Pietro Napoli Signorelli

1790

Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome VI

2017
Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni di Pietro Napoli-Signorelli Napoletano, ed ultimo, tomo sesto, In Napoli, Presso Vincenzo Orsino, 1790, 304 p. PDF : Internet Archive.
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LIBRO IX.
Teatro Spagnuolo del secolo XVIII §

CAPO I.
Tragedie. §

Il sistema delle scene spagnuole non ha ricevuto alterazione sino alla metà del secolo. La nazione nè vide sulle scene nè più si ricorda di essersi impressa nel 1713 una traduzione del Cinna di Francesco Pizarro {p. 4}Piccolomini; e rammenta con giusto disdegno come un esempio di pazzia la goffa tragedia del Paolino alla moda francese uscita nel 1740, che Montiano stesso nomina coll’ultimo disprezzo. La gloria di aver prodotta la prima tragedia debbesi al nominato Agostino de Montiano y Luyando. Egli nel 1750 con un discorso istorico sulle tragedie spagnuole di tre secoli pubblicò la sua Virginia, e tre anni dopo l’Ataulpho non mai recitate nelle Spagne, e conosciute in Francia per essersi enunciate in un giornale. Il sig. Andres ci parla di una traduzione francese di tal Virginia, di cui a me finora non è riuscito di trovar vestigio. Regolarità, decenza, purezza di locuzione e scelta del verso endecasillabo sciolto all’italiana, formano tutto il merito di tali favole. Mancano poi di anima, di grandezza, di moto. Nella Virginia si esprimono con proprietà i caratteri di lei e di suo padre; ma nè proprietà nè verità apparisce in quello d’Icilio, quando nell’ atto III corteggia il Decemviro con umili espressioni proprie della moderna politezza spagnuola. Icilio Romano, repubblicano, popolare, rivestito una volta della tribunizia potestà, prende il linguaggio insignificante delle moderne cerimonie a guisa di un basso cliente:

Ya que la suerte quando no esperava
que pudiera ofrecerse tan propicia,
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me dà, señor, motivo de obsequiaros,
permitidme que atento y reverente
consigua el alto honor de iros sirviendo.

È poi da notarsi che ne’ primi tre atti Appio non dà indizio veruno di meditata violenza contro Virginia. Appena come innamorato da commedia si è raccomandato a Publicia; appena una volta ha parlato a Virginia senza trasporto e senza minacce. A che dunque tanto furore d’Icilio e tante declamazioni degli altri? L’azione e la violenza di Appio che occasiona la morte di Virginia, comincia nell’atto IV, ed i tre primi altro non sono che una lenta protasi. Pari lentezza si scorge ne’ primi tre atti dell’Ataulfo, e si protrae a una parte del IV. Le passioni in quest’altra non sono molto disdicevoli del genere tragico, ma vi si desidera la forza da’ Greci chiamata energia nemica di ogni soporifera languidezza. Forse sono esse indebolite dalle arti cortigianesche che vi campeggiano aliene dalla ferocità de’ Goti non da molto tempo avvezzi alla coltura che raffina gli artifizj. La favola sino all’atto V si aggira sulla delicatezza dell’amore di Placidia offeso da certe reticenze di Ataulfo, e su i sospetti di costui, de’ quali egli si querela più perchè offendono il suo amore, che perchè tema che possano nuocere allo stato. Queste diffidenze artificiosamente seminate da Sigerico {p. 6}ad impulso di una donna ambiziosa ritardano la pace ed insieme l’azione ne’ primi quattro atti. Sembra poi che ad un tratto nel V tutta svapori la ferocità e la tracotanza de’ congiurati a danno di Ataulfo. Manca adunque questa favola di quella savia graduazione che progressivamente crescendo conduca le passioni al punto da farne scoppiare l’evento tragico. È pure da riprendersi l’inverisimiglianza dell’ equivoco preso nella scena 8 da Rosmunda. Ella entra dicendo a Sigerico che l’attenda, nè torna se non dopo due lunghe scene, essendo partito Sigerico. Ella trova in di lui vece Ataulfo, e vedendolo per le spalle gli parla come fosse Sigerico e gli rivela con molte parole tutti i suoi disegni. Nè anche può piacere nel medesimo atto V che un Goto, un sovrano impetuoso soffra che un temerario vassallo alterchi con lui insolentemente, contentandosi solo di ripetergli più volte detente, calla calla, e ponendo inutilmente la mano sulla spada. Morto Ataulfo si spendono tre altre non brevi scene nello svenimento di Placidia, nell’uccisione di Vernulfo, nelle insolenze di Rosmunda e nella di lei volontaria morte, cose che doveano soltanto accennarsi in pochi versi per non iscemare o distrarre l’ attenzione ad altri oggetti che al gran misfatto dell’uccisione di Ataulfo. Lascio poi che l’istruzione morale che dee prefiggersi un buon tragico, {p. 7}non si scorge in tal tragedia quale esser possa. Le tragedie del Montiano indicano la regolarità nascente nella nazione, ma non gusto e spirito tragico.

Tenne dietro al Montiano il di lui amico Nicolas Fernandez de Moratin, e dopo dieci anni nel 1763 pubblicò la sua prima tragedia la Lucrezia verseggiata coll’ assonante, che però nè anche si rappresentò. Lotta in essa l’autore coll’ invincibile difficoltà di ben riuscire in siffatto argomento: vi frammischia certi amori subalterni riprovati dal gusto: e lo stile non si eleva abbastanza per giugnere alla sublimità tragica1. Scioccamente l’autore di un foglio periodico spagnuolo intitolato Aduana critica, ignorando che l’indole della poesia tragica è di abbellire utilmente e non già di ripetere la storia, pretendeva che Moratin avesse introdotto nella sua favola Bruto finto pazzo. Ma questa è la smania de’ {p. 8}follicularj famelici, voler dar legge di tutto tutto ignorando.

Sette anni dopo, cioè nel 1770 l’istesso Moratin fe rappresentare ed imprimere Ormesinda altra sua tragedia colla medesima versificazione, e la prima in questo secolo comparsa sul teatro di Madrid. Vi si vede lo stile migliorato, e più incatenato lo sceneggiamento. Ma presenta una eroina violata da un Moro che incresce oggi che si vuole una rigorosa decenza negli argomenti. Un racconto della battaglia di Tarif e Rodrigo (forse poco necessariamente congiunto all’avventura di Ormesinda) contiene diverse buone imitazioni Virgiliane. In ogni modo l’autore che fra’ suoi correva una via sì poco battuta, non meritava la persecuzione che sofferse d’inetti efimeri libelli e de’ motteggi del solito volgare scarabocchiatore di sainetti insipidi e maligni chiamato per soprannome el poetilla.

Con nobil coraggio l’indefesso scrittore non abbandonò per questo la tragica carriera, e nel 1777 diede alla luce la terza tragedia Guzman el bueno dedicata al duca di Medina Sidonia Don Pedro de Guzman el bueno discendente da quell’eroe. L’effetto di questa favola è l’ ammirazione che risulta dall’eroismo di Gusmano il quale preferisce la propria fede alla vita di suo figlio. Assediava il Moro con pochissima speranza la piazza di Tariffa fortemente difesa da {p. 9}Gusmano, quando il di lui figliuolo in una uscita rimane prigioniero. Il Moro propone al governadore di comprarne la libertà colla dedizione di Tariffa, o di vedergli mozzare il capo. Il padre trafitto dal dolore ma sempre eroe gli getta dalle mura la propria spada perchè esegua la minaccia. Benchè l’autore avesse divisa la favola in tre atti, pur si trovò in angustia e gli convenne ripetere qualche situazione o pensiero. La stessa necessità di darle una giusta grandezza l’obbligò ad un maneggio tra il Moro e l’assediato Gusmano ed a farli parlare l’uno dal suo campo l’altro dalle mura. Non bene apparisce in qual maniera avesse l’autore ideato il luogo dell’azione per rendere in tanta distanza verisimili tali conferenze, e specialmente tutto l’atto III. Ciò può nuocere alla verità, all’ illusione, al fine tragico. Ma l’eroico carattere di Gusmano è dipinto e sostenuto felicemente. Che risposta recherò al mio re? dice l’ambasciadore Moro nell’atto I; e Gusmano: che i Castigliani non rendono le fortezze finchè possono sostener la spada;

Ami.

Y de tu hijo?

Guz.

El Moro determine.

Interessa la scena dell’atto II, in cui Gusmano esamina il valore del figlio che ha conseguito un momento di libertà sotto la parola di tornar al campo nemico. L’autore {p. 10}si prefisse l’imitazione di una scena della Clemenza di Tito2. Temi la morte? dice Gusmano al figlio,

Confiesalo à tu padre que te estima;
no hablas ya con Guzman el riguroso,
nada sabrà el Alcayde de Tarifa.

In fatti la mancanza di coraggio non si potrebbe confessare che ad un padre. Di poi non senza bellezza ripete questa tinta con artificiosa variazione, e vuole che a lui fidi il di lui amore considerandolo solo come amico e militare, e non come padre severo:

Cuentaselo al Alcayde de Tarifa,
nada sabrà Guzman tu adusto padre.

Soprattutto chiama l’attenzione l’atto III, quando il re Moro mostra voler ferire il prigioniero incatenato sugli occhi del padre e sopraggiugne la madre. Le di lei lagrime, {p. 11}la costanza di Gusmano, la fierezza del Moro, la nobile rassegnazione del giovane Gusmano, formano una situazione tragica assai teatrale, che si risolve colla magnanimità di Gusmano che getta la propria spada al nemico. Intanto questa tragedia che compensa i suoi nei con varie situazioni teatrali e con un patriotismo che rileva un atto eroico della storia nazionale, non si è nè pregiata, nè premiata, nè rappresentata in Madrid.

La seconda tragedia che quivi comparve fu Don Sancho Garcia di Giuseppe Cadahalso y Valle d’illustre famiglia, la quale si recitò un anno dopo della rappresentanza dell’Ormesinda. L’ argomento tratto parimente dalle storie nazionali è proprio per eccitare il tragico terrore. Una contessa di Castiglia cieca d’amore per un principe Moro appresta il veleno al proprio figlio per rendere l’ambizioso amante signore di se stessa e del suo stato. Qualche verseggiatore del secolo passato avea scioccamente maneggiato quest’argomento, e il sig. Cadahalso volle rettificarlo trattandolo con arte, con decoro e in buono stile; ma la versificazione di due endecasillabi rimati perpetuamente per coppia produce qualche rincrescimento. Gli affetti della contessa combattuta da un eccessivo amore per l’avido Moro e dalla tenerezza materna, sono bene espressi. Solo vi ho sempre desiderato che {p. 12}la richiesta del Moro fosse preparata con più arte. Per prova di amore egli esige da una madre la morte dell’unico di lei figliuolo; ed in che fonda la speranza di conseguirlo? nella sfrenata passione che ha per lui la contessa. Ma non dovea il poeta riflettere che la di lei passione poteva scemare per sì cruda richiesta propria a scoprire tutta l’ambizione del Moro? Dovea dunque occultarsi meglio la di lui avidità di regnare in Castiglia sotto qualche altro colore che non indebolisse l’unica molla della di lui speranza. Per altro vi si osserva più di una scena di molta forza specialmente la quarta dell’atto II, in cui vedesi ben colorito il contrasto di una passione sfrenata colla tenerezza di madre. L’atto termina con quest’ottima riflessione della combattuta contessa:

Que lexos de la culpa està el reposo!
y que cerca del crimen el castigo!

Siffatta tragedia in una nazione che ne ha sì poche, dovea accogliersi, ripetersi, acclamarsi, e pure fu lo scopo delle maligne satire de’ piccioli rimatori. Maria Ordoñez già prima donna ne’ teatri di Madrid, morta alcuni mesi dopo, rappresentò non senza energia tanto la parte di Ormesinda quanto di Elvira nel Sancho. Il Cadalso autore di varie poesie, del piacevole libretto los Eruditos {p. 13}à la violeta, e di un’ altra tragedia inedita la Numancia, graduato colonnello terminò gloriosamente i suoi giorni l’anno 1782 nella trincea del campo di San Roque sotto Gibilterra3.

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Due anni dopo, cioè nel 1773 Don Tommaso Sebastian y Latre Aragonese pubblicò una tragedia rappresentata l’anno stesso, in cui pretese rettificare la favola di Francesco de Roxas Progne e Filomena. La {p. 15}buona intenzione ed il patriotismo dell’autore bramoso del miglioramento del teatro nazionale merita ogni lode. Ma il mezzo scelto di ripetere le antiche favole del patrio teatro col solo vantaggio di renderle più regolari, male secondò il di lui disegno. Nocquegli per avventura anche l’elezione di un argomento della rancida mitologia a’ nostri dì poco interessante, ovvero quel radicale ostacolo che oggi seco portano in teatro le deflorazioni e simili violenze, ovvero ancora la mancanza di novità e d’invenzione nelle situazioni e di spirito tragico e di sublimità nello stile.

Ignazio Ayala4 Andaluzzo regio professore {p. 16}di poetica in Madrid morto nella sua patria nel 1789, volle pure contribuire agli avanzamenti del teatro nazionale, di cui da più anni era censore. Egli pubblicò nel 1775 la Numancia destruida in cinque atti in endecasillabi coll’ assonante. La storia di sì famosa città è senza dubbio compassionevole, e basterebbe ad apprestar materia per un poema epico; ma nella guisa che si vede maneggiata dal sig. Ayala, divide per tal modo l’interesse colla distruzione di un popolo intero per mezzo della fame, del ferro e del fuoco, che invece di commuovere esaurisce il fondo della compassione senza fissarla a un oggetto principale, e non ottiene il fine della tragedia. L’erudito autore v’incastrò varj squarci di poeti antichi; ma vi si nota un dialogo elegiaco uniforme più che un’ azione tragica, e non poca durezza nello stile. Annojano parimente le frequenti declamazioni contro Roma, le quali a tempo e parcamente usate converrebbero a’ Numantini, ma colla copia e col trasporto manifestano troppo il poeta.

Tali cose da me dette nella prima storia {p. 17}teatrale dispiacquero in parte al prelodato bibliografo de’ viventi, e prese a giustificarne l’Ayala, che non pertanto dopo la pubblicazione del mio libro erami rimasto amico fino alla mia partenza da Madrid. Il dottor Guarinos punto non risentissi di ciò che accennai del dialogo uniforme ed elegiaco, e della durezza dello stile. Gl’ increbbe sì bene ch’io avessi reputato tale argomento più proprio per un poema epico che drammatico, come anche l’ osservazione sulle frequenti declamazioni intempestive e prodotte da un affettato patriotismo. La censura del Signorelli (dice il difensore) suppone pochissima riflessione sulla natura del poema epico e della tragedia. Secondo lui il poema ha sempre un esito felice, e la distruzione di Numanzia funestissima ad esso non conviene. Ma perchè tal distruzione non potrebbe avere un esito felice? Un encomiatore di Scipione non se ne varrebbe degnamente a gloria del suo eroe? e non sarebbe ottima materia benchè funestissima per un poema come io dissi? Ma è poi sicuro codesto bibliografo che il poema epico debba aver sempre un esito felice? Ciò essendo errò Omero che nell’Iliade si prefisse di cantar solo l’ira perniciosa (μηνιν ουλομενεν) di Achille che tanti dolori cagionò agli Achivi? Errò Stazio cantando la Tebaide, cioè le discordie fraterne ed il regno alternato combattuto con odj profani e scellerati? {p. 18}Errò Lucano nella Farsaglia cantando le funestissime guerre più che civili, la scelleratezza divenuta diritto, ed un popolo potente che converte la destra vincitrice contro le proprie viscere? Errò Milton nel Paradiso perduto facendo un poema eroico del funestissimo precipizio di tanti angelici cori? Se codesto Sampere non ha prestato come automato la bocca al fiato altrui nel compilar la sua gazzetta bibliografica, io l’esorto a provvedersi di più pure e chiare idee di poetica prima di altro scrivere. Ma venghiamo a più stretta pugna.

Perchè mai affermò il Signorelli che tale argomento nella guisa che l’ha trattato il sig. Ayala, mal conviene ad un dramma? Perchè (degni notarlo il patrocinatore de los menesterosos) una distruzione collettiva, vaga, generica di un popolo intero istupidisce i sensi, distrae a mille oggetti l’interesse, e non determina la compassione ad uno scopo principale per serbar l’unità dell’azione e del protagonista. Un poco più di filosofia gl’ insegnerebbe l’arte usata da’ tragici della Grecia nelle Trojane, nelle Fenicie, negli Eraclidi, nelle Supplici, ne’ Persi, nelle quali favole essi presero un oggetto principale per iscopo collocando quasi in lontananza il rimanente o serbandolo ad un coro. Lo spirito umano nella mescolanza delle tinte e de’ suoni non meno che nella moltiplicità mal graduata delle {p. 19}stragi rimane, diciam così, ottuso, rintuzzato, privo di sensibilità; là dove la tragedia esige energia ed elasticità per eccitar la commiserazione e conservar la sua natura e non convertirsi in flebile elegia o lugubre epicedio. Circa poi le declamazioni dice il protettor dell’Ayala che il Signorelli dovea farsi bien cargo della situazione de’ Numantini. Ma egli stesso no se ha hecho bien cargo di ciò che io dissi e ripeto, cioè che esse converrebbero a’ Numantini usate a tempo e parcamente, la qual cosa vuol dire in volgare che esse sono proprie di un popolo irritato contro Roma, ma non dovrebbero occupare il luogo dell’azione che è l’essenza del dramma; non risentire l’affettazione ma discendere naturalmente dalle situazioni; non essere come son quasi tutte una pretta borra intempestiva. Noi dimostreremmo subito e pienamente tutto ciò con imprimere l’intera analisi già scritta della Numanzia; ma ce ne distoglie lo spiacevole annunzio della morte dell’erudito autore; e ci saremmo contentati del semplice primo giudizio moderato che ne demmo senza gli stimoli del cattivo avvocato bibliografo. A lui dunque s’imputi se per renderlo avveduto del suo torto ne aggiugneremo alcuni tratti.

L’atto I è composto di due principali lunghissime scene. Nella prima s’imita l’apertura e l’oracolo dell’Edipo tiranno mostrandosi {p. 20}il popolo supplice all’ara del nume Endobelico e narrandosi con inutili circostanze un oracolo di Ercole Gaditano dato 14 anni innanzi, che però in niun modo si appressa alle bellezze del greco oracolo, essendone la rancida risposta nè semplice, nè interessante, nè necessaria all’azione. Terma sacerdotessa dipinge a lungo quel che tutti sanno, cioè la strage che fa la fame ne’ Numantini ridotti, mancate l’erbe e le foglie stesse degli alberi, a cibarsi di cadaveri. A questa lugubre scena ne segue una amorosa di sette pagine di Olvia ed Aluro che conchiude l’atto. Giudichi il leggitore se in tale argomento siasi convenevolmente inserito un languido amore subalterno che contrasta coll’immagine di un popolo che stà morendo di fame. E pur non è il peggior male un amor sì impertinente. Olvia innamorata vicina a morir di fame insieme coll’ amante e con tutti, di che si occupa singolarmente in questa scena? forse del prossimo esterminio della patria? no: ella pensa a vendicare certo suo fratello col sangue dell’uccisore che non sa chi sia. Ella poi mostrasi sorpresa da un nuovo doloroso pensiero. Aluro amante sì paziente vuol saperne la cagione, ed ella dopo di aver posto in contrasto l’amore ch’egli ha per lei con quello della patria, dopo di aver tenuto sulle spine l’ ascoltatore per altri ottanta versi, gli dice: senti la tua {p. 21}pena e la mia angustia; Giugurta . . ma viene Megara frettoloso, te lo dirò da poi; e finisce l’atto così, senza che niuno nè frettoloso nè a bell’ agio venga fuori. Essi partono; ma andranno uniti o disgiunti? se uniti non diranno più una parola di ciò che hanno incominciato? Ma non dubiti lo spettatore che Olvia dica altrove l’ arcano ad Aluro: il poeta ricondurrà l’una e l’altro nel medesimo luogo nel medesimo punto del loro discorso; ma bisogna attendere che passi tutto l’atto II. Notisi intanto che questa è una delle scene patetiche in cui Olvia delibera e risolve il sacrificio del suo amore, la quale ha riscosse tante lodi dal precitato bibliografo.

L’atto II incomincia con una scena della medesima Olvia con Aluro, e poi viene Megara, come si è detto nell’atto I; ma se quegli amanti non sono rimasti alla vista dello spettatore come Prometeo attaccato al Caucaso, essi, come partirono senza perchè, senza perchè son tornati. L’autore fa venire l’Affricano Giugurta come ambasciadore de’ Romani per la ragione ch’ egli è imparziale. Ma quest’imparziale che però milita tra’ Romani con diecimila soldati e venti elefanti, viene a consegnare il console Cajo Ostilio rimesso dal Senato; e per dare un’ altra pruova d’ imparzialità tradisce i Romani, e consiglia i Numantini a non accettarne la vile soddisfazione. Il leggitore sin dal {p. 22}principio scorgerà in questa favola una serie di minuti fatti spogliati della necessaria dipendenza che risveglia e sostiene l’ attenzione guidandola ad un oggetto grande. Il resto dell’atto s’impiega a proporsi qualche mezzo da cacciar la fame. Non vi sono più cadaveri, e si pensa a tirare a sorte tra’ vivi chi debba morire per alimento de’ superstiti. Si propone ancora che si ammazzino i vecchi per prolongar la vita de’ giovani. Un popolo ridotto nell’atto II a tanta estremità mostrerà nel proseguimento quel necessario progressivo incremento dell’azione? Il poeta ha bisogno di Megara in tale occasione, e lo fa tornare. Egli vuol essere incluso nella sortizione, cui resiste Dulcidio per questa ragione: perchè tocca solo a Roma il discacciar per politica i suoi Tarquinj. Questo pensiero eterogeneo aumenta o agghiaccia il patetico espediente proposto? Dovea il buon sacerdote risalir col pensiero sino a’ Tarquinj? V’è analogia tra Megara capo e difensore amato di Numanzia, per la quale vuol morire, con Tarquinio re tiranno, oppressore, abborrito dal suo popolo? Dicaci il sig. bibliografo: quì è forse la situazione de’ Numantini che eccita Dulcidio a declamar contro i Romani, ovvero è questa una scappata del poeta che vuol comparire tra’ personaggi?

Eccoci all atto III in cui Olvia viene con Aluro a soddisfare alla promessa fattaci {p. 23}nell’atto I e rimasta sospesa sino a questo punto. Essi trattengonsi in tre soli versi sulla picciola bagattella del tirarsi a sorte chi dee morire, dovendosi occupare per cinque intere pagine in un più grave affare. Olvia dunque palesa al suo idolatrado Aluro che Giugurta preso di lei promette di passare in Numanzia colle sue schiere, purchè ella l’accetti per isposo; e gli chiede consiglio su di ciò. Questa situazione rimane priva dell’usato effetto di simili dolorose alternative per essere mal combinata. I Olvia può disporre di se stessa senza intelligenza del fratello capo della repubblica? può ammettere dentro la città diecimila stranieri senza saputa del principe? II Olvia ha considerato che diecimila persone vogliono mangiare, e che Numanzia manca pur di cadaveri da ripartire co’ nuovi socj? III Olvia ignora che oggi la salute della patria non dipende dal minorar le forze nemiche, ma dal provveder di nutrimento i Numantini? ignora che le utili conseguenze dello scemamento degli assalitori sono assai più lente de’ funesti rapidi progressi della fame? IV Olvia è sicura poi che tal diserzione sia sincera e che non possa essere uno stratagemma? è sicura in oltre che la salute della patria dipenda da Giugurta ancorchè fido? e che altro spererebbe Olvia se avesse pattuito collo stesso Scipione? Anche questa scena fondata in ipotesi tutte false {p. 24}e mancante d’interesse e di grazia sembrò pregevole al bibliografo encomiatore. Stanno poi in essa assai bene ed accomodate allo stato de’ Numantini ridotti a mangiarsi l’un l’altro le care espressioni di Aluro: addio, Olvia, col tuo nuovo amante vivi felice (morendo di fame?) e le risposte della savia e tenera Olvia. Dulcidio annunzia al figlio Aluro che dee morire essendo il di lui nome uscito dall’urna. Piange con lui per due pagine intere, dopo le quali si ricorda di dire che vuol morire in di lui vece. Gareggiano su di ciò; ma tutto dee sospendersi, perchè Scipione viene a trattar di pace. La fame Numantina discretamente vi si accomoda. Scipione senza ostaggi da pessimo capitano mettendo a rischio la sorte dell’armata e la speranza di Roma viene a parlare in mezzo a’ nemici disperati i quali incolpano i Romani di tradita fede. In questa conferenza tutta declamatoria Scipione soffre con indicibil bassezza le ingiurie del Numantino, e questi insolentisce quasi altro oggetto non avesse che d’irritar gli assalitori. E questa scena inutile e cattiva viene anche prescelta come eccellente dal savio bibliografo.

Nell’atto IV quando dovrebbe l’azione accelerare il suo moto mirando al fine, si vede tornare indietro, e si consumano tre lunghe scene a ricordare ed esagerare un antico tradimento fatto da Galba a’ Numantini, {p. 25}facendosi divota commemorazione delle ossa sacrosante reliquie venerabili di Spagnuoli assassinati. Può lodarsi simile distribuzione di materiali? Megara partendo dice ad Olvia, observa esta parte, ella resta a far l’uffizio di sentinella, e Giugurta la vede sola e viene a parlarle; di maniera che i nemici colla facilità di un attore che esce al proscenio potevano penetrar fra’ Numantini. Or chi non ne conchiuderà che erano due inettissimi generali Megara che sì male guardavasi dalle sorprese, e Scipione che non sapeva approfittarsi delle negligenze? Incongruente è pure l’abboccamento di Giugurta con Olvia. Ella le dice che passi co’ suoi a Numanzia, mentre ella l’attenderà presso di un sepolcro che si eleva più degli altri, e gliel’ addita. Sì, sì (ripiglia lo stupido Giugurta) colui che vi giace fu da me ucciso, e perchè spirando ti chiamava in soccorso, io m’innamorai di te. Balza agli occhi l’inezia dell’origine del suo innamoramento e la balordaggine di vantarsi di un fatto che poteva averla offesa. Olvia sdegnata lo discaccia, indi vuol che impugni la spada; egli fa a suo modo e parte. Un andare e venire de’ personaggi senza perchè empie le scene 6, 7 ed 8. Terma dà avviso a Dulcidio che Olvia se disfraza (si traveste); Dulcidio la vede venire e la conosce subito. Ella viene con algun disfraz (che si lascia al discreto lettore) e va {p. 26}esclamando, o cenizas infaustas (o ceneri infauste) colla stessa grazia della Tomiri di Quinault che va cercando per terra ses tablettes. Dulcidio l’esorta a sposar Giugurta per corrispondere a un tempo

À amante, à patria, al padre i al hermano

verso eccellente per grazia, per numero e per regolarità, come ognun sente. Olvia dopo un contrasto inutile di cinque pagine, in cui Dulcidio la chiama boja della patria e ramo indegno della sua stirpe, si rende, e gli dà la propria spada da mandarsi a Giugurta per segno di pace, geroglifico veramente mal sicuro, ma che l’ Affricano riconoscerà subito essere di Olvia per compiacere al poeta. Dulcidio è il più savio sacerdote del mondo; egli ha persuasa Olvia, ha spedito un soldato a Giugurta senza saputa del generale, si è trattenuto sull’affare per cinque pagine, ed al fine si ricorda di domandare ad Olvia, se Megara sappia nulla del trattato. No, ella risponde, ho taciuto per timore e per vergogna, perchè (notisi il di lei sapere politico) chi comanda ama di veder eseguite certe cose che sapute prima egli non permetterebbe che si tentassero. Da tale ragione rimane persuaso il dolce Dulcidio.

Annotta nell’atto V, e Giugurta al solito {p. 27}va e viene liberamente dal campo Romano al Numantino senza che Megara abbia mai saputo prevedere simili visite nemiche. Olvia viene parlando sola a voce alta, perchè l’ode lo spettatore e Giugurta che dice

Olvia es, i su espada me asegura.

Viene anche Terma, e più fina, a dispetto della notte e della mascherata di Olvia e senza udirne la voce, la raffigura e la rimprovera. Giugurta poi che avea udito Olvia che parlava sola, ora non ode più ciò che dicono l’una e l’altra. Terma vuol sapere in ogni conto i disegni della sorella, e questa che gli ha comunicati a Dulcidio e ad Aluro ed ha fidata la sua spada al soldato, si guarda gelosamente della sorella. Giugurta si ritira nè per altro motivo se non perchè Olvia dee dire a Terma una inutile bugia. Le dice dunque che si è travestita per uccidere Giugurta. Stando altercando esce Aluro in tempo che Terma dice, refrena tu furor, ed egli ciò udendo dice, questa che parla è Olvia, certamente questo è inganno di Giugurta. Aluro non distingue la voce della propria innamorata da quella di Terma, due persone a lui sì note? Due voci femminili poi senza veruna circostanza possono svegliargli l’idea di un nemico che a quell’ora dovrebbe essere nel {p. 28}campo de’ Romani? Viene per quarto Dulcidio, e benchè di notte riconosce Aluro, che pur avea confuso un Affricano con la sua innamorata. Megara ti attende, dice Dulcidio al figlio, e questi differisce di obedire per ammazzar prima Giugurta. Parte Dulcidio, e seguitando le donne a contrastare, Terma dice, Numantinos; ed Aluro seguita a crederla Olvia, e ferisce l’altra da lui mattamente creduta Giugurta. Olvia ferita grida, ai de mi; non importa; Aluro non dee conoscerla per altri che pel traditore Giugurta. Torna Dulcidio con fiaccola accesa, ed Olvia spira mentendo con dire ch’ella amava Giugurta, quando lo spettatore sa ch’ella amava Aluro, e l’autore ne ha condotto sì destramente il carattere e l’ affetto, che il di lei sangue non muove veruna compassione tragica. Se questi garbugli notturni, questi languidi amori e questa mascherata stieno bene colla distruzione di Numanzia, se ne lascia al leggitore il giudizio. Seguitando apparentemente la notte Megara che ha saputa la disfatta de’ Luziani ausiliarj e la debolezza de’ Vasei che si sono dati a’ Romani, chiama al campo di Scipione come alla porta di una casa vicina. Gli risponde un soldato, cui egli dice: giacchè la tenda di Scipione stà vicina (verisimilmente nè la notte nè le trincere gliene impedivano la veduta), ditegli che vo’ parlargli. Che pretendi, Numantino? {p. 29}dice Scipione affacciandosi. Megara lo riconosce subito alla voce, quando gli altri suoi parenti e seguaci di orecchio più duro non hanno saputo distinguere le voci delle di lui sorelle. Domanda o che gli assalti o che mandi le legioni a trucidarli. A questa richiesta senza sale Scipione risponde, spada o catena, gettandogli l’una e l’altra. Ma i Numantini determinati a morire abbisognano del consenso di Scipione? Non possono essi stessi assaltar le trincere e morir nell’impresa? I valorosi Numantini della storia riescono nella tragedia inetti, cicaloni, insensati. Risolvono al fine di uccidersi fra loro, e poi si vede il tempio e la città incendiata. Mentre Numanzia arde, Megara predica recitando più di cento versi or declamando sulle discordie della Spagna, ora esitando nel voler dar morte ad un suo figliuolo che non prima di allora comparisce e va a precipitarsi nelle fiamme, come fa lo stesso Megara ma non prima di aver recitati altri cinquanta versi. Così termina la tragedia di Numanzia distrutta, il cui piano tessuto per quattro atti e mezzo di episodj mal connessi e di freddi amori sconvenevoli e intempestivi abbiamo voluto esporre agli occhi imparziali del pubblico. Vedrà per se questo supremo giudice, se nel 1777 siasene portato un moderato giudizio, e se dovea rincrescere al moderno bibliografo. Vedrà ancora se alla Numanzia dell’Ayala {p. 30}convenga ciò che ne disse il sig. Andres, cui piacque di collocarla in ugual grado col Sancho del Cadalso con manifesto scapito di quest’ultimo, e di assicurare di non esser priva di calore e di spirito tragico.

Don Giovanni Giuseppe Lopez de Sedano compilatore del Parnaso Español accrebbe le tragedie del nostro tempo colla sua Jahel in versi sciolti in cinque atti, là dove la morte di Sisara appena darebbe materia a un oratorio di due parti. Quindi nasce la mancanza di azione e d’intreccio, e quella serie di lunghe dicerie e de’ sermoni di Debora. Non manca di regolarità e di qualche tratto lodevole: ma vi si desidera calore ed interesse. La maggior parte de’ personaggi introdotti, e segnatamente Haber e Barach, sono oziosi. Lo stile è diffuso, compassato, pesante, e sparso nel tempo stesso di formole famigliari e poco gravi, come questa della prima scena

Romper de mi silencio la clausura,

e quest’altre

Basto à quedar solvente de mi cargo,
Y aùn tal vez accreedor à gracias tuyas.

Lascio poi che tal favola non ha verun carattere, non eccitando nè compassione, nè terrore, nè ammirazione.

{p. 31}

Era inedita nel 1777 la Raquel tragedia di Vincenzo Garcia de la Huerta, ma s’impresse in Barcellona e in Madrid nel 1778. La Raquel (ci dice l’editore di Madrid) si compose quando uscirono la Lucrecia, la Hormesinda e le altre già riferite; dal che si vede che l’autore tardò a pubblicarla quindici anni in circa. Rileva di più l’editore, che se i Franzesi dividendo le favole in cinque atti hanno la libertà di abbandonar quattro volte la scena, l’autore della Rachele privandosi spontaneamente di sì comodo sussidio riduce a un atto la sua, perchè quantunque divisa in tre giornate, nè vi s’interrompe l’azione, nè da una giornata all’altra s’interpone tempo, la qual volontaria legge impostasi dal poeta, dà un singular merito à su obra. Conchiude l’editore che il piano della Rachele è pur sistema particolare del poeta, persuaso che ammaestra più e corregge meglio i costumi e diletta maggiormente il gastigo del vizio ed il premio della virtù, che la compassione. Sappiamo in oltre per mezzo del medesimo editore, che si rappresentò repetidas veces, e che ne corsero manoscritte più di duemila copie per America, Spagna, Francia, Italia, Portogallo5. Che che sia di ciò {p. 32}in Madrid si rappresentò solo quindici anni dopo che fu scritta, sostenendo la parte di Rachele la sensibile attrice Pepita Huerta morta nell’ottobre del 1779 nell’acerba età di anni 21 in circa; ma recitatasi appena due volte fu per ordine proibita. A chi non ne avesse veduta alcuna copia delle duemila che se ne sparsero per li due mondi, non increscerà di vederne quì il più breve estratto che si possa. L’ argomento e la condotta a un di presso è la stessa della Judia de Toledo del poeta Diamante da noi mentovata nel tomo IV, cioè la morte data da’ Castigliani a una Ebrea Toledana, di cui il re Alfonso VIII visse per sette anni ciecamente innamorato.

Giornata I. Apresi con un dialogo di Garceran Manrique ed Hernan Garcia, dicendosi che Toledo è in festa, perchè compie quel dì il decennio da che Alfonso VIII tornò da Palestina dopo aver dalle forze del Saladino tolto il Sepolcro di Cristo perduto dal francese Lusignano. Non so se ciò dica l’autore come storico o come poeta. So che {p. 33}nella terza crociata Riccardo re d’Inghilterra detto Cuordilione, e Filippo Augusto re di Francia, e Corrado marchese di Monferrato fecero guerra al Saladino soldano di Egitto e di Siria per ricuperar Gerusalemme tolta da questo Saracino nel 1187 a Guido Lusignano. So di più che nella difesa di Tiro si segnalò l’Italiano Corrado e distrusse due eserciti del Saladino, e co’ nominati re fece maraviglie nell’assedio di Acra o Tolemajde che venne in lor potere6; e che poi si accordarono col soldano, restando a Lusignano il titolo di re di Gerusalemme da passar dopo la di lui morte al prode Corrado. Ma in ciò altri non ebbe parte, e molto meno Alfonso VIII occupato sin da’ suoi più teneri anni al riacquisto delle terre Castigliane, tutte le operazioni in Terra Santa non avendo allora passato oltre del 1192, quando il re Filippo tornò in Francia, e il marchese di Monferrato fu assassinato in Tiro7. So ancora che il Saladino seguitò a possedere Gerusalemme col Sepolcro e colla maggior parte di quel regno, nè i Cristiani lo molestarono, finchè {p. 34}non vi andò Federigo II imperadore di origine Suevo, di nascita Italiano, e re di Sicilia e di Gerusalemme sin dal 1225, quando ne acquistò le ragioni per cessione di Giovanni di Brenna padre di Jolanta da lui sposata che era figlia ed erede di Maria primogenita d’Isabella figliuola di Amorico re di Gerusalemme8. Fu quest’imperadore e re di Napoli e di Sicilia che nel 1228 passò in Terra Santa, guerreggiò, conquistò il regno di Gerusalemme, ed aprì il Santo Sepolcro alla devozione de’ Cristiani; benchè per accordo fatto col Saladino fusse lasciato in mano de’ Saracini colà avvezzi ad orare senza escludersene i Cristiani9. So che a tale spedizione accorsero molte migliaja di fedeli dalla Francia, dalla Baviera, dalla Turingia, e spezialmente dall’Inghilterra, donde, secondo il medesimo abate Uspergense, ne vennero ben sessantamila. Ma niuno de’ citati cronisti ci dice che Alfonso VIII vi fusse andato con gli altri. Era egli troppo angustiato dentro di casa, e spogliato da’ Mori di Spagna {p. 35}e da quattro re Cristiani, cioè di Leone, di Portogallo, di Aragona e di Navarra. Ora se tutto ciò è storia non contrastata, perchè il sig. Huerta individuo dell’Accademia dell’Istoria afferma che Alfonso guerreggiò in Palestina e conquistò Gerusalemme e ’l Sepolcro? Non è questa una menzogna garrafal? Dirà che in una tragedia egli è poeta e non istorico. Ma niuno ignora che nelle circostanze istoriche delle persone introdotte e de’ fatti noti e sicuri il poeta non ha la libertà di mentire grossolanamente ingannando il popolo, benchè gli si permetta qualche discreto anacronismo. Omero non avrebbe decorato col reame di Persia l’Itacese Ulisse. Virgilio potè in tanta antichità avvicinare Didone ed Enea (quando anche non fossero stati quasi contemporanei, siccome dottamente ha preso a dimostrare il chiar. Andres); ma sarebbe stato incolpato d’ignoranza facendo quel pio Trojano padrone della Betica, o quella fondatrice di Cartagine regina di Numanzia o di Sagunto. Sofocle ridicolosamente avrebbe enunciato Edipo tiranno di Tebe come conquistatore de’ Turdetani o de’ Cantabri. Huerta ha commesso quest’ errore madornale perchè il poeta Diamante sua fida scorta vi era caduto prima.

Manrique aggiugne che Alfonso sette anni prima vinse i Saracini nella battaglia data en las Navas di Tolosa tra Sierra-Morena {p. 36}e Guadalquivir, la quale però fu posteriore alla morte di Rachele. Ciò potrebbe comportarsi, se per rendere cospicuo il carattere di Alfonso la storia non ci additasse altre sue splendi de vittorie riportate prima del suo innamoramento. In somma in tutta la scena Manrique conta false vittorie e Garcia gliele mena buone, sol che questi si lagna che sia il re divenuto schiavo di Rachele ed il popolo sacrificato,

De esa ramera 10 vil à la codicia.

I medesimi errori di storia ripete nella scena 2 Garcia a Rachele, la quale accoglie con fasto le adulazioni di Manrique e manifesta avversione per Garcia. Egli ne sprezza le minacce, dicendo che i suoi pari

Aquellos que en sangrientos caracteres
de heridas por su nombre recebidas
Ilevan la executoria de sus hechos
sobre el noble papel del pecho escrita.

In prima i Castigliani che in prosa ancora schivano con senno la vicinanza delle cadenze {p. 37}simili delle voci, udiranno con nausea il cattivo suono d’un verso sciolto rimato nel mezzo, come è il secondo, che con heridas recibidas diventa verso leonino. Di poi que’ caratteri sanguigni e quella carta di nobiltà scritta nel foglio del petto è un contrabando Gongoresco ridicolo nel secolo XVIII ed assai più nel genere drammatico11. Rachele resta con Ruben fremendo, e viene Alfonso irritato per le voci sediziose del popolo minacciando,

Tiemble Castilla, España, Europa, el Orbe,

e parte senza dar retta a Rachele che resta con Ruben in una seconda inutile sessione. Si vanno distinguendo le voci che cercano la morte di Rachele, la quale fugge all’avviso di Manrique. Alfonso che va e viene in quella sala senza sapersi perchè, torna frettoloso, intende che Garcia conduce i sollevati, e si sdegna e dice,

  su garganta
El hilo probarà de mi cuchilla
{p. 38}
centella de las nubes desprendida.

Una spada figuratamente può chiamarsi fulmine per esagerarne i rapidi funesti effetti; ma aggiugnere che questo fulmine, cioè questa spada siasi spiccata dalle nubi, è falsità di sentenza e maniera Gongoresca. Garcia si presenta al re, e gli dimostra che coloro che chiedono la morte di Rachele sono i più leali vassalli, quelli che l’accompagnarono in Palestina, che lo coronarono re di Gerusalemme (Alfonso ben poteva dargli una solenne mentita), che insieme con lui in Alarcos furono terrore degl’ immensi squadroni Affricani. Veramente nè anche le battaglie date in Alarcos si nominano con tutto il senno, perchè quivi appunto Alfonso superiore di truppe, d’esperienza e di valore fu pur da’ Mori sconfitto, e restò in loro balìa il regno di Toledo12. Alfonso ravveduto a queste ragioni pronunzia il bando di Rachele e degli Ebrei. Ma per togliere al di lui cangiamento un’ aria di volubilità, non conveniva {p. 39}manifestar l’interna pugna della sua ragione con una passione eccessiva di sette anni di durata? Rachele cui è già nota la sua disgrazia ed è stata chiamata, ambiziosa e amante viene a tentar di commuoverlo. L’ha egli chiamata (gli dice) per darla in potere de’ sollevati? Lagnasi il re di tali parole, e le dice che l’esilia per salvarle la vita. Ella vuol riaccendere la di lui collera, e l’incoraggia a resistere a’ ribelli. Io stessa, aggiugne, gli affronterò. Ciò poteva bastare; ma Huerta la fa continuare con una tirata istrionica di primera dama:

Pues si enciendo la colera en mi pecho,
si el hierro empuño, si el arnès embrazo,
Semiramis segunda oy en Toledo
à tus pies postrarè quantos osados,
quantos rebeldes, quantos alevosos
aliento dàn al sedicioso vando.

Convengono queste inutili tagliacantonate alla molle ramera Rachele dipinta in tutta la tragedia timidissima nelle avversità?

Giornata II. Esce Rachele piangendo con Ruben. Intanto frall’intervallo degli atti che cosa è avvenuta? Nulla? L’azione si è riposata? Ciò sarebbe contro la giudiziosa pratica de’ nostri tempi. Oggi si esige che l’azione inevitabilmente si avanzi al suo fine o in iscena o fuori di essa. Diceva {p. 40}l’ editore che l’azione della Rachele è tutta alla vista. Ma Rachele che esce di nuovo con Ruben, fa supporre che la di lei disperazione, il suo pianto, l’accingersi alla dolorosa partenza, abbiano empito il vuoto degli atti. Or ciò essendo l’editore, ossia l’autore sotto il di lui nome, invano si millantò d’aver fatta una tragedia più artifiziosa di ogni altra francese, perchè per questa parte (e non è poco) essa nè migliora nè peggiora il metodo degli antichi e de’ moderni. Ruben la consiglia ad impiegare tutto l’artificio di un pianto insidioso per vincere il re; ma ella già poco spera nelle proprie lagrime. Altra volta, ella dice, avrebbe per esse dichiarata la guerra a chi che sia; e ciò non va male: ma soggiugne, che avrebbe fatto retrocedere il Tago verso la sorgente, e convertita la notte in giorno, le quali sono espressioni appena ammesse nel genere lirico, e false sulla scena, fantastiche e contrarie alla verità, all’affetto ed allo stato di Rachele. Anche Ruben si diverte con una enumerazione lirica delle perle di Oriente, dell’oro dell’ Arabia, delle sete del Catai, delle porpore di Tiro, degli odori Sabei, de’ tapeti di Turchia, delle tele di Persia, e in fine aggiugne,

quanto oro encierra en sus abismos
el bondo mar, y quanta plata, cuentan,
{p. 41}
sudaron los famosos Pirineos
quando Vulcano liquidò sus venas.

Con minore sfoggio il medesimo pensiero produrrebbe migliore effetto, e sarebbe più proprio di chi vuol persuadere. Ma quel sudore d’argento de’ Pirenei, mentre vulcano ne rende liquide le vene, è alchimia del passato secolo. I Pirenei non sudano argento se non in bocca degli Huerta come sudarono una volta i fuochi in un sonetto italiano13. Il popolo è sedato; ma il re per cautela ha ordinato a un campo di duemila cavalli e cento bandiere che marciavano verso Cuenca, a tornare a Toledo per fortificare la Rocca di San Cervantes. Questi ordini, queste marce quando si sono eseguite? Dopo che il re ha disposto il bando di Rachele verso la fine dell’atto I. Ordini a un campo di dodicimila soldati, sua marcia verso Toledo, presidio introdotto nella fortezza, esigono tempo, e due scenette non bastano per tali esecuzioni. Adunque anche nell’intervallo degli atti è passata {p. 42}questa importante parte dell’azione, ed essa non è tutta alla vista, come si gloriava l’autore senza utilità e senza verità. Alfonso riposando su tali disposizioni riflette sulla condizione infelice de’ principi, valendosi di alcuni pensieri Oraziani, O fortuna invidiable del villano &c., ornamento tutto lirico, impertinente in bocca di un appassionato e ridondante, comparandovisi oziosamente la vita rustica colla reale per cinquantotto versi14. Viene Rachele piangendo, ed Alfonso dice: Raquel llora! mucho de ti recelo valor mio. Anderebbe bene questo suo dubbio di non poter resistere, se Rachele non avesse pianto un’ altra volta nell’atto I senza aver nulla ottenuto. Rachele viene a fare l’ultima pruova del potere del suo pianto. Alfonso però, come se non l’avesse mai veduta piangere, si maraviglia dell’ardore straordinario che in lui produce:

quando se ha visto,
sino en mi daño tan extraño exemplo?
{p. 43}
fenomeno tan raro y peregrino?

Non si capisce come possa dirsi fenomeno rarissimo e pellegrino l’ardore che in lui cagiona il pianto di Rachele. Huerta poi che ha verseggiato tutto il tempo della sua vita, non si accorgeva de’ versi leonini che gli scappavano di tempo in tempo, come è il secondo di questi tre pel daño tan extraño. Egli al fine mal grado delle di lei lagrime conferma che parta; ma tosto ripiglia: che ho io profferito? posso pensarlo? posso consentirlo? Perchè no (potrebbe dirgli lo spettatore) se poche ore prima l’avete eseguito senza tanto dolore? La scena dell’atto I rende incostante il carattere di Alfonso, e scema la verità ed il patetico di quest’altra. Rachele stessa non può dissimularlo, e gli dice: non ordinaste voi stesso il mio esiglio? É vero, dice Alfonso, ma ne fu cagione la paura che io ebbi, temor lo hizo. Questa ingenua confessione del timoroso Alfonso potrebbe far ridere chi si ricordasse delle di lui speciose minacce dell’atto I,

Tiemble Castilla, España, Europa, el Orbe.

In somma il carattere di Alfonso è picciolo ed inconcludente, ed il poeta Diamante ne fece una dipintura più uguale. Dopo {p. 44}ciò Rachele affetta desiderio di partire, ed il re si ostina a farla trattenere, perdona agli Ebrei, vuol pure, ch’ella governi per lui, e colla maggior gravità di sovrano impone alla guardia che a lei obedisca, e la colloca sul trono. Rachele ammette al bacio della mano i Castigliani trattandogli con sommo orgoglio; essi si maravigliano della leggerezza di Alfonso, e non hanno torto, giacchè ora minaccia ora teme, ora ordina ora si pente, e non è mai lo stesso.

Giornata III. I medesimi personaggi escono con altri sollevati della scena ultima dell’atto precedente. Or perchè entrare per uscir di nuovo? Se per unirsi in maggior numero e deliberare, dunque nell’intervallo degli atti si è fatto qualche altra cosa che non si vede in iscena, a dispetto della jattanzia dell’autore che si arrogava un merito esclusivo. Se poi nulla si fa nel vuoto degli atti, cade Huerta ancora nel ridevole difetto di lasciar l’azione interrotta, che abbiamo notata in Ayala patrocinato dal Sampere y Guarinos. È però assai piacevol cosa il vedere nella stessa regia sala di udienza in faccia al trono raccorsi i congiurati, machinare, altercare, schiamazzare, cacciar le spade e gridar muera muera, senza che vi sia almeno un domestico del partito del re o di Rachele che gli ascolti o gli osservi. Essi partono ad istanza di Garcia che ne ottiene che si differisca l’eccidio di Rachele {p. 45}fine a che il re vada alla caccia. Manrique fa sapere a Garcia che Rachele l’esilia da Toledo, al che egli risponde magnanimamente. L’autore fa nascere per incidente un contrasto fra loro, e Garcia rimprovera a Manrique varj tradimenti fatti da i Lara e da i Castro, la qual cosa non essendo di pura necessità pel suo argomento, gli fu imputata ad astio o ad altra occulta cagione. Rachele viene un’ altra volta piangendo perchè il re vuole andare alla caccia ad onta de i di lei pericoli. Alfonso sì innamorato e non ignaro del tumulto de’ suoi, di cui ebbe egli stesso tanta paura, l’abbandona per sì lieve motivo? L’autore è caduto in quest’altro inconveniente per seguire anche quì il Diamante. La caccia però nel dramma di costui, che non si limita a un giorno, ma che abbraccia sette anni, non è ripiego inverisimile, là dove nella favola dell’Huerta il re s’invoglia di andare alla caccia poche ore dopo che il popolo ha chiesta la morte di Rachele, quel popolo ch’egli ha mortificato con farla sedere sul trono e con rivocare il bando degli Ebrei. Ed in che si fida? Ne’ soldati entrati in Toledo? E non dee almeno sospettare che i nobili vantati da Garcia possano aver fra essi qualche aderenza? Le lagrime di Rachele, cagione poco fa di fenomeni rari e pellegrini, riescono questa volta infruttuose; egli va alla caccia. Rachele tosto si consola, {p. 46}si asside un’ altra volta sul trono, parla de’ pubblici affari, decreta, e fa quello stesso ch’ella un secolo prima avea fatto nella Judia de Toledo del Diamante. Mentre pensa a far troncar la testa a Garcia, viene interrotta da’ nuovi schiamazzi de’ Castigliani. Chiama la guardia che l’ha abbandonata, si volge a Manrique che si ritira per cercare il re, s’indirizza a Ruben che le dà un freddo consiglio e parte. Queste circostanze esigerebbero un discorso rapido e cocente e non quello alquanto freddo contenuto ne’ 24 versi ch’ella recita, per gli quali si richiede più tempo che non dovrebbero darle i Castigliani irritati e non trattenuti da veruno ostacolo. L’azione si rallenta ancora per trenta versi che recita Garcia prima di offerirle di farla uscire per una porta secreta. Questo punto dell’azione richiedea più moto che parole. Rachele non l’accetta, ed i congiurati tornano a venire colle spade alla mano e vanno in traccia di lei. Garcia vorrebbe pur liberarla e trattenerli, ma vedendo Ruben si ferma per rimproverargli con molte parole i perversi consigli dati a Rachele. N’era questo il tempo? L’azione corre, vola, e non permette indugio veruno; ed è più rapida nella Judia del Diamante. Ruben si nasconde dietro del trono, Rachele vuol far lo stesso e trovandovi Ruben gli rinfaccia i pravi suoi consigli. Giungono i Castigliani, {p. 47}e Rachele si fa loro incontro, dicendo:

Traidores .. mas que digo? envano animo!
Nobleza de este reyno, asi la diestra
armais con tanto obbrobrio de la fama
contra mi vida?

Questo tratto è copiato benchè male dal poema Raquel inserito anche nel Parnaso Español. Luis de Ulloa autore del poema dice così:

Traidores, fue decirles, y turbada
viendo cerca del pecho las cuchillas,
mudò la voz, y dijo, caballeros,
asi infamais los inclitos aceros?

Ognuno si accorge di essersi tal pensiero peggiorato dal copiatore Huerta. Nel poema si concepisce ma non si pronunzia la voce traidores, e con ciò si lascia luogo alla preghiera: nella tragedia l’ingiuria è scoccata e la correzione giunge tardi. Nel poema Rachele vuol dire che ferendola essi macchiano i loro acciari col sangue di una femmina: nella tragedia si chiama obbrobriosa l’ azione di armarsi contro della di lei vita, ritrattando così la correzione e rimproverando loro la ribellione, la qual cosa rende inutile la preghiera. Inclitos aceros nel poema contiene una lusinga che nobilita la condizione de’ congiurati, il che non esprime {p. 48}la diestra detto nudamente nella tragedia. Finalmente la stessa energica concisione dell’originale nelle parole

Asi infamais los inclitos aceros,

si snerva nella tragedia distendendosene il pensiero in due versi e mezzo. Mentre Fañez pensa a fare uccidere Rachele, Ruben fra tanti robusti armati solo, debole e vile cava un pugnale (come dice) per difendersi, e Fañez per non far macchiare le spade de’ compagni nel sangue di una femmina, impone all’Ebreo di ucciderla promettendo a lui la vita. Ruben non si fa pregare, e la ferisce. I Castigliani si ritirano; ma Ruben non seguita coloro che possono salvargli la vita promessagli; e perchè mai rimane colà insensatamente col pugnale alla mano? Rachele moribonda chiama Alfonso che giugne, ed ella spirando gli dice che la plebe sollevata l’ha condannata a morire, e che Ruben l’ha ferita. Alfonso recita un lamento di 25 versi; Ruben si sente accusare, vede il furore del re, ascolta i di lui versi, e non fugge. Chi vide rappresentar la tragedia mi assicurò che il pubblico si stomacò di vedere quell’insipida figura rimasta sì lungo tempo col pugnale alla mano. E dovea così avvenire. Il poeta volea farlo morire, e non seppe trattenerlo in iscena con verisimiglianza. {p. 49}Alfonso alfine se ne avvede, gli strappa il pugnale, e macchia la sua mano reale del sangue vile di quell’ebreo. Alfonso nella conchiusione procede in conseguenza del carattere datogli dal poeta, e le prime sue riferite incostanze non sono smentite dalle ultime. Egli incomincia dal fare l’ uffizio del carnefice nella persona di Ruben; ma, benchè prima alla sola idea che Rachele dovea allontanarsi avea voluto che un vassallo gli togliesse la vita, ora alla vista del sangue e del cadavere di Rachele caldo ancora, repentinamente acquista dominio sulla sua disperazione, ed ammette in quel medesimo punto gli uccisori alla sua presenza e gli perdona, contentandosi di dire che serva loro di pena

contemplar lo horroroso de la bazaña.

Così termina questa tragedia del sig. Huerta lavoro di quindici anni.

L’autore nella morte e nel carattere di Rachele non ha alterata la storia (benchè in tanti altri fatti l’abbia senza necessità falsificata) perchè era persuaso che corregge meglia i costumi il gastigo del vizio ed il premio della virtù. Qui di premio di virtù non si favella, se l’autore non istimasse virtu la ribellione. Si tratta solo del gastigo del vizio. Rachele enunciata come prostituta, ramera, avara, ambiziosa, dannevole {p. 50}allo stato, merita la morte; nè può eccitare la compassione tragica, ma quella soltanto che detta l’umanità per gli rei che vanno al patibolo. Per convenire alla tragedia si dovea rendere meno odiosa senza lasciarla impunita. Questa è la differenza che passa tra una vera esecuzione di giustizia ed un evento esposto sulla scena tragica. L’esecuzione reale lascia il fatto com’ è: la teatrale l’accomoda al fine. Il poeta dee maneggiarlo in guisa che il personaggio destinato a commuovere si renda degno di pietà, affetto ammesso come naturale all’uomo ed opportuno a metter l’animo in agitazione per disporlo a ricevere l’ammaestramento che è l’oggetto morale della poesia. Rachele (eccetto la gioventù e la bellezza) non ha qualità veruna che faccia sospirare per la di lei morte. Il Diamante in questa medesima guisa dipinse la sua Rachele, ed il sig. Huerta calcandone le orme si diede un vanto non vero dicendo esser tal piano un suo sistema particolare. Aggiugnerò che la Rachele del Diamante desta più della moderna la tragica compassione, perchè, oltre a’ nominati motivi della gioventù e della bellezza, Diamante pose accanto a Rachele nel fatale istante il canuto suo padre, il quale maltrattato da’ sollevati ne aumenta l’infelicità, e la rende più compassionevole. Non solo dunque la Rachele del sig. Huerta manca d’invenzione, perchè ne {p. 51}prese la traccia tutta dal Diamante15, ma anche cede alla Judia de Toledo per tale arte adoperata nella di lei morte e per l’ uguaglianza del carattere di Alfonso. In ricompensa di quanto Huerta ha tolto al Diamante egli ha stimato di escludere la Judia de Toledo dalla collezione che finalmente ha eseguita del Teatro Spagnuolo16. {p. 52}La superiorità della Raquel moderna sopra l’antica consiste nella versificazione che non è senza dolcezza, nello stile eccetto ne’ passi dove degenera in gongoresco, e nella regolarità che però si trova ancora nelle riferite tragedie di Montiano, di Cadahalso, di Moratin, di Ayala, di Sedano ec.17.

{p. 53}

Il sig. Huerta ha voluto ancora rifare la Venganza de Agamemnon del maestro Perez de Oliva che era in prosa, scrivendola sul gusto del Bermudez con ottave, odi, stanze e con ogni sorte di versi rimati, ed anche con assonanti. Egli nell’azione dietro del Perez seguita Sofocle facendo riconoscere Oreste per mezzo dell’anello. L’autore in una nota coll’ usata sua modestia si vantava di correggere Sofocle per far che quedase con menos impropriedades, cioè che rimanesse spoglio della maggior parte delle improprietà. Per conseguirlo bisognava in prima ch’egli sapesse quali improprietà appartenessero a Sofocle e quali a’ suoi traduttori; di poi ch’egli avesse giuste idee delle proprietà convenienti al greco argomento che prese a rimpastare. Egli in prima tratto tratto ingigantisce le idee semplici, naturali e patetiche dell’originale: ne perde le bellezze del coro senza rimpiazzarle in verun modo: rende la favola pesante colla nojosa lunghezza de’ ragionamenti: per troncarne le improprietà rimoderna alcune usanze e ne aggiugne altre nuove inescusabili. Che utile cambiamento è quello d’ introdurre {p. 54}una cassa capace di un cadavere intero da portarsi sugli omeri de’ Greci alla guisa de’ becchini, invece di lasciarvi l’urna antica che conteneva le ceneri di un estinto, e che poteva portarsi in mano, come rilevasi da Aulo Gellio nel parlar di Polo e dall’istesso Sofocle18? Che miglioramento è quest’ altro di far che nasca in iscena e si proponga da Cillenio il pensiero di fingere l’arca che ha da contenere un peso proporzionato ad un corpo morto, quando Sofocle provvidamente suppone questi preparativi già fatti prima di capitare Oreste coll’ ajo in Micene? Perchè non imitare la vivacità dell’ originale nella riconoscenza di Oreste in vece di raffreddarla con fanciulleschi enigmi? Chi sei? dice l’Elettra {p. 55}dell’ Huerta; ed il di lui Oreste risponde a maniera di oracolo,

Un hombre soy que en su sepulcro sulca los mares de fortuna.

Così si sarebbe spiegato Gongora nel colmo del delirio, e così si è spiegato il di lui ammiratore Huerta, il quale apparentemente fece il cambiamento dell’urna in atahud per mettere in bocca di Oreste l’ indovinello, io sono un uomo che nel mio sepolcro solco i mari della fortuna. Sofocle poi si era guardato dall’avventurare in faccia all’uditorio Clitennestra moribonda; ed il sig. Huerta ve la spinge senza perchè, e fa che declami sola venti versi, e poi se ne torni dentro ancor senza perchè. Ora quando in argomenti sì rancidi e trattati bene da più centinaja di poeti non si sanno combinar nuove situazioni patetiche che formino quadri terribili alla maniera de’ Michelangeli, quando si hanno da riprodurre con nuovi spropositi, perchè esporsi a far di se spettacolo col paragone? Huerta ha pur tradotta la Zaira che noi non abbiamo letta; e ci auguriamo ch’egli ne abbia tolte le improprietà meglio che non ha fatto nell’Agamennone di Sofocle19.

{p. 56}

Si sono in Madrid composte altre tragedie ma non rappresentate. Don Lorenzo de Villaroel marchese di Palacios pubblicò Ana Bolena ed il Conde Don Garcia de Castilla lodate dal sig. Huerta, ma da me non lette a cagione del mio passaggio in Italia. Eranvi pure rimaste inedite il Pelagio. l’Eumenidi, i Due Gusmani. Altre ne pubblicarono Bazo, Quadrado, Guerrero, Sedano, Ibañez derise al pari del Paolino de Anorbe y Corregel e della Briseida musicale di Don Ramòn la Cruz20.

Qualche traduzione delle tragedie francesi uscì dopo il Cinna del Pizzarro Piccolomini. L’Atalia del Racine tanto spregiata dal sig. Huerta fu ottimamente tradotta da Don Eugenio Llaguno y Amirola e pubblicata {p. 57}nel 1754 verseggiata in endecasillabi sciolti interrotti da qualche rima arbitraria. Un’ altra Atalia uscì in Portogallo col nome di Candido Lusitano, sotto di cui si occultò in più opere pubblicate nel 1758 il dotto P. Freire prete dell’Oratorio, premettendovi un’ erudita dissertazione in cui additò le bellezze di quell’originale che Huerta stimava componimento cattivo di un imbecille. Pietro de Guzman duca di Medina Sidonia mancato nel 1778 pubblicò nel 1768 una buona versione dell’Ifigenia del medesimo Racine che per Huerta è così dozzinal poeta; e nel 1776 fece imprimere la sua versione del Fernando Cortes di Alessio Piron.

Rimane a parlare di tre esgesuiti spagnuoli tra noi traspiantati, i quali hanno speso onoratamente il loro ozio in comporre tragedie in italiano, cioè dell’ab. Don Giovanni Colomès Catalano, Don Emmanuele Lassala Valenziano e Don Pietro Garcia de la Huerta fratello dell’autore della Raquel.

Il sig. Colomes nel 1779 pubblicò in Bologna il suo Marzio Coriolano, argomento trattato senza regolarità dal Shakespear e dal Calderòn, e languidamente da altri. Non è tanto la sterilità che lo renda scabroso a maneggiarsi, quanto l’impossibilità di combinare verisimilmente in un giorno e in un luogo la strettezza di Roma assediata da’ Volsci, e l’ angustia di Marzio {p. 58}combattuto dalla vendetta e dalla madre. Chi vuole spaziarsi sullo stato di Roma, è costretto a rendere Marzio invisibile, come fece nella sua tragedia il nostro Cavazzoni Zanotti. Chi vuol trattare dell’inflessibilità di Marzio espugnata da Vetturia, troverà sterile la materia per cinque atti. Non so però perchè non si è cercato di trattare in soli tre atti il contrasto dell’amor filiale e della vendetta nel cuor di Marzio, colla funesta vittoria del primo che cagiona la di lui morte. Il Colomès ha unito lo stato di Roma, la vittoria di Vetturia, la morte di Coriolano, ma ne riduce l’azione ne’ contorni di Roma ora nel campo Marzio, or nel tempio di Marte, or nel campo de’ Volsci, e tutta la restringe con qualche violenza nel tempo prescritto dal verisimile. Essa incomincia da un punto lontano, trattenendosi i Romani ne’ Comizj senza punto sapere dell’invasione de’ Volsci, i quali hanno già espugnata Lavinio, cacciati i coloni Romani da Circe, Trebbia, Vitellia e Polusca, dilatati i proprj confini sino al Tebro. Si restringono poi troppe cose in un giorno, dovendosi fare accampare i Volsci, dar luogo a una tregua, superare il Gianicolo, tramarsi una congiura contro Marzio dichiarato dittatore, rompersi la tregua, venirsi a un altro fatto d’armi, allestirsi barche e legni per passare il Tevere, farsi due abboccamenti colla madre, {p. 59}una zuffa nel campo Volsco, seguir la morte di Tullo, la sortita de’ Romani, la fuga de’ Volsci, l’uccisione di Coriolano. Contuttociò lodevolissimi sono gli sforzi dell’autore per averla scritta con felicità in un linguaggio straniero. E chi oserebbe far motto di qualche squarcio prosaico, di alcun verso duro, di sentimenti spiegati men precisamente? Questo è il caso in cui l’indulgenza è giustizia. Accennerò anzi con piacere qualche tratto pregevole. Nell’atto I si nota una felice imitazione di un pensiero del Metastasio. Zenobia dice,

salvami entrambi,
Se pur vuoi ch’io ti debba il mio riposo,
E se entrambi non puoi, salva il mio sposo.

Vetturia nel Marzio dice,

Ad una madre
Tu ridona il sostegno, e con la patria,
Se puoi, lo riconcilia; ma rammenta,
Che di Roma sei padre. Salva entrambi,
Ma se il figlio non puoi, Roma almen salva.

Patetico è il discorso del sacerdote nell’atto III: felice l’immagine che Volunnia rappresenta a Marzio di se stesso posseduto da’ rimorsi nel caso che trionfasse di Roma: {p. 60}grave la seconda scena dell’atto V, in cui Vetturia espugna la durezza del figlio: buone imitazioni del Tasso si scorgono nella scena 6 descrivendosi la rotta de’ Volsci: interessante in fine l’ultima scena per la morte di Coriolano.

Del medesimo sig. Colomès è l’Agnese di Castro uscita in Livorno nel 1781. La Castro del Ferreira, come ha già osservato il leggitore, copiata poi dal Bermudez e peggiorata21, è la sorgente delle Agnesi posteriori. La Cerda ed altri Spagnuoli la trasformarono in un mostro tragicomico. La {p. 61}Motte ne fece la felice sua Inès. Apostolo Zeno trasferendola ad un’ altra nazione ne compose il melodramma Mitridate. Più felicemente si allontanò dalle altrui vestigia il Metastasio nel Demofoonte, il quale mette capo ancor più nell’Edipo di Sofocle e nella Semiramide del Manfredi, che nella Inès. Il sig. Colomès ha seguita l’Inès del La Motte nelle principali situazioni e nello scioglimento, benchè non lasci nobilmente di rendere giustizia alla bella produzione del Cesareo Poeta. La sostanza dell’Inès e dell’Agnese è la stessa, variando solo in alcune circostanze. Ciocchè nella tragedia del La Motte opera la regina, viene in questa del Colomès eseguito dal siniscalco del regno; ma i motivi che agitano la regina sono assai più attivi, perchè concernono direttamente la persona di Agnese per cui viene rifiutata la propria figlia; là dove l’odio di Alvaro è contro Ferdinando, e non contro la di lui sorella. La parola data da Alfonso al re di Castiglia cagiona in ambedue i drammi il pericolo di Agnese e la ribellione del principe. Ma il carattere di Alfonso nella favola francese è di un padre sensibile che ama il valore del figliuolo, benchè sia disposto a punirlo, nè il Poeta Cesareo ha calcato diverso sentiero nel Demofoonte; là dove il Colomès fa nascere perturbazioni meno tragiche col formare il suo Alfonso severissimo per natura, poco sensibile {p. 62}agli affetti di padre e prevenuto contro del figlio. Il secreto delle nozze occulte svelato al re forma una scena interessante dell’atto V dell’uno e dell’altro dramma. Ma nel francese fa un effetto più grande, perchè l’arcano si è conservato solo tra il principe e la consorte, e bisogna dire a gloria di Metastasio che è maggiore ancora nel Demofoonte, perchè la sola necessità lo strappa dalla bocca di Timante per salvar Dircea dal sacrifizio. Nel dramma del Colomès però in prima non è sì pressante la necessità di svelare il secreto alla regina sin dal principio, e poi ne restano di mano in mano instruiti molti personaggi. Nel dramma francese al racconto d’Inès il re si commuove, la perdona, la riconosce per moglie del principe e abbraccia i nipoti; ed il sig. Colomès si è bene approfittato di questa bella scena. Il veleno apprestato ad Agnese dalla regina, il quale rende inutile il perdono da lei ottenuto, e le toglie la vita, è ritrovato dell’autor francese, che gli è stato rubato da più moderni tragici dozzinali, ma che non parmi ch’ egli dovesse a veruno nè gli è stato suggerito dalla storia della Castro. Era dunque più bello che il Colomès dopo di averlo trascritto lo riconoscesse dal sig. La Motte, che dire con poca gratitudine che per necessità dell’azione ha dovuto incontrarsi con lui. Una nobile ingenuità avrebbe accresciuto il di lui merito di aver abbellito {p. 63}questo colpo con nuove acconce espressioni. La stessa istorica imparzialità che ci obbliga a tal confronto, ci fa dire che il Colomès ha prestato a quest’argomento nuove bellezze. Tale ci sembra la voce sparsa ad arte dal falso Alvaro della finta morte del re, per leggere nell’animo del principe, e per assicurarsi che Agnese sia da lui amata. Per lo stile lascia rare volte di esser grave, ed il patetico n’è ben sostenuto, e con passi armoniosi e robusti compensa certe espressioni che parranno intralciate, più prosaiche e meno precise e vibrate. Debbo pur anco far notare che la ricchezza, l’energia e la maestà della lingua italiana e le maniere usate da’ nostri gran poeti, danno all’Agnese un certo che di più grande che manca al cattivo verseggiatore La Motte. Pieno di poetica vivacità non iscompagnata dalla passione è il racconto che fa Agnese alla regina nell’atto II: quanto la stessa Agnese dice nell’atto V è parimente espresso con verità ed affetto: chiama l’attenzione la di lei parlata al re quando scusa il principe. In somma il sig. Colomès con iscelta più felice in questa seconda tragedia ha data al teatro un’ Agnese non indegna degli sguardi degli eruditi, e la Spagna dovrebbe gloriarsene come la più regolare ed appassionata uscita da un suo figlio, e desiderare che fosse stata scritta in castigliano. Si rileva da una lettera dell’autore {p. 64}al sig. Pignatelli ch’egli avrebbe accompagnata l’Agnese con altre due tragedie, se la sua salute gli avesse permesso di aggiugnere l’ultima lima al suo lavoro.

Uscì nel 1779 in Bologna l’Ifigenia in Aulide dell’ab. Lassala, che nel dedicarla alla contessa Caprara descrive l’invenzione del pittore Timante di dipingere Agamennone col volto coperto. Ma Timante posteriore a Polignoto che fioriva verso l’olimpiade XC, non fu l’ inventore di tal ripiego che appartiene all’istesso Euripide nato l’anno primo dell’olimp. LXXV22. Nocque al sig. Lassala la scelta di un argomento incapace di migliorarsi dopo di Euripide e Racine, i quali a’ posteri non lasciarono se non l’alternativa o di copiarli o di traviare. Egli debbe a questi originali la semplicità, l’orditura, lo scioglimento e le situazioni principali dell’azione. Sarebbe a desiderare che vi si fosse anche attenuto in certi passi. Il carattere di Menelao che pur nel Greco autore sembra in {p. 65}certo modo incostante, nel Lassala comparisce ancor più difettoso. In prima egli è inoperoso: si esprime con bassezza e villania col fratello: nel cangiamento che fa si dimostra stravagante, incongruente ed opposto a’ suoi interessi. Il tragico Greco compensò il difetto accennato prestando al suo Menelao discorsi lontani da’ colori usati dal suo imitatore Valenziano. Con più senno egli ad esempio del Francese si sarebbe dipartito dal Greco nello scioglimento, invece di adottarne la machina a’ nostri tempi non credibile. Si allontana poi il Lassala dall’uno e dall’altro tragico nell’oziosa scena 2 dell’atto II, in cui Achille con gli occhi bassi dice alle principesse che gode del loro arrivo e che non può trattenersi e parte. Sconcio e intempestivo e mal espresso e falso è il seguente pensiero di Agamennone:

Nel cristallo stesso
Dinanzi a cui ordinando il crine sparso
L’arte accrescea a sua beltà ornamento,
Cercherò almen di te la fida immago
Impressa un dì, ma fuggitiva altrove
Sarà disparsa, e cancellata ovunque
Esser solea.

Delicatezza e proprietà si desidera anche nell’atto III nella scena di Clitennestra ed Achille. Lo stile manca di precisione, di forza e di sublimità, lussureggia, ed enerva {p. 66}i sentimenti distendendoli. La frequente e non variata spezzatura del verso ne toglie ogni armonia. La locuzione è prosaica talmente che scrivendosi seguitamente non vi si distinguerebbero i versi. Circa la lingua tutto si dee perdonare a uno straniero che si studia di coltivar quella del paese ove abita. Non per tanto si trova espresso con passione e felicità ciò che nell’atto IV dice Ifigenia al padre tratto dal greco, e ciò ch’ella dice ancora nella conchiusione della 7 scena dell’atto V.

Don Pedro Garcia de la Huerta non ha preso a tradurre o imitare favole straniere, ma pieno dello spirito del fratello volle recare al nostro idioma in versi sciolti la di lui Raquel, come egli dice,

Per la gloria di dare all’un germano
Dell’altro un segno di verace amore.

Egli, ad eccezione di aver soppresse le millanterie stomachevoli della prefazione dell’edizione matritense della Raquel, e rettificata alcuna delle varie espressioni false e gongoresche che vi sono, servendo al dovere di fedel traduttore non ha nella sua copia nè alterata la traccia della favola originale, nè renduti meno ineguali e più congruenti i caratteri, nè dato più fondamento alla compassione tragica, nè corretti gli errori di {p. 67}storia, nè tutte castigate le intemperanze dello stile23.

CAPO II.
Commedie: Tramezzi. §

I.
Commedie. §

Quanto più siamo persuasi della sagacità dell’ingegno spagnuolo nel trovar nelle cose il ridicolo, come altresì dell’eccellenza della ricchissima lingua di tal nazione che si presta con grazia e lindura alle festive dipinture de’ costumi, tanto maggior {p. 68}maraviglia ci reca il veder in quelle contrade sì negletta la buona commedia in questo secolo, in cui anco nel settentrione vanno sorgendo buoni imitatori di Terenzio, Machiavelli, Wycherley e Moliere.

Non possiamo rammemorare senza ribrezzo tra’ comici scrittori nella prima metà del secolo altri che Giuseppe Cañizares sebbene motteggiato da’ satirici del suo tempo come cattivo verseggiatore. Seguitando il sistema de’ passati drammatici egli scrisse commedie sregolate ma dilettevoli per la buffoneria e prossime alla farsa. La farsa però non è mica opera spregevole o facile. L’esperienza giornaliera dimostra che per mille drammatici che tesseranno tragedie regolate ma insipide destinate a morire il dì della loro nascita, a stento se ne incontrerà uno che sappia comporre una farsa piacevole atta a resistere agli urti del tempo, come son quelle di Aristofane o di Moliere. Le favole del Cañizares da me vedute ripetere in Madrid sono: el Honor dà entendimiento, el Montañès en la Corte, el Domine Lucas. Nella prima si dipinge una specie di Cimone del Boccaccio, il quale non per amore ma per onore diviene scaltro, cangiamento che si rende verisimile per la durata dell’azione di più mesi. Nella seconda si fa una piacevole pittura locale della vanità degli abitatori delle Asturie, i quali si tengono per nobili nati, ed {p. 69}ostentano la loro executoria ossia carta di nobilità in ogni incontro. Il titolo del Domine Lucas è tolto da una commedia di Lope de Vega che ebbe luogo nel Teatro Spagnuolo del Linguet; ma la favola del Cañizares è assai più piacevole, ed è la sola che con tal titolo comparisce su quelle scene. Il Domine Lucas è uno studente delle montagne Asturiane sommamente goffo ed ignorante, ed il di lui zio che esercita l’avogheria, non è meno ridicolo. Ha costui due figliuole, la prima delle quali vorrebbe dare a Don Lucas il quale però ama l’altra sciocca e semplice al pari di lui. Aumenta il ridicolo del carattere di Don Lucas il capriccio di voler fare esperienza di Leonora a lui promessa, e prega un suo amico che è di lei occulto amante, a fingere di amarla, e gliene dà tutto l’agio.

Il primo che abbia osato pubblicare in Ispagna una commedia senza stravaganze fu l’autore di una buona Poetica Spagnuola Ignazio Luzàn. Diede egli nel 1751 alla luce in Madrid sotto il nome del Pellegrino una giudiziosa traduzione in versi coll’ assonante del Pregiudizio alla moda di M. La Chaussée intitolandola la Razon contra la moda.

L’avvocato Nicolàs Fernandez de Moratin già lodato fra’ tragici si provò anche nel genere comico, e nel 1762 impresse la sua {p. 70}Petimetra, nella quale, ad onta di una buona versificazione, della lingua pura, e della di lui natural vivacità e grazia, riuscì debole nel dipingere la sua Doña Geronima e sforzato ne’ motteggi, e cadde in certi difetti ch’ egli in altri avea ripresi. Ne scrisse poi un’ altra col titolo El ridiculo DonSancho che rimase inedita. Essendosi compiaciuto l’autore di permettermene la lettura, vi ammirai pari armonia nella versificazione e felicità di locuzione, ma parvemi priva di energia e d’interesse nella favola e nel costume.

Nel Saggio teatrale del sig. Sebastian y Latre uscì anche una riforma del Parecido en la Corte, in cui l’ autore procurò di guardare le unità, ma non ritenne le grazie dell’ originale,

Nel 1770 uscì in Madrid una commedia intitolata Hacer que hacemos, cui noi potremmo dar il titolo di Ser Faccendone. L’autore a me ignoto si occultò sotto il nome anagrammatico di Don Tirso Ymareta. L’inazione di questa favola si chiude in un giorno con particolare nojosità. L’autore avea in mente un embrione accozzato di molti tratti ridicoli di un uomo che vuol mostrarsi affaccendato, ma gli mancò la necessaria sagacità nella scelta de’ più teatrali, nel dar loro la dovuta graduazione, nell’ incatenarli ad un’ azione vivace, e nel prestare {p. 71}alla sua commedia interesse e calore24.

Tutte le altre favole pubblicate nella penisola sino a questi ultimi anni sono tali che ci rendono preziose le stravaganze del passato secolo. E quando mai nel tempo del Calderone venne fuori una favola più mostruosa del Koulicàn di un tal Camacho? Quando si videro più sciocche fanfaluche di quelle che portano il titolo di Marta Romorandina mostruosità insipidissime di trasformazioni e magie, che nella state del 1782 per più di un mese si recitarono con maraviglioso concorso ogni giorno? Quando si tradussero ottimi drammi forestieri più scioccamente di quello che Don Ramòn La Cruz ed altri simili poetastri fecero del Temistocle, dell’Artaserse, del Demetrio, dell’Ezio, dell’Olimpiade deteriorate da per tutto e segnatamente imbrattate coll’ introdurvi il buffone? Quando ne’ secoli più rozzi d’ogni nazione si sono poste in iscena favole più incondite di quelle rappresentate in Madrid dal 1780 inclusivamente sino al carnevale del 1782 della Conquista del Perù, {p. 72}del Mago di Astracan, del Mago del Mogol? Io non ne nomino i meschini autori per rispettar la nazione; ma probabilmente essi troveranno ricetto nella Biblioteca del Sampere per morire in coro in siffatto scartabello, di cui in Ispagna altri già più non favella se non che il proprio autore.

Gli ultimi anni però si sono composte in Madrid quattro commedie, benchè non se ne sia rappresentata che una sola, le quali meritano di conoscersi. Due di esse scritte sin dal 1786 non hanno veduta la luce delle stampe; due altre si sono impresse nel 1786 e 1788.

Appartengono le inedite a Don Leandro Fernandez de Moratin di Madrid degno figliuolo del prelodato Don Nicolas da cui ha ereditato l’indole poetica, l’eleganza e la grazia dello stile, la dolcezza del verseggiare e la purezza del linguaggio. S’intitola l’una el Viejo y la Niña (il Vecchio e la Fanciulla) e l’altra la Mogigata, che tra noi può intitolarsi la Bacchettona, trattando di una donna che si fa credere chiamata a monacarsi.

Un perverso tutore (ecco il soggetto della prima) a condizione di non essere astretto a dar conto dell’amministrazione de’ beni d’Isabella sua pupilla che conta poco più di tre lustri, la sacrifica facendola sposa di un vecchiaccio caduco, mal sano, rantoloso che ne ha passati quattordici, ed ha atterrate {p. 73}tre altre mogli. Ella amava un giovanetto suo uguale che era andato in Madrid, e per vincerla le vien dato a credere con false lettere ch’egli abbia colà preso moglie. Si conchiude l’inegualissimo matrimonio, e dopo due o tre settimane arriva l’amante e trova Isabella sposata a Don Rocco suo corrispondente, in casa di cui viene ad albergare. La virtù e la passione della fanciulla sono a cimento. Egli si determina a partire e gire in America. Ella sente il tiro di leva, sviene, e ripigliati i sensi obbliga Don Rocco con mille ragioni a consentire che vada a chiudersi in un ritiro. Questa commedia è nel buon genere tenero ed insinua l’avversione alle nozze disuguali di una fanciulla di quindici a venti anni con un vecchio che ne ha scorsi più di settanta. Il giudizio, la regolarità, la morale, la delicatezza delle dipinture, la versificazione e la locuzione eccellente, ne formano i pregi principali. Merita ben di essere dagli esteri conosciuta, singolarmente per le seguenti cose: per le piacevoli scene di Don Rocco col suo domestico Muñoz; per quelle d’Isabella col suo amante, e spezialmente per la 12 dell’atto I, e l’11 del II; per l’angustia d’Isabella astretta dal vecchio a parlare all’amante mentre egli da parte ascolta ed osserva, che benchè non nuova produce tutto l’effetto; per quella in cui Isabella ode il tiro di leva del vascello {p. 74}nel quale è imbarcato l’amante; e finalmente per l’aringa eccellente d’ Isabella, in cui svela i secreti del suo cuore al marito, detesta l’ inganno del tutore, assegna le ragioni di non aver ella parlato chiaro, rifondendone la cagione all’educazione che si dà alle donne onde si avvezzano alla dissimulazione. Piacemi di tradurre per saggio buona parte della dilicata scena 11 dell’atto II:

Isab.

Vien gente . . . oimè! Desso è che viene! io vado . . .
Misera che farò? Veder nol voglio.

Gio:

Isabella?

Isa.

Se amore o gentilezza
Quì vi scorge, o signor, per congedarvi,
Il ciel vi guardi e vi conduca (aimè!)

Gio:

A dirti io vengo sol . . .

Isa.

Sì che ten vai,
Lo so: va pur, te lo consiglio io stessa,
Vanne crudel: se hai tu valor bastante
Per eseguirlo, anch’io, se pria non l’ebbi,
Tanto or ne avrò per affrettar co’ prieghi
L’infausto istante:

Gio:

Ah che non sai qual pena . . .

Isa:

Eh sì, quanto io ti debba io non ignoro,
So . . . parti, fuggi, lasciami morire ..
Ma infin ten vai? ma certo è dunque? è certo?
Dopo un sì fido amor, dopo tant’anni,
Dopo tante speranze, ecco qual premio
Ci preparò la sorte! Ah l’amor mio
{p. 75}
Ciò meritò?

Gio:

L’ho meritato io forse?
Ingrata donna e che facesti mai?
Per te, per te ... tu la cagion tu sei
D’ogni tormento mio! Qual fu la tua
Facilità crudel! Dunque ha potuto.
In breve ora un rispetto una violenza
Astringerti a disciorre il più bel nodo
Fatto per man d’amor, dal tempo stretto?
Oh tempo! oh lieti dì! te ne rammenti?
Ti rammenti, Isabella ...

Isa.

Io vengo meno ...

Gio:

Quando di nostra sorte appien contenti
D’un innocente amor dolci gustammo
E teneri momenti! La strettezza,
Il concorde voler, l’etade, il genio,
Gli scherzi, i finti sdegni . . .

Isa.

Ah tu m’uccidi!

Gio:

Un motto, un guardo tuo, qualche sospiro
Era de’ voti miei gloria e misura.
Tutto è finito! S’io t’amai, se un tempo
Ci amammo, un’ ombra or ne rimane, un sogno.
D’un vil cedesti agli artifizj indegni!
Vana illusione e gelosia fallace
In te si armaro del mio amore a danno!
Fralezza femminile!

Isa.

Il cuor mi scoppia;
Tardi ne piango.

Gio:

Tardi, è ver; la morte
Terminerà il mio male.

Isa.

Il ciel nol voglia.
Io, sì, ne morirò, che in me non sento
{p. 76}
Valor per tante pene; ahi sventurata!

Gio:

Addio mio ben, non ci vedrem più mai,
Lungi da te cercherò climi ignoti.
Tu la memoria almen di tanto affetto
Serba, mia cara; altro da te non bramo.
Amami, pensa a me; forse ristoro
Troverò al mio dolore, immaginando
Che una lagrima almen, qualche sospiro
Potrò costare alla beltà che perdo!

Più piacevolezza, più forza comica scorgesi nella Mogigata, i cui caratteri sebbene non tutti nuovi veggonsi delineati con circostanze proprie a svegliare l’attenzione perchè tratte con garbo dal puro tesoro della natura. Due coppie di personaggi dissimili, cioè due fratelli e due cugine in continuo contrasto, danno acconcio risalto non meno alla moralità che al ridicolo. Nè due fratelli vedesi l’immagine degli Adelfi di Terenzio. Don Martino simile a Demea burbero, difficile, avaro, intrattabile, rileva la sua figliuola Chiara con tanta asprezza che ne altera l’indole e la rende falsa e bacchettona. Don Luigi simile a Mizione nella dolcezza ma con più senno indulgente, e più felice ancora nel frutto delle sue cure paterne, educa la sua Agnese con una onesta libertà, la forma alla virtù, alla sincerità, alla beneficenza. Trionfa la gioviale ragionevolezza di Don Luigi e l’amabile franchezza di Agnese al confronto dell’aspro e {p. 77}tetro umore di Don Martino e dell’ipocrisia di Chiara. Ma questi caratteri disviluppandosi con maestrevole economia lasciano alla bacchettona il posto di figura principale nel quadro ossia nell’azione che consiste nel discoprimento della di lei falsa virtù e santità, per mezzo di un tentato matrimonio clandestino. Discostandosi questa favola dalla precedente nella sola specie ne conserva i pregi generali della buona versificazione, del buon dialogo, della regolarità, della grazia e del giudizio. Lodevoli singolarmente nell’atto I sono: la prima scena in cui si espone il soggetto, si dipingono i caratteri, e si discopre con senno la sorgente della simulazione di Chiara: le due seguenti ove si manifesta il carattere leggiero, stordito e libertino di Claudio gli artifizj dell’ astuto Pericco proprj della commedia degli antichi ed accomodati con nuova grazia a’ moderni costumi Spagnuoli. Anima l’atto II un colpo di teatro che rileva l’ipocrisia di Chiara e la vera bontà di Agnese, perchè quella, per discolparsi di un suo errore, all’arrivo di suo padre prende il linguaggio melato degl’ ipocriti e fa credere col pevole la cugina. Nell’atto III son da notarsi le seguenti cose: un altro colpo di bacchettona allorchè Chiara parlando delle sue nozze clandestine con Pericco, si accorge che viene il padre, e senza avvertirne il servo muta discorso, dicendo, io volea mettermi tralle {p. 78}cappuccine per meritare con una austerità maggiore più gloriosa corona, ma bisogna obedire al padre: la scena in cui Don Luigi vorrebbe che ella si fidasse di lui e gli dicesse se inclini allo stato conjugale, ed ella punto non fidandosi continua sempre col tuono di bacchettona: l’artificio con cui si prepara lo scoglimento colla mutazione che fa un parente del suo testamento. Egli volea lasciar Chiara erede del suo, ma sapendo che si faceva religiosa, fa la sua disposizione a favore di Agnese e muore. Ciò forma la disperazione ed il castigo dell’avido Don Martino, di Claudio e di Chiara. Tutto per essi è sconcerto, amarezza, disperazione, quando Agnese pietosa e magnanima intercede per la cugina da cui era stata offesa, promette di rinunziarle i beni ereditati per non lasciarla cadere nella miseria, e la riconcilia col padre. Questo scioglimento interessante è accompagnato da una felice esecuzione. Noi ne tradurremo soltanto uno squarcio. Vada (dice della figlia l’ irato Don Martino) vada da me lontana, viva infelice, sappia a quante disgrazie la soggetta il pessimo suo procedere. Ma Agnese in questa guisa esprime i benefici suoi concetti:

No non fia mai che la disgrazia io vegga
Di mia cugina, e non la senta io stessa
Nel più vivo del cuore. Amato Padre,
{p. 79}
Poichè appresi da te le altrui sventure
A deplorar, ed a mostrar con fatti
Non con parole una pietà verace,
Concedimi (e ben so che me ’l concedi)
Ch’io le porga la man: misera, errante,
Abbandonata io la vedrò, nè seco
Dividerò i miei beni? Ah no, detesto
Una ricchezza sterile che il numero
Degli oppressi non scemi. Oggi assicuri
Legittimo contratto in suo favore
Quanto a lei cedo: un generoso amplesso
Del padre suo i dubbj miei disgombri,
E a tutti il suo perdon renda la calma.
Deh piaccia al ciel, cugina, che tu vegga
Dal sincero amor mio rassicurata
La tua felicità, giacchè vi prende
Tanta parte il mio cuor, ch’esser non voglio
Felice io stessa, se non sei tu lieta.

Queste due commedie bene scritte di un giovane poeta pieno di valore e di senno, le quali secondate potrebbero formare una fortunata rivoluzione nelle scene ispane, non si sono accettate da’ commedianti di Madrid. Io converrei seco loro per la seconda fino a tanto che l’autore non vi sfumasse certe tinte d’ipocrisia troppo risentite, onde per altro ben s’imita l’abuso che fanno i falsi divoti delle pratiche e dell’espressioni religiose. Ma perchè intanto non rappresentar la prima? Ciò che in Italia nuocono {p. 80}alle belle arti le mignatte periodiche e gli scarabocchiatori di ciechi Colpi d’occhio, nuoce all’avanzamento del teatro spagnuolo la turba degli apologisti ed il Poetilla che tiranneggia i commedianti nazionali.

Le altre due commedie impresse appartengono a Don Tommaso de Yriarte autore di altre note produzioni letterarie. S’intitolano el Señorito Mimado, ossia la Mala Educacion, e la Señorita Mal-criada, impresse nelle opere dell’ autore, e poi separatamente nel 1788, argomenti felicemente scelti per instruire e dilettare.

La prima si rappresentò in Madrid nel Coral del Principe nel 1788, e piacque. La dipintura di un giovane educato con moine e carezze senza verun freno da una madre debole e compiacente, e cresciuto senza virtù e abbandonato alla leggerezza e al libertinaggio, dovè interessare per gli effemminati sbalorditi originali di tal dipintura, i quali abbondano nelle società culte e numerose. I caratteri di Don Mariano mal educato, della Madre che chiama amor materno la cieca sua condiscendenza, di Donna Monica venturiera che si finge dama e serve di zimbello in una casa di giuoco, sono comici ed espressi con verità e destrezza. Conveniente è quello di Don Cristofano tutore e zio del Signorino accarezzato, che si occupa a riparare gli sconcerti della famiglia. Sono figure subalterne {p. 81}ed alcuna volta fredde D. Flora, D. Alfonso, e D. Fausto. D. Taddeo trapalon che esce una sola volta nell’ultimo atto, è un ritratto degli antichi sicofanti. La favola consiste nel discoprimento e nella punizione di D. Monica e nell’esiglio di D. Mariano per essere stato sorpreso in un giuoco proibito, che porta in conseguenza il dolore della madre ed il matrimonio che non interessa di Flora con Fausto. L’azione è condotta regolarmente, con istile proprio della scena comica, e colla solita buona versificazione di ottonarj coll’ assonante. Alcuno troverà soverchie le operazioni della favola nel periodo che si racchiude dall’ ora di sesta all’annottare. Il trage de por la mañana di D. Mariano indica ch’egli venga a casa prima dell’ora del pranso; e se egli non ha desinato in sua casa, non faceva uopo dirsene un motto? La venuta di D. Monica nell’atto III in casa di D. Cristofano dopo essere stata ravvisata per una ostessa Granatina, sembra poco verisimile, e con un solo di lei biglietto poteva invitarsi D. Martino al giuoco e rimetterglisi le lettere falsificate di Fausto e Flora. Soprattutto vi si desidererà più vivacità, ed incatenamento più necessario ne’ passi dell’azione. Noi facciamo notare tralle cose più lodevoli di questa favola le origini della corruzione del carattere di D. Mariano indicate ottimamente nella 2 scena dell’ {p. 82}atto I: la di lui vita oziosa descritta da lui stesso in pochi versi nella 7 del medesimo atto25: l’incontro comico della 13 dell’atto II di D. Monica dama riconosciuta per Antonietta di Granata ed i di lei artificj per ismentir D. Alfonso.

Gettata sul conio della precedente è la Señorita Mal-criada impressa e non rappresentata, in cui si descrive una fanciulla ricca guasta dall’educazione di un padre spensierato, come nell’altra è una madre tale che corrompe il costume del figliuolo: vi si vede una D. Ambrosia vedovetta trincata di dubbia fama, che alimenta nella Pepita capricciosa, impertinente, intollerante, tutte le dissipazioni della gioventù senza costume, {p. 83}e fomenta la di lei sconsigliata propensione per un vagabondo ciarlatano; come nell’altra favola D. Monica contribuisce alla ruina di D. Mariano: D. Eugenio onorato cavaliere che ama Pepita e vorrebbe correggerne i difetti, equivale all’ innamorato Fausto: D. Basilio che fa riconoscere nel finto Marchese un vero truffatore di mestiere, corrisponde a D. Alfonso, per cui è scoverta la falsa dama dell’altra favola. Il viluppo e lo scioglimento di questa è fondato, come nella precedente, nell’artificio di due finte lettere. La critica che tende alla perfezione delle arti, potrebbe suggerire che meglio forse risalterebbero gli effetti della pessima educazione di Pepita, se la di lei Zia si mostrasse meno pungente in ogni incontro, e D. Eugenio innamorato meno nojoso, che ostenta sempre una morale avvelenata da un’ aria d’importanza e precettiva: che egli non dovrebbe continuare nè a moralizzare nè a corteggiar Pepita promessa ad un altro, a cui il padre ha già contati diecimila scudi per le gioje: che Pepita in tali circostanze non dovrebbe nell’atto II innoltrarsi in una lunga e seria conferenza deliberativa col medesimo e con la Zia: che il carattere di Bartolo portato a tutto sapere e tutto dire non dovrebbe permettergli di tacer come fa in tutta la commedia l’ importante secreto della finta lettera posta di soppiatto in tasca di D. Eugenio, {p. 84}che egli non ignora sin dall’atto I: che in una favola che l’autore vuol far cominciare di buon mattino e terminar prima di mezzodì, non pare che possano successivamente accadere tante cose, cioè diverse conversazioni riposatamente, consigli, trame, deliberazioni, una scena di ricamare in campagna, un giuoco di tresillo, indi un altro di ventuna, ballo, merenda, accuse contro D. Eugenio e D. Chiara, discolpe, arrivo di un nuovo personaggio &c. Checchessia però di tutto ciò la favola merita molta lode per la regolarità, per lo stile conveniente al genere, per l’ottima veduta morale, per le naturali dipinture de’ caratteri di Pepita, D. Ambrosia, D. Gonzalo e del Marchese, nel quale con molta grazia si mette in ridicolo il raguettismo di coloro che sconciano il proprio linguaggio castigliano con vocaboli e maniere francesi, del cui carattere diede in Ispagna l’esempio il rinomato autore del Fray-Gerundio.

II.
Tramezzi. §

Itramezzi che oggi nelle Spagne si rappresentano nell’intervallo degli atti delle commedie, o sono alcuni antichi entremeses buffoneschi di non molti interlocutori che continuano a recitarsi per lo più dopo l’atto {p. 85}I, o sono sainetes26, favolette più copiose di attori e più proprie de’ tempi presenti, perchè vi si dipingono i moderni costumi nazionali, e se ne riprendono le ridicolezze e i vizj, recitandosi con tutta la naturalezza e senza la cantilena declamatoria delle commedie. Ora quando a tali sainetti, ossieno salse comiche sapessero i poeti dar la giusta forma, essi a poco a poco introdurrebbero la bella commedia di Terenzio e Moliere. Ciò pare che facciano sperare le lodate commedie inedite di Don Leandro de Moratin e le ultime impresse di Don Tommaso Yriarte. Ma coloro che in tutta la mia dimora in Madrid dal settembre del 1765 alla fine del 1783 fornirono di tramezzi le patrie scene, non seppero mai dar sì bel passo, 1 perchè non si avvisarono d’imparar l’ arte di scegliere i tratti nella società più generali, allontanandosi dalle personalità, per formarne pitture istruttive, 2 perchè non hanno dato pruova di saper formare un quadro che rappresenti un’ azione compiuta; 3 perchè hanno mostrato d’ignorar la guisa di {p. 86}fissar l’altrui attenzione su di un solo carattere principale che trionfi fra molti, ed hanno esposto p.e. una sala di conversazione composta di varj originali con ugual quantità di lume, e dopo avergli fatto successivamente cicalare quanto basti per la durata del tramezzo, conchiudono perchè vogliono, non perchè debbono, con una tonadilla.

Un gran numero di tali sainetti, e forse la maggior parte si compongono da Don Ramòn la Cruz, di cui con privilegio esclusivo fidansi i commedianti di Madrid. Le sue picciole farse sono state spesso ricevute con applauso, e per esse si sono talvolta tollerate goffissime commedie o scempie traduzioni del medesimo La Cruz. Per natura egli ha lo stile dimesso ed umile assai accomodato a ritrarre, come ha fatto, il popolaccio di Lavapies o de las Maravillas, i mulattieri, i furfanti usciti da’ presidj, i cocchieri ubbriachi e simile gentame che talvolta fa ridere e spesse volte stomacare, e che La Bruyere voleva che si escludesse da un buon teatro. Può vedersene un esempio nel sainete intitolato la Tragedia de Manolillo, in cui intervengono tavernari, venditrici e venditori di castagne, d’ erbe, facchini &c. e l’eroe Manolo che torna senza camicia e mal vestito dopo aver compito il decennio della sua condanna nel presidio di Ceuta. L’azione consiste nella {p. 87}morte di Manolo ferito da Mediodiente di lui rivale cui tutti gli altri personaggi fanno compagnia, buttandosi in terra e dicendo che muojono, ma subito l’istesso feritore ordina che si alzino, ed essi risuscitano insieme col trafitto Manolillo belli e ridenti. Il disegno di tal farsetta è di mettere in ridicolo gli scrittori di tragedie e l’osservanza delle unità. Gli scherzi e i motteggi si aggirano sulle corna, sulle frodi de’ tavernari, su i ladroni, su varie donne di partito condotte all’Ospizio e a San Fernando, su i pidocchi uccisi in presidio da Manolo,

Y en las noches y rato mas ocioso
matava mis contrarios treinta à treinta.

Mat.

Todos Moros?

Man.

Ninguno era Cristiano.

In far simili ritratti dell’infima plebaglia egli ha mostrato destrezza. Segno a’ suoi strali mimici sono stati ancora frequentemente gli Abati che ostentano letteratura. Egli potrà aver anche fantasia per inventare e ben disporre favole nuove compiute; ma in tanti anni non l’ha certamente manifestata. In effetto fuori di certe invenzioni allegoriche che per lo più non si lasciano comprendere27, egli si è limitato {p. 88}a tradurre alcune farse francesi, e particolarmente di Moliere, come sono Giorgio Dandino, il Matrimonio a forza, Pourceaugnac &c. Ma in vece di apprendere da sì gran maestro l’arte di formar quadri compiuti di giusta grandezza simili al vero, egli ha rannicchiate, poste in iscorcio disgraziato e dimezzate nel più bello le di lui favole, a somiglianza di quel Damasto soprannomato Procruste, ladrone dell’Attica, il quale troncava i piedi o la testa a’ viandanti mal capitati, quando non si trovavano di giusta misura pel suo letto28.

{p. 89}

CAPO III.
Opera musicale Spagnuola e Italiana e Teatri materiali. §

I.
Opera Spagnuola. §

Cominciò l’opera nazionale sin dallo scorso secolo. Sotto Filippo IV l’ infante Don Fernando di lui fratello fondò due leghe distante da Madrid verso il settentrione in mezzo a un querceto una casa di campagna che denominò Zarzuela29. Egli solea in essa trattenere il re e la real famiglia con magnifiche feste singolarmente teatrali ricche di macchine e decorazioni, nelle quali accoppiavasi alla recita nuda di tutta la favola il canto di certe canzonette frapposte che diremmo arie. Tali rappresentazioni dal luogo ove eseguironsi trassero {p. 90}il nome di Zarzuelas, ed ora così seguitano a chiamarsi in Ispagna i drammi nazionali cantati. La nazione prima poco disposta ad ascoltare tutto un dramma cantato accolse più favorevolmente le proprie zarzuelas, benchè in esse il canto riesca più inverisimile che nell’opera vera. Non ne hanno però un gran numero. Di quelle del tempo di Filippo IV più non si favella nè anche. Le ultime sono pur poche. Io ho vedute ripetersi quasi sempre le medesime sarsuole composte per lo più dal lodato La Cruz, cioè las Segadoras (mietitrici) de Vallegas, las Foncarraleras, la Magestad en la Aldea, el Puerto de Flandes, e qualche Folla. Oltre a queste si sono tradotte e accomodate a foggia di sarsuole alcune opere buffe italiane, cioè rappresentandosi senza canto il recitativo e cantandosi le sole arie, i duetti, i cori, i finali. Tali sono la Buona Figliuola, le Pescatrici, il Filosofo di campagna, il Tamburro notturno.

Si tentò nel 1768 aprir camino ad una opera eroica spagnuola originale, rassettandola parimente alla maniera delle sarsuole. Il peso di comporne la poesia si addossò al sig. La Cruz, il quale compose Briseida Zarzuela Heroica in due atti posta in musica da D. Antonio Rodriguez de Hita maestro di musica spagnuolo: ma fu così mal ricevuta e derisa, spezialmente in alcune {p. 91}Lettere molto graziose e piene di sale scritte da Don Miguèl Higueras sotto il nome di un Barbero de Foncarràl, che questa fu la prima e l’ultima opera seria spagnuola. Essendo quasi impossibile agli esteri l’imbattersi in tal fanfaluca, e ben difficile a’ nazionali che se ne curino, diamone qualche contezza. Essa contiene l’intera sostanza di 19 libri dell’Iliade in compendio, perchè incomincia dal contrasto di Achille ed Agamennone per far rimandare Crisia al padre, nè finisce se non dopo l’ammazzamento di Patroclo, per cui Achille torna a combattere contro i Trojani. Tutto ciò si comprende in due piccioli atti divisi in dodici scene. Ebbe dunque tutta la ragione del mondo il sig. La Cruz di declamar tanti anni contro i compatriotti che inculcavano le moleste unità; e non ebbi io torto in affermare ch’egli rannicchia e pone in pessimi scorci le altrui invenzioni soggettandole al coltello anatomico di Procruste.

Ma ciò sarebbe il minor male, se col misero sacrificio della poesia almeno si servisse alla musica. Egli però, ignorando, punti del dialogo più opportuni per le ariei nè sa valersene a rendere meno ristucchevole il recitativo, nè sa con questo interromperne la frequenza ed evitar la sazietà che si produce anche coll’ armonia quando è perenne. Per esempio la prima aria dell’atto I non si canta se non dopo 126 versi recitati, {p. 92}e 32 versi poi sono seguiti da due arie: nell’atto II si recitano 150 versi prima di sentire un’ aria, e 70 versi soli fanno nascere cinque pezzi di musica, cioè tre arie, una cavatina ed un recitativo obbligato: altri 98 versi poi precedono un’ altra aria. Con tale economia sono distribuiti 14 pezzi di musica per lo più parlanti e senza affetti.

Cinque scene compongono l’atto I, in cui deliberata la restituzione di Crisia, Agamennone fa togliere Briseida ad Achille, il quale si allontana dal campo. Nella prima scena mille pensieri sublimi ed espressioni nobili energiche e poetiche possono notarvisi. Agamennone chiamato re de’ mortali (titolo per altro dato nella poesia greca e latina al solo Giove) lodando Achille dice che il di lui nome solo è definizione degna di lui: di Agamennone si dice che gli eroi della Grecia si gloriano d’essergli soggetti, nivelando su conducta por su prudencia: de’ Greci si dice,

separamos los brazos de los cuellos
de las esposas,

volendosi dire che si sono distaccati dagli amplessi delle consorti, benchè separar le braccia da i colli possa parer piuttosto un’ esecuzione di giustizia: di un reo che involge gl’ innocenti nella sua ruina, dicesi {p. 93}con espressione propria, felice ed elegante, hizo participantes del castigo agl’ innocenti: si danno braccia ad una pecora, dalle quali il lupo strappa gli agnelli: per dirsi che Agamennone nè vuol cedere Criseida nè permettere che sia riscattata, si dice con tutta proprietà castigliana che ni cederla quiere ni redimirla, quasi che dovesse egli stesso riscattarla da altri. Or tocca al La Cruz, al Sampere ed a tutta la turba che gli applaude, a conciliar tutto ciò colla loro lingua, colla poesia e col senso comune. Si conchiude con un’ aria in cui Calcante profetizza che il sole irritato convertirà en temor nuestras alegrias; ma di grazia quali allegrie, se Achille ha descritto la mortalità del campo desolato dalla peste? Si aggiugne un’ altr’aria di paragone di un fresco rio che coll’ umor frio feconda le piante, ma se poi è trattenuto da un pantano vil altivo, questo rio annega ogni cosa. Veramente un rio che sbocca in un pantano non può che impantanarsi anch’ esso, e non sommerger tutto, ma passi; non si capisce però come si dia un pantano vil altivo.

Dopo alcuni soporiferi discorsi di Briseida e Crisia Achille annunzia a questa la sua libertà, ed ella grata gli augura una corona di lauro che Apollo idolatra; ma immediatamente poi nell’aria gliene augura un’ altra di mirto, nè le basta se non vede su i di lui capelli fiorire i rami di tal {p. 94}mirto; e nella seconda parte (che conviene alla prima come il basto al bue) si dice

y de nuestras vidas
con afectos nobles
aprehendan los robles
à permanecer.

Achille nella scena 4 dice a Briseida,

Al beneficio de los ayres puros
Nuestras naves y tropas veràs luego
A su primer vigor restituidas.

Che cessando la peste la gente riprenda il vigore, ben s’intende; ma le navi sono anch’esse soggette al contagio? ed in qual vigore esse ritornano coll’ aria pura? Che Achille non solo voglia chiamarsi figlio ma primogenito di Teti, è buona scoperta genealogica per gli antiquarj. Lasciamo la sintassi irregolare di quel no se acuerda de quien soy y quanto &c.; lasciamo quel supongo yo mas, espressione castigliana, sì, ma troppo famigliare per un dramma eroico. Disconviene però al carattere del magnanimo Achille quel gettar motti maligni contro una verità notoria dell’elezione di Agamennone, con dirsi che forse sia stato eletto per capo da pocos hombres. Graziosa è la di lui determinazione di non voler suscitare una guerra civile contraddetta dall’ {p. 95}aria tutta minaccevole, nella quale paragona se stesso al mar tempestoso e medita vendette, e nella seconda parte di essa, che non ha che fare col primo pensiere, si dice,

sin tus perfecciones
serà à mis passiones
dificil la calma,
quando à mi alma
la quietud faltò;

ciò in castigliano potrebbe dirsi una pura quisicosa, ed in francese un galimathias.

Agamennone nella scena 5 domanda a Taltibio se abbia eseguiti i suoi ordini, quando pur vede Briseida ed Achille in quel luogo; ed il servo disubbidiente dice che gli ha enunciati, ma non è passato oltre per compassione, e canta un’ aria di un tronco che cede alla forza ma mostra colla resistenza il proprio dolore, sentenza che quando non fosse falsa, impertinente ed inutile per la musica, sarebbe sempre insipidamente lirica e metafisica. Termina l’atto con un terzetto di Achille, Briseida ed Agamennone (rèstando per muti testimoni Patroclo e gli altri), e con questi versi cantati da tutti e tre,

dioses, que veis la injuria,
vengadme del traidor.
{p. 96}

In prima in quest’azione niuno di essi può dirsi un traditore, e l’istesso Agamennone col prendersi Briseida usa una prepotenza una tirannia, ma non un tradimento; pure quando voglia concedersi agli amanti un’ espressione per isdegno men misurata, come mai Agamennone che offende Achille col togliergli l’ amata, può per soprappiù lagnarsi di essere ingiuriato e tradito da Achille?

Stancherò io i miei leggitori con una circostanziata analisi dell’atto II? Contentiamci di accennare che pari meschinità di concetti, trivialità d’espressioni, abuso ed improprietà di termini si trova nel rimanente30. Aggiungiamo solo alla sfuggita che tutte le arie sono stentate, inarmoniche, difettose nella sintassi e contrarie o distanti dal pensiero del recitativo: che vi si trova uguale ignoranza delle favole Omeriche {p. 97}e de’ tragici antichi: che Briseida augura ipocritamente ad Achille che giunga

à gozar del amor de su Ifigenia,

ignorando che la sacrificata Ifigenia per miracolo di Diana ignoto a’ Greci dimorava nel tempio della Tauride: che la stessa Briseida lo prega ad intenerirsi,

y no qual fuerte hierro à tu Briseida
aniquiles, abrases y consumas,

colle quali parole par che attribuisca al ferro le proprietà del fuoco di annichilare, bruciare, consumare: che Achille vuole che gli augelli loquaci siano muti testimoni (los pajaros parleros sean mudos testigos): che il medesimo dice di avere appreso da Ulisse

à despreciar la voz de las sirenas,

la qual cosa non può dire se non con ispirito profetico, perchè Ulisse non si preservò dalle sirene se non dopo la morte di Achille e la distruzione di Troja: che anche profeticamente l’istesso Achille indovina che l’uccisore di Patroclo sia stato Ettore, perchè nel dramma niuno gliel’ ha detto: che Agamennone dice ad Achille che vedrà al campo il corpo di Patroclo

{p. 98}
pasto fatal de las voraces fieras,

bugia che contraddice al racconto di Omero che lo fa venire in potere de’ Mirmidoni; nè poi Achille potrebbe mai vedere una cosa già seguita, purchè le fiere a di lui riguardo non vogliano gentilmente differire di manicarselo sino al di lui arrivo: in fine che l’autore dovrebbe informarci perchè Briseida di Lirnesso cioè Frigia di nazione mostri tanto odio contro le proprie contrade a segno di desiderarne l’ annientamento anche a costo di dover ella rimaner priva di Achille? È mentecatta quest’insipida figlia del Frigio Briseo, ovvero il sig. La Cruz? E questa è la Briseida di Don Ramòn La Cruz Cano y Olmedilla &c. &c. I critici nazionali decideranno qual sia il più scempiato componimento di questo secolo tra questa Briseida ed il Paolino di Añorbe y Corregel. Essi investigheranno ancora chi sia quel poetilla ridiculo autor de comedias goticas, todas aplauditas en el teatro, todas detestables à no poder mas, y todas impresas por suscripcion, con dedicatoria y prologo31.

{p. 99}

Il teatro spagnuolo ha un’ altra specie di rappresentazione musicale, cioè la tonadilla e la seguidilla, narrazioni fatte per la musica, che tal volta si distendono a più scene e si cantano anche a due, a tre e a quattro voci. Ecco come le diffinisce nel poema della Musica il sig. Yriarte:

Canzoneta vulgar breve y sencilla,
Y es hoi à veces una escena entera,
A veces todo un acto,
Segùn su duracion y artificio.

Essa però negli ultimi anni si vede passata dalle grazie naturali delle venditrici di aranci, di frutta e di erbaggi, all’elevatezza della musica più seria, ai gorgheggi, alle più difficili volate; di maniera che con mala elezione ha cangiato il proprio carattere, e si vede in una stessa tonada spesso congiunto l’antico ed il moderno gusto, la musica nazionale e l’italiana. Vedasi pure come ne parla il medesimo sig. Yriarte:

Pues uno eleva tanto
{p. 100}
El estilo en asuntos familiares,
Que aun suele para rusticos cantares
De heroicas arias usurpar el canto:
Otro le zurce vestidura estraña
De retazos ni suyos ni de España &c.

Riguardo alla poesia l’insipidezza, i delirj, la scempiaggine delle ultime tonadas è giunta all’estremo. In una di esse si sono personificate e introdotte a parlare le due statue di Apollo e Cibele ed il Passeggio del Prado: in un’ altra si personificò la Cazuela e la Tertulia, che sono due palchettoni del teatro32.

II.
Opera Italiana. §

L’opera italiana non tradotta si è rappresentata in diversi tempi interrottamente nella penisola. Nel real palazzo del Buen Retiro di Madrid sotto il re Ferdinando VI si cantarono le più famose opere di Metastasio e qualche serenata di Paolo Rolli, da più accreditati attori musici e dalle più {p. 101}celebri cantatrici dell’Italia, senza balli ma con alcuni tramezzi buffi, dirigendone lo spettacolo il rinomato cigno Napoletano Carlo Broschi detto Farinelli da quel Cattolico Sovrano dichiarato cavaliere. La Nitteti del Cesareo Poeta Romano, in cui l’intrigo interessante e le situazioni patetiche vengono arricchite da maravigliose decorazioni ma tutte ricavate dalla natura, fu espressamente composta per tale teatro a richiesta del suo amico Farinelli. Ma questo spettacolo veramente reale, cui venivano ammessi gli spettatori senza pagarne l’entrata, terminò colla vita della Regina Barbara e di Ferdinando VI.

Nel teatro detto de los Caños del Peràl sin dal 1730 si rappresentarono opere buffe, ma dopo alquanti anni vi si recitarono commedie spagnuole, le quali pure erano cessate nel 1765 quando io giunsi in Madrid. Qualche concerto ed opera buffa vi si eseguì di passaggio l’anno stesso in cui si sospesero le rappresentazioni de’ siti reali. Oggi vi si tornano a rappresentare le opere musicali ripigliate sin dal 1786.

In Aranjuez, nell’Escurial, in San Ildefonso e nel Pardo in tempo che vi dimorava la Corte dal 1767 s’introdussero le opere buffe con balli, le quali alternavano colle rappresentazioni francesi tradotte in castigliano eseguite da una compagnia di commedianti Andaluzzi. Ma l’ uno e l’altro {p. 102}spettacolo cessò nel 1776 per divieto sovrano.

In Cadice, in Barcellona, in Saragoza, in Cartagena e talvolta nel Ferol, si è rappresentata ancora alcuni anni l’opera italiana. Anche in Bilbao qualche volta se n’è cantata alcuna ma tradotta in castigliano. In Lisbona sotto il Padre dell’attuale regina fedelissima Maria Francesca l’opera italiana fece le delizie di quella corte.

III.
Teatri materiali. §

Iteatri di Barcellona e di Saragoza da me veduti nella fine del 1777 erano più regolari e più grandi di quelli che oggi esistono in Madrid, ma sventuratamente in diverso tempo entrambi soggiacquero ad un incendio che gli distrusse. Sussistono quelli di Lisbona e di Codice.

Madrid ha quattro teatri, cioè quello della Corte nel Ritiro, l’altro de los Caños del Peràl, e quelli detti Corràl del Principe e Corràl de la Crüz.

Del real teatro che prende il nome dal Ritiro su l’architetto Giacomo Bonavia; ma il Bolognese Giacomo Bonavera in compagnia del Pavia lo ridusse nella forma presente tanto per farvi maneggiare le mutazioni delle scene non sopra del palco ma {p. 103}sotto di esso nel comodo e spazioso piano che vi soggiace; quanto per agevolare l’apparenza delle macchine ch’egli inventava. La sua forma è circolare alla foggia moderna con platea e con palchi comodi e nobili, e quello del re sommamente magnifico fu arricchito di belle pitture del fu Amiconi pittore Veneziano assai caro a Ferdinando VI. Non è grande l’ uditorio, perchè si destinò solo a’ ministri, agli ambasciadori, a’ grandi e a’ dipendenti della corte. Ma la scena, eccetto quella di Parma e di Napoli, è una delle più vaste dell’Europa. Essa ha di più il vantaggio singolare di poter far uso del gran giardino del Ritiro che le stà a livello, e dà spazio conveniente alle lontananze e alle apparenze di accampamenti e simili decorazioni. Vi si osservano tuttavia le macchine che servirono per la rappresentazione della Nitteti, cioè un gran sole, la nave che si sommergeva, le macchine che imitavano la grandine, un gran carro trionfale &c.

Il teatro de los Caños si costrusse anche alla foggia moderna con platea e palchetti per rappresentarvisi opere buffe; ma nel 1767 se ne cangiò la forma interiore dall’architetto spagnuolo Don Ventura Rodriguez per uso de’ pubblici balli in maschera. Per acquistar luogo senza alzarne il tetto o ingrandirlo in altra forma, l’architetto pensò a profondarne il pavimento in guisa che {p. 104}per andare alla platea dovea scendersi. Ciò si disapprovò da i più, tra perchè si tolse a chi entrava la prima vaga e dilettevole occhiata di tutta la gran sala illuminata e abbellita dalle maschere, tra perchè il luogo ne divenne assai freddo, umido e nocevole alle maschere vestite di leggiera seta. Oggi ha ripigliata l’antica divisione di scenario ed uditorio per le rappresentazioni musicali.

Rimane a far parola de i due corrales destinati alla commedia nazionale, la cui struttura si allontana da i nostri teatri. Corràl propriamente significa una corte rustica dietro di una casa, e talvolta comune a più casucce di famiglie plebee, ed un tal luogo servì talora nella Spagna per le rappresentazioni sceniche, quando ancora non eranvi teatri fissi. Era natural cosa che le famiglie che abitavano in simili case, avessero il diritto di affacciarsi alle loro finestre, logge, o balconi, e godere dello spettacolo. Quando poi si costruirono gli edifizj chiusi addetti unicamente agli spettacoli scenici, essi presero la forma di quelle case e di quelle corti nella costruzione sì de’ palchi superiori che della platea e dello scenario inferiore, e ritennero il nome di corrales. Madrid ne ha due che appartengono al corpo politico che rappresenta la Villa, come in Napoli la Città, e dalle strade ove essi sono del Principe e della Cruz, chiamaronsi Corral {p. 105}del Principe, Corràl de la Cruz. Ignoro il tempo in cui essi edificaronsi, nè l’autore del Viaggio di Spagna cel fa sapere. Si sa solo che quello de la Cruz più difettoso dell’altro, fu il primo a costruirsi. Entrambi sono un misto di antico e di moderno per la scalinata anfiteatrale e per li palchetti che hanno. La figura di quello del Principe si scosta meno dall’ellittica: dell’ altro è mistilinea, congiungendovisi ad un arco di cerchio due linee che pajono rette perchè s’incurvano ben poco, onde avviene che da una buona parte de’ palchetti vi si gode poco commodamente la rappresentazione. La scena dell’uno e dell’altro è di una grandezza proporzionata agli spettacoli. L’apparato di essa sino a venti anni fa consisteva in un proscenio accompagnato da due telai o quinte laterali, e da un prospetto con due portiere dette cortinas, dalle quali solamente entravano ed uscivano gli attori con tutti gl’ inconvenienti che nuocono al verisimile e guastano l’illusione. Per antico costume compariva in siffatta scena con cortinas un sonatore di chitarra per accompagnar le donne che cantavano, raddoppiandosene la sconvenevolezza, perchè tra’ personaggi caratterizzati secondo la favola e vestiti p. e. da Turchi, da Mori, da Selvaggi Americani, si vedeva dondolar quel sonatore alla francese. Oggi las cortinas hanno ceduto il luogo a varie vedute ben dipinte {p. 106}e convenienti alle azioni rappresentate, ed alla chitarra sparita dalla scena è succeduta una competente orchestra di buoni professori posta, come negli altri teatri moderni, nel piano della platea. I più distinti o ricchi spettatori occupano dopo l’ orchestra quattro file ciascuna di diciotto comodi sedili, e questo luogo chiamasi luneta. Altri spettatori seggono in alcuni scaglioni posti in giro l’uno sopra l’altro a foggia di anfiteatro, che si chiamano la grada. Circonda la fascia superiore di questa scalinata un corridojo oscuro che anche si riempie di spettatori, ed a livello del primo scaglione inferiore havvi un altro corridojo, nel quale v’è gente in parte seduta in una fila di panche chiamata barandilla (ringhiera) ed in parte all’erta. Il rimanente del popolo assiste parimente senza sedere nel piano dopo la luneta chiamato patio (cortile). Le donne di ogni ceto separate dagli uomini coperte dalle loro mantillas seggono unite in un gran palco dirimpetto alla scena, chiamato cazuela che congiunge i due archi della grada. L’uno e l’altro teatro ha tre ordini di palchetti simili a quelli de’ teatri italiani per le dame e altra gente agiata; l’ultimo de’ quali men nobile è interrotto nel mezzo da un altro gran palco chiamato tertulia perpendicolare alla cazuela, dal quale gode dello spettacolo la gente più seria e singolarmente gli ecclesiastici. {p. 107}Attaccati al proscenio havvi due spezie di palchi laterali a livello del corridore della barandilla, chiamati faltriqueras, ovvero cubillos, i quali, in vece di avere il punto di vista verso la scena, girano di tal modo per non impedire la vista a i corridoj, che riguardano al punto opposto, cioè alla cazuela33.

La capa parda ed il sombrero chambergo, cioè senza allacciare, ancor di cara memoria a’ Madrilenghi, un uditorio con tante spezie di ritirate di certa oscurità visibile, e un abuso di mal intesa libertà, facilitava le insolenze di due partiti teatrali denominati Chorizos y Polacos, simili in certo modo ai Verdi e a’ Torchini dell’antico teatro {p. 108}e del circo di Costantinopoli. Les Chorizos erano i partigiani del teatro della Croce, los Polacos del Principe; ma di tali nomi non potei rintracciare la vera origine, tuttochè ne richiedessi varj eruditi amici che frequentavano i teatri. Alcuno mi disse che il nome di Polacchi venne da un intermezzo, o da una tonada di personaggi Polacchi rappresentata con applauso nell’ultimo teatro; ma nulla di positivo avendone ricavato non mi curai d’insistere più oltre in simili bagattelle. La famosa Mariquita Ladvenant morta son circa ventiquattro anni degna di nominarsi tralle più sensibili e vivaci attrici antiche e moderne rappresentava nel teatro della Croce, e los Chorizos suoi fautori furono da lei distinti con un nastro di color di solfo nel cappello, mentre i partigiani opposti ne presero uno di color celeste. Qualche sconcerto nato tralle due fazioni, e l’ animosità che ne risultava, determinò la prudenza di chi governava a troncare questa scenica rivalità, formando delle due compagnie un solo corpo, una sola cassa e un solo interesse. Rimane oggi di cotali partiti di Chorizos y Polacos appena una fredda serena parzialità, che ad altro non serve se non che a sostenere un momento di conversazione ne’ caffè senza veruna conseguenza34.

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LIBRO X ed ultimo.
Teatro Italiano del secolo XVIII §

CAPO I §

I. Tragedie reali. §

Risorgeva a gran passi nel cader del passato secolo il gusto della vera eloquenza nelle contrade chiuse dalle Alpi; e già nel 1690 de’ suoi allievi e proseliti potè in Roma formarsi un’ accademia sotto il modesto titolo di Arcadia, le cui colonie si sparsero per l’ Italia tutta. L’antica poesia de’ Greci e de’ Latini ricondotta trionfante ne’ sette colli inspirava disprezzo e pietà per le scuole Gongoresche e Mariniste e venerazione e amore per Dante e Petrarca che bevvero in que’ puri fonti. Il cardinal Delfino e ’l barone Caracci35 furono i precursori del rinascimento {p. 116}della tragedia italiana.

L’onore di primo restauratore di essa nel nostro secolo debbesi senza dubbio al Bolognese Pier Jacopo Martelli nato nel 1665 e morto nel 1727 secondo l’epitafio fattogli dall’illustre matematico e poeta Eustachio Manfredi. Martelli chiaro in Arcadia col nome di Mirtillo, munito di dottrina, d’ingegno e di gusto, emulo del Maffei e del Gravina36, avea cominciato a comporre qualche dramma musicale, e si rivolse indi alle tragedie, che s’ impressero in più volumi. Niuno può negargli nè la regolarità che sempre osserva, nè la ricchezza, la sublimità e l’eleganza dello stile, nè la copia de’ pensieri, nè l’arte di colorire acconciamente i caratteri e le passioni. Nocquegli in molte di esse la versificazione che prescelse, ad onta di averla renduta al possibile armoniosa, sì per esser nuova in {p. 117}teatro, sì per la rima e la monotonia che l’accompagna, e le di lui tragedie dopo alcuni anni cessarono di rappresentarsi. Certo è però che i forestieri stessi non furongli avari de’ loro applausi. I giornalisti Olandesi ne manifestarono varj pregi, e quelli di Trevoux asserirono che pochi tragici pareggiavano il Martelli. Certo è pure che la compagnia di Luigi Riccoboni le rappresentò con applauso non equivoco in Verona, in Venezia, in Bologna. Certo è finalmente che chi comprende le vere bellezze tragiche, ve ne incontra un gran numero non solo nelle più applaudite, come sono Perselide, Ifigenia in Tauri, Alceste, ma nel Procolo, nel Cicerone, nel Q. Fabio, nel Taimingi &c.37. La semplicità della condotta, la nobiltà de’ sentimenti, l’eleganza e la gravità dello stile, la compassione maneggiata con arte e decenza, il magnanimo carattere di Mustafo, il tenero e patetico di Perselide, la dipintura d’un Ottomano geloso del potere, e perciò crudele in Solimano, costituiscono il merito della {p. 118}Perselide. Altra volta recammo per saggio dello stile e della versificazione l’ appassionato monologo di Perselide dell’atto III, Eccomi donna e sola fra barbari crudeli &c. che la dipinge egregiamente. Osserviamo ora in due frammenti in qual guisa si esprima Solimano e Mustafo. Il primo nell’atto IV dopo aver deliberata la morte del suo gran figlio sente la natura che pugna colla barbarie e col sospetto. Egli dice:

Dunque le altere doti che amabile lo fanno,
Che fur già mia delizia, gli si volgono in danno?
Io fui che gliele infusi, che l’educai perchè esso
Fusse amato, e perchè altri l’ama, il punisco io stesso?
Misero, il penso e vivo? nè questo cor mi schianto,
Che di dolor non scoppia? . . . Soliman? questo è pianto!
Non v’è già chi mi veda? Lagrime vili, il corso
Frenate: ahi per cent’occhi bastami il mio rimorso!
Or sei morto, mio figlio, or che il pianto mi cade;
Scacciam la debolezza sin colla crudeltade ..
{p. 119}

La delicatezza dell’espressioni di Mustafo che va a morire, è notabile: egli non vuol dirlo chiaramente a Perselide, e pur vorrebbe far sapere a Zeanghire che muore suo amico:

Quel che udisti e vedrai, per pietà non gli dire,
Se no, invidia o dolore te lo faran morire.
So quanto ei m’ami e quanto lui dalle fasce amai;
Tu pur, vergine degna di miglior sorte, il sai.
Per me segui ad amarlo: le voglie tue sian sue,
Tue sian le sue: sì uniti siate ambo in ambedue.
Virtù piacciavi sempre, che alfin s’oltre la morte
Siam qualche cosa, il premio ne avrà l’anima forte.
Siate fidi al Soldano; siane in difesa a i troni
Il braccio del tuo sposo che com’ io gli perdoni.
Addio.

Persel.

Ma forse in guerra ti chiamano i perigli?
Preserveranti i numi a quai tanto somigli.
Non mi parlar qual parla chi più non si rivede.
{p. 120}

Musta.

Al suocero, allo sposo obedienza e fede.
Questi estremi ricordi serba col tuo consorte,
E non cercar più nulla di qualunque mia sorte.
Sol se qualche novella (che al fin verrà cred’ io)
Giugnerà a Zeanghire, digli a mio nome addio:
Digli che del suo nome nelle note a me care
Partir tu mi vedesti, e finir di parlare.

Una tragedia di tal pregio non meritava occupare il luogo delle Gemelle Capuane o di qualche altra del Teatro Italiano? Ciò che diffinisce i primi progressi della tragedia italiana sin dal principio di questo secolo, è appunto la saggia imitazione fatta dal Martelli dell’Ifigenia in Tauri e dell’Alceste di Euripide. Gl’ Italiani del XVI secolo aveano trasportati i greci argomenti con troppo scrupolosa osservanza delle antiche vestigia, ed i Francesi del XVII secolo fecero un passo di più maneggiandoli in guisa che si adattassero al popolo ed al tempo in cui si ripetono. Il Martelli partecipò felicemente di questa gloria, e con miglior senno de’ nostri cinquecentisti accomodò all’importanza e alla vaghezza de’ greci argomenti l’artifizio della moderna economia. {p. 121}Il confronto dell’Ifigenia in Tauri di Euripide con quella del Martelli mostrerà sempre al giovane studioso la maniera di modernar le greche favole con vantaggio e senza sconciarle. Chi si sovverrà dell’Alceste del medesimo Greco, avendo sotto gli occhi quella del Martelli, vedrà nella moderna conservato l’ interesse dell’antica senza inverisimilitudini, senza il trionfo di Ercole nell’inferno e senza le indecenti altercazioni di Admeto col padre.

Impaziente parimente del risorgimento della nostra tragedia il celebre Calabrese Gian Vincenzo Gravina volle richiamarci allo studio de’ Greci, e scrisse in tre mesi cinque tragedie, Palamede, Andromeda, Servio Tullio, Appio Claudio, Papiniano. La bella semplicità cui si attenne nel tesserle, piacque agli eruditi, e per questa parte fu applaudito dall’istesso Martelli; ma s’ingannò in più maniere nell’esecuzione del suo disegno. Pieno com’ era della più riposta erudizione greca, poteva far risalire i leggitori sino a’ costumi de’ remoti popoli della Grecia nel Palamede e nell’Andromeda; ma qual vantaggio poteva ciò recare al moderno teatro che sì poco desiderava le stesse lodate tragedie de’ cinquecentisti? Dovea egli poi serbare il modo stesso negli altri tre argomenti Romani? Conveniva a questi la veste greca? Volle ancora adoperare alla greca maniera la varietà de’ {p. 122}metri, e sventuratamente elesse l’endecasillabo sdrucciolo per verso principale (già usato dal Grattarolo nella Altea e nella Polissena), lusingandosi di poterlo elevare alla grandezza tragica e sostituirlo al giambico antico; ma questo sforzo inutile ferì l’orecchie italiane. De’ Greci (suggerisce il giudizio e il gusto) vuolsi imitar lo spirito e non il portamento e le spoglie esteriori. Con tutto ciò molta ingiustizia gli fecero i contemporanei e fangli alcuni semidotti de’ giorni nostri. Non si proponga a modello, ma se ne rilevino i pregi che possiede. Se ne censuri la versificazione, l’ uso frequente de’ latinismi, l’affettazione di alcune similitudini poste in canzonette, il suo modo di sceneggiare all’antica &c. Ma se ne comendi la regolarità e il giudizio, e si vegga il filosofo e l’ erudito nell’artificiosa pittura de’ moderni costumi applicata a’ personaggi delle sue favole imitando l’arte di satireggiare di Euripide, specialmente nel Papiniano. Soprattutto si encomj col dotto critico Pietro di Calepio per aver saputo travestire ed applicare all’azione quella sorte di sentenze che contengono massime di morale, nella quale arte il Gravina si è distinto da gran parte de’ nostri poeti &c. Si mostrerà sempre un critico dozzinale colui che proponesse alla gioventù un solo scrittore per modello, alcuno non trovandosene nel suo genere sì compiuto {p. 123}che tutte contenga le perfezzioni. La filosofia consiglierà sempre a valersi della nota sagacità di quel Greco pittore che raccolse da molte leggiadre donne le sparse parti della beltà per formarne la sua Venere. Questo esser dee l’uffizio della vera storia teatrale ragionata; e questo non sanno fare nè i plagiarj di mestiere quando copiano e furano a metà, nè gli apologisti preoccupati.

Il regno di Napoli produsse ne’ primi anni del secolo due altri pregevoli scrittori di tragedie, il consigliere conte Saverio Pansuti, ed il duca Annibale Marchese. Compose il primo cinque tragedie impresse in Napoli, cioè Bruto nel 1723, Sofonisba e Virginia nel 1725, Sejano nel 1729, ed Orazia che unita alle altre uscì nel 1742. Vinse egli per gravità e per versificazione il Gravina, e fece spesso intravedere elevatezza e sublimità, e quel patetico e terribile tragico che agita ed interessa. Ma sceneggiava alla foggia antica, introduceva o faceva partire i personaggi senza perchè, trascorreva nel lirico, faceva versi stentati, imbrattava alcune volte la locuzione con formole poco pure, inusitate e scorrette. Più che altrove lo stile è affettato e lirico nel Sejano, le sentenze più ricercate che in Seneca, il linguaggio più spesso fangoso, e nell’atto V si accumolano troppe cose dopo la morte di Sejano, le quali conveniva {p. 124}accennar brevemente. Ma vi si scorgono varie pennellate franche e vigorose; vivo è il ritratto de’ favoriti nell’ atto III, buona è la scena del IV in cui Sejano intima il divorzio ad Apicata, tragici i rimorsi che atterriscono Livia dopo la morte di Druso, e opportuna l’osservazione della nutrice in tal proposito,

O quai rei simulacri in noi produce
La fiera compagnia de’ proprj falli!

Più moderatamente nella Sofonisba trovansi sparsi gli ornamenti lirici, e non manca di passi tragici bene espressi. La Virginia, mal grado del buon dialogo d’Icilio e Numitore nell’atto I, e del racconto felice e senza ridondanza del di lei ammazzamento, si posporrà sempre a tutte le altre a cagione dell’ episodio della deflorata Volunnia che si frammischia al fatto di Virginia. Migliore delle precedenti è il Bruto dettato in istile sublime e raramente gonfio, e ricco di passi ben espressi. Lodevole nell’atto I è il ritratto che in Tito si fa de’ partigiani del regno, ed in Furio de’ repubblicisti, sul gusto delle politiche discussioni di P. Cornelio, e la descrizione delle arti degli ambasciadori nelle corti straniere: nel III l’ambasciata degnamente esposta da Celio: nel IV i gravi sentimenti di Furio che tenta di richiamar Tito nel camin dritto: nel {p. 125}V i forti rimorsi di Tito divenuto traditore, il tenero abboccamento di lui colla madre, gli eroici insieme e patetici sentimenti di Bruto. Ma l’ Orazia rappresentata in Napoli con ammirazione e diletto universale colla direzione del celebre Andrea Belvedere, fu il trionfo del Pansuti. Nel trattar quest’argomento dopo l’Aretino e il Cornelio egli, dando come il primo alla sua favola il titolo di Orazia, conservò per lei sola sino all’atto V tutto l’interesse, là dove l’Aretino che la fe morire nel III, lo divide fra lei ed il fratello. Rare volte l’espressione tradisce la verità, anzi spesso l’avviva col sublime e col patetico. Meritano particolare attenzione l’amor tragico di Orazia e Curiazio, il carattere eroico e feroce di Orazio, l’amara divisione di Orazia e Curiazio nell’atto III, la notizia della pugna stabilita tra’ Curiazj e gli Orazj nel IV, di cui è conseguenza l’altra scena di Orazio collo sposo, il contrasto delle allegrezze di Roma colle smanie di Orazia per la sanguinosa vittoria del fratello e per la morte del di lei sposo, e finalmente l’ azione del V interessante per la morte di Orazia, pel pericolo di Orazio condannato e per la patetica aringa di Publio in pro del figlio superstite che commuove il Popolo Romano. Non è dunque maraviglia che, al dire anche degli eruditi compilatori della Bibliotheque Italique nel tomo VII, i dotti {p. 126}vi presero tanto piacere a leggerla, quante il pubblico a vederla rappresentare38.

Predilesse la poesia tragica il coltissimo duca Annibale Marchese, il quale dopo di aver governato da preside in Salerno entrò nel 1740 tra’ Padri Gerolimini di Napoli e glorioso per la rinunzia dell’ arcivescovato di Palermo e del vescovato di Lecce a lui offerti morì nel 1753 ammirato per le sue virtù. Sin dalla prima gioventù mostrò gusto e buon senno colla scelta di ottimi argomenti per due sue favole impresse in Napoli nel 1715, il Crispo e la Polissena. Non fu solo il Martelli ne’ primi lustri del secolo che seppe unire alle bellezze del greco coturno la saggia maniera d’ interessare i moderni alla lettura seguendo le orme de’ tragici francesi. Il Marchese trattò il Crispo che è un ritratto dell’Ippolito greco, col patetico pennello di Euripide e coll’ eleganza armoniosa del Racine sceneggiandolo alla moderna, e vinse coll’ ottima versificazione il Martelli, colla gravità il Gravina, colla purezza del linguaggio il Pansuti. Meritò la di lui Polissena che da Pietro di Calepio {p. 127}si preferisse nel confronto a quella del La Fosse pel piano meglio ragionato, pel costume più conveniente, e per l’arte di muovere la compassione. Egli è vero che all’istesso Calepio sembra di trovare nella Polissena francese maggior bellezza nelle sentenze, più vivacità negli affetti ed energia nella locuzione: vero è altresì ch’ei riprende nelle nutrici introdotte dal Marchese la perizia che mostrano della mitologia. Ma pur non è sì grande lo svantaggio dell’Italiano per le sentenze e per la locuzione, nè gli affetti riescono in lui sì poco vivaci al confronto; e quanto alle nutrici (qualora se ne conceda l’uso), può accordarsi loro certa specie di coltura al riflettersi che esse non rassomigliano alle moderne balie, ma si supposero sempre persone di alta condizione e compagne delle regine sino alla loro morte. Compose in oltre il Marchese dieci tragedie cristiane impresse magnificamente in Napoli in due volumi in quarto nel 1729. A ciascuna si premise un rame disegnato or dal Solimena or da Andrea Vaccaro, ed inciso qual dal Tedesco Sedelmaïr, quale dal Napoletano Baldi, quale dal Veneziano Zucchi. I cori di esse posti in musica da varj eccellenti maestri Napoletani si trovano stampati colle note musicali in fine di ciascun tomo. Tommaso Carapelle pose in musica i cori del Domiziano: Domenico Sarro quelli de’ Massimini: Leonardo {p. 128}Vinci del Massimiano: Francesco Durante del Flavio Valente: Giovanni Adolfo Hasse detto il Sassone della Draomira: Nicola Fago detto il Tarantino dell’Eustachio: Leonardo di Leo della Sofronia: Nicola Porpora dell’Ermenegildo: Francesco Mancini del Maurizio il Principe di Ardore del Ridolfo. Caratterizzano queste favole una locuzione pura ed elegante e sobriamente poetica qual si conviene sulla scena, uno stile grave e sublime, una costante regolarità, la sceneggiatura moderna che quasi mai non lascia vuoto il teatro, i caratteri degnamente sostenuti, le passioni portate a quel segno che permette l’eroismo cristiano che riscaldava il petto dell’autore. Per saggio della di lui maniera di colorire vedasi un frammento del racconto che fa Eustachio a Simile delle sue avventure col Corsaro:

Talche me con mia prole in erma arena
Gittando ignudi, il rio corso riprende.
Lasso! Teopista io grido, e valli ed antri
Gridan Teopista ancor: l’ode la bella
Cagion del pianto mio, che vuol nell’onde
Precipitarsi, o per tornarmi in braccio,
O per fuggir gli oltraggi, e rattenuta
Vien dal rio predatore. Eustachio, intanto
Dice fra gridi e fra tumulti, e sempre
{p. 129}
Più lievi ascolto di sue voci il suono.
Lontananza e fragor d’onda sonante
Poi mi rende indistinte e al fin mi chiude
Le care voci. Svolazzante lino
Scuote la grama, testimonio estremo
D’amor, di fe, di duolo; e a lei rispondo
(Ch’altro meco non ho) con mano ignuda,
Poi, così spinto dal dolore, in alto
Il pargoletto Agapito l’espongo.

Sim.

Tragica scena!

Eust.

S’interpone e cresce
Più ognor l’aere fra noi per lontananza &c.

Ricca miniera di affetti e di caratteri eccellentemente contrapposti e coloriti, e di gran pensieri con eleganza e sublimità espressi, mi sembra singolarmente l’Ermenegildo. Vi formano un quadro pennelleggiato con vivacità e maestria questo santo re zelante cattolico, rispettoso figliuolo e tenero consorte, Igonda piena di magnanimità e di vero affetto pel marito, Recaredo sensibile e generoso, Leovigildo tiranno inesorabile e ariano superstizioso, Genserico vescovo degli ariani scellerato e astuto cortigiano e persecutore implacabile. Questo insidiatore strappa dalla bocca di Leovigildo la sentenza della morte del figliuolo, se non rinunzj {p. 130}al culto cattolico; e colla di lui astuzia contrasta la nobile franchezza di Recaredo, che al fine gli dice:

Udito ho sempre
Ch’uomo al cui senno sacri riti ed alme
Commesse furo, se con voglia ingorda
Alle profane cose intende, e lascia
All’altrui cura il gregge, e sol da quello
Toglie da lungi il ricco frutto, è indegno
Del sacro grado, e ’l profan male adempie.

Gens.

Chi serve al Re non è men caro a Dio.

Recar.

Caro è a Dio sol chi al suo dovere intende,
E il tuo non è di consigliar regnanti.

Trionfa anche il carattere d’Igonda allorchè in faccia a Leovigildo consiglia al marito di preferir la morte al sacrilegio d’imbrattar con rito ariano la cattolica religione, e quando rimanendo sola con lui dopo tanta fortezza lascia il freno alla sua sensibilità. Notabile in fine è la di lei grandezza d’animo, con cui dopo aver vinto Leovigildo fa trionfare la religione sul desiderio della vendetta, e gli perdona. Seppe dunque il Marchese rilevare il pregio {p. 131}maggiore della Cristiana religione di perdonare e amare il nemico, prima che Voltaire avesse composta l’Alzira. Prima ancora del Manasse del Granelli egli ritrasse egregiamente un sovrano penitente nel suo Maurizio che accompagna degnamente l’Ermenegildo. Quest’ imperadore che si era macchiato di delitti e di atrocità, divenuto penitente implora da Dio di esserne punito in questo mondo e non con pene eterne, e quindi soggiace a’ più dolorosi colpi prima che il tiranno Foca lo faccia uccidere. Avea Maurizio un di lui bambino in potere d’Irene, e Foca vuol sapere dove si nasconda minacciando di far tormentar Maurizio con tutta l’atrocità. Irene generosa si fa avanti ed offre al tiranno il bambino. Qual cruda spada al cuore de’ miseri genitori? Irene torna coll’ infante; la madre vuole stringerselo al seno, ma nel fissarvi lo sguardo si avvede che non è il suo Eraclio, ma sì bene il figlio della stessa Irene che eroicamente lo sacrifica alla salvezza della prole reale. Ma il virtuoso imperadore non comporta il cambio, e scopre la nobil frode. Con questa gara di virtù e di eroismo e con queste tragiche situazioni prevenne il Marchese anche l’Orfano della China del Voltaire. Meriterebbe che si trascrivesse il patetico e vivace racconto della carnificina di tutta la famiglia di Maurizio e di lui stesso colorito col pennello di Dante. Presenta {p. 132}dunque il Marchese più d’una tragedia degna dell’attenzione degl’intelligenti che non sono apologisti declamatori; e specialmente l’Ermenegildo e il Maurizio potrebbero arricchire la raccolta del tragico teatro Italiano.

Antonio Conti nobil Veneto filosofo e letterato grande volle in età avanzata dedicarsi alla poesia e singolarmente alla tragica. Compose quattro tragedie, Giunio Bruto, Marco Bruto, Giulio Cesare e Druso. Il pregio singolare del di lui stile è la gravità, la precisione e la verità che richiede la passione e il teatro per la quale costantemente il Conti schiva ogni vano ornamento. La versificazione è la più accetta a’ moderni, cioè il verso sciolto endecasillabo; ma la locuzione non è sempre pura e corretta. Ciò però che caratterizza singolarmente il suo pennello è il decoro serbato nel costume e la proprietà mirabile ne’ personaggi imitati. I suoi Romani (ciò che per lo più si desidera nelle tragedie francesi) vi compariscono veri Romani; Cassio, Bruto, Cesare, i Tarquinj si riconoscono a i loro particolari lineamenti, all’indole e a i sistemi da loro seguiti secondo la storia. Volle il Conti far uso de’ cori per riunire alla tragica rappresentazione la musica che le conviene, e questa forse è una delle ragioni per cui i commedianti oggi non le rappresentano, schivandone la {p. 133}spesa; ma egli però introdusse ne’ suoi cori a cantar sulla scena cavalieri e senatori Romani con poca convenevolezza alla loro gravità e al costume di que’ tempi. Marco Bruto è la tragedia più criticata e spesso con solido fondamento dal conte di Calepio. Giunio Bruto recitata molte volte di seguito in Venezia con gran concorso nel teatro di San Samuele, oltre a i pregi generali dello stile, del costume e del metro, si rende notabile per la forte aringa di Bruto animata da sobria eloquenza e bellezza poetica propria della scena. Ma Giulio Cesare che si rappresentò con sommo applauso, e si lesse con ammirazione da tanti letterati e singolarmente dal filosofo Paolino Doria, dal celebre Giambatista Vico, dall’istesso lodato Pietro di Calepio e dal chiarissimo Bettinelli, basterebbe a far collocare il Conti tra’ buoni tragici moderni.

Il marchese Scipione Maffei Veronese chiaro per dottrina e per erudizione trasse dalle greche favole il più interessante argomento tragico, e compose la Merope, che dopo la prima di Modena del 1713 ha avuto più di 60 edizioni, è stata recata in tante lingue straniere, si rappresentò in Venezia in un solo carnovale più di quaranta volte, e comparve sopra gli altri teatri d’Italia sempre con applauso, ammirazione e diletto. Una delle migliori edizioni che se ne fecero fu quella del 1735 colla prefazione {p. 134}del marchese Orsi e con annotazioni di Sebastiano Paoli. Ne corse ben presto la fama oltre le Alpi ed i Francesi stessi l’accolsero con sinceri encomj39. A chi è ignota la Merope del Maffei? Chi nel solo mentovarla non si sovviene di quel patetico animato ma umano e naturale che ti riempie in ogni scena, e ti trasporta in Messenia? Chi di quella interessante semplicità della condotta? della verità de’ caratteri? del mirabile vivo ritratto di una madre? della dolce forza che ti fanno le passioni espresse in istil nobile ed accomodato agli affetti? di quel vago racconto di Egisto nell’atto I, e dell’avventura del IV conservataci da Aristotile e da Igino, in cui il vecchio Polidoro giugne a tempo a trattener la madre che sta per trafiggere il figliuolo? del vivace atto V ove tutto mira al disviluppo felicemente ed avviene la morte di Polifonte narrata con maestria?

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Chi poi non sa ripetere colle parole di Voltaire che i Francesi schivi non soffrirebbero nel lor teatro Ismene che parla della febbre di Merope? che questa regina per iscarsezza d’arte del poeta si avventa due volte ad Egisto colla scure? che le scene de’ confidenti sono troppe? che i coltelli, i vasi, i tripodi, i canestri rovesciati sono minutezze delle quali non doveasi tener conto dopo una grande rivoluzione e l’ammazzamento di un re? Gli sforzi stessi del Voltaire per deprimerla, dopo di essersi ornato delle sue principali bellezze seguendone le vestigia nel comporre la propria, manifestano vie più la prestanza della Merope italiana. Egli ne ingrandì ed esagerò i difetti, bramoso e impaziente di tirare alla sua copia tutti gli elogj tributati all’originale. E perchè serbando l’onorato carattere di amico del Maffei non avrebbe potuto versar su di lui che a metà e con moderatezza il suo fiele, si mascherò col finto nome di un monsieur de la Lindelle, e sciolse il freno alla mordacità, trattando la di lui tragedia come produzione puerile e da collegio, e l’autore come poeta da fiera, senza ingegno, senz’arte e senza fantasia (Nota I). Astuzia sì vergognosa e degna degli antichi Davi umilia la letteratura, copre di nuvole il chiarore del secolo e abbassa Voltaire. La Merope del Maffei non va esente da ogni neo; ma qual produzione {p. 136}teatrale può vantarsi di una perfezzione assoluta? La Merope del Voltaire non ha difetti? Sovvenghiamoci di ciò che so n’è ragionato nel tomo precedente. I Francesi stessi ve ne riconobbero di molti. Un anonimo in una brochure uscita in Parigi dopo la prima rappresentazione vi notò fin anco errori di lingua e di rime; chiamò Voltaire traduttore, copiatore, piggioratore ancora della Merope del Maffei specialmente nell’atto V. Volle poi quest’anonimo far pompa di erudizione, ed affermò che l’Italiano avea saccheggiato e sfigurato l’Amasi del la Grange, e che il Voltaire rivendicando il furto avea restituito alla nazione francese ciò che era suo. Preso poi da un capogirlo aggiunse che Merope era un argomento di tutti i paesi trattato già da Éuripide. Qual cumolo di sciempaggini e di contraddizioni! Se Euripide tutti precedette nell’inventar simil favola, perchè non dire che appartiene alla Grecia? Se è di tutti i paesi, perchè l’infarinato anonimo ne attribuì la proprietà alla Francia? perchè tacciò di furto or Maffei or Voltaire? perchè non s’informò da chi ’l sapea, che il Cavalerino, il Liviera, il Torelli precedettero di più d’un secolo il suo la Grange in comporre Meropi, Telefonti e Cresfonti? Perchè poi non apprese almeno dal Voltaire che la Grange ed altri Francesi ed Inglesi trattarono questo argomento con tali {p. 137}sconcezze che le loro tragedie rimasero nascendo sepolte? Perchè non vide che senza la Merope del Maffei, senza quella ch’ ei chiama povertà Italiana che Voltaire copiò, ancor non avrebbe la Francia una Merope degna di passare a’ posteri? L’anonimo oscuro che tante cose ignorava, ebbe l’audacia di scagliarsi contro l’originale del Maffei, e la copia del Voltaire, produzioni di due grand’ingegni, cui egli mirar non dovea che con rispettoso silenzio (Nota II). Io auguro all’Italia e alla Francia molte tragedie che pareggino queste due Meropi, dovessero anche averne i difetti; essi saranno le macchie degli Omeri, de’ Virgilj, de’ Sofocli fra’ raggi dell’immortalità.

Intorno al medesimo tempo uscirono la Demodice del Veneziano Giambatista Recanati, e la Didone del Bolognese Giampieri Cavazzoni Zanotti. La prima recitata con grande applauso nel 1720 in Modena, in Ferrara, in Venezia, s’impresse in Firenze nel 1721 con una dissertazione dell’ab. Girolamo Leoni. Contiene la pugna de’ tre Tegeati e tre Feneati narrata da Plutarco ne’ Paralleli con tutte le particolarità del fatto de’ Curiazj ed Orazj. Trionfa in essa l’amor della patria in ogni incontro. L’ammazzamento dell’addolorata Demodice per mano del fratello Critolao avviene appunto per le di lei imprecazioni contro Tegea loro patria, il cui amore tutto riempie {p. 138}il cuore di Critolao. Lo sceneggiamento all’antica lasciandosi spesso il teatro vuoto, qualche scena oziosa, un sogno di Demodice di sei tori e una giovenca tanto conforme al fatto di lei e de’ sei campioni, i poco utili ed all’ azione mal connessi episodj dell’amicizia di Eurindo e Critolao, del conflitto di costui col leone, degli amori di Lagisca ed Eurindo, offrono all’occhiuta critica materia da esercitarsi. Ma rendono pregevole tal favola la regolarità e l’interesse che vi regna, lo stile non sempre elegante e sublime ma chiaro e conveniente alle passioni, e più di una situazione patetica felicemente espressa. Serva d’esempio la scena quinta dell’atto terzo, in cui Demodice che ha penetrato che il suo sposo Alceste sarà il competitore del fratello Critolao, così si esprime:

S’ei riman vinto, e come le mie nozze
Si compiranno? E s’egli è vincitore,
M’unirò a quel che i miei fratelli uccise?
Di natura e d’amor ambo possenti
Leggi che a’ danni miei tutte vi unite,
Perchè appunto tra voi sì opposte siete?
Quale debb’io seguir? da qual sottrarmi?

e poi,

Vincete entrambi,
E se alcun dee perir, pera . . . ma {p. 139}quale?
Alceste . . .? Critolao . . .? No, Demonice.

La Didone uscì in Verona nel 1721, ma si dice nella dedicatoria alla marchesa Isotta Nogarola Pindemonte di essersene prima fatta un’ altra edizione, ed in Bologna poi si stampò nel 1724 colle rime dell’autore. Non cede questa tragedia nella regolarità e nel colorito delle passioni alla Demodice; ma le sovrasta per nobiltà e per grandezza di stile, e per la semplicità dell’azione avvivata però da un movimento che va d’ atto in atto crescendo. La sceneggiatura è pure alla maniera antica, ma due volte sole resta il teatro vuoto; havvi parimente la tanto ripetuta descrizione di un sogno; ma non si particolareggia per additare appuntino gli evenimenti. Vi si scorgono di bei passi nè pochi. Nell’ atto secondo spira magnanimità la risposta di Didone all’ambasciadore di Jarba. Teatrale è nell’atto terzo il contrasto di Didone, che giugne gioliva e piena di speranze, con Enea che all’ordine di Giove era disposto a partire senza vederla. Bene espressa è la maraviglia e la tristezza di lei al silenzio indi al partir del Trojano con poche compassate parole; ma pregevolissima è la pennellata che ne dipinge il disdegno. Tratta dal naturale orgoglio ella dà a credere a se stessa {p. 140}di essersi disingannata, e di ravvisare il torto che faceva al suo Sicheo, e ne ha onta: si duole di vedersi adorna di altri abiti che de’ vedovili: ordina a Bargina che trovi Enea e l’ ingiunga di partir subito senza vederla. Ma che? Anna le riferisce l’ imminente partenza di Enea, e allora il di lei fuoco sopito sotto quella rassegnazione suggerita dall’istesso amor disdegnoso, divampa ripentinamente:

Ahi me lassa! Bargina, parte Enea!
Guarda se furon ciechi i miei timori!
Me può lasciar? me abbandonar? Ah tosto
Si voli, si ritenga l’infedele . . .
Ah! che più indugio? Io stessa al lido, al porto
Corro a provar ciò che potranno i prieghi,
Le lagrime, i sospiri &c.
O Enea che mi abbandoni, o mie speranze,
O sacra del mio sposo ombra tradita,
O mio onore, o dovere, o forte amore,
Sì, troppo forte che al dover contrasti,
Qual vincerà di voi?

Ottimamente. Questo bellissimo disviluppo degli affetti di Didone, questo tragico contrasto acconciamente approssimato della prima rassegnazione con quest’impeto repentino, tutta manifestano l’anima di Didone e {p. 141}l’ ingegno dell’autore. La scena quinta dell’atto quarto ci sveglia l’idea dell’abbandono di Armida e di Rinaldo che si sente morire, e pur la lascia. Didone sviene come Armida, ed Enea parte con Ascanio, come Rinaldo con Ubaldo. Questa buona tragedia colle precedenti smentisce l’asserzione di chi imparando la storia letteraria d’Italia sulle notizie giornaliere francesi, afferma che ne’ primi lustri del nostro secolo il teatro italiano non ebbe che drammi irregolari e mostruosi. Si noti che dalla Merope, dalla Demodice e dalla Didone si sono esclusi i cori, e l’uso in seguito n’è passato quasi del tutto.

Anche nel 1721 s’impresse in Venezia l’Ezzelino del dottor Girolamo Baruffaldi Ferrarese, che poi ebbe altre quattro edizioni ed in Venezia stessa ed in Ferrara. E scritta in versi sciolti, con regolarità, con vivace colorito ne’ caratteri e nelle passioni, ed in istile lodato dagl’ intelligenti. Se ne riprende il personaggio di Ansedisio di nota malvagità come poco necessario e lasciato impunito: qualche discorso secreto che si ode dall’uditorio e non da’ personaggi che stanno sulla scena: e la mancanza del tempo richiesto perchè giunga Beatrice co’ sei compagni dal fondo della torre, non essendo passati dalla chiamata alla venuta che sei versi soli recitati da Amabilia. Lo stesso autore pubblicò nel 1725 Giocasta la {p. 142}giovane di scena mutabile, la cui invenzione non gli appartiene, perchè il conte Antonio Zaniboni avea già tratta da un dramma musicale la sua Antigona in Tebe, detta opera tragica, scritta in prosa e impressa in Venezia nel 1722. Da tali favole trasse la sua tragedia il Baruffaldi, nè se ne infinse, ma ingenuamente l’accennò nel ragionamento che vi premise. Si osserva nella condotta dell’azione qualche leggiero intoppo. Antigona madre di Giocasta (che Creonte volle far morire per mano del suo figliuolo Osmene di lei marito) viene a Tebe sotto virili spoglie, e domanda ad Ormindo il cammino della reggia ch’ella non dee ignorare. Viene con animo di dar la morte a Creonte, e nel darsi a conoscere ad Osmene manifesta il suo disegno di uccidere il di lui padre, e pretende ch’egli vi concorra. Io porterommi al tempio (ella dice nell’atto III), mi scoprirò al tiranno, gli trarrò dal capo la corona, farò provargli tutta l’ira mia. Se ciò dicesse spinta da disperazione e da tedio di vivere, sarebbero espressioni convenienti: ma ella ciò dice pensando in fatti di eseguirlo per far la sua vendetta, senza riflettere all’impossibilità della riuscita. Forse potrebbesi risecare qualche cicaleccio di Ormindo. Forse più che tragedia parrà questa Giocasta un romanzo drammatico per tanti colpi di teatro e per le avventure che vi si accumulano in {p. 143}poche ore. Ma tali nei vengono conpensati dalla bellezza dello stile e da situazioni interessanti ben condotte. Viva e patetica è la preghiera che fa nell’atto I Osmene al padre per non isposar Giocasta. Tenera è la riconoscenza di Antigona e Osmene nell’ atto II; giuste le di lei prime espressioni; passionata la narrazione delle proprie sventure e della fanciulla che diede alla luce; grande è il di lei coraggio ed il disprezzo della morte in faccia di Creonte nel IV atto. Piace soprattutto nell’atto V la patetica separazione di Antigona e Osmene nel punto di esser ferita da Giocasta. Ella s’ intenerisce alla rimembranza della figlia perduta, e dice al marito che la cerchi, ed incontrandola (soggiugne)

Dille del mio destin la cruda istoria,
Dille che la sua madre al fin morìo
Tradita e invendicata: e se al mio petto
Stringer non la potrò, stringila al tuo.

Mentre si applaudiva la Merope del Maffei, l’ab. Domenico Lazzatini di Morro patrizio Maceratese illustre poeta e pubblico professore di lettere umane in Padova, dopo averla censurata severamente diede alla luce il suo Ulisse il Giovane, nella qual tragedia imitò elegantemente l’Edipo di Sofocle richiamando sulla scena tutto il terrore e la forza tragica del teatro Ateniese. {p. 144}E’ scritta in endecasillabi ed ettasillabi sciolti misti a piacere, ha il coro continuo alla greca, e lo stile accoppia alla grandezza tragica verità e naturalezza senza cader nel basso. Ma, come bene osserva l’ab. Conti, si sfigura questa favola in certo modo col raddoppiarsene l’azione colla morte data dal padre al figliuolo e col suicidio della figliuola. I molti amici dell’ autore e del severo gusto greco contrarj al Maffei l’applaudirono nella lettura, ma il teatro non l’ammise, mal grado della regolarità, dello stile, della versificazione, e della nobiltà de’ cori. Uscì contro di essa una piacevole satira scenica col titolo di Ruzvanscad il Giovane del Vallaresso nobil Veneto, parodia, come ben dice il Bettinelli, saporitissima tralle poche italiane.

Discepolo del Lazzarini e seguace del di lui gusto tragico fu l’ab. Giuseppe Salio Padovano morto giovane qualche anno dopo del 1738. Egli compose tre tragedie col coro continuo lavorate con una troppo servile imitazione de’ Greci, per la quale riescono fredde e nojose, la Temisto, la Penelope, e Salvio Ottone. Esse s’impressero nel 1727 dal Comino in Padova, ma non parmi che siensi mai rappresentate. L’ultima fu dedicata ad Apostolo Zeno che la lodò. Il conte di Calepio comendò la scelta del protagonista nella Temisto, ma parve al Salio ch’egli ne avesse disapprovato tacitamente {p. 145}ogni altra cosa nel Paragone della Poesia Tragica, e perciò nel 1738 produsse contro di quest’opera egregia il di lui Esame Critico, al quale vigorosamente replicò il Calepio colla sua Confutazione di molti sentimenti del Salìo.

Comunicato lo spirito della tragedia per la riuscita del Conti, del Martelli, del Zanotti, del Pansuti, del Marchese, e singolarmente del Maffei, si diffuse per l’Italia tutta, e si produssero molte tragedie regolari e giudiziose, benchè non sempre eccellenti. Giovanni Leone Sempronj da Urbino produsse in Roma nel 1724 la sua tragedia il Conte Ugolino. La Morte di Achille del conte Ludovico Savioli Bolognese si pubblicò in Bassano, se non m’ inganna la memoria, e nella Biblioteca teatrale che faceva imprimere in Lucca il Diodati. Il marchese Gorini Corio stampò in Venezia nel 1733 il suo Teatro Tragico e Comico col trattato della Perfetta Tragedia; ma le sue tragedie erano ben lontane dalla perfezione. Sebastiano degli Antonj Vicentino scrisse la Congiura di Bruto figliuolo di Cesare pubblicata nel 1733 in Vicenza, la quale secondo il conte Mazzucchelli fu lodata dal Martelli, e chiamata dal Maffei nobile tragedia. Il P. Giovanni Antonio Bianchi minore osservante nato in Lucca nel 1686 e morto in Roma nel 1758, conosciuto per gli sforzi perduti contro la {p. 146}Storia Civile del Giannone, e pel libro de’ vizj e de’ difetti del moderno teatro uscito in Roma nel 1753, pubblicò sotto il nome Arcadico di Lauriso Targiensé nel 1761 in quattro volumi dodici tragedie regolari, decenti e giudiziose, ma non vigorose, eccellenti e sublimi. Otto di esse sono in prosa, cioè Don Alfonso, Jefte, Matilde, Tommaso Moro, Demetrio, Marianna, Dina, Ruggiero, e quattro in versi Atalia, David, Gionata, Virginia. Recitavansi in un teatrino, che ancor sussiste nel convento di Orvieto, da’ suoi studenti con grandissimo concorso, dove oltre alle nominate tragedie si rappresentarono ancora due sue commedie, l’Antiquario e la Fanciulla maritata senza dote rimaste inedite40. Il P. Bonaventura Antonio Bravi Veronese pur minore osservante nato nel 1693 e morto verso il 1773 diede alla luce cinque tragedie. Il suo Orazio uscì in Venezia nel 1742, e si ristampò in Verona nel 1762 con molte mutazioni e col titolo Orazio in Campo; {p. 147}Sulmone pubblicata in Venezia nel 1746 si reimpresse in Firenze nel 1756; Irene delusa uscì in Verona nel 1747; Costantino quivi parimente s’ impresse nel 1748, ed un altro Costantino differente dal primo venne alla luce anche in Verona nel 1752, e la seconda volta nel 1764. Il signor Bicchierai produsse in Firenze due tragedie regolari e giudiziose nel 1767, la Virginia, e la Cleone precedute da alcune considerazioni sopra il teatro per lo più utili e sagge.

Ma niuna di tali tragedie levò grido, o parve degna compagna della Merope del Maffei o del Cesare del Conti, o della Perselide del Martelli. Toccò al Varano e al Granelli il vanto di dar nuova fama all’italico coturno.

Alfonso Varano de’ duchi di Camerino distinto per natali, per dottrina e per ingegno poetico morto in Ferrara carico d’anni e di meriti letterarj a’ 23 di giugno del 178841 arricchì il teatro tragico di tre buone tragedie Demetrio, Giovanni di Giscala {p. 148}e Agnese. L’autore che forse pensava di seppellirle con tante altre poetiche ricchezze, si vide obbligato ad imprimere il Demetrio in Padova nel 1749 con correzione e magnificenza, dopo di essersi querelato nelle Novelle letterarie di Venezia del Berno librajo Veronese che nel 1745 su di un esemplare non ritoccato nè concesso dall’ autore l’avea prodotto. In seguito s’impresse anche in Lucca nel 1766 nella Biblioteca Teatrale. L’autore la chiamava impresa della prima sua gioventù, la quale verisimilmente l’avvicina all’epoca della publicazione delle tragedie del Maffei, del Zanotti e del Recanati. Nobile, terso, elegante ed accomodato alle cose n’è lo stile, regolare e ben condotta l’economia della favola, ottima la versificazione, conveniente il colorito de’ caratteri, magnifici i cori introdotti soltanto nell’intervallo degli atti. L’azione immaginata con somiglianza del vero non è istorica, eccetto che nell’àncora naturalmente impressa nel corpo de’ Seleucidi42 dal Varano adoperata nel riconoscimento. Le scene sono tutte concatenate alla maniera moderna ad eccezione dell’atto II, in cui rimane {p. 149}una volta la scena vuota partendo Arsinoe nella quarta e venendo poi fuori Berenice ed Araspe. Due oracoli sono le molle che muovono le passioni di una madre a danni del figliuolo sin dalle fasce, il quale è salvato dal di lei furore, vive incognito, se le presenta con altro nome, n’è amato con altro amore che di madre, è poi perseguitato e accusato di fellonia, e finalmente cagiona la di lei morte secondo la predizione dell’ oracolo. Offre questa tragedia al sagace osservatore molti passi pregevoli per nobiltà ed eleganza di dizione. Nobilmente si esprime la magnanima Arsinoe nell’atto II con Seleuco e con Artamene. Il contrasto dell’amore colla virtù in lei ed in Artamene è dipinto ottimamente nell’atto III, e vi sono con felicità e dignità disviluppate le angustie di Artamene combattuto dal colpevole amore che ha per lui la madre e dall’odio che Arsinoe ha per Seleuco. Egli conchiude:

Per vie diverse
Congiuran ambe alla ruina mia.
Ahi lasso! Io amo entrambe, una ch’è madre
Benchè sia indegna di tal nome, e l’altra
Perchè degna d’amor benchè sia ingrata.

Nell’atto IV si ammira una situazione tragica {p. 150}assai ben espressa. Artamene con un falso foglio è fatto reo di una congiura presso Seleuco; il re pretende solo che si scagioni giurando che niun altro congiuri contro di lui; ma egli ciò non può eseguire nell’alternativa o di accusar la madre o di mentire. Nel V investigando Berenice la condizione di Artamene vedesi con maestria e con nobiltà animato il lor dialogo, e singolarmente ogni di lui risposta ingegnosa ed il riconoscimento di Demetrio. Vedasene questo squarcio poichè si è scoperto:

Oimè! che strane
Vicende ebbi a soffrir! Fui da’ nemici
Salvato, fui nutrito, e dalla madre
Son trafitto nel cor. Tu mi accusasti
Che di Seleuco io meditai la morte,
E per aver qualche ragion sul trono,
Chiesi a te le tue nozze. E chi non vede
S’io mi fo noto al genitor, che torna
La falsa accusa tua sopra il tuo capo?
Ma datti pace. Al re sarò Artamene,
E a te sola Demetrio, e così ad ambi
Renderò quel ch’io debbo e figlio e reo.
Girami un guardo, o madre, e alla mia destra
Giungi la tua &c.

E così l’eseguisce con Seleuco ostinandosi a tacere, sicchè il re lo manda a morire. Ma poco stante Seleuco rileva da Ircano, {p. 151}che Artamene è Demetrio suo figlio, e ne manda a sospendere l’esecuzione. L’agitazione di Seleuco nel dubbio che il soldato non giunga a tempo per impedirla, è piena di moto e acconciamente espressa. Ma Demetrio è salvato, la virtù felice, e la tragedia ha lieto fine, non ostante la morte di Berenice per l’ interpretazione dell’oracolo fatalmente colpevole. Se questa favola da alcuni non si voglia ammettere tralle migliori tragedie, io credo che al compiuto trionfo del Varano si oppongano i due ostacoli che soggiungo. In prima il patetico onde deriva principalmente l’effetto tragico, non sembra in essa vigoroso al pari del grande che concilia ammirazione; ovvero, che è lo stesso, la compassione non par che sia condotta a quell’attivo fremito che ci scuote sì spesso in Euripide che si pretende invecchiato. L’altro ostacolo potrebbe nascere dall’ ostinazione di Artamene a non palesarsi per Demetrio in tempo che non si sono ancora le cose portate agli estremi; tale ostinazione non sembra necessaria e bella e degna della tragedia, se non quando Demetrio noto alla madre tace eroicamente per non recarle onta e nocumento. So bene che tal condotta può colorirsi col timore che ha Demetrio di perdere totalmente la speranza di placare Arsinoe, e colla sicura conoscenza che ha dell’odio materno; ma nei grandi sconvolgimenti lo spettatore dimanderà sempre {p. 152}perchè non si è scoperto. Queste osservazioni però basteranno per impedir che si registri sì nobil favola accanto alla Merope, al Cesare ed a qualche altra eccellente? Faranno sì che con affettata incontentabilità si ripeta colle parole del sig. Andres, per altro valoroso ed elegante scrittore, che in Italia non v’ha buona tragedia fuorchè la Merope? Bisognerebbe essere qualche affamato gazzettiere enciclopedico, o un uomo di un libro solo, o alcun maligno plagiario perpetuo.

La nobiltà ed eleganza dello stile, la regolarità, la bellezza del dialogo, il colorito vivace de’ caratteri non discordano dal Demetrio tanto nell’Agnese che nel Giovanni di Giscala tiranno del tempio di Gerusalemme. Quest’ultima favola che empie il suo oggetto d’inspirare il terrore colla morte del Giscala e la ruina totale di Gerusalemme, fu dedicata al pontefice Benedetto XIV, e s’impresse splendidamente in Venezia nel 1754, ornata in ciascun atto di alcune medaglie battute da’ Romani in onore di Vespasiano e di Tito, e con un eruditissimo discorso intorno alle profezie e agl’ istorici monumenti della distruzione di Gerusalemme, ed a varie circostanze rammentate nel dramma. Notabile in esso è la dipintura della feroce grandezza d’animo di Giscala, e più di una scena vigorosa e teatrale, come quella dell’atto III, in cui egli {p. 153}s’ intenerisce col figliuolo a lui mandato dal campo nemico, come Attilio Regolo a Cartagine, per proporgli la resa, e da lui con disdegno rimandato al supplizio.

Il P. Giovanni Granelli gesuita Genovese, predicatore e bibliotecario del Duca di Modena, morto l’anno 1769, è l’altro autore che ci ha somministrate tragedie degne di mentovarsi insieme colla Merope, col Cesare, e col Demetrio. Benchè dalle leggi del proprio istituto astretto a contenersi entro certi confini che lasciano infruttuosa la più ricca fantasia, ed a privarsi del vantaggio che apportano sul teatro le femmine, compose quattro tragedie, qual più qual meno, tutte però lodevoli, Sedecia, Manasse, Dione, Seila figlia di Jefte. Regolarità, interesse, giudizio nella traccia della favola, destrezza nel colorire i caratteri, gran sentimenti, nulla a lui manca per esser collocato tra’ migliori tragici. Ma sopra tutte le sue doti trionfa l’ eccellenza dello stile naturalmente bello e poetico, ricco nella frase, puro nel linguaggio, grande sempre, sempre elegante, e forse talvolta per questo appunto alquanto uniforme43. Il non esser {p. 154}esse però accomodate al bisogno de’ pubblici teatri, fece che ne fossero escluse, e che si rappresentassero solo nel collegio di San Luigi di Bologna nel 1732 e ne’ due seguenti anni, e si ripetessero in teatri privati dalla nobiltà Bolognese. Ciò nocque alla loro rinomanza rimanendone confinato il diletto entro pochi instruiti leggitori che ne ammirano singolarmente i pregi dello stile. Nocque anche alla gloria dell’Italia, perchè l’egregio autore avrebbe nella scuola del teatro apprese nuove delicatezze e perfezioni dell’arte. E dove non sarebbe egli giunto con quell’anima sublime e sensibile che pur manifesta, se in vece di limitarsi a rassomigliar nelle sue azioni sacre l’elevatezza del profetico linguaggio scritturale, si fosse dedicato a tesserne altre di argomenti più atti ad eccitar la compassione e il terrore tragico, e a migliorar la sublimità di Cornelio spogliandola dalle gonfiezze, ed il patetico del Racine preservandolo dalla mollezza elegiaca?

Sedecia dedicata al cardinal Giorgio Spinola fu la prima tragedia del Granelli. Essa è regolare e sceneggiata alla moderna, e solo nella terza scena dell’atto IV partono i personaggi della seconda, lasciando vuoto il teatro, ed ha i cori mobili di Assirj, Caldei ed Israeliti. Non ha per principale oggetto la compassione, come confessò lo stesso autore, ma si rende assai pregevole {p. 155}per la semplicità della favola animata dal bell’ episodio de’ figli de’ due re, cioè Giosia di Sedecia, ed Evilmero di Nabucco, i cui eccellenti caratteri cattano la benevolenza di chi ascolta, e danno luogo alla bella descrizione del pericolo di Evilmero nel bosco e del combattimento di Giosia colla fiera. Merita parimente lode il Granelli pel carattere teatrale di Nabucco misto di grandi virtù e di grandi passioni, tal che, com’ egli pur dice, in tutte le sue virtù si scorge il pregiudizio di una grande passione, ed in tutte le sue passioni il principio di una grande virtù. Il suo Geremia ben rassembra all’originale della Sacra Scrittura. Vedasi in qual guisa egli nella 4 scena dell’atto I fa parlare Iddio:

Chi son io, dice Dio, che ne l’Egitto,
Anzi che in me, le tue speranze affidi?
Quella forse è la terra, onde Israello
Debba sperar salute, e quelle l’armi,
Che di me non curando e del mio Tempio,
In sua difesa infedelmente implori?
Perchè a sottrarne i vostri antichi padri
Colà fec’io tanti prodigj orrendi?
Perchè poi da l’Egitto un dì sperasse
La casa di Giacob salvezza e regno?

Degna di notarsi è pur la profezia dell’atto IV che il Granelli ad imitazione di quella di Giojada dell’Atalia del Racine {p. 156}fa profferire a Geremia dell’eccidio di Babilonia e dell’impero degli Assirj trasferito a’ Medi. Dovunque in somma s’introduce questo personaggio scorgesi una saggia elevatezza, che inspira un tacito religioso rispetto pei decreti della Divinità. Non merita minore attenzione la magnanima aringa di Sedecia nell’atto II.

Manasse seconda sua tragedia ci dipinge un penitente che potrebbe annojare per la sua abjezione, e pure è condotto con tanto senno che serve ad aumentare la grandezza del dramma. Manasse penitente ancora interessa, e nell’inoltrarsi l’azione desta pietà divenendo sensibile al suo pericolo. L’autore, senza curarsi per altro di farsene un merito, pensa che di tal carattere non abbiasi esempio nè degli antichi nè de’ moderni tragici. Io però credo che fra gli antichi il Tieste di Seneca adombri il di lui Manasse, essendo uno scellerato renduto migliore nelle disgrazie; e fra’ moderni l’abbandono disperato del Radamisto del Crebillon, che riconosce e detesta i passati suoi falli, esprima il dolore di questo re di Giuda. Ben è vero che in Manasse tutto è rettificato e migliorato per la verace divinità; ma anche in ciò il Granelli fu preceduto dal Marchese nel suo Maurizio. L’agnizione di un figlio di Manasse salvato dal sommo sacerdote, forma gran parte del bello di questa tragedia. L’ artifizio usato {p. 157}felicemente nel supporre prima dell’azione dato in sogno il divino comando a Nabucco, onde si cangia il di lui animo avverso in favore di Manasse, salva la tragedia (e l’avvertì pur l’autore) dallo sciorsi per machina, e dà luogo a una serie di cose che conduce a discoprire in Manasse la persona additata in quel comando, ed apporta il lieto fine dell’azione. La dizione è la solita nobile e grandiosa dell’autore, e sembra solo che per gli ragionamenti troppo prolongati benchè proprj ed eleganti, serpeggi per sì bella tragedia qualche lentezza.

Dione che liberò la Sicilia dalla tirannia de’ Dionigi, e rimase indi oppresso dalla propria imprudenza o credulità, è il titolo della terza tragedia del Granelli. La regolarità della condotta, la vivace espressione de’ caratteri ben colpiti, l’eccellenza del dialogo, la rende al pari delle altre due accetta agl’ intelligenti. Vi riconosciamo altresì col chiar. Bettinelli la solita bellezza di stile poetico e naturale, e la stessa ricchezza di frase e purità di lingua, che è pur sì necessaria al teatro, o che sì di rado s’incontra. Egli però aggiugne: ove troverassi un maggiore sforzo d’ingegno in tanta chiarezza e profondità d’invenzione, d’intreccio, e di scioglimento? qual taccia daremo al Dione per non riporlo tra le prime tragedie italiane? Non ardisco proporre a {p. 158}titolo di taccia quanto penso intorno al Dione; pur mi sentirei disposto a riporre tralle prime tragedie italiane anzi il Sedecia e il Manasse, che il Dione. Oso profferire di non parermi l’ultimo sforzo dell’umano ingegno l’invenzione, l’intreccio e lo scioglimento di una favola che non produce in pro del protagonista (io ne appello all’ interno sentimento di chi la legga o l’ascolti) tutto l’effetto della tragica compassione, e che non lascia intravedere il frutto morale che il drammatico dee prefiggersi. Dione ha due favoriti, Callicrate perfido simulatore, Alcimene vero suo amico; il re crede tutto al primo; e poco o nulla al secondo benchè più amato. Callicrate in faccia allo stesso Dione è convinto di manifesta menzogna, di doppiezza, di odio contro di Alcimene. Io sono (dice egli stesso) e fui suo nemico e geloso del real favore ch’ei solo ottiene,

A farnelo cader ogni arte oprai;
Congiurato lo finsi &c.

Il re ha stabilito con lui ch’egli si fingerebbe con tutti infedele e traditore; ma poi intende dall’ingenuo Alcimene che Callicrate parlando seco si è mostrato fedelissimo; il re ne stupisce a ragione, e rileva questa doppiezza:

{p. 159}

Dio:

Teco dunque Callicrate si finse
A me fedel, non traditore? E il vero
Tu mi narri Alcimene?

Alc.

Il ver ti narro;

ed altrove lo rammenta al re lo stesso Alcimene. Per tutto ciò non richiedea la verisimiglianza che Callicrate nemico dichiarato di Alcimene e menzognero convinto dovesse meritare assai minor fede che il suo rivale? Pure Dione tutto si abbandona su di codesto insidiatore, che può dirsi un Davo tragico (tante sono le bugie e le trame che accumola e intesse in ogni incontro) e ciò solo perchè gli promette di dargli in mano Apollocrate figliuolo di Dionigi. Ma per tale utile tradimento, ben potrebbe egli ottener dal re l’immunità per gl’ inganni passati (come suol concedersi a’ rei che fanno denunzie utili allo stato) ma non già un privilegio di esser solo creduto fedele e veritiero. Non per tanto il re totalmente in lui confida, chiama a guardar la reggia i soldati Zacinti da lui dipendenti, e ne viene a man salva ucciso. Lascio che le menzogne di Callicrate non si sostengono senza qualche studiata reticenza; di maniera che se Celippo p. e. o Apollocrate non dicono appuntino ciò che egli ha loro suggerito, crolla la machina. Lascio ancora la poco verisimile ipotesi che di tutta la Sicilia (senza eccettuarne Dione parente {p. 160}di Dionigi) il solo Callicrate conosca Apollocrate figliuolo di questo discacciato tiranno, ed anche Ireno. Tante supposizioni a favor dell’empio per avvolgere e disviluppar questo nodo danno indizio di qualche intrinseco difetto nel piano. Previde il degno autore l’opposizione che singolarmente far si poteva alla somma credulità di Dione, e disse in sua discolpa, che la storia l’ha esposto al pericolo di far parere Dione uomo troppo più facile e credulo che ad un eroe non conviene; e pregò il leggitore a por mente alle di lui circostanze, ed a consigliar se stesso a qual partito sarebbesi egli anzi appigliato. Ma se Dione fosse almeno ugualmente entrato in dubbio di Alcimene e di Callicrate, se si fosse assicurato di entrambi per attendere sulla congiura maggior luce dall’amico Eumene, non avrebbe egli mostrato costanza nel carattere e minorato il suo pericolo? Egli è vero che la storia dà a Dione un carattere d’imprudente44. La di lui imprudenza istorica però si restrinse ad approvare l’astuto consiglio di Callicrate di fingersi egli stesso traditore e nemico di Dione per iscoprire i veri congiurati; {p. 161}ma la storia non attribuisce a Dione l’ imbecillità di confidarsi ciecamente ad un raggiratore convinto d’ impostura e di menzogna. E quando pure la storia gli avesse suggerito questa spezie d’inavvertenza, egli ben sapeva che la tragedia non ripete esattamente la storia, ma la corregge e rettifica nelle circostanze che possono nuocere ad eccitare il terrore e la compassione.

Seila figlia di Jefte è l’ultima tragedia del Granelli. Seila è una sacra Ifigenia, il cui magnanimo carattere non si smentisce mai sino al fine. Ne’ due primi atti l’azione ben disposta prepara l’uditorio alla tragica compassione. Nel terzo le querele di Ada, le angustie di Jefte, la grandezza de’ sentimenti di Seila, sostengono la favola nel medesimo vigore. Ma nel IV (quando dovrebbe crescere) già prende un aspetto più pacato per l’esame liturgico su i sacrifizj e i voti tra Ozia e Jefte, la qual cosa sgombra il timore che agitava gli animi col pericolo della vita di Seila, e la compassione quasi non ha più luogo. Nel V essa riprende tanto di forza quanto permette la determinazione di Seila che vuol rimanere offerta volontaria in olocausto. Nel lasciare i genitori e l’amante altre lagrime essa non ottiene se non quelle che spargonsi oggidì per le nostre fanciulle che rendonsi religiose.

Proseguendo alla nostra guisa senza odj e {p. 162}senza timori ad esporre de componimenti scenici la luce e le ombre, in vece di pronunziar secchi responsi da oracolo e giudizj magistrali, che lasciano la gioventù qual era prima di ascoltarli, parleremo ora del valor tragico dell’ab. Saverio Bettinelli nato l’anno 1718 nella patria di Virgilio45. Se ne hanno tre ragionevoli tragedie, Gionata, Demetrio Poliorcete, ossia la Virtù Ateniese, e Serse Re di Persia, le quali colla traduzione della Roma Salvata {p. 163}stamparonsi nel 1771 in Bassano, ma si diedero al teatro in diversi tempi, la prima in Bologna nel 1747, e le altre in Parma tra il 1752 e 175746. La regolarità, lo stile accomodato alle cose, e gli affetti naturali e bene espressi, sono i meriti generali delle favole del Bettinelli. Vediamone qualche particolarità.

Gionata è tragedia di lieto fine semplice quanto altra mai fondata in quel detto della Scrittura, gustavi paullulum mellis, & ecce morior, così espresso dall’ autore:

Due stille sol di colto mel gustai,
Ecco il mio fallo, e per sì poco io muojo.

Lo stile di questa favola non è quello del Granelli o del Varano, ma è pregevole perchè naturale e patetico senza veruna bassezza. Vi s’ imitano i tratti dell’Ifigenia or di Euripide or di Racine, e la compassione è condotta al suo punto, e vi si scorge più di un bel passo da comendare. Tale è il lamento di Saule nella scena terza dell’atto III:

{p. 164}
Questa è la mia vittoria, e quì dovea
Lo sperato trionfo addurmi al fine?
Oh patria! oh Israello! a questo prezzo
Dunque tuo re m’hai fatto? Or che mi cale
Di scettro e regno, se mi togli un figlio?
Rendimi il figlio, e tienti scettro e regno.

Tale è la scena quarta di Saule e Gionata, il quale ignorando il suo destino attende la risposta dell’oracolo e vuol consolare il padre che risponde in termini di doppio significato alla maniera di Agamennone nella Ifigenia in Aulide. Sono ancora interessanti le tenerezze di Abinadabbo e di Gionata simili in parte a quelle di Pilade e di Oreste nell’Ifigenia in Tauri, e lodevole altresì è la patetica scena quinta dell’atto IV tra Gionata e Saule. Non per tanto ad occhio attento parranno poco utili all’azione e forse superflue sì la scena 6 dell’atto III, che la prima del IV. In quella del III Saule domanda ad Abiele, se il popolo entrerebbe a parte del suo paterno affetto, ov’egli inclinasse al perdono, ovvero si solleverebbe? Ma le disposizioni del popolo nella Teocrazia come avrebbero potuto cangiare le deliberazioni di Saule, cui era tolto ogni arbitrio dal proprio giuramento e dallo zelo temuto di Samuele per la volontà del cielo enunciata dal sacro oracolo? Quanto alla prima scena del IV Saule potrebbe {p. 165}per l’affetto naturale venire con ripugnanza all’esecuzione della sentenza; ma non mai essere incerto se debba o no far morire il figlio, che il Cielo condanna. Egli intanto convoca un consiglio di Abnero e Samuele per deliberare su di ciò che pur non è più in suo arbitrio.

Nel Demetrio Poliorcete abbondano i sentimenti eroici, e lo stile si eleva alquanto più di quello del Gionata. Il fondo istorico dell’azione consiste nel perdono dato ad Atene da Demetrio, ma nel disviluppo prende la favola il portamento del Cinna di Pietro Cornelio, di cui s’imitano singolarmente i memorabili versi di Augusto, o siècles, o memoires &c., dicendo Demetrio:

Secoli e genti, in me volgete il guardo,
Serbate eterna a quante età verranno
L’alta memoria della mia vendetta,
Che la maggior sarà di mie vittorie.

L’imitazione può chiamarsi esatta, e pur questi versi non pare che abbiano destato la commozione che recitandosi quelli del Cinna facea piangere il gran Condè all’età di venti anni. E perchè? Forse la diversità dell’effetto deriva dalla dissomiglianza delle due favole. La virtù di Augusto, come quella di Tito dell’ inimitabile Metastasio, trionfa sopra tutto. Nel Demetrio l’ammirazione ha più oggetti, esigendone il rigido {p. 166}eroismo di Timandro, la virtù de’ suoi figli, ed il bel perdono di Demetrio. Di più Cinna e Sesto vassalli beneficati ed ingrati rendono ammirabile e grande il perdono di Augusto e di Tito; là dove Timandro e i figli sono individui di una repubblica non affatto estinta, sono nemici che hanno ancora l’ armi alla mano, e la resistenza nobile di un nemico non è la stessa cosa che la machina infame di un vassallo beneficato e traditore. Produce ottimo effetto la tragica situazione di Timandro e de’ figli, i quali nella scena terza dell’atto II a prova accusano ciascuno se stesso per liberare il fratello dalla colpa e dal pericolo; ed anche la scena settima, nella quale sono convinti nell’Areopago col foglio da essi sottoscritto, e vi si legge la loro energica giustificazione. Notabili son questi versi:

Dolce è morire per la patria, tutto
Per lei versiamo il sangue, ella su noi
Piangerà, benchè tardi; a questo prezzo
Dal fiero eccidio ella campasse almeno.

Ma che diremo di questi altri profferiti poco prima dal medesimo?

Ma se la sorte a noi contraria fia,
Se d’uopo fia perir, peran con noi
Sotto le torri e i patrj tempj e i tetti
Inceneriti in un comun sepolcro
{p. 167}
La Grecia, i Dei, l’Areopago, Atene.

Timandro non dovea fremere all’udirli? Ottimo nel principio dell’atto III è il contrasto che si ammira in Timandro del padre e dell’arconte, dell’amor de’ figli con quello della patria, della passione colla virtù. Ma la seconda e terza scena, nelle quali Alceo e Biante un dopo l’altro annunziano la stessa volontà del Senato a Timandro, non si potevano ridurre ad una sola? Nella quarta scena nobili sono i sentimenti di Timandro e de’ figli. Dice il padre:

Io come padre,
Voi come figli alla diletta Atene
Doniamo a gara in ricompensa il sangue.
Itene a morte.

Dice Ipparco:

Vedrammi Atene
Morir così come l’ho già salvata.
Fido pugnai, fido morrò per lei.
Ma paga di me sol sia tua vendetta;
Il fratel viva.

Dice Cleomene:

Padre, non voglio
Grazia, se col fratel non la divido.
O non morrà, o noi morremo insieme.
{p. 168}

Il padre che s’intenerisce, pur li condanna, dicendo:

Basta, non più, vi piango,
Ma vi abbandono, vi condanno e v’amo;

ed allora i fratelli generosamente si animano a morir con costanza. Tutto bene; ma già nell’atto II, come si è notato, è seguita una volta la loro nobil gara; nell’atto IV i medesimi che sono stati liberati da Demetrio, per salvare il padre, anche accusano se stessi a vicenda, e la competenza ha il medesimo colore; e finalmente nella sesta scena tornano a gareggiare. Avrei desiderato che sì bella situazione, benchè non nuova, e sì patetica e nobil gara non perdesse col ripetersi tanto con Timandro, nell’Areopago e con Demetrio. L’autore chiarissimo già sa la censura del Voltaire alla Merope del Maffei, per essersi questa regina due volte avventata colla scure contro del figlio.

Il Serse risale colla Semiramide del Voltaire a i Persi di Eschilo, u andovisi dell’ombra introdotta da questo Greco. Nol tacque il dotto Bettinelli; ma avrebbe potuto ben dire ancora che l’ombra della Semiramide apparsa in chiaro giorno in mezzo alla corte ed al popolo la rende infruttuosa per lo spettatore, perchè incredibile e spogliata delle terribili circostanze onde {p. 169}simili apparizioni scuotono gli animi della moltitudine, e perciò rimane inferiore non meno a quella de’ Persi che al di lui Serse. I terrori di questo re nella scena I dell’atto III, per l’ombra che l’incalza e lo spaventa, sono alla solita saggia maniera accreditati dalla scarsezza della luce e dalla dubbia visione del fantastico simulacro, appunto come vien dal volgo immaginata. Veggasene uno squarcio:

Un lamentevol suon parmi improvviso
Da lunge udir che più s’appressa: io veggio
Fra una pallida luce in quel momento
Terribile apparir mesto fantasma.
Bende funeree e vedovili panni
Tutto lo ricoprian: celava il volto
Lugubre velo: per le man traea
Tutto sparso di lagrime un fanciullo.
Io tento di fuggir ma non so dove . .
In quello un pianto, un gemito dolente
Mi raddoppia il terror, odo, o udir parmi
Il fatal nome risonar d’Amestri.
Mi volgo, e la ravviso; ella era dessa,
Che squarciatasi il velo, ancor le belle
Ma confuse sembianze a me scopriva.
Io correr voglio a lei, ma ignota forza
Or mi trattiene, or mi respinge, e miro,
Ch’ella stringeva insanguinato ferro,
E al garzone il porgea. Parmi vederla,
{p. 170}
Parmi ascoltarla ancor, che tra i singhiozzi
Ignoti sensi mormorava, e il nome
Di Dario ripetea &c.

I caratteri di questa favola sostengono bene il proprio decoro e l’ uguaglianza. Vigoroso è quello di Serse, savio quel di Clearco, candido e naturale d’Idaspe, e soltanto quello odioso di Artabano che intriga se stesso nelle sue sofistiche sottigliezze, mi sembra poco plausibile.

Intanto che tali valorosi scrittori emulando ora i Greci ora i Francesi nobilitavano il coturno italiano con drammi che dalla sola invidia, sotto pretesto di delicatezza di gusto, può inspirarsi il basso espediente di occultarne il merito con un maligno silenzio, piacque ad un’ altra schiera di letterati di recare esattamente nel nostro idioma le più applaudite e felici tragedie francesi. Non parlerò io di certe fangose compilazioni di traduzioni senza scelta di ogni sorte di tragedie buone, mediocri e cattive, le quali servono unicamente a rendere ambiguo il gusto alla studiosa gioventù, e ad apprestare copia di materiali a’ pubblici commedianti. Parlo solo delle non moltissime versioni eccellenti, cioè del Cesare e del Maometto del chiar. ab. Melchiorre Cesarotti, del Radamisto e di altre del rinomato compatriotto del Chiabrera Innocenzio Frugoni, {p. 171}della mentovata Roma Salvata del Bettinelli, della Zaira e di altre dell’elegante conte Gasparo Gozzi, dell’Orfano della Cina del signor Giuseppe Pezzana di Parma, dell’Irene dell’ab. Zacchiroli di Ferrara, di alquante del sig. marchese Albergati, del cavalier Richeri, del conte Agostino Paradisi e del dottor Domenico Fabri, della Berenice del sig. Romano Garzoni Lucchese, dell’Ifigenia del sig. Lorenzo Guazzesi47. Anche il Bruto del Voltaire si tradusse bellamente da una dama Lucchese. Ma che lascia a desiderare l’eccellente versione dell’Alzira dell’insigne traduttor di Teocrito il P. M. Giuseppe Maria Pagnini Pistojese? Non altro se non che il degno autore si determini a pubblicarla. Pregevole è parimente la traduzione della Fedra fatta dall’ab. Giacinto Ceruti di Torino comparsa nella Biblioteca teatrale di Lucca l’anno 1762, e fra i di lui opuscoli nel 178148.

{p. 172}

Non ha poco contribuito ad inspirar fra noi e diffondere per tanti paesi un nuovo ardore per la poesia tragica il generoso invito del Sovrano di Parma pel cui benefico genio Borbonico abbiam veduto in pro delle belli arti spuntar nuovamente i lieti giorni de’ Principi Farnesi. Tra varie tragedie prodotte dal comparire del real programma per tutto l’anno 1782, cinque sole meritarono la corona nel certame Parmense. Ottenne la prima nel concorso del 1772 la Zelinda tragedia del conte Calini da Brescia, nella quale si riconosce qualche somiglianza della languida Blanche & Guiscard del Saurin; ma è grandissimo il numero de’ buoni componimenti che non ebbero verun modello? La seconda {p. 173}corona di quell’anno si destinò al Corrado tragedia nazionale del conte Francesco Antonio Magnocavallo di Casal-Monferrato. Non si premiò tragedia alcuna nel 1773; ma nel seguente anno conseguì la prima corona il Valsei, ossia l’Eroe Scozzese di Antonio Perabò di Milano giovane di alte speranze morto qualche anno appresso. Rimase la seconda corona all’Auge tragedia del nobile Ascolano Filippo Trenta, il quale prima ancora del real programma altre due ne avea pubblicate, la Teone, e l’Oreste. Nel concorso del 1775 riportò la prima corona la Rossana del nominato conte Magnocavallo, il quale è pure autore di una Sofonisba pubblicata in Vercelli nel 1782. Il più accigliato censore non negherà che tali tragedie conseguirono meritamente la promessa corona, avendo allora in preferenza di altre soddisfatto alle condizioni del programma singolarmente colla proprietà dello stile, colla convenevolezza del costume e colla regolarità della condotta. Non basterà ciò per convincere i maldicenti Freloni enciclopedici dell’utilità del disegno del Real Protettore, e per mostrare che l’Italia non è sì lontana dal calzar con piena riuscita il coturno Ateniese? Nè con ciò si pretende assicurare che abbiano le nominate tragedie tutta l’energia e la grandezza tragica, calore, moto, patetico, interesse da elevarle accanto al Cinna, alla {p. 174}Fedra, all’Alzira, al Radamisto. Molto meno si pensa di proporle per modelli a chi voglia ottenere una corona dalle mani stesse di Apollo, secondo l’espressione del sig. Andres. Ma dalle mani almeno di chi si compiace encomiar l’Ifigenia del Lassala, la Numanzia dell’Ayala e l’Agamennone dell’Huerta, non potrebbe, oltre del Maffei, sperar di essere coronato qualche altro Italiano di questo secolo?

Intorno al tempo che si maturava l’eccitamento della Corte Parmense corsero il tragico aringo molti illustri compatriotti del marchese Maffei. Se non con molto calore, con grandi affetti e con istile sempre accomodato alle cose, certo con regolarità costante, con arte e con giudizio composero le loro tragedie Carl’ Antonio Monti, che pubblicò nel 1760 in Verona il Servio Tullio; il conte Guglielmo Bevilacqua che nel 1766 impresse Arsene ben condotta e ben verseggiata non meno del suo Giulio Sabino; il conte Alessandro Carli autore di Telane ed Ermelinda, di Ariarate, e de’ Longobardi impressa nel 1769; il dottor Willi che scrisse Idomeneo; il sig. Girolamo Pompei che diede alle stampe un’ Ipermestra, e la Calliroe pubblicata nel 1769; il conte Paradisi che compose gli Epitidi; ed il cavaliere Durante Duranti che pubblicò in Brescia nel 1768 la Virginia. Io non preferirei questa tragedia nè all’Appio {p. 175}Claudio del Gravina, nè alle Virginie del Pansuti o del Bianchi o del Bicchierai. Quel vedere tre volte tornare alla vista dell’uditorio l’apparato del Decemviro per sentenziare sulla condizione di Virginia; il ripetersi tre fiate la citazione de’ testimonj, e il darsi ogni volta nuova dilazione per sospendere la sentenza, sembra povertà d’arte. Le scene di Claudio sono troppo staccate e talvolta si frappongono all’azione inopportunamente. Icilio minaccia, e poi rimane quasi ozioso nella difesa dell’innamorata. La sceneggiatura non serva il modo accettato da’ moderni, e più di una volta il teatro rimane vuoto. Il partire ed il restare de’ personaggi non sempre avviene giusta le regole del verisimile, ma secondo il bisogno dell’autore. V’ha non pertanto più di un passo vigoroso. Virginio nell’atto III parla con eroica grandezza al Decemviro: nel V la di lui difesa contro l’impostura di Marco è sobria e giudiziosa: patetiche nel medesimo sono l’espressioni di Virginia: buono il racconto non diffuso che fa Claudio della ferita data dal padre a Virginia: assai compassionevoli son l’ultime di lei parole.

Il cavaliere Ippolito Pindemonte parimente Veronese acclamato in Italia tra’ valorosi poeti viventi diede alla luce in Firenze l’anno 1778 Ulisse tragedia di lieto fine degna di mentovarsi come regolare, bene {p. 176}scritta e ben verseggiata, e pregevole per la semplicità delle greche favole e pel decoro delle moderne, che vi si osserva. Viene in essa espresso con vivacità e delicatezza l’amor conjugale e paterno. E che importa che si riconduca sulle moderne scene un antico argomento della Grecia, purchè le passioni comuni a tutti i tempi e a tutti i paesi traggansi dal fondo del cuore umano in guisa che commuovano e chiamino l’attenzione? Questa tragedia in una sola azione principale che si va disviluppando senza bisogno di estrinseci episodj, ci presenta varie scene teatrali49. Tali mi sembrano le seguenti: quella di Penelope nell’atto II, che intende la morte di Ulisse comprovata col di lui manto: la riconoscenza di Ulisse e Telemaco nell’atto III: la scena del IV tra Penelope ed Ulisse chiuso nell’armi, che si parlano con affetti convenienti al proprio stato, e si dividono senza che Ulisse si {p. 177}faccia conoscere. Nell’atto V Penelope si lamenta del tripudiar che fanno i proci per la morte di Ulisse, mentre stanno a mensa con Telemaco e con Ulisse sconosciuto. Si ode un gran romore, si distinguono gemiti e lamenti, Penelope teme pel figlio. Intende poi che si è accesa una gran mischia tra’ proci, Telemaco e lo straniere. Cresce la di lei agitazione; ma secondo me ella si perde in troppo lunghi discorsi dopo tal notizia intempestivi. Trattasi del tutto, di un figlio unico suo sostegno, perduto Ulisse; e che dee a lei importare l’origine della contesa in quel punto? È l’evento della pugna che dee occuparla tutta. Dopo di aver saputo da Mentore ancora che tuttavia si combatte, può ella esser curiosa delle circostanze dell’avvenuto? può udirne un lungo racconto? Ella intanto l’ascolta, ed al fine si sovviene del figlio. Tutto potrebbe passare, s’ella non fusse Penelope, se non fusse madre. Ma questo dubbio che molesterà chi legge o ascolta, si dilegua all’arrivo di Telemaco salvo e di Ulisse vincitore. Ella sviene, e ripigliando l’uso de’ sensi si trova tralle braccia del tanto sospirato e pianto consorte. L’illustre autore volle apporre alla sua tragedia alcune osservazioni contro di essa, fingendole fatte da un altro; ma esse altro non sono che graziosi colpi e motteggi contro il mal gusto e la pedanteria e gli errori di alcuni moderni {p. 178}innamorati di un nuovo stile e di un nuovo modo di far tragedie. Egli oppone ancora al suo componimento che sia assai scarso di morali sentenze; ma questa è la sua maggior lode, esser sì ricco di lumi filosofici, come specialmente dimostra il discorso di Ulisse in fine dell’atto IV, e sapere occultar se stesso ne’ personaggi che imita.

Prima del Pindemonte avea in Lucca pubblicato nel 1773 un altro Ulisse il dottore Francesco Franceschi Lucchese autore di varie lodevoli produzioni, di un’ apologia del Metastasio, e della tragedia intitolata il Coreso. Il di lui Ulisse destinato al concorso di Parma intimato nel 1771 non si ristrigne, come quello del Pindemonte, al di lui ritorno in Itaca e alla vittoria su i proci, ma ne contiene anche la morte seguita per mano di Telegono suo figlio non conosciuto. Parve all’erudito autore, e se ne dichiarò nel discorso fatto all’Accademica Deputazione Parmense, che ciascuna di queste due avventure non potesse apprestar materia per una favola di cinque atti. Egli vi aggiunse anche una scelta di uno sposo da farsi da Penelope tra’ proci; gli artificj del sagace Ulisse per rompere l’alleanza de’ due amanti principali seminando fra loro la diffidenza; e tre fatti d’armi. Ecco ciò che ci sembra più interessante in questa favola, oltre ad alcune vaghe imitazioni della {p. 179}maniera Metastasiana e di altri nostri poeti: l’appassionato trasporto di Penelope nella scena 4 dell’atto II in procinto di aprirsi il foglio della scelta dello sposo; il colpo di scena quando al volersi ferire essendo trattenuta da Ulisse ella il riconosce, ed egli destramente l’avverte di non iscoprirlo; la bella scena 8 dell’atto IV, in cui Ulisse esplora l’indole di Telemaco, e poi si dà a conoscere. Parrà poi forse al critico imparziale, che con poca verisimiglianza Alcandro il confidente di Circe, l’educatore di Telegono e partecipe dell’arcano della di lui nascita, taccia sino al fine e lasci che avvenga il parricidio. Egli si discolpa del suo silenzio con Telegono nella scena 7 dell’atto V così:

Temer d’un parricidio io non potei;
Ulisse mai non vidi, e lungi o estinto
Io lo credei. Nè del tuo amor gli effetti
Io potei paventar, che di soverchio
La fe della madrigna a me palese
Era.

Ma sebbene sia uno de’ possibili ch’egli non abbia mai nè visto nè conosciuto Ulisse, è però una delle supposizioni inverisimili ed assai rare che l’unico confidente degli amori di Circe ed Ulisse, colui che fanciullo nascose Telegono ad ognuno, non conoscesse Ulisse. E quanto al non paventar gli effetti {p. 180}dell’amore del suo allievo, egli parla contro a ciò che non ignorava, poicchè ben potea su Telegono cader la scelta di Penelope, ed in effetto su di lui è pressochè seguita; ed egli intanto personaggio insulso e ozioso seguitava a tacere nè impediva le incestuose nozze.

La Bibli tragedia del conte Paolo Emilio Campi Modenese s’impresse in Modena nel 1774, e si era rappresentata con grande applauso nel teatro di corte la primavera dell’anno precedente. L’amor disperato e funesto dell’appassionata Bibli per Cauno suo fratello segue le tracce della Fedra di Racine. La stessa furiosa passione contrastata da un resto di pudore e di virtù lacera il cuore di Bibli e di Fedra: la stessa tragica forza anima l’una e l’ altra favola: la stessa galanteria subalterna d’Ippolito ed Aricia che indebolisce l’interesse della Fedra, caratterizza gli amori di Cauno, d’Idotea e di Mileto, e raffredda l’azione della Bibli. Sin dalla prima scena Bibli interessa e commuove. Essa non contiene al solito un freddo racconto del passato, bensì una dipintura patetica della di lei situazione; ma il rimanente dell’atto I e parte del II si occupa negli amori di Mileto e d’Idotea, e l’azione procede languida e lenta. Tornando Bibli prende nuovo vigore nella scena 5 col di lei incontro con Cauno, nella quale narrando con passione {p. 181}e senza superfluità i suoi spaventi notturni, dà indizj della colpevole sua fiamma. Le prime cinque scene dell’atto III sono impiegate negli amori di Cauno ed Idotea e nel disegno di Mileto su di costei dalla quale è odiato. L’atto risorge colla venuta di Bibli destinata dall’ oracolo ad immolare una vittima. Buona è la scena 7, in cui Bibli apre il suo cuore ad Eurinoe. Ella le dice:

E sarà vero, Eurinoe, che i dei
Voglian da me nuovi delitti ad onta
D’un resto di virtù che m’han lasciato?

Come (riflette) appressarsi all’altare? come così colpevole svenar le vittime? il padre ignorerà sempre i miei arcani? e Cauno? avrebbe egli penetrato il senso iniquo del mio discorso? Eurinoe l’ignora, ma soggiugne che il vide fremere, arrossire e mirarla con isdegno; e Bibli ripiglia:

Assai dicesti. Intese
L’ingrato intese, e non intender finse.
Crudel!

Eur.

Ma che? forse dovea . . .

Bib.

T’intendo.
Ah taci . . . . è ver, io sola, io fui l’ ardita,
Io fui la scellerata . . . Ma l’amaro
Suo simular, quel fingere . . . . ah sì questo,
{p. 182}
Facendomi arrossir, m’empie di sdegno.

Ella ha ceduto alla passione, ha mandato trall’atto III ed il IV un foglio a Cauno per iscoprirla; ma tosto ne ha ribrezzo ed orrore. Vieni, dice ad Eurinoe,

Fuggiam da questi luoghi. Un dio nemico
M’insegue, e mi minaccia. Andiam, non odi
Il fulmine che fischia, il ciel che tuona?
Si oscura il giorno, fugge il sol . . . Non vedi
L’aria di sangue e di caligin tinta?
Sostienmi . . . il piè vacilla . . . ie non mi reggo.
Ahi lassa! io muojo.

Nell’atto V la scena di Bibli e Cauno è scritta con vigore, e Bibli benchè colpevole combattuta dall’orrore e dall’amore desta pietà. Ma la scena terza, la quarta ben lunga e la quinta di quest’atto, che non ne contiene che sette, si aggirano intorno ad Idotea, e trattengono l’ evento principale a pura perdita. Bibli ferita condotta a spirare davanti al padre cui chiede perdono, chiama di nuovo verso di se l’ attenzione e l’interesse.

Uscì in Bergamo nel 1778 Calto tragedia del P. Giuseppe Maria Salvi sommasco lavorata su di un argomento tratto dalle {p. 183}poesie di Ossian. Prendono talvolta l’espressioni qualche novità per le immagini di nubi, di meteore, di raggi di luna cadente &c. proprie del Celtico Poeta, come si vede nel racconto che fa Calto della visione avuta. Ma nel rimanente lo stile rassomiglia a quello delle nostre tragedie e talora delle opere musicali, la qual cosa par che dissuoni, perchè le maniere e le formole de’ popoli cacciatori introdotti nel Calto dovrebbero esser sempre di molti gradi lontane dalle idee de’ popoli culti e dal linguaggio delle opere in musica. Oltreacciò non ha voluto l’autore soggettarsi all’uso della scena stabile, cambiandosi ben otto volte; ed in conseguenza non ha potuto scansare di non lasciar la scena vuota, regola che non osservarono gli antichi nè i nostri cinquecentisti, ma che in Francia e in Italia dopo Racine e Maffei nè anche da’ tironi si trasgredisce. Se il P. Salvi (che dicesi che abbia composte altre tragedie ancora) non avesse dimostrato nel Calto ingegno atto a riescire in questo genere, anche da queste osservazioni passeggiere mi sarei astenuto. Guai a quel poeta, il cui dramma non si vitupera nè si loda! guai a quello ancora che non ha per lodatore che se stesso e i suoi compiacenti amici! L’indifferenza del pubblico e degli esteri è una condanna del suo dramma.

Si pubblicò in Bassano nel 1779 Ugolino {p. 184}Conte de’ Gherardeschi tragedia senza nome di autore, la quale non sembra che ottenga pienamente il fine tragico, con tutto che vi si notino alcuni passi lodevoli che ne accenneremo. Forse l’orrore di uno che muore per fame, prolongato per cinque atti non permette varietà di situazioni, e rende a poco a poco quasi indifferente il lettore. Forse un’ atrocità impetuosa mette in maggior movimento le passioni sulla scena, e una spietatezza, per dir così, riposata alla maniera de’ Caligoli, qual’è questa di Nino che dà luogo all’artifizio, rivolta gli animi in vece di atterrirli. Forse quest’ argomento non esige cinque atti, e trattato in tre l’azione diverrebbe più rapida. Forse la versificazione vorrebbe essere più armoniosa, e lo stile talvolta più energico. Forse i caratteri equivoci di Guido, di Lanfranco ed anche di Marco, di tempo in tempo rallentano gli affetti; e un ambasciadore Genovese che viene a implorar mercè e ad intercedere a favor di Ugolino, par che lavori contro l’intento esacerbando l’animo di Nino con rimproveri e declamando quasi fosse a lui superiore. Nonpertanto è patetica la descrizione che fa Marco nella scena 2 dell’atto II, della rassegnazione di Ugolino condotto al carcere, la quale ben prepara il carattere di lui già scellerato pentito e ravveduto nelle avversità. Nella scena 4 del III ottime sono {p. 185}l’ espressioni di Ugolino: nobile nella seguente è il rifiuto della libertà offertagli a condizione di portar le armi contro Genova che lo protegge: energiche in questa scena son le di lui parole:

Non mi rapir quel bene
Che mi diè la tua torre. O torre amica,
Chi mi ritorna a te? Tu cancellasti
In pochi giorni da mia mente inferma
L’idee del fanatismo, e del furore.
Entro al tuo bujo un favorevol raggio
Pur mi rilusse. Io vidi, e che non vidi?
Vidi le stragi che in Italia e in Pisa
Nacquer dall’odio mio. Il sangue vidi
De’ cittadin fedeli a terra sparso
Per difesa d’un nome e d’un partito.

Patetica e vera è l’espressione di Ugolino nella scena 6 dell’atto V su i figli:

V’udrò di nuovo
Chiedermi un pane, nè in risposta avrete
Fuorchè inutili lagrime e lamenti;

come ancora il congedo ch’egli prende dal nemico mancando per debolezza:

Figli ... Guelfo ... ovesiete? Nino, io muojo,
E ti perdono.

Niccolò Crescenzio regio professore di filosofia {p. 186}in Napoli che nel 1727 produsse il Coriolano tragedia languida e regolare: il cavaliere Scipione Cigala autore di una Cleopatra stampata in Napoli nel 1736, mentovata nel supplemento della Drammaturgia dell’Allacci e onorata con un bel distico del consigliere Giuseppe Aurelio di Gennaro eccellente giureconsulto e poeta latino50: il P. Serafino Giustiniani Genovese che impresse nel 1751 il Numitore riuscita sulle scene, mal grado della trascuraggine dello stile: il sig. Flaminio Scarpelli Bolognese, e Don Ignazio Gajone di Casale di Monferrato autori di alquante tragedie regolari: il conte Alessandro Verri che nel 1779 impresse in Livorno col modesto titolo di Tentativi due tragedie la Congiura di Milano, e Pentea argomento tratto dalla Ciropedìa di Senofonte: sin anco due donne, cioè la sig. Francesca Manzoni di Milano, e la sig. Maria Fortuna auttrice della Zaffira, e della Saffo: tutti, dico, questi scrittori meritano lode per qualche pregio che traspare in mezzo {p. 187}alla languidezza; ma essi servono come il color nero sottoposto alle pietre preziose per dar maggior risalto ai nomi del Martelli, del Marchese, del Varano, del Granelli, del Bettinelli, e singolarmente del Maffei.

Ma che diremo del Diluvio Universale, dell’Anticristo, di Adelasia in Italia, della Rovina di Gerusalemme, del Nabucco, del Davide, della Sara &c. del P. Ringhieri ristampate dopo la di lui morte, e ripetute da’ commedianti Italiani, piene di tragiche mostruosità, e scritte in istile inelegante, prosaico, snervato, seminate di dispute sottili e mezzo scolastiche? Che della sua Bologna liberata armata di una prefazione contro di certo Dottore Don Pietro Napoli Signorelli che non avea lodate le sue tragedie che l’Italia chiama mostruose? Ciò che ne dicemmo altra volta, cioè che può bastar loro il servir di capitale a parecchie compagnie di commedianti. Aggiugneremo quel che ne dice un giornalista in parte suo parziale, che egli era il tragico del volgo e degli Ebrei. Egli pur ebbe molte situazioni interessanti e teatrali in mezzo alle stranezze; egli fu dunque calzando il coturno ciò che era il nostro Cerlone nelle sue chiamate commedie mostruose e talvolta interessanti reimpresse in Roma colla falsa data di Bologna.

Il pugnale di Melpomene vibrato senza {p. 188}effetto da mani sì deboli, è stato in questi ultimi anni impugnato con più successo. Il cavaliere Giovanni Greppi fervido e pronto d’ingegno ha prodotto in Venezia nel 1787 due volumi di Capricci Teatrali, ne’ quali trovansi tre tragedie, Gertruda Regina d’Aragona, Giulio Sabino in Roma, ed Odoardo stimata la migliore. Esse apprestano a uno sguardo curioso molte scene vivaci e tragiche e con felicità verseggiate; ma qualche ipotesi non molto verisimile, un portamento tal volta romanesco, l’atrocità spesso soverchia, alcun neo nella lingua e nello stile, non ci lasciano pienamente soddisfatti. Increbbe, nè senza ragione, nella seconda tragedia al conte Alessandro Pepoli che il proscritto Giulio Sabino e la sua sposa ardiscano penetrare con poco scorgimento nel palazzo d’un imperadore Romano loro nemico, ed avventurar tutto pel piacere di sfidarlo. Arrigo nell’Odoardo inferocisce atrocemente contro del proprio padre più perchè gli ha tolto la sposa che perchè gli ha svenata la madre. Il senatore Marescalchi di Bologna diede alla luce delle stampe in Bassano nel 1788 una tragedia di Antonio e Cleopatra, di cui loderemo di buon grado varj tratti di Romana grandezza che vi si possono notare. Accorderemo parimente all’illustre autore di averne ideato un piano assai più conveniente alla scena tragica di quello del Shakespear. Confesseremo {p. 189}nonpertanto che la scena dell’atto IV di Cleopatra ed Ottavio nel tempio, in cui ella coll’ idea di adescarlo al suo amore mentre il marito dorme, domanda alla confidente, se le sue vesti si accordino col suo volto, ed entrambi poi tentano ogni via per ingannarsi scambievolmente, ne sembra anzi comica che tragica. Aggiungeremo per amor del vero che il carattere della sua Cleopatra insidiosa, mentitrice, infingevole, civetta, potrà bene rassomigliarsi a quello che gli dà la storia, ma non essere nè sì tragico nè sì grande come quello della Cleopatra del cardinal Delfino. Il nobile autore de’ Baccanali tragedia pubblicata in Venezia nel 1788, colla regolarità della condotta, colla forza de’ caratteri, con varj tratti robusti e colla gravità dello stile fa concepire alte speranze ch’egli esser debba uno de’ tragici pregevoli del nostro tempo. Vigoroso nell’atto I è il discorso tenuto da Sempronio al giovane Ebuzio da iniziarsi ne’ misteri de’ baccanti. Vivace la dipintura che fa dell’empietà di essi nell’atto II Fecenia spaventata dal vedere ascritto il caro amante a quella nefanda adunanza. L’istesso autore ha composto i Coloni di Candia di egual merito. Ma si è desiderato in entrambe maggior verisimiglianza nelle circostanze, maggior cura in certe espressioni, più attività nel capo de’ ribelli nella tragedia de’ Coloni, meglio accreditata ne’ Baccanali {p. 190}la guisa onde il vecchio Ebuzio trafitto da cento colpi pensò a tramandare, fidandosi di una baccante, la notizia del proprio eccidio a un figlio allora fanciullo, scrivendo su di un cuojo col proprio sangue.

Il sig. Matteo Borsa noto per varie operette erudite, ed il sig. ab. Giuseppe Biamonti, ripetendo gli antichi argomenti greci hanno saputo procacciarsi nuova e non volgar gloria. Volle il sig. Borsa con Agamennone e Clitennestra pubblicata in Venezia nel 1786 dare a un argomento mille volte trattato e bene per molti riguardi specialmente da Eschilo primo inventore, e da Seneca e dal conte Alfieri, un portamento novello col variare il carattere di Clitennestra, cui non fa rea dell’uccisione del marito. Il sig. Biamonti seguendo le tracce di Euripide ha prodotta in Roma nel 1789 un’ Ifigenia in Tauri, uno de’ due argomenti tragici della Grecia, che Aristotile antiponeva ad ogni altro. Aveano trattato questo bell’ argomento in Italia con pari felicità per diverse vie il Rucellai serbando i cori e la condotta del tragico greco, ed il Martelli scortamente adattandone l’azione alle moderne scene, per nulla dire del conte Gian Rinaldo Carli che l’avviluppò di amori, d’inganni e di avventure romanzesche. Il sig. Biamonti calca le orme di Euripide in tutte le circostanze della patetica generosa gara di Pilade ed Oreste, e della riconoscenza d’Ifigenia {p. 191}col fratello; ma premette all’azione una nuova ipotesi della peste onde Tauri è afflitta, per cui si è mandato Reso a consultar l’oracolo di Apollo in Delo, il quale serve allo scioglimento naturale della favola senza l’intervento di una machina; nel che però non sembra ideato con tutta l’arte questo comodo arrivo di Reso nel punto stesso che Oreste è per cadere sotto la sacra bipenne. Parimente la riconoscenza segue diversamente, cioè non per la lettera d’Ifigenia da recarsi in Argo, come nella greca favola, ma pel nome di Oreste scritto sul monumento erettogli come morto; ed anche in questo si bramerebbe che tali onori funebri e tal dolore d’Ifigenia non si fossero totalmente fondati sul di lei sogno e prima della notizia recata da Lico che in Argo regna Menelao. Mal grado di ciò, e di qualche neo e della copia delle apostrofi, e spezialmente di quella della scena 5 dell’atto I,

O fortunata quella cerva alpestre &c.

che contiene un concetto non vero, noi dobbiamo sinceramente congratularci col valoroso giovane poeta che ha saputo dar nuovo e vivo interesse a un argomento più volte ben maneggiato in Italia, cui possono oggi invidiare le scene francesi, le quali non hanno ancora una Ifigenia in Tauri da metterle a fronte. La gioventù studiosa vi {p. 192}troverà molti squarci eccellenti tratti singolarmente da tutte le scene di Pilade ed Oreste, dalla 4 dell’atto III d’Ifigenia co’ medesimi, dall’ultimo patetico congedo di Oreste coll’ amico nella 3 dell’atto IV &c. A noi basti accennare che rendono pregevole questa tragedia grandi affetti, stile nobile, vivace ma natural colorito e versificazione armonica quanto richiede il genere.

All’ab. Giambatista Alessandro Moreschi di Bologna dobbiamo Carlo I Re d’Inghilterra tragedia pregevole pubblicata nel 1783, in cui non si ripete qualche argomento greco, non si trattano amori, non intervengono confidenti inetti, non si fa pompa di lirici ed epici ornamenti. La morte di un re che trasse verso il Tamigi tutta l’ attenzione dell’Europa, è uno de’ pochissimi argomenti proprj del vero coturno. In essa non mostrasi che Ciro p. e. prevalga ad Astiage, o Alessandro a Dario, o Tamerlano a Bajazzette, sventure di personaggi eroici che altro non fanno che cangiar le catene de’ regni. Quì si vede una tremenda catastrofe della costituzione di un popolo che conculca le proprie leggi per alzare un tempio alla libertà nazionale, sacrificandole con formalità giudiziarie per prima vittima il proprio sovrano. Il sig. Moreschi col solo presidio della storia degnamente colorita e posta in azione ci trasporta in Londra, e ci schiude la terribile scena di un legittimo {p. 193}monarca solennemente condannato da’ proprj vassalli. Ei presenta in un medesimo quadro Carlo magnanimo e sensibile che nel gran passaggio dal soglio al patibolo trafitto dalla tenerezza de’ figli conserva il decoro reale e muore da forte: Cromuel che si ravvisa alla vastità de’ suoi disegni e alla naturale spietatezza vestita di empia politica: Farfè che rappresenta tutto l’entusiasmo Inglese per la libertà, la quale gli occulta l’atrocità del mezzo di stabilirla: Federiga e Dacri che dipingono la virtuosa debolezza compassionevole de’ pochi in pro del principe sacrificato. La dizione è nobile, convenevole al gran fatto, e spoglia di ornamenti quasi sempre inutili al tragico che sa le vie del cuore. Serva di saggio ciò che dice Farfè nella bella scena 5 dell’atto II in cui si ammirano quattro caratteri dissomiglianti ugualmente importanti e ben espressi nella deliberazione di Carlo sul foglio del Parlamento:

  Hai tu vaghezza
Di grande tanto divenir, che alcuno
Pareggiar non ti possa? Ardisci, o Carlo,
D’alzare oltre te stesso il tuo pensiero?
Lo scettro a te cagion di lungo affanno
Osa deporre, cittadin diventa;
Imita Silla, e sii maggior d’Augusto.
{p. 194}

Vedasi il ritratto di Cromuel in queste parole della I scena dell’atto IV:

Diadema non curo, o regia spoglia;
Voglio il comando. Alma non ho capace
Di servitù. Dovunque nato io fossi,
Io comandar dovea. L’utile nome
Di libertà, che sì l’Inglese apprezza,
Quì mi chiama a regnar: altrove usato
D’altro consiglio avrei.

Con maggior copia di favole ha cercato il sig. conte Alessandro Pepoli di Bologna abbandonar parimente i greci argomenti investigando nuova materia tragica nella storia di ogni nazione, ed ha sinora pubblicate sette tragedie che si trovano raccolte nell’edizione di Venezia del 1787 e 1788. Trasse dalle cronache Inglesi la prima intitolata Eduigi re d’Inghilterra che perseguitato dallo zelo di Dunstano perde la vita, il regno e la sposa per essersi congiunto in matrimonio con Elgiva sua cugina. In tal favola, che ha un coro mobile nel I, II e IV atto, e non nel terzo, è notabile la franca dipintura d’ un impostore vendicativo e fraudolento fatta in Dunstano.

Sulle storie Spagnuole fabbricò la Gelosia snaturata ossia la Morte di Don Carlo figliuolo di Filippo II, ed il Rodrigo, per le cui lascivie passò la Spagna sotto il dominio de’ Mori. Scrisse la prima ad emulazione {p. 195}di quella del conte Alfieri, nella quale piacquegli far morire Carlo ed Elisabetta abbracciati sotto le rovine d’un sotterraneo carcere. Fu il Rodrigo sventurato anche nella rappresentazione secondo il racconto del medesimo illustre autore essendo stata pessimamente accolta in Venezia per gli sforzi di un partito avverso. Vi si vede una Clotilde violata involontariamente, che ama però il suo violatore, e che continuando ad amarlo pure scopre la sua vergogna al proprio padre, il quale all’apparenza si gloria bassamente del sofferto oltraggio meditandone la vendetta fatale a tutta la Spagna.

Dalle solite vicende de’ serragli de’ Turchi ricavò la sua Zulfa, in cui si vede Seremeth il migliore de’ mariti ed il più generoso degli uomini tradito ed offeso dagli amori della sua moglie Zulfa con Errico, per li quali si serba l’interesse della favola. Non per tanto è patetico il congedo che prende Zulfa dal marito nell’esser condotta al Dey:

  Signor, mi lascia
Al mio destino . . . Il ciel ti ricompensi
Di tua bontà . . . Morir m’era dovuto:
Accogli il pianto mio . . . Se il puoi, rammenta
Senza sdegno il mio nome . . . e alla memoria
Della misera Zulfa, oh Dio! perdona.
{p. 196}

Tolse dalla storia di Pausania re di Sparta la Cleonice, in cui mi sembrano lodevoli i caratteri di Cleonice e di Sofronimo, e grande insieme e patetica la scena 3 dell’atto IV. Taluno però sentirà qualche rincrescimento del non delicato carattere di Pausania e del di lui indecente invito mandato a Cleonice perchè venisse a passar seco la notte, facendole indi in premio sperare le fue nozze; nè meno sconvenevole parrà la mediazione di Scilace di lei padre che cerca tutte le vie di persuader la figlia ad andarvi.

L’argomento della tragedia di Dara è tratto dagli eventi de’ successori di Tamerlano, ed è piuttosto un tessuto di colpi di scena, cioè di fatti, che di situazioni tragiche. Nurmal e Cajeam interessano; ma Dara che abbandona subito la reggia e la città al consiglio del fallace Jemla, e che poi vi torna quando è occupata dal fratello, non si manifesta, qual si enuncia, valoroso nè privo di accortezza. Il colpo di Mirza colla pistola coperta, che non prende fuoco, e si scopre al cader del broccato, indica un disegno mal concertato da non contribuire al tragico terrore. Non reca onta all’ autore la rassomiglianza del suo Oramzeb col Maometto del Voltaire; ma se ne vede la discordanza nella confidenza che delle proprie scelleraggini ed insidie l’uno fa a Jemla e l’altro a Zopiro. Maometto potea {p. 197}lusingarsi di trarre vantaggio dalla sua astuta sincerità coll’ indurre Zopiro a seco unirsi. Ma Oramzeb che poteva mai ottenere col manifestarsi il più furbo degli uomini ad un suo spregevole schiavo? Di tanto non faceva mestieri con un traditore com’ è Jemla per fare che scoprisse Dara.

Dalla storia Romana prese un argomento nuovo per la scena nel Sepolcro della libertà, ossia Filippi, cui i leggitori non esiteranno a dar la preferenza sulle altre per istile, per condotta e per grandezza di caratteri. Marco Bruto vi comparisce degnamente, e se non potrà compararsi col Catone dell’Addison, non manca di sublimità e di forza, nè gli amori subalterni della favola inglese interrompono il buono effetto dell’italiana. L’autore nel tessere la sua tela non ha potuto nell’atto V serbare il modo tenuto da’ moderni e guardarsi dal lasciar vuoto il teatro. Bruto nella 1 scena, Cicerone nella 2, Messala e Casca nella 4, Antonio nella 5, lasciano la scena vuota. Rapita Porcia dal trasporto per la libertà prima di uccidersi accanto a Bruto trucida con ispietato eroismo i teneri figli al cospetto dello spettatore; ma forse la provvida variazione di quella scena, che risparmia tanta atrocità, non toglie alla tragedia il terrore che se ne attende.

Finalmente sul fondamento istorico dell’invito fatto dalla repubblica Fiorentina a {p. 198}Gualtieri duca di Atene a governarla, ha l’illustre autore immaginata l’interessante tragedia Romeo e Adelinda impressa nel V volume del suo Teatro nel 1788, e rappresentata con pieno applauso in Bologna nel palazzo del chiar. marchese Albergati che vi sostenne egregiamente la parte di Uberto, mentre si distinse a maraviglia la nobil donna sig. Teresa Venier in quella di Adelinda, e l’autore stesso in quella di Romeo.

Chiudiamo con lieta fronte la classe de’ moderni tragici italiani col sig. ab. Vincenzo Monti e col conte Vittorio Alfieri da Asti51.

Il sig. Monti ha sinora composte due tragedie, {p. 199}l’ Aristodemo, e Galeotto Manfredi Principe di Faenza. S’impresse la prima nel 1786, e si recitò in Parma con pieno applauso in due autunni consecutivi, sostenendo la parte di Argia la celebre Gardosi52; nè con minor lode si accolse tal favola {p. 200}in Roma recitandovi il valoroso Zanarini. L’argomento è quello stesso che Pausania suggerì al Dottori nel secolo passato; ma ciò che formò l’azione del primo Aristodemo, serve di antecedente a quest’altro. Ci tratterremo noi a dare una compiuta analisi di sì nota tragedia enunciata in tanti giornali buoni e cattivi, recitata in tanti teatri ed impressa tre volte in due anni? Basti ormai accennare in generale che ne formano la prestanza ed il carattere una versificazione felice, armonica, maestosa: lo stile robusto, animato, sublime e poetico quanto comporta il genere: molte invidiabili bellezze di esecuzione: le passioni espresse col terribile pennello di Crebillon e di Shakespear ne’ loro migliori momenti. Ne vorremmo, è vero, le parti della favola più concatenate; più fondato e naturale il disegno di Lisandro di occultare Argia, d’imprigionare e non uccidere Eumeo, di obbligar Taltibio con un giuramento a non palesarne la nascita; l’entrar di Argia nella tomba della sorella preparato almeno con raccapriccio maggiore. Ma chi direbbe che lo spettro dell’Aristodemo sia la stessa cosa con quelli della Semiramide e dell’Hamlet, se non chi di tutto parla per tradizione? In queste favole gli spettri appariscono e parlano realmente, come anche il genio di Marco Bruto nel Filippi del conte Pepoli: ma nell’Aristodemo, come nel Serse del {p. 201}Bettinelli, il simolacro che adombra i rimorsi di questi gran delinquenti, si presenta solo alla loro riscaldata e atterrita fantasia. L’Aristodemo (si è detto ancora) non ha catastrofe, perchè già se ne prevede il fine. Traspare, è vero, il disegno ch’egli ha di uccidersi; ma in qual guisa l’effettuerà? Argia scoperta in Cesira sarà prima a lui nota? porravvi a tempo impedimento? Ecco le cose che formano la sospensione dell’uditorio. Affermò il fattore di Colpi d’occhio che tal favola è piena di atrocità, nel che s’inganna o mentisce, mentre eccetto il suicidio della catastrofe, non vi si rappresenta atrocità veruna, ma sì bene terrori e rimorsi d’averne anticamente commesse. E’ nojosa, fredda, priva di movimento e d’interesse, disse il medesimo folliculario. Ma può mancar di calore, interesse e movimento una favola che esprime con tanta forza il terrore tragico, come si vede nel terribil racconto della scena 4 dell’atto I, nel congedo di Cesira e Aristodemo della 3 dell’atto III, nella mirabile dipintura dello spettro della 7 dell’istesso atto, nella 2 del IV in cui Aristodemo atterrito cade sul teatro a piedi di Cesira ed a lei si discopre reo, nello scioglimento sommamente patetico in cui Aristodemo che si è ferito a morte, riconosce in Cesira la sua Argia e spira? Rechiamo per saggio del valor tragico del sig. Monti qualche frammento della scena 7 del {p. 202}III e dell’ultima dell’atto V. Ecco la dipintura dello spettro che fa il re a Gonippo:

Allor che tutte
Dormon le cose, ed io sol veglio, e siedo
Al chiaror fioco di notturno lume,
Ecco il lume repente impallidirsi,
E nell’alzar degli occhi ecco lo spettro
Starmi d’incontro, ed occupar la porta
Minaccioso e gigante. Egli è ravvolto
In manto sepolcral, quel manto stesso,
Onde Dirce coperta era quel giorno,
Che passò nella tomba. I suoi capelli
Aggruppati nel sangue e nella polve
A rovescio gli cadono sul volto,
E più lo fanno, col celarlo, orrendo.
Spaventato io m’arretro, e con un grido
Volgo altrove la fronte; e mel riveggo
Seduto al fianco, mi riguarda fiso,
Ed immobile stassi, e non fa motto.
Poi dal volto togliendosi le chiome,
E piovendone sangue, apre la veste,
E squarciato mi addita utero e seno
Di nera tabe ancor stillante e brutto.
Io lo respingo, ed ei più fiero incalza,
E col petto mi preme e colle braccia.
Parmi allora sentir sotto la mano
Tepide e rotte palpitar le viscere,
E quel tocco d’orror mi drizza i crini.
Tento fuggir: ma pigliami lo spettro
Traverso i fianchi, e mi strascina a piedi
{p. 203}
Di quella tomba, e quì t’aspetto, grida.

Odasi ancora Aristodemo spirante:

Ebben, che vuol mia figlia?
S’io la svenai, la piansi ancor. Non basta
Per vendicarla? Oh venga innanzi? Io stesso
Le parlerò .., miratela; le chiome
Son irte spine, e vuoti ha gli occhi in fronte
Chi glieli svelse? E perchè manda il sangue
Dalle peste narici? Oimè! Sul resto
Tirate un vel, copritela col lembo
Del mio manto regal, mettete in brani
Quella corona del suo sangue tinta,
E gli avanzi spargetene, e la polve
Su i troni della terra, e dite ai regi,
Che mal si compra co’ delitti il solio,
E ch’io morii . . .

Gon.

Qual morte! Egli spirò53.
{p. 204}

S’impresse il Galeotto Manfredi del medesimo autore insieme colla precedente nell’edizione Romana del 1788. L’azione consiste nella morte di questo principe di Faenza seguita per la gelosia che ha di lui la Bentivoglio sua moglie ingannata da un malvagio ambizioso. L’autore vi appose per epigrafe,

vestigia græca
Ausus deserere, & celebrare domestica facta,

perchè uscendo dagli argomenti forestieri, nella guisa che i Romani abbandonarono tal volta l’orme de’ Greci, avea trattato un argomento nazionale54. La condotta è regolare; interessanti ognuno per se e tutti insieme nel contrasto sono i caratteri di Manfredi, Elisa, Matilde, Ubaldo; quello {p. 205}di Zambrino nero e detestabile inspira ne’ buoni tutta l’indignazione colla verità e forza delle pennellate che lo ritraggono. Le scene per noi singolarmente pregevoli sono le seguenti: nell’atto I la 2 di Manfredi co’ suoi cortigiani, e la 3 di Ubaldo e Manfredi; nel II la 2 in cui si dipinge felicemente la tenerezza di Elisa; nel III la riconciliazione di Matilde e Manfredi col congedo che viene a prendere Elisa; nel IV gli affetti del virtuoso Ubaldo che si allontana dalla corte; nel V la tenerezza di Manfredi che ordina che si richiami nella scena 1, le furie di Matilde inspiratele da Zambrino nella 6, e sopra ogni altra l’ultima tragica situazione di Manfredi trafitto a torto e di Matilde che ne intende l’innocenza quando egli spira. Lo stile è nobile ne’ grandi affetti e talora alquanto dimesso e famigliare specialmente in bocca di Zambrino. Le bellezze delle scene indicate sono molte. Eccone un saggio. Zambrino che sostiene nella 2 scena dell’atto I doversi aggravare e smungere i popoli per ingrandir l’esercito e guarnir le fortezze, dice:

  Dove difesa,
Dove coraggio avrem?

Ed Ubaldo:

{p. 206}
  Nel petto,
Nell’amor de’ vassalli. Abbiti questo,
Signor, nè d’altro ti curar. Se tuo
Delle tue genti è il cor, solleva un grido;
E vedrai mille sguainarsi e mille
Lucenti ferri, e circondarti il fianco.
Ma se lo perdi, un milion di brandi
Non ti assicura! Non ha forza il braccio,
Se dal cor non la prende; e tu sarai
Fra tante spade disarmato e nudo.

Dopo tanti contrarj avvisi di critici occulti o manifesti, invidi o sinceri, e di censori periodici o buoni che servono alla verità e alle arti, o perfidi che militano per chi gli assolda e mordono chi ricusa pagar lo scotto a simili pirati, come mai parlare delle tragedie del conte Alfieri senza farsi un nemico? Brevemente e come da noi si suole senza timore e senza dipendenza coll’ usata nostra debolezza. Dieci egli ne ha sinora pubblicate dall’impressore Graziosi di Venezia raccolte in tre volumi nel 1785: Filippo, Polinice, Antigone, Virginia, Agamennone, Oreste, Rosmunda, Ottavia, Timoleone, Merope. Sono esse scritte alla greca maniera o alla moderna? Non alla greca, perchè non hanno cori, non nutrici, non nunzj, non machine che le sciolgano, non decorazioni pompose, non il solo fatalismo {p. 207}che ne governi le molle55. Le passioni maneggiate con terribile maniera le caratterizzano, e la condotta delle favole è accomodata al moderno teatro. Il pregio singolare che distingue l’Alfieri da moltissimi contemporanei ed oltrepassati, è l’arte grande di rintracciare entro il più intimo del cuore umano i pensieri che contribuirono a consumare i gran delitti. Nulla nelle sue favole rallenta l’azione, tutto va al fine, tutto tende ad inspirare spavento, e terrore. Il dialogo grande ed a proposito si accomoda alle situazioni. Lo stile enfatico, e troppo, manca di ogni poesia, di colori, di ornamenti, non dico già de’ vietati epici e lirici da lui meritamente abborriti56, ma di quelli che l’uso costante de’ tragici eccellenti {p. 208}antichi e moderni accorda alla scenica. La versificazione è per lo più dura, senza grazia, inarmonica; la locuzione stentata stranamente contorta, quasi sempre non naturale, cruschevole sino alla noja. Egli si priva rigorosamente di ogni sorte di confidenti, ed è quindi astretto a valersi con frequenza de’ monologhi spesso narrativi altrettanto nojosi e più inverisimili. Quattro o cinque personaggi non senza offesa della verità nè senza rincrescimento alternano in cinque atti. L’illusione manca del necessario soccorso delle proprietà indispensabili che accompagnano i troni; e si vede inverisimilmente una reggia per natura popolata abbandonata a uno e a due attori che vengono a tramare una congiura quasi al cospetto del tiranno. Tali mi sembrano i pregi ed i difetti generali delle nominate tragedie. Scendiamo a qualche particolarità su ciascuna.

Filippo. Spira tragica gravità questo componimento mal grado della snaturata barbarie di Filippo; della catastrofe preveduta sin dal principio; della venuta d’Isabella nella 1 scena del I senza perchè o solo per tornar indietro dopo il suo monologo; della costruzione quasi alemanna,

ch’ei t’è padre e signor rammenti Mal tu così;
{p. 209}

del mal suono che fa quell’

  a te sol resta
Come a me morte;

della mancanza degli articoli più volte &c. Non saprei che desiderare nel rassomigliante ritratto del geloso inumano simulatore Filippo. Gomez insidiosamente lo dipinge ad Isabella nella scena 5 del IV, ma con eccellenza,

Niun pregio ha in se che il simular pareggi &c.

La storia lo rappresenta come il Tiberio delle Spagne57. Quindi ben si dipinge tale nella tragedia, e singolarmente nella scena 5 del III fra’ suoi adulatori iniqui consiglieri, che ci rimembra un’ immagine di {p. 210}quel cupo imperadore in mezzo al servo Senato Romano, qual ci viene delineato da Tacito.

Polinice. I caratteri di Eteocle e Polinice che si abborriscono, e Giocasta che palpita per ambedue, sono espressi con forza di colorito veramente tragico. Eteocle non sa vedersi suddito un momento, ed a costo d’ogni delitto non respira che indipendenza ed odio mortale. Polinice non soffre i suoi torti, ma ama la germana, ama e venera la madre, e nell’istesso fratello non abborre che l’ingiustizia e la mala fede; sente in somma la voce della magnanimità in mezzo all’ ira. Tali caratteri ricevono l’ultima mano nell’atto V, quando il moribondo Eteocle fingendo d’abbracciar l’altro l’uccide:

Eteo:

Vendetta è al fin compiuta.
Moro, e t’abborro ancor.

Polin.

Pena al delitto
Ottengo pari . . . io moro, e ti perdono.

Antigone. Di questa tragedia recitata in Roma nel 1782 m’incresce singolarmente l’introduzione priva di verisimiglianza e proprietà. Argia giovane principessa sola di notte s’inoltra in una reggia nemica per ottener da Antigone, che non conosce, il cenere del suo sposo; primo monologo. Antigone si accinge contro del regio divieto ad andar nel campo per bruciare il corpo insepolto di Polinice; secondo monologo. {p. 211}S’incontrano in fine, si parlano alla cieca, ed Argia in una reggia per lei tanto sospetta vede una donna, e dice di cercare Antigone e di aver con lei comune la pietà ed il dolore. Ciò che esse dicono, non conoscendosi, è senza riflessione se non per timore della loro vita, almeno per quello di non condurre a fine la meditata impresa. A tali angustie e incongruenze è condotto il poeta per voler trasportare tutta l’azione nella reggia di Tebe. La gara però di Argia ed Antigone, gli arditi sentimenti di questa in faccia al tiranno, il loro ultimo patetico congedo, rendono alla favola la verità e la forza.

Virginia. I monologhi di Appio e di Virginio in parte narrativi, qualche intoppo che si presenta nella condotta della favola, l’ondeggiamento circospetto e picciolo del Popolo Romano nel giudizio, l’impunita tirannide minacciosa ancor dopo l’ammazzamento di Virginia, la durezza e l’oscurità prodotta nelle maniere di dire dalla mancanza degli articoli e da’ troppo stravolti iperbati; tutto ciò, dico, non ci nasconde i pregi di questa favola. Noi ne ammiriamo la dipintura de’ caratteri d’Icilio, di Virginia e di Virginio, veramente Romana, la vigorosa scena 2 dell’atto III58, e {p. 212}la 3 passionata di Virginio che incontra la figliuola e la consorte col nobile disdegno di Virginia, col terribil pensiero d’Icilio,

ah! schiavo il sangue mio? non mai..
Padre io non son . . . se ’l fossi . . .

colla fiera luce che ne scende in Virginio,

  orribil lampo
Mi fan tuoi detti traveder! deh taci..

Agamennone. Punto non esitiamo ad ammirare in particolar modo questa tragedia eccellente, mal grado di circa otto soliloquj, delle solite eccezioni sullo stile e del gallicismo Atride forse già mi sospetta. Oltre della proprietà de’ caratteri e della forza delle passioni, è inimitabile la guisa onde vi si disviluppa la riposta sorgente del gran misfatto. Le insidiose maniere di Egisto che conduce la cieca Clitennestra all’esecrabile {p. 213}assassinamento con latenti insinuazioni, mostra nel sig. Alfieri un filosofo teatrale che sa le vie onde si penetra nel fondo del cuor dell’uomo. Egisto inspira per gradi tutta la sua malvagità alla regina sempre occultando il pravo suo disegno sino all’atto IV col velo della modestia e del grande amore che mostra di nutrir per lei. Quindi nascono quattro mirabili scene, la 1 dell’atto I, la 1 del II, la 1 del IV59, {p. 214}e la 2 del V. La gioventù studiosa vedrà mirabilmente dipinto lo stato dell’animo di Clitennestra e quando è per giungere Agamennone, e quando vi s’ incontra, e quando freme all’idea della proposta lontananza di Egisto, e quando si determina al colpo atroce, e quando esce bagnata del sangue del marito.

Oreste. Non siam contenti di alcune circostanze del piano di tal favola. Oreste e Pilade s’inoltrano fin nella reggia indeterminati del pretesto che sceglieranno per presentarsi al re, e del nome onde far velo al lor venire. Elettra va parlando sola e voce alta nella scena 2 del I, ed è intesa da Pilade ed Oreste. Nella medesima lunghissima, benchè bella, avviene la riconoscenza de’ fratelli in un luogo tanto sospetto. Oreste declama, minaccia, va in furie, fulmina col guardo ardente il tiranno, gli rimprovera il tradimento e la viltà, quasi altro disegno non avesse che d’irritarlo e morire invendicato. Pilade nella 2 del IV per rimediare alle imprudenze di Oreste gli dà il proprio nome di Pilade non meno {p. 215}imprudentemente, giacchè Egisto non ha manifestato minore abborrimento per Pilade che per Oreste. Ma i difetti dello stile mi sembrano più rari, e i caratteri sono espressi con tutta la forza tragica. Eccellente è la dipintura di Clitennestra che palpita alternativamente or pel figlio or pel marito: ella è madre stando Egisto in salvo, ella non l’è più quando per lui paventa. Soprattutto nell’ atto V lodevolissimo è il trasporto di Oreste nel trucidar Egisto, col quale si colorisce egregiamente l’aver uccisa la madre che si frappone, senza vederla.

Rosmunda. Sembra il trionfo dell’iniquità questa favola in cui invano si cercherà un oggetto morale. L’inumana vendicativa Rosmunda riesce felicemente in opprimere tutti i suoi nemici e la virtù e l’innocenza in Romilda. Questa figlia di Alboino imprudentemente e senza necessità fa una confessione spontanea del secreto del suo cuore alla barbara matrigna e all’uccisore di suo padre. Il prode Ildovaldo che ha più volte giurata la morte di Almachilde, essendo da questo re chiamato a duello, accetta e poi ricusa per non abbassarsi. In oltre egli comanda le truppe di Rosmunda contro Almachilde, si pugna, e mentre ferve ancor la battaglia, il buon generale abbandona il campo e torna insulsamente nella reggia &c.

Ottavia. Supera di gran lunga quell’altra {p. 216}attribuita a Seneca, e vi si vede con forza e giustezza espresso il carattere di quest’imperatrice. Ma Nerone è tiranno con affetti privi dell’energia tragica, e Poppea e Tigellino hanno passioni e vizj da commedia.

Timoleone. Ottima lezzione a’ tiranni, morir nella maggior sicurezza. Timofane dopo avere scoperte tutte le occulte trame de’ cittadini oppressi, e fatta strage degli zelanti repubblicisti, rimane ucciso per cenno del virtuoso fratello, non per amor di regno o di gloria, ma di libertà. Timoleone, Bruto novello, spegne in Timofane il tiranno e piagne il fratello. L’atto V piacerà sempre per l’ oppressione repentina della tirannia, e pel ravvedimento del tiranno nell’atto di spirare. L’eroismo trionfa in Timoleone senza tradir la natura, e l’oppressore stesso punito si rende compassionevole ed ammaestra col morir meglio che non visse.

Merope. Tra tante pruove che dimostrano Euripide gran tragico ed Aristotile non men grande osservatore, può noverarsi la bellezza che mai non invecchia del soggetto del Cresfonte ideato ed eseguito dal primo, ed esaltato dall’ altro come il miglior modello tragico. Dopo le Meropi del Maffei e del Voltaire il conte Alfieri ci astringe ad ammirare e leggere con vero diletto la sua ch’egli dedicò alla contessa sua madre {p. 217}nell’agosto del 1783. Nè anche in questa mi sembrano frequenti le solite eccezioni dello stile; ma il primo monologo di Merope è troppo narrativo; ed a chi racconta ella tante particolarità, or gia ben l’anno &c.? Polifonte pensa dopo dieci anni a sposar Merope per politica; ma egli imbrattato di tanto sangue perchè ha conservato tanto tempo nella propria reggia questa nemica irriconciliabile? Il carattere di Egisto è colorito egregiamente nella scena dell’atto II con Polifonte; ma la circostanza del suo bel racconto con mie man sua destra afferro, non dovea esser la prima azione di un disarmato che affronti uno che gli si avventa collo stile alla mano? Ottima è la scena 4 d’Egisto con Merope, e felice e naturale il candido racconto che a lei fa dell’ ucciso che singhiozzando domandava la madre sua, alla cui immagine si desta il palpito di Merope che si sovviene del figlio. Dipinta eziandio egregiamente è nella 2 del III la madre in ogni tratto, e singolarmente alla vista del cinto insanguinato, che migliora il segno dell’armatura da Voltaire sostituito alla gemma del Maffei. L’incontro di Polidoro con Egisto nel punto in cui è esposto al furore di Merope che lo crede uccisore del proprio figlio, anima l’atto IV; pur la sua lunghezza potrebbe far pensare che Polidoro siasi a bello studio fermato per far che giungesse {p. 218}Merope con Polifonte senza poterla avvertire. Finalmente sembra che Polifonte nell’ultima scena abbia più pazienza e meno scorgimento di quel che a lui starebbe bene in lasciar dir tanto a Merope che tiene discorsi sediziosi a’ Messenj. Evitar tutti i nei nell’arduo impegno di tessere una buona tragedia, è ben difficil cosa: ma assai più l’imitar la scaltrezza filosofica dell’Alfieri nell’investigar nel cuore umano le arcane sorgenti degli affetti. Mille parodiette del di lui stile si faranno come quella del Socrate; ma quanti fra mille si appresseranno a i di lui pregi? Oh chi congiungesse lo stile del sig. Monti o di qualche altro che non trascuri di colorire, a’ talenti veramente tragici dell’Alfieri60!

{p. 219}

II. Tragedie cittadine e commedie lagrimanti. §

Non ha l’Italia ricusato di accogliere nel suo recinto di simili merci oltramontane, {p. 220}fossero pur di quelle che la sana criti ca ed un gusto fine riprovano perchè imbrattate da fanghose macchie eterogenee. Così le dolorose rappresentazioni di atroci fatti privati de’ signori Falbaire, Mercier, Sedaine, Dorat, Arnaud, Beaumarchais &c. o tutte tragiche o mescolate di tratti comici, si sono alla rinfusa tradotte e recitate dovunque ascoltansi i commedianti Lombardi.

Dietro la scorta de’ lodati drammisti Francesi hanno i nostri inventate altre domestiche tragedie e commedie lagrimanti, alcune originali alcune tratte da’ romanzetti di Arnaud e Marmontel ricche miniere di scene interessanti e di lugubri pantomimi nojosamente ripetuti. Venezia ha vedute varie tragedie cittadine simili a quella del dottor Simoni uscita nel 1787 Lucia e Melania, e più d’una commedia lagrimante come Teresa e Claudio del sig. Greppi, nella quale il patetico ed il romanzesco si vede interrotto dalle buffonerie dell’improvvisatore Leggerenza e del sedicente letterato Pirotè entrambi scrocconi di mestiere.

Il sig. ab. Villi occupò per alcun tempo l’attenzione degli spettatori con varj drammi. {p. 221}Egli deve a’ nominati Arnaud e Marmontel la sua Carolina e Menzicof, l’Amor semplice, la Vergine del Sole, Sidney e Volsan, la Pastorella delle Alpi &c. Si è puerilmente affermato che la decadenza del credito di tali favole sia derivata dall’essersi divulgato che i loro argomenti venivano delle novelle francesi. Ciò ben avrebbe potuto involare all’autore quella gloria che proviene dall’invenzione; ma potrebbe togliere a que’ drammi il merito intrinseco di una condotta naturale e di una felice esecuzione? Euripide e Sofocle senza il vantaggio dell’invenzione ripetevano gli argomenti di Eschilo, di Carcino, di Platina &c., ed occupavano i primi onori del coturno. Ciò che suol nuocere a’ moderni scrittori di drammi lugubri, è l’ uniformità delle tinte, la lentezza dell’intreccio, un disviluppo sforzato, l’abbondanza ed il gelo delle lunghe moralità e delle sentenze staccate &c.

Nel Teatro del prelodato sig. conte Pepoli trovansi finora tre drammi lagrimosi in prosa, Don Alonso di Zuniga, ossia il Dovere mal inteso, Gernand, ossia la Forza del suo destino, e Nancy, ossia la Vanità dell’umana fermezza.

Osservo nel Don Alonso molti requisiti che possono giustificare una tragedia cittadina; intreccio condotto e disviluppato con verisimiglianza, caratteri espressi con verità {p. 222}e forza, regolarità, interesse, terrore tragico giudiziosamente procurato meno con colpi di scena che con quadri e situazioni patetiche. Se ne dee pur lodare, oltre del pregio dell’ invenzione, quello di un ottimo oggetto morale, cioè di distruggere un colpevole pregiudizio che si occulta spesso sotto l’aspetto del dovere. Troviamo altresì teatrale l’atto IV, e vera la dipintura di Don Alonso oppresso da’ rimorsi nell’atto V. L’autore benchè in prosa si vale di uno stile immaginoso e poetico, che però non di rado riesce troppo studiato. Forse anche le angustie dell’atto III nelle scene 3, 4 e 5 sembreranno condotte oltre il verisimile. Un figlio che per una capricciosa debolezza di non abbandonare la casa dell’amata sacrifica la vita di un padre e la propria: questo padre che per non dissimile capriccio di non dipartirsi dal sepolcro dell’amico da lui ucciso espone a certa morte se stesso ed un figlio amato: questi personaggi, dico, mettendo di più in mortal pericolo, non che il virtuoso Sancio, la stessa benefattrice ed amante Violante, lasciano nell’animo certa idea d’inverisimiglianza ed un rincrescimento, che si oppone all’effetto della compassione che si vuole eccitare.

Ma nel Gernand raffiguro una commedia lagrimante piena di colpi scenici più che di situazioni, atroce per disegni scellerati {p. 223}che disonorano l’umanità, frammischiata di bassezze comiche de’ servi Merville e Ricauld. Aggiungasi che il dimostrare la forza del destino che strascina ad atrocità, non è l’oggetto più istruttivo sulla scena61. Sembraci dunque il Gernand meno plausibile dell’Alonso, e difettoso per la mescolanza delle tinte comiche ad un tragico orribile. È ciò in natura, si dirà colle parole del Voltaire; ma noi siamo persuasi che l’arte dee scegliere fra gli eventi naturali quelli che non distruggono un disegno dell’artista con un altro opposto.

Non abbiamo finora potuto ammirare il terzo dramma intitolato Nancy; ma per l’idea che può ricavarsene da’ fogli periodici, esser dee una vera tragedia cittadina, che non degenera punto in commedia lagrimante.

{p. 224}

CAPO II.
Commedie: Pastorali: Teatri materiali. §

I.
Commedie. §

Tosto che si studiò Moliere, cadde in Italia la commedia romanzesca spropositatamente ravviluppata venutaci d’oltramonte. Il sig. Riccoboni, che avea tradotto anche Tito Manlio tragedia del La Fosse, mostrò tra’ primi in Parigi colle sue giudiziose commedie che la scena comica italiana non si pasce di pure arlecchinate.

Girolamo Gigli Sanese ingegnoso e brillante letterato sin da’ primi anni del secolo consacrò qualche ozio alla poesia comica, insegnando in qual maniera potevano recarsi in italiano le comiche bellezze de’ migliori Francesi, e nel 1704 pubblicò in Venezia i Litiganti, ossia il Giudice impazzito franca ed elegante versione de’ Plaideurs di Racine, e nel 1711 impresse in Roma in tre atti il suo Don Pilone imitata anzi che tradotta dal Tartuffe di Moliere. Egli produsse ancora alcuni piacevolissimi tramezzi, tra’ quali si distinse la sua cantatrice Dirindina.

{p. 225}

Contemporaneamente l’erudito Niccolò Amenta Napoletano nato nel 1659 e morto nel 1719 dal 1699 in poi fe recitare ed imprimere le sette sue commedie, la Costanza, la Fante, il Forca, la Somiglianza, la Carlotta, la Giustina, le Gemelle, tutte scritte in bella prosa e con arte comica alla latina, e sul gusto del Porta e dell’Isa. Esse non solo si recitarono con molto applauso in Napoli, ma nel resto dell’Italia, e si tradussero in diverse lingue, e singolarmente quattro di esse in inglese da Dorotea Levermour62.

Isabella Mastrilli duchessa di Marigliano col Prodigio della Bellezza impressa nel 1703, il dottor Annibale de’ Filippi da Serino colla commedia de’ Due Bari pubblicata in Firenze nel 1705, Pietro Piperni Beneventano colla Contadina Marchesa uscita nel 1702, Niccolò Salerno col Gianni Barattiere data in luce nel 1717, mostrarono il valor comico de’ regnicoli anche sull’incominciar del secolo. Ma la grazia inimitabile di Gennarantonio Federico Napoletano morto dopo il 1750, e singolarmente la verità delle dipinture che faceva de’ caratteri e de’ costumi, e la bellezza della patria {p. 226}locuzione, non faranno mai perire le sue commedie li Birbe, e lo Curatore.

Il marchese Maffei con due commedie in versi il Raguet e le Cerimonie regolari e bene scritte combattè due difetti correnti, cioè il corrompimento del patrio idioma coll’ affettato barbaro uso delle formole francesi, e l’importunità rincrescevole de’ molesti complimenti vuoti di verità.

Giulio Cesare Beccelli di lui compatriotto ed ammiratore dal 1740 al 1748 pubblicò in Verona e in Roveredo sette commedie: i Falsi Letterati, l’Ingiusta Donazione, ossia l’ Avvocato, l’Agnese di Faenza in versi, la Pazzia delle pompe, i Poeti Comici, e l’ Ariostista e il Tassista, nelle quali col gusto che richiede la buona commedia si dipingono e si motteggiano graziosamente le ridicolezze e i difetti correnti a’ giorni suoi nella letteratura pedantesca.

Il grazioso Giambatista Fagiuoli compose in Firenze molte commedie in prosa ingegnose e dilettevoli, nelle quali egli stesso solea rappresentare felicemente il piacevole carattere di Crapo contadino Fiorentino. La regolarità, il falso motteggiare, la naturalezza de’ ritratti ne costituiscono il merito, e gli procacciarono gloria ed encomj appo gl’ intelligenti e i volgari.

In prosa dettò pure il dottor Jacopo Angelo Nelli le tre sue commedie impresse in Lucca nel 1751, i Vecchi Rivali, la Moglie {p. 227}in calzoni, e la Serva Padrona, nelle quali con sale comico satireggia alcuni vizj popolari. Son parimente scritte in prosa le quattro commedie ridicole e regolari di Simone Falconio Pratoli, la Commedia in commedia, il Podestà del Malmantile, il Furto onorato, e la Vedova: in prosa scrisse pure Vincenzo Martinelli il suo Filizio Medico commedia mentovata dal Maffei e pubblicata nel 1729: in prosa compose il marchese Girolamo Teodoli la sua Marchesa di Pratofalciato in cui dipinge i costumi correnti, benchè con qualche languidezza nell’azione.

Domenico Barone marchese di Liveri, e l’insigne Pasqual Gioseffo Cirillo verso la metà del secolo si fecero ugualmente ammirare in Napoli colle loro commedie benchè calcassero contrario sentiero. Il marchese cominciò a fiorire verso il 1740, ed avendo avuta la sorte di rappresentare le sue commedie alla presenza del Gran Carlo III per molti anni, le comunicò al pubblico per le stampe dal 1741 al 1750 in circa. Eccone i titoli: l’Abate, il Governadore, il Corsale, il Gianfecondo, la Contessa, la Claudia, il Cavaliere, gli Studenti, il Solitario, l’Errico. Esse sono tutte romanzesche nell’intreccio, piene di colpi di scena, e di situazioni inaspettate, e terminano con più paja di nozze. Ma vi si dipingono con mirabile esattezza i costumi e le maniere {p. 228}correnti, il ridicolo vi si rileva con grazia e maestria, e la locuzione ne’ personaggi napoletani ha somma piacevolezza e verità, là dove ne’ toscani si vede qualche stento per le frequenti trasposizioni aliene dall’indole della lingua e dal genere comico, e per alcune maniere di dire toscane ma non toscanamente collocate. Chi però fu esempio al Liveri, o chi potrà seguirlo nell’imitare con indicibile verisimiglianza e nel decoro che caratterizza la sua commedia? chi nell’esatta proprietà del magnifico apparato scenico che ne anima l’azione? Un’ adunanza grande di cavalieri, come nella Contessa: un abboccamento di due gran signori col seguito rispettivo, come nel Solitario: una scena detta del padiglione nell’Errico, che metteva sotto gli occhi una corte reale in attenzione di un gran fatto: i personaggi aggruppati con verità e bizzarria pittoresca, che tacendo e parlando facevano ugualmente comprendere i loro propositi particolari senza confusione: fin anco l’indistinto mormorio che nulla ha di volgare, prodotto da una polita moltitudine raccolta insieme: tutte queste cose quando più si vedranno sulle scene comiche? L’ artifiziosa veduta della scena era di tal modo congegnata per indicarvi a un tempo diverse azioni e più colloquj contemporanei che presentava l’ immagine parlante di una parte della città o di una gran casa &c. {p. 229}e sbandiva dal palco l’inverisimile desolazione delle gran piazze e contrade; là dove in ogni altro paese per un ridicolo miracolo poetico si veggono sempre i soli due o tre personaggi che piace allo scrittore d’introdurvi. I Greci non cadevano in tale inverisimiglianza pel coro fisso; ma Liveri privo di simil presidio introduceva i suoi personaggi a favellare senza rendere le strade solitarie, la qual cosa dee osservarsi nella lettura di esse colla descrizione della scena. Il chiar. sig. Carlo Goldoni stimò di aver compreso dalla fama che ne correva, la maniera di sceneggiare Liveriana, e volle provarsi nel suo Filosofo Inglese a porre in vista più azioni ad un tratto; ma nell’imprimerlo ci avvertì che niuno gli avea detto bravo per questo. Narrandoci quest’indifferenza dell’uditorio Veneto, volle tacitamente insinuare l’inutilità dell’artificio Liveriano, in vece di dedurne, come dovea, di aver formata una copia infelice di un buono originale. Si occupò il Goldoni tutto nella meccanica esteriore, e non si avvide che mancava alla sua imitazione l’anima che dovea serpeggiarvi. Quest’anima che tutto opera in simili posizioni consiste in renderle verisimili, naturali e necessarie; e tutto ciò manca all’ imitazione che ne fece nel suo Filosofo. E che parte poteva prendere lo spettatore al freddo giuoco di Lorino con Madama? {p. 230}alla cena che fa il di lei marito sul balcone? Che verità si scorge nel situare tali personaggi, senza verun perchè e fuori del loro consueto modo di vivere, a giocare e a cenare dove mai ciò non fecero? Sono poi queste azioni per se in alcun modo importanti? Hanno alcun rapporto necessario col fatto del Filosofo? Quando questa insipida disposizione di figure non è che semplice disposizione, diviene una violenza inutile che si fa alla verità, per addormentar lo spettatore in vece di riscuoterne de’ bravi.

Il celebre sig. Cirillo gran letterato ed avvocato e cattedratico grande senza la pompa delle favole Liveriane richiamò sulle patrie scene le bellezze e gli artifizj comici di Menandro e di Terenzio. Scrisse, per quanto io so, tre sole commedie interamente, cioè: il Notajo o le Sorelle rimasta inedita; la Marchesa Castracani eccellente pittura della vanità plebea che aspira a sollevarsi dal fango e vi ricade con accrescimento di ridicolezza, impressa senza saputa dell’autore e imbrattata con aggiunzioni d’altra mano; ed il Politico rimasta inedita, che io vidi solo accennata a soggetto, come sono tante altre sue favole, il Saturno, il Metafisico, i Mal’ occhi, il Dottorato, il Salasso, l’Amicizia &c.

Ad esempio or del Liveri or del Cirillo scrissero altri Napoletani senza farli dimenticare. Tali sono l’erudito sacerdote Giovanni {p. 231}Tucci autore di due commedie inedite la Ragione, ed il Dovere: Don Gioacchino Landolfi che scrisse Don Tiberio Burlato, il Cassettino, e la Contessa Sperciasepe: Don Giuseppe Sigismondo che ha prodotto Donna Beatrice Fischetti, ovvero i Figliastri impressa dopo il 1770, il Fantasma che è il Tamburro Notturno del 1773, l’Alchimista, ed il Matrimonio per procura del 1777, nelle quali regna un ridicolo di parole che spesso si vorrebbe che non derivasse da idee di schifezze o di oscenità: il degno scrittore della Storia Civile e Politica del Regno di Napoli Carlo Pecchia compose l’Ippolito uscita nel 1770, nella quale si ammira una mano maestra nel rilevare il mal costume e le massime perniciose che nascono dall’educazione; ma le tinte tragiche mescolate alle grazie comiche ne rendono ambiguo il genere.

Francesco Grisellini Veneziano nel 1754 diede alla luce una commedia in Roveredo che nominò Libertapoli, su i Francs-Maçons con questo titolo: I Liberi Muratori commedia in prosa di Ferling Isac Creus fratello operajo della Loggia di Danzica. Nel 1739 si pubblicò in Venezia e si reimpresse in Napoli nel 1740 una favola curiosa, che mescola a molti tratti di farsa la piacevolezza comica contro i ciechi partigiani del linguaggio cruscante. S’intitola il Toscanismo e la Crusca, o sia il Cruscante {p. 232}impazzito tragicommedia giocosa. Uscì in Firenze nel 1760 i Letterati commedia nuova, nella quale un goffo mercante fallito asino in tutti i sensi è costretto dalla fame a passar per filosofo e Principe de’ Letterati in forza di un gergo neologico inintelligibile e di una scienza libraria di distinguere al tatto i libri del XV e del XVI secolo. Un mercenario Dottor Falloppa Giornalista Antiquario vorrebbe alla prima screditarlo, ma M. Torchio fautore dell’ignorante guadagna in questa guisa il Giornalista:

Torc.

Avreste difficoltà a metterlo nel vostro Giornale de’ Letterati?

Fall.

Che dite mai, Messer Torchio? E la buona fede d’un Giornalista? e l’onore della Letteratura ..? Non posso certo.

Torc.

Non potete? Non occorre altro.

Fall.

Aspettate, e ditemi per grazia; mi sapreste insegnare dove potrei trovare dodici bottiglie di vin vecchio di Cipro, che ho finito il mio?

Torc.

(Ho inteso) Vi sarà il vino di Cipro

Fall.

Oh non dico per questo: ma se aveste anche due libbre di caffè puro d’Alessandria . . . .

Torc.

(Che indiscreto!) Vi sarà anche il caffè.

Fall.

E sei libbre di cioccolata” . . . ec.

Falloppa persuaso scrive il seguente paragrafo: È arrivato in questa città un gran letterato . . . . possiede varie cognizioni, e particolarmente diverse scienze utili all’umana {p. 233}società; nel foglio venturo si darà notizia delle sue opere stampate e da stamparsi, che faranno grande onore alla Letteratura Italiana. Torchio gli dice: Questo è troppo; è un ignorante; cosa volete che stampi? Non importa, replica Falloppa, queste sono le formalità solite di noi Giornalisti.

Il chiaro Agatopisto Cromaziano volle nel 1754 pubblicare in Faenza in varj sdruccioli i Filosofi Fanciulli che chiamò commedia filosofica. Vi adopera tutto il sale Aristofanesco e Plautino per ridersi de’ Filosofi d’ogni aria e d’ogni secolo, com’ egli dice nel Prologo, e soggiugne:

Verran per ora Egizj, e Babilonici,
Traci, Milesj, Clazomenj, ed Attici;
E poi verranno ancor su queste tavole
Angli, Germani, Franchi, Ispani, ed Itali &c.

Vi campeggia gran piacevolezza di motteggi e tutta l’erudizione abbondevolmente seminata nelle Annotazioni.

Terenzio ha avuto nel nostro secolo un ottimo traduttore in mons. Niccolò Fortiguerra; e più d’un letterato ha preso a recare in italiano o tutte o parte delle commedie di Plauto. Il nostro sig. Angelio tutte le ha tradotte in Napoli con particolare accuratezza ed intelligenza de’ due idiomi. {p. 234}Il sig. Rinaldo Angelieri Alticozzi ne fece italiane tre, intitolandole il Testone, i Due Schiavi, e i Gemelli impresse nella Biblioteca teatrale di Lucca. Il sig. conte Aurelio Bernieri di Parma ne ha tradotto il solo Trinummo chiamandolo i Tre oboli, in cui adoperò un nuovo verso di dodici sillabe, come il seguente

Questa più d’altra leggiadra e più pudica,

ad imitazione di quello che usarono gli Spagnuoli del XV secolo, che Antonio Minturno nel XVI propose agl’ Italiani, quando a gara si cercava un verso che equivalesse all’antico giambico.

Mentre tante commedie tutte regolari e piacevoli ed ingegnose per lo più componevansi da’ letterati, il teatro istrionico in Lombardia e singolarmente in Venezia non sapeva privarsi delle mostruosità e delle maschere. Nato in tal città il celebre sig. avvocato Carlo Goldoni l’ anno 1707, che in età di otto anni fece una commedia, convinto in seguito delle irregolarità delle compagnie comiche Lombarde, educato dalle lettere a miglior gusto, ed avendo per buona sorte sin dall’età di 17 anni avuta nelle mani la Mandragola del Macchiavelli che lesse dieci volte, non tardò molto a desiderarne {p. 235}la riforma63. Questo buon pittore della natura, come a ragion veduta l’ appellò Voltaire, prima di fare assaporar agl’ istrioni la commedia di carattere da Macchiavelli sì di buon ora mostrata sulle scene di Firenze, servì al bisogno ed al mal gusto corrente: entrò poi nel camin dritto sulle orme di Moliere: deviò in seguito alquanto alterando ma con felice errore il genere: e terminò di scrivere pel teatro additando a Francesi stessi la smarrita via della bella commedia di Moliere. Queste sono l’epoche delle favole Goldoniane. Amalasunta tragedia lirica, Belisario, Rosimunda, Rinaldo di Montalbano, mostri scenici cari ed utili a’ comici, furono da lui alla meglio rettificati, e l’occuparono intorno al 1734. L’Uomo di mondo ed il Prodigo a soggetto entrambe, la Donna di garbo scritta interamente, ed il Servo de’ due Padroni argomento suggeritogli dall’eccellente arlecchino Antonio Sacchi, lasciarono intravedere il genio che per gradi si andava disviluppando. Il Figlio d’Arlecchino perduto e trovato, il Mondo della Luna, le Trentadue Disgrazie di Arlecchino, i Cento e quattro Avvenimenti non {p. 236}furono che farse piacevoli destinate a far valere l’Arlecchino. Savie critiche soffersero l’Uomo prudente, i Gemelli Veneziani, il Poeta Fanatico, l’Incognita, il Padre di famiglia. La mano del buon pittore si vede nella Locandiera, nelle Donne Puntigliose, nella Vedova Scaltra, nel Moliere, nelle Donne Curiose, nella Serva amorosa, nella Figlia obediente, ne’ Puntigli domestici, nel Filosofo Inglese, nel Feudatario, nell’Avventuriere onorato, nel Ciarlone imprudente &c. &c. Ma chi non vede il maestro nella Putta Onorata, nella Buona Moglie, nel Caffè, nel Cavaliere e la Dama, nella Pamela, nell’Amante Militare, nell’ Avvocato Veneziano? Lasciamo alla rigorosa critica di notare le lunghe aringhe morali de’ Pantaloni, i motti talvolta scenici, qualche deferenza agli attori, la non buona versificazione, le mutazioni di scena in mezzo agli atti ec. e veggiamo noi in queste i quadri inimitabili de’ costumi correnti, la verità espressiva de’ caratteri, il cuore umano disviluppato. L’anno 1753 cercando sempre nuovi argomenti e nuove vie di piacere coll’ accoppiar lo spettacolo alla piacevolezza e all’interesse, compose la Sposa Persiana, e negli anni susseguenti Ircana a Julfa ed Ircana a Ispahan che ne seguitano il romanzo, tutte e tre in cinque atti ed in versi martelliani. Comunque debbano esser chiamate o commedie lagrimanti o rappresentazioni {p. 237}tragicomiche (perocchè alle ridicolezze di Curcuma vi si congiungono situazioni tragiche, gran passioni e pericolosi contrasti) esse riuscirono prodigiosamente sulle scene. Questo fecondissimo scrittore di 150 commedie cui tanto debbono le scene Veneziane e che fa tanto onore all’Italia già vicino a smascherare e a guarire i comici, ebbe a soffrire tante guerre suscitate da’ partigiani del mal gusto e dagl’ invidiosi di mestiere, che annojato dell’ingiusta persecuzione cesse al tempo e cangiò cielo. L’accolse Parigi nel 1761 ove tuttavia mena in tranquillità i dì che gli rimangono di vita. Quivi ebbe agio di ritornare alla commedia di carattere e col Burbero benefico (le Bouru bienfaisant) che gli produsse oro ed onore, col Curioso accidente e col Matrimonio per concorso mostrò a quella culta nazione quanto erasi dipartita dalla buona commedia colle sue rappresentazioni lugubri.

Se l’ab. Pietro Chiari già morto da più anni avesse, come gli conveniva, secondato le sagge vedute del Goldoni migliorandolo soltanto nella lingua, nella versificazione e nella vivacità dell’azione; il teatro istrionico non sarebbe ritornato agli antichi abusi e le maschere inverisimili si sarebbero convertite in comici caratteri umani graziosi e piacevoli. Ma egli volle incoraggire i comici a non deporle fornendoli di commedie fatte a tale oggetto, e di rappresentazioni {p. 238}romanzesche piene di colpi teatrali per cattar maraviglia. I suoi drammi di Koulican, le sue Sorelle Cinesi sono scritte su queste idee. Egli verseggiava meglio del Goldoni, ma non avea il di lui pennello. Un gondoliere Veneziano che cambiò il remo colla penna, la gondola pel tavolino, scrisse anche commedie in versi martelliani.

Mentre dividevasi il popolo tra Goldoni e Chiari comparve il conte Carlo Gozzi che finì di ristabilire tutte le passate stravaganze del Veneto teatro istrionico. Da prima questo letterato pieno d’ingegno quasi scherzando prese a combattere i due competitori, e si contentò di provar col fatto che il concorso del popolo non era argomento sicuro della bontà de’ loro drammi. E per conseguirlo ricorse al solito comune rifugio del maraviglioso delle machine e trasformazioni e degl’ incantesimi molla sempre attivissima su gli animi della moltitudine. Riuscì dunque nell’intento che si prefisse, e si fissò poi seriamente alle sue Fiabe. Scrisse dunque: il Corvo, il Re Cervo, l’Oselin bel verde, i Pitocchi, i Tre Aranci, il Principe Jennaro, il Mostro Torchino, la Dama Serpente. Notabile è l’arte adoperatavi dall’industre autore, imperciocchè le perturbazioni tragiche, le piacevolezze comiche, le favole anili, le metamorfosi a vista, un fondo di eloquenza poetica e di riflessioni filosofiche concorsero {p. 239}a formar que’ mostri lusinghevoli che seducevano il popolo Veneziano, ed ebbero un imitatore nel sig. Giuseppe Foppa.

Sembra che a toglier forza al falso argomento del conte Gozzi patrocinatore delle irregolarità e stravaganze, uscisse da Bologna una nuova luce per richiamare il popolo alla buona commedia. Il chiar. sig. marchese Francesco Albergati Capacelli, oltre alle pregevoli traduzioni delle tragedie francesi, calcando il dritto sentiero ha in più volumi pubblicato in Venezia un Nuovo Teatro Comico composto di favole grandi e picciole in versi ed in prosa. Singolarmente se ne ammirano il Saggio Amico, il Prigioniero, l’Ospite infedele, i Pregiudizj del falso onore &c., dalle quali i comici Lombardi hanno colto tanto frutto che dovea guarirli da’ loro invecchiati pregiudizj; e l’Italia prende da esse nuova speranza di vedere ristabilito e condotto a perfezzione il sistema del sig Goldoni.

Il Real Programma di Parma che coronò cinque tragedie ed in tanti altri Italiani ridestò lo spirito tragico, non ci ha prodotte che tre sole commedie. È ciò forse avvenuto perchè non tutti si adattano a scrivere commedie in versi o senza esser deboli o bassi, o senza elevarsi alla nota tragica? O perchè maggior difficoltà s’incontra in iscerre i tratti più espressivi dal vastissimo campo della natura, come dee fare il comico, {p. 240}che in calcare le orme del picciol numero de’ buoni scrittori che il tragico prende a modelli? O perchè i grandi affetti son sottoposti a minor variazione col correre dell’età, là dove i costumi, i caratteri, le maniere, cangiano sì spesso foggia e colore, ond’è che gli scrittori comici passati possono di poco soccorrere i presenti? O finalmente perchè, come l’addita Orazio, la commedia porta seco un peso tanto maggiore quanto minore è l’indulgenza con cui è riguardata? Ecco intanto le tre commedie coronate in Parma: il Prigioniero già mentovato del marchese Albergati onorato colla prima corona del 1774: la Marcia del sig. ab. Francesco Marrucchi che nel 1775 ottenne la seconda corona: e la Faustina di Pietro Napoli-Signorelli cui si assegnò la prima corona del concorso del 177864. Questa commedia lontana dalle {p. 241}favole di Mercier quanto è dalla sapienza e dalla veracità l’autor del Colpo d’occhio, è {p. 242}nel genere tenero concesso. al comico. L’autore scrisse in seguito nel medesimo genere {p. 243}la sua Rachele ovvero la Tirannia domestica un anno dopo, ma che rimane ancora inedita riserbata a veder la luce da quì a poco insieme colla Faustina e con la Critica della Faustina, commedia di un altro carattere.

Terminiamo il racconto de’ nostri poeti comici col fecondo prelodato sig. conte Pepoli che ha saputo conservare alla musa comica il festevole borzacchino. Ne’ quattro tomi da me veduti del suo Teatro ha publicate quattro commedie in prosa, l’Impressario di due atti dipintura molto comica e naturale in ciascun personaggio introdotto: i Pregiudizj dell’amor proprio in tre atti, i cui caratteri sono più studiati di quelli che presenta la natura: la Scommessa, ossia la Giardiniera di spirito parimente in tre atti, la quale supplisce colla scaltrezza all’effetto che fanno Pamela e Nanina coll’ amore, e con poco fa perdere la scommessa alla Baronessa tirando il Contino di lui nipote a sposarla: i Pazzarelli {p. 244}ossia il Cervello per amore in due atti con ipotesi alquanto sforzate e con disviluppo non troppo naturale, che però è una piacevole dipintura di que’ vaneggiamenti che se non conducono gli uomini a’ mattarelli, ve gli appressano almeno. Havvi nel tomo V altre due commedie di questo illustre autore, il Bel Circolo ossia l’Amico di sua moglie, ed il Progettista, nelle quali ben presto ci auguriamo di potere ammirare, come nelle precedenti, la vivacità, il salso motteggiare, e l’arte di ben rilevare il ridicolo de’ caratteri.

II.
Pastorali. §

Non sono del gusto del nostro secolo le favole pastorali. Appena possiamo nominarne alcuna benchè d’indole troppo diversa dall’Aminta. Pier Jacopo Martelli compose la Rachele in miglior metro delle sue tragedie: Alessandro Guidi l’Endimione con ariette musicali, il cui piano ed alcuni versi dicesi appartenere alla famosa regina Cristina di Svezia: la Sulamitide di monsignor Ercolani vaga parafrasi della Cantica: l’Antillide di Antonio Bravi pubblicata in Venezia nel 1744, e poi in Verona riformata nel 1766: l’Amore eroico tra’ Pastori del cardinal Pietro Ottoboni: la Morte di Nice {p. 245}del Pastore Arcade Panemo Cisseo del 1754: il Paradiso terrestre del conte ab. Giambatista Roberti morto nel 1786.

III.
Teatri materiali. §

Tra’ primi teatri costruiti in questo secolo contasi quello di Mantua edifizio magnifico eretto nel 1706 con disegni del rinomato architetto Francesco Galli Bibiena; ma sventuratamente a’ 19 di maggio del 1781 s’ incendiò.

Il medesimo architetto sotto la direzione del marchese Maffei eresse il teatro di Verona, che senza dubbio ha diversi vantaggi sopra molti teatri moderni. La curva che forma la periferia interiore della platea, si va allargando a misura che si avvicina alla scena: i cinque ordini di palchetti sono disposti in modo che i più lontani dalla scena sporgono più in fuori; idea che il Galli Bibiena trasse da Andrea Sighezzi scolare del Brizio e del Dentone65. Ora è chiaro che tanto la curva della platea, quanto l’artificio de’ palchetti contribuiscono a vedere e ad udire. L’orchestra divisa {p. 246}dalla platea allontana dagli ascoltatori la molestia dello strepito vicino degli stromenti. Le porte onde si entra in teatro, sono laterali e non dirimpetto alla scena, la qual cosa produce il doppio vantaggio di non indebolire la voce, e di non togliere il miglior luogo da godere la rappresentazione.

Il teatro inalzato in Venezia in questo secolo è quello di San Benedetto, al cui interiore comodo e decente non corrisponde la figura che si allontana dalla regolare degli antichi.

Antonio Galli Bibiena figliuolo di Ferdinando architettò il teatro di Bologna terminato l’anno 1763. La sua figura di una sezione di campana non a torto vien chiamata infelice nell’opuscolo Del Teatro. Gl’ intelligenti disapprovano questa campana chiamata fonica. Una falsa analogia, come notava l’Algarotti, ha suggerito un pensiero sì mal fondato. Deriva da questa figura lo svantaggio di ristrignersi lo spazio della platea e d’ impedire a parecchi palchetti la veduta della scena. La lunghezza della platea è di 62 piedi e la larghezza nel proscenio di 50 in circa. Vi sono cinque ordini ciascuno di 25 palchetti, oltre a un recinto intorno alla platea alto quattro scalini riparato da una balaustrata.

Imola ha un teatro costruito dal cavalier Cosimo Morelli, la cui figura ellittica contiene il palco e la platea, la quale occupa {p. 247}uno spazio doppio del palco, e vi si veggono quattro file ciascuna di 17 palchetti.

Uno de’ famosi teatri italiani è il Reale di Torino edificato nel 1740 dal conte Benedetto Alfieri. La sua figura è ovale, contiene sei ordini di palchetti, nel secondo de’ quali è il palco di S. M., e la platea ha 57 piedi di lunghezza e 50 di larghezza. Sotto l’ orchestra vi si è fatto un vuoto con due tubi all’estremità che sorgendo sino all’altezza del palco scenario serve a spandere i suoni e le voci più rotonde e sonore. Gl’ ingressi, le scale, i corridoi sono magnifici.

Il teatro degli Aliberti in Roma costruito da Ferdinando Bibiena, e quello di Tordinona eretto da Carlo Fontana, appartengono allo scorso secolo, benchè quest’ultimo siasi restaurato sotto Clemente XII. Il teatro di Argentina eretto nel nostro secolo dal marchese Girolamo Teodoli ha sei ordini di palchetti. La sua figura irregolare, cioè a ferro di cavallo, ha 51 piedi nel maggior diametro, e 46 nel minore. L’ antico teatro di Marcello che in parte sussiste ancora, dicono gl’ intelligenti, nulla ha influito nella costruzzione de’ moderni teatri Romani.

Esistono in Napoli diversi teatri, tuttochè siensi convertiti quello di San Bartolommeo in una chiesa ed il teatrino detto del Vico de la lava o della Pace in un {p. 248}collegio; e tuttochè non sia ancor terminato quello che sin dallo scorso anno 1789 si stà edificando nel sito detto Ponte Nuovo. Il più antico degli esistenti è quello de’ Fiorentini così detto per la vicinanza della chiesa di San Giovanni de’ Fiorentini. Sconcia n’era la figura di un arco congiunto a due lunghe rette laterali sproporzionatamente più lunga che larga; e tutto il rimanente scale, ingressi, corridoi, camere dietro la scena indicava meschinità. Oggi tutto è decente e ragionevole sin dal 1779 che si rifece dall’architetto Napoletano Scarola. Egli ne migliorò la figura rendendola semicircolare, ed acquistò luogo per ogni cosa coll’ industrioso partito di cangiare il sito della scena, collocandola sulla retta che faceva la larghezza della prima platea, là dove allora era posta sulla lunghezza quadrupla almeno dell’antica larghezza.

Il Teatro Nuovo chiamato, costruito al di sopra della strada di Toledo alle vicinanze della chiesa di Monte Calvario, fu opera nel suo genere mirabile del Napoletano Domenico Antonio Vaccaro figlio dell’eccellente scultore ed architetto Lorenzo Vaccaro. Chi avrebbe creduto possibile quel che pur si vede, che in una pianta di soli palmi 80 in circa per ogni lato, si costruisse un teatro con cinque ordini di palchetti di tal simetria e di forma sì giusta che da per tutto vi si godesse {p. 249}acconciamente lo spettacolo? L’ industria dell’abile architetto supplì all’angustia del sito, e vi si accomodano agiatamente mille spettatori66. Oggi si vede abbellito e migliorato ne’ corridoi e nelle scale.

Un miracolo opposto a quello del Vaccaro ha fatto nel 1779 don Francesco Seguro architetto Siciliano, inalzando in faccia al già in parte diroccato Castello Nuovo nella strada che mena al passeggio del Molo un teatro che ha preso il nome dal Fondo di separazione de’ lucri. Con una piena libertà d’immaginare ed eseguire a suo modo, con un sito ampio e d’ogni intorno sgombro di ostacoli e di abitazioni, con la magnificenza {p. 250}di un Sovrano come Ferdinando IV che ne forniva la spesa, ha formato un teatro con una facciata pesantissima, non ampio, non magnifico, non comodo per vedere ed esser visto, non armonico all’ udire; mentre la più eccellente musica de’ Sarti e de’ Paiselli perdevi due terzi della nativa squisitezza, anche per gl’ interpilastri che dividono ciascun palchetto, e per tanti intagli e centinature. E quando avrà un artista più fortunate circostanze per segnalarsi?

Ma il Real teatro di San Carlo costruito col disegno del brigadiere Giovanni Metrano nel 1737, edifizio magnifico in soli sei mesi fatto eseguire per l’attività di Angelo Carasale, dopo tanti teatri eretti in Europa nel nostro secolo conserva ancora sopra tutti il primato. La sua figura è di un semicircolo, i cui estremi si prolungano in linee quasi rette, che si accostano avvicinandosi alla scena. Il diametro maggiore dell’uditorio è di piedi parigini 73 in circa, ed il minore di 67. Havvi sei ordini di comodi magnifici palchetti al numero di 28 nel 4 e 5 ordine, e di 26 ne’ tre primi, e nel bel mezzo del secondo ordine si eleva il gran palco veramente reale e degno del Sovrano per cui si fece, e dell’Augusta Coppia che oggi forma la felicità de’ nostri paesi, e l’ornamento più caro de’ nostri scenici spettacoli. Edificato tutto di pietra, tutto nelle ampie scale, ne’ corridoi, {p. 251}ne’ vestiboli, ne’ tre ingressi, spira grandezza e magnificenza. Il proscenio corrisponde a tanta splendidezza, e sino il gran telone che copre la scena prima d’incominciar l’opera dipinto a sughi d’erba su per lungo tempo un grato spettacolo anch’esso. Nuoce intanto all’ illusione la giunta fatta dal Fuga ne’ lati della bocca della scena di alcuni palchettini, da’ quali comincia a rubarsi una parte delle voci prima di spandersi pel teatro. Nè anche è da approvarsi che il palco scenario sporga in fuori nella platea per molti piedi, convenendo allo spettacolo che gli attori, come diceva l’Algarotti, stiano, al di là dell’imboccatura del teatro, dentro alle scene, lungi dall’occhio dello spettatore, per far parte anch’essi del dolce inganno a cui il tutto è ordinato. In oltre con mal consiglio sono alquanti anni che vi si è aggiunto un altro splendido ornamento che diletta al vedere e nuoce all’udire. Un vuoto di tanta ampiezza ed arricchito di spaziosi corridoi e compartito in tanti palchi che equivalgono a comodi stanzini, è per se poco favorevole alle voci umane che non sieno tramandate per mezzo di qualche tromba parlante; or perchè aumentare le difficoltà da formontarsi? Ciò si fece con abbellirlo interiormente tutto di cristalli e di festoni pendenti di dipinta tela o di cartoni che siansi. Nelle serate specialmente di grande illuminazione que’ cristalli, que’ festoni, {p. 252}quell’oro, que’ torchi senza numero, i lumi copiosi de’ palchetti riverberati e in mille guise moltiplicati dalle scintillanti gemme di tanta nobiltà, cangiano la notte nel più bel giorno, e l’uditorio in una dimora incantata di Circe o di Calipso superiore allo spettacolo del palco scenario. Ma nel tempo stesso le voci e le delicatezze musicali non incontrano ne’ riferiti festoni la necessaria elasticità e resistenza che la rimandi e diffonda, e la prodigiosa quantità de’ torchi dell’illuminazione del palco e della platea consuma tant’aria, e tanta ne rarefà che si minora e s’ indebolisce la causa del suono e della voce; e quindi si perde grandissima parte delle più squisite inflessioni armoniche.

I difetti notati ne’ più gran teatri moderni mostrano la difficoltà della soluzione del problema, far un teatro che compiutamente soddisfaccia a i due sostanziali oggetti, comoda veduta e conservazione della voce nell’interiore del teatro. Se ne sono occupati di proposito e scientificamente il conte Enea Arnaldi Vicentino nell’opera Idea di un Teatro nelle principali sue parti simile a’ teatri antichi all’uso moderno accomodato in Vicenza 1762: l’Anonimo nel trattato Del Teatro impresso in Roma del 1772: il nominato Vincenzo Lamberti nella Regolata Costruzione de’ Teatri stampata in Napoli nel 1787. Chi di loro l’ha meglio risoluto? É permesso a chi non è architetto {p. 253}l’ avventurare il suo avviso in pro del teatro dell’ Anonimo?

CAPO III.
Melodrammi. §

I.
Favole Liriche. §

Non ebbe nè esempio nè seguaci, ch’io sappia, il capriccio di quell’ Italiano del secolo scorso mentovato nella Drammaturgia, che con un solo personaggio condusse una favola intera di tre atti. Io non ho veduto che uno scherzo del Grazioso Gabriele Cinita in Madrid, il quale solo, in tre picciole scene buffonesche che chiamava atti, rappresentava un’ azione mimica. Ma tali capricci non ebbero verun presidio musicale. Fu il famoso Gian Giacomo Rousseau che col Pigmalione mostrò in qual maniera poteva una bizzarria convertirsi verisimilmente in una scena sublime interessante secondando le passioni e i pensieri coll’ espressiva armonia. In Francia e in Alemagna abbiam veduto ch’ebbe seguaci.

In Italia calca gloriosamente le orme del gran Ginevrino il conte Alessandro Pepoli {p. 254}nella sua Pandora favola lirica divisa in cinque scene, in cui intervengono Pandora, Prometeo, Epimeteo. Noi ne ammiriamo la nobiltà e grandezza dello stile e la copia de’ sentimenti appassionati. Soprattutto in essa comendiamo il soliloquio di Prometeo nella 1 scena, e l’ultima sua disperazione. Ne’ dialoghi poi delle altre scene ugualmente belli, non veggiamo chiaro in qual maniera attendendosi p.e. con impazienza una risposta possa sempre con proprietà di rappresentazione darsi luogo alle battute musicali che debbono precedere. Tal verità che alla lettura a noi si occulta, sparirà forse nell’esecuzione. Quest’ornatissimo cavaliere ha pur composta la favola odecoreutica di Ati e Cibele che attendiamo con avidità per ammirarla come un capo d’opera d’invenzione, di condotta, di maneggio di sentimenti, secondochè si esprime il sig. consigliere Calsabigi67.

Si è provato il sig. avvocato Pagano anche a produrre una scena somigliante nel suo Agamennone, ch’egli intitola Monodramma, benchè sieno tre i personaggi che v’ intervengono, per la qual cosa con più proprietà {p. 255}si nominerebbe scena o favola lirica &c.

II.
Opera buffa. §

Centauri, sfingi, gorgoni, scille, chimere, arpie e quante mostruose larve pose Virgilio nella sede de’ sogni sull’ingresso degli elisj, rappresentano una pretta, e pur non piena immagine delle fantastiche stravaganze della presente opera buffa. Essa per sua natura sarebbe una commedia musicale, cui al più si permette di avvicinarsi alla farsa, ma non già a’ vaneggiamenti di pazzi e d’infermi, come sono i tanti malcuciti e sconnessi centoni che corrono per l’Italia.

Nacque in Napoli e nacque sobria, ogni poeta essendo persuaso sin dall’ incominciar del secolo di non aver dalla musica ricevuta la facoltà di allontanarsi dalle regole del verisimile. Furono dunque commedie vere le opere buffe di Francesco Antonio Tullio, le Fenziune abbentorate del 1710, il Gemino Amore del 1718, le Fente Zingare, lo Viecchio Avaro &c. Commedia fu l’Elisa di Sebastiano Biancardi detto Lalli in Venezia, cantata colla musica del Ruggieri nel 1711, e fu la prima vera commedia in musica veduta su quelle scene. Commedie e ben graziose le opere di Bernardo {p. 256}Saddumene morto qualche anno dopo del 1732, lo Simmele, la Carlotta, li Marite a forza, la Noce de Beneviento, e singolarmente l’ eccellente dipintura del Paglietta geluso. Andrea Belmuro autore de’ due intermezzi recitati in Venezia nel 1731, la Contadina, ed il Cavalier Bertone, posti in musica il primo dal famoso Sassone, e l’altro dall’ugualmente chiaro maestro Francesco Mancini, fece pur fra noi commedie musicali. Ne fecero altresì il Palma ed il Viola. Ma chi pareggiò in Italia la grazia delle commedie musicali del nostro Gennaro Antonio Federico inimitabile pel colorito Tizianesco de’ suoi ritratti comici? Il di lui Finto Fratello colla musica di Giovanni Fischetti si cantò nel 1730: lo Frate ’nammorato nel 1732 colla musica squisitissima in tutte le sue parti del Raffaele della musica Giambatista Pergolese68: Da un disordine nasce un ordine del 1737 colla musica di Vincenzo Ciampi: la Lionora del 1742 colla musica del Ciampi nelle parti {p. 257}serie, e del celebre Niccolò Logroscino nelle buffe &c. Commedie pur furono benchè di minor bellezza le opere di Pietro Trincera autore della Vennegna, dell’Abate Collarone, e singolarmente della Tavernola abbentorata cagione d’ ogni sua sventura, in cui fece una dipintura vivace di un Fra Macario simile al Tartuffo recitata colla musica di Carlo Cecere. Commedia fu il Carlo ed altre prime opere di Antonio Palomba, da cui poscia cominciò la stravaganza illimitata che sbandì la commedia dalle scene musicali napoletane. Le sue disgrazie l’allontanarono di Napoli, e la commedia vi fu di bel nuovo stabilita coll’intermezzo della Canterina colla musica di Niccolò Conforto, coll’ Astuto Balordo posto in musica dal celebre Niccolò Piccini, coll’ Innamorato Balordo posto in musica in gran parte dal Logroscino, e singolarmente colla Furba Burlata fortunatissima commedia la cui musica appartiene per la maggior parte all’insigne Piccini. Tornando il Palomba in Napoli vi ricondusse fra molte stranezze due felici opere la Donna di tutti i caratteri, e lo Sposo di tre e marito di nessuna poste in musica da Pietro Guglielmi. Palomba finì i suoi giorni con varie mostruosità sceniche, che servirono di esempio e di guida ad un folto sciamo di nojosissime cicale fino a tanto che cominciò a produrre le sue opere il nostro don Giambatista {p. 258}Lorenzi noto poeta de’ nostri giorni.

Perito nell’arte, dotato di natural piacevolezza, facile ne’ partiti e ne’ motteggi, testimone dell’alterazione del gusto avvenuta per le recenti mostruosità, sceglier seppe il Lorenzi la maniera più idonea per riuscire, cioè eccedere nel comico popolare alternandolo con tragiche situazioni. Nell’opere Tra due litiganti il terzo gode del 1766, in cui pose in opera il sacco di Bertoldo e di Scapino, nella Luna abitata più artifiziosa e teatrale del Mondo della Luna del Goldoni, nell’Idolo Cinese, in cui un buffone Napoletano è creduto un idolo nel la China, nella Corsala del 1771, il sig. Lorenzi pende alla farsa, per altro all’opera buffa non disdicevole. Nella Gelosia per gelosia del 1770, nelle Trame zingaresche del 1772, nel Tamburo del 1773, nel Duello, nella Fuga, ne’ Tre Eugenj, nella Scuffiara &c. si attenne più alla commedia. Ne incresce nel Furbo Mal accorto, come in qualche altra, l’abuso delle tinte troppo tragiche per la scena comica. Ma che mai può increscere nella bellissima farsa del Socrate Immaginario, che vivamente e con la più ridente satira comica rappresenta l’immagine di un Calabrese che sona l’arpa tra’ suoi discepoli; loda la musica greca che non conosce; ha una moglie da cui è bastonato ch’ei chiama Santippe, e un Mastr’ Antonio suo barbiere da lui denominato Platone; {p. 259}e beve la cicuta per rassomigliare in tutto l’antico Socrate? Le note preziose del sig. Paisello (che ha poste in musica egregiamente la maggior parte delle opere del Lorenzi) sono in tutte le parti nel Socrate inarrivabili. L’autore dell’Ammalato Immaginario oh quanto c’invidierebbe quest’ Immaginario Socrate, che al pari de di lui Tartuffo, fu alla prima proibito come indiscreto dopo tre sere di recita, per aver servito di limpido specchio a chi vi si raffigurò e se ne dolse. Onde ciò venne? Esisterebbe mai un vero Socrate della Magna Grecia all’immaginario rassomigliante, come esiste per nostro vanto un Aristofane Napoletano? Che che sia di ciò il Socrate è poi ritornato sulle scene, e ritornerà, e muove il riso, e se ne cerca ognor con gli occhi l’originale.

Apostolo Zeno e Pietro Pariati pubblicarono insieme il Don Chisciotte ed altri drammi giocosi che meritano di nominarsi. Goldoni compose il Mondo della Luna ed altre farse musicali; ma la sua Cantatrice, la Birba, la Pupilla, intermezzi piacevoli, e singolarmente il Filosofo di campagna posto in musica dal Buranelli, e la Cecchina dall’inimitabile Piccini, sono vaghe commedie musicali. Tali sono pure secondo me le Donne son sempre donne, e qualche altra dell’ab. Chiari, e le Pazzie d’Orlando del Badini cantata in Londra ove egli da più {p. 260}anni è morto. La riuscita del Trofonio, e del Re Teodoro poste in musica dal Paisello, in Vienna, in Parigi e per l’Italia, dell’erudito sig. canonico Casti di Montefiascone, son pure pregevoli opere buffe da ricordarsi con onore.

III.
Opera eroica. §

L’opera eroica che può chiamarsi istorica incominciata nel secolo scorso, in cui ebbe una lunga fanciullezza, ha nel presente avuta la sua adolescenza e la virilità. Si osserva la prima nella Dafni di Eustachio Manfredi, nell’Arsace di Antonio Salvi, nel Polifemo di Paolo Rolli, nel Farnace e nel Farasmane ed altre del Biancardi o Lalli Napoletano, e specialmente nell’Eraclea, nel Tito Sempronio Gracco, ne’ Decemviri, nel Turno Aricino ed altri drammi del Romano Silvio Stampiglia poeta Cesareo dell’imperadore Carlo VI. Le di lui favole sono doppie e piene d’intrighi amorosi simili a quelli delle tragedie galanti francesi, e lo stile abbonda di pensieri lirici. Esse sono tutte di lieto fine, ed alcuna di esse risale agli ultimi anni del passato secolo, come la Partenope dramma cantato in Napoli sin dal 1699 e replicato altrove tante volte. Sono adunque alcuni de’ suoi drammi {p. 261}anteriori a quelli del Zeno. Non bene dunque il dotto sig. ab. Eximeno attribut al Zeno il costume osservato poi costantemente nello scioglimento de’ melodrammi istorici di far mutare di sinistra in prospera la fortuna dell’eroe. Le di lui ariette furono per lo più poco musicali; ma mostrò talora di saperne fare, come si vede in questa dell’Eraclea:

Incominciai per gioco,
E poi m’innamorai
Quanto potesse mai
Innamorarsi ancor.

Ma la virilità dell’opera eroica incominciò senza dubbio col prelodato Apostolo Zeno Veneziano, e si perfezionò nel Metastasio. Il signore Zeno Poeta e Istorico Cesareo succeduto allo Stampiglia è stato di lui assai più regolare, più naturale, più maestoso, più vivace. Ebbe più invenzione, più arte di teatro, più verità e forza nel maneggio delle passioni, più grandezza ne’ suoi eroi. La lingua è pura, lo stile ricco e proprio degli argomenti e della drammatica. A lui non manca se non quel calore, quella precisione, quell’armonia, quella scelta che costituiscono il merito del gran poeta che gli succedette. Notabili singolarmente sono i melodrammi del Zeno per la varietà de’ caratteri e degli argomenti, essendosi {p. 262}arricchito nelle storie greche, romane e barbare a lui famigliari. Dovunque incontrò (disse l’ab. Conti valendosi delle parole dello stesso Zeno) o maturità di consiglio ne’ dubbj affari, o magnanimità di perdono nelle offese sofferte, o moderazione ne’ tempi prosperi, o fortezza ne’ casi avversi, costanza di amicizia e di amor conjugale, man forte a sollievo degl’ innocenti, cuor generoso a ristoro de’ miserabili, atti di beneficenza, di giustizia, di temperanza ed altre virtù, tutti n’espose, n’ ingrandì, e illustrò gli esempj in teatro. Ciò che ne segnala ancora il carattere è l’aver saputo in ciascun atto delle sue favole preparare una scena vistosa, popolare, interessante che tiene svegliata l’attenzione dello spettatore. I drammi onde trasse maggior onore, sono, Lucio Papirio, Cajo Fabricio, Andromaca, Merope, Mitridate, Ifigenia, Nitocri &c. Non minor gloria gli recarono i sacri Oratorj musicali pieni di entusiasmo profetico e di sacra erudizione, tra’ quali si distinguono, Sisara, Daniele, Davide umiliato, Giuseppe, Ezechia &c. L’autore stesso ha data la più giusta idea di tali sacri componimenti: In essi (ei dice) studiai di far ragionar le persone, e in particolare i Patriarchi, i Profeti e gli Apostoli collo stile delle Scritture, e co’ sentimenti de’ Padri e de’ Dottori della Chiesa, stimando, che quanto meno fossevi frapposto del mio, tanto più {p. 263}di compunzione e di diletto avesse a destarsi negli animi degli uditori. Tutte le di lui opere drammatiche comprendonsi in dieci tomi, ma gli ultimi due contengono quelle che compose in compagnia di Pietro Pariati.

Ed eccoci a’ più lieti giorni della virilità dell’opera eroica, ai giorni rischiarati dal corso del più bell’ astro della poesia drammatica musicale. Pietro Trapasso, il cui cognome dal celebre Calabrese Gian Vincenzo Gravina, che l’educò nelle lettere per lo spazio di dieci anni, cangiato in greco suono divenne Metastasio e riempì l’Europa, nacque in Roma nel 1698, passò parte della gioventù in Napoli esercitandosi nel foro, succedette ad Apostolo Zeno nel 1729 nell’onorevol carica di Poeta Cesareo, e caro agl’ impp. Carlo VI, Francesco I e Giuseppe II, e alle imperatrici Elisabetta e Maria Teresa fiorì in Vienna sino all’anno 1782, in cui mancò con lutto universale della virtù, del sapere e della poesia. Che diremo noi di sì raro e felice ingegno che corrisponda alla sua grandezza? Ch’egli era sì grande che ha inspirato in tutti i contemporanei la disperazione di appressarlo nel suo sistema, ed in alcuni il partito di torcere dalle sue vestigia? Che i di lui splendidi difetti stessi, i quali appartengono agli abusi musici anzi che a lui, lo rendono rispettabile fin anco agli orgogliosi che {p. 264}volgono altrove il capo per non vederne l’odiata luce che gli umilia? Le Grazie sole potrebbero convenevolmente encomiarlo, le Grazie amiche di Anacreonte che mercè del Metastasio ridenti passeggiarono le musiche scene, e che tacquero come egli tacque. E quando ripiglieranno il canto, l’ilarità, il riso? E chi le rimenerà sulle armoniche scene? Forse i partigiani delle furie e de’ demonj ballerini?

La musa di questo grand’uomo si distingue per molti pregi, e singolarmente per la grazia, la facilità, la naturalezza dell’ espressione, per la precisione, la chiarezza e l’armonia dello stile (Nota III) per l’eleganza permessa al melodramma, e per la grandezza e la sublimità69. Di grazia {p. 265}a chi mai cede egli, sia che alla maniera di Sofocle migliori i grand’uomini dell’ antichità nel ritrarli, ovvero sia che gareggi di sublimità col gran Cornelio dipingendo Greci e Romani, e di delicatezza coll’ armonioso Racine facendo nelle passioni che maneggia riconoscere a ciascuno i movimenti del proprio cuore? A quanti anzi egli non sovrasta per la particolar magia del suo pennello che anima quanto tocca, e l’ ingentilisce colla grazia del Correggio e {p. 266}coll’ espressione di Raffaello? Chi non ravvisa nel Metastasio il gran maestro allorchè (nel tempo stesso che si presta al duro impero dell’uso e del canto introducendo amori subalterni come pur fecero i migliori tragici francesi) c’interessa pel solo protagonista mostrandolo in preda d’un amore forte, imperante, disperato qual si richiede nella severa tragedia? Zenobia, Siroe, Arbace, Timante, Megacle, Demetrio, Ipermestra &c. personaggi agitati da una passione contrastata dall’ eroismo o dal dovere, sono perfettamente tragici. E con quanta maestria non colorisce i caratteri? Quel fandi fictor Ulysses non è dipinto al vivo nell’Achille in Sciro? l’ energia e l’impeto del vincitor di Troja non si vede quasi nascente nella finta Pirra? Ezio arrogante, che parla di se e delle sue gesta, ma però nobile, prode, magnanimo, virtuoso, non rappresenta appunto la bontà con qualche debolezza richiesta nel personaggio tragico70? Tito, Temistocle, Catone, Regolo71 quando comparvero {p. 267}più grandi sulle scene? e qual tesoro di filosofia non vi profondono? L’idea di rappresentare gli affetti di una madre in Merope fu più d’una volta felicemente eseguita; ma chi può soffrire il paragone del colorito inimitabile di Mandane nel Ciro riconosciuto? chi fece Egisto più interessante di Ciro sotto il nome d’ Alceo? Per altra parte quanta erudizione sacra, nobiltà di dire, interesse tragico ed unzione negl’ inimitabili Oratorj, Betulia, Gioas, Giuseppe, la Morte d’Abel, la Passione di Gesù Cristo! Qual ricchezza di filosofia e d’immaginazione e di splendidezza di decorazioni nelle Serenate Enea negli Elisj, Astrea placata, il Parnaso accusato e difeso, l’Asilo d’Amore &c.?

Pieno di erudizione di ogni maniera egli imita gli antichi ma con tal maestria che par nato or ora quel che dissero venti secoli indietro. E chi saprà più dare agli altrui pensieri quella naturalezza che si ammira {p. 268}nelle imitazioni del Metastasio? Tito si vale delle parole del Gran Teodosio quando abolì la legge che dichiarava rei di morte quelli che profferivano parole ingiuriose contro del Principe72. V’è, gli dice Publio, chi lacera anche il tuo nome; e Tito:

E che perciò? Se il mosse
Leggerezza, nol curo:
Se follia, lo compiango:
Se ragion, gli son grato: e se in lui sono
Impeti di malizia, io gli perdono.

È prosa, dice l’invidia sotto la maschera del gusto; ma che bella prosa che fa obbliare tanti e tanti versi! Servesi Metastasio di un gran numero di sentenze di Seneca ma spogliandole d’ogni affettazione nativa. Quel Dubiam salutem qui dat afflictis, negat, è un aforismo in Seneca, e diviene una ragione ben naturale in Fulvia:

Non dir così; niega agli afflitti aita
Chi dubbiosa la rende.

É una ruvidezza pedantesca la risposta di Megara ad Anfitrione, Quod nimis miseri {p. 269}volunt Hoc facile credunt, la quale acquista semplicità e naturalezza in Metastasio:

E poi quel che si vuol, presto si crede.

Dal Petrarca, dallo Zeno, e da’ Francesi trasse del mele; ma chi nol fa? chi nol fece? Importa saperlo convertire in proprio sangue e sostanza, ed è questo uno de’ rari pregi del Metastasio. Si è da’ critici detto ancora che la maggior parte delle favole Metastasiane viene dalle francesi, senza avvertire che la maggior parte delle francesi si trasse dalle italiane. Questo traffico de’ letterati è antichissimo (Nota IV); ma distinguasi il plagio vergognoso dalla lodevole imitazione. Bisogna posseder critica, principj e riflessione per comprendere ancora quando gli autori s’incontrano per ventura, e quando si seguono a bello studio; Aretade presso i Greci fece un volume de’ pensieri degli scrittori che s’incontrano senza seguirsi73.

Il calore della contesa che ebbe in Londra col Martinelli trasportò anni sono Carlo Francesco Badini esgesuita ad affermare nella Bilancia di Pandolfo Scornabecco, che Metastasio tolse il Demofoonte dall’Ines de {p. 270}Castro. E perchè non può metter capo nella bella Semiramide del Manfredi, in cui le occulte nozze di Nino e Dirce che si scoprono fratelli, rassomigliano meglio alle avventure di Timante e Dircea? Non conosceva poi il Badini altra Inès anteriore a quella del suo ingegnosissimo La Motte?

Dall’Ambigu Comique di Montfleury (disse lo stesso mordace esgesuita) Metastasio ha tratto la Didone. Che cosa fu quest’obbliato Ambigu, di cui si cibava il Badini? Una stravaganza eterogenea uscita nel 1671 in tre atti, ognuno de’ quali contiene un argomento differente, e in uno si rappresenta in iscorcio l’avventura di Didone. Quell’Ambigu fu dunque il modello del Metastasio? Il Badini non conobbe tragedie vere della regina di Cartagine del secolo XVI? Metastasio non sapeva leggere la divina Eneide?

Anche l’Attilio Regolo (afferma lo stesso erudito esgesuita) venne da’ Francesi. Da chi mai venne? forse dal Regolo dell’insipido Pradon tanto screditato nelle Satire del Boileau e nell’epigramma di Racine? Ma sapeva egli che il Regolo di Pradon è un petit-maître colla sua bella accanto74? Poteva {p. 271}nascere da sì molle e negletto padre l’eroico, il Romano Attilio Regolo Metastasiano?

E Badini e molti altri dissero ancora che dal Cinna formò il Poeta Cesareo la sua Clemenza di Tito. Chi può ignorare il capo d’opera del teatro di Cornelio? La Clemenza di Tito nulla perderebbe quando anche ne fusse un’ esatta imitazione. Ma per istruzione della gioventù e per rendere giustizia al vero, osserviamo in qual maniera si condussero que’ due grand’ingegni nel maneggiare in generi diversi due congiure e due perdoni tramandatici dalla storia.

Cinna è tragedia destinata a commuovere lo spettatore: Tito è melodramma fatto per commuovere ed appagare i sensi. Per riuscire nel primo lavoro, si vale il buon poeta di un’ azione importante ma semplice per dar campo al dialogo in cui spicca l’ entusiasmo tragico. Chi compone pel teatro musicale, abbisogna di maggiore attività e rapidezza nella favola, per servire al suo oggetto più con colpi di scena e situazioni che col dialogo obbligato dalla moderna musica a soggettarsi a una precisione rigorosa. Cornelio e Metastasio hanno soddisfatto compiutamente al loro intento; ma se quest’ ultimo avesse seguite l’orme del primo nella condotta della favola, avrebbe fatta {p. 272}un’ opera fredda di una buona tragedia75.

Quindi profuse nel suo argomento maggior ricchezza d’invenzione, e questa che nel Tito si scorge ad ogni passo, per gli nuovi colpi teatrali e pe’ bei quadri prodotti da’ contrasti di situazione, non poteva trovare l’Italiano nel tragico Francese, e trasse dal proprio fondo le fila che gli abbisognavano per la sua tela. Non basta a Metastasio che Sesto ami Vitellia che lo seduce e lo {p. 273}precipita nella congiura; ma ha bisogno che questa aspiri a una vendetta, non di un padre come fa Emilia, ma di un’ attiva ambizione delusa nella speranza di regnare. Ha bisogno che Tito faccia uno sforzo e rimandi Berenice per risvegliare la spenta speranza di Vitellia, e che poscia egli elegga per consorte Servilia sorella di Sesto impegnata con Annio nobile, virtuoso e degno della di lei tenerezza. Ha bisogno che Sesto strascinato dalla passione alla congiura, e richiamato da un resto di virtù e dalla gratitudine a salvar Tito, nel tempo stesso che contro di lui conspira, corra a difenderlo: che chiamato da Tito non ardisca presentarglisi col manto macchiato di sangue: che Annio gli dia il suo: che quest’amico col manto di Sesto segnato colla divisa de’ congiurati arrivi alla presenza dell’ imperadore in tempo che la virtuosa Servilia ha scoperto il segreto del nastro, e che il suo amante all’apparenza risulti colpevole, e ponga in confusione l’inconsiderato Sesto, ed Annio nella necessità di comparir reo o di accusar l’amico. Queste cose fanno riuscire il melodramma italiano diversissimo dalla tragedia francese per la ricchezza e l’ economia dell’azione76.

{p. 274}

I caratteri poi di Augusto, Emilia e Cinna differiscono da quelli di Tito, Vitellia e Sesto. Augusto si dimostra clemente la prima volta stanco dalle famose proscrizioni: e la clemenza è la caratteristica della vita di Tito delizia del genere umano; caratteri che esigono un colorito differente. Emilia innamorata di Cinna intraprende lo sconvolgimento dello stato contro al suo benefattore, per vendicar la morte di un padre; nel che si scorge cert’aria di romanzo, perchè l’ affetto filiale narrato non iscuote tanto lo spettatore quanto i benefizj presenti di Augusto, e la di lei passione per Cinna esposta agli sguardi. Ma Vitellia è un ben dipinto carattere somministrato dalla natura, e da’ costumi de’ grandi, superiore forse alla stessa Ermione di Racine da cui deriva77. Ella è una Romana ambiziosa {p. 275}che più non isperando di conseguire colla mano di Tito l’imperio, si prevale della debolezza di un suo amante per tramare la rovina dell’imperadore; e l’ondeggiamento delle di lei mire comunica all’azione un continuo patetico movimento. Cinna poi e Sesto sono veramente due ingrati per cagione di una donna; ma Cinna sempre considera Augusto come un tiranno, e i suoi rimorsi dell’atto III non provengono dalla conoscenza dell’ingiustizia del suo attentato, ma da’ benefizj ricevuti da Augusto. Sesto al contrario, personaggio incomparabilmente più tragico78, è combattuto dalla conoscenza delle virtù di Tito, {p. 276}dall’amicizia da lui oltraggiata, dall’immagine d’un gran tradimento senza discolpa, dalla virtù cui non ha del tutto rinunziato, dalla debolezza per Vitellia che lo tiranneggia. Per comprendere appieno la diversità de’ due caratteri, pongasi, nella scena full’ abdicazione di Augusto, Sesto in luogo di Cinna, e la tragedia non potrà andare avanti, non potendo convenire a Sesto la parte che vi sostiene Cinna d’ipocrita e di traditore determinato.

Personaggi così diversi producono situazioni ancor più differenti. Senza dubbio eccellente è la scena prima dell’atto V tra Cinna ed Augusto dopo scoperta la congiura; e benchè ne sembri troppo famigliare l’ incominciamento, Cinna, prendi una sedia e ascoltami, il discorso di Augusto si va gradatamente elevando, finchè conchiude con quella famosa interrogazione,

Cinna, tu t’en souviens, & veux m’ assassiner?

Cinna però, come ogni reo ordinario, si risolve a negare il delitto,

Moi, Seigneur, moi que j’ eusse une ame si traîtresse?

Ma Augusto lo riempie di confusione mostrandosi inteso di tutta la congiura, ed allora Cinna convinto si appiglia al partito di mostrar coraggio,

{p. 277}
Vous devez un exemple à la posterité,
Et mon trépas importe à votre sureté ..

Tutto è detto con senno, proprietà e grandezza ancora, e nulla è straordinario. Ma nel nostro melodramma che cosa produce lo scoprimento della congiura? Due incontri originali inimitabili. Nella scena 4 del II Tito sa che si congiura contro la sua vita, ma ignora che Sesto sia il reo principale; perciò vedendolo venire va a lagnarsi con lui medesimo, coll’ amico, dell’ingratitudine de’ Romani:

Tit.

Sesto, mio caro Sesto, io son tradito.

Ses.

(Oh rimembranza!)

Tit.

Il crederesti, amico?
Tito è l’odio di Roma. Ah tu che sai
Tutti i pensieri miei: che senza velo
Hai veduto il mio cor: che fosti sempre
L’oggetto del mio amor, dimmi se questa
Aspettarmi io dovea crudel mercede.

Ses.

(L’anima mi trafigge e nol sel crede!)

Che contrasto sommamente interessante fa quell’aspetto franco e amichevole di Tito, e quella confusione di Sesto lacerato da’ rimorsi! E chi non invidierà all’Italia questa scena impareggiabile? Nella scena 6 del III non si conosce meno il maestro. Tito più non ignora che Sesto è un traditore, e {p. 278}che il Senato l’ha convinto e condannato alla morte; ma vuol parlargli, e quando Sesto si appressa, si sforza di mostrar nel volto la rigorosa maestà offesa. Sesto si avanza sbalordito affatto dal delitto palese. L’uno osserva la mutazione dell’aspetto dell’altro; e lo spettatore vi ammira un quadro patetico degno del Raffaello della scena tragica:

Ses.

(Numi! è quello ch’io miro
Di Tito il volto? Ah la dolcezza usata
Più non ritrovo in lui! Come divenne
Terribile per me!)

Tit.

(Stelle! ed è questo
Il sembiante di Sesto? Il suo delitto
Come lo trasformò! Porta sul volto
La vergogna, il rimorso, e lo spavento.) ec.

Tali scene non si leggono nel Cinna, nè in altri drammi ch’io sappia. Bellezze originali son parimente, e fatte per l’ immortalità, le vie tentate da Tito per sapere il segreto di Sesto: le angustie di questo infelice posto nel caso o di accusar Vitellia, o di commettere una nuova ingratitudine verso il suo buon principe: l’ ammirabile combattimento di Tito nel soscrivere la sentenza nella scena 7 del III, che meritò l’ammirazione di Voltaire. Deggio, dice Tito, una vendetta alla mia clemenza sprezzata . . . . . .

{p. 279}
Vendetta! Ah Tito, e tu sarai capace
D’un sì basso desio, che rende uguale
L’offeso all’offensor? Merita invero
Gran lode una vendetta ec. . . . . . .
. . . . . . . . Eh viva . . . . Invano
Parlan dunque le leggi? Io lor custode
L’eseguisco così? Di Sesto amico
Non sa Tito scordarsi? Han pur saputo
Obbliar d’esser padri e Manlio e Bruto.
Seguansi i grandi esempj: ogni altro affetto
D’amicizia e pietà taccia per ora.
Sesto è reo, Sesto mora ec.
. . . . . . . . . . . . . Or che diranno
I posteri di noi? Diran che in Tito
Si stancò la clemenza
Come in Silla e in Augusto
La crudeltà ec.
. . . . . . . . . . . . . Che Tito alfine
Era l’offeso, e che le proprie offese,
Senza ingiuria del giusto
Ben poteva obliar . . . Ma dunque faccio
Sì gran forza al mio cor, nè almen sicuro
Sarò ch’altri m’approvi? Ah non si lasci
Il solito camin. Viva l’amico,
Benchè infedele, e se accusarmi il mondo
Vuol pur di qualche errore,
M’accusi di pietà, non di rigore.

Ed ecco in qual guisa i grand’ingegni anche con argomenti già maneggiati diventano {p. 280}originali. Virgilio e Tasso, prendendo per modello Omero, ci arricchirono di nuove fogge di poemi eterni. I grandi drammatici della Grecia scrissero molte volte su di un medesimo argomento componimenti che non si rassomigliano. Chi sa imitar migliorando, nasce per essere successivamente imitato; quindi è che il nostro Poeta Imperiale ha prodotta una folta schiera d’imitatori Italiani che lo seguono senza raggiugnerlo nè appressarglisi; ed è stato tradotto e imitato in Francia da molti poeti, Le Franc de Pompignan, Collé, Belloy, Le Miere, Dorat ec. Egli è vero che possono ne’ suoi drammi notarsi alcuni difetti, ne’ quali incorse a cagione del sistema che trovò introdotto, del genere stesso, degli esempj passati, e soprattutto degli abusi musicali, come sarebbero tante arie di paragoni lirici per se stessi eccellenti, e certi amori subalterni, e qualche espressione studiata più che alla scenica non si conviene. Ma che perciò? Metastasio è pur tutto insieme l’Euripide, il Cornelio ed il Racine Italiano: Metastasio è tale che se di mezzo il togli, senti che si forma un orrido vuoto nella poesia melica che niuno più riempie; là dove se altro moderno poeta, e grande ancora, tu ti finga di non avere esistito, nulla sentirai mancare all’Italico Parnaso. Non per tanto intorno a lui non si ascoltino gli elogj del Piccini il giovane, del sig. Torcia, del {p. 281}sig. Cordara ec., nè il Vespasiano, nè il consigliere imperiale Calsabigi, nè l’Algarotti, nè il Franceschi, nè il Signorelli. Odansi gli esteri. Questo caro figlio della natura (diceva il dotto sig. Eximeno) ha accordati insieme estremi che niun filosofo avrebbe mai pensato di potersi combinare, quali sono le dolcezze della lira greca co’ sentimenti romani. Il suo stile è chiaro, netto, conciso, le parole piene di sugo e di grazia, i periodi di giusta misura per penetrare nell’animo. E quantunque il Metastasio non sia stato posto nella lista degli autori del conciossiacchè, egli sarà non per tanto l’originale che si proporranno ad imitare i poeti filosofi. La sua rima è discretissima ed esente di legge, i versi, in quanto lo permette la lingua, sono pieni di ritmo, e però facili d’adattarsi alla musica. Se Anacreonte rinascesse, dubito che scrivesse in italiano un’ ode nè più armoniosa nè più dolce di questa:

Oh che felici pianti,
Che amabile martir,
Purchè si possa dir
Quel core è mio.
Di due bell’ alme amanti
Un’ alma allor si fa,
Un’ alma che non ha
Che un sol desio.

Voltaire parlando della scena 6 del III della Clemenza di Tito e del costui monologo soprallodato {p. 282}diceva: “Queste due scene sono comparabili, se non le superano, alle più belle produzioni di Grecia medesima: sono degne di Cornelio quando non è declamatore, e di Racine quando non è debole”. Un altro prezioso testimone ammirisi in un sol frammento del lunghissimo e squisitissimo elogio che gl’ intesse l’elegante sig. Andres con ben poche eccezioni. Non ha perchè temere (dice) il Metastasio il confronto con Cornelio, con Racine e con qualunque altro poeta tragico. I suoi caratteri non cedono per l’ esattezza e verità a’ migliori caratteri degli altri poeti. La sublime anima di Cornelio ha ella saputo immaginare Greci e Romani come Temistocle, Regolo e Tito? E il dolce cuor di Racine avrebbe avuto bastevole tenerezza, e sensibilità per formare i Timanti, i Megacli, le Dircee, le Zenobie, e tanti altri affettuosi ed appassionati personaggi? Tratti più nobili e grandi, più rilevati ed energici, sentenze più sublimi e giuste, più chiare e precise, pezzi più teneri e toccanti, espressioni più piene di sentimento e d’ affetto, non si troveranno facilmente nel Cornelio, nel Racine, nel Voltaire, nè in alcun altro; e il solo Metastasio potrà in queste parti drammatiche far fronte a tutto il più bello e grande del teatro francese &c.

Dopo ciò, studiosi giovani, che amate la poesia scenica e Metastasio, non vi potrete {p. 283}consolare del molesto ronzio di qualche povero mendicante, che, avendo sempre scritto scorrettamente in italiano e prose e versi, ardisse esitare intorno al valersi di qualche vocabolo non da altri usato che da Metastasio? Ascolterete chi chiamasse svenevoli le tenerezze Metastasiane? le vendute tirate di certi automati periodici che respirano coll’ altrui fiato velenoso? la severità de’ Petrarchisti e Dantisti? l’invide filippiche di qualche versiscioltajo? Udite per vostro meglio ed a gloria dell’ Italia, di cui Metastasio è il più caro ornamento, udite gli esteri, gli emuli stessi oltramontani, udite il vostro cuore, e coll’ Algarotti

a piena man spargete
Sopra lui fiori, e del vivace alloro
Onorate l’altissimo poeta.

Seguaci ebbe questo valorosissimo ingegno nell’opera istorica il Livornese sig. Marco Coltellini autore dell’Almeria e dell’Antigona composta per Pietroburgo, e Vittorio Amadeo Cigna Torinese che scrisse Enea nel Lazio ed altri melodrammi, a’ quali mancò buona parte della delicatezza, del patetico, della grandezza, del calore Metastasiano. I loro disegni non furono sì ricchi e giudiziosi; non originali o quasi tali le invenzioni; i loro colpi di scena spariscono a fronte del vigoroso colorito di Apostolo {p. 284}Zeno, ed i loro quadri accanto a quelli del Metastasio. Decaddero ancora per lo stile, anche in faccia al Coltellini ed al Cigna, la Disfatta di Dario, e l’Incendio di Troja del duca Morvillo, e l’Armida abbandonata dell’avvocato don Saverio de Rogatis che nel 1770 si rappresentò in Napoli da Anna de Amicis e da Giuseppe Aprile: ma tutti e tre questi drammi riuscirono oltre modo in teatro, per le decorazioni e per la musica de’ primi due di Pasquale Cafaro, e dell’ultimo del maraviglioso Jommelli, la quale si tiene meritamente per un capo d’opera.

Il sig. duca don Domenico Perrelli impresse in Napoli in un tomo nel 1777 quattro melodrammi, la Circe, Cesare in Armenia, Lisimaco, e l’Adolfo sul gusto ragionevole dell’opera istorica, ma non si rappresentarono. Oggi dall’illustre autore si fa imprimere una raccolta di sue poesie teatrali in più tomi, ed il pubblico è vicino ad accertarsi de’ di lui progressi nell’arte d’incatenar gli eventi con verisimiglianza, nel colorir gli affetti, e nell’esprimersi con nobiltà e naturalezza, frutti saporosi e grati del tempo e di un ostinato travaglio.

Don Luigi Serio professore di Eloquenza italiana nel Liceo Napoletano e Poeta di Corte sin dal 1779 volse i suoi poetici ben conosciuti talenti all’opera Metastasiana con fondata speranza del pubblico, e la scelta {p. 285}de’ suoi argomenti accreditò il di lui gusto. La sua Ifigenia in Aulide collo scioglimente naturale del Racine fu rappresentata in quell’anno colla musica del Valenziano Vincenzo Martin, il quale abbisognava di più lungo soggiorno in Italia per riuscire sul teatro di San Carlo ripieno dell’armonia immortale de’ Jommelli, de’ Piccini, de’ Mai e de’ Paiselli. Il suo Oreste colla musica del Napoletano Domenico Cimarosa comparve nel medesimo teatro nell’agosto del 1783. La sua versificazione è musicale; facile l’espressione ed acconcia al genere; lo stile chiaro, nobile, conciso, ed ornato de’ fiori poetici che Metastasio stesso ammise nella Didone ed in altri drammi ma che poi usò più parcamente nell’Attilio; ad onta degli ostacoli musici non perde di vista il tragico fine di commuovere sulle orme de’ tragici dell’antichità. Ma di quanto verso quel tempo non eran cresciuti gl’ inconvenienti teatrali che incepparono tal volta il genio stesso di Metastasio! Quanta altra parte di poesia e di verità non conviene oggi sacrificare al furore de’ gran pantomimi, mercè de’ quali ormai s’ignora se il melodramma sia parte accessoria o principale dello spettacolo!

Non è mancato qualche altro melodramma istorico in Italia, come il Pirro del sig. Gamerra, il Creso del sig. Pagliuca, ed i Tirreni melodramma inedito tuttavia dell’ingegnoso giovane don Matteo Galdi de’ cui {p. 286}ben coltivati talenti già si gustano i precoci frutti.

L’umana incostanza che mena sovente il rincrescimento dello stato attuale ed il desiderio di cambiare, fe pensare a rivolgere lo sguardo indietro ed a vedere in lontananza l’opera mitologica rifiuto delle scene italiche ed imperfetta ancor nelle mani di Quinault. Come seguir nel suo sistema Metastasio e non rimanergli di grande spazio indietro? In vece di rettificar quel sistema, si penso a cangiar sentiero. Ed ecco sorgere l’Alceste, e l’Orfeo del sig. Calsabigi animati dalle note immortali di Gluck in Vienna; e si corse allo spettacolo che varca oltre l’Olimpo e travalica le rive d’Acheronte. Il Migliavacca oltre alla sua Tetide scrisse l’Armida, ed ebbe la destrezza di congiungere agl’incantesimi, ai sison delle furie ed a’ bilancè de’ personaggi allegorici di Quinault il vivo interesse dell’inimi abile Armida del gran Torquato ed una felice imitazione del seducente stile Metastasiano. Marco Coltellini richiamò la pomposa favola di Psiche già sceneggiata da Moliere, e mostrò in Vienna nel 1767 la sua di Amore e Psiche colla selva de’ destini, coll’ antro degli oracoli, coll’Acheronte, colla caverna di Averno, ed accoppiò allo spettacolo de’ sensi l’interesse e la possibile commozione in buono stile. Il prelodato sig. Serio nel 1780 riprodusse sulle scene napoletane tale argomento; ma gli convenne {p. 287}tutto fondare nella poesia, e servire alle circostanze spogliando lo spettacolo di quasi tutte le indicate decorazioni, per dar luogo a’ balli di Zemira e Azor ed al Convitato di pietra. Psiche, Zemira, l’inferno di don Giovanni Tenorio tutto in un fascio? Ma tutto oggi dee sacrificarsi a’ ballerini. L’anno 1782 (ed è questo un altro fatto che smentisce solennemente il gazzettiere Colpo d’occhio) il Sovrano di Parma, continuando nell’intento di promuovere d’ogni maniera i progressi della drammatica, fe rappresentare splendidamente nel suo teatro Alessandro e Timoteo scritto con eleganza e forza poetica dal sig. conte Castone della Torre Rezzonico e posto in musica dal celebre Giuseppe Sarti. Ma nè anche le seducenti bellezze di quella musica e di quella poesia, nè quelle apparenze incantatrici ma posticce, poterono supplire all’interesse ed al calore che produce la sola verità nell’opera istorica non guasta da’ musici e da’ ballerini.

I momenti più favorevoli dell’opera mitologica cessarono tosto, e si ricorse di bel nuovo a i riposti arredi di Zeno e Metastasio, ma essi furono mutilati al pari di coloro che reggono le parti de’ loro protagonisti. È colpa forse de’ lodati poeti la barbara esecuzione de’ norcini teatrali all’impero de’ direttori de’ moderni pantomimi?

Il sig. Calsabigi fermo nel proposito di raddrizzare il trono giacente dell’opera mitologica, {p. 288}impiegò tutto l’ apparato naturale di essa de’ demonj e delle furie danzanti e della descrizione del Tartaro nelle sue Danaidi che fe porre in musica dal nostro Millico; ma non si rappresentò. Il sig. conte Pepoli che lo segue e ne adora le vestigia, ha pubblicato nel 1789 il suo Meleagro accompagnato da una lettera sul melodramma serio ad un uomo ragionevole, il quale nè anche parmi che abbia presentate sulle scene le nuove vesti delle antiche furie, de’ numi infernali, delle ombre e delle parche, corteggio perpetuo delle tragedie musicali mitologiche. O Nitteti, ricca figliuola di nobil padre e sforzo felice dell’ arte che sa arricchirsi nell’immenso campo della natura di sì varie e vaghe e preziose pompe, ad onta de’ valorosi ingegni che fra noi pur fioriscono, non avrai tu una compagna nel regno dell’armonia? Passiamo a fare un motto della danza e della musica.

E la danza che oggi forma una parte non indifferente dell’opera, e la musica che la costituisce tale insieme colla poesia, hanno ricevuto nel nostro secolo da varj eccellenti artisti novello gusto e splendore. La danza teatrale ora non è più un’ arbitraria filza di più pantomimi eterogenei serii o grotteschi con pieni senza oggetto concatenato: ma rappresenta anch’essa co’ soli gesti favole compiute comiche o tragiche. Il Toscano Angiolini espose in Italia, in Alemagna, {p. 289}in Pietroburgo varii balli serii e giocosi, il Convitato di pietra, il Solimano II, Errico IV alla caccia, Ninetta in corte, il Disertore con lieto fine &c. In una lettera scritta da Vienna nel 1759 a m. Arnaud lodavasi il ballo di Flora eseguito da madama Angiolini. In Parigi ed in Vienna intorno al medesimo tempo si distinsero la Bugiani e la Paganini. Il Fiorentino Vestris tanto applaudito in Parigi si è segnalato nel serio e gentile, Viganò in Italia nel grottesco, il Napoletano Gennaro Magri in Venezia, in Torino, in Napoli per leggiadria e leggerezza, per varie felici invenzioni di balli applauditi, e pel trattato teorico-pratico del ballo in due volumi con trenta rami dato alla luce nel 1779.

Il più riscaldato, il più burbero, il più preoccupato nemico del nome Italiano, non contrasterà all’Italia il primato sopra le altre nazioni nell’arte incantatrice della musica. Dal di lei seno uscirono i primi musici legislatori e i più famosi maestri, e quei che insegnarono a ricongiungere con proprietà e verità sulla scena la poesia e la musica. Dal di lei seno senza contrasto sono usciti i più celebri maestri di questo secolo. Egli è ben vero che i Tedeschi possono vantarsi di eccellenti maestri di musica strumentale, degli Haydn, Huber, Cramer, Schmit ecc.: che debbono andar fastosi del loro Hass (pregevole allievo de’ conservatorj {p. 290}di Napoli) e del prodigioso Gluck e dell’armonioso Back ecc. Ma gli Spagnuoli che già ebbero un Ramos, un Salinas, un Morales, non parmi che oggi contino altri che il maestro Rodriquez de Hita compositore della musica della Briseida, e che il nominato Valenziano Martin; perchè Gaetano Brunetti maestro di violino di Carlo iv essendo Principe di Asturias, ed il Corselli della R. Cappella, ed il Conforto appartengono all’Italia. Pregiansi meritamente i Francesi di dottissimi scrittori teorici di musica e particolarmente di Mersenio, Burette, D’ Alembert &c.; pure qual altro nome de’ loro moderni maestri musici ha sormontate le Alpi fuorchè quello del difficile Rameau (Nota V)? Ma eccetto che il solo Gluck, potranno gli oltramontani sulla musica gareggiar di preminenza con gl’ Italiani? Son pur essi medesimi gli ammiratori degli eccellenti musici teorici e pratici che in prodigiosa copia escono da Bologna, da Firenze, da Venezia, da Milano ed altronde, ma singolarmente da Napoli reggia e fonte perenne della scienza musica. Scarlati, Vinci, Porpora, Leo, Corelli, Veracini, Tartini, Bucarini, il nobile Marcello, l’eccellente storico della musica e maestro Martini, il Buranelli introduttore del gusto della musica italiana in Alemagna, il Mancini, il Sarro, il Durante gran maestro di gran maestri, l’ impareggiabile {p. 291}Pergolese, il maestoso ed infelice Gaetano Latilla, il profondo armonico Logroscino, il grande Jommelli, il gajo, vivace, dilicato Piccini, che ha prodotto in Parigi la felice rivoluzione predetta sin dal 1777 dal Signorelli (ne frema pure il Lampillas) il dotto Cafora, l’armonioso Majo, il felice Traetta, il pieno e grande Sacchini, il dolce Anfossi, l’espressivo e dotto Giuseppe Sarti, il graziosissimo Paiselli, e tanti e tanti altri per la maggior parte figli di Partenope, faranno confessare a’ posteri imparziali (secondochè affermò l’Inglese autore del Parallelo della condizione e delle facoltà degli uomini) che la perfezzione di sì bell’ arte è confinata nella parte più occidentale dell’Europa. Glorioso singolarmente è per la mia patria il testimone per ogni riguardo autorevole del gran Cittadino di Ginevra79: “Giovane artista, vuoi tu sapere, se qualche scintilla di questo fuoco divoratore serbi nell’ anima? Corri, vola a Napoli ad ascoltar le opere maestrevoli di Leo, Durante, Jommelli, Pergolese. Se ti si empiono gli occhi di lagrime, se ti palpita il cuore, se tutto ti commuovi, ti agiti, e ti senti ne’ tuoi {p. 292}trasporti opprimere, suffocare; prendi allora il Metastasio, e componi; il suo genio riscalderà il tuo; col suo esempio tu saprai creare; e gli occhi altrui ti renderanno ben tosto il pianto, che ti avranno fatto versare i tuoi maestri. Ma se le grazie incantatrici di questa grand’arte ti lasciano in calma, se non hai nè delirio nè trasporto, se in ciò che dee rapirti, tu non trovi che del bello, osi tu domandare che cosa è Genio? Uomo volgare, non profanar questo nome sublime; e che t’importerebbe il conoscerlo? tu nol sentiresti: và, componi musica francese”.

CAPO IV.
Stato presente degli spettacoli teatrali. §

Il nostro secolo filosofico e calcolatore non permette che s’ignorino in verun angolo dell’Europa le principali regole del verisimile, nè che si sprezzino se non dagli stolti. Chi in tanta luce ardirebbe presentar sulle scene nell’atto I un eroe nascente in Bisnagar e nel III canuto nel Senegal? chi si farebbe protettore di simili scempiataggini senza aver perduto il cervello? Ma questa filosofia, questo spirito giusto, esatto, accurato {p. 293}basta a produrre opere grandi nella poesia, nell’eloquenza, nelle arti del disegno e nella musica? Al contrario ove lo spirito filosofico tutta riempia la mente del suo rigore per modo che paga del metodo e dell’analisi nulla si curi di arricchir la fantasia e fomentar l’ardor poetico che nutresi d’immagini, questo spirito compassato agghiaccia l’entusiasmo, snerva la passione, irrigidisce il gusto. Non so se quindi solo derivi quella spezie di decadenza che osservasi nelle belle arti; ma sembra che ora si abbondi meno in grandi artisti che in calcolatori, sofisti, falsi letterati, e gazzettieri.

Nel settentrione continuano i drammi regolati, e si rifiuta in generale la buffoneria grossolana: ma Weiss, Klopstock, Lessing hanno emoli che gli superino, che gli rettifichino, che gli si appressino?

Una manifesta decadenza osservava, sono alquanti anni, nel teatro di Londra il dottissimo ab. Arnaud: “Non vi si rappresentano (diceva) che le antiche favole, alcune insipide imitazioni delle commedie e novelle francesi scritte senza ingegno e senza spirito, e un gran numero di farse satiriche”. La stessa cosa ne scrisse il sig. Linguet. La satira sotto quel cielo non rispetta nè particolari, nè ministri, nè governo, e porta spesso il suo fiele sulle scene. Una farsa contro il ministero sotto Giorgio II fu denunziata alla Camera de’ {p. 294}Comuni, che propose un bill per soggettare gli scenici componimenti all’ispezione d’un ciambellano. Il conte di Chesterfield pronunziò un eccellente discorso contro il bill, che però passò in legge. Contuttociò sul teatro di Foote e poi di Drury-lane si è rappresentata una farsa col titolo di Escrocs, in cui si motteggiano i metodisti setta novella fondata da Withefield forse vivente ancora.

Nella Spagna ecco quello che si osserva ciascun anno ne’ teatri di Madrid. Apresi il teatro dopo la quaresima con quelle composizioni del secolo passato che conservano le due compagnie come loro fondi. Inoltrata la state si sospendono le recite di giorno, e per la notte si cantano le nazionali sarsuole, o le traduzioni delle nostre opere buffe, e vi compariscono ancora tradotte alcune commedie francesi ed italiane. Fu in questo tempo che si videro su quelle scene tradotte la Sposa Persiana, il Cavaliere e la Dama, il Burbero benefico del Goldoni. Nel mese di agosto del 1786 (quando più fremevano gli Huertisti e i Lampigliani contro del Signorelli) chi avrebbe potuto immaginarsi che dovesse rappresentarsi senza interruzione di sainetti e tonadiglie la di lui Faustina? E rappresentata chi avrebbe sperato che si ripetesse sette volte nel teatro del Principe con applauso, e con profitto della cassa, avendo dato ai comici di {p. 295}entrata de’ nostri docati 123080? Ma appena incomincia l’ottobre torna a rappresentarsi di giorno, spariscono le buone commedie, le commedie stesse nazionali dello scorso secolo, ed allora si scatenano i demonj, le trasformazioni, gl’ incantesimi, le machine, i Sette dormienti azione di più centinaja d’anni, e l’Origine dell’Ordine Carmelitano di Antonio Bazo che contiene un titolo che non finisce mai, e un’ azione {p. 296}di 1300 anni, cioè dagli anni del mondo 3138 sino a’ tempi di papa Onorio III. Ed Ormesinda? e Sancio Garcia? e le commedie d’Yriarte? del giovane Moratin?

Dopo Crebillon e Voltaire havvi più qualche degno tragico in Francia? Dopo Regnard e Des Touches e qualche altro de’ primi anni del secolo, havvi più un solo comico? Monache disperate, gelosi arrabbiati che danno a mangiare alle spose i cuori de’ loro amanti, uomini dabbene che vanno a rubare in istrada e son destinati al patibolo,

le sombre Falbaire,
& Beaumarchais, & l’ennuyeux Mercier

(diceva Carlo Palissot), e Diderot col suo Figlio Naturale in prosa

dans le grand goût du larmoyant comique,

come cantava scherzando Voltaire, ecco i tragici e i comici successori degli autori di Radamisto, dell’Alzira, del Giocatore. Ma fra questi comparisce sovente in iscena a farli arrossire l’autore del Misantropo e del Tartuffo? Pensatelo voi!

De Moliere oublié le sel est affadi,
{p. 297}

E i bei versi di Racine hanno perduto l’impero de’ cuori? Cedono ad una lugubre prosa soporifera; ond’è che Voltaire scriveva all’imperadore della China, che oggi in Francia

Le tragique étonné de sa metamorphose,
Fatigué de rimer, ne va parler qu’en prose.

Tutto (se ascoltate i medesimi nazionali Voltaire, Freron, Palissot &c.) tutto è divenuto un tessuto di tirate, di epigrammi, di definizioni metafisiche, di antitesi stentate; tutto il bello è sparito a fronte della smania di mostrar dello spirito a costo del buon senso, e, quel che è peggio, di certa chiamata filosofia armata come un istrice di aguzzi motti enimmatici e di lamenti neologici scagliati con intrepidezza per insultare o coprir di ridicolo tutto ciò che non sa d’empietà dichiarata. Una nazione ricca di eccellenti modelli tarderà ancora a rinvenir dallo stordimento? Io mi lsingava del contrario sin dal 1777: ma essa ha pure applaudito il Bouru bienfaisant, e non per tanto dopo tanti altri anni non osa rientrar nel camino della buona commedia e ne’ confini prescritti dall’invariabile Ragion Poetica.

Quanto all’Italia, lasciando a parte que’ melici allori colti dal Zeno ed a piena mano {p. 298}dal figlio dell’armonia e delle grazie Metastasio emulo illustre de’ Rasini e de’ Cornelj, essa ha ben dati nella tragedia e nella commedia e lieti frutti e speranze più liete ancora. Se il Maffei non vinse i tragici più insigni, tra essi al certo degnamente si frammischia e passeggia onorato. Se il Varano, il Marchese, il Conti, il Granelli, il Bettinelli, l’Alfieri ed altri già lodati si discostano di molto da Voltaire e Crebillon, sovrastano senza contrasto a i Belloy, a i Colardeau, a i Dorat, agli Arnaud, a i Le Miere, a i Marmontel. Se il Goldoni che ha mostrato a’ Francesi coll’ ultime sue favole la vera guisa onde scuotere e gettar via il fosco corrotto de’ Sedaine e de’ Diderot, se l’Albergati, il Pepoli e qualche altro, scrittori non ignobili di vere commedie, lasciano pur vuoto il seggio di Moliere, a quanti ed a quanti comici della Senna non son essi superiori? Ma che prò! se la gallica peste lagrimante spazia ed infetta i commedianti Lombardi che la diffondono? se i novelli venuti in Parnaso ad essi consacrano il loro tragico cittadinesco e comico lugubre? se fin anco qualche elegante scrittore prende di simil genere bastardo il patrocinio, e certi fogli periodici che in lui sol giurano alla cieca, ne comunicano le opinioni di ogni maniera a coloro che studiano la letteratura nelle gazzette? Onde dunque sperare senno e salute? Dalla {p. 299}sola noja inseparabil compagna di tali disperati uniformi pantomimi, la quale, intepidito che sarà il furore della moda capricciosa, dee guarir l’Italia dell’umore anticomico del Lillo e dell’anglomania comico-lugubre francese. Ma chi guarirà certi letterati furiofili della loro demonomania delle mascherate infernali e de’ prestigj mitologici della verga incantata? Quella non curanza e quella desolazione a cui trovansi negli scrigni de’ loro per altro rispettabili autori condannate le Danaidi ed apparentemente i Meleagri, senza la quale l’Italia correrebbe rischio di piombare irreparabilmente fin anco in braccio a i Silfi ed alle Barbe torchine.

CAPO ULTIMO.
Conchiusione. §

Ed eccovi il vasto grandioso edifizio della scenica poesia per la stessa antichità, varietà ed ampiezza in ogni sua parte ammirabile. Esso appartiene ad una immensa famiglia sparsa per la terra conosciuta e dilatata in tanti rami, la quale l’ha posseduto successivamente e guasto ed acconcio a suo modo secondo il genio di ciascun possessore, che vi ha lasciato il marco del proprio {p. 300}gusto or semplice or pomposo or bizzarro or saggio: specioso dove per bei pezzi Corintj e per sodi fondamenti Toscani, dove maestoso ancora per certa ruvida splendidezza di colonnati ed archi Gotici: diviso in grandi appartamenti altri nobilitati da greche pitture o da latine pompe, altri ricchi di bizzarri ornati di tritoni, egipani, sfingi e sirene a dispetto della natura: delizioso in mille guise ne’ boschetti, nè romitaggi, nè compartimenti diversi de’ giardini, là vaghi per naturali ricchezze di olenti rose, garofani, gelsomini e mamolette, là ricchi di fiori olandesi, di cocco, ananas ed altri frutti oltramarini, là pomposi per verdi viali coperti, giuochi d’acque, fonti idraulici, laberinti e meandri. Tale da Pekin a Parigi è il prospetto vario e vago della drammatica.

Gli Eschili, i Sofocli, gli Euripidi, e gli Aristofani, gli Alessidi, i Filemoni, i Menandri della Grecia: gli Azzj, i Pacuvj, gli Ennj, i Seneca, e i Cecilj, i Nevj, i Plauti, i Terenzj del Lazio: i Trissini, i Rucellai, i Giraldi, i Torquati, i Manfredi, e gli Aminti e i Pastor fidi senza esempio, e i Machiavelli, gli Ariosti dell’Italia nel XVI secolo che risorgendo insegnava a risorgere: i Vega, i Calderon della Spagna: i Shakespear, gli Otwai, e poi i Wycherley e i Congreve dell’Inghilterra: i Cornelj, i Racini, i Crebillon, i Voltaire, e i {p. 301}Molieri e i Regnard della Francia emula della Grecia e dell’Italia, e norma gloriosa a’ moderni, mal grado degli Huerta e de’ Sherlock: i Weiss, i Lessing, i Klopstock della Germania che dopo un lungo sonno si risveglia al fine mirando indecisa or la Senna ora il Tamigi: i Maffei, i Conti, i Varani, e i Goldoni e gli Albergati, e Zeno e Metastasio che tante volte vale i Racini e i Cornelj nella presente Italia: tutti, dico, questi grand’uomini trovansi ora iperbolicamente ammirati ora senza conoscimento di causa ridicolosamente biasimati. Chi giudicherà di loro, il pedantismo o la leggerezza? l’amor cieco o la maligna invidia? o gli apologisti con gli occhiali colorati? o i gazzettieri che militano alla svizzera? o i plagiarj di mestiere che aspirano a un nome vivendo di ritagli mal rubati?

Alla storia ed alla sola storia scortata da una sana filosofia chiaroveggente e sgombra di parzialità, al cui sguardo solo fa un tutto quel sì mirabile edifizio, ch’essa contempla tranquillamente come dall’alto d’una collina: a questa sola storia, dico, appartiene il giudicar di tanti grand’uomini che vi hanno lavorato per tanti secoli; ed il suo giudizio schietto e imparziale additerà agli artisti nascenti il sentiero che mena senza tortuosi giri alla possibile perfezzione drammatica. E chi se {p. 302}non questa semplice storia e questa serena filosofia sa discernere quel che può esser bello per un sol populo, e quello che lo sarà per molti? questa che non ignora che ciò che si chiama buon-gusto non dipende che dalla conoscenza di questo bello? In Pekin e Costantinopoli, in Parigi e Firenze si pretende cogli spettacoli scenici correggere e divertire la società mediante un’ imitazione della natura rappresentata con verisimiglianza, adoperandovi le molle della compassione e del ridicolo. Ma v’è chi per riuscirvi si vale di troppe ipotesi, mostrando in un sol luogo differenti paesi, e in due ore di rappresentazione il corso di molti lustri e talvolta di secoli interi, come avviene in Madrid e in Londra; e chi all’opposito se ne permette pochissime, come si usava anticamente in Atene e in Roma, ed oggi usasi in Italia e in Francia. Senza dubbio i drammi Cinesi, Spagnuoli e Inglesi contengono un’ arte men delicata, ma pel gusto di que’ popoli hanno un merito locale; i drammi poi de’ Greci e de’ Latini e de’ moderni Italiani e Francesi, come hanno acquistato dritto di cittadinanza nella maggior parte delle nazioni culte, non temono gl’ insulti degli anni, e posseggone una bellezza che si avvicina all’assoluta. Or non son questi gli esemplari che dee raccomandare il gusto? Vi sono poi certe farfacce buffonesche che costano poco e fanno {p. 303}talvolta gran romore sulla scena, dalla qual cosa potrebbero gl’ inesperti dedurre una falsa conseguenza (e la deducono in fatti e ne fanno pompa) e fuggir la fatica necessaria per mettersi in istato di scrivere componimenti simili all’Atalia e al Misantropo, perchè non furono questi la prima volta ricevuti favorevolmente dagli spettatori. Ma la storia pronta a diradar ogni nebbia, gli avvertisce che le facili farse romanzesche e i mostri scenici non allettano che l’ultimo volgo, e dopo una vita efimera corrono a precipitarsi nell’abisso dell’obblìo; dovechè il Misantropo e l’Atalia ed i componimenti che ad essi si appressano, non solo sforzano alla per fine il pubblico a vergognarsi del primo giudizio, ma ricreano la parte più pura e illuminata della società che sono i dotti, e passano indi a’ posteri insieme con quelli che furono scritti ne la caverna di Salamina. Ora si può esitare un sol momento a scegliere tra il restar tosto sepolto nella propria terra in compagnia di tante migliaja di scheletri mostruosi, e tra il convivere con Euripide ne’ gabinetti de’ savj di tutti i tempi e di tutti i paesi?

{p. 304}

Correzione al tomo IV. §

Per trascorso di memoria, avvertitomi da un letterato amico, si disse di Filippo IV nella pagina 203 v. 9: Che espulse un popolo di Mori &c. Si corregga così: Che non riparò i mali dell’ espulsione di un popolo di Mori &c.