Pietro Napoli Signorelli

1789

Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome IV

2017
Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni di Pietro Napoli-Signorelli Napoletano, 2ème édition, tomo quarto, In Napoli, Presso Vincenzo Orsino, 1789, 308 p. PDF : Bayerische Staatsbibliothek, München
Ont participé à cette édition électronique : Eric Thiébaud (Stylage sémantique), Anne-Laure Huet (édition TEI) et Wordpro (Numérisation et encodage TEI).
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LIBRO V.
Teatri Oltramontani nel secolo XVI. §

Con troppo lenti e disuguali passi seguivano gli Oltramontani le vestigia dell’ Italia per uscir dalla barbarie, e per contribuire al risorgimento della drammatica. Tutta trovossi ugualmente di strane farse e di goffaggini piena ed ingombra la prima metà del secolo fuori del recinto delle alpi. Non fu che dopo il 1550 che incominciò {p. 2}a vedersi in tal genere di letteratura folgorar disugualmente una specie di crepuscolo foriero di maggior luce in Inghilterra e nelle Spagne. La Germania, anzi la Francia stessa che dovea co’ suoi frutti teatrali nel secolo susseguente tutte sopraffar le nazioni senza escluderne l’Italia, la Francia e la Germania, dico, furono le più tarde a risvegliarsi; nè in tali regioni apparve nel XVI secolo ingegno veruno da mettersi allato a Shakespear ed a Lope de Vega Carpio. Noi ne seguiremo colla dovuta istorica fede ed imparzialità partitamente le tracce.

CAPO I.
Stato della poesia scenica in Francia. §

L’Italia ne’ primi lustri del secolo rappresentava Sofonisba e Rosmunda, ed in Parigi nel carnevale del 1511 sotto Luigi XII si vedeva sulle scene il Giuoco del Principe degli Sciocchi e della Madre Sciocca1, {p. 3}componimento di Pietro Gringore detto Vaudemont, in cui con amaro sale si motteggiavano i monaci e i prelati, e la corte papale rappresentata allegoricamente da un personaggio chiamato la Mére-Sotte. Menetrier ne loda un trio cantato da Mére-Sotte e da due giovani sciocchi, e le parole erano,

Tout par raison,
Raison par tout,
Par tout raison.

Assai più notabile fu una scena, in cui Mére-Sotte manifesta i suoi disegni di voler comandare nel temporale e nello spirituale. I Principi si opporranno riguardo al temporale (rispondono la Signora Sotte-Fiance e la Signora Sotte-Ocasion). Non importa, dice Mére-Sotte,

Veueillent ou non, ils le feront,
Ou grande guerre à moi auront.

Replica un altro,

Mais gardons le spirituel,
Du temporel ne nous mêlons.

Canzoni! ripiglia risoluta Mère-Sotte,

Du temporel jouir voulons.
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Allora regnava in Roma Giulio II, la cui ambizione volle pungersi.

Anche i Confratelli detti della Passione continuavano a pascere delle loro grossolane farse la nazione. I misteri degli Atti degli Apostoli, e l’Apocalisse di Luigi Chocquet si rappresentavano in Parigi á l’Hôtel de Flandres con gran concorso, e vi furono impressi in tre volumi nel 1541. Varie combriccole di demonj ne formavano le principali invenzioni ed erano i buffoni del dramma2.

Altre farse di quel tempo chiamaronsi Momerie o Mascherate, nelle quali eccedeva la satira e la buffoneria. Può vedersene un esempio ne’ motteggi lanciati in una di esse quando cadde dalla grazia di Luigi XII il maresciallo de Gie perseguitato da Anna di Brettagna regina-duchessa. Facendosi allusione al nome Anna della regina ed al grado di maresciallo del favorito, dicevasi nella farsa, che un maniscalco (che in Francia chiamasi pur marêchal) avea voluto ferrare un asino (in Francia ane) e ne avea ricevuto un calcio così gagliardo che n’era stato rovesciato al suolo3. Il re {p. 5}medesimo non era risparmiato nelle Momerie, ed egli ne tollerava le punture, contentandosi soltanto di prescrivere agli attori di rispettar la regina, altrimenti gli avrebbe fatti impiccare.

Erano i Giuochi de’ piselli pesti un altro genere di farsa per avventura più delle Momerie ridicola e meno ardita. Una delle più famose di tal genere fu l’Avvocato Patelin, che piacque di tal modo, che la voce patelin di nome proprio di uomo divenne indi appellativo per significare adulatore, e produsse le voci patelinage, pateliner &c. L’argomento e qualche scena di tal farsa piena di sale e di piacevolezza comica leggesi nella storia del Teatro Francese di M. De Fontenelle. Fu essa poi più tardi da un altro Francese rimpastata e riprodotta sulle scene, come diremo a suo tempo4.

Quanto dunque comparve sulle scene francesi anche sotto Francesco I, era una mescolanza {p. 6}grossolana di satira, di religione e di scurrilità, che cominciò a scandolezzare e ristuccare il pubblico, e fece sì, che i Confratelli perdessero il teatro, il quale tornò a convertirsi in ospedale.

Se però gli sforzi di quel re amante del sapere e fautore degli uomini di lettere non giunsero a dissipare la nebbia della barbarie che ricopriva la Francia5, vi apportarono almeno qualche barlume che diede a conoscere l’insipidezza e gl’ inconvenienti di quella rozza mescolanza. Vero è che il Parlamento consentì alle istanze de’ medesimi Confratelli che vollero comprar le ruine del palazzo del Duca di Borgogna per fabbricarvi un altro teatro; ma nel decreto stesso del 1548, con cui si permisero le loro rappresentazioni nel nuovo teatro, si prescrisse ch’esser dovessero puramente profane, e che mai più non vi si mescolassero le sacre cose. Fe la legge ciò che ormai era tempo che facesse il gusto. I Confratelli vi si sottomisero; ma non istimando di poter continuare a montar sul palco con loro decoro, cessato l’oggetto della loro confraternita, si diedero ad ammaestrare alcuni nuovi attori che rappresentarono sino al 1588, {p. 7}quando il teatro fu ceduto ad un’ altra compagnia di attori formata in Parigi con real permissione.

La regina di Navarra Margherita di Valois sorella di Francesco I nata in Angouleme nel 1492, contribuì a spargere qualche gusto per le lettere in quella corte. Ella stessa compose varie poesie pubblicate in Lione nel 1547; e dieci anni dopo s’impresse in Parigi il suo Eptamerone, cioè sette giornate di novelle giocose ma soverchio libere. Compose eziandio alcune di quelle farse chiamate Moralità che portarono il nome di Pastorali fatte dalla regina rappresentare alle damigelle della sua corte6. Furono anche da lei chiamati in Francia gli strioni Italiani per recitare alcuni altri drammi da lei composti nella nostra lingua7. Sotto il regno del medesimo Francesco I vissero Antonio Forestier e Giacomo Bourgeois che composero alcune favole comiche già perdute; nè di essi ci rimane altro che il nome.

La forma della commedia non si conobbe in Francia sino al regno di Errico II. Caterina de’ Medici che v’introdusse il gusto {p. 8}e la magnificenza delle feste e degli spettacoli, ne fe rappresentar diversi in Fontainebleu, e fra gli altri una commedia tratta dall’Ariosto degli Amori di Ginevra verseggiata in parte dal poeta Pietro Ronsardo. Gli attori furono i principali personaggi della Corte, e Mad. Angouleme vi rappresentò Ginevra. Vi fu anche rappresentato il Palazzo di Apollidone, e l’Arco degli amanti leali, argomento preso dagli antichi romanzieri Francesi8.

Che che sia di tutto ciò Ronsardo attribuisce al suo amico Stefano Jodelle la gloria di aver composte le prime tragedie e commedie francesi. Secondo Pasquier questo Jodelle morto di anni 41 nel 1573 non mancava di talento, benchè non avesse veduto i buoni libri. Le sue languide tragedie, per avviso de’ medesimi Francesi, sono scritte in istile assai basso e ineguale, senza arte, senza azione, senza maneggio di teatro9. Cleopatra fu una delle sue tragedie, {p. 9}e nell’atto III l’autore, senza verun riguardo nè al decoro nè al costume, fa che questa regina alla presenza di Ottaviano prenda pe’ capelli un suo vassallo, e lo vada seguitando a calci per la scena, cosa che certamente non tradusse da veruna tragedia Italiana. Con tutto ciò questa favola si rappresentò la prima volta avanti al re Errico II con indicibile applauso, e si replicò sempre con grandissimo concorso. Gli attori furono varie persone di buon nome e di talento, e tra esse, oltre al medesimo Jodelle, due altri poeti, cioè Remigio Belleau, e il nominato Giovanni De la Peruse; che anche compose una Medea di assai infelice riuscita.

Jodelle pose più azione nella commedia, e vi dipinse i costumi di quel tempo con gran franchezza. Eugenio è il titolo di una delle sue commedie. E’ costui un Abate che unisce in matrimonio certo Guglielmo di picciola levatura ad una giovane da lui stesso amata cui dà il nome di sua cugina, e finalmente gli scopre il secreto:

J’aime ta femme, & avec elle
Je me couche le plus souvent;
Or je veux que doresnavant
J’y puisse sans souci coucher;

alla qual cosa il buon Guglielmo risponde:

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Je ne vous y veux empecher.

Quel secolo (osserva su di ciò M. de Fontenelle) non era dilicato su tal materia, e professava apertamente la dissolutezza che in altri tempi si cerca dissimulare. Reca solo maraviglia (ei soggiugne) come gli ecclesiastici dipinti al vivo in tal commedia, non si levassero punto a romore. Intorno al medesimo tempo Baïf compose il Bravo commedia tratta da Plauto.

Sotto Errico III asceso al trono nel 1574 uscirono le otto tragedie di Roberto Garnier, le quali, secondo lo stesso Ronsardo, superano di molto quelle di Jodelle. S’intitolano Porzia, Cornelia, Marcantonio, Ippolito, la Troade, Antigone, i Giudei, Bradamante. Specialmente in quella de’ Giudei si notano alcuni squarci felici tratti dalla Sacra Scrittura. Meritano anche attenzione varj versi dell’Ippolito, e più quelli del racconto della di lui morte, de’ quali Racine non isdegnò di approfittarsi e d’inserirli nella Fedra. Pietro de Laudun Daigaliers fece stampare una sua tragedia les Horaces; ma non avendola io veduta, dir non saprei nè quanto egli dovesse a Pietro Aretino che il precedè coll’ Orazia, nè quanto a lui dovesse Pietro Cornelio che venne dopo dell’uno e dell’altro.

Scrissero poi favole drammatiche Monchretien, {p. 11}Baro ed Hardy, i quali, secondo M. De Voltaire, vendevano a’ commedianti che giravano per la Francia, le loro composizioni a dieci scudi l’una. Il fecondo Hardy ne scrisse più di seicento, schiccherandone egli per lo più con vergognosa fertilità una in ogni otto giorni senza serbarvi nè regole nè decenza. Donne violate, cortigiane, adultere, sono le principali persone delle sue favole. Secondo l’espressione di Fontenelle, le prime tenerezze di due amanti passano sotto gli occhi dello spettatore, e se ne occulta il meno che sia possibile.

I primi commedianti Italiani che aprirono il loro teatro comico in Francia, furono i Gelosi che nel 1577 per privilegio ottenuto dà Errico III rappresentarono in Parigi. Separatisi poi da questa compagnia de’ Gelosi alcuni attori, presero il nome di Confidenti, e vi recitarono varie favole italiane, e tra queste la Fiammella pastorale, in cui si adoperò il mescolamento di dialetti Veneziano, Bolognese, Bergamasco ecc, il cui autore fu Bartolommeo de’ Rossi Veronese10.

Altro dunque in tutto il secolo non comparve in Francia di regolare e di decente che le deboli traduzioni delle nostre tragedie, {p. 12}pastorali e commedie nel precedente libro da noi riferite; ma esse per le dense tenebre che vi regnavano, non poterono così presto penetrare ed apportarvi la vera luce teatrale.

CAPO II.
Spettacoli teatrali in Alemagna. §

Continuarono a rappresentarsi per tutto il secolo XVI in Alemagna i Giuochi del Carnevale11, non ostante che altre farse {p. 13}vi comparissero in gran numero co’ titoli di giuochi piacevoli, giuochi buffoneschi, commedie, tragedie, comicotragedie. Il solo Hann Sachs o Giovanni Säx calzolajo di Norimberga dal 1518 sino al 1553 compose sessantacinque giuochi di carnevale, settantasei commedie e cinquantanove tragedie, le quali cose racchiudonsi in cinque volumi in foglio. Il suo nome è passato in proverbio in Alemagna, dove per dinotare un verseggiatore fecondissimo suol dirsi è un Hann Sachs. In tali favole fra mille goffaggini e bassezze, dicono gl’ intelligenti di quel linguaggio, scorgonsi varie piacevolezze e pensieri che recano maraviglia12. Egli è da notarsi ancora che tal calzolajo si valse di molti argomenti tratti da’ Greci e Latini, ch’egli non poteva leggere originali e che a suo tempo non erano stati recati nell’idioma tedesco.

A lui succedette Giacomo Ayrer notajo {p. 14}e procuratore in Norimberga. Egli sino al secolo XVII, oltre a trentasei giuochi di carnevale, compose molti drammi chiamati cantanti, de’ quali se ne sono conservati nove. Il Sig. Gotsched chiama tali drammi precursori dell’opera italiana, perchè non seppe quante feste, serenate, cantate, pastorali e commedie su’ teatri d’Italia comparvero sin dal XV secolo e nel XVI, prima che l’Alemagna conoscesse i drammi cantanti dell’Ayrer.

Non è credibile l’immensa quantità di drammi usciti in tal periodo; e pure essi eccedono ancor più nella stravaganza che nel numero. Lo spirito di controversia che animava il Luteranismo, trasportò sulle scene le dispute teologiche, onde nacquero diversi drammi, il Postiglione Calvinista, il Novello asino Tedesco di Balaam, la Commedia di Gesù vero Messia, il Cavalier Cristiano di Eishenben, in cui trovasi la storia di Lutero e dei di lui gran nemici il Papa e Calvino. Con simili componimenti battevansi colà i Luterani e i Cattolici; benchè questi assai più tardi si valsero di queste armi teatrali, avendo cominciato a farlo nel XVII secolo colla Graziosa Commedia della vera antica Chiesa Cattolica ed Apostolica, dove intervengono Lutero, Zuinglio, Carlostad con altri eretici, e Satana e Gesù Cristo, i SS. Pietro e Paolo, Pio IV, il cardinal Campeggi, il vescovo Osio.

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Anche Tommaso Naogeorgus nato in Straubinge nella Baviera l’anno 1511 e morto verso il 1578, il quale intendeva il greco ed avea tradotto varie opere di Plutarco, di Dione Crisostomo e del Sinesio, volle adoperare la scenica poesia per contese di religione. Le sue tragedie col Baile possono chiamarsi di controversia13. Quella che intitolò Pammachius dedicata a Crammer arcivescovo di Cantorbery, uscì alla luce l’anno 1537. Un’ altra ne pubblicò l’anno seguente in Wittemberg intitolata Incendia, sive Pyrgopolinices tragœdia. Nel 1539 comparve quella che intitolò Mercator, seu Judicium. Haman, altro suo componimento teatrale, si rappresentò in Heidelberg a’ 24 di agosto dagli scolari che vi manteneva l’elettor Federigo detto il pietoso14. Simili favole che aveano tutt’altro oggetto che di formare il gusto teatrale, non potevano contribuire ai progressi della drammatica, e quindi in premio sono rimaste per retaggio perpetuo delle tignuole.

Altri drammi latini tratti da’ racconti della Sacra Scrittura si mentovano nella Biblioteca del Gesnero. Tali sono il Protoplaste, {p. 16}e la Nomothesia tragedie ed il Sacrificio d’Isacco commedia, le quali appartengono a Girolamo Zieglero professor di Poetica in Ingolstad; la Giuditta e la Sapienza di Salomone comicotragedia e la commedia detta Zorobabel di Sisto Betulejo; le commedie di Giobbe dell’Adimario, di Rut del Drisearo, di Giuseppe del Ditero. Queste non furono favole stravaganti e maligne; ma non vi si guardano le regole della verisimiglianza e molto meno quelle del gusto. In Heidelberg compose ancora Antonio Scoro di Hocchstraten una commedia rappresentata da’ suoi scolari, nella quale si personificava la religione che andava mendicando alloggio tra’ grandi, ed era esclusa, e veniva indi raccolta da’ plebei. L’imperadore se ne sdegnò, e volea punirne l’autore, ma egli ebbe tempo di fuggirsi a Losana dove morì nel 155215.

Forse il più ingegnoso autore scenico dell’Alemagna in quel secolo fu il Frischlino nato in Tubigen. Egli tradusse in latino cinque commedie di Aristofane da me non vedute. Ne compose altre sei originali intitolate Rebecca, Susanna, Ildegarde, Giulio resuscitato, Prisciano battuto, gli Elvezi {p. 17}Germani, alle quali aggiunse due tragedie Venere e Didone. S’impressero in un volume da Bernardo Jobin nel 1592, e furono dedicate prima a Cristiano IV destinato re di Danimarca con una elegia che porta la data di Brunswich 1589, indi al figliuolo Federigo. Nella Rebecca e nella Susanna serbò il costume de’ nazionali di trasportare sul teatro i fatti della Biblia con poca regolarità. L’azione della Rebecca passa nella casa di Abramo, nelle selve di Faran e nella città di Carra, ed i personaggi che compariscono in tali luoghi, non vengono fra loro a colloquio. Nella Susanna il prologo si fa dall’angelo Raffaello, ed è pieno d’imitazioni Terenziane. Nell’Ildegarde sopra alcuni fatti de’ bassi tempi intorno a Carlo-Magno tesse l’autore una favola che chiama comica su Ildegarde di lui moglie calunniata. E’ notabile l’introduzione del prologo:

Poeta vos ad venandum invitat hodie
In hoc theatro scenico. Nam bestias
Producturum se ait, ferasque plurimas &c.

e queste bestie che poi si descrivono, sono Carlo-Magno leone, Ildegarde agnella, Talando volpe; e con tal continuata allegoria dà a conoscere l’ azione, che termina colla riconciliazione d’Ildegarde e Carlo, ma che {p. 18}nell’avvilupparsi entra nel tragico. Nel Giulio redivivo e negli Elveti-Germani trattasi dello stato dell’Alemagna ne’ bassi tempi comparato a quello ch’ era vivendo Giulio e Cicerone.

Soggetto veramente comico, benchè misto di qualche allegoria alla maniera d’ Aristofane, è il Prisciano battuto. Contiene una satira comica contro que’ fisiologi, medici, giuristi e teologi che scrivono barbaramente in latino, e riducono Prisciano all’agonia. I personaggi introdotti sono Giavello e Francesco filosofi, Prisciano gramatico, Coridone villano, Lilio e Filonio medici, Nevisano e Barberio giureconsulti, Quodlibetario sacerdote, Breviario monaco, Erasmo Roterdamo e Filippo Melantone. A riserba di Prisciano, Erasmo e Melantone, gli altri parlano un latino barbaro, ed in margine si citano i passi ricavati dalle opere di coloro che vi si motteggiano per lo stile e per la lingua. Lo scioglimento è che Prisciano uscito dalle mani de’ teologi scolastici quasi spirante è guarito dall’eleganza, purezza ed erudizione di Melantone e di Erasmo.

Le due sue tragedie sono tratte dal libro I e dal IV dell’Eneide. La prima contiene la venuta di Enea in Cartagine e l’innamoramento di Didone per artificio di Venere. Circa lo stile egli vorrebbe imitare {p. 19}quello di Virgilio, le cui frasi stesse egli ritiene per quanto permette il metro diverso. Eccone per saggio qualche verso della prima scena di Giunone:

Mene igitur incœpto meo desistere?
Nec posse regem Troicum solo Italiæ
Avertere? an fatis prohiheor cœlitum?
Pallasne classem exurere potuit hostium,
Pontoque Græcos turbido submergere
Unius ob noxiam, & furorem Oilei
Ajacis?

La seconda tragedia più interessante si aggira sulla partenza di Enea e la morte di Didone.

Paolo Rebhun curato di Oelsnitz anche compose un dramma spirituale sul fatto di Susanna intitolato la Casta Susanna in cinque atti lodevole per certa regolarità ed eleganza scritto in idioma Alemanno. Fu impresso in Ziwckau nel 1536 e reimpresso nel 1544. Vi si trovano introdotti i cori, e vi è osservata scrupolosamente la quantità delle sillabe ne’ differenti metri usati in ciascuna scena; e per lo sceneggiamento si vuole sopra tutti quelli de’ contemporanei ben connesso.

Troviamo ancora tre traduzioni sceniche. La prima tratta dallo Spagnuolo gli Amori di Melibea e del Cavalier Calisto tragedia {p. 20}in diciannove atti di Sigismondo Grimm che s’ impresse nel 1520 in Ausbourg: la seconda è l’Aulularia di Plauto stampata nel 1535 in Magdebourg: la terza è l’Ifigenia in Aulide uscita alla luce nel 1584, che porta il titolo di comicotragedia.

CAPO III.
Spettacoli scenici in Inghilterra. §

Si rappresentavano nella Gran Brettagna per gran parte del secolo XVI i misteri, le moralità e le più assurde farse. Appena dicesi del re Edoardo VI grandemente esaltato da Cardano che avesse composta una commedia elegantissima che s’intitolava la Puttana di Babilonia esaltata dagli antiquarj ma sfuggita all’esame de’ moderni per essersi perduta.

A gloria però delle lettere vuolsi ne’ fasti scenici Inglesi registrare un nome assai sublime. La figliuola di Errico VIII Elisabetta che suole riporsi insieme coi più gran principi del suo tempo Sisto V pontefice Romano ed Errico IV re di Francia, all’amor della musica congiunse la coltura delle lettere, ed oltre alle aringhe d’Isocrate, {p. 21}tradusse in latino le tragedie di Sofocle16. Non ebbe però questa gran regina molti compagni che lavorassero a far risorgere la drammatica co’ modelli dell’antichità. Non vi fu nel di lei regno che il lord Tommaso Sackville che compose Gordobuc commedia in qualche maniera scritta con regolarità17.

Sotto quel cielo non ancora abbastanza rischiarato la stessa lingua non era allora nè polita nè fissata, quando sulle scene comparve Guglielmo Shakespear. Abbandonato questo scrittore a se stesso si arrollò tra’ commedianti per libertinaggio, e compose poi, per sostentarsi, pel teatro di un popolo che ancor non poteva gloriarsi di aver prodotto alle scienze, alla politica, alla marina e al commercio, un Newton, un Bacone, un Locke, ed il Grande Atto della Navigazione. Non rechi dunque stupore, se i drammi di Shakespear benchè mostruosi facessero la delizia della nazione. Egli racchiuse, come i Cinesi, in una rappresentazione di poche {p. 22}ore i fatti di trenta anni: introdusse nelle favole tragiche persone basse, prostitute, ubbriachi, calzolai, beccamorti, spiriti invisibili, un leone, un sorcio ed il chiaro della luna che favellano: egli non seppe nè astenersi dal miracoloso ed incredibile, nè separare dal tragico il comico, restando per ciò, non che lungi dal pareggiare Euripide, inferiore allo stesso Tespi. Ebbe non per tanto un ingegno pieno di vigoroso entusiasmo che lo solleva talvolta presso a’ più insigni tragici, e che giustifica il giudizio datone da’ suoi compatriotti, ch’egli abbondi di difetti innumerabili e di bellezze inimitabili. Spicca soprattutto nel colorire con forza ed evidenza i caratteri de’ grand’ uomini, segnandone i temperamenti, i difetti e le virtù. Macbeth, Hamlet, Errico IV, Othello, Giulio Cesare, il Mercante Veneziano si considerano come i di lui drammi migliori18.

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Abbiamo osservato nel parlar de’ drammatici {p. 24}Italiani l’esattezza di tanti industriosi scrittori intenti a far risorgere l’arte teatrale de’ Greci. Osserviamo ora in Shakespear la mancanza di erudizione, di emuli e di modelli supplita dall’ingegno che lo menava a riflettere sull’uomo, à studiare i movimenti del proprio cuore e a ritrarre le passioni dal vero. Egli non conobbe l’arte e copiò vigorosamente la natura. Che tragico incomparabile non diverrebbe chi sapesse ben congiungere l’uno e l’altro studio!

Tuttavolta i critici non lasciano di rimproverare a Shakespear le bassezze miste ai gran tratti. Studiando egli la natura mancò di giudizio nell’ imitarne ciò che nelle società si riprenderebbe. Non è inverisimile (disse Voltaire per iscolpar se stesso nel Figliuol Prodigo) che mentre in una stanza si piange un morto, dicasi da un buffone qualche motto che muova a riso. Ma questo vero indiscreto non si dee imitar sulla scena; in prima perchè la parte più sana riprenderà l’impertinenza del buffone, e perciò sembrando tal mescolanza sconvenevole nella conversazione dovrà, come in fatti avviene, dispiacere ancor nella scena, dove la natura dee comparire scelta e conveniente19. In secondo luogo il poeta {p. 25}giudizioso non lavora mai contro se stesso: or che altro fa colui, che, volendo intenerire e commuovere, impedisce egli stesso la riuscita del suo disegno, distraendo lo spettatore colla buffoneria intempestiva?

Shakespear istudiò la natura, e pure nelle sue espressioni non di rado la perde di vista. Non l’ebbe presente ne’ rimproveri che ne’ Due Gentiluomini di Verona fa il Duca di Milano al Valentino. Nella sola orazione di Antonio nel Giulio Cesare, in quell’ orazione che il Sig. Martino Sherlock stima il capo d’opera dell’eloquenza da preferirsi alle orazioni tutte di Omero, di Virgilio, di Demostene e di Cicerone, in quell’orazione che in ogni parola abbraccia mille bellezze ignote a’ profani, in quella sola orazione, dico, si osservano espressioni ricercate, frivole e contrarie alla semplicità della bella natura. Quando piangevano i poveri (dice Antonio) Cesare lagrimava; l’ambizione dovea esser fatta di una materia più dura. Questa materia più dura delle lagrime è forse una grazia naturale? Oltre a ciò la falsa ragione che si adduce non distrugge l’accusa di ambizioso data a Cesare. L’orgoglio, l’ alteriggia, vizj composti di presunzione e di ferocia, sono quelli che rendono l’uomo disprezzante, duro, insensibile agli altrui mali; ma l’ ambizione non rare volte si copre di umanità e di dolcezza. Sherlock che ha studiato venti anni i drammi di Shakespear, {p. 26}ha studiato ben poco il cuore umano. Notate come il sangue di Cesare lo seguiva (cioè seguiva il maledetto acciajo di Bruto) come sforzandosi di uscire, per sapere, se fosse possibile, che questo era Bruto. Longino, Orazio e Boelò, de’ quali con privilegio esclusivo vantasi ammiratore il Sherlock, avrebbero ravvisato del patetico e del sublime in questo sangue che si sforza di uscire per seguire il ferro e per sapere se era Bruto il feritore? Merita questo concettuzzo di esser preferito a quanto vantò di grande la latina e la greca eloquenza?

L’unica vera bellezza dell’orazione di Shakespear è appunto quella che è sfuggita alla diligenza del Sherlock che da venti anni la stà studiando. Il merito del Shakespear in tale argomento consiste singolarmente nell’essersi approfittato delle notizie istoriche di tal fatto, e nell’aver renduta capace di rappresentarsi in teatro l’aringa fatta da Antonio al Popolo Romano riferitaci dagli scrittori20, spiegandovi un patetico {p. 27}risentito e forte che accompagna lo spettacolo alle parole; e per questo merito, ad onta delle false espressioni accennate, si manifesta un esperto poeta drammatico. Ma questo merito tutto appartiene al teatro, nè senza ridicolezza si metterebbe in confronto colle orazioni dei Demosteni e de’ Tullj. Di grazia questi due prodigiosi principi dell’ eloquenza, si sono mai trovati in un caso simile? Non sa il Sherlock quanti aspetti diversi prenda l’eloquenza dagli oggetti e dalle circostanze? Non comprende l’enorme differenza che passa trallo spiegar la pompa oratoria nel Foro o nel Senato Romano e nel Pritaneo di Atene contro l’ambiziosa politica di Filippo e le ruberie di Verre, e tral mettere in azione in un teatro un cadavere insanguinato? Veramente il Shellock non è l’uomo più felice in comparare21.

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Non è maraviglia che quel focoso viaggiatore preso dal farnetico di ragionar di letteratura vada tirando di taglio e di punta contro i fantasimi ch’egli stesso infanta, e giudichi de’ popoli colla più deplorabile superficialità. Non è maraviglia che abbia scarabocchiato un libercolo picciolissimo in tutti i sensi, per provare che in Italia la poesia non è uscita ancora dalla fanciullezza; non consistendo la sua grand’opera che in pagine 104 in picciolo ottavo, delle quali (sebbene protesti di voler fare un libro picciolo) ne impiega ben quaranta solo in esagerate lodi della sua innamorata, cioè di Shakespear. Non è maraviglia che nella medesima brochure o scartabello che sia, cancelli con una mano quel che coll’ altra dipigne; e nell’atto che dichiara gl’ Italiani fanciulli in poesia, affermi che abbondino di eccellentissimi poeti lirici in ogni genere, non avendo ancora imparato che l’entusiasmo, la mente più che divina, il sommo ingegno, la grandezza dello stile, doti da Orazio richieste nel vero poeta, convengono singolarmente alla poesia lirica. Non è maraviglia ancora che mentre nega il nome di poeta grande ad Ariosto, confessi poi che sia egli gran poeta descrittivo, con altra palpabile contraddizione, perchè le bellezze dello stile, la copia, la vaghezza, la vivacità e la varietà delle immagini, formano le principali prerogative della {p. 29}poesia perchè trionfi del tempo. Tutte queste incoerenze, io dico, delle quali si compone il di lui bel Consiglio a un giovane, potrebbero recarci stupore, se fussero profferite da un altro che non ci avesse puerilmente ed à propos des bottes fatto sapere di aver molto studiato la matematica e di credere d’avere della precisione nelle idee.

Gli si faccia parimente grazia del non aver conosciuta la storia letteraria Italiana, come dimostra proponendo per cosa tutta nuova all’Italia lo studio de’ Greci: a quella Italia, dove anche nella tenebrosa barbarie de’ bassi tempi fiorirono intere provincie, come la Magna Grecia, la Japigia e parte della Sicilia, le quali altro linguaggio non aveano che il greco, e mandarono a spiegar la pompa del loro sapere a Costantinopoli i Metodj, i Crisolai, i Barlaami: a quell’Italia, che dopo la distruzione del Greco Impero tutta si diede alle greche lettere, e fu la prima a comunicarle al rimanente dell’Europa, cioè alla Spagna per mezzo del Poliziano ammaestrando Arias Barbosa ed Antonio di Nebrissa, ed all’ Inghilterra per opera di Sulpizio, di Pomponio Leto e del Guarini maestri de’ due Guglielmi Lilio e Gray: a quell’Italia, dove (per valermi delle parole di un elegante Spagnuolo) la lingua greca diventò sì comune dopo la presa di Costantinopoli, che, come dice Costantino Lascari nel proemio ad {p. 30}una sua gramatica, l’ ignorare le cose greche recava vergogna agl’ Italiani, e la lingua greca più fioriva nell’Italia che nella stessa Grecia22: a quell’Italia in fine che oggi ancor vanta così gran copia di opere nelle quali ad evidenza si manifesta quanto si coltivi il greco idioma in Roma, in Napoli, in Firenze, in Parma, in Padova, in Verona, in Venezia, in Mantova, in Modena ecc., che essa vince di gran lunga il gregge numeroso de’ viaggiatori transalpini stravolti, leggieri, vani, imperiti e maligni, tuttochè tanti sieno i Sherlock e gli Archenheltz23. E chi vorrà incolpare quest’Irlandese del non essere istruito della letteratura Italiana, quando egli ha mostrato nella sua opera grande di cinquanta carte di esser pochissimo versato in quella della Gran-Brettagna? Egli adduce in lode di {p. 31}Shakespear l’unanime consenso degl’ Inglesi d’indole per altro tanto, al suo dire, singolari che difficilmente se ne trovano due che si somiglino; ed afferma che in Inghilterra in quasi duecento anni non v’è stata una sola voce contro di Shakespear. Orsù facciamogli udire alcune voci sonore al pari di quella di Stentore uscite dall’Isole Britanniche contro di Shakespear per instruirlo anche in ciò che ignora de’ suoi stessi compatriotti.

Inglese era Dryden, erudito e poeta drammatico, e pure nella dedicatoria della tragedia Troilus and Cressida afferma ingenuamente che nelle composizioni scritte da Shakespear nel secolo XVI scorretta era la frase, sregolata la dicitura, oscura ed affettata l’ espressione; aggiugnendo che al principio del secolo susseguente quel padre del teatro Inglese pensò a pulire il linguaggio nelle ultime sue fatiche, e a levare alquanto di quella ruggine, di cui troppo erano imbrattate le prime.

Inglese era Samuele Johnson, e dopo del Rowe e del Pope e del vescovo Warburton, è stato comentatore delle opere del Shakespear pubblicate in Londra in otto volumi nel 1765; e pure nella prefazione dice di lui moltissimo bene e moltissimo male, che è quello appunto che fanno gli esteri imparziali. Io tanto più di buon grado ne trascriverò qualche osservazione, quanto più {p. 32}mi sembra conducente a far meglio conoscere per mezzo di un nazionale il carattere del poeta Inglese.

I critici (dice Johnson) hanno rimproverato a Shakespear il troppo studio d’ imitar la natura universale. Hanno detto che i suoi Romani non erano vestiti del proprio costume; e che ai re da lui introdotti mancavano le dignità richieste nella loro classe. Dennis si offende (dice Johnson, e Dennis, Sig. Sherlock, era anche nato in Inghilterra) perchè Menenio senator di Roma faccia il buffone; e Voltaire crede che sia un violar la decenza il dipingere che fa in Hamlet l’usurpator Danese ubbriaco. Ma Shakespear sacrifica tutto alla natura e alla verità. Esigeva la sua favola de’ Romani e de’ re, ed egli non vide che gli uomini. Egli avea bisogno di un buffone, ed il prese dal Senato di Roma, ove fe ne sarebbe, come altrove, trovato più d’uno. Voleva egli mettere sulla scena un usurpatore e un omicida, e per renderlo dispregevole e odioso, aggiunse a’ di lui vizj l’ubbriachezza, sapendo che il vino esercita la sua possanza su i re come su gli altri24. {p. 33}L’ intreccio delle sue favole (parla il medesimo Johnson) in generale è tessuto debolmente e condotto senz’arte. Egli trascura le occasioni di piacere o interessare che presentagli naturalmente lo scioglimento. Perchè componeva per vivere avvicinandosi al termine del lavoro si dava tutta la fretta per ritrarne frutto al più presto . . . . . Non ebbe verun riguardo ai tempi ed a’ luoghi, e senza scrupolo attribuiva ad un secolo e ad una nazione i costumi, le usanze, le opinioni di un altro tempo e di un altro popolo . . . . Quando vuole esser comico, la sua piacevolezza è rozza, e l’allegoria licenziosa. Gli uomini e le donne civili nè parlano nè operano diversamente dalle genti del contado. Quando vuole essere oratore (attento, Sig. Martino), diviene freddo e snervato; imperciocchè allora solo egli è grande quando si contiene nella natura . . . . Esprime sovente di una maniera ingarbugliata un pensiero comune; e cela una picciola immagine in un verso pomposo . . . . . Quando vuole intenerire dipingendo la grandezza che ruina o l’innocenza che pericola, più sensibilmente manifesta l’ineguaglianza del suo ingegno. Egli non può essere lungo tempo tenero e patetico . . . . Il difetto più notabile del nostro poeta è il gusto singolare che avea pel giuoco puerile sulle parole; non v’ha cosa {p. 34}che non sacrifichi al piacere di dire un’ arguzia ecc. ecc.

Inglese per finirla era Gay autore del componimento scenico intitolato Come la chiamate Voi? Farsa Tragi-Comi-Pastorale, in cui non meno che nella prefazione viene finamente e con grazia comica deriso il teatro di Shakespear in mille guise, formandosi fin anche de’ di lui versi piacevolissime parodie.

Adunque non è punto vero ciò che afferma il Sherlock, che in Inghilterra non vi è stata mai una sola voce contro Shakespear; non è punto vero che sono quivi tutti ciechi adoratori non meno delle bruttezze che delle bellezze di lui. In compenso però può oggi questo famoso poeta tralle altre sue glorie contare di essere stato dichiarato l’innamorata del tenero Sherlock che consiglia con tanto gusto e giudizio la gioventù. Mi vieta il mio argomento l’andar ricercando dietro ad ogni particolarità della scrittura di costui, nella quale trovansi sparse senza citarsi moltissime cose che leggonsi altrove, ed altre non poche a lui da questo e da quello suggerite in Italia le quali ha egli registrate senza esame e senza ben ricucirle col rimanente del suo libretto. Io ne ho voluto accennare soltanto quel che riguarda la drammatica, non curandomi di mettere al vaglio tante mal digerite opinioni spacciate sulla poesia italiana e francese, {p. 35}ove pesta non iscorgesi nè di gusto nè di giudizio, nè di quella precisione d’idee, di cui crede piamente potersi pregiare. Per umiltà avrà egli voluto occultarci i progressi da lui fatti nelle matematiche, ragionando a bella posta così incongruamente e con frequenti contraddizioni; e per la stessa umiltà avrà voluto fingersi poco o nulla istruito della letteratura straniera e della nazionale. Ma chi bramasse distinta contezza delle madornali eresie letterarie del Sherlock, legga le Tre Lettere dell’erudito Alessandro Zorzi Veneziano impresse in Ferrara nel 1779, anno alle lettere fatale per la perdita fatta di questo dotto laborioso Italiano25.

Shakespear scrisse anche commedie, e gl’ Inglesi veggono sempre con piacere il di lui {p. 36}Cavaliere Falstaff, e le Commari di Windsor. Egli scrivea un medesimo componimento parte in versi e parte in prosa. Nato in Strafford verso il 1564, morì nel 1616; e per onorarne la memoria gli fu eretto un magnifico monumento nell’Abadia di Westminster.

Nel medesimo secolo XVI fiorì il Cavalier Fulck Grevil Lord Brooke chiaro nelle armi e nelle lettere, che fu l’intimo amico di Sidney favorito della regina Elisabetta. Grevil compose due tragedie Alaham e Mustapha, nelle quali introdusse il coro alla maniera greca.

Contemporaneo del Shakespear fu Giovanni Fletcher, il quale ancora contribuì agli avanzamenti del teatro Britannico. Tralle di lui favole passa per eccellente quella che intitolò il Re non Re.

Non si vuole però omettere di notare che sin da allora sulle scene di quell’ isole cominciò ad allignare un gusto più attivo e più energico che altrove. Gl’ Inglesi amano sul teatro più a vedere che a pensare. Da quel tempo spiegarono una propensione particolare al grande, al terribile, al tetro, al malinconico più che al tenero, ed una vivacità, una robustezza e un amor deciso pel complicato più che per la semplicità; e questo carattere di tragedia si è andato sempre più disviluppando sino a’ dì nostri.

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CAPO IV.
Spettacoli scenici nella penisola di Spagna. §

Sebbene pochi sieno quegli eruditi Spagnuoli che non abbiano poco o molto favellato del proprio teatro, tuttavolta se ne desiderava ancora una storia seguita prima che io l’abbozzassi nella generale de’ teatri pubblicata nel 1777, ed i buoni nazionali urbanamente me ne seppero grado26. Nè {p. 38}anche dopo di me si è intrapresa tale istoria nè in Ispagna nè altrove; e l’istesso chiar. Ab. Andres nella sua insigne opera sopra ogni letteratura nulla d’ importante aggiugne a quanto io scrissi allora del teatro Spagnuolo. Adunque senza aver ragione degl’ ingrati una ne darò ora io stesso assai più piena, in cui alle notizie ovvie e comunali altre se ne aggiugneranno non prima avvertite, procurandòsi nel tempo stesso coll’ usata imparzialità di delineare le fisonomie (per così dire) de’ drammatici Spagnuoli, e di rilevarne le bellezze da’ nazionali stessi o non viste o non descritte mai.

Gli Spagnuoli di pronto e acuto ingegno, di vivace e fertile fantasia, arguti, facondi e ricchi di lingua, essendosi nel XVI secolo moltissimo distinti nelle lettere, coltivarono anche con qualche ardore, specialmente verso la fine di esso, la scenica poesia. Le prime cose che in quella penisola ebbero {p. 39}qualche immagine rappresentativa, furono le Novelle in dialogo, o come le chiamò il bibliotecario Nasarre, Dialoghi detti commedie lunghissimi e incapaci di rappresentarsi27. I Portoghesi e gli altri Spagnuoli ne composero moltissime tutte in prosa intitolandole novelle, tragicommedie, tragedie e commedie. Di esse inutilmente si tesserebbe un catalogo compiuto, nulla avendone guadagnato il teatro, se non che potrebbero servir come di semenzai di pitture e di ritratti al naturale e di caratteri e di passioni poste in movimento ed a buon lume28. Tale è la Celestina di tutte la più rinomata cominciata a scriversi nella fine del XV secolo da Rodrigo de Cota (altri dice da Giovanni di Mena) e terminata men felicemente da Fernando de Roxas29, che s’impresse la prima volta in Salamanca nel {p. 40}1500, e porta il titolo di tragicommedia, divisa in atti ventuno, de’ quali solo il primo fu scritto dal primo autore. Non è che un lungo romanzo in dialogo, in cui mostrasi tutta l’oscenità senza velo col pretesto di riprenderla30. Per una delle pruove evidenti che la rappresentazione di tal Novella sarebbe assurda ed impraticabile, si noti che i personaggi sogliono cominciar il dialogo in istrada, proseguirlo entrando in casa, ed uscirne senza conchiuderlo. L’ azione dura due mesi, ed ancor più, ed è questa.

Calisto innamorato di Melibea ricorre a Celestina vecchia ruffiana e maliarda famosa la quale fa varii scongiuri, incanta una matassa di filo, la porta a vendere a Melibea, e per incanto la rende perduta amante di Calisto. Gli amanti più d’una volta si veggono di notte, e Melibea è deflorata; i servi di Calisto per ingordigia ammazzano Celestina, danno nella giustizia, e sono impiccati; Calisto stando con Melibea ode un romore nel giardino, accorre, cade dalla scala, e si ammazza; Melibea il dì seguente {p. 41}si precipita da una finestra e muore.

In prima quest’azione appoggia in falso, perchè non solo Celestina fa mercimonio di malie, ma si finge effettivamente fattucchiera, e l’innocente Melibea per forza del suo incanto è corrotta, ed in ciò si vede la mancanza d’arte dell’autore; perchè se avesse saputo rifondere tutto il trionfo all’insidiosa eloquenza della vecchia, la novella sarebbe riuscita più verisimile, più artificiosa e più morale. Celestina poi, anima di tutta l’ azione, muore uccisa nell’atto dodicesimo, per la qual cosa ne’ seguenti nove atti l’azione sensibilmente cade e si raffredda. La morte di Calisto è verisimile, ma la caduta che l’ammazza è casuale nè produce istruzione, perchè (come ben diceva un mio dotto amico Spagnuolo) ad un anacoreta il più penitente ed esemplare, non che ad un dissoluto, potrebbe accadere la stessa disgrazia nel discendere da una scala d’una Chiesa. Ultimamente il fine morale dell’autore di mostrar le funeste conseguenze delle sfrenatezze, viene interamente distrutto colle dipinture e situazioni sommamente laide e lascive, per le quali ne fu meritamente proibita la lettura. Nell’atto settimo Parmenone si giace nel letto con Areusa a persuasione della vecchia scellerata che lo stà vedendo, e ciò che rende questa situazione più scandalosa, si è che il dialogo di tutti e tre è scritto con somma proprietà {p. 42}e bellezza. Negli atti 14 e 19 Calisto e Melibea soddisfano compiutamente i loro voti, si abbandonano a’ dolci trasporti, a discorsi, ed azioni proprie della più sfrenata passione, sino a numerare gli atti ripetuti della loro tresca, mentre che una serva posta di sentinella vede e nota con molta vivacità tutte le delizie degli amanti; in somma le azioni, le parole, il silenzio stesso in questo punto dell’azione, è quanto può dipingersi di più disonesto in un racconto, non che su di un teatro; e questi sventuratamente sono i più bei passi del libro. Di grazia poteva ciò essersi immaginato per rappresentarsi? Ora se gli ultimi apologisti Spagnuoli avessero conosciuta la Celestina, avrebbe l’Ab. Lampillas avuto coraggio di riprendere qualche motto soverchio libero delle commedie dell’Ariosto? Huerta avrebbe dato ragione al Lampillas contro del Signorelli? L’Ab. Andres avrebbe tacciato di oscenità le commedie del Machiavelli? Avrebbe lo stesso scrittore data a cotale scandalosa mostruosità la preferenza sopra l’Orfeo del Poliziano?

Lascio poi che il carattere di Calisto è quasi fantastico, pieno di espressioni iperboliche e di slanci disparati dell’immaginazione, declamatorio e pressochè senza affetti; lascio ancora che quello di Celestina, per altro eccellentemente dipinto, si vede imbrattato di vana ostentazione di erudizione {p. 43}e dottrina intempestiva impertinente. Del resto tal difetto è generale in questo romanzo drammatico. Chi può soffrire Melibea che in procinto di precipitarsi si trattiene a ridursi alla memoria varii evenimenti istorici di Tolomeo, Oreste, Clitennestra, Nerone, Agrippina, Erode, Fraate, Laodice, Medea? Chi il di lei Padre che, a vista della tragica morte della figliuola, apostrofa ed insulta ad amore, perchè si chiami dio, perchè si dipinga nudo, armato, cieco e fanciullo? che parla di Paolo Emilio, di Pericle, di Anassagora, di Davide, di Paride, d’Ipermestra, Egisto, Saffo, Leandro, Sansone, Elena, Salomone, Arianna?

Ma sono da collocarsi tralle principali bellezze della Celestina, nell’atto I l’eccellente, concisa, naturale ed elegante dipintura della bellezza di Melibea, la descrizione del carattere e delle occupazioni di Celestina, il dialogo comico di lei con Parmenone: nell’atto III la sagacità della vecchia ottimamente lumeggiata, quando narra i suoi meriti ruffianeschi, e quando dipinge le ragazze innamorate: nel IV la di lei scaltrezza nell’ insinuarsi per tutte le vie nell’animo di Melibea: nel VII, nel XIV e nel XIX le già riferite scandalose situazioni descritte però con grazia e verità inimitabile e detestabile.

Risulta da quanto si è accennato che la Celestina giustamente proibita e giustamente lodata ancora, se si consideri come spettacolo {p. 44}teatrale, parrà un componimento per tutte le vie spropositato e mostruoso; là dove come novella in dialogo, in cui l’autore non mai mostrandosi tutto mette in bocca de’ personaggi, sarà un libro meritevole di ogni applauso. Ed in fatti la vivacità delle descrizioni de’ caratteri, e la maestria del pennello ne’ quadri de’ costumi, non permetteranno che tal libro perisca, e la gioventù potrebbe apprendervi a temere le funeste conseguenze degli amori illeciti, se il dolce veleno di questi non fosse dipinto con maggior espressione e naturalezza del salutare antidoto dell’ammaestramento. Libro Divino lo chiamò intanto il Cervantes nella Decima del Poeta Entreverado; e l’autore del Dialogo de las Lenguas affermò che in Castigliano non v’ha libro scritto con maggior proprietà, eleganza e naturalezza. Se ne fecero varie edizioni31 e traduzioni; ma la prima di queste fu quella Italiana impressa in Roma pel Silber o Franch l’anno 1506, indi reimpressa in Venezia cinque altre volte sino al 1553. L’autore di essa fu uno Spagnuolo domiciliato in Italia, chiamato, per quel che dice {p. 45}egli stesso, Alfonso Ordoñez32.

Celebre fu anche la novella chiamata Comedia Eufrosina pure composta in prosa da un autore che si occultò sotto il nome di Giovanni Speraindeo. Si pubblicò la prima volta dal Portoghese Francesco Rodriguez Lobo, che poetò circa il tempo di Filippo III, e poi si tradusse in Castigliano da Fernando Ballesteros y Saavedra morto nel 1665, e s’impresse nel 163133. In tal componimento in mezzo alla purezza dello stile trovansi frequentissime allusioni pedantesche che annojano.

Una Seconda Commedia di Celestina compose Feliciano de Silva, in cui trattansi gli amori di Felide e Poliandria. Una Terza {p. 46}Parte della tragicommedia di Celestina produsse Gasparo Gomez. La Tragicommedia di Lisandro e Roselia di un anonimo stampata in Madrid nel 1542 è anche componimento che discende dalla Celestina. L’autore del Flos Sanctorum Alfonso de Villegas Toledano nella sua gioventù sulle tracce della Celestina scrisse la Selvagia commedia. Giovanni Rodriguez fece la Floriana che tratta degli amori del Duca Floriano con Belisea impressa nel 1544 in Medina. Per non tornare a parlar di simili novelle drammatiche, accenniamo ancor quì che il famoso Lope de Vega ne scrisse anch’egli una in prosa secondo l’usanza osservata in esse, e l’intitolò Dorotea che non si rappresentò, nè per la sua lunghezza era capace di rappresentarsi. La ingeniosa Helena figlia di Celestina, novella scenica detestabile per l’ oscenità, s’impresse in Lerida nel 1612, ed in Madrid nel 1614. Tre altre ne compose il Portoghese Giorgio Ferreira de Vasconcelos impresse ne’ primi lustri del seguente secolo. La prima e la migliore detta Comedia Eufrosina dopo altre edizioni uscì in Lisbona nel 1616: la seconda chiamata Comedia Olisipo s’impresse nella medesima città la seconda volta nel 1618: e la terza col titolo di Comedia Aulegrafia che contiene una descrizione della corte, si pubblicò nel 1619.

Ma componimenti proprj per la rappresentazione {p. 47}scrisse in Portogallo il famoso Gil Vicente, il quale nato di nobil famiglia (secondo Diego Barbosa) rappresentò più volte le proprie commedie alla presenza del re Emanuele e di Giovanni III. Fu considerato come il Plauto del Portogallo, e talmente applaudironsi le sue favole, che invogliarono Erasmo Roterdamo a studiar la lingua Portoghese per comprendere le grazie comiche di Gil Vicente. Egli morì in Evora prima del 1557; e dopo la di lui morte se ne pubblicarono le opere in cinque volumi, de’ quali il secondo contiene le commedie, il terzo le tragicommedie, il quarto le farse. Tra queste opere teatrali trovo distinte le seguenti: Auto (che in tal materia equivale a rappresentazione) de Amadis de Gaula, Auto da barca do inferno, Auto de Don Duardo34, Auto do Juiz de Beira, Triunfo do inferno comedia, Pranto de Maria Parda, Auto da donzella da torre, Auto do Fidalgo Portuguez. Lasciò {p. 48}Gil due figliuoli ed una figliuola che gareggiarono col padre nel coltivar la poesia. Il primo di essi fu Gil Vicente detto il giovane tenuto per più eccellente del padre, tra’ di cui drammi credesi il migliore quello intitolato Don Luis de los Turcos. Il secondo fu Luis Vicente, il quale intraprese l’impressione delle opere del padre. Pabla Vicente chiamossi la figliuola, di cui corse fama che correggesse le composizioni paterne, oltre ad averne scritte ella stessa alcune assai bene accolte.

Il celebre quanto infelice gran poeta Portoghese Luigi Camoens autore del poema epico Las Luisiadas composto nell’Indie, perfezionato in Europa quando vi fece ritorno nel 1569, e pubblicato sette anni prima della di lui morte dopo aver menato una vita da mendico sotto gli occhi del Sovrano cui avea servito colla penna e colla spada, Camoens, dico, dee contarsi tra’ benemeriti del patrio teatro pel suo Anfitrione tratto da Plauto di cui ritiene molte grazie, e per un’ altra picciola farsa che leggesi nelle di lui opere.

Il dottor Francesco de Sà de Miranda nato nel 1495 e morto nel 1558 applaudito come il più insigne poeta Portoghese dopo Camoens, scrisse qualche commedia da mentovarsi per la regolarità, per la grazia de’ motteggi e per gli caratteri ben sostenuti. Quella intitolata Comedia dos Vilhalpandos {p. 49}s’ impresse dopo la di lui morte in Coimbra l’anno 1560 da Antonio de Maris; ma non fu questa la prima impressione dicendovisi agora novamente impresa. Il soggetto si enuncia nel prologo che ne fa la Fama. Un Romano chiamato Pomponio ha un figlio ammaliato dalle arti di una cortigiana, e dal di lei servaggio cercano ritrarlo il padre colle ragioni e colla propria autorità, e la madre per via di devozioni; mezzi che riescono ugualmente infruttuosi, perchè la cortigiana chiamata Aurelia seguita a governare a suo modo il giovane Cesarino. Tra gl’ interlocutori chiamati figuras de comedia sono un eremita, un ruffiano, un paggio Francese, ed una comitiva di pinzochere con Fausta madre del traviato Cesarino. La commedia è scritta a norma del verisimile e divisa in cinque atti, cui non manca che vivacità ed azione. Se gli scrittori di quella penisola avessero seguito le vestigia di quest’autore quanto alla regolarità, adattandosi però al tempo circa i costumi ed i caratteri, avrebbero forse impedita l’irruzione de’ drammi stravaganti35. Se ne fece un’ altra edizione {p. 50}in Lisbona l’anno 1595 unita ad un’ altra commedia del medesimo autore da me non veduta intitolata Os Estrangericos, della quale edizione parla solo l’Antonio.

Antonio Ferreira nato in Lisbona, ad insinuazione del prelodato Francesco de Sà, prese a coltivar le muse sotto il re Sebastiano, e vi riuscì felicemente. Egli scrisse in più di un genere in maniera che si novera tra’ primi poeti Portoghesi; ma le sue opere si pubblicarono quaranta anni dopo la di lui morte, cioè nel 1598 da Michele suo figlio che lasciato avea fanciullo. Consistono in varie poesie liriche, sonetti, odi, ottave, epigrammi, elegie, epistole, epitafj, e vi si trova una tragedia intitolata Castro mentovata dall’Antonio, non nota o nota solo di nome al Montiano e ad altri critici Spagnuoli, sfuggita al Nasarre, al Lampillas ed all’Andres. L’autore di questa storia teatrale straniero, oltraggiato dall’Huerta (se Huerta potesse colle native villanie oltraggiare altri che se stesso), perseguitato dagl’ ingrati apologisti come antispagnuolo {p. 51}a dispetto della verità e dell’ evidenza, questo straniero, io dico, si accinge a rilevare i pregi di tal tragedia che avrebbe potuto impunemente dissimulare come negletta da tanti nazionali.

Trasse il Ferreira l’argomento della sua tragedia dalla tragica morte di Doña Inès de Castro; nè parmi che lo dovesse al Camoens che nelle Luisiadi con tanta energia e passione ne cantò; imperciocchè se le poesie del Ferreira s’impressero nel 1598 quarant’anni dopo della di lui morte, la sua tragedia dovè comporsi prima del 1558, cioè almeno dodici anni prima che Camoens tornasse in Europa col suo poema composto nell’Indie ed impresso nel 1572. Dividesi la Castro in cinque atti, e vi si osservano le regole del verisimile eccetto che nell’unità del luogo, seguendo l’azione parte in Coimbra e parte in Lisbona. Lo stile è nobile e grave e rare volte ammollito da qualche ornamento lirico, i costumi vi sono ben coloriti, e i discorsi vivacemente appassionati. Veggasene uno squarcio dell’atto I, quando Inès racconta l’amore che ha per lei l’Infante Don Pietro, e la pena ch’ei soffre per vedersi ad altra congiunto:

Suspira & geme & chora a alma cativa
Forzada da brandura & doce forza,
Sogeita a o cruel jugo que pesado
A seu desejo sacudir deseja.
{p. 52}
Nào pode, nào convem, a furia cresce.
Laura a doce pezonha nas entranhas.
Os homes foge, foge a luz & odia.
Sò passea, sò fala, triste cuida.
Castro na boca, Castro n’alma, Castro
Em toa parte tem ante si presente.
Elle a molher cuidado & odio & ira36.

Fu questa tragedia copiata dal P. Girolamo Bermudez di Galizia nella sua Nise lastimosa, senza che ne avesse fatto menzione. Il plagio è manifesto. Il piano, la sceneggiatura, tutto l’atto terzo col sogno d’Inès, tutto il quarto colla patetica aringa fatta al re Alfonso dalla medesima e col congedo ch’ella prende da’ figliuoli, la forma de’ versi saffici de’ cori, l’atto V, in somma {p. 53}tutto involò al Portoghese senza avvertirne il pubblico37. Altro non v’ha che appartenga {p. 54}al Bermudez che i discorsi lunghi, nojosi, impertinenti, la mortale languidezza, e la viziosa versificazione rimata con sonetti, ottave, terzine ecc.; là dove il Ferreira di miglior gusto, fuor che ne’ cori, usò in tutta la tragedia con senno il verso sciolto. Noi nel parlar poi delle due Nisi del Bermudez ne confronteremo qualche squarcio.

Il gesuita Luigi de la Cruz nato parimente in Lisbona, e conosciuto per la traduzione latina del Salterio di David uscita in Ingolstad nel 1597 e poi in Napoli nel 1601, scrisse in versi latini varie azioni tragiche e comiche impresse in Lione nel 1605, cioè un anno dopo la di lui morte avvenuta in Coimbra38. E ciò abbiamo trovato di notabile fra’ Portoghesi.

Quanto al teatro Castigliano dobbiamo al noto Miguèl Cervantes la descrizione circostanziata della fanciullezza e de’ primi avanzamenti di esso. Questo scrittore nato nel 1549 sotto l’imperador Carlo Quinto sei anni prima che cominciasse a regnar Filippo II, in un prologo ad otto sue commedie ci fa sapere che essendo egli fanciullo componevasi il teatro di Madrid di quattro {p. 55}o sei tavole poste sopra quattro assi in quadro alti dal suolo quattro palmi. Il suo ornato consisteva in una manta vecchia tirata con due corde, la quale divideva dal palco la guardaroba (che sarebbe il postscenium degli antichi), e dietro di questa manta stavano i musici, cioè gli attori che da principio cantavano senza chitarra qualche antica novelletta in versi che in castigliano chiamasi romance. Allora tutti gli attrezzi di un capo di compagnia si chiudevano in un sacco, come quelli de’ pupi, e si riducevano a quattro pellicce bianche guernite di cartone dorato, quattro barbe e capigliature posticce e quattro bastoni da contadini. Le commedie erano non lunghi colloquii tra due o tre pastori e una pastorella, o tra pochi personaggi assai bassi. Gli andavano i commedianti allungando con qualche tramezzo di una Mora, di un Ruffiano, di un Balordo, di un Biscaino, caratteri rappresentati a maraviglia da un battiloro Sivigliano chiamato Lope de Rueda. Si vuole che costui fiorisse circa il tempo di Leone X; ma Cervantes fanciullo lo vide rappresentare. Trovansi di questo commediante due Colloquii pastorali e quattro picciole commedie intitolate Eufrosina, Armedina, Medora e i Disinganni, le quali cose si pubblicarono in Valenza nel 1567 dal librajo Giovanni de Timoneda che fu anch’egli autore di alcune novelle e di tre {p. 56}commedie in prosa impresse nel 1559. Le commedie del Rueda, dice Lope de Vega nell’Arte Nuevo, di stile assai basso e che rappresentano fatti di artefici mecanici ed amori di persone plebee, come della figlia di un fabbro, nelle quali però, egli dice,

. . . . . . està en su fuerza el arte,
siendo una accion y entre plebeya gente,

rimasero indi nel teatro per intermezzi, dopo che vi s’introdussero azioni ed amori di sovrani e principesse.

Al Rueda morto prima del 1567 succedette nel teatro un tal Naharro nato in Toledo, che rappresentava assai bene la parte di Ruffiano codardo. Ebbe costui il gusto più cittadinesco, e arricchì l’apparato comico di modo, che non bastando il sacco vi vollero i bauli per rinchiudervi i nuovi arredi scenici. Fece anche venir fuori quei che prima cantavano dietro della manta, e forse egli stesso gli rendè più accetti coll’ accompagnamento della chitarra, che si è veduta uscire sulle scene Spagnuole sino a’ nostri giorni. Dispose parimente che gli attori deponessero le barbe posticce, e rappresentassero a volto nudo, mostrando con ciò d’intendere la vera rappresentazione. Finalmente abbellì le azioni con varie decorazioni e machine, fingendo nuvole, tuoni, lampi, e facendo vedere duelli e {p. 57}battaglie. Tosto dunque uscirono i comici dalle commediole e dagli amori della figliuola del ferrajo, e passarono a’ personaggi alti e a’ principi, i quali posti in circostanze pericolose e tragiche trassero seco loro la confusione de’ generi.

Mentre tali cose accadevano nel pubblico teatro, non mancò chi s’ingegnasse di tradurre e di comporre alcuna commedia non mentovata da Cervantes, forse perchè non si rappresentò nè influì ai progressi dell’arte. Trovo nominate tre commedie scritte da uno o più anonimi ed impresse in Valenza nel 1521, Comedia Tebaida, Comedia Hypolita e Comedia Serafina, che non mi è riuscito di vedere nè di sapere che cosa fossero. Si fa in oltre menzione di un dramma detto Tragedia Policiana in cui si trattano gli amori di Poliziano e Filomena uscita in Toledo nel 1547. Probabilmente simili favole furono novelle in dialogo.

Verso i primi anni del secolo il dottor Villalobos tradusse in prosa l’Anfitrione imperfettamente, avendone tralasciato il prologo e varii squarci qua e la. La stessa commedia fu meglio recata in castigliano anche in prosa da Fernan Perez de Oliva Cordovese impressa poi in Cordova nel 1585 colle di lui opere. Pietro Simon Abril tradusse la Medea di Euripide, e nel 1577 pubblicò la sua versione delle commedie di {p. 58}Terenzio, le quali ben potranno giovare a’ Tedeschi per apprendere la lingua Spagnuola, al qual fine Scioppio ne raccomandava la lettura nell’opuscolo De Studiorum Ratione: ma si potrebbe mostrare a chi ne dubitasse, quante volte abbia l’Abril manifestato poca intelligenza dell’originale; nè ebbe torto l’erudito bibliotecario Giovanni Yriarte quando il derise in un epigramma inserito nelle di lui opere postume. Cristofano Castillejo morto nel 1596 scrisse alcune commedie rimaste inedite che io non ho potuto leggere, e che secondo il Nasarre potrebbero passar per buone, se fossero meno mordaci e lascive. Tralle altre vien lodata la Costanza, la quale trovasi manoscritta nella Libreria dell’ Escuriale39.

Ho bensì lette le poesie di Bartolommeo de Torres Naharro nativo di Torres presso Badajoz, il quale fu sacerdote, e non commediante, come l’ha creduto il Sig. Ab. Andres, confondendolo per avventura col soprannominato Naharro di Toledo40. Esse portano il titolo di Propaladia, la cui lettura sin dal 1520, quando s’impresse la {p. 59}prima volta in Siviglia da Giacomo Cromberger, fu proibita in Ispagna sino al 1573 allorchè si ristampò. Vi trovai otto commedie: la Serafina, la Trofea, la Soldatesca, la Tinellaria, l’Imenea, la Giacinta, la Calamita e l’Aquilana. Esse veramente sono all’estremo fredde e basse, prive di ogni moto teatrale, senza verisimiglianza nella favola, senz’arte nell’ intreccio, senza decenza nel costume. Gli argomenti sono di quel genere che dee bandirsi da ogni teatro culto. Ecco l’azione della Serafina, in cui vedesi un misto di dissolutezza e di religione. Floristano drudo un tempo di Serafina cortigiana Valenziana si marita ad Orfea onesta giovanetta: rivede l’amica: gli si risveglia l’antico fuoco: Serafina vie più l’accende co’ rimproveri insidiosi: gli chiede la morte della moglie: Floristano promette di ammazzarla dentro di un’ ora: la cortigiana si dispone ad attenderne l’esito, dicendo

Vejam aço que fareu.

Determinato Floristano al misfatto si abbocca con un Eremita, e gli dice di esser caduto nella bigamia, per aver prima sposata clandestinamente la cortigiana, indi Orfea colle dovute formalità, aggiugnendo di aver perciò deliberato di torre a quest’ultima la vita. Es menester, egli dice,

{p. 60}
Que yo mate luego à Orfea
dò Serafina lo vea,
porque lo pueda creer;

ed ecco con quale scandalosa ragione si anima al meditato eccesso, e vi riposa senza veruna agitazione nè rimorso:

Porque si yo la matare,
morirà cristianamente,
yo morirè penitente
quando mi suerte llegare.

Frattanto il vizio radicale della favola rende l’autore incerto fralla decenza e la verisimiglianza, le quali cose non sapendo conciliare, si avvolge in difficoltà e cade in contraddizioni. Il servo nella giornata I domanda a Floristano se ha consumato il matrimonio con Orfea, ed egli risponde

Y aùn consumì el patrimonio
Que ha sido mucho peor;

e ciò vuol dir di sì. Ma nella giornata V l’eremita domanda la stessa cosa, ed ei risponde ni pude ni quisiera. Or perchè poi codesto scempiato eremita, il quale senza saper perchè si rende complice di un attentato sì atroce, aspetta sino a quel punto a domandare una circostanza sì necessaria {p. 61}per impedire l’ammazzamento di Orfea poco meno che eseguito? E’ chiaro: quando domandò il servo, la commedia incominciava, e perchè potesse continuare, Floristano rispose di aver consumato il matrimonio; ma all’eremita verso il fine risponde di non averlo consumato, perchè la commedia dovea terminare. Tralascisi poi che i personaggi usano in tal commedia quattro idiomi, cioè un latino scolastico, un italiano insipido, il castigliano ed il valenziano; e neppur si metta a conto che l’eremita cinguetta nel suo barbaro latino con servi e donne, e tutti l’intendono e rispondono a proposito. Simili osservazioni ci apprestano le altre sette commedie della Propaladia, ma non vogliamo abusare della pazienza de’ leggitori.

Ebbe dunque torto il Nasarre a gloriarsi di tali sciapite commedie come delle migliori della nazione; ed era interesse della gioventù Spagnuola o che si lasciassero nell’obblio in cui caddero, o che si dassero a conoscere per quelle che sono, affinchè non si prendessero per esemplari. Or perchè increbbe all’Ab. Lampillas che uno straniero provvedesse a quest’interesse della gioventù che non merita di essere ingannata? Egli se ’l saprà.

Ci diede poi il Nasarre una notizia nè vera nè verisimile, allorchè scrisse che esse si rappresentarono con indicibile applauso in {p. 62}Roma e in Napoli sotto Leone X. E donde il ricavò egli? Qual prova ne addusse? Una commedia Spagnuola rappresentata in Italia avrebbe avuto qualche cosa di particolare da spingere gli eruditi di quel tempo a farne menzione; pur niuno ne fe motto nè in Italia nè nelle Spagne prima del Nasarre morto da pochi anni. Don Nicolàs Antonio che parla distesamente del Naarro di Torres, afferma solo che dimorò in Roma in tempo di Leone X, e vi scrisse alcune satire contro i cardinali (e nella Propaladia ancora se ne legge una), e dovè scapparne via e rifuggirsi a Napoli in casa di Don Fabrizio Colonna. Or perchè lavorare sì impudentemente d’invenzione per ingannare i compatriotti? Era poi verisimile che farse così triviali, languide, insipide e magramente scritte, si tollerassero in Roma, quando in essa e nelle altre più chiare città Italiane si rappresentavano tante dotte, eleganti, ingegnose e vivaci commedie del Machiavelli, dell’Ariosto, del Bibiena, del Bentivoglio? Nè anche nel XIV secolo quando rappresentavasi in Italia l’Ezzelino del Mussato, si sarebbe sofferta una Serafina o una Soldatesca del Naarro. Fa dunque torto, ripeto, alla veracità ed onestà non meno che all’erudizione di un uomo di lettere, la vana jattanzia aggiunta a questa istoriella gratuita del Nasarre, cioè che il Naarro insegnò agl’ Italiani a scrivere commedie, {p. 63}e che essi poco profitto trassero dalle di lui lezioni. E’ una rodomontata che eccita il riso. Di grazia chi scrivea Trofee, Serafine, Tinellarie, poteva mai, non che insegnare, esser discepolo di buona speranza in Italia che sin dal XV secolo avea fatta risorgere l’ eloquenza e l’erudizione Ateniese e Latina, e poscia illustrò sin da’ primi anni del XVI l’amena letteratura con la Sofonisba, l’Oreste, la Mandragola, il Negromante, la Calandra e ’l Geloso (Nota I)?

Ma poste da banda le visioni del Nasarre41, riconoscansi i primi avanzamenti del teatro Spagnuolo dalle fatiche del prelodato Cervantes. Questo letterato infelice rimasto monco o storpiato nella battaglia navale di Lepanto contro i Turchi, che col {p. 64}valore e coll’ ingegno non potè trovare tra’ compatriotti possessori delle miniere Americane sufficiente sostentamento; questo rinomato Castigliano a’ suoi dì negletto, schernito e satireggiato da’ nazionali42, oltre alle altre sue opere scritte con gusto ed eleganza, compose intorno a trenta commedie ricevute, al suo dire, con sommo applauso, delle quali altro non si conserva che qualche titolo. Quelle ch’ egli ebbe in maggior pregio, furono da lui nominate nella Parte I del Don Quixote, cap. 48, e nell’Adjunta al Parnaso, e specialmente la Ingratitud vengada, la Numancia, el Mercader amante, la Enemiga favorable, e più di tutte la Confusa. Cervantes le tenne per buone, e noi dovremmo convenir con lui, a giudicarne da quanto con gran senno ragionò sulle commedie della propria nazione. Ma questo argomento perde ogni vigore al riflettersi ch’ egli lodò ancora come eccellenti alcune tragedie, che la posterità (come {p. 65}diremo) ha trovate cattive non che difettose. Di più egli nel suo prologo enunciò come scritte con arte le otto ultime sue commedie pubblicate un anno prima di morire, e pur sono talmente spropositate che nel 1749, per procurar lo spaccio degli esemplari di esse non venduti nello spazio di quasi un secolo e mezzo, il bibliotecario Nasarre prese il partito di appiccarvi una lunga dissertazione, in cui inutilmente si affanna per dimostrare che Cervantes le scrisse a bello studio così sciocche per mettere in ridicolo quelle del Vega. Ma le parole del prologo del Cervantes hanno tutta l’aria d’ingenuità che manca alla dissertazione, e distruggono sì manifestamente le sofistiche congetture del Nasarre, che io stimo che non mai quest’erudito da buon senno prestò fede egli stesso a quel che si sforzò di persuadere agli altri. Almeno in tentarlo dimostrò il Nasarre qualche acutezza ed erudizione; ma che strana e ridicola giustificazione delle scempiaggini delle otto commedie del Cervantes fu quella che venne in testa al Sig. Lampillas? Egli suppose che uno stampatore l’avesse cambiate. Egli dovea con ciò supporre che Cervantes, il quale sopravvisse un anno alla pubblicazione del libro, avesse veduto e sofferto il cambio43. Le apologie del Sig. Lampillas {p. 66}respirano da per tutto ugual saviezza e buona fede.

Cervantes lasciò di scrivere commedie quando cominciò a fiorire Lope de Vega Carpio44 il quale sopravvisse a Cervantes diciannove anni, e morì d’anni settantatre nel 1635. L’antica e la moderna Europa non vide un poeta teatrale del Vega più secondo. I 25 volumi impressi contengono appena una parte di ciò che scrisse pel teatro. Montalbàn afferma che le commedie furono più di mille e ottocento, e che unite à los autos sacramentales e ad altre picciole farse ascendono a duemila e dugento i di lui componimenti scenici45, i {p. 67}quali quasi tutti Lope ebbe il piacere di {p. 68}veder rappresentare o di udire che per le Spagne si rappresentavano.

Egli compose quasi estemporaneamente tutto {p. 69}le sue opere, e spezialmente le commedie, essendo solito a scriverne una in due soli giorni. Alla qual cosa conferì appunto quell’essersi sottratto alle regole del verisimile. Ma dotato di molto ingegno, di vasta fantasia e di eloquenza, per mezzo di una versificazione armonica e seducente, e della moltiplicità degli eventi e delle cose maravigliose, cercò impadronirsi de’ cuori, e secondare, com’ egli diceva, il gusto del volgo e delle donne, per la cui approvazione trionfava in Ispagna l’anarchia teatrale.

Con tutto ciò il Nasarre volle a gran torto avvilire il merito di Lope. Egli si scatena contro di questo poeta come il primo corruttore del teatro, e la corruzione suppone uno stato precedente di sanità e perfezione. Ma qual era il teatro Spagnuolo prima di Lope? Dopo le commediette della figlia del ferrajo e i colloquii pastorali di Lope de Rueda, venne tosto il Naarro di Toledo introduttore di battaglie e duelli, cose aliene dalla poesia comica, le quali dimostrano con evidenza che sull’incominciare i comici si rivolsero ad un nuovo sistema che confondeva i generi. Seguì Cervantes a lavorare sul medesimo piano, per quel che appare non solo dalle ultime otto commedie ch’egli produsse, ma da qualche titolo delle prime perdute, come la Destruicion de Numancia, la Batalla Naval, la Jerusalèn. I poeti scenici poi lodati dal {p. 70}medesimo Cervantes tutti scrissero sregolatamente. Lope dunque ebbe ragione di dipignere a’ suoi in tal guisa il teatro patrio:

Hallè que las comedias
Estaban en España en aquel tiempo,
No como sus primeros inventores
Mas como las trataron muchos barbaros,
Que enseñaron el vulgo à sus rudezas;
Y asi se introduxeron de tal modo,
Que quien con arte agora las escribe,
Muere sin fama y galardòn.

A parlar dunque senza preoccupazione egli trovò che altri l’avea prevenuto nell’avvezzare il volgo alle stravaganze. Egli il disse in faccia all’ Accademia Spagnuola che allora fioriva in Madrid46,

{p. 71}
Mandanme, ingenios nobles, flor de España,
Que en esta junta y Academia insigne ecc.

E chi di que’ chiari individui che la componevano potè smentirlo? Trovò dunque il teatro già corrotto sin dall’immediato successore del Rueda; ed essendosi poi la commedia Spagnuola sempre attenuta a tal sistema, ben possiamo dire, che nacque da semi originariamente pontici e silvestri, la qual cosa non piacque al Sig. Lampillas nemico della storia.

I drammi di Lope consistono in commedie, tragicommedie, pastorali, tramezzi e atti sacramentali, tutti in versi, a riserba della Dorotea già nominata voluminosa novella in dialogo scritta in prosa per leggersi, e non per rappresentarsi. Tralle commedie si contano ancora quelle che trasse o dalla Sacra Scrittura, come la Creacion del Mundo y primer culpa del hombre, in cui discende sino a’ fatti di Caino e alle invenzioni di Tubalcain, o alle Vite di Santi, {p. 72}come El Animal Profeta, in cui San Giuliano fugge dalla patria, come fece Edipo, per non ammazzare i genitori, secondo la predizione di una cerva che parla, e va in una terra lontanissima ove appunto per errore gli uccide. Nelle commedie dette di spada e cappa egli dipinse bene i costumi, se non che talvolta esagerò oltre i confini naturali per far ridere, come si scorge in alcuni tratti della Dama Melindrosa. Nelle opere che ci lasciò, s’incontrano dodici componimenti col titolo di tragicommedie, le quali punto non differiscono da quelle che chiamò commedie. Altre sei delle sue favole volle denominar tragedie, cioè el Duque de Viseo, Roma abrasada, el Castigo sin venganza, la Bella Aurora, la Sangre inocente, el Marido mas firme. Ma perchè le disse tragedie? In esse, oltre a’ soliti difetti circa le unità e lo stile, vedesi la stessa mescolanza di compassione e di scurrilità che regna nelle altre sue favole.

Molti sono i drammi di Lope destinati a celebrare il mistero sacrosanto dell’ Eucaristia con feste teatrali intessute d’invenzioni allegoriche. Io non so come varj nazionali ed a voce ed in iscritto poterono di tali feste attribuir l’invenzione al Calderon47, quando non s’ ignora che tante Lope {p. 73}ne compose48.

Quanto all’origine di questi atti sacramentali il dotto bibliotecario Nasarre vorrebbe trarle dai canti de’ pellegrini che andavano {p. 74}al sepolcro di San Giacomo in Galizia, dicendo, de cuya costumbre quedaron las oraciones de ciegos, y los Autos que llaman Sacramentales, ò por mejor decir la interpretacion comica de las Sagradas Escrituras. Ma questo è incominciar dalla morte di Meleagro e dagli elementi, senza passare a far vedere come e quando quelle cantilene de’ pellegrini si fossero convertite in poesia teatrale, prendendo indi per oggetto l’Eucaristia.

Potrebbero gli atti sacramentali metter capo nelle mascherate e rappresentazioni e farse introdotte nelle Chiese Spagnuole, come altrove, dalle quali vennero indi escluse da’ concilj e dagli sforzi de’ pontefici. Ma niuno indizio si ha che nel corso del XV secolo quelle farse spirituali avessero tolto per argomento l’Eucaristia, ed il titolo di atti sacramentali; imperciochè se ciò fosse avvenuto, il Nasarre tutto dedito ad avvilire il merito teatrale di Lope e di Calderon, non avrebbe tralasciato di notarlo.

Io sono di avviso che ne abbiano risvegliata l’idea le mute rappresentazioni delle più solenni festività sacre qual è quella del Corpus Domini. In essa sino all’anno 1772 in Madrid e per la Spagna tutta sono intervenuti nelle processioni non solo sonatori mascherati e danzantes (che nel tempo della mia dimora colà l’hanno sempre accompagnate), {p. 75}ma una figura detta tarasca, simbolo, a quel che dicevasi, della gentilità o dell’eresia, che seguiva la processione in un carro, e quattro gigantones figure colossali allusive alle quattro parti della terra nelle quali si è sì gran mistero propagato. Or siccome in tale festività soltanto mostravansi senza parole συνθηματα, i segni allusivi al gran mistero, per le strade, per le quali passava la processione, così poi per le medesime strade prevalse il costume di render parlanti que’ segni, e di recitarsi los autos sacramentales durante l’ottavario del Corpus. In fatti l’Antonio nella Biblioteca moderna parlando di Lope de Vega e degli auti da lui composti, dice, quos in die Corpus Domini sub dio recitari mos est in Hispania49. Ma passiamo agli altri drammatici che fiorirono sul finir del secolo XVI e sull’incominciar del seguente.

Molti contemporanei del Cervantes e del Vega coltivarono la drammatica senza discostarsi da’ principj dell’Arte Nuevo, cioè lambiccandosi il cervello in lavori sregolatissimi con istile affettato e capriccioso e sommamente disdicevole al genere scenico. Cervantes nominò con molta lode il dottor {p. 76}Ramòn, forse dopo il Vega il drammatico più fecondo, ed oggi il più dimenticato. Esalta indi le favole artificiose di Miguèl Sanchez comendato anche distintamente da Lope. Loda poi Cervantes la gravità dello stile di Antonio Mira de Mescua Andaluzzo {p. 77}di Guadix, che compose varj volumi di {p. 78}commedie sotto Filippo III, fralle quali {p. 79}los Carboneros de Francia favola bene accolta in teatro. Non si dimenticò Cervantes di Guillèn de Castro Valenziano o di origine o di nascita, encomiandolo per la dolcezza dello stile. Le commedie di costui si pubblicarono in Valenza, ma più non si rappresentano, ad eccezione di quella intitolata Mocedades del Cid (le gesta giovanili del Cid), che si vede di tempo in tempo sulle scene. Probabilmente sarebbe questo scrittore rimasto confuso tralla turba de’ drammatici oscuri senza la felice imitazione del Cid fatta da Pietro Cornelio. Egli compose una seconda favola de las Mocedades del Cid, la quale impropriamente portò questo titolo, sì perchè vi s’introduce il Cid già vecchio nè vi si tratta delle di lui gesta giovanili, sì perchè le azioni di tal favola si aggirano sulle fraterne contese de’ figliuoli del re Fernando, nelle quali assai accessoriamente anzi oziosamente entra il Cid. Ottennero anche distinte lodi dal Cervantes l’eloquenza e la dottrina del Tarraga, l’acutezza di Aguilar, di Antonio {p. 80}Galarza, e di Gaspar de Avila scrittori di molte commedie.

Ma nè da lui nè dal Vega si fece menzione del dotto Toledano Giovanni Perez professore di rettorica ammirato da varii letterati Spagnuoli e dal nostro rinomato Andrea Navagero. Il Perez benchè mancato immaturamente di anni trentacinque avea col nome latinizzato di Petrejo acquistata molta fama pe’ suoi pregevoli versi latini. Quattro commedie Italiane furono da lui tradotte nel medesimo linguaggio, le quali dopo la di lui morte si pubblicarono da Antonio di lui fratello nel 1574 in Toledo. Il Nasarre che cercava fuori di Lope e Calderon le glorìe drammatiche della sua nazione, ed il Lampillas che faceva pompa di molte commedie per lo più cattive da lui mentovate per le relazioni avutene da Madrid, doveano anzi di simili erudite produzioni andare in traccia, e non attendere che uno straniero le disotterrasse. Ma vediamo se gli Spagnuoli ebbero mai vere tragedie senza veruna mescolanza comica.

Non è vero che essi non ne hanno veruna, o che le loro tragedie non possono distinguersi dagli altri drammi, come, abbracciando l’avviso di M. Du Perron de Castera, avanza l’avvocato Linguet nella prefazione al suo Teatro Spagnuolo. Egli crede ancora che il Vega non ebbe idea della vera tragedia, e pure nel di lui Arte Nuevo {p. 81}si trovano ben distinti i componimenti di Terenzio e di Seneca. Egli afferma parimente di non aver veduto in Madrid rappresentare tragedia alcuna, e dirà vero. Io però in diciotto anni che dimorai in quella corte ben posso attestare di averne vedute diverse. Ecco per ora le tragedie Spagnuole del secolo XVI.

Oltre alle latine del Portoghese La Cruz ed alla Castro del Ferreira già riferite, io ne conto altre dodici di cinque letterati Spagnuoli. Vuolsi avvertire però che tra questi io non pongo quel Vasco Diaz Tanco de Fregenal, che altri leggermente pretese che avesse scritte tragedie prima de’ suoi compatriotti e degli stessi Italiani. Nasce tosto al nominarlo la curiosità di sapere dove mai si trovino le tragedie di questo Vasco, e se furono impresse ovvero rimasero inedite. Niuno le vide, nè vi è alcuno che affermi di esservi documento che avessero una volta esistito. Il solo Vasco stesso se ne vanta nel suo Giardino dell’anima cristiana. Dice che nella sua giovinezza compose quarantotto componimenti inediti sacri, storici e morali, e che fra essi erano anche alcune tragedie di Assalone, Ammone, Saule e Gionata. Il carattere di questo Tanco fa sì che senza molto esitare si ripongano tali tragedie nelle biblioteche immaginarie. Gli stessi nazionali attestano che egli adolecia de presumido (avea il morbo della prosunzione); {p. 82}e l’Antonio assicura che i titoli stessi degli opuscoli accennati pieni di novità e di gonfiezza dimostrano la di lui vanità50. Si sapesse almeno quando nacque questo Tanco? S’ignora affatto. Se ne sa solo che viveva in tempo di Carlo Quinto: che nel 1527 fece un opuscolo sulla nascita di Filippo II: che nel 1547 pubblicò una traduzione della storia di Paolo Giovio De Turcarum rebus intitolandola capricciosamente Palinodia: e che nel 1552 fe imprimere il riferito suo Giardino. Ad onta di tale incertezza, con cui mal si può intentar lite di anteriorità, e ad onta del disprezzo che il dotto Nicolàs Antonio mostrò per le millanterie di Vasco, vorrebbe Agostino Montiano con questo Tanco di Fregenal contrastare agl’ Italiani l’ anteriorità della tragedia, dicendo che “la di lui giovanezza poteva essere intorno al 1502” {p. 83}(epoca, come a suo tempo credevasi nella penisola, della prima tragedia degl’ Italiani), “perchè non vi è specie che ripugni all’esser nato Vasco nel 1500”51; ed in questo veramente erroneo raziocinio fu il Sig. Montiano seguito dal Velazquez e dal compilatore del Parnasso Spagnuolo. Non si avvidero questi eruditi che un può essere in buona logica non mai produce per conseguenza un è. Del resto la storia dimostra quante altre tragedie produssero gl’ Italiani assai prima del 1502 in cui si vide quella del Carretto. Nè ciò si dice perchè importi gran fatto l’esser primo, essendo i saggi ben persuasi che vale più di esser ultimo come Euripide o Racine o Metastasio che anteriore come Senocle o Hardy o Hann Sachs.

Nè anche pongo nel teatro tragico Spagnuolo quelle mille tragedie dell’Andaluzzo Giovanni Malara, le quali, sull’ asserzione di Giovanni della Cueva che le mentovò in alcuni suoi versi, sognarono i moderni apologisti che esisterono e si rappresentarono verso il 157952. Il Malara nella {p. 84}sua opera intitolata Philosophia vulgar53, più ingenuo del suo lodatore e de’ moderni apologisti, non ci ha conservata memoria che di una sola sua tragedia intitolata Absalon; ed il Sig. Sedano parimente afferma, che il Malara si conosce soltanto per autore de la tragedia de Absalon. Nè anche questa però può dirsi essere stata tragedia vera; perchè il medesimo Cueva confessa che le tragedie del Malara non erano scritte secondo il metodo degli antichi, ma secondo il gusto nazionale.

Dicasi la stessa cosa di poche altre tragedie accennate nel II Discorso del Montiano, cioè la Honra de Dido restaurada, la Destruicion de Costantinopla, una Ifigenia, il Martirio di San Lorenzo tragedia latina rappresentata nel 1571 nel convento del Escuriale, due altre che senza dirne il titolo si nominano dal Salas Barbadillo, e Dido y Eneas di Guillèn de Castro. Esse o non esistono, e perciò se ne ignora la natura, o certamente non sono rigorose tragedie più delle sei del Vega, e delle altre favole eroiche di tanti altri, e delle commedie del Castro pubblicate in Valenza nel 162154. Ma venghiamo alle dodici non immaginarie tragedie Spagnuole.

{p. 85}

Due ne scrisse Fernan Perez de Oliva, però in prosa, l’Ecuba triste tradotta da quella di Euripide, e la Venganza de Agamemnon tratta dall’Elettra di Sofocle, le quali non si pubblicarono se non nel 1585 in Cordova dal suo nipote Ambrogio Morales. Questo maestro Oliva prima del 1533 dimorava in Italia; dunque (conchiude il sig. Sedano) pudo ser che le componesse intorno al 1520, quando al suo dire uscì in Italia quella del Trissino; dunque (notisi la logica) gli Spagnuoli hanno avute tragedie prima degl’ Italiani. Nè anche del Perez si sa l’anno in cui nacque; e solo il mentovato Sedano ne dice col solito pudo ser che forse nacque nel 1497. Ma ciò concedendo ancora il maestro Perez con lingua di latte snodava voci indistinte e incerte orme segnava, quando si leggeva in Italia la tragedia del Carretto; e non era uscito dall’età pupillare, quando vi si rappresentavano la Sofonisba e la Rosmunda. L’Ab. Lampillas vuol mostrare in prima che il Perez non era fanciullo allora, asserendo gratuitamente contro la congettura del medesimo Sedano, ch’egli potè nascere verso il 1494. Indi trasformando le parole del Giraldi assicura che il Trissino terminò di scrivere la sua tragedia nel 1515; e così un poco anticipando la nascita del Perez, un poco ritardando quella della tragedia del Vicentino, e supponendo anche che il Perez {p. 86}scrivesse le sue traduzioni in Italia (la qual cosa da niuno si è detta e dal Lampillas non si è provata) si lusinga di rendere contemporanee le favole del Perez alle prime tragedie Italiane. Vuole in oltre che l’Ecuba e la Vendetta di Agamennone non debbano chiamarsi traduzioni; ed a ciò altro non replichiamo se non che il dotto suo amico l’Ab. Andres l’ha pure riconosciute per tali, oltre all’averle lo stesso Lampillas nel tomo II del suo Saggio chiamate ancora traduzioni. Tali in fatti esse sono, sebbene non fatte sempre da verbo a verbo, perchè il Perez tratto tratto tronca, raccorcia, contorce, e peggiora gli originali, siccome trovasi provato nel mio Discorso Storicocritico artic. V55.

{p. 87}

Il P. Girolamo Bermudez di Galizia domenicano e cattedratico di teologia in Salamanca, il quale ancor vivea nel 1589, pubblicò in Madrid nel 1577 sotto il nome di Antonio di Silva due tragedie sulla morte d’Inès de Castro intitolate Nise lastimosa e Nise laureada. L’autore le chiamò Prime tragedie Spagnuole; ma se i Portoghesi debbono dirsi Spagnuoli, la Castro del Ferreira fu scritta almeno venti o trenta anni prima. S’impresse, è vero, più tardi; ma il Bermudez senza dubbio l’ebbe nelle mani, giacchè l’ha copiata nella sua Nise lastimosa. Ambedue le tragedie di questo Galiziano mancano di azione e d’intrigo: abbondano ambedue di lunghissimi discorsi episodici intarsiati di fregi lirici: sono ambedue estremamente languide specialmente nello scioglimento: ambedue sono verseggiate con ottave, ridondiglie e sonetti, con faleucj, saffici e gliconici castigliani, e con ogni sorte di versi rimati. Ma la prima, in cui ebbe il Bermudez una scorta giudiziosa, è più interessante; e la seconda, oltre a questi difetti comuni, ne ha moltissimi altri particolari, perchè camino tutto solo.

L’azione della Nise lastimosa si rappresenta parte in Lisbona e parte in Coimbra come la Castro del Portoghese, sulla quale servilmente è condotta in ogni scena la tragedia Castigliana. Così comincia, così prosegue, {p. 88}così termina, copiandosene la traccia, le situazioni, i pensieri e l’espressioni. La languidezza de’ primi atti (dal Ferreira evitata in parte colla passione posta ne’ discorsi d’Inès) si fa sentire assai più nella Nise per la lunghezza de’ discorsi che raffredda le situazioni. E’ però lodevole la seconda scena dell’atto III ove si narra il sogno di Nise copiato con più esattezza dalla Castro; ed il sig. Sedano che la lodò, non ne seppe la sorgente. Migliore ancora è la seconda dell’atto IV, che nel Ferreira a me sembra veramente tragica e ricca di espressioni nobili, naturali, patetiche e convenienti al carattere d’Inès; ed il Bermudez attenendosi all’originale partecipa di questi pregi. Tenero specialmente è il congedo ch’ella prende da’ figliuolini nell’andare a morire. Il Portoghese avea detto così:

Abrazayme, meus filhos, abrazayme.
Despedivos dos peitos que mamastes.
Este sòs foram sempre: ja vos deixam.
Ay ja vos desampara esta may vossa.
Que acharà vosso pay quando viere?
Acharvosâ tem sòs sem vossa may.
Não verà quien buscaba: verà cheas
As casas & paredes de meu sangue.
Ah vejote morrer, senhor, por mim.
Meu senhor, ja que eu mouro, vive tu ec.

Il Galiziano esprime lo stesso in Castigliano:

{p. 89}
Mis angelicos, abrazadme, voyme.
Ay que ja vuestra madre os desampara.
Amores, despedios de estos pechos
Que aveis mamado con dulzura tanta.
Ay quando venga vuestro padre triste
Que harà de si, que sera de vosotros?
Hallaros ha huerfanitos y señeros.
No verà à quien buscaba: verà llenas
Las casas y paredes de mi sangre . . .
Ah veote morir, mi bien, por mi.
Mi bien, ya que yo muero, vive tu ecc. 56
{p. 90}

In somma il Bermudez ha seguito il Ferreira come ombra il corpo, tutto copiandone, tutto traducendone, fin anche i difetti e gli ornamenti lirici e i pensieri troppo ricercati del principe addolorato per l’inaspettato ammazzamento della sua diletta sposa.

{p. 91}

La Nise Laureada consiste nel vano sollievo che sperò il principe Don Pietro asceso al trono facendo coronare il cadavere della sua Castro, e prendendo aspra vendetta de i di lei uccisori. Ma questo componimento poco merita il nome di tragedia. Ancor più della prima manca di azione e di nodo; eccede maggiormente in discorsi prolissi, intempestivi, strani, ed in iscene nojose, e come afferma l’istesso sig. Sedano, diffuse e spropositate. Il carattere del re Don Pietro nobile e di grande innamorato, in questa seconda favola apparisce fiero, atroce, violento, anche indecente e basso. Le persone che vi s’introducono del custode, del portinajo, del carnefice, e i plebei motteggi di quest’ ultimo contro de’ rei, e lo sputar loro in faccia, sono tutte cose disdicevoli in una tragedia, e mostrano abbastanza che il Bermudez non sapea lavorar senza maestro. La scena terza dell’atto V che rappresenta il supplicio degli uccisori di Nise eseguito alla presenza del re e degli spettatori, è affatto ridicola ed impertinente; nè degna del genere tragico è l’azione del re che gli percuote colla frusta. Strappa il boja il cuore per le spalle al primo, giusta il comando del re, e mostrandolo dice:

Tal quiero yo el carnero, aunque no como
El corazon del ave que si aturdo.
{p. 92}

Cava al secondo il cuore dal petto, e dice:

Allà Pluton harà con tal conejo
Esta noche la fiesta à sus amigos.

Finalmente non vi si guarda l’unità del tempo. L’ambasciadore del re di Castiglia tratta nella scena seconda del II atto il cambio di tre Castigliani rifuggiti in Portogallo per gli uccisori d’Inès, domandandogli

todos tres en cambio justo
de aquellos enemigos que allà tienes.

Queste parole que allà tienes indicano che que’ traditori si trovano ancora in Castiglia; or come possono nel medesimo dì trovarsi nell’atto IV in Lisbona, esser chiusi in carcere e tormentati, e nell’atto V giustiziati? In somma ha questa favola tali e tanti difetti, che mi parve di un altro autore, ancor quando ignorava che la prima fosse una semplice copia e traduzione, malgrado dell’uniformità che si scorge nello stile e nella verisificazione di entrambe. Contuttociò il sig. Linguet avrebbe ben potuto ravvisare almeno nella prima (fosse copia o originale) una tragedia Spagnuola, e la sorgente della Inès di M. La Mothe.

Tralle commedie del Sivigliano Giovanni de la Cueva impresse nel 1588 trovansi quattro altre tragedie, i Sette Infanti di {p. 93}Lara, la Morte di Ajace, la Morte di Virginia e di Appio Claudio, il Principe Tiranno. Noi le riconosciamo per tragedie, ma ci rapportiamo su di esse alla censura del nazionale Montiano. Nella prima, ei dice, si trasgrediscono le regole delle unità: nella seconda si pecca contro il verisimile: nella terza le azioni principali sono due: nell’ultima è fantastico e fuor della natura il carattere del protagonista. Ciò vuol dire che sono tragedie, ma difettose. Nega questi difetti il sig. Lampillas, e strepita contro del Montiano e del Signorelli; ma le di lui repliche si trovano combattute abbastanza nell’articolo VI del mio Discorso storico critico. Quì dirò soltanto che il sig. Lampillas in punto di poesia drammatica si è accreditato di poco intelligente non solo colle sue critiche, ma colla scelta che fece di alcune commedie assai deboli e difettose nel voler mentovare le migliori della nazione; là dove l’avviso del Montiano al suo confronto ha troppo gran peso, tra perchè ne’ suoi Discorsi questo Spagnuolo mostrò saviezza, intelligenza e sobrietà, tra perchè come autore di due tragedie ben condotte è giudice competente in simili esami.

Di un’ altra tragedia intitolata los Amantes composta da Andrès Rey de Artieda e impressa in Valenza nel 1581, favellano l’Antonio, e Ximeno; ma i più diligenti letterati nazionali la conoscono soltanto per {p. 94}tradizione, nè sono io stato più felice nel ricercarla.

Il buon poeta Luperzio Leonardo de Argensola nato nel 1565, essendo nell’età di venti anni compose tre tragedie l’Isabella, la Filli e l’Alessandra, le quali si rappresentarono con gran concorso e vantaggio de’ commedianti. Sono state sepolte sino a’ nostri giorni, e la Filli si occulta ancora; ma le altre due si pubblicarono nel VI tomo del Parnasso Spagnuolo, in cui se ne dà nobilmente un giudizio imparziale. Lo stile è fluido e armonioso, benchè non sempre proprio per la drammatica poesia; ma il piano, i caratteri, l’ economia, tutt’altro in fine abbonda di gran difetti; nè so in che mai avesse il Cervantes fondati i suoi esagerati encomj. Reca stupore che uno scrittore che nel ragionar sulle composizioni drammatiche dimostrò senno e gusto, le avesse riguardate come modelli da proporsi ad esempio. Reca stupore ancor maggiore, che il Lampillas, ad onta della saggia censura del Sedano, non avesse compresi gl’ inescusabili errori dell’Isabella, anzi sfidando le fischiate e gli scherni dell’Europa intera l’avesse posta in confronto colla Zaira; cosa così piacevole e comica per ogni riguardo come se si mettessero le pitture Cinesi a fronte di quelle del Correggio. La moltiplicità delle azioni, tutte le persone principali o subalterne innamorate, le bassezze {p. 95}sconvenevoli alla tragica gravità, la strage di dieci persone che rendono la favola atroce, dura, violenta, le inesattezze circa le unità, la varietà di tanti metri rimati, le lunghe ricercate comparazioni liriche rigettate dalla poesia scenica, una machina inutile allo scioglimento, cioè lo spirito d’ Isabella che appare unicamente per congedare l’uditorio con un sonetto: tutto ciò, dico, è un cumolo di difetti così manifesti nell’Isabella, che bisogna esser molto preoccupato per non avvedersene57.

Ma se tanti e sì grandi sono i difetti dell’Isabella, quelli dell’Alessandra vincongli di numero e di qualità. Molte sono le azioni: di undici interlocutori ne muojon nove: bassi e indecenti sono i caratteri di Acoreo e di Alessandra: le atrocità si operano alla vista dell’ uditorio: le membra di Luperzio, il cuore, il sangue, si presentano ad Alessandra, che è obbligata a lavarsi in quel sangue: i nomi stessi de’ personaggi sono incompetenti; Luperzio, Remolo, Ostilio, Fabio non convengono ad Egiziani: lo stile s’innalza fuor di tempo in bocca del nunzio e si deprime in bocca di Alessandra e di Acoreo ec.

{p. 96}

Da questo racconto giustificato dalla ragione, da’ fatti e dall’autorità de’ medesimi eruditi nazionali, si ricava che gli Spagnuoli nel XVI secolo più di ogni altro popolo si appressarono agl’ Italiani. E se non ebbero nella commedia Ariosti, Machiavelli, Bentivogli, Cari ed Oddi, e nella tragedia Trissini, Rucellai, Giraldi, Alamanni, Tassi e Manfredi, possono pregiarsi di aver prodotti nel Vega, nel Castro, nel Sanchez, nel Mira de Mescua, più di un Shakespear, e nel Cueva, nel Ferreira e nel Perez, e nello stesso Bermudez convinto di vergognoso plagio, alcuni pochi tragici non indegni degli sguardi del pubblico.

{p. 97}

LIBRO VI.
Storia drammatica del XVII secolo. §

Il secolo XVII non racchiude il periodo meno interessante della storia teatrale. L’Italia che dopo aver fatto risorgere il teatro degli antichi e dati altri nuovi felici passi in tal carriera, avea rivolti a più ardua impresa i magnanimi suoi sforzi, e la Spagna che invaghita delle novità Lopensi introdotte nelle scene attese a promuoverle senza correggerle, lasciarono alla Francia il bel vanto d’incaminare a maggior perfezione la poesia drammatica, la quale nè mai più vaga e più robusta e più delicata non comparve, nè mai più oltre per l’ Europa non distese il suo dominio. Vediamo intanto in qual guisa la coltivarono gl’ Italiani.

CAPO I.
Teatro tragico Italiano. §

L’Italia che ad esempio di Alcide cercò sempre l’onore nelle difficoltà, poichè {p. 98}ebbe colti i primi e più sublimi allori nell’erudizione e nell’eloquenza oratoria e poetica e nel formarsi un teatro regolare e ingegnoso, aspirò a più sudata gloria, e contemplando il mirabile edificio della natura volle investigarne il magistero cessando di fantasticare. Ella possedea Tassi, Ariosti, Trissini, Raffaelli, Buonarroti, Correggi, Tiziani e Palladj: ella volle ancora i suoi novelli Apollonj, Pappi, Taleti, Anassimandri e Democriti, e n’ebbe una copiosa splendidissima schiera nel Porta, nel Galilei, nel Fontana, nel Borrelli, nel Cavalieri, nel Torricelli, nel Viviani, nel Cassini, nel Castelli, nel Monforte, e in tanti altri insigni membri delle Accademie de’ Segreti, de’ Lincei, del Cimento, degl’ Investiganti, de’ Fisiocritici, degl’ Inquieti, della Società scientifica Rossanese (Nota II). Non dobbiamo dunque maravigliarci che l’Italia tutta intenta a depurar la scienza dal gergo de’ Peripatetici e degli Arabi, per mezzo del calcolo, dell’osservazione e dell’esperienza, consacrando il fiore degl’ ingegni a’ severi studj, prestasse minor numero di buoni coltivatori alle amene lettere ed al teatro.

Tuttavolta troviamo varie tragedie degne di leggersi con utile e diletto. Non era ne’ primi lustri estinto il gusto e lo spirito di verità nell’ espressione e di semplicità nella favola acquistato coll’ imitazione de’ Greci. {p. 99}Non aveano ancora i Francesi, non che altro, la Sofonisba di Mairet e la Medea di Cornelio, quando i nostri produssero più di cinquanta tragedie ricche di molti pregi.

L’Ingegnieri, il Persio, il Dolce, il Morone, il Campeggi, il Porta diedero alla luce ne’ primi anni del secolo dieci buone tragedie se non esimie. Angelo Ingegnieri autore di un Discorso sulla Poesia Rappresentativa pieno di ottimi avvisi, compose verso la fine del XVI la sua Tomiri che s’impresse nel 1607, regolare nella condotta e non ignobile nello stile, sebbene non esente dagli ornamenti lirici. Orazio Persio di Matera compose il Pompeo Magno tragedia lodevole per la scelta dell’argomento, per la regolarità della condotta ed anche in parte per lo stile, la quale s’impresse in Napoli nel 1603. Agostino Dolce fece imprimere nel 1605 la sua Almida da me non veduta. Cataldo Morone da Taranto che poi si disse F. Bonaventura Morone tra’ Minori Osservanti Riformati di San Francesco pubblicò in Bergamo nel 1611 il Mortorio di Cristo con quattro tramezzi, tragedia interessante e regolare che eccita la compassione corrispondente alla grandezza dell’argomento. Gli applausi che ne riscosse gl’ inspirarono il disegno di proseguire nella carriera tragica, e diede alla luce due altre tragedie di cristiano argomento, la Giustina in versi sciolti impressa in Milano nel {p. 100}1617, e l’Irene impressa in Napoli nel 1618 dedicata alla città di Lecce58. Il conte Ridolfo Campeggi pubblicò nel 1614 il Tancredi tragedia applaudita. Il cavaliere Giambatista della Porta diede alla luce il suo Ulisse nel 1614, nella quale dee lodarsi la scelta del protagonista, la naturalezza, la regolarità ed il patetico, sebbene non possa paragonarsi nell’eleganza dello stile e nell’armonia della versificazione co’ Torrismondi e colle Semiramidi. Il suo Giorgio però s’impresse nel 1611, e l’approvazione si ottenne nel 1610; anzi l’autore nel dedicarla a Ferrante Rovito dice di averla composta alquanti anni addietro. Contiene la miracolosa vittoria riportata da San Giorgio di un mostro che affliggeva la città di Silena. L’autor sagace e pieno della greca lettura vi seppe innestare l’ imitazione dell’Ifigenia in Aulide. Nel re Sileno si raffigura Agamennone, Ifigenia in Alcinoe sua figliuola, Clitennestra nella regina Deiopeia, Achille nell’Africano re Mammolino. Il primo incontro della figliuola col re nell’atto II è quale avviene nella tragedia greca tra Ifigenia ed Agamennone, {p. 101}gli stessi equivoci sentimenti e ’l medesimo cordoglio raffrenato all’apparenza in Sileno, le stesse naturali ed innocenti dimande sulle sue nozze in Alcinoe. E’ tenero nell’atto III l’ abboccamento di Sileno colla moglie e colla figliuola che già sanno la loro sventura; e l’autore ha posto in bocca d’Alcinoe le parole d’Ifigenia che procura intenerire il padre. Piena di movimento e di patetici colori è la scena di Alcinoe co’ genitori e con Mammolino, quando ella n’è divisa per andare ad essere esposta al mostro.

Ansaldo Ceba Genovese scrittore di più opere e traduttore de’ Caratteri di Teofrasto morto di anni 58 nel 1623 compose tre tragedie la Silandra, l’Alcippo e le Gemelle Capuane. Lo stile è facile, ricco di concetti giusti, puro e lontano dalle arditezze che nell’avanzarsi del secolo si posero in moda. La Silandra dedicata a Marc’Antonio Doria fu la prima a prodursi, ma non venne registrata come le altre due nella raccolta del Teatro Italiano. L’Alcippo breve componimento e pregevole per varj passi espressi con nobiltà meritò di esservi inserito pel carattere del protagonista ottimo per la tragedia, mentre Alcippo illustre e virtuoso Spartano accusato d’intelligenza col re de’ Persi da un malvagio che falsifica il di lui carattere, dà motivo a varie situazioni interessanti e patetiche tra lui e la sua {p. 102}tenera consorte Damocrita, e alle di lui magnanime querele che palesano l’uomo grande che soffre e si lagna con moderazione. Forse in tal tragedia non sembrerà abbastanza verisimile che Gelendro nel giorno stesso che fa sì gran danno alla famiglia di Alcippo, Gelendro che nell’insidiare altra volta l’onestà di Damocrita dovè tornare indietro atterrito dalla gagliarda ripulsa che incontrò nel di lei coraggio, sia poi sì credulo che si faccia adescare dall’inverisimile speranza di esser soddisfatto, e poche ore dopo della condanna di Alcippo vada alla di lui casa, dove rimane da Damocrita avvelenato. Non si vede ne’ componimenti del Ceba il coro fisso alla greca, ma quattro canzonette di trocaici dimetri da cantarsi da un coro per tramezzo degli atti. Or vediamo se l’altra sua tragedia delle Gemelle Capuane meritava di entrare in una scelta di tragedie.

Perchè questo componimento ebbe assai felice riuscita sulle scene, e fu comendato da varj letterati, e si vide impresso nella collezione tragica del Maffei, mi venne amichevolmente rimproverato l’averlo omesso nell’edizione di questa istoria in un volume. Nel giudizio che ne soggiungo, vedrà il pubblico perchè me ne astenni, e deciderà se feci senno. Benchè lo stile non possa dirsi difettoso per arditezze o arguzie, essendo anzi elegante, vivace, naturale, è {p. 103}non per tanto a mio avviso lontano dal carattere tragico; nè credo che il rimanente, cioè azione, caratteri, interessi, alla tragica maestà più si convenga.

Trasilla e Pirindra gemelle Capuane colla promessa di matrimonio ingannate da Annibale: Calavio padre che per ben corteggiare il suo ospite le spinge a trattenerlo con ogni libertà: il generale Cartaginese che le schernisce abusando della loro credulità o facilità, mi sembrano tutti caratteri mediocri, privati e proprj piuttosto per la commedia. La favola nulla ha di grande che congiunga all’azione i pubblici interessi, nulla che commuova e metta in contrasto le passioni eroiche o che inspiri elevatezza di sentimenti, nulla in somma di tragico se non la morte delle gemelle con cui si scioglie.

Nell’atto I Trasilla racconta alla damigella Metrisca i proprj amori con Annibale, di cui credesi sposa. Dice che si è piegata a compiacerlo e ad ammetterlo furtivamente nella sua stanza per ambizione di vedersi moglie di sì gran guerriere. Dice anche ch’egli è accinto a partire, ed ella a seguirlo in abito militare. Ecco un intrigo ed una fuga comica.

Nell’atto II Pirindra alla sua volta viene a far sapere al pubblico, parlando a Gelasga altra damigella, la gran voglia che avea di maritarsi. Ella le dice:

{p. 104}
Il Padre mio ben sai che a maritarmi
Pensa assai poco . . . .
E poi che il padre mio non mi marita,
Maritar me per me mi son disposta.

Gel.

Gran voglia hai di marito a quel che io sento.

Se vuoi pensar, le risponde, ch’io son sul fior degli anni, che vivo fralle delizie e gli agi, fralle vivande e i vini, fralle feste e i balli, fra gli ozj e i sonni,

Tu non ti ammirerai, se maritarmi
Disponga, e cerchi ancor con tanta brama.

Ella seguita sempre sul medesimo gusto, e poi narra il concertato con Annibale, la promessa fattale di matrimonio, i loro congressi notturni, e lo stabilimento di partirsi con lui in abito militare. Secondo intrigo e fuga comica.

Nell’atto III Annibale che pure viene fuori col suo confidente, racconta le sue amorose avventure con Trasilla e Pirindra, confessando di amarla ugualmente. Narrata la festa datagli da Trasilla, aggiunge:

Presi baldanza, e la richiesi, e strinsi,
Ella mi udì senza turbarsi in volto,
Ma nulla consentì, perchè di sposo
Disse che avea bisogno, e non di amante.
{p. 105}
Io promisi sposarla.

Marb.

Ah che facesti!

An.

E fui con essa e quella notte ed altre.

Narra anche la festa di Pirindra, la sua dichiarazione, le prime ripugnanze e la resa:

Non consentì però di compiacermi,
Se non come consorte e come sposo.

Maar.

E tu le promettesti?

An.

Io le promisi.

Maar.

Ma con che mente, oimè?

An.

Con quella mente
Che avea promesso all’altra; intender puoi.

In tutto ciò chi non ravvisa il procedere e l’esprimersi di un Don Giovanni Tenorio, o di un Uffizialetto a quartiere d’inverno, che passa da questa a quella bellezza, come l’ape va di fiore in fiore? Parla indi Annibale della promessa fatta ad entrambe di condurle seco, aggiugnendo:

Ma l’attener sarà che dall’opposta
Parte, per altre scale e per altr’uscio,
Io mi condurrò fuor di queste mura.

Se questa chiamata tragedia piacque tanto, come dicesi, in teatro, io credo che lo spettatore avrà più volte riso pel carattere disinvolto di Annibale che ama ed abbandona con pari facilità militare. Non è meno {p. 106}comica la seconda scena del medesimo atto di molte donne Capuane co’ soldati Cartaginesi.

Nell’atto IV le scene e i monologhi di Trasilla e Pirindra sono al solito uniformi. Ma comica soprammodo è la scena terza, in cui le sorelle cercano scalzarsi a vicenda, gareggiano e si dileggiano ciascuna stimandosi la prediletta. Vedasene questo squarcio piacevole. Io so (dice Trasilla) d’ avere in mano il cor d’Annibale che tu credi essere ne’ tuoi lacci. Io so più di te, dice l’altra,

Mentre so ch’Anniballe in me rivolto
Non degna pur di rimirarti in viso.

Tras.

Come non degna? Ei parla meco ognora,
E ride, e scherza, e non mi guarda in viso?

Pir.

Io so quel che vo’ dir; la cortesia
Lo stringe teco, e meco il lega amore.

Tras.

Oh come sciocca sei, se tu tel credi.

Pir.

Oh come stolta tu, se no ’l comprendi.

Tras.

Le pugna a mano a man, se tu non taci,
Mi serviran per lingua e per favella.

Pir.

E l’unghie, se tu segui a provocarmi,
Ti suppliran per motti e per risposte.

Con queste pugna e queste unghie non si avvilirebbe anche una commedia sino al genere più triviale e prossimo alla farsa? Lo spettatore avrà certamente desiderato in quel {p. 107}punto l’arrivo di Annibale, ed egli in fatti sopravviene, e le donne vogliono che dichiari qual di esse egli ami. Il generale senza scomporsi risponde:

Io rendo ad ambedue l’amor che debbo.
Io pareggiate v’ho con le parole,
E senza alcuno indugio intenderete,
Che vi pareggerò co i fatti ancora.

Sventuratamente questi quattro atti comici apportano uno scioglimento, se non tragico, funesto. Le gemelle avvedute dell’inganno prendono dalla mano del loro fratello un veleno, e lo tracannano a gara, indi ridottesi alle loro stanze si animano a combattere fra loro per togliersi que’ momenti di vita che loro rimangono. La singolarità de’ cori è anche notabile in questo dramma. Quattro canzonette di metro anacreontico si cantano alternativamente e con nojosa uniformità da due partiti di Capuani, l’uno favorevole a’ Romani, l’altro a’ Cartaginesi. Or le cose quì narrate annunziano un componimento tragico degno di figurare insieme col Torrismondo e colla Semiramide, come vedesi nel tomo II del Teatro Italiano?

Seguirono alle nominate prime tragedie del secolo quelle del Gambaruti, del Finella, del Pignatelli, del Luzzago, del Bracciolini, del Manzini, del Zoppio, del Chiabrera e dello Scamacca. Tiberio Gambaruti d’ {p. 108}Alessandria morto nel 1623 pubblicò la Regina Teano: Filippo Finella filosofo Napoletano pubblicò nel 1617 la Cesonia e nel 1627 la Giudea distrutta da Vespasiano e Tito: Ettore Pignatelli cavaliere Napoletano compose co’ materiali del greco romanzo di Eliodoro di Cariclea e Teagene la sua tragedia la Carichia che uscì alla luce delle stampe in Napoli nel 162759: il Luzzago pubblicò l’Edelfa nel 1627: il Pistojese Francesco Bracciolini la Pentesilea, l’Evandro, l’Arpalice: il Bolognese Batista Manzini la Flerida gelosa mentovata dal Ghilini: Melchiorre Zoppio anche Bolognese fondatore dell’Accademia de’ Gelati morto nel 1634, il quale mostrò troppo amore per le arguzie, ne compose cinque, Medea, Admeto, i Perigli della Regina Creusa, il Re Meandro, e Giuliano; ma il suo Diogene accusato che il Ghilini credè tragedia, è una commedia in versi di cinque, di sette e di nove sillabe, e s’impresse nel 1598: ed il Pindaro di Savona Gabriele Chiabrera pubblicò in Genova la sua tragedia Erminia nel 1622, nella quale non rimane a veruno de’ precedenti inferiore per regolarità, per economia, per maneggio d’affetti, sebbene manifesti di non {p. 109}aver nascendo sortiti talenti per esser un gran tragico, come era nato per essere un gran lirico. Ortenzio Scamacca fecondo gesuita Siciliano dal 1632 al 1651 pubblicò quaranta tragedie sacre, morali ed imitate dalle greche, le quali hanno meritato le lodi degli eruditi per la regolarità e pel decoro tragico che sostengono, benchè vi si noti molta languidezza nell’azione ed il dialogo soverchio prolisso.

Intorno a questo periodo uscirono alla luce delle stampe tre buone tragedie latine del gesuita Bernardino Stefonio, il Crispo, la Flavia, la Santa Sinforosa. Benchè in esse lo stile alcuna volta appalesi qualche studio soverchio, pur vi si notano molti pregi tragici, oltre alla costante regolarità de’ drammi Italiani. Santa Sinforosa fu composta prima delle altre, e si rappresentò nel collegio Romano. Gian Vittorio Rossi conosciuto col nome di Giano Nicio Eritreo, a preghiere dello Stefonio, prese il carico di apprendere in tre dì la parte di Sinforosa che conteneva intorno a settecento senarj, e riuscì così bene in rappresentarla, che ne acquistò e conservò per molto tempo il nome di Sinforosa. Le altre due furono nel medesimo collegio con somma magnificenza e pari applauso rappresentate60. {p. 110}Il Crispo è di tutte la più interessante. Fausta di lui matrigna e innamorata è un ritratto dell’antica Fedra, Crispo dell’Ippolito, e Costantino di Teseo. Soggiacque questa tragedia a varie censure: ma il P. Galluzzi ne prese la difesa con certi Discorsi impressi nel 1633 intitolati Rinnovazione dell’antica Tragedia e difesa del Crispo.

Una delle più interessanti tragedie di questo secolo è il Solimano del conte Prospero Bonarelli gentiluomo Anconitano, la quale s’impresse nel 1620, e fu dedicata a Cosimo II granduca di Toscana. Non ha coro di veruna sorte, ed è notabile per certo portamento moderno e una grandiosità che invita a leggere, ed occulta ogni studio di seguir gli antichi. Lo stile in generale è nobile, naturale e vivace, benchè non manchi di varj tratti lirici lontani dal vero e dal naturale sulla morte del valoroso innocente Mustafà condannato da Solimano re de’ Turchi suo padre per gli artificj di Rusteno e della regina, la quale con tale ammazzamento si lusinga di salvare il proprio figlio Selino e serbarlo all’impero; ma sventuratamente questo caro suo Selino si nasconde appunto nel da lei abborrito Mustafà; per la qual cosa ella disperata si avvelena. I costumi e i raggiri degli ambiziosi cortigiani vi si dipingono egregiamente colla spoglia delle maniere {p. 111}Turche che loro presta novità e vivacità. Il carattere magnanimo di Mustafà si rende ammirabile e caro, ed ha tutti i pregi dell’ottimo personaggio tragico. Lo stesso suo amore con Despina contribuisce ad accrescere la compassione della catastrofe, a differenza della galanteria che illanguidisce tante tragedie Francesi. Solimano avido di gloria e geloso della propria autorità e dell’ impero, nel cui animo facilmente allignano i sospetti, dipigne al naturale il genio de i despoti Ottomani che non risparmiano il sangue più caro ad ogni minima ombra. Egregiamente la compassione e la perturbazione aumenta verso il fine essendo riconosciuto l’ucciso Mustafà per Selino, specialmente dalla madre che ne cagiona la morte per volerlo salvare. Con tutto ciò varj colpi di teatro formano gli episodj di questa favola, che agli amatori delle situazioni appassionate e di una energica semplicità saranno meno accetti. I dialoghi d’Alvante e di Despina furono disapprovati anche dal conte Pietro di Calepio61. Essi increscono molto più a cagione del luogo in cui si tengono, cioè vicino alla corte di Solimano, dove essi debbono certamente {p. 112}ascoltare i segreti propositi de’ congiurati colla regina, la cui partenza attendono per ripigliare il loro ragionamento, come se non potessero altrove proseguirlo. Lo scioglimento prodotto dal racconto di due donne del cambio in culla di Selino si bramerebbe menato con più verisimiglianza. Dovrebbero queste donne introdursi più a proposito, e comparire meno inaspettatamente. Ma queste osservazioni non l’escluderanno dal meritato luogo tralle buone tragedie Italiane, e dal piacere in teatro e nella lettura anche a’ nostri giorni.

Si trova nell’atto I qualche imitazione del Tasso. Il vanto che si dà Rusteno, il peggiore di tutti gli scellerati, e la risposta di Acmat rassomigliano alla contesa di Tisaferne con Adrasto in presenza di Armida. Nell’atto II l’istesso ambizioso Rusteno, al vedere destinato a Mustafà il comando dell’esercito che egli crede solo a se dovuto, prende il linguaggio di Gernando che aspira a succedere a Dudone e mormora di Rinaldo. Degna di notarsi è la maniera onde i perfidi calunniatori sogliono rendere sospetta fin anche la virtù manifesta, non potendo negarla. Ecco l’arte onde la regina desta le gelosie di Solimano:

Ah Sire e tu non vedi
Quell’animo sì altero
Di Mustafà? Non scorgi
{p. 113}
Quel valor sì sublime,
Quella virtù, siasi poi finta o vera,
Che d’ogn’intorno splende? Ah che la scorgi,
E pur troppo la scorgi,
Che per essa or l’onori, il premj e l’ami,
Là dove per tuo bene
Dovresti per la stessa averlo a schivo,
Noti poi quel magnanimo sembiante?
Quella benignità che a tutti ei mostra?
Quel donar sì cortese e liberale?
Or dimmi non son questi
Chiari segni e ragioni, ond’egli creda
Già meritar lo ’mpero, e lo procuri?

Solimano per tali insinuazioni, e per una falsa lettera dell’indegno Rusteno, crede traditore il figlio, e a se lo chiama. Il principe vuole ubbidire, e vi si oppongono amorevolmente Ormusse e Adrasto, sapendo che in corte si trami la di lui morte. Mustafà sempre grande resiste alle istanze de’ suoi fedeli che l’esortano a schivare le insidie. La sesta scena dell’ atto III del loro nobile contrasto è piena di vigore e di moto, mal grado di qualche espressione lirica. Mustafà dice:

Fugga chi ha il cuor nocente, a me conviene
Sostener di fortuna il duro incontro . . .

Replica Adrasto:

Signor, com’ è viltà fuggir la morte,
{p. 114}
Quando è d’uopo il morir, così il fuggire
Vanamente la vita è fasto ed onta.

Non cede il magnanimo, e que’ fidi piegano le ginocchia a lui davanti perchè non vada al re, e vogliono salutarlo imperadore; egli s’oppone con nobile costanza. La morte poi dell’appassionata Despina, del generoso Mustafà; della disperata regina sono rappresentate con tutte le circostanze atte a commuovere, e poche volte l’espressione travia e si scosta dalla gravità naturale che si richiede a tal genere di poesia.

Uscì in Padova l’anno 1657 un’ altra interessante tragedia, l’Aristodemo del conte Carlo de’ Dottori Padovano, che ne ricavò i principali caratteri e il fondamento istorico dall’opera di Pausania62. Aristodemo Greco di Messenia può dirsi un nuovo Agamennone, e Merope sua figliuola una novella Ifigenia. Non quella di Euripide che da prima teme la morte, e poi l’affronta coraggiosa; ma bensì una Ifigenia sempre grande e costante nell’amore del pubblico bene, che si fa ammirare in tutte le vicende della sua sorte; vanto che sinora si è dato solo al celebre Racine da chi non {p. 115}seppe che l’avea prima meritato il Dottori. Il carattere di Aristodemo ottimo per conseguire il fine della tragedia esprime un eroe, che non lascia di ricordarsi di esser padre, senza aver bisogno come Agamennone di ricorrere all’astuzia della lettera per salvar la figliuola allorchè si pente di averla tirata al campo colle finte nozze. Policare è un nuovo Achille, ma sempre innamorato e non mai ozioso sino alla morte; e quel che più importa, il di lui amore per Merope lungi dall’indebolire l’interesse della favola, accresce la compassione nello scioglimento. L’azione poi si avvolge con verisimilitudine, e con tragico terrore si disviluppa. Fin anco i cantici del coro che vi si veggono introdotti, leggonsi con diletto. Nello stile cerca l’autore in ogni incontro con troppo superstiziosa cura la grandezza, la nobiltà, l’ eleganza, e la ritrova alcune volte, ma cadendo spesso nell’affettazione di Seneca, per volere essere sempre grave, sempre ricercato. Le comparazioni sono giuste, ma troppo lunghe, troppo frequenti, troppo circostanziate pel genere drammatico. Anche la spezzatura della versificazione se non fosse quasi continua contribuirebbe molto a variare il numero e l’armonia. Ma vediamo succintamente ciocchè in ogni atto di questa tragedia c’incresca o ci sembri pregevole.

Nell’atto I si racconta che dall’urna in {p. 116}cui si sono posti i nomi di Merope di Aristodemo e di Arena di Licisco, secondo l’ oracolo che richiede il sangue di una vergine matura della famiglia degli Epitidi, è uscito quello di Arena che assicura la vita di Merope con indicibil piacere di Amfia sua madre e di Policare suo amante e sposo. Aristodemo ne ode la notizia col contegno di un eroe che sebbene sensibile alla sventura di Arena, ha pure il pubblico bene nel cuore, e mostra che se mancasse Arena (giacchè Licisco protesta non esser del suo sangue) non ricuserebbe di dar per vittima la figlia. Una imitazione delle preghiere dell’Ercole in Eta di Seneca vedesi in quelle d’Amfia nella II scena Rotin gli astri innocenti, che possono dirsi nobili ed eleganti; ma la gioventù schiverà sempre queste liriche attillature. Nella scena sesta della Nutrice con Merope si svolge il nobil carattere di questa fanciulla non senza vantaggio dell’azione.

Nell’atto II alla notizia che sopravviene della fuga di Arena, Aristodemo si manifesta più grande di Agamennone. Non è egli un Re de’ Re dell’armata Greca che per non perderne il comando condiscende per ambizione al sacrifizio della figliuola, Aristodemo è un grand’uomo che mal grado di tutto l’affetto paterno consacra la figlia alla salvezza di Messenia. Ecco come in lui trionfa dell’affetto l’eroismo:

{p. 117}
Sento rapirmi, e non so dove; e pure
Pur son rapito; assai maggior dell’uso
L’animo ferve intumidito, e volge
Pensieri eccelsi. Non ardisce ancora
Confessarli a se stesso. Ah non ha vinto
Sparta; espugnar bisogna
Il cor d’Aristodemo.

Una Clitennestra che non si diffonde in una lunga aringa, ma una madre penetrata dall’orribile immagine del sacrifizio della figliuola vedesi in Amfia dopo la risoluzione presa da Aristodemo.

Nell’atto III poichè il re ha volontariamente offerta a’ Messenj la figlia in cambio della fuggitiva Arena, inorridisce Policare che l’ode, freme, si adira, minaccia, vuol morir per lei; ma patetico è il congedo estremo che da lui prende Merope:

Io vado e nulla meco
Porterò di più nobile e più degno
Della mia fé: tu le memorie mie
Pietoso accogli, e vivi.

Desta tutta la compassione così appassionata dipartita, e più commoverebbe senza le studiate antitesi de’ versi seguenti. Policare n’è trafitto come da una spada; protesta con impeto che morirà prima di lei; la consiglia a fuggire, ella rigetta la proposta, e {p. 118}come amante ed eroina cerca frenarne i trasporti. Ella è condotta a morire, e sente, benchè senza bassezza, quel natural movimento che scuote l’uomo all’idea di finire. Forse quì si desidererebbe veder la pugna dell’eroismo e dell’ umanità con pennellate più decisive, più tragiche, e spogliate di quell’ aria di ragionamento che rende men viva l’azione.

Nell’atto IV tragica è la situazione di Aristodemo, che sente dirsi da Policare:

Merope è mia donna già molto, e madre
Sarà fra poco.

Il sacrifizio non può seguire; tutti sperano in questa pietosa fola, che però produce funestissimi effetti. Punto Aristodemo nella gloria, nell’ambizione e nell’onore è agitato da pensieri atroci:

O sventurato Aristodemo! o invano
Generoso alla patria, a te crudele!
Volli perder la figlia,
Ma perderla innocente, e rea l’acquisto.
La sua colpa la salva, e la sua colpa
Pur la condanna. E’ del peccato grande
Maggior l’effetto. La stagion crudele
Mi fa crudel, gli dei negletti giusto,
La patria e ’l padre offesi
Giudice rigoroso, il mio furore
Vendicator . . . .
{p. 119}
Per l’attonito sen scorre un tumulto
Non più sentito, ed alle pigre mani
Insegna un non so che di violento
E di feroce.
Sì, lo farò, sia pena, o sia misfatto,
L’approveranno, o fuggiran gli dei.
Che approvino, che fuggano, sia fatto.

Quest’energia, questo tragico trasporto tratto destramente dal fondo del cuore umano desta l’utile terrore della tragedia, e non dovea esser negletto da chi cerca le bellezze tragiche ne’ componimenti de’ trapassati.

Nell’atto V la Nutrice racconta a Tisi l’uccisione di Merope per mano del padre, e così conchiude:

Un certo che sol mormorò morendo,
E trafisse la vergine innocente,
Che generata avea. L’anima bella
Osservato l’inditto
Silenzio non si dolse;
Con un gemito sol rispose all’empio
Fremer del padre, e i moribondi lumi
In lui rivolti, ed osservato quale
Il sacerdote inaspettato fosse,
Colla tenera man coprissi ’l volto
Per non vederlo, e giacque.

E quì ci sembra assai lodevole la condotta del poeta. Merope nobile e magnanima che incontrava da prima la morte senza il comune {p. 120}spavento, sarebbe morta ammirata più che compianta: Merope trafitta per mano del padre stesso ingannato, trafitta senza colpa come rea, assapora tutta l’amarezza della non meritata morte, come dinota l’atto di coprirsi il volto per non vedere il suo uccisore mentre spira, e chiama a se l’interesse della favola. Porta poi Aristodemo all’eccesso la vendetta del proprio onore, e sembra più proprio della tragedia greca che della moderna quell’aprire il seno verginale di Merope, onde si fa palese la di lei innocenza. La morte di Arena che anche si scopre figlia di Aristodemo riduce all’ultimo punto la di lui disperazione, e va furioso a trafiggersi dove uccise l’innocente Merope.

L’eruditissimo Apostolo Zeno preferisce lo stile del Solimano a quello dell’Aristodemo; e certo in questo non iscarseggiano le inezie liriche, come le chiamò il conte di Calepio, benchè di molte se ne veggano anche nella tragedia del Bonarelli. Non dee omettersi però, che per l’economia della favola la vittoria par che sia del Dottori. Nel Solimano la compassione si sveglia verso il fine, e nell’Aristodemo comincia dal primo atto e va gradatamente crescendo con episodj opportuni e degni del coturno. L’interesse nella favola del Bonarelli è principalmente per Mustafà e non per Solimano; in quella del Dottori, quantunque in {p. 121}parte sia per Merope, in tutto il dramma è sempre per Aristodemo. La riconoscenza nel Solimano avviene per l’arrivo improvviso di Aidina e Alicola indipendentemente da’ primi fatti; là dove nell’Aristodemo la venuta di Licisco ha tutta la dipendenza dalle cose riferite sin dall’atto primo.

Il cardinale Sforza Pallavicino, noto per la Storia del Concilio di Trento, compose essendo ancor gesuita una sacra tragedia della morte del santo re Spagnuolo Ermenegildo eseguita per ordine dell’Ariano Leovigildo suo padre. S’impresse la prima volta nel 1644, e poi di nuovo nel 1665 con un discorso in sua difesa, nel quale anno si recitò nel seminario Romano. Non manca nè di regolarità nè di nobiltà, nè porta la taccia degli eccessi ne’ quali trascorse al suo tempo l’amena letteratura; ma col discorso egli tentò invano insegnare che nelle tragedie, sul di lui esempio, dovessero usarsi i versi rimati.

Il conte Fulvio Testi, nato in Ferrara l’anno 1593 e trasportato a Modena nel 1598, indi morto nella cittadella di tai città a’ 28 di Agosto del 1646, il quale ad onta del suo stile per lo più manierato manifestò ingegno grande nelle sue poesie e specialmente in alcune pregevoli canzoni Oraziane, lasciò anche qualche componimento rappresentativo, cioè l’Isola d’ Alcina, e l’Arsinda non terminata. L’Isola {p. 122}d’ Alcina composta nel 162663 è da comendarsi per la semplicità dell’azione che va al suo fine senza avvolgimenti; ma lo stile è totalmente lirico, il metro quasi perpetuamente rimato e le canzonette delle ninfe lontane dalla tragica gravità. Il secolo ammollito e stanco dal piagnere colla severa tragedia giva desiderando i vezzi della musica in ogni spettacolo. Ariosto introdotto a fare il prologo manifesta l’ indole di quell’età. Calzi, egli dice, il coturno Atene, e si compiaccia delle cene di Atreo, indi soggiugne:

Ma d’ogni sangue immaculate e pure
Sian l’Italiche scene, e bastin solo,
Per destare in altrui pietade e duolo,
D’amante cor le non mortal sciagure.

L’industrioso giovane vi scorgerà di quando in quando qualche passo energico. Tale è il discorso del finto Atlante nell’atto III, Dunque con forte destra, tale la confusione di Ruggiero, In qual antro mi celo; ma non è tale una spezie di molle elegia recitata da Alcina coll’ intercalare, Se Ruggiero {p. 123}è partito, Alcina è morta64.

Forse dal fine lieto che preparava all’Arsinda e dalla mescolanza di personaggi mediocri fra gli eroici, si mosse il Testi a chiamarla dramma tragicomico. In fatti improprj per la tragedia sono i propositi che tengono Eurilla, Silvio e Rosalba; improprio è lo stile lirico in quasi tutto il dramma e singolarmente nelle scene di Ateste ed Arsinda ove il poeta trascorre senza freno alla maniera spagnuola. Ma l’azione si avvolge tragicamente, e vi si trova più d’un passo notabile e vigoroso. Grande è Zenobia nella prima scena, nè il carattere è smentito dallo stile:

Correa con piè superbo
Il Persian guerriero
Le provincie dell’Asia, e fuggitivi
Gli eserciti di Roma,
Dirò senza mentir, nè pur da lungi
Delle nemiche spade
Sostenevano il lampo ecc.
{p. 124}

Grande ancora si mostra ne’ suoi lamenti, quando seco stessa trattenendosi si palesa più sensibile alle disgrazie benchè non meno magnanima. Vigoroso e senza lirico belletto è il linguaggio di Arsinda nella seconda scena dell’ atto terzo. Pieno di grandezza nella sesta è il dialogo di Arsinda ed Aureliano. Quindi a ragione disse de i di lui talenti drammatici e dello stile Pier Jacopo Martelli: Se l’autore avesse ornato un pò meno, e si fosse alquanto astenuto da certe figure solamente a lirico convenienti, avrebbe dato che fare a’ Franzesi; ma usando un libero verso senza rima pensò che languito avria senza frase; per sollevarlo dalla viltà lo sviò dalla naturalezza, e diede in nojosa lunghezza, fiaccando il vigor degli affetti per altro vivissimi.

Si vogliono mentovare le seguenti tragedie tralle regolari di questo secolo, le quali possono apprestare alla scorta gioventù qualche squarcio energico e sublime in mezzo a molte liriche affettazioni. La Florinda del figliuolo della famosa attrice Isabella Giambatista Andreini, di cui favella il Baile, e il di lui Adamo recitato in Milano, onde dicesi d’avere il celebre Milton tratta l’idea di comporre il Paradiso perduto: il Radamisto di Antonio Bruno nato in Manduria nel regno di Napoli censore più volte e segretario degli Umoristi di Roma65: {p. 125}Ildegarde di monsignor Niccolò Lepori pubblicata nel XVII e reimpressa nel 1704 in Viterbo: la Belisa tragedia di lieto fine del cavaliere Napoletano Antonio Muscettola data alla luce in Genova nel 1664, ed altamente comendata col nome di Oldauro Scioppio da Angelico Aprosio uscita nell’anno stesso in Lovano; e la di lui Rosminda impressa in Napoli nel 1659 ed anche nella II parte delle sue poesie; ed il Radamisto tragedia destinata alla musica impressa nella III parte di esse poesie dell’edizione del Raillard del 1691: e finalmente le tragedie di Bartolommeo Tortoletti Veronese mentovate dal Maffei e dal Crescimbeni. Noi ci affrettiamo a chiudere la non numerosa schiera de’ tragici del XVII secolo col cardinal Delfino e col barone Caraccio.

Fiorirono entrambi nel colmo della corruttela del gusto, entrambi se ne preservarono intatti, resistendo al vortice che tutti rapiva gl’ ingegni, entrambi possono considerarsi come i precursori della buona tragedia, che seppero astenersi da’ lirici ornamenti de’ tragici del secolo XVI e dalle arditezze de’ letterati del XVII. Finì di vivere il {p. 126}cardinale Giovanni Delfino nel 1699, ed il barone di Corano Antonio Caraccio di Nardò nel 1702. Scrisse il primo nella sua gioventù quattro tragedie, la Cleopatra, la Lucrezia, il Medoro, il Creso, che si rappresentarono con generale applauso, e specialmente la prima, e s’ impressero in Utrecht nel 1730 ed in Padova più correttamente nel 1733. Tutti gli eruditi che hanno gusto tengono per buone le tragedie di questo porporato. Il Gravina le commenda. Il cardinal Delfino (dice il conte di Calepio con tutta verità) diede principio all’abbandonamento degli scherzi recando alla tragedia della maestà sì con le sentenze che colla maniera di esporle. Osservisi (per dar qualche esempio della maestà e della proprietà dello stile) il magnanimo carattere di Cleopatra. A Dite, ella dice nell’atto terzo,

Anderò dall’Egitto, e non da Roma.
Nè voglio in vita impallidir per colpa.
Non vedrà alcuno mai
Questo mio capo alle corone avvezzo
Ad inchinarsi ad altri che alla morte.

Nobili sono i suoi sentimenti allorchè determina di morire supponendo che Augusto col pretesto di nozze voglia esporla in Roma al rossor del trionfo. Questa tragedia dovrebbe collocarsi tralle più eccellenti Italiane {p. 127}e straniere, se all’arte che si osserva nella condotta dell’azione, alla sobria eleganza e maestà dello stile, all’ abbondanza e aggiustatezza delle sentenze, e alla ben sostenuta grandezza del carattere dell’Egizia regina, si accoppiasse più energia e calore negli affetti, espressioni meno studiate in certi incontri, e più vivacità nella favola.

Posteriore di alquanti anni alle tragedie del Delfino fu il Corradino del lodato Caraccio, essendosi pubblicato la prima volta in Roma nel 1694, cioè quattro anni dopo che ebbe dato fuori il suo poema l’ Impero vendicato ch’egli credeva men difficile impresa che il comporre una vera tragedia66. Egli seppe rendere teatrale e interessante la violenta morte su di un palco data al legittimo padrone del reame di Napoli e di Sicilia, con fare che l’Angioino Carlo I tra Federigo duca di Austria e Corradino duca di Suevia e re di Napoli suoi prigionieri ignorasse,

Chi Corradino siasi e chi’ l Cugino.

E’ ben rancida la gara generosa di due amici di morir l’un per l’altro, e il cambiamento {p. 128}del nome per ingannare le ricerche del tiranno. Sofocle introdusse la gara di Crisotemi colla sorella nell’Antigone; Euripide tra Pilade ed Oreste col proposto cambiamento di nomi nell’Ifigenia in Tauride imitata indi dal Rucellai nell’Oreste; nell’Ariosto Ruggiero generosamente prende il nome e le armi dell’amico Leone per esporsi al furore di Marfisa; Olinto nella Gerusalemme del gran Torquato vuol comparir colpevole del furto confessato da Sofronia per morire in di lei vece; il Porta nel suo Moro adoperò ingegnosamente l’artifizio e l’eroismo narrato dall’Ariosto nell’avventura di Ruggiero e Leone; nella Filli di Sciro Tirsi e Filli gareggiano come Crisotemi e Antigone per farsi punire e salvar l’amante. Ma dopo di questi io non conosco se non il Caraccio che abbia saputo co’ vecchi materiali dèl contrasto e cambiamento di nomi di due amici inalzare un nuovo elegante edificio. Ma con qual arte? L’accenna egli forse in una mezza scena puerilmente e senza cavarne frutto per l’azione, come farebbe qualche povero mendicante che scarabocchia sempre senza dipigner mai? Il Caraccio fecondando l’antica idea dalla bella contesa di Corradino e Federigo fa nascere una serie di colpi di teatro e di situazioni interessanti. Corradino si ritira a scrivere l’ultimo addio alla madre; Carlo manda a chiamarlo; Federigo crede che sia {p. 129}menato a morte, e si fa condurre in di lui vece. Dichiara poi di non esser egli Corradino tosto che intende che il re vuol farlo suo genero. Carlo prende questa varietà come ostinazione del nemico a tenersi occulto; se ne sdegna, lo rimanda alla prigione e ne risolve la morte. Federigo ignora la mutazione del re, e quando Corradino è chiamato dal custode per la funesta esecuzione, lo lascia uscire credendo che vada alle nozze. L’errore di questo tenero amico aumenta il patetico dell’estremo congedo che prende da lui Corradino. In tal guisa lavorano i buoni artefici; essi prendono gli altrui pensieri per sementi e ne fanno germogliare una nuova pianta. In questa guisa fece l’ immortal Metastasio, quando dietro le orme singolarmente dell’Ariosto rinnovò tali gare e cangiamenti di nomi nell’Olimpiade e nel Ruggiero. Ma sono molti oggi, non dico i Metastasii, ma i Caracci che hanno uguaglianza e bellezza di stile, armonia di versificazione, giudizio e fantasia feconda? Sarebbe non per tanto a desiderare che il Caraccio non avesse deturpato quest’importante argomento con un intrigo immaginario amoroso, che minora l’odiosità dell’Angioino in più di un punto dell’azione. Corradino giovanetto stirpe di eroi, di re e d’imperadori, legittimo signore di Napoli, ucciso su di un palco come un reo volgare per ordine dell’usurpatore {p. 130}del suo regno, è un personaggio tragico che nella storia stessa commuove ed invita a piangere; or che non farebbe in mano d’un vero tragico? Perdonisi al Caraccio l’averlo involto in un amore, perchè al fine egli seppe con arte conservare all’argomento gran parte del suo patetico, ed avea stile e nota sublime; ma non si conceda che a’ pessimi verseggiatori nemici delle muse e delle grazie l’avvilire con un amor comico il più tragico interessante argomento della storia Napoletana.

CAPO II.
Pastorali Italiane. §

Le pastorali uscite ne’ primi anni del secolo si avvicinarono a quelle del precedente tanto ne’ pregi di semplicità e regolarità di azione e di eleganza e purezza di linguaggio, quanto ne’ difetti di languidezza e di stile troppo lirico ed ornato. Non è però che non se ne fossero prodotte alcune degne di mentovarsi fralle buone. Se non giunse veruna a pareggiar l’ Aminta (cui niuna de’ due secoli può tener dietro) o a superare il Pastor fido, almeno per consenso de i dotti frutto pregevole del XVII secolo fu la Filli di Sciro che occupa il terzo luogo.

{p. 131}

Prima di essa si produssero il Sogno, e la Pastorella Regia di Giammaria Guicciardi impresse nel primo e nel secondo anno del secolo; la Dichiorgia, o sia contrasto dell’amore e dello sdegno dell’Aquilano Pompeo Interverio pubblicata in Vicenza nel 1604; il Rapímento di Corilla di Francesco Vinta uscita nel 1605; il Filarmindo del conte Ridolfo Campeggi.

Alessandro Calderoni diede alla luce l’Esiglio amoroso nel medesimo anno 1607, in cui gli Accademici Intrepidi fecero imprimere in Ferrara la mentovata Filli di Sciro dedicandola al VI duca di Urbino Francesco Maria Feltrio della Rovere. L’autore Guidubaldo de’ Bonarelli (fratello dell’autore del Solimano) morì d’anni quarantacinque l’anno stesso, in cui i lodati Accademici la fecero solennemente rappresentare in Ferrara con un prologo della Notte composto dal cavalier Marini. Un’ altra rappresentazione se ne fece in Sassuolo con un prologo del conte Fulvio Testi. Ne uscirono per l’Italia ed oltramonti molte edizioni e traduzioni Francesi ed Inglesi. Le opere che riscuotono gli applausi dell’ Europa e gli encomj degli uomini di gusto e di buon senso, eccitano alle censure la vanità e l’invidia. Chi morde, chi impallidisce all’udirle lodate, chi si scaglia in pubblico o in segreto contro di esse; ma quelle superiori alle bassezze della timida {p. 132}malignità e dell’arrogante ignoranza poggiano in alto e s’incaminano all’immortalità. Si censurò vivamente la Filli, ma le censure sparvero tosto, e la Filli gode una lunga fama, ad onta dei difetti dello stile, e della moda già passata delle pastorali. Forse la critica più sobria fu quella che si fece al doppio amore di Celia per la rarità del caso, poco atto essendo un possibile raro o troppo metafisico a persuadere e interessare. Lo spettatore ad ogni finta particolarità corre di volo col pensiero sulle cose reali, e non trovandovi l’originale dell’immagine enunciata, rimane alla prima sospeso, incerto, non persuaso; e se a misura che l’azione avanza, vada crescendo la distanza del finto dal vero, passa all’indifferenza, indi alla noja, e sovente al disprezzo. Anche circa lo stile la giusta critica non è sempre contenta della Filli; perchè, oltre al raffinamento, diciam così, originario delle pastorali, vi si veggono molti falsi brillanti ed alquante metafore ardite alla moda Marinesca.

Non per tanto il Bonarelli compensa con varie bellezze sì la scelta di quel possibile straordinario che i difetti dello stile; e tali bellezze la preserveranno dalla totale dimenticanza. Le curiose avventure di Filli e Tirsi educati fra’ Turchi allontanano dalla favola il languore che suole accompagnare la maggior parte delle pastorali ripiene {p. 133}di fredde uniformi elegie senz’anima e senza sangue. Si vuol però notare che gli accidenti di Celia tirano verso di lei l’interesse della favola più di quello che vien concesso a un episodio. Il lettore s’ interessa per essa fin dalla scena terza dell’atto I quando la finta Clori gentilmente si lagna della di lei freddezza:

Sdegni ch’io ti riveggia?
Deh che nuovi portenti?
Sul mio primo apparire alle tue case
Tu mi accogliesti appena
Con un cotal sorriso,
A cui non rispondea per gli occhi il core.
Poscia nell’abbracciarmi
Colle braccia cadenti
Non mi stringesti il seno, e dall’estremo
Delle gelate labbra
Parve cader, non iscoccare, il bacio.
Indi con fioca voce
Non so se pur dicesti,
Ben venga Clori.
Io non t’udii già dir come solevi,
Cloride vita mia.
Poi ti se’ data a gir d’intorno errando
Torbida e lagrimosa.
Io ti seguo, e tu fuggi:
Io ti parlo, e tu taci:
Io ti miro, e tu piangi:
Sì m’odii forse? o ingrata ecc.
{p. 134}

A queste delicate espressioni suggerite da una grande intelligenza del cuore umano, Celia è spinta a palesare le proprie avventure col Centauro e co’ due pastori; e de’ suoi strani amori e del veleno da lei preso si riempie la maggior parte de’ primi quattro atti. I suoi casi chiamano l’attenzione in modo che non pajono accessorii. Pure in una parte del quarto e nel quinto intero torna l’interesse ad essere tutto per Filli. Sin dal principio dell’ atto II desta curiosità il ben colorito amor fanciullesco di costei e del suo Tirsi in Tracia; e nel racconto che se ne fa niun belletto nè arditezza si scorge, ma sì bene una verità d’espressione che diletta e invita a leggere. Un gran movimento riceve l’azione principale dalla riconoscenza di Tirsi, e ne aumenta la vivacità il trasporto di Filli nel trovarlo infedele per le di lui medesime parole. Il disperato dolore della ninfa si spiega nella prima scena dell’atto IV con energia e felicità e senza veruna affettazione di stile. Ella così conchiude:

Per me non v’è conforto,
Per te non v’è tormento,
Che qual tu pur ti se’ perfido e crudo,
E’ forza, oimè, ch’io t’ami;
Io t’amo, e se per altro
Non t’è caro il mio amor, caro ti sia
Perchè il mio amor sarà la morte mia.
{p. 135}
O Tirsi, o Tirsi ingrato,
Filli che per te nacque,
Filli che per te visse,
Filli per te si muore.

I due segni d’oro mandati da Filli ridotta all’estremo al suo Tirsi infedele, perturbano sommamente l’azione, che viene nobilitata nel V atto col pericolo della vita di Tirsi, il quale avendo gettati via que’ cerchi, ov’era l’immagine del Sultano, per una legge è divenuto reo di morte. Egli per disperazione nella quinta scena si accusa del fatto, e Filli per salvarlo se ne accusa ancora, rinnovando così l’affettuosa contesa di Olinto e Sofronia. Lo scioglimento avviene senza violenza per la volontà del Sultano spiegata in note Egizie in quel cerchio medesimo che ha servito alla riconoscenza di Tirsi e Filli. In conseguenza ne avvengono le nozze di questi amanti, e quelle di Celia con Aminta, e la felicità di Sciro liberata dal tributo crudele solito a riscuotersi da’ Traci.

Leggonsi nell’opere del Chiabrera tre pastorali, le Meganira, la Gelopea, l’Alcippo meritevoli dell’attenzione degl’ intelligenti imparziali. Appartiene la prima al secondo lustro del secolo, ed in essa, oltre all’ esser piaciuto all’autore di rimare con frequenza, non si vede il calore richiesto nelle sceniche poesie; ma ben si nota la {p. 136}semplicità dell’azione condotta coll’ usata regolarità Italiana, ed espressa colla natural grazia di questo leggiadro poeta. Interessante è l’ episodio di Jante ed Alcasto dell’atto I, in cui si spiega l’origine della festa di Arcadia: curioso quello dell’atto III degli amori di Logisto colla Maga che gli donò l’arco incantato: e patetico l’equivoco preso da Alcippo nel IV atto, pensando aver trafitta la sua Meganira nel provar l’arco.

La Gelopea scritta in versi endecasillabi e settenarj liberi s’impresse in Venezia nel 1607, e colle opere dell’autore nel 1610. Vi si vede più artifizio nel piano, viluppo più teatrale, caratteri più varj, passioni più vivaci, locuzione ricca di molte grazie naturali ed assai conveniente alle persone imitate. L’azione che si finge accaduta nel Premontorio luogo amenissimo del borgo di San Pietro di Arena nella Riviera di Genova, si aggira sull’amore di un pastorello per Gelopea turbato dalla gelosia per una menzogna, serenato dal disinganno, e felicitato dal possesso della pastorella amata. Vaga nell’atto I è la descrizione fatta dall’innamorato Filebo delle bellezze di Gelopea, e dei di lei graziosi trastulli col merlo imitati da quelli vaghissimi col passero di Catullo. Si machina nell’atto II a danni de’ due amanti per separargli suscitando in ciascuno torbidi sospetti di gelosia. Ad Alcanta {p. 137}si assegna la cura di tirar Gelopea al fenile d’Alfeo per accertarsi che Filebo dee trovarvisi con altra ninfa. Nerino malvagio, povero e ad un bisogno bacchettone sveglia in Filebo lo stesso sospetto della fede di Gelopea, e l’invita a scorgerne l’infedeltà nel medesimo fenile. Pregevole nell’atto III è la scena in cui Telaira sorella di Filebo vuol renderlo avveduto della inverisimiglianza del racconto fattogli da Nerino. Il loro dialogo è così acconcio, che il lettore rimane pago d’ogni proposta, e considera che posto egli nelle medesime circostanze non avrebbe altramente detto o replicato; ciò che forma il carattere dell’ottimo dialogo. Telaira stessa parla con Gelopea nell’atto V, e si scioglie l’ equivoco, conoscendo gli amanti che l’uno non era andato al fenile d’Alfeo che in traccia solamente dell’altro. Comprendono di essere stati aggirati, ricuperano la tranquillità, e si confermano nel proposito di sposarsi come il padre di Gelopea condifcenda alle nozze. E’ ben leggiadra questa poesia, e non so veruna pastorale d’oltramonti che potesse sostenere senza manifesto svantaggio il confronto della Gelopea.

L’Alcippo impressa in Venezia nel 1615 gareggia per la semplicità colle stesse greche favole, e pure interessa a maraviglia. Alcippo per amore di Clori si trasforma in ninfa, e col nome di Megilla se la rende {p. 138}amica se non amante con quello di Alcippo. E’ scoperto dalle ninfe d’Arcadia per la ripugnanza ch’egli ha di bagnarsi seco loro. Una legge condanna a morire sommerso nell’Erimanto chiunque ardisce insidiare l’onestà di quelle rigide seguaci di Diana; ed Alcippo dee soggiacere a questa pena. Tirsi, il giudice più zelante per l’ osservanza della legge, si scopre essere il padre di Alcippo ignoto a se stesso. Montano obbliga Alcippo a parlare in sua difesa; egli con candidezza manifesta l’innocente suo disegno di acquistar la di lei benevolenza, per poi scoprirsi ed ottenerla in consorte. Commuove il suo semplice appassionato racconto; tutti intercedono per lui, ed ottiene il perdono e la sua bella Clori. I caratteri vi sono ben sostenuti, e quello singolarmente della finta Megilla ha una nobiltà che incanta. Tutto poi nella favola è vero, tenero, patetico, e senza affettazione nè turgidezza veruna. Sei pur bella, o natura, quando i pedanti non ti rassettano!

Altre pastorali potrebbero mentovarsi, nelle quali non si vide tutta la corruzione del secolo, se voglia mirarsene con indulgenza qualche languidezza ed ornamento lirico. Tra esse può registrarsi la Finta Fiammetta uscita nel 1610 composta da Francesco Contarini che un’ altra ne avea prodotta nel 1595. Una Nuova Amarilli pubblicò {p. 139}il Gambaruti mentovata dal Ghilini. Ogni lode riscuote la Tancia graziosa e semplice commedia rusticale di Michelangelo Buonarroti il giovane pubblicata ne’ primi lustri del secolo anche per gl’ intermedii accomodati all’ argomento villesco (Nota III). Giulio Cesare Cortese compose la Rosa favola boschereccia nel dialetto Napoletano pubblicata nel 162167. Filippo Finella produsse in Napoli nel 1625 e nel 1628 la Penelopea tragicommedia pastorale, e nel 1626 la Cintia. Domenico Basile fece una traduzione Napoletana del Pastor fido impressa nel 1628. Nel medesimo anno si pubblicò la boschereccia detta maritima intitolata Dardo Fatale da Giambatista Bregazzano, il quale diede alla luce nel 1630 il Vendicato Sdegno favola pescatoria, e nel 1637 le Varie Fortune boschereccia. Altre tre pescatorie di questo secolo furono l’Aci di Scipione Manzano impresso in Venezia {p. 140}nel 1600, l’Amaranta del Villifranchi del 1610, e la Dori d’Isabetta Coreglia Lucchese stampata in Napoli nel 1634. Il Messinese Scipione Errico compose una graziosa pastorale l’Armonia d’amore impressa due volte in Messina e la terza volta in Roma nel 1655. La rende pregevole l’ingegnosa semplicità dello stile senza arditezze, e l’ameno soggetto di una festa cinquennale, in cui si gareggia col canto per acquistare una vaga ninfa. Io non conosco pastorale veruna de’ due precedenti secoli che più di questa abbia acconciamente dato luogo a molti squarci musicali, ed a tante arie o strofe anacreontiche non cantate soltanto dal coro in fine degli atti, ma in mezzo di essi da personaggi, e soprattutto nell’atto V.

Si registrano nel catalogo della biblioteca Imperiali due pastorali di un caprajo improvvisatore, il Siringo favola cacciatoria impressa in Siena nel 1636, ed il Negoziante uscita in Venezia nel 1660. Gian-Domenico Peri ne fu l’autore, il quale nacque in Arcidosso nelle montagne Sanesi. I parenti non del tutto sforniti di comodi l’aveano mandato a scuola; ma egli spaventato dalla villana sevizia del suo pedagogo lasciò la casa paterna, e si fuggì nelle selve a menar vita campestre, ed in esse senza studio pervenne ad essere poeta ed improvvisatore. Non ebbe il Peri altro maestro {p. 141}che il proprio genio e l’udito affinato dalla lettura che nel campo un altro caprajo faceva del Furioso e della Gerusalemme. Forza de’ gran modelli! pur troppo è vero, hinc pectore numen concipiunt vates. L’amore della poetica armonia che bevve il Peri in sì bei fonti gl’ inspirò l’amore di verseggiare, e compose alcuni poemi e le riferite pastorali, ch’egli stesso rappresentava in compagnia d’altri caprai. Solea far la parte di zappatore, e si contraffaceva di tal modo che non poteva mirarsi nè udirsi senza riso. Il teatro era naturale senza veruno artificio in un luogo poco lungi dal casale in un castagneto opportuno alla rappresentazione. La di lui fama pervenne al granduca, alla cui presenza lesse il poema intitolato la Fesuleide, e ne ottenne una pensione68.

Tre altre pastorali di tal tempo appartenenti a due Gonzaghi rimangono tuttavia inedite, e si trovano presso l’eruditissimo P. Ireneo Affo. La prima intitolata Fontana vitale e mortale è di Don Andrea Gonzaga, da cui nacque Don Vincenzo conte di S. Paolo in Puglia, che gli succedette nel ducato di Guastalla; ma tal componimento, {p. 142}per avviso del lodato religioso, è poco degno di trattenerci. Le altre due sono di Don Cesare Gonzaga II principe di Molfetta morto nel 1632 in Vienna di età ancor fresca. L’una s’intitola Procri, che dal canonico Negri Guastallese si pose per appendice alla sua storia di Guastalla. Stimò il Negri che la Procri fusse parto di Don Ferrante Gonzaga; ma da’ registri delle lettere dell’archivio segreto di Guastalla si rileva che fu composta da Don Cesare69. Egli compose ancora la Piaga felice favola ne i boschi divisa in cinque atti, il cui originale conservasi dal lodato Bibliotecario di Parma. Egli che ebbe la scuola del padre, non peccò nello stile; fu dolce, facile e piano, guardandosi dall’ampollosità e dalle arditezze delle metafore.

Inedita conservasi parimente nella biblioteca dell’università di Torino l’ Alvida pastorale del conte Lodovico San Martino {p. 143}d’ Agliè, cui par che avesse fornito l’argomento e il piano lo stesso duca di Savoja Carlo Emanuele I a cui si dedicò70.

CAPO III.
Continuazione del teatro Italiano. Commedie: Opera in musica: Attori accademici ed istrioni e rappresentazioni regie: teatri materiali. §

I.
Commedie. §

Nelle commedie Italiane del XVII secolo si vuol fare la medesima distinzione del precedente in erudite e in buffonesche ed oscene destinate al divertimento del volgo. Senza ciò i critici boriosi e singolarmente i superficiali viaggiatori oltramontani privi della fiaccola della storia combatteranno sempre contro quest’ultime, e sempre crederanno di aver trionfato di tutte.

Non meritano di esser poste in obblio o {p. 144}disprezzate le commedie ingegnose, piacevoli, regolari che specialmente ne’ primi lustri del secolo uscirono da varie accademie del XVI che continuarono a fiorire nel XVII secolo, come le Napoletane, le Toscane e le Lombarde. Ne produsse ancora quella degli Umoristi di Roma cominciata dopo il 1600. Or si può senza biasimo da chi vuol ragionar di teatro negligentare la notizia di queste produzioni non ignobili, delle quali gli autori o bene scarso tributo pagarono al mal gusto che giva infettando l’eloquenza, o pur felicemente se ne guardarono?

Non furono certamente commedie scritte unicamente per dilettar la plebaglia quelle degl’ Intronati di Siena, i quali, dopo che nel principio del secolo ebbero la permissione dal governo di tornare agli antichi loro esercizj, nel 1611 ne pubblicarono una collezione, dove si veggono caratteri ben condotti, costumi ben dipinti, economia regolata, il ridicolo destramente rilevato e una dizione propria del genere comico. Quella di Adriano Politi intitolata gl’ Ingannati si accolse con applauso in Italia, si tradusse in francese e si pubblicò in Lione col titolo les Abusez, secondo il Fontanini; secondo però Apostolo Zeno la commedia francese quì mentovata non fu tratta da quella del Politi, ma da un’ altra degl’ Intronati che ebbe il medesimo titolo.

{p. 145}

Si vogliono collocare tralle ingegnose commedie erudite l’ Impresa d’amore rappresentata sin dal 1600 dagli Accademici Amorosi di Tropea, e le Spezzate durezze di Ottavio Glorizio che s’impressero nel 1605 in Messina, e si reimpressero qualche anno dopo in Venezia: la Trappolaria del Palermitano Luigi Eredia recitata ed impressa in Palermo nel 1602: l’Ancora vaga commedia pubblicata nel 1604 e più volte ristampata in Venezia del cavaliere Napoletano Giulio Cesare Torelli, la cui morte compianse con un sonetto il Marini: il Padre afflitto del Cenzio uscita nel 1606, e il di lui Amico infedele del 1617.

Non furono forse regolari, ingegnose e facete la Pellegrina di Girolamo Bargagli Sanese uscita alla luce nel 1611, gli Scambj di Belisario Bulgarini pubblicata nel medesimo anno, e le commedie del Malavolti, cioè i Servi Nobili del 1605, l’Amor disperato del 1611 e la Menzogna del 1614? Mancano esse forse d’arte e di grazia comica? abbondano d’oscenità e d’inverisimiglianze? Cede forse l’Idropica di Giambatista Guarini pubblicata nel 1613 a veruna delle commedie erudite per regolarità, per grazia comica, per delicatezza ne’ caratteri e per vaghezza di locuzione?

Se altre favole comiche non potessero mostrare gl’ Italiani del secolo di cui parliamo se non quelle del cavaliere Napoletano Giambatista {p. 146}della Porta recitate in parte anche nel precedente, ma in questo pubblicate per le stampe, pochi emuli avrebbero essi da temere nella prima metà del secolo XVII. Noi ne accennammo più cose nella nostra opera appartenente alle Sicilie71; e quì ci arresteremo anche un poco su di esse forse non inutilmente non solo per la gioventù, ma ancora per chi non leggendo osa ragionare, e per chi non sa se non ripetere come oriuolo i giudizj portati dagli esteri su i nostri scrittori, favellandone iniquamente per tradizione. Non ci fermeremo nè su di quelle che l’ editore della di lui Penelope Pompeo Barbarito nel 1591 promise di produrre, nè sulle favole notate a sogetto, tralle quali lasciò lunga fama la celebre sua Notte72, onde solea ricrear la città di Napoli nel tempo stesso che colle opere scientifiche la rendeva dotta. Per comprendere l’indole comica di questo cavaliere e la natura delle sue favole, bastano le quattordici che raccolte in quattro volumi si pubblicarono in Napoli dal Muzio nel 172673.

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Il Porta conoscitore esperto de’ Greci e de’ Latini, ed osservator sagace dell’arte comica dell’Ariosto, mostra di posseder la grazia di Aristofane senza oscenità ed amarezza, la giovialità di Plauto rettificata, e l’artificio di dipignere ed avviluppare del Ferrarese senza copiarlo con impudenza da plagiario che ti ruba e ti rinnega. Seguì per lo più le orme di Plauto, ma nel viluppo lo sorpassa d’ invenzione e di proprietà. Se Plauto potesse prestar la sua penna e render latine la Trappolaria e l’Astrologo, ne rimarrebbe oscurata buona parte delle di lui favole tolte in prestanza da’ Greci. Talvolta si elevò ad un genere di commedia più nobile, come nella Furiosa, nella Cintia, e ne’ Fratelli Rivali; talvolta maneggiò la commedia tenera, come nella Sorella e nel Moro.

Generalmente prese egli a perseguitare colla sferza comica la vanità ridicola, la letteratura pedantesca e la falsa bravura de’ millantatori scimie ridevoli de’ soldati di ventura. L’economia delle sue favole è verisimile, semplice ed animata da piacevoli {p. 148}colpi di teatro. Lo stile è comico, buono per lo più, benchè talvolta soverchio affinato per far ridere alla maniera Plautina. Dipigne benissimo le delicatezze e i piccioli nulla degl’ innamorati, tirando fuori dal fondo del cuore umano certi tratti così naturali e proprii dell’affetto che riescono inimitabili. Solo ne incresce che alcune volte renda gli amanti soverchio ragionatori. Del linguaggio Italiano generale si vale acconciamente per esprimere le cose con verità e qualche volta con vivacità. Non giugne all’eleganza dell’Ariosto, del Bentivoglio o del Caro; anzi non sempre la dizione è pura, sfuggendogli dalla penna tratto tratto formole e voci non ammesse da’ Toscani rigorosi. Egli sulle orme degl’ Intronati e de’ Rozzi e di altri che introdussero qualche personaggio che parla Veneziano, Bolognese, Spagnuolo o Napoletano, frammischiò ancora qualcheduno che si vale del dialetto Napoletano, ma coll’ atticismo patrio, e con ogni lepore cittadinesco come nato in Napoli e versato nelle grazie della propria favella.

Ma il comico valore del Porta ha per avventura qualche carattere particolare onde si distingua dagli altri comici, come Raffaello si distingue da Michelangelo, Achille da Ajace, Cicerone da Pollione, Terenzio da Plauto? A noi par di vederlo; e ci dispiace di non essere stati in ciò prevenuti {p. 149}da verun critico. La commedia del Porta è sempre di situazione, e l’arte che possiede di avviluppare ingegnosamente nella stessa semplicità, lo rende particolarmente notabile e pregevole. Un filo naturalissimo mosso da una molla non preveduta si va con verisimiglianza avvolgendo senza bisogno di circostanze chiamate a forza in soccorso del poeta, e vi cagiona un moto vivace, mette i personaggi in situazioni comiche o tenere e sino al fine tiene svegliato lo spettatore tralla sorpresa e il diletto.

Quindi è che le sue commedie possono con ragion veduta proporsi per modello di viluppo ingegnoso senza sforzo, attivo senza trasporto e naturale senza languidezza. Diasi agli eccellenti comici Francesi venuti dopo di lui il bel vanto di essersi segnalati egregiamente nella bella commedia che dipigne i caratteri correnti; ma si riserbi al Porta il trionfo nella commedia di viluppo. Non entro quì ad esaminare a qual delle due debbasi la preminenza. Quando l’uno e l’ altro genere sia trattato con maestria, meritano ugualmente la corona comica. Ogni scrittore ha pregi a se proprii (possiamo dire con Madama Dacier che tante buone cose conobbe a molti de’ suoi posteri sfuggite), e siccome non v’ha cosa più vasta della poesia in generale, e della drammatica in particolare, così non v’ha carriera dove mostrino gli uomini maggior diversità {p. 150}di talenti. Tutti i generi sono buoni, secondo l’avviso del Voltaire, fuorchè il nojoso; ed io aggiungerei, fuorchè lo spropositato e l’eterogeneo. Quei che pretendono che tutta l’arte comica consista nel solo ritrarre i costumi senza molto aver cura d’istoriar l’azione, riflettano che i costumi, spezialmente locali, sono come le mode passeggieri, ma l’azione esposta con bell’ arte in vaghi quadri appassionati o piacevoli conviene ad ogni tempo. I caratteri forti, niuno l’ignora, sono di numero limitati, e dipinti bene una volta, se vogliano replicarsi, riescono per lo più languide e fredde copie. Ma gli accidenti o le combinazioni del verisimile ben modificato producono in teatro la sempre bella e sospirata varietà. Or tale è l’arte che serpeggia nella Trappolaria, nell’ Olimpia, nella Tabernaria ed in altre del Porta; e questo dilettevole genere comico dopo di alcune prime commedie del Moliere e del Bugiardo del Cornelio, fu da’ francesi totalmente negletto. Gli Spagnuoli lo maneggiarono molte volte con felicità, ma sempre trascurando ogni saggia regola adottata dalla culta Europa, e talvolta violentando la verità nel condurre lo scioglimento. Il Porta lo fece suo particolar retaggio maneggiandolo con piacevolezza, ingegno, novità e giudizio, senza infrangere le regole e senza ricorrere a’ soliti partiti di manti, {p. 151}nascondigli, evenimenti all’oscuro e case che si compenetrano.

Parvero, è vero, al sig. di Marmontel le commedie Spagnuole meglio intrecciate dell’Italiane; e noi rispetteremmo ciecamente il suo giudizio, s’egli avesse mostrato di aver letta alcuna delle buone commedie erudite dell’Italia. Il solo Porta che avesse letto, l’avrebbe guarito del suo preoccupato avviso; ma il Porta soffrirà con Ariosto e Machiavelli e Bentivoglio ed altri illustri Italiani che scrissero commedie, la disgrazia di non essere stato letto dal sig. di Marmontel. Di grazia quale ingegnoso artificio lodevole può campeggiare in una favola che si agevola d’ogni modo il sentiero aggruppando in due ore di rappresentazione la storia di mezzo secolo, e presentando in quattro spanne di teatro tutto il globo terraqueo, ed anche il mondo mitologico e l’inferno e il paradiso? Intende egli per intreccio un cumulo di evenimenti romanzeschi ammonticati a dispetto della natura in mille guise?

Secondo me l’arte di avviluppare consiste nel concatenare gli avvenimenti in maniera che vi si ravvisi sempre una ragione che soddisfaccia in ogni passo dell’azione. Direi ancora che il viluppo più acconcio ad appagar chi ascolta, altro non sia che una giudiziosa progressione di un’ azione sola per la via del maraviglioso condotta al {p. 152}suo fine74. Ma questo maraviglioso in che mai è posto? Nell’accumular fatti come si fa nelle commedie romanzesche? Aristotile lo caratterizzò egregiamente con quest’esempio: cada una statua nel punto che passi sotto di essa l’uccisore di colui che rappresenta, e questa caduta naturale per combinazione diventa maravigliosa. Il Porta ne diede di belli esempj. Ecco l’intrigo dell’Astrologo. Un impostore dà ad intendere a un credulo ignorante innamorato che per mezzo d’arcane scienze trasformerà talmente un servo che rassembrerà un vecchio creduto morto; e nel punto che si aspetta la promessa metamorfosi, per mero caso arriva quel vecchio stesso, e tolto in cambio cagiona maraviglia, sconcerto e movimento di molte passioni con diletto dello spettatore. Una sola è la molla, ma attivissima e ben collocata dà moto a tutta la machina. Pari industria si scorge nella sua Sorella. Un padre spedisce in Costantinopoli un suo figliuolo per liberare dalla schiavitù la {p. 153}moglie e una figliuola. Questi s’innamora in Venezia di una bella schiava, e senza eseguire la commissione del padre riscatta questa giovane, la sposa e la mena nella casa paterna facendola credere la sorella liberata, ed affermando d’aver trovata già morta la madre. Ma questa madre per buona ventura ottiene la libertà, ed arriva in un punto che disturba la tranquillità degli amanti. Il primo a vederla è il figliuolo che prevedendo di dovere il di lei arrivo far che egli debba fuggire dal rigore del padre giustamente sdegnato, piangendo le manifesta la sua colpa, e vuol partirsi disperato quando ella non voglia impietosita dare a credere al marito che la giovane che è in casa sia appunto la perduta sua figliuola. La madre condiscende e promette. S’incontra colla giovane, ed effettivamente la riconosce per la figlia ed è da lei riconosciuta per madre. Le reciproche tenerezze, il pianto che produce naturalmente quest’incontro, vien dal figlio creduto pietoso artificio della madre affettuosa. Ma quando intende esser quella veramente di lui sorella, cade nelle smanie di Edipo senza però oltrepassare i limiti prescritti alla commedia, e la vivacità delle passioni che risveglia quest’evenimento, agita e scompiglia la casa tutta, la quale avventuratamente si rassetta col manifestarsi uno scambio accaduto alla fanciulla in fasce, per cui è riconosciuta {p. 154}per figlia di un altro concittadino. Il viluppo della Trappolaria e quello dell’Olimpia sono della stessa guisa ingegnosi e felici, una sola ipotesi verisimile tutto avvolgendo e mettendo in movimento, ed un solo fatto che necessariamente, e non a piacer del poeta si manifesta, riconducendo la tranquillità tra personaggi ed un piacevole scioglimento.

Tre altri buoni scrittori Napoletani sin dal principio del secolo si segnalarono con ingegnose e regolari favole comiche, l’Isa, lo Stellati, il Gaetano duca di Sermoneta. Cinque commedie portano il nome di Ottavio d’Isa Capuano, la Fortunia impressa verso il 1612 e poi molte altre volte, l’Alvida del 1616, la Flaminia del 1621, la Ginevra dell’anno seguente, e poi del 1630 in Viterbo, che è l’edizione citata dal Fontanini, ed il Malmaritato del 1633 secondo il Fontanini e l’Allacci, benchè il Toppi ne registri un’ edizione del 1616 col titolo di Malmaritata, che le conviene meglio. Esse veramente non portano il nome dell’autore che le compose, cioè di Francesco d’Isa sacerdote erudito che dimorava in Roma, dove morì sull’incominciar del secolo. Sono tutte artificiose e facete scritte ad imitazione de’ Latini con intrighi maneggiati da servi astuti, e talvolta con colori tolti da Plauto, come il raggiro de’ servi per ingannare un Capitano nell’ {p. 155}Alvida che con poche variazioni si trova nel Miles del comico latino. Rancida parrebbe ancora l’invenzione degli argomenti delle sue favole fondati sulla schiavitù di qualche persona in Turchia o in Affrica; ma si vuole avvertire che in quel secolo essi doveano interessare più che ora non fanno, perchè tralle calamità specialmente delle Sicilie sotto il governo viceregnale non fu la minore nè la meno frequente quella delle continue depredazioni de’ barbari sulle nostre terre littorali non più coperte dalle potenti armate di mare di Napoli e di Sicilia. Aggiugni a ciò le devastazioni delle provincie del regno taglieggiate e saccheggiate da compagnie di banditi, i quali non rare volte tolsero a’ ricchi abborriti i beni e le figliuole. Ed in fatti su questa lagrimosa parte della storia di Napoli è fondata la schiavitù di Alvida menata via da’ banditi Abbruzzesi, come ella stessa racconta ad Odoardo nell’atto IV. Capuano fu ancora Lorenzo Stellati autore pregevole di altre due commedie, cioè del Furbo uscita in Napoli nel 1638, e del Ruffiano impressa nel 1643 assai comendate dal Gravina. Le commedie del duca di Sermoneta Filippo Gaetano parimente con ragione lodate dal Gravina per la loro regolarità e per la dipintura de’ caratteri e degli affetti, sono la Schiava impressa in Napoli sin dal 1613 e reimpressa dopo molti anni in Palermo, {p. 156}l’ Ortenzio rappresentata in Rimini alla presenza del cardinal Gaetano e stampata in Palermo nel 1641, e i Due Vecchi impressa colle altre dal Ciacconio in Napoli nel 1644.

Piacevole e senza inverisimiglianze grossolane è il Trimbella trasformato commedia in versi del Martellini stampata nel 1618. Si recitò in Firenze nel medesimo anno in cinque giorni con generale applauso la Fiera commedia urbana del festivo Buonarroti il giovane, la quale è uno spettacolo di cinque commedie concatenate diviso in venticinque atti75. Tra’ piacevoli Trattenimenti di Antonio Brignole Sale impressi in Genova trovasi il Geloso non geloso commedia in cui lepidamente si ritrae un uomo posseduto dalla gelosia, che per non incorrere nel ridicolo attaccato a’ gelosi vorrebbe comparirne esente e ne diviene doppiamente degno di riso. Assai giocondamente il Messinese Scipione Errico schernì le affettazioni e le arditezze dello stile Marinesco e Lopense, e criticò con sale e giudizio diversi poeti di quel secolo colla sua commedia le Rivolte di Parnaso per le nozze di Calliope, che s’impresse in Messina nel 1620 {p. 157}ed altrove diverse volte. Compose anche l’Altani quattro commedie che possono mentovarsi con onore l’Amerigo del 1621, la Prigioniera del 1622, il Mecàm Bassa del 1625 e le Mascherate del 1633. Gli Abbagli felici del conte Prospero Bonarelli della Rovere si pubblicò in Macerata nel 1642, e non è commedia da confondersi colle buffonesche accette al solo volgo. Carlo Maria Maggi compose quattro piacevoli commedie con intermezzi e prologhi da cantarsi, il Barone di Birbanza, il Manco male, i Consei de Meneghin, e il Falso Filosofo impresse poi in Venezia nel 1708. Esse hanno molta piacevolezza comica, specialmente per chi intende il dialetto Milanese, e vi si veggono acconciamente delineati i caratteri e quello sopra tutti del falso filosofo pittura vera, vivace e pregevole, di cui s’incontrano alla giornata gli originali.

Adunque anche in un tempo di decadenza nelle belle lettere vogliono distinguersi le additate commedie erudite da ciò che indi si compose col disegno di piacere alla plebe; ed esse debbono tanto più pregiarsi quanto più si vide il secolo trasportato dallo spettacolo più seducente dell’opera76.

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II.
Opera musicale. §

Quando con ardir felice il Rinuccini accoppiava al dramma una musica continuata e tirava l’attenzione dell’Europa con uno spettacolo che tutte raccoglieva le {p. 159}sparse delizie che parlano efficacemente a’ sensi; quando, dico, nacque l’Opera, l’Italia trovavasi ricca di opere immortali di pittura, scoltura ed architettura: gloriavasi de’ talenti e delle invenzioni di varii celebri pittori e machinisti che seguirono Girolamo Genga e il matematico e architetto Baltassarre Peruzzi: possedeva illustri pittori di quadratura, come Ferdinando da Bibiena, Angelo Michele Colonna Comasco scolare del Dentoni, Agostino Mitelli Bolognese, il cavalier d’Arpino architetto e pittore insigne: non vedeva fuori del suo recinto nè Noverri, nè Vestris, nè Hilverding, anzi inviava i suoi ballerini oltramonti, e i Francesi stessi scendevano dalle {p. 160}Alpi per apprendere la danza (Nota IV): i suoi Peri, Corsi, Monteverde, Soriano, Giovannelli erano allora quel che oggi sono i Piccinni, i Gluck, i Sacchini, i Paiselli. Or qual maraviglia che uno spettacolo, in cui poteva trionfare l’eccellenza di tanti valorosi artefici, venisse nelle prime città Italiane a gara accolto e coltivato?

Non furono delle ultime a goderne Venezia, Bologna, Roma, Torino, Napoli. Claudio Monteverde che avea posta in musica l’Arianna del Rinuccini divenuto maestro della cappella di San Marco introdusse tra’ Veneziani il novello spettacolo armonico, fra’ quali fu con tal magnificenza e pompa decorato, che ne volò la fama, non che per l’ Italia, oltramonti. Cominciò da prima a coltivarsi il dramma musicale nelle case private de’ gentiluomini, indi passò su’ teatri. L’Andromeda del Reggiano Benedetto Ferrari celebre sonatore di tiorba vi si cantò nel 1637. Vi comparve anche il Pastore d’Anfriso, ed innoltrandosi il secolo la Divisione del Mondo dramma del Parmigiano Giulio Cesare Corradi che altri ancor ne compose, vi si rappresentò con tanta splendidezza, che la città si riempì di un prodigioso numero di forestieri. Si ripetè in Bologna sin da’ primi anni del secolo l’Euridice del Rinuccini. La di lui Arianna si rappresentò pure in Roma, dove da un Porporato si compose {p. 161}l’ Adonia lodato dal Crescimbeni. Più tardi poi nella medesima città si ammirarono le maravigliose invenzioni onde nobilitava la scena musicale il cavalier Pippo Acciajoli77. Torino si contraddistinse nel 1628 per la sontuosa rappresentazione del Vascello della felicità, e dell’Arione. Prima che Napoli e Sicilia avessero un’ opera tutta cantata, ebbero una festa teatrale composta di danza, di musica e di machine eseguita nel 1639 sotto il vicerè Ferrante Afan de Ribera nella sala del real palazzo di Napoli nel passar che vi fece l’infanta Maria sorella di Filippo IV, che andava in Ungheria a trovare il re Ferdinando suo sposo. Vi si eseguirono quattro balli differenti, il primo della Fama con sei cigni, il secondo delle Muse con Apollo, il terzo di nani e Ciclopi, il quarto di alcune deità; e vi comparve la Notte su di un carro di stelle tirato da quattro cavalli; e si cangiò più volte la scena rappresentando successivamente un tempio, il Parnasso, la fucina di Vulcano ed i Campi Elisii. Quali però si fussero i versi che animarono tali invenzioni da noi s’ignora78. Tra’ primi melodrammi {p. 162}rappresentati in Napoli e ripetuti altrove si contano la Deidamia del Messinese Scipione Errico che si replicò in Venezia nel 1644, ed il Pomo di Venere del Napoletano Antonio Basso rappresentato in Napoli nel 1645, ed il Ciro di Giulio Cesare Sorrentino pur Napoletano stampato e recitato in Venezia ed altrove tante volte. Si segnalarono per la magnificenza ne’ musicali spettacoli i sovrani di Mantova e di Modena stipendiando esorbitantemente cantanti dell’uno e dell’altro sesso.

Bisogna però confessare che la cura maggiore non si pose nell’elezione de’ poeti. I deputati de’ principi, e più gl’ impresarj particolari badavano a provvedersi di ottimi dipintori di prospettiva, di pratichi machinisti, di voci squisite, e di migliori sonatori e maestri di musica. La bella poesia che sola può somministrare alla musica il vero linguaggio delle passioni, cominciò ben presto ad occupare l’ultimo luogo.

Non è già che ne’ primi tempi dell’opera mancassero in Italia buoni poeti, ma il genere stesso era tuttavia nell’infanzia. Il Chiabrera che nella lirica avea gloriosamente calcato un sentier novello, scrivendo qualche componimento musicale non si avvisò di seguire l’opera de’ Greci. Non mancavagli l’opportunità di spiegare anche in tal genere i poetici suoi talenti, avendolo il granduca di Toscana Ferdinando I prescelto {p. 163}ad inventare i componimenti musicali per le feste delle nozze della principessa Maria. In tale occasione compose il Rapimento di Cefalo picciolo melodramma di cinque atti. Tanta pompa di metri lirici, tante machine, tanti cori, ci mostrano l’opera nascente al tempo del Rinuccini, benchè da questo Fiorentino rimanesse il Savonese superato per interesse e per affetto. In Firenze si rappresentò ancora alla presenza di Cosimo II sotto il nome di vegghia l’altro suo dramma intitolato Amore sbandito pubblicato in Genova nel 1622; ma si vuole avvertire che il tanto decantato Chiabrera non si decantò mai in Italia nè pel Rapimento di Cefalo nè per tal vegghia.

Un componimento scenico per la musica composto pel dì natalizio di Maria Farnese duchessa di Modena diviso in tre atti leggesi nelle poesie di Fulvio Testi. Espero vi fa il prologo, e v’intervengono i personaggi allegorici la Notte, la Religione, la Gloria ec.. Vi formarono il primo ballo i Crepuscoli seguaci di Espero, il secondo le Ninfe marine, ed il terzo un coro di Amazzoni che intrecciò una danza guerriera. Altra breve festa fatta a Sassuolo nel dì natalizio di Francesco da Este duca di Modena scrisse il medesimo poeta, in cui cantavano varie deità. Precede i recitativi di Cerere il coro seguente:

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Di rai più belli
Cinto i capelli
Il dio di Delo
Rida nel cielo.
A’ bei splendori
Di nuovi fiori
Tutte superbe
Ridano l’erbe.
Del caldo austro ai fiati gravi
Ardan pur le arene Maure,
Quì tranquille, quì soavi
Susurrando ridan l’aure ecc.

Termina la festa con un altro coro che pur contiene tre strofe anacreontiche. Or quando anche non vi fossero state ariette anacreontiche sin dal XV secolo, come altrove abbiam dimostrato, basterebbero queste del Testi a provare che il Cicognini non fu il primo ad introdurle ne’ drammi; perchè le poesie del Testi cominciarono ad imprimersi sin dal 1613, e terminarono nel 1645 in vita dell’autore, ed in conseguenza prima della rappresentazione del Giasone. Vuolsi però osservare che le accennate feste del Testi sono snervate, senza azione, e tessute di parti che possono supprimersi senza che il componimento ne perisca, la qual cosa è la più sicura prova dell’imperfezione di un dramma.

Giulio Rospigliosi cardinale e poi pontefice {p. 165}col nome di Clemente IX si esercitò nell’opera sotto Urbano VIII. I suoi drammi d’argomento cristiano recitati in Roma con applauso s’ intitolano, la Comica del cielo, la Vita umana, la Sofronia, la Datira, oltre ad altri due di soggetto morale intitolati Dal male il bene e Chi soffre spera. Essi insieme col S. Eustachio tragedia rimasero inediti, e se ne serbano copie manoscritte da alcuni signori Romani.

Si distinse nell’opera intorno al 1628 il Fiorentino Andrea Salvadori, i cui melodrammi Santa Ursola, Flora, Medora ed altri si fecero rappresentare con magnificenza da’ granduchi di Toscana. Alla buona riuscita di essi contribuì singolarmente la dolcissima voce e la maestria di cantare del Vittorio da Spoleto attore maraviglioso, quo nemo neque nostra, neque patrum memoria toto orbe terrarum præstantior est auditus79; e pure in quel tempo si ammiravano per la voce e per l’arte di modularla il Campagnuola, l’Angelucci, il Gregorio.

Con lode particolare coltivò l’opera Ottavio Tronsarelli pur Fiorentino morto nel 1641. Riscosse molti elogj il di lui dramma {p. 166}intitolato Catena di Adone composto espressamente per una contesa insorta fra due cavalieri di gran riguardo Giovanni Giorgio Aldobrandino e Giovanni Domenico Lupi intorno a due famose cantatrici, per sapere qual delle due fosse la più eccellente per soavità di voce e per arte di cantare. Chiamavasi l’una Checca della Laguna, perchè abitava in quella parte della città che conteneva alcune acque stagnanti a modo di laguna. Era l’ altra Margherita Costa pel canto e pel suo vergognoso traffico famosa. Davasi nel melodramma ad entrambe parte eguale perchè potessero a competenza mostrar senza svantaggio il proprio valore. Ma la prudente consorte del principe Aldobrandino non ne permise l’ esecuzione; e l’opera fu rappresentata da eunuchi80 nel palagio del marchese Evandro Conti a’ Monti, e secondo il racconto del Baglioni toccò all’insigne pittore ed architetto regnicolo il cavalier d’Arpino a ordinarne e a dipignerne le scene.

Ma questi eunuchi sostituiti alle cantatrici nel dramma del Tronsarelli ci richiamano alla memoria un’ osservazione fatta sulla nostra Storia de’ Teatri del 1777 dal {p. 167}già mancato erudito estensore di quel tempo delle Romane Efemeridi Letterarie. Egli desiderava che vi si fosse mentovata l’inumana usanza, malgrado delle leggi introdotta, di mutilare i giovanetti cantori, investigando in qual tempo fussero stati ammessi sulle scene. Per soddisfare in parte a tal curiosità nell’ampliar quest’ opera sin dal 1780 cercammo di supplire colle illazioni che soggiungeremo al difetto di decisivo documento.

Chi non sa quanto antica sia questa barbarie, ed in quanti paesi per diversi fini tutti abjetti e vili adoperata81? Chi ignora {p. 168}quanto poco fossero gli eunuchi favoriti da’ legislatori? Soggiaceva alla pena della legge Cornelia chi avesse castrato un uomo82. Domiziano, al dir di Stazio83, e Nerva, secondo Dione, victarono espressamente la castrazione. Adriano con un suo rescritto condannò alla morte chi si lasciasse {p. 169}castrare, chi l’ ordinasse e il norcino che l’eseguisse. Pena di morte posevi ancor Costantino84. Leone Augusto in niun luogo permise a’ Romani quest’atrocità, ed a’ barbari solo in qualche parte85. Con tutto ciò, per quanto gli eunuchi venissero perseguitati dalle leggi, avviliti negli esercizj più immondi, spregiati nella società, scherniti dagli scrittori amici dell’ umanità86, non mai si giunse ad estirpare quest’abuso inumano, ch’empie la terra di mostri imbelli, schifosi e detestabili. Gli eunuchi si sono perpetuati, e ad onta della ragione e del buon senno non solo nella China, nella Turchia e nella Persia, dall’abjezione della schiavitù più umiliante passano a’ posti più ragguardevoli; non solo nella decadenza dell’impero molti di essi divennero consoli e generali, come i Narseti, i Rufini, gli Eutropj: ma noi, noi stessi gli ascoltiamo gorgheggiare nelle chiese, e rappresentar da Alessandro e da Cesare ne’ nostri teatri.

Contenti gli antichi delle voci naturali de’ loro attori ancor nelle parti femminili, non mai pensarono a valersi degli eunuchi {p. 170}per le loro scene. I Cinesi soli par che avessero avuti musici castrati; ma sebbene di essi, come narrammo nel tomo I, si servissero ne’ musicali trattenimenti dati nelle stanze delle imperadrici, non gli adoperarono mai nelle recite teatrali. Ne’ tempi mezzani nè anche in Europa si ammisero nelle gran feste musicali, ne’ tornei, ne’ caroselli. Nè tra’ giullari e ministrieri che cantavano per le case de’ signori, nè tra’ buffoni che in qualunque modo, secondo Albertin Mussato, cantarono su’ teatri dell’Italia, si vide mescolata cotal genia.

Potrebbe affermarsi sulla storia che tra’ Greci cominciasse la castrazione ad usarsi per mestier musicale trovandosi fra essi introdotta intorno al secolo XII. Ciò rilevasi da un passo di Teodoro Balsamone già da noi citato, il quale visse in quel secolo: olim cantorum ordo non ex eunuchis, ut hodie fit, constituebatur, sed ex iis qui non erant ejusmodi87. Eranvi dunque in Grecia nel duodecimo secolo musici castrati: ma dal non trovarsene poscia fatta menzione può argomentarsi che fosse cessata sì bella usanza di assottigliar la voce per l’ordine de’ cantori.

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Le nazioni settentrionali aliene da questo obbrobrio in ogni tempo, nel venire a dominare ne’ paesi occidentali del Romano impero, non poterono comunicar loro ciò che esse detestavano o ignoravano.

Forse gli Arabi soggiogata la Spagna ed acquistatane la naturalità, ed oppressa la Sicilia ed alcune terre della Puglia e delle Calabrie, colla voce de’ loro laidi eunuchi Affricani ne poterono risvegliar l’idea. Certo si è che la Spagna e l’Italia hanno avuto sopra le nazioni moderne il vergognoso primato di rinnovare l’usanza di smaschiare la gioventù, e di addestrarla così malconcia ad esercitare il canto, e par che abbiano l’abbominevole privilegio di continuarlo88. Non so per quale stranezza od {p. 172}uso sin dal XVI secolo tanto abbondassero gli eunuchi nella penisola di Spagna; ma una bolla di Sisto V ci convince che non erano pochi, e che arrogavansi il diritto di contrarre matrimonj colle donne, siccome gli uomini fanno89. L’Italia poi che al dir del Maffei e nel bene e nel male suole andare innanzi ai concorrenti e soprastare, addottrinò così bene nel canto i suoi castrati, e tanti n’ebbe che potè fornire all’Europa tutta molte voci soprane conservate in quest’infelici con tanto oltraggio della natura.

Ma qual fu l’epoca vera, in cui questi moderni non guerrieri Narseti, in vece di {p. 173}occuparsi ne’ ministeri de’ serragli e de’ giardini orientali, si rivolsero nell’una e nell’altra Esperia ad esercitar la musica? Non apparisce. Si nota solo dagl’ intelligenti che i teologi moralisti del XVI secolo non muovono la questione, se lecito sia il castrare per fare un musico; nè pare che ciò prendesse ad investigarsi prima del secolo XVII. Adunque non molto prima di tali ricerche dovettero esser numerosi i musici castrati. Ma cerchiamo almeno con qualche argomento negativo di farci la strada ad indagare il tempo in cui salirono sulle scene. Il mentovato Modenese Orazio Vecchi nel voler far cantare l’Anfiparnaso si sarebbe ridotto a valersi del Brighella, del Dottore, del Pantalone, se a suo tempo si fossero usate in teatro le voci artificiali de’ castrati? E se il Fiorentino Rinuccini gli avesse ne’ suoi melodrammi adoperati, il Vecchi gli avrebbe ricusati? L’ultimo dramma del Rinuccini s’impresse nel 1608; nè da più diligenti scrittori che del di lui tentativo fatto insieme col Peri, col Corsi e col Caccini hanno favellato, si accenna che si valessero di eunuchi; cosa che certamente non avrebbero omessa a cagione della novità. Possiamo dunque con molta probabilità affermare che almeno sino ai primi dieci anni del secolo XVII i teatri Italiani non risonarono delle note di tali cigni infelici che mercano a sì gran prezzo l’inutile acutezza {p. 174}della voce. Sapplamo poi che il lodato Tronsarelli finì di vivere nel 1641, e che la Catena di Adone si cantò qualche anno prima, giacchè egli ebbe agio di raccorne le censure e replicarvi, scagionandosi della mancanza d’invenzione imputatagli, siccome narra l’ Eritreo. Ma questo letterato parlandoci di eunuchi sostituiti alle cantatrici nel dramma riferito non mostra che gli spettatori se ne fossero maravigliati, nè scrive di essersi proposto quel cambio come una novità. Dá ciò si deduce che molti anni prima del 1640 (in cui scrisse Pietro della Valle che essi erano assai comuni sulle scene Italiane) gli eunuchi si erano introdotti ne’ nostri melodrammi. Ora riducendo discretamente questi molti anni a soli dodici o quindici, noi risaliremo intorno al 1625. E così se per ora non possiam dire precisamente l’anno del primo melodramma recitato dagli eunuchi, avremo almeno stabilito che l’epoca della loro introduzione sulla scena si chiuda certamente nello spazio che corre dall’anno 1610 al 1625.

In questo periodo adunque l’opera Italiana contrasse coll’ umanità il demerito di aver tolto ogni orrore alla castrazione facendo assaporare e premiando esorbitantemente l’artificiale squisitezza delle voci. Ma chi sa quando l’Italia si purgherà da tal macchia colla gloria di bandir dalle sue {p. 175}scene la nojosa uniformità recatavi dagl’ invincibili pregiudizj di tali attori che oggidì ne scema il diletto? Ciò avverrà appunto, quando scosso il volontario stupore gli uomini giungano a comprendere che, oltre ai tenori con tanto diletto ascoltati, le dolcissime naturali voci delle femmine fanno in iscena, senza che si violenti la natura, quanto mai sanno eseguire le non naturali de’ castrati. Noi nel nostro secolo ne abbiamo avuti luminosi esempj nella Cuzzoni, nella Tesi, nella Faustina, nell’Astrua, nella Mingotti, nella Gabrieli.

E forse ve ne mancarono nell’età passata? Sin dal principio del secolo si ammirarono singolarmente la Romana Caterina Martinella morta in Mantova nel 1608, la Caccini, le Lulle Giulia e Vittoria, la Moretti, l’ Adriana ecc. Oltre alle prelodate Checca della Laguna e Margherita Costa l’Eritreo ne nomina un’ altra come una delle più eccellenti de’ suoi giorni, cioè Leonora Baroni figlia della nominata bella Adriana di Mantova90. Non incresca al lettore di udire con qual trasporto favelli di questa Leonora un intelligente di musica che l’ avea più volte ascoltata. “Ella è {p. 176}fornita d’ ingegno e di ottimo gusto, capace di discernere la buona dalla cattiva musica, intendendola benissimo ed avendo anche composto alcuna cosa, ond’è che canta con fondamento e sicurezza. Esprime anche e pronunzia perfettamente. Non si pregia di esser bella, ma senza essere civetta sa piacere. Canta con pudore ma franco, con modestia ma nobile, e con grazia e dolcezza. La di lei voce è soprana distesa, giusta, sonora, armoniosa. Ha l’arte di addolcirla e rinforzarla senza stento, senza far visacci, boccacce, storcimenti” ... “I suoi slanci e sospiri non son punto lascivi: gli sguardi nulla hanno d’impudico: il gestire proprio di una donzella onesta.” Passando da un tuono all’altro fa talvolta sentire le divisioni de’ generi enarmonico e cromatico con tal destrezza e leggiadria che incanta tutti”91. Che se tanto può attendersi dallo studio delle donne, quali vantaggi maggiori ne presentano le voci de’ castrati perchè non abbiano a sbandirsi dalle scene italiche? Sarebbe tempo che l’arte e la natura oltraggiate rivendicassero i loro dritti. {p. 177}Un filosofo Italiano per amor dell’umanità impiegò le sue meditazioni per salvar dalla morte gli uomini rei; or non sarebbe ancor meglio impiegata la voce dei dotti a muovere la potenza e la pietà de’ Principi Spagnuoli ed Italiani per salvar tante vittime innocenti dalla spietata ingordigia che consiglia e perpetua sì barbara ed umiliante mutilazione?

Giacinto Andrea Ciccognini Fiorentino mostrò tanta inclinazione alle cose teatrali, che, oltre allo studio che pose in inventare o tradurre più drammi, non eravi compagnia comica ch’egli non conoscesse, nè attore abile di cui non cercasse l’amicizia. Arrivò a tal cecità che è fama di aver pensato una volta a dare un suo figliuolo in potere di Frittellino notissimo attore di que’ tempi perchè apprendesse da lui l’arte di rappresentare92. Coltivò ancora il dramma musicale, e ne compose uno assai allora applaudito nelle nozze di Michele Perretti principe di Venafro e di Anna Maria Cesi fatto rappresentare con magnificenza reale. Nel suo Giasone pubblicato nel 1649 interruppe il recitativo con quelle stanze anacreontiche che diconsi arie, usate {p. 178}ancor prima di lui dal Testi, dal Salvadori e dal Rinuccini, anzi dal Notturno sin dal XV secolo.

Ma una filza inutile di nomi di scrittori d’opere in musica di tal secolo sarebbe una narrazione ugualmente nojosa per chi la legge e per chi la scrive. Essi furono assaissimi e quasi tutti al di sotto del mediocre, se si riguardi ai pregi richiesti nella poesia rappresentativa. Furono i loro drammi notabili per le sconvenevolezze, per le irregolarità, per le apparenze stravaganti simili a’ sogni degl’ infermi, per un miscuglio di tragico e di comico e di eroi, numi e buffoni, per istile vizioso, in somma per tutto ciò che ottimamente vi osservò il prelodato Ab. Arteaga; di maniera che allora non fu il dramma musicale Italiano meno stravagante che le rappresentazioni Spagnuole, Inglesi ed Alemanne. Solo è da notarsi che ne’ primi tempi l’opera tirava i suoi argomenti dalla mitologia, la quale agevolmente apprestava di gran materiali per le decorazioni e per le machine che maravigliosamente si eseguivano da insigni artefici. Si rivolse poi a ricavarli dalla storia, pigliando il miglior sentiero; ma pure la poesia vi avanzò poco, e lo spettacolo scemò di pregio per l’apparato. I primi ad esercitarvisi non ne acquistarono nome migliore. Appena possiamo eccettuar dalla loro calca il dottor Giovanni Andrea {p. 179}Moniglia lettore in Pisa satireggiato da Benedetto Menzini sotto il nome di Curculione93. Egli fu poeta nella corte di Toscana, e morì all’improvviso nel settembre del 1700. I di lui melodrammi ebbero gran voga allora, ed oggi appena si sa che si rappresentarono. Anche il Lemene cavaliere Lodigiano poeta non dispregevole ad onta de’ difetti del suo tempo compose melodrammi non cattivi. Ne compose anche il Capece, il Minato poeta della Corte di Vienna, ed Andrea Perrucci Siciliano autore della Stellidaura impressa nel 1678 e cantata nella sala de’ vicerè in Napoli, e dell’Epaminonda impresso e cantato nel 1684. Laonde non ci tratterremo su tanti altri melodrammatici rammentati dal Mazzucchelli, dal Crescimbeni e dal Quadrio, nè sull’Achille in Sciro del marchese Ippolito Ferrarese rappresentato in Venezia nel 1663, nè sull’Attilio Regolo del Veneziano Matteo Noris impresso nel 1693 in Firenze, i quali illustri nomi attendevano un ingegno assai più sublime per trionfar sulle scene musicali. Accenneremo solo di passaggio che Alessandro Guidi Pavese dagli Arcadi convertito alla buona poesia, scrisse prima della {p. 180}sua conversione letteraria l’Amalasunta in Italia rappresentato in Parma nel 1681. Nè passeremo oltre senza avere accennato che l’opera buffa si coltivò con qualche successo e forse con molto minore stravaganza anche per la poesia, come si vede nelle Pazzie per vendetta di Giuseppe Vallaro, nel Podestà di Coloniola, nelle Magie amorose del nominato Giulio Cesare Sorrentino vagamente decorato, e nel piacevole componimento allegorico di due parti la Verità raminga di Francesco Sbarra.

III.
Attori accademici, Commedianti pubblici e Rappresentazioni chiamate Regie. §

Siccome non v’ha nella società esempio più pericoloso per la virtù che il favore dichiarato per un immeritevole: così non v’ha nelle lettere più dannoso spettacolo che il trionfo della stravaganza. Il mal gusto prosperoso perverte i deboli e gli conquista, mentre il vero gusto ramingo va mendicando ricetto da pochi sconosciuto dalla moltitudine; come l’uomo probo e pieno di non dubbio merito rimane confuso tralla plebe in una società corrotta, dove tutti gli sguardi e gli applausi si attira l’impostura che sa farsi un partito ed il vizio luminoso.

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Le stranezze dell’opera in musica accompagnata da tutti gli allettamenti della vista e dell’udito fecero sempre più intorno alla metà del secolo comparire insipide e fredde le rappresentazioni regolari tragiche e comiche; e queste si videro in un tempo stesso abbandonate dagli attori accademici e dagl’ istrioni o commedianti pubblici. Gli uni e gli altri s’invaghirono della nuova foggia di commedie Spagnuole, che gl’ Italiani non osando dar loro il nome di commedie nè di tragedie le chiamarono opere regie, opere sceniche, azioni regicomiche, ove alternava il buffonesco e l’eroico, le apparenze fantastiche e la storia, la vita civile ed il miracoloso. Altre favole si formarono ad imitazione di quelle di espada y capa ripiene di evenimenti notturni, di ratti, puntigli, duelli, equivoci, raggiri, sorprese al favor de’ manti. Queste novità tirarono per qualche tempo l’attenzione, ed allora si tradussero Calderon, Moreto, Solis ec.

Allora si composero le commedie di Giambatista Pasca Napoletano il Cavalier trascurato, la Taciturnità loquace, il Figlio della battaglia, la Falsa accusa data alla Duchessa di Sassonia, imitazioni libere del teatro Spagnuolo pubblicate dal 1652 al 1672. Raffaello Tauro Bitontino allora produsse dal 1651 al 1690 le Ingelosite speranze, la Contessa di Barcellona, il Fingere per vincere, l’Isabella, {p. 182}o la Donna più costante, la Falsa Astrologia, traduzioni alterate dalle commedie del Calderon e di altri Spagnuoli. Allora il Pisani Toscano compose le sue favole sul medesimo gusto. Lionardo de Lionardis nel 1674 pubblicò il Finto Incanto, che è el Encanto sin encanto del medesimo Calderon. Il Canonico Carlo Celano nato in Napoli nel 1617 e morto nel 1693, col nome di Ettore Calcolona tradusse con libertà e rettificò varie commedie Spagnuole, come può osservarsi nelle sue date alla luce più volte in Napoli ed in Roma, l’Ardito vergognoso, Chi tutto vuol tutto perde, la Forza del sangue, l’Infanta villana, la Zingaretta di Madrid, Proteggere l’inimico, il Consigliere del suo male ecc. Ho detto che rettificò (con pace del Lampillas) i difetti principali degli originali, perchè in fatti ne tolse le irregolarità manifeste; sebbene non vo lasciar di dire che alle sue favole manchi la grazia e la purezza e l’eleganza della locuzione del Calderon e Solis, e l’amabile difficoltà della versificazione armoniosa. Similmente tradussero ed imitarono le commedie Spagnuole Ignazio Capaccio Napoletano, Pietro Capaccio Catanese, Tommaso Sassi Amalfitano, Giuseppe di Vito Napoletano, Andrea Perrucci traduttore ed imitatore nel 1678 del Convitato di pietra, ed Onofrio di Castro autore della commedia la Necessità aguzza l’ingegno, {p. 183}in cui si vede qualche regolarità unita a un’ immagine di comico di carattere e alla maniera, Spagnuola, con uno stile che spira tutta l’ affettazione di quel tempo di corruttela.

I pubblici commedianti che aveano inventate in quel secolo con buon successo nuove maschere per contraffare le ridicolezze de’ popoli diversi che compongono la nazione Italiana, recitavano le loro commedie dell’arte tessute solo a soggetto senza dialogo premeditato, come le cinquanta pubblicate nel 1611 dal commediante Flaminio Scala. Ma l’Arlecchino che ogni dì ripeteva in mille guise le medesime lepidezze, cominciava ad invecchiare, mentre l’opera in musica stendeva rapidamente i suoi progressi. Laonde alla mancanza del concorso nel lor teatro pensarono i commedianti di riparare colle accennate imitazioni delle commedie Spagnuole, e con altre ancor più difettose, come il Conte di Saldagna, Bernardo del Carpio, Pietro Abailardo ec.94.

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Ma queste cose toglievano di giorno in giorno il credito al teatro istrionico, senza impedirne la desolazione. La moltitudine si affollava sempre con maggior diletto ed avidità alla scena musicale piena di magnificenze che allettavano potentemente più di un senso. Opposero allora i commedianti decorazioni a decorazioni e musica a musica, e si sostennero anche un poco con farse magiche ripiene di apparenze, di voli, di trasformazioni, e con intermezzi in musica, passeggieri ripari a’ loro continui bisogni.

Contribuiva parimente al loro discredito la destrezza degl’ Italiani più culti nell’arte rappresentativa. Gl’ istrioni non furono sempre i migliori attori. Le accademie letterarie de’ Rozzi e degl’ Intronati che tornarono a fiorire nel XVII secolo, quella brigata di nobili attori che rappresentava in Napoli le commedie a soggetto del Porta, gli Squinternati di Palermo, di cui parla il Perrucci e ’l Mongitore, i nobili Napoletani, il Muscettola, il Dentice, il Mariconda che pure recitarono eccellentemente, facevano cadere in dispregio la maniera per lo più plebea, caricata, declamatoria de’ pubblici commedianti. Il celebre cavalier Bernini nato in Napoli, e che fiorì in Roma dove morì nel 1680, rappresentava egregiamente diversi comici caratteri95. Il {p. 185}famoso pittore e poeta satirico Napoletano Salvador Rosa morto in Roma nel 1673, empì questa città non meno che Firenze di maraviglia per la copiosa eloquenza estemporanea, per la grazia, per la copia e novità de’ sali, e per la naturalezza onde si fece ammirare nel carattere di Formica personaggio raggiratore come il Coviello, ed in quello di Pascariello. La di lui casa in Firenze divenne un’ accademia letteraria sotto il titolo de’ Percossi, ove intervenivano l’insigne Vangelista Torricelli, il celebre Carlo Dati, Giambatista Ricciardi, il dottor Berni, il Cbimentelli ecc., ed in essa rappresentavansi in alcuni mesi dell’anno piacevolissime commedie. Le parti serie sostenevansi da Pietro Sacchetti, Agnelo Popoleschi, Carlo Dati, e ’l Ricciardi. Il dottor Viviani fratello del celebre matematico Vincenzio faceva la parte di Pasquella. Luigi Ridolfi nella parte contadinesca di Schitirzi da lui inventata fu reputato il miracolo delle scene. Quanto poi al Rosa (aggiugne il lodato Baldinucci che ciò racconta) non è chi possa mai dir tanto, che basti, dico della parte ch’ei fece di Pascariello; e Francesco Maria Agli negoziante Bolognese in età di sessant’anni portava a maraviglia quella del Dottor Graziano, e durò più anni a venire a posta da Bologna a Firenze lasciando i negozj per tre mesi, solamente per fine di trovarsi a recitare {p. 186}con Salvadore, e faceva con esso scene tali, che le risa che alzavansi fra gli ascoltanti senza intermissione, o riposo, e per lungo spazio imponevano silenzio talora all’uno talora all’altro; ed io che in que’ tempi mi trovai col Rosa, ed ascoltai alcuna di quelle commedie, so che verissima cosa fu, che non mancò alcuno, che per soverchio di violenza delle medesime risa fu a pericolo di crepare.

Oltramonti ancora si fecero applaudire nelle parti piacevoli Michelangelo Fracanzano figliuolo di Cesare celebre e sfortunato pittore Napoletano, e Tiberio Fiorillo. Michelangelo rappresentava estemporaneamente la parte di Pulcinella studiandola sin dalla fanciullezza da Andrea Calcese ammirato in tal carattere in Napoli ed in Roma96, e da Francesco Baldo, dal quale ricevè anche in dono la maschera stessa usata dal primo di lui maestro il Calcese97. Alcuni Francesi testimoni oculari degli applausi {p. 187}che riscuoteva la maniera graziosa ed il motteggiar di Michelangelo, al loro ritorno in Parigi ne divulgarono di tal modo i pregi che vi fu chiamato nella gioventù di Luigi XIV. Piacque il suo giuoco scenico grazioso e naturale; ma come poteva dilettar pienamente in Francia un carattere di cui non aveasi idea, ed un dialetto sconosciuto come il Napoletano? Pur non lasciò di eccitare il riso e di far conoscere in parte il proprio valore, e gli fu continuata la pensione assegnatagli di mille luigi, colla quale soccorse e chiamò presso di se i suoi genitori, ed in seguito prese moglie e visse con decenza sino al 1685. Più ammirato fu nel medesimo Parigi l’ altro Napoletano Tiberio Fiorillo conosciuto col nome di Scaramuccia. Egli seppe meglio far conoscere i suoi talenti a’ Francesi facendo valere la somma sua arte pantomimica di maniera che poco o nulla gli nocque il patrio linguaggio. E’ troppo noto che egli come attore soltanto controbilanciava il gran Moliere che come attore ed autore quivi spiegava gl’ inimitabili suoi talenti. Non è men noto che il Moliere non isdegnò di apprendere da Scaramuccia i più fini misteri dell’arte di rappresentare, assistendo incessantemente ad ascoltarlo per copiarne l’espressiva grazia e naturalezza. E’ noto altresì che lo stesso Moliere non vide mai così pieno il proprio teatro come {p. 188}ne’ quattro mesi che Scaramuccia abbandonò Parigi l’anno 1662 per venire a Napoli a vedere i suoi parenti; e che al di lui ritorno i Parigini accorsero di bel nuovo alla Commedia Italiana, ed in tutto il mese di novembre non si curarono de’ capi d’opera che produceva Moliere. Scaramuccia poi rinunziò al teatro; e Menagio applicò a lui quel motto homo non periit, sed periit artifex, perchè più non vi comparve. Egli (aggiugnesi nella di lui Menagiana) “fu il più perfetto pantomimo de’ nostri tempi; Moliere original Francese non perdè mai una rappresentazione di quest’originale Italiano”. Egli morì vecchio in Parigi nel 1694, lasciando a un di lui figliuolo sacerdote il valsente di centomila scudi98.

IV.
Teatri materiali. §

Molti teatri si eressero in Italia nel XVII secolo da valorosi architetti; ma i più considerabili furono quello di Parma, di San Giovanni Crisostomo in Venezia, {p. 189}di Fano, e di Tordinona in Roma.

Il teatro di Parma non fu opera del Palladio terminata dal Bernino, come alcuno affermò; nè si chiamava Giambatista Magnani l’architetto che vi fu impiegato, come leggesi nel trattato del Teatro, e nelle Lettere sopra la pittura dell’Algarotti, e nel Discorso premesso alle sue tragedie dal chiar. Bettinelli. Giambatista Aleotti di Argenta ingegniere illustre nell’architettura idraulica, nella civile e nella militare, il fe costruire d’ordine del duca Ranuccio I Farnese nel 1618. Si aprì secondo la prima costruzione nel 1619, dedicandosi a Bellona e alle Muse, come leggesi nell’iscrizione latina sovrapposta al proscenio. Si ampliò poscia e si prolungò dal marchese Enzio Bentivoglio, e si rendè capace di tal numero di persone, che nelle feste celebrate l’anno 1690 per le nozze di Odoardo Farnese con Dorodea Sofia di Neoburgo, vi si contarono quattordicimila spettatori99.

La figura di questo teatro è mistilinea congiungendosi a un semicerchio due rette laterali. La scena dal muro alla bocca del {p. 190}proscenio ha di lunghezza 125 piedi parigini e 93 di larghezza. La platea larga 48 ha una scalinata di quattordici scaglioni e un gran palco ducale nel mezzo. Sopra di essa si alzano due magnifiche logge, l’una Dorica e l’altra Jonica, ciascuna con una scalinata di quattro sedili. Il nominato autore dell’opuscolo del Teatro osserva che la bocca del palco scenario eccessivamente angusta e molto lontana dalla scalinata nuoce al vedere, là dove si avrebbe potuto fare più larga e più vicina agli spettatori; e così parve anche a me; allorchè vidi questo gran teatro. I lati retti della platea congiunti alla strettezza della bocca del palco occultano a chi siede lateralmente buona parte della scena. Oltre a ciò si oppone al solito effetto della simmetria l’architettura dei due grand’ingressi laterali posti tralla scalinata e ’l proscenio, essendo ornati di due ordini diversi dal rimanente. Ma la magnificenza, la vastità, l’artificio ond’ è costrutto, per cui, mal grado di tante centinature, colonne isolate, agetti e risalti, parlando ancor sottovoce da una parte si sente distintamente dall’altra, tutto ciò, dico, farà sempre ammirar questo teatro come uno de’ più gloriosi monumenti dell’amor del grande e della protezione delle arti che ebbero i principi Farnesi. Ed oggi singolarmente che i teatri trovansi tanto lontani dall’antica solidità e magnificenza, {p. 191}non è picciol vanto per l’ Italia e per lo stato di Parma il potere additare un teatro tanto magnifico e poco lontano dalla maniera antica, specialmente agli stranieri avvezzi a’ loro teatri assai meschini. Non per tanto per la medesima vastità (per cui ha potuto un tempo servire per una specie di naumachia, come dimostrano le antlie e i sifoni, per li quali ascendeva l’acqua per inondare l’orchestra) esso non è più in uso, e solo rimane esposto alla curiosità de’ viaggiatori; ed incresce il vedere che già mostra talmente i danni del tempo e del disuso, che non senza qualche ritegno si monta sulla scena per osservarsi minutamente.

Celebre per le pompose rappresentazioni musicali che vi si eseguirono, è il teatro di San Giovanni Crisostomo di Venezia. Non fu il principe che fe costruirlo, ma alcuni nobili particolari che soggiacquero alla spesa. La costruzione fu nella nuova maniera con palchetti sostituiti modernamente alle antiche scalinate, cioè con più ordini di stanzini collocati a guisa di gabbie l’un sopra l’altro, i quali avendo l’uscita a’ corridoj, lasciano il passaggio alla voce per dissiparvisi, in vece di esser rimandata alla scena. Non può negarsi che tali stanzini diano alle brigate che vi si chiudono, il comodo di conversare, prender rinfreschi e giocare; ma se si riguarda al fine principale delle scheniche rappresentazioni, essi riescono {p. 192}a tutt’altro opportuni che a godere di uno spettacolo destinato a commuovere per dilettare. I palchetti del teatro nominato di Venezia non bastando al gran concorso che cresceva, ebbero indi un aumento di tre per ciascun ordine su i lati del proscenio. Gli altri teatri Veneti per lo più inalzati sopra rovine di antichi edifizj, appartengono parimente al secolo XVII (a riserba di quello di San Benedetto); ma niuno di essi sembra degno di sì cospicua città, la quale può gloriarsi di aver prima di ogni altra avuti teatri costruiti a norma del compasso immortale de’ Palladj e de’ Sansovini.

Giacomo Torelli ed altri cinque cavalieri Fanesi vollero supplire alla spesa di un teatro nella patria, e su i disegni dello stesso Torelli verso il 1670 fecero costruire il bel teatro di Fano. Un arco accompagnato a due lunghe rette laterali terminate nel proscenio formano la figura mistilinea di tal teatro, la cui lunghezza è di 84 piedi parigini, e la larghezza non arriva ai 50. Ha cinque ordini di palchetti alla moderna; il proscenio per ogni lato ha due pilastri con una nicchia nel mezzo di essi colle figure di Pallade; e nel mezzo vi è scritto Theatrum Fortunæ. Si osserva da chi ha veduto questo teatro, che non è sottoposto al difetto comune quasi a tutti gli {p. 193}altri, che la voce si perda ne’ buchi de’ palchetti, perchè tutti convengono che vi si senta egregiamente ogni parola.

Roma non ha un teatro moderno corrispondente a sì famosa capitale. Niuno di quelli che vi si veggono eretti, si avvicina alcun poco a quegli antichi monumenti onde abbonda, e specialmente al teatro di Marcello. Quello di Tordinona fu opera di Carlo Fontana, e la sua figura inclina alla circolare, avendo nel maggior diametro piedi 52, e nel minore 48. Ha sei ordini di palchetti; ma (dice l’autore dell’ opera del Teatro) de’ comodi interni, e dell’abbellimento esteriore, non vi è occasione di poterne fare neppure un cenno.

Molti altri teatri si eressero nel medesimo secolo, e quasi ogni città n’ ebbe uno qual più qual meno magnifico a proporzione, tutte volendo partecipare del piacere di uno spettacolo pomposo come l’opera in musica. Sono dunque da riferirsi a quel tempo il teatro di Urbino, in cui si ammirarono le invenzioni del Genga esaltate dal Serlio degli alberi fatti di finissima seta, prima che la prospettiva avesse insegnato in qualunque occorrenza a mostrare i rilievi a forza di ombre e di punti ben presi: il teatro antico di Bologna che era nella piazza, ma che più non esiste, di forma quadrata diviso in gran palchettoni: quello di Modena detto della Spelta, opera {p. 194}del cavalier Vigarani, distrutto nel 1767: quello di Milano che s’incendiò pochi anni sono: quello di Pavia: quello di Santo Stefano di Ferrara: quello dell’accademia degl’ Intronati in Siena rifabbricato verso il 1670: quello di Marco Contarini in Piazzuola nel Padovano di tal vastità, che nel 1680 vi si videro girar nella scena tirate da superbi destrieri sino a cinque carrozze e carri trionfali, e comparire cento Amazzoni e cento Mori a piedi e cinquanta a cavallo100.

Ed è questa la storia scenica Italiana del secolo XVII. Fioriscono ne’ primi lustri poeti tragici degni di mentovarsi al pari de’ precedenti, il Bracciolini, lo Stefonio, il Bonarelli, il Dottori, il Pallavicino, il Delfino, il Caraccio: si producono alla poesia pastorale drammatica componimenti da non arrossirne al confronto de’ primi in tal genere, la Filli, la Rosa, l’Armonia d’amore, la Gelopea, la Tancia: si contano tralle commedie ingegnose, regolari e piacevoli quelle del Porta modelli della commedia d’intrigo, e degl’ Intronati, del Malavolti, del Guarini, dell’Altani, dell’Isa, del Gaetano, del Brignole Sale, del Bonarelli, {p. 195}del Maggi. Si attese poscia a spiegare tutte le pompe delle arti del disegno e della musica nell’opera; ma vi si neglessero le vere bellezze, la regolarità e la sublimità della poesia, e si avvilì coll’ introduzione degli eunuchi, che, sebbene sin dal XVI secolo contraevano matrimonj in Ispagna, non aveano per anche profanate le scene. Alterando al fine il sistema drammatico degli antichi si prese a tradurre ed imitar con furore il teatro Spagnuolo, di cui si corressero alcuni difetti, si adottarono le stravaganze, e si perderono non poche bellezze. Nel Rosa, nel Viviani, nell’Agli, nel Ridolfi, nel Dati si ebbero egregii attori accademici; si mandò a Parigi il Fracanzano e ’l Fiorillo o Scaramuccia, da cui apprese Moliere; si costruì il gran teatro di Parma; e si sostituirono alle antiche scalinate i palchetti negli altri teatri di Fano, di Bologna, di Modena, di Roma, di Venezia.

CAPO IV.
Teatro Spagnuolo. §

Che influiscano potentemente sull’eloquenza i modelli che prendonsi ad imitare, oltre all’avvertimento di Orazio che inculcava {p. 196}lo studio ostinato de’ Greci esemplari, vien comprovato per la storia in ogni nazione e singolarmente nella Spagnuola. Gli abitatori delle felici contrade di quella penisola dotati per natura d’ingegno acre, vivo, pespicace ed atto ad ogni impresa, e possedendo una lingua figlia generosa di bella madre, ricca, espressiva, maestosa, pieghevole, armoniosa e nobile, doveano fuor di dubbio segnalarsi nelle amene lettere, tosto che ne’ buoni esemplari fosse loro additata quella forma del Bello che il Gusto inspira ed alimenta negli animi gentili. Una lingua nascente non sempre imbatte alla prima a scegliere la versificazione più armonica e più acconcia a ricever le forme leggiadre che gli antichi seppero ricavar dalla bella natura. Gli Spagnuoli ne’ tre secoli che precedettero il XVI conobbero in qualche modo i Latini e formaronsi alcuni metri nazionali come Alessandrini di diverso numero di sillabe detti fra loro di arte maggiore, e redondiglie, decime, quintiglie ed endecce. Dir però non saprei quando essi avrebbero trasportate nel loro volgare le antiche bellezze, se più lungamente persistevano ad usare la propria versificazione. Giovanni Boscano non prestò picciolo servizio alla nazione col porre in pratica il consiglio del nostro Andrea Navagero d’introdurre nella poesia Castigliana la tessitura de’ metri Italiani. Con ciò egli non venne {p. 197}solo a mostrare il mecanismo di una versificazione straniera, come taluno si diede buonamente a credere. La necessità di apprendere l’artifizio e il portamento del nostro sonetto, della canzone, dell’ottava, della terzina, rendè loro famigliare la lettura di Dante, Petrarca, Sannazzaro, Ariosto e Bembo, ed in quel puro fuoco che spirano tali scrittori si riscaldarono i Garcilassi, gli Errera, gli Argensola ed altri valorosi poeti Spagnuoli del secolo XVI.

Ma perchè nella drammatica non valse un tale esempio? Forse perchè l’antica severa tragedia quivi originalmente si amò ben poco, e la commedia Italiana non si confaceva gran fatto a’ patrii costumi del cielo Ispano. Forse ciò avvenne ancora perchè i primi traduttori Spagnuoli delle antiche favole non ne diedero una idea capace d’invitare all’imitazione. Forse la novità tentata dal commediante Naarro coll’ introduzione di battaglie, assedj, duelli, dovette allettare assai più una bellicosa nazione; e quindi determinare i Vega, i Gastro, i Mira de Mescua ecc. a ritrarre i costumi e gli evenimenti delle cronache nazionali. Forse lo spirito stesso di cavalleria e l’amor delle avventure strane che spinse Cervantes a motteggiarne nel Don Quixote, rendeva alla nazione accetto un teatro che n’era pieno. Forse tutte queste cagioni unite insieme contribuirono a dare a quelle {p. 198}scene un carattere particolare.

I nominati autori Spagnuoli, de’ quali molti fiorirono anche sotto Filippo III, scorrendo con piede ardito per ogni parte del Parnasso, osarono calcar nella scenica un nuovo sentiero, e l’intemperanza e la soverchia fiducia gli menò sovente fuori di strada, a somiglianza di un fogoso destriero che trascorrendo a salti per iscoscesi dirupi urta, rovescia, calpesta quanto incontra, e finisce la carriera in un precipizio. L’amor di novità sedusse i contemporanei e i successori, aperse il campo alla foga della fantasia, e sursero i Gongora e i Gongoreschi.

Luigi di Gongora e Argote Cordovese nato nel 1561 e morto nel 1627 sortì dalla natura vivacità, robustezza, energia, ma nella lirica battè il sentiero delle stranezze, dipartendosi dalla gentilezza e verità di Garcilasso e degli Argensola101. Coltivò ancora {p. 199}la drammatica, e scrisse las Firmezas de Isabela commedia, el Doctor Carlino commedia, e una favola Venatoria, le quali lasciò imperfette. Tutte le ciance e i traslati aggruppati del Polifemo e delle Solitudini si trovano nell’Isabella ma con maggior delirio, perchè in questa parlano in proprio nome le persone introdotte e non il poeta. Un personaggio chiama la morte alcalde de huesso; un altro parlando di un {p. 200}vecchio canuto chiama i di lui capegli raggi pettinati del sole della prudenza, e fila da cui pendono (come dalle pergamene de’ privilegj) i suggelli dell’esperienza, e carte bianche della storia, in cui la penna della memoria scrive con inchiostro d’argento; altrove la citta di Toledo è chiamata turbante di lavoro Africano, a cui il Tago serve di benda di mosellina bianca listata d’oro. In somma in ogni personaggio traspare tutto Gongora allorchè delira. Ne tralascio le buffonerie frammischiate alle cose sacre: l’infelice esposizione della favola, non avendo saputo introdurla se non con fare che il buffone in 160 versi ne racconti a se stesso i fatti che la precedono: la meschinità e improprietà dell’intreccio, l’insipidezza, la multiplicità delle azioni, l’irregolarità e la mancanza d’interesse. Del Dottor Carlino non si ha che il primo atto e buona parte del secondo. Questa favola è più comica, e sebbene la solita pedanteria vi si trovi seminata da per tutto, non vi è però gettata col carro come nell’ altra. Ma quello che ci fa godere dell’essere rimasta imperfetta si è l’ oscenità de’ fatti che vi si maneggiano con isfacciataggine da bordello. Carlino è un medicastro imbroglione ruffiano che professa tal mestiere senza verun rimorso; ed ha per compagna una Casilda civetta scaltrita che servegli di zimbello. Egli maneggia diversi intrighi amorosi, {p. 201}e specialmente uno di certo Gerardo con una Lucrezia maritata che traffica vergognosamente per compiacerlo a prezzo di cento scudi. L’innamorato chiede in prestito tal denaro al marito, lo dà alla donna, indi dice al prestatore di aver restituito il danaro alla consorte. Questa novella copiata dal Boccaccio è più dispiacevole posta alla vista sulle scene che nella lettura. Da questa favola del Gongora si vede che la commedia Spagnuola non è sempre sì onesta matrona qual se l’immaginava l’innocente Lampillas. La nominata Venatoria è appena incominciata, e mostra che altro non sarebbe divenuta che una copia delle pastorali Italiane; perchè il prologo fatto da Cupido imita in parte quello dell’Aminta, e nelle due sole scene che lo seguono si narra l’avventura del bacio dato da Mirtillo del Guarini ad Amarilli col pretesto di esser guarito della puntura dell’ ape.

Composero anche pel teatro sotto Filippo III gli autori che soggiungo. Contemporaneo di Gongora fu Giovanni de Tasis y Peralta Conte II di Villamediana poeta distinto per la nascita, per le avventure e per la morte, essendo stato una notte in Madrid nella propria carrozza ucciso da braccio sconosciuto mosso, come si esprime Gongora, da impulso soberano. Tralle di lui opere poetiche impresse in Saragozza nel 1629 si legge la Gloria de Niquea recitata {p. 202}dalla regina colle sue dame, dove intervengono pastori, deità, il Tago ed il mese d’aprile. Cristoforo Suarez de Figueroa giureconsulto si distinse colla traduzione del Pastor fido impressa in Valenza nel 1609; ed il Sivigliano Giovanni Jauregui buon pittore e poeta emulo di Quevedo e di Gongora impresse in Roma la bella sua versione dell’ Aminta nel 1607, ed in Siviglia con nuova cura nel 1618. Non furono così accette ed applaudite le altre sue commedie. Naturale di Siviglia fu ancora Feliciana Henriquez de Guzman che compose los Jardines y Campos Sabeos tragicommedia, cui poscia ne aggiunse un’ altra del medesimo titolo, le quali s’impressero in Coimbra nel 1624. Bernarda Ferreira de la Cerda Portoghesa versata nelle matematiche e nella musica compose diverse commedie alla maniera allora dominante senza regolarità ed in istile lirico troppo ricercato, le quali si trovano nel II tomo delle di lei opere. Simone Machado anche Portoghese poeta rinomato scrisse quattro commedie impresse in Lisbona, cioè due sull’Assedio di Diu, e due sulla Pastorella Alfea. Scrissero ancora commedie verso la fine del regno di Filippo III e principio del seguente due Castigliani Antonio Hurtado de Mendoza ed Alfonso de Salas Barbadillo. Ma di questi ed altri Portoghesi e Castigliani che tralasciamo, non essendo state {p. 203}le sceniche produzioni nè per numero nè per fortuna, nè per eccellenza degne dell’altrui curiosità, rimasero sepolte ed obbliate universalmente sopraffatte dalla celebrità di quelle che si composero sotto Filippo IV.

Questo monarca che guerreggiò con varia fortuna, specialmente con Anna di Austria sua sorella come regina di Francia e madre di Luigi XIV, che espulse un popolo di Mori Spagnuoli, e che nutrì ne’ vassalli senza trarne vantaggio l’indole bellica ed il germe della decadenza nazionale, fu poeta e bell’ ingegno egli stesso102 e nel proteggere le lettere moltiplicò i begl’ ingegni senza migliorare il gusto. Gli spettacoli scenici ch’egli amò con predilezione, fiorirono sotto di lui a tal segno, che il Vega, il Calderon, il Solis, il Moreto si ’lessero e si tradussero da’ Francesi che cominciavano a sorgere, e dagl’ Italiani che andavano decadendo. Vuolsi che avesse egli stesso composta qualche commedia pubblicata con altro nome o con quello anonimo di un Ingenio secondo l’uso Spagnuolo. E’ tradizione poco contrastata che frutto della penna di Filippo IV fu il Conde de Essex conosciuta col titolo Dar la vida por su Dama, la qual commedia non {p. 204}cede a veruna nè per l’irregolarità, nè per le stranezze dello stile, benchè i caratteri vi sieno dipinti con forza. Quando anche Filippo non ne avesse dato che il solo piano, come molti stimano, essa merita di conoscersi originalmente sì in grazia del coronato inventore, che per la commedia stessa la quale da un secolo e mezzo quasi ogni anno si rappresenta in Madrid. L’argomento è la privanza di quel conte presso la regina Elisabetta d’Inghilterra, e la morte da lei ordinatane e pianta.

Giornata I. Bianca amante del conte e fiera nemica occulta d’Elisabetta ne trama la morte introducendo di notte alcuni congiurati in una propria casa di campagna dove trovasi a diporto la regina. Il conte che veniva a veder Bianca, giugne opportunamente a salvar la regina, la quale coperta d’una mascheretta grata al suo liberatore gli dà una banda, che a que’ tempi si reputava un favore e una prova d’inclinazione della dama verso il cavaliere che la ricevea. Si dividono scambievolmente obbligati senza conoscersi. Perchè sappia lo spettatore in qual guisa fu la regina assalita e difesa, il conte lo narra a Cosimo suo servidore fatto a tal fine rimanere indietro dal poeta. Questa sorte di racconti divenuti essenziali delle commedie Spagnuole, diconsi relaciones; ed in esse l’autore arzigogola senza freno sfoggiando in descrizioni {p. 205}ampollose ed in concetti falsi e puerili, e l’attore seguendo i delirj della poesia con gesti di scimie delle mani, de’ piedi, degli occhi, del corpo tutto103, va dipingendo, non già lo spirito del sentimento e della passione, ma le parole delle metafore insolenti accompagnandone ciascuna con un gesto che le indichi. Di maniera che ho veduto io stesso l’attore tutto grondante di sudore per lo studio che pone ad imitare i movimenti del becco, delle ali, degli artigli di un uccello di rapina, il serpeggiar di un ruscello, lo strisciar della serpe, il corvettar del cavallo, ed il guizzar del pesce. Il conte vuol riferire che entrò nel giardino, trovò una dama mascherata che si bagnava, cui fu tirato un colpo di pistola, e che la difese dalle spade degli assalitori, e ne ricevè una banda. In ciò si spendono ben centoventicinque versi, ne’ quali entra una scarsa vena del Tamigi che si fa un salasso di neve, una folta chioma arruffata di un boschetto pettinata dal vento con difficoltà, l’incertezza del conte in discernere, se le gambe della dama che {p. 206}si bagnava correvano sciolte in acqua, o se l’acqua congelata formava le di lei gambe, come ancora il bere ch’ella fece dell’acqua colla propria mano, per la quale azione il conte si spaventò temendo non si bevesse parte della mano. Dopo queste scipitezze allora assai di moda parte il conte col servo, cangia la scena, e l’azione passa in città. Essex viene a veder Bianca, la quale piena della mal riuscita impresa ne parla all’amante con tutto l’impeto di una cieca vendetta, e con tutta l’efficacia dell’amore tenta di tirarlo al suo partito. Il conte seco stesso detesta il tradimento, e risolve la distruzione de’ congiurati; ma per manifestar questo pensiero recita a parte quarantasei versi, mentre Bianca attende la risposta. In fine a lei si volge, e si determina ad invitare con una breve lettera i congiurati a Londra, mostrandosi risoluto a dar la morte alla regina. Nell’incontrarsi col conte Elisabetta si avvede dalla banda di doverle la vita, oltre alla potente inclinazione che glielo raccomanda. Essex da’ moti del di lei volto si accorge esser ella la donatrice della banda. Elisabetta si fa dall’amore abbassare sino al vassallo; egli inalza a lei le sue speranze; l’uno e l’ altro frena la lingua che vuol trascorrere. Con un discorso interrotto mostrano i loro interni movimenti; pugna nell’una l’amore colla maestà, nell’altro {p. 207}la speranza di una fortuna brillante colla condizione di suddito.

Giornata II. Interessante è il secondo incontro della regina tiranneggiata dal fasto e rapita dalla propria debolezza, e del conte combattuto dall’ amore di Bianca e dalla speranza del possesso di una bella regina. Ma questo punto dell’azione viene dal poeta raffreddato colle pedanterie. Si sente cantare questa redondiglia:

Si acaso mis desvarios
llegaren à tus umbrales,
la lastima de ser males
quite el horror de ser mios.

Il conte prende l’occasione di scoprirsi amante della regina, parlandole sotto il no me di Laura e glossando questi versi. La regina riprende la timidezza dell’amante che si discolpa col rispetto; entrambi fanno pompa di acutezze là dove era da svilupparsi una tenerezza contrastata. Il conte recita anche un sonetto, la cui sostanza è l’insinuare il tacere; la regina con un altro sonetto obbligato alle stesse rime sostiene come più opportuno il parlare. Ognuno vede la stravaganza del secolo che convertiva i personaggi in poeti improvvisatori. Senza tali insipidezze l’azione da questo punto diverrebbe assai interessante e vivace. Il conte animato in tal guisa è in procinto {p. 208}di scoprirsi amante, quando comparisce Bianca colla banda posta che ha ricevuta dal servo del conte. La regina l’ osserva, si agita, dà ordini, gli rivoca, non vede che la sua gelosia. Partita Bianca, il conte comincia a dichiararsi; ma Elisabetta furiosa rivestendosi di tutto il terrore della sovranità irritata, “a me, temerario (gli dice interrompendolo) a me! mi conosci? sai chi sono? lo rammenti? Parti, allontanati, nè mai più ardire d’entrar nella reggia; non so come in questo punto non so recidere quel capo che nutrì pensieri cotanto audaci. (Oh grandezza tu sforzi il labbro a parlar contro del cuore!)”. Parte l’una colerica e gelosa, l’altro abbattuto e stordito. Bianca intanto si appiglia al partito di palesare alla regina tutta la storia de’ suoi amori col conte, implorando il favore della sovrana perchè le diventi sposo. Ma Elisabetta che dal suo racconto ha bevuto tanto veleno, trasportata le favella come una regina gelosa che senza confessarlo ne inspira tutto il terrore. Tradurremo questo squarcio nel quale la passione non è molto tradita dallo stile. Bianca dal suo racconto vuol conchiudere che il conte è suo sposo, e la regina ripiglia:

Come tuo sposo? (Io fremo, io più non vedo!)

Bian.

Come mio sposo? (o ciel che intendo!)
{p. 209}

Reg.

Indegna,
Folle, debol . . .

Bian.

Regina!

Reg.

A un uom perverso
Di te obbliata, a un traditor ti rendi?

Bian.

Confusa io son!

Reg.

Sì l’onor tuo calpesti?
E alla presenza mia svelar non temi
Che il Conte adori?

Bian.

Io non credei cotanto
Oltraggiar la maestà, se il Conte . .

Reg.

O amore!
Io deliro. ) Il mio sdegno, o Bianca, è zelo
Del tuo decoro.

Bian.

E gelosia rassembra104.

Reg.

Io! . . . Gelosa io non son: mi offende il dubbio.
Ma di un vassallo pur fingi un momento
Presa chi regna, se contender seco
Alma nata a servirla ardisse indegna,
Se amasse il Conte . . . . amar? che amar! mirarlo
Se ardisse solo, o cosa ancor che meno
Del mirarlo importasse, parti, o donna,
{p. 210}
Ch’io non saprei co’ denti, colle mani,
Co’ detti ancor, col fiato, con gli sguardi
Trarle le indegne luci, il sangue berne,
Strapparle il cor, incenerir l’audace?
(Ah! di me mi scordai!) Bianca, to gelosa
Mi finsi, e finta ancor la gelosia
L’ira in me risvegliò . . . Delirio strano!
Odimi attenta. Dal mio finto sdegno
Impara, o Bianca, ove tal caso avvenga,
(Ne soffra anche il tuo onor; che l’onor tuo
E nulla ove son io) la tua sovrana
A non sdegnar; ov’ella volga il guardo,
Non mirar tu: mai non amar chi ell’ ami.
Non mi render gelosa; che se finta
Sì terribile è l’ira in regio petto,
Pensa tu qual saria, se fosse vera.
L’onore ancora avventurar dovessi,
Pensa a qual rischio la tua vita esponi.
Specchiati in questa immagine del vero,
E ingelosir chi tutto può, paventa.

Così la lascia. Bianca rabbiosa, ingelosita anch’essa, oltraggiata, giura vendicarsi colle proprie mani. La regina tralle cure del regno e dell’amore si addormenta. Bianca esce con una pistola alla mano che porta il nome del Conte; questi sopraggiugne e l’osserva maravigliato. Bianca si accinge a {p. 211}tirare; il conte la trattiene prendendo la pistola. Nel contrasto esce il colpo: la regina si sveglia: accorrono i cortigiani. Dubita la regina: non sa qual de’ due sia il reo e quale il suo liberatore. Il conte, nelle cui mani è rimasta la pistola, nega che Bianca abbia tentato quell’eccesso. Sei tu dunque il traditore? ripiglia la regina. Nol so, risponde il conte. L’uno e l’altra è arrestato.

Giornata III. Essex è convinto dagl’ indizj evidenti di alto tradimento; egli per sua difesa altro non dice che di essere innocente; è condannato a perdere la testa. Il conte prima di morire chiede di parlare a Bianca; gli è negato; altro non potendo le scrive una lettera, incaricando al servo di consegnarla poichè egli sarà morto. Ma la regina che ha sottoscritta la sentenza per soddisfare in pubblico alla giustizia, pensa a liberarlo privatamente dalla morte per compensarlo della vita che le ha salvato. Entra a tal fine nella prigione colla mascheretta e coll’ abito semplice che portò nella prima scena. La riconosce il conte; ma ella come una dama privata gli presenta la chiave della prigione perchè possa fuggire. Il conte la prega a scoprirsi, e la regina il compiace dandogli prima la chiave. Il conte le domanda il perdono che suol concedersi a’ rei che veggono la faccia del sovrano. Nega la regina di altro {p. 212}potere a suo prò dopo avergli dato il mezzo di fuggire. Sdegna il conte di fuggire, getta la chiave nel fiume sottoposto alla finestra della prigione, e le dice che se non vuole essere ingrata, cerchi nuova guisa da soddisfare al suo debito. La regina risponde di più non potere, ed estremamente addolorata, ma conservando la durezza della maestà offesa, ordina l’esecuzione della sentenza. Legge il servo per curiosità la lettera scritta dal conte a Bianca; scopre il di lei delitto e l’innocenza del padrone, e la porta alla regina. Se ne rileva ch’egli invitava a Londra i congiurati unicamente per prendere in una volta tutti i ribelli. La lettera termina con un consiglio a Bianca di desistere dall’impresa di vendicarsi della regina, aggiugnendo,

Mira que sin mi te quedas,
y no ha de haver cada dia
quien, por mucho que te quiera,
por conservarte la vida,
por traidor la suya pierda.

Da questa lettera screduta la regina ordina che si sospenda l’esecuzione della sentenza, ma il conte è già stato decollato. Le querele della regina per lo più sobrie e convenienti all’evento tragico ed al di lei carattere, mal grado di non pochi difetti, danno fine a questo componimento interessante. Tommaso {p. 213}Cornelio lo spogliò in Francia de’ principali errori, e ne ritenne le situazioni tragiche nel suo Conte d’Essex; ma nella dipintura del carattere del conte egli rimane al di sotto dell’originale. Nella favola Spagnuola Essex è un innamorato, tuttochè combatta nel di lui cuore l’ambizione e l’amore; ma eroicamente dà per Bianca la vita per non iscoprirla, e soggiace alla morte colla taccia di traditore. Nella tragedia Francese egli comparisce mattamente innamorato, e, come ben dice il conte Pietro di Calepio, muore più per disperazione che per grandezza d’animo.

Il gusto del monarca a guisa del suono si propaga e si diffonde in tutti i sensi per la nazione. La corte di Filippo IV si empì di verseggiatori che produssero a gara un gran numero di favole. Talora si videro tre autori occupati al lavoro di una sola commedia, dividendosene gli atti; ond’è che se ne leggono più centinaja col titolo comedia de tres Ingenios, i quali talvolta vi si nominano. Mendoza, Rosette e Cancer ne composero molte in tal guisa. Una ne avea io divenuta rarissima intitolata la Bathasara, di cui il primo atto appartiene a Luis Velez de Guevara, autore di molte altre commedie allora stimate morto nel 1640, il secondo ad Antonio Coello, ed il terzo a Francesco de Roxas il quale molte altre favole compose. Il primo atto desta {p. 214}curiosità, ed è meno difettoso nello stile; gli altri sono pessimi per istile, per azione e per orditura. L’argomento è una commediante rinomata che si converte, si disgusta della propria professione e della vita passata nel più bello di una rappresentazione in Valenza, va a servir Dio in una solitudine, e muore santamente. Nell’atto del Guevara si vede alla prima la dipintura naturale di un teatro Spagnuolo qual era a quei tempi. Esce ad affiggere il cartello di una nuova commedia un servo della compagnia detta di Eredia commediante famoso di quel tempo che n’era il capo. Si figura che tal compagnia rappresenti in Valenza nel teatro dell’Olivera. Apparisce l’interiore del teatro, e si veggono nella platea sparsi alcuni venditori, che, come è stato costume anche in Madrid sino ad alcuni anni fa, vanno gridando avellanas, piñones, peros de Aragon, turron ecc. Passano i facchini co i fardelli de’ vestiti delle commedianti. Si vedono venire al teatro Baltassarra, Leonora e la Graziosa. La gente impaziente grida, salgan salgan, empiezen, per sollecitare i commedianti ad incominciare. Baltassarra rappresenta a cavallo in mezzo della platea (costume non ancora deposto da’ commedianti) facendo la parte di Rosa Solimana. Nel meglio del recitare si distrae, e fa riflessioni morali sulla vanità de’ piaceri, che non entrano {p. 215}nella parte che rappresenta. Al fine rapita da un santo entusiasmo dice a vista di tutti,

Afuera galas del mundo,
afuera ambiciones locas,
que solo me haveis servido
en esta farsa engañosa
por testigos del delito,

e gettati via gli abiti teatrali parte precipitosamente. L’uditorio si scompiglia, chi grida da’ palchi, chi dalla cassuela, chi dalla grada, il Grazioso marito della Baltassarra ed Eredia capo della compagnia vengono fuori confusi e disperati per le loro perdite, e termina l’atto. Il secondo contiene la vita penitente di Baltassarra, le preghiere e le lagrime di un suo amante, i tentativi del demonio per distorla. Nell’atto terzo il Roxas continua a mostrare le astuzie del demonio, finchè si vede Baltassarra già spirata.

Ma il Roxas ha prodotte molte favole interamente sue. In quelle che si chiamano istoriche, lo stile è sommamente stravagante, e la condotta difettosissima. Di ciò può servir di esempio quella che intitolò los Aspides de Cleopatra, azione tragica scritta in pessimo stile colla solita trasgressione d’ogni regola, e mescolata di buffonerie arlecchinesche, la quale anche a questi tempi si vede {p. 216}comparir sulle scene. Ma egli è autore di varie favole non dispregevoli nel genere comico chiamato di spada e cappa. In quella intitolata Entre bovos anda el juego, è degno di notarsi un carattere comico di un Toledano chiamato Don Lucas del Cigarral acconciamente dipinto. Vedasene uno squarcio tratto dalla relazione che ne fa il di lui servo, da noi tradotto con fedeltà,

Don Luca Cigarral, il cui moderno
Casato non vien già dalla famiglia,
Ma da una macchia, o nido di cicale
Da lui piantato, è un cavaliere scarmo,
Gracile, macilento,
Cortissimo di busto,
Lunghissimo di gambe, che ha le mani
Più ruvide di quelle de’ villani;
I piedi lunghi, bassi al collo e piatti
Come hanno l’oche, e pien di nodi e calli.
Goffo un poco, un pò calvo, verdinero
Più che poco, e ancor più schifoso e sozzo,
Più di quaranta volte molto porco.
Se canta la mattina,
Non sol, come si dice,
Spaventa le sue noje,
Ma tutta pur la gente a lui vicina.
Se dorme al suo poder, con tale orrendo
Strepito russa, che s’ode in Toledo.
Mangia come un studente,
Beve come un Tedesco,
Come un signor di mille cose chiede,
{p. 217}
Cinguetta al pari d’un ben grasso erede.
Con grazia tal ragiona,
Che ad ogni motto una novella appicca,
Che sempre è lunga, e non è giammai buona.
Non v’ha paese ov’ei stato non sia.
Cosa non sente dir ch’ei non se pria.
Se taluno dirà d’aver la posta
Corsa sino a Siviglia,
Egli, ad onta del mar che si frappone,
Fino a Perù la corsi anch’io, ripiglia.
Di spade si favella?
Ei solo se ne intende. Ad ogni lama
Che non ha impronta, egli un maestro assegna.
Cento commedie ha insino ad or composte,
E le conserva suggellate e chiuse,
E alle figlie che avrà, vuol darle in dote.
Ma vaglia il ver; benchè non sia gentile,
Benchè sia mal poeta e peggior musico,
Zotico, seccator, bugiardo e stolto,
Con un sol vezzo ogni suo neo compensa,
Che sì sordido ha il cuore e meschinello,
Che non daria quel che tacere è bello.

Questa dipintura, oltre all’essere ben graziosa, ha il merito di prevenire l’uditorio sul carattere del protagonista. Il poeta con altre pennellate ancora avviva il ritratto di Don Luca. Fa che egli imponga che nel passare Isabella sua sposa da Madrid a Toledo, si copra d’una mascheretta. Ecco tradotta la lettera che le scrive, la quale spira {p. 218}tutta la gentilezza di Don Luca: Sorella, io possiedo seimila e quarantadue ducati di rendita di un maggiorato, e se non ho figli, viene ad essere mio cugino il mio successore. Mi vien detto che voi ed io possiamo averne quanti vorremo. Venite questa notte a trattare del primo, che ci sarà tempo poi per gli altri. Mio cugino viene a prendervi; mettetevi una mascheretta, e non gli parlate; perchè finchè io viva, voi non dovete essere nè veduta nè udita. Nell’osteria di Torrejoncillo vi attendo; venite subito, che i tempi correnti non permettono di aspettar molto nelle osterie. Dio vi guardi, e vi dia più figliuoli che a me. Un’ altro bel colpo di pennello riceve il ritratto da un altro suo foglio portato dal nominato cugino. Contiene una carta di quitanza così dettata: Ho ricevuto da Don Antonio Salazar una donna che ha da essere mia moglie, con suoi contrassegni buoni o cattivi, alta di persona, di pelo nero, e pulcella nelle fattezze. E la consegnerò tale e quanta ella è, sempre che mi sarà domandata in occasione di nullità o divorzio. In Toledo a’ 4 di settembre del 1638. Don Luca Cigarral. In conseguenza del suo carattere procede Don Luca nella briga attaccata co’ passeggieri in Torrejoncillo, e nell’ incontro colla sposa nell’atto I che si rappresenta parte in Madrid e parte nel nominato villaggio. Non si smentisce nelle avventure notturne, quando {p. 219}tutti i passeggieri caminando verso Toledo pernottano in Illescas nell’atto II. Degno di lui nell’ atto III che si rappresenta in Cabañas, è il pensiero di far maritare Isabella col suo cugino per vendicarsene; perchè essendo poveri, mal grado del loro amore, forza è che vivano malcontenti. I caratteri sono ben dipinti; l’azione non offende l’unità richiesta; il tempo si stende oltre il confine di un giorno, ma non tanto che la favola ne divenga inverisimile, restringendosi al più a due giorni; il luogo solo non è uno, passando l’azione in Madrid, in Torrejoncillo, ed in Illescas, e terminando in Cabañas. Lo stile poi è comico, sobrio e vivace in tutto, eccetto nel dialogo degl’ innamorati; perchè allora i poeti credevano di cader nel basso, nel famigliare, nel triviale, se i concetti amorosi si fossero espressi con semplicità e naturalezza.

Seguace, ammiratore e quasi alunno di Lope de Vega fu Giovanni Perez de Montalbàn nato in Madrid da un librajo. Di anni diciassette cominciò a scrivere commedie che si recitarono con applauso e s’impressero in due volumi nel 1639. Oggi che pochissime commedie dell’istesso Lope si rappresentano, havvene più d’una di Montalbàn che si ripete quasi in ogni anno in Madrid, cioè la Lindona de Galicia, e los Amantes de Teruel.

{p. 220}

La Lindona. Una mescolanza di avventure tragiche e comiche, di persone reali, basse e mediocri, un cumolo di fatti che formano anzi un romanzo che un dramma, in cui nell’atto I interviene Sancio re di Castiglia, e nell’atto II l’azione segue sotto il regno del di lui successore Ferdinando, rendono mostruosa questa favola che prende il nome da una Rica-Fembra di Galizia. Due cose secondo me l’hanno fatta conservare sul teatro ad onta di tante stravaganze, cioè il carattere vendicativo di questa dama che parla nel proprio dialetto Galiziano, e spira certa non usitata bizzarria e fierezza raccomandata dalla beltà; e la bellezza selvaggia di Linda vestita di pelli e cresciuta senza saper parlare e che si va sviluppando a poco a poco per mezzo di una tenera simpatia che le inspira la veduta di un giovane principe. Linda viene indi conosciuta per la figliuola di Lindona che ella avea gittata in mare per vendicarsi del principe Garzia di lei padre.

Los Amantes de Teruel. In questa terra del regno di Aragona corre una tradizione degli amori infelici di due amanti virtuosi morti di dolore l’uno nell’arrivar ricco per isposare la sua innamorata e trovarla moglie del suo rivale, l’altra al vedere estinto l’amante. La tradizione è accreditata presso gli Aragonesi con un sepolcro che si addita in Teruel. Su tale argomento {p. 221}Giovanni Tague de Salas formò un poema epico tragico intitolandolo los Amantes de Teruel impresso in Valenza nel 1617, e poi Montalbàn ne compose il dramma di cui parliamo.

Malgrado de i difetti consueti l’azione principale è sommamente interessante e i caratteri degli amanti Diego ed Isabella con molta vivacità delineati. Ferdinando altro amante d’Isabella mal noto e mal gradito, ed Elena di lei cugina ed occulta amante di Diego formano gli ostacoli della loro felicità. Il padre d’Isabella la destina ad un ricco, e Ferdinando è tale, essendo Diego povero di beni e pieno solo di virtù e di valore. L’uno e l’altro nell’atto I la chiedono in isposa ad un tempo. Il vecchio riceve con sommo piacere le istanze del ricco, ma alle fervide insinuanti preghiere del povero egli rimane intenerito ed irrisoluto a segno che al fine la nega ad ambedue, al povero perchè è tale, ed al ricco per non dispiacere al povero valoroso degno di miglior fortuna. Diego si avvisa d’implorare un altro favore, cioè di permettergli di sperare la mano della figliuola nel caso ch’egli migliorasse di fortuna; ed a tale effetto chiede che destini uno spazio competente per tentar la sorte. Condiscende il buon vecchio, e si conviene che Isabella rimarrà senza prendere marito tre anni e tre giorni, e questi scorsi nè tornando Diego più {p. 222}ricco, possa dare la mano a Ferdinando. Diego va a militare sotto Carlo V che muove contro Solimano.

Nell’atto II i maneggi di Elena fanno sì che per due anni e mezzo nè le lettere di Diego giungano alla cugina, nè quelle di lei siano a Diego consegnate. In oltre per abbattere di un colpo la costanza d’Isabella si fa venire un finto soldato colla falsa notizia della morte di Diego, che riduce agli estremi la vita d’Isabella senza indebolirne la passione. Dall’altra parte Diego ha fatti prodigii di valore, ha salvata la vita all’imperadore, si è fatto ammirare nella Goletta, è stato il primo a montare sul muro di Tunisi; ma sempre sfortunato si trova tuttavia povero. Disperato si vuole ammazzare; giugne all’imperadore la notizia di quel trasporto; ne intende le avventure ed i meriti; lo dichiara capitano della propria compagnia; gli assegna tremila scudi annui sulle rendite di Teruel per mantenersi, e gliene dà altri quattromila per le spese del viaggio.

Non può disporsi Isabella a sposar Ferdidinando prima di compiersi lo spazio accordato al creduto morto suo amante di tre anni e tre giorni. Nell’atto III scorso questo tempo un’ ora dopo è costretta a dargli la mano. Dopo un altr’ora giugne in Teruel Diego vivo, ricco e glorioso. L’incontro de’ due amanti è interessante. Vorrebbe {p. 223}Isabella narrare come sia condiscesa alle nozze, ma teme che sopraggiunga il marito. L’ affretta a partire. Tradurrò esattamente qualche squarcio di questa scena. Vieni tu con salute? dice Isabella. Saprai poi del mio stato, risponde Diego; ma tu come stai? Morta sopra la terra, ella ripiglia e vuol partire. Addio, ella segue agitata,

Addio; con te restar non mi è concesso.
Ti dirò solo in breve, che un soldato
Di tua morte recò nuove fallaci,
Che sospirai, che piansi,
Che morir volli . . . Ohdio! non è più tempo
Di rammentar quel che obbliare è forza!

Die.

E di che è tempo?

Isa:

Di pensar ch’è questa
L’ultima volta, oimè, ch’io ti favello,
Che tu mi vedi . . . addio . . . . Ti amai, lo sai,
Partisti . . .

Die.

E bene?

Isa:

Si ostinò Fernando,
L’interesse parlò, l’udì mio padre.
Corse il romor della mentita morte . .
Ah maledetto sia l’infame, il falso,
Il comprato messaggio, onde mi vedo
A sì misero stato oggi ridotta!
Passò il tempo prefisso; amante invano
Volli oppormi al destin; minaccia il padre;
Donna, priva di te, figlia, obedisco.
E infin . . . . deggio pur dirlo? infin son moglie.
{p. 224}
Vanne, tel dissi già, lasciami, parti,
Che se ti miro più, perdermi posso,
E perdermi non vo’.

Die.

Pensa . . .

Isa:

Non giova.

Die:

Ben mio . . .

Isa:

Vanne.

Die:

Ah tu speri invan, crudele,
Che tal freddezza e tal contegno io soffra.

Isa:

Che far poss’ io?

Die:

Al padre dir ch’io vivo.

Isa:

É vano.

Die:

Parlar chiaro a Don Fernando.

Isa:

Sono già sua.

Die:

Prova la forza.

Isa:

È vana.

Die:

Vientene meco.

Isa:

L’onor mio m’è caro.

Die:

Fuggi sola.

Isa:

Ove?

Die:

A un giudice ricorri.

Isa:

A cui?

Die:

Di che sei mia.

Isa:

Non è più tempo.

Die:

Uccidimi.

Isa:

Io che ti amo?

Die:

Segui dunque ad amarmi:

Isa:

Ah nobil nacqui.

Die:

Qualche rimedio alfin trovar conviene

Isa:

É trovato:

Die:

Qual è?

Isa:

Morir tacendo.

Die:

Scelgo il morir, ma palesando al mondo
L’amor tuo, la tua fè.

Isa:

Sai ch’ho un marito.

Die:

Io, io son tuo marito, e dal tuo fianco
Appartarmi potrà solo la morte.

Isa:

E l’onor mio?

Die:

Tutto si perda omai.

Isa:

E la tua vita?

Die:

Oggi finisca.

Isa:

E il mio
Consorte?

Die:

Non ti goda.

Isa:

E i miei parenti?
{p. 225}

Die:

Versin tutto il mio sangue.

Isa:

Invano io prego?

Die:

Io nulla ascolto.

Isa:

Ed io con questa mano
Saprò morir.

Die:

Saprò morir anch’io.

Parte Isabella, la segue Diego: ma ella temendo che sia veduto dal marito, per far che vada via, gli dice che l’abborrisce. L’anima dell’innamorato oppressa in tante guise dalla piena degli affetti non resiste a quest’ ultimo colpo, e spira di puro dolore, cagionando colla sua morte quella d’ Isabella che gli muore accanto. La relazione ch’ella prima di spirare fa della morte del suo amante al marito, e le di lei estreme querele mal corrispondono alla scena patetica e naturale che abbiam tradotta, essendo il rimanente pieno di arguzie, sofisticherie, sciapitezze e concettuzzi impertinenti. Questa composizione per lo più si vede ogni anno sulle scene Spagnuole sempre con piacere e concorso, quante volte venga rappresentato il carattere d’Isabella da un’ anima sensibile che per ventura o per arte non sia stata avvelenata dalle caricature istrioniche. Tal era la delicatissima attrice Pepita Huertas mancata nel fior degli anni suoi.

Uno degli scrittori più fecondi e pieni di sfrenata fantasia fu Fr. Gabriel Tellez di Madrid religioso di S. Maria della Mercede {p. 226}morto circa il 1650. Le sue commedie impresse in tre volumi in Madrid e in Tortosa nel 1634 portano il finto nome del maestro Tirsi de Molina. Egli accumulava gli accidenti di tal sorte che oltrepassava gli eccessi de’ suoi contemporanei. A lui appartiene la commedia delle imprese de’ Pizarri in cui corre dalle Spagne al Perù con somma leggerezza. Il teatro odierno non parmi che di questo frate rappresenti altra favola se non el Burlador de Sevilla, per altro titolo il Convitato di pietra. Niuno ignora la fortuna di questa stravagantissima composizione. In Ispagna continua a rappresentarsi. In Italia la tradusse il Perrucci Siciliano, ed i pubblici commedianti la ridussero a soggetto rendendola ancora più grottesca. Moliere la rettificò, facendone una dipintura d’un discolo, la spogliò della varietà, del bizzarro, del miracoloso, e ne dissipò il concorso. Fece altrettanto il Goldoni. Il dramma originale del frate ha trionfato per più di cento anni su tanti teatri, e si riproduce da’ ballerini pantomimi, ad onta del re di Napoli che esce col candeliere alla mano a i gridi d’ Isabella vituperata e ingannata da uno sconosciuto, di tante amorose avventure di Don Giovanni, de i di lui duelli, della statua che parla e camina, che va a cena, che invita Don Giovanni a cenare, che gli stringe la mano e l’uccide.

{p. 227}

Giambatista Diamante è autore di varie favole, alcune delle quali sino a’ giorni nostri si sono conservate in teatro, e nel giro di ciascun anno costantemente vi compariscono. Ogni prima Dama del teatro Spagnuolo per far pompa di abilità apprende a rappresentar la di lui Judia de Toledo. L’argomento appartiene al regno di Alfonso VIII re di Castiglia che per sette anni perseverò nell’amore di una Ebrea Toledana chiamata nelle cronache nazionali Fermosa. Don Luis de Ulloa y Pereyra compose de i di lei fatti un poema di 76 ottave intitolato la Raquel che si trova inserito nel Parnasso Spagnuolo. L’azione del dramma incomincia dall’esiglio degli Ebrei decretato da Alfonso, per cui viene Rachele ad implorar la clemenza del sovrano, prosiegue col reciproco innamoramento, e termina colla morte di Rachele per mano de’ Castigliani sollevati. Le stranezze dello stile, l’ irregolarità, la buffoneria alternata cogli evenimenti tragici, non offuscano del tutto l’energia e la verità che si osserva nella dipintura delle passioni e de’ caratteri di Rachele innamorata e ambiziosa e di Alfonso accecato dall’amore. Traluce agli occhi curiosi e sagaci qualche pensiero vigoroso e naturale, benchè sommerso, per così dire, fralle metafore spropositate. Tale parmi nella giornata. I ciò che Rachele risponde al padre che vuol suggerirle quel che dee dire al re. {p. 228}Non ho bisogno, gli dice, delle vostre ragioni per persuadere; e quando mai, aggiugne, il di lui sdegno confondesse il mio discorso,

Yo harè que enmienden los ojos
los errores de mi labio.

Tale nella giornata II è la risposta data da Rachele stessa ad Alfonso. Lascia il rispetto, le dice il re,

Hablame como à tu amante,
No como à tu rey.

Raq.

No puedo,
Que ha poco que eres mi amante,
Y ha mucho que eres mi dueño.

Tale nella giornata III il congedo che Rachele condotta a morire prende dal padre.

Diamante scrisse anche una favola sul Cid, e Pietro Cornelio ne trasse alcuni pensieri. A lui debbe questo sentimento di Chimene,

Je sai que je suis fille, & que mon pere est mort.

Diamante avea detto ciò forse con maggior precisione,

El conde es muerto, y yo su hija soy.
{p. 229}

Ma in fine che brami? si dice a Chimene; ed ella presso il poeta Francese risponde,

Le poursuivre, le perdre, & mourir après luy.

Diamante disse,

Perseguille hasta perdelle,
Y morir luego con el105.

Ma sotto questo lungo e fecondo regno fiorì principalmente il famoso Pedro Calderon de la Barca assai conosciuto in Francia ed in Italia, de i cui drammi sacri o profani si valse frequentemente l’istesso Filippo IV. Egli compose almeno centoventi commedie oltre a un gran numero di prologhi o loas, delle quali una gran parte sino a’ nostri di continua a rappresentarsi, e secondo l’apparenza continuerà ancora. Sino all’anno 1664 non n’erano usciti che tre tomi, che poi crebbero a nove oltre a sei altri impressi in Madrid nel 1717, che contengono settantadue auti sacramentali. {p. 230}Ma il numero tanto di questi che delle commedie apparisce molto maggiore perchè gliene attribuirono altre non sue per accreditarle col di lui nome.

Di questo celebre commediografo variamente giudicarono i critici e forse sempre con ingiustizia. Deificato da alcuni fu trattato da altri qual mostro e corruttore del teatro. Non meritava la cieca idolatria de’ primi, avendo lasciate a’ posteri molte cose da migliorare, nè le amare invettive degli altri, per molti pregi che possedeva. Blàs de Nasarre, il quale cercò abbassare i più celebri drammatici Spagnuoli, per sostituir Ioro un merito ideale di altri oscuri scrittori, declamò prolissamente contro le stravaganze, gli errori e l’ignoranza di Calderon. Senza dubbio questo poeta (per accennarne alcuna cosa in generale prima di scendere alle particolarità di qualche sua favola) mostrò di non conoscere, o almeno non si curò di praticare veruna delle regole che è più difficil cosa ignorare che sapere: non separò mai il tragico dal comico: pensando di mostrare acutezza nell’elevar lo stile si perdè, non che nel lirico, nello stravagante106: abbellì i vizj (errore sopra {p. 231}ogni altro inescusabile), e diede aspetto di virtù alle debolezze: fece alcun componimento di mal esempio, come el Galàn sin Dama: cadde sovente in errori di mitologia, di storia, di geografia. Ma Calderòn ebbe una immaginazione prodigiosamente feconda: non cedeva allo stesso Lope nell’armonia della versificazione: maneggiò la lingua con infinita grazia, dolcezza, facilità ed eleganza: seppe interessare gli spettatori con una serie di evenimenti inaspettati che producono continuamente situazioni popolari e vivaci. Sono, è vero, i suoi ritratti per lo più manierati e poco rassomiglianti agli originali che ci presenta la natura; ma non si allontanano molto dalle opinioni dominanti a’ giorni suoi. Oggi che li conosce tutto il ridicolo della smania cavalleresca e de i duellisti mercè del piacevole pennello del Cervantes, i personaggi di Calderon rassembrano tutti Rodomonti o Pentesilee erranti; ma era cosa comune al suo tempo che un cavaliere prendesse di notte le sue armi, andasse in ronda sospirando sotto le finestre della casa della sua bella, e si battesse con chi passava. Per giudicar dritto di un autor comico, non basta intender l’arte, ma conviene saper trasportarsi al di lui secolo.

I generi scenici da lui coltivati furono tre, l’allegorico degli auti sacramentali, le favole istoriche, e le commedie di spada e cappa.

{p. 232}

Quanto agli auti sembra ch’egli non avesse compresi gl’ inevitabili inconvenienti attaccati al maneggiar sulla scena la delicata materia de’ misteri della nostra religione. Al vedere egli deliziavasi nell’ interpretarli con mille giuochetti puerili sulle parole e con tante buffonerie de’ personaggi ridicoli. Eccone qualche pruova. Cristo (dicesi in un auto) morì nella strada delle Tre Croci, alludendo con equivoco meschino alle croci del Calvario e alla calle de las Tres-Cruces di Madrid. Con simile equivoco si dice che la Samaritana abita alla calle del Pozo. Con istrano anacronismo intervengono in un medesimo auto personaggi divini e umani divisi di paesi e di tempi, come la Trinità, il demonio, San Paolo, Adamo, S. Agostino, Geremia. L’Appetito, il Peccato, una Rosa, un Cedro, il Mondo, sono personificati negli auti107. In quello intitolato gli Ordini Militari si figura che Cristo venga a domandare la Croce al Mondo, e che questo personaggio per concedergliela voglia sentirne l’avviso di {p. 233}Mosè, Giobbe, Davide e Geremia, i quali affermano che egli la meriti per lo quarto del Padre; dopo di che il Mondo si determina a dare a Cristo la Croce, affermando non averla sinora concessa a veruno se non per onore. Nel Laberinto del Mondo l’Innocenza rappresentata dalla Graziosa, che corrisponde alle nostre Servette o Buffe, in presenza di Theos che è Gesù Cristo venuto su di una nave a redimere il mondo, dice del mare,

. . . por mi cuenta he hallado
Que no es gracioso el mar aunque es salado:
Mas fuera dicha suma
Que el chocolate hiciera tanta espuma108.
{p. 234}

Ma è inutile di più trattenersi su gli auti sacramentali banditi per sempre da’ teatri Spagnuoli. Erano già tre mesi nel settembre del 1765 quando giunsi in Madrid, che per real rescritto del gran monarca CARLO III se ne proibì la rappresentazione per lo scandolo che producevano le interpretazioni arbitrarie e gli arzigogoli poetici su di così gran Mistero, e per l’indecenza di vedersi sulla scena una Laide rappresentar da Maria Vergine, una mima elevar la sfera sacramentale e cantare il Tantum ergo.

Nelle favole istoriche dove introduconsi personaggi reali, regnano le principali stranezze sì dello stile nel cercarvisi il sublime, come delle apparenze e degli accidenti accumulati senza modo per correre appresso alle novità e chiamar il concorso. Calderon ne compose moltissime che possono dirsi stravaganti; p. e. las Armas de la Hermosura, in cui Coriolano diventa un vero cavaliere errante de’ bassi tempi: Fineza contra fineza, in cui si ammassano evenimenti disparati ed apparenze senza numero, e si stravolge il bellissimo episodio di Olinto e Sofronia di Torquato Tasso: la Aurora en Copacavana che a stento m’induco a crederla uscita da Calderon. In essa i Peruviani son dipinti a capriccio, e la storia dello scoprimento di Pizzaro v’è adulterata ed involta in miracoli ed apparenze {p. 235}senza oggetto e senza giudizio, e divenuta tutta fantastica per mezzo dell’Idolatria personaggio allegorico, che si agita, medita, eseguisce mille incantesimi senza perchè e senza sapere ella stessa quel che si voglia nè quel che intenti.

Ma fra esse se ne leggono alcune più interessanti e più sobrie e per varii tratti poetici e per situazioni pregevoli, se voglia usarsi loro indulgenza per la solita irregolarità. Prescelgo in questo genere tragico, mal grado delle buffonerie, la Hija del aire, el Tetrarca de Jerusalèn, la Niña de Gomes Arias.

Sotto il nome di Hija del aire (figlia dell’aria) Calderon, non altrimenti che il nostro Muzio Manfredi, pubblicò due favole sulle avventure di Semiramide. Nella prima ne dimostrò la prima gioventù, l’ educazione selvaggia avuta ne’ monti, le sue nozze con Mennone indi con Nino re di Assiria. Nella seconda trattò del di lei regno dopo la morte di Nino, della maniera come tolse il freno del governo al figliuolo inetto per regnare colle di lui spoglie virili, e della di lei morte. Nell’una e nell’ altra è dipinto vivacemente il carattere di questa regina straordinaria piena di valore e di ambizione; ma nella seconda sono gli evenimenti assai più dilettevoli e più atti a chiamare il concorso.

El Tetrarca de Jerusalèn contiene le avventure {p. 236}di Marianna ed Erode, ed è forse la più famosa delle di lui rappresentazioni istoriche e quella che più spesso ho veduta riprodursi sul teatro di Madrid. La favola si aggira sul timore che ha Marianna di una predizione di un astrologo, che ella perirebbe preda di un gran mostro, e che Erode col pugnale che sempre porta allato darebbe la morte alla persona da lui più amata. Risaltano in questa favola il carattere di Marianna virtuosa quanto bella, a quello di Erode geloso ed amante.

Nell’atto I Erode tenta dissipare i di lei timori riguardo al mostro, e perchè non abbia a temere del pugnale lo getta in mare, supponendo Gerusalemme città marittima. Ma questo ferro fatale va a cadere appunto su di un uomo che a nuoto tenta falvarsi da un naufragio, e questi è Tolomeo suo capitano da lui mandato in soccorso di Marcantonio contro di Ottaviano. É condotto questo Tolomeo col pugnale fitto nel corpo e prima che spiri fa un racconto del trionfo di Ottaviano e dell’armata Ebrea distrutta dalla tempesta. Ma egli a dispetto di un pugnale che l’ha trafitto vuol ciò riferire in settantacinque versi ripieni di concettuzzi e di circostanze inutili, entrandovi il bucentoro di Cleopatra lavorato di avorio e coralli, il mare divenuto Nembrot de’ venti che pone monti sopra monti e città sopra città, la tavola su di {p. 237}cui si salva Tolomeo fatta delfino impietosito, il ferro che l’ha trafitto divenuto cometa errante, che corre la sfera dell’ aria contro l’umano vascello del di lui corpo. Un poeta più sobrio avrebbe ad un moribondo risparmiato almeno sessanta di questi versi ed un pajo di dozzine di pensieri stravaganti.

Tout ce qu’on dit de trop est fade & rèbutant.

Intanto Ottaviano in Menfi per alcune carte comprende i disegni di Erode. E quali sono? Aspirare a divenire imperadore di Roma. È una ipotesi troppo inverisimile per accreditar le situazioni che seguono, che un Idumeo signore di una parte della Palestina nel tempo che contendevano Ottaviano e Marcantonio, concepisca il disegno di farsi padrone di Roma. Ottaviano tralle carte nominate appartenenti ad Aristobolo ha trovato un ritratto della bella Marianna, e gli vien dato ad intendere essere immagine di una bellezza estinta. Il poeta riconduce lo spettatore a Gerusalemme ad ascoltare un dialogo di Marianna ed Erode che aringano ed argomentano a vicenda.

In Menfi comincia l’atto II che poi termina nella Giudea. Nell’intervallo degli atti si figura il Tetrarca fatto prigioniero, ed è condotto alla presenza di Ottaviano, che ha nelle mani il ritratto di Marianna. {p. 238}Erode s’ingelosisce; Ottaviano lo minaccia e rimprovera, e gli volge le spalle; Erode tenta di ammazzarlo col suo pugnale. Per render verisimile quest’attentato, dovrebbe supporsi che Ottaviano si trattenga col nemico senza verun testimonio, senza corteggio, senza guardie. Ma chi lò salva dalla morte? Una copia grande del picciolo ritratto che cadendo dal muro si frappone e riceve il colpo destinato ad Ottaviano. Il pugnale tolto dalla percossa immagine rimane in potere di Ottaviano, ed Erode è condotto a una torre per aspettar la sentenza della sua morte. La gelosia gli fa vedere la sua Marianna in potere del nemico che ne tiene varj ritratti. Pensa ad impedirgliene il possesso ancor dopo che egli sarà morto, ed in una lettera ordina la di lei morte, e la manda a Tolomeo. Per un intrigo amoroso di una damigella questa lettera passa nelle mani della stessa Marianna che con somma maraviglia e dolore ne legge il contenuto. Le sue giuste querele sono patetiche ma confuse in un mucchio di espressioni fantastiche. È notabile la situazione di Marianna dopo la lettura della lettera. La tormentano l’amore e l’indignazione; nè a questo punto patetico altro manca che una esecuzione più naturale ed espressioni spogliate da i delirj de’ secentisti.

L’atto III passa in Gerusalemme. Marianna si presenta ad Ottaviano coperta di {p. 239}un velo e domanda la vita del consorte. Non vuole udirla, e le dice,

Si enternecer no espero
mis iras, paraque con ellas luchas?

E Marianna con grandezza e vivacità ripiglia,

Paraque tu gobiernas si no escuchas?

Ottaviano convinto da tal detto si arresta, ma ricusa di ascoltarla prima che discopra il suo volto. Marianna si discopre, ed è ravvisata per l’originale della pittura. L’imperadore concede la grazia domandata, e nobilmente dilegua anche ogni sospetto svegliato in Erode da i di lei ritratti. Erode vuol mostrare la sua gratitudine alla moglie, ma ne ammira la somma mestizia e le lagrime. Ne vuol sapere la sorgente, e Marianna gli rimprovera l’ ordine dato della di lei morte, mostrandogli il di lui foglio. Molti pensieri patetici ed energici si trovano sparsi nelle di lei querele; ma sono frammischiati a varie impertinenze pedantesche di quel tempo. Ella si ritira al suo appartamento per mai più non vederlo, giurando por los dioses che adora109 che si {p. 240}getterà in mare se ardisce entrarvi. Intende Ottaviano la strettezza in cui vive Marianna, e risolve di andar di notte a vederla. Quì Ottaviano diventa un innamorato di spada e cappa che si accinge ad un’ avventura notturna; là dove egli prima per dissipare i sospetti del Tetrarca magnanimamente diede ragione della maniera per cui acquistò il ritratto, e poi lo lasciò in potere della stessa Marianna. Egli in fatti entra di notte nelle di lei stanze con poco decoro della maestà e con rischio della fama della regina. L’incontra, offerisce liberarla (quando che dovea e potea farlo decentemente colla propria autorità); Marianna gli dice che la sua prigionia è volontaria. Puerilmente ancora Ottaviano s’invoglia un’ altra volta del ritratto che spontaneamente le avea consegnato; e la regina glielo nega e vuol bruciarlo. Ottaviano insiste, l’impedisce, vuol torglielo a forza; ella minaccia d’ammazzarsi col pugnale di Erode che Ottaviano porta al fianco. Non è questa una contesa tutta comica e indecente contraria alla verisimiglianza ed al decoro di questi personaggi? Ottaviano si arresta, ella fugge e getta via il pugnale; egli le corre dietro. Chi riconosce più in tal conflitto e strano inseguimento l’Ottaviano del resto della favola? Il Tetrarca viene col disegno di tentar di parlare a Marianna; si maraviglia de’ fregi donneschi {p. 241}sparsi per la stanza; si avvede del suo pugnale che era rimasto in potere dell’imperadore; ode la di lui voce e quella di Marianna; sente tutta la sua gelosia; imbatte in Ottaviano, l’ affronta; Marianna per separargli smorza il lume; Erode perde la spada, impugna il pugnale, incontra Marianna, l’ammazza, e poi si getta in mare.

E questa è la favola del Tetrarca de Jerusalèn che l’ autore volle chiamar tragedia, ad onta delle buffonerie che quì ho tralasciate, dell’irregolarità e delle avventure comiche notturne; conchiudendo, che quì termina la tragedia, restando adempiuto l’ influsso. Ed in ciò ancora è da riprendersi il poeta; perchè in vece di prefiggersi l’insegnamento di una verità, cioè che le passioni sfrenate e la pazza gelosia cagionino ruine e miserie, egli si è studiato d’insegnare che esse provengono dall’influsso degli astri. Era questa la bella moralità da insegnarsi sulle scene? Si combattono in tal guisa gli errori volgari? É questa una dottrina concorde colla libertà umana e colla religione? Calderon incorse nel medesimo difetto nell’altra sua favola reale la Vida es sueño.

Credè il sig. Andres che il Francese Tristano avesse tolto l’argomento della sua Marianna dal Tetrarca di Gerusalemme. Ma che mai trovò egli di rassomigliante nella condotta della tragedia francese e della favola {p. 242}Spagnuola, in cui si vedono le additate tinte comiche miste alle tragiche, le irregolarità, que’ ritratti adorati dal poco grave Ottaviano, quelle avventure notturne, il passaggio replicato de’ personaggi da Gerusalemme a Menfi e da Menfi a Gerusalemme, la cura puerile del poeta di accreditar l’errore volgare dell’influsso? Ben però è certo che Ludovico Dolce precedè d’un secolo il Francese e lo Spagnuolo in valersi dell’argomento della morte di Marianna e della gelosia di Erode riferita dall’Ebreo Flavio Giuseppe, e ne formò una tragedia regolare recitata con tale applauso in casa di Sebastiano Erizzo, che quando volle ripetersi nel ducal palazzo di Ferrara, la calca che vi accorse ne impedì la rappresentanza. E chi non vede quanto più la Marianna di Tristano rassomigli a quella del Dolce, il quale se ne togli qualche languidezza ed espressione troppo famigliare, formò con giudizio di quella storia una vera tragedia regolare ed interessante? Ma siccome non dubitiamo di affermare che il Dolce per invenzione ed arte di tanto precedè, e vinse il Francese e lo Spagnuolo, così confessiamo che egli, non osando abbandonar la storia, non migliorò quanto dovea i caratteri di Marianna e di Erode; là dove a mio avviso Calderon dipinse più vivacemente il geloso furor di Erode, e rendè più interessante il carattere di Marianna amante, offesa, virtuosa, {p. 243}sensibile e grande. Osserviamo ancora che l’ Italiano nello scioglimento produsse assai meglio l’effetto tragico di quello che fece lo Spagnuolo colla morte di Marianna seguita all’oscuro per un equivoco mal condotto; ma ci sembra nel tempo stesso che il Dolce avrebbe meglio eccitato il terrore, se non iscemava l’odiosità prodotta dall’ insana sevizia del tiranno coll’ infruttuoso suo pentimento, o se dopo l’ eccidio egli avesse con tutta evidenza fatto conoscere al geloso il suo inganno e l’innocenza di Marianna.

La Niña de Gomes Arias contiene la detestabile dipintura di un soldato discolo colpevole di più delitti, e segnatamente di tradire tutte le semplici donzelle che le prestano fede. Dorotea trafugata dalla casa paterna viene da lui che già n’è sazio, abbandonata in un deserto mentre dorme a piè dell’Alpujarra, ne’ cui monti, presa Granata da Ferdinando ed Isabella, si permise che vivessero alcuni Mori come tributarj, i quali di tempo in tempo calavano al piano e rendevano schiavi i passeggieri. Allo svegliarsi Dorotea vedendosi dappresso un Affricano cerca lo sposo. Questa situazione richiedeva altre espressioni che le seguenti false e inverisimili:

Dime (domanda al Moro) que has hecho del dia,
{p. 244}
atezada nube parda?
sombra, que has hecho del sol?
noche, que has hecho del alba?

É presa da’ Mori, ma vien liberata da alcuni soldati Cristiani e condotta in una casa dove dimora l’istesso Gomes suo traditore. Questi pensa di menar via un’ altra donzella di quella casa, e per errore porta seco la stessa Dorotea. All’apparir del dì nell’atto terzo egli ravvisa Dorotea trovandosi nel medesimo luogo dove l’abbandonò la prima volta, cioè a vista di Benamexi città de’ Mori. Dispettoso l’oltraggia, l’ ingiuria, vuol di nuovo abbandonarla. Piagne la meschina, domanda la morte; ma l’inumano prende una risoluzione più barbara, e facendo segno a’ Mori tratta di venderla. Meritano di notarsi le querele di Dorotea, mal grado de’ freddi concetti che le deturpano. Ne darò una mia traduzione, e ne’ passi dove i tratti patetici vengono traditi dalle false espressioni, non sostituirò ad esse i miei pensieri, ma le trascriverò in margine. Ecco come a lui parla Dorotea:

Mostro, barbaro, ingrato, ove trascorri? 110
{p. 245}
Che tenti? E a tanto orror giugner potesti
Senza temere i fulmini del cielo?
Vender mi vuoi tiranno? A un mostro vile
Vendermi, oimè, senza pensar che schiava
Se mi fè un folle amor, libera io nacqui?
Di qual barbaro mai, di qual selvaggio
Tanta infamia si udì? Quella che amasti,
Nè vo’ già dir la sposa tua, tu stesso
Meni di un altro in braccio? Il giusto cielo
Mi vendichi di te: l’aria ti manchi,
Ti nieghi il sol la luce, e del tuo sangue
Ti vegga asperso, e dall’infame busto
Un carnefice vil quell’empio capo
Recida ... Ma che dico? Oimè, ben mio,
Mio sposo, mio signor, tua schiava io sono,
Fa di me quel che vuoi. Ma se ti offesi,
Se nel tuo sdegno incorfi, uccidi, mora
{p. 246}
La schiava tua senza cangiar catena.
Splenda a te sempre mai propizio il sole,
Placida l’aura ti vezzeggi: un terso
Specchio l’acqua ti sia: per te la terra
In ridente giardin tutta si cangi.
Il fiero Cagnerì cui tu mi vendi,
Quel dì che in preda mi lasciasti al sonno,
Amante si mostrò, che il ciel dispone,
Ch’io nell’essere amata ed abborrita
Sia del pari infelice 111 ! Or tu vorrai
Darmi in sua man, nè sentirai quel gelo
Che suol provarsi ancor per chi si abborre?
Se amor non può, ti renda onor geloso.
Io pure udii dal labbro tuo talvolta
Che sposo mio saresti. Ah per sì caro
Nome che meritai qualche momento,
Signor pietà, mercè,
Deh non lasciarmi, oimè!
Presa in Benamexi
In man del Cagnerì112.
{p. 247}
Che se per non serbar la data fede
Fuggir mi vuoi, ben ti prometto e giuro
Obbliarla per sempre ed in un chiostro
Girmi a chiuder di quì, dove co’ voti
Dal ciel t’implorerò giorni felici
Quel tempo che il dolor della tua assenza,
Della perdita tua, mi lasci in vita.
E se Beatrice ingelosir pur temi,
Se mi vegga tornar teco a Granata,
Io stessa a lei dirò che per errore
Di sua casa salii, che vi ritorno
I suoi dubbj a calmar, che di mio padre
L’ira io fuggia, tu lei salvar credendo
Salvasti me, ma che non v’è fra noi,
Nè mai fu arcano onde si adombri e offenda.
E quando in servitù vuoi pur ch’io viva,
Dia legge a me chi innamorar te seppe.
Lei servirò; nè più avvilir si puote
Disingannato amor, femminil fasto.
Ma se il mio pianto a intenerirti è vano
Per quel che sono, a quel che fui deh pensa.
Nacqui di nobil padre, il sai, da lui
Amata mi vedesti, e rispettata
{p. 248}
Nella patria da nobili e volgari.
Ti ascoltai, ti credei, patria ed onore
(O memoria crudel!) per te perdei.
Pietà, signor, quel miserabil vecchio
Pensa qual resterà, quando l’infaustæ
Novella a lui del mio destin pervenga.
Vendicarsi vorrà, quando non sia
Altri uccidendo, colla propria morte.
Ma già ... misera me ... mi manca il fiato . . .
Mi balza il cor ... dalla funesta rupe
Già scende il Cagnerì113 . . . Signor, mio bene,
Pietà di me, pietà di te: rientra
In te stesso per te: cangi il pentirti
In merito il delitto; o tu vedrai
Congiurato in tuo danno, e cielo e terra114.
Signor, pietà, mercè,
{p. 249}
Non mi lasciare, oimè!
Presa in Benamexi
In man del Cagnerì.

Ma l’infelice è dall’inumano Gomes data in potere dell’Affricano. Viene poi liberata dalle armi della regina Isabella, la quale informata delle di lei avventure, ed avuto in suo potere lo spietato Arias, decreta ch’egli risarcisca l’onore di Dorotea sposandola ed indi perda la testa su di un palco.

Ognuno vede che questo atroce misfatto è quell’istesso che commise un mostro Inglese in persona di una Garaiba, la quale oltre all’avergli dato il cuore e il possesso di se stessa, gli avea di più salvata la vita. L’uomo ingrato in ricompensa, giunto con lei a salvamento nella Barbata, vendè la sua liberatrice. Se l’argomento della favola di Calderon è finto, egli immaginò quel che eseguì il detestabile Inglese. Se egli trasse dal fatto della Caraiba l’argomento del suo dramma, perchè mai trasportò dalla nazione Inglese alla propria quell’infamia che eccita il fremito dell’umanità? E se tralle antiche leggende Spagnuole si rinviene eziandio questa spietatezza (di che lascio a’ nazionali la cura d’investigarlo), egli è da dire che l’ umana malvagità volle copiare se stessa, e far ripetere nel declinar del passato secolo ad un Inglese quel {p. 250}che già avea eseguito uno Spagnuolo.

Ma il merito particolare di Calderon non si appalesa nelle favole istoriche ove per lo più volendo esser tragico, grande, sublime, diventa turgido, pedantesco, puerile. Egli trionfa nelle commedie dette di spada e cappa, presentando a’ sagaci osservatori un gran numero di situazioni interessanti, colpi di teatro curiosi disposti acconciamente, regolarità maggiore, stile più proprio del genere, e dialogo quasi sempre naturale. Quindi è avvenuto che mentre le commedie dell’istesso Lope e di quasi tutti i suoi coetanei più non compariscono sulle scene di Madrid, vi si sostengono quelle di Calderon. Noi quì potremmo addurne diverse degne di leggersi; ma ci contenteremo di quelle che più spesso si rappresentano, o che hanno alcun particolar pregio. Ben tessuto è il viluppo delle due commedie Casa con dos puertas mala es de guardar, e Tambien ay duelo en las damas, le quali si rassomigliano ne’ colpi scenici. Tiene l’uditorio svegliato l’intrigo della commedia los Empeños de un acaso, dove per accidente più che per interesse passano i personaggi d’uno in un altro impegno. Lo stile è proprio del genere eccetto quando gli amanti vogliono parere spiritosi, fioriti e leggiadri, perchè allora diventano enimmatici e pedanteschi. Fu tradotta da’ Francesi col titolo les Engagemens du hazard.

{p. 251}

Si rassomigliano in varie cose le commedie Nadie fie su secreto, e il Secreto à voces, ma sono artificiose e notabili per alcune situazioni comiche. Nella prima un principe ama l’innamorata del suo favorito, e sapendone i secreti toglie agli amanti l’opportunità di parlarsi, di sposarsi e di fuggirsi via. Nell’ altra un servo diventa la spia del proprio padrone, che è il segretario d’ una principessa da cui è occultamente amato. Egli ama una dama della di lei corte, e la principessa sa il di lui amore ma non l’amata. Gl’ innamorati per comunicarsi anche in pubblico quanto passa, hanno posto fra loro una cifra, che rende inutili tutte le diligenze e gli avvisi della spia. Quest’ intrigo riesce piacevole, e sarebbe a desiderarsi che il poeta avesse renduta più verisimile la pratica della cifra. Senza mettere per ipotesi che gli amanti sieno un Perfetti e una Corilla, cioè verseggiatori estemporanei, è impossibile persuadere all’uditorio ch’essi s’intendano. Ecco in che consiste la cifra. Colui che comincia a parlare, prende in mano un fazzoletto per avvisare all’altro che stia attento. Indirizza poi a’ circostanti un discorso diverso dal secreto, del qual discorso però ogni prima parola di un verso s’intende diretta all’amante; di modo che raccogliendo in fine tutte le prime voci, ne risulti l’avviso che si vuol dare. Questa cifra è soggetta a due {p. 252}opposizioni. Primieramente la prima voce da prendersi nella favola di Calderon è sempre il principio di un verso e non già di un periodo terminato. Di poi la lunghezza del discorso riesce inverisimile all’improvviso nel parlare, dovendosi fare due discorsi seguiti di materie differenti colle medesime parole. E se Calderon vivesse, confesserebbe che a tavolino distese egli con qualche studio ciò che suppone che i suoi personaggi facessero estemporaneamente. Siane un saggio l’avviso che dà Laura all’amante nella giornata II. Ella vuol dirgli ciò che siegue:

Flerida ha sabido ya
que de aqui no te ausentaste,
y que con tu dama hablaste,
de que muy zelosa està.

Ciascuna parola di questi quattro versi dee servire per prima parola di ogni verso del discorso generale indirizzato a tutti gli altri, di maniera che ciascuno di questi versi fornisce le quattro prime parole de’ quattro versi del sentimento che si dirigge agli astanti. Eccone la prima strofa:

Flerida, cuya beltad
ha con tu ingenio igualado,
sabido es quanto ha mostrado
ya mi afecto mi humildad.
{p. 253}

Da ciò apparisce l’inverisimiglianza della pratica esecuzione di tal cifra parlando. V’è però la maniera di migliorare tale artificio, per fuggir l’ inconveniente che risulta dal far parere che sappia il personaggio esser la commedia scritta in versi.

Contansi tralle migliori commedie del medesimo autore per situazioni interessanti e per caratteri ben dipinti el Medico de su bonra, Primero soy yo, Dicha y Desdicha del nombre, el Garrote mas bien dado. La commedia No ay burlas con el amor contiene i caratteri di due sorelle che si contrastano, Leonora sensibile, facile e nell’espressioni e nelle maniere naturale, Beatrice schiva, ritrosa, nojosamente stoica, affettata. L’ostentazione dell’erudizione greca e latina di Beatrice c’induce a sospettare che Moliere ne avesse tolta l’idea delle sue Donne Letterate; ma ciò è incerto, ed è sicuro dall’altra parte che il vivacissimo colorito della favola francese ha un impasto originale. La commedia Mejor està que estaba è fondata (come la maggior parte delle Spagnuole) nel concorso di varj colpi di teatro. Ma ben notabile (e l’avvertì anche M. Linguet115) è la situazione delle prime scene, in cui {p. 254}Carlo si ricovera in casa di Flora per aver ammazzato un uomo ed è da Flora nascosto. Ella intende poi che l’ucciso è il di lei cugino, nè perciò lascia di proteggerlo e salvarlo. In questa favola Calderon non ha evitato il solito difetto di mescolare colle scurrilità le sagre cose. Il buffone stà parlando col Podestà, e gli è detto che si contenga nel dovuto rispetto alla presenza del Podestà. Norabuena, egli risponde.

Diciendo yo la verdad,
ser que importa en conclusion
el Trono, ò Dominacion,
quanto mas el Potestad.

In tutte le favole Calderoniche non è da cercarsi regolarità ed unità nel tempo, nel luogo, nell’azione e nell’interesse. Ma nella sola favola los Empeños en seis horas, vi si trova di proposito racchiusa l’azione quasi nel tempo della rappresentazione. Si vede che l’ autore volle tesserla con tale angustia, non per osservar le regole prescritte, ma per desiderio di riuscire in una impresa allora forse reputata difficilissima. Di fatti egli si studiò sempre di ritrovare argomenti artificiosi e capaci di recar maraviglia, senza aver la mira a cercarli idonei ad inspirare amore per qualche virtù o a rilevare una massima istruttiva. E che insegna quest’intrigo degl’ Impegni in sei {p. 255}ore? Per mezzo di un manto si prende senza verisimiglianza un equivoco, per cui Nisa è creduta Porzia da un personaggio che viene a sposar quest’ultima; e quando l’equivoco si scioglie, che mai vi s’impara? Egli vorrebbe incessantemente inculcarsi a’ poeti scenici, che il diletto non debbe mai andar disgiunto dall’ insegnamento. Ma ad onta di tanti difetti di regolarità, di stile e d’ istruzione le favole di Pietro Calderon de la Barca contengono molti pregi, per li quali piacquero e piacciono ancora in Ispagna, e trovarono traduttori ed imitatori in Francia prima di Moliere ed in Italia nel passato secolo. Che se altrettanto non è concesso a tanti e tanti commediografi, bisogna dire che nelle di lui favole si nasconda un perchè, uno spirito attivo vivace incantatore, per cui, secondo Orazio, sogliono i poemi ascoltarsi con diletto quante volte si ripetono. Egli è questo perchè, questo spirito elettrico che sfugge al tatto grossolano di certi freddi censori di Calderòn.

Nel tempo ch’egli di tanti componimenti arricchiva il teatro Castigliano, altri poeti fiorirono ancora, ma principalmente Agostin Moreto ed Antonio Solis, i quali per avventura nulla a lui cedevano per fantasia, e lo superavano in qualche altro pregio.

Moreto, giusta il costume del secolo, scrisse varie commedie in compagnia di altri {p. 256}poeti, e non poche ne produsse solo, e chiudonsi in tre volumi, de’ quali il primo uscì in Madrid l’anno 1654; ma cessò di comporne tosto che fu iniziato negli ordini sacri a quali ascese. In generale questo scrittore usa della libertà spagnuola meno di Galderon, per lo più distendendosi la durata dell’azione a pochi giorni. Ha parimente più copia di sali e più lepidezza, dipinge i caratteri con maggior vivacità comica, ed hanno i suoi colpi di teatro più varietà. Se la moda e l’esempio non avesse rapito Moreto, forse in lui si sarebbe veduto il Moliere delle Spagne. La perizia che avea in porre alla vista il ridicolo d’un carattere, comparisce singolarmente nella sua commedia el Marquès del Cigarral. Questo marchese è un ridicoloso vantatore pieno di una sognata nobiltà di cui pretende tirar l’origine da Noè. M. Scarron la tradusse in Francia e l’intitolò Don Japhet; ma non contentandosi di ritenerne le grazie, le caricò fuor di proposito. Lo stile di Moreto generalmente è moderato e proprio del genere comico, eccetto quando parla l’innamorato, perchè allora egli si perde nel lirico e nello stravagante al pari degli altri. Le facezie ed i motteggi sono graziosi e frequenti, ma egli segue i compatriotti nell’usanza di scherzare sulle parole sacre. Don Cosmo dice nella giornata I, ad Ephesios responsion, nella II giura {p. 257}il personaggio por el santisimo bote de la Magdalena santa, nella III esclama valgame todo el Psalterio. Lo spettatore volgare che altra scuola pubblica non suole avere che il teatro, si conferma con ciò nell’abito di abusare delle sacre espressioni. Moreto non per tanto pieno di buon senso vide molti difetti del teatro spagnuolo, e più di una volta ne rise. In questa motteggia sull’uso d’introdurre i servi buffoni, che sono gli arlecchini di quelle scene, ad assistere a i discorsi de’ principi, ed a mettervi il loro sale. Quanto alle unità di tempo e di luogo si vale de’ privilegj nazionali ma con discretezza. L’azione comincia in Ortaz e prosiegue e termina in Consuegra, e vi s’impiega almeno lo spazio di dodici giorni; dicendo Don Cosme nella I giornata a Leonora che vada a Consuegra, dove egli si porterà passati dieci giorni, e nella prima scena poi della II giornata,

Ayer se cumpliò el plazo prometido,
En que ha señalado su venida;

sono dunque trascorsi undici giorni, e l’azione principale non è pure incominciata.

Ma egli compose la Confusion de un Jardin, in cui seppe tessere un’ azione regolare passata in un giardino nel giro d’una notte. Anche in essa riprese i compatriotti che appiccavano indivisibilmente agl’ innamorati {p. 258}i buffoni con manifesto detrimento della verisimiglianza. Egli fa che l’innamorato all’entrar nel giardino dia congedo al suo servo, il quale si lagna di essere il primo servo con cui il padrone non si consigli, e che rimanga escluso da’ di lui secreti maneggi. Si vede che Moreto volle comporre una favola dentro le regole senza dipendere dall’uso spagnuolo. Essa è tanto regolare quanto gl’ Impegni in sei ore di Calderòn; ma è più semplice, meno caricata di accidenti, e non meno dilettevole. Ma queste commedie che noi con ingenuità mettiamo alla vista, sono state forse additate da’ Nasarri e da’ Lampillas? Si confrontino le loro scritture. Anche in questa favola si vedono le solite allusioni buffonesche alle cose sacre. Essendo preso un cavaliere nel giardino, la Graciosa dice,

Es noche de Jueves santo
que se hace prision en huerto.

Non dee però dissimularsi che nè gl’ Impegni in sei ore, nè la Confusione d’un Giardino ho veduto rappresentar mai in Madrid nella mia lunga dimora.

El Desdèn con el Desdèn, altra commedia di Moreto, comparisce sempre con nuovo diletto sulle scene Castigliane. Benchè sottoposta ai soliti difetti d’irregolarità, vi si ammirano pennelleggiate con somma maestria {p. 259}le passioni di una dama bizzarra che vuol parere superiore all’amore. Moliere la tradusse intitolandola la Princesse d’Elide, ma questa copia fatta per altro frettolosamente sembra assai fredda a fronte dell’originale. Che vivacità in Moreto! Che delicato contrasto di un orgoglio nutrito sin dalla fanciullezza, e di un amor nascente nel cuore di Diana! Che interesse in tutta la favola progressivamente accresciuto a misura che si avanza verso il fine! Tutto questo si desidera nella copia che ne abbozzò Moliere. In prima questo gran comico Francese trasportò l’azione tra’ remotissimi principi Greci d’Elide, d’Itaca, di Pilo e della Messenia, e con ciò alla bella prima ne diminuì l’evidenza e l’interesse, che fuor di dubbio noi prendiamo più facilmente per oggetti che più a noi si avvicinano. Di poi quel Moròn Francese comparato col ben grazioso Polilla Spagnuolo comparisce un freddo buffone. Appresso l’Eurialo di Moliere che è il conte de Urgèl di Moreto, introduce il suo stratagemma di fingersi nemico di amore spogliato di circostanze che l’ accreditino, ed in un modo languido che annoja coloro che conoscono l’ originale Spagnuolo. In oltre l’insipidezza colla quale la Principessa d’ Elide entra nell’impegno d’innamorare Eurialo, copre di gelo l’invenzione di Moreto. Je vous avoüe (atto II scena 5) que cela m’a donné de l’émotion, {p. 260}& je souhaiterois fort de trouver les moyens de châtier cette hauteur. Qual differenza da queste parole a quelle della scena di Diana con Cintia in cui nasce il di lei impegno! Con quanta energia ella s’irrita alla freddezza di Carlo! Qual pennellata maestrevole in questi due versetti,

Aunque me cueste un cuidado,
He de rendir à este necio,

ne’ quali tutta si manifesta l’anima orgogliosa di Diana, e la facilità ch’ella si lusinga d’incontrare a vincerlo! Giunto in Madrid m’imbattei a sentirli espressi dalla singolare attrice Mariquita Ladvenant con tal sagace misto di certa sicurezza maestosa, di dispetto, e di una risa ironica, che pareva di aver letto nell’anima di Moreto. Nè anche la copia Francese rappresenta in menoma parte le vaghe tinte originali di una scena della II giornata, in cui Carlo cade a palesarsi amante, e vien trattato da Diana coll’ ultima fierezza e col disdegno più altiero, per la qual cosa egli scaltramente ripiglia la dissimulazione, ed ella rimane mortificata e sempre più impegnata ad innamorarlo davvero. Invano parimente si cerca nella copia la bellezza della scena della III giornata, in cui Carlo si finge preso di un’ altra e la chiede in isposa, così che la gelosia finisce di trionfare del cuore di {p. 261}Diana. E finalmente la languidezza, con cui la Principessa d’Elide vuole esigere da Aglante che la vendichi rifiutando la mano di Eurialo, se si confronti colle infocate espressioni di Diana gelosa, superba e disprezzata, rassomiglia un fuoco fiaccamente dipinto alla vista di una fornace ardente.

Anche l’altro valoroso comico Francese M. Regnard rimase al di sotto di Moreto nell’imitare ne’ suoi Menecmi varie scene piacevoli della commedia di Moreto la Ocasion hace el ladron. In essa una baligia cambiata ed un nome preso a caso da un cavaliere cui importa di non esser conosciuto, forma un intrigo assai vivace. Vi si veggono con molto artificio condotte le comiche situazioni, e con verità dipinti i caratteri, specialmente quello di Don Manuel de Herrera, in cui si ravvisa un natural ritratto de i discendenti de’ nobili, che commettono azioni ingiuste degne di ogni rimprovero, e pure credonsi onorati purchè non rubino; quasi che l’infamia dipenda da questo solo genere di delitti. M. Linguet ha renduta a Moreto tutta la giustizia per questa favola preferendola ai mentovati Menecmi di Regnard. Egli l’ha inserita nel suo Teatro Spagnuolo con altre due del medesimo autore, cioè il Parecido en la Corte, e No puede ser guardar la muger. Il Parecido è una commedia di rassomiglianza che ha varie scene piacevoli e dove il buffone {p. 262}ha una parte competente. L’altra è stata adottata dagl’ istrioni. Italiani e recitata spesso all’improvviso. Ma in questa si vuole osservare che il poeta per sostenere il sentimento opposto introduce un fratello che non è la persona più scaltra del mondo, nè la più atta a vegliare sugli andamenti della sorella; ed oltre a ciò essa è da riporsi tralle favole di cattivo esempio, che danno peso appo i volgari alle massime perverse del libertinaggio116.

Termineremo di parlar di Moreto colla commedia intitolata el Valiente Justiciero, nella quale si ritraggono al vivo le tirannie baronali quando regnava in Ispagna con tutto il vigore il governo feudale. Vi si rappresenta un Rico-Hombre di Castiglia padrone di Alcalà e delle città, castella e villaggi che le sono intorno, vantandosi egli di passeggiare sempre per le proprie possessioni per dieci miglia di circuito, e queste non già dategli per mercede da qualche sovrano, ma guadagnate contro i Mori a colpi di lancia. Egli gonfio non meno della ricchezza che del legnaggio dice,

{p. 263}
. . . . . . que en Castilla
viò Ricos-hombres mi casa
antes que Reyes su silla;

laonde rende a se stesso giustizia in questa guisa:

Pues quien ha de poner ley
en un hombre como yo,
que ya que Rey no naciò,
tampoco es menos que el Rey?

Queste pennellate eccellenti preparano ad intenderne le ingiustizie e le violenze; e vien descritto come ingannatore di nobili donzelle deluse colla parola di matrimonio e poi rifiutate con discortesia e disprezzo, come rapitore di spose illustri, come derisore dell’autorità reale quando si tratta della sua pretesa giurisdizione. E’ degna di osservarsi l’ultima scena della I giornata, in cui il rico-hombre chiamato Don Tello riceve in propria casa il re Don Pietro il crudele in qualità di un privato cortigiano chiamato Aguilera. Don Tello parla con poco rispetto del re che crede assente, ed il finto Aguilera alzandosi ne lo riprende con bizzarria; ma Don Tello quasi sdegnandosi di corrucciarsi con una persona tanto, al suo credere, inferiore a lui per nobiltà e per valore, gli dice con tranquilla superiorità,

{p. 264}
Sientese el bueno Aguilera.

Questo tratto di alterigia è vendicato nella II giornata. Don Tello è costretto dal re a venire a Madrid. Entra nella reale udienza ed è obbligato ad aspettar lungo tempo il sovrano, il quale esce al fine ad ascoltarlo ma leggendo una lettera, nè badando a Don Tello che gli s’inginocchia davanti. Il buffone che al solito assiste a quest’incontro, rileva cotal disprezzo, e motteggia il padrone mortificato col ripetere quel verso,

Sientese el bueno Aguilera.

Di poi Don Tello pe’ suoi delitti è condannato a morte. Ma perchè egli più d’ una volta ha mostrato disprezzo del valor personale del re che si teneva per prode, per ordine secreto del sovrano è condotto fuori della prigione e di Madrid. Il re senza farsi conoscere duella con lui, lo disarma, e si scopre, godendo di avere umiliato e convinto l’orgoglioso vassallo non meno del proprio potere che della gagliardia.

Prima di passare alle commedie di Antonio Solis, quest’ultima favola di Moreto ci torna in mente quante volte i poeti Spagnuoli hanno introdotti i sovrani che deposta la maestà si trattengono in domestici {p. 265}colloquii con contadini senza scoprirsi. Distinguonsi in tal particolare altre due commedie applaudite, e solite anche al presente a rappresentarsi in Madrid, cioè el Montañes Juan Pasqual, ed el Sabio en su retiro. La prima dicesi composta da un Ingenio, e vi è introdotto anche il re Don Pietro il crudele, il quale andando alla caccia obbligato da un’ improvvisa tempesta si ritira in casa del labrador Juan Pasqual, con cui nel tempo della cena ragiona allegramente, ed intende parlar di se, senza le basse lusinghe cortigianesche, da un uomo di buon carattere e fornito di saviezza. L’altra commedia el Sabio en su retiro appartiene a Giovanni Matos Fragoso, ed è la migliore delle sue favole117. Notabili sono in essa il carattere del re Alfonso detto il Savio, e quello di un uomo di campagna pieno di virtù e di buon senso naturale. Interessante singolarmente è la scena della loro cena; e i discorsi del re e di Juan Pasqual sono ben degni degli elogj de’ giornalisti Francesi e di M. Linguet. I miei {p. 266}leggitori vedranno forse con piacere tradotto qualche squarcio di questa favola; ed io prescelgo un discorso di Juan Pasqual con cui s’indirizza all’autore della natura, perchè ne manifesta il carattere:

Arbitro di natura, alto sovrano
Della terra e del ciel, quali non debbo
Grazie alla tua pietà, che di tai doni
Sì mi colmasti, che quanto si scopre
Dalla vicina rupe a quella valle
Che di alte olive sì folta verdeggia,
Tutto a me serve! I copiosi favi 118
Quanto mele raccolgono, al suol quanti
Gravosi tralci di dolcissime uve
Inchina il ricco peso, quanti monti
Di dorato frumento ingombran l’aje,
Tutto, tua gran mercè, per me si aduna.
Nè la ricchezza è la maggior ventura
Che mi donasti; un placido riposo,
{p. 267}
Una gioja innocente appien gradito
Rende lo stato mio; che l’uom felice
Tant’è quant’ei si reputa. Lontano
Da cure ambiziose infra i castagni
Infra le quercie, in rustico abituro
Nacqui, e dodici lustri io vissi lieto.
Nè il re vidi giammai, nè di Siviglia
L’altera corte, e sol due leghe appena
Lunge è da quì; tal mi cagiona orrore
Il doppio mascherato cortigiano.
Meno tranquilli i dì fra miei pastori
Che mi onorano a gara, ed i miei voti
A’ cittadini onori io non sollevo:
Chè gir sì alto è ben somma follia
Per cader poi con più fatal ruina.
Temo l’esempio di robusta quercia
Che de’ venti al soffiar spesso si spezza,
Quando debole canna il lor furore
Stanca cedendo, e col piegarsi vince.

Gl’ Inglesi hanno un picciolo componimento intitolato il Re ed il Mugnajo di Mansfield, cui l’autore Dodsley dà modestamente il nome di novella drammatica. Vi si vede un re d’ Inghilterra che smarrito in una foresta si ricovera solo in casa del mugnajo, dove ascolta i propositi de’ campagnuoli e l’infedeltà usata da un suo cortigiano ad una contadina119. Verisimilmente l’autore {p. 268}ne tolse l’argomento dalle favole di Moreto, o dell’ Anonimo o di Matos. Non per tanto M. Sedaine che ha scritto in Francia le Roi & le Fermier, e M. Collet autore della Partie de chasse de Henri IV, confessarono di aver seguita la favoletta inglese, ignorando che questa era una debole copia delle nominate commedie spagnuole.

L’altro degno contemporaneo di Calderòn e Moreto è il celebre autore della storia della Conquista del Messico Antonio Solìs. Senza eccettuarne l’ istesso Moreto, egli ha rispettate più d’ogni Spagnuolo le regole del verisimile. Circa l’unità di tempo quasi mai non si valse della libertà nazionale nelle favole di spada e cappa, e si limitò a un giorno di ventiquattr’ ore, e talora di poco eccedè i due. Non manca di colpi di teatro e di comiche situazioni, e {p. 269}supera l’ istesso Calderòn, se non nell’eleganza, nella proprietà della locuzione comica; non vedendosi nelle di lui favole que’ groppi di stravaganze ne’ quali cade Calderòn. Solis fa parlare i personaggi con naturalezza, giusta il carattere e la passione, e se alcuna volta sottilizza rapito dal turbine che tutti gli altri aggirava, non mai incorre in metafore stranissime, o nella mostruosa mescolanza del tragico col comico. M. Linguet ha di lui tradotto soltanto Un bovo hace ciento commedia bene avviluppata che si continua a rappresentare; ma forse poteva far migliore scelta fralle seguenti. Amparar al enemigo, che dal Celano in Napoli fu tradotta in prosa e intitolata Proteggere l’ inimico, ha più d’una situazione interessante, locuzione propria, e un’ azione che non dura più di due notti, e tre giorni. La Xitanilla de Madrid fu parimente tradotta dal medesimo col titolo la Zingaretta di Madrid. Una novella di Cervantes diede l’ argomento a questa favola, che ha somma grazia in castigliano, e perde nelle traduzioni. Le comuni passioni, le gelosie, gli amori, gli sdegni, le riconciliazioni, hanno in essa un grazioso colore di novità. La durata dell’ azione passa di poche ore le ventiquattro. Sebbene per le passioni generali e per l’intreccio si è veduta con piacere anche ne’ teatri italiani, tuttavolta fuori delle Spagne è impossibile {p. 270}il ritenere scrivendo i tratti originali della dipintura degli zingani Andaluzzi che acquistano ancor grazia maggiore nella rappresentazione che ne fanno i nazionali. Più di una fiata ho veduta rappresentar questa commedia (perchè quasi in ogni anno si ripete) or dall’eccellente attrice Pepita Huertas già morta, or dalla Carreras che già si era ritirata dal teatro quando io lasciai le Spagne. L’una e l’altra con pari applauso, benchè per differenti pregi, si segnalarono nel carattere di Preziosa. Rendevasi accetta la prima per certa grazia naturale tutta nobile che faceva trasparire in mezzo a i modi ed a i gerghi zingareschi. Questo bel misto di grazia, di spirito, e di nobiltà mirabilmente conveniva a una giovanetta di sommo talento e vivacità ma disdegnosa e bizzarra ancor nell’amore, la quale in fine si scopre di esser nata dama. Si distinse in seguito la Carreras nella rappresentazione fattasene nel 1781 per la viva imitazione delle maniere di quel ceto da non potersi migliorare. Stando poi nella convalescenza di una grave infermità si destinò l’anno 1782 a rappresentarla nel passar che fece S. A. il conte d’Artois per Madrid andando al campo di San Roque; ma dopo della prima scena ella cadde in un profondo deliquio e convenne che la Graziosa Apollonia supplisse sul fatto la di lei parte; nè poichè si riebbe dalla nuova infermità volle, {p. 271}benchè giovane, tornar più sulle scene. Altra commedia del Solis è il Doctor Carlino, la quale anche si contiene ne’ termini di poco più di un giorno. Il personaggio che dà il titolo alla favola è tratto dalla commedia imperfetta del Gongora, ed è dipinto felicemente; ma questa commedia non è rimasta sulle scene. Nella commedia el Amor al uso (che Tommaso Cornelio tradusse ed intitolò l’ Amour à la mode) Solis ha pure rappresentato un’ azione che si compie in 24 ore. Vi si dipingono vivacemente in istile faceto e naturale i costumi e le leggerezze giovanili. Vi si mette in vista la galanteria di una dama e di un cavaliere che fanno vista di amarsi, avendo però ciascuno più d’un intrigo amoroso per le mani. Solis sopravvisse a Calderon, il quale morì assai vecchio nel 1681, e tutti si rivolsero a lui, perchè succedesse all’estinto poeta nel comporre gli autos sacramentales; ma egli risolutamente ricusò di porvi la mano, confessandosi insufficiente di seguirlo in tal carriera. Verisimilmente questo valoroso scrittore che non calcò le vestigia di Lope nè di Calderon e de’ loro seguaci nell’irregolarità delle commedie e nello stile, conobbe ancora gl’ inconvenienti e le mostruosità annesse a quell’ informe specie di dramma.

Si avvicinano a’ soprallodati poeti il Messicano Giovanni Ruiz de Alarcon, Antonio {p. 272}Zamora, Giovanni La Hoz e Francesco Bances de Candamo. Molte commedie essi diedero al teatro spagnuolo benchè oggi poche se ne rappresentino.

Comparisce alcuna volta la commedia di Alarcòn intitolata No ay mal que por bien no venga, Don Domingo de Don Blas. Vi si scorge veramente la solita viziosa mescolanza di grandi interessi reali con avventure mediocri e di persone tragiche con caratteri comici senza rispettarvisi le unità. Notabile non per tanto per le stravaganze è il carattere originale di Don Domingo, cavaliere onorato e valoroso, ma talmente innamorato del proprio comodo e così avverso a quanto possa torgli il menomo uso della propria libertà, che giugne all’eccesso e ne diviene ridicolo. Il re di Leone passa per Zamora? Don Domingo non si cura di andar cogli altri nobili a corteggiarlo. Il re lo manda a chiamare? Egli si affretta ad obedire sol per liberarsi presto da quella noja. Il re vuol fargli qualche grazia, dicendo che domandi pure? Egli lo prega che se continua a dimorare in Zamora, gli risparmi l’onore di più chiamarlo. Ode che in una casa si stà cantando? Per goder da vicino di quella musica, senza invito monta su e si pone a sedere. Giugne chi se ne ingelosisce e lo disfida; ed egli accetta, ma vuol battersi senza levarsi da sedere. Andando per la città mena seco un servo, {p. 273}che oltre ad un parasole porta sotto il braccio uno scabello, di cui Don Domingo si serve in istrada per riposare. Questo personaggio capriccioso che tal volta eccede e si rende inverisimile e tocca il buffonesco della farsa, è non per tanto interessante pel valore di cui è dotato, e per la fedeltà che in ogni incontro mostra al suo sovrano.

Tralle commedie di Antonio Zamora che raccolte in due tomi si sono impresse ne’ principj del nostro secolo, havvene due che oggi si rappresentano. La prima s’intitola No ay plazo que no se cumpla, ny deuda que no se pague, cioè non vi è tempo che non giunga nè debito che non si paghi; ed è il Convitato di pietra in parte rettificato. Zamora spogliò la mostruosa favola del frate di molte inverisimiglianze, colorì assai meglio il carattere del libertino, circoscrisse l’azione all’ammazzamento del comendatore, rammentando per racconto i trascorsi del Tenorio in Napoli, e ritenne solo il prodigio della statua convitata che parla e camina e convita indi uccide Don Giovanni. Quanto al tempo egli si permise la licenza di tre mesi d’intervallo dal I al II atto, nel qual tempo si scolpisce il magnifico sepolcro dell’Ulloa. Anche lo stile è più sobrio e lontano da molte stranezze nazionali di que’ tempi. L’altra commedia del Zamora solita a rappresentarsi è l’Hechizado por fuerza (l’ ammaliato a forza) {p. 274}il cui stile, l’azione e i caratteri si contengono ne’ limiti di quel genere comico che si appressa alla farsa. Pecca ancora nell’unità del tempo, durando l’azione intorno ad un mese; come altresì in quella del luogo, benchè non esca da’ contorni di Madrid; ma l’uno e l’altro difetto rimarrebbe dissimulato sopprimendosene alcuni versi. Poche commedie spagnuole hanno la piace-volezza di questa ridicola favola.

El Castigo de la miseria, cioè il castigo dell’avarizia, di Giovanni la Hoz lascia alla critica poche cose da censurare, e non poche da lodare. La sudicia avarizia di Don Marcos Gil, che oltrepassa gli Euclioni e gli Arpagoni, è colorita con tratti vigorosi, e ben punita con un matrimonio di una finta ricchissima vedova Indiana che in effetto è una povera donna di Salamanca, Anche questa favola partecipa assai della farsa; ma i caratteri sono ben dipinti, e lo stile è buono, comico, grazioso.

Francesco Bances de Candamo compose più commedie, tre sole delle quali si riveggono alcuna volta sulle scene, lo Schiavo in catene d’ oro, il Sarto del Campiglio, il Duello contro l’innammorata. Non v’ha regola di verisimile che in esse non si trasgredisca, nè stranezza di stile che non possa notarvisi; e pur vi si divisa un artificio che ne rende gli argomenti interessanti. Imprese Candamo a dar nella prima favola una {p. 275}lezione scenica a’ principi, col medesimo intento che ebbe M. de Marmontel ne’ discorsi di Giustiniano e Belisario. E siccome nel libro di tal Francese la morale e la politica che vi si spargono, vengono avvelenate da una perpetua languidezza, dall’inverisimiglianza e da più di un errore di calcolo politico e morale, oltre a quelli della religione; così nel dramma spagnuolo la lezione che si pretende dare a’ sovrani, tende a distruggere un principio erroneo ed a stabilire una falsità opposta. Un suddito ardito che crede avere studiato, censura il governo di Trajano e si ribella. L’ imperadore benigno per castigarlo se l’associa al trono. Il suo disegno è di mostrare che non vale lo studio scompagnato dell’esperienza; ma si fonda questa massima que no es ciencia que se estudia la del reinar, la quale è manifestamente falsa. Studio richiede il regno; ma studio saldo, profondo; studio di cognizioni immediatamente necessarie a diversi rami della politica, della publica economia e della legislazione; studio non iscompagnato dall’intelligenza degli affari. Il Camillo di Candamo avea studiato male; si dovea dunque insegnare che al principe conviene studiar bene. In fatti egli vien dipinto ignorante non solo ne’ principj politici che mettono capo nella ragion naturale e delle genti, ma ancor nella geografia e nella storia. Or che avea egli studiato? delle ciance? {p. 276}Candamo dunque dovea insegnare, non a disprezzare i libri, ma bensì a saperli scegliere, e che l’arte del regno ne’ buoni libri si apprende non meno che nel maneggio degli affari; altrimenti il popolo nella scuola pubblica del teatro porterà a casa un grossolano pregiudizio contro il sapere. Se i principi studieranno l’arte di cantare, danzare e verseggiare come Nerone, in vece di quella di regnare, diventeranno musici, ballerini e rimatori, e non già principi illuminati. Se come Alfonso che fu detto il savio, studieranno l’astronomia a segno di credersi abili a dar consigli all’Autor delle cose per migliorare il sistema celeste, essi diventeranno astronomi temerarj e principi inetti. Ma se impareranno l’arte di ben conoscere i proprj popoli, di pesarne l’ energia, di diriggerla a vantaggio dello stato, di calcolarne la forza e la debolezza, di moderarne gli eccessi e di correggerne i difetti, di animarne la virtù co’ premj in vece di scoraggiarla col disprezzo, di emendarne gli errori da padre e non da despoto, i principi che si dedicheranno a questo studio, calcheranno le orme de’ Titi e degli Antonini, i quali furono degni e dotti principi. Se apprenderanno a ben ragionare, a sapere i doveri di ogni classe di uomini, a scemare i loro bisogni e per conseguenza i loro delitti, in vece di aumentarli, e si faranno istruire da’ filosofi veri, da i Leibnitz, {p. 277}da i Volfii, da i Lock, da i Montesquieu e da i Genovesi, applicandone le dottrine al maneggio degli affari, ed imitando i regnanti benefici e scienziati, essi riscuoteranno gli applausi universali e l’approvazione di se stessi. Se s’illumineranno co’ viaggi, co’ libri savj e colla conversazione de’ sapienti e de’ buoni, come fece Pietro il Grande di Russia, essi sapranno in pochi anni rifondere le nazioni ed esserne i creatori. Se volgeranno le cure ad alleggerire i popoli dal pesante fardello delle leggi fra se talora discordi e talora avverse all’umanità, e quasi sempre bisognose di una legione di comentatori, come pensò in Napoli il Cattolico re CARLO III, e come ha eseguito in Pietroburgo l’augusta CATERINA II col codice Russiano; e se veglieranno poi all’ esecuzione della nuova legislazione, essi renderanno i soggetti e se stessi felici. Adunque dalla favola di Candamo risulta uno sciocco insegnamento, cioè che l’arte del regnare non s’impara se non col maneggio. Se per apprendere ogni arte si richiede disposizione naturale, studio ostinato e pratica ragionata, di grazia l’arte di regnare ch’è l’ultimo sforzo dell’ umana ragione, si dovrà attendere dalla sola presenza de’ casi, i quali sempre sono infinitamente scarsi e fra se diversi, e quindi insufficienti a darci principj applicabili ad ogni evento? E come maneggiarsi bene senza {p. 278}una norma, senza bussola, senza aver coltivata la ragione? Ogni arte che si acquisti a forza di pratica materiale, s’impara errando; e gli errori de’ principi sono sempre fatali. Quello soltanto che nella favola di Candamo merita lode, è che vi si mostra coll’ esempio di Camillo questa verità morale, cioè che un principe buono che voglia bene adempiere al suo dovere, è un vero schiavo, che col manto reale ricopre le proprie dorate catene, dovendo per bene de’ popoli rinunziare a non poche delizie concesse a’ privati. E questa verità imparata colla pratica di un lungo regno ha prodotto di tempo in tempo le abdicazioni di Silla, di Diocleziano, di Amorat, di Carlo V, di Cristina di Svezia ecc.

L’altra commedia di Candamo il Sarto del Campiglio è una mescolanza di affari pubblici ed affetti privati, e di accidenti mal disposti con qualche situazione interessante. Io l’ho veduta tradotta in prosa italiana poco felice, ma spogliata in gran parte delle arditezze dello stile e delle solite irregolarità.

Il Duello contro l’Innamorata chiama il concorso coll’ azione principale, benchè si aggiri per vie tortuose. Una dama bizzarra esige dall’amante infedele un giuramento di non palesarla e prende l’ aspetto di un principe nella corte della sua rivale. Col nome finto, altro non potendo, sfida l’amante. {p. 279}Egli è nell’ angustia o di combattere contro una donna amata nella pubblica piazza o di rimaner disonorato, o di mancare al giuramento con iscoprirla. Ma essendogli lasciata l’elezione dell’armi, esce dall’impegno scegliendo di combattere colla sola spada, e col petto nudo non solo di armi ma di vesti. La donna altera vinta da quest’artificio è costretta a palesarsi col pianto. Nel tempo stesso l’innamorato, il quale si era raffreddato nel di lei amore per un sospetto ingiusto, si trova disingannato per altri accidenti, e le dà la mano di sposo. Questo scioglimento curioso ha renduto noto questo dramma, e M. Linguet l’ha inserito nel suo Teatro Spagnuolo, intitolandolo la Fidelité difficile.

Incredibile è il numero de’ contemporanei e successori di Calderon, i quali con minor vena, fuoco e felicità hanno seguito il di lui metodo. Io potrei impinguare questa parte del mio libro con più migliaja di commedie e de’ già nominati scrittori e di molti altri, come Godinez, Bocangel, Cuellar, Paz, Huerta, Zarate, Monroy, Anna di Caro ecc. . Ma qual vantaggio o diletto apporterebbe un catalogo di favole per lo più mancanti d’arte, di gusto e di giudizio? qual gloria alla nazione sì gran numero di talenti abbandonati al trasporto d’una immaginazione calda e disordinata e innamorati di un parlar gergone metaforico, enimmatico, {p. 280}gigantesco? Essi tutto posero lo studio a riempiere le sregolate loro favole di ripetute impertinenti descrizioni e pitture di cavalli, tori, armature, navi, giardini, palagi, duelli, battaglie navali e terrestri, naufragj, di avventure romanzesche d’ogni maniera. Questi ornamenti ridondanti, strani, capricciosi, contrarj al genere rappresentativo, formavano allora il sublime delle favole spagnuole, e niuno di essi ne andò libero. Per la qual cosa tanti giudiziosi critici nazionali strepitarono negli ultimi tre secoli contro le follie teatrali, lusingandosi di arrestare l’inondazione fangosa colle loro letterarie querele120. Più grave ancora è l’accusa fatta a’ loro compatriotti per l’oscenità de’ loro drammi negata in vano colla solita stranezza dal nominato apologista, e ripresa con forti espressioni dal Canariese Giovanni Ceverio de Vera morto in concetto di santità nel 1600 con un Dialogo contro le commedie Spagnuole, indi dal P. Fr. Giovanni della Concezione, dal lodato Nasarre e dall’amico Moratin. {p. 281}Laonde confessando l’immensa fecondità degl’ ingegni Spagnuoli, ed il loro sale comico non bene avvertito da chi volle scherzare con dire che essi nè anche sapevano ridere senza gravità, per servire alle leggi della storia che del vero si alimenta, osserviamo che rarissime sono le commedie che da tali rimproveri si esimono. Ma non lasciamo di dire che se essi al loro sale nativo, alla vivacità e fecondità dell’immaginazione, alla predilezione che hanno pel teatro, accoppiato avessero un prudente timore di offendere la verisimiglianza, e si fossero appigliati ad uno stile più conveniente al genere, avrebbero forse in tal carriera superati i loro vicini e i lontani.

Da quanto quì abbiamo ora appena accennato ben si rileva perchè nel XVII ancor meno che nel precedente secolo si trovino tragedie vere. Montiano che ne fu il più diligente investigatore appena giunse a contarne sette o otto e pure sregolate. Perciò (dirò sempre) si vogliono compatire alcuni forestieri, e fra questi M. Linguet (cui non ha punto liberato dalle insolenze ingiuste per lo più del fu Garcia de la Huerta l’essere stato tanto benemerito del teatro spagnuolo) se avanzano che la vera tragedia o non si è coltivata o non si è conosciuta dalla maggior parte della nazione.

Quasi tutte le tragedie del secolo XVII appartengono a Cristoforo Virues avendone {p. 282}egli solo prodotte cinque nel 1609. La Gran Semiramis non è una tragedia divisa in tre atti, ma una rappresentazione de’ fatti di questa regina in tre tragedie separate quanti sono gli atti. La Cruel Cassandra contiene molti fatti e molti ammazzamenti. Attila furioso si aggira su gli amori di questo re Unno. La Infeliz Marcela per avviso del Montiano è anzi una novella che una tragedia, in cui intervengono anche persone basse e comiche. L’unica che senza esitare possa chiamarsi tragedia, è la sua Elisa Dido121.

Una tragedia intitolata Pompeyo compose Cristoforo de Mesa traduttore dell’Iliade di Omero e dell’Eneide di Virgilio impressa nel 1615, e dell’Ecloghe, e della Georgica pubblicate nel 1618 insieme colle Rime e colla nominata tragedia. Reca però maraviglia che un ingegno così esercitato, e che di più pregiavasi di aver per cinque anni frequentato ed ascoltato in Italia Torquato Tasso, avesse scritta una tragedia sì cattiva, seguendo il sistema erroneo de’ compatriotti anzi che l’esempio degli antichi e di Torquato. Il suo Pompeo comparisce in Lesbo, passa in Farsaglia, s’imbarca, ritorna a {p. 283}Lesbo e va a morire in Egitto.

Forse dopo l’Elisa Dido del Virues non possiamo contare altre tragedie del XVII secolo che la traduzione delle Troadi di Seneca fatta da Giuseppe Antonio Gonzalez de Salas che s’impresse nel 1633, in cui quasi sempre superò in gonfiezza l’originale; e l’Hercules Furente y Oeteo di Francesco Lopez de Zarate pubblicata con altre opere nel 1651, nella quale si nota qualche squarcio sublime. Ma nè queste nè quelle del Virues sono mai state rappresentate ne’ teatri di Madrid mentre io vi dimorai.

Tale è la storia del teatro Spagnuolo sino alla fine del passato secolo da me con pazienza e fede compilata senza averne trovato esempio122. Varie cose ne trattarono il Montiano, il Luzan, il Nasarre, l’Antonio, {p. 284}le cui lodi o invettive non volli adottare senza averle pesate con imparzialità. Soprattutto ho badato a schivare le loro inutili decisioni generali. E che giovano esse quando non sono verificate su i medesimi drammi? Io ne ho scelti ed esaminati i migliori, ed ho potuto su di essi particolareggiare, ed accennarne con fondamento i difetti assai noti, e le bellezze, delle quali non ancora si erano avvisati i nazionali di far diligente inchiesta. Possa questo mio lavoro inspirar loro il disegno di fare una collezione delle favole sceniche spagnuole scelta e ragionata mille volte promessa e mai non intrapresa! Possa facilitarne l’esecuzione questa mia storia! Allora gli Spagnuoli che mostrano già tanti progressi fatti nelle scienze e nelle arti, vedranno a tutta luce le loro forze e le loro debolezze teatrali, e si volgeranno a calcare miglior sentiero. Allora si avvedranno che tralle potenti cagioni che vi ostano, son da noverarsi gli scritti de’ Lampillas, degli Huerta, e di altri simili declamatori ed infedelì adulatori de i difetti del teatro nazionale. Allora (o ch’io m’inganno) da scrittore antispagnuolo qual mi vollero dipingere non meno i meschini che gl’ insolenti apologisti, sarò tenuto per uno de’ benemeriti di una nazione, di cui non meno nel Discorso contro del Lampillas che nell’Orazione funebre per Carlo III recitata ed impressa nell’aprile {p. 285}del corrente anno 1789, abbozzai un sincero elogio dettato dal cuore e dalla verità, e non dalle speranze nè dalla bassezza lusinghiera Lampigliana.

CAPO V.
Tragedie Latine d’Oltramonti: Tragici Olandesi: Teatro Alemanno. §

Prima di accennar qual fosse lo stato degli spettacoli scenici del secolo XVII in Alemagna, si vuol notare qualche sacra tragedia latina di alcuni celebri letterati sparsa qua e la oltre le Alpi e i Pirenei. Giorgio Bucanano compose il Jefte ed il Batista impresse in Londra nell’officina Elzeviriana l’anno 1628, nelle quali sostenne i personaggi principali con molta dignità nel collegio di Guyenne il celebre Michele Montagna. Daniele Einsio pubblicò la tragedia degl’ Innocenti. Ugone Grozio cui si dee una dotta collezione di frammenti di antichi tragici, scrisse il Giuseppe, o Sofamponea, ed il Cristo paziente stampate nel 1648 in Amsterdam.

Quanto ai componimenti nel nativo idioma, benchè in Olanda altro non sia stata {p. 286}la commedia che una farsa grossolana piena di stranezze e scurrilità indecenti, pur si trova qualche tragedia da mentovarsi. Il Vondel si è distinto fra’ suoi per alcune tragedie al pari di Cornelio e di Shakespear, benchè a questi tanto inferiore. La lunghezza delle scene, le stravaganze e le irregolarità che vi si osservano, non lasciano risplendere abbastanza qualche pensiero nobile che in esse si rinviene. Il suo Palamede ebbe voga perchè la morte di questo Greco si applicava a quella di Olden-Barnevelt gran pensionario della repubblica. I Fratelli o i Gabaoniti riscosse maggiore applauso, e si tradusse anche in tedesco. Antonide-van-del. Does anche scrisse una tragedia della Conquista della Cina benchè di poco felice riuscita. Venghiamo al teatro Alemanno.

Comparve in Alemagna a quel tempo un ingegno elevato che sulle orme del Petrarca mostrò a’ suoi la buona poesia, e traducendo qualche dramma Greco, Latino e Italiano aprì il sentiero della vera drammatica colà sino al suo tempo sconosciuta. Fu questi Martino Opitz di Boberfeld nato nel 1597 e morto nel 1639. Mentre nel 1625 Pietro Cornelio produceva in Francia il suo primo componimento scenico, Opitz trasportò in tedesco le Troadi di Seneca. Tradusse poi nel 1627 la Dafne del Rinuccini, nel 1633 imitò un’ altr’opera italiana {p. 287}intitolata Giuditta123, e nel 1636 tradusse l’Antigone di Sofocle corredandola di dotte note. Tutti questi componimenti scritti con eleganza superiore a quanto erasi colà prima di lui prodotto, bastarono ad additar la via, ma non a perfezionar la bell’ opera di fondarvi il vero gusto; e forse la morte che lo rapì di soli quarantadue anni del suo vivere, ne impedì il pieno trionfo.

Lo secondarono con debolezza alcuni scrittori, ma in vece di tener dietro alla luce permanente de’ buoni esemplari imitati da Opitz, corsero appresso a uno splendore efimero che gli abbacinò. Andrea Grifio corrotto {p. 288}dallo spirito secentista dal 1650 al 1665 pubblicò l’Arminio, Cardenio e Celinda, Caterina di Georgia, la Morte di Papiniano, e Carlo Stuardo tragedie; di più Santa Felicita tratta da una tragedia latina di Niccolò Causin, i Gabaoniti tradotta dalla mentovata tragedia olandese del Vondel, la Balia tradotta dalla commedia italiana di Girolamo Razzi, il Pastore stravagante tradotto da un’ altra francese di Giovanni De la Lande; e finalmente due sue commedie gli Assurdi Comici, e l’Uffiziale tagliacantone, e due opere Piasto e Majuma.

Daniele Gasparo di Lohenstein giunse all’eccesso del mal gusto imitando con maggior caricatura il Marini. Compose cinque tragedie, Epicari, ed Agrippina pubblicate nel 1665, Ibraim nel 1673, e Sofonisba, e Cleopatra nel 1682, le quali presentano di quando in quando qualche lampo d’ingegno in mezzo alle mostruosità.

Uno de’ più noti imitatori di Lohenstein fu Giovanni Hallemann, il quale dal 1660 al 1673 compose sei tragedie, Marianna, l’Amor celeste, il Teatro della fortuna, la Tenerezza paterna, la Vendetta divina, la Vendetta astuta, in oltre la Virtù trionfante commedia, l’Amore ingegnoso pastorale, e l’Innocenza moribonda opera. Ma Hallemann con pari gonfiezza, e co’ medesimi difetti del suo modello vide i proprj drammi più lungo tempo applauditi e rappresentati.

{p. 289}

Per far argine alle ridevoli stravaganze de’ nominati scrittori, Cristiano Weisse rettore del collegio di Zittau precipitò nel basso e nel triviale. Le sue favole comiche e tragiche si rappresentarono da’ collegiali dal 1677 in poi. Tutto congiurava a tener lontano dall’Alemagna il buon gusto teatrale. Quindi avvenne che i commedianti per mendicare ascoltatori ricorsero ai Gran Drammi Politici ed Eroici tragedie grossolane condite dalle buffonerie di Han Wourst, che vuol dire Giovanni Bodino o Salciccia, e corrisponde all’arlecchino Italiano e al grazioso Spagnuolo.

Adunque con giusta ragione il coronato Filosofo di Sans-souci parlando dello stato delle arti del Brandeburgo al finir del passato secolo e al cominciar del presente ebbe a dire124: “Gli spettacoli Alemanni erano allora poco degni di esser veduti. Ciò che da noi chiamasi tragedia, è un misto mostruoso di gonfiezze insieme e di bassezze buffonesche, ignorando i nostri autori le più comunali regole del teatro. La commedia è ancor più deplorabile, altro non essendo che una farsa grossolana ristucchevole per chiunque abbia fior di gusto, di buon {p. 290}costume e di politezza. La regina Sofia Carlotta tratteneva in Berlino l’opera italiana, il cui compositore era il celebre Bononcini; e da quel tempo cominciammo a contare qualche buon musico nazionale. Erasi in corte introdotta una compagnia comica francese che rappresentava i componimenti di Moliere, di Cornelio” ecc.

Ed in fatti dopo la Dafne di Opitz, e l’Elena e Paride rappresentata in Dresda nel 1650 s’introdusse tra’ Tedeschi il gusto dell’opera, ed ogni principe dell’Imperio volle avere una sala d’opera musicale. Una se n’eresse anche in Amburgo. Pensarono poi a formarsi un’ opera nazionale; ma sia per debolezza di coloro che ciò tentarono, ovvero sia per l’indole dell’idioma, essi riuscirono così infelicemente, che atterriti dalle critiche tralasciarono di più comporre opere tedesche. Così l’opera italiana e la commedia francese furono i soli spettacoli ammessi nelle corti de’ principi Alemanni.

CAPO VI.
Teatro Inglese. §

Una potente convulsione nel cominciar del secolo XVII giva agitando gli umori del corpo Britannico sempre disposti a ribellarsi, {p. 291}e minacciava un prossimo sconvolgimento nella costituzione. La corte movea diverse molle per allargare i confini della prerogativa reale, ed i parlamentarj pieni di grandi idee di libertà e di uguaglianza Presbiteriana, ambivano di annientarla. Crebbe il male in guisa che si vide con orrore un buon re sentenziato da’ rei vassalli passar dal trono al palco, e lo stato che soffrir non volle nel re legittimo un’ autorità soverchia, si trovò effettivamente schiavo sotto gli speciosi nomi di repubblica e di protezione. Cromwel cassò con insolenza il parlamento, e ne convocò un altro composto de’ suoi parziali scelti fra il popolaccio, detto per derisione il parlamento di barebone, cioè osso spolpato. Tra gli atti di tal parlamento trovansi dichiarate inutili e d’istituzione pagana le scienze e le università dove s’insegnano.

Quanto al teatro la nazione sin dal regno di Carlo I avea cominciata una guerra letteraria che durò dieci o dodici anni, altri sostenendo gli spettacoli scenici, altri contro di essi scagliandosi. I Puritani volevano estirparli. Pryne gli perseguitò col suo Histriomastix, mettendo alla vista le mostruosità e le indecenze de’ drammi Inglesi. Queste contese e la gran rivoluzione avvenuta nella costituzione dello stato impedirono il progresso della drammatica sino al ritorno di Carlo II. Fiorì qualche scrittore {p. 292}nelle intermissioni delle pubbliche turbolenze.

Beniamino Johnson nato verso il 1575 e morto nel 1637, occupò il posto di poeta regio, benchè per qualche tempo avesse esercitato il mestiere di muratore. Il genio che l’inclinava allo studio ed alla poesia, gli tolse di mano la cazzuola, e lo trasportò al teatro colla protezione del Shakespear. Scrisse tragedie e commedie; e tralle prime si tennero in gran pregio la Caduta di Sejano rappresentata nel 1601 e la Congiura di Catilina pubblicata nel 1608; e tralle commedie si ammirarono il Chimista e la Volpe. Ogni uomo ha il suo carattere può dirsi che sia piuttosto una raccolta di ritratti che una commedia ben tessuta. Vi si trova fra gli altri dipinto un geloso che non vuol parerlo. Johnson riuscì più nelle commedie, a segno che si ebbe pel più eccellente comico dell’Inghilterra. Nelle tragedie nè osservò le regole del verisimile nè si si guardò dalla comica mescolanza. Egli a differenza del di lui protettore, avea una profonda conoscenza degli antichi, e gli copiava con molta franchezza, il che si osserva nel Sejano e nel Catilina; ma secondò il carattere degli spettatori, e trascurò l’esattezza degli antichi, contento (come diceva nella prefazione del Sejano) di rispettar la verità della storia, la dignità de’ personaggi, la gravità dello stile e la forza {p. 293}de’ sentimenti. Egli non meno del Shakespear scrisse molti drammi indegni di lui: con questa differenza che a Shakespear anche nelle cattive composizioni scappano fuori certi tratti inimitabili, ma Johnson dove cade non mostra traccia veruna di sapere o d’ ingegno.

Guglielmo d’Avenant successore di Ben Johnson coltivò parimente la poesia tragica; ma essendosi ricoverato in Francia, dove osservò lo spettacolo dell’opera in musica, volle introdurla nel teatro nazionale. A tal genere appartiene la Circe componimento del di lui figliuolo Carlo. Giacomo Shirly cattolico scrisse più d’un componimento teatrale. Lo storico Guglielmo Abington pubblicò una tragicommedia. Il famoso Milton diede al teatro il Licida ed il Sansone agonista che non si diede alla luce prima del 1671, e che poi si convertì in oratorio musicale con qualche cambiamento. Prima però verso il 1634 avea egli composta la famosa Maschera intitolata Comus, produzione bizzarra, che a guisa dell’opera dava luogo in un tempo al ballo ed al canto, di cui parla Paolo Rolli nella Vita del Milton, esponendone l’argomento, e comendandone la sublimità, di che non ci fa dubitare il di lui ingegno. E’ però strana cosa, ch’egli avesse voluto accozzare in un sol componimento personaggi allegorici, Angeli, Najadi, Bacco, Giove, {p. 294}Eufrosine, in somma le divine e le umane cose, la religione Cristiana e il gentilesimo, la sublimità e la bassezza.

Dal 1660 nella corte brillante di Carlo II amante della poesia e de’ piaceri cominciarono gli spettacoli teatrali a coltivarsi con novello ardore. Illustrò allora le scene inglesi l’eccellente attore ed autore tragico e comico Tommaso Otwai morto nel 1685 di anni 34. Passano per le migliori sue tragedie Venezia salvata e l’Orfana. Nella prima però i caratteri più importanti sono alcuni ribelli e traditori, i quali fanno vedere le più belle qualità per affrettare la ruina del loro paese, che nell’imprenderne la difesa gli avrebbero fatti ammirare come grand’uomini. Raccontasi che la famosa attrice madamigella Barry rappresentando la parte di Monima non mai pronunziava senza piagnere queste parole: ah povero Castalio! Tutti in effetto riconoscono in Otwai un’ arte sopraffina di esprimere le passioni nella tragedia e di pignerle con tutta naturalezza, e sovente di eccitare la commozione più viva. Il di lui credito pareggiò quello di Shakespear; e gl’ Inglesi vollero in questo ravvisare un Cornelio per la sublimità, ed in Otwai un Racine credendo di vedere in lui pari tenerezza ed eleganza, titoli, come ben dice l’ab. Andres dispensati con troppa prodigalità. Voltaire confrontò alcuni passi della {p. 295}nominata di lui tragedia l’Orfana con quelli del Mitridate del Racine, e ne mostrò la gran distanza svantaggiosa all’autore Inglese. Riuscì Otwai più nel tragico che nel comico; ma non fu meno irregolare degli Spagnuoli nell’ uno e nell’altro genere, nè meno di loro gli confuse.

Anche Giovanni Dryden nato di una famiglia cospicua nel 1631, il quale divenne Cattolico sotto Giacomo II, e morì nel 1701, ebbe il titolo di Racine dell’Inghilterra senza meritarlo più dell’Otwai125. A me anzi parve, e pare ancora più simile a Lope de Vega, tanto per la varietà, la copia e l’irregolarità de’ componimenti, quanto per aver come Lope compresa la delicatezza dell’arte senza seguirla. E sebbene egli ceda di gran lunga al poeta spagnuolo per fecondità, non per questo diventa minore ne’ punti additati la loro rassomiglianza. Egli meritò gli elogj del celebre Alessandro Pope. Voltaire diceva che {p. 296}Dryden autore più fecondo che giudizioso avrebbe goduto di un credito senza eccezione scrivendo la decima parte delle opere che lasciò; e se le avesse scritte (poteva aggiugnere) più a seconda dell’arte che non ignorava che del gusto del suo paese che volle secondare. Niuno certamente meglio di Dryden comprese allora tutta la delicatezza della drammatica, e niuno la trascurò più di lui. Scrisse commedie e tragedie ed anche una specie di opera intitolata la Caduta dell’uomo nella quale pose in azione il Paradiso perduto.

Il traduttore di Giovenale Tommaso Shadwell morto nel 1693 compose pel teatro comico dopo di aver letto Moliere. Il di lui Avaro è una traduzione ampliata della commedia francese, in cui Shadwell non trovava azione sufficiente per le scene inglesi. Egli volle distenderla con fatti e personaggi episodici, e la rendette meno rapida e ne fe sparire l’unità. Moliere (egli scrivea millantandosi) nulla ha perduto passando per le mie mani. Ma i lineamenti forti e grossolani del suo Goldingam accozzati colla finezza de’ tratti d’Arpagon formano veramente una dipintura assai men bella della francese, e men naturale di quella di Don Marcos Gil dello spagnuolo La-Hoz. L’azione dell’Avaro inglese passa in Londra, ma in luoghi diversi. Secondo il gusto della nazione Shadwell introduce meretrici, {p. 297}ruffiani, dissoluti; e nell’imitarli la sfacciatezza è posta in tutto il suo lume. La satira e l’oscenità sono le note caratteristiche de’ poeti comici Inglesi.

Le commedie più graziose di tutto il teatro inglese, per avviso di Voltaire, sono quelle che scrisse il cavaliere Van-Brough architetto grossolano e poeta comico delicato morto nel 1704. Egli non meno che Congreve vollero opporsi ma con poca riuscita al Collier che nel 1698 produsse contro il teatro inglese il suo Quadro dell’empietà e dell’ irreliglone.

Ma il celebre Wycherley sì caro alla duchessa di Cleveland favorita del re, e marito della contessa di Drogheda, il quale morì l’anno 1715, fu senza contrasto il miglior comico di quel tempo nell’Inghilterra. Uomo d’ ingegno, osservator sagace e spiritoso dipintore, ritrasse al naturale i costumi di quella corte, copiandone le ridicolezze e le bassezze con forti colori. Le sue commedie hanno invenzione, interesse e stile proprio per la commedia. Sono ancor regolari, e se la scena non è rigorosamente stabile, si circoscrive ne’ luoghi della città di Londra. E’ da notarsi che a’ suoi dì già sulle scene inglesi si satireggiavano i nobili e i titolati. Nell’atto II della sua Donna di contado così favella un nobile sciocco che ha timore delle sferzate comiche. “Si contentavano prima gli autori {p. 298}drammatici di trarre i loro personaggi ridicoli dal ceto de’ servi; ma questi baroncelli oggidì cercano i loro buffoni fra’ gentiluomini e cavalieri; di modo che io da sei anni vo’ differendo di prenderne il titolo per timore di esser posto in iscena e di farvi una figura ridicola”. Seguendo l’indole della commedia inglese le pitture di Wycherley sono forti, oscene, e satiriche. Nell’atto V della medesima commedia dice un cavaliere dissoluto a una dama: “Grande era in me l’appetito delle vostre bellezze, ma grande altresì il timore che mi cagionava la vostra riputazione. La nostra riputazione (ripiglia Miledy)? Dovevate anzi pensare che noi altre donne al pari degli uomini ci serviamo di questa maschera per ingannare il pubblico. La nostra virtù, amico, è come la buona fede di un politico, la promessa di un quakero, il giuramento di un giocatore, e la parola e l’onore de’ grandi”. Questa commedia è ben condotta, ma il suo argomento che consiste in un cavaliere dissoluto che per ingannare i mariti di Londra fa correr voce di essere stato in una malattia fatto eunuco da’ cerusici, i di lui progressi con tal pretesto, Lady Fidget che nell’atto IV esce col catino di porcellana che ha guadagnato, l’azione ed i discorsi dell’atto V, tutto ciò, dico, punto non cede in oscenità alla greca commedia antica, e talvolta la sorpassa {p. 299}(Nota V). Le altre di lui commedie più pregiate sono l’Amore in un bosco rappresentata in Londra nel 1672, il Gentiluomo maestro di ballo, e l’Uomo Franco tradotta e imitata da Voltaire nella Prude o Gardeuse de cassette. Il carattere dell’Uomo Franco rassomiglia al Misantropo di Moliere, cui però cede in finezza e decenza, benchè l’avanzi in movimento e interesse. A questa commedia chiamata in inglese Plain Dealer molto dovè Wycherley. Giacomo II uscendo soddisfatto della ripetizione di questo dramma composto sotto Carlo II, richiese di colui che l’avea scritto; ed intendendo che da sette anni si trovava in carcere per non aver modo di soddisfare i suoi creditori, spontaneamente ordinò che si liberasse, se ne pagassero i debiti, e si provvedesse con una pensione alla di lui sussistenza. Bello e consolante esempio se non fosse così raro.

I soprallodati comici Inglesi, parlando in generale, non mancano nè d’ invenzione, nè di fantasia, nè di forza, nè di calore, nè di piacevolezza. Ma si desidera in essi la scelta, la venustà, la decenza richiesta nella dipintura de’ costumi, per cui Terenzio tanto sovrasta a’ suoi posteri; l’ unità di disegno nel tutto, e la verità e l’esattezza e la precisione nelle parti; il motteggiar lepido e salso, pungente ma urbano alla maniera di Menandro che ammiriamo {p. 300}nell’Ariosto; la grazia, la naturalezza e le pennellate sicure del Machiavelli che subito caratterizzano il ritratto; la vivacità, il brio comico di Moreto; e finalmente il gusto, l’amenità, la delicatezza inarrivabile nel ritrarre al vivo i caratteri e le ridicolezze correnti che danno a Moliere il principato su i comici antichi e moderni.

Noi ci accingiamo nel seguente libro a divisare in quale stato questo gran comico trovasse in Francia la commedia, ed in quale la tragedia il maggior Cornelio.

{p. 301}

NOTE DI D. CARLO VESPASIANO126. §

Nota I. §

Il Nasarre non sarebbe stato forse indotto dal folle orgoglio nazionale a pronunziar seriamente tali scempiaggini, se {p. 302}avesse riflettuto, che per le continue guerre e inquietudini ch’ebbe la Spagna per lo spazio di quasi otto secoli cogli Arabi conquistatori, l’ ignoranza divenne così grande in quella Penisola, e tanto si distese, che nel 1473, come apparisce dal Concilio che nel detto anno, per ripararvi si tenne dal cardinal Roderigo da Lenzuoli Vicecancelliere di S. Chiesa e Legato a latere di Sisto IV (V. Mons. Perrimezzi tom. I Dissertazione Ecclesiastica IV, pag. 100), e come attesta parimente il Mariana (lib. 23 apud Spondan.) tra’ Sacerdoti pochi intendevano il Latino, pauci latine scirent, ventri gulæ servientes. Avrebbe certamente quel bibliotecario parlato con maggior circospezione, se si fosse anche ricordato di ciò che si narra da tanti scrittori (V. il P. Coronelli Bibl. tom. III pag. 1317), cioè che Antonio di Nebrixa nato nell’Andalusia al 1444, dopo aver fatto per poco tempo i suoi studj in Salamanca, non ben soddisfatto passasse nell’Italia, e fermatosi lungamente nell’Università di Bologna, dopo essersi renduto ben istruito non men nelle lingue che nelle scienze ritornasse alla sua patria, richiamato, come vogliono, dall’Arcivescovo di Siviglia Guglielmo Fonseca (Istor, della Chiesa tom. III, sec. XV, n. 8) cogli acquisti fatti della dottrina Italiana; e leggendo per un gran pezzo in Salamanca, non ostante l’ opposizione degli Scolastici che di favorir la novità l’accusarono, inspirò a’ suoi nazionali l’amor delle lettere, onde fu caro al Re Cattolico, che lo volle perciò in Corte per iscrivere la sua storia, e fu dal Cardinal Ximenes impiegato nell’edizione della Bibbia Poliglotta, e di poi alla direzione dell’Università di Alcalà di Henares, ove si morì nel 1522, e lasciò molte opere. Il medesimo anche si dice che fatto avesse Ario Barbosa (V. Nic. An tonio {p. 303}Bibl. Hisp.) nato in Aveiro nel Portogallo, il quale fu discepolo del Poliziano in Firenze, e fecevi gran profitto, e dopo lesse ancora egli in Salamanca per lo spazio di venti anni in compagnia del Nebrissense, e passato in Portogallo fu Maestro de’ due Principi, e morì decrepito in sua casa nel 1530 con lasciar varie opere. Laonde a questi due dotti uomini dirozzati ed ammaestrati in Italia dee la Spagna tutto l’onore di aver da’ suoi cacciata l’ignoranza in cui erano immersi. Del resto pur troppo vero si scorge in non pochi Spagnuoli ciò che di essi generalmente afferma M. Baillet: Si l’on en croyoit ceux du pais, il ne s’en trouveroit point parmi ceux des autres nations qui les auroient surpassés, & fort peu même qui les auroient égalés; mais il faut considerer cette opinion plutôt comme un veritable sentiment de tendresse pour leur patrie, que comme un jugement fort sain ou fort sincere.

Contro di questa mia nota volle scagliarsi l’apologista Lampillas nel tom. I della P. II del Saggio Apologetico, attribuendola per abbaglio al mio dotto amico il Dottor Napoli-Signorelli. E perchè tanto gl’ incresce la storia? Quel che vi si avanza, specialmente dell’ignoranza provata de’ Sacerdoti Spagnuoli sino al XV secolo, è fondato, come ognun vede, sulle cure presene per distruggerla da tutto un Concilio Matritense, e sul testimonio del celebre Storico Mariana. Ora il Sig. Lampillas ha egli per avventura distrutte queffe testimonianze nazionali lampanti, imparziali, irrefragabili? E se non l’ha fatto, a che tante ciance? A che accozzar un capriccioso e fallace raziocinio ed ascriverlo all’autor della Nota? Poteva (dice poi il medesimo apologista) nel principio del XVI secolo uno spagnuolo insegnare agl’ Italiani a scrivere {p. 304}commedie, tuttochè uscisse da un paese barbaro ancora nel XV. Poteva, sì, accordiamolo; è ciò un possibile, benchè troppo raro; ma un possibile gioverà mai contro il fatto? Io veggo però un altro possibile incomparabilmente più comune, e naturale, cioè, che il Nasarre ignorasse o dissimulasse la barbarie della Penisola verso il principio del XVI secolo (alla quale non mai derogheranno nè tre nè quattro scrittori che altri potesse citare), e spacciasse un fatto passato solo dentro del suo cervello, cioè che ne fosse sbucciato un autore spagnuolo che, usando nelle insipide sue commedié un latino barbaro e un pessimo italiano, calato fosse ad insegnare a scrivere commedie ai maestri de’ Nebrissensi e de’ Barbosi, agl’ Italiani, che, come bene osserva l’A. di questa eccellente Storia teatrale, già possedevano le comiche produzioni de’ Trissini, degli Ariosti, de’ Machiavelli, de’ Bentivogli.

Nota II. §

Avvegnachè la prima Accademia scientifica de’ Segreti della Natura fosse stata formata in Napoli nel secolo XVI (V. il dotto ab. Gimma nella sua Italia letterata pag. 479) da Giambatista della Porta fertile ed elevato ingegno, pregio delle scienze e delle arti, onore dell’Italia non che del Regno, pure fassene quì menzione, perchè parecchi individui di essa col loro capo vissero nel XVII, e furono aggregati nell’Accademia de’ Lincei instituita in Roma l’ anno 1603 dallo scienziato principe Federigo Cesi Duca di Acquasparta, il quale con raro immortale esempio (secondo l’eruditissimo ab. Amaduzzi Discorso filosofico sul fine e sull’utilità delle Accademie) la sua casa e le sue sostanze per essa consacrò, e di Museo, di Biblioteca e d’Orto Botanico generosamente l’arricchì. Di quest’Accademia che durò per anni 27 sino alla {p. 305}morte del lodato Principe accaduta nel 1630, veggasi Jani Planci Lynceorum Notitia premessa alla nuova edizione del Fitobasano di Fabrizio Colonna fatta in Firenze nel 1744 presso il Viviani.

L’Accademia del Cimento che diede norma e regola alla Reale di Londra, ed a quella delle Scienze di Parigi, fu istituita l’anno 1657 dal Principe Leopoldo de Medici, e cessò nel 1667.

Quella degl’ Investiganti si formò in Napoli verso il 1679 dal Marchese di Arena Andrea Concubleto nella propria casa, come accenna il Gimma pag. 483.

La privata Accademia degl’ Inquieti nacque in Bologna l’ anno 1690, e si convertì poi nella si famosa dell’Istituto nel 1714.

I principj dell’Accademia Senese de’ Fisiocritici, al dir del prelodato Amaduzzi, furono fondati da Pirro Maria Gabrielli Lettore primario di Medicina Teorica e di Botanica nell’Università di Siena nel mese di marzo dell’anno 1691. Quindi nell’anno 1699 fu incorporata in questa medesima Accademia una Colonia dell’Arcadia di Roma.

La Società Scientifica Rossanese formossi in Rossano di Calabria l’anno 1695 per le cure del dotto ab. Gimma.

Nota III. §

Del Buonarrotti il giovane e de’ di lui drammi leggasi quanto ne dice il conte Mazzucchelli, a cui si può aggiugnere il giudizio, che della Tancia portò il Nisieli in questa guisa: Ridicolosa, accomodata e ingegnosissima invenzione mi par quella dell’ autor della Tancia commedia, ove per cori all’usanza delle antichissime commedie de’ Greci, inventò alcuni intermedj nel fine d’ogni atto, i quali contengono fragnolatori, uccellatori, pescatori, e mietitori, {p. 306}tutte persone opportunissime alla scena, e convenevolissime al subjetto rusticano. Per simigliante artifizio altrettanta lode merita il Lasca, il quale nella Gelosia commedia introdusse per intermedj, o per cori, satiri, streghe, folletti, e sogni. Le quali imitazioni, benchè estrinseche, non cedono al cori d’ Aristofane, anzi gli sopravvanzano di novità e di varietà.

Nota IV. §

Il ballo (son parole del chiar. Bettinelli nella Nota VII dell’Entusiasmo delle belle Arti tom. II) era pur esso un’ arte solo Italiana, e chiamavansi i nostri maestri in Francia e in Germania. Il Poeta antico Du Bellai al sonetto 32 dice, che spera, venendo in Italia, d’apprendere il ballo; e la Marchesa di Mantova andando in Baviera sua patria condussevi ballerini Italiani, siccome una rarità prima del 1500.

Nota V. §

“Wycherley (dice il sig. di Voltaire) ha tirato dalla Scuola delle Donne di Moliere questa singolare e troppo ardita commedia, la quale, se volete (ei soggiugne) non è scuola di buoni costumi, ma sì bene dello spirito e del buon comico”.