiche. Una fanciulla minacciata dal padre di altre nozze, per serbarsi al suo amante, prende un sonnifero e coll’ ajuto di un medico si fa seppellire per morta; indi tratta dalla sepoltura si veste da uomo, e nell’accingersi a partir per Lione, dove sapeva che dimorava l’ amante bandito, lo trova in Bologna addolorato per la notizia della di lei morte. In mezzo all’allegrezza di vederla viva questo suo amante chiamato Aristide è conosciuto ed arrestato. Alla novella che ne ha Elfenice ripiglia le vesti di donna coll’ intento di manifestare al Governadore come Aristide è suo sposo, e quando non ne impetrasse la libertà, di ammazzarsi. In tale stato correndo per le strade quasi fuor di se per lo dolore, scarmigliata, con un pugnale alla mano, (veramente con un poco d’inverisimiglianza) imbatte nella giustizia che mena a morire Milziade suo fratello convinto, per di lui confessione, di latrocinio. Sbigottiscono gli sbirri a vista di colei che il giorno avanti era stata sepolta, e presi da strano terrore fuggono senza badare al delinquente, il quale si maraviglia {p. 251}della sorella viva che corre come forsennata, e giugne presso la casa di Teodolinda sua amante. Egli era stato sorpreso dal bargello con una scala di seta sotto la di lei casa, e per salvarne la fama, si era accusato di aver voluto andare a rubare in quella casa, tuttochè gentiluomo e ricco egli fosse. Disperata Teodolinda avea risoluto, allor che egli passerebbe per andare al patibolo, di gettarsi al suo collo, confessare pubblicamente il suo amore, e giustificarlo dell’infamia del preteso tentato latrocinio. Ora vedendolo così solo lo scioglie e lo mena in casa. La vendicativa Timandra madre di Teodolinda dalla toppa dell’uscio gli vede abbracciati, e schizzando veleno va a chiamar Clotario suo marito perchè venga a prenderne crudel vendetta. Ma essi vengono liberati per opera della balia di Teodolinda, e di Elfenice, e del medico Erosistrato, nella cui casa si rifuggono. Il Governadore intende i casi di Aristide e di Milziade, vede che un doppio parentado potrebbe riconciliare le due famiglie nemiche, e coll’ autorità, colle ragioni e colle minacce dispone i due vecchi alla pace e al maritaggio di Elfenice con Aristide e di Teodolinda con Milziade.

Una commedia siffatta piena di evenimenti straordinarj e di pericoli grandi eccede i limiti della vera poesia comica, e per questo capo è assai difettosa. Essa par {p. 252}tessuta alla foggia delle commedie Spagnuole miste di tragico e di comico. Ma colà si sarebbe incominciata a sceneggiare dall’innamoramento di Elfenice e dall’omicido commesso da Aristide, proseguendosi per li sette anni che questi dimorò in Lione, mostrando la morte apparente di Elfenice, gli amori di Teodolinda con Milziade e l’accaduto della scala, e scendendo allo scioglimento colla condanna di costui impedita da Elfenice. Ma il Borghini incomincia con senno la sua Donna costante dalla venuta di Aristide in Bologna nel giorno che è stata sepolta fintamente Elfenice e che è menato a morir Milziade. Potrebbe dunque questa favola servir d’esempio agli Spagnuoli vaghi di situazioni risentite, qualora volessero continuare ad arricchire il proprio teatro di favole piene di grandi accidenti, ma senza cadere nelle stravaganze.

Io trovo nella favola descritta ben maneggiate le passioni ed espresse con sobrietà di stile; ma non son pago de i discorsi accademici e pedanteschi che vi si tengono, delle storie, degli esempi, de’ versi, onde la riempiono il servo Lucilio, il medico Erosistrato e ’l parassito Edace. Ed a che servono tutte quelle inezie all’usanza Spagnuola?

L’autore l’accompagnò con sei intermedj. Il primo serve d’introduzione che va innanzi al prologo, in cui la scena rappresenta {p. 253}il Parnasso colle muse, e vi si cantano quattordici versi. Nel secondo in fine dell’atto I si vede un antro, che è la reggia del Sonno, in cui Iride ed il Sonno cantano due strofe. Nel terzo in fine dell’atto II si vede in un prato Cerere nel suo carro, e canta due ottave. Il quarto tramezzo rappresenta Roma in un carro trionfale, innanzi al quale vengono legate le provincie soggiogate, e Roma canta una strofe, cui le provincie rispondono. Nel quinto intermedio Roma stessa comparisce scapigliata, incatenata innanzi a un carro trionfale occupato da Alarico, Genserico, Ricimero, Totila, Narsete e dal duca Borbone generale di Carlo V, i quali cantano una canzonetta, che dice

Quella che il mondo vinse, abbiamo vinto,

alla quale succede il lamento di Roma in due ottave, che conchiudono,

Già vinsi il mondo, or servo a gente vile,
Come fortuna va cangiando stile.

Nell’ultimo intermedio viene di sotterra Plutone con Proserpina, dal mare Nettuno con Teti, dal cielo Giove con Giunone, Venere con Vulcano e Cupido, i quali tutti cantano in lode di Amore, e cantando {p. 254}intrecciano un ballo. Eccoti dunque una commedia in prosa con accompagnamenti tali che le danno diritto a chiamarsi opera in musica, secondo la pretensione del Menestrier e di chi l’ha seguito. Questa commedia dedicata dall’autore a Carlo Pitti nel 1578 s’impresse nel 1582, e nell’anno seguente si pubblicò l’Amante Furioso altra commedia del Borghini.

Altre commedie regolari e piacevoli in versi ed in prosa si pubblicarono dopo della riferita. Il Vellettajo del Masucci in versi si diede alla luce nel 1585: l’Amico fido del Bardi rappresentata in Firenze nelle nozze di Don Cesare d’Este e Donna Virginia de’ Medici uscì al pubblico nel medesimo anno: la Prigione di Borso Argenti in prosa impressa nel 1587: la Vedova di Niccolò Buonaparte anche in prosa nel 1592: il Fortunio del Giusti anche in prosa nel 1593.

Il Perugino Sforza degli Oddi professor di leggi di gran nome nella patria, in Padova ed in Parma dove finì di vivere l’anno 1610 secondo Apostolo Zeno, o nel 1611 come ci assicura il Bolsi presso il Tiraboschi, compose in bella assai e natural prosa tre commedie da mettersi accanto agli Straccioni del Caro quanto al loro genere e carattere. La prima intitolata Erofilomachia, ovvero Duello d’Amore e d’Amicizia, si pubblicò nel 1586, ma era stata composta nella giovanezza dell’autore, e come {p. 255}nota lo Zeno sul Fontanini, fu recitata in Perugia con singolar piacere, e si ristampò più volte. La Prigione d’Amore si produsse nel 1592, ed in essa, come nella precedente, vi è una delicatezza di amore e d’amicizia posta al cimento, e vi si scorge, bellamente trasportata alla mediocrità comica, l’avventura di Damone e Pizia, l’uno de’ quali rimase per ostaggio dell’amico sotto lo stesso pericolo di vita, e l’altro ritornò puntualmente al suo supplicio. Oddi vi aggiunse la venuta di una innamorata che al vedere l’amante esposto, per essere ostaggio del di lei fratello che esattamente la rassomiglia, ed al sapere già vicina l’ ultima ora dello spazio concesso al ritorno del reo, sotto il nome del fratello si presenta alla prigione e libera l’amante. La pena ch’ella ne riceve, è un sonnifero creduto veleno, che apporta poco stante un lieto scioglimento. L’altra commedia dell’Oddi non meno bella per lo stile, per l’onestà, per la vaghezza de’ caratteri e per l’intreccio, intitolata i Morti vivi, s’impresse nel 1597. Anche queste commedie dell’Oddi son da riporsi nella dilicata classe delle commedie teneri simili all’Ecira, le quali nel nostro secolo vedremo oltramonte degenerare in rappresentazioni piagnevoli.

Si rappresentò in Caprarola dagli Accademici di quella città il primo di di settembre nel 1598 alla presenza del cardinal {p. 256}Odoardo Farnese gl’ Intrichi d’ amore commedia che porta il nome di Torquato Tasso e che s’ impresse in Viterbo presso Girolamo Discepolo nel 1604. E’ una favola assai ravviluppata, piena per altro di colori comici e di caratteri piacevoli ben rilevati. Il Baruffaldi e monsignor Bottari dubitano che sia componimento dell’autore della Gerusalemme; il marchese Manso lo niega assolutamente; e l’Ab. Pierantonio Serassi nella bellissima Vita di Torquato impressa in Roma l’anno 1785, giudica che sia opera di Giovanni Antonio Liberati che fece il prologo e gl’ intermedj a questa commedia, per la sola ragione che quest’ Accademico di Caprarola si dilettava di scrivere nel genere drammatico. Tuttavia non abbiamo sinora sufficienti indizj da non istimarla opera di Torquato. Il Manso per negarlo non ci disse di averlo saputo dal medesimo Torquato; e se lo negò per proprio avviso, è una opinione, e non una pruova la di lui asserzione; dall’altra parte il lodato Ab. Serassi quante volte discopre errori del Manso intorno alle cose di Torquato! Che sia poi piuttosto da riferirsi tal favola al Tasso Napoletano che al Liberati di Caprarola, cel persuade in certo modo il carattere ben dipinto e ’l dialetto di Giallaise; imperciocchè più facilmente poteva scrivere una parte in lingua napoletana il Tasso nato ed allevato nel regno sino al decimo anno della {p. 257}sua età, e che poi vi tornò già grande e vi si trattenne diversi mesi, che il Liberati il quale nè nacque nè dimorò nel regno di Napoli.

Forse l’ultimo scrittore comico del cinquecento fu il vecchio Loredano, che dal 1587 al 1608 pubblicò sette commedie in prosa, cioè i Vani amori, la Malandrina, la Turca, l’Incendio, la Berenice, la Madrigna, e Bigonzio.

Di una commedia composta dal Guarnello fa menzione Muzio Manfredi nelle citate lettere scritte da Lorena: di un’ altra intitolata gl’ Inganni di Curzio Gonzaga celebre nell’armi e nelle lettere parla il Quadrio: della Porzia e del Falco commedie inedite di Giuseppe Feggiadro de’ Gallani si favella nel Compendio Istorico di Parma scritto dall’Edovari e non pubblicato: della Pellegrina di Baltassarre di Palmia Parmigiano, che si rappresentò avanti al cardinal Grimani, e dell’altra del medesimo i Matrimonj recitata avanti al duca Pier Luigi Farnese, si fa motto nel citato ms. dell’Edovari: di un’ altra commedia latina detta Lucia del Cremonese Girolamo Fondoli anche inedita fa parola il Tiraboschi nella parte III del VII volume. Di queste, e delle due commedie di Bernardino Rota lo Scilinguato e gli Strabalzi mentovate con gran lode dal Ghilini, e de’ Marcelli di Angelo di Costanzo nominati dal Minturno, {p. 258}e di qualche altra parimente rimasta sepolta, basti averne accennati i titoli, giacchè per essersene perduto ogni vestigio o per aver riposato nell’ oscurità di qualche privato archivio, non hanno contribuito all’ avanzamento della poesia comica.

Queste sono le commedie Italiane da’ nostri chiamate antiche ed erudite. Or quali di queste ha lette il sempre lodato maestro di Poetica Francese? In qual di esse ha trovato quella sognata mescolanza di dialetti, quei gesti di scimia, quella tremenda e pericolosa gelosia e vendetta Italiana? E se ne ha lette alcune, come mai osò dire esser esse così sfornite d’arte, di spirito e di gusto che neppure di una sola possa sostenersi la lettura128? Che se egli seppe solo per {p. 259}tradizione che vi fossero commedie antiche in Italia, o stimò che altra cosa non fossero che le farse d’Arlecchino per avventura vedute sul teatro Italiano di Parigi, egli stesso può avvedersi del torto che fa alla propria erudizione e filosofia, giudicando così a traverso della commedia Italiana che non avea punto studiata. Veramente una nazione che fece risorgere in Europa tutte le belle arti e le scienze, il gusto, la politezza e la libertà stessa, meritava un poco più di diligenza da questo scrittore. E che direbbe egli se si volesse dare idea del teatro Ateniese sulle rappresentazioni de’ neurospasti? che, se per dare a conoscere il teatro Francese, dimenticato Moliere e Racine, se ne fondasse il giudizio su Jodelle ed Hardy, o su i cartelloni delle fiere Parigine?

{p. 260}

II.
Produzioni comiche di commedianti di professione. §

Un secolo dotto fa risplendere di riverbero ancor quelli che non lo sono. Erano in tal tempo cresciuti gli attori di mestiere, benchè tante accademie insieme colla poesia teatrale coltivassero ancora il talento difficilissimo di ben recitare. Si trovò allora fra essi più d’un commediografo ingegnoso. Andrea Calmo Veneziano morto l’anno 1571, fu attore ed autore molto esperto ed applaudito, come ci fa a sapere in una lettera il Parabosco. Egli scrisse alcune commedie in prosa nel suo grazioso dialetto nativo mescolato talvolta col Bergamasco, col Greco moderno, e coll’ idioma Schiavone italianizzato; ed è probabile che a simili farse istrioniche avesse la mira il prelodato Marmontel. Le commedie del Calmo sono: la Spagnolas, il Saltuzza, la Pozione, la Rodiana e il Travaglia pubblicate dal 1549 al 1556. Il Lombardo altro attore di professione diede alla luce nel 1583 l’Alchimista sua commedia lodata. Fabrizio Fornari Napoletano detto il Capitan Coccodrillo Comico Confidente, diede alla luce in Parigi per l’Angelier nel 1585 la commedia intitolata Angelica, che poi si ristampò in Venezia {p. 261}nel 1607 pel Bariletto. Il famoso attore Padovano Angelo Beolco chiamato il Ruzzante scrisse alcune commedie che s’impressero nel 1598, cioè la Fiorina, la Vaccaria, l’Anconitana e la Piovana, le quali dal Varchi nell’Ercolano furono anteposte alle antiche Atellane. Francesco Andreini Pistojese marito della celebre attrice Isabella Andreini, e attore anch’egli che rappresentava da innamorato, e dopo la morte della moglie da tagliacantone col nome di Capitano Spavento da Vallinferna, volle ancora distinguersi come autore, scrivendo più dialoghi, farse e commedie, ove acciabattò quanto avea in iscena recitato come attore, cioè le rodomontate.

Generalmente i pubblici commedianti andavano per l’Italia rappresentando certe commedie chiamate dell’arte per distinguerle dalle erudite recitate nelle accademie e case particolari da attori nobili, civili ed instruiti per proprio diletto ed esercizio. Si notava, come dicono i commedianti, a soggetto il piano della favola e la distribuzione e sostanza dell’azione di ogni scena, e se ne lasciava il dialogo ad arbitrio de’ rappresentatori. Queste farse istrioniche aveano per oggetto l’eccitare il riso con ogni sorte di buffoneria, e vi si faceva uso di maschere diverse, colle quali nel vestito, nelle caricature e nel linguaggio si esagerava la ridicolezza caratteristica di qualche città. {p. 262}Pantalone era un mercatante Veneziano per lo più avaro; il Dottore un curiale Bolognese cicalone; Spaziento un millantatore poltrone, Coviello un furbo e Pascariello un vecchio goffo che non concludeva i suoi discorsi, tutti e tre Napoletani; Pulcinella un buffone dell’Acerra; Giangurgolo un villano Calabrese; Don Gelsomino un lezioso insipido Romano o uno zima Fiorentino; Beltrame un Milanese semplice; Brighella un Ferrarese raggiratore; Arlecchino un malizioso sciocco di Bergamo (Nota XV).

Il volgo Italiano se ne compiacque per la novità e per quello spirito di satira scambievole che serpeggia tra’ varj popoli di una medesima nazione, come avviene in Francia ancora tra’ Provenzali, Normandi e Gasconi, e in Ispagna tra’ Portoghesi e Castigliani, e Galiziani, Valenziani, Catalani e Andaluzzi, le cui ridicolezze e maniere di dire e di pronunziare rilevansi con irrisione scambievole. In queste farse dell’arte, nelle quali erroneamente gli oltramontani mal istruiti sogliono far consistere la commedia Italiana, possiamo ravvisare qualche reliquia degli antichi mimi, la cui indole libera e buffonesca è stata sempre d’introdurre prima certo rincrescimento della bella poesia scenica, indi di cagionarne la decadenza.

{p. 263}

CAPO III.
Maschere materiali moderne. §

Nel vasto numero delle riferite commedie erudite i personaggi intenti ad imitare con verità le azioni civili, comparivano sulle scene a volto nudo. Nelle farse istrioniche dette dell’ arte gli attori caratterizzati nella guisa già descritta, si coprivano di maschere, le quali s’inventarono a poco a poco parte nel decimosesto e parte nel seguente secolo; e fu un errore del Nisieli e del P. Bianchi il riferire al XVII l’Arlecchino, il Dottore, il Pantalone, il Brighella, il Capitano Spavento; imperciocchè in molti componimenti del XVI si vede introdotto il Dottor Graziano e il Soldato millantatore, e nella composizione musicale di Orazio Vecchi intervennero il Dottore, il Pantalone, il Brighella ecc.

Ma le nostre maschere sono assai diverse dalle antiche pel fine, per la forma e per l’uso. Quanto al fine si è già veduto nel volume I che gli antichi avendo bisogno per la vastità de’ loro teatri di accrescere la voce e di avvicinare il personaggio al numerosissimo uditorio, vi provvidero colle maschere. Non così i moderni che hanno {p. 264}piccioli teatri, e non ricorsero alle maschere se non per muovere il riso con una figura caricata. Quanto alla forma gli antichi nelle maschere rappresentavano i volti umani quali sono, per valersene nelle tragedie, e commedie. I moderni coprono alcuni personaggi comici di maschere che imitano piuttosto il sembiante di uranghi che di uomini. Noi non possiamo capire dove siensi trovati gli originali delle acutissime barbe de’ Pantaloni e de’ visacci degli Arlecchini. Le maschere moderne cuoprono il solo volto e talvolta non interamente; e le antiche coprivano tutto il capo; e può additarsi come una rarità l’unica mezza mascheretta, simile a quella che oggi noi adopriamo nelle feste di ballo, la quale si vede nella Tavola XXXV del IV volume delle Pitture di Ercolano sulla testa di una figura di donna che dimostra di star cantando.

Quanto all’uso della maschera nulla di più ragionato presso gli antichi, e nulla di più goffo e puerile presso i moderni. Quelli variavano la maschera giusta il bisogno di ogni favola; e questi si hanno inchiodare sul viso sempre le medesime maschere. Presso gli antichi tutti gli attori rappresentavano mascherati, essendo tra essi un delitto il mostrarsi al popolo col volto nudo; e se tra’ Romani alcuno deponeva la maschera, era solo in pena di avere male rappresentato, per soffrire a volto scoperto le {p. 265}fischiate della plebe. Al contrario gli attori moderni compariscono scoperti quasi tutti, e ce ne applaudiamo a ragione; perchè la più bella parte della rappresentazione, cioè il cambiare il volto a seconda degli affetti, mal potevasi esprimere dagli antichi Roscii, Esopi, Satiri e Neoptolemi con que’ duri gran capi di corteccia dipinta, continuo ostacolo all’accompagnar le situazioni co’ successivi cangiamenti di volto. Ma poi i moderni stessi sono caduti in un assurdo peggiore col frammischiare con gli attori scoperti quegli altri mascherati, cioè i quattro poveri vergognosi perpetui, il Pantalone, il Brighella, l’ Arlecchino, il Dottore, che si coprono di una faccia di cartone o di cuojo dipinta e invernicata129. Gli antichi finalmente accompagnavano la maschera della testa con tutto il vestito, in tutti gli attori accomodandolo alla nazione, al carattere, al tempo; e non commettevano l’error grossolano di vestirne una parte alla moda corrente, e di abbigliare il rimanente alla foggia de’ contemporanei di Agamennone o di Giano. Ma gli strioni d’Italia tra i Florindi e le Beatrici che {p. 266}imitano le vesti, le moine, le caricature più recenti, hanno mescolato quattro lasagnoni con abiti fantastici o al più usati in un altro secolo.

Da ciò si deduce che non vi è altro modo di rettificar le maschere moderne che col bandirle d’un colpo dal teatro istrionico ancora, ciò che si fece nelle accademie che coltivarono la commedia. Se ne deduce ancora che Pietro Chiari pedantescamente pretese giustificar le maschere degli strioni moderni coll’ esempio delle antiche sostenendo con vana e trita erudizione la mimica pertinacia, poltroneria, o paura di smascherarsi.

CAPO IV.
Pastorali del Cinquecento. §

Le favole pastorali che dopo il Cefalo del Correggio e l’ Orfeo del Poliziano, si scrissero nel cinquecento, non meritavano di esser segno a tante censure pedantesche, per l’unica ragione di non trovarsene esempio fra gli antichi. Imitiamo questi nostri maestri nella grande arte ch’essi ebbero di ritrarre al vivo la natura; seguiamoli con critica e giudizio ne i generi da essi maneggiati: ma non escludiamo tutto ciò che {p. 267}dopo di essi può l’ingegno umano inventare colla scorta degli eterni principj della poetica superiori alla scrupolosa pedanteria. Aminta e Mirtillo c’interessano e commuovono, per quanto comporta la loro condizione; e perchè riprovarli, se non rassomigliano ad Edipo o ad Ippolito?

Il Nolano Luigi Tansillo celebre poeta fu il primo in questo secolo a dare una specie di pastorale. I due Pellegrini130 suo componimento scenico che nella famosa cena data da Don Garzia di Toledo a Don Antonia Cardona in Messina si rappresentò nel 1529131, fu ben diffinito dall’Abate Maurolico quasi pastoralis ecloga, avendo molto dell’ecloga, se non che se n’allontana per contenere un’ azione compiuta che ha il suo nodo e uno scioglimento di lieto fine. Anche la Cecaria e Luminaria di Antonio {p. 268}Epicuro può aversi in conto di una spezie di pastorale, benchè di pastori non trattasse e dall’autore fusse nominata tragicommedia. La Cecaria sarebbe anteriore al componimento del Tansillo essendosi impressa nel 1526; ma l’azione si scioglie colla Luminaria che n’è una continuazione o seconda parte, che s’ impresse unita colla Cecaria nel 1535 in Venezia, dove ancora se ne fecero altre quattro edizioni sino al 1594.

La pastorale che in certo modo si scosta meno dal Ciclope di Euripide, è l’ Egle del Giraldi Cintio ch’egli intitolò Satira. S’impresse in Ferrara nel 1545, e si era rappresentata nel medesimo anno la prima volta in casa dell’autore a’ 24 di febbrajo, e la seconda a’ 4 di marzo alla presenza del duca Ercole II e del cardinale Ippolito di lui fratello. La rappresentò (si dice nella lettera premessavi) M. Sebastiano Clarignano da Montefalco. Fece la musica M. Antonio del Cornetto. Fu l’architetto e il pittore della scena M. Girolamo Carpi da Ferrara. Fece la spesa l’università degli scolari delle leggi.

Domandiamo ora, che musica fu quella che si fece a questa pastorale, ed alle altre che la seguirono? perchè quasi di tutte si trova scritto di avervi fatta la musica questo o quell’altro maestro. Il teatro in quel tempo non vide ai componimenti scenici altra musica congiunta eccetto quella che animava {p. 269}i cori. Delle tragedie si dice espressamente che aveano i cori cantati. Nelle opere di Antonio Conti si afferma che furono cantati a Roma e a Vicenza i cori della Sofonisba; e che tuttavia resta la musica de’ cori della Canace. Quando nel teatro Olimpico di Vicenza si rappresentò l’Edipo del Giustiniani, il coro (dice in una lettera Filippo Pigafetta) era formato di quindici persone sette per parte, ed il capo loro nel mezzo, il qual coro in piacevol parlare ed armonia adempì l’ufficio suo. Delle commedie, non che in versi, in prosa si è osservato nel capo precedente che la musica ne rallegrava gl’ intervalli degli atti. E se mai se ne volesse un esempio forestiere, el Musico por amor commedia Spagnuola è tutta recitata, fuorchè ciò che cantasi da colui che si finge musico. Oltrechè in molte migliaja di commedie recitate della medesima nazione, a riserba di qualche dozzina di esse, si trovano frequentemente alcune strofe o canzonette cantate in coro dalle damigelle di qualche principessa, nell’impressione delle quali, se si avesse voluto conservare il nome del maestro, avrebbe potuto notarsi con ogni proprietà, vi fece la musica il maestro N, benchè esse si sieno rappresentate, e si rappresentino attualmente col solo canto naturale della favella. Ora nelle pastorali che s’inventarono in quel tempo, non si vollero gl’ Italiani privare di {p. 270}quell’armonico accompagnamento già introdotto. E come agli autori di esse sarebbe venuto in mente di farvi fare una musica continuata per tutto il dramma, come indi avvenne nell’opera, senza averne avuto l’esempio? E se l’avessero tratto dagli antichi, non ci avrebbero essi informato di sì notabile novità, quando di altre particolarità più leggiere ci diedero contezza? E tutti poi avrebbero religiosamente taciuto questo secreto di stato? Adunque la musica apposta alle pastorali fu solo in qualche squarcio, e singolarmente ne’ cori, o negl’ intervalli degli atti ancor senza cori vi si fece qualche tramezzo o trattenimento. Il Cornetto, il Viola, il Cavaliere altro non dovettero porre in musica nelle pastorali se non i cori, e qualche altro passo a bella posta inserito nell’azione perchè si cantasse. E se per queste cose nel pubblicarsi le pastorali, per onorare i maestri vi si pose fece la musica, ciò benissimo conviene al nominato lavoro, senza che le abbiano interamente notate, il che non si rileva da monumento veruno; e così le pastorali assai impropriamente si chiameranno, come si chiamarono nel bel trattato dell’Opera in musica del Cav. Planelli, opere teatrali.

Dall’altra parte convengono gli eruditi più accurati in riconoscere nel Fiorentino Giacomo Peri l’inventore dello stile musicale de’ recitativi ne’ drammi del Rinuccini {p. 271}verso la fine del secolo, celebrandone l’industria come novità maravigliosa. Or se il Cornetto, il Viola, il Cavaliere l’aveano preceduto in mettere in musica tutto il componimento, non si sarebbe data al Peri una falsa e ridicola lode? Le pastorali dunque non ebbero altra musica che quella delle tragedie, cioè de’ cori; e noi andando innanzi speriamo di portare quest’asserzione all’evidenza. Intanto osserviamo sull’Egle stessa del Giraldi che M. Sebastiano da Montefalco che ne fu il principale attore, era l’istesso che recitò nella tragedia dell’Orbecche, ed il Giraldi ne favella con lode speciale, enunziandolo come attore eccellente, e non già come musico. E perchè ne avrebbe taciuto quest’altro pregio?

Il Sacrificio di Agostino Beccari Ferrarese si rappresentò nel 1554 in Ferrara due volte alla presenza del duca Ercole II, avendovi fatta la musica Alfonso della Viola, e s’impresse l’anno seguente. Tre anni prima della morte dell’autore seguita nel 1590 fu rappresentata due altre volte nelle nozze di Girolamo Sanseverino San Vitale con Benedetta Pio, e di Marco Pio fratello di Benedetta con Clelia Farnese.

Alberto Lollio pur Ferrarese poeta e orator grande scrisse l’Aretusa altra pastorale cantata ne’ cori, nel palazzo di Schivanoja l’anno 1563 alla presenza del duca Alfonso II e del cardinal Luigi di lui fratello, {p. 272}e s’impresse nel 1564. La rappresentò M. Ludovico Betti: fece la musica Alfonso Viola: fu l’architetto e dipintor della scena M. Rinaldo Costabili: fece la spesa l’università degli scolari di leggi. Il medesimo Viola pose la musica corrispondente allo Sfortunato pastorale di Agostino Argenti rappresentata in Ferrara innanzi allo stesso Alfonso II nel 1567, e stampata l’anno seguente.

Eccoci all’epoca dell’invano combattuto Aminta favola boschereccia dell’immortale Torquato Tasso. La prima edizione fu quella di Aldo il giovane nel 1581 colla dedicatoria dell’autore a Don Ferrante Gonzaga principe di Molfetta e signor di Guastalla in data de’ 20 di dicembre 1580. Monsignor Fontanini nel suo Aminta Difeso crede che la prima edizione fosse quella del 1583 d’Aldo, che fu la quarta132. Tralle più nitide edizioni dell’Aminta è da noverarsi quella del 1655 uscita in Parigi dalla stamperia di Agostino Curbè colle annotazioni di Egidio Menagio133. La difesa {p. 273}dell’Aminta fatta dal Fontanini che s’ impresse nel 1700, fu composta per rispondere al discorso censorio fatto contro la pastorale del Tasso dal duca di Telese Don Bartolommeo Ceva Grimaldi per comando dell’accademia degli Uniti di Napoli. Tal censura fu ancora ribattuta da Baltassarre Paglia con un discorso in cui si additano le perfezioni dell’Aminta, letto nella medesima accademia e stampato nella raccolta di Antonio Bulifon in Napoli. Un’ altra difesa dell’Aminta contro il duca di Telese fece il dottor Niccolò Giorgi Napoletano letterato di grido. Secondo il Mongitore un’ edizione dell’Aminta fu pubblicata in Sicilia colle note musicali del gesuita Erasmo Marotta da Randazza, che morì nel 1641 in Palermo.

La futilità delle critiche si manifestò non meno colle difese che coll’ applauso generale che riscosse sì vago componimento, e colla moltitudine delle traduzioni che se ne fecero oltramonti. In Francia si tradusse in versi francesi la prima volta nel 1584 da Pietro de Branch, e si pubblicò in Bourdeaux; in prosa si tradusse in Parigi nel 1666, e poi nell’Aja nel 1679 che si ristampò nel 1681. Queste ed altre versioni francesi riuscirono poco felici, sia per debolezza delle penne che l’intrapresero, sia perchè la prosa francese che da i più vi si adoperò, è incapace di rendere competentemente {p. 274}la poesia Italiana. Una eccellente traduzione se ne fece in bei versi castigliani da Don Giovanni Jauregui uscita in Roma nel 1607, ed in Siviglia nel 1618134. In inglese fu tradotto l’Aminta e stampato in Londra nel 1628. In latino si traslatò ancora da Andrea Hiltebrando medico di Pomerania, e s’impresse in Francfort nel 1615, e di nuovo nel 1623. Michele Schneiden ne fece una versione tedesca stampata nel 1642 in Amburgo. In lingua illirica fu anche trasportato da Domenico Slaturichia celebre in Dalmazia per questa, e per la traduzione dell’ Elettra, e di Piramo e Tisbe, ed altre in lingua schiava.

La prima rappresentazione dell’Aminta, secondo il marchese Manso, si fece in Ferrara nel 1573 con lode e maraviglia universale con quattro intermedj composti {p. 275}dall’autore. Di questi medesimi intermezzi crede il Fontanini che si servissero quelli che rappresentarono l’Aminta in Firenze per ordine del Granduca coll’ accompagnamento delle macchine e prospettive di Bernardo Buontalenti; la qual cosa riuscì con tal magnificenza ed applauso, che spinse il medesimo Torquato a portarsi di secreto a Firenze per conoscere il Buontalenti, ed avendolo appena salutato e baciato in fronte, se ne partì subito involandosi agli onori che gli preparava il Granduca135.

Nè a’ dotti nè alle persone che leggono per divertimento può essere ignoto l’ argomento semplice di questa elegantissima favola che con una condotta regolare rappresenta una ninfa schiva e nemica d’amore vinta e divenuta amante per mezzo della pietà. Vana cura sarebbe ancora metterne in vista più questa che quella bellezza, men bello di ciò che si sceglie non sembrando quello che si tralascia. Mirabili sono fin anco i trascorsi del poeta, voglio dire alcuni pensieri più studiati, i quali per altro non sono in sì gran numero come suppongono alcuni critici accigliati. Eccone un esempio. L’ enumerazione di parti fatta nella {p. 276}prima scena dall’astuta Dafne per piegar Silvia ad amare, Stimi dunque nemico Il monton de l’agnella ecc., non trascende l’idee pastorali, e contiene immagini campestri e conte e sottoposte agli sguardi di Dafne e di Silvia. L’eloquenza della scaltrita ninfa presenta alla ritrosa fanciulla la concordia di tanti oggetti silvestri come effetto della potenza d’amore. Ma quel sospirar delle piante, che potrebbe parer soverchio, con qual graziosa ironia non vien distrutto dalla disdegnosa Silvia!

Orsù quando i sospiri
Udirò de le piante,
Io son contenta allor d’essere amante.

Spira un dilicato patetico da i discorsi di Aminta nella seconda scena. La dipintura della corte fatta da Mopso e raccontata da Tirsi ha mille vaghezze. L’impareggiabil coro O bella età dell’oro per eleganza e per armonia maraviglioso, meriterebbe di esser trascritto interamente; ma chi l’ignora? Le bellezze dello stile nelle particolarità narrate, che i Francesi chiamano beautez de detail, sono tante nella seconda scena dell’atto II, che pur dovrebbe copiarsi tutta. È bellissimo il racconto di Aminta poichè ha liberata Silvia dalle mani del Satiro. Il di lui riverente rispetto nel disciorla ne scopre la grandezza dell’amore. La {p. 277}sua disperazione per la fuga dell’ingrata ninfa; il dolore che gli cagiona la novella di Nerina e la vista del velo dell’amata; la dipartita col disegno di finir di vivere; tutto ciò, dico, rende sommamente interessante l’atto III. Cresce sempre più l’interesse nel IV. Nella bellissima prima scena quando nasce l’amor di Silvia dal racconto del pericolo di Aminta, ella non mostra gl’ interni movimenti se non col pianto che le soprabbonda, e il poeta fa che Dafne gli vada disviluppando:

Tu sei pietosa, tu! tu senti al core
Spirto alcun di pietade? Oh che vegg’io!
Tu piangi, tu, superba? meraviglia!
Che pianto è questo tuo? pianto d’amore?

Sil.

Pianto d’amor non già, ma di pietade.

Daf.

La pietà messaggiera è dell’amore,
Come il lampo del tuon . . . .
Questo è pianto d’amor che troppo abbonda.
Tu taci? Ami tu, Silvia? Ami, ma invano.
Oh potenza d’amor! giusto castigo
Mandi sopra costei. Misero Aminta ecc.

Il silenzio di Silvia giustifica le illazioni di Dafne, ed il racconto della morte dell’amante inspira nella ninfa impietosita il desiderio di accompagnarlo. Le di lei querele sono con tal vaghezza e verità espresse che {p. 278}non possono mancare di commuovere l’anime sensibili. Eccellente è l’unica scena che forma l’atto V, ove sì leggiadramente si narra la caduta non mortale d’Aminta, l’arrivo di Silvia, e ’l di lei trasporto al vederlo in quello stato. Ella piagne, ella si percuote il bel petto, ella si lascia cadere sul giacente corpo, e giunge viso a viso e bocca a bocca, ella l’innaffia del suo pianto. Un oimè ch’esce dalla bocca di Aminta assicura Silvia della di lui vita: un di lui sguardo verso lei che gli bagna il volto di lagrime, fa certo Aminta dell’amore e della vita di Silvia.

Or chi potrebbe dir, come in quel punto
Rimanessero entrambi? fatto certo
Ciascun de l’altrui vita, e fatto certo
Aminta de l’amor de la sua ninfa,
E vistosi con lei congiunto e stretto;
Chi è servo d’amor, per se lo stimi;
Ma non si può stimar, non che ridire.

Per quanto si abbia di amore e di rispetto per gli antichi, convien confessare ch’essi tuttochè vadano fastosi per un Sofocle ed un Euripide, se fossero stati contemporanei del Tasso, ci avrebbero invidiato l’ Aminta136. Si è veduto come ben per tempo e {p. 279}più volte s’impresse e si tradusse in Francia, prima che quivi si conoscessero Lope de Vega, Castro e Calderon; il che sempre più manifesta il torto del Linguet nel pretendere che le prime bellezze teatrali avessero i Francesi imparate dagli Spagnuoli.

Antonio Ongaro nel 1582 produsse una favola nel genere dell’Aminta, ma imitando i costumi pescatorj. Non fu egli il primo a dipignerli; perchè Bernardo Tasso, Andrea Calmo, e Bernardino Baldi, e Matteo Conte di San Martino e di Vische, e Giulio Cesare Capaccio, e prima di tutti questi Giacomo Sannazzaro in latino e Bernardino Rota in toscano introdussero leggiadramente nelle loro ecloghe i pescatori. L’Ongaro volle trasportarli sulla scena, e prendendo l’Aminta per esemplare ne seguì con tale esattezza le orme che il suo Alceo, come ognun sa, ne acquistò il nome di Aminta bagnato. Trovo non per tanto che monsignor Paolo Regio sin dal 1569 pubblicò in Napoli una sua favola pescatoria intitolata Siracusa da noi però non veduta ancora. Il Regio dunque fu {p. 280}il primo a portare in iscena gli amori de’ pescatori.

Il più volte nominato Cieco d’Adria ebbe il vantaggio, disse Apostolo Zeno, di comporre una pastorale prima del Guarini e dopo del Tasso, intitolata il Pentimento amoroso. Ma questa si pubblicò in Venezia nel 1583, ed io trovo, che nella stessa città un’ altra se ne impresse nel 1581 di Aluise Pasqualigo detta gl’ Intricati, la quale, come appare dalla dedicatoria fattane al principe dell’Accademia Olimpica, ed anche dal prologo, era stata rappresentata qualche anno prima a Zara. E’ un cattivo componimento fondato sopra incantesimi che producono nojose e inverisimili situazioni, e vi s’introducono per buffoni Calabaza Spagnuolo e Graziano Bolognese che parlano ne’ proprj idiomi. Altro dunque non ha di notabile che di aver preceduto il Pentimento amoroso. Il Groto scrisse indi un’ altra pastorale intitolata Calisto pubblicata per le stampe nel 1586.

Contemporanea al Pentimento fu la Danza di Venere di Angelo Ingegnieri. Era stata già rappresentata in Parma in presenza di Ranuccio Farnese giovanetto nel 1583, quando fu dedicata alla nobile Camilla Lupi che vi sostenne la parte d’Amarilli; e si stampò poi nell’anno seguente in Vicenza. L’intreccio è più complicato dell’Aminta, e si sviluppa con un’ agnizione. Venere {p. 281}stessa vi fa il prologo, e ne accenna l’argomento:

Miracol novo a fare or m’apparecchio
In quest’istesso loco. Il senno, il senno
Ch’altri sovente amando perde, amando
Far ch’uomo acquisti.

Ed in fatti Coridone di folle diviene assennato al contemplare le bellezze d’ Amarilli, a somiglianza del Cimone del Boccaccio.

In occasione delle nozze di Carlo Emmanuele duca di Savoja con Caterina d’ Austria fu nel 1585 rappresentata in Torino la prima volta la celebre tragicommedia pastorale del cavalier Giambatista Guarini intitolata il Pastor fido; ma s’impresse nel 1590. Una delle più vive battaglie letterarie si accese per questa favola, che vive e viverà, a dispetto de’ critici, per l’eleganza, per l’affetto, per le situazioni teatrali e per l’interesse che ne anima tutte le parti. Pochi son quelli che si sovvengono delle censure famose per altro di Giason di Nores, di Faustino Summo, di Giovan Pietro Malacreta, di Angelo Ingegnieri e di Nicola Villani, come altresì delle risposte che loro fecero, oltre all’istesso Guarini, Giovanni Savio, Paolo Beni, Giacomo Mazzoni, Orlando Pescetti e Ludovico Zuccoli. Ma il Pastor fido, malgrado de i difetti che vi si notano, sarà sempre un {p. 282}componimento glorioso per l’ autore e per l’Italia137. Anche il Fontanini138 maltratta il Guarini e la sua pastorale; ma il Barotti nella Difesa de’ suoi Ferraresi lo confuta vigorosamente. Apostolo Zeno si dichiarò pure a favore del Pastor fido. Il parlare troppo elegante de’ pastori in questa favola ebbe anche fuori dell’Italia un censore nel Rapin, che misurava que’ pastori colla squadra de’ villani e caprai delle moderne campagne; senza avvertire, che nell’ipotesi della pastorale del Guarini i pastori Arcadi fingonsi discendenti di Silvani e di Fiumi deificati, e formano una famiglia o repubblica pastorale, di cui i sacerdoti, a somiglianza degli antichi patriarchi, erano i maestri e i legislatori. Or a tali pastori disconverrebbe tanto il pensare e favellare {p. 283}alla foggia de’ nostri odierni pecorai, quanto a quella de’ cortigiani di Versailles, come fanno veramente i pastori del celebre Fontenelle. Ma possono sentire le umane passioni, e ragionarne colla penetrazione naturale, non come filosofi, ma come uomini che le stanno soffrendo. Quel che noi però non troviamo degno d’approvazione, si è qualche espressione soverchio leccata e raffinata, non già perchè col Rapin c’incresca l’eleganza, ma perchè la vera passione nel genere drammatico si spiega con maggior semplicità. Avvenne in somma al Pastor fido quel che nel secolo seguente seguì in Francia pel Cid di Pietro Cornelio; l’opera sopravvisse ad ogni censura.

Un carattere diverso dall’Aminta è da notarsi nel Pastor fido. L’azione della prima pastorale è semplice, e senza veruna agnizione; dell’altra è ravviluppata con un riconoscimento interessante: eccita l’Aminta la compassione; il Pastor fido giugne a quel grado di terrore che ci agita nel Cresfonte al pericolo del giovane vicino ad esser ucciso per mano della madre: l’Aminta senza storia precedente e senza colpi di scena c’interessa a maraviglia col solo affetto; il Pastor fido riesce artificioso per la tessitura e per un disegno più vasto e più teatrale. Anche di questa favola si fecero in Francia varie traduzioni in prosa molto infelici, ed {p. 284}in Ispagna una sola buona in versi del Figueroa139.

Benchè con passi assai disuguali e ben da lungi, seguirono le tracce luminose del Tasso e del Guarini varj altri poeti sino alla fine del secolo. Cristofano Castelletti Romano essendo ancor giovane140 scrisse l’Amarilli impressa nel 1587 e ristampata in Viterbo nel 1620. Un pastorello di Candia ama una ninfa e credendola morta di veleno abbandona le patrie contrade, erra per dieci anni e capita in fine nelle campagne della Toscana, dove s’innamora d’Amarilli perchè rassomiglia all’estinta Licori. Quest’Amarilli ritrosa non vuole ascoltarlo, a cagione di avere nella sua patria amato un pastorello chiamato Tirsi, a cui, benchè con pochissima speranza tutto serba il suo amore. Ma questo Tirsi è appunto il medesimo pastorello che col nome di Credulo ella disdegna, e Amarilli è quella stessa Licori {p. 285}pianta per morta da Tirsi. Questa ipotesi di non ravvisarsi, sebbene dopo dieci anni, due persone che tanto si amano, sembra veramente dura e mancante di verisimiglianza; contuttociò l’azione è condotta con destrezza e competentemente accreditata. A riserba poi di alcuni tratti troppo lirici e di certa intemperanza Ovidiana nell’accumulare immagini, lo stile è puro, la versificazione corrente, ben sostenuti e ben coloriti i caratteri, e la favola semplice e regolare. Benchè frammischiato di qualche ornamento lirico, spicca per la tenerezza e pel patetico il lamento di Credulo che vuol morire per la durezza della sua ninfa. Tenera nell’atto V è la riconoscenza di Licori e Tirsi. Non è questa una pastorale da gareggiar coll’ Aminta o col Pastor fido; ma supera moltissime altre che la seguirono, per l’affetto e per l’interesse che l’avviva. Non ebbe cori, ma solo cinque madrigaletti di ugual metro e numero di versi da cantarsi in ogni fine di atto. Dovè parimente cantarsi la canzone di Selvaggio nell’atto I,

Che mi rileva errar per gli ermi boschi,

che contiene cinque stanze colla rigorosa legge del metro regolare. Ma chi riconoscerebbe un’ opera musicale in un componimento senza cori, in cui oltre ad una canzonetta, {p. 286}si cantarono cinque madrigaletti per trattenimento negl’ intervalli degli atti? Nel medesimo anno 1587 comparvero due altre pastorali il Satiro dell’ Avanzi, e la Diana pietosa del Borghini. Uscì parimente in quell’anno dalle stampe del Veneziano Domenico Imberti l’Andromeda tragicommedia boschereccia di Diomisso Guazzoni Cremonese, dove interviene un Erbenio mago, oltre a Cupido trasformato in ninfa, i quali empiono la favola di prodigj.

Esercitossi parimente in questo genere la famosa Isabella Andreini Padovana una delle migliori attrici Italiane, che applicatasi alla poesia ne diede alla luce un saggio nel 1588 con una pastorale intitolata Mirtilla, la quale fu così ricercata che dal mese di marzo a quello di aprile se ne fecero in Verona due edizioni, essendo stata la prima dalla stessa autrice dedicata alla marchesana del Vasto Lavinia della Rovere, e la seconda dall’impressore alla signora Lodovica Pellegrina la Cavaliera. L’azione rappresenta la vendetta presa da Amore di due anime superbe che lo bestemmiavano, Tirsi pastore ed Ardelia ninfa, facendo che l’ uno arda e non ritrovi loco

Per amor di Mirtilla, e l’altra avvampi
Per sua pena maggior di se medesma;
{p. 287}

ed in fatti nell’atto IV si vede Ardelia divenuta un novello Narciso che si vagheggia in un fonte. Non è da cercarsi in questa ed in moltissime altre favole di quest’ultimi anni del secolo nè intreccio semplice o almeno moderatamente ravviluppato, nè quel linguaggio che richiede il genere drammatico. Sembra che allora i poeti facessero a gara in trasportare nelle pastorali tutti i raffinamenti della lirica poesia. La favola dell’Andreini non ha cori141. Nel medesimo anno 1588 pubblicaronsi altre due pastorali, l’Amaranta del Simonetti, e la Flori di Maddalena Campiglia lodata da Muzio Manfredi.

I Sospetti favola boschereccia di Pietro Lupi Pisano si pubblicò in Firenze nel 1589. Un dialogo tra l’Amore e la Gelosia ne forma il prologo, e dichiara le mire d’ambedue. Si figura l’azione avvenuta tra’ Pisani quando tuttavia dimoravano nello {p. 288}stato pastorale, e amore presagisce le future grandezze di Pisa. Lo stile è nobile, ma lirico come quello di tutte le altre; e l’azione, benchè non mi sembri molto interessante, è pure regolare. Anche questa pastorale è priva di cori.

Le Pompe funebri del celebre Cesare Cremonino, e le pastorali di Laura Guidiccioni dama Lucchese ornata di molto merito letterario, cioè la Disperazione di Sileno, il Satiro, il Giuoco della Cieca, e la Rappresentazione di anima e di corpo recitata in Roma colla musica di Emilio del Cavaliere, furono pastorali degli ultimi anni del secolo dettate, sì, con istile lirico, ma non tale da recarci rossore. Non così la Gratiana di un certo Accademico Infiammato uscita alla luce in Venezia nel 1590 ripiena di sciapite buffonerie e di personaggi scempi come un caprajo Tedesco e due buffoni Magnifico Veneziano e Graziano Bolognese.

Assai più degne di mentovarsi sono la Cintia di Carlo Noci Capuano, e l’Amoroso sdegno di Francesco Bracciolini Pistojese, che ornarono l’ultimo lustro del secolo. La Cintia, che s’ impresse in Napoli nel 1594 dal Carlino e dal Pace, e si ristampò dal Maccarano nel 1631, che è l’edizione conosciuta dal Fontanini, consiste in una ninfa creduta morta che dopo varj evenimenti vestita da uomo si presenta {p. 289}a Silvano suo amante che trova innamorato d’ un’ altra, e s’introduce nella di lui amicizia col nome di Tirsi. Tenta l’ animo di lui ricordandogli acconciamente la prima sua diletta, e trova che ne ama la memoria, ma che ha rivolto tutto l’amore a Laurinia. Ode poi Silvano che questo suo amico favorisce in di lui pregiudizio Dameta presso Laurinia, e credendolo traditore ne ordina la morte ad un servo il quale finge d’averlo ucciso. Silvano intende che il finto Tirsi era la sua Cinzia morta per la sua crudeltà; ne conosce l’innocenza e l’amore, e cade in disperazione. La veracità del di lui dolore fa che gli si faccia sapere che è viva, ed ei la toglie per consorte. La favola è divisa in cinque atti senza suddivisione di scene, e senza cori. Il primo rigoroso comando che riceve il finto Tirsi da Silvano è di partire da quelle selve, e le sue querele nel dovere lasciar quel luoco e la compagnia di Clizia sua amica, sono tenere e delicate. Nell’atto IV è benissimo espresso il dolore di Silvano, che dopo aver saputo che Ormonte suo servo ha ucciso Tirsi, intende da Elcino che questo Tirsi è la sua Cinzia.

La pastorale poi del Bracciolini, per sentimento dell’erudito Pier Jacopo Martelli, può andar subito appresso alle tre più famose, l’Aminta, il Pastor fido e la Filli di Sciro del secolo seguente. L’autore secondo il {p. 290}Mazzucchelli la compose in età di venti anni, e fu stampata in Venezia nel 1597 e poi anche nel 1598. In Milano nel 1597 ancora se ne fece un’ edizione corretta dall’autore, il quale giunto all’ ultima vecchiezza morì nella sua patria pieno di onorata fama per le molte sue opere ingegnose che produsse.

Alcuni anni prima e propriamente nel 1590 il celebre Muzio Manfredi compose in Lombardia142 una nuova Semiramide ma boschereccia, in cui si tratta delle di lei nozze con Mennone seguite in villa. Scrivendo di essa a Firenze a Giovanni de’ Bardi de’ Signori di Vernia afferma l’istesso autore d’averla cara quanto la tragedia, e che con tre lettere in otto giorni gliela domandò il duca di Mantova per farla rappresentare. Nel mandargliela, da tre di lui lettere dirette a tre Ebrei si ricava quanto impegno egli avesse che si rappresentasse colla maggior proprietà. All’ Ebreo Leone di Somma che dovea inventar gli abiti, raccomanda che sieno convenienti a’ personaggi Assiri; diligenza che si vede trascurata nel grottesco vestito eroico degli attori tragici Francesi, ed in quello pure stravagante de’ cantori {p. 291}dell’opera in musica. A M. Isacchino maestro di ballo prescrisse la qualità del ballo richiesto nelle quattro canzonette che s’interpongono negli atti; insegnando con ciò la convenienza che dovrebbero avere la danza e l’azione. Finalmente al maestro di musica Giaches Duvero incarica l’attenzione dovuta al genere di musica che esigono le mentovate canzonette. E qui domando a que’ dotti scrittori che vorrebbero trarre l’origine dell’opera musicale da secoli più remoti, e riconoscerla in tutte le pastorali, domando, dico, se loro sembri verisimile che il famoso Manfredi sì scrupoloso negli abiti e nel ballo, avrebbe inculcata al compositore di musica tutta la diligenza nelle sole canzonette, punto non facendo motto della musica del rimanente, se tutta la pastorale avesse dovuto cantarsi? Domando ancora, se a buona ragione la sola musica delle canzonette potesse bastare a far chiamare opere in musica le pastorali?

L’istesso chiaro autore delle due Semiramidi compose un altro scenico componimento pastorale intitolato il Contrasto amoroso fatto in Lorena l’anno 1591143, in cui, {p. 292}per quel che scrive l’autore a D. Vittoria Gonzaga principessa di Molfetta144, con novissima invenzione è un solo pastorello e dodici ninfe, delle quali quattro contrastano amorosamente ciascuna per averlo per marito, ed è vinto da una che si chiama Nicea. Sotto nome di Flori egli pretese introdurvi la signora Campiglia, come egli stesso a lei scrive, e sotto quello di Celia la signora Barbara Torelli, facendole fare insieme una scena in lode delle donne virtuose e in biasimo di chi non le riverisce. Sembra che questa pastorale sia rimasta inedita.

Inedita parimente rimase quella che scrisse la stessa Barbara Torelli Benedetti cugina del conte Pomponio, intitolata Partenia145. L’autrice da prima non vi pose i cori, e fu ben fatto (le dice il Manfredi scrivendole a Parma il dì 11 di gennajo), conciosiachè contenendo la pastorale azion privata, non è capace del coro, siccome non è anche la commedia per la medesima ragione, e non vi si fa. Se dunque V. S. vuole aggiugnergliele ora, non so da che spirito {p. 293}mossa, oltre alla gran fatica ch’ella imprenderà a comporre quattro canzonette colle circostanze richieste alle così fatte, le accrescerà bene il coro, ma le scemerà il decoro; e dico scemerà, e non leverà, per non dannare affatto l’uso di tutti quei poeti che alle loro il fanno; e fra tali poeti si vuol riporre l’ istesso Manfredi che il fece alla sua boschereccia.

Di un’ altra pastorale inedita fa anche menzione il Manfredi composta dal conte Alfonso Fontanelli, la quale (dice nella lettera 364) intendo esser un miracolo di quest’arte. E di questo letterato avea il Manfredi molta stima, e lo desiderava vicino per udirne il parere sopra il suo Contrasto amoroso, come l’udì sulla tragedia.

Fa altresì menzione il Manfredi di Enone boschereccia composta da Ferrante Gonzaga principe di Molfetta morto nel 1630, la quale era vicina a terminarsi nella fine del 1593. Francesco Patrizj la rammenta ancora con grandi elogj.

Finalmente il Visdomini fondatore dell’accademia degl’ Innominati di Parma, oltre alle tragedie già mentovate, compose l’Erminia pastorale dedicata al conte Pomponio Torelli, la quale fra tutte le nominate favole inedite sola trovasi conservata manoscritta nella ducal Biblioteca di Parma. Non sembrami veramente la cosa migliore di quel secolo ricco di tanti buoni drammi. {p. 294}L’azione passa tra pastori che aspirano alle nozze di Erminia, non conoscendola per quella che era stata regina d’Antiochia. L’interesse non vi si trova per verun personaggio. Un ratto di Erminia tentato da alcuni pastori ed impedito da Egone, forma l’ azione dell’atto IV; ma ella appena liberata, vedendo venire un guerriere a lui ricorre, lasciando Egone addolorato. Nell’atto V comparisce il principe Tancredi ferito, che ringrazia Dio della vittoria riportata del Circasso Argante. Il guerriere con cui è ita Erminia, era Vafrino; e l’uno e l’ altra riconoscono il ferito, ed Erminia, dopo averlo pianto come morto, si avvede che è vivo e ne imprende la guarigione. Nè lo stile nè la condotta fa desiderarne l’impressione.

CAPO V.
Primi passi del dramma musicale. §

Siamo pur giunti all’epoca vera, in cui la musica e la danza (che tanto diletto recavano ne’ cori teatrali ed in altre feste) congiunte alla poesia svegliarono l’idea ed il desiderio di un nuovo spettacolo scenico dopo il risorgimento delle lettere. La musica {p. 295}costante amica de’ versi146 ancor fra selvaggi, la quale in oriente si frammischia nelle rappresentazioni senza norma fissa, ed in Atene e in Roma avea accompagnata la poesia rappresentativa ora più canoramente come ne’ cori, ora meno come negli episodj, nelle grandi rivoluzioni dell’Europa se ne trovò disgiunta. Abbandonato il teatro alla poesia e alla rappresentazione, la musica si conservava nelle chiese, ed accompagnava la danza e i versi che ne’ caroselli soleano cantarsi su i carri ed altre macchine147. Cominciò poi a richiamarsi sulle {p. 296}scene in qualche passo delle sacre rappresentazioni. Quindi s’introdusse nelle profane, cantandosi i cori delle tragedie e delle pastorali, ed anche i tramezzi delle commedie non meno in versi che in prosa.

Il favorevole accoglimento fatto alla musica richiamata sulle scene, menò assai naturalmente gl’ Italiani ad accoppiarla a tutte le parti del componimento per convertirlo in opera musicale. E perchè tale divenisse, convenne immaginarsi una nuova specie di poesia rappresentativa, la quale avesse certe e proprie leggi che la rendessero in varie cose differente dalla tragedia, dalla pastorale e dalla commedia. Dovè dunque concepirsi di tal modo, che le macchine per appagare la vista, l’armonia per dilettare l’ udito, il ballo per destare quella grata ammirazione che ci tiene piacevolmente sospesi agli armonici, graziosi, agili e leggiadri movimenti di un bel corpo, cospirassero concordemente colla poesia anima del tutto, non già qualunque o simile a quella che si adopera in alcune feste, ma bensì drammatica e attiva, ad oggetto di formare un tutto e un’ azione bene ordinata, e cantata dal principio sino al fine, e (per dirlo colle parole del più erudito filosofo e dell’ uomo del più squisito gusto che abbia a’ nostri dì ragionato dell’opera in musica, cioè del conte Algarotti) di rimettere sul teatro moderno Melpomene accompagnata {p. 297}da tutta quella pompa che a’ tempi di Sofocle e di Euripide solea farle corteggio. Or questa è l’opera musicale; a giudizio di tutta l’ Europa; e questo lavoro nella nostra lingua non s’inventò prima degli ultimi tre anni del cinquecento148.

Non si sarebbero mai immaginato i moderni Anfioni teatrali, che i primi Cantanti, ovvero istrioni musicali, sieno stati l’ Arlecchino, il Pantalone, il Dottore ed altre maschere; e pure con questi personaggi incominciò l’opera. Orazio Vecchi Modanese verseggiatore e maestro di cappella, animato dalla felice unione della musica e della poesia che osservò in tante feste e cantate e ne’ cori delle tragedie e delle pastorali, volle il primo sperimentare l’effetto di tale unione in tutto un dramma149, e nel 1597 fece rappresentare in musica alle {p. 298}nominate maschere il suo Anfiparnaso, stampato l’anno stesso in Venezia appresso Angelo Gardano in quarto, e di note musicali corredato dal medesimo autore.

Sia poi che il nobile Fiorentino Ottavio Rinuccini (il quale fu gentiluomo di Camera di Errico IV re di Francia, e non commediante, come disse ne’ suoi Giudizj il Baillet ripresone a ragione da Pietro Baile) s’inducesse per l’ esempio del Vecchi a formar del dramma e della musica un tutto inseparabile in un componimento eroico e meglio ragionato, ovvero sia che le medesime idee del Vecchi a lui ed a’ suoi dotti amici sopravvenissero, senza che essi nulla sapessero del Modanese: egli è certo che il Rinuccini, col consiglio del signor Giacomo Corsi intelligente di musica, mostrò all’Italia i primi veri melodrammi eroici nella Dafne, nell’Euridice e nell’Arianna, i quali per l’ eleganza dello stile, per la felice novità musicale e per la magnificenza dello scenico apparato, riscossero un plauso universale. La Dafne rappresentata nel 1597 avanti la Granduchessa di Toscana in casa del nominato Corsi grande amico del Chiabrera, e l’Euridice in occasione del matrimonio di Maria de’ Medici con Errico IV, furono poste in musica da Giacomo Peri, e s’impressero in Firenze nel 1600. L’Arianna posta in musica da Claudio Monteverde si cantò nel matrimonio {p. 299}del principe di Mantova colla Infanta di Savoja, e nel 1608 uscì alla luce anche in Firenze. Oltre a questi tre drammi l’Eritreo fa menzione dell’Aretusa altro dramma del Rinuccini. Non per tanto osserva il Baile che Giacomo Rilli nelle Notizie intorno agli uomini illustri dell’Accademia Fiorentina, non fa motto di quest’Aretufa, tuttochè così diligente si fosse mostrato in quanto concerne questo scrittore. Appartiene ancora al Rinuccini la Mascherata dell’ingrate balletto eseguito in occasione del matrimonio del principe di Mantova, nella qual città fu impresso in quarto l’anno 1608. Or perchè non dobbiamo impropriamente stendere il nome di opera fino a que’ drammi ne’ quali soltanto i cori e qualche altro squarcio si cantavano, e molto meno a quelle poesie cantate che non erano drammatiche, ma unicamente attribuire il titolo di opera a que’ componimenti scenici, ne’ quali sarebbe un delitto contro al genere, che la musica si fermasse talvolta dando luogo al nudo recitare: egli è manifesto che l’opera s’inventò nella fine del secolo XVI, e che si dee riconoscere come inventore dell’opera buffa l’autore dell’Anfiparnaso, come primo poeta dell’opera seria o eroica il Rinuccini, e Giacomo Peri come primo maestro di musica, che, secondochè ben disse sin dal 1762 l’Algarotti, con giusta ragione è da dirsi l’inventore del Recitativo.

{p. 300}

I pedantini e gli scrittorelli oltramontani forestieri per avventura nelle lettere greche, latine e toscane, e ne’ giusti principj di ragionare, sogliono rimproverare all’Italia questo genere difettoso a lor parere che manda a morir gli eroi cantando e gorgheggiando150. Bisogna dire che questi sieno i pretti originali degli eruditos à la violeta dell’ ingegnoso mio amico il signor Cadalso y Valle, e che appena leggano pettinandosi {p. 301}alcuni superficiali dizionarj o fogli periodici che si copiano tumultuariamente d’una in altra lingua, e che con tali preziosi materiali essi pronunziano con magistral sicurezza, che il canto rende inverisimile le favole drammatiche. Come risponderemo loro per renderli meglio istruiti? Che le antiche tragedie e commedie altro non erano che una specie di opera151? Ma bisognerebbe prima d’ogni altra cosa far loro intendere che cosa fosse fra gli antichi orchestra, timele, melopea, tibie uguali, disuguali, destre, sinistre, serrane, e modo Frigio, Ipofrigio, Lidio, delle quali cose è forza che non abbiano veruna idea. Diremo che il canto è una delle molte supposizioni ammesse in teatro come verisimili per una tacita convenzione tra’ rappresentatori e l’uditorio152? Ma il loro svaporato cervellino {p. 302}mal sosterrebbe il travaglio di analizzar le {p. 303}dee che sono concorse alla formazione degli {p. 304}spettacoli teatrali. Appigliamci al partito {p. 305}più proprio per la loro capacità, rimandandogli {p. 306}a leggere ciò che in tal questione {p. 307}scrisse giudiziosamente M. Diderot {p. 308}uno de’ più rinomati ragionatori moderni della Francia153.

{p. 309}

Così terminò il secolo XVI glorioso in tante guise per l’Italia: cioè per aver fatta risorgere felicemente in aureo stile la greca tragedia, il teatro materiale degli antichi e la commedia de’ Latini; per l’invenzione di tanti nuovi tragici argomenti nazionali e tante nuove favole comiche ignote a’ Latini; per aver somministrati a’ Francesi tanti buoni componimenti scenici prima che conoscessero Lope de Vega e Guillèn de Castro; pel dramma pastorale ad un tempo stesso inventato e ridotto ad una superiorità inimitabile; finalmente per l’origine data al moderno melodramma comico ed eroico. Or che cosa fecesi in tal secolo oltramonti?

{p. 310}

AVVISO. §

Per servir sempre al possibile all’istorica veracità in ogni parte di quest’ opera, conviene quì aggiugnere una nota al libro III contenuto nel presente volume, indi due correzioni, giunte, o miglioramenti al precedente.

Si vuol dunque in prima apporre in fine del capo I alla pagina 31 di questo tomo, dopo le parole curiosamente si rintracciano, la seguente nota:

(1) Con singolar nostro compiacimento vediamo che il chiar. cavalier Tiraboschi nelle sue addizioni al tomo IV pag. 343 siasi mostrato egli stesso propenso a reputar drammatiche ed animate con parole le rappresentazioni del secolo XIII della Compagnia del Gonfalone, ed altre simili. E perchè l’ autorità che ne reca riduce all’evidenza il nostro avviso, ne trascriviamo le parole. A provarlo (egli dice) “si posson recare alcuni bei monumenti tratti dagli Statuti della Compagnia de’ Battuti di Trevigi eretta nel 1261 e pubblicati dal più volte lodato sig. conte canonico Avogaro (Memorie del B Enrico P. I), perciochè in essi si legge che i canonici di quella chiesa doveano dare in anno quolibet dicte Schole duos Clericos sufficientes pro Maria & Angelo & bene instructos ad canendum in festo fiendo more solito in die Annuntiationis; e i Castaldi della Scuola eran tenuti providere dictis Clericis qui fuerint pro Maria & Angelo de {p. 311}indumentis sibi emendis per dictos Castaldiones; e nelle Parti della medesima scuola si legge: Cantores . . . habeant soldos X pro quolibet . . . in die Annuntiationis B. M.V. cum fiet representatio.”

Ecco poi le due enunciate correzioni al tomo II che presento a’ miei gentili lettori, approfittandomi delle dotte insieme ed obbliganti insinuazioni di un valoroso nostro Letterato che mi onora della sua preziosa amicizia.

I. Correggasi la nota (1) della pagina 5 in questa guisa:

(1) Di questo puttino Etrusco trovato nell’agro Tarquiniense ed illustrato dall’ Ab. Passeri favella parimente il chiar. Ab. Amaduzzi nella sua seconda edizione dell’Alfabeto Etrusco premessa al tomo III Pictur. Etruscor. in vasculis dello stesso Sig. Passeri.

Di un altro putto Etrusco che si vuole trovato sin dall’anno 1587 vicino al Lago Trasimene, e poi rubato dal Museo del conte Graziani Perugino, e ricuperato indi a molti anni, favellarono il P. Ciatti nella Perugia Etrusca, Monsignor Fontanini, il Senatore Filippo Buonarroti, ed il Proposto Anton Francesco Gori.

Si vuol quì parimente notare che non mancarono all’Etruria alcuni insigni incisori di gemme. Vengono da più periti antiquarj con particolar lode rammentati e tenuti per Etruschi, Admone cui si attribuisce l’Ercole bibace una delle più pregiate gemme Etrusche, ed Apollodoto, di cui si ammira una gemma con una testa di Minerva incisa a punta di diamante, ed {p. 312}un’ altra rappresentante Otriade del Museo Cortonese. Se ne veggano i Comentarj del chiar. Ab. Bracci, de’ quali leggesi un bell’ estratto nel Nuovo Giornale Modanese de’ Letterati d’Italia tom. XXXIX, art. V.

II. Nella pagina 249 alla notizia che si dà del rottame del teatro di Rimini, aggiungasi la seguente nota (4):

(4) Altri ha creduto che fosse anfiteatro. Per avviso però datomi con somma gentilezza dal dotto Sig. Ab. Amaduzzi conviene aggiugnere che le reliquie di questa fabbrica non sono in realtà nè teatro nè anfiteatro, ma sì bene un’ opera de’ tempi bassi, per quel che indica il lavoro troppo minuto nelle cornici di alcune basi di colonne piane rimasteci. Quindi sono esse state piuttosto credute portici, ne’ quali introducevansi le mercanzie in città dall’antico porto che ora è in secco, e di cui sussistono le ruine del molo ora chiamat omuraccio o il torrazzo dell’Ausa fiume che bagna la città dalla parte di Oriente.

{p. 313}

NOTE ED OSSERVAZIONI DI D. CARLO VESPASIANO in questa edizione accresciute. §

Nota I. §

Rien de plus rare chez les François & chez les Germains (afferma un celebre scrittore Francese) que de sçavoir écrire jusqu’au treizieme & quatorzieme siècles; presque tous les actes n’étoient attestés que par témoins. Ce ne fut en France que sous Charles VII en 1454, qu’on rédigea par écrit les coutumes de France. L’art d’écrire étoit encore plus rare chez les Espagnols.

Nota II. §

Quanto alla lingua Italiana è stato non senza ragione detto, che simile a Pallade nacque bella ed armata dalla testa di Giove per l’innesto non pure del latino parlare e del settentrionale, ma de’ rimasti rottami de’ primitivi linguaggi Italici de’ popoli indigeni, e de’ forestieri Etrusci, Osci, Greci, Sabini, ed altri, che anticamente abitarono le nostre amene regioni. Il celebre Ottone Vescovo di Frisinga, zio dell’ Imperador Federico I Barbarossa, nel ritratto che dopo la metà del XII secolo fece dell’Italia, frall’altre cose confessa (lib. II. cap. 13. de Gestis Friderici), che i popoli Italiani già in quel tempo nulla più ritenevano de’ barbarici costumi degli antichi Longobardi, {p. 314}e che ne’ loro costumi e linguaggio compariva molto della pulizia e leggiadria de’ vecchi Romani. L’eruditissimo Muratori conta dal soggiorno dell’ Imperadore Federico II in Sicilia, verso l’anno 1220, i primi buoni versi Italiani. Dante Alighieri, che col sumministrare all’ Italica favella per mezzo delle sue dotte e ingegnose produzioni non poca robustezza, vivacità ed energia, e coll’ arricchirla di molte e varie immagini, e di molti e varj colori poetici, mostrò con effetto, siccome disse il Boccaccio nella di lui Vita, con essa ogni alta materia potersi trattare, e glorioso sopra ogni altro fece il volgar nostro; Dante che perciò fu dal Petrarca chiamato ille eloquii nostri dux, da Paolo Giovio il fondatore del Toscano linguaggio, e da altri il Poeta de’ Pittori; Dante afferma nel capitolo X del suo Convivio, che per l’Italico idioma altissimi e novissimi concetti convenevolmente, sufficientemente, e acconciamente si poteano manifestare, quasi come per l’istesso Latino; e loda in esso l’ agevolezza delle sillabe, la proprietà delle sue condizioni, e le soavi orazioni che già fin d’allora se ne faceano, le quali chi ben guarderà, vedrà esser piene di dolcissima e amabilissima bellezza.

Nota III. §

Il citato Ottone da Frisinga nel succennato luogo ci attesta parimente che le Città Italiane de’ suoi tempi erano senza dubbio più ricche di tutte quelle d’oltramonti; anzi il soprallodato Muratori nella Conclusione degli Annali d’Italia, che trovasi dopo l’anno 1500, giunge a dire queste precise parole: Non si può negare, che negli ultimi predetti secoli, cioè dopo il mille e cento di gran lunga abbondasse più l’Italia di ricchezze che oggidì. Lo stesso Muratori, negli Annali d’Italia all’anno {p. 315}1036 parlando delle famose nozze di Bonifazio marchese di Toscana con Beatrice di Lorena, dice coll’ autorità del celebre Donizione citato qual testimonio di vista che “per tre mesi nel luogo di Marego sul Mantovano si tenne corte bandita. Pel popolo vi erano pozzi di vino; alle tavole piatti e vasi tutti d’oro e di argento; prodigiosa quantità di strumenti musicali, e di mimi, a’ quali dedit ingens Dux prœmiæ maxima. Il che ci fa conoscere già introdotto il costume, che durò poi per più secoli, che a simili feste concorrevano in folla tutti i buffoni, giocolieri, cantambanchi, e simili che portavano via de’ grossi regali”. In fatti all’anno 1324 tenendo in Rimino corte o curia i Malatesta, si contarono 1500 cantambanchi, giocolieri, commedianti (dice il Muratori negli Annali) e buffoni, musici, sonatori, oltre a quelli che già fissi erano al soldo de’ Principi. I lor giuochi, siccome ricavasi dalla Cronica Bolognese, erano d’ogni fatta, e ridicoli e serj, e d’industria e di mano, e di scena e di medicina eziandio. Così nelle nozze d’un Gonzaga al 1346 si distribuirono in Mantova a tal gente 338 vesti; nè queste erano di poco prezzo, leggendosi nelle Cronache di Verona, che delle 200 date loro da uno Scaligero per le sue nozze, la minore costava dieci docati, che allora era non poca moneta, come ognun sa. Così alle nozze di Galeazzo I con Bianca di Savoja nel 1350 furono date, secondochè dice il Corio e ’l Giovio, settemila braccia di panni buoni a buffoni e giocolieri, che allora correvano a rallegrare tali feste. Tuttociò ho voluto notare, acciocchè s’intendano la ricchezza, i costumi, e ’l genio di questi secoli.

Nota IV. §

Michele Nostradamus fu Medico, Astrologo, {p. 316}e Profeta Narbonese. Egli d’anni sessantadue finì di vivere al 1568. Le Vite de’ Poeti Provenzali da lui scritte, e per la prima volta stampate in Lione l’anno 1575, sono piuttosto favolosi racconti che vere storie, siccome con dotta critica hanno mostrato i Maurini autori della storia generale della Linguadocca tom. II, e l’Abate Goujet nella Biblioteca Francese tom. VIII. Veggasi il Tiraboschi tom. III.

Nota V. §

I Poeti Provenzali, che per quanto chiaramente ricavasi da due passi del Petrarca l’uno del Trionfo d’Amore cap. 4, e l’altro della Prefazione alle sue Epistole Famigliari, vennero dopo i nostri Siciliani a verseggiare e a far uso della rima nelle moderne lingue volgari, si distinguevano con varj nomi secondo i loro varj mestieri, in Troubadores, cioè trovatori, così detti dal trovar prontamente le rime, e dall’inventar favole verseggiando, in Canterres, o cantori, i quali cantavano i versi composti dai Trobadori, e in Giullares, o siano Giucolari, o Giullari, che vale lo stesso che giocolieri, o buffoni, i quali nelle pubbliche piazze, o nelle fiere intertenevano il popolo con varie buffonerie, sonando qualche stromento, o sollazzavano i conviti de’ Principi e gran Signori con canti, suoni e balli, celebrando le gesta de’ Paladini, e le bellezze delle donne. Tutti costoro venivano compresi sotto il nome generico di Mnestrels, i quali in Italiano, secondo che ha osservato il Redi in una lettera a Carlo Dati, furono da Giovanni Villani chiamati Ministrieri, e da Matteo Villani Minestrieri, e da qualche altro scrittore Ministelli dal latino barbaro Ministellus. I Trovatori fiorirono ed abbondarono principalmente verso la {p. 317}metà del XII secolo nella Provenza, Linguadocca, Guascogna, Gujenna, nel Limosino, nel Poitou, nell’Alvernia, in somma in tutta quella parte di Francia, che Gallia Gotica, o meridionale, o Provenzale fu detta. Questi Trobadori erano quasi tutti Principi, Cavalieri, Militari con alcuni Vescovi, Canonici, Claustrali, e altre persone le più distinte ed amabili dell’uno e dell’altro sesso, che aveano spirito, senso e talento per la gaja scienza, cioè per la scienza d’ amore e di poesia a que’ tempi usata. Tennero nella Città d’Aix, Capitale della Provenza, e in Avignone la famosa Corte o Parlamento d’Amore, e poscia in Tolosa l’Accademia de’ Giuochi florali, ove ognuno sceglievasi un’ Amica, e la stabiliva sovrana dominatrice delle sue azioni e de’ suoi pensieri; e di là vennero le giostre, i tornei, i balli, le feste, le divise, come anche le canzoni, le ballate, ed altre specie di composizioni poetiche. Costoro, benchè di Greche e Latine lettere sforniti fossero, pure colle sole disposizioni vantaggiose che avean dalla natura e dal clima, poetavano per solo desio d’onore, e per genio, nella lingua Provenzale, lingua, al dir del dottissimo Provenzale Abate Arnaud, che coltivata, dopo l’estinzione della latina, da anime ugualmente vivaci e tenere, divenne quella di tutte le corti dotte e polite dell’Europa. I Giullari, che in abito proprio e buffonesco anzi che no andavano girando colle arpe, e le viuole, e con altri strumenti per le case e per le mense de’ Grandi (come fecero da principio nella Grecia i primi antichissimi Cantori e Poeti, e poi i Rapsodi dopo Omero, ed anche nel Settentrione i Bardi e gli Scaldi), soleano per interesse cantar gli altrui componimenti, sfidandosi scambievolmente a poetiche e {p. 318}musicali tenzoni, e vantandosi ciascuno di superar il suo rivale non meno nella gentilezza e lealtà dell’amore, che nella prontezza dell’ingegno; e quando alcun Principe e gran Signore celebrar volea solenne festa di nozze, di corte bandita, di torneamenti ecc., non mancavano di venirvi in folla per dar saggio del loro valore, e farsi gran nome. V. il Sig. De la Curne de Sainte Palaye nelle Memorie sull’antica Cavalleria, Onorato di S. Maria Accad. delle scienze tom. 65, l’Ab. Arnaud nel supplimento alla Gazzetta letteraria dell’Europa del dì 4 luglio 1764, tom. II, M. Millot nella Storia letteraria de’ Trovatori, il Cav. Tiraboschi nella Storia della Letteratura Italiana, tom. IV, lib. III, cap. 2 ecc.

Nota VI. §

Bardi chiamaronsi i Poeti Celti della Gallia, della Scozia, dell’Irlanda e della provincia di Galles nella Gran Brettagna; e Scaldi quei della Scandinavia, e di tutta l’antica Germania. Gli uni e gli altri furono in grandissima stima e venerazione, e vennero spesso innalzati da i capi delle loro nazioni e tribù a cariche assai ragguardevoli; perchè la loro arte riguardavasi da’ nazionali come qualche cosa di divino, e la loro persona come sacra. I Bardi, per quanto ricavasi dalla dotta dissertazione critica dello Scozzese Sig. Blair intorno ai poemi del Celto Ossian, e dall’erudite Memorie de’ Bardi Irlandesi del Sig. Cooper Walke, non solo conservavano per mezzo della tradizione tutte le poesie composte da’ loro predecessori, e di continuo coltivavano la memoria ed esercitavano la fantasia sopra idee di eroismo, ma in tempo di battaglia, come tanti Tirtei, accendevano gli animi de’ soldati al furor marziale, battendo con entusiasmo l’arpa; e {p. 319}fu Eduardo I talmente persuaso della loro potente influenza su di essi, che avendo fatta la conquista del paese di Galles, per assicurarsela, per una politica (come dice Davide Hume nel vol. II della sua pregiatissima Storia d’Inghilterra) barbara, ma non assurda, radunati in un luogo tutti i Bardi del paese, ordinò che fossero uccisi. In tempo di pace ordinariamente cantavano l’ eroiche azioni de’ loro guerrieri per tramandarle a’ posteri; e per ciò Tacito disse de’ Germani, che altra storia essi non aveano che i canti de i loro Poeti; e i Bardi furono energicamente chiamati da Ossian i Re della fama. Gli Scaldi accompagnavano i loro Re ancora ne’ combattimenti, e nelle corti, e per incitarli a marziali ed onorate imprese cantavano i loro versi chiamati runici, e i loro cantici appellati wises, de’ quali serbasi una gran quantità nel settentrione, scritti nell’antica lingua Scandinava, o Gotica, o Teutonica, ch’era una eademque, e comune a tutti i popoli del Nort, e ch’è stata la madre delle lingue moderne della Svezia e della Danimarca, e che ancora parlasi colla maggior purezza nell’Islanda. In alquante di queste poesie Scandinave, o Runiche, raccolte da Anders Wedel, da Peder Sys, dal Bjorner, dal Mallet, dal Sig. Giacobi Segretario dell’Accademia delle Scienze di Coppenhaghen, e da altri, si trova (checchè ne avesse detto in contrario Olao Wormio nell’appendice al suo trattato de Litteratura Runica) impiegata la rima; il che prova che questa non è affatto, siccome l’hanno asserito il Crescimbeni ed altri, una invenzione de’ monaci del IV o del V secolo.

Nota VII. §

Queste imprese, secondo che io mi avviso, cantavansi da’ ciarlatani così denominati, {p. 320}siccome ben osserva il Muratori, dal cantare che per lo più facevano, le gesta di Carlo Magno. E sotto questo nome generico di ciarlatani si comprendevano a que’ tempi non solo gli scenici, cioè i mimi, buffoni ed istrioni ma eziandio i giullari e i ministrieri. In una cronaca scritta a penna d’autor anonimo, che può credersi compilata nel XII secolo da altre cronache, e ch’è mentovata dal Muratori de antiq. medii ævi, tom. II, dissert. 29, pag. 844, si dice descrivendosi l’antico teatro della Città di Milano, super quo histriones cantabant, sicut modo cantantur de Rolando, & Oliverio, finito cantu bufoni & mimi in citharis pulsabant, & decenti motu corporis se volvebant.

Nota VIII. §

Dove siete andati, felici tempi, in cui ogni Principe, ogni Signore del bel paese,

Ch’Appennin parte, e ’l mar circonda e l’ Alpe,

si facea gloria di esser Mecenate delle lettere, e di conoscere, amare, onorar, premiare, incoraggiar e proteggere con grandezza d’animo e buon senno le arti tutte e gli artefici? La Francia e l’Inghilterra per loro buona sorte fin dal secolo scorso godono di questo vantaggio ed onore che tanto influisce nella felicità degli stati. Les talens endormis dans le sein de la nature (dice egregiamente il Cardinal de Bernis) ne s’éveillent presque jamais qu’à la voix des Princes bienfaisans. E il nostro celebre filosofo Antonio Genovesi (degnissimo di quanto ne ha maestrevolmente e veracemente ragionato nel V tomo delle Vicende della Coltura delle Sicilie lo Storico filosofo Don Pietro Napoli-Signorelli autore di quest’eccellente Storia de’ Teatri) anche così: Il favor de’ Monarchi {p. 321}sa germogliar nello Stato gli uomini illustri, ed accende l’anime grandi ad operar cose grandi: queste sono le molle che fanno muovere gli umani talenti. E pure (come bene ha osservato nell’Entusiasmo delle belle arti l’Ab. Bettinelli) oggi senza favor de’ Principi, senza emulazione, senza ricompense, nella decadenza di tutto, e nel languore delle artistesse, hanno elleno sempre in Italia gran voga, e continuano a far l’ammirazione degl’ intelligenti e disappassionati Oltramontani per lo singolar talento, che in esse posseggono i nostri a quel grado che vuole il migliore entusiasmo.

Ma sebbene in Italia da qualche tempo suol farsi de’ Letterati e degli Artisti quell’uso che fassi de’ limoncelli, come diceva l’eloquente Cardinal Cassini, i quali, trattone il sugo, si gittano nel letamajo, pur con tutto ciò a disinganno di certi mal prevenuti e mal istruiti Oltramontani si vuol avvertire, che gl’ Italiani nell’opere d’alto ingegno, ove han posta cura, e in tutte le produzioni delle arti dell’ immaginazione, del genio, del sentimento, e del gusto, per la leggiadria, dolcezza, energia, e maesià della lingua, pe ’l propizio influsso del cielo, per la serenità, fervenza, e temperatura dell’aere, per le ridenti e maravigliose prospettive, per la vaghezza, amenità e fertilità del paese, o come diceva il buon vecchio Ippocrate, per l’arie, l’ acque, i terreni, per l’armonica tempera, e per la delicatezza de’ sensi, per la proprietà del loro temperamento, per la massima parte melancolico sebbene poco o niente apparente nell’esteriore, per la placidezza, avvenenza, e gentilezza de’ costumi, per lo sodo, nobile, e grazioso modo di pensare, e di fare, in somma per la natural vampa d’ingegno fervido, elevato, sagace, {p. 322}ed inventivo, sono stati, sono, e saranno in ogni età eminenti, ed a tutte le più culte nazioni moderne, uguali, e ad alla maggior parte, superiori; perchè (dicasi con altre parole dell’ anzilodato Ab. Bettinelli) le arti, le lettere, e la cultura sono in Italia come in clima nativo, e germogliano da per tutto, e vivono anche nell’abbandono di premj, e di Mecenati.

Nota IX. §

Il Poliziano fu il primo a introdurre nella nostra poesia il Ditirambo, e ne diede l’esempio in questo dramma, ed ancora nelle sue Rime scritte a penna, secondo che ci accerta il Crescimbeni. Questa sorte di poesia, che richiede ardenza singolare di spirito, ed ama voci composte alla greca, stravolte, nuove e risentite, manca del tutto alla lingua Francese, per non esserne capace, come confessa l’Ab. Arnaud; nè altra lingua moderna vi è tanto acconcia, quanto l’Italiana, siccome può vedersi da i Ditirambi del Redi, Menzini, Magalotti, Baruffaldi e Pecchia.

Nota X. §

Riccoboni nella II parte dell’Istoria del Teatro Italiano, il Marchese Gorini Corio nel suo Teatro Tragico e Comico, e ’l Conte di Calepio nel Paragone della Poesia Tragica d’ Italia con quella di Francia, diedero il piano e la critica di questa tragedia del Trissino. Di tutte le traduzioni ed imitazioni di essa fatte da’ Francesi riferite dal nostro autore, quella di M. Mairet, gentiluomo del Duca di Montmorenci, non solo fu tralle altre mentovate l’unica che si sostenne in teatro per lunga pezza, ma fu anche, al dir del Sig. di Voltaire, la prima tragedia francese, in cui ad imitazione del Trissino si videro osservate le regole delle {p. 323}tre unità, e che servì perciò di modello alla maggior parte delle tragedie francesi che vennero appresso. Pare dunque che il Trissino (il quale non so perchè e donde venga dal Voltaire ed indi da altri di lui compatriotti appellato Arcivescovo) abbia servito di lume e scorta a’ primi Francesi che si esercitarono nel genere tragico. Diciamlo quì di rimbecco e per incidenza a risposta e mortificazione di tanti ignoranti e boriosi critici che a lor bel piacere sono andati e vanno tutto giorno disprezzando e malmenando in generale con somma ingratitudine e malignità la nostra nazione e le nostre cose: Ogni uomo dotto sa, che per opera degl’ Italiani a poco a poco diradaronsi in Francia le densissime tenebre dell’ignoranza, dileguossi la stupenda barbarie Gaulese, e surse non che il primo crepusculo di luce letteraria, ma il buon gusto nelle belle arti e scienze tutte. Veggasi Guglielmo Budeo in Philolog. pag. 137, Fleury nel Metodo degli studj, il sig. di Voltaire, ed altri. C’est par l’Italie que les sciences, les lettres, & les arts sont parvenus jusqu’à nous, dice Carlo Duclos nell’Istoria di Luigi XI, vol. III, pag. 167.

Nota XI. §

Luigi di Pietro Alamanni che fu bandito di Firenze sua patria come reo di congiura contro la vita del Cardinal Giulio de’ Medici, e che si ricoverò in Francia, dove di tal sorte incontrò la grazia del Re Francesco I, che n’ ebbe cariche onoratissime, e premj considerabili, morì in Amboise nel 1556. Egli è stato creduto anche autore di quella diabolica tragedia del libero arbitrio; ma questa fu lavoro di Francesco Negri Bassanese, apostata della nostra Cattolica Fede, come ci accerta il dotto autore anonimo delle Note fatte sopra una lezione {p. 324}del Marchese Maffei inserita nel I tomo della Biblioteque Italique compilata e impressa in Ginevra nel 1728.

Nota XII. §

Per mezzo delle più celebri tragedie Italiane del XVI secolo, tutte secondo Aristotile e il Greco teatro composte, può dirsi allor sorta e giunta al colmo la tragica letteratura, imitata poi da Francesi e Spagnuoli con molto maggior minutezza e povertà, che non aveano i nostri mostrata nell’imitazione de’ Greci. Or da questo passo del Ch. Abate Bettinelli, e assai più apertamente da tutto ciò che sin quì con saggio criterio e raziocinio, e con iscelti esempj, ha detto e dimostrato il nostro erudito critico filosofo, e poeta drammatico Don Pietro Napoli Signorelli, vedesi quanto il sig. Ab. Andres s’inganni e vada errato allorchè con troppa precipitazione ed arditezza fassi a così dire: La parte drammatica (degl’ Italiani) cede senza contrasto al greco teatro, e benchè gl’ Italiani sieno stati i primi a coltivare con arte e con vero studio la poesia teatrale, non hanno però prodotto prima di questo secolo, tolte le pastorali del Tasso e del Guarini, un poema drammatico che meritasse lo studio delle altre nazioni. Oh quanti pretendono di seder giudici, e sentenziar di quelle cose, ch’essi ignorano, o che non sono della loro competenza! Non hanno meritato lo studio dell’altre nazioni i tanti argomenti nuovi di drammi Italiani, da cui gli Oltramontani nei loro drammi di simile argomento hanno spesse fiate traportato con poco variamento non pur il piano, l’ intreccio, la condotta, le situazioni, lo scioglimento, ma i costumi, i caratteri, i pensieri, e gli affetti degl’ interlocutori posti in azione? Non meritano lo studio dell’altre nazioni i {p. 325}drammatici Italiani del XVI secolo, se non per altro, per la cultura, proprietà, purgatezza della loro lingua che a que’ tempi rifioriva? Eppur il sig. Andres nel tom. IV dell’opera sua ebbe a dire con sensi di verità: Si distingueva l’Italia sopra le altre nazioni per la superiorità di parlare con tanta cultura la propria lingua, come se di questa sola facesse tutto lo studio. Al principio del secolo XVI le lingue nazionali giacevano ancor neglette, e sola l’Italia poteva vantare ne’ suoi volgari scrittori esemplari da paragonare in qualche modo agli antichi, e da proporre all’imitazione de’ moderni. La Spagna fu la prima nazione che abbracciasse l’esempio dell’Italia; e la lingua Spagnuola in fatti è l’unica che conti, come l’Italiana, per suo secolo d’oro il secolo XVI.

Nota XIII. §

Parlando il sig. di Voltaire del mal gusto de’ Francesi del secolo XVI dice: Pour les Français, quels étaient leurs livres & leurs spectacles favoris? Les Chapitres de torcheculs de Gargantua, l’Oracle de la dive Bouteille, les pièces de Chrétien & de Hardy.

Nota XIV. §

Il Negromante dell’Ariosto fu tradotto in prosa francese da Giovanni de la Taille, e stampato in Parigi senza nota di anno verso il 1562, e poi di nuovo fralle altre opere poetiche di lui in Parigi 1573 in ottavo.

Nota XV. §

Da’ moderni Italiani (scrisse Giacinto Gimma nell’Italia letterata pag. 196) sono stati molti personaggi, o sciocchi, oridicoli, o astuti nelle commedie introdotti, come sono Don Pasquale de’ Romani, le Pasquelle de’Fiorentini, i Travaglini de’ Siciliani, i Giovannelli de’ Messinesi, il Giangurgolo de’ Calabresi, {p. 326}il Pulcinella, il Coviello e ’l Pasquariello, tutti e tre Napoletani . . . . . Silvio Fiorillo commediante che appellar si facea il Capitano Matamoros, inventò il Pulcinella Napoletano; e collo studio e grazia molto aggiunse Andrea Calcese, detto Ciuccio per soprannome, il quale fu sartore, e morì nella peste dell’anno 1656, imitando i villani dell’Acerra, città antichissima di Terra di Lavoro poco distante da Napoli, e vicina per poche miglia a quell’ antica Atella che somministrò a i gravi Romani la commedia Atellana.

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