Luigi Riccoboni

1738

Réflexions historiques et critiques sur les différents théâtre de l’Europe. Avec les Pensées sur la Déclamation

Édition de Beatrice Alfonzetti
2020
Luigi Riccoboni, Réflexions sur les différents théâtre de l’Europe. Avec les Pensées sur la Déclamation, Paris, Jacques Guérin, 1738 (Approbation du 5 janvier 1738), pp.303. PDF : Google livres
Ont participé à cette édition électronique : Beatrice Alfonzetti (OCR), Maura Ronza, Matilde Esposito (Stylage sémantique) et Arthur Provenier (édition TEI).

Luigi Riccoboni §

Nascere comico. Memorie di sé §

Aveva esattamente settant’anni Luigi Riccoboni, quando da Parigi, dove viveva da quando ne aveva trenta, inviava con una lettera, datata 5 giugno del 1746, la sua memoria autobiografica a Lodovico Antonio Muratori. L’erudito modenese stava progettando una raccolta di vite degli uomini illustri di Modena, dove anche l’ex comico di professione, ormai dedito alla pedagogia e alla storiografia teatrale, poteva entrare1. Possiamo solo immaginare con quanta soddisfazione questo invito fosse stato accolto dall’attore che aveva impiegato tutta la vita a tentare un dialogo alla pari, o quasi, con gli esponenti della cultura alta, per lui rimasta sempre un miraggio, anche quando aveva rivendicato la legittimità e la parità dell’uomo di teatro rispetto a chi scriveva a tavolino.

Rimasto legato per sempre alla sua doppia patria, modenese e italiana, con ricordi e rimpianti venati di malinconia, Riccoboni disegnava il suo ritratto partendo dalla nascita, il 1° aprile 1676, da Antonio Riccoboni o Riccobuono, detto Pantalone, capocomico della compagnia al servizio del duca di Modena. Della madre, Nastasia Miglioli, non diceva neanche una parola, forse perché dedita soltanto, a quanto pare, a crescere i cinque figli e, quindi, ininfluente rispetto al futuro teatrale del figlio, ragione delle sue stesse memorie. La famiglia non versava in floride condizioni economiche: in un documento di archivio, la donna supplica il duca per la condizione di miseria in cui si trovava nel 1679, quando il marito si era recato a Londra al seguito di Alfonso d’Este. E, comunque, Luigi studiò presso i Gesuiti, ricevendo un tipo di educazione che avrebbe lasciato un’impronta molto forte nel suo modo di concepire la professione e il teatro2.

Torniamo alla memoria autobiografica, che metteva in risalto la nascita dell’attore: a quattordici anni, il padre per distoglierlo dalla vocazione religiosa lo aveva avviato alla professione teatrale. Così nel 1690, Luigi calcava per la prima volta le scene della commedia dell’Arte, nel ruolo di terzo amoroso della compagnia, restando forte in lui il bisogno, anzi, con le sue parole, la necessità di erudirsi e di colmare i vuoti soprattutto nell’ambito della drammaturgia antica e moderna. A vent’anni si era già fatto un nome, ma recitando dove e come Riccoboni non diceva, così come taceva un fatto rilevante della sua vita, rivelatore anche della sua personalità e della sua costruzione double face. Vediamo di che cosa si tratta.

Nel 1696, il giovane, dopo quattro anni di esercizio dell’arte comica, indirizzava al duca di Modena, una lettera in cui lo supplicava di concedergli di lasciare il teatro e di ritirarsi in un monastero, preghiera già rivolta l’anno prima al conte Cesare Rangoni, protettore della compagnia del duca, evidentemente senza l’esito sperato. Luigi vi esprimeva non solo l’angoscia per un mestiere che portava dritto all’inferno, ma anche il disagio di stare a stretto contatto con attori e attrici, a suo dire, iniqui e senz’anima, che lo spingevano a cedere alle avances di una soubrette, Gabriella Gardellini, detta Argentina. Già deciso ad abbandonare quel mondo e a seguire la vocazione religiosa, apprendeva ora, con sempre maggiore inquietudine, che il primo amoroso della compagnia lo voleva per secondo, come in realtà accadde. Non solo, Luigi finiva proprio per convolare a nozze con la soubrette, che passava così al ruolo di seconda amorosa recitando in coppia con lui. I dieci anni trascorsi prima dell’incontro con Elena Balletti, cui si univa in matrimonio, una volta rimasto vedovo, nel 1706, erano riassunti quasi in una formula: il suo impegno in un teatro riportato, grazie a lui, all’onestà e ragionevolezza. E dunque anche Elena non poteva che essere ricordata come una ragazza dai costumi più che onesti, nonostante l’appartenenza a una famiglia di comici dell’Arte. Allo stesso modo, del loro unico figlio, Francesco Antonio, diventato un teatrante di grande successo, Riccoboni annotava di averlo fatto studiare presso i Gesuiti.

Quando nel 1698 il padre Antonio indirizzava al duca di Modena la supplica di potersi sostentare attraverso la vendita di prodotti medicamentosi, passando - come usava in quegli anni - da attore a «ciarlatano», Luigi assumeva il ruolo di capocomico. Non si sa molto di questo decennio, e lui stesso non vi si sofferma. Le uniche notizie certe riguardano l’aver fatto parte della compagnia di Teresa Corona Costantini, detta la Diana, che gli fece modificare il nome di Federico in quello di Lelio, poi suo nome d’arte, e l’aver recitato a Venezia quasi stabilmente dal 1703 al 1715. Nell’incompiuto Discorso della commedia all’improvviso (così chiamato da Irene Mamczarz che ha trovato il manoscritto e l’ha edito), rievocava i dodici anni passati a Venezia e le varie difficoltà in cui si era imbattuto nel voler modificare il repertorio della commedia dell’Arte, nel solco del mitizzato attore romano Pietro Cotta. Forse i due si erano conosciuti a Venezia, in cui orbitava anche Cotta che, come quasi tutti i comici dell’Arte, rappresentava commedie all’improvviso e tragicommedie o drammi. Nel 1679 aveva dedicato il suo Romolo a Vincenzo Grimani, poi nel 1697 aveva edito a Bologna e a Venezia la tragicommedia Peripezie di Alerame e Adelasia. Proprio agli inizi del Settecento, Cotta era entrato a far parte della compagnia Coppa che sottoscriveva un accordo con i Vendramin, proprietari del teatro San Luca, quindi Luigi potrebbe averlo conosciuto davvero3. Anche sull’attore Pietro Cotta, Riccoboni mantiene il silenzio nelle poche carte autobiografiche, ma non invece sul letterato amante del teatro, il marchese Orsi, ricordato con grande affetto, all’interno di un rapporto di reciproca stima e affezione, e soprattutto come colui che, per primo, lo aveva indirizzato allo studio e alla conoscenza del teatro. Non è esclusa la conoscenza di Cotta per mezzo del marchese bolognese, che organizzava recite nella sua residenza di Villanova e traduceva tragedie dal francese.

Giovan Gioseffo Orsi aveva avviato sul fronte italiano la querelle contro lo scritto anonimo del gesuita Dominique Bouhours con le Considerazioni sopra un famoso libro franzese, apparse a Bologna nel 1704. Era questo il clima che si respirava fra gli accademici italiani, in varie aree geopolitiche, un clima sempre più diffuso e che non trovava argomenti validi contro la supremazia della grande drammaturgia classica francese, rivendicata Oltralpe. All’interno di questo clima infuocato, maturava la tesi, ribadita con forza per tutto il secolo, dell’assoluta centralità del teatro, tanto che sembrava fosse una questione di vita o di morte dimostrare di aver avuto, per primi, un teatro dalle forme canoniche o regolari. Certamente l’augurio del presente era che si riuscisse a fare uno scatto in avanti, rispetto alla cosiddetta decadenza secentesca. Ciò avrebbe consentito agli Italiani di rivendicare non solo il primato della nascita nel Cinquecento dei teatri moderni, ma anche il valore di tragedie e commedie competitive rispetto alla perfezione di quelle dei cugini rivali.

La separazione fra i circuiti accademici del teatro dei dilettanti e quelli dei comici professionistici non era, tuttavia, così netta come si può pensare4. Nella realtà molte pratiche si mescolavano, agevolando circolazione, scambi, conoscenze, anche perché alcune compagnie, e in particolare quella di Riccoboni/Diana, recitavano all’improvviso non solo il repertorio dell’Arte, ma sempre più testi riadattati di autori che a loro volta li avevano mutuati dai drammi spagnoli. È il caso del riuso da parte di Riccoboni di commedie e tragicommedie, non prive d’inserti operistici, di Giacinto Cicognini, in cui predomina il gusto e l’influenza del teatro spagnolo, non disgiunti da mescolanze con quello di Molière. Non si conosce bene il repertorio della sua compagnia sino al 1706, perché le commedie poi pubblicate, dieci/quindici anni dopo, nel Nouveau Théâtre italien, rientrano nell’auto-rappresentazione di un attore dal gusto per i testi scritti e più incline al genere serio che a quello comico. Sarà bene tenere sempre a mente questa idea di sé coltivata da Riccoboni che, nel tempo, l’avrebbe trasmessa sempre all’esterno, anelando a incarnare il ruolo dell’attore drammatico che aveva avviato il teatro verso la regolarità e l’onestà dei costumi.

1706. Luigi sposa Elena: la svolta

Accanto a Orsi, una figura molto influente nella cultura di quegli anni era il modenese Muratori, che proprio nel 1706 pubblicava il trattato Della perfetta poesia italiana, le cui argomentazioni, volte al recupero di commedie e tragedie regolari utili rispetto ai costumi, furono tenute in grande considerazione. Non solo da Luigi, ma dalla stessa Elena, il cui ruolo non va sottovalutato nella svolta di Riccoboni. Anzi, Elena, figlia d’arte e letterata, condivideva le sue stesse ambizioni teatrali, e certamente le potenziò, coadiuvando il marito nell’allacciare rapporti fecondi con letterati di grido all’epoca. Tuttavia a lei non sarebbe andato neanche un tardivo riconoscimento nella memoria del 1746, dove Riccoboni si limitava all’accenno al loro matrimonio spacciato per primo, omettendo il precedente con Argentina.

Seguiamo la coppia Balletti-Riccoboni in azione. Per prima cosa, i due univano le forze, fondando una compagnia che forse sostituì la precedente della Diana nel contratto con la famiglia Vendramin per recitare al San Luca. L’accordo, fra i Vendramin e i Grimani, proprietari del teatro San Samuele, prevedeva che si potesse recitare anche in questo secondo teatro veneziano, oltre che in alcune piazze come Mantova, Milano, Vicenza, Verona. Da questo momento in poi, seguendo gli usi del tempo, Riccoboni avviava la stampa dei lavori che recitava, anche se non ne era l’autore. E li arricchiva di dediche a personalità di rilievo per richiedere, anche implicitamente, forme di protezione e nello stesso tempo ampliare la rete dei rapporti. Così nel giro di pochi anni, i Riccoboni entravano nella cerchia della Repubblica delle lettere − o diciamo la lambivano e incrociavano −, pur se sempre connotati come attori: i distinguo, la loro eccezionalità, erano tutti argomenti che ovviamente finivano coll’evidenziare che, alla fin fine, erano pur sempre dei comici.

Nelle dediche e argomenti dei testi pubblicati dal 1706 in avanti, Riccoboni manifestava già non certo i germi del futuro passaggio alla storiografia teatrale, quanto piuttosto la sua propensione all’intervento teorico, pur se maturato con l’esperienza della pratica scenica. Secondo alcuni studiosi, invece, con l’edizione delle tragedie e dei drammi rappresentati, Riccoboni intendeva crearsi un supporto al suo lavoro d’attore5: la differenza non è di poco conto nella visione complessiva della poliedrica figura di Luigi Riccoboni: attore e solo attore, che finalizzava tutto alla sua identità professionale, o attore che come un Giano bifronte aveva uno sguardo doppio e, dunque, una stessa duplice personalità? Dai documenti, scritti, lettere, emerge questa seconda ipotesi.

Nel 1706, ecco apparire, per prima, la traduzione in prosa del Britannico di Racine, tradotta, si ritiene, dallo stesso attore, con dedica a Nicolò Maria Pallavicini. L’anno dopo, a Bologna si aveva la stampa del Tito Manlio, adattamento dal dramma per musica di Matteo Noris, indirizzato a Lodovico Rangoni, e quella del Caio Marzio Coriolano di Pietro Pariati con dedica al conte Nicolò Tanara. Queste recite, documentate dalle stampe, s’intrecciano con altre: della Griselda, ispirata al dramma per musica di Zeno, del Principe geloso tratto da Cicognini, della Vita è sogno, miscuglio fra Cicognini e Calderón, e di varie altre. Sarebbe ingenuo, alla luce delle conoscenze ormai acquisite sulle pratiche sceniche, adottare uno schema evolutivo, a tappe: prima le recite, poi il passaggio ai testi stampati. Probabilmente, come l’autore nelle vesti di storico del teatro avrebbe dichiarato in seguito, anche la sua compagnia praticava il metodo dell’alternanza non solo fra la recitazione all’improvviso e quella più ancorata ai testi, ma anche fra generi diversi.

1710: la tragedia italiana in scena

Il vero salto, con la recita di tragedie «regolari», si realizzava nel 1710 grazie all’incontro, per mezzo di Vendramin, con Scipione Maffei, l’erudito amante del teatro che faceva la spola fra Verona, la sua città, con Venezia e Roma negli anni dei conflitti poetici e politici in Arcadia, acuiti dalla lunga guerra di successione spagnola. Con Maffei, Luigi ed Elena, diventata pastorella nell’accademia dell’Arcadia, rilanciavano le tragedie italiane del Cinquecento contro il primato dei Francesi, arrivando addirittura a rappresentare nell’Arena di Verona l’Edipo re tradotto da Orsatto Giustiniani. Nel proiettarsi verso il moderno, letterati e artisti guardavano all’antico, dai testi ai reperti, con il sogno di recuperare quanto di più civile e avanzato il passato offrisse. Maffei e i Riccoboni, che forse non attendevano altro, si lanciarono nell’avventura di riportare la tragedia italiana sulle scene, come per altro accadeva normalmente in Francia, e soprattutto a Parigi. Per questo, in qualunque modo siano state recitate, pur con tagli e modifiche rilevanti, restarono memorabili le recite della Sofonisba di Trissino, dell’Oreste di Rucellai, allora inedito e procurato dal letterato fiorentino Marmi, dell’Edipo re, della Semiramide di Manfredi, del Re Torrismondo di Tasso, forse della Cleopatra di Delfino, anch’essa allora ancora inedita6.

Il clima eroico celebrativo, alimentato dalle vittorie dell’eroe imperiale ma di origini italiche, Eugenio di Savoia, che combatteva a fianco del cugino Vittorio Amedeo e del generale inglese Malborough durante la guerra di successione spagnola, favoriva il ritorno al tragico e in particolare alle tragedie a lieto fine, come l’Ifigenia in Tauris e la Rachele di Pier Jacopo Martello (Teatro, 1709), rappresentate da Riccoboni con molto riscontro di pubblico in più piazze attorno al 1711. Anzi, l’attore curò la stampa dell’Ifigenia, dedicandola ad Apostolo Zeno, allora una delle massime autorità letterarie di Venezia, che, con Maffei e lo scienziato Vallisneri, aveva appena fondato il «Giornale de’ Letterati d’Italia». Maffei e Riccoboni si contesero, negli anni, la scelta di chi avesse deciso di rappresentare l’Ifigenia di Martello, la cui prima si svolse il 27 agosto 1711 nell’Arena di Verona. Verosimilmente, però, l’idea va attribuita a Maffei.

Nel corso dei suoi viaggi a Roma, Maffei aveva frequentato Martello, che vi risiedeva con la famiglia dal 1708, in casa di Gianvincenzo Gravina. Quest’ultimo, in lite con gli altri accademici arcadici e a un passo dallo scisma dell’Arcadia, avrebbe rievocato qualche anno dopo gli incontri e la lettura di alcuni passi delle sue tragedie. Anche Gravina era assoldato nel riscatto del teatro italiano con la scrittura delle Tragedie cinque, ma l’obiettivo fu mancato, perché - come dovette ammettere con imbarazzo lo stesso Maffei - le sue Tragedie, improntate a un registro giuridico, non potevano assolutamente venire incontro al pubblico ed essere messe in scena, e dunque il marchese dovette disimpegnarsi con l’amico.

Elena era riuscita nei ruoli di Ifigenia e Rachele, ma si trattava pur sempre di parti non ritagliate sulla sua figura, che lei interpretava con grande capacità, affascinando spettatori e scrittori. Ora occorreva un personaggio costruito su di lei. E questo arrivò con la Merope, al cui successo contribuì senz’altro la nostra più grande attrice di primo Settecento, circondata dall’aura di donna inarrivabile e di attrice colta e letterata. Merope trionfò non casualmente nella recita allestita il 12 giugno 1713 alla corte del duca di Modena, che era appena rientrata in città dopo i preliminari di pace che misero fine alla guerra di successione spagnola. Il successo di Merope, accolta a Verona e a Venezia, al teatro San Luca, con tributi straordinari, pur se orchestrati dallo stesso Maffei, s’intrecciava con il clima festoso della pace. Equilibri e legami si ricreavano negli Stati italiani o passati direttamente sotto gli Austriaci (il ducato di Milano e il regno di Napoli) o legati alla casa d’Austria, come Modena e in parte Venezia.

La prima edizione della tragedia, stampata già nel gennaio 1714, era affidata a Riccoboni che la dedicava alla Signora Chiara Barbarigo Vendramin, mentre Maffei ne allestiva una seconda più accurata con dedica a Rinaldo I duca di Modena. Tragedia senza amore e insieme tragedia eroica in cui, grazie al coraggio di Egisto, si restituiva al principe legittimo, in realtà a se stesso, il trono usurpato da Cresfonte: si duplicava così sulla scena quanto accadeva nello scacchiere europeo. Il vissuto politico di quel tempo rendeva gli spettatori e i lettori molto interessati a personaggi e vicende di successioni, trame e usurpazioni, cioè alla tragedia eroica che caratterizza il ritorno al tragico nel primo Settecento italiano. Ed ecco Riccoboni curare un’altra edizione, l’Artaserse (Venezia, 1714), tragedia di Giulio Agosti, già argomento del dramma per musica di Zeno e Pariati. Di notevole interesse la dedica assai sostenuta al duca Francesco Maria Pico della Mirandola, nel cui incipit Riccoboni dichiarava subito la sventura di essere nato comico, essendo rimasto il teatro l’ultima sacca di resistenza alla purgazione della poesia dall’enfasi barocca di Giambattista Marino. E ciò a causa della penetrazione del cattivo gusto portato dagli Spagnoli con commedie inverosimili, cui occorreva aggiungere le operette in prosa di Cicognini, autore che aveva dato il colpo di grazia alla tragedia.

Difficile dire se Riccoboni fosse veramente persuaso o ripetesse le idee dei letterati che lo avevano indirizzato verso il tragico (nella dedica ne menzionava tre senza fare i loro nomi, che, tuttavia, possono sciogliersi in Orsi, Maffei, Muratori): idee che costituivano il discorso sul teatro della Repubblica delle lettere italiana. Vedremo più avanti come alcune cose si modifichino nel tempo, ma intanto Riccoboni si lanciava nella traduzione dal francese della tragedia più nota e discussa del momento: il Cato di Joseph Addison, fondatore di «The Spectator» il foglio giornalistico che aveva rivoluzionato il sistema della comunicazione. Tragedia eroica da leggersi insieme al prologo scritto da Pope che auspicava il superamento dei conflitti fra whigs e tories. A due anni dal successo londinese, essa veniva proposta al pubblico veneziano nel 1715 con tagli e versi messi fra parentesi per espungere le allusioni politiche contro Cesare e soprattutto le scene crude, in particolare l’incontro di Catone con il corpo ferito a morte del figlio e la stessa morte in scena del protagonista7. D’altronde, come Riccoboni precisava, questo era l’uso dei comici: riscrivere per la scena il testo, adattandolo alle stesse esigenze delle compagnie8. Così − dichiarava sempre nell’avviso al «Cortese lettore» del Catone − aveva fatto per l’Artaserse e così per le antiche tragedie italiane, di cui annunciava l’imminente pubblicazione «accomodate all’uso presente del teatro». Aggiungeva, inoltre, che la stampa del Catone, che non voleva competere con la traduzione dell’eruditissimo Salvini, era legittimata dalla scena: dopo la recita, le sollecitazioni erano state tali da indurre Lelio a pubblicare la sua versione della bellissima tragedia inglese.

Riccoboni si riteneva, ed era da molti già considerato, il riformatore dei teatri italiani, ma non seppe resistere alla sirena di far fortuna a Parigi, meglio alla prospettiva di assumere con la sua stessa compagnia lo status di commedianti del re. Ovviamente pose e ottenne alcune garanzie, fra le quali il monopolio come compagnia italiana e la promessa della cancellazione del divieto, riguardante ancora gli attori in Francia, di ricevere i sacramenti. Nel frattempo, il fallimentare tentativo di portare sulla scena una commedia del Cinquecento, la Scolastica dell’Ariosto, contestata e fischiata dagli spettatori che pare si aspettassero Angelica e Orlando, gli rese meno doloroso il distacco. Forse, al momento della partenza, contava di ritornare; e difatti quindici anni dopo tentò di farlo, senza riuscirvi. Nella sua memoria autobiografica a Muratori, però, avrebbe sempre posto l’accenno su decisioni - fra le quali la stessa partenza per Parigi - prese al fine di potere abbandonare le scene: un altro tratto del profilo sfaccettato di Riccoboni, teatrante malgré lui, davvero geniale e singolare.

1716. Dall’Italia alla Francia: l’acquisto della parola

L’occasione arrivò, quando il duca Antonio Farnese gli propose di recarsi a Parigi, a seguito della richiesta del Reggente di avere una troupe di commedianti italiani, per riaprire all’Hôtel de Bourgogne il glorioso teatro della Comédie-Italienne, fatto chiudere da Luigi XIV nel 1697. Aveva inizio così la seconda vita di Riccoboni, secondo una parabola che anticipa quella di Goldoni. Salutato dai letterati italiani come il riformatore dei teatri, arrivato a Parigi, con Elena, Antonio Balletti, Francesco Materazzi, entrava in rapporto, grazie a una lettera di presentazione di Maffei, con il cosmopolita filosofo e letterato Antonio Conti, quando questi rientrò dall’Inghilterra. L’abate Conti aveva curato la pubblicazione di un testo di Martello, arrivato a Parigi nel 1713, testo molto significativo sul dibattito teatrale di quegli anni: L’impostore ossia Dialogo della tragedia antica e moderna, dove Martello tesseva le lodi dei «suoi» attori, i coniugi Riccoboni. La compagnia giunse a Parigi nella primavera inoltrata del 1716 e già nel giugno 1716 inaugurò con successo la riapertura dell’Hôtel de Bourgogne. Tanti i problemi pratici, sin da quello dalla lingua che obbligò Riccoboni a insistere su canovacci recitati all’improvviso in cui un forte rilievo era dato alla maschera di Arlecchino, la cui gestualità, chiamata anche − secondo la definizione presa in prestito da Cicerone − eloquenza del corpo, metteva in secondo piano la parola. A differenza di Elena, Luigi non parlò subito un buon francese e, per quanto attiene ad Arlecchino, temeva che il pubblico avesse ancora nella memoria la voce di Biancolelli e che, dunque, mal si adattasse a quella del nuovo Arlecchino, Tommaso Vicentini9.

I comici dell’Arte erano sì abituati a variare il repertorio, ma da circa dieci anni la compagnia di Luigi ed Elena si era cimentata in ogni genere di spettacolo con la percezione di un crescendo, di un traguardo da tagliare, quello cioè di riformare il teatro italiano. Ciò faceva sì che ai loro occhi la condanna dei canovacci dell’Improvvisa apparisse come una gabbia assai stretta. Forse nei registri del teatro e nelle annotazioni cronologiche – opera del magistrato Thomas Gueullette - delle pièces rappresentate, che attestano un ritmo veramente serrato, col ricambio di canovacci ogni due tre giorni sin dal maggio 171610, risiede la verità di una scontentezza precoce. Essa si manifestava già, a livello teorico, nell’articolata Prefaccio/Préface bilingue del Novo teatro italiano/ Nouveau théâtre italien (riedito, ampliato nel 1729 e nel 1733) del dicembre 1716.

L’esordio era stupefacente e disarmante, per le illusioni perdute che con candore Luigi esternava, e nello stesso tempo per l’esplicita dichiarazione che il teatro rappresentato a Parigi era di segno opposto a quello dei suoi progetti. Nello stesso tempo, la lunga Préface era il primo testo teorico di rilievo di Riccoboni che, libero dalla vigilanza, pur se amorevole, dei letterati italiani, esprimeva la sua poetica con prese di posizioni niente affatto scontate rispetto sia ai lettori italiani sia a quelli francesi. Un vero primo bilancio, in cui al centro di ogni ragionamento per un uomo di teatro vi era la necessità di piacere al pubblico. Sebbene costretto a rappresentare un ammasso di scene ridicole cucite insieme per muovere un riso sguaiato, secondo la sua opinione, il limite invalicabile posto era il rispetto dell’onesto: commedie sregolate sì, ma di buoni costumi. Fra gli esempi portati, alcune commedie erano state già sperimentate sulle scene italiane come La moglie gelosa o La figlia creduta maschio, tratta da Nicolò Secchi. Il tanto bistrattato Molière, in particolar modo da Muratori, era qui richiamato come autore di commedie di carattere, da preferirsi rispetto a quelle d’intrigo. Non mancava, però, un accenno obliquo al fatto che se le loro scene rischiavano di essere considerate come imitazioni di Molière, ciò era dovuto all’influenza che, da Boccaccio in poi, la letteratura e il teatro italiani avevano esercitato sul drammaturgo francese.

Fra i rilievi più interessanti, vi era la richiesta di essere dispensati dalla severità delle regole aristoteliche, abiti troppo stretti per chi faceva il teatro. E Riccoboni si spingeva più avanti nel portare l’esempio di un grande tragico, Corneille, che non aveva osservato in maniera miope le unità. Soltanto due erano i principi, anche rispetto ad Aristotele, di ogni poetica teatrale, da cui non si poteva derogare: la verosimiglianza e l’imitazione della natura. Nel definirsi un comico di professione, al quale la lunga pratica, unita allo studio, dava la legittimità di esprimere la sua opinione, Luigi aveva almeno trovato a Parigi la parola.

Come fare? Non solo Lelio

Tuttavia, per Riccoboni non era semplice rassegnarsi al ruolo di Lelio: così tornava a recitare la Merope, una prima volta, nel gennaio 1717, con un pubblico scelto, poi l’11 maggio con spettatori paganti. La casa dei Riccoboni era diventata, nel frattempo, il ritrovo in cui si riunivano molti inviati, letterati, musicisti soprattutto italiani, fra cui l’abate Conti, rientrato, nel marzo 1718, dal lungo soggiorno in Inghilterra. Nel salotto di Elena, Conti lesse, secondo una pratica abituale, l’abbozzo del Cesare scritto in Inghilterra, dove l’abate padovano aveva scoperto Shakespeare. Anche lui avrebbe avuto sempre parole di elogio per l’eccezionalità dei due bravi attori, diventando il destinatario di alcuni scritti della coppia: coperto nel caso di Luigi che ne avrebbe fatto l’interlocutore della Dissertation sur la tragédie moderne; esplicito nel caso di Elena, che gli avrebbe indirizzato due importanti lettere, l’una sul ritorno del grande Baron − criticato per la declamazione francese che comportava l’assenza di naturalezza − pubblicata in Italia solo nel 1736, ma composta attorno al 1720, l’altra sulla traduzione francese (1724) della Gerusalemme liberata di Tasso apparsa, come la prima, sempre nella Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici del Calogerà nel 173711.

In entrambe Elena Balletti trattava questioni teoriche riguardanti la poetica tragica in rapporto alla recitazione dell’attore. Quest’ultimo doveva ispirarsi al criterio della verisimiglianza e della naturalezza, ricondotte però sempre al ruolo impersonato; se quello di un sovrano, ad esempio, non poteva scadere in pose e gestualità quotidiane, perché non convenienti all’aspetto maestoso. Solo la conoscenza della storia, però, consentiva di distinguere i comportamenti degli eroi antichi da quelli moderni, e nel dir questo Elena si autoritraeva come l’interprete moderna delle eroine antiche, in dissenso dalla gestualità confidenziale di Baron. Nel complesso, a fronte di un’attività teatrale ed editoriale basata sul teatro comico, come ad esempio la continuazione, nel 1718, del Nouveau théâtre italien con l’uscita del secondo tomo, il divieto di recitare tragedie, in quanto monopolio della Comédie-Française, era vissuto con frustrazione da Luigi ed Elena, costretti a recitare soltanto come Lelio e Flaminia. Ciò non aveva impedito e non impediva a Riccoboni di adattarsi a modificare il repertorio, venendo incontro alle attese del pubblico che chiedeva la maniera dell’ancienne troupe della Comédie-Italienne con il soccorso di autori e attori francesi. Notevole e indicativo del suo senso impresariale, come evidenziato da De Luca, l’aver accettato che la troupe recitasse anche nei teatri forains, da cui proveniva Biancolelli figlio, già nell’ottobre del 1717 entrato nella compagnia12.

Dalla Préface del 1716 all’avvio del cosiddetto Discorso della commedia all’improvviso13, presumibilmente fra il 1721 e il 1722, Riccoboni assumeva sempre più l’abito del teorico della riforma, termine da lui espressamente usato nello scritto, laddove rievoca la sua attività teatrale in Italia («essendo io in quel tempo ripieno di questi pensieri di rifforma e di buona commedia»14), o quantomeno dell’attore che aveva conquistato la legittimità della parola.

Nel proemio, rivolto a Muratori, indicato come guida della riforma, giudicava bellissime le commedie italiane del Cinquecento, ma non utilizzabili per i cattivi costumi; inoltre mancavano commedie adatte all’uso, come invece erano le francesi. La difficoltà della riforma della commedia era imputabile anche ai mancati autori, diversamente dall’ambito tragico, al cui interno essa si era realizzata con la scrittura e la recita di tragedie antiche e moderne. Certamente è significativo il fatto che in un discorso sulla recitazione all’improvviso, Riccoboni parlasse, invece, così distesamente del tragico, criticando l’enfasi della declamazione francese, e sottolineando come l’attore in preda alla passione dovesse toccare il cuore dello spettatore, piuttosto che agitare lo spirito. I Francesi erano inoltre criticati per gli eroi romanzeschi, dominati dall’amore che Inglesi e Italiani avevano saputo espungere − come si vedeva nel Cato e nell’ancora ignota Morte di Cesare dell’abate Conti15 − e per i costumi di scena ridicoli, già irrisi da Martello nelDialogo della tragedia antica e moderna con il riferimento all’apparizione di Agamennone vestito da ballerino con un cappello di piume in testa. Riccoboni tornava sempre lì, alla rievocazione di un passato che gli procurava ogni sera a Venezia «mille batticuori» e grandi soddisfazioni. Mai terminato, il testo registra vari interventi sino al 1743 e oltre, in vista di una pubblicazione veneziana andata in fumo.

Nel settembre del 1720 la famosa pittrice Rosalba Carriera annota nel suo diario l’incontro a Parigi con il compositore Giovanni Bononcini, sicuramente in casa Riccoboni di cui era cognato, avendo sposato quest’ultimo Margherita Balletti, la sorella di Elena. La rete di rapporti di Bononcini e la sua pluriennale esperienza delle corti e dei teatri più importanti di Italia e di Europa giocheranno un ruolo importantissimo nei contatti di Riccoboni e nelle esperienze poi riversate nei suoi testi teorici e storiografici pubblicati nel decennio 1728-1738. Si tratta di una pista in parte nuova16, che ci apre una finestra molto interessante sulle competenze e i rapporti di Riccoboni non solo con la cultura e gli ambienti inglesi, ma anche con quelli viennesi e germanici. Rapporti che riguardano anche il geniale e inquieto François Riccoboni, che già nel 1724, quando era ancora studente al Collegio dei Gesuiti Louis-Le-Grand (era nato a Mantova nel 1707), indirizzava due componimenti a Giovanni Bononcini, in cui aleggiava il fascino per l’ambiente musicale inglese in cui era inserito lo zio17.

Come Luigi, anche Bononcini era nato a Modena. Molto giovane aveva esordito come operista a Roma, con grande successo, per poi passare al servizio dell’imperatore Leopoldo alla corte di Vienna dove era rimasto sino alla morte di Giuseppe nel 1711. Nel frattempo, si recava a Berlino voluto dalla regina Sofia Carlotta amante della musica degli Italiani. Rientrato in Italia, nel 1714, si esibiva a Roma, stringendo amicizia con il librettista Paolo Rolli, uno dei cosiddetti scismatici che nel 1711 si erano contrapposti, in nome di una poesia improntata all’eroismo e alla virtù all’accademia dell’Arcadia di Crescimbeni. I due si sarebbero ritrovati a Londra grazie ai rapporti con Richard Boyle, più noto come Lord Burlington che soggiornava in quei mesi a Roma. Nel caso di Bononcini il suo nome per dirigere la futura Royal Academy of Music − fondata negli anni 1718-1719 sotto gli auspici di Giorgio I − venne fatto anche dal modenese Giuseppe Riva, inviato della corte estense a Londra con un incarico diplomatico. Bononcini si muoveva fra Roma, Parigi, Londra e svolse, insieme a Riccoboni, un ruolo non secondario nelle trattative per organizzare scambi e intrecci fra l’Académie royale de musique e la Royal Academy di Londra18.

I rapporti di Riccoboni a Parigi non si restringevano, tuttavia, alla cerchia degli Italiani: sin dal suo arrivo, aveva contratto rapporti duraturi, basati sul supporto intellettuale, che andava dal prestito di libri alla correzione dei suoi lavori. Fra questi il magistrato Thomas Gueullette, l’abate Sallier, Nicolas Fréret traduttore della Merope di Maffei e vari altri; nel 1725 conobbe il duca di Mortemart, gentiluomo di camera del re, che aveva l’incarico di proteggere la Comédie-Italienne. Per servirlo nei suoi interessi bibliofili, Riccoboni riallacciò per vari anni a venire lo scambio epistolare con l’antico maestro modenese, al centro della Repubblica delle lettere italiane, ma con solidi rapporti Oltralpe: Muratori.

Dal sogno inglese all’Europa

Il 1723 è un anno importante per Riccoboni, coinvolto sempre più nel grande piano di lanciare l’opera italiana nelle due accademie, l’Académie royale de musique e la Royal Academy di Londra, come si evince, fra l’altro, dalle tante lettere che fra il 1720 e il 1723 Giuseppe Riva riceve. E se in quelle indirizzategli dal compositore e cantante Attilio Ariosti si parla di Bononcini e di Rolli, segretario dell’Accademia, nelle seguenti scritte dal collezionista Pierre Crozat a Riva viene fuori esplicitamente il nome e il ruolo di Riccoboni nelle trattative. Esse sfumarono a causa di disaccordi anche di carattere economico. Luigi era dunque ben inserito in un’ampia rete di rapporti con il mondo musicale professionistico, compositori, librettisti e cantanti, in molti casi anche amicali come ad esempio con Francesca Cuzzoni.

Sempre il 1723 era anche l’anno in cui, finita la Reggenza, la sua compagnia assumeva finalmente lo status di commedianti del re, con precisi obblighi fra cui quello di recitare in estate a Versailles e in autunno a Fontainebleau. Luigi, Elena e il figlio François si naturalizzavano francesi, segno che vedevano allontanarsi, e forse non lo volevano più, il rimpatrio.

Di fronte all’annuncio fatto nel paratesto del Catone, ora gli giungeva dall’Italia la notizia che il suo progetto di pubblicare le tragedie del repertorio antico e moderno rappresentate in Italia si era trasformato in realtà, ma non per opera sua, come aveva annunciato e sperato. Proprio nel 1723, presso l’editore di Verona Jacopo Vallarsi, era apparso il primo tomo della raccolta Il teatro italiano o sia scelta di tragedie per uso della scena e gli altri due sarebbero seguiti a ruota di lì al 1725. Ciò che ferì Elena e Luigi Riccoboni era la loro totale cancellazione dall’Istoria del teatro e difesa di esso di Maffei, curatore dell’intera opera che si apriva con l’Istoria. Sì, è vero, Maffei accennava alla compagnia di bravi comici poi andata a Parigi, mostrando di apprezzare la condiscendenza del capocomico a lasciarsi guidare: di più non concedeva. Nel tracciare la storia della nascita e della decadenza del teatro italiano, dopo la rovinosa caduta di quello latino e la rinascita cinquecentesca, due erano sostanzialmente le ragioni addotte da Maffei quali cause della decadenza secentesca: l’opera in musica che aveva rimpiazzato la tragedia, e la recitazione all’improvviso o commedia dell’Arte che aveva preso il posto delle commedie in versi. Pur condividendo alcuni punti, Riccoboni, nel rapporto agonistico che lo spingerà a scrivere, qualche anno dopo, l’Histoire du théâtre italien, avrebbe provato a tracciare un percorso in parte divergente.

Il 1724 era stato un anno ricco di promesse: finalmente l’attesa tournée a Londra, con lo spostamento della troupe per cinque mesi, su richiesta del re Giorgio I, stava per avverarsi, ma poi il progetto fallì. Erano anni che Riccoboni attendeva quest’occasione. La richiesta proveniente da Londra veniva incontro alle inclinazioni della principessa di Galles, Carolina di Brandeburgo-Arisbach, rimasta orfana a tre anni e cresciuta alla corte di Federico I di Prussia. Innamorata della musica italiana, era interessata a poter avere i comici italiani nel periodo della Quaresima, quando a Parigi non avrebbero potuto recitare. Nonostante le trattative non avessero avuto un buon esito, Riccoboni continuava a intrecciare rapporti con Londra, dove oltre Riva, vi erano tante presenze italiane, da Rolli a Bononcini ad Antonio Cocchi, il letterato e medico precocemente massone approdatovi nel 1723, dopo qualche mese di soggiorno a Parigi passato a stretto contatto con l’abate Conti. Allo stesso tempo, Riccoboni non rinunciava del tutto alla sua rimpianta identità di attore tragico. Non a caso nel 1725 in concomitanza con la recita, in presenza dell’ambasciatore Giovanni Claudio Rangoni e forse dell’abate Conti ancora a Parigi, pubblicava l’Andromaca di Racine, tradotta in versi italiani molti anni prima da alcuni nobili accademici italiani fra cui lo stesso Rangoni. La dedica era rivolta al generale Charles Mordaunt conte di Peterborough, allontanato dalla vita pubblica da Giorgio I e negli anni precedenti ambasciatore a Vienna nel 1711, proprio durante gli anni di Bononcini.

Nella dedica dell’Andromaca, Riccoboni esprimeva l’auspicio di poterla rappresentare a Londra nella sua lingua, l’italiano. Il vero motivo della scelta del dedicatario va cercato all’interno del mondo musicale. Fra il 1722 e il 1723 il conte di Peterborough aveva sposato segretamente la cantante Anastasia Robinson, nata in Italia ma di padre inglese, molto nota per essersi esibita in molte opere di Händel e soprattutto di Bononcini con cui aveva stretto un forte legame di amicizia. Per questo si era adoperata per far avere una pensione a Bononcini – che la ebbe di 500 sterline − presso la duchessa di Marlbouroug. Ciò avvenne dopo l’ultima grande stagione di Anastasia degli anni 1723-172419.

Luigi era perseverante: attese l’aprile del 1727 per potersi recare una prima volta a Londra, dove lo aspettavano Bononcini e Riva, che proprio in quello stesso anno pubblicava in inglese l’Advice to the Composers and Performers of Vocal Musick, dove denunciava, a suo dire, alcuni abusi di musicisti e cantanti. Come non sempre la musica vocale era al servizio delle parole − scriveva − allo stesso modo i compositori erano troppo arrendevoli alle richieste dei cantanti. Nell’affermare la necessità dell’intreccio degli strumenti in funzione della parte, Riva raccomandava ai cantanti lo studio di una pronuncia chiara delle parole e l’entrare nelle intenzioni dei maestri di musica20.

A Londra Riccoboni aveva l’opportunità di frequentare il teatro di Haymarket − dove proprio nel maggio si eseguiva l’ultima opera londinese di Bononcini, l’Astianatte − e i celebri teatri Drury Lane e Covent Garden. A contatto proprio con Bononcini, Rolli e Riva, Riccoboni pubblicava nel 1728 il capitolo in terza rima Dell’arte rappresentativa, un testo degno di grande interesse non certo per la fattura dei versi, ma per l’impianto e le finalità di pedagogia teatrale. E a Riva affidava una seconda edizione che apparve nello stesso anno: le loro idee combaciavano su molti punti, in particolar modo sull’importanza dello studio per apprendere la tecnica e complessivamente sul cosiddetto buon gusto.

La dedica del Dell’Arte rappresentativa a Lord Chesterfield, Gran Maestro della Loggia inglese insieme a qualche passo del testo sull’arte reale ha fatto pensare a legami con la massoneria21. Contiguità che non si possono escludere dati i rapporti di Riccoboni con Conti, Maffei, Fréret, e con lo stesso Antonio Cocchi e altri simpatizzanti «fratelli» della massoneria speculativa che nel 1717 aveva visto nascere a Londra la Gran Loggia su iniziativa di Jean-Théophile Desaguliers, ugonotto emigrato in Inghilterra dopo la revoca dell’editto di Nantes. La Loggia si dotava, nel 1723, delle famose Costitutions of Free Massons, stese dal pastore protestante James Anderson, tradotte e pubblicate fra gli anni trenta e quaranta in America e in Europa.

Legami e continuità avvalorati oggi da un prezioso documento rinvenuto da Emanuele De Luca, cioè una lettera indirizzata nel corso del 1735 da Riccoboni figlio a Charles Lennox II duca di Richmond, in cui François, nel chiedere la sua protezione, richiama quella già accordata al padre Luigi. Il duca di Richmond già Gran Venerabile della loggia inglese nel 1724 aveva poi presieduto a una seduta della loggia d’Aubigny presso il cabaret parigino di Landelle frequentato nel 1734 da Riccoboni figlio22.

È un intreccio che pone molti interrogativi sulla rete di rapporti e frequentazioni che si spiegano anche con la ricerca di protettori influenti da parte di attori, musicisti, letterati, senza ignorare che la dottrina della massoneria inglese apriva le porte al teatro, considerato, nella sua struttura architettonica, in continuità con il Tempio all’origine dell’arte muratoria. E comunque è forse il caso di ricordare che alcuni anni prima Charles Mordaunt aveva sfidato a duello proprio Lord Chesterfield perché espressosi in termini poco lusinghieri sulla moralità di Anastasia Robinson, difesa invece da Lady Montagu come esempio di virtù, ma poi le autorità britanniche riuscirono a evitarlo. Che Riccoboni, consigliato da Rolli, Riva e dallo stesso Bononcini, volesse cancellare l’omaggio precedente della dedica dell’Andromaca? Non lo si può escludere del tutto.

Riccoboni si recava una seconda volta a Londra per alcuni mesi, nel 1728, con l’incarico di agente informatore affidatogli dal cardinale di Fleury per sondare la tenuta dell’alleanza fra l’Inghilterra e la Francia, schierate su fronti opposti nella precedente guerra di successione spagnola. Le lettere che Riccoboni scriveva, coperto sotto il cognome della madre, Milioli (Nastasia Miglioli), lo rivelano un acuto osservatore dei maneggi e degli affari di stato, come dei più importanti uomini politici del momento: Robert Walpole e William Polteney entrambi whigs, avversi all’aristocratico e illuminato tory Bolinbroke, rientrato dalla fuga in Francia nel 172323.

Verosimilmente nel corso del 1726, aveva scritto l’Histoire du théâtre italien, con privilegio per la stampa del febbraio 1727, data del primo viaggio in Inghilterra: la dedica a Carolina, nel frattempo diventata regina d’Inghilterra, era poi aggiunta poco prima della stampa, Parigi 1728. Il volume si componeva dell’Histoire du théâtre italien, di un catalogo, dove erano enumerate le tantissime commedie tragedie del teatro italiano, e di una Dissertation sur la tragédie moderne. Anche in questo libro, poi riedito nel 1730 e 1731 in due volumi, Riccoboni, da un lato, vestiva i panni di paladino del teatro italiano, irritato da ciò che aveva osato scrivere nella sua fortunata Pratique du théâtre (1657) l’abate d’Aubignac, in sintonia con l’annosa querelle che si trascinava da decenni; dall’altro, riaffermava il rilievo dell’attore e del teatro nei confronti dei letterati.

Nell’Histoire si allontanava dallo schema di Maffei, rivalutando in parte la recitazione all’improvviso, indicata come un metodo che le compagnie teatrali avevano sempre praticato dalla fine del Cinquecento in poi; metodo legato al principio dell’alternanza in base al quale il repertorio di una stessa compagnia era fatto di commedie regolari e di canovacci recitati all’improvviso. Nella Dissertation sur la tragédie moderne e in Dell’arte rappresentativa la prospettiva restava ancorata al teatro canonico della tradizione, quella della tragedia e della commedia, sebbene l’avviso al lettore del poemetto recuperasse, in linea con l’andamento a zigzag dell’Histoire (prima decadenza a metà Cinquecento con le tragicommedie spagnole e la commedia dell’Arte; seconda sul finire del Seicento), le favole dei comici rappresentate con grande talento prima della scomparsa di bravi artefici verso la fine del Seicento. Nel dare precetti e norme sull’arte della recitazione, che doveva fondarsi sulla natura, sul vero e sulla ragione, ruoli ed esempi si riferivano solo all’ambito della commedia scritta e soprattutto della tragedia, che restava anche per Riccoboni il genere più alto all’interno di una visione gerarchica del mondo artistico e letterario.

D’altronde neanche nel cosiddetto Discorso della commedia all’improvviso, Riccoboni riusciva a separarsi dal discorso sul tragico e sul comico riformato. Certamente in questa direzione non era solo, anzi, era assolutamente partecipe del trend fatto di paradossi destinati a cifrare le poetiche del comico nel corso di tutto il secolo, anche oltre i confini della penisola. Funerale ed elogio di Arlecchino si intrecciavano e rincorrevano, senza una persuasiva sintesi, in tutti i sostenitori della riforma, fondata su alcuni principi quali la moralità, l’utilità, il serio, il sorriso. E tuttavia il «vero» comico era poi indicato in quello della commedia all’improvviso24. Con l’uscita nel 1728 dell’Histoire, volume comprensivo in alcuni esemplari anche del Dell’arte rappresentativa, l’immagine di Riccoboni si andava mutando, soprattutto presso il mondo culturale parigino, anche grazie alle polemiche e agli attacchi provenienti della vivace penna giornalistica dell’abate Desfontaines. Riccoboni aveva osato attaccare la drammaturgia classica francese con i suoi mostri sacri come Corneille e Racine, ridicolizzare i costumi e la declamazione dei più grandi attori viventi come Baron. Lelio si rendeva conto, tuonava Desfontaines - nell’anomima, si fa per dire, Lettre d’un comédien françois au sujet de l’Histoire du théâtre italien écrite par M. Riccoboni, dit Lelio, apparsa a tamburo battente nel 1728 – che viveva e lavorava a Parigi? Un mese dopo Riccoboni, travestito sotto un’altra Lettre anonima, che fingeva un’identità francese, replicava, affermando che l’autore dell’Histoire aveva voluto difendere l’Italia dalle accuse di d’Aubignac e dell’abate Dubos. E rivelava che l’autore, cioè lui stesso, aveva fatto leggere il testo all’abate Desfontaines, ottenendone l’approvazione. Nella Lettre d’un comédien françois Riccoboni e Rolli, l’uno a Parigi, l’altro a Londra, erano accomunati per il loro zelo come detrattori del teatro francese, tanto che Rolli nell’Examen sur la Poésie épique de M. de Voltaire aveva osato sostenere che le commedie italiane valessero ben più delle tragedie francesi25.

Nel 1730 compariva, quasi in sordina, l’anonimo Discours critique sur la tragédie françoise, et sur l’habillement des acteurs, contenant quelques remarques particulières sur la Tragédie Italienne. In maniera insolita, l’approvazione e il privilegio dati allo stampatore Jacques Chardon erano stati concessi rispettivamente nell’ottobre e nel novembre 1728: si trattava di una «permission simple» dalla durata di soli tre anni, dunque l’opuscolo nasceva già con un tempo ridotto a causa del ritardo, forse voluto, accumulato per la stampa. Si fingeva che fosse una traduzione dall’italiano per sviare un dato inequivocabile: la paternità di Luigi Riccoboni. Il contenuto, infatti, era una parafrasi puntuale della Dissertation de la tragédie moderne con una leggera accentuazione critica verso la tragedia francese. Non sappiamo se sia la prima redazione della Dissertation o se invece non ne sia una seconda − ipotesi più probabile −, dove Riccoboni, da una condizione più libera e nascosta dall’anonimato, si lasciava andare a un linguaggio più colorito, pur ripetendo le stesse cose26.

Il 1729: l’abbandono delle scene

Nella memoria spedita a Muratori, Riccoboni si dilungava sul lusinghiero incarico diplomatico svolto a Londra, vantandosi a ragione della «fortuna incontrata nella di lui missione», che l’aveva incoraggiato a chiedere un «impiego onorevole e lucrativo»27, al fine di abbandonare le scene. Ma le promesse del cardinale de Fleury furono disattese. Intanto, però, trovava il coraggio, nell’agosto del 1728, di proporsi al duca di Modena al posto del marchese Lodovico Rangoni, il cui stato di salute non lasciava molte speranze. D’altronde, scriveva, lo stesso marchese l’aveva scelto come suo agente, appena arrivato a Parigi; anche questa richiesta cadeva ovviamente nel vuoto e, d’altronde, come poteva sperare un attore di avere un incarico diplomatico alla luce del sole28? Intanto il 6 marzo 1729 annunciava a Muratori il ritiro dalle scene, contando di risiedere ancora a Parigi, e il mese successivo chiedeva alle autorità francesi che gli fosse consentito, insieme alla moglie e al figlio, di lasciare il teatro. Che cosa pensavano di fare?

François Riccoboni si recava in Belgio, intrattenendo rapporti con il poeta Jean-Baptiste Rousseau, condannato all’esilio dalla Francia per la composizione di versi satirici29. Dopo vari giri che avevano toccato anche Vienna, lo scrittore si era stabilito a Bruxelles, dove l’estate del 1730 era raggiunto da Luigi. Quest’ultimo aveva avviato con Rousseau lo scambio epistolare sin dal secondo soggiorno londinese, quando gli aveva spedito l’Histoire du théâtre italien con una lettera di accompagnamento in cui si presentava scherzosamente come un comico ignorante e privo di nozioni letterarie. L’abboccamento funzionò, perché la lettera terminava con due parole di saluto da parte di Bononcini e di Giuseppe Riva. Riccoboni gli riscrisse nel giugno del 1730, ma già il poeta aveva incaricato, nel luglio 1729, l’amico Claude Brossette di correggere una sua lunga lettera in difesa dell’Histoire du théâtre italien dagli attacchi di Desfontaines, in vista di una pubblicazione30. Lo scambio fra la Lettre de M. Rousseau à M. Riccoboni e la Réponse de Riccoboni apriva, così, il secondo tomo della riedizione dell’Histoire du théâtre italien, già approntata nel corso del 1730. Nella Préface Riccoboni dichiarava che avrebbe usato il linguaggio della verità, anche a costo di rendersi inviso alle due nazioni, Italia e Francia. D’altronde, aveva ben poco da rischiare all’interno della Repubblica delle lettere, di cui in fondo non faceva veramente parte. Tuttavia era quasi costretto a negare che nel Dell’arte rappresentativa avesse voluto criticare la recitazione di Baron, elogiata dalla Lettre di Rousseau. Evidentemente questa era la condizione per poter avere il sostegno e l’apprezzamento pubblico di un poeta riconosciuto e stimato non solo all’interno della letteratura francese.

È vero comunque che la lingua batte dove il dente duole: anche qui, nel secondo tomo, poco o nulla sulla commedia all’improvviso, di fatto la sua più corposa e duratura pratica teatrale, almeno dal punto di vista quantitativo, e al suo posto un esame critico di molte tragedie e commedie italiane. Chissà, forse la rivalità con i tre tomi del Maffei lo spingeva a questo, oltre al voler dimostrare l’esistenza di una prestigiosa tradizione italiana, pur non esente da difetti qui messi in luce.

In febbraio in visita a Parigi il duca di Modena lasciava un dono pecuniario alla Comédie-Italienne, diventando il tramite di un nuovo incarico che spingeva la famiglia Riccoboni a partire alla volta di Parma, dove arrivava alla fine dell’anno. Il duca Antonio Farnese, che nel 1728 aveva sposato Enrichetta d’Este, l’aveva invitato a gestire il teatro ducale. L’anno dopo, probabilmente sempre grazie ai contatti mantenuti con gli Italiani, fra Modena, Bologna e Venezia (Orsi, Cesare Rangoni, l’abate Conti), era stampata a Venezia presso Cristoforo Zane la traduzione italiana della Dissertazione sopra la tragedia moderna di Luigi Riccoboni, con dedica non firmata al nobile veneziano «Sua Eccellenza il Signor Lorenzo Donado». Pronto a ritornare in patria, forse in questi mesi, nel corso del 1730, Riccoboni acconsentiva a far stampare l’anonimo Discours critique sur la tragédie françoise in attesa da quasi due anni: cosa poteva più importargli delle minacce dei Francesi? la meta era ormai l’Italia.

Per ironia della sorte, dopo qualche mese, Antonio Farnese moriva nel gennaio 1731 e i tre erano costretti a rientrare a Parigi, dopo quasi un anno di assenza, nel dicembre 1731. Elena e François riprendevano a recitare, anche se la prima dovette accontentarsi di ruoli secondari, anche perché già da tempo surclassata dalla cugina Silvia che aveva sposato nel 1720 il fratello di Elena, Antonio Balletti31.

Nella memoria Riccoboni rievoca l’offerta assai vantaggiosa fattagli nel 1733 da Michele Grimani per dirigere a Venezia il teatro San Giovanni Grisostomo: ma ormai il tempo del Lelio attore e capocomico era scaduto. Lasciate le scene, Riccoboni pensò seriamente di poter intraprendere il mestiere di autore e traduttore di edizioni e libri: oltre a curare la terza edizione in otto volumi del Nouveau théâtre italien uscita nel 1733, avviava una seria riflessione sul comico, partendo da Molière, il grande escluso del Della perfetta poesia italiana del maestro Muratori, che vi aveva dedicato alcune pagine segnalate nella rubrica del cap. VI sotto il titolo «Quanto dannoso a’ costumi Moliere» (t. 2, libro 3). La via verso l’affrancamento dai letterati italiani, che già aveva dato i suoi frutti grazie al distacco storiografico da Maffei, era sempre più tracciata. Contemporaneamente portava avanti l’Esame del teatro intorno alla commedia che voleva sottoporre a Muratori, cui indirizza varie lettere, accennando a questo lavoro scritto in italiano e che poi inviò a Venezia per una stampa mai avvenuta.

Secondo Courville l’Esame era l’originario progetto di una riflessione sul comico poi mutatosi nel ben più impegnativo libro del 1736, le geniali Observations sur la comédie et sur le genie de Molière, ma la tesi di Sarah Di Bella è assai più persuasiva: l’Esame nasceva dal già intrapreso e più volte rimaneggiato lavoro che Mamczarz ha trovato e pubblicato: il Discorso della commedia all’improvviso32. Nel 1732, il progetto di un libro che proponesse una poetica del comico, fondata sull’esemplarità in positivo di Molière, era a buon punto, tanto che Rousseau ne scriveva all’amico Brossette. Nel frattempo Maffei arrivava a Parigi e i dissapori fra i due esplodevano in una polemica indecorosa che sfociò nel Mérite vengé, in cui sempre Maffei affidava ad altri un attacco sul ruolo marginale di un povero commediante nel successo della Merope e più in generale rispetto al rilancio del teatro tragico del 1710-1715. La risposta di Riccoboni, in una Lettre à l’abbé Desfontaines non si faceva attendere, come neanche la replica per mano di Giulio Cesare Becelli che faceva stampare la Lettera ammonitoria contro Lelio nel 1736.

Era lo stesso anno in cui apparve uno dei testi teorici più importanti di Riccoboni: le Observations che segnavano il vero passaggio da una prospettiva nazionale (la difesa del teatro italiano), che Riccoboni aveva comunque sin qui sostenuto, a una dimensione europea. In questo percorso un ruolo positivo l’avevano giocato i contatti con Rousseau: non a caso era stato lui nella sua Lettre pubblicata nel secondo tomo dell’Histoire a dare una lettura opposta a quella dei letterati italiani su Molière. Pur se scritte con un registro comico, dunque per suscitare il riso, le commedie di Molière intendevano istruire e correggere i costumi degli uomini. Nella Préface alle Observations, Riccoboni definiva le commedie di Molière come la più eccellente pratica scenica del comico e della commedia, da considerarsi come un’ottima guida per la scrittura drammaturgica. Nelle Observations, inoltre, Riccoboni correlava la commedia in generale al variare, nel tempo e nello spazio, dei tempi e dei costumi. Ciò significava aprirsi a nuovi confronti, rivedere i propri pregiudizi, leggere più in profondità i testi e capire che lo stesso Molière si era dovuto misurare con lo stato del teatro preesistente, avviando una riforma graduale del comico. Il vero e grande risultato era la creazione di commedie costruite sull’intrigo, che sembrava scaturisse dal caso, e sui caratteri o passioni che, quanto più generali, tanto più erano in grado di toccare il cuore. Solo così il comico di situazione e di sentimento diventava eterno: a questo esito era giunto Molière in molte sue commedie.

La pubblicazione di questo testo non fu indolore nei rapporti con Muratori, al quale l’anno dopo, nel 1737, Riccoboni indirizzava la Lettre sur la comédie de L’école des amis di Nivelle de la Chaussé, nella quale proponeva all’attenzione dell’antico maestro un nuovo genere di commedia, che avesse come protagonisti personaggi alti, ma non rappresentativi del potere, tradizionale appannaggio di una tragedia violenta, ormai desueti. E se non poteva non ricordare Molière anche in questa sede, si dichiarava certo che lo stesso autore francese avrebbe condiviso la nuova linea fatta di personaggi di alto rango e di una commedia che suscitava il pianto accanto al riso. In particolare L’École des amis aveva fatto trionfare a teatro le lacrime: di qui alla prefazione di Goldoni alla Pamela contro gli eroi tragici dall’iperbolica vista il passo era breve.

Il metodo comparato e l’ultima utopia

Ormai l’autore Riccoboni, immerso nel mercato libraio, era lanciatissimo: solo un anno dopo uscivano le Réflexions sur les differents théâtres de l’Europe, con il permesso di stampa datato gennaio 1738. Del volume facevano parte anche le Pensées sur la déclamation, una sorta di riscrittura, su alcuni punti, del Dell’arte rappresentativa con l’occhio rivolto non semplicemente all’attore, ma per l’appunto alla Repubblica delle lettere. Le Réflexions erano senz’altro un libro all’avanguardia, per il felice equilibrio raggiunto fra difesa della cultura nazionale e apertura a una prospettiva europea, che prendeva in considerazione teatri ancora poco noti, come quelli inglesi e ancor più olandesi e tedeschi. Nell’avviso al lettore, faceva sì un accenno a un lavoro ancora in fieri sulla riforma del teatro, il futuro De la Réformation du théâtre, ma lo posponeva alla necessità di una conoscenza storica e comparata: ottica con cui aveva scritto le Réflexions. Improntata al metodo della congettura basata su dati e documenti, la ricostruzione della nascita del teatro presso le varie nazioni era uno dei criteri adottati, insieme all’uso di un’idea di teatro assai comprensiva, in cui confluivano le diverse pratiche, dalle rappresentazioni sacre alle tragedie recitate nelle corti al teatro venale dei comici dell’Arte o dell’opera. Di ogni nazione, inoltre, Riccoboni dava un quadro il più possibile esauriente, che teneva conto del teatro materiale, delle scenografie, dei metodi di recitazione degli attori. Per primi analizzava il teatro italiano e quello spagnolo, perché non si poteva contendere loro il primato temporale della nascita del teatro; al centro poneva quello francese, facendo risaltare come solo dalla metà del Seicento avesse raggiunto un livello così alto di perfezione.

Le pagine più nuove erano quelle dedicate al grande Shakespeare in cui si mostrava assai più duttile di un Voltaire nel comprendere il rifiuto degli Inglesi delle regole, dovuto non alla loro incultura o all’arretratezza, ma a una scelta consapevole. Non tutta era farina del suo sacco, e d’altronde come avrebbe potuto parlare di teatri mai visti e di testi di cui ignorava la lingua? È quanto avrebbe confessato candidamente in una lunga lettera del 1741 al celebre attore tedesco Johann Christoph Gottsched che gli aveva fatto l’onore di inserire, nel paratesto del suo Cato, l’Histoire du théâtre italien accanto ai testi più alti della drammaturgia francese, al Théâtre des Grecs di padre Brumoy e, sul versante italiano, al Paragone della poesia tragica italiana con quella di Francia di Pietro Calepio e all’edizione del 1730 del Teatro di Maffei. Verosimilmente se, fra altri, Rousseau aveva potuto fargli avere alcune memorie sul teatro olandese, quelle sul teatro austriaco e tedesco gli erano state procurate da Giuseppe Riva che dal 1729 aveva avuto un secondo incarico diplomatico che lo aveva portato a Vienna. Da lì restava sempre in contatto con gli amici italiani a Londra e soprattutto con Muratori di cui nella giovinezza era stato segretario.

Nel 1740 le Réfléxions erano riedite ad Amsterdam, mentre ad attestare la notorietà raggiunta anche nell’Europa continentale, l’anno dopo compariva la loro traduzione con un lunghissimo titolo che riportiamo, perché fa comprendere sia l’interesse del volume sia la sua confezione: An Historical and Critical Account of the Theatres in Europe, viz The Italian, Spanish, French, English, Dutch, Flemish, and German Theatres. In which is contain’d A Review of the Manner, Persons and Character of the Actors ; intermix’d with many Curious Dissertations upon the Drama. Together with Two Celebrated Essayes : viz An Essay on Action, or The Art of Speaking in Public : And A Comparison of the Ancient and Modern Drama, By the famous Lewis Riccoboni of the Italian Theatre at Paris33.

Come si legge, il libro, che si apriva con la traduzione delle Pensées sur la déclamation, diversamente dalle Réflexions, segno del respiro europeo dato alle Pensées, comprendeva anche la traduzione della Dissertation sur la tragédie moderne, posta subito dopo la trattazione del teatro tedesco. L’Account era dedicato a Charles Fleetwood, l’importante impresario del Drury Lane ed era arricchito da una prefazione del traduttore che in più punti si prendeva molte libertà, sostituendo ad esempio le citazioni da Racine con quelle di Shakespeare nella versione delle Pensées sur la déclamation. D’altronde come scriveva l’anonimo traduttore, nella dedica e nella prefazione, sostenendo in più punti la centralità del teatro e la sua corrispondenza con i costumi delle nazioni, il teatro inglese aveva il suo monumento nel genio di Shakespeare. Si trattava di un’operazione condotta in sinergia con Riccoboni che ci conduce verosimilmente al circolo di Paolo Rolli. Ci auguriamo che un giorno si possa conoscere il nome del traduttore che esordiva nella prefazione con il tracciare un breve ma significativo profilo di Riccoboni, egualmente distintosi come attore e come critico del teatro, del quale era riuscito a dare una tale conoscenza da potersi considerare una vera scienza del teatro.

Lelio ne aveva fatta di strada. Parlando di lui, gli amici lo dipingevano sempre più immerso in pratiche religiose e in attesa della fine nel timore di Dio. Certamente fa un certo effetto leggere la sua ultima opera De la réformation du théâtre pubblicata nel 1743, dove tratteggiava un teatro sovvenzionato dallo stato e basato su rigidi costumi, quasi un ritorno a Muratori, anzi ai Padri della Chiesa. D’altronde nella prefazione non negava la sua buona sorte, perché pur essendo vissuto in un ambiente dai costumi non del tutto castigati, era riuscito a salvarsi dalla immoralità. Incredibilmente poi nel corso del libro segnalava fra i luoghi della corruzione proprio i teatri e gli spettacoli, frequentati dai giovani appena quindicenni. Non voleva, no, l’eliminazione del teatro, ma la riforma che proponeva nel segno dello stato e della virtù cristiana era espressione di un rigore e rigidità quasi maniacali. Non a caso Muratori gli chiedeva nel 1746 la memoria autobiografica per un libro sugli uomini illustri di Modena: anche Luigi Riccoboni oramai poteva entrane a far parte.

Dei suoi ultimi anni, si sa poco. Studiava, viveva in una dignitosa parsimonia, preso da pratiche devozionali, le quali non l’allontanarono, però, del tutto dal suo manoscritto sul teatro italiano, su cui intervenne più volte, senza riuscire a finirlo e a pubblicarlo. Elena si era ritirata dalle scene nel 1752, un anno prima della scomparsa del compagno di tutta la vita, che si spense nel 1753. Aveva settantasette anni e ne aveva passati trentasette a Parigi, più della metà, senza essersi mai liberato dalla nostalgia, che lo faceva curvare sui fogli scritti nella sua lingua materna, per la quale, come ancor più che per la francese, chiedeva sempre il soccorso agli amici letterati. Era stata una disgrazia nascere comico, aveva scritto.

Beatrice Alfonzetti

Bibliografia essenziale

Opere: Mss. Lettere: al duca di Modena, Archivio di Stato; a L. A. Muratori Arch. Murator., Bibl. Estense, Filza 76; varie: Autografoteca Campori, ivi, n. 12; Th. Gueullette Bibliothèque de l’Opera; Novo Teatro Italiano/ Nouveau Théâtre Italien, Paris, Coustelier, 1716-18, 1 vol. e 2 vol.; Paris, Flahault, 1723, 3 voll.; Paris, Briasson, 1729 e 1733, 8 voll.; Histoire du Théâtre Italien, Paris, Delormel, 1728; Paris, Cailleau, 1730-1731, 2 voll., rist. anast., Torino, Bottega d’Erasmo, 1968; Dell’arte rappresentativa, Londra, 1728, ivi; 2° ed., Londra, 1728; Lettre écrite au sujet de la Critique du comédien François…, Paris, 1728; Dissertazione sopra la Tragedia moderna, trad. it., Venezia, Zane, 1729; Observations sur la comédie et le génie de Molière, Paris, Pissot, 1736; Lettre sur l’École des amis, Paris, Prault, 1737; Lettre de M. Riccoboni à M. l’Abbé Desfontaines sur le Mérite Vengé, Paris, 1737; Réflexions sur les differents théâtres de l’Europe, avec les Pensées sur la Déclamation, Paris, Guerin, 1738, trad. ingl., London, Waller and Dodsley, 1741; ripr. anast. Bologna 1979; De la Réformation du Théâtre Paris 1743; ripr. anast. Bologna 1969, Gèneve 1971; Discorso della Commedia all’improvviso e scenari inediti, a cura di I. Mamczarz, Milano 1973.

Fonti e bibliografia. F. e C. Parfaict, Dictionnaire des théâtres de Paris, Paris 1756, Slatkine Repr., 1967; A. Parisi, Luigi Riccoboni (a proposito di un carteggio inedito con L. A. Muratori, Atti e Memorie della R. Dep. di Storia Patria per le prov. modenesi, VIII, Modena 1933, pp. 234-276; Th. Gueullette, Notes et souvenirs sur le Théâtre Italien au XVIII siècle, publiées par J.-E. Gueullette, Paris, 1938, Gèneve, Slatkine Repr., 1976; X. De Courville, Un artisan de la rénovation théâtrale avant Goldoni. Luigi Riccoboni dit Lélio chef de troupe en Italie (1676-1715), Paris, 1945, Repr. Genève 1967; Id., Un apôtre de l’art du théâtre au XVIII siècle. Luigi Riccoboni dit Lélio to. II (1716-1731). L’expérience française, Sabine Zlatin, 1967; La leçon, to III (1732-1753), Paris 1958; G. Attinger, L’Esprit de la Commedia dell’arte dans le théâtre français, Paris, Societé d’Histoire du théâtre, 1950; C. Varese, Luigi Riccoboni: un attore tra letteratura e teatro, in Id., Pascoli politico, Tasso e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 225-239; Cl. D. Brenner, The Théâtre italien. Its repertory, 1716-1793, Los Angeles, UniversitY of California Press, 1961; I. Mamczarz, L’improvisation et les techniques du jeu théâtral dans la Commedia dell’arte, in «Revue d’Estetique», 1977, n. 1-2, pp. 113-138; G. Boquet, La Comédie Italienne sous la Régence: Arlequin poli par Paris (1716-1725), in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», XXIV, (1977), pp. 189-214; A. Calzolari, L’attore tra natura e artificio negli scritti teorici di Luigi Riccoboni, in «Quaderni di teatro», 1985 n. 29, pp. 5-17; G. Luciani, Le compagnie di teatro in Francia nel XVIII secolo, ivi, pp. 18-29; S. Cappelletti Luigi Riccoboni e la riforma del teatro. Dalla commedia dell’arte alla commedia borghese, Ravenna, Longo, 1986; G. Guccini, Per una storia del teatro dei dilettanti, in Il teatro italiano nel Settecento, a cura di Id., Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 177-203; C. Alberti, La scena veneziana nell’età di Goldoni, Roma, Bulzoni, 1990; P. Trivero, Luigi Riccoboni, detto Lelio, non solo attore, in «Franco italica», (1992), n. 1, pp. 101-118; Ead., Le riscritture sceniche di Riccoboni, in Riscrittura, intertestualità, transcodificazione, Pisa, TEP,1992, pp. 301-316; B. Alfonzetti, Riccoboni vs Lelio. Arlecchino o il teatro che non si trova, in Arlequin et ses masque, Dijon, 1992, pp. 93-106; Ead., Un Discours critique sur la tragédie françoise: il M*** è Luigi Riccoboni?, in «Franco italica», (1993), n. 3, pp. 57-83; R. Tessari, Teatro e spettacolo nel Settecento, Bari, Laterza, 1995; B. Alfonzetti, Memoria e memorie teatrali in Luigi Riccoboni, in Memorie di Goldoni e memoria del teatro, a cura di F. Angelini, Bulzoni, Roma 1996; S. Di Bella, Pragmaticamente verso la teoria: le lettere di Luigi Riccoboni a Lodovico Antonio Muratori, in «Teatro e Storia», XVII, 2002-2003, pp. 427-460; B. Alfonzetti, Paradossi del comico da Riccoboni a Goldoni e oltre, in Il comico nella letteratura italiana. Teorie e poetiche, a cura di S. Cirillo, Roma, Donzelli, 2005; O. Forsans, Le théâtre de Lélio: étude du répertoire du Noveau Théâtre Italien de 1716 à 1729, Oxford, Voltaire Foundation, 2006; V. Gallo, Dell’arte rappresentativa di Luigi Riccoboni: pedagogia e critica di un comico italiano a Parigi, in L. Riccoboni, Dell’arte rappresentativa, « Les savoirs des acteurs italiens ». Collection numérique dirigée par Andrea Fabiano, Paris, IRPMF, 2008, pp. 3-48; S. Di Bella, L’expérience théâtrale dans l’œuvre théorique de Luigi Riccoboni, Paris, Champion, 2009; E. De Luca, Il repertorio della Comédie Italienne di Parigi (1716-1762), « Les savoirs des acteurs italiens ». Collection numérique dirigée par Andrea Fabiano, Paris, IRPMF, 2011; E. De Luca, « Un uomo di qualche talento ». François Antoine Valentin Riccoboni (1707-1772): vita, attività teatrale, poetica di un attore-autore nell’Europa dei Lumi, Pisa-Roma, Serra, 2015, B. Alfonzetti, Le Observations sur la comédie et sur le genie de Moliére di Riccoboni: il comico prima di Goldoni, in Goldoni “avant la lettre”: esperienze teatrali pregoldoniane (1650-1750), a cura di J. Gutierrez Carou, Venezia, lineadacqua, 2015, pp. 89-99; Ead., Riccoboni, Luigi Andrea, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Treccani, 2016, vol. 87; Ead., Il teatro spagnolo nelle Réflexions historiques et critiques sur les differents théâtres de l’Europe di Luigi Riccoboni, in Goldoni «avant la lettre»: drammaturgie e pratiche attoriali fra Italia, Spagna e Francia (1650-1750), a cura a cura di Javier Gutiérrez Carou, Francesco Cotticelli, Irina Freixeiro Ayo, Venezia, linea d’acqua, 2019, pp. 141-151

Introduzione §

Le Réflexions sur les differents théâtres de l’Europe sembrano nate quasi per caso, al posto di un altro libro che Riccoboni aveva in mente di scrivere, come emerge da alcune lettere indirizzate a Ludovico Antonio Muratori. Apparse nel 1738, l’ideazione delle Réflexions rimonta almeno a quattro anni prima, quando l’abate modenese, comprensibilmente preoccupato che il suo beniamino volesse lanciarsi addirittura nella scrittura di una storia di casa Farnese, lo invitava a rivolgere altrove la sua attività critico-storiografica.

È quanto si apprende dalla risposta dal tono quasi mortificato del già affermato teatrante, sempre rispettoso di fronte all’inarrivabile dottrina del suo concittadino modenese. Ormai deciso a farsi un nome con l’attività editoriale, Riccoboni apriva un vero cantiere work in progress di scritture che andavano in più direzioni, dalla teoria teatrale alle traduzioni dallo spagnolo al francese di romanzi e commedie. Non pago dei due volumi dell’Histoire du théâtre italien, a un certo punto intravedeva uno spiraglio anche nel mercato delle memorie di famiglie celebri. E così sottoponeva il suo ambizioso disegno a Muratori nella lettera del 28 gennaio del 1734:

Voglio scrivere in lingua francese l’historia del Ducato di Parma e particolarmente dei duchi di quello: Bisogna che tocchi alla sfuggita l’origine della casa Farnese, ma non tanto conciso però che sieno ommessi i gran fatti e gli impieghi illustri di quei Farnesi che precederono Paolo III. Da questi voglio cominciare distesamente a descrivere tutti i successori sino alla morte del ultimo… Il Sig.re Soliani (a cui suplico farne parte) potrebbe aiutarmi e trovarmi revelazioni di feste, tornei, spettacoli teatrali, etc. che rimarcano le epoche dei matrimonj loro e che sono state cose magnifiche, in particolare le feste del matrimonio del Principe Odoardo l’anno 1690…34.

In essa, da un lato, Riccoboni tornava con la memoria al soggiorno parmense («Io ero a la corte di Parma tre mesi prima la morte di quel Principe»), cioè all’ultimo sogno di rientrare in patria, interrottosi con la scomparsa di Antonio Farnese nel gennaio 1731, dall’altro il teatro era pur sempre l’oggetto che esercitava su di lui un richiamo insopprimibile. Nella storia della famiglia Farnese, si sarebbe soffermato – scriveva − sulla costruzione del fastoso teatro secentesco e sugli spettacoli che vi si erano succeduti sino all’epoca dell’ultimo erede, il compianto Antonio. Certo, non sappiamo con esattezza che cosa rispondesse Muratori, perché, le sue lettere indirizzate a Riccoboni sono andate perdute, ma possiamo immaginare lo stupore provato di fronte a un’impresa impossibile per le forze e le cognizioni dell’ex attore. Ciò si evince dalla sua responsiva alla lettera del dotto abate, che lo sviava da una tale fatica e lo invitava a restare nell’ambito del teatro.

Riccoboni accusava il colpo e rilanciava con un progetto di non semplice attuazione: parlare di teatri mai visti, come ad esempio il tedesco o l’olandese, di teatri poco noti come quello inglese e soprattutto di testi non accessibili alle sue competenze linguistiche. Ma tant’è, sepolto il primo proposito, ne avanzava un secondo, se non più semplice, certo a lui più congeniale. Il metodo, tuttavia, restava lo stesso: per la storia dei Farnese occorreva chiedere a Muratori e al libraio e stampatore Soliani la documentazione necessaria; per i teatri europei inviare, nelle varie sedi, la richiesta di memorie da riversare con alcuni aggiustamenti nelle pagine del libro. Esso sarebbe stato senz’altro una novità non solo in Francia e in Italia, ma in tutta Europa. Fondamentale per ricostruire la vicenda è la lunga lettera del 23 marzo del 1734 a Muratori:

Accuso con questa la ricevuta della sua favoritiss.ma delli 4 del corrente, ed a proposito del idea del Istoria della Casa Farnese gli dirò che mi pentij d’averla annoiata con le mie suppliche a tal oggetto, e che appena la mia lettera fu partita che fatte le riflessioni che V. S. Illu.ma mi fà nella sua ne abbandonai l’idea : non basta l’esser lontano dal centro come lei dice, ma per scrivere Istoria ci vuole miglior penna, miglior lingua e miglior ingegno di quello ch’io mi abbi. Il Teatro è la cosa che io conosca e che io sappi più di ogni altra, ed a questa darò tutta la mia attenzione [...].

Ho creduto che un opera curiosa sarebbe il dare una relazione di tutti i Teatri d’Europa nello stato in cui sono stati dal primo risorgimento della Commedia doppo i Latini e dello stato in cui sono presentemente, con gli usi vari e costruzioni di quelli etc. Per tal effetto ho già mandate buone e distese memorie in Spagna, in Inghilterra, in Fiandra, in Olanda, ed in Germania per averne tutte le istruzioni che si possano oltre quelle che già possi avere35.

Nell’attesa di raccogliere e avere notizie anche bibliografiche, Riccoboni si era dedicato a scrivere e pubblicare le importanti Observations sur la comédie, et sur le genie de Molière, con le quali non solo si affrancava dalla sudditanza alle élites culturali della penisola, Muratori compreso  tutti avversi al teatro di Molière perché fomentava, a loro dire, il vizio  ma anche acquistava definitivamente una prospettiva europea, scrollandosi di dosso l’identità del paladino del teatro italiano in terra straniera36.

Pronte già nel 1735, le Observations s’intrecciavano con il disegno delle Réflexions che facevano maturare in lui l’abito del comparatista ante litteram. Queste ultime, finite nel corso del 1737, come attesta la data del permesso di stampa (5 gennaio 1738), si presentavano in tre vesti editoriali differenti. E anche questo è una prova dell’intuito editoriale e delle ambizioni che muovevano Riccoboni. Un primo libro comprendeva solo le Réflexions, un secondo le vedeva unite alle Pensées sur la déclamation, approvate il 6 gennaio e pubblicate separatamente anche dall’editore Delormel. Tranne qualche esemplare, i due testi circolarono legati insieme nella stampa di Jacques Guerin37.

Riccoboni, inoltre, aveva in mente due diversi destinatari: il pubblico francese, cui era indirizzato l’avviso Au lecteur, e quello spagnolo, che aveva il suo vertice nella regina Farnese. In alcuni esemplari, infatti, l’avviso al lettore era preceduto dalla dedica proprio a Elisabetta Farnese che aveva sposato in seconde nozze Filippo V di Borbone re di Spagna (nipote di Luigi XIV). Per la dedica delle Réflexions Riccoboni sceglieva l’italiano, lingua utilizzata, circa dieci anni prima, per un’altra dedica reale, quella «Alla Sagra Real Maestà di Carolina Regina della Gran Bretagna», che apriva l’Histoire du théâtre italien. Lì l’adozione della lingua italiana era giustificata dalla conoscenza dell’italiano da parte della regina; qui questa comunanza era nelle cose, trattandosi di una regina italiana, e pertanto non vi era alcun bisogno di accennare all’uso dell’italiano per la dedicatoria all’interno di un libro scritto in francese.

Non sappiamo perché alcuni esemplari avessero la dedica e altri no. Forse Riccoboni intendeva differenziare i canali della circolazione del libro, i cui diversi formati vedevano la luce nel corso del 173838. Era, per altro, una data simbolicamente importante, perché siglava con il trattato di Vienna la fine della guerra di successione polacca che aveva visto alleate la Francia e la Spagna e che si era in parte già conclusa con la firma dei preliminari di pace nel 1735.

Secondo quanto avrebbe scritto con amarezza nella memoria autobiografica del 1746 richiestagli da Muratori, queste «dedicatorie magnifiche» non gli avevano procurato alcun regalo e lo stesso profitto sperato era andato in fumo per colpa degli editori. In proposito non si può escludere che Riccoboni sperasse di essere chiamato alla corte spagnola magari per dirigere il teatro reale, o almeno di ricevere qualche dono: tutti all’epoca invidiavano la fortunata condizione, nella corte madrilena, del celebre cantante Carlo Broschi, ricordato più avanti nelle Réflexions a proposito del teatro italiano. Ad avvalorare questa ipotesi è il testo della dedica che si sofferma su due occasioni perdute di trasferimento a Madrid al servizio di Filippo V: la prima volta nel 170839 («quando per Reale comando l’Ambasciatore Cattolico doveva spedirmi da Venezia a Madrid»); la seconda nell’anno dei «gloriosi sponsali» della Regina, che si svolsero per procura nel Duomo di Parma il 16 settembre 1714, grazie all’abilità del cardinale Giulio Alberoni, primo ministro di Filippo V rimasto vedovo il 14 gennaio dello stesso anno40.

Tuttavia, se la consacrazione dell’opera alla regina spagnola non apportava alcun cambiamento nella vita del nostro, influenzava in parte la scrittura delle Réflexions, la cui duplice destinazione favorì uno sguardo più benevolo verso il teatro spagnolo41. Il testo della dedica, inoltre, assai più improntato, rispetto all’avviso al lettore, allo spirito religioso e alla necessità di purgare il teatro, accorciava le distanze con il futuro e ultimo De la Réformation du théâtre 42. Oltre ad anticipare la svolta verso un teatro cristiano, la dedica affidava la riforma del teatro, morale più che estetica, al potere politico laico, cioè a un principe cristiano piuttosto che ai padri della chiesa, buoni soltanto a tuonare contro la corruzione del costume:

Il Teatro che dopo tanti secoli è stato sempre lo scopo dei due gran Partiti che lo hanno a vicenda assalito, e difeso : la Chiesa, ed il Mondo : non è mai stato, a mio credere, a bastanza svelato perché trionfi la verità. Per quanto per tutta l’Europa abbino tentato alcuni di purgare le rappresentazioni sceniche, non si pervenne mai a quel segno, che la Religione richiede, e che la Civile onestà vorrebbe43.

L’avviso al lettore, invece, lasciava da parte queste argomentazioni e, con un registro più comunicativo, si limitava a dire che il teatro non aveva ancora raggiunto il grado di perfezione auspicato, pur avendo fatto passi da gigante rispetto alle sue origini. E rinviava la questione a un’opera futura, per l’appunto il De la Réformation du théâtre, che avrebbe modificato, con un significativo slittamento di senso, il termine di «réforme» in «réformation». D’altronde, parlare di una riforma morale e religiosa avrebbe messo in fuga il pubblico delle Réflexions al quale il «fu Lelio» si rivolgeva, pur con l’abusata formula dell’unione di utile e dilettevole, scopo per altro già perseguito nel suo fortunato mestiere di comico.

Riccoboni sapeva che la curiosità dei Francesi li avrebbe spinti a leggere il suo libro per scoprire le differenze fra i vari teatri europei, mentre agli altri lettori, in un’Europa che «parlava francese»,44 offriva un’ottima esca per interessarli: il gusto cambia e dunque anche le forme teatrali erano soggette a mutamento, come accaduto nell’ultimo secolo. La lettura del suo «piccolo libro» con poca fatica aveva il vantaggio di mostrare, quasi in tempo reale, quali forme avessero assunto i teatri. Non nascondendo, inoltre, l’ambizione di fornire una guida rivolta agli scrittori di teatro, l’autore segnalava l’utilità delle Réflexions in tre ambiti, tutti fondamentali: religione, ragione, costumi.

Le Réflexions, grazie alla prospettiva comparata, erano costruite sul confronto fra i vari teatri, considerati sia negli aspetti materiali e scenici, sia nella drammaturgia dei secoli passati e del presente45. Non un insieme di curiosità, come ritiene il citato De Courville, ma uno sguardo ad ampio spettro, pur con limiti di cognizioni e di una certa parzialità a favore di alcuni teatri quali l’italiano, lo spagnolo e l’inglese. Inoltre erano una vera novità le annotazioni sul teatro considerato nel suo complesso, edifici teatrali, spazi scenici, abitudini degli spettatori, recitazione degli attori, costumi, differenti generi e pratiche rappresentative, quali la commedia all’improvviso, la commedia, la tragedia, l’opera in musica, la danza e tante altre ancora. E poi, un altro elemento che rendeva davvero innovativo il libro era la ricerca della nascita dei diversi teatri con l’attenzione alle cerimonie religiose medievali, alle sacre rappresentazioni, alle prime forme di teatro profano, senza un’unica prospettiva centrale.

Per i lettori e spettatori italiani e francesi era la rivoluzione, cioè la scoperta di un altro mondo teatrale, con la descrizione dei teatri spagnoli e inglesi appartenenti a una tradizione diversa dalla scena all’italiana. Il focus si spostava così dalla semplice comparazione fra drammaturgie, regolari e meno, se non barbare addirittura, condotto da un punto di visto franco o italocentrico, alla pluralità quasi orizzontale di scritture e luoghi scenici. Non a caso, solo tre anni dopo l’uscita del libro, a Londra appariva la traduzione inglese delle Réflexions del «famous» Riccoboni, fra i primi in area franco-italiana ad aprire al teatro elisabettiano e al grande Shakespeare, senza le riserve del pur ammirato Voltaire. E proprio questo gli aveva procurato l’apprezzamento di una certa cultura inglese che ancora rimpiangeva il genio di Shakespeare46. Quasi sicuramente la traduzione era nata all’interno della cerchia degli Italiani a Londra che gravitavano attorno alla figura di Paolo Rolli, accusato alcuni anni prima dall’influente critico e giornalista Desfontaines di essere il doppio di Riccoboni a Parigi nella difesa della cultura, letteratura e teatro italiani47.

Le Réflexions prendono l’avvio dalla trattazione del teatro italiano, collocato per primo, secondo l’ordine temporale già stabilito nell’Histoire du théâtre italien, ma ora, per certi aspetti, messo in discussione. Per la prima volta nel discorso teatrale di Riccoboni facevano capolino le sacre rappresentazioni, eluse ed escluse nell’Histoire, come per altro dichiarato nell’Avertissement au lecteur che introduceva il catalogo delle commedie e tragedie, posto subito dopo la storia del teatro italiano: «On ne trouvera dans ce Catalogue aucune des représentations sacrées, qui ont precedé en Italie la bonne Tragedie, et la bonne Comedie». Questa omissione era spiegata con il rinvio alla seguente Dissertation sur la tragédie moderne, dove però non vi era che un accenno al teatro medievale e sacro48.

Anche nelle Réflexions le belle commedie del nostro Cinquecento, la Calandria, la Mandragola e le cinque di Ariosto, erano giudicate perfette da un punto di vista estetico, se non morale. Tuttavia ciò che veniva in parte modificato era lo schema storiografico dell’Histoire che fissava al Cinquecento la nascita del teatro italiano e che separava le farse dalle commedie regolari. Dalla nuova prospettiva, Riccoboni adesso criticava apertamente i letterati italiani per aver affermato il primato della nascita del teatro italiano, senza alcuna conoscenza di quelli europei. Così rivolgeva innanzi tutto la sua attenzione alle rappresentazioni sacre presenti in tutta l’Europa. Non bastava più parlare della recitazione all’improvviso, che discendeva dai mimi latini secondo la tesi dell’Histoire. Più funzionale era tirare in ballo anche altre forme spettacolari, e proprio le cerimonie e le feste a carattere religioso, poi trasformatesi in sacre rappresentazioni, erano lì, pronte a documentare un’origine fatta risalire alle prime recite della Passione di Gesù organizzate dalla confraternita del Gonfalone, nata nella seconda metà del Duecento. In questa direzione, Riccoboni utilizzava, fra l’altro, alcune opere di Giovan Mario Crescimbeni, primo custode dell’accademia dell’Arcadia, soprattutto i Commentarj intorno alla storia della volgar poesia, pur avanzando su alcuni punti diverse congetture, secondo un termine a lui caro, e proprio al metodo ipotetico messo a punto nell’Histoire.

La sua lunga esperienza teatrale gli forniva conoscenze utili anche in campo storiografico, fra le quali la non coincidenza fra la data di stampa di un testo e quella della sua composizione o rappresentazione; l’esistenza di una quantità ragguardevole di opere rimaste manoscritte che facevano alzare notevolmente il numero delle composizioni teatrali. Inoltre grazie agli indici della Drammaturgia di Leone Allacci, aveva ben chiaro che le diverse denominazioni classificavano le «opere rappresentative» lì schedate49.

Parlare del teatro in tutti i suoi aspetti comportava tener conto anche del pubblico. Riccoboni per altro aveva una conoscenza diretta degli spettatori italiani che, descritti come reattivi nel bene e nel male in quasi tutti i teatri delle diverse città, presentavano tuttavia realtà molto diverse, come avrebbe descritto nei decenni successivi Francesco Milizia50. La sua geografia teatrale si fermava a Roma, con un accenno a Napoli quando il discorso si spostava sulle maschere dell’improvvisa. Guardando con coraggio alle altre drammaturgie, l’ex paladino del teatro italiano arrivava a scrivere che l’italiana era sterile, non vivendo delle sollecitazioni della scena, perché i letterati se n’erano separati. Ora il rimpianto per il buon gusto del Cinquecento e la denuncia della corruzione del gusto per l’immissione massiccia di opere spagnole lasciavano il posto all’ipotesi che gli autori italiani avessero abbandonato le regole perché quelle composizioni erano venute a noia agli spettatori delle corti.

Era una vera svolta rispetto all’Histoire, cui tuttavia Riccoboni restava fedele, laddove c’era da difendere l’Arte e i suoi comici e pungere in qualche modo i Francesi. Questa la tesi: gli attori italiani, richiesti da tutte le corti europee, non avevano potuto che recitare i canovacci all’improvviso per via della lingua e così si era diffusa la falsa opinione che essi non praticassero altra recitazione e che il teatro italiano non consistesse che in buffonerie e lazzi. Riccoboni non negava, no, l’incomparabile vertice della triade Corneille, Racine, Molière, ma risfoderava il primato del teatro regolare italiano che li aveva preceduti di un secolo. E precisava che a questo scopo era servito il catalogo di tragedie e commedie pubblicato nell’Histoire. E sempre contro l’altro errore dei cugini d’Oltralpe, rivendicava la capacità della troupe italiana (la sua) di saper recitare anche commedie, tragedie e tragicommedie, elencando non solo il successo della Merope, ma anche della Vita è sogno di Calderón e dell’Andromaca di Racine, recitate in traduzione italiana anche a Parigi. Gli attori italiani così «ont fait connaître que les comédiens italiens sont aussi capables que ceux des autres peuples de jour le pathétique et le grand» (Réflexions, Théâtre Italien, par. 1.45).

Sin qui nella sua precedente scrittura critico-storiografica, la grande assente era l’opera in musica che, invece, adesso veniva ad occupare uno spazio considerevole per i tanti dati forniti. Certamente il legame di parentela che lo vedeva cognato del celebre maestro Giovanni Bononcini, sposo di Margherita Balletti − con il quale aveva condiviso il progetto di fondare un’Accademia di musica a Londra − lo aveva favorito nel reperimento della documentazione. Per non dire che molte nozioni e riflessioni gli erano state sicuramente trasmesse oralmente da Bononcini nei loro incontri parigini e londinesi. D’altronde anche per l’Histoire la memoria orale interna ai circuiti delle compagnie dei comici dell’Arte gli era servita non poco51. Inoltre, proprio durante il suo soggiorno italiano, protrattosi per quasi un anno, dall’autunno del 1730 alla fine del 1731 con una sosta di alcuni mesi a Parma52, era uscito un libro di piccolo formato, Le Glorie della Poesia e della Musica53, davvero prezioso per le informazioni che offriva. E, infatti, Riccoboni lo usava e citava puntualmente (Réflexions, De l’Opera, par. 2.7).

La musica – scriveva – era sempre stata mescolata al teatro, con i cori cantati o con gli intermezzi; poi scomparsa nel teatro dei letterati, era riapparsa per venire incontro al gusto del popolo, sino a quando gli intermezzi acquistarono autonomia e divennero un genere assolutamente diverso dalle tragedie e dalle commedie. Poco importava fissare nell’Euridice di Rinuccini la prima opera in musica italiana, tutti e lo stesso Riccoboni sottolineavano l’importanza di una data, il 1637, considerata l’atto ufficiale della nascita dell’opera nei teatri venali, perché per la prima volta a Venezia nel teatro di San Cassiano era andata in scena un’opera, l’Andromeda, a pagamento54. Riccoboni segnalava, inoltre, le opere più fortunate rappresentate nei vari teatri, il Santi Giovanni e Paolo, il San Moisè, il San Salvatore, il San Giovanni Grisostomo e altri, rinviando per l’appunto alle Glorie. Magnifiche decorazioni degli edifici e scenografie meravigliose avevano reso celebre l’opera italiana in tutta Europa, senza dimenticare i grandi cantanti, vere e proprie star come la celebre Francesca Cuzzoni, entrata in amicizia con lui ed Elena Balletti per aver cantato anche opere musicate da Bononcini55, il cui rilievo non mancava di essere ricordato nelle Réflexions. Per ultimo Riccoboni lasciava il notissimo Farinello, pervenuto, affermava, al massimo grado della perfezione e ora, dopo essere stato applaudito a Londra e a Parigi, osannato a Madrid quando Riccoboni stendeva le Réflexions, in cui gli Spagnoli non erano più considerati la causa della decadenza del teatro italiano.

Lo sguardo dello storico Riccoboni era davvero mutato. Qui si trattava di riconoscere i meriti di un teatro assai lontano dalla regolarità, considerata ormai quasi un accessorio: gli spagnoli, infatti, «peuvent disputer à toutes les autres nations le renouvellement ou le rétablissement de la véritable comédie» (Réflexions, Théâtre Espagnol, par. 3.3). Essi avevano tutto il diritto di vantarsi di aver fatto risorgere la commedia con Lope de Rueda e de Torres Naharro 56. Era un grande acquisto storiografico dar conto di spazi ed edifici teatrali estranei all’esperienza della scena all’italiana, come il comparare i diversi generi di commedia, anche se su questo punto a soccorrere Riccoboni c’era l’antica pratica della scena e l’utilizzo, sin dagli esordi attoriali, di riduzioni e traduzioni delle commedie e tragicommedie spagnole, mediate o meno da Cicognini.

Per altro il primo distacco dalla cultura italiana datava dalla Prefazione al Nuovo teatro italiano apparso in edizione bilingue nel 1716. Qui per la prima volta aveva parlato della commedia, del comico, dell’attore, del pubblico e delle regole, prospettando una poetica teatrale caratterizzata da molti elementi nuovi come il ripudio, anche per la commedia regolare, delle tre unità57. A distanza di tempo, la messa in questione dell’autorità di Aristotele si ripresentava con maggior cognizione di causa nelle Réflexions, dove Riccoboni ribadiva che: «Ce n’est point par ignorance que les Espagnols n’ont pas suivi les règles d’Aristote» (Réflexions, Théâtre Espagnol, par. 3.26), citando dalla traduzione francese dell’Arte nuevo de hacer comedias en esto tiempo di Lope de Vega. Lo avevano fatto per piacere al gusto della loro nazione, anch’esso un criterio cardine acquistato con l’esperienza e la pratica della scena.

Per Riccoboni era innegabile che la commedia spagnola scritta risalisse già al Quattrocento e solo perché gli Italiani vantavano la tradizione dell’Improvvisa, il primato temporale della nascita del teatro, dopo la decadenza di quello latino, poteva essere conteso dai due teatri, italiano e spagnolo. Dalle farse in un atto, chiamate jornadas, recitate da pochi attori in svariati luoghi e per alcune feste di carattere sacro o profano era nata la commedia, rappresentata inizialmente in spazi non strettamente rispondenti alle occasioni festive alle quali era destinata. In tal senso gli Spagnoli avevano preceduto con la commedia sia gli Italiani che i Francesi, rispettivamente di mezzo secolo e di uno intero: merito non indifferente secondo l’ottica comparata adottata.

Riccoboni inoltre non nascondeva la sua ammirazione per la fertile creatività della loro produzione che superava quella degli scrittori di teatro italiani e francesi messi insieme. Fra i più rimarchevoli segnalava ovviamente Lope de Vega, Calderón de la Barca, Tirso de Molina, accanto ai vari drammaturghi del Siglo de Oro, Augustín Moreto, Antonio de Salís e Augustín de Salazar. Uno dei più prolifici era Calderón, di cui Riccoboni aveva adattato, tradotta da Thomas Gueullette per il repertorio della Comédie-Italienne, proprio la Vida es sueño, rappresentata il 10 febbraio 171758. Riccoboni oramai era in grado di emanciparsi da ogni sudditanza, tanto da dissentire implicitamente dalla prospettiva francocentrica dell’amico Louis-Adrien Du Perron de Castera, che, pur riconoscendo la grandezza di Lope de Vega, non riusciva a fare a meno di paragonarlo all’illustre Racine59.

Poi era il turno degli attori. Verità e natura erano i due principi cardini fissati in Dell’arte rappresentativa, in contrapposizione alla recitazione artificiosa dei Francesi. A quei due principi rispondeva anche la recitazione dei comici spagnoli, della quale aveva avuto un’esperienza indiretta grazie alla conoscenza di un attore spagnolo che gli aveva offerto un saggio della sua arte. E quasi a chiudere il cerchio, recuperando l’originaria affinità fra la comicità italiana e quella spagnola, Riccoboni dedicava qualche pagina al personaggio del Gracioso, non dissimile dall’Arlecchino nei tratti caratterizzanti e nella recitazione. Questa somiglianza non lo stupiva, anche se il teatro spagnolo «ne sera jamais plus ancien que la comédie italienne à l’impromptu» (Réflexions, Théâtre Espagnol, par. 3.30).

Sempre in nome del nuovo impianto delle Réflexions, anche la descrizione del teatro francese, oggetto della velata critica nella Dissertation sur la tragédie moderne, subiva un radicale cambiamento a vantaggio di altre forme rappresentative. Inoltre nessun nome dei grandi attori vi figurava, tantomeno osservazioni sul loro modo di recitare, forse perché non sarebbero state del tutto benevoli e dunque il «fu Lelio» preferiva glissare. Per lo stesso motivo non accennava ai teatri concorrenti alla Comédie-Italienne, se non appena alla Comédie-Française.

L’ampio spazio dato al teatro francese si concentrava sulla sua nascita, grazie all’utilizzo soprattutto del Traité de Police di La Marre, a sua volta fonte dell’Histoire du théâtre français dei fratelli Parfaict apparsa nel 1734, proprio mentre Riccoboni maturava il progetto delle Réflexions. D’altronde il primato temporale era un punto non indifferente non solo per l’ex Lelio, ma per tutto il fronte culturale italiano. Ora, i Parfaict, avanzando la tesi che il loro teatro fosse nato con i trovatori, mettevano in crisi lo schema storiografico tracciato da Riccoboni. Di qui tutta una serie di argomentazioni per dimostrare intanto che nei componimenti francesi l’uso di «comique» non significava «comédien», ma «boufon», e ancora per smontare la tesi che fossero state scritte tragedie francesi nel Quattrocento.

Riconducendo la nascita del teatro francese alle cerimonie religiose, ecco che si poteva trovare una data che ne certificasse l’esistenza: attorno al 1398. Si trattava del divieto, emanato da un’ordinanza del sindaco di Parigi, di rappresentare il mistero della Passione a San Mauro. Riccoboni era tuttavia disposto a riconoscere che, alla decadenza della commedia latina, anche in Francia sopravvissero varie figure di buffoni e giocolieri, ma i forti divieti impedirono la loro metamorfosi, come invece accaduto in Italia, in comici dell’arte all’improvviso. L’interesse per la storia della confraternita della Passione era diretto soprattutto verso il momento della sua istallazione all’Hôtel de Bourgogne con il divieto di rappresentarvi figure e temi sacri nel 1548: era la nascita del teatro profano per vere compagnie di comici che tuttavia − congetturava Riccoboni − vi rappresentarono pièces di poco valore. Tanto era durata l’infanzia del teatro francese che sarebbe esploso solo un secolo dopo con Corneille, Molière e Racine.

Come nota Courville, Riccoboni si mostra sin troppo partigiano del teatro italiano, insistendo sulla derivazione di alcune pièces da traduzioni dall’italiano e dallo spagnolo, sempre più considerato, quest’ultimo, una vera fonte inesauribile per la drammaturgia di ogni nazione (Réflexions, Théâtre français, par. 4.40). Rinviando a quanto già scritto nelle Observations sur la comédie, Riccoboni qui si limitava a rinnovare i suoi positivi giudizi su Molière come autore di un comico eccellente che poteva considerarsi una vera guida drammaturgica oltre confine. Pur se il computo numerico era svantaggioso per i Francesi, la loro rimonta in circa cinquant’anni era davvero stupefacente, tanto che ancora restavano i maestri «du bon goût, du vrai et de l’esprit» (Réflexions, Théâtre français, par. 4.45).

Con i loro nomi propri erano ricordati soltanto gli attori più famosi che avevano recitato mascherati all’Hôtel de Bourgogne, mentre il silenzio più assoluto regnava rispetto agli attori tragici. Il discorso si spostava soltanto sulla sontuosità dei costumi e sul loro costo, veramente alto per alcuni ruoli a spese degli stessi attori, e sulla capacità inventiva del teatro di creare la moda, come quella all’andrienne lanciata da un costume di scena dalla celebre Dancourt − di cui si taceva il nome − quando aveva recitato nell’Andria di Terenzio. Certamente ci saremmo aspettati di più anche sugli spettatori, invece l’accenno era solo alla loro turbolenza e alle iniziative prese da Luigi XIV per riportare l’ordine, mentre appena più distesa era la descrizione degli edifici teatrali non dissimili da quelli italiani.

Infine non poteva mancare la trattazione dell’opera e della danza, che consentiva di bipartire la loro importanza fra Italiani e Francesi. Dal punto di vista di Riccoboni, la nascita dell’opera dovuta all’iniziativa del cardinale Mazzarino, che aveva fatto allestire alcune opere italiane, era un punto a favore degli Italiani. E se informava dello sviluppo successivo dell’opera con la fondazione dell’Académie royale de musique, credeva che gli spettacoli musicali del duo Lully-Quinault restassero nell’orbita dell’opera italiana, senza cogliere lo scarto di un teatro in cui parola e musica si fondevano nel farsi «appendice della corte francese»60. Nella danza invece i Francesi si erano distinti in tutta l’Europa, ma Riccoboni non accennava neanche alla fondazione dell’Académie royale de danse, voluta da Luigi XIV ballerino lui stesso: solo un cenno al connubio con quella musicale e alla nascita del teatro dell’Opéra e del nuovo genere tutto francese dell’opéra-ballet.

Il teatro francese era comunque risarcito nel Parallèle fra i tre teatri, occasione anche per segnalare il nuovo genere della comédie larmoyante con rilievi molto interessanti sulla metamorfosi del comico, non lontanissimi dal Goldoni della Pamela. Nel Parallèle Riccoboni riassumeva quanto scritto un anno prima a Muratori nell’indirizzargli la lettera aperta sull’École des amis di Nivelle de la Chaussé61: essa era un vero modello anche per i teatri spagnoli e italiani, perché portava alla ribalta nuovi protagonisti, socialmente corrispondenti ai ceti borghesi che acquistavano peso anche nella società. In più, il nuovo genere, di fatto il futuro dramma, richiedeva situazioni e soggetti toccanti sino alle lacrime, fondate sul «plaisant noble» (Réflexions, Parallèle des théâtres italien, espagnol et français, par. 5.6) che in fondo non era così lontano dal comico di sentimento teorizzato già nelle Observations62.

Una vera novità era la descrizione del teatro inglese e soprattutto lo spazio consacrato a Shakespeare, quando ancora non erano apparse le prime traduzioni francesi. Incredibilmente qui Riccoboni si mostrava padrone dell’argomento, facendo leva sia sulla conoscenza diretta acquisita nei due soggiorni londinesi del 1727 e de 1728, sia su quanti gliene avevano parlato. Fra i primi l’abate Conti, al quale Maffei con una bella lettera aveva presentato Luigi ed Elena al loro arrivo a Parigi. La loro frequenza era stata così assidua, da far sì che Conti menzionasse il loro salotto dove aveva fatto le prove della lettura del Cesare, nella cui edizione richiamava proprio Shakespeare63. Poi lo stesso Bononcini che si trovava a Londra quando Riccoboni vi era approdato per la prima volta e che aveva una rete di contatti molto ampia con cui in quei mesi il nostro teatrante era entrato in contatto. Ne facevano parte due figure che hanno giocato un ruolo importante nelle relazioni e conoscenze europee di Riccoboni: Giuseppe Riva e Paolo Rolli. Il primo era l’inviato del ducato di Modena a Londra; molto attivo nel mondo musicale, aveva rivisto la seconda edizione del Dell’arte rappresentativa apparsa a Londra nel 172864; il secondo era il noto letterato, librettista, traduttore di Milton ed editore di Lucrezio, trapiantatosi a Londra sin dal 1716, grazie al quale Riccoboni aveva potuto dedicare alla regina Carolina l’Histoire du théâtre italien. Rolli e Bononcini si erano conosciuti già a Roma fra il 1714 e il 1715, quando il primo aveva adattato un libretto di Zeno musicato dal secondo e in quell’occasione avevano conosciuto Richard Boyle, più noto come Lord Burlington, tramite del trasferimento di Rolli a Londra e dell’arrivo dello stesso Bononcini chiamato come direttore musicale della Royal Academy of Music65. Si deve sicuramente al loro supporto l’indicazione di una serie di libri in lingua inglese e soprattutto l’aver procurato le traduzioni di molti passi citati dal nostro.

Secondo lo schema adottato, il primo punto che Riccoboni toccava riguardava le origini del teatro inglese, biforcato in nascita di forme teatrali legate al teatro religioso e prime prove drammaturgiche. Le prime erano le rappresentazioni dei misteri (miracle plays), affiancati poi dai cosiddetti morality play con rappresentazioni di carattere allegorico. Riccoboni metteva bene a fuoco, pur fra molte congetture ricavate dalle fonti usate, la precocità del teatro inglese ad assumere un carattere venale, grazie alle corporazioni di arti e mestieri, ben prima di quello francese. Un ruolo molto importante era stato svolto dalle compagnie dei coristi delle cattedrali e in particolare da quella dei giovani che recitavano a pagamento nella sala adiacente alla cattedrale di Saint Paul.

A proposito della drammaturgia, Riccoboni ricordava la prima recita alla corte di Enrico VIII di una commedia di Plauto nel 1520 insieme alla rappresentazione di The Tragedy of Gorboduc edita nel 1565, ma della cui supposta grandezza dubitava, perché sicuramente lontana dalla perfezione. D’altronde in quel secolo gli Inglesi non avrebbero potuto basarsi su alcun modello, essendo le tragedie francesi di là da venire, mentre quelle italiane erano troppo distanti. Nessun accenno invece ai famosi masques, gli spettacoli allegorici basati anche sulla danza che esplodono sotto il regno di Giacomo I nei primi decenni del Seicento, tranne la menzione di Ben Jonson, fra i maggiori scrittori legati all’allestimento di quest’aristocratica pratica rappresentativa.

Sin dai suoi intensi soggiorni londinesi, Riccoboni, che si era recato come spettatore nei teatri Drury Lane e Covent Garden, aveva avuto modo di conoscere l’esistenza delle Works di William Shakespeare in vari volumi, preceduti dalla vita del drammaturgo scritta da Nicholas Rowe, cui attingeva per varie notizie e per parlare dello stesso Shakespeare e della sua compagnia. Seguendo il metodo basato sul rapporto fra documento e congetture, dalla vita di Shakespeare ipotizzava, diversamente da Rowe, la preesistenza a Londra di un teatro già adulto. Questo perché un’ordinanza di Giacomo I elencava tutti i generi possibili: commedie, tragedie, intermezzi, moralità, pastorali, ecc. E ancora, sempre procedendo per congettura, dallo stesso documento faceva discendere l’esistenza di due specie di pratiche teatrali, l’una recitata nelle piazze pubbliche e l’altra nei teatri chiusi.

Appartenente alla tradizione franco-italiana, che condannava la visione della violenza in scena, Riccoboni si chiedeva le ragioni di tante atrocità sceniche. Ed escludeva che ciò si dovesse alla natura del popolo inglese, se non secondo il paradosso di una natura tendente al sogno e all’astrazione. Ciò faceva sì che per conquistare lo spettatore, gli autori tragici avessero avvertito la necessità quasi di traumatizzarli con visioni forti e catastrofi violente sulla scena, mentre quelli comici di moltiplicare l’intrigo e di utilizzare un linguaggio sboccato e osceno. Non senza qualche contraddizione, dopo aver parlato degli edifici a forma di anfiteatro, della sua diretta esperienza dei teatri londinesi e della straordinaria recitazione degli attori in grado di modificare con il trucco il loro aspetto fisico, si augurava un cambiamento di gusto avviatosi con il Cato di Addison e le commedie di Congreve, conosciuto personalmente.

Per il teatro fiammingo e olandese, di cui non aveva alcuna esperienza e conoscenza, Riccoboni utilizzava le memorie richieste e forse alcuni dati trasmessagli dal figlio François che, sotto la protezione di Jean-Baptiste Rousseau, aveva recitato tre mesi a Bruxelles, mentre il soggiorno di Riccoboni nella città belga era durato appena una settimana66. Verosimilmente può essere stato lo stesso poeta in esilio uno dei tramiti delle informazioni particolarmente dettagliate ricevute da Riccoboni, accanto a altre figure non ancora identificate. Questo spiega il paradosso delle Réflexions, più ricche di descrizioni e notizie proprio sui teatri, olandese e tedesco, meno noti al loro autore, per restituire i quali − come avrebbe scritto in una lettera del 4 giugno 1741 a Gottsched − Riccoboni si era servito di «fonti» di seconda mano, accompagnate soprattutto per quanto attiene il teatro tedesco da sofisticate indicazioni bibliografiche. Ma per quanto riguarda quest’ultimo, siamo in grado di risalire all’amico italiano che lo aveva aiutato, cui Riccoboni fa cenno, senza esplicitare il nome, nella lunga lettera all’attore tedesco:

Monsieur.

J’ai l’honneur de repondre a votre lettre du 21 mars et qui m’a eté rendüe a la moitié du may dernier. Primo je vous remercie tres heumblement, Monsieur, de toutes les politesses dont vous m’honnoré et de la bonne opinion que vous avéz de mes talens, qui a la verité sont bien minus, et qui ne meritent aucunement la grace, que vous particulierement, Monsieur, et le reste des sçavans d’un si celebre université font a mes tres foibles productions [...].

Enfin mes reflexions sur les theatres devoient faire sentir le besoin qu’il y a d’une reformation quant aux bonnes moeurs, et par lá frayer le chemin a un autre ouvrage de la Reformation du theatre, que je promis alors et qui est bien tost à sa fin. Comment faire, Monsieur, pour parvenir a donner l’idée du theatre Holandois, et du theatre Germanique, entre autre, dont je n’avois jamais vû representer aucunes de leur pieces, et dont les langues me sont entierement inconnües? Si je n’ais pas etè en Espagne du moins j’en scais un peu la langue, et j’ai lû tout ce que j’ai pû trouver. Pour l’Angleterre si j’en ignore la langue, dans les deux voyage que j’ai faits à Londres j’avois, par les yeux, et avec le secour de la conversation, pris des notions de leur theatre; mais pour les deux ci dessus mentionés d’Holande et d’Allegmagne, encor un coup, comment faire? J’ai importunés tous mes amis de Paris a la Cour et a la Ville, et j’ai envoyé a la Haye un memoire pour avoir des instructions sur les theatres Holandois et Flamand. Quant a l’Allemagne, un Allemand, sçavant homme et en place a Strasbourg, et un de mes amis a Vienne, m’ont envoyé tout ce que, sur leur parole, j’ai donné au public67.

Non sappiamo se Riccoboni sia intervenuto nella descrizione delle due realtà teatrali, che nel complesso seguono la stessa architettura delle riflessioni sulle precedenti, segno che al momento della richiesta di nozioni e informazioni, il loro autore aveva già in mente il disegno di come distribuire la materia. Dunque anche per il teatro olandese, nel tempo l’unico a imporsi e mantenersi, rispetto alle altre regioni dei Paesi Uniti, Riccoboni trattava la questione dell’origine indicata nella rappresentazione dei misteri e, dal Cinquecento, nel costituirsi di corporazioni o assemblee di versificatori che rappresentavano pièces allegoriche o morali, in alcuni casi allusive ai contenuti della riforma luterana. Incerta restava l’epoca della loro nascita, mentre molte testimonianze attestavano l’uso della versificazione all’improvviso di sonetti o madrigali in occasioni di cerimonie e feste a cui le corporazioni prendevano parte, spostandosi nelle varie fiere.

In seguito, dopo aver ricordato le prime commedie e tragedie, caratterizzate, le seconde, da scene e catastrofi atroci, si fornivano molti dati sul numero dei poeti, circa quaranta fra il 1561 e il 1638, e sulle opere dei più celebri autori drammatici, Pieter Hooft e Joast van den Vondel, del teatro barocco. Al modello inglese, era subentrato con le traduzioni da Corneille e da Racine quello francese che faceva registrare la tendenza a un teatro più «esatto», termine per certi aspetti ambiguo, che non significava regolare ma piuttosto «poli», più delicato e meno incline all’orribile. Fra i tanti edifici teatrali, la cui forma semi ovale era assolutamente particolare, il più famoso con vari livelli di logge e magnifiche decorazioni era il teatro di Amsterdam inaugurato nel 1638 e poi rifatto sul gusto del teatro italiano in anni successivi alla pubblicazione delle Réflexions. Le corporazioni si erano poi trasformate in società o accademie letterarie i cui letterati scrivevano anche per il teatro. In totale quello olandese poteva contare circa 1246 pièces e 268 autori. Gli attori, annotati in un fitto elenco riguardante quelli ancora attivi come Frederik Duym, eccellevano nella recitazione del tragico, che inseguiva effetti di nobiltà e naturalezza, lontani da quelli artificiali degli attori francesi, giudizio ovviamente condiviso dal nostro intraprendente storico, in questo caso, per interposta persona.

Sul teatro tedesco e austriaco, Riccoboni poteva contare su una sua vecchia conoscenza, ben nota ai biografi e studiosi di Muratori e in parte anche del nostro, il modenese Giuseppe Riva che gli aveva offerto tutto il supporto possibile a Londra. Ma Riva che, rispetto a Riccoboni, si pensava fisso a Londra, si era, invece, trasferito, dopo il 1730 con un secondo incarico diplomatico a Vienna, come attestano le lettere di Metastasio indirizzategli degli anni 1730-173568 e soprattutto le decine di lettere inviategli da Muratori dove, fra l’altro, lo incaricava di varie commissioni presso diversi residenti a Vienna69.

Posto alla fine delle Réflexions, del teatro tedesco si metteva in risalto il ritardo con cui aveva abbracciato la rinascita delle commedie e delle tragedie, dovuta alla presenza di compagnie teatrali olandesi e italiane che avevano recitato in alcuni loro teatri, diffondendo, quelle italiane, la pratica della recitazione all’improvviso che pur tuttavia non aveva attecchito. Le prime forme letterarie risalivano ai cosiddetti bardi che componevano canti di elogio dei loro eroi dall’Alto Medioevo al Quattrocento, periodo durante il quale i maestri cantori componevano canzoni il cui argomento era tratto dalla storia sacra o da quella profana. Solo nel Cinquecento, però, con il celebre Hans Sachs il teatro tedesco, espresso in forme popolari molto partecipate dagli uditori, aveva raggiunto una sua consistenza. Un fatto singolare, che colpiva evidentemente anche Riccoboni, era la propensione a recitare da parte di alcuni maestri cantori senza alcun compenso.

Anche la drammaturgia tedesca si era sviluppata grazie alla traduzione di testi teatrali delle altre nazioni, mentre le nuove creazioni spesso non venivano pubblicate, con il risultato che il teatro tedesco poteva vantare una grande quantità di testi recitati ma non editi. Fra gli autori drammatici ritenuti particolarmente colti era ricordato Johannes Velten che aveva fondato una compagnia poi chiamata a Dresda dall’Elettore di Sassonia. Solo nel Seicento il teatro tedesco aveva assunto forme più regolari e meno violente con l’opera drammatica di Martin Optiz, Andreas Gryphius e Gaspard de Lohenstein. Singolarmente si accennava appena alle magnifiche sale teatrali dei teatri di corte, ideate da architetti italiani, fra i quali quello di Vienna e di Amburgo in cui il repertorio era costituito soprattutto dall’opera italiana, gradita particolarmente alla corte di Vienna in cui erano chiamate compagnie e compositori italiani. In proposito non veniva fatto alcun nome, eppure Riva, o chi per lui, li conosceva benissimo, ma a ben guardare le Réflexions avevano schivato il pericolo, di parlare, con alcune eccezioni, di attori e autori viventi, terreno scivoloso su cui era meglio far scendere il silenzio.

A completare il quadro, Riccoboni e i suoi «aiutanti» decidevano di dare un estratto in prosa del Caton mourant di Gottsched, riproponendo sempre in traduzione francese la prefazione dell’edizione di Lipsia del 173570 e altri paratesti, compreso il Projet d’un Traité sur la tragédie di Fénelon71 lì pubblicato in tedesco. Nel presentare l’estratto Riccoboni scriveva che sua intenzione era far conoscere ciò che i letterati tedeschi pensavano del loro teatro, ma forse i veri motivi erano altri. Riccoboni, infatti, non poteva che essere lusingato dal fatto che l’autore tedesco citasse ben due volte la sua Histoire du théâtre italien; la prima volta addirittura accanto ai nomi più alti del teatro francese in un passo che conviene rileggere:

Sans parler de la lecture des pièces de théâtre de Corneille, et de Racine, de Molière, et de La Mothe, de Danchet, de Voltaire, etc. etc. de leurs préfaces et des traités critiques qui y étaient joints : le Théâtre des Grecs du P. Brumoy, et l’Histoire du Théâtre italien de Riccoboni, me fournirent plus de lumières que tous les autres en cette matière. (Caton, mourant, Préface, par. Extrait.1.7)

Più avanti, nella Réponse de l’auteur aux critiques ci-dessus (par. Réponse.17) Gottsched, avanzava alcuni rilievi critici nei confronti della tragedia francese, pur molto apprezzata e scelta inizialmente come suo modello. E per avvalorare la sua critica segnalava proprio la Dissertation sur la tragédie moderne di Riccoboni e il Paragone della poesia tragica italiana con quella di Francia di Pietro Calepio, oltre al discorso di Giulio Cesare Becelli che corredava l’edizione del Teatro di Maffei del 1730. In proposito va evidenziato che Riccoboni, ormai ai ferri corti con Maffei, e con lui il traduttore di Gottsched avevano eliminato un passo molto importante che apriva la Préface dell’autore tedesco, in cui si esaltava la triade tragica costituita dal Cid di Corneille, dal Cato di Addison e proprio dalla Merope di Maffei72. Non proprio un gesto correttissimo, ma comprensibile dopo la lettera ammonitoria rivolta a Riccoboni che Maffei aveva affidato al Becelli.

L’altro motivo, per altro legato al passato professionale di Riccoboni, concerneva proprio l’importanza data a una tragedia come il Cato di Addison che sin dal 1713 aveva incarnato il modello di una tragedia regolare anche oltre Manica, con in più tutta una seri di risvolti culturali e politici, dalla filosofia stoica che elevava a gesto virtuoso anche il suicidio, alla valenza del personaggio di Catone, ritenuto dallo stesso Gottsched il perfetto repubblicano, espressione di una magnanimità virtuosa assente nel Caton di Deschamps del 1715.

Anche il nostro teatrante aveva tradotto dal francese, pubblicato e rappresentato, durante il sodalizio con Maffei, proprio il Catone73 e nella sua Dissertation sur la tragédie moderne aveva elogiato la tragedia inglese quasi senza riserve. Ora scopriva che i suoi giudizi erano noti e condivisi anche da letterati lontani, a lui sino a poco prima quasi ignoti:

Pour moi, je crois, que l’on trouve dans cette Tragedie le vrai modéle d’une conspiration bien conduite, et du langage d’un Héros, qui pense toûjours noblement, sans passer les bornes de la nature : Caton est plus grand que tous les Héros des Tragedies anciennes, et modernes, et pourtant je le trouve toûjours homme74.

Pensées sur la déclamation

Alla fine delle Réflexions Riccoboni poneva il suo breve trattato sulle Pensées sur la déclamation, in cui riprendeva solo in parte alcune idee già espresse in Dell’arte rappresentativa, la cui circolazione era rimasta confinata anche perché scritto in italiano e del tutto focalizzato sulla recitazione dell’attore. Lanciato, finalmente, su un palcoscenico europeo, e già proiettato verso la scrittura del De la réformation du théâtre, Riccoboni recuperava sin dal titolo una parola connotata in senso negativo nei suoi scritti e in quelli dei suoi primi sodali. Su questo punto, infatti, il Dell’arte rappresentativa riecheggiava l’Istoria del teatro e difesa di esso di Maffei. In essa Maffei distingueva fra la declamazione dei comici francesi, usi a caricare l’espressione e a lasciarsi andare a gesti affettati e smoderati; il ragionare degli attori toscani sin troppo schiavi del naturale, principio in sé valido, se praticato aiutando e nobilitando la natura; il recitare che doveva unire l’energia e la varietà dell’espressione, per evitare l’uniformità e la celerità della dizione o la cantilena degli accademici, il tutto senza agitazioni e gesti scomposti75. Anche Riccoboni, in effetti, non tralasciava di bersagliare la cantilena delle accademie italiane, accostata proprio alla declamazione inventata dai Francesi (Dell’arte rappresentativa, cap. V, 64-75)76.

Assente nel suo lessico critico se non in accezione negativa, nelle Réflexions la déclamation faceva il suo ingresso in maniera assai parca, in poche occorrenze con il significato di recitazione, di recitazione tragica (Réflexions, De l’Opéra, par. 2.1; Théâtre espagnol, par. 3.29, Théâtre français, par. 4.7, 4.20), o ancora di arte della declamazione in soccorso della natura, cui gli attori dovevano comunque improntare la loro recitazione (ibidem, par. 6.40). Solo a proposito del teatro olandese, si recuperava il senso negativo, sottolineando che gli Olandesi, avvezzi a recitare nobilmente e naturalmente il tragico, erano contrari «à la déclamation tragique du théâtre français», (Réflexions, Théâtre hollandais, par. 7.18). A parte questa scoria, da attribuirsi anche all’amico che aveva fornito la traccia, déclamation era assunta ormai, nel nuovo contesto discorsivo delle Réflexions, come parola neutra usata dal novello storico del teatro europeo per rivolgersi al mondo del teatro e a quello dei dotti. Tuttavia poi nelle Pensées sur la déclamation Riccoboni ritornava a esternare la sua trentennale critica alla recitazione francese del tragico, definendola per l’appunto «déclamation tragique».

Memore delle voci savantes della cultura francese, da Boileau, fra l’altro traduttore dello pseudo Longino, a Rapin, che nei loro scritti avevano ridefinito precetti e definizioni dell’oratoria – tradizionalmente accostata sin dall’antichità all’arte attorica – soprattutto di Demostene, Cicerone e Quintiliano − Riccoboni aveva indicato nel Dell’arte rappresentativa il crescendo argomentativo degli oratori come un modello da tener presente al fine di procedere per gradi nell’esprimere il sentimento (cap. VI, 1, 149). Con le Pensées però si voltava pagina. L’auspicio di scuole di declamazione ampliava la platea dei destinatari, non solo e non più l’attore in formazione, ma il giovane da educare, secondo un modello pedagogico non lontano dall’insegnamento gesuitico ormai diffusosi e diventato trasversale:

Les orateurs sacrés, le barreau, les académies, les collèges, la Sorbonne, les sociétés savantes, les conversations, les disputes, les écrivains sur tant de matières, les théatres publics, les particuliers, tout engage dans la vie à savoir l’art de la déclamation. (Pensées sur la déclamation, par. Pensées.10)

Anche qui Riccoboni richiamava, con maggior cognizione, l’esempio degli antichi oratori, con Demostene in testa, senza per questo voler prendere partito nella querelle des Anciens et des Modernes, come suggeriva un testo più volte compulsato dal nostro teatrante, che forse si era imbattuto di nuovo o per la prima volta in esso a proposito dell’edizione tedesca del Caton mourant di Gottsched. Si trattava dei Dialogues sur l’éloquence di Fénelon pubblicati nuovamente postumi insieme al Projet d’un Traité sur la Tragédie nel 171877. Certamente la riproposizione dell’arte della declamazione come «éloquence extérieure» rinviava alla rimodulazione dell’eloquenza del corpo, di cui aveva parlato Cicerone, denunciando le diverse suggestioni anche orali che si addensavano nel laboratorio di Riccoboni, provenienti, ad esempio, da un celebre professore di eloquenza e oratore olandese come Peter Francius, autore delle riflessioni sull’eloquenza esteriore, maturate a contatto diretto con un famoso attore tragico, dopo i viaggi in Inghilterra, la Francia e la Toscana e l’amicizia con il gesuita Rapin78. Anche quest’ultimo un nome che Riccoboni aveva sentito più volte, accostato a d’Aubignac, negli anni del suo sodalizio con Maffei, per le critiche rivolte alla letteratura italiana. E che poi aveva in parte letto, negli anni francesi.

Posta al centro delle relazioni della società civile, l’arte della declamazione denunciava più di ogni altra lo stretto legame con la natura, ma non per questo essa non aveva bisogno di guide, soprattutto pratiche (i maestri, per l’appunto). Improprio era pertanto dare nella breve trattazione i precetti (par. Pensées.14-15), secondo quanto suggeriva anche Fénelon79 , che poneva alla base della poesia e dell’eloquenza, in cui rientrava anche il linguaggio del corpo, la categoria di entusiasmo. E proprio l’uso insistito di questa parola, per indicare il momento creativo dei poeti o dei filosofi, durante il quale lo spirito si raccoglie ed esamina i sentimenti interiori e le passioni dell’anima, vedendole e dipingendole (Pensées, par. Pensées.17-18), è la traccia più significativa della presenza di Fénelon nelle Pensées sur la déclamation. In comune inoltre spiccava la marcata corrispondenza fra l’entusiasmo creativo, soprattutto dei poeti, e quello che dovrebbe provare chi declama, unica condizione dell’efficacia dell’oratore e dell’attore (par. Pensées.34) 80. La poesia, secondo Riccoboni, che anche in questo senza citare Platone risentiva del platonismo di Fénelon, era un linguaggio divino perché il poeta con il suo entusiasmo parla il linguaggio dell’anima. Pertanto non si poteva recitare o declamare senza possedere lo stesso linguaggio:

Or, comment pourrait-on réciter ou déclamer de tels ouvrages autrement qu’avec les tons de l’âme aussi ? C’est pour cela qu’il me paraît inévitable que les orateurs, les savants, les poètes, etc. entrent aussi en enthousiasme en déclamant, de la même façon qu’ils ont fait en composant. Si l’âme qui en a inspiré les pensées en dicte pareillement la prononciation, les tons seront vrais et seront variés à l’infini, depuis l’héroïque le plus élevé jusqu’au familier le plus simple. On sent aisément que les efforts pour entrer dans l’enthousiasme de la déclamation ne peuvent pas être si violents que ceux dont on s’est servi pour composer : la façon de le faire est naturelle et nous la voyons pratiquer tous les jours, en apparence du moins (Pensées, par. Pensées.20)

Riccoboni insiste sullo stato quasi di trance o entusiasmo in cui entra l’oratore prima di accingersi a parlare, dopo qualche istante di raccoglimento che si visualizza nel chiudere gli occhi, stesso esempio portato da Fénelon nel trattare l’eloquenza degli occhi e del viso, il cui modello restava la natura. Un riferimento, quest’ultimo, che, oltre a essere un vero e proprio topos della trattatistica riguardante l’oratoria e l’eloquenza, improntava il Dell’arte rappresentativa. Nel nuovo discorso delle Pensées il raggio di azione si ampliava comprendendo l’oratoria profana e quella sacra, da modellarsi comunque sugli esempi della misura e dell’equilibrio interni alla stessa natura. Si restava così sempre nei dintorni del cosiddetto «naturale».

Sostenuto dall’argomentare di Fénelon sulla regola prima dell’eloquenza, cioè provare internamente ciò che si esprime con la voce, il viso, gli occhi, il corpo e i gesti, Riccoboni, spiegava alfine che cosa intendesse per declamare con i toni dell’anima, da cui dipendeva la riuscita o meno di un buon oratore. E lo faceva citandosi: « “Sentir ce que l’on dit”  : voilà les tons de l’âme » (Pensées, par. Pensées.36). In Dell’arte rappresentativa, infatti, la regola generalissima data all’attore era il sentire la cosa, non lontana dalla riflessione di Grimarest nel suo Traité du récitatif apparso nel 1707, a due anni di distanza dalla sua Vie de M. de Molière sicuramente nota a Riccoboni per la scrittura delle Observations81. Nel capitolo sulla Déclamation, accanto a una serie di precetti e regole sulla pronunzia, sulle figure retoriche e sull’eloquenza del corpo, Grimarest poneva il problema di come restituire le passioni espresse nei testi drammatici, senza tuttavia una possibile soluzione poiché pochi attori le sentivano: « Je conviens que tout Acteur qui sent ce qu’il dit peut y reüssir, mais tout Acteur ne le sent pas »82.

Tornando alle Pensées, il cui registro e impianto si erano allontanati dal Traité, dopo l’autocitazione, il discorso virava, non casualmente, sul teatro e la tragedia. Per esemplificare la declamazione accordata sui toni dell’anima, Riccoboni suggeriva proprio di guardare all’attore talmente dentro la sua recitazione da suscitare l’illusione che davanti al pubblico ci fosse davvero il personaggio. Ed era proprio a questo punto che avvertiva l’esigenza di smontare la falsa opinione, per altro molto diffusa non solo nella cultura italiana, che la declamazione teatrale fosse quella praticata in Francia. Quest’ultima purtroppo aveva abituato gli spettatori francesi al tono falso ed eccessivo adoperato dagli attori, ad eccezione della declamazione semplice e naturale di Baron e di Adrienne Lecouvreur. Quest’ultima era già stata elogiato per questo motivo in Dell’arte rappresentativa (V, 85-87), a differenza del grande attore francese in più punti lì oggetto di una critica appena velata che tanti guai avrebbe procurato a Riccoboni, a partire dalla polemica con Desfontaines83. E comunque ora che tout le monde, dopo la scomparsa dei due grandi attori, li celebrava, anche il maturo comparatista trovava il modo per superare l’imbarazzo di una menzogna cui aveva acconsentito nel secondo tomo della riedizione dell’Histoire du théâtre italien84.

A causa di questa declamazione falsa, lontana dalla verità e dalla natura, molti uomini la aborrivano e avevano rinunciato al teatro che, nelle condizioni in cui versava, non poteva certo essere segnalato come esempio dell’oratoria sacra il cui fondamento era, in accordo con Rapin e Fénelon, la semplicità e la verità. Il De la Réformation du théâtre era davvero alle porte.

Réflexions
historiques
et critiques
sur les
différents théâtres
de l’Europe.
Avec les Pensées sur la déclamation
Par Louis Riccoboni
A Paris,
De l’Imprimerie de Jacques Guerrin, Quay des Augustins
MDCCXXXVIII
Avec Approbation et privilège du roi. §

Au lecteur §

[Avis.1] Le but de cet ouvrage est de faire sentir que le théâtre moderne, quoique parvenu à un degré de correction bien supérieur à celui où il était dans ses commencements, est encore éloigné de ce point de perfection que tant d’honnête gens désirent. Ils me diront sans doute qu’après avoir fait entrevoir la nécessité d’une réforme, je devais du moins dire ma pensée sur les moyens nécessaires pour y parvenir.

[Avis.2] Cette objection est aussi juste que naturelle, et pour y répondre j’avertis mon lecteur que mon dessein est de traiter dans un ouvrage à part ce qui regarde la réforme du théâtre ; mais j’ai crû que je devait commencer par l’histoire de tous les théâtres d’Europe, en les comparant les uns aux autres, et en faisant des réflexions critiques sur chacun en particulier. Je me flatte que l’on y trouvera et l’agréable et l’utile, objet que doit toujours envisager un écrivain qui cherche à mériter les suffrages du public.

[Avis.3] En effet, si les Français, naturellement curieux de ce qui leur est inconnu, s’empressent à savoir les usages, les manières et la forme des théâtres qui leur sont étrangers, les autres peuples à leur tour auront-ils moins de plaisir à connaître ce qui regarde les théâtres de leurs voisins ? Et en cas que le goût vienne à changer, et que peu à peu le théâtre prenne une face nouvelle (comme on l’a vu en moins d’un siècle) nos descendants n’auront qu’à lire ce petit ouvrage pour s’instruire tout d’un coup de la forme et du goût des poèmes dramatiques d’aujourd’hui, sans qu’ils se donnent la peine d’examiner un nombre infini d’ouvrages des différentes nations. J’ose même espérer que les remarques que j’ai faites pourront être de quelque utilité aux poètes pour bien se conduire, et pour prendre la route la plus convenable à la religion, à la raison et aux bonnes mœurs.

[Avis.4] J’ai mis mes réflexions sur le théâtre italien, et sur le théâtre espagnol, avant celles que je donne sur les théâtre français, anglais, hollandais et germanique, parce que ces matières ne peuvent avoir un ordre plus naturel que celui du temps : les Espagnols et les Italiens ayant paru les premiers en ce genre, je n’aurais produit que de la confusion en parlant d’abord de ceux qui ne sont venus que longtemps après.

Réflexions historiques et critiques sur les différents théâtres de l’Europe. §

Théâtre italien §

[1.1] Les observations que j’ai faites sur l’origine de la comédie en Italie Mon Histoire du théâtre italien.me font présumer qu’elle n’a jamais souffert d’interruption, depuis qu’elle cessa de paraître

[1.2] sur les théâtre des Latins. Lorsqu’elle eut oublié sa première grandeur, elle s’abaissa jusqu’à courir de ville en ville, et se montra dans les places publiques. Car si on ne doit pas donner le non de comédie aux insipides et indécentes bouffonneries que étaient représentées de la sorte, on y démêlait du moins la semence de cette mauvaise plante que la religion avait arrachée.

[1.3] Elle gémit longtemps dans cet état vers le commencement du XII siècle : peu à peu elle repris ses forces ; elle parut ornée du dialogue, mais les représentations ne se faisaient encore qu’en des maisons particulières. Dans le même temps, à la faveur des sujets qu’elle emprunta de la religion, on la vit paraître avec plus d’éclat ; et l’invention de l’imprimerie acheva de la produire au grand jour. Il nous reste des comédies imprimées environ 60 ans après, c’est-à-dire vers l’an 1520. Quoique les auteur ne fussent point nommés, il était facile de juger à la rudesse de la langue, qu’elles avoient été composées plus d’un siècle auparavant ; outre que les titres les annoncent déjà comme très anciennes. Il est donc naturel de penser qu’il y en a eu de plus mal écrites, et par conséquent d’antérieures, dont peut-être les manuscrits subsistent encore aujourd’hui. Les comédies, dont je parle, et qui furent imprimées, sont d’une telle licence dans l’intrigue et dans le dialogue, que l’on peut aisément juger du caractère de celles qui les ont précédées.

[1.4] Bibiena sans sa Calandra, Machiavelli dans sa Mandragola et dans sa Clitia, l’Arioste dans ses cinq comédies, et les autres auteurs italiens qui pendant les quarante premières années du XVI siècle, ont fait les plus belles comédies, ont (pour la plupart) suivi ces anciens modèles, quant à la licence de l’action et du dialogue, qui sont remplis d’indécences et d’impiétés : ils n’ont fait que corriger la forme et la conduite de la fable, qu’ils ont rendu parfaite dans toutes les règles. Malgré les témoignages indubitables des anciennes comédies qui les ont précédées, et que l’impression nous a conservées, malgré cela, dis-je, les Italiens ne fixent l’époque de leur théâtre qu’au temps de la Calandra, qui fut jouée pour la première fois quelques années avant 1500 : et ils regardent comme des farces, toutes celles qui ont paru dans les siècles précédents, quoiqu’elles fussent de grandes pièces, et distribuées en cinq actes. Il y a des pièces de cette espèce, qui dans l’impression portent le titre de farces, et d’autres qui sont nommées comédies ; il faut remarquer qu’il y en a plusieurs autres aussi dont l’impression porte le titre de farce dans le frontispice, et celui de comédie dans l’épilogue. On conçoit aisément que ces anciens poètes faisaient ces deux noms synonymes ; mais les écrivains italiens, sans faire réflexion à cela, se récrient fort, leur contestent absolument la qualité de comédies, et ne les appellent que des farces. Quant à moi, avec leur permission, je les appelle toutes des comédies, mais défectueuses, et telles qu’elles pouvaient être dans la naissance de leur théâtre.

[1.5] Les écrivains italiens ont mieux aimé sacrifier le mérite de l’Antiquité à la gloire de la perfection ; il semble qu’ils aient eu en vue de cacher à tout le monde les ouvrages de théâtre de près de deux siècles, pendant lesquels il n’a paru que de mauvaises comédies, pour pouvoir se vanter d’une époque qui leur fit honneur : ils tachent de nous montrer qu’ils ont commencé la carrière du théâtre par des chef d’œuvre, et non par des ouvrages très faibles, ou très défectueux, comme on fait tous les théâtres du monde depuis la décadence des Grecs et des Latins : nous voyons qu’ils ont marché tous pas à pas et longtemps à tâtons, avant que d’atteindre à la perfection, ou du moins d’avoir corrigé les premières extravagances. Puisque les comédies italiennes qui nous restent de ces premiers temps (qui ne sont pas en grand nombre) ne portent dans leur frontispice que le titre d’anciennes, sans un avis au lecteur, et sans aucune note qui nous éclaircisse pour le temps ; voyons si les représentations saintes peuvent nous indiquer une époque plus sûr de la naissance du théâtre en Italie.

[1.6] Il est certain qu’anciennement on représentait à Rome la Passion de notre Seigneur au Colisée. Les auteurs italiens les plus célèbres ne laissent aucun lieu d’en douter André Fulvius, p. 146. La Description de Rome, imprimée en 1643 in 8°, p. 487. Il Ritratto di Roma moderna, en 1645, in 8°, p. 435, Roma ricercata, imprimée en 1699, in 8°, p. 73; Guido Panciroli in Roma sacra e moderna, en 1725, p. 37; Crescimbeni nei Commentarii de la volgar poesia, p. 242: Qu’on se donne la peine de les examiner, et on trouvera dans leurs ouvrages des témoignages clairs et précis sur l’usage dont il est question ; mais rien n’en établit mieux la vérité que les tragédies qui nous ont été conservées sur la Passion de notre Seigneur.

[1.7] Il n’est pas moins constant que l’usage de représenter la Passion de N. S. fut entièrement aboli vers la fin du Pontificat de Paul III c’est-à-dire en 1546, ou au plus tard en 1549. C’est ce qu’on lit formellement dans les auteurs ci-dessus nommés : mais en quel temps précisément a commencé l’usage de représenter la Passion, quelle en est la date et l’époque, c’est ce qu’il est très difficile de déterminer. Nous trouvons bien que cet usage est ancien ; les auteurs cités ci dessus déposent unanimement en faveur de cette antiquité : ils fixes l’époque de la fin de ces tragédies, et nous laissent dans une parfaite ignorance sur celle de leur naissance, parce qu’apparemment ils ont eux mêmes ignorée ; on ne peut donc former sur ce point que de simples conjectures.

[1.8] Or le sentiment de quelques savantes antiquaires de la ville de Rome est, qu’on ne peut point faire remonter les représentations de la Passion au Colissée, au delà de l’année 1449 ; de sorte que dans ce système cet usage aurait duré environ cent ans, puisqu’il a fini à Paul III vers l’an 1549. Ce sentiment est fondé sur le témoignage de Crescimbeni dans son Histoire de la poésie en langue vulgaire, où il cite Cionacci, et parle ainsi des représentations pieuses ; voici ses propres mots que j’ai traduit : « La plus ancienne que nous trouvons, c’est (suivant Cionacci qui disait en avoir le manuscrit) celle d’Abraham et Isaac, de Fraçois Belcari qui mourut en 1484 ». Le dit Cionacciajoute, qu’à la fin du manuscrit il y avait ces paroles : « La susdite pièce fut jouée la première fois à Florence dans l’église de Sainte Marie Magdelaine l’an 1449 ». Crescimbeni soutient que c’est là la première pièce sainte qui ait été écrite et représentée en Italie. Si je ne me trompe il a tort, car le manuscrit ne le dit point ; il nous avertit seulement que cette représentation d’Abraham et Isaac a paru pour la première fois l’année 1449 ; mais il ne nous dit point que ce soit le premier poème de cette espèce qui ait été fait. L’auteur n’aurait pas manqué de nous dire qu’il en était l’inventeur, et le premier qui eut fait représenter des tragédies saintes : et M. Crescimbeni lui fait un honneur que l’auteur ne se fait pas lui même, puisqu’il ne pouvait pas peut-être se donner une telle gloire sans s’exposer au démenti de toute l’Italie.

[1.9] Quelques lignes avant, Crescimbeni en cherchant l’origine et le commencement des représentations saintes, rejette un fait que j’aurait adopté pour preuve ; le voici traduit mot à mot : « Le temps où elles ont commencé, nous n’avons pas pu le trouver ; et quoique le Vasari dans la vie de Buffalmacco peintre nous donne la relation de cette fête que l’on fit sur l’Arno l’an 1304 où une machine qui représentait l’enfer était posés sur des bateaux, et que Cionacci Annot. Rim. Sacr. Medici, col. II.s’immagine pouvoir être celle de Teofilo, à la fin de laquelle, suivant ce qu’il dit, on pourrait voir l’enfer, puisqu’il y est marqué “que les diables entrant dans l’enfer avec les Juif, un ange congédie les spectateurs : ou plutôt celle de Lazare le riche et Lazare le pauvre, à la fin de laquelle le riche dans l’enfer demande vainement du secours au pauvre qui est dans le sein d’Abraham”. Cependant par le lieu où elle fut représentée, et par le temps, qui était les calendes de mai, dans lesquelles on a toujours accoutumé de donner du profane, la jugeant telle, nous ne la mettrons point parmi les fêtes sacrée, et nous ne dirons point que ce soit par elle qu’elles ont commencé.

[1.10] La conclusion de Crescimbeni ne me paraît pas juste. On pourrait avoir donné cette fête sur la rivière d’Arno, comme une fête profane ; mais la qualité en est toujours sainte ou morale : de sorte que si elle n’a pas été la première, elle doit toujours tenir son rang parmi les représentations saintes ou morales. À sa place, au lieu de la réfuter, je me serais servi de cette découverte pour chercher, dans le temps plus éloignés, quelque ouvrage de la même nature, s’il y en a, ou quelque fait pareil qui put servir de fondement à une conjecture probable.

[1.11] S’il m’était permis de hasarder mon sentiment sur une matière aussi obscure, et après la décision que je viens de rapporter, j’avoue de bonne foi que je serais extrêmement porté à croire que la représentation de la Passion de N. S. au Colisée, a commencé à peu près dans le même temps que l’établissement de la confrérie du Gonfalone. Je pense qu’on peut l’insérer des statuts de cette compagnie imprimés à Rome chez Bonfadino, en 1584, page 74. Et voici les termes traduits : «  Notre confrérie ayant anciennement pour son principal institut de représenter la Passion de Jésus Christ, nous ordonnons qu’en cas que l’on représente les mystères de la Passion, on observe sur cela nos anciens ordres, et ce qui sera prescrit par la congrégation générale ».

[1.12] Je fais sur cela deux réflexions. Il paraît par ces paroles que la constitution principale et essentielle de la confrérie du Gonfalone était de représenter la Passion de N. S. Il paraît qu’il y avait des réglementes faits sur la manière d’exécuter cette tragédie. Or est-il croyable que les confrères du Gonfalone aient prévariqué dès le commencements de leur institution contre le point principal de leur règle, surtout lorsqu’on fait attention que l’observation de cet article, non seulement ne coutait rien à la nature, mais qu’au contraire elle flattait le goût général de la nation ? On connaît en effet la passion des Italiens pour les spectacles ; on sait d’ailleurs la ferveur des commencements d’un établissement. Or cette confrérie a été fondée en 1264. Cette date est constatée par la Préface des Statuts de la compagnie et par Ottavio Panciroli, Tesori nascosti di Roma, p. 488. Suivant cette opinion, la représentation de la Passion de Notre Seigneur aurait commencé en 1264 et continué environ 288 ans, en supposant avec les auteurs cités ci dessus qu’elle a fini à la fin du pontificat de Paul III, c’est-à-dire en 1549. Voilà ma première conjecture.

[1.13] Les Italiens vantent leur théâtre comme le premier et le modèle des tous les autres théâtres de l’Europe : je sais bien qu’ils disent vrai, mais ils ne l’ont dit que par une ancienne tradition, et sans avoir approfondi l’époque des théâtres espagnol, français, anglais, etc., ils ont cru de bonne foi que quel que soit le temps où le théâtre italien ait commencé, il a toujours été le premier, et ils ne se sont pas embarrassés d’en fixer l’époque deux siècles plutôt, ou deux siècles plus tard. Ils en ont une qui est celle de la représentation sainte ou morale, donnée sur l’Arno l’an 1304 ; ils la rejettent, pour l’établir 150 ans après, et de cette façon ils détruisent encore l’autre époque de la confrérie du Gonfalone, érigée en 1264, soutenant que la première représentation sainte n’a été donnée en Italie que l’an 1499. Si cette dernière époque était incontestable, les Italiens ne pourraient pas se dire les maîtres du théâtre ; mais il faudrait qu’ils se rendissent justice, en se disant les écoliers des autres nations : car c’est un fait certain que les mystères du Vieux Testament se représentaient à Londres l’an 1378, et en France l’an 1398 même avant, comme nous disons à sa place. Il serait donc évident que les Italiens, s’ils n’avaient pas commencé en 1264, temps où fut établie la confrérie du Gonfalone, ou environ 1300 à la fête donnée sur l’Arno que nous avons citée, et que la première représentation morale n’eut été donnée que dès l’an 1449, comme Crescimbeni, et les antiquaires de Rome prétendent, il serait donc évident, dis-je, que les Italiens seraient venus apes les autres, et que ce serait des Français et des Anglais qu’ils auraient appris l’art du théâtre.

[1.14] Ce que nous avons cité des statuts de la confrérie du Gonfalone me fait faré une autre réflexion. Ils portaient, qu’ « au cas que l’on représentât la Passion de N. S. on devait observer les ordres anciens , et qui serait prescrit par la Congrégation générale ». Donc la représentation de la Passion de N. S. n’était abolie que par rapport au lieu, et Paul III ne la défendit qu’au Colisée. On peut croire même que lesdits confrères en ont donné la représentation depuis, mais autre part, puisque trente cinq ans après la défense du pape il paraît par les nouveaux statuts qu’ils avaient la liberté de jouer s’ils le voulaient : car si la représentation de la Passion de N. S. avait été entièrement abolie par le pape dans la ville de Rome, il aurait été inutile d’y inférer cette clause ; et même il ne leur aurait pas été permis de la mettre, si elle avait été contraire aux ordres du pape.

[1.15] Toutes les tragédies saintes ont été écrites en vers ; mais à l’égard des plus anciennes il ne faut pas s’en rapporter aux éditions que nous en avons, pour décider que c’est ainsi qu’elles ont été représentées d’abord. Les impressions nous avertissent qu’elles ont été récrites ou corrigées, pour les rendre lisibles et convenables au temps ; ce que l’on faisait toutes les fois et à la mesure qu’on en donnait de nouvelles éditions, ou qu’on les remettait sur la scène, après quelque intervalle. Entre autres il nous reste l’édition d’une de ces tragédies saintes, où le point principal dont je parle est clairement expliquéAllacci, pag. 72, et dont voici la traduction du frontispice : De la Passion, Mort et Résurrection de Jesus-Christ, représentation tragique de Jean-Baptiste Filauro, imprimée pour la troisième fois, et corrigée de plusieurs fautes, et augmentée d’une grande quantité de vers, par Salvatore Massonio, et représenté dans la ville de l’Aquila, le jour du jeudi saint, l’an 1614. Donc les représentations de la Passion n’étaient abolies en Italie soixante-cinq ans après la défense de Paul III si bien que l’on peut se confirmer dans l’opinion, que cette défense ne regardait que le lieu où l’on représentait, et non pas la chose, comme nous l’avons dit.

[1.16] Les représentations sacrées ont continué dans toute l’Italie jusqu’en 1660, c’est-à-dire cent onze ans après le pontificat de Paul III, et cela non seulement dans des endroits particuliers, mais le plus souvent dans les églises pour la fête du saint dont elles portaient le nom, comme on le voit dans plusieurs impressions. Si elles avaient été défendues et abolies par le pape, jamais les évêques italiens n’auraient permis qu’on les représentât dans leurs diocèses, et encore moins dans des églises. Le mélange du sacré et du profane, et le comique peu correct qu’on y mêla, on dégoûta les spectateurs, et peu à peu on en abandonna les représentations.

[1.17] De tout ce que nous avons dit, je crois qu’on peut conclure, que si la Passion de Notre Seigneur n’a pas été représenté au Colisée la première année de l’établissement de la confrérie du Gonfalone, qui a été fondée en 1264, elle n’a pas tardé à y paraître. Cela supposé, je crois qu’il faut penser aussi, que dans l’établissement de la confrérie, et dans l’arangement des statuts, les confrères n’imaginèrent pas les premiers ces sortes de représentations ; qu’elles avaient déjà été mise sur la scène particulièrement et en mauvais ordre, et que la confrérie se proposa de l’exécuter en meilleure forme et avec magnificence au Colisée. A quoi aurait servi l’institution de la confrérie, qui avait cet objet en vue, si elle en avait différé l’exécution de cent quatre vingt cinq ans ? Il est donc naturel de croire que l’exécution de ce projet ne traîna pas longtemps, et ce serait parler contre toute la probabilité de dire qu’elle a été portée jusqu’à l’année en 1449.

[1.18] Entre l’établissement de la confrérie et la fête, qui fut donnée sur l’Arno à Florence l’an 1304 il se passe quarante ans, et je tiens pour indubitable, que dans l’intervalle de ces deux dates, la Passion de Notre Seigneur et les autres représentations saintes, aussi bien que les premières comédies profanes, ou farces, comme on veut les appeler, étaient déjà en vogue, et même qu’elles avaient commencé longtemps avant l’établissement de la confrérie, qui peut-être a été la première à ériger un espace de théâtre dans un lieu public, tel que le Colisée.

[1.19] La poésie était en Italie avant Dante, et sans me fonder sur que Leonardo Arretino, dans sa vie, fait dire à Dante même page 67.que la poésie avait commencé cent cinquante ans avant lui, il me suffit qu’elle ait commencé dans le temps de Guido Guinicelli, Guittone, Bonaguinta, Guido da Messina, qui ont précédé Dante, puisqu’ils fleurissaient en 1200, pour appuyer toujours ma conjecture, que le théâtre a commencé en Italie vers 1200 avant même l’établissement de la confrérie du Gonfalone, qui probablement a tiré l’idée de son institution de l’usage qui était déjà répandu dans le pays de représentation de la Passion, ou quelque autre ouvrage, dont l’objet était toujours la morale ou la piété.

[1.20] Les écrivains italiens n’ont rapporté que ce qu’ils ont vu de leurs propres yeux : lorsqu’ils ont établi quelque opinion sur des faits, ce n’est qu’une contradiction perpétuelle entre eux, sans convenir jamais. Dans l’incertitude où ils nous laissent, je sens bien que si quelqu’un adopte mes conjectures, qui me paraissent bien fondées, je n’aurai fait qu’augmenter la confusion ; mais ce n’est pas ma faute. L’invention de l’imprimerie arriva dans un temps où l’Italie était de toutes les nations de l’Europe la plus savante en tout genre, ce qui a fait du tort aux ouvrages de leurs ancêtres. Les gens de lettre n’ont point prêté la main pour faire paraître au jour (surtout en fait de poésie) ce qui n’était pas d’une langue correcte ; et c’est par un grand hazard si quelque chose a passé jusqu’à nous. Toutes les autres nations n’ont pas faite de même, comme nous le dirons à sa place : on a imprimé tout ce que leurs prédécesseurs avaient écrit, bon ou mauvais, de deux ou trois cent ans auparavant ; et par là ils ont l’avantage sur les Italiens d’avoir laissé à la postérité des ouvrages qui servent à l’histoire. Si on en avait autant en Italie, nous ne serions pas embarrassés de savoir au juste l’époque du théâtre italien.

[1.21] Depuis 1500 il n’y a jamais eu de poètes en Italie dont la profession fut d’écrire pour le théâtre, pour en tirer quelque profit. Les ducs de Ferrara, de Florence, d’Urbin et de Mantoue, n’ont donné la tragédie et la comédie que dans leurs palais particuliers. L’académie de Sienne Les Intronatifut la première qui excita par son exemple les autres sociétés littéraires à composer de bonnes comédies et à les représenter. Cet usage fut suivi pendant tout le XVII siècle ; et les comédiens mercenaires, qui alors ne jouaient encore que des pièces à l’impromptu, n’en représentèrent quelques unes qu’après quelles eurent été imprimées.

[1.22] Pour ce qui regarde le théâtre italien de nos jours, je commencerai par donner une idée du théâtre matériel et des spectateurs. Les spectateurs, dans presque toutes les villes d’Italie, sont tumultueux, font du bruit, même avant que la pièce ait commencée. Ils sont violents dans leurs applaudissements, et crient de toute leur force « Viva », lorsqu’ils veulent faire honneur aux poètes ou aux acteurs ; si la pièce ou quelqu’un des acteurs leur déplaît, ils crient de même « Va dentro » : et souvent pour marquer davantage leur indignations, ils l’accablent d’injures, et jettent des pommes sur le théâtre. Les acteurs, au contraire, qui ont quelque réputation et du mérite sont estimés et applaudis ; et dans les villes même où les spectateurs sont les plus inquiets, ils deviennent tranquilles lorsqu’ils sont contents delà pièce et des acteurs.

[1.23] Cependant il y a des villes où les spectacle est toujours paisible, lors même que les comédies et les comédiens ne plaisent pas ; les spectateurs se contentent après deux ou trois représentations de ne plus retourner au théâtre : et au lieu des clameurs ils marquent un mépris, qui ne se fait pas moins entendre. Telles sont les villes de Gênes, de Lucque et de Florence, où l’on sait cependant connaître le bon, et l’applaudir.

[1.24] On ne connaît point en Italie l’usage d’avoir des spectacles pendant toute l’année. Les villes où ils sont établis ont un certain temps marqué pour en jouir ; et comme ce temps n’est pas partout le même, les comédiens parcourent dans l’espace d’un an une partie de l’Italie. Les théâtres sont ouverts à Venise depuis le mois d’octobre jusqu’au premier jour de carême. Dans plusieurs villes des deux Lombardies, on donne le printemps à la comédie ; on la représente en plein jour et sans lumière ; parce que telle est la construction de salles, qu’elles sont suffisamment éclairées par le jour. Ces salles sont quelquefois une simple charpente, élevée dans des cours vastes, à peu près comme à Vérone, où tous les ans on en bâtit de semblables dans le grand amphithéâtre de l’arène.

[1.25] Dans les villes où l’on joue la comédie en plein jour, les spectacles sont tranquilles ; moins cependant par les caractères des spectateurs, que par la difficulté qu’ils trouveraient pour n’être pas aperçus.

[1.26] On n’ouvre les théâtre à Rome que le huit derniers jours du Carnaval. Depuis qu’Innocent XI défendit aux femmes de monter jamais sur aucun théâtre, on n’y voit paraître que de jeunes garçons, qui en prennent les habillements et qui en représentent les rôles.

[1.27] Les théâtres sont magnifiques en Italie : ils ont communément quatre rangs de loges, sans en compter un autre qui est au-dessous des premiers, et qui fait l’enceinte du parterre : il y a même à Venise un théâtre à sept rangs de loges ; on le distingue par le titre de S. Samuel, suivant l’usage général de désigner les différents théâtres par le nom de la paroisse où ils sont bâtis : on y est assis au parterre ; c’est une coutume établie dans toute l’Italie.

[1.28] On ne donne à Venise pour entrer à la comédie que seize sous monnaie courante. On donne cet argent à la porte où l’on prend un billet. Ensuite, si on veut être assis, on paye encore dix sous, mais si le parterre n’est pas plein, on peut rester debout, en se tenant dans le fond de la salle. À l’égard des loges, quand on veut s’y placer, il faut en louer une entière.

[1.29] Les théâtres de Venise ont ordinairement vingt quatre, et quelquefois trente loges par chaque rang ; mais les loges ne peuvent contenir que six personnes : en sorte que tout étant plein, on n’y compte jamais plus de quatorze cent personnes. Le grand théâtre de Milan est un des plus spacieux qui soit en Italie ; mais il n’y en a aucun de comparable à celui de Parme, qui, comme les théâtres des Romains, n’a point de loges, mais seulement des gradins en amphithéâtre.

[1.30] À Venise on va masqués aux spectacles : ce qui est d’une grande commodité pour les nobles, et surtout pour les sénateurs, et les autres personnes qui occupent les grandes places, parce qu’à la faveur du masque ils sont dispensée de porter l’habit qui désigne leur qualité ou leur emploi, et que le doge même y peut aller seul avec cette précaution. On y va aussi, si on veut, à visage découvert, et c’est ainsi que les femmes de qualité et de distinctions y paressaient.

[1.31] Il y a d’ordinaire en cette ville huit théâtres ouverts : quatre pour les comédies, et quatre pour les opéras. Comme les rangs y sont distingués, les femmes de condition ne se placent jamais qu’aux premières loges : et les courtisanes, qui depuis quelque temps sont dans l’usage de se masquer, occupent le rang des loges au-dessous des premières. Les hommes et les femmes qui veulent se mettre sur les sièges du parterre ont grand soin de n’y pas porter de beaux habits : l’habitude où l’on est de cracher des loges dans le parterre, et d’y jeter les restes de ce que lion a mangé, rendant ces places très désagréables.

[1.32] Les loges se louent par année ou par jour ; ce qui est appelé année commence, comme nous l’avons dit, au mois d’octobre, et finit au dernier jour du Carnaval. Le prix de ces loges n’est pont fixe, il change tous les jours suivant les pièces ; le concierge du théâtre est le maître de l’augmenter ou de le diminuer, et c’est ordinairement le mérite de la pièce et des acteurs qui en décide : le succès d’une pièce nouvelle a fait quelque fois porter une loge du paradis à un sequin, ou dix livres de France : une première loge à dix sequins, et les autres à proportion. Il y a très peu de ville en Italie qui n’aient qu’en seul théâtre ; elles en ont deux ou trois, et le prix des entrées est à peu près suivant les usages des théâtres de Venise.

[1.33] Après avoir parlé du théâtre matériel, je viens aux pièces qu’on y représente. Depuis 1500 les Italiens peuvent se vanter d’avoir eu pendant près de cent ans un très bon théâtre, qui même est le seul en Europe que l’on puisse citer de ce temps-là, et qui tant pour les règles, que pour les goût et le génie, a servi de modèle aux autres qui sont venus après. Vers le milieu du XVII siècle les comédies espagnoles prirent la place de la bonne tragédie et de la bonne comédie.

[1.34] La corruption du bon goût a été si violente pendant les cinquante dernières années du siècle passé, que ceux qui s’en étaient préservés n’avoient aucune réputation dans le pays : une pièce de poésie, dans le goût de Petrarca, n’avaient qu’un petit nombre d’approbateurs, mais généralement elle était regardée comme insipide et sans génie. Il en était de même des ouvrages de théâtre. Si dans ce malheureux temps il a paru quelque tragédie sensée et de bon goût, elle était reçue avec mépris, et l’on aurait rougi de dire qu’on l’avait lue. Enfin le goût du théâtre espagnol, qui a son grand mérite, a été poussé en Italie au dernier point de l’extravagance ; ces sortes de poèmes dramatiques sont sans nombre en Italie, et la plus grande partie, du genre que nous venons de dire.

[1.35] Cette frénésie de l’esprit se calma, et sur la fin du siècle on vit paraître dans toutes les villes d’Italie des savants et des gens de lettres et de goût, qui par leurs ouvrages et par leurs dissertations dans les académies, ou dans les sociétés littéraires, firent revivre et ramenèrent le bon sens partout. À l’égard du théâtre on opposa les traductions de Corneille et de Racine aux extravagances qui étaient si fort en vogue : les comédiens mercenaires suivirent l’exemple des particuliers ; et en peu d’années (avec bien de la peine à la vérité) toute l’Italie se remit dans le bon goût.

[1.36] Depuis 1700 il a paru un nombre de tragédies, que les bons esprits des Italiens ont écrites : quelques unes dans le goût français, et d’autres dans la forme ancienne : celle-ci venaient des plus savants génies d’Italie, qui non contents de la forme de la tragédie française, aimaient mieux rappeler les goûts des Grecs, mais ils n’ont pas été les plus heureux ; de même on a vu paraître quelques comédies nouvelles ; et les unes et les autres en vers ; il est vrai qu’elles sont en si petit nombre que le théâtre italien depuis 1700 est infiniment pauvre, si on le compare aux théâtre français, espagnol et anglais, qui chaque année augmentent leur fond par des nouveautés.

[1.37] La stérilité du théâtre italien vient sans doute de ce que les pièces ne produisent rien à leurs auteurs : un homme d’esprit et riche, écrit quelquefois pour sa propre satisfaction un ouvrage dramatique, et le donne aux comédiens ; d’autres comme Martelli, Gravina, font imprimer leurs productions en ce genre, sans les faire paraître sur la scène auparavant ; et laissent aux comédiens, après l’impression, la liberté de les représenter s’ils le veulent ; mais ce sont-là des événements qui arrivent si rarement, qu’il y a tout à craindre que le goût du théâtre ne se perde bientôt en Italie. Les gens d’esprit et de talent ( qui trop souvent e sont pas favorisés des biens de la fortune ) prennent une autre route pour y parvenir. Le temps a insensiblement détruit la plupart des académies, et le même goût ne se trouve point dans celles qui subsistent encore. Si de temps en temps, et par une espèce de caprice seulement, elles s’avisent de jouer quelques pièces, elles aiment mieux en traduire du théâtre français, que d’en composer de nouvelles. C’est ce qu’on a pratiqué dans les collèges de Rome, de Parme, et dans presque tous les autres collèges d’Italie. Cette facilité détourne ceux même qui ont le plus de talent d’imaginer des sujets ; et l’un des meilleurs poètes de son temps, le Gigli, après avoir donné plusieurs pièces de son invention, traduisit le Tartuffe de Molière, dont il a fait sa comédie de D. Pilone. Dès lors j’augurai que l’Italie n’aurait plus pour poètes dramatiques que de simples traducteurs ; et ce que j’avais prévu ne s’est que trop accompli.

[1.38] Quoique en Italie les poètes dramatiques n’aient jamais écrit par intérêt, on trouve cependant dans la Dramaturgia de l’Allacci un nombre considérable de poètes. Suivant ce catalogue, on compte cent trente-neuf poètes tragiques, et trois cent onze poètes comiques du bon siècle, c’est-à-dire depuis 1500.

[1.39] La Dramaturgia de l’Allacci, qui ne va tout au plus que jusqu’en 1660 donne les titres des pièces avec les nomes des auteurs qui ont composé des tragicomédies, des pastorales et des tragédies sacrées ; et en les ajoutant à ceux de mon catalogue, on trouvera que le nombre des poètes dramatiques italiens dans l’espace de 160 ans tout au plus, va à douze cent douze. Or ce catalogue laisse vide un espace de soixante-seize ans jusqu’à ce jour : et si dans ce nombre infini de pièces, il y en a beaucoup qui sont tirées de l’espagnol, ou écrites dans le goût de cette nation, on en trouve assez de bonnes, pour me persuader, que si le théâtre italien donnait à l’exemple des autres théâtre de l’Europe quelque récompense aux poètes dramatiques, on en verrait éclore de meilleurs et en plus grand nombre ; car la gloire et le profit unis ensemble sont les deux principaux mobiles de l’esprit.

[1.40] Puisque l’on a parlé des poètes dramatiques depuis 1500 jusqu’à 1660 il ne sera pas inutile de faire connaître combien il y a de pièces imprimées de ce temps là. On compte dans le seul recueil de la Bibliothèque du Vatican 235 tragédies profanes ; 500 comédies ; 237 pastorales ; 120 tragicomédies, et 405 tragédies sacrées ou morales. L’Allacci dans sa sixième liste donne un catalogue des tragédies, des comédies, des pastorales et des autres drames qui n’ont pas vu le jour, mais qui étaient composés avant 1660 et non content d’y ajouter des mémoires historiques, il indique les bibliothèques, et les cabinets particuliers où l’on conserve ces manuscrits : mais depuis l’Allacci il n’y a pas douze de ces pièces qui aient été imprimées : on trouve dans cette liste 110 tragédies profanes, 70 tragédies sacrées ou morales, 203 comédies, 20 pastorales, et plusieurs opéra. Et dans une espèce de supplément en compte encore 12 tragédies, 18 représentations sacrées, 15 comédies, 10 tragicomédies, 2 pastorales et beaucoup d’opéra, qu’il faut ajouter à la première liste. En assemblant ces différents nombres, on trouvera que le théâtre italien a plus de deux milles drames ; et si le catalogue des 76 ans qui restent depuis 1660 paraît quelque jour, je ne doute point que l’Italie en deux cent ans ne se soit enrichie de plus de cinq mille pièces de théâtreLe mauvais siècle du théâtre italien a été le plus fécond en ouvrage, et il y a un nombre infini de pièces.. On peut avancer cette proposition avec d’autant plus d’assurance que la Dramaturgia de l’Allacci renferme seulement le recueil des pièces qui existent dans la bibliothèque du Vatican, et non pas toutes celles qui ont été imprimées depuis 1500 jusqu’en 1660 et qui sont encore en grand nombre. J’ai plusieurs tragédie et comédies, dont l’Allacci ne parle point, et j’en trouve souvent qui m’étaient inconnues, aussi bien qu’à cet auteur. Ce qui me fait croire que jamais on n’aura un recueil complet, ni même un catalogue général de toutes les pièces du théâtre italien.

[1.41] L’Italie qui avait alors presqu’autant de souverains que de villes, qui avaient chacune leur théâtre particulier, n’a pas trouvé la même facilité que les Français, les Espagnols, et les Anglais à faire de semblables recueils. Comme ceux-ci n’ont jamais eu qu’un maître, le théâtre se réunissait dans les capitales, et ils n’ont pas eu de peine à trouver dans ces mêmes villes tout ce qui leur était nécessaire dans les registres les plus anciens, ou dans les bibliothèques. Mais pour l’Italie il aurait fallu que quelqu’un, excité par son goût, ou par les ordres d’un souverain, en eut parcouru toutes les villes pour rassembler les mémoires et les anecdotes qui concernaient les spectacles particuliers de chaque ville ou palais, et qu’ensuite il nous eut laisse un catalogue général de toutes les pièces des différents théâtres ; ainsi c’est au hasard seul que nous devons un grand nombre de pièces conservées dans les bibliothèques, et dans les cabinets des curieux.

[1.42] Au reste si la bonne comédie se perd en Italie, elle aura toujours une espèce de comédie, qui ne mérite pas un si beau nom, et que l’on devrait plutôt appeler farce : je veux dire cette comédie ancienne et mercenaire que l’on jouait à l’impromptue qui succéda à la comédie latine ; faible et immodeste dans son origine, mais plus chaste et plus ingénieuse dans la suite. Si la décadence des lettres devenait entière, et si les poètes dramatiques manquaient jamais, cette espèce de comédie, ou de farce serait encore plus goûtée à la faveur de l’ignorance. Il est donc à présumer qu’elle ne durera que trop longtemps, mais toujours sans une réputation solide, parce que cette réputation dépend du talent de ceux qui la représentent.

[1.43] Ces farces, dont on ne connaît pas l’origine, et que l’on porte dans toutes les cours de l’Europe, ont induit en erreur plusieurs écrivains français ; lorsqu’ils ont parlé de leur théâtre, il leur a fallu recourir à des parallèles avec les théâtres des autres nations. L’abbé d’Aubignac, le Théâtre français imprimé en 1674, dont l’auteur ne se fait pas connaître, Moreri, et tous ceux qui ont traité cette matière, n’ont jamais cité, en parlant du théâtre italien, que la farce jouée à l’impromptue par des acteurs masqués ; parce qu’en effet c’est la seule qu’on ait continue en France, et cela sous le règne d’Henri III vers l’an 1578.

[1.44] Les comédiens italiens n’ont pas toujours joué dans leur pays la comédie purement à l’impromptue ; ils ont ( comme je le dirai dans la suite ) appris par cœur, suivant les temps dans lesquels ils ont représenté. Mais dans les cours de l’Europe, où la langue italienne n’est pas familière, et où cependant le jeu des comédiens italiens est recherché et applaudi, ils n’ont fait usage que de l’impromptu ordinaire ; et c’est par là qu’ils sont connues dans toute l’Allemagne, et particulièrement en France : voilà ce qui a fait croire aux auteurs français, que j’ai nommés, que le théâtre italien ne consistait que dans ces sortes de bouffonneries, et sur cela ils ont décidé, sans autre examen, que le théâtre français était supérieur à tous les théâtres de l’Europe, soit pour la tragédie, soit pour la comédie, en quoi ils ne se sont pas trompés ; mais il n’était pas moins avantageux pour le théâtre français, qu’on examinât auparavant le théâtre italien antérieur d’un siècle, et que lion montrât par un parallèle exact la supériorité des Français sur leurs rivaux. Je suis assuré que la gloire de Corneille, de Racine et de Molière n’en aurait été que plus éclatante ; en leur donnant des concurrents, on le les aurait, pour ainsi dire, fait triompher qu’après avoir combattu. C’était pour dissiper une erreur si généralement reçue en France, que j’ai donné, comme je l’ai déjà dit, le grand Catalogue des Tragédies et des Comédies Italiennes, que l’on trouve dans mon Histoire du Théâtre italien.

[1.45] Les auteurs français sont tombés dans une autre erreur, par rapport aux acteurs italiens ; ils ont avancé que les acteurs, bons seulement pour le mimique, étaient incapables de jouer dans le pathétique et dans le grand. Mais outre que ceux-ci ont appris par cœur, et représenté en différents temps la bonne tragédie, et la bonne comédie ; cette opinion a été suffisamment détruite par la troupe italienne établie à Paris en l’année 1716. Les représentations qu’elle a données des tragédies de Mérope, et d’Andromaque en vers italiens, et des tragicomédies d’Hercule, de Samson, de La Vie est un songe, et de plusieurs autres, on fait connaître que les comédiens italiens sont aussi capables que ceux des autres peuples de jouer le pathétique et le grand.

[1.46] On voit d’ailleurs en Italie ce qu’il n’est pas facile de trouver parmi les autres nations. Jamais une troupe italienne n’a plus d’onze acteurs ou actrices ; parmi lesquels, cinq y compris le Scaramouche, ne parlent que boulonnais, vénitien, lombard et napolitain. Cependant lorsqu’il s’agit de jouer une tragédie qui est chargée d’acteurs, tous s’y emploient, jusqu’à Arlequin qui ôte son masque, et tous déclament des vers en bon romain : un tel exercice les rende également capables de rendre les idées les plus sublimes des poètes dramatiques, et d’imiter les ridicules les plus extraordinaires de la nature. Voilà un mérite que l’on peut dire unique en cette espèce, puisque dans le troupes des autres nations, et dont les acteurs sont au moins au nombre de trente, ils ne jouent chacun en particulier que les rôles dont la nature ou l’art l’ont rendu capable, et c’est une singularité que d’en rencontrer un, ou deux qui se prêtent aux différents caractères des pièces ou des personnages.

De l’Opéra
§

[2.1] Dans les premiers commencements du théâtre en Italie la musique a toujours été mêlée à la déclamation. La façon de l’introduire dans ces poèmes a changé suivant les temps. On commença d’abord par faire chanter les chœurs, ensuite les prologues, des entractes en stances, et l’épilogue. Lorsque le théâtre devint meilleur (par les beaux poèmes du bon siècle) dans les premiers vingt ou trente ans, on quitta l’usage de mêler de la musique aux représentations de la bonne tragédie, et de la bonne comédie, et on donna l’une et l’autre dans le goût et dans la simplicité des anciens ; la tragédie ayant les chœurs déclamés, et la comédie les prologues récités. Par ce changement subit on conçoit fort aisément que l’on quitta l’usage de la musique, parce qu’elle ne convenait point à ces sortes de spectacles réglés, et parce qu’on la méprisa comme une des parties de la France qu’on venait d’abolir.

[2.2] Quelques temps après, sans qu’aucun des écrivains italiens nous ait indiqué la cause, les poètes abandonnèrent la grande austérité qu’ils avaient fait paraître dans le commencement de la Réforme : je serai tenté de croire que l’exactitude des règles avait ennuyé les spectateurs, et que les poètes se conformèrent au goût du peuple, qui demandait peut-être quelque chose de plus. On donna depuis des tragédies sans les chœurs, on y introduisit de nouveau la musique dans le prologue des comédies, et peut à peu on y joignit des intermèdes qui n’y avaient point de rapport : tantôt ces intermèdes étaient détachées l’un de l’autre, et chacun faisait une action ; maisL’Aurora ingannata favoletta per gli intermedii in musica nel Filarmindo favola pastorale, Venezia 1606. très souvent trois ou quatre intermèdes faisaient une action suivie, qui donnait un grand agrément à la pièce.

[2.3] Il faut remarquer que les trois exemples que je rapporte dans la note sont pris dans le noble, et qu’ils étaient adaptés aux pièces auxquelles ils ont servi, qui sont ou des pastorales, ou des tragicomédies : comme il y en a d’autres qui sont d’un genre comique, et plus convenable à la comédie.

[2.4] Il faut aussi remarquer que dans ce temps-là insensiblement le théâtre commença à se corrompre ; et qu’on substitua à la sévère tragédie et à la comédie réglé les pastorales, les tragicomédies et les intermèdes, qui dégradèrent tous les jours, et produisirent enfin les monstres dont nous avons parlé.

[2.5] Ces intermèdes en musique, entrecoupés par l’action des actes e la grande pièce, faisaient un spectacle dans les formes ; et s’ils avaient été tous seuls et détachés de la pastorale ou de la tragicomédie, auxquelles ils étaient annexés, ils n’avaient besoin que d’un nom pour les caractériser d’un genre de représentation tout à fait différent de la tragédie et de la comédie.

[2.6] Les écrivains italiens se sont donnés bien de la peine pour déterrer l’époque juste de la naissance de l’opéra. Quelques-uns prétendent que c’est l’Euridice de Rinuccini de 1600 Rinuccini: rime, page 13donné à Florence pour le mariage de Marie de Medicis et Henri IV. D’autres en donnent le mérite à Emilio del Cavaliere, qui l’année 1590 fit représenter à Florence dans le palais du grand duc Il Satiro, et La Disperazione de Fileno, pastorales en musiques.

[2.7] Sans m’arrêter à l’examen de leurs discussions, je prendrai mon époque de la tragédie en musique que le Sénat et la République donnèrent dans le palais du doge à Henri III lorsqu’il passa par Venise, en revenant de Pologne l’an 1574Le Glorie della Poesia e della Musica, Venezia sans date d’année.. Tous les princes d’Italie, vers ce temps-là, donnaient des opéras dans leurs palais particuliers, mais en public ; tout le monde convient que le premier opéra parut à Venise l’an 1637Idem.

[2.8] Le livre que nous venons de citer nous dit que pendant le Carnaval de l’année 1637 on donna sur le théâtre de Saint Cassan le premier opéra public avec le titre d’Andromaque. L’année suivante, au même temps et sur le même théâtre, on en vit exécuter un second, intitulé La Magicienne foudroyée. Ces deux premiers opéras furent représentés avec une grande magnificence et aux dépens du poète et des musiciens. En 1639 le théâtre de S. Jean et de S. Paul où l’on n’avait donné que des comédies, étant rebâti à neuf, l’on y représenta d’abord un opéra, intitulé La Delie de Jule Strozzi ; et l’on y fit les représentations du Carnaval par celui d’Armide. Le théâtre de San Cassan donna dans le même temps l’opéra de Thétis et Pelée ; et dans l’automne l’autre théâtre donna celui d’Adonis, qui eut un si grand succès, qu’il fut joué au Carême. Dans ce même Carnaval, qui commence l’année 1640 le vieux théâtre, appelé Saint Moyse, dont on ignore la fondation, donna l’Arianne d’Octavio Rinuccini, qui plusieurs années auparavant avait été représentée dans le palais de quelques souverains d’Italie, et qui suivant l’édition de 1608 est antérieure de trente deux ans à la représentation dont je viens de parler.

[2.9] Je n’entreprendrai point l’énumération de tous les opéras qui ont paru depuis cent ans sur les théâtres de Venise, elle ne serait qu’ennuyer le lecteur et grossir inutilement ce volume ; je me contenterai de renvoyer les curieux au livre que j’ai cité ci-dessus, qui est un petit volume in-12 imprimé à Venise, et qui a pour titre Le Glorie della Poesia e della Musica ; c’est un catalogue de 268 pages ; le libraire y ajoute chaque année, par forme de supplément, la liste des opéras que l’on a joués dans l’année. Ce livre imprimé sans date a commencé de paraître en l’année 1730. On pourra juger combien les opéras sont en vogue à Venise, lorsqu’on saura qu’en de certains temps on y en a joué tous les jours, et sur six théâtres à la fois.

[2.10] Jamais aucun souverain n’a égalé la dépense que les Venitiens on faite pour ces sortes de représentations, si on en excepte pourtant Ranuce Farnese duc de Parme, qui étonna l’Italie par les fêtes qu’il donna en 1690 à l’occasion du mariage du prince Odoard son fils. On parle encore aujourd’hui de deux opéras, qu’il fit exécuter, un pendant la nuit dans le grand théâtre de son palais, et l’autre pendant le jour sur un vaste bassin construit exprès dans ses jardins. Il serait à souhaiter que l’on put donner un détail exact des machines que les habiles artistes imaginèrent dans cette occasion, et de tout ce que l’on a exécuté de merveilleux en ce genre à Venise, à Rome, à Naples, à Florence, et dans les autres villes d’Italie. Pour ce qui regarde les décorations et les machines, on peut dire qu’aucun théâtre de l’Europe n’approchera jamais de la magnificence avec laquelle les opéras ont été exécutés à Venise ; il y en a qui passeront par tradition jusqu’aux siècles les plus reculés ; on y cite, par exemple, l’opéra intitulé La Division du monde, que le marquis Guido Rangone fit exécuter en 1675 à ses dépenses, sur le théâtre de Saint Sauveur. Dans Le Berger d’Amphrise qu’on donna vingt ans après sur le théâtre de Saint Jean Chrysostome, on voyait descendre le palais d’Apollon d’une très belle et très grande architecture, et construit entièrement de cristaux de différents couleurs, lesquels ne cessaient de tourner : les lumières qu’on avait placées derrière ces cristaux, en faisaient sortir continuellement une quantité si prodigieuse de rayons, que les yeux des spectateurs n’en pouvaient presque pas soutenir l’éclat.

[2.11] Les deux Bibiena, célèbres architectes, et fameux peintres, actuellement vivants, on fait voir à toute l’Europe par leurs superbes décorations, que sans machines on pouvait orner un théâtre, non seulement avec autant de magnificence, mais encore avec plus de vraisemblance qu’avec des machines. Les machines sont les effets de la magie et du merveilleux ; et l’on a souvent besoin de se rappeler la construction du théâtre, et que tout ce que l’on voit est porté par des poutres, des cordages, des fers et des contrepoids, pour se défendre de l’illusion de nos sens, qui nous persuade que ce nous voyons est véritable. Et voici un exemple.

[2.12] Caton d’Utique est le sujet d’opéra que l’on donna sur le théâtre de Saint Jean Chrysostome en 1701. Comme César n’était pas éloigné de la ville avec son armée, et que les habitants de la province lui avaient préparé une fête sur le bord de la rivière : le fond du théâtre représentait une campagne, au milieu de laquelle était suspendu en l’air un globe représentait un mappemonde : on voyait au bruit des trompettes et de la symphonie, ce globe s’avancer peu à peu sur le devant du théâtre, et tout cela sans apercevoir les cordes ou les machines qui le tenaient de la sorte. Au moment où il était vis-à-vis de César, il s’ouvrait en trois parties, qui représentaient les trois parties du monde, connues de son temps. L’intérieur du globe était éclatant d’or, de pierreries et de métaux de toutes les couleurs, et contenait plusieurs musiciens. Voilà ce que le théâtre peut faire, c’est-à-dire, de cacher avec art les cordes et les fers, car au moyen d’un premier plafond de charpente bâti au dessus du théâtre, il est facile de soutenir et de faire marcher en l’air une machine de telle pesanteur que l’on voudra ; et c’est alors que le spectateur a besoin de se rappeler qu’il est au théâtre, et ce qui arrive n’est qu’un effet des machines et de la constructions ; mais c’est en même temps ce que le poète et le machiniste devraient tâcher de lui faire oublier.

[2.13] Les acteurs peuvent quelquefois par leur art si bien imiter la nature, qu’ils persuadent au spectateur que tout ce qu’il voit est véritable ; mais les Musiciens ont beaucoup plus de peine à y parvenir : en effet, il est bien plus difficile d’accorder le chant avec la colère, la douleur, les larmes, la mort même. Le poète et le machiniste loin d’augmenter les obstacles par des machines et des décorations outrées, devraient, au contraire, ne représenter aux spectateurs les idées les plus élevées, qu’avec l’art le plus propre à les rendre sensibles. L’objet essentiel au théâtre est de faire illusion, et l’on ne peut y parvenir : en effet, il est bien plus difficile d’accorder le chant avec la colère, la douleur, les larmes, la mort même. Le poète et le machiniste loin d’augmenter les obstacles par des machines et des décorations outrées, devraient, au contraire, ne représenter aux spectateurs les idées les plus élevées, qu’avec l’art le plus propre à les rendre sensibles. L’objet essentiel au théâtre est de faire illusion, et l’on ne peut y parvenir que par le vraisemblable.

[2.14] Quant à la musique italienne toute l’Europe convient que vers le milieu du dernier siècle, elle était parvenue au dernier degré de perfection, et qu’elle s’est soutenue dans cet état jusqu’au commencement du siècle où nous vivons : les ouvrages de Scarlati le père, de Bononcini et de tant d’autres excellents maîtres, en sont de témoins qu’on ne peut récuser. Mais depuis vingt ans la grande réputation qu’elle s’était acquise auprès des étrangers a beaucoup diminué, parce que la musique a changé de gout en Italie. En effet aujourd’hui elle n’est plus que bizarre, on a mis le forcé à la place du beau simple, et ceux qui cherchent l’expression et la vérité qu’ils sentaient dans la précédente, ne retrouvent plus dans celle-ci que des singularités et des difficultés : ils admirent à la vérité la surprenante capacité de chanteurs, mais ils n’en sont pas touchés, et ils prétendent, avec raison, que c’est renverser l’ordre que la nature a établi de tous le temps, que de forcer une voix à exécuter ce que fait à peine un violon et un hautbois : voilà pourquoi la musique italienne est aujourd’hui si éloignée du vrai et de l’expression, et qu’elle est menacée d’une chute totale si elle continue à s’éloigner de routes qui l’on conduit à sa perfection passée. Ce nouveau goût s’est cependant si bien établi en Italie, que les maîtres de musique même ont été obligés, pour s’y conformer et pour plaire, de s’éloigner, malgré eux, de la simplicité du chant et de la noblesse de l’harmonie ancienne.

[2.15] A l’égard des musiciens, les Italiens, par le moyen qu’ils ont de fabriquer des voix, ont toujours eu un grand nombre d’excellents chanteurs, tant par la beauté de la voix, que par l’habilité et le goût du chant. Tels étaient du temps des grands maîtres, que nous venons de nommer, Pistocco, Pasqualino, Siface, Mattecucio, Cortona, Luigino, et un nombre infini d’autres, dont les musiciens d’aujourd’hui auront bien de la peine d’effacer le souvenir. Les femmes musiciennes ont de tous temps disputé aux hommes l’honneur du chant : on compte parmi celles qui ont excellé depuis la moitié du siècle passé, François Vaini, Santa Stella, Tilla, Marguerite Salicoli, Reggiana et plusieurs autres. Mais celle, qui de notre temps a conservé le vrai goût de la musique italienne est la célèbre Cuzzoni ; tout le monde sait qu’en 1724 elle chanta avec un applaudissement universel un motet et un pseaume de la composition du sieur Bononcini dans la chapelle de Fontainebleau : elle a soutenu à Londrès pendant six années la gloire de la nation italienne, et elle y fut rappelée en 1734, malgré les contestations et les brigues des théâtres d’Italie ; ses appointements étaient de quinze cent guinées par an, de même que ceux du sieur François Bernardi, dit les Senesino, excellent musicien, et qui ne s’est jamais laissé entraîner par le goût de la nouvelle musique ; mais , ce qui est fort rare par tout ailleurs, c’est le mérite de la déclamation, et que l’acteur ne cède en rien au musicien.

[2.16] Je ne dois pas oublier ici la fameuse Faustina Bardoni Asse, dont les talents et les récompenses n’ont point été inferieurs à ceux de Cuzzoni, dont je viens de parler. C’est à ses talents singuliers, et à la prodigieuse légèreté de sa voix que Faustina a l’obligation d’avoir inventé une nouvelle façon de chanter : comme elle a extrêmement plu dans toute l’Europe, on a cherché à l’imiter ; mais ces imitateurs n’ayant ni son organe ni son talent, n’ont fait que gâter leur manière, et c’est de cette mauvaise imitation que vient le mauvais goût du chant et de la composition qui règne aujourd’hui en Italie, et qui a déjà passé dans presque tous les pays de l’Europe.

[2.17] Je me suis réservé de parler en dernier de M. Carlo Broschi dit Farinello, parce que c’est aussi le dernier et le plus jeune des musiciens italiens de grande réputation. Il chante dans le gout de Faustina, mais de l’aveu des plus grands connaisseurs, il est sans comparaison au dessus d’elle, étant parvenu au dernier degré de la perfection. Dans l’année 1734 il fut appelé à Londres, où il a chanté pendant trois hivers avec un applaudissement général ; il vint à Paris en 1736, et après avoir chanté dans les plus grandes maisons, où il était appelé et reçu avec distinction, le roi lui fit l’honneur de l’entendre dans la chambre de la reine, et de l’applaudir avec des expressions qui étonnèrent toute la court. Tous ceux qui l’ont entendu l’ont admiré, et on convient que l’Italie n’a jamais produit, et ne produira peut-être jamais, un musicien si parfait. Présentement il est en Espagne entretenu pour chanter dans la chambre du roi et de la reine. Ce monarque par ses bienfaits, et par les grosses pensions dont il l’a pourvu, a mis le comble à la fortune que M. Broschi a si bien mérité, et par ses rares talents, et par ses mérites personnels.

[2.18] Autrefois à Venise on ne donnait aux habiles et fameux musiciens pour chanter pendant l’automne et le Carnaval, que ces écus romains : c’était une grande distinction, et la preuve d’un mérite supérieur, que d’accorder jusqu’à cent vingt écus, qui valent 600 livres de France. Mais depuis 30 ans on donne è une belle voix, soit en homme, soit en femme, plus de mille sequins d’or, qui sont douze mille livres de France environ. Santa Stella, Faustina, Cuzzoni, et Farinello ont toujours été payés sur ce pied là. Ce sont ces frais immenses qui causent la ruine de tous les entrepreneurs d’opéra à Venise, et qui épuisent les meilleures bourses d’Italie ; c’est encore pour cette raison, que par fournir aux grandes sommes que coutent les musiciens, on a depuis quelque temps retranché les machines dont l’exécution coutait aussi infiniment.

[2.19] On paye trois livres, monnaie de Venise, pour entrer dans la salle des opéras et trente sols pour y être assis dans le parterre, le prix des loges est à proportion. Si l’on compare une recette si modique avec les excessives dépenses qui ont nécessaires pour soutenir la magnificence de ces spectacles, on sera convaincu des pertes que doivent faire les entrepreneurs d’opéra, étant presque impossible que la recette égale les frais, surtout en moins de quatre mois de représentation, puisque les opéras ne commencent à Venise au plutôt qu’à la moitié du mois de novembre jusqu’au dernier jour du Carnaval.

[2.20] Comme l’expérience a fait connaître dans toute l’Europe, et surtout en Italie, que les meilleurs acteurs avec les plus belles voix ne peuvent pas seuls faire réussir un opéra, lorsque la musique et le poème ne sont pas bons ( et très souvent cette dernière toute seule ) peuvent avoir beaucoup de succès malgré la médiocre exécution ; à Venise, où l’on a senti cette vérité mieux qu’ailleurs, on suit une méthode tout à fait différente de l’ancienne, comme nous allons le voir.

[2.21] Depuis que les opéra y ont commencé, on en compte en moins d’un siècle 650, quoiqu’on ne les ait jamais représentés que dans l’hiver ; depuis 1637, qui est l’époque du premier opéra de Venise, jusqu’à 1700, on en compte 357 ; à l’exception de cinq ou six qui ont été remis au théâtre à cause du grand succès qu’ils avoient eu. Il paraît surprenant que dans l’espace de soixante et trois années on ait vu dans la seule ville de Venise 350 opéra tous différents : il n’en est plus de même aujourd’hui. Les entrepreneurs ne voulant point courir les risques de la nouveauté, remettent presque tous les ans les opéra qui ont eu du succès quelques années auparavant, soit à Venise, soit ailleurs ; on fait encore plus, car on remet quelquefois le même opéra deux fois de suite : ce qui déplait aux spectateurs, et qui ternit beaucoup la gloire des théâtres d’Italie autrefois si fertiles en nouveautés.

[2.22] Parmi les poètes italiens qui ont écrit en ce genre, quelques uns ont excellé par une versification noble et pure, et d’autres par une imagination poétique et élevée, mais le plus grand nombre ne mérite pas qu’on en parle. Autrefois l’opéra embrassait tout ; aujourd’hui en renonçant aux machines on a abandonné la fable, les divinités, la magie, la pastorale, et autres choses pareilles ; on ne s’est attaché qu’à traiter des sujets historiques. Les vieux opéras qui nous restent, nous font connaitre quel était le génie abondant des italiens en traitant l’histoire ; il semble aujourd’hui qu’une stérilité générale ait succédé dans les esprits à la fécondité de leurs prédécesseurs. Le plan, les scènes, et même les pensées sont prises ordinairement du théâtre tragique français.

[2.23] Tous les inconvénients, dont nous avons parlé, pourraient bien faire tomber l’opéra dans le cas de la comédie, et l’on pourrait bien parler un jour de la musique italienne comme l’on fait aujourd’hui de leur belle comédie du bon siècle, en estimant les anciens, et en méprisant les modernes.

Théâtre espagnol
§

[3.1] On pourrait, je crois, assurer que les Espagnols on été les premiers en Europe qui aient écrit pour le théâtre, s’il n’était pas évident que depuis la décadence des Latins le théâtre s’est perpétué en Italie sans interruption ; il est vrai aussi que les bateleurs et les charlatans ont eu grande part à cette continuité, puisqu’ils ont été les supports de la comédie des gentils, et qu’on ne peut avec raison donner le nom de comédie à leurs bouffonneries, qui n’étaient que des monstres informes sans dialogue et sans style. Si ce même charlatans ont dans la suite anobli leurs yeux en représentant dans des courts, ou dans des salles de grande maisons, cela ne suffira jamais pour dire qu’avant le XI et le XII siècle la comédie ait eu une forme en Italie, ou dans quelque autres partie de l’Europe. Ce spectacle était tout au pus dans le gout des farces impromptues que les comédiens italiens jouent encore présentement, et il est même a supporter que la forme qu’elles avaient alors n’était pas à beaucoup près comparable à la comédie italienne à l’impromptu, quelque défectueuse qu’elle soit.

[3.2] Je ne prétends pas détruire par là ce que j’ai dit ailleurs, et je suis persuadé que dès le treizième siècle, il y avait en Italie des comédies écrites ; mais comme elles n’étaient point publiques, et on ne les jouait qu’en particulier, on n’en peut donner une époque aussi certaine que nous l’avons de la comédie jouée à l’impromptu.

[3.3] Le théâtre en Espagne a commencé bien différemment : il est vrai que les Espagnols, non plus que les autres nations, ne se sont pas piqués de jouer à l’impromptu ; mais ils peuvent disputer à toutes les autres nations le renouvellement ou le rétablissement de la véritable comédie. L’histoire d’Espagne nous fournit des mémoires très anciens des premiers jeux de leur théâtre : c’était de petites farce en acte qu’on appelait entremessés, ou jornadas, journée, car c’est ainsi qu’on les nomme encore ; ces pièces en très peu de scènes, n’étaient représentés que par un petit nombre d’acteurs : l’action de cet acte roulait ordinairement sur un fait populaire et ridicule, et tout cela était écrit et rempli de mots plaisants, et malins, qui amenaient un mariage extravagant : en cela très conformes aux mimes latins, puisque les sujets étaient de la même espèce. Ces entremessés se représentaient dans les carrefours et dans les places publiques des villes, à l’occasion de quelque fête sacrée ou profane : comme la dédicace de quelque église, l’entrée, le mariage de quelque prince souverain, au autre chose semblable : les Français en cela n’ont que longtemps après imité les Espagnols. Si l’on veut juger de ces sortes d’ouvrages par les entremessés modernes que les meilleurs poètes dramatique espagnols nous ont donnés, on ne peut croire les premiers que très faibles ; car ceux qui sont écrit du temps de Calderon sont bien mauvais, et ils n’ont d’autre mérite que d’être véritablement farces.

[3.4] Ces passetemps, qui n’étaient faits que pour amuser la populace, firent place à la comédie, qui commença de la même façon qu’elle s’était établie dans la Grèce. On la représentait sans presque aucun ornement, et dans des endroits nullement convenables aux fêtes qui étaient le motif de la représentation. Quoiqu’aujourd’hui les théâtres d’Espagne aient pris une meilleure forme, ils conservent encore néanmoins le nom qu’on leur donna dans les commencements, et l’ont continue toujours de les appeler corrales qui veut dire cours, ou basse cours. Mais lorsque l’on veut donner un nom plus honnête, on les appelé patïos, qui veut dire grandes cours. Les théâtres qui sont dans les palais des souverains, ou de quelques grands seigneurs, ne portent point le nom de corrales, parce que c’est un mot trop bas, mais celui de coliseo.

[3.5] On voit bien que les Espagnols ont insensiblement fait succéder à ces farces de meilleures comédies, mais il n’est pas possible de donner une époque certaine de ce changement qui a rendu le théâtre tel qu’il est aujourd’hui : ce qu’il y a de certain, c’est qu’ils peuvent se vanter d’être les premiers qui ont remis leur comédie dans l’état où nous la voyons depuis longtemps, et ils peuvent dater ce rétablissement du milieu du XV siècle, au lieu que les Italiens ne comptent leur bonne comédie que du commencement du XVI siècle, et les Français vers la fin du XVII siècle c’est à dire du temps de Molière.

[3.6] D. Lope de Rueda, et Navarro, qui étaient contemporains, ont commencé à mettre en trois actes la comédie qui auparavant était divisée en quatre : on nommait dans ces premiers temps actos ce que nous appelons actes, et les deux auteurs que nous venons de citer les appelèrent jornadas, ce qui a été observé jusqu’à présent par tous les auteurs, dont les pièces ont été imprimées. Mais avant toutes choses, je crois qu’il faut examiner la construction de leur salle, par laquelle on pourra tirer quelque connaissance de l’ancienneté de leur comédie.

[3.7] Les théâtres en Espagne ont une forme tout à fait particulière : ils sont presque quarrés, et ont trois étages : il n’y a de loges qu’au premier rang, et ces loges ne sont séparées, comme en France, que par des barreaux : la loge qui est en face, et au dessus de la porte qui conduit au parterre et au théâtre, s’appelle la loge de la ville, parce qu’elle est toujours occupée par un des regidores, ou intendant de police. Au dessous de cette loge, et du reste de la façade, se forme une espèce d’amphithéâtre qui s’avance un peu dans le parterre et qui est garni de bancs : on le nomme cazuela, il n’y a que les femmes qui s’y placent ; au dessous de la cazuela, et aux deux côtés de la porte par où l’on entre dans le parterre, sont deux loges obscures que l’on appelle aloxeros, et dans l’une desquelles un alcade de corte, qui est un juge royal, se place, ayant tout son cortège devant lui dans une petite enceinte qui est dans le parterre : ce magistrat ne s’y met cependant pas ordinairement, mais seulement lorsque la scène est embarrassée par des décorations, car dans la comédie simple que l’on appelle de Capa y Spada, il occupe une chaise sur un des côtés du théâtre, avec deux ou trois archers de sa suite placés derrière lui.

[3.8] Au dessus des premiers loges, des deux côtés de la salle, est un second rang composé d’une espèce de loges, ou petites chambres, que l’on appelle banés, c’est la que se placent les personnes qui ne veulent point être vues. Sur la même ligne, et dans toute la façade du fonds, est un espace aussi vaste que celui de la cazuela, on le nomme tertulia ; c’est où se placent les moines, les prêtres, et autres personnes qui veulent assister au spectacle avec une sorte de bienséance. Aux deux côtés du parterre sont des places destinées aux hommes, qui y sont assis comme on l’était dans les amphithéâtre des Anciens : leur nom est las gradas ; on y monte par cinq petites marches de bois ; ils sont entourés d’une espèce de balustrade, et vont se joindre à deux rangs de bancs qui sont sur la scène où les acteurs représentent : il y a au bout de ces gradins un autre endroit qui est de toute la largeur du théâtre, et qui y est joint : il est un peu plus élevé que le parterre, et on l’appelle los tabouretés, ou media lunetta, ce qui peut se comparer à l’orchestra des théâtres d’Italie et de France. Dans le patio, ou parterre, en face du théâtre, il y a des bancs ; qui se joignent aux derniers gradins des deux amphithéâtres dont on a parlé. Autrefois les théâtres n’étaient point couverts au dessus de ce parterre, comme ils le sont présentement, de façon que les spectateurs se trouvaient exposés à la pluie et autres injures de l’airAujourd’hui on a construit à Madrid un théâtre très grande et très magnifique, dans le goût des théâtres d’Italie, en conservant cependant quelques unes des parties de leur ancienne forme..

[3.9] Cette forme des théâtres, qui en Espagne diffère tant des autres théâtres de l’Europe, pourrait être encore une preuve de leur antiquité ; car il est naturel de penser que si les théâtres d’Italie avaient été bâtis avant ceux d’Espagne, on aurait suivi la méthode des Italiens, comme toutes les autres nations on fait, à la réserve de quelques petits changements : comme par exemple la mode des amphithéâtres que l’on voit en France, et qui cependant pourrait bien tirer son origine de la cazuela des théâtres de Madrid : comme les deux bancs sur la scène en Espagne pourraient aussi avoir donné aux François l’idée d’en mettre jusqu’à six, pou y placer plus de monde.

[3.10] La façon de payer pour voir la comédie en Espagne est la même qu’en Italie : on paye d’abord, pour entrer dans la salle, quatro quartos, qui sont deux sols et demi, monnaie de France : et ensuite, pour être placé, on paye la même somme ou un peu plus, selon les places qu’on choisit. C’est assez l’usage en Espagne de louer pour toute l’année les loges, qui ordinairement sont occupées par des femmes de condition accompagnées seulement de leurs parents, ou de quelques vieux domestiques ; mais on commence à se relâcher de cette contrainte, et on a aujourd’hui plus de liberté qu’on n’avait autrefois sur bien de choses. Si on ne veut prendre dans les loges qu’une seule place ( ce que font les hommes seulement ) on paye deux reales de plata, qui sont vingt sols, et los tabouretés de même, et tout le reste à proportion.

[3.11] Anciennement les décorations étaient très peu de chose : elles se réduisaient à un assez mauvais rideau qui couvrait les portes par où les acteurs entraient et sortaient : cet usage n’est pas même aboli tout à fait, principalement dans les comédies de capa y espada.

[3.12] Les habits étaient autrefois très simples, mais aujourd’hui le luxe s’est introduit au théâtre, et les actrices y sont vêtues magnifiquement, surtout lorsque la comédie est en musique. Les auteurs choisissent dans la fable des sujets de comédie, dont la plupart des scènes sont en musique, et alors les décorations, les changements de théâtre, les habits et tous les autres accompagnements y sont très somptueux. Mais quand la représentation se fait dans le salon de Palacio, dans le Coliseo del ritiro, ou chez quelque grand d’Espagne des plus riches, c’est alors que l’on tache d’égaler ce qu’il y a de plus superbe dans l’Italie.

[3.13] Il serait difficile de dire exactement le nombre des poètes dramatiques que l’Espagne a produits : mais on peut mettre au rang de ceux qui ont le plus de réputation Lopes de Vega, Calderon, Mureto, Solis, Salazar, Molina et quelques autres. A l’égard de la quantité des ouvrages dramatiques les Espagnols sont en cela bien supérieurs à toutes les autres nations ; et l’on peut dire, sans exagérer, qu’il y a plus des comédies espagnoles, qu’il n’y a de comédies et de tragédies italiennes et françaises depuis leur origine jusqu’à présent. Si l’on doute de ce que je viens d’avancer, on n’a qu’à examiner les ouvrages de quelques uns des poètes de cette nation.

[3.14] Le seul Don Pedro Calderon de la Barca a imprimé neuf volumes de comédies, et six volumes d’autos sacramentales, et chacun de ces volumes contient douze pièces, ce qui fait un recueil de cent quatre vingt : or il est certain qu’il en a encore écrit un plus grand nombre qui n’ont point été imprimées. Quoiqu’Augustion Mureto n’ait mis au jour que trente six pièces, il n’est pourtant pas douteux qu’il n’en ait composé beaucoup plus. Fray Gabriel Thelles a fait un très grand nombre de pièces, mais il n’y en a que cinq volumes d’imprimés, chacun de douze comédies : on voit par les anciens registres, ou journaux des théâtres, que Lopes de Vega Carpio a fait plus de 1500 pièces, et qu’elles on été toutes représentées : on n’en trouve ( et même avec bien de la peine ) que vingt six volumes contenant trois cent douze comédies : à l’égard des autres qui ne sont point parvenues jusqu’à nous, si quelqu’un veut les lui contester, du moins personne ne peut révoquer en doute les 312 qui nous restent, et ce nombre prodigieux suffit pour prouver que le plus fertile génie de tous les poètes dramatiques ne peut, et ne doit point être comparé à Lopes de Vega du côté de la fertilité et de l’imagination. Don Juan Perès de Montalban a composé trente six comédies et douze autos sacramentales : ainsi parmi les auteurs qui ont travaillé pour le théâtre, il n’y en a presque point qui n’aient composé chacun 24 pièces, si nous en exceptons Antonio de Solis et Don Augustin de Salazar, qui se sont distingués entre les meilleurs poètes, quoiqu’ils n’aient fait chacun que neuf pièces. On ne doit pas s’étonner si les ouvrages de ces deux auteurs sont en si petit nombre, en comparaison de ceux de leurs compatriotes, Solis étant mort fort jeune, et Salazar presque enfant : on dit que le premier laissa une pièce imparfaite, et qui avait pour titre Amor es arte de amar ; ma personne n’a jamais osé l’achever. Ce fut à l’occasion de la mort de Salazar que Calderon dit : « Emperaba par d’onde el acababa » c’est-à-dire il était le premier dans tout ce qu’il perfectionnait.

[3.15] Il y a 600 autos sacramentales imprimés, sans compter un nombre infini qui ne le sont point ; les autos sacramentales sont des drames saints que l’on représente en certain temps de l’année, et particulièrement le jour de la fête-Dieu. Il ne faut pas croire qu’ils n’aient quelque ressemblance avec ces drames qui sont en si grand nombre en Italie, et dans lesquels on représente les mystères de la passion de Notre Seigneur, ou quelque événement de la vie des martyrs et des vierges. Ce sont des ouvrages allégoriques qui traitent toujours des grands mystères de notre religion, mais d’une façon tout à fait particulière. Don Pedro Calderon est regardé comme le meilleur de tous les poètes qui ont travaillé en ce genre, et l’on convient que personne ne pourra jamais l’égaler.

[3.16] La forme de ces drames est toujours allégorique, comme nous avons dit. On personnifie la mémoire, la volonté, l’entendement, la vie, le judaïsme, l’église, l’idolâtrie, l’apostasie, etc. Don Pedro Calderon dans un de ses ouvrages personnifie jusqu’aux cinq sens du corps humain : très souvent parmi de tels acteurs il y a des personnages réels, et surtout un acteur comique. Toute l’action de ces sortes de drames ne roule, comme nous l’avons déjà dit, que sur les plus grands mystères de notre religion, et principalement sur celui de l’Eucharistie, par où l’action se termine.

[3.17] L’Auto sacramental de la Plantas du même Calderon, me paraît tout à fait singulier en ce genre : les acteurs sont l’Espine, le Murier, le Cèdre, l’Amendier, le Chêne, l’Olivier, l’Espi, la Vigne et le Laurier. Deux anges entrent sur le théâtre, et adressant la parole à toutes les plantes, ils leur déclarent qu’une d’entre elles doit produire un fruit doux et admirable : ils les invitent à un combat divin pour mériter une couronne qu’un de ces anges tient à la main, et qu’il va appendre su un côté du théâtre ; ils leur donnent la faculté de parler, et ils s’en vont ; les arbres parlent et sont dans l’admiration.

[3.18] Le Cèdre arrive avec un bâton à la main en forme de croix : tous les autres interlocuteurs son surpris de le voir, comme un arbre qu’aucun d’eux n’a encore vu. Le Cèdre fait un long discours allégorique sur la création du monde, de l’homme, des animaux et des végétaux : il leur dit que de la même façon que les animaux qui habitent la mer, les airs et la terre, connaissent un roi, les arbres en doivent avoir un aussi : il ajoute qu’il ne se vante point de mériter cette prééminence, mais qu’il sera le juge entre eux de celui qui la méritera, et il sort.

[3.19] Les plantes qui restent sur la scène sont choquées qu’un arbre étranger s’arroge le droit d’être leur arbitre : elles produisant les attributs que les hommes leur accordent, et par lesquels chacune prétend l’emporter sur les autres.

[3.20] Dans une scène qui suit, le Cèdre propose à chaque plante de donner un placet et de déduire leurs titres, ce qui s’exécute. Ensuite le Cèdre paraît tenant devant lui une croix dont les bras sont entrelacés de feuilles de cèdre, de cyprès et de palme ; les plantes se partagent pour et contre la prétendue violence que le Cèdre leur fait en se nommant leur arbitre. L’Espine éclate de colère, lui demande qui il est, et sur ce qu’il refuse même de dire son nom, l’Espine s’irrite, et dit qu’elle seule suffira pour arracher et détruire un arbre qui n’est point connu dans le pays, et qui veut les tyranniser : elle s’approche de lui et l’embrasse : le Cèdre s’écrie qu’elle lui déchire le corps : en cet instant on voit du sang sortir de la croix : toutes les plantes en frémissent : le Cèdre dit qu’il arrosera de son sang toute la terre : l’Espi et la Vigne s’approchent de la crois pour le recevoir : le Cèdre voyant leur pitié et leur humilité, tenant toujours la croix devant lui, leur dit ces paroles :

Pues humildes, pues piados
Lo dos recidib mi cuerpo,
O mi sangre, en los dos solo
Desde oy mi cuerpo, y mi sangre
Sera divino tesoro, etc.
Puisque humbles et compatissants,
Vous recevez tous les deux mon corps
Et mon sang, en vous deux seulement
Dès aujourd’hui mon corps et mon sang
Sera un divin trésor, etc.

[3.21] L’Espine qui est restée ensanglantée se désespère, et voyant toutes les plantes fuir à son aspect, elle fait une grande lamentation. La croix paraît en l’air : quelques unes des plantes demandent au Cèdre de déclarer celle qui mérite la couronne, le Cèdre dit que c’est humilité qui l’obtiendra, et il nomme l’Espi et la Vigne, etc. la pièce finit. C’est ainsi que se terminent les autos sacramentales par une pensée qui a rapport au mystère de l’Eucharistie.

[3.22] Ces sortes de drames sont précédés d’un prologue auquel on donne l’épithète de sacramental, et on y ajoute un titre particulier qui semble n’avoir jamais de rapport au mystère de la Fête-Dieu, qui en est pourtant les seul objet : par exemple Loa Sacramental del Loco, Prologue Sacramental du Fol : au commencement de ce prologue on entend des gens dans la coulisse qui crient : « Prenez garde au Fol qui s’est échappé : courons, courons après ». Le Fol paraît ensuite, disant à ceux qui crient après lui de ne point s’inquiéter, qu’il n’est pas ce qu’il était auparavant : que le plaisir d’être témoin de la fête l’a fait sortir, etc., et en moins de deux cent petits vers il fait l’énumeration de tous les prodiges et des plus grands mystères du Vieux et du Nouveau Testament. Il en est de même du prologue sacramental du paysan, ou de celui des equivoques, et, qui promettent par leur début tout le contraire de ce qui se trouve à la fin.

[3.23] Outre les auteurs connus il y en a encore un nombre infini d’anonymes qui à l’impression ne prennent que le nom ou le titre d’un ingegnio, de dos ou de tres ingegnios. Un libraire de Madrid a eu la curiosité de rechercher toutes les pièces de théâtre des auteurs anonymes sous le titre d’un ingegnio, etc. et quoiqu’il n’ait pas pu encore en rassembler une suite complète, il est cependant parvenu à en faire un recueil de quatre mille huit cent. Ajoutons à cela le nombre immense de pièces de théâtre imprimées avec les noms des auteurs, et nous verrons qu’il faudra convenir que les Espagnols sont les plus riches en ouvrages de théâtre, et que toutes les Nations de l’Europe ensemble ne pourraient en produire une aussi grande quantité.

[3.24] Je sais bien que les connaisseurs m’objecteront qu’une grande partie de ces pièces ne consistent qu’en une intrigue fonder sur le point d’honneur, ce qui fait que non seulement il y a beaucoup de ressemblance entre elles, mais encore que bien souvent un auteur s’est répété lui même. On pourrait répondre à cette objection que ce genre de composition est dans le goût de la nation, qu’il est naturel de se conformer dans ces sortes d’ouvrages aux mœurs de son pays, et que l’on pourrait en dire autant des Italiens que des Français, qui pendant longtemps n’ont traité dans leurs pièces que des intrigues d’amour, qui différent très peu les unes des autres ; ainsi il ne faut pas reprocher aux Espagnols d’avoir donné au point d’honneur la prééminence sur leur théâtre ; et l’on doit convenir aussi qu’il n’est pas toujours le seul mobile de la scène, puisque l’on reconnaît assez par ceux mêmes qui les ont imités, combien leurs idées sont singulières, et avec quelle facilité les auteurs espagnols inventent des sujets, dont ils constituent la fable conformément au goût de la nation : car il est très rare que dans le grand nombre de leurs comédies, il s’en trouve quelques unes dont les idées soient prises ailleurs ; ce sont les Espagnols au contraire qui en ont fourni à tous les poètes de l’Europe.

[3.25] Depuis le commencement de la comédie en Italie jusques vers la moitié du dix-septième siècle, les Italiens, soit dans le tragique, soit dans le comique, n’ont eu pour objet d’imitation que les Grecs et les Latins ; mais il y a 130 ans que leurs ouvrages dramatiques ne sont pour la plupart que des traductions des pièces espagnoles ; et on peut dire que les Français en ont agi de même dans la naissance de leur théâtre : ils ont commencé par imiter les Grecs et les Latins, et ensuite ils ont traduit les Espagnols. Quoique du temps même de Corneille la tragédie en France eut déjà changé de face, cependant on ne quitta pas encore l’usage dans lequel on était d’imiter les Espagnols : Le Cid de Pierre Corneille, et le Vinceslas de Routrou en sont des preuves, et l’on voit encore de notre temps de très belles tragédies presque toutes tirées de l’espagnol : l’Ines de Castro de M. Houdart de la Motte nous fait sentir que les plus grands génies ne doivent pas mépriser un fond si riche, dans lequel on trouve des choses si belles, si précieuses ; et l’expérience nous fait voir qu’un homme d’esprit en peut tirer des idées admirables, s’ils est capable de les bien employer.

[3.26] Ce n’est point par ignorance que les Espagnols n’ont pas suivi les règles d’Aristote ; Don Lopes de Vega nous dit que Don Lopo de Rueda les a sévèrement suivies dans ses pièces, et il y a plusieurs comédies et tragicomédies imprimées, dont les poètes annoncent aux lecteurs qu’ils se font gloire d’avoir composé leurs pièces avec toute l’exactitude que demandent les règles ; Vega lui même en écrivant l’Art du théâtre nous dit que si les poètes espagnols ne se sont point attachés aux règles, c’est moins par ignorance que par la nécessité de plaire à la nation, et surtout aux femmes, qui en Espagne, aussi bien qu’ailleurs, donnent la loi au théâtre et à la langue. Mais malgré cette négligence des règles, les gens d’esprit, en transportant dans un autre climat les pièces espagnoles, peuvent aisément les réduire à l’exactitude nécessaire ; c’est ce qu’on fait voir en France les deux Corneilles ; Molière, et plusieurs autres ; ainsi on peut regarder le théâtre espagnol comme une source intarissable pour toutes les nations.

[3.27] Il y a aujourd’hui à Madrid trois auteurs renommés pour le théâtre, Don Felles de Arebo, Don Bernardo Joseph de Reynoso y Quisiones, et Don Joseph de Canizares. Ce dernier est celui des trois qui produit le plus, et qui est le plus en réputation : ils n’ont point encore fait imprimer aucune de leurs pièces, parce qu’ils sont dans l’usage de ne point les publier l’une après l’autre ; comme l’on fait en France, mais ils attendent pour cela qu’ils aient un théâtre complet ; si ces auteurs suivent l’exemple de leurs prédécesseurs, ils laisseront eux seuls plus d’ouvrages que n’en auront produits en France tous les auteurs François leurs contemporains.

[3.28] Un grand ordre s’observe dans les représentations du théâtre espagnol ; quelque applaudissement que les pièces puissent attirer, quelque éclat de rire qu’elles puissent exciter, jamais aucun tumulte n’en dérange l’exécution. Leurs applaudissements, comme autrefois chez les anciens, et comme chez les François encore aujourd’hui, consistent à battre des mains : si la pièce est mal composée par le poète, ou mal jouée par les acteurs, du moins on en attend la fin pour en porter son jugement : si elle plait, tout le parterre crie en confusion, et la demande pour le lendemain, comme l’on fait en Italie, et particulièrement à Venise ; et pour empêcher qu’il n’arrive du désordre, il y a toujours, comme nous l’avons déjà dit, un alcade de corte, accompagné de ses gardes.

[3.29] Comme les acteurs espagnols, qui cherchent toujours la vérité dans leurs expressions, sont grands imitateurs de la nature, ils ne le sont pas moins dans leur déclamation et dans leurs gestes ; mais sans jamais néanmoins abandonner la gravité qui désigne et caractérise la nation : c’est ainsi que s’expliquent les mémoires qui ont été envoyés sur cette matière, et auxquels j’assure que le lecteur peut ajouter foi. Quoique des comédiens espagnols soient venus, même de mon temps, représenter leurs pièces dans l’Italie, j’avoue de bonne foi que je ne me suis jamais trouvé à portée de les entendre ; ce que je puis dire, c’est qu’ayant rencontré un jour un comédien espagnol, je le priai de me réciter quelques scènes, il le fit d’une façon qui me surprit, et me pénétra tellement que je ne l’ai jamais oublié : j’en fus d’autant plus surpris, que son habit ne lui était point avantageux pour déclamer quelque chose de noble, car il n’avait pour tout équipage que une souquenille de toile noire, avec laquelle il allait en pèlerinage à Rome. Comme je le louais sa déclamation qui m’avait frappé, il me protesta qu’il n’était qu’un des médiocres acteurs de son pays, et m’en nomma plusieurs qui vivaient alors, et dont il me dit des choses surprenantes. Quoique je me sente très porté à le croire, je dois, pour ne point m’induire en erreur, m’en rapporter à ceux qui ont vu et entendu les acteurs espagnols.

[3.30] Les comiques du théâtre espagnol sont plus dans le goût des Italiens que des autres nations : on appelle Gracioso celui qui joue le principal comique ; ce personnage approche fort de celui d’Arlequin, puisqu’il lui ressemble dans le caractère et dans la façon de plaisanter. Il est vrai que le Gracioso ne tire pas ordinairement ses bons mots des sources qu’il devrait choisir ; par exemple, pour les moindres occasions il jure par des Saints, dont le poète affecte de chercher les noms les moins en usage, afin de rendre la plaisanterie plus comique, s’il est possible que c’en soit une. Ceux qui seront curieux d’en savoir davantage, pourront examiner les comédies espagnoles que l’on trouve aisément par tout. Au surplus je ne suis point surpris que le Gracioso, ou comique du théâtre espagnol ait tant de rapport avec l’Arlequin de la comédie italienne : je suppose que le théâtre en Espagne ait eu sa naissance un siècle avant celui d’Italie ( les Espagnols le prétendent, mais ils ne sauraient aller plus loin ), quoi qu’il en soit, il ne sera jamais plus ancien que la comédie italienne à l’impromptu : l’Arlequin suit de près la décadence de la comédie des gentils, s’il est vrai qu’il vienne directement du CentunculusDans mon Histoire du Théâtre italien, imprimée à Paris l’an 1728, on trouve à la page cinquième et suivante, que non seulement l’Arlequin est un reste des Mimes des Latins, et que son habit est le meme ; mais on y voit aussi qu’à la décadence du théatre des gentils, le caractere et l’habit de ce mime des Latins en toutes ses parties s’est perpetué en Italie jusqu’à nos jours. On y cite Cicer. Apuleius, Diomed., Voss. Etcdes Latins, comme j’ai dit autre part. Le théâtre espagnol, en se formant, n’avait d’autres exemples à suivre que les Grecs et les Latins, ou la comédie italienne à l’impromtu, qui sans contredit régnait plusieurs siècles auparavant ; ainsi il est naturel de penser que les Espagnols l’ont imitée, et que pour cela on trouve tant de ressemblance entre les comiques des deux nations.

[3.31] Il y a ordinairement des soubrettes comiques dans les pièces espagnoles que l’on nomme de capa y spada : ces pièces sont du même genre que La Dame invisible, ou L’Esprit follet du théâtre français ; et que La maison à deux portes, comédie jouée à l’impromptu sur le théâtre italien, toutes deux prises de Calderón, le théâtre espagnol possède un nombre infini de ces sortes de pièces, dans lesquelles les auteurs de toutes les nations peuvent trouver des sources inépuisables : celles qui sont d’un genre plus élevé, tant par la noblesse des personnages qui y son introduits, que par la qualité de l’intrigue et les incidents, peuvent servir de modèle pour la tragicomédie et pour la tragédie, et c’est ce dont les Italiens e les Français ont beaucoup profité en les traduisant, ou en les imitant.

[3.32] On peut donc conclure de tout ce que je viens de dire, que quoique le théâtre espagnol soit dénué des règles, il aura néanmoins la gloire d’avoir été et d’être encore le grand maitre des poètes, et le grand modèle des théâtres de toute l’Europe, soit par la singularité des idées, soit par le nombre prodigieux et la variété des sujets de comédie qui n’appartiennent qu’à lui.

Théâtre Français §

[4.1] Les commencements du théâtre de France ne sont pas si obscurs que l’origine de celui d’Italie et d’Espagne. Les traces qui nous en restent, nous en donnent une connaissance plus assurée que celle que les Italiens et les Espagnols peuvent avoir du leur. La curiosité et les recherches de plusieurs auteurs français en ont rassemblé les époques ; et nous les ont fixées. On trouve quelquefois, il est vrai, des contradictions entre eux, mais elles ne sont pas d’assez grande conséquence altérer la vérité des faits ; et quelques petites variétés que l’on rencontre dans le temps, et même dans les choses, n’empêchent pas de démêler au vrai quel était l’état du théâtre dans les premiers temps. On trouve successivement depuis 1500 des auteurs qui ont écrit sur le théâtre français ; et depuis un siècle les dissertations sur cette matière n’ont point discontinué. Comme je dois moins m’engager qu’un autre à faire l’histoire de ce théâtre, je me contenterai seulement de remplir ma promesse, en donnant une idée de ce qu’il a été après les Latins, et j’en ferai remonter les connaissances le plus loin qu’il me sera possible.

[4.2] Mon ouvrage était achevé, lorsqu’il parut une histoire du théâtre français, imprimée en 1734 : et comme ce nouvel ouvrage m’a obligé d’abréger le mien, on me permettra du moins d’en parler ici, et de communiquer mes observations et mes remarques.

[4.3] L’auteur de cette histoire prétend que la comédie fur rétablie en France par les troubadours vers le douzième siècle ; mais je ne sais pas sur quoi il fond son opinion : tout ce qu’il en dit lui même ne sert qu’à nous faire voir les différents états par lesquels passa, ce qu’il appelle comédie, avant qu’elle eut pris une forme de représentation théâtrale. Tous les ouvrages des troubadours, dont il parle ( et qui ne méritent point le non de comédie ) ne servirent qu’à porter peu à peu la nation française à en imaginer une ; et je pense que quant à son origine, on peut la faire remonter 500 ans plus haut que l’époque donnée dans la nouvelle histoire.

[4.4] L’auteur avancePremier volume, pag.14en parlant des troubadours, qu’ils sont les inventeurs de la comédie en Provence, et qu’ « il y en eut parmi eux qu’on nomma comiques, ce qui veut dire comédiens » : or il n’a pas bien entendu la signification du mot comique, car ce terme ne veut dire que plaisant ou bouffon. Je ne veux, pour prouver ce que j’avance, que le passage même de Nostradamus cité par l’auteur, à propos de Noües mort en 1270Pag. 25. « Ce poète, dit Nostradamus, fut bon comique, et allait chantant ès maisons des grands seigneurs, en se promenant et en faisant gestes à ce convenables, par le remuement de sa personne et changement de voix, et par autres actions requises à vrai comique, en quoi il gagna grand trésor ». Cette description est véritablement celle que l’on pourrait faire d’un bouffon ; et si de ce temps là ces bouffons étaient estimés plus qu’il ne convenait à des personnages de leurs caractères, c’est qu’ils avaient le mérite de faire des vers, et de les réciter avec quelque art.

[4.5] Je crois aussi qu’il n’a pas moins de tort, quand il dit que dès l’an 1200 il y avait des comédies et des tragédies en Provence, parce qu’il y avait dès ce temps là des pièces de poésie qui en portaient le nom : mais comment peut-il accorder le nom de comédie à ces poésies, puisqu’il dit lui-même à la page 13 qu’ « elles ressemblaient plutôt à des dialogues qu’à des comédies » ? Il fallait y ajuter encore que par « le remuement de la personne et le changement de voix », Nostradamus veut nous faire sentir l’art qu’avait Noues de réciter ses dialogues tout seul, soit en parlant tantôt avec la voix d’une femme, et tantôt avec celle d’un homme, soit en changeant de place, de geste et de contenance, à peu près comme fait Sosie dans un monologue de la tragédie d’Amphytrion ; et ces qualités, à la vérité, devaient le faire passer pour un bon comique, c’est à dire, plaisant, mais non pas pour un comédien.

[4.6] Les trouvers ou troubadours, qui composèrent différentes espèces de poésies, les nommèrent chant, chanterel, chanson, son, sonnet, vers, mot, lais, départ, soulas, sirventès, tansons, pastorales et comédies : or ces deux derniers titres ne prouvent point qu’ils aient fait des pièces de théâtre, et il est à présumer que ce n’était que des pièces de vers ( dialoguées à la vérité ) qui portaient, comme les autres, le non du sujet qui avait été choisi, et de la matière qui y était traitée : on appelait, par exemple, pastorales, des poésies qui ne parlaient que de bergeries et de plaisirs champêtres ; et comédies, des pièces de vers qui ne roulaient que sur du comique et de la bouffonnerie ; et qui, encore une fois, n’étaient récitées que par un seul comique ou bouffon. Peut-être leurs auteurs les ont ils nommées comédies par la même raison que Dante a donné ce nom à son poème ( puisque comédie veut dire dialogue ) sans que pour cela il puisse être regardé comme poème dramatique ; et même dans l’épopée, parce que le quatrième livre de l’Enéide est presque tout dramatique , lui donnerions nous le nom de tragédie ? Les Provençaux ont donc peut-être pour cette seule raison donné ce nom à leurs dialogues comiques.

[4.7] Je ne crois pas devoir mettre au rang des tragédies les cinq poèmes de Parassol, puisqu’ils n’étaient, à proprement parler, que des pièces de vers tragiques, dans lesquelles on introduisait quelque personnage qui faisait des récits, des déclamations, des imprécations et même des dialogues, mais tout sans forme de représentation, et par un seul acteur seulement, qui, comme on l’a dit, variait sa voix et ses gestes. Les plans de ces prétendues tragédies, que l’auteur de l’histoire du théâtre nous donne, sont bien plutôt les faits historiques que quatre maris de Jeanne, reine de Naples, tirés mot à mot de Mezeray et de Brantôme, que des plans de tragédies ; et il est bien plus probable de penser que Parassol composa sur ces faits historiques des pièces de vers satiriques, qu’il nomma tragédies, parce que, selon lui, les sujets, qu’il y traitait, étaient tragiques, et qu’ainsi que je l’ai déjà remarqué, toutes les poètes provençales portaient le nom qui convenait au sujet, ce qui se pratique encore aujourd’hui dans tous les pays.

[4.8] Pour preuve de ce que je viens de dire, j’ose avancer qu’il n’y a pas de nations en Europe, qui puissent donner des époques certaines du rétablissement de leur théâtre ; et quoique Saint Thomas d’Aquin qui vivait en 1200, ait agité la question de savoir si l’on pouvait jouer la comédie sans péché, il ne faut pas croire cependant qu’il ait voulu parler de la comédie écrite, puisque de son temps, et peut-être plusieurs siècle avant lui, la comédie jouée à l’impromptu était la seule en usage dans toute l’Italie. Les Espagnols prétendent porter l’époque du rétablissement de leur théâtre beaucoup plus loin que les Italiens et que les Français ; mais j’ai fait voir dans l’histoire de ce théâtre, qu’ils n’ont pas sur cela la moindre certitude. Or, en fait d’histoire, je crois qu’il faut donner des preuves, et non des conjecture, qui peuvent être fausses, et induire en erreur ceux, qui sans approfondir et sans examiner, ajoutent foi à ce que leur disent les auteurs ; et l’on peut dire que de toutes les parties de la littérature, celle des spectacles et du théâtre est la plus négligée, et qu’il est aisé par conséquent d’en imposer sur cette matière.

[4.9] Apres toutes ces réflexions, il faut remarquer que depuis l’établissement des troubadours, jusqu’en 1348 notre Auteur ne nous donne aucune preuve qu’il y ait eu des théâtres et des comédies ; et tout ce qu’il appelle jusqu’à ce temps là comédies provençales, ne sont que des chanson en récits ou en dialogues, soit comiques, tragiques ou satiriques ; et qui récités par une seule personne dans une chambre, dans une cour, ou dans une place, ne peuvent jamais passer pour comédie, c’est à dire, pour pièce de théâtre.

[4.10] L’époque du théâtre français ne peut donc être fixée avant 1398, temps auquel le mystère de la Passion fut représenté à Saint Maur. Notre auteur, en rapportant l’ordonnance du prévôt de Paris à ce sujet, s’efforce de prouver que ces mystères avaient commencé longtemps avant 1398 et je suis de son avis ; mais je ne conviens pas que ces mêmes représentations saintes, qui auront été représentées par des clerc ou par des laïques, devant les portes des églises, ou dans les églises mêmes, puissent fixer l’époque du théâtre français, qui doit l’être au temps des confrères de la Passion.

[4.11] Par une note qu’il a tiré du II e livre de l’histoire de la ville de Paris, pages 523, il dit qu’en l’année 1313, Philippe le Bel donna une fête, à laquelle il invita le roi d’Angleterre ; et que parmi les différents divertissements, le peuple « représentait divers spectacles, tantôt de la gloire des bienheureux, et tantôt la peine des damnés ».

[4.12] L’auteur caractérise ces spectacles de représentations récitées et dialoguées : je veux bien le croire pour un moment, et je suis seulement fâché qu’il ne nous reste aucun échantillon de ces dialogues. Dans la représentation de l’Enfer, que de pleurs, de cris et de hurlements nous entendrions : dans le Paradis, au contraire, nous y verrions des adorations, des génuflexions et des transports de joie. Je demande permission à l’auteur de dire mon sentiment, qui est tout à fait diffèrent du sien.

[4.13] Je pense que tout cela n’était que des représentations en figures dénuées de tout dialogue. Ces fêtes et ces grandes réjouissances n’étaient faites que pour les rois de France et d’Angleterre : est-il naturel de penser que ces deux grands rois, avec leur nombreuse suite, se seraient arrêtés une heure et demie dans la rue pour voir ces représentations ? Non certainement, et je crois que ce n’est qu’en passant qu’ils donnaient un coup d’œil, ou tout au plus qu’ils s’arrêtaient, pour écouter quelques vers que récitaient un ange ou un démon, pendant qu’on examinaient les représentations dont nous parlons. Ces sortes de représentations en figures ne paraitront pas étranges après les exemples que je vais donner. En l’année 1690 j’ai vu dans la ville de Gênes, le jour de la Fête-Dieu, plusieurs théâtres dressés dans des coins de rues, par lesquelles passait la procession du Saint Sacrement : chacun d’eux représentait en figures vivantes un mystère de l’Ancien ou du Nouveau Testament. Un entre autres des plus remarquables était celui que les pêcheurs de la ville avait dressé auprès du port : la décoration représentait la mer dans le fond, et le rivage sur le devant : on y voyait Jesus-Christ au moment que les évangélistes nous le peignent, ordonnant à ses apôtres Saint Pierre, Saint Jean, Saint Jacques, etc. de jeter leurs filets dans la mer ; et sur la réponse qu’ils lui faisaient, que pendant toute la nuit ils avaient travaillé sans rien prendre, Jesus-Christ leur commande de les jeter d’un autre côté : tout cela se faisait sans parler, et seulement par les gestes et en action. Ces acteurs muets saisirent le moment que le Saint Sacrement arriva devant le lieu où ils étaient placés pour tirer leurs filets, qui se trouvèrent chargés d’une très grande quantité de poissons des plus beaux et des plus rares, que l’on avait pris depuis quelques jours, et qu’on avait conservés en vie dans des filets jusqu’à ce moment. On donne aussi dans la ville de Naples, le jour de la fête du Saint Sacrement, de pareils spectacles ; comme Jesus-Christ en croix sur le Calvaire, accompagné de la Sainte Vierge, des deux Maries, de la Magdelaine et de toute la suite de ce mystère. Pour cet effet, on choisit avec soin des femmes et des jeunes filles capables de représenter convenablement, et qui ont des habits qui caractérisent les personnages qu’elles sont. Dans la plupart des villes de Flandres, on mène par la ville en procession, à certains jours de fête, des chariots chargés de théâtres et de jardins en pyramide, sur lesquels des hommes et des femmes représentent, par leurs attitudes et sans parler, des sujets de l’Ancien et du Nouveau Testament, ou des objets allégoriques de piété ; on appelle ces fêtes Carmesses.

[4.14] Une personne m’a assuré que dans le même pays, il y a vu le jour de la Fête-Dieu une toilette dressée dans le premier reposoir, où Notre Seigneur devait s’arrêter : là une très belle fille, richement habillée et ornée de pierreries, etait assise devant le miroir, s’ajustant et se mettant des mouches : dans le temps que le Saint Sacrement entra dans le reposoir, elle se leva repoussant la toilette, et se prosterna devant notre Seigneur : au sortir de là, elle le suivit en se frappant la poitrine jusqu’au second reposoir, où elle se jeta pareillement à genoux avec une grande componction, en donnant toutes les marques d’un vrai repentir ; elle arracha tous ses ajustements, elle se dépouilla des ses habits magnifiques, et resta en habit de pénitente. Dans cet équipage elle suivit la procession toujours en poussant de grands gémissements, et en versant des larmes qui attiraient celles de tout le monde. N’est-ce pas là une action suivie dans toutes les formes ?

[4.15] Dans une ville électorale d’Allemagne, un des jours delà Semaine sainte, on élève dans l’église cathédrale un théâtre, dont la décoration représente le jardin des olives, où Jesus-Christ est en prière et les apôtres endormis ; et cela en personnages vivants. Celui qui représente Jesus-Christ va par trois fois réveiller les apôtres, et par trois fois il retourne à la prière ; et on voit un image de ce qui arriva dans le jardin des olives. Toute cette action est en scène muettes, et ne se fait que par gestes. Après de tels exemples, je crois avoir raison d’avancer que La gloire des bienheureux et la peine des damnés, dont on a parlé, ont été alors des spectacles imaginés et exécutés de la même manière.

[4.16] Si l’on s’en rapporte à l’auteur de l’Histoire du Théâtre français, qui dit que les premières comédies qui ont été jouées en France étaient des comédies provençales, et que ce fut en l’année 1198 qu’elles commencèrent ; si l’on s’en rapporte, dis-je, à cet auteur, comment pourra-t-on concevoir que deux cent ans après, et lorsqu’on représenta pour la première fois à Saint Maur les mystères de la Passion, il y eut tant de simplicité et tant d’ignorance dans les représentations théâtrales ? En effet, il paraît impossible qu’après deux siècles d’exercice dans la comédie provençale, la même ignorance subsistât encore [ comme on le remarque dans la représentation des mystèresLe théâtre offrait tout à la fois le Paradis, l’Enfer, la Terre et le Ciel ; et la variété des actions qu’on y représentait, n’apportait aucun changement dans les décoration : d’ailleurs les acteurs, après avoir rempli chacun leur rôle, se retiraient seulement sur un des côtés du théâtre, et y demeuraient assis, exposes à la vue des spectateurs.] et qu’elle ait duré si longtemps sans diminuer en rien, ni en Provence, ni à Paris. Or, il est sur que si les troubadours avaient donné des comédies, et Parassol des tragédies, on n’aurait pas ignoré à ce point la première pratique du théâtre.

[4.17] Je ne veux point inférer de là que les poèmes dramatiques aient commencé à paraître en France dès l’année que les mystères de la Passion furent représentés à Saint Maur ; je suis persuadé au contraire que ces mêmes mystères, tels qu’on les représenta alors, dénués de tout principe dans leur construction, et dans la mécanique du théâtre, ne sauraient être les premières pièces qu’on a représentées à Paris. Il pouvait s’être passé un certain temps qu’on représentait des drames ou sacrés, ou profanes, dans des lieux particuliers, dans les carrefours, etc. mais ces drames, tels qu’ils étaient, ne pourront jamais établir l’époque du théâtre français. Quoiqu’il en soit, les mystères représentés à Sant Maur seront toujours, je le répète encore, le premier spectacle qui ait paru en France ; je ne connais point d’auteur qui nous donne la moindre idée d’aucun théâtre antérieur, et nous ne saurions en chercher que sur des conjectures mal fondées.

[4.18] Pour ce qui regarde l’origine de la comédie en France, il me paraît qu’on ne peut pas s’y tromper, en suivant les historiens français qui ont parlé du théâtre, ou les écrivains particuliers qui en ont fait des traités. Nous avons des autorités qui prouvent que sous le règne de Charlemagne les conciles de Mayence, de Tours, de Reims et de Chalons sur Saône, défendirent aux ecclésiastiques d’assister aux jeux des farceurs, et que le roi ratifia l’Arrêt du concile par une ordonnance qu’il rendit en l’année 813Les farceurs furent mis au nombre des personnes infâmes, et il n’était pas permis de les traduire en justice. Traité de la Police, par Le Marre, tom. I, p. 433 et suivantes.. Nous savons donc par là que la comédie, qui avait discontinué chez les Latins, avait recommencé en France et en Italie par le jeu des Charlatans, ou Farceurs, dans les rues et dans les places publiques ; nous voyons qu’à ces spectacles, déclarés infâmes et obscènes dans l’ordonnance de CharlemagneHistrionum turpium et obscenorum insolentias jocorum, etc. succédèrent les troubadours, jongleurs, et autres, qui récitaient et chantaient des traits d’histoire, de galanterie et de satyre : qu’ensuite ces troubadours tombèrent dans le mépris, et furent même chassés de la cour de Philippe Auguste :Rigor. De gest. Philip Aug. qu’ils trouvèrent cependant les moyens de s’établir à Paris sous son règne , et de se loger dans une seule rue de la ville, que l’on appela pour cette raison la rue des Jongleurs, aujourd’hui des Menetriers : que de ce temps la on les payait pour venir à des fêtes ou assemblées de plaisir ; mais en même temps par deux ordonnances du prévôt de Paris de 1341, et de 1395, défense leur fut faite de rien dire, chanter, ou représenter dans les places publiques, ou ailleurs, qui put causer du scandale. Les jongleurs peu contents des bonnes qu’on mettait à leur métier, en changèrent la forme, et s’adonnèrent à faire des tours surprenants et périlleux avec des épées, ce qui les fit nommer batalores ou bateleurs, nom qui depuis leur est toujours resté.

[4.19] Si les conciles, dont j’ai parlé ci dessus, et l’ordonnance de Charlemagne n’avaient empêché les progrès des farceurs que lion défendit sévèrement, peut-être que la France aurait eu des spectacles plutôt : on peut dire que la suppression de ces farceurs enfanta les bouffonneries des troubadours, qui ensuite dégénérèrent en farceurs aussi scandaleux que les premiers, et qui furent encore supprimés du règne de Philippe Auguste, comme nous venons de dire. Par ces deux époques si remarquables on peut croire que les premiers farceurs du temps de Charlemagne étaient un reste des mimes des Latins, qui jouaient dans les places publiques, comme il arriva en Italie, et il y a à présumer que tout cela nous aurait amené insensiblement à un théâtre, si on les avait laissé agir sans les interrompre, si on les avait lassé agir sans les interrompre, comme on fit en Italie.

[4.20] Vers l’an 1370, sous le règne de Charles V on trouve bien clairement l’origine de la déclamation tragique dans ces longs récits en vers héroïque, que l’on faisait sur un sujet souvent tiré des mystère de la religion, avec une apostrophe au prince à qui ils étaient dédiés, ce que l’on appelait alors chant royalPasquier, I. 7 des Recherches de la France, c. 5.. De là vinrent les mystères dialogués, que l’on joua peut-être dans des endroits particuliers, et sans aucun ornement, et qui furent représentés pour la première fois en forme de pièce de théâtre au bourg de S. Maur, et que le prévôt de Paris suspendit ; par une ordonnance du 3 juin il fit « défense à tous les habitants, et c. de représenter aucun jeu en personnages, soit de vie se saints, ou autrement, sans le congé du roi, à peine, et. C. »Traité de la Police, par de la Marre, tome I.

[4.21] Les acteurs de ces représentations se pourvurent en cour : et pour se rendre plus recommandables, ils érigèrent leur société en confrérie, sous le titre de la Passion Les acteurs qui représentaient les mystères à Saint Maur, ne prirent peut-être le nom de confrère de la Passion, qu’à l’exemple de la confrérie du Gonfalone, fondée à Rome l’an 1264, dont le principal institut était de représenter la passion de Notre-Seigneur , comme nous l’avons dit, page 95, en parlant ses représentations sacrées d’Italie.de Notre-Seigneur. Le roi Charles VI voulut voir leurs spectacles, en fut content, et leur accorda des lettres patentes le 4 décembre 1402, lesquelles se trouvent imprimées tout au long dans le Traité de la Police de M. de la Marre, page 437. Aussi tôt on bâtit le théâtre de l’Hôpital de la Trinité, dans lequel pendant près de 150 ans on représenta des mystères, ou des pièces de piété et de morale, sous le titre commun de moralitésDu Breuil, Antiq. Col. 3 pag. 562 de l’édition in fol. et en 1518 François premier confirma tous les privilèges de la confrérie, par des lettres patentes qu’il leur accorda au mois de janvier de cette année.

[4.22] Le peuple s’ennuya enfin de ces représentations sérieuses, et obligea les confrères d’y joindre des farces profanes et burlesques, qui plurent si fort au public, qu’il y courait en foule ; mais ce mélange de morale et de bouffonneries déplut aux gens sensés : on commença à faire réflexion que ces sujets de dévotion que la simplicité des temps éloignés avait portés au théâtre, étaient plutôt une profanation des principaux mystères de religion, qu’un spectacle permis, et qu’on ne devait pas le tolérer davantage. La nécessité dans laquelle on se trouva dans ce même temps d’augmenter les hôpitaux à cause d’une maladie épidémique qui régnait alors à Paris, fit que le Parlement par un Arrêt du 30 juillet 1547, sous le règne d’Henri II ordonna que la maison de la Trinité se serait dorénavant qu’un hôpital, ce qui obligea les confrères d’abattre leur théâtre. Mais comme ses confrères étaient riches, ils achetèrent les masures de l’ancien hôtel du duc de Bourgogne, et y firent bâtir un nouveau théâtre. Cet établissement fur autorisé par un arrêt du Parlement du 19 novembre 1548, qui le lueur permettait, mais « à condition toute fois ( ce sont les mêmes termes de l’arrêt ) de n’y jouer que des sujets profanes, licites et honnêtes, et de n’y représenter aucuns mystères sacrés » : et en les confirmant dans touts autres de jouer dans la ville ou faubourgs, sinon sous le nom et au profit de la confrérie, etc. ». Ce privilège fur encore confirmé par lettre d’Henri II du mois de mars 1559 et de Charles IX du mois de novembre 1563 ; ainsi il restèrent paisibles possesseurs de leur théâtre : et pour en marquer la propriété, en bâtissant la petite façade de la rue Françoise, ils firent mettre sur la porte un écusson de pierre en relief soutenu par deux anges, sur lequel était sculptée une croix avec les de la PassionLorsque la troupe italienne fut rappelée en France ( 1716 ) cette pierre, qui était encore dans son entier, court risque d’etre brisée et abattue à l’occasion des réparations que l’on fut obligé de faire à l’Hôtel de Bourgogne, du côté de la rue Françoise : comme j’étais chargé des affaires de la troupe, j’obtins avac bien de la peine qu’elle fût conservée, mais comme le bâtiment, qui la portait, était déjà fort vieux, on fut contraint seize ans après ( 1732 ) de le rebâtir tout à fait. Je sollicitai pour la conservation et le rétablissement de ce monument antique ; mais l’architecte peu curieux sans doute d’antiquité ne put accorder ma demande avec son dessein, et tout ce que j’obtins fut la permission de retirer cette pierre chez moi : et six mois après que ce bâtiment fur achevé, j’eus la satisfaction de la voir remise en sa place, et de servir encore à la posterité du preuve et de témoignage de l’origine de la comédie en France., ancienne devise de leur confrérie. Depuis que les confrères eurent bâtir le théâtre de l’Hôtel de Bourgogne, et qu’il leur eut été défendu de représenter aucun mystère de la Passion, on n’y joua que des pièces profanes, et c’est une erreur populaire de croire qu’on y ait représenté les mystères, ou les vies des saints : la pierre, dont on vient de parler, n’autorise point du tout ce sentiment ; ce n’était qu’une inscription muette qui désignait quels étaient les maîtres du fond, et les possesseurs du privilège exclusif de jouer ou de faire jouer à Paris des comédies ou des tragédies profanes : et toutes les pièces morales qui ont été écrites et représentées depuis, ne l’ont été que dans des maisons particulières, ou sur des traités.

[4.23] En exécutions de l’arrêt du Parlement de 1548 des lettres de confirmation d’Henri II et de Charles IX1559. 1563. on a longtemps donné des représentations sur le théâtre de l’Hôtel de Bourgogne, sous le nom et sous les auspices des confrères de la Passion. Je dis sous leur nom, et sur leurs auspices ; car dès le premier jour qu’on ouvrit ce théâtre, ce ne furent pas les confrères qui jouèrent les pièces qu’on y donna : ils pensèrent qu’il ne convenait point à la dignité du nom qu’ils portaient, de monter sur la scène pour ne jouer que des comédies profanes ; et dès ce moment ils louèrent leur hôtel et leur privilège à une troupe de comédiens qui se forma sur le champ, et ils ne se réservèrent que deux loges, dont ils ont joui tant que leurs privilèges ont subsisté.

[4.24] On ne trouve ni les noms ni la qualité des pièces que l’on exécuta à l’ouverture de ce théâtre, et on ne cite que l’ancienne farce de Pathelin, jouée sous Henri II. La raison que les écrivains en donnent, est que dans ces commencements les pièces étaient trop mauvaises pour être rapportées ; il en est de même des auteurs ; et Jodelle est le seul dont on fasse mention, et qui quelque temps après l’ouverture de l’Hôtel de Bourgogne donna le premier des tragédies.

[4.25] Il est bon de remarquer à ce sujet que l’un a fait en France à peu près de même qu’en Italie : on a établi Jodelle comme le premier tragique, quoiqu’il ne le soit point : il y a eu des tragédies avant lui, commeVoyez le Mercure de novembre 1734. La destruction de Troye la grande, mise en personnage, imprimée à Lyon par Maître Guitter le Roi, et finie l’an 1485. L’Iphigénie d’Euripide, par T. S. imprimée en 1550. L’Hécube d’Euripide par Bouchetel, et une autre par Jean-Antoine Baif, l’une de 1537, et l’autre de 1550, et l’Electre ou la Vengeance d’Agamennon, traduite littéralement, et vers pour vers, de Sophocle, par Lazare de Baif, maître des requêtes, et père d’Antoine Baif, imprimée en 1537. Il est vrai cependant que, comme les tragédies, que nous venons de citer, ne sont que des traductions du grec, et que Jodelle a fait celles de Cléopâtre et de Didon, qu’il n’a ni traduites, ni imitées des anciens, on a eu une espèce de raison de lui donner le premier rang entre les tragiques, et de fixer l’époque de la tragédie à ses ouvrages. On pourrait peut-être soupçonner Jodelle d’avoir imité les tragédies italiennes de Cléopâtre et de Didon, faites et imprimées longtemps avant lui, et lorsque le théâtre brillait en Italie ; mais je ne puis assurer que ce n’est pas la même chose : j’ai eu la curiosité d’examiner les unes et les autres et j’en ai reconnu la différence. Ce n’est pas qu’on n’ait fait beaucoup de traductions de pièces italiennes dans ce temps là ; voici même ce qu’en dit du Verdier dans sa Bibliothèque françaisePag. 243. au sujet d’une comédie de ce temps là ; comédie très élégante, en laquelle sont contenues les Amours d’Erostrate fils de Philogone de Catanie, et de Polymneste fille de Damon, mise de l’italien en rime française, imprimée à Paris 16° par Hierosme Marnef en 1545 d’auteur incertain.

[4.26] Ce passage de du Verdier conduit naturellement à une observation sur ce qu’on dit la plupart des écrivains contemporains de l’établissement de la comédie en France ; ils prétendent qu’à l’ouverture du théâtre de l’Hôtel de Bourgogne, et pendant plusieurs années suivantes, on ne donna rien dont la mémoire méritât d’être conservée, et de toutes les premières pièces qui ont été représentées en France dans ce temps là, ils ne font mention que de la farce de Pathelin, de l’Eugene de Jodelle, de Taillebras, imité du Miles gloriosus de Plaute, et de l’Eunuque de Terence de Baif en 1567 ; mais ils remarquent en même temps que toutes celles qui les ont précédées étaient des bouffonneries et de mauvaises farces ; or selon du Verdier, la traduction de la comédie italienne, dont il fait l’éloge, avait paru en 1545 et par conséquent avant l’ouverture de l’Hôtel de Bourgogne, de même que l’Andrienne de Bonaventure des Periers, qui fut donnée en 1537. Ainsi l’on doit conclure que dans le même temps que l’on donnait sur le théâtre de la Trinité des mystères et des moralités, on représentait aussi à Paris des tragédies et des comédies profanes : et que si elles n’étaient pas jouées en public, et sur un théâtre, c’est que les lettres patentes que la confrérie de la Passion avait obtenues, en interdisaient les représentations.

[4.27] Aussitôt que le théâtre de l’Hôtel de Bourgogne fût achevé, les confrère de la Passion le louèrent à une troupe de comédiens, qui (à ce que disent les historiens) se forma sur le champ : or s’il n’y avait pas eu dans Paris des bourgeois exercés à la représentation et au théâtre, comment aurait-il pu se former tout d’un coup une troupe de comédiens ? Car si cette profession n’est pas la plus difficile, du moins demande-t-elle du temps et de l’étude è ceux qui veulent l’exercer. Il faut donc conclure que puisqu’il y a eu plusieurs endroits à Paris où l’on jouit la comédie, il y a eu aussi des pièces tragiques et comiques inventées, ou imitées, longtemps avant l’établissement de l’Hôtel de Bourgogne.

[4.28] Il est certain qu’avant cet établissement, la basoche ( c’est-à-dire les clercs des procureures du Parlement ) représentaient des comédies : il y a tout lieu de croire que c’était en public sur des traiteaux, ou sur des théâtres que l’on faisait construire dans quelque maison particulière : un placet de Marot au Roi pour la basoche nous apprend que Sa Majesté y assistait quelques fois. Les pièces que la basoche jouait étaient satiriques ; Louis XII essaya lui-même un de leurs trait, mais il n’en fit que rire, et contenta de leur faire dire que si par la suite ils s’avisaient de plaisanter sur quelqu’un qui lui appartint, il les ferait tous pendre.

[4.29] Les confères de la Passion donc par les seuls qui représentassent sur un théâtre : et les mystères, qui depuis leur première institution se sont représentés dans les églises, à l’Hôtel de Flandres, aux poids pilés, dans les places publiques et dans le carrefours de la ville, aux fêtes et réjouissances, exerçaient bien des gens à l’art de la représentation ; après cela il est aisé de concevoir que les confrères de la Passion n’eurent pas de peine à trouver sur le champ une troupe de comédiens qui louèrent leur théâtre pour y jouer des pièces profanes.

[4.30] On peut encore conclure par ce que l’on vient de dire, que l’auteur de la Bibliothèque des Théâtres, imprimée à Paris en 1733 n’a pas assez examiné ce qu’il avance : dans la remarque qu’il fait ( let. A ) sur l’AndrienneDe l’an 1704., il dit « que c’est la première traduction des pièces deTerence qui ait paru sur le théâtre français ; car l’Eunuque, que Baif traduit sous le règne de Charles IX ne fut point représenté, parce qu’il n’y avait point encore de comédiens établis à Paris » : ce qu’il répète dans un article de l’Eunuque ; mais il ne s’en est plus souvenu apparemment, parce que à la fin du livre, dans le petit catalogue des additions et corrections, il dit au mot Andrienne, « qu’il faut ajouter celle de Bonaventure des Pèriers en 1537 ». Donc l’Andrienne, qui parut l’an 1704, n’était pas la première traduction de Terence qu’on ait fait en France. Et on doit penser de même à l’égard de l’Eunuque traduit par Baif vers l’an 1560.

[4.31] Charles IX, qui commença alors son règne, avait trouvé des comédiens établis à l’Hôtel de Bourgogne douze ans auparavant ( car ce théâtre s’ouvrit en 1548, ou 49, sous le règne d’Henri II, qui commença en 1547 ) c’est donc pour quelque autre raison que l’Eunuque de Baif ne fut représenté ; et celle que je crois plus probable est, que dans le temps que l’on représentait les mystères sur le théâtre de la Trinité, et avant que l’Hôtel de Bourgogne donnât des tragédies et des comédies , on jouait dans quelque hôtel particulier les traductions des auteurs grecs, des Latins et des Italiens, comme nous l’avons déjà dit. Dan ce premier établissement de l’Hôtel de Bourgogne, tout le monde convient que le théâtre français était très mauvais, cependant il avait un mérite singulier ; un écrivain italien très connu et très estimé, nous a laissé une particularité du théâtre français de 1550, que n’ai pas trouvé dans aucun écrivain de la nation.

[4.32] Girolamo Ruscelli dans le premier volume du Recueil des meilleures pièces du théâtre italien, qu’il fit imprimer l’an 1554 avec des notes à la fin, en parlant de La Calandra, comédie de Bibiena dit « Que son temps Onde a questi tempi in Francia sogliono rappresentar quelle lor farse mute , ove solamente coi gesti senza una minima parola al mondo, si fanno intendere con tanta gratia, e con tanta soddisfatione de Spettatori, ch’io per me non so se ho veduto giammai spettacolo che cosi mi diletti. E molto mi meraviglio, che fin qui l’Italia, ove non si lascia indietro alcuna sorte d’operazione valorosa e lodevole, non abbia incominciato a riceverle e rappresentarne ancor ella, etc. pag. 171. il y avait enFrance un genre de farces muettes, dans lesquelles les acteurs, sans prononcer la moindre parole, se faisaient entendre à merveille par leurs gestes : il ajoute, que l’exécution en était si agréable, et si fort goûtée des spectateurs, qu’il ne sais s’il a jamais vu de spectacle qui lui fît tant de plaisir ; et je suis étonné, dit-il, que l’Italie n’en ait pas encore adopté la méthode, et ne l’ait pas transporté dans le Pays ».

[4.33] Un témoignage aussi sincère que celui d’un étranger, qui dit les avoir vus, ne peut se mettre en doute, et je ne sais pas comment il se soit fait qu’aucun des écrivains de la nation, que je sache, ne nous en ait donné connaissance. Les termes dont l’auteur italien nous en parle, ne peuvent nous faire jigger autre chose, sinon que ces farces muettes étaient un spectacle excellent, et une véritable imitation des mimes des anciens.

[4.34] Supposant le fait certain, comment se peut-il qu’un art, qui jusqu’à présent a paru incompréhensible à tous les modernes, et que les français avaient atteint si parfaitement, se soit perdu aussitôt, et qu’il ne nous en reste plus la moindre trace ? Et il ne faut pas croire que les pièces que l’on a données à la foire, il y a environ 24 ans, jouées avec les écriteaux, puissent être une branche qui en dérive : car depuis vingt ans que je suis en France, il m’est arrivé de les voir une fois, ces pièces par écriteaux, ainsi je puis en juger.

[4.35] Ces pièces en écriteaux sont une invention très jolie en son espèce : tout le monde sait que les acteurs se présentaient sur las scène sans parler : que dans l’instant il descendait du plafond du théâtre sur leurs têtes des écriteaux, qui se succédaient les uns aux autres, et sur lesquels étaient écrits en gros caractères des couplets de chansons dont l’orchestre jouait l’air, et dont le parterre, en les lisant, en chantait les paroles : les acteurs dans le temps que l’on chantait, faisaient les actions convenables au sens des paroles. Ce dialogue muet de la part des acteurs, n’avait rien d’estimable, ni qui pût en quelque façon réjouir les spectateurs ; tout l’agrément n’était que du côté de l’extraordinaire de faire chanter par les spectateurs le dialogue des acteurs. Cette invention est toute moderne, et n’a pas été imaginée par choix, mais par nécessité ; les troupes des deux foires de S. Laurent et de S. Germain ne pouvaient jouer la comédie, ni en parlant, ni en chantant ; parce que la troupe des comédiens du Roy, et l’Opéra les en empêchaient par leurs privilèges ; les forains, pour ne pas fermer leur théâtre, imaginèrent les écriteaux, qui dans les commencements leur attirèrent une grande affluence de monde, ce qui fit grand tort aux théâtres privilégiés. On n’a pas donc lieu de croire que c’est de ces anciennes farces muettes que les écriteaux on tiré leur origine : et encore moins les danses pantomimes que l’on a vues en Angleterre et en France, il y a environ douze ans ; car Ruscelli nous dit que ces farces muettes exprimaient une action sans parler : et si cette action avait été soutenue par la danse et par la symphonie ( qui tiennent lieu de la parole en quelque façon ) notre auteur italien n’aurait pas manqué de nous le dire, et je crois même qu’il n’en aurait pas été si fort surpris. Ce qu’il y a de plus étrange, c’est que pendant cent cinquante ans, il ne se soit rien conservé dans Paris, qui puisse nous donner la moindre idée de ces spectacles muets que Ruscelli nous indique.

[4.36] Ces spectacles, qui se représentaient encore à Paris au milieu du seizième siècle, me feraient juger que c’était un reste de ces représentations dont on a déjà parlé, des peines des damnés et de la gloire des bienheureux, sous le règne de Philippe le Bel, l’an 1313, et que j’ai soutenu que ces représentations n’étaient point dialoguées, mais en action. Deux siècles après elles subsistaient encore à Paris ; et parce que le temps perfectionne tout, peut-être qu’en 1550 elles étaient arrivées au degré de perfection que Ruscelli nous a rapporté. Je répète encore ; je suis étonné que l’on ait perdu cet art en France, et que l’on n’en trouve pas la moindre trace.

[4.37] Il est étonnant à la vérité que le théâtre en France, tel que nous le voyons par les impressions, et tel qu’il nous est rapporté par tant d’auteurs, ait été si mauvais jusqu’à 1650, du temps même de Corneille : ceux qui en ont parlé, n’en donnent point d’autre excuse que l’ignorance des temps dans cette enfance du théâtre français, c’est ainsi qu’ils en appellent les premiers commencements. Mais cette enfance n’a-t-elle pas duré un peu trop, car cent ans complets se sont écoulés depuis l’ouverture de l’Hôtel de Bourgogne, jusqu’au temps de Corneille et de Molière, nés l’un en 1606, et l’autre en 1621. Les auteurs pendant ce siècle d’ignorance prétendue, n’avaient-ils pas les secours du théâtre italien qui florissait ? Et les pièces qui y avaient été représentées, n’étaient pas inconnues en France, puisqu’il en parut alors plusieurs traduites en français.

[4.38] J’indiquerai seulement ici les titres de ces pièces, les dates de leur impression, et les noms de quelques uns des auteurs qui se sont fait connaître par ces traductions.

[4.39] Josias, tragédie traduite de l’italien de Messer Pilone, en vers français par Louis des Mazures de Tournay, in-8° 1556. Sophonisbe de Claude Mermet, traduite de Trissino 1584. La Carthaginoise de Montchrétien, dont le canevas et les scènes sont les mêmes que celles de Trissino, 1619. Les deux courtisanes, par Hiérôme d’Avost de la Val, traduite de Domenichini. Les Supposés, comédie traduite de l’Arioste, 1552. Le Négromant, comédie traduite de l’Arioste en prose par le sieur de la Taille de Bondaroy, 1568. L’Emilie de Louis Groto, aveugle d’Hadria, 1608. Les Bravacheries du Capitan Spavante de François Andreini, comédie traduite par Jean de Fonteny, 1608. Soliman empereur des Turcs, tragédie traduite de Bonarelli, par d’Alibras, 1637. Ces traductions sont les ouvrages de ceux qui ne sentaient pas assez de génie pour imaginer des sujets nouveaux, ou qui ne voulaient pas s’en donner la peine.

[4.40] Toutes ces traductions de l’italien ne sont venues en France que par hasard, ou par le caprice de quelques écrivains ; car la source des imitations des poètes français était espagnol, qui pendant un siècle a été le seul modèle du théâtre en France : Corneille et Molière y ont trouvé des idées excellentes de tragédies et de comédies, et les auteurs mêmes de ce temps ci en trouvent encore, et en trouveront toujours, puisque c’est ( comme j’ai dit ailleurs ) une source intarissable pour le dramatique. Mais ce même théâtre, par l’abondance de ces fonds, et par la diversité de ses intrigues, n’a pas d’abord contribué à établir le bon goût dans le théâtre français : il a fallu que des génies supérieurs vinssent enseigner l’usage qu’on doit faire de ces fonds et de ces intrigues.

[4.41] Dans le temps que Pierre Corneille se distinguait au-dessous de tous en marchant par le bon chemin : le CidReprésenté en 1637., les Horaces, Cinna, et toutes les autre tragédie de grand homme n’ont pas tout d’un coup corrigé le théâtre, mais elles ont commencé par ouvrir les yeux des spectateurs qui ont reconnu le vrai. Cela n’empêcha pas néanmoins les poètes dramatiques d’aller toujours leur chemin, et il y a eu des tragédie faites en 1660, que l’on ne croirait jamais été imaginées du temps de Corneille, tant elles sont défectueuses et contre le bon sens. L’exemple de Routrou, poète tragique, est non seulement digne d’admiration, mais devrait aussi être imité par tous ceux que l’amour du théâtre porte à écrire dans ce genre. Après sa trentième uns pièces toutes composées dans le goût espagnol, les applaudissements du Cid de Pierre Corneille lui firent changer de méthode, et l’on vit sortir de sa plume Vinceslas, pièce à la vérité tirée de l’espagnol, mais travaillée d’une manière toute différente de celles qu’il avait faites auparavant d’après les modèles étrangers. Son Cosroe, qui parut ensuite, n’est pas éloigné du nouveau chemin qu’il avait pris : sur quoi il est bon de remarquer que bien des gens se trompent, lorsqu’ils attribuent à Vincislas le changement du genre tragique de Corneille. Racine, qui a trouvé le chemin aplani, n’a pas hésité à le suivre ; et l’on peut dire que sans imiter son prédécesseur, il a confirmé le genre de la bonne tragédie en France. Ces deux auteurs n’ont plus laissé les poètes dramatiques en doute sur la route qu’ils dévoient prendre : et tous ont depuis cherché d’imiter, ou le grand de Corneille, ou le naturel de Racine.

[4.42] La comédie de son côté n’avait pas moins besoin de la tragédie de recevoir des changements ; et des corrections qui la conduisissent à sa perfection : elle n’avait pas trouvé dans les deux Corneilles des génies vraiment propre à son caractère, quoique cependant ils l’eussent présentée aux spectateurs sous une forme moins basse et plus décente que n’avaient fait leurs prédécesseurs , mais il fallait un Molière, et cet homme destiné à être le restaurateur de la scène, et du bon goût comique, parut pour la première fois à Paris en l’année 1658. Il se fit d’abord connaître par les comédies de L’Etourdi et du Dépit amoureux, premiers essais de sa muse, pendant qu’il était en province : un an après il donna ses Précieuses ridicules, qui furent bientôt suivies du Cocu imaginaire et de l’Ecole des maris. Ces pièces qui ne ressemblaient à rien de tout ce que l’on avait vu dans les anciens er dans les moderne, lui acquirent avec justice la réputation d’excellent poète comique, qu’il a toujours conservée depuisVoyez les Observations sur le génie de Molière., et à laquelle je ne pourrait rien ajouter, en renouvelant ici les sentiments d’estime et d’admiration que j’ai déjà marqués dans mes ouvrages pour ce grand gomme ; et je dois avouer que depuis quarante cinq ans de pratique du théâtre et d’étude sur les comédies de cet auteur, je n’ai pas cessé, en les examinant, d’y découvrir quelque nouvelle beauté qui m’était échappée.

[4.43] Pour ce qui regarde les pièces et les auteurs dramatiques connus en France ; depuis 1450 jusqu’à 1500, on n’en nomme que trois qui aient travaillé sur les mystères ;

[4.44] Les pièces qui nous restent dans ce genre, ont été confondues avec les impressions qui ont été faites depuis 1500. Dans les cent années que se sont passées jusqu’en 1600, on compte environ quatre vingt trois auteurs et cent quarante sept pièces, tant comédies et tragédies, que farces et moralités ; et jusqu’en 1700 on trouve deux cent soixante et dix-huit auteurs, et onze cent quatre vingt huit pièces de tous les genres. Quoique ce siècle paraisse riche par un si grand nombre de pièces, il faut cependant convenir qu’il ne l’est qu’en apparence, puisque les trois quarte des pièces sont défectueuses, et presque ignorées ; et l’on peut même ajouter que la plus grande partie de celles qui ont précédées Corneille, Racine et Molière et qui ont été faites même de leur temps, sont sur le modèle des premières ébauches du théâtre français. Depuis 1700 jusqu’à présent, nous avons soixante et dix auteurs, et trois cent quarante pièces, en y comprenant celles qui paraissent sous le nom d’opéra comique. Il résulte donc du détail que l’on vient de faire, que depuis 1450 jusqu’à 1730, ou environ, il y a en France 431 auteurs, et 1655 pièces, y compris les opéras de l’Académie de musique, dont nous parlerons ci-après.

[4.45] Si les Italiens en cent cinquante ans seulement ont produit une fois plus de pièces que les Français en deux cent quatre vingt ans, il ne faut pas croire pour cela que l’Italie l’emporte sur la France ; tout ce que les Italiens on fait de mieux en 250 ans, en fait d’ouvrages dramatiques, ne peut être comparé à ce que la France a produit en soixante et dix années. Toutes les nations de l’Europe doivent sur cela le céder à la France, puisque celles qui ont fourni le plus grand nombre d’ouvrages en ont si peu d’excellents. Le théâtre français, par une nombreuse suite de très bons ouvrages, marque le génie et le caractère de ses poètes dramatiques, qui depuis cent ans marchent sur le bon chemin ; on peut remarquer tout combien depuis 40, ou 50 ans, le théâtre en France a gagné du côté du bon goût, du vrai et de l’esprit : et je suis presque en état de soutenir que bien des pièces tragiques et comiques tombées depuis ce temps-là sur le théâtre français, auraient réussi pour la plupart hors de la France : en voici une preuve. Parmi le grand nombre de tragédies françaises, qui ont été traduites en italien, et qui ont été bien reçues dans le pays, il y en a beaucoup qui n’ont jamais été représentées qu’une ou deux fois à Paris.

[4.46] Au reste il y a toute apparence que dans les premiers temps, et jusques vers la moitié du siècle passé, les acteurs étaient presque tous masqués, aussi bien dans la tragédie que dans la comédie ; j’en ai tiré la preuve d’une remarque d’un auteurs français, qui dit, en parlant d’Hugues Guerru, dit Fléchelles et Gautier Garguille : « Cet homme si ridicule à la farce, ne laissait pas pourtant quelquefois de faire le roi dans les pièces sérieuses, et même ne représentait pas si mal un personnage si grave et si majestueux, à l’aide du masque et de la robe de chambre qui couvrait ses jambes et sa taille maigre »Voyez Chapuzeau.

[4.47] On a fait grand cas en France de quatre acteurs comiques, ou pour mieux dire, farceurs, qui avant 1600 passèrent des tréteaux au théâtre de l’Hôtel de Bourgogne, et y furent applaudis : on les nomme Turlupin, Gautier Garguille, Gros Guillaume et Guillot Gorgu ; ils étaient masqués, à la réserve de Gros Guillaume, qui pour tout masque se barbouillait le visage de farine, et avait l’art, en remuant les lèvres, de la faire sauter sur l’acteur qui était avec lui. Ce que l’on rapporte de ces quatre excellents farceurs, ne prouve autre chose, sinon que c’était des bateleurs, dont le jeu était puérile et bas, et que s’ils on fait plaisir de leur temps, ils en sont redevables à l’ignorance dans laquelle on était en France sur tout ce qui en ce temps regardait le théâtre. Si les comédiens de Molière ont enseigné aux auteurs les sources du vrai e et du bon, les acteurs comiques, qui depuis la mort de ce grand homme ont représenté ses ouvrages, ont fait voir comment on devait faire rire les honnêtes gens.

[4.48] Présentement l’on ne voit plus au théâtre français d’acteurs masqués, pas même avec des barbes postiches, si ce n’est lorsqu’il est absolument nécessaire de faire paraître un personnage très âgé ; il n’y a pas d’habit extraordinaire dans le comique, si ce n’est l’habit de Crispin, qui n’est pas fort ancien : les valets y portent un habit de livrée, et les vieillards, selon le caractère, y sont vêtus à l’antique ; on conserve à peine pour les pièces de Molière les habits de caractère tels qu’ils étaient de son temps ; et lorsqu’on en retranche quelque chose qui avait rapport aux modes qui ont passé, les acteurs en changent, ou suppriment les vers qui faisaient la description de ces modes.

[4.49] Le acteurs de la tragédie sont obligés d’avoir des habits de théâtre à leurs dépens ; ces habits, qui sont ordinairement à la romaine, ou à la grecque, sont d’un très grand prix, parce qu’on n’y employé que de l’or ou de l’argent fin ; ceux des femmes surtout coûtent des sommes immenses. Les acteurs de la comédie sont tenus à la même chose, mais les dépenses ne sont pas égales pour tous ; les valets, les soubrettes et les vieillards ne sont obligés qu’à se donner des habits conformes aux rôles qu’ils jouent, ce qui ne va pas à une grande dépense : il n’en est pas de même des amoureux et des amoureuses, et de certains personnages d’un caractère distingué dans la comédie ; ils sont obligés d’avoir souvent des habits nouveaux, ordinairement magnifiques, et travaillés conformément au goût régnant ; souvent même ces acteurs inventent des modes nouvelle, qui sont bientôt adoptées par le public. C’est du théâtre que la mode des andriennes, et de plusieurs autres habillements, a pris naissance. Il y a quelques habits de caractère, ou de déguisement, qui se payant en corps, en prélevant de la masse ces frais extraordinaires ; ce qui se pratique le plus ordinairement, lorsqu’il y a des divertissements dans la pièce.

[4.50] De tout temps en France le spectateurs ( j’entends le parterre ) ont été turbulents, nous voyons par un règlement du lieutenant civil du 5 février 1596La Marre, Traité de la police, livre 3, titre 3, page 440. que l’« on fit défense à toute personne de faire aucune violence en l’Hôtel de Bourgogne, lorsqu’on y représentait quelque jeu, d’y jeter des pierres, de la poudre, ou autres choses qui pussent émouvoir le peuple à sédition, etc. ».

[4.51] Louis XIV résolut d’établir dans les spectacles la décence et la tranquillité ; pour cet effet, outre la garde publique que sa majesté y maintint suivant l’ancien usage, elle rendit une ordonnance, par laquelle toute personne qui troublerait le spectacle, soit en sifflant soit en faisant du bruit, serait mise en prison et y demeurait pendant un an et un jour : ce règlement dure encore, et de temps en temps le lieutenant de police en renouvelle l’ordonnance.

[4.52] Les théâtres de France sont construits à peu près dans la forme de ceux d’Italie qui ont été les premiers modèles de tous les autres ; ils n’en sont différents qu’en ce qu’au de là du parterre il y a une élévation que l’on appelle amphithéâtre, où sont des bancs et cet amphithéâtre est un peu plus bas que les premières loges, afin que tous les spectateurs puissent voir le théâtre avec la même liberté. Il y a aussi au bas du théâtre une enceinte que l’on nomme orchestre, qui n’était autrefois destinée qu’aux symphonistes, mais depuis en y pratiquant pour eux un retranchement, on y a laissé des places pour les spectateurs. L’entrée en est par dessous le théâtre, et on y peut mettre jusqu’à 40 ou 50 personnes : on y paye le même prix qu’au théâtre, et lorsqu’il y a beaucoup de monde, les femmes s’y placent sur des banquettes sans dos de même que dans l’amphithéâtre. Au reste les théâtres y sont petits, puisqu’ils n’ont que trois rangs de loges, les premières, les secondes et les troisièmes. On n’y voit point de rang de loges au-dessous des premières, comme en Italie, et le plus grand parterre de France ne contient pas plus de cinq à six cent personnes debout et bien pressées.

[4.53] Cette façon de se tenir debout dans le parterre n’est pas fort ancienne en France, car il est constant qu’autrefois on y était assis : on le voit par un livre de M. M. D. P. imprimé à Paris en 1668, sous le titre Idées des spectacles nouveaux ; on y donne quelques avis sur des choses qu’il faudrait réformer ; et en parlant de l’heure de commencer la représentation l’on conseille, entre autres, en faveurs des bourgeois , et sur tout des femmes, «d’avoir quelque soin de leur commodité, et de leur faire tenir des sièges dans le parterre ». D’ailleurs ce serait un moyen sur et facile d’empêcher le tumulte et le désordre, puisqu’on est bien plus à portée d’être reconnu étant assis, que lorsqu’on est debout et pressé. C’est ce qui a été suivi dans des théâtres nouvellement construits dans les foires de S. Germain et des S. Laurent, où les femmes et les hommes sont assis : on s’est contenté de nommer parquet ce qui est le parterre dans les autres théâtres,

[4.54] A l’égard de l’heure de commencer le spectacle, elle n’a pas toujours été la même. Le 12 novembre 1609 le lieutenant civil sur les conclusions du procureur du roi, fit un règlement, dan lequel « il est ordonné aux comédiens, depuis le jour de la Saint Martin jusqu’au 15 février, d’ouvrir les portes à une heure après midi, et de commencer avec telles personnes qu’il y aura à deux heures après midi, et de finir à quatre heures et demi au plus tard ». Mais il paraît par le livre que nous venons de citer, que cette ordonnance n’était pas observée en 1668 car il conseille aux comédiens, pour leur avantage, de commencer de meilleure heure, « en hiver, dit il, à trois heures et demie, et en été à quatre heures et demie » : d’où l’on peut conclure que les spectacles de son temps ne commençaient qu’à six heures. Le même auteur se récrie beaucoup sur l’usage dans lequel les spectateurs étaient de se placer sur le théâtre, ce qui pourtant s’est perpétué jusqu’à présent ; quoique cela soit fort nuisible à l’action théâtrale, on y est si habitué en France, qu’on n’y fait plus d’attention.

[4.55] A l’égard du prix que l’on donne pour l’entrée, le règlement du lieutenant civil de 1609, dont nous avons déjà parlé, pour empêcher les comédiens de l’augmenter à leur fantaisie, le fixe en ces termes : « fait défense aux comédiens de prendre davantage que cinq sols au parterre, et dix sols aux loges et galeries, etc. ». Mais ce prix a augmenté à mesure que la monnaie a haussé de valeur. Sous le règne de Louis XIV on payait trois livre aux premiers loges, fut le théâtre et à l’orchestre ; trente soldes aux secondes loges et à l’amphithéâtre ; quinze soldes aux troisième loges : il y a plus de trente ans que sous le même règne on a augmenté d’un quart les entrées des spectacles en faveur des hôpitaux, ce qui fait aujourd’hui quatre livres pour une place des premiers loges, du théâtre, de l’orchestre et de l’amphithéâtre, qui depuis quelques années a été mis au même prix que le théâtre, parce qu’en effet ce sont les meilleures places de toute la salle : on donne quarante solde aux secondes loges, trente soldes aux troisième, et vingt soldes au parterre.

[4.56] Pour entrer au spectacle il y a deux portes dans la rue, une qui conduit au parterre seulement, et l’autre à toutes les autres places. A côté de ces deux portes il y a petites fenêtres grillées par où l’on distribue les billets ; l’une sert pour le parterre seulement, et l’autre pour le reste des places de la salle. Sur chaque billet est ordinairement imprimé le nom de la place pour laquelle on a payé en le prenant. Chacun en donnant son billet à celui qui est à la porte du théâtre, en reçoit un autre sur lequel est imprimé contremarque, et le nom de la place que l’on doit occuper. Ces contremarques se rendent à des gens préposés pour ouvrir les loges, y placer ceux qui arrivent, et les renfermer jusqu’à ce qu’il y ait huit personnes, quatre sur le devant, et quatre sur le derrière, ce qui compose le nombre que chaque loge peut contenir. De cette façon il se peut trouver dans une loge huit personnes, souvent hommes et femmes qui ne se connaissent point ; quoiqu’à dire vrai, par l’embarras des paniers des femmes on y soit aujourd’hui fort mal à son aise : aussi pour éviter cette incommodité, les femmes envoient ordinairement le matin ou la veille louer une loge entière. On paie pour une première loge la valeur de huit places, qui font trente deux livres, et ceux qui l’ont louée n’y admettent que la compagnie qui leur convient. Les secondes se paient à proportion seize livres : à l’égard des troisièmes, comme elle sont en galerie, on ne peut y retenir de place qu’envoyant de bonne heure un domestique sans livrée en garder une, comme l’on fait sur le théâtre, dans l’orchestre, etc.

[4.57] La première loge à droit, en regardant le théâtre, est appelée la loge du roi, et toutes les autres, qui suivent jusqu’au fond de la salle, le côté du roi : la première loge à gauche, en regardant le théâtre, est appelée la loge de la reine, et toutes les autres qui suivent le côté de la reine ; en effet ce loges sont destinées au roi et à la reine, lorsque leurs majestés veulent honorer le spectacle de leur présence ; ce qui n’arrive presque jamais, parce qu’à la cour il y a un théâtre où les comédiens vont représenter toutes les fois qu’ils en reçoivent l’ordre.

[4.58] Si les princes et les princesses du sang viennent dans la salle de la comédie, leur naissance leur donne le droit d’occuper les premières loges, quand même elle seraient louées à des particuliers, qui sont obligés par respect de passer aux loges suivantes. Les pinces du sang vont le plus souvent se placer sur le théâtre ; et alors les acteurs suspendent la scène, tous les spectateurs se lèvent par respect, et les princes vont occuper la première place qui leur est cédée par celui qui y était assis ; à la fin de la pièce le comédien qui doit annoncer pour le jour suivant, leur fait une profonde inclination, et leur rend les respects qui leur sont dus, en demandant la permission d’annoncer.

[4.59] Autrefois quand une pièce nouvelle avait réussi, on la jouait tous les jours pendant deux ou trois mois de suite : méthode fatigante pour les acteurs et pour les spectateurs, et surtout pour les étrangers qui pendant deux mois étaient forcés à ne voir tous les jours que la même pièce. C’est un inconvénient que fait remarquer l’auteur du petit livre des Spectacles nouveaux ; mais aujourd’hui on ne donne la pièce nouvelle que de deux jours l’un, ainsi pendant le temps qu’elle se soutient au théâtre, on peut voir d’autres pièces que les comédiens jouent alternativement.

[4.60] Le premier opéra qu’on ait chanté à Paris est de 1645. Le cardinal Mazarin fit venir exprès d’Italie des musiciens, un architecte et tous les ouvriers nécessaires, et il fut représenté au petit Bourbon, où le même Cardinal en fit représenter d’autres les années suivantes avec la plus grande magnificence ; mais ils étaient tous Italiens : le premier était intitulé La festa teatrale della finta pazza de Giulio Strozzi. Il avait paru en Italie quelques années auparavant.

[4.61] A l’égard du premier opéra français, M. de la Marre le met en 1672, et l’auteur de La Bibliothèque des théâtres la même année que l’abbé Périn en obtint le privilège du roi, c’est à dire en 1671, privilège qui passa l’année suivante à M. de Lully. Ces premiers opéras étaient conformes à ceux d’Italie, et surtout à l’égard des machines : mais aujourd’hui que l’Italie les a abandonnées, il n’y a plus qu’en France, et surtout à Paris, où le goût et l’usage des machines se soit conservé. Il est vrai qu’il n’y a jamais été porté au degré de perfection où les Italiens l’ont poussé ; mais c’est toujours un plaisir de plus pour les spectateurs qui aiment les machines, que de jouir encore d’une chose qui ne subsiste plus dans presque toute l’Europe. Comme la France n’avait point d’autre modèle à prendre pour les opéras que ceux d’Italie, je suis tenté de croire que Quinault les a suivis dans ses opéras. Proserpine a été donnée à Venise l’an 1644 et la Proserpine de Quinault est de 1680. Persée fut chanté à Venise l’an 1665 et Quinault le donna à Paris en 1682. L’an 1639 il parut à Venise un opéra d’Armide et Quinault exécuta le même sujet à Paris en 1686. Il y a toute apparence que ces sujets ont servi en quelque manière de modèle au lyrique française ; je n’ai pas examiné ces opéras italiens, n’ayant jamais été à portée de les voir, ainsi je ne puis pas en dire davantage ; mais ce qui me le fait penser, c’est que dans les commencements de l’opéra en Italie, on inférait dans les tragédies en musique les plus sérieuses, des vieilles ou des confidentes et des valets comiques, ce que Quinault a entièrement imité dans ces premiers opéras.

[4.62] Il n’y a point de spectateurs placés sur le théâtre de l’opéra, parce que les décorations, les machines, les chœurs et les danses n’y ont pas plus de place qu’il en faut ; car la construction de ce théâtre n’est pas différente de celle des théâtres de la comédie. A l’égard du prix il est le double des autres spectacles, à proportion des places que l’on veut occuper.

[4.63] On compte depuis 1671 jusqu’à 1737 inclusivement, cent trente deux opéras, y compris Castor et Pollux, et les deux opéras italiens représentés à Paris, tant ceux qui ont réussi, que ceux qui n’ont pas eu de succès.

[4.64] L’opéra est d’une magnificence qui surprend pour la quantité et pour la qualité des habits. Quoiqu’en faux, ils sont brodés dans un goût excellent, et pour l’éclat ils égalent les habits fins de la tragédie. La diversité et le galant des habits des danseurs est une chose superbe, et que l’on ne voit qu’en France : tout se fait aux dépens des entrepreneurs.

[4.65] Les décorations du théâtre de l’opéra sont belles, mais elles ne peuvent pas se comparer à celles d’Italie, parce que la petitesse du théâtre ne permet pas de les faire aussi grandes et aussi étendues que dans les vastes théâtres de Venise, de Milan, etc. Mais les danses y dédommagent de ce qui manque du côté des décorations.

[4.66] Toute l’Europe connaît le talent et le goût des français pour la danse, et ce goût est aimé et généralement suivi ; cependant les sentiments se trouvent partagés aujourd’hui à ce sujet : les uns prétendent que la vraie et belle danse se perd, et condamnent la danse haute, principalement quand ce sont des femmes qui l’exécutent ; les autres la préfèrent à la danse unie et aux grâces de la figure. Je ne déciderai point lesquels ont raison, mais je rapporterai seulement une réflexion que j’ai faite autrefois sur cette matière.

[4.67] Lorsqu’on voulait jadis en Italie, en Allemagne et ailleurs, introduire des danses dans les opéras, on faisait venir exprès des danseurs de Paris : au bout de quelque temps, et quelquefois même de plusieurs années, ces danseurs s’en retournaient en France, sans avoir laissé d’élèves assez habiles pour établir dans le pays le goût se la danse française ; à la réserve du menuet, de la bourrée, de la courante, etc. il fallait toujours pour les opéras rappeler des danseurs français. Mais aujourd’hui les seigneurs italiens qui voyagent, et qui autrefois étaient enchantés des danses de l’opéra de Paris, non seulement n’en sont plus surpris, mais encore prétendent ils que leur nation est présentement plus habile dans cette science. Cela me paraît d’autant plus insoutenable, que quand on leur demande en quoi consiste la danse d’Italie pour la tant vanter, ils répondent que pour une excellente danseuse qui cabriole à l’Opéra de Paris, ils en ont une douzaine en Italie qui valent pour le moins autant qu’elle. D’où je conclu que cette espèce de danse n’est pas la meilleure et la plus difficile, puisque les étrangers trouvent tant de facilité à l’imiter ; ce qu’ils n’ont jamais pu faire, lorsqu’elle était simple, mais ornée de toutes les grâces imaginables.

Parallèle des théâtres
§

Parallèle des théâtres
Italien, espagnol et français §

[5.1] Les trois théâtres, dont nous venons de donner une espèce d’histoire en abrégé, ont été sans contredit ceux que l’Europe a vu naître les premiers. Les commencements du théâtre en Espagne et en Italie, comme nous l’avons remarqué, sont enveloppés dans une si grand obscurité, qu’il me paraît presque impossible de les en tirer, et qu’on ne saurait décider avec sûreté lequel des deux a pu servir de modèle à l’autre. D’un côté les anciennes pièces italiennes nous laissent dans l’ignorance du temps où elles ont paru ; de l’autre, aucune pièce espagnole ne m’a paru jusqu’ici antérieure à l’année 1500, ce qui me ferait croire qu’elle est postérieure à l’autre, si les espagnols ne soutenaient pas le contraire, sans cependant nous en donner des preuves. On peut donc laisser à ces deux nations le plaisir de se contester l’ancienneté en fait de spectacles.

[5.2] Le Italiens dans leurs premiers ouvrages de théâtre ont été des imitateurs, peut-être un peu trop serviles, de Plaute et de Terence. Ils furent cependant obligés d’écarter de leur ouvrage les mœurs des anciens romains, qui ne convenaient point à leur siècle. L’amour des jeunes gens pour des esclaves, ou des femmes débauchées, était le fond le plus ordinaire des pièces latines ; les Italiens voulant suivre ces modèles, et s’imaginant apparemment que le libertinage était indispensable dans la comédie, y substituèrent l’amour pour les femmes mariées, les intrigues des moines, les trafics des entremetteuses, enfin les traits le plus scandaleux et le plus condamnables des mauvaises mœurs. C’est en quoi ils ont commis une faute inexcusable. L’on a beau dire que l’on cherche à corriger le libertinage ; lorsqu’on le représente au théâtre, cette gaieté folle et effrénée qui l’accompagne, met les spectateurs en danger d’en être séduits, et ceux dont le cœur en est entièrement éloigné, en sont du moins trop vivement scandalisés. C’est pourquoi la prudence doit engager les auteurs dramatiques à peindre et à censurer seulement le ridicule, l’image des vices étant trop dangereuse. Lorsque le théâtre italien s’est corrigé du côté du scandale, il commençait à tomber du côté du génie et du goût, ce qui fait que pour lire le leurs comédies en cette langue, il faut nécessairement connaître ces pièces libertines.

[5.3] Les Espagnol au contraire ne représentent dans leurs comédies que l’amour honnête entre les personnes libres : les usages introduits en Espagne par la jalousie, donnent ordinairement lieu à l’intrigue dans ces sortes de sujets, qui dans un autre pays produisent des pièces si unies, qu’elles sont pour la plupart dénuées d’action. Le point d’honneur romanesque, par lequel on pourrait caractériser la nation espagnole, tient une grande place dans leurs ouvrages de théâtre. A l’égard des valets, ils ne parlent pas à beaucoup près aussi librement qu’en Italie ; mais en revanche on les entend souvent jurer par le nom de tous le saints. Le mélange du sacré avec le profane est bien plus fort dans los autos sacramentales, dont nous avons parlé. Il y a une entre autres, qui a pour titre Le Chevalier du S. Sacrement. Dans cette comédie on voit une église où le feu est si grand, que l’on désespère de pouvoir l’éteindre ; un chevalier se jette au milieu des flammes et en revient tenant à la main le S. Sacrement. Cette action, qui ailleurs serait peut-être condamnée, passe en Espagne pou un trait du zèle le plus respectable, et les spectateurs en sont édifiés et touchés. Les comiques ont leur place dans ces sortes de représentations, ce qui ne saurait manquer de déplaire aux gens sensés ; mais cependant à tout prendre, le théâtre espagnol est celui que l’on pourrait réduire avec le plus de facilité à une exacte bienséance.

[5.4] Pour la France, si elle n’a pas commencé aussitôt que les autres pays à produire des ouvrages de théâtre, du moins les a-t-elle suivis de bien près, mais elle a été plus longtemps à se perfectionner. La tragédie même n’était point exempte de libertinage. Rotrou commença à la corriger ; Corneille acheva bientôt après. Molière est le premier qui ait mis les bonnes mœurs au théâtre, quoiqu’il ne l’ait fait qu’imparfaitement. Ceux qui l’ont suivi de près, ont été plus libres que lui ; mais depuis trente ans le théâtre français se corrige incessamment de ce défaut, et l’on doit cet éloge aux spectateurs de Paris, ce sont eux qui tiennent les poètes en bride de ce côté, en refusant leurs applaudissements à tout ce qui porte un air d’indécence. Nous voyons naître une espèce de représentation théâtrale, dont on peut trouver des modèles dans le théâtre espagnol, et quelques uns dans l’italien ; mais les uns et les autres très imparfaits. Il est dans le monde des personnes d’un rang trop peu élevé pour en faire les héros d’une tragédie, mais aussi dans une situation trop haute pour que l’on puisse les faire descendre è cette espèce de plaisant qu’exige la comédie. On fait représenter à ces personnages une action qui leur est convenable, en fait naître des situations touchantes, et cela peut produire un spectacle charmant, et par las suite cette espèce de comédie pourra nuire beaucoup au tragique ; mais elle portera insensiblement le spectacle au point où la religion et les bonnes mœurs voudraient le voir.

[5.5] On ne fait que commencer, et ce genre est encore imparfait : car à côté d’une figuration qui doit arracher autant de larmes que le tragique, on est fâché de voir le mauvais plaisant détruire par sa bassesse l’intérêt que l’on venait de prendre. Mais ce défaut est facile à corriger, et quelque génie brillant portera sans doute ce nouveau genre à sa perfectionMon ouvrage était achévé, lorsque L’Ecole des amis, pièce de M. de la Chaussée, un des Quarantes de l’Académie française, a paru: cette pièce servira de modèle en ce genre. Queques particuliers se sont trompés, et l’on a vu paraître des critiques de cet ouvrage : on l’a regardé comme une comédie dans le genre du grand Molière ; on y cherchait son comique et ne l’y trouvant point, parce qu’il ne devait pas y être, on en a parlé trop légerement et par là ils ont fait plus de tort à leur capacité qu’à cette pièce..

[5.6] On peut ménager dans les sujets les plus touchants du plaisant noble, et produit par le sujet même ; cela est difficile, mais un esprit fécond en peut venir à bout. Les auteurs modernes s’attacheront sans doute à porter cette espèce de comédie à sa perfection, de crainte qu’on ne puisse leur reprocher d’avoir embrassé ce genre, faute de pouvoir atteindre au sublime de Corneille ou au plaisant de Molière.

[5.7] Enfin le théâtre français soutiendra sa gloire et fera toujours le meilleur, puisqu’il produit des spectacles d’un genre nouveau, lorsque les spectateurs se lassent de voir toujours suivre les anciennes routes.

Théâtre anglais §

[6.1] Si le théâtre anglais n’a pas commencé aussitôt que les autres théâtres, il paraît du moins qu’il les a suivis de près. La source des premières représentations dramatiques en Angleterre, est la même que celle des théâtres italien, espagnol et français : je veux dire que leur origine naît des mimes des Latins, lorsqu’ils erraient comme des vagabonds par tous les pays, sans réserve et sans honte.

[6.2] Du règne d’Edouard III qui commença l’an 1015 et finit en 1038, il est rapporté, dans un livre imprimé à LondresStatutes at large que ce saint roi ordonna par un arrêt du Parlement « qu’une assemblée d’hommes nommés vagrans, qui avaient fait des mascarades par toute la ville, seraient fustigés hors de Londres, parce qu’ils représentaient des choses scandaleuses dans des petits cabarets et autres endroit s où toute la populace s’assemblait ».

[6.3] On ne sait pas quand ces sortes de jeux commencèrent ; il y a tout lieu de présumer qu’il y avait longtemps que ces amusements scandaleux étaient en usage dans la ville de Londres, et que les rois précédents n’avaient pas songé à les détruire. Il arriva la même chose en France du temps de Charlemagne, et les ordonnances de ces deux saints rois reculèrent la naissance des spectacles dans les deux nations.

[6.4] Après un décret si positif et si rigoureux du roi d’Angleterre, tout ce qui pouvait avoir forme de spectacle, n’aurait osé paraître dans Londres, ni dans le reste du royaume, qu’en déguisant sous le manteau de la religion. Ce fut donc par les représentations sacrées que le théâtre commença à prendre forme à Londres comme il avait fait à Paris.

[6.5] On trouve dans un livre intitulé Antiquité de LondresStows Surrey of London., que sous Richard II qui régnait l’an 1378, le clergé et les enfants de l’Ecole de S. Paul présentèrent un placet au roi, priant sa majesté : « De faire défense à une troupe de gens non experts, de représenter l’histoire du Vieux Testament, au grand préjudice du dit clergé, lequel a eu grandes dépenses et frais pour représenter publiquement aux fêtes de Noël ».

[6.6] C’est donc dès ces temps là que nous pouvons établir une époque sûr des représentations morales du Vieux Testament dans la ville de Londres. On ne peut pas dire cependant que ces représentations commencèrent précisément l’année que le clergé et les enfants de l’Ecole de S. Paul présentèrent au roi le placet que nous venons de citer ; il y avait peut-être bien du temps que cet usage était introduit : ce qui doit nous le faire penser, c’est le terme employé dans le placet, qui nomme ces nouveaux acteurs ‘une troupe de gens non experts’. Si le clergé et les enfants de l’Ecole de S. Paul n’avaient été depuis du temps exercés en ce métier et en possession de donner au public ces sortes de représentations, ils n’auraient pas nommés ‘gens non experts’ des personnes qui se présentaient pour donner un pareil spectacle ; mais comme aucun historien, ni aucun savant parmi les Anglais, n’ont traité cette matière ex professo, il n’est pas possible de percer à travers l’obscurité dans laquelle il nous laissent. Il faut donc se contenter d’en établir l’époque dès l’an 1378 et dire seulement que l’exercice de telles représentations les conduisit insensiblement au théâtre profane.

[6.7] Richard II a régné vingt-deux ans jusqu’en 1399. En supposant que ce n’est que la même année que le roi mourut, que les enfants de l’Ecole de S. Paul ont donné leur placet ; ce même placet nous fait toujours connaître qu’il y avait déjà quelques années que ces enfants jouaient les mystères en public, et pour l’argent, et nous savons que les confrères de la Passion n’ont représenté à S. Maur qu’en 1398. Il est donc évident que les Anglais ont précédé les François quant à l’établissement d’un théâtre public. Je ne crois pas qu’ils les aient précédés dans les représentations des mystères qui avaient commencé en France bien des années avant la première représentation à S. Maur ; du moins on ne peur contester aux Anglais d’avoir été les premiers à rendre le spectacle public, et à faire payer.

[6.8] Les chroniques de Londres parlent d’une représentation profane que l’on dit généralement dans le pays avoir été la première qu’on ait donné ; voici ce que ces chroniques rapportent :

[6.9] Le septième mai 1520, le roiHenri VIII. fit préparer une mascarade, et ordonna qu’on élevât un théâtre dans sa grande salle de Grenwiche, etc. le roi, la reine, et les seigneurs y vinrent à la représentation d’une bonne comédie de Plaute.Voici la traduction du titre de ce livre. Troisième volume des Chroniques, commençant à Guillaume duc de Normandie, appelé communément le Conquérant, contenant l’ordre de succession des rois et reines d’Angleterre jusqu’en l’année 1577. Par Raphael Nolinshed.

[6.10] Il faut donc croire que depuis 1378 jusqu’à 1520, on n’avait jamais vu à Londres des farces profanes, conjointement aux représentations des mystères, ou séparées, comme il arriva en France ; et si véritablement cette bonne comédie de Plaute a été la première à paraître, on ne peut disputer aux Anglais l’avantage d’avoir commencé leur théâtre par une bonne pièce profane ; pendant que toutes les autres nations de l’Europe n’ont commencé le leur que par des farces très faibles.

[6.11] Nous voyons la même chose à l’égard de la tragédie : la première fut jouée devant la reine Elisabeth ; voici ce que l’on trouve dans l’Appendice aux Vies des poètes dramatiques anglais :

[6.12] « Le Seigneur Buchurst, depuis comte de Dorset, écrivit conjointement avec M. Norton une tragédie qui fut estimée dans ce temps là. Elle fut imprimée trois fois. La première édition fut publiée sous le titre de Forrex et Porrex, imprimée in-8° à Londres en 1565, par G.G. ».

[6.13] La seconde édition fut imprimée du consentement des auteurs avec le titre suivant :

« La tragédie de Forrex et de Porrex, sans augmentation et diminution, telle qu’elle fut représentée devant le reine il y a environ neuf ans : à savoir le 18 janvier 1565, par les Gentilshommes de Inner Temple, imprimée in 8° à Londres ».

[6.14] Voici le titre de la troisième édition :

[6.15] « La tragédie de Gorboduc, dont trois actes ont été écrits par Thomas Norton, et les deux autres par Thomas Sachville, mise au jour telle qu’elle a été représentée devant la reine dans Inner Temple, imprimée in-4° à Londres, 1590 ». Dans cette troisième édition l’écrivain anglais nous fait voir qu’on a changé le titre, et un des noms des auteurs : je ne saurais en deviner la raison.

[6.16] Voilà donc la première comédie et la première tragédie anglaise parfait, ce qui est bien glorieux pour la nation. Quant à la comédie, on ne saurait disconvenir de sa perfection, puisque c’était une des bonnes comédies de Plaute ; mais pour ce qui est de la tragédie, je ne sais si sur le seul rapport de l’écrivain qui en parle avec avantage, ayant égard ‘ à la grande réputation qu’elle eut ’, je ne sais, dis-je, si on peut former le même jugement, et respecter les décisions de ce temps là. C’était la première tragédie qui paraissait dans le pays : les Français leurs voisins ne pouvaient leur avoir montré des originaux parfaits à imiter, puisqu’ils n’en avaient que de très médiocres ; et l’Italie ( qui était alors au plus haut degré de sa gloire en fait de théâtre ) était trop éloignée pour que les Anglais pussent les étudier et en prendre des modèles. Il faut donc douter de la perfection de cette première tragédie anglaise ; et quoiqu’elle parût excellente dans le temps, elle pouvait n’être pas telle en effet : nous en jugerons mieux en suivant l’histoire de leur théâtre.

[6.17] Dans la Vie de Shaskpear, qui est à la tête de ses ouvrages, on lit que dès l’année 1590 il y avait à Londres des comédiens de profession, mais qui n’avaient point de théâtre fixe, et qui ne jouaient point la tragédie, parce qu’alors on n’en avait encore à Londres aucune idée. C’est bien décisif, et cependant il paraît que cela doit être regardé comme faux ; car du règne d’Elisabeth on connaissait la tragédie, si on avait joué celle que nous avons rapporté ci-dessus ; on ne peut pas se persuader que dans l’espace de vingt-cinq ans qui étaient écoulées, depuis que la tragédie de Gorboduc avait paru, la mémoire en fût entièrement effacée, d’autant plus que les trois éditions, que nous avons citées, en pouvaient rappeler le souvenir. Je pense donc que pour en juger sainement, il faudrait dire plutôt que la tragédie était inconnue en Angleterre, par la seule raison que celle de Gorboduc était unique, et que n’ayant point paru devant le public, mais seulement à la cour, les spectacles mercenaires n’ayant peut-être pas été à la portée d’en faire usage, ce genre de poésie dramatique a été ignoré jusqu’au temps de Shaskpear.

[6.18] Guillaume Shaskpear ayant consommé son patrimoine, entreprit le métier de voleur ; et sans doute la crainte d’en recevoir le châtiment l’obligea de quitter sa province, et d’aller à Londres où il se fit comédien. Il avait de l’esprit et de talents : il fit une comédie qui fut extrêmement agrée de la reine Elisabeth, qui très satisfaite de Shaskpear, donna une patente aux comédiens, les déclara ses serviteurs, et leur fit assigner l’établissement d’un théâtre. L’an 1596 Shaskpear, à l’âge de trente-trois ans, donna sa première tragédie intitulée Romeo et Giuliet, et l’année d’ensuite il donna celle de Richard II.

[6.19] Jacques I qui succéda à la reine Elisabeth, confirma par une ordonnance le privilège de cette troupe de comédiens : il y nomme neuf acteurs qu’il déclare ses serviteurs, et cette ordonnance est conçue dans des termes que je crois devoir rapporter, du moins en partie ; elle dit vers la fin :

« Et leur permettons de représenter les dites comédies, tragédies, intermèdes, morales, pastorales, comédies de théâtre et semblables, publiquement et pour leur plus grande commodité ( lorsque l’infection de la peste diminuera ) aussi bien dans notre maison appelé le Globe, dans notre comté de Surrey, que dans les villes, salles, places publiques, ou autres places quelconques enfermées dans les libertés et privilège, ou bourg quelconque de notre dit royaume ».

[6.20] Il y a deux choses dans cette ordonnance de Jacques I qui me paraissent remarquables. Dès 1603 qu’elle émana du roi, les comédiens anglais embrassaient tous les genres de représentation théâtrales, suivant que nous le voyons détailles dans le privilège ; ce théâtre donc avait commencé depuis longtemps, puisque déjà tous les genres de poème dramatiques y étaient connus : ce qui n’arrive pas en vingt ou trente ans d’exercice.

[6.21] Il est encore expliqué dans la même ordonnance, ‘ places publiques, et c. ’ ce qui nous fait voir qu’en Angleterre, aussi bien qu’en France, on a été dans l’usage de jouer sur les tréteaux des représentations aussi bien morales que profanes ; et le mot répété de comédie toute seule, et plus bas de comédie de théâtre, nous fait sentir que c’est de deux espèces de comédies qu’il entend parler : en faisant une distinction apparentement entre celles que l’on était en usage de jouer dans les places publiques, et celles que l’on jouait dans le théâtre fermé. On est donc forcé de conjecturer que dans les deux ans depuis 1378, les représentations morales et les farces profanes avaient été jouées sur les tréteaux, et que les rois les avaient au moins tolérées, si elles n’avaient pas été autorisées par des ordonnances souveraines.

[6.22] Avant que Shaskpear embrasa la profession de comédien, il y avait donc un théâtre à Londres, c’est-à-dire, qu’on y représentait des ouvrages dramatiques depuis longtemps. Il est vrai qu’il n’en est pas trop fait mention ; on lit seulement dans la vie de ce poète que ce fut lui qui produisit Benjhonson, et le porta à faire des comédies : ainsi donc l’Angleterre ne fixe l’époque de son théâtre que par ce deux poètes les plus célèbres de leur temps.

[6.23] Au reste il est surprenant que la tragédie ait commencé en Angleterre par tout que l’imagination humaine peut suggérer de plus horrible, et que ce goût se conserve encore, malgré les tentatives de quelques auteurs, qui on tâche de lui donner une nouvelle forme ; j’en ai cherché la raison, et quoique je puisse me tromper, j’en dirai toujours ce que j’en pense.

[6.24] On ne peut pas mettre en doute que l’attention la plus importante du poète dramatique ne soit de plaire aux spectateurs, et que pour y parvenir il faut les bien connaître. Lorsque le poète s’imagine d’avoir atteint cette connaissance, il cherche à leur présenter des images, et des actions qui soient généralement goûtées de la nation pour laquelle il écrit.

[6.25] Cela supposé, il serait donc indubitable que les pièces de théâtre nous feraient connaître le caractère des nations en général, et que sans avoir autre connaissance que celle des tragédies et des comédies dès anciens et des modernes, l’on pourrait juger que les Grecs étaient violents et voluptueux : les Romains sensuels, mais toujours grands : on pourrait mettre les Italiens au même rang que les Romains, à quelque différence près : on dirait que les Espagnols ont une noble fierté, qu’ils sont pointilleux et mystérieux ; les Français spirituels, évaporés et extrêmement galants ; et dans tous ces différents caractères, je ne crois pas qu’on s’éloignât trop de la vérité.

[6.26] On ferait donc tenté de croire que Shaskpear, en présentant à sa nation les objets les plus atroces, les Anglais sont cruels, intraitables, et presque inhumains : et à la vérité ils ne sont rien moins que cela. Les Anglais sont doux, humains, polis même, mais communément pensifs à l’excès. C’est cette dernière qualité qui fait le fonds de leur caractère, comme les écrivains même de leur nation en conviennent. Allons plus avant.

[6.27] Les poètes dramatiques anglais ont ensanglanté la scène au-delà de l’imagination. J’en donnerai deux seuls exemples. La tragédie, qui a pour titre Hamelet Tragédie de Shaskpeara cinq acteurs principaux, qui pendant l’action meurent tous de mort violente. Vers le milieu de la pièce on voit l’enterrement d’une princesse : on creuse la fosse sur la scène, et l’on tire de terre des ossemens et des cranes de cadavres : un prince arrive, prend un crâne à la main, que le fossoyeur lui dit être le crâne à la main, que le fossoyeur lui dit être du bouffon du feu roi, et ce prince fait une dissertation de morale sur le crâne du bouffon qui passe pour un chef d’œuvre : les spectateurs écoutent avec admiration, et à la fin ils applaudissent avec transport. C’est le morceau pour lequel la plus grande partie des spectateurs va au théâtre quand on représente cette pièce. Dans la tragédie qu’on appelle Le More de Venise Tragédie du même auteur, entre autre chose Le More transporté de jalousie va trouver sa femme qui est dans son lit éveillée, il parle avec elle, et après plusieurs combats entre l’amour et la colère, il prend la résolution de se venger et l’étrangle aux yeux des spectateurs.

[6.28] Si je détaillais tout ce qu’il y a d’horrible dans la tragédie anglaise ; on ne saurait se persuader que les Anglais fussent du caractère doux et humain, comme je les ai peints, et comme ils le sont en effet ; mais l’on dirait plutôt que le poète a donné aux spectateurs de sa nation, pour leur plaire, ce que leur caractère féroce et cruel goûtait davantage. Si ce n’est pas là le motif, pour quelle raison donc présente-t-on à cette nation des objets si terribles ? Toutes ces réflexions faites, je me suis arrêté à une opinion que je veux hazarder.

[6.29] Le fonds du caractère des Anglais est de se plonger dans la rêverie, comme nous avons dit ; c’est parce qu’ils sont continuellement attachés à penser que les sciences les plus élevées sont traitées par les écrivains de leur nation avec beaucoup de profondeur ; et que les arts sont portés à ce degré de perfection que nous connaissons, parce que leur naturel pensif fournit cette patience, et cette exactitude qui manquent aux autres nations.

[6.30] Suivant mon raisonnement je crois, que si l’on donnait sur leur théâtre des tragédies dans le goût des meilleures et des plus exactes, c’est-à-dire, de celles qui sont dénuées de ces horreurs qui souillent la scène par le sang, les spectateurs s’endormiraient peut-être. L’expérience que les premiers poètes dramatiques auront faite de cette vérité, les aura porté à établir ce genre de tragédie, pour les faire sortir de leur rêverie par des grands coups qui les réveillent.

[6.31] Par la même raison, la comédie anglaise est chargé d’incidents au point, qu’ayant transporté sur leur théâtre des pièces françaises, les auteurs en ont doublé l’intrigue, ou ils ont jointes à une autre action, afin de tenir le spectateur en haleine, et ne pas lui donner le temps de se distraire : L’Avare de Molière entre autres, qui est peut-être trop chargé d’intrigue dans son original, l’est bien davantage dans la traduction anglaise. La maîtresse d’Harpagon, pour le dégoûter, fait des dépenses énormes sur le compte du vieillard, ce qui ajoute une intrigue à la pièce qui en augmente le nœud sans mesure.

[6.32] J’ai dit que les poètes anglais, à dessein de frapper vivement les spectateurs, ont rempli d’horreur la tragédie, et surchargé d’incidents la comédie ; et à l’égard de cette dernière, je pourrais ajouter encore qu’ils ont imaginé des actions et des dialogues obscènes à l’excès ; je ne m’engagerai pas cependant à faire connaître quelques-unes de cette espèce que j’ai vu représenter à Londres, mais je m’en rapporterai à la Critique du Théâtre anglais de M. Collier. Il reproche aux poètes de sa nation leur grande licence : et par la comparaison qu’il fait de leur théâtre avec ceux des anciens et des modernes, il leur fait voir qu’il n’y a point d’exemple de libertinage sur la scène pareil à celui du théâtre anglais ; mais les obscénités et la complication des faits dans la comédie, ont pour le moins autant de force pour émouvoir les spectateurs, que l’horrible de leur tragédie a de pouvoir pour les toucher. C’est peut-être à dessein que les auteurs ont travaillé dans le goût que nous venons de marquer.

[6.33] Il serait à souhaiter que ces spectateurs, aussi bien que les poètes, fussent une fois bien persuadés du véritable objet des pièces dramatiques ; la terreur que la tragédie doit inspirer ne consisterait pas dans l’effusion du sang et dans les images de la mort.

[6.34] En effet Œdipe qui se crève les yeux et Jocaste qui se pend, ne toucheront pas les spectateurs autant que le fera l’horreur de voir Œdipe incestueux et parricide. Si Athalie faisait un massacre des Lévites e du Grand prêtre, comme elle menace de le faire, non ne serait pas si vivement touché que de la conversations qu’elle a avec le jeune Joas à dessein de l’emmener et de le perdre. Ne tremble-t-on point dans Iphigénie par la crainte qu’on a de voir la fille sacrifiée par son père ? Et n’arrive-t-il pas la même chose de Phocas, qui par plusieurs reprises est sur le point de faire tuer son fils sans le connaître ? L’horreur qui règne dans les deux tragédies anglaises que j’ai nommées, et dans toutes les autres ensemble, n’aura jamais la force d’agiter et de toucher les spectateurs, autant que la véritable terreur dont je viens de donner quelques exemples.

[6.35] Je ne sais pas au reste ce que l’on peut espérer à l’égard d’une réforme du théâtre anglais, mais nous avons des preuves pour croire qu’il ne changera pas sitôt. Il y a vingt ans environ que le Caton d’Utique de M. Addisson parut à Londres avec l’applaudissement universel de toute la nation. Sans parler du mérite de cette tragédie, remarquons seulement avec quel jugement le poète présente à sa nation un objet qui intéresse au même temps les deux partisLes vighs et les toris, il le traite de manière que tous les deux s’y trouvent également flattés. C’est M. Addisson qui a exécuté avec un art admirable le grand point dont nous avons parlé, de bien étudier ses spectateurs pour leur plaire.

[6.36] On s’était imaginé que cette tragédie aurait donné le ton au théâtre anglais, mais les tragédies nouvelles que l’on a données depuis dans leur ancien goût, et particulièrement une des dernières qui a pour titre Georges Barnewelt, et qui a eu un si grand succès, ne nous font pas présumer qu’ils puissent jamais changer.

[6.37] On dit portant qu’ils ont commencé à hazarder dans le bon goût quelques pièces qui n’ont pas été mal reçues du public ; si ce commencement peut avoir d’heureuses suites, et si la raison et la vérité prennent le dessus dans l’esprit des poètes anglais, les spectateurs pourront s’y prêter, et alors le théâtre française aura en peu de temps un rival redoutable à combattre, Il ne manque rien à la diction anglaise pour exprimer avec force les grands sentiments, et les pensées sublimes dont leurs tragédies sont remplies : elle n’a pas moins d’agréments pour badiner dans la comédie, et souvent avec plus d’esprit que nous n’en remarquons dans les pièces des autres nations.

[6.38] Parmi le nombre considérable des poètes dramatiques anglais, M. Congreve est estimé le meilleur pour la comédie : il a connu parfaitement la nature : il vivait encore l’année 1727 que j’ai été à Londres ; j’ai eu plus d’une conversation avec lui, et je lui trouvai du savoir joint à une grande littérature : il est rare de trouver beaucoup de poètes dramatiques de cette espèce.

[6.39] La construction du théâtre est belle et très commode en même temps ; tout le parterre est en amphithéâtre, et le monde y est assis les hommes et les femmes mêlés ensemble, ce qui fait un spectacle très agréable. Il n’y a qu’en rang de loges, et au dessus deux galeries avec des gradins où le peuple va se placer. Il y a environ quarante ans que les seigneurs anglais se sont mis dans le goût d’avoir des opéras italiens, ce qu’ils soutiens avec magnificence et avec une dépense étonnante ; ils attirent à Londres les meilleurs chanteurs d’Italie qui ne regrettent pas leur patrie, quoique la musique y reçoive des très grandes récompenses. A l’égard du prix que l’on donne pour l’entrée, c’est, à peu de chose près, le même qu’a Paris.

[6.40] Il y a ordinairement deux théâtres qui servent à représenter des tragédies et des comédies ; ces théâtres sont décorés superbement, et pour les habits et pour les décorations. A l’égard des acteurs, si après quarante cinq ans d’expérience de théâtre je suis en droit de pouvoir dire mon sentiment, j’ose avancer que les meilleurs comédiens de l’Italie et de la France sont très inférieurs aux acteurs anglais. Les Italiens et les Français, loin de chercher cet heureux naturel et cette vérité qui font le charme de l’action, affectent un art et une manière forcés, qui ne laissent pas de séduire les spectateurs. Pour bien juger des uns et des autres, il faudrait les mettre en comparaison, sans aucun préjugé. Les auteurs anglais sont toujours vrais, et ils le sont de façon à ne point languir sur le théâtre. Quant à moi j’ai toujours cru, et je n’était pas seul de mon opinion, que la nature toute simple et toute pure serait froide sur la scène, et j’en ai vu l’expérience en plusieurs comédiens ; ainsi suivant ce principe j’ai pensé qu’il fallait un peu charger l’action, et sans trop s’éloigner de la nature, ajouter quelque art dans la déclamation : de même qu’une statue qu’on veut placer dans le lointain doit être plus grande que nature, afin que malgré la distance, les spectateurs la distinguent dans le point d’une juste proportion. Ainsi les acteurs anglais ont l’art d’enfler, pour ainsi dire, la vérité précisément comme il faut pour la faire paraître le lointain, de manière à me faire juger que c’est la pure vérité qu’ils m’exposent. Dans le temps que j’étais à Londres il m’est arrivé une chose, qui, à ce que je crois, mérite par sa singularité d’être rapportée.

[6.41] Au théâtre de Linksinfild je me trouvai à la représentation d’une comédie, dont l’action principale ne m’était point connue, mais il me fut aisé de reconnaître un épisode que l’auteur avait sans doute placé dans son intrigue : c’était cette scène que nous avons vue dans Crispin Médecin ; le seul changement qu’on y avait fait c’était d’introduire un vieillard à la place du valet, qui fait rire le spectateur par ses alarmes, lorsqu’il se met à la place du cadavre que le médecin doit disséquer. La scène était ainsi disposée : le vieillard amoureux s’entretient avec un valet de la maison de sa maîtresse ; le valet entend du bruit, ou fait semblant d’en entendre, il dit au vieillard de se cacher, et comme toutes les issues sont fermées, il lui conseille de se mettre sur la table où l’on devait apporter le cadavre ; après quelques difficultés le vieillard y consent, et fait précisément les mêmes choses que Crispin dans la comédie française ; mais pour donner une plus grande apparence de vérité à la supposition, le valet fait déshabiller le vieillard amoureux, et le met en chemise. On vient pour faire l’opération, on porte quantité d’instruments de chirurgie, on se met en état de disséquer le cadavre, le vieillard crie, et la fourberie est découverte.

[6.42] Je trouve dans l’acteur qui faisait le vieillard la plus parfaite exécution que l’on puisse souhaiter, et que l’on n’aperçoit guère dans un comédien, s’il n’a quarante ans d’expérience et d’exercice. Je ne m’en étonnais point d’une certaine façon, mais je suis charmé de trouver un autre M. Guérin, cet excellent comédien que possédait la troupe de Paris, et qu’elle a eu le malheur de perdre de nos jours ; je fis réflexion que je m’était trompé lorsque j’avais dit qu’un siècle entier ne produirait pas un acteur tel que lui, puisque de notre temps j’en ai trouvé en Angleterre un autre de la même force et avec des talents singuliers. Comme c’était un rôle de vieillard qu’il représentait, je ne doutais nullement que ce ne fût un vieux comédien, qui instruit par une longue expérience, et en même temps aidé par la pesanteur de l’âge, jouait si naturellement ; mais quelle fut ma surprise, lorsque j’appris que cet acteur était un jeune homme de vingt ans tout au plus. Je ne voulait pas le croire, et je disais que cela serai possible, s’il ne s’agissait que d’une voix tremblante et cassée, ou d’une faiblesse extrême, parce que je concevais à merveille qu’un jeune comédien avec des talents pourrait imiter cette défaillance de la nature jusqu’à un certain point ; mais que les rides de son visage, ses yeux languissants, et ses joues tombantes et livides, qui sont les marques les plus sûre d’une grande vieillesse, étaient des témoins incontestables contre ce qu’ils voulaient me soutenir. Malgré cela je fus contraint de céder à la vérité, parce que je fusse à n’en point douter, que ce comédien pour représenter un vieillard faisait sa toilette une heure avant que de s’habiller, et qu’à l’aide de plusieurs pinceaux il colorait si bien son visage, et peignait si artistement une partie de ses sourcils et de ses paupières, que de la distance de dix pas il était impossible de ne point s’y tromper. J’avais envie d’en être témoin moi-même, mais l’amour propre m’en empêcha, parce que je sentis que j’en aurais été honteux ; je me contentai de me le faire confirmer par des acteurs de la même troupe ; mademoiselle Salé, entre autres, qui dès ce temps-là se faisait admirer sur le même théâtre, m’avoua que la première fois qu’elle le vit jouer, elle n’osa point passer dans une coulisse où il était, crainte de le jeter à terre, si elle l’avait touché en passant.

[6.43] Je me flatte que cette digression ne sera pas tout à ait inutile : elle pourra, je crois, faire comprendre à quel point les comédiens anglais portent l’imitation de la nature, et elle servira de preuve pou tout ce que j’ai dit sur les acteurs de théâtre en Angleterre.

[6.44] La raison seule a tracé les premières règles du théâtre dans les tragédie grecques : Aristote en a établi un art, et nous en a fait des lois : les Latins les ont adoptées, et les modernes les ont confirmées par tant de poétique, et par un si grand nombre d’ouvrages dramatiques, que les Italiens, et les Français encore plus, nous ont donné et nous donnent continuellement. Il paraît donc que l’on ne peut s’écarter de ces règles sans encourir la critique de tout le monde ; autrement on ne pourrait opposer aux poètes anglais que d’avoir embrassé une maxime singulière qui diffère de celle des autres nations, et qui ne manquerait pas d’avoir ses défenseurs pour la soutenir. Dans un concours si général d’opinions, que le bon sens autorise, je suis persuadé que les doctes de l’Angleterre conviennent aussi de l’irrégularité de leurs poèmes dramatiques, et que ( de même que les Espagnols ) ils sont les premiers à l’avouer. S’il était permis de s’écarter de ces règles, que la raison même a dictées, le théâtre anglais serait en état de balancer la réputation des théâtres anciens et modernes : les beautés des tragédies anglaises sont au-dessus de toutes les beautés que le théâtre de l’Europe peuvent nous montrer ; et si quelque jour les poètes anglais se soumettent aux trois unités du théâtre, et s’ils ne présentent pas le sang et les meurtres aux yeux des spectateurs, ils partageront, pour le moins, la gloire dont jouissent les meilleurs de nos théâtres modernes.

Théâtre hollandais §

Théâtre flamand et hollandais §

[7.1] Le théâtre flamand et le théâtre hollandais ne doivent être regardés que comme un seul et même théâtre, puisque c’est un même idiome ; car le langage flamand n’étant que le langage hollandais corrompu par la proximité des Wallons et des Picards, ceux qui ont écrit en Flandres se sont servis de l’idiome hollandais comme le plus noble, le plus énergique, et qui approche le plus de la langue mère qui est l’allemand. Le théâtre flamand a été le seul nommé, pendant que les deux nations étaient sous la domination du même maître et que les souverains ont fait leur résidence en Flandres ; mais depuis le démembrement des provinces unies, il faut en parler séparément.

[7.2] C’est par les représentations des mystères que le théâtre a commencé en Flandres, comme les autres on fait ; avec cette différence cependant qu’à mesure que la nation français s’est polie, elle a aperçu l’indécence que cachait la simplicité de ces premières représentations, et qu’ils ont fait place peu à peu à des spectacles mieux entendus et plus réguliers ; mais la Flandres n’a pas eu le même avantage ; car les spectacles du théâtre ayant cessé dans le pays, la simplicité dénuée de délicatesse et de connaissance, s’y est conservée dans ses premiers droits. Je serais tenté même de croire que les Flamands, aussi bien que les Hollandais, ont pris pour modèle le théâtre anglais plutôt que le français dans leurs commencements, puisqu’ils en on suivi la méthode, et qu’ils n’ont adopté le théâtre français que depuis Corneille.

[7.3] Dans le temps que le théâtre flamand ( à l’exemple des autres nations ) aurait pu se perfectionner, leurs souverains transportèrent ailleurs leur résidence ; et depuis ce temps là on peut dire qu’il cessa entièrement. Il y a longtemps qu’ils n’ont plus de théâtre ; et tout ce que l’on en conserve, c’est la représentation de la Passion dans la même simplicité et dans la même grossièreté qu’elle avait commencé, et qui se représente en certains temps de l’année par des sociétés bourgeoises, qui jouent aussi quelquefois des mauvais traductions des comédies françaises ; enfin l’on peut dire que depuis 1566, du temps des guerres civiles, le théâtre flamand ne subsiste plus. Il n’en est pas de même en Hollande où on l’a cultivé, et ce n’est que de leur théâtre dont je parlerai dorénavant.

[7.4] Le théâtre hollandais a pris son origine de ce qu’on appelle dans le pays Reden Rychers Kameren, Chambre ou Assemblée des rhéteurs ou poètes, que l’on compare aux premiers troubadours de Provence, comme nous en parlerons plus au long dans la description du théâtre germanique. Ces chambres tiraient leur origine du génieCe génie est encore le même, mais mieux réglé : actuellement si quelque personne de distinction se marie, meurt ou est élevée à quelque emploi, les poètes sont en campagne, et dix, quinze, vingt épithalames, ou élégies, ou éloges sortent de la presse : on fait imprimer comme les théâtres à Paris. poète naturel à la nation : ( jusques-là même que leurs plus anciennes chroniques sont en vers) et de la passion du peuple pour le spectacle,

[7.5] Ces chambres étaient aussi communes en Brabant : il y en avait quatorze à Anvers ; celle de la Giroflée, et celle de la Branche d’Olivier étaient les plus distinguées : il y en avait dix-neuf à GandCe qu’on peur prouver par un Recueil de pièces allégoriques ( Linnesplel ) représentés par les dix-neuf chambres de Gand, imprimées en 1539, et par un autre Recueil de cinquante pièce tant allégoriques que prologues ( Voorspel ) ou farces ( Naspel) représentées par le 14 chambres d’Anvers, imprimées chez Silvius à Anvers, en 1562.; il y en avait en Hollande dans presque toutes les villes, comme Heerlem, Gouda, Schedam, Alemar, Leyde, Vlaerdinge, Rotterdam, etc.Témoin Le Constomen de Juvvel ( le Jouyeau de l’art ) ou Recueil de 14 pièces allégoriques, composées er reprèsentées par plusieurs Chambre de Rhéteurs à Harlem, imprimé à Zwol en 1607 et Vlaerdings Rederyhsberg ( Le Parnasse de Vlaerdinge ) ou Recueil de 16 pièces des Rhéteurs des chambres de Vlaerdinge, imprimé en 1617, etc.. Ce n’est pas seulement dans les villes qu’on avait cet usage, mais dans plusieurs villages aussi ; l’an 1708 il y en avait encore une dans le village de Voorschoote près de Leyde, et une autre dans le village de Loosduynem près de La Haye : actuellement il y a une de ces chambres dans le gros village de Wassenaar près de Leyde.

[7.6] Les membres de ces chambres étaient les beaux esprits du lieu, à qui on avait recours pour des épithalames, pour des élégies, pour des éloges ou compliments, lorsque quelqu’un entrai en charge, comme nous avons dit. Les mêmes composaient des pièces de théâtre, qu’ils jouaient ordinairement en chambre ; aussi sont ils intitulés Kamerspel ( jeu de chambre ), mais surtout à la campagne en temps de Kermes ( foires ), en public sur des tréteaux. Rarement y avait-il des femmes, c’étaient des hommes qui en prenaient les habits. Souvent ces Reden rychers ( poètes ) s’un village allaient jouer leurs pièces à la foire d’un autre village, qui a son tour lui rendait la pareille ; ou les chambres se transportaient en corps pour assister dans une autre ville ou village à quelques fêtes ou représentations ; ce qui se faisait avec cérémonies, à peu près telles que celles qu’on observe en France lorsque les chevaliers de l’Arquebuse d’une ville vont tirer pour le prix dans une autre ville ; et quelquefois il y avait des chambres qui allaient de même jouer d’une ville dans une autre pour y disputer le prix de bel esprit ; et après la pièce les beaux esprits de la chambre récitaient ou des impromptus, ou quelques madrigaux, sonnets, etc. Telle est l’origine du théâtre hollandais, dont il serait difficile de fixer l’époque, puisque ce génie poétique, et cette passion pour les spectacles, pour la danse, pour les chansons, sont aussi anciens que la nation même ; cependant il y a apparence que les chambres étaient établies dès avant que la maison de Bourgogne régnât dans le pays.

[7.7] La plus ancienne pièce du théâtre hollandais est De Spiegel der Minne (Le Miroir de l’Amour) par Colin Van Ryssele, imprimée à Haerlem en 1561, in 8°. Dans les anciennes tragédies on représentait sur le théâtre l’action telle qu’elle s’était passée : c’est ainsi que dans Egmon à Horn on coupe la tête à ces deux comtes sur le théâtre : dans une autre pièce le héros se poignarde, et tombe mort après avoir inondé la scène de tout le sang que contient une vessie qu’il cache sous son aisselle : dans Aman on le pend, et Mardochée fait le tour du théâtre monté sur une rosse : dans Tamerlan ce prince paraissait à cheval avec Bajazet : enfin dans la mort de Couradin, roi de Naples, un exempt va le tirer du cachot pour le mener à l’échafaud, où il est accompagné par deux prêtres, l’un en habit d’évêque, et l’autre habillé en cardinal.

[7.8] Une autre singularité de l’ancien théâtre est ce qu’on nomme vertoning ( représentation) : on baisse le rideau au milieu d’un acte, et on dispose les acteurs sur le théâtre, de manière qu’ils représentent comme à la façon des pantomimes quelque action principal du sujet. C’est ainsi que dans Gysbrecht van Amestel, on léve le rideau, et le théâtre représente les soldat d’Egmon ennemi de Gysbrecht, qui saccagent un couvent de religieuses, où chaque soldat en a une qu’il traite comme il veut : l’abbesse est étendue au milieu du théâtre tenant sur les genoux le vénérable Goswin évêque exilé d’Utrecht, massacré dans les habits pontificaux, la mitre en tête et la crosse à la main. A la fin du Siège de Leyde il y a huit ou dix emblèmes vivants pour représenter les poids de la domination des Espagnols, la valeur des hollandais, la religion triomphante, les arts rétablis, etc. Il y a sur la scène plus de trois cent personnes, et une actrice la baguette à la main les explique aux spectateurs, qui en sont stupéfaits ; on peut dire la vérité, que cela fait un beau spectacle.

[7.9] Les spectateurs hollandais, outre les massacres et le sang, ont adopté et goûté aussi l’extraordinaire et le merveilleux : par exemple, on représente une tragédie, où l’on voit une princesse qui a devant elle sur un bassin la tête coupée de son amant : elle se met à écrire, et adresse la parole à la tête qui lui répond. Dans une autre tragédie Circé voulant perdre le confident d’Ulysse dont elle est mécontente, ordonne qu’on lui fasse son procès : le coupable et amené devant le tribunal que Circé a fait convoquer pour cela : le lion en est le président, le singe le greffier, le loup, le renard et d’autres animaux sont les conseillers, et l’ours en est le bourreau. On condamne le confident d’Ulysse, on le pend sur le champ, sans le faire sortir de la scène : après l’exécution tous les membres du Pendu tombent pièce à pièce dans un puits qui est au-dessous de la potence, Ulysse entre sur le théâtre, s’en plaint à Circé, qui touchée du chagrin qu’il en a, fait sortir du puits le pendu tout vivant et entier comme il était auparavant. Ils sont surprenants pour les machines et pour les vols ; lorsqu’un homme doit voler, il descend une corde avec un étrié au bout, l’acteur y met un pied dedans, prend la corde avec une main, et le vol part de la hauteur du théâtre.

[7.10] Présentement le théâtre devient de jour en jour plus exact, on en a banni toutes ces anciennes pièces, à l’exception de quelques-unes, qui sont comme consacrées par un long usage : par exemple, Le Siège de Leyde se représente tous les ans le 3 d’octobre, et Gysbrecht van Amstel, la veille de Noël ; et chacune de ces pièces se joue tous les ans cinq ou six fois de suite pour satisfaire à l’avide curiosité des paysans, du petit bourgeois, des vieilles gens, des domestiques et des enfants.

[7.11] Depuis 1561, qui est l’époque de la plus ancienne comédie que l’on trouve, jusqu’à 1638, la nation compte quarante poètes. Celui qui a le premier écrit avec quelque régularité pour le théâtre, est Pier Corneille Hooft, fils d’un bourgmestre d’Amsterdam, savant distingué à qui on a donné le surnom de Tacite hollandais, auteur d’une Histoire de la République et de l’Histoire d’Henri IV qui fut si goûtées alors, que Louis XIII l’anoblit, et lui donna l’Ordre de S. Michel. Pier Corneille Hoost avait des talents pour la poésie, il était membre de la Chambre des Rhéteurs d’Amsterdam : son historien Brandt remarque qu’il améliora beaucoup cette chambre, et que s’étant livré à la poésie avant d’écrire l’Histoire, il composa plusieurs pièces assez réguliers pour ce temps-là. On a de lui quatre tragédies et trois comédies. La première qui est Achille et Polixéne est en 1620 ; ainsi il a précédé de plus de quinze années le fameux Vondel, dont nous allons parler.

[7.12] Vondel, surnommé le Virgile et le Senéque hollandais, a commencé a travailler pour le théâtre en 1636, qu’il donna la tragicomédie intitulée Pascha. On a imprimé son théâtre en deux volumes in-4° qui contient trente tragédies : le premier en contient seize sacrées, et le second, quatorze profanes, dont cinq ont été corrigées depuis 1700 dans le goût du théâtre d’aujourd’hui. Le Palamede de Vondel passe pour un chef-d’œuvre ; c’est une pièce allégorique qui renferme un satyre du Stathourat du prince Maurizio et un éloge de Barnevelt que ce prince a conduit sur l’échafaud, quoiqu’il lui fût redevable de toutes ses dignités.

[7.13] Avant le règne de Louis XIV on trouve dans le théâtre hollandais peu de pièces imitées des étrangers, si l’on n’en excepte quelques unes tirées de l’espagnol, encore leur sont-elles venues du Brabant ; mais depuis ils ont goûté Corneille, Racine et les autres tragiques qui se sont signalés : ils ont traduit leurs bonnes pièces avec toute l’énergie dont la langue hollandaise est susceptible ; en sorte que l’on dit constamment dans le pays, qu’ils ont plusieurs pièces de ces auteurs qui valent les originaux, quelques-unes mêmes qui l’emportent, car leur langue, à ce qu’ils prétendent, est infiniment plus expressive dans le sérieux et le tragique que la langue française ; on prétend qu’un mot hollandais a en ce genre plus de force qu’une période française : c’est de quoi je ne puis pas juger, ignorant entièrement cette langue.

[7.14] Leurs pièces de théâtre sont toujours en vers, et ils y suivent les mêmes règles qu’en France ; rarement on écrit en vers libres : les tragédies sont toujours en cinq actes et quelquefois en trois. A l’égard de la rime, c’est je pense la disposition de leur langue qui les porte à aimer si fort la versification, car les rimes y sont parfaites. Leurs vers riment comme les italiens, toujours par les deux dernières syllabes : cela rend une harmonie si juste et si sonore, comme tous ceux qui sont à la portée de sentir la poésie italienne en peuvent faire foi, que par la même raison on ne peut s’empêcher d’être affecté pour les rimes hollandaises.

[7.15] Cependant malgré ces avantages de la rime dans la langue hollandaises, je m’imagine qu’il s’y trouve un inconvénient : avant que d’expliquer ma pensée, je veux me rappeler la critique qu’un autour français fit à propos de la langue italienne, parce qu’elle me paraît de la même nature de la remarque que j’ai faite sur la langue hollandaise. Le critique français avança que les plus grand nombre des mots italiens finissent en a, ou en o, et il dit que cette monotonie perpétuelle rendait cette langue très défectueuse ; les Italiens qui l’ont réfuté, lui on fait sentir que, pour peu qu’il eût parlé la langue italienne, il n’aurait pas avancé une pareille observation, mais que n’en ayant jugé que par les yeux, il est aisément tombé dans l’erreurM. le maquis Orsi dans ses Lettres sur la manière de bien penser, et M. Muratori dans sa Perfetta poesia, donnent toutes les raisons et les exemples qu’on peut souhaiter sur cette matière.. Il pourrait fort bien m’en arriver autant, malgré toutes les précautions que j’ai prises.

[7.16] Les poètes hollandais ont imité le vers alexandrin en toutes ses parties, et je crois que leur langue ne devait pas suivre la qualité des rimes masculines et féminines de la poésie française ; il me semble que la rime féminine hollandaise pèche sur l’article de la monotonie : elle termine toujours dans la syllabe ën, et ce son perpétue de deux vers me paraît très incommode. Je sais bien que la prononciation peut diversifier en quelque façon le son de cette syllabe ën, suivant qu’elle sera précédée d’une longue, ou d’une brève, ou d’une double voyelle, et c. mais cela ne me persuade pas que l’inconvénient de la monotonie ne s’y rencontre toujours. Je n’entends pas la langue hollandaise ; mais après en avoir jugé par les yeux et par réflexion, j’ai voulu en juger aussi par mes oreilles : je me suis fait prononcer par un Hollandais des mots choisis de rimes féminines, et j’ai senti que la syllabe ën sonne toujours à l’oreille, malgré le son différent que porte chaque mot, qu’elle ne change jamais de son, et qu’elle se prononce toujours : on m’assure que dans le discours familier elle est quelquefois muette, ou du moins adoucie ; mais que sur le théâtre, et dans la chaire, on la prononce toujours avec force.

[7.17] Je fais une autre réflexion : les Français on été forcés à établir les deux rimes qu’on a nommés masculines et féminines, par la disposition de leur langue, dont la moitié des mots termine en un e muet ; et je conçois que la langue hollandaise s’est trouvée peut-être dans la même necessité, ayant aussi la moitié de leurs mots qui ont leur terminaison en ën : mais je remarque l’avantage que la langue française a sur la langue hollandaise ; dans l’une on ne s’aperçoit que très rarement que leurs rimes féminines terminent toutes en e, et que dans l’autre, on entend clairement qu’elles terminent toujours en ën. En effet, image, jalousie, chimère, sacrifice, perfide, adore, colère, etc. un nombre infini de tant de mots de rimes féminines françaises, on ne s’aperçoit point qu’elles terminent en e, et ont un son différent. Mais dans la langue hollandaise les mots leden, voren, tirannen, wonden, gebroken, zoonen, barbaaren, etc. tous les autres de leurs rimes féminines, la syllabe ën sonne toujours, et par conséquent la monotonie y est inévitable. J’ai eu la curiosité d’examiner sur cet article la tragédie hollandaise de La Mort du Prince d’Orange, qui est une des meilleurs de leur théâtre : le premier acte est de huit cent vers, desquels il y en a quatre cent de rimes féminines : de celles ci il y en a trois cent quatre vingt qui terminent dans la syllabe ën, et vingt qui ont une terminaison différente, et cela me confirme que la disposition de leur langue n’est pas heureuse sur l’article des rimes féminines qu’ils ont adoptés, dont peut-être ils ne pouvaient pas faire autrement, mais qui ne laisse pas d’être un inconvénient remarquableLes Hollandais et les Allemands sont les seuls qui ont imité les Français, en faisant usage de la rime dans la tragédie et dans la comédie : les Italiens et les Anglais ne les ont jamais rimées : si les Espagnols l’ont fait quelquefois ; ils ont éloigné les rimes, et par là ils ont évité de tomber dans la monotonie que l’on trouve dans les vers alexandrin ; je ne crois pas cependant que ce soit des modèles à suivre.

[7.18] Présentement le théâtre devient de jour en jour plus exact : on en a banni toutes ces anciennes pièces, on n’y donne guerres que du nouveau, qui met le théâtre dans un goût tout français. Ordinairement on joue une tragédie, ou une comédie en cinq actes, suivie d’une petite pièce qu’ils appellent Klugspellen ; ils en ont plusieurs traduites de Dancourt, de Le Grand et d’autres auteurs français ; mais celles qui sont dans le goût naturel du pays, l’emportent infiniment sur cette pièces étrangères : outre que les acteurs ignorent le jeu des pièces françaises, ce qui rend ces traductions très froids : mais ils sont des merveilles dans le tragique, qu’ils récitent noblement et naturellement, les Hollandais étant généralement contraires à la déclamation tragique du théâtre français, qu’ils regardent comme un chant éloigné de la nature.

[7.19] Les théâtres d’Amsterdam, de La Haye et de Leyde, ont eu de bons acteursVangermers, Ryndorp, Noseman, Brinckhuyse, Koning, Jan Tambour, Venderfluys, Bor, Bockhoirst, Vanderkamp, Duym, Punt se sont distingués ; mais il y a peu d’excellentes actrices, telles que mesdemoiselles Benjamine, etc. (Benjamine, Brinokluys, Noseman, Rigan, Wachtendorp, Bor, Duym, Jordan, Maze.). On dit qu’ils auraient encore de meilleurs acteurs et actrices, s’ils étaient payés comme en France, car il y a des particuliers en grand nombre qui ont le don du théâtre, mémoire, goût, prestance et belle déclamation, mais leurs meilleurs sujets n’ont pas au delà de six cent florins par an, en sorte que ne pouvant vivre du théâtre seul, ils ont tous des métiers. Punt est habile graveur, Duym est libraire, etc. Outre cela leurs actrices doivent être sages, parce qu’étant presque tous bourgeois et bourgeoises, ils auraient honte de paraître sur la scène avec une actrice dont la vertu pourrait être soupçonnée ; c’est ainsi que les directeurs de leurs théâtres, qui sont huit personnes de distinction, ont été obligés de renvoyer leur meilleure actrice, parce qu’un accident, qui lui était arrivé, empêchait ses camarades de jouer avec elle : cependant avec le temps elle est rentrée.

[7.20] Les salles sont un demi ovale, dont le bord du théâtre fait le petit diamètre près du théâtre est l’orchestre, consistant tout au plus en deux bancs de musicien : ensuite un espace des deux tiers forme ce qu’on appelle bac, qui est un parterre avec des bancs garnis de coussins ou de tapis : l’autre tiers, qui est un peu plus élevé d’environ deux à trois pieds, est une place où l’on se tient debout : il règne tout au tour de la salle un rang de loges, qui sont plus haïtes que le rez du théâtre d’environ cinq à six pieds : à Amsterdam il y a un second rang de loges fait en forme d’amphithéâtre.

[7.21] On paye au parterre vingt sols ; aux loges trente sols ; aux places debout six sols ; à l’amphithéâtre en haut, où l’on est assis, dix sols. Le revenu du théâtre, acteurs payés et dépenses faites, est consacré à l’entretien de deux hôpitaux, qui ont quelquefois vingt à vingt-cinq mille florins par an. Dans les autres villes le spectacle est assez tranquille ; comme entre les actes on baisse le rideau pour moucher les chandelles, le petit peuple profite de ce temps pour boire, ayant soin de porter des provisions : mais à Amsterdam, où le peuple est plus libre et plus hardi, l’amphithéâtre au-dessus des premières loges est fort incommode ; on y parle haut, on s’y appelle d’un bout à l’autre, on y casse des noisettes tant que le spectacle dure : on y entend jeter les bouteilles qui de ça qui de là ; entre les actes enfin on y fait un charivari fort désagréable ; si les acteurs déplaisent à l’amphithéâtre, il est leur fléau, il leur donne des sobriquets, et leur crie tout haut de se retirer, ou de se taire, etc. Les salles sont bien illuminées, outre quatre ou cinq lustres qui pendent du centre sur le bord du théâtre, l y a ordinairement entre les loges des chandeliers à bras avec des lumières.

[7.22] On vante extrêmement le Théâtre d’Amsterdam, et il est constant dans le pays que c’est un des plus beaux de toute l’Europe, ce que je n’ose assurer, ne l’ayant point vu ; il est d’une grande étendue en long et en large. Les décorations en sont magnifiques : il y a une galerie du célèbre Lairesse, qui est un chef d’œuvre, et un salon de Trost, qui est superbe.

[7.23] IL faut remarquer que le goût de la poésie n’a point diminué, quoique les redinryckers-karmes ne substituent plus : on leur a substitué des Sociétés poétiques, distinguées chacune par une devise. On en compte dans Amsterdam jusqu’à trente, dont les deux plus anciennes ont pour devise, l’une, In magnis voluisse sat est, et l’autre, Latet quoque utilitas ; ces deux Sociétés ont produit vingt quatre pièces depuis 1680 jusqu’à 1698 : une autre, qui a pour devise, Nil volentibus arduum, en a donné vingt six depuis 1704 jusqu’à 1717 : celle qui a pour devise, L’Application fait fleurir les Arts, en a produit vingt cinq depuis 1700 jusqu’à 1718 ; en sorte que le recueil des pièces de théâtre de ces Sociétés monte à près de deux cent.

[7.24] Le Catalogue des pièces du théâtre hollandais, imprimé en 1727, contient 268 auteurs et 30 sociétés, 498 tragédies, 371 comédies, 76 tragicomédies, 23 pastorales, 270 farces, ou petites pièces, et huit opéras ; ce qui fait en tout 1246 pièces de théâtre. Quant aux habits, ils ont suivi le goût des temps ; à présent c’est comme à Paris, sinon que les habits à la romaine sont avec des casques, ce qui est encore mieux que le chapeau ; les pièces orientales sont en habit à la mode : le tout est magnifique, et les habits à la romain sont brodés en fin ; le magazine fournit tout.

[7.25] Les principaux acteurs son à présent M. Duym, qu’on appelle leur Baron, et Punt leur Quinault ; mesdemoiselles Maze et de Brym : et de la jeunesse qui se forme sur les leçons du vieux Bor, qui deviendront à ce qu’on espère, d’excellents acteurs.

Théâtre germanique §

[8.1] Toutes les capitales de l’Europe se sont suivies avec empressement pour faire revivre les spectacles ; en effet aussitôt que la comédie et la tragédie reparurent depuis le temps des Latins, on peut remarquer que les différentes nations n’ont été que peu de temps, les unes après les autres, à rétablir des théâtres. A la vérité le théâtre germanique a été le dernier, et par cette raison, c’est celui qui mieux que tous les autres nous laisse démêler son origine et son progrès.

[8.2] L’ancienne Germaine avait ses bardes, qui en qualité de poètes composaient et chantaient les éloges de leurs héros. C’est de là que vient le nom de bar, qui dénote un chantLes Danais appellaient ces bardes scaldri. Depuis Charlemagne on a vu succéder meistre sanger, c’est maîtres chantres, ou phonasques Voyez Reinecius in Orat. De Historiae dignitatequi peuvent avoir 600 ans d’antiquité ; ils allèguent toutes sortes de preuves pour établir qu’ils ont été déjà fameux du temps d’Othon le Grand, qui leur avait donné des privilèges considérables, confirmés ensuite par ses successeurs, surtout par Maximilien IVoyez Morhoff dans son Traité de la langue et de la poesie germanique, chap. 7 et Harsdoerfer dans la Préface de Specimen Philologiae teutonicae.. Il s’est formé différentes sociétés et confréries de ces phonasques dans les principales villes d’Allemagne : à Mayence, Strasbourg, Nuremberg et Augsbourg. Ils avaient le droit de poétiser aux tournais, carrousels et autres cérémonies solennelles. Celle de Strasbourg subsiste encore actuellement, et jouit de certains revenus, fondés depuis plusieurs siècles. En faveur de cette compagnie, qui n’est composée que d’artisans et d’ouvriers, tailleurs, cordonniers, pelletiers, tisserands, meuniers, etc. qui chantent sur une tribune, ou chambre commune de métiers, publiquement, en certains temps de l’année, ayant leurs anciens et notavles, qui sont juges de la versification et du chant, et qui distribuent les prix fondés, suivant leurs règles et usages. Ces artisans grossiers, qui n’ont aucune notion de la poésie, ni des règles de la musique, donnent quelquefois un spectacle des plus amusant aux assistants.

[8.3] C’est de ces phonasques, ou chantres, qu’il faut tirer l’origine du théâtre germanique ; mais ils ne s’y sont appliqués que bien tard, s’attachant ordinairement à composer des vers sur des sujets tirées de l’histoire sacrée et de l’histoire profane, qu’ils ont chantés ensuite sur leur tribune. Le Chant royale des Français, sous le règne de Charles V vers l’an 1370, dont nous avons parlé à sa place, a tout l’air d’être la même chose. Je ne veux pas m’engager à chercher à vérifier laquelle des deux nations a été la première à chanter des vers sur des triât d’histoire, quelque savant qui en sera curieux, pourra le démêler ; quant à moi, je néglige cette recherche comme une chose qui n’est pas nécessaire à mon sujet.

[8.4] Avant le XV siècle on ne trouve guère de vestiges de spectacle représentés par ces chantres allemands. Au milieu du XVI siècle ils furent fréquents, surtout à Nuremberg, où un cordonnier nommé Hannssach, qui ne lassait pas d’avoir du génie, a composé beaucoup de pièces dramatiques allemandes, dont il y a plusieurs volumes in-folio et in-quarto, sans compter les manuscrits qui restent encore en grand nombreVoyez Wagenseil de Phonacis, et Morhoff au Traité mentionné chap. 7 qui prétend qu’il a fait plus de six mille pièces de poésie en tout genre, depuis l’an 1514 jusqu’en 1567. Les protestants chantent encore aujourd’hui quelques cantiques de sa composition, où l’on trouve de belles idées, malgré la mauvaise versification.. L’auteur les jouait lui-même dans les maisons publiques, où ces artisans tiennent leurs assemblées ordinaires. Ces premières pièces dramatiques on été tirées la plupart de l’histoire sainte, comme celles qu’on a vues dès ce temps-là en France, où elles avaient paru un siècle auparavant.

[8.5] Il paraît qu’on les a jouées gratis, au moins la rétribution ne pouvait être que très légère : on en a aussi fait expressément pour amuser ou pour instruire les princes. Massenius In Speculo imaginum, I, 6 c. 3 § 2. nous apprend qu’on en avait joué une qui regardait les affaires de religion du temps, et que ce fut pour montrer à Charles Quint les fautes qu’il y avait commis.

[8.6] Quelques corps de métiers dans les grandes villes d’Allemagne, faisant quelquefois des processions solennelles, ont coutume, depuis un temps immémorial, de jouer des comédies et des farces. Peu à peu on introduisit aussi dans les écoles publiques l’usage des spectacles, mais ordinairement en langue latine ; on trouvera à la fin un petit catalogue de plusieurs pièces du théâtre germanique, composées originairement en cette langue, car il y en a un grand nombre de françaises, et plusieurs de latines anciennes, qui ont été traduites en allemand par différents auteurs en différents temps.

[8.7] Depuis 1516 jusqu’en 1628, ou 30, ce ne sont que les mauvaises tragédies sacrées et profanes, et les insipides comédies d’Hannssachs, et des autres maîtres chantres qui ont écrit dans son goût, qui ont occupé tout le théâtre germanique : l’an 1626 une troupe de comédiens hollandais passa à Hambourg, et le théâtre allemand changea de goût en prenant d’eux le modèle d’une meilleure tragédie et d’une meilleure comédie. Vers 1627, ou 28, il se forma une troupe de comédiens, qui bientôt fut suivie par plusieurs autres, qui dans le goût des hollandais, en écrivant des pièces dramatiques, détruisirent petit à petit le théâtre des maîtres chantres, en se moquant d’eux et en les parodiant. Vers l’an 1630, ou 35 tout au plus, le théâtre se perfectionna en Allemagne : de bon poètes composèrent des tragédies et des comédies dans les règles, et une belle versification, comme je le dirai plus bas, après que j’aurais donné une notion générale de ce théâtre.

[8.8] Les troupes ne quittèrent pas pour cela la méthode du théâtre hollandais, et ils mêlaient la bonne tragédie avec leurs représentations ordinaires, qui ne valaient pas mieux en un sens que les mauvais drames des Chantres. Depuis 1680 les comédiens allemands, instruits par les comédiens italiens qui étaient appelés aux cours d’Allemagne, ont entrepris de jouer la comédie à l’impromptu ; les Italiens leur en ont fourni des canevas, et on leur a volé en les écrivant pendant qu’on les représentait.

[8.9] Aujourd’hui le théâtre d’Allemagne est composé de la bonne tragédie et de la bonne comédie, des tragédies et des comédies écrites dans le premier goût des Hollandais, d’une grande quantité de traductions, et des comédies italiennes transportées en leur langue et jouée à l’impromptu.

[8.10] Il faut remarquer que les Allemands sont les seuls, parmi les peuples d’Europe, qui ayant entrepris de jouer la comédie à l’impromptu, à l’imitation des Italiens : je ne crois pas cependant qu’ils en doivent tirer vanité ; car si leur théâtre était excellent, la seule nouvelle méthode de jouer à l’impromptu suffirait pour le corrompre et le faire tomber. Le bon théâtre italien, écrit et joué par les académies vers l’an 1500, fut une réforme de la comédie mercenaire qui, plusieurs siècles auparavant, se jouait à l’impromptu, comme nous l’avons dit ; mais les Allemands ayant commencé par jouer des tragédies et des comédies écrites ( quoique mauvaises ) et leur théâtre s’étant reformé ensuite, et ayant donné la bonne tragédie et la bonne comédie, il y a tout à craindre que l’impromptu, qui vient à la suite, ne soit la cause de la décadence totale du théâtre allemand.

[8.11] La première troupe de comédiens qui se forma en Allemagne après l’an 1626 fut composée des jeunes étudiants de très bonne famille, dont le chef se nommait Charles Paul, fils d’un lieutenant colonel. Ils furent bientôt imités par d’autres, qui comme eux firent choix de leurs acteurs parmi la jeunesse noble et bien élevée des écoles. Le chef de la quatrième troupe, qui se forma dans ces premiers temps de leur théâtre, se nommait Jean Velten : il était professeur de philosophie, et fils d’un professeur de théologie dans l’Université de Jena en Saxe ; ce savant comédien choisit pour camarades la fleur de la jeunesse noble et savante de Jena et de Lipse : il composa des drames de son invention ; l’Electeur de Saxe les prit à son service, où ils finirent leurs jours en grand réputation. D’autres troupes, qui leur ont succédé, se conservèrent la bonne réputation de leurs prédécesseurs : quelques uns par leurs talents et par leur naissance, ont eu l’honneur de la couronne, et ont été déclarés poètes de l’Empereur ; d’autres ayant quitté le théâtre, sont parvenus à de grandes dignités de l’église et à des emploi très considérables, et que l’on ne peut remplir, si une naissance illustre et des talents distingués ne se trouvent réunis ensemble. Quelques uns de ces comédiens, dont je parle, vivent encore décorés de charges illustres, mais il ne convient pas de les nommer, parce que de notre temps la profession en tous pays fait de tort au mérite personnel de ceux qui l’exercent.

[8.12] Les tragédies et les comédies allemandes, qui dans le commencement n’étaient qu’une imitation du théâtre hollandais, ont conservé jusqu’à nos jours les atrocités de leurs modèles. Je ne décrirai pas les supplices, les tortures des martyres, ni les gibets des scélérats que l’on fait voir sur la scène ; il suffit de dire qu’ils n’en omettent aucun. Dans les tragédies on entend ordinairement des voix horribles : on voit des fantômes, des spectres qui ont à la main des épées sanglantes, ou qui les portent enfoncées dans le sein : on y voit des flambeaux noirs allumés, des tombeaux, et tout ce que l’on peut imaginer de plus effrayant.

[8.13] Il y a environ cent ans, comme j’ai dit, que l’on entreprit de purger et de réformer leur théâtre sur le modèle des Grecs et des Latins ; d’y observer les règles, d’écrire dans un style pur, élégant et sublime, d’en châtier les rimes et la versification, que l’on mit dans leur justesse et dans leur véritable beauté. Ce sont les Siciliens qui ont l’honneur d’avoir défriché cette terre inculte. Jean Optiz, André Gryphius et Gaspard de Lohenstein sont les trois habiles poètes allemands, qui ont mis dans un vrai lustre et la poésie et le théâtre de leur nation. Le premier a écrit une prosodie germanique, où il a donné à ses compatriotes les bonnes règles du théâtre. Les pièces dramatiques de ces auteurs, qui sont presque toutes des tragédies, surtout celles de Gryphius, qu’on peut appeler le Corneille des Allemands, ont mérité l’approbation du public, et se soutiennent encore de notre temps. Les Saxons n’ont fait que le suivre ou les imiter, soit par rapport au goût, ou à la pureté et à l’élégance du style, ou à la force de l’expression. Aucun poète allemande n’a osé depuis contester a Gryphius le premier rang dans le tragique : il a composé aussi quelques petites farces très jolies et très amusantes, qui renferment une critique fine et agréable du ridicule des comédies, représentées ci-devant par les chantres, dont nous avons parlé, et par les farceurs de ce temps-là.

[8.14] Présentement il n’y a plus de poètes qui s’empressent de produire des pièces originales de leur façon : on fait usage des poèmes dramatiques des autres nations, qu’ils portent sur leur théâtre. On commença, il y a du temps, à traduire le théâtre français, et ensuite l’espagnol, l’italien, l’anglais, etc. sans abandonner cependant leurs vieilles pièces, qui sont toujours le fond de leur théâtre, quoiqu’elles soient dans le mauvais goût : s’il paraît quelques nouvelles pièces, soit qu’elles soient traduites, ou seulement imitées, le plus grand nombre ne va pas à l’impression : la cause de cela en est très singulière, et mérite d’être rapportée.

[8.15] Dans les troupes il y a toujours des comédiens qui sont poètes, et qui composent des pièces : si quelque auteur étranger présente une pièce, c’est n’est jamais pour de l’argent ; il en fait présent à quelque acteur ou actrice, et la pièce produit à celui qui en est possesseur, la part d’auteur, ou la somme dont on est convenu avec la troupe toutes les fois qu’on la représente, et cela pendant un siècle, s’il est possible ; car ces pièces sont comme des fonds de terre qui passent en héritage dans les familles : il en est de même des pièces des comédiens auteurs. Aussitôt que la pièce paraît à l’impression, les comédiens en sont les maîtres, et n’en payent plus aucune rétribution à celui des camaradas qui la possédait, ou qui en est auteur. Par cette raison le plus grand nombre de pièces nouvelles ne sont connue que par la représentation, et ne sont jamais imprimées : l’intérêt des auteurs comédiens, ou des possesseurs des pièces, ne leur laisse pas goûter le bien qui en reviendrait à la République en les imprimant, puisque l’on pourrai juger du progrès ou de la décadence de leur théâtre, ce qui produirait des dissertations ou des critiques, qui ne sont jamais que du bien, ou lorsqu’elles confirment le public dans le bon goût, en l’applaudissant à ce qui est bon, ou lorsqu’elles le détrompent en démasquant ce qui est mauvais.

[8.16] Je sais bien que d’un autre côté on peut trouver des gens qui approuvent une telle méthode, et surtout les comédiens : parce qu’il est sûr qu’aussitôt qu’une pièce nouvelle est imprimée, le nombre des spectateurs diminue aux représentations, et ne s’empresse pas de la revoir, la connaissant trop. Si on n’imprimait pas les pièces, elles paraîtraient toujours nouvelles ; et dix ans après qu’on les aurait laissé reposer, le public s’empresserait de les voir, lorsqu’on les remettrait au théâtre, comme si c’était la première représentation. Si on pouvait mettre une pareille police dans le parnasse de Paris, cela ferait un grand bien aux comédiens ; mais surtout s’il venait la mode de ne pas donner de rétribution aux auteurs, ce serait encore mieux ; mais il y a très peu de poètes qui travaillent pour la gloire, et le plus grand nombre ne compose que pour l’argent. Quant à moi je suis le grand partisan de la méthode de payer les auteurs : l’amorce du gain engage quelquefois à écrire des personnes, qui par la suite excellent dans le genre dramatique, et qui sans cela ne l’auraient peut-être jamais embrassé ; si ce sont les comédiens qui l’ont imaginé la première fois cette méthode, ils ont fait un bien à l’Etat, car cela a produit des auteurs illustres, qui on fait beaucoup d’honneur à la France.

[8.17] A l’égard des représentations des mystères, il n’y a pas trente ans environ que l’on représentait encore à Vienne d’Autriche la Passion de Notre Seigneur ; mais le prédécesseur de l’archevêque d’aujourd’hui la défendit, à cause des indécences et des profanations, que l’acteur comique y entremêlait. Dans la représentation de la Passion, que nous venons de nommer, on y voyait dans l’action de cinq actes, le Paradis terrestre, la création d’Adam et Eve, leur chute, la mort d’Abel, Moyse dans le désert, le voyage en Egypte de Marie, S. Joseph, et l’enfant Jesus ( qui par parenthèse était habillé en grand garçon, et auquel on donnait la bouillie sur le théâtre ) ensuite on y voyait la dispute de Notre Seigneur enfant dans le temple, la prière dans le jardin, la prise de Jesus-Christ, toute sa Passion, sa port sur la croix, et sa sépulture, par où la représentation finit. Il y a d’autres représentations de la Passion qui sont plus dans les règles du bon sens, mais on jouait celle-ci par préférence, à cause qu’elle était plus goûtée du public, pour la singularité apparemment.

[8.18] A Vienne, dans toutes les cours des princes, et dans les principales villes de l’Allemagne, les salles sont magnifiques ; elles sont bâties par des architectes italiens, et peintes par des peintres italiens de même : à l’égard du payement, c’est quelque chose de moins qu’en France.

[8.19] Il y a un opéra à Hambourg, que l’on chante dans le goût de la musique italienne, qui est généralement goûtée et suivie en Allemagne : les récitatifs sont dans leur langue, et les ariettes le plus souvent en italien : il y a opéra trois fois la semaine, er on change toutes les fois. Je ne sais pas si présentement les musiciens de l’Opéra d’Hambourg sont sur le même pied qu’ils étaient il y a environ quarante ans : on m’assure qu’ils étaient tous des ouvriers ou artisans, en sorte que très souvent votre cordonnier était le premier acteur de l’Opéra, et l’on achetait au marché les choux et les fruits des mains des mêmes filles qui avaient chanté la veille les rôles d’Armide ou de Semiramis : je suis persuadé que la profession se sera anoblie, à l’exemple des autres nations.

[8.20] Il y a six troupes des comédiens en Allemagne, dont une est en Suede, une en Livonie, et les autres voyagent de ville en ville à leur fantaisie. Presque toutes les cours d’Allemagne ont des troupes françaises : de temps en temps des troupes italiennes qu’ils font venir exprès, et des opéras qui leur coûtent des sommes immenses. A Vienne d’Autriche l’opéra y est tous les ans, parce que les musiciens de l’Empereur sont tous italiens : on conçoit aisément par-là que les troupes des comédiens allemands ne sont pas fort agrées dans le pays.

[8.21] En nous rappelant la méthode de tous les différents théâtres dont nous avons fait la description, je crois que l’on peut définir qu’ils sont tous ( plus ou moins ) très éloignés de cette sévérité de bonnes mœurs et de diction, que les honnêtes gens y recherchent, et qu’ils ont grand besoin d’une réforme. Les villes de Rome et de Paris ont donné des preuves très fortes du désir que les deux gouvernements ont conçu de mettre le théâtre sur un bon pied à cet égard.

[8.22] Louis XIV ordonna que toute pièce nouvelle ne pourrait être représentée, qu’elle ne fût auparavant approuvée et signée par monsieur le lieutenant général de police. Cette loi est très sage, et il semble que l’on ne pouvait mieux faire pour se mettre à l’abri du caprice d’un poète, qui exposerait aux spectateurs la première représentation d’une pièce scandaleuse, et dont en ce cas, il n’y aurait d’autre remède, que d’en défendre la représentation par la suite, et d’en empêcher l’impression ; mais le premier coup serait porté, et les bonnes mœurs en auraient souffert. Avec un sévère examen des pièces de théâtre on met tout à la fois à couvert la religion, la politique et les bonnes mœurs.

[8.23] A Rome, pour parvenir au même but, on a marché par un chemin tout à fait différent de leurs ancêtres ; la comédie jouée à l’impromptu est restée la maîtresse du champ de bataille, dont les poètes en 1500 s’étaient emparés, par la méthode introduite de leurs temps, de jouer des comédies et des tragédies écrites en vers et en prose. C’est donc sur le fond des canevas anciens et modernes, que roule tout le théâtre en Italie, et ces canevas ne sont pas susceptibles d’un examen ; car le canevas le plus exact, et dans toutes les règles de la bienséance, peut produire une comédie très scandaleuse, surtout si les acteurs masqués ne sont pas des gens de bonnes mœurs, la liberté qu’ils ont de dire ce qui leur vient à la bouche, peut séduire quelquefois les comédiens les plus circonspects, ainsi un examen était inutile ; et c’est peut-être à cause de cela qu’on n’a pas ordonné à Rome d’examiner les pièces. Ils s’y sont donc pris d’une autre façon ; ils ont jugé que les femmes étaient ce qu’il y avait de plus nuisible au théâtre, et sous le pontificat d’Innocent XI on les défendit aussi bien à la comédie qu’à l’opéra.

[8.24] Si les femmes ( en les supposant très sages ) peuvent être un mal sur la scène, on y a réparé pour ce qui regarde cet article, quant à la ville de Rome ; mais on ne peut pas dire qu’avec cela seulement on ait réformé le théâtre en Italie. Je ne sais pas si ces deux différentes méthodes de Rome et de Paris, jointes ensemble, pourraient enfin parvenir à ce que l’on demande.

Extrait de l’allemand §

[Extrait.1.1] Avant de donner l’Extrait que je promets, il est nécessaire d’explique le motif qui m’a obligé. Il m’est tombé par hasard entre les mains une tragédie allemande, précédée d’une assez longue Préface, et suivie à la fin d’une Critique et d’une Réponse. Comme je n’entends point cette langue, et qu’en parcourant cette Préface j’y ai démêlé les noms de plusieurs écrivains français, j’ai été curieux de savoir ce que l’Auteur en disait. Je donnai cette tragédie à une personne qui en a fait l’extrait, et je connus qu’il ne serait pas inutile de faire part au public de tout ce que l’auteur allemand dit dans sa Préface : outre qu’il nous donne une notion assurée de l’état de ce théâtre, il me paraît que sa façon de penser n’est pas à rejeter. Sa Préface, les Critiques, et les Réponses sur cette tragédie, nous feront connaître de quelle façon pensent les gens de lettres en Allemagne en fait de théâtre, et serviront peut-être à détromper un très grand nombre de personnes qui croient que dans le pays il n’y a ni usage, ni connaissance, ni goût pour le poème dramatique.

Extrait

[Extrait.1.2] Le Caton mourant de Jean-Christophe Gottsched, tragédie avec les sentiments de M. Fénelon sur les Tragédies et l’addition d’une Critique et d’une Réponse. Seconde édition, à Leipsik, 1735.

Préface

[Extrait.1.3] J’entreprends de donner à l’impression une tragédie en vers, et cela dans un temps que ces sortes de poésies, qui depuis plus de trente ans étaient dans l’oubli, n’ont commencé que depuis peu à paraître sur notre théâtre. Il y a trois ans que dans mon ouvrage sur la Critique j’ai fait de mon mieux pour encourager notre nation à travailler sur le poème dramatique, mais je n’ai pas voulut hasarder de le faire moi-même ; et de prévenir les autres par mon exemple. J’ai attendu, pour voir si quelques uns de nos poètes ne l’entreprendraient pas, pour faire honneur à l’Allemagne. Il faut avouer que nous ne manquons pas de grands génies, et qui seraient propre surtout pour la poésie tragique. Il ne s’agit que d’en savoir les règles ; il faut aussi connaître les défauts et les beautés du théâtre allemand, et avait connaissance en même temps des théâtres français, anglais et italien.

[Extrait.1.4] Avant que d’expliquer le motif qui m’a fait résoudre de mettre au jour cette tragédie, il faut que je dise en peu de mots ce qui m’a donné du penchant pour la poésie du théâtre, et ce qui m’a engagé à la fin à en faire essai.

[Extrait.1.5] Il y a quinze ou seize ans que je lus une des tragédie de LohensteinCe poète a fait cinq tragédies, voyez le petit Catalogue, ce qui me fit concevoir une idée fort plaisante de la tragédie. Quoique j’entendisse par des gens de goût vanter extrêmement ce poète, je ne pouvais pas goûter la beauté de ses ouvrages, mais je n’osais pas en dire mon sentiment. L’Antigone de Sophocle traduite en allemand par Opitz Opitz a fait quatre tragédies, etc.ne trouva pas plus de grâce auprès de moi : et quoique je goûtasse infiniment les autres productions de ce père de notre poésie, je ne pouvait cependant souffrir la dureté de cette traduction, qui me paraissait un peu forcée. A l’égard de la poésie de théâtre je restai donc dans une parfaite indifférence, ou ignorance même, jusqu’à ce que les ouvrages de Boileau me tomberent entre les mains ; la satire adressée à Molière, les louanges et les critiques des ouvrages dramatiques, qui s’y trouvent répandus, excitèrent ma curiosité pour en connaître les pièces. Je lus le théâtre de Molière, ce qui me donna une grande envie de voir quelque représentation de comédie ou de tragédie. L’année 1724 je trouvai à Leipsik la troupe des comédiens privilégiés de la cour de Saxe, qui n’en font le voyage que dans le temps de la foire. J’eus lieu de me contenter, je ne manquais pas une pièce, mais je m’aperçus d’abord du peu de régularité de ce théâtre : on mettait sur la scène de grandes actions de rois, des affaires d’état, entremêlées de plaisanteries d’Arlequin, d’aventures romanesques, de farces et de bouffonneries. La seule bonne pièce que l’on y joua, ce fut Le Combat entre l’honneur et l’amour, ou Rodrigue et Chimène, mais traduite en vers libres. Il est aisé de penser que cette pièce me plût au-dessus des autres, et qu’elle me fit concevoir la grande différence qu’il y a entre une tragédie régulière, et la représentation d’une pièce, où l’on ne voit que le mélange bizarre dont je viens de parler.

[Extrait.1.6] J’eus occasion de faire connaissance avec le chef de la comédie de ce tempa-là, je lui parlai d’un meilleur ordre de son théâtre : je lui domandai surtout pourquoi l’on ne jouait pas les tragédies de Gryphius, comme aussi son HorribilicribrifaxVoyez le petit Catalogue à la fin. Il me répondit qu’il avait donné la première des ses tragédies autrefois, mais qu’à présent on ne souffrirait plus de semblables pièces en vers parce qu’elles seraient trop sérieuses, n’y ayant aucun personnage plaisant. Je lui conseillais d’essayer une pièce nouvelle en vers et lui promis d’en faire l’essai moi-même et de l’écrire. Cependant je n’avais aucune connaissance des règles, et ne sachant pas même s’il y en avait, je traduisis l’Endymion de Fontenelle, que je fis imprimer, en y ajoutant quelques scènes plaisantes qui composaient une espèce d’intermède, qui n’avait point de liaison avec l’action principale : je n’osai point alors produire ma traduction, et j’en fus bien aise dans la suite, car Endymion aurait mieux convenu a un opéra qu’à une comédie.

[Extrait.1.7] Pendant ces temps-là les mauvaises pièces, que je voyais jouer, me donnaient occasion de faire des réflexions ( même sans avoir aucune connaissance des règles ) et je ne trouvais pas dans leurs conduite le naturel que je croyais y devoir régner. Je m’inquiétais toujours des règles du théâtre, car je ne pouvais pas m’imaginer qu’un genre de poésie si ample et si grand, pût subsister sans règles, puisque je voyais que tous les autres genres en avaient. Je n’en ai point trouvé dans les Ouvrages de nos écrivains, ci ce n’est dans la poésie allemande de Rothen, qui parut à Leipsik l’anné 1688. Menantes dans ses Poésies de théâtre, ne donne qu’une faible instruction pour l’opéra. Rothen cependant ne m’ayant pas contenté, quoiqu’il n’ait pas mal pensé, m’a ouvert les yeux par les louanges qu’il donne à la Poétique d’Aristote : il me donna envie de la lire, et je ne la connus pour la première fois que dans la traduction française de M. Dacier. Casaubon de la poésie satirique des Grecs, la Poétique d’Aristote de Rappolt, Hensius de tragediae constitutione, la Pratique du théâtre de l’abbé d’Aubignac, et d’autres écrivains, parmi nos modernes, m’en donnèrent toute la connaissance que je souhaitais. Sans parler de la lecture des pièces de théâtre de Corneille, de Racine, de Molière, de La Mothe, de Danchet, de Voltaire, etc. etc. de leurs préfaces et des traités critiques qui y étaient joints : le Théâtre des Grecs du P. Brumoy, et l’Historie du Théâtre italien de Riccoboni, me fournirent plus de lumières que tous les autres en cette matière.

[Extrait.1.8] Plus je connaissais les théâtres réglés de étrangers, et plus j’avais de peine en voyant le dérangement du théâtre allemand ; mais il arriva que les comédiens de la cour de Dresde changèrent de chef, et que le nouveau, avec son épouse, qui a un mérite infini pour le théâtre, et qui ne cède en rien aux meilleurs actrices de la France et de l’Angleterre, avaient l’un et l’autre une extrême envie d’abolir le caos qui a régné jusqu’à présent sur notre théâtre, et de mettre la comédie allemande sur le pied de la française. Dans le même dessein longtemps auparavant lorsqu’il était à la cour du Prince de Brunswik, on avait essayé de traduire en vers allemands les meilleures tragédies du théâtre français : on lui envoyait pour cela des exemplaires d’une quantité de ces pièces ; et quoique l’on eût commencé par le Regulus de Pradon, qui n’est pas un des meilleurs tragique de la France, et que Bressand, poète à la cour de ce Prince, l’eût traduit en vers très rudes, cette pièce cependant eut un si bon succès, qu’on y donne aussi Brutus et Alexander du même traducteur. Quelque temps après parut Le Cid de Corneille, traduit par une meilleure plume, et qui fut applaudie beaucoup plus que toutes les précédentes.

[Extrait.1.9] Pour contribuer, autant qu’il m’était possible, à la réforme de notre théâtre, je proposais au nouveau directeur de la troupe de jouer Cinna traduit par un illustre personnage, membre du Conseil de Nuremberg. Cette pièce se trouve dans le recueil de ses poésies, qui ont paru sous le titre de Vesta et de Flore. Ce chef-d’œuvre de Corneille eut le succès qu’il méritait. Enfin je fis moi-même la traduction de l’Iphigénie de Racine, et deux de mes amis de la seconde partie du Cid, autrement Le Duil, ou l’année du Dueil de Chimène, et de la Bérénice de Racine, qui furent jouées toutes les trois avec applaudissement ; ainsi il y avait alors huit tragédies, qui se représentaient sur notre théâtre.

[Extrait.1.10] Après avoir donné en peu de mots l’histoire du commencement de réforme de notre théâtre, il faut enfin que je parle de mon Caton, et surtout que je rende compte de la disposition de cette pièce.

[Extrait.1.11] Caton d’Utique a passé de temps en temps pour un modèle de la fermeté stoïque et de l’amour de la patrie, pour un véritable républicain. Des poètes, des orateurs, des historiens et des philosophes en on fait l’éloge dans leurs ouvrages. Sous le gouvernement despotique même des empereurs romains successeurs de César, le plus grands hommes de la ville de Rome ne pouvaient s’empêcher de louer ce zélé défenseur de la liberté de la République ; Virgile et Horace sous le règne d’Auguste, Lucain et Sénèque sous Claude et Néron, ont été ses panégyristes. Le poète Maternus ( suivant ce que nous voyons dans cet ancien Dialogue des orateurs, ou de la cause de la décadence de l’éloquence ) a fait une tragédie de Caton ; et ce poète avait apparemment exprimé la haine contre la monarchie avec tant de force, que ses amis la trouvaient trop piquante, et dangereuse même ; ce que nous fait clairement connaître le commencement de ce Dialogue.

[Extrait.1.12] Caton s’est tué dans Utique, et cette catastrophe a rendu le fait très propre pour en faire une tragédie ; ainsi il n’est pas surprenant que les poètes de toutes les nations en aient fait usage.

[Extrait.1.13] En 1712 Addisson, anglais, donna au public sa tragédie de Caton : on ne peut exprimer à quel point cette pièce a été goûté de tout le monde. Peut-être que l’amour de la nation anglaise pour la liberté a contribué beaucoup à son grand succès : mais il est certain cependant que cette tragédie renferme tant de véritables beautés, qu’elle ne peut manquer de plaire, non seulement aux anglais, mais aussi à tous autres spectateurs. Les caractères, les mœurs, et les pensées convenables aux interlocuteurs, y font admirablement observés. Caton surtout y est peint comme le républicain le plus parfait. Mais cette tragédie n’a pas besoin de mes éloges, ayant déjà été extrêmement applaudie au deçà de la mer, et surtout dans une traduction française en prose.

[Extrait.1.14] Presque en même temps le sieur Deschamps donna son Caton, qui parut à La Haye en 1715. Je ne crois pas que ce poète eût connaissance de la tragédie de sieur Addisson, car le deux ouvrages n’ont pas la moindre ressemblance dans leur conduite. On y trouve tout un autre fable, d’autres personnages, d’autres incidents, et même les choses de l’Anglais différemment traitées ; il n’y a que le caractère de Caton qui est aussi parfaitement gardé dans le Français qu’il est dans l’Anglais, à l’exception aussi de la mort de Caton, et du dernier acte : car comme je le ferai voir bientôt, a tragédie anglaise a quelque chose de particulier, de même que la française par sa régularité est préférable à l’autre.

[Extrait.1.15] Si le sujet de Sophonisbe a été traité par les Italiens, par les Français, par les Anglais et les Allemands, il ne sera pas extraordinaire que celui de Caton ait le même sort. Ce qu’il y a de fâcheux, c’est qu’une meilleure plume que la mienne, parmi la nation allemande, ne l’ait pas entrepris. Ne me connaissant pas assez fort pour imaginer moi-même l’action d’une fable, je me suis servi des deux originaux, dont je viens de parler, en sorte que l’on peut dire de moi ce que l’on a dit de Térence :

Quœ convenere in Andriam ex Perinthia,
Fatetur transtulisse atque usum pro suis.

[Extrait.1.16] E je puis encore être autorisé dans mon imitation, à l’exemple d’un autre poète :

Habet bonorum exemplum : quo exemplo sibi
Licere id facere, quod illi fecerunt, putat.

[Extrait.1.17] Mais sans avoir recours à l’exemple de Terence, qui a pris de Ménandre des pièces toutes entières, en y faisant quelque changement, ou en y ajoutant quelque chose, les meilleurs tragiques français ont imité, traduit et changé à leur fantaisie Sophocle et Euripide.

[Extrait.1.18] On m’avait conseillé d’abord de faire une simple traduction du Caton anglais, mais comme je voulais m’attacher aux règles, je trouvai qu’il en fallait de beaucoup qu’il fût aussi régulier que les tragédies françaises. Les Anglais sont fort habiles à la vérité en pensées et en expression : ils savent soutenir à merveille les caractères, et peindre admirablement bien le cœur de l’homme ; mais pour ce qui regarde l’arrangement de la fable, ils ne s’y attachent point, comme on le voit dans tout leur théâtre. J’aurais été bien fâché que l’on eût pu reprocher au théâtre allemand d’être toujours dans le désordre. C’est ce qui me fit changer de dessein, et prendre le parti de faire un autre Caton différent de celui d’Addisson.

[Extrait.1.19] Il serait inutile de prouver que la tragédie du sieur Deschamps est exactement imaginée suivant les règles d’Aristote : la Critique que l’on y voit à la fin le fiat assez connaître, ce qui me confirma dans l’opinion que j’avais des défauts du Caton anglais.

[Extrait.1.20] En effet Addisson a joint trois actions ensemble, dont chacune peut marcher seule, sans rien ajouter à l’action principale, et la faisant même perdre de vue aux spectateurs. Voici l’action : Caton avec la suite ( qui n’est pas nombreuse ) est bloqué dans Utique : César envoie lui offrir la paix qu’il refuse : César fait avancer ses troupes, et Caton, se trouvant dans l’impuissance de lui résister, se perce d’un coup d’épée. Pour étendre l’action Addisson y a inféré deux épisodes, ou plutôt deux autres actions étrangères. Porcius et Marcus, fils de Caron, aiment Lucie fille d’un sénateur romain.

[Extrait.1.21] Portius, à qui son frère en fait la confidence, en agit sagement, et lui cache sa passion ; Marcus meurt, et son frère obtient Lucie. De l’autre côté Juba aime Marcia fille de Caton, laquelle est aussi aimée de Sempronius, autre sénateurs romain, qui s’habille en Numide pour enlever Marica sous le nom de Juba : ce prince le surprend, le tue, et obtient Marcia à la fin.

[Extrait.1.22] Ces deux épisodes sont tout à fait étrangers à l’action principale, et dans le fond ce sont des faits qui détruisent le précepte de l’unité d’action. Outre qu’il n’est pas vraisemblable que dans un temps où tout est en confusion dans Utique, on donne une si grande place à des intrigues amoureuses ; le déguisement de Sempronius me paraît aussi familier et trop trivial pour la tragédie. Caton même dans le premier acte ne me paraît pas si grand qu’il devrait l’être, et tel qu’il est lorsqu’il apaise le tumulte, et qu’il plaint la mort de son fils : tout le reste de l’action se passe en des choses étrangères qui ne le regardent pas. Dans la tragédie anglaise les scènes sont fort mal liées ensemble : les acteurs vont et viennent sans que l’on sache pourquoi, et souvent le théâtre demeure vide : les entrées et les sorties sont également défectueuses, ce que l’on ne voyait jamais dans la tragédie française. Enfin je ne trouvai pas vraisemblable que Caton mourant s’embarrassât de deux mariages. Les modernes se sont fait un devoir indispensable, et comme une règle, de finir toute représentation théâtrale par un mariage : il y a bien longtemps que j’en suis dégoûté. Les anciens l’ont fait très rarement ; et quant à moi j’ai voulu essayer si dans une tragédie l’on ne saurait se passer d’un mariage, et je me flatte de n’y avoir pas mal réussi.

[Extrait.1.23] Si on me demande pourquoi je n’ai point traduit entièrement le Caton français, je dirai : qu’autant la fable est elle dans le commencement imaginée avec bon sens et vraisemblance, et Caton est il représenté grand, autant le dernier acte me paraît faible et défectueux. Il faut mourir ce grand homme, non pas en philosophe, mais en désespéré. Il s’élève une émeute dans Utique, où César se trouve : ses soldats, qui sont hors de la ville, craignant pour leur capitaine, y entrent comme des furieux, et passent tout au fil de l’épée ; Caton par cet événement prend la résolution de se tuer. Oh ! c’en est trop, et je ne crois pas que personne ne doive se récrier contre le fait historique si fortement altéré, et contre le caractère d’un philosophe, tel que Caton, si défiguré.

[Extrait.1.24] Outre cela l’on n’avait pas donné de fils à Caton ; et ce que le poète anglais lui fait dire, lorsqu’il voit un de ses enfants mort, et qu’il anime l’autre contre la tyrannie, était trop sublime pour l’abandonner dans ma tragédie. Je donc gardé Portius, quoique je lui aye donné des scènes toutes différentes des deux tragédies étrangères ; et je n’ai fait voir Marcus que comme mort, et pour le présenter à Caton, comme le Français avait fait ; ce que je ne pouvais me dispenser d’adopter, puisque je n’avais plus Sempronius et Syphar qui sont dans la pièce anglaise. Pour le dernier acte d’Addisson je l’ai gardé presque entier, si ce n’est que j’en ai changé les personnes, et retranché les mariages de Portius et de Juba, mais j’ai fait dire à Caton, avant s mort, quelque autre chose que j’ai tiré des Deschamps.

[Extrait.1.25] Au reste on sent que le mariage d’Arsène avec Pharnaze n’est que annoncé : le sieur Deschamps s’est assez justifié là-dessus dans sa Préface. En effet la mort de Caton est un fait historique, qui ne fournit pas assez de matière pour en faire une action tragique, sans le secours de quelque épisode : celui-là, à mon avis, se joint fort bien avec l’action principale, t l’on a par lui l’avantage de comparer le vice de l’un à la vertu de l’autre ; comme il arrive dans la peinture qui relève la lumière par le moyen des ombres.

[Extrait.1.26] Il en est de même du personnage de César. Il n’entra pas dans Utique ; et ce n’est qu’une imagination du poète, qui lui a fourni la commodité de faire le parallèle de ces deux héros de la République romaine. On distingue dans leur entrevue la fausse de la véritable grandeur, et l’on connaît que le vice, lorsqu’il est heureux, peut prendre quelquefois les apparences de la vertu. Les entretiens de Caton et de César n’ont pas peu contribué à me faire préférer l’idée du poète François à celle de l’Anglais.

[Extrait.1.27] Caton était un héros convenable à la tragédie, et tel qu’Aristote nous les prescrit : une grande vertu mêlée de quelque vice. L’amour de la liberté dans Caton devient opiniâtreté : il se tue, on le plaint, et on le blâme.

[Extrait.1.28] Le succès de ma tragédie a été heureux à la représentation, et à la lecture même, mais je m’en rapporte davantage aux lecteurs savants. S’ils en sont contents, je pourrai me flatter de n’avoir pas gâté ce qu’il y a de bon dans la pièce française et dans l’anglaise : car j’avoue sincèrement que tout ce qu’il y a de louable dans mon Caton ne vient que d’Addisson et de Descamps, et tout ce qu’il y a de faible, on ne doit l’imputer qu’à moi, et à mon peu de pratique de théâtre.

Extrait de la tragédie
de Caton mourant §
Personnages §

[Extrait.2.1] Le lieu de l’action est une salle dans le château d’Utique

[Extrait.2.2] L’action commence vers le midi, et finit au Soleil couchant

  • CATON
  • ARSENE, et enfin PORTIA
  • PHENICE, sa confidente
  • PHOCAS, Confident de Caton
  • PHARNACE, roi de Pont
  • FELIX, son Confident
  • CESAR
  • DOMITIUS, son Confident
  • ARTABAN
  • Suite de Caton
  • Suite de César
Acte premier §

Scène première

Arsene et Phenice

[Extrait.2.3] Arsene vient pour attendre Caton, de qui elle espère toute sa consolation, et auprès duquel elle se croit à l’abri des malheurs qu’elle a soufferts, et de ceux qui la menacent encore. Elle parle du bruit commun de la mort de son père Arsace roi des Parthes, et de l’arrivée de Pharnace roi de Pont : elle dit qu’elle craint plus que jamais d’être malheureuse. Phénice lui demande si Pharnace obtiendra à la fin la qualité de son époux. Arsene dit que cela n’arrivera jamais, et enfin elle lui confie qu’elle aime : qu’à présent qu’elle peut parler en reine, son père étant mort, elle lui rappelle le souvenir de ce romain que César envoya à son père pour le gagner. Phénice en fait l’éloge, et Arsene lui avoue que c’est lui seul qu’elle aime du premier instant qu’elle l’a vu. Phénice lui demande comment il s’appelle : Arsene répond qu’elle ne sait : et voyant venir Caton elle en fait l’éloge.

Scene II

Catone, Arsene et Phenice

[Extrait.2.4] Caton plaint Arsene, et lui confirme la nouvelle de la mort de son père : il lui demande si présentement que les Parthes l’ont proclamée leur reine, elle conservera l’alliance et la fidélité que son père lui avait jurée. Arsene lui promet la meme fidélité, et lui demande seulement la grâce de ne point protéger Pharnace. Elle lui dit que dans les guerres civiles de son royaume, Pharnace dans une bataille, fit assassiner Pacor son frère unique : que la paix était fait, il vint à la cour de son père la demander en mariage, que l’on l’envoya à Rome pour célébrer le mariage avec solennité : que Pharnace ne put point sortir de l’Etat à cause des guerres civiles des Romains : qu’à Rome elle fut contrainte de se retirer auprès de lui, et qu’elle l’a suivi : elle ajoute que Pharnace même lui avait avoué le jour précédent la trahison envers son frère, et qu’outre son aversion pour ce mariage, ce nouveau motif augmente encore son horreur pour cette alliance. Caton lui promet toute sûreté dans Utique. Arsène sort. Caton reste seul ; et comme il avait dit dans la scène précédente qu’elle avait un cœur romain, il s’étonne du penchant qu’il a pour elle : il promet de la protéger toujours, et marque la grande ressemblance qu’elle a avec Portia sa fille qu’il a perdue : il annonce l’arrivée de Phocas.

Scène III

Phocas, Artaban et Caton

[Extrait.2.5] Phocas annonce à Caton un grand secours qui lui vient : il lui rappelle que lorsque sa femme mourut, elle lui laissa une fille qui fut élevée par la femme de Crassus, qui était avec lui dans la déroute des Romains par les Parthes, où sa fille mourut. Caton est ému au ressouvenir de son malheur. Phocas lui dit que Portia sa fille vit : lui présente Artaban de qui il le tient. Artaban lui fait le récit de la victoire des Parthes contre Crassus, et il dit que ce fut lui qui prit Portia, qu’il présenta à Arsace qui venait de perdre Arsène sa fille, et qui l’adopta par raison d’état : il lui présente un écrit qu’Arsace lui a confié, avant de mourir, pour lui remettre Caton lit, et Arsace le prie de ne point ôter un trône à Portia sa fille. Caton déplore son malheur, et veut que sa fille renonce à son trône : Phocas lui conseille de lui laisser son royaume, parce que les secours qu’elle peut lui donner, peuvent délivrer Rome : Caton par de bonnes raisons rejette ce conseil : il les congédie tous deux, en leur défendant de rien dire à sa fille, qu’il veut instruire par lui-même.

Scène IV

Caton, Pharnace

[Extrait.2.6] Après quelques discours qu’ils ont ensemble sur la situation présente, Pharnace presse son mariage avec Arsène : Caton lui dit qu’il ne doit plus y penser et qu’il doit la regarder comme une romaine. Pharnace en est surpris, et lui demande une explication : Caton lui promet de relever bientôt devant toute la ville un gtand secret : Pharnace lui dit d’y penser auparavant ; qu’il a perdu ses états ; que le mariage d’Arsène le rend maître d’un puissant royaume, et que s’il perd cette espérance, il ne doit plus compter sur ses services, il finit en le priant de ménager son état, sa liberté et sa vie. Caton le méprise, et lui ordonne de partir, qu’ils sauront repousser l’ennemi sans lui ; et enfin que Rome libre parle par sa bouche, et qu’elle n’abaissera jamais ni devant lui, ni devant ses semblables.

Scène v

Felix, et les Acteurs précédents

[Extrait.2.7] Felix annonce à Caton que la campagne est couverte des troupes de César ; et qu’Utique doit craindre l’ésclavage. Caton dit qu’il va marcher contre les ennemis, et répete à Pharnase de partir, et aller se joindre à Cesar, et il sort.

Scène VI

[Extrait.2.8] Pharnace dit qu’il veut repousser le mépris de Caton : qu’en dépit de lui il aura la main et le royaume d’Arsène, et qu’il en sera la victime. Il découvre son dessein, qui est d’envoyer à César la tête de Caton, que Timon et Arbat seront chargés de lui porter ; qu’en revanche il demande qu’on lui rende son royaume de Pont, et Arsène en mariage, et avec des maximes convenables à son indigne projet il sort, et le premier acte finit.

Acte second §

Scène première

Domitius, Phocas

[Extrait.2.9] Domitius lui apprend que César doit bientôt être dans la ville d’Utique. Phocas lui demande si cela leur fait espérer la paix : Domitius ne lui répond rien à cet article, et lui dit seulement d’avertir Arsène que Pallas est entré avec lui dans la ville, et qu’il a quelque chose de conséquence à lui dire. Phocas sort. Domitius reste un moment seul, et dit que malgré le cœur magnanime et guerrier de César, il est cependant vivement amoureux d’Arsène. Il voit venir Caton, dont la seule présence lui inspire du respect.

Scène II

Caton, Domitius

[Extrait.2.10] Caton fait des reproches à Domitius d’être du parti de César : celui-ci se défend par des raisons plausibles, et fait surtout l’éloge de César… Enfin il lui demande de sa part une entrevue pour consulter avec lui sur les avantages de Rome : Caton lui accorde, et lui demande quelle sûreté César prétend avoir. Domitius lui dit que César ne veut autre sûreté que la vertu de Caton ; mais qu’il ne faut pas se fier à Pharnace qui est dans Utique. Caton dit que Pharnace dépend de lui : il fait la description de la situation du château où César peut entrer, et s’entretenir avec lui, sans que personne le voie : il dit que Pharnace est sur le bord de la mer pour voir sa flotte, que ses soldats n’osent pas s’approcher, que l’on prend garde à tout, et surtout à Pharnace : que César peut donc lui parler dans le château, et que pour une plus grande sûreté du secret, il fera ôter la garnison qui est à la porte. Il ajoute : Dites lui cependant que Caton pénètre le fond du cœur ; que tout artifice tombe devant lui. Et s’en va.

Scène III

Arsène, Phenice, Domitius

[Extrait.2.11] Arsène en entrant dit à Domitius qu’on lui a appris que Cèsar a de l’amour pour elle, mais qu’il lui fasse savoir qu’elle n’aura jamais que du mépris pour lui, etc. Elle congédie Domitius, et voyant arriver Pharnace elle veut partir.

Scène IV

[Extrait.2.12] Pharnace la prie de rester. Aesène le charge de reproches, lui rappellant la mort de son frère. Pharnace enflammé de colère et de rage lui dit que tout le monde la condamne, que les Romains et Caton même se plaignent d’elle, et qu’ils la privent déjà du trône et du royaume de son père : il lui propose de s’enfuir avec lui sur sa flotte. Arsène lui dit que si Caton la condamne elle y souscrit : lui reproche sa lâsceté (lascivité ?) : lui proteste qu’elle ne sera jamais sa femme, et qu’elle se croirait heureuse si elle pouvait de sa main prendre sur lui sa vengeance. Pharnace en colère lui dit quelques mots piquants.

Scène V

Portius, et les Acteurs précédents

[Extrait.2.13] Arsène dit à Portius les prétentions de Pharnace : lui demande son appui, etc. Portius outré des calomnies que Pharnace répand contre son père, fait de grandes protestations à Arsène en lui offrant son bras, et Arsène sort.

Scène VI

Pharnace, Portius

[Extrait.2.14] Pharnace demande avec hauteur à Portius s’il prétend gagner un royaume en aimant Arsène, et lui parle avec mépris : Portius parle contre la royauté, en ajoutant cependant que sans cela il aurait songé à épouser Arsène, et qu’il voudrait qu’elle fût née romaine. Pharnace lui dit qu’elle l’est aussi, et que Caton assure qu’elle n’est pas reine, etc. Il soupçonne la probité de Caton d’une imposture, si cela ne se vérifie point. Portius dit que, puisque son père le dit, il faut que cela soit, et part avec précipitation pour s’en éclaircir. Pharnace reste seul, et dit qu’il se confirme dans la pensée que Portius aime Arsène, et que tout est perdu pour lui si elle est assurée qu’elle n’est point parthe : il menace la vie de Portius, etc.

Scène VII

Felix, Pharnace

[Extrait.2.15] Pharnace dit à Felix que tout va changer de face : que la discorde veut cesser en Afrique : que les Romains jettent leurs armes, et pleurent ensemble la mort de leurs amis, et enfin que la paix se fait voir partout. Il lui demande si César approuve son dessein, et l’avis que Timon et Arbate lui ont donné de sa part : s’il veut s’assurer la puissance au prix de la tête de Caton, comme il lui a fait proposer : s’ils sont tous les deux de retours ? Felix dit que non. Pharnace veut s’empresser de faire son coup : il déclare le stratagème dont il veut se servir pour faire entrer ses troupes, tuer Caton et enlever Arsène. Felix lui dit qu’on a ôté la garde de la porte du château, ce qui facilitera d’autant plus son entreprise : Pharnace lui recommande le secret, et part pour exécuter son dessein ; et l’acte finit.

Acte troisième §

Scène première

Cesar, Domitius

[Extrait.2.16] Cesar dit que c’est pour l’intérêt de Caton qu’il demande cette entrevue : mais que si l’on pouvait, il voudrait voir Arsène auparavant. Domitius lui dit qu’il la verra, mais que ce sera inutilement, car elle le méprise. Après quelques raisonnements convenables sur son amour et sur la guerre, il voit venir la reine, et congédie Domitius.

Scène II

César et Arsène

[Extrait.2.17] Arsène en le voyant le reconnaît pour le romain qu’elle aime : elle lui demande si c’est lui qui vint à la cour de son père lui porter les plaintes de César : il lui répond qu’oui, et que c’est César lui-même. Arsène se trouble : César entre en explication, et se plaint que toute sa tendresse n’ait pour récompense que le mépris et la haine. Arsène en peu de mots lui dit qu’elle ne le hait point : cet aveu cause un mouvement de joie à César : Arsène est mortifiée de l’aveu qu’elle a fiat, mais enfin elle le confirme, et dit que sans le connaître elle a haï ce qu’elle aimait le plus. Enfin elle le prie pour la délivrance d’Utique, et pour la vie de Caton, en disant qu’elle n’a rien de si cher au monde que la gloire de César et la vie de Caton, etc. etc., et s’en va.

Scène III

Caton, César

[Extrait.2.18] César lui propose de bannir tout sentiment de haine, et lui promet de l’associer au gouvernement. Caton en reçois avec horreur la proposition : César d’un côté cherche à se justifier, et demande à Caton et à ses amis de le laisser régner : Caton de l’autre l’accuse de tyrannie, et rejette toutes propositions de paix sans la liberté de Rome. César lui fait voir le péril où ils sont réduits, et qu’ils ne doivent rien espérer du secours de Pharnace qui ne cherche qu’à le perdre : qu’il lui a envoyé deux traîtres lui offrir sa tête, et qu’il les a fait arrêter. Caton le loue de sa magnanimité ; mais persistant toujours dans le sentiment de vouloir la liberté de Rome, il lui dit qu’il va apprendre aux Romains ce qu’il propose ; que s’ils acceptent et qu’ils prononcent pour leur ruine, quant à lui il aime mieux mourir, et il s’en va. César reste seul un moment ; il admire sa fermeté, et dit que s’il n’était ce qu’il est, il ne souhaiterait qu’être Caton, et d’avoir son sentiment de liberté. Pharnace arrive.

Scène IV

Pharnace et César

[Extrait.2.19] Pharnace est surpris de le voir dans Utique : il lui dit qu’il attend avec impatience le retour de Timon et d’Arbate, par lesquels il lui a fait savoir qu’il lui présentera la tête de Caton. Qu’il ne doit pas être indifférent à cette proposition, par laquelle il finit une guerre, qui, tant que Caton vivra, peut lui devenir funeste, etc. César en rejette avec horreur la proposition, l’appelle traître, et que ce qu’il médite pourrait bien lui arriver, et s’en va. Pharnace se plaint qu’il ne le remercie point de son projet : N’importe, dit-il, il se repentira de sa fierté. En attendant il se promet d’enlever Arsène, et le troidième acte finit.

Acte quatrième §

Scène première

Caton, Portius

[Extrait.2.20] Portius demande à son père la réponse que le Senat a fait aux propositions de paix que César lui envoie. Caton dit qu’il a vu avec un plaisir extrême tout le monde s’opposera à une paix, qui ne s’accomode pas avec la liberté de Rome, et que tous le Romains sont portés à la vengeance pour l’amour de la patrie : il lui ordonne de jurer une haine implacable contre César. Portius le promet, et il lui demande après si la reine des Parthes tirait son origine de Rome : Caton lui demande d’où il l’a appris. Portius dit que c’est Pharnace qui l’a assuré que cette nouvelle vient de lui. Caton lui demande s’il l’aime, et lui conseille de ne songer qu’à la guerre, et même il lui dit que, quoique romaine, son amour serait inutile, comme il le saura bientôt.

Scène II

Arsène, Phenice, et les Acteurs précédents

[Extrait.2.21] Arsène dit à Caton qu’elle vient pour épargner le sang des Romains : elle dit qu’elle sera malheureuse tant que durera la division de Rome : qu’elle aime les Romains plus que les Parthes même, et que toute reine qu’elle est, elle ne peut s’empêcher d’être favorable aux ennemis des rois, etc. Caton se récrie que si tous les Romains s’aimaient de même, leurs malheurs finiraient bientôt. Enfin Arsène lui dit que la suspension d’armes va bientôt finir, qu’elle le prie de la prolonger de son côté, et qu’elle se flatte de tout obtenir de César. Caton surpris lui demande comment cela se pourra : Arsène dit qu’elle fléchira le cœur de César : qu’elle a reçu du Ciel un royaume qui peut contenter la plus grand ambition : que César jouira avec elle du royaume des Parthes, et elle proteste que jamais Rome n’en sera inquiétée : et que la paix sera le fruit de son amour. Caton tout étonné d’entendre qu’elle aime César, se plaint que sa vertu soit exposée à souffrir, non seulement la honte de la voir sous un habillement de reine, mais aussi qu’elle ait le cœur pris de tendresse pour ce tyran. Arsène lui demande d’où vient son étonnement : Caton lui donne la lettre d’Arsace, et lui dit de la lire. A la lecture de la lettre succèdent de grands transports de joie du côté d’Arsène, qui se connaît fille de Caton, et du côté de Portius, qui la reconnaît pour Portia sa sœur. Enfin Caton lui dit d’un ton ferme, que la royauté n’est pas un grand bonheur pour elle ; et que son amour pour César est une grande ignominie pour lui : il l’exhorte à agir en romaine, et à vaincre l’ambition et l’amour tout à la fois, etc. Grandes exclamations de Portia, qui à la fin prend son parti, en disant qu’elle fera voir qui elle est, quelque peine qu’il en coûte à son cœur. Caton l’embrasse : on voit venir César : le frère et la sœur veulent s’en aller, Caton les arrête pour être témoins de leurs conversation.

Scène III

César, et les Acteurs précédents

[Extrait.2.22] César demande à Caton ce que le Sénat souhaite : Caton dit qu’il souhaite ce dont César le ménace , c’est-à-dire, la ruine et la mort de César : et enfin qu’il veut que la guerre termine son sort. César demande ce qu’il a fait, et rappelle ses actions et ses bienfaits : Caton le traite toujours de tyran. César le fait souvenir de sa force et de sa faiblesse : il se tourne à la Princesse en se plaignant de Caton, et de ses duretés qu’il ne peut plus souffrir. Portia reproche à César de braver un ennemi qu’il devrait honorer, et lui dit enfin qu’il y a quelqu’un qui l’assiste que lui-même que lui même devrait respecter. César lui demande : Qui est-ce que je dois craindre ? Arsène lui répond : Apprends que Caton est mon père. On éclaircit cet article, et César prend de-là le motif de proposer son alliance avec Arsène qui pourrait donner la paix au monde. Caton le refuse avec fermeté, en disant : qu’il a toujours devant les yeux la mort de Pompée, qu’il était le gendre de César, et que ce prétendu bonheur n’a servi qu’à sa ruine, et enfin il dit qu’il regarde cette proposition comme ignominieuse pour lui.

Scène IV

Domitius, et les Acteurs précédents

[Extrait.2.23] Domitius leur apprend la trahison de Pharnace, qui avec une troupe armée a pénétré jusqu’au château : que trois ou quatre Romains lui ont résisté avec courage, de même que le Confident d’Arsène : que Marcus, le fils de Caton, s’étant jette dans la mêlée avec un courage héroïque, et ayant attaqué Pharnace, après un rude combat il lui a percé le cœur : qu’un instant après dans le temps que Marcus se tournait vers d’autres ennemis, Pharnace en faisant un dernier effort l’avait percé par derrière, et qu’ils sont tombés tous les deux en expirant l’un en héros, l’autre en traître : que le reste des ennemi est dissipé. César parle avec horreur de la trahison de Pharnace : il prend congé de Caton en lui disant, que puisqu’il refuse la paix, il n’a qu’à se préparer à la bataille : il dit à Portia : Si les Dieux me donnent la victoire, demain je viendrai mettre à vos pieds mom épée ; et s’en va.

Scène V

Marcus porté par des Soldats, Caton, Phocas, Artaban, et suite

[Extrait.2.24] Caton le regarde avec fermeté, fait son éloge, donne ses conseils à Portius, et exhorte ses amis à mettre à la voile pour éviter la vengeance de César : il leur fait ses adieux pour la dernière fois. Et l’acte finit.

Acte cinquième §

Scène première

[Extrait.2.25] Caton seul, assis devant une table, un livre devant lui : une épée nue sur la table, et un lit de repos d’un côté.

[Extrait.2.26] Caton fait un discours sur le Traité de l’immortalité de l’âme de Platon, qu’il a sous les yeux, etc.

Scène II

Portius et Caton

[Extrait.2.27] Portius est tout effrayé en voyant l’épée sur la table : il voudrait l’ôter ; Caton l’arrête et lui ordonne de partir : Portius renouvelle ses tendres expressions : Caton en l’embrassant lui ordonne d’aller voir si ses amis se sont embarqués pour éviter la rage de son ennemi, et que pendant ce temps là il va se reposer. Portius part consolé. Caton se met sur le lit de repos, et le rideau qui s’abaisse le cache.

Scène III

Portia, Portius

[Extrait.2.28] Portius dit a sa sœur qu’il se flatte que tout ira bien, et que peut-être ils auront bientôt la paix : il lui dit les ordres que son père lui a donnés, et qu’il repose ; et s’en va.

Scène IV

Portia, Phenice

[Extrait.2.29] Elles parlent sur leur situation, et sur celle de Caton, pour qui elles tremblent.

Scène V

Phocas, et les Acteurs précédents

[Extrait.2.30] Phocas viebt en disant que l’innocence dort d’un sommeil tranquille, etc. et rend compte de Caton qu’il a vu endormi.

Scène VI

Artaban, et les Acteurs précédents

[Extrait.2.31] Artaban dit que les troupes de César n’entreprennent rien, en attendant peut-être à quoi Caton se détermine.

Scène VII

Portius, et les Acteurs précédents

[Extrait.2.32] Portius tout agité dit qu’il vient du Port, et que les amis de son père ne sont pas encore partis, faute d’un vent favorable : il ajoute qu’il est entré un vaisseau du fils de Pompée, pour dire à son père qu’il fait tous ses efforts pour lui envoyer d’Espagne des troupes pour résister à l’ennemi commun.

[Extrait.2.33] On entend du bruit : Portius entre et revient aussitôt, en disant tout affligé que son père s’est tué : Portia tombe évanouie.

Scène VIII

Caton que l’on apporte, et les Acteurs précédents.

[Extrait.2.34] Caton mourant interroge Portius sur ses amis, et s’ils sont partis : il lui ordonne de ne demander jamais ni grâce, ni pardon à son ennemi, et de faire tout son possible pour rendre à Rome sa liberté : il embrasse Portia, il lui donne de bons avis, et sur tout d’épouser un héros qui la venge à César : il console ses amis qui pleurent, et meurt.

[Extrait.2.35] La tragédie finit

Petit traité de M. Fénelon §

[Traité.1.1] A la fin de la tragédie suit d’abord un petit traité de M de Cambray, qui se trouve inséré dans son ouvrage de Réflexions sur la Grammaire, la Rhétorique, la Poétique et l’Histoire. L’auteur le traduit tout du long, parce qu’il le cite dans sa réponse à la critique qu’on lui a fait. Ce petit traité m’a fait un sensible plaisir : c’est la première fois que je l’ai vu, et je ne savais pas que M. Fénelon eût écrit sur cette matière. Comme les réflexions de ce grand homme ne sauraient trop être remises sous les yeux du public, je me serais bien gardé de les citer simplement, sans les rapporter. L’auteur allemand l’a fait pour instruire sa nation, et moi je suis son exemple, pour répéter à ceux qui en ont besoin ce qu’ils ne devraient jamais oublier.

Sentiments de M. Fénelon, pag. 93
Projet d’un traité sur la tragédie
VI §

[Traité.2.1] Il faut séparer d’abord la tragédie d’avec la comédie. L’une représente les grands événements qui excitent les violentes passions. L’autre se borne à représenter les mœurs des hommes dans une condition privée.

[Traité.2.2] Pour la tragédie, je dois commencer, en déclarant que je ne souhaite point qu’on perfectionne les spectacles, où l’on ne représente les passions corrompues que pour les allumer. Nous avons vu que Platon et les sages législateurs du paganisme rejetaient loin de toute république bien policée les fables et les instruments de la musique, qui pouvaient amollir une nation par le goût de la volupté. Quelle devrait donc être la sévérité des nations chrétiennes contre les spectacles contagieux ? Loin de vouloir qu’on perfectionne de tels spectacles, je ressens une véritable joie de ce qu’ils sont chez nous imparfaits en leur genre. Nos poètes les ont rendus languissants, fades et doucereux, comme les romans. On n’y parle que de feux, de chaînes, de tourments. On y veut mourir en se portant bien. Une personne très imparfaite est nommée un soleil, ou tout au moins une aurore. Ses yeux sont deux astres. Tous les termes sont outrés, et rien ne montre une vraie passion. Tant mieux : la faiblesse du poison diminue le mal. Mais il me semble qu’on pourrait donner aux tragédies une merveilleuse force, suivant les idées très philosophiques de l’Antiquité, sans y mêler cet amour volage et déréglé, qui fait tant de ravages.

[Traité.2.3] Chez les Grecs la tragédie était entièrement indépendante de l’amour profane. Par exemple, l’Œdipe de Sophocle n’a aucun mélange de cette passion étrangère au sujet. Les autres tragédies de ce grand poète sont de même. M. Corneille n’a fait qu’affaiblir l’action, que la rendre double, et que distraire son spectateur dans son Œdipe, par l’épisode d’un froid amour de Thésée pour Dircé. M. Racine est tombé dans le même inconvénient, en composant sa Phédre. Il faut un double spectacle, en joignant à Phédre furieuse Hippolyte soupirant contre son vrai caractère. Il fallait laisser Phédre toute seule dans sa fureur : l’action aurait été unique, courte, vive et rapide. Mais nos deux poètes tragiques, qui méritent d’ailleurs les plus grands éloges, ont été entraînes par le torrent. Ils ont cédé au goût des pièces romanesques qui avaient prévalu. La mode du bel esprit faisait mettre de l’amour par tout. On s’imaginait qu’il était impossible d’éviter l’ennui pendant deux heures, sans le secours de quelque intrigue galante. On croyait être obligé à s’impatienter dans le spectacle le plus grand et le plus passionné, à moins qu’un héros langoureux ne vînt l’interrompre. Encore fallait-il que ses soupirs fussent ornés de pointes, et que son désespoir fût exprimé par des espèces d’épigrammes.

[Traité.2.4] Voilà ce que le désir de plaire au public arrache aux plus grands acteurs contre les règles. De là vient cette passion si façonnée :

Impitoyable soif de gloire,
Dont l’aveugle et noble transport,
Me fait précipiter ma mort,
Pour faire vivre ma mémoire :
Arrête, pour quelques moments,
Les impétueux sentiments
De cette inexorable envie ;
Et souffre qu’un ce triste jour,
Avant que de donner ma vie,
Je donne un soupir à l’Amour.

[Traité.2.5] On n’osait mourir de douleur sans faire des pointes, et des jeux d’esprit en mourant.

[Traité.2.6] De la vient ce désespoir si ampoulé et si fleuri :

Percé jusques au fond du cœur
D’une atteinte imprévue aussi bien que mortelle,
Misérable vengeur d’une juste querelle,
Et malheureux objet d’une injuste rigueur.

[Traité.2.7] Jamais douleur sérieuse ne parla un langage si pompeux et si affecté.

[Traité.2.8] Il me semble qu’il faudrait aussi retrancher de la tragédie une vaine enflure, qui est contre toute vraisemblance. Par exemple, ces vers ont je ne sais quoi d’outré :

Impatients désirs d’une illustre vengeance,
A qui la mort d’un père a donné la naissance,
Enfants impétueux de mon ressentiment,
Que ma douleur séduite embrasse aveuglément ;
Vous régnez sur mon âme avec trop d’empire
Pour le moins un moment souffrez que je respire,
Et que je considère en l’état où je suis,
En ce que je hasarde, et ce que je poursuis.

        Corneille, Cinna, Acte I, sc. I.

[Traité.2.9] M. Despréaux trouvait dans ces paroles une généalogie ; des impatients désirs d’une illustre vengeance, qui étaient les enfants impétueux d’un noble ressentiment, et qui étaient embrassés par une douleur séduite. Les personnes considérables, qui parlent avec passion dans une tragédie, doivent parler avec noblesse et vivacité. Mais on parle naturellement, et sans ces tours si façonnés, quand la passion parle. Personne ne voudrait être plaint dans son malheur par son ami avec tant d’emphase.

[Traité.2.10] M. Racine n’était pas exempt de ce défaut, que la coutume avait rendu comme nécessaire. Rien n’est moins naturel que la narration de la mort d’Hyppolyte à la fin de la tragédie de Phédre, qui a d’ailleurs de grandes beautés. Théraméne, qui vient pour apprendre à Thésée la mort funeste de son fils, devrait ne dire que ces deux mots, et manquer même de force pour les prononcer distinctement. Hippolyte est mort. Un monstre envoyé du fonds de la mer par la coëre des Dieux l’a fait périr. Je l’ai vu. Un tel homme saisi, éperdu, sans haleine. Peut-il s’amuser à faire la description la plus pompeuse et la plus fleurie de la figure du Dragon ?

L’œil morne maintenant, et la tête baissée,
Semblaient se conformer à sa triste pensée, etc.
La terre s’en émeut, l’air en est infecté,
Le flot qui l’apporta, recule épouvanté.

Racine, Phèdre, Acte V, Sc. &

[Traité.2.11] Sophocle est bien loin de cette élégance si déplacée, et si contraire à la vraisemblance.

[Traité.2.12] Il ne fait dire à Œdipe que des mots entrecoupés. Tout est douleur « Hélas ! hélas ! dit-il, tout est éclairci. O lumière, je te vois maintenant pour la dernière fois… Hélas ! hélas ! malheur à moi. Où suis-je malheureux ! Comment est ce que la voix me manque tout à coup ! O fortune, où êtes-vous allée !... Malheureux, malheureux, je ressens ne une cruelle fureur avec le souvenir de mes maux… O amis, que me reste-t-il à voir, à aimer, à entretenir, à entendre avec consolation ! O amis, rejetez au plutôt loin de vous un scélérat, un homme exécrable, objet de l’horreur des Dieux et des hommes… Périsse celui qui me dégagea de mes liens dans les lieux sauvages, où j’étais exposé, et qui me sauva la vie ! Quel cruel secours ! Je serais mort avec moins de douleur pour moi et pour les miens… Je ne serais ni le meurtrier de mon père, ni l’époux de ma mère : maintenant je suis au comble du malheur : misérable j’ai souillé mes parents, et j’ai eu des enfants de celle qui m’a mis au monde ! »

[Traité.2.13] C’est ainsi que parle la nature, quand elle succombe à la douleur. Jamais rien ne fur plus éloigné des phrases brillantes du bel esprit. Hercule et Philoctète parlent avec la même douleur vive et simple dans Sophocle.

[Traité.2.14] M. Racine, qui avait fort étudié les grands modèles de l’antiquité, avait formé le plan d’une tragédie française d’Œdipe suivant le goût de Sophocle, sans y mêler aucune intrigue postiche d’amour, et suivant la simplicité grecque. Un tel spectacle pourrait être très curieux, très vif, très rapide, très, très intéressant. Il ne serait point applaudi ; mais il saisirait, il serait répandre des larmes ; il ne laisserait pas respirer ; il inspirerait l’amour des vertus et l’horreur des crimes ; il entrerait fort utilement dans le dessein des meilleurs lois. La religion même la plus pure n’en serait point alarmée. On n’en retrancherait que de faux ornements, qui blessent les règles.

[Traité.2.15] Notre versification trop gênante engage souvent les meilleurs poètes tragiques à faire des vers chargés d’épithètes, pour attraper la rime. Pour faire un bon vers, on l’accompagne d’un autre vers, on l’accompagne d’un autre vers faible qui le gâte. Par exemple, je suis charmé, quand je lis ces mots :

Qu’il mourut

Corneille dans les Horaces

[Traité.2.16] Mais je ne puis souffrir le vers que la rime amène aussitôt,

Ou qu’un beau désespoir alors le secourut

[Traité.2.17] Les périphrases outrées de nos vers n’ont rien de naturel. Elles ne représentent point des hommes qui parlent en conversation sérieuse, noble et passionnée. On ôte au spectateur le plus grand ôte au spectateur le plus grand plaisir du spectacle quand on en ôte cette vraisemblance. J’avoue que les Anciens donnaient quelque hauteur de langage au cothurne

An tragica desavit, et ampullatur in arte ?

Horat. Epist. Lib. I. Ep. 3 V. 14

[Traité.2.18] Mais il ne faut point que le cothurne altère l’imitation de la vraie nature. Il peut seulement la peindre en beau, et en grand. Mais tout homme doit toujours parler humainement. Rien n’est plus ridicule pour un héros, dans les plus grandes actions de la vie, que de ne joindre pas à la noblesse et à la force, une simplicité qui est très opposée à l’enflure :

Projicit ampullas, et sesquipedalia verba

Horat. Art Poet. V 97

[Traité.2.19] Il suffit de faire parler Agamennon avec hauteur, Achille avec emportement, Ulysse avec sagesse, Médée avec fureur, mais le langage fastueux et outré dégrade tout. Plus on représente de grands caractères et de fortes passions, plus il faut y mettre une noble et véhémente simplicité.

[Traité.2.20] Il me paraît même qu’on a donné souvent aux romains un discours trop fastueux. Ils pensaient hautement ; mais ils parlaient avec modération. C’était le Peuple roi, il est vraiVirgil. Æneid. I. v. 25., Populum late Regem : mais ce peuple était aussi doux pour les manières de s’exprimer dans la société, qu’appliqué à vaincre les nations jalouses de sa puissance,

Parcere subjectis, et debellare superbos

Idem, Æneid. VI. V. 853.

[Traité.2.21] Horace a fait le même portrait en d’autres termes :

Imperet bellante prior, jacentem lenis in hostem.

Carm. Sæcul. Vers. 51. 52.

[Traité.2.22] Il ne paraît point assez de proportion entre l’emphase avec laquelle Auguste parle dans la tragédie de Cinna, et la modeste simplicité avec laquelle Svetone nous le dépeint dans tout le détail de ses mœurs. Il laissait encore à Rome une si grande apparence de l’ancienne liberté de la république, qu’il ne voulait point qu’on le nommât SeigneurSveton in August Manu, vultuque indecoras adulationes re pressit, et insequenti die gravissimo corripuit edicto, dominumque se posthac appellari ne à liberis quidem aut nepotibus, vel serio, vel joco passus est… In Consulatu pedibus fere, extra Consultatem sœpe adopertâ sella per publicum incessit. Promiscuis salutationibus admittebat et plebem… Quotiens magistratuum comitiis interesset tribus cum candidatis suis circuibat, supplicabatque more solemni. Ferebat et ipse suffragium in tribu, ut unus è populo… Filiam et neptes ita instituit, ut etiam lanificio assuefaceret… Habitavit in ædibus modicis Hortensianis, neque laxitate, neque cultu conspicuis, ut in quibus porticus brève essent… Et fine marmore ullo, aut insigni pavimento conspicuœ ac per annos amplius XL. Eodem cubiculo hyeme et estate mansit… Instrumenti ejus et supellectilis parsimonia apparet etiam nunc residuis lectis atque mensis, quorum pleraque vix privatæ elegantiæ sint… Cænam trinis ferculis, aut, cum abundantissime, senis, præbebat, ut non nimio sumptu, ita summa comitate … Veste non temere alia quam domestiqua usus est ab uxore et sorore et filia, neptibusque confecta… Cibi minimi erat atque vulgaris fere, etc. La pompe et l’enflure conviennent beaucoup moins à ce qu’on appelait la civilité romaine, qu’au faste d’un roi de Perse ; malgré la rigueur de Tibère, et la servile flatterie où les Romains tombèrent de son temps, et sous ses successeurs, nous apprenons de Pline que Trajan vivait encore en bon et sociable citoyen, dans une aimable familiarité. Les réponses de cet empereur sont courtes, simples, précises, éloignées de toute enflure. Les bas-reliefs de la colonne le représentent toujours dans la plus modeste attitude, lors même qu’il commande aux légions. Tout ce que nous voyons dans Tite-Live, dans Plutarque, dans Ciceron, dans Svétone, nous représente les Romains comme des hommes hautains par leurs sentiments, mais simples, naturels et modestes dans leurs paroles. Ils n’ont aucune ressemblance avec les héros bouffis et empesés de nos romans. Un grand homme ne déclame point en comédien : il parle en termes forts et précis dans une conversation. Il ne dit rien de bas : mais il ne dit rien de façonné et de fastueux.

Ne quicumque Deus, quicumque adhibebitur Heros
Regali conspectus in auro nuper et ostro,
Migret in obscuras humili sermone tabernas,
Aut dum vitat humum, nubes et inania captet,
Ut festis, etc.

Horat. Art. Poet. Vers. 227. Et seqq.

[Traité.2.23] La noblesse du genre tragique ne doit point empêcher que les héros mêmes ne parlent avec simplicité, à proportion de la nature des choses dont ils s’entretiennent.

Et tragicus plerumque dolet sermone pedestri.

Critique
d’un ami anonyme
sur le Caton §

[Critique.1] Je dois savoir bon gré, de même que tout ceux de notre Nation qui profitent de l’avantage que l’on tire du progrès de notre poésie ; au sieur Gottshed, qui nous a frayé le chemin de la poésie tragique. Si je voulais lui donner les louanges qu’il mérite, je n’aurais pas assez de talents pour remplir la matière ; mais quelque surpris que je sois de ses perfections ( que je suis contraint de passer sous silence ) je ne puis m’empêcher d’avouer que j’ai aperçu quelque chose dans son Caton, que je regarde pourtant comme de petites imperfections.

[Critique.2] L’auteur qui a si fort blâmé les scènes vides dans le Caton anglais, a fait de son mieux pour ne pas tomber dans ce défaut ; l’expédient dont il se sert pour l’éviter est celui d’annoncer le personnage qui arrive : Caton vient : celui-ci paraît, etc. Dans les quatre premiers actes il y a deux et trois scènes par acte, dont il se tire d’affaire par cette formule ordinaire que je n’aime point, et qui, selon moi, ne répare pas l’inconvénient de la scène vide.

[Critique.3] Comme il est nécessaire, suivant les règles, d’annoncer aux spectateurs les caractères des premiers héros de la tragédie : notre poète fait qu’Arsène peint à Phènice le caractère de Caton parfaitement bien, et tel qu’il est ; mais parce que cela arrive dans le temps que Caton entre sur la scène, et que l’entretien, que ces deux femmes ont ensemble sur son sujet, dure encore assez longtemps : il ne me paraît pas vraisemblance que Caton n’en ait rien entendu, ce qu’il pouvait éviter, en le faisant pas entrée si tôt.

[Critique.4] Il m’a paru, aussi bien qu’à eux de mes amis, que César, suivant qu’il est caractérisé dans cette tragédie, est plus raisonnable que Caton ; on blâme Caton de ce qu’il rejette tout avec tant d’opiniâtreté, et qui se présente à César ( qui nous est exposé si poli dans ses manières ) avec des façons si dures, qu’elles tiennent de la grossièreté : par exemple, dans la troisième scène du quatrième acte César demande à Caton ce que souhaite le Senat Romain d’Utique, et Caton répond : Qu’il t’arrive ce dont tu le menaces : c’est-à-dire, ta ruine, ta défaite et ta mort enfin. Quelques étrangers on dit qu’il ne serait pas surprenant que César perdît patience.

[Critique.5] Pour ce qui est d’avoir représenté César et Caton également grands, ce qui suit, et qui est de la même scène, en peut servir de preuve. Il me semble que par les sentiments de l’un et de l’autre de ces deux personnages, on peut dire en France d’Alexandre et de Porus de Racine. César est trop grand pour Caton, ou Caton ne l’est pas assez pour César, et l’un et l’autre ne connaissent pas la véritable grandeur. Car César cherche trop à dominer, et Caton est trop opiniâtre dans ses sentiments.

[Critique.6] Pharnace et Portius se servent quelquefois d’expressions fort triviales : j’ai encore remarqué que Portius, dont le caractère d’ailleurs est bien soutenu, dit quelque chose dans la dernière scène qu’il ne devrait pas dire. Il veut que le corps mort de son père soit présenté à César, afin qu’il en ait pitié ; il faut donc qu’il ait oublié les avis de son père mourant : « Mais tu ne prieras ton ennemi d’aucune grâce, et tu ne négligeras jamais rien pour la liberté de Rome ». Je crois qu’il aurait mieux valu faire dire au fils de Caton tout ce qui aurait pu encourager le reste de ses amis, pour profiter de la nouvelle que l’on débitait de Pompée, et qu’il eût promis, en cas de malheur, d’imiter son père en mourant, plutôt que de les abandonner.

[Critique.7] L’auteur du Caton allemand critique l’anglais, en ce que les acteurs entrent et sortent de la scène sans que l’on sache pourquoi ; mais il me semble qu’il est tombé lui-même dans cette faute, du moins une fois. Dans l’acte second, scène cinquième Portius est sur le théâtre avec Arsène, qu’il entretient avec empressement en lui disant : « Princesse, ne vous mettez point en peine de votre sûreté : quand vous péririez tous, Portius est pour vous. Suivez les traces de votre père pour protéger l’innocence : commandez, mon fer brillera pour votre défense ». A ces mots Arsène tourne le dos au défenseur de sa liberté, et s’en va sans lui rien répondre. Je n’ai jamais pu m’accommoder de ce congé muet qu’elle prend de lui.

[Critique.8] Enfin il me paraît que Caton dans un endroit s’écarte un peu de son caractère : dans la scène troisième du premier acte, en recevant la nouvelle que sa fille vit encore, il éclate en ces expressions : Comment ? Quoi ? Mon enfant en vie ? Que dites-vous ? Ce n’est pas là ce Caton qui en voyant le cadavre de son fils est si tranquille, que l’on dirait qu’il est plutôt joyeux que chagrin.

[Critique.9] Pour ce qui est des vers, le vous prend souvent la place de toi, mais je me souviens d’avoir lu dans un écrit du même M. Gottsched que dans des dialogues, en prose même, on doit plutôt se servir du toi des Latins, que parler au pluriel, comme les Allemands et les Français font aujourd’hui, comme si l’on s’adressait à une douzaine de personnes. Ainsi je crois qu’il aurait pu, en suivant son opinion, se servir toujours du toi, d’autant que ce sont des Romains qui parlent ensemble.

[Critique.10] Voilà le peu que j’ai remarqué en parcourant le Caton, qui d’ailleurs est excellent, et cela sans faire tort aux belles qualités de son auteur, etc.

Réponse de l’auteur
aux critiques ci-dessus §

[Réponse.1] Cette tragédie a eu bien du bonheur de tomber entre les mains de connaisseurs si habiles, et encore davantage d’en avoir été en quelque façon applaudie. Je ne dois donc pas regretter la peine d’y avoir travaillé, et je suis infiniment obligé à la personne qui a eu la complaisance de me communiquer ses pensées et celles de ces amis.

[Réponse.2] Je n’ai jamais cru qu’un poème épique, ou dramatique put être exempt de quelque faute. L’imperfection de l’homme à peine le permet-elle dans les moindres pièces de poésie, ainsi on ne doit point s’en flatter dans les ouvrages d’une grande étendue. Homère, qui cependant a fait un chef d’œuvre dans son Iliade et dans son Odyssée, de l’avis des plus savants critiques, et qui généralement a été admiré d’Horace, Homère, dis-je, doit supporter que ce même Horace avoue qu’il s’endort quelquefois ; quoique par le vers qui suit il le défende,

Verum opere in longo fas est obrepere somnum

De Arte Poet.

[Réponse.3] Il a même remarqué auparavant qu’il y a des fautes auxquelles un n poète ne veut point prendre garde, lorsqu’il a bien réussi dans la plus grande partie de son ouvrage :

Sunt delicta tamen, quibus ignovisse velimus ;
Nam necue chorda sonum, etc.

[Réponse.4] Voilà ce que mon savant Aristarque a sûrement eu en vue, lorsqu’il a daigné honorer mon Caton de ses remarques ; car je suis persuadé que par trop de bonté pour cet essai tragique, il a passé sur des fautes plus considérables. Si je prends le parti de répondre à ses savantes critiques, ce n’est certainement pas en vue de me purger entièrement, ni de faire passer pour des beautés tout ce qu’il a critiqué. Non, l’amour propre n’a pas encore fait une si grande brèche dans mon esprit ; je sais que je suis capable plus qu’un autre de faire des fautes, et j’avouerai sincèrement que je suis convaincu de cette vérité. Il me sera permis cependant de dire quelque chose pour ma justification, et d’y ajouter en passant quelques réflexions qui puissent contribuer à donner du goût pour la poésie de théâtre.

[Réponse.5] Le premier reproche qu’on me fait n’est pas si mal fondé, car on peut aisément connaître une faute dans quelques-uns, et y tomber cependant soi-même. Horace dit :

In vitium ducit culpæ fuga, si caret arte.

[Réponse.6] J’avoue d’avoir trop répété cette liaison de scène, je vois venir : il paraît, etc. et c’est cette répétition trop fréquente qui est une faute, car la chose en elle-même ne l’est pas. Lorsque deux acteurs sont sur le théâtre, et que l’un des deux en voyant venir le troisième dit : Je vois celui-ci, ou celle-là que j’attends, ou celui qui ne doit point entendre ce que nous disons, ce n’est pas une faute. J’e puis le prouver par l’exemple d’un grand nombre des meilleurs poètes tragiques. Pierre Corneille dans son Cid, au troisième acte, scène première, fait dire à Elvire qui vois arriver Chimène,

Elle va revenir, elle vient, je la vois, etc85

[Réponse.7] Je crois pouvoir me dispenser de donner d’autres exemples, soit des pièces de Corneille, ou d’autres poètes, car chacun peut aisément les y voir. J’ai expressément allégué les exemples de Corneille, et dans sa première bonne pièce ; car il est certain que lorsqu’il la fit, il ne savait pas encore ce que c’était que la liaison des scènes, à laquelle il a contrevenu en bien des façons. Combien de fois ne fait-il pas que deux acteurs s’en vont, et que deux autres paraissent sans savoir pourquoi ? Or Corneille, sans savoir la règle de la liaison des scènes, ou sans la vouloir suivre, a mis dans la bouche de ses personnages les liaisons que nous voyons, et de la forme très naturelle que nous venons de citer : pourquoi n’aurais-je pas pu le faire aussi avec toute la vraisemblance dans mon Caton A mon avis l’auteur se défend bien faiblement sur ce point; tout le monde sait qu’il dit vrai, ce pendant c’était de cette seconde espèce de liaison de scène qu’il fallait qu’il donnât quelques exemples, plutôt que de la première. Après tout, quand il les aurait encore donné, ces exemples, il n’était pas autorisé pour cela à le faire, le bons sens y répugne : il est bien vraisemblable que deux acteurs, en voyant venir un troisième dont ils ne veulent pas être vus ni entendus, quittent la scène en l’annonçant ; mais il n’est pas dit pour cela que la scène ne reste vide : et il n’est pas dit dans Aristote que cette liaison tienne lieu de ce qui n’est point. Que l’on examine l’ Œdipe de Sophocle, que le même Aristote nous donne pour modèle dans toute sa Poétique, et l’on ne verra pas ces liaisons de scènes : du commencement à la fin tous les acteurs qui entrent sur le théâtre, ont des raisons pour y venir, et la scène ne reste jamais vide. Voilà la règle des liaisons des scènes, et ceux qui en ont imaginé une autre pour se mettre à leur aise, ne répareront jamais au défaut. Notre poète pour se défendre produit des exemples de cette nouvelle règle, mais elle ne passera point à la postérité, si ce n’est par une corruption générale ; car, je le répète encore, le bons sens et ns maîtres ne l’admettent point.?

[Réponse.8] Quant à la seconde remarque de mon Critique, il lui semble, dit-il, que le récit que fait Arsène pour annoncer le caractère de Caton, est défectueux, en ce que cette actrice, après avoir annoncé l’arrivée de Caton, le continue toujours, de façon qu’il est impossible que Caton l’ait pas entendue. Voici ce qu’elle dit : «  Phénice, ne vois-tu pas comme la splendeur de sa sagesse éclate parmi la douleur ? Admire donc ce héros : il n’a pas son pareil. Les dieux l’ont frappé par des revers de fortune réitérés, et toujours vainement. Il est encore ferme et inébranlable à leurs coups : il oppose sa constance à toute leur colère ».

[Réponse.9] Je conviens que sur un théâtre étroit et court, tel que le nôtre de Leipsik, Caton, même en venant lentement, peut avoir entendu une partie de ses mots ; mais sur un autre théâtre plus grand, tel que celui de l’electeur à Dresde, il n’en serait pas de même, et l’actrice aurait achevé son couplet avant qu’il fut à portée de l’entendre. On conviendra même qu’un homme si respectable et si occupé que Caton, n’entrera pas sur le théâtre en courant : ainsi dans le temps que l’on débite huit vers, il peut bien faire douze ou quinze pas, avant que d’être si près qu’il puisse entendre.

[Réponse.10] Mais si l’on veut supposer que Caton entende une partie du discours d’Arsène, quel mal cela pourrait-il produire ? Peut-être le fait-elle tout exprès pour lui faire entendre la haute idée qu’elle a de sa vertu ; et l’on ne dira pas que c’est par flatterie qu’elle dit du bien de Caton lorsque il arrive, et qu’elle croit être entendue de lui, parce qu’elle a fait l’éloge de Caton dès le commencement de la scène, et avant qu’il parût. Donc les règles du théâtre, ni la vraisemblance n’y sont point blessées.

[Réponse.11] Pour ce qui est de la troisième remarque de mon censeur, il est indubitable qu’elle roule sur un des points les plus importants du poème dramatique. Il est sûr que le poète doit distinguer préférablement à tous les autres caractères celui du principal personnage de sa fable, et qu’il doit faire de son mieux pour attirer sur lui du principal personnage de la fable, et qu’il doit faire de son mieux pour attirer sur lui le plus grand intérêt des spectateurs, afin que la compassion et que la crainte se tournent toutes de son côté. C’est contre cette règle que j’ai manquée, suivant que l’on m’en accuse ; et si cela est ainsi, j’ai véritablement fait une grande faute.

[Réponse.12] Pour m’en défendre je pourrais bien appeler à Deschamps qui a fait la même chose dans son Caton ; mais cela ne me servirait de rien, et l’on pourrait me répondre que je ne devais pas suivre en aveugle les égarements de mon original. Il faut donc que je me défende par des principes, et que je prouve que dans ma tragédie Caton est beaucoup plus grand que César ; et que si celui-ci paraît aussi grand que l’autre, se grandeur cependant ne sert qu’à élever davantage celle de Caton.

[Réponse.13] Il faut pour cela établir d’avance que la véritable grandeur d’un héros consiste dans l’amour de la patrie, et dans une vertueuse magnanimité : et que l’ambition de dominer, et la tyrannie déguisée sous le voile d’une vertu simulée, ne saurait être une véritable grandeur. Par exemple, Marc-Aurèle Antonin est forcé de faire la guerre pour le bonheur et pur la sûreté de l’empire : il n’a point d’argent, et plutôt qu’imposer un tribut aux Romains, il expose à une vente publiques ses meubles les plus précieux : il regarde sans peine les sénateurs et les bourgeois faire parade des magnificences de son palais impérial, pourvu qu’il puisse repousser l’ennemi sans appauvrir le peuple ; il donne la vie à Cassius mutiné contre lui, et prie le Sénat pour sa femme et pour ses enfants. Néron au contraire est d’une magnificence qui passe les bornes : il divertit la ville par des spectacles superbes, mais c’est avec l’argent des citoyens et du peuple, et avec les dépouilles des exilés et des proscrits ; il ne veut pas signer les jugements de mort, il est vrai, mais il voudrait que le Sénat et le peuple romain n’eût qu’une tête pour la couper d’un seul coup. Il n’y a point d’homme qui ne préfère la pauvreté de Marc-Aurèle à la magnificence de Néron, et la prière de celui-la pour les ennemis, à la pitié de l’autre pour les coupables.

[Réponse.14] Les mêmes circonstances se trouvent dans Caton et dans César. Caton est malheureux, mais d’autant plus grand ; César éblouit par une clémence politique, mais ce n’est qu’une vertu simulée, un désir de vengeance et une envie de dominer : la grâce qu’il offre n’est qu’un piège pour subjuguer des esprits opposés à ses intentions. Caton au contraire ne veut rien pour lui, mais tout pour Rome, et s’il ne peut la voir libre, il aime mieux mourir. César lui offre des grâces, mais il m’en veut accepter d’autres que la liberté de sa patrie. César ne veut pas la lui accorder : Caton ne peut pas l’obtenir par la force, et c’est ce qui le détermine à la mort.

[Réponse.15] La vertu malheureuse n’est-elle pas infiniment plus grande, que le bonheur de la vertu apparente de César ? Caton est opiniâtre, il est vrai, mais le héros de la tragédie ne doit il pas avoir quelque défaut qui modère la compassion ? Voilà ce qu’Aristote nous apprend : Œdipe n’a-t-il pas été en quelque sorte la cause de son malheur par sa promptitude trop ardente, lorsqu’il tua son père, quoique sans le connaître ? N’est-ce pas l’emportement et la fureur d’Oreste qui ont été la cause de l’assassinat de sa mère, source de tous ses malheurs ? Phèdre n’est-elle pas coupable de sa mort, ayant découvert à sa confidente, et même en présence du chœur, son amour pour Hippolyte ? Il faut donc que dans le malheur de Caton il y ait aussi de sa faute : et dans les circonstances où il se trouve, cela ne peut arriver que par son opiniâtreté, qui semble lui venir de la philosophie stoïque, et peut être en grande partie de son naturel ; mais avec tout cela la compassion ne perd point ses droits. Il est si vertueux, si désintéressé, si zélé pour le bien de sa patrie, si ferme dans le malheur, si magnanime, si intègre, qu’on ne peut pas s’empêcher de l’admirer, de l’aimer, et d’en avoir compassion en le voyant périr. Si Caton eût été sans défaut et parfait, les Spectateurs se seraient révoltés en le voyant malheureux.

[Réponse.16] On m’oppose la façon de m’exprimer et de penser, que l’on prétend être trop basse et point convenable aux personnages que je fais parler. Cette observation est véritablement importante, et je ne sais si je pourrai bien m’en justifier. La commune opinion est que le style de la tragédie doit être le plus élevé et les plus sublime ; mais je ne sais pas si ceux qui pensent ainsi n’ont pas établi cette maxime, en lisant les tragédies de Sénèque, qui est toujours si enflé sur des choses les plus communes, qu’il sort du naturel et du vraisemblable. Le style de Sénèque a déjà été critiqué par les plus savants poètes, que l’on devrait bien plutôt prendre pour modèles les auteurs tragiques de la Grèce, qui ont employé des expressions nobles et sans artifice, et non pas des pensées enflées et bruyantes.

[Réponse.17] Les poètes français modernes on été critiqués assez vivement sur cet article par Riccoboni dans sa Dissertation sur la tragédie moderne, et par un autre écrivain italien anonyme dans le Paragone della poesia tragica : comme aussi par le sieur Becelli dans la préface de la Mérope de Maffei. Que ces trois étrangers ayant critiqué les poètes tragiques français, cela ne me paraît pas extraordinaire ; mais que l’on examine les sentiments de M. Fénelon sur la poésie tragique, que j’ai ajoutés à la fin de ma tragédie, et l’on trouvera qu’entre autres choses il leur reproche cette faute. Le P. Brumoy dans son Théâtre des Grecs en fait autant en plusieurs endroits ; mais Horace l’avait fait longtemps auparavant lorsqu’il dit :

Et tragicus plerumque dolet, etc.

[Réponse.18] Voilà comme le poète tragique doit faire parler Télèphe : d’un style simple. Lorsqu’il expose comme un prince proscrit et malheureux : il doit rejeter loin de lui la sublimité du langage, et toute enflure dans les pensées et dans les mots, s’il veut porter le spectateurs à la compassion. C’est ce que Sénèque n’a pas cru, et c’est à quoi Lohenstein Excellent poète allemand de la première réforme.n’a pas pris garde.

[Réponse.19] La véritable règle du style tragique n’est que la vraisemblance, et le devoir indispensable du poète est de s’en tenir au naturel. Horace dit :

Respicere exemplar vitæ morumque jubebo.
Doctum imitatorem, et veras hinc ducere voces.

[Réponse.20] Comment l’aurais-je suivi, cette règle, si j’avais fait parler le jeune Portius comme Caton ? ou Pharnace, esprit bas, rampant et malitieux ? ou comme César ? Ne faut-il pas que la différence de leur caractère se manifeste dans leurs paroles ? Les personnages de la tragédie ne sont point poètes si riches en imaginations d’esprit, qui puissent parler et penser avec l’artifice de Sénèque et de Lohenstein que tout le monde désapprouve. Ce sont des hommes, qui suivant la condition de leur état, de leur âge, de leur sexe, de leur fortune et de leur caractère, font usage d’un langage qui leur est convenable, il faut donc selon Horace :

Ne forte seniles
Mandentur juveni partes, pueroque viriles ;
Semper in adjunctis avoque morabitus aptis.

[Réponse.21] Cela peut suffire, je crois, pour répondre au premier point de critique sur cet article. Quant aux expressions de Portius et de Pharnace que l’on a jugé trop basses, je réponds, à l’égard de la dernière scène où Portius ne se ressemble plus, puisqu’il a oublié son premier courage, et veut faire porter le corps de son père à César, lorsqu’il dit : « Venez, portez le corps mort à la présence de César : que sait-on si la dureté de son cœur ne s’amollira point voyant ce Héros noyé dans son sang ». En effet Portius n’est plus semblable à lui-même, mais il ne pouvait pas l’être, étant un jeune homme, et sur tout dans une pareille circonstance. Car si je l’avais fait tel que l’on dépeint son père, comment aurait-il ressemblé à un jeune homme ? Pour faire cela il aurait fallu que je ne susse ce qu’Horace nous dit en nous traçant le caractère de la jeunesse. Il nous a peint en un seul vers la férocité, le tumulte des passions et l’inconstance,

Sublimis, cupidusque et amata relinquere pernix.

[Réponse.22] Portius fait connaître à merveille ces trois qualités. Il est fier pendant que son père vit encore, et qu’il peut compter sur son appui ; c’est pour cette raison qu’il s’oppose à Pharnace avec tant de chaleur et de fermeté : il est furieux dans la passion pour l’amour d’Arsène, et il est inconstant à la fin : car après avoir répondu avec fermeté aux instructions que son père lui donne, qu’il ne manquera jamais de suivre le genre de vie qu’il lui prescrit : il quitte cependant à la fin un dessein si louable, et la mort de son père l’ayant consterné, il aime mieux gagner César par la douceur. Et voilà le vrai caractère d’un jeune homme, tel que la nature et l’expérience nous le font connaître.

[Réponse.23] On me critique d’avoir fait la faute que j’ai reproche à Addison, en faisant dans la troisième scène du second acte partir Arsène sans répondre à Portius, qui lui promet d’être son défenseur contre Pharnace. Qu’y a-t-il de si étonnant à cela, surtout lorsqu’on voit arriver Pharnace, qui est le prétendu meurtrier de son frère, qui l’importune d’une amour qu’elle n’approuve point, et qu’elle fuit autant qu’elle peut ?

[Réponse.24] J’ai altéré le caractère de Caton, me reproche-t-il encore ; et mon critique pense que c’est à l’endroit où Caton se réjouit de la vie de sa fille qu’il croyait morte : on dit que Caton n’en devait pas être ému au point d’en être transporté, ce qui paraît par la demande quatre fois réitérée qu’il en fait. Mais je demande si Caton, malgré toute sa philosophie, n’est pas toujours homme ? Les stoïques disaient bien que la tendresse d’un père ne s’étouffe pas tout à fait. L’empereur Marc Aurèle versa des larmes à la mort d’un de ses maîtres ; et parce que ses courtisans lui demandèrent si cela convenait à un César aussi bien qu’à un philosophe, il leur répondit : « Permettez-moi, je vus prie, d’être homme aussi pour une fois ». Pourquoi donc Caton n’en devrait pas avoir la permission ? Les stoïques se préparaient pour s’opposer aux événements les plus funestes ; c’est en partie pour cela, et en partie parce que son fils Marcus était mort glorieusement, qu’il en reçois tranquillement la nouvelle de la vie d’une fille qu’il avait crû morte ; et en pareil cas on doit permettre à Caton de devenir homme pour quelques instants.

[Réponse.25] Au reste, si j’avais fait tutoyer les uns et les autres des personnages de ma tragédie, j’ai crû que nos Allemands en auraient été blessés. En effet, si nous entendions un inférieur dire : Quant à toi, mon Prince, etc. ou le fils à son père : Je te dirai, mon père, etc. nous ne le souffririons pas, et c’est ce qui m’a fait chercher un milieu convenable, en me servant alternativement, et selon le cas, du vous et du toi. Cependant, je l’avoue, j’aurais mieux fait, si je m’étais toujours servi de ce dernier. Si dans la suite je faisais une tragédie, je me ferais une règle de m’en servir, comme aussi d’y exposer la noble simplicité des anciennes mœurs, au moins pour la faire admirer sur la scène : d’autres perfectionneront ce que j’ai si faiblement entamé,

Fungar vice cotis, acutum
Reddere quæ ferrum valet, exors ipsa secandi.

[Réponse.26] Il y a aussi une addition des réponses de l’auteur à une critique qui lui a été faite après l’impression de sa Lettre : il se défend à merveille de ce qu’on lui avait reproché de ne pas avoir fait mourir Caton tout à fait comme l’histoire nous l’apprend : on aurait voulu qu’il se déchirât les entrailles, et notre poète par de bonnes raisons fait sentir l’impossibilité de le faire même en récit.

[Réponse.27] Au reste je me flatte d’avoir bien jugé au commencement, lorsque j’ai dit que l’on pouvait tirer quelque avantage des réflexions de M. Gottsched, qui me paraissent fort solides ; quant au public, s’il ne faisait qu’apprendre qu’en Allemagne on pense aussi juste qu’ailleurs, et que le théâtre et les règles ne leur sont point étrangères, il me paraît qu’il n’y aura rien perdu.

[Réponse.28] J’ai crû que le public pourrait souhaiter de savoir le nombre et la qualité des pièces de théâtre d’Hannssachs, premier poète dramatique allemand ; et de même que l’on pourrait être curieux de connaître les drames des poètes germaniques de la première réforme, Opitz, Gryphius et Lohenstein, dont j’ai parlé.

Tragédies et comédies
d’Hannssach86,
depuis 1516
jusqu’à 1558. §

Adam et Eve

Virginie

Gismunde

Assalon

Caron de Lucien

Les six athlètes

Jocaste

Les deux Chevaliers de Bourgogne

La fausse impératrice

L’Impératrice innocente

L’Elisabeth

Les enfants inégaux d’Eve

Jacob et Esaü

Esther

Tobie

Les Messias

Griselde

Palidis

L’Avare et le Libéral

L’Enfant prodigue

Junon et Jupiter

Job

Judith

Jugement de Salomon

Le Riche mourant

Stultitia Erasmi

Judicium Paridis

Menechmes de Plaute

Henno

Les demi Amis

La Reine de France

L’Impératrice exilée

Mutius Scevola

Olivier et Artus

Le Chevalier Galmi

La Bianceffora

La Violanta

Pièces de théâtre de Martin Opitz

Daphné

Antigone de Sophocle

Les Trojannes de Sénéque

Judith

Pièces de théâtre d’André Gryphius

Léon d’Armenie

Catherine de Georgie

Cardenio et Celinde

Charles Stuart

La mort de Papinian

La Mère constante

Les Gibeonites

Comédies

La nourrice

Le Berger errant

Piaste

Farces

Petez Squens

Horribilicribrifax

Pièces de Théâtre de Lohenstein

Cleopatra

Sophonisbe

Ibrahim Bassa

Agrippina

Epicharis

FIN §

Pensées
sur
la déclamation
§

[Pensées.1] Celui qui n’est pas destiné à s’exercer dans un art ne peut être blâmé s’il en ignore les principes ; mais celui qui le fait par profession est responsable à la République s’il n’en sait pas à fond la théorie et la pratique. Les différents emplois dont les hommes sont chargés dans la vie civile, sont les effets de la Providence qui nous conduit, et c’est un crime d’en ignorer la moindre connaissance, ou d’en négliger la plus parfaite acquisition.

[Pensées.2] L’expérience nous démontre, cependant, qu’il y a des hommes qui regardent l’art qu’ils exercent comme le tyran de leurs inclinations, et qui reprochent à la fortune de les avoir assujettis à un travail pour lequel ils se sentent de l’aversion et que, faute de talents, ils ne peuvent soutenir avec honneur. De là vient qu’on trouve quantité de personnes qui négligent leur profession et qui en ignorent les principes et les règles, en l’exerçant cependant toute la vie.

[Pensées.3] Il serait aisé de démontrer l’injustice d’un pareil procédé : l’histoire des grands hommes dans les sciences et dans les beaux-arts nous présente nombre d’exemples qui nous persuadent du contraire : on a vu très souvent, et on le voit tous les jours, qu’un homme à qui la nature n’a point donné les talents nécessaires, ni d’inclination, pour l’exercice de la profession qu’il a embrassée parvient, avec le travail, presque au même degré de perfection que celui qui y est porté par goût, et à qui la nature a prodigué tous les dons.

[Pensées.4] Parmi les arts, il en a un qui est abandonné, ou négligé, dès le premier instant qu’une personne en fait essai, et qu’elle s’aperçoit qu’elle n’a pas les talents que la profession exige. On s’imagine qu’il est impossible d’acquérir les dispositions qu’on n’a pas, ou de corriger les défauts qu’on a, et de surmonter les difficultés qu’on y rencontre. C’est l’art de la déclamation : tout le monde sait cependant que Démosthène est un témoin irrécusable pour faire rougir les lâches et un excellent modèle pour encourager les laborieux.

[Pensées.5] L’art de la déclamation consiste à joindre à une prononciation variée l’expression du geste pour mieux faire sentir toute la force de la pensée.

[Pensées.6] Il ne suffit pas à un orateur d’avoir une belle voix, et un mouvement noble et gracieux, pour remplir tous ses devoirs à l’égard de la déclamation. Tous les jours on voit des orateurs qui, avec toutes ces parties, ont vieilli dans des mauvaises façons de déclamer, faute d’avoir songé que la nature ne polit pas les diamants en les formant et qu’ils ne brillent qu’à force de travail.

[Pensées.7] Si l’on pouvait suivre les progrès des plus grands orateurs de notre siècle, on saurait, j’en suis sûr, que plusieurs entre eux ont commencé très faiblement, et même avec des façons désagréables, et que ce n’est que par une grande étude et par un long travail qu’ils ont réformé des défauts monstrueux dans leur déclamation. Les grands maîtres de l’AntiquitéCicer., Quint. sont regardés par bien des gens comme des législateurs peu respectables, et, quoique les savants les estiment, la plupart des orateurs ne les suivent point, comme si l’on pouvait penser autrement qu’eux sans s’écarter des grands principes de la vérité. Les gens d’esprit ont senti, en les lisant, que leurs préceptes n’ont fait que leur répéter, le plus souvent, ce que l’âme leur avait dit d’avance : on peut quelquefois trouver les mêmes idées qui s’étaient présentées aux Anciens après un examen sérieux, et c’est ce qui a fait penser à quelques Modernes qu’il est inutile de les lire, mais je soutiens que c’est justement pour cela qu’il faut les étudier.

[Pensées.8] Il est vrai que lorsqu’on raisonne sur un art qui ne prend ses principes que de la pure nature, une personne peut l’apprendre d’elle-même, quelque médiocre que soit sa conception ; mais cela ne se peut que jusqu’à un certain point, car quoiqu’il soit vrai qu’en fait de déclamation, l’ignorant trouve dans le fond de son âme le principe qui lui fait concevoir les premières vérités de ce grand art, cependant, s’il veut les approfondir, il aura besoin d’un guide qui lui donne des connaissances auxquelles son esprit peu formé ne pouvait atteindre. D’un autre côté, l’homme de génie ne doit pas éviter de les lire, ces anciens maîtres, parce que, outre qu’ils abrègent du chemin à l’imagination, ils fournissent encore des idées pour en raisonner.

[Pensées.9] L’éloquence et la déclamation ont été nécessaires et en usage depuis les temps le plus reculés ; elles ont civilisé les peuples les plus barbares et ont toujours été en grande estime parmi les plus polis. Cet art de déclamer est appelé « l’éloquence extérieure » : en effet, les arguments les plus forts et les plus vrais, étant lus seulement sur le papier, n’auront jamais la même force que nous y sentons lorsque la voix vivante les anime avec justesse par une belle déclamation ; et il faut convenir que toutes les deux ensemble forment le parfait orateur.

[Pensées.10] Ceux qui ne sont qu’apprentis dans l’art de la déclamation ne devraient jamais nous exposer à la nécessité de les entendre ; car, s’il était possible, il faudrait être maître la première fois que l’on se présente pour parler en public. Je ne sais pas s’il y a dans la vie rien de plus pénible que d’entendre un discours mal déclamé ; on peut se dispenser de faire une longue séance devant un mauvais tableau, devant une statue dont les proportions seront bizarres et choquantes, etc. ; mais, lorsqu’on entre dans une assemblée pour entendre un discours, la bienséance vous engage à l’écouter du commencement jusqu’à la fin et, malheureusement, cela n’arrive que trop souvent par les occasions fréquentes et par le nombre considérable de personnes qui exercent cet art. Les orateurs sacrés, le barreau, les académies, les collèges, la Sorbonne, les sociétés savantes, les conversations, les disputes, les écrivains sur tant de matières, les théâtres publics, les particuliers, tout engage dans la vie à savoir l’art de la déclamation.

[Pensées.11] C’est une erreur de s’imaginer que parmi les différents états que je viens de nommer il y en ait quelques-uns qui n’aient pas besoin de savoir cet art. Les écrivains même qui ne paraissent qu’à l’impression n’en sont pas exempts. Il n’y a point d’auteur qui n’ait des amis et qui, avant que de livrer son ouvrage au jugement du public, ne rassemble différentes personnes auxquelles il fait lecture de son manuscrit, pour savoir à peu près l’effet qu’il fera lorsqu’il paraîtra au jour. Pour les ouvrages de poésie il ne faut pas en douter un instant, car messieurs les poètes aiment à prôner leurs vers par toute la ville sans intention même de les imprimer ; les uns et les autres, donc, sont dans l’obligation de savoir déclamer. La mauvaise façon de s’énoncer jette les auditeurs dans une langueur et dans un ennui qui ne présage aux auteurs qu’un succès très douteux d’un ouvrage (excellent quelquefois) parce qu’ils n’ont pas l’art de le faire sentir.

[Pensées.12] Je sais bien que parmi les Anciens (que nous ne pouvons pas refuser pour nos maîtres dans l’art de la déclamation), les mauvais orateurs n’étaient pas rares ; ainsi, l’on pourrait me répondre qu’il n’est pas étonnant qu’il arrive la même chose de notre temps : j’en conviens, et je n’en suis pas étonné d’une certaine façon ; mais cette vérité ne peut excuser ceux qui, n’étant pas nés avec les talents naturels pour la déclamation, l’exercent cependant sans se donner la peine de les acquérir.

[Pensées.13] Au reste, je renferme sous l’ « art de la déclamation » tout ce qui est du ressort de la langue qui articule et qui parle : il n’y a point de discours si familier, ni de conversation si simple et si paisible qui n’ait ses inflexions de voix marquées par la nature même ; et c’est une erreur de croire qu’un académicien, par exemple, ne soit point obligé de savoir déclamer, attendu que tout ce que l’on lit dans ces assemblées n’est que dans le ton simple et presque familier. Je soutiens, au contraire, qu’il n’y a pas de discours familier qui, dans les tons qui lui sont convenables, en soit exempt. Il n’y a personne dans le monde qui ne soit obligé de les chercher avec attention, et pour la moindre chose qu’on prononce, si l’on veut que ce que l’on dit fasse l’impression qu’il doit faire.

[Pensées.14] Je ne détaillerai point cette variété immense d’inflexions dont la voix est susceptible et qu’on est obligé d’employer dans les différentes occasions pour rendre avec justesse tant de pensée innombrables. Je suis persuadé que tout ce que l’on peut écrire là-dessus ne suffirait jamais au besoin et qu’il est presque impossible de remplir le sujet ; si Quintilien, à propos de l’action de l’orateur, dit qu’il ne faut pas qu’il s’en tienne toujours aux préceptes, mais qu’il doit prendre conseil de son naturelQuint. In pronunciatione, lib. II. cap. 3 § 6., je crois pouvoir dire la même chose sur l’article des inflexions de la voix ; je pense même qu’il est inutile d’en donner des règles, parce que généralement parlant, ces inflexions sont à l’infini et n’ont point de règles sûres, si chacun suivant son naturel grave ou léger, doux, ou véhément, les diversifie à proportion.

[Pensées.15] La nature ne s’est jamais répétée en formant les hommes, pas même dans les plus petites parties du corps ; non seulement on ne trouve que très rarement deux visages qui se ressemblent, mais on n’en trouve jamais qui soient parfaitement ressemblants jusqu’à pouvoir dire que c’est la même chose ; de même, on ne trouvera jamais dans deux personnes les yeux, les mains, la bouche, les oreilles, le nez qui soient ressemblants, ni par la couleur, ni par la forme, ni par la proportion. Cette admirable opération du Père de la nature qui a rendu la forme des corps humains si dissemblable, dans le tout et dans ses parties, nous conduit naturellement à une autre réflexion. Parmi ces variétés surprenantes, on remarque entre autre que jamais la voix des hommes ne se ressemble ; cette inégalité ne peut venir que dans la différence qu’il y a des uns aux autres dans la construction des organes intérieurs. Or, comment peut-on s’imaginer de prescrire des tons certains et convenables à tant de millions d’hommes, dont chacun a une voix différente, et dont chacun en fera usage suivant son naturel ? Ce serait bien assez de les marquer en général, ces tons, pour le triste, pour l’enjoué, pour le sérieux et pour tout le reste ; je crois même qu’il est inutile d’en tracer des exemples par écrit, il faut nécessairement les donner de vive voix, et que la pratique d’un habile maître en fasse sentir toute la finesse.

[Pensées.16] Si nous pouvions pénétrer dans le fond de notre âme et l’examiner à découvert, nous n’aurions pas de peine à les trouver, ces tons : elle les renferme tous, puisqu’ils lui sont nécessaires pour nous communiquer les perfections admirables dont l’Auteur de la nature l’a rendue dépositaire ; mais, comme la matière qui l’enveloppe est un obstacle à notre âme pour se communiquer, il faut lui faire prendre l’essor et la débarrasser, autant que l’on peut, de la matière qui la gêne. Pour y réussir jusqu’à un certain point, il faut auparavant, je crois, affranchir notre esprit de l’esclavage de nos sens. Cette opération, quoique très violente, ne nous est pas étrangère.

[Pensées.17] L’enthousiasme des poètes et les profondes réflexions des savants, dans le temps qu’ils composent, ne sont que l’effet d’un grand recueillement de leur esprit, qui examine la source des sentiments intérieurs et de passions de l’âme : c’est alors qu’ils voient la colère, la compassion, la vengeance, la tendresse, et le reste des passions en elles-mêmes, en sorte que la peinture qu’ils en font ensuite est tellement vive et véritable que les lecteurs n’y trouvent rien à retrancher, ni rien à ajouter.

[Pensées.18] On s’étonne de surprendre quelquefois ces hommes dans le moment de l’enthousiasme, et de les trouver comme des stupides, sans oreilles pour entendre, et sans yeux pour voir. On les regarde comme des fous : on les réveille enfin et, en les tirant de la méditation où ils étaient plongés, on leur fait perdre tout d’un coup des vues et des idées qu’ils venaient d’apercevoir après un long travail. Quelle perte ! Elle est presque toujours irréparable, car il arrive très souvent que les savants ou les poètes ne se rappellent plus de leur vie ces vues ni ces pensées, et ne retrouvent plus ce moment précieux dans lequel (lorsqu’on les a détournés) ils lisaient dans leur âme.

[Pensées.19] Les Anciens ont appelé la poésie un langage divin, et la raison que les Modernes en donnent, c’est parce que les premiers théologiens des païens ont été poètes, qu’ils n’ont parlé des dieux qu’en vers ; et, enfin, parce que la poésie était le langage ordinaire des oracles. Mais nous qui n’avons pas la même croyance des païens, d’où vient que nous appelons la belle poésie un langage divin aussi bien qu’eux ? Pour moi, je suis persuadé que la première raison, tant pour les Anciens que pour les Modernes, vient de ce qu’on a regardé la poésie comme un langage qui est au-dessus de l’humanité ; puisqu’en effet, lorsque le poète, par son enthousiasme, parvient à parler le langage de l’âme, nous entendons quelque chose qui nous surprend et qui nous force à le caractériser de divin.

[Pensées.20] Or, comment pourrait-on réciter ou déclamer de tels ouvrages autrement qu’avec les tons de l’âme aussi ? C’est pour cela qu’il me paraît inévitable que les orateurs, les savants, les poètes, etc. entrent aussi en enthousiasme en déclamant, de la même façon qu’ils ont fait en composant. Si l’âme qui en a inspiré les pensées en dicte pareillement la prononciation, les tons seront vrais et seront variés à l’infini, depuis l’héroïque le plus élevé jusqu’au familier le plus simple. On sent aisément que les efforts pour entrer dans l’enthousiasme de la déclamation ne peuvent pas être si violents que ceux dont on s’est servi pour composer : la façon de le faire est naturelle et nous la voyons pratiquer tous les jours, en apparence du moins.

[Pensées.21] Il n’y a point d’orateur qui, après avoir salué ses auditeurs, ne soit quelques instants immobile et sans rien dire ; très souvent il ferme les yeux ; on croit ordinairement que c’est pour donner le temps aux spectateurs de se composer, afin qu’ils soient en état de l’entendre avec plus d’attention ; je pense même que le plus grand nombre des orateurs ne le font qu’à cette intention : les uns et les autres sont dans l’erreur. Les moments que l’orateur se donne, il ne doit les employer qu’à se recueillir : une minute lui suffit pour oublier toute la nature et pour se remplir uniquement de son sujet. Si, après avoir fermé les yeux dans le temps de son silence, il vient à les ouvrir, lorsqu’il veut commencer son discours, quoiqu’il paraisse regarder tout le monde, il n’envisage personne en particulier ; et si, par hasard, son regard s’arrête sur quelqu’un, il ne le distingue point, et c’est peut-être l’instant le plus fort de son recueillement. C’est alors qu’en commençant son discours (de quelque nature qu’il soit), il sera entré en enthousiasme autant qu’il le faut pour déclamer avec les tons de l’âme.

[Pensées.22] Ce n’est pas au hasard que l’on dit communément : « Cet orateur n’anime pas ce qu’il dit », ou « Il y a quelques endroits dans cet ouvrage qu’il faudrait animer ». C’est parce que l’enthousiasme en question manque à l’un et à l’autre, et que celui qui a écrit, aussi bien que celui qui a parlé, n’ont pas tâché, par de puissants efforts, de s’ « animer », c’est-à-dire de parler ou d’écrire suivant les sentiments de leur âme toute pure et détachée, pour ainsi dire, de la matière.

[Pensées.23] La parole n’est pas le seul moyen dont se sert l’art de la déclamation pour exprimer les sentiments de l’âme. La nature a mis dans les yeux des expressions convenables, afin qu’ils soient aussi les interprètes de ces mêmes sentiments ; et l’on peut dire que, dans la déclamation, les yeux occupent la plus belle place. Cicéron et Quintilien ne les ont pas oubliés et, cependant, combien voyons-nous d’orateurs qui seraient peut-être parfaits s’ils ne déclamaient pas la moitié du temps les yeux fermés ? De quelque façon que cela arrive dans l’orateur, soit par la crainte qu’il a de se distraire, ne se fiant point à sa mémoire, soit par une finesse de l’art qui peut lui suggérer de fermer les yeux pour un instant, afin qu’en les ouvrant après, ils devancent comme des éclairs la foudre que l’orateur est prêt à lancer par la force de son expression (ce qui est à la vérité un grand coup de maître), je ne conseille pas cependant aux orateurs de s’en faire une habitude : soit précaution, soit artifice, cela peut devenir également dangereux, car en fermant souvent les yeux, l’expression perd une grande partie de sa force.

[Pensées.24] Il est donc indispensable de joindre les yeux à l’enthousiasme de la déclamation, parce qu’il est certain que les yeux expriment le moindre des sentiments de notre âme ; on peut dire même que, sans l’expression muette des yeux, la parole ne pourra jamais suffire à l’expression presque divine que l’âme exige de nous ; et nous ne devons pas douter un instant que nos yeux n’y contribuent, depuis la plus grande jusqu’à la plus petite des parties, à l’infini de cette même expression. En les examinant avec attention, nous trouverons que nos yeux, sans même emprunter le secours de la parole, expriment la crainte, la fureur, la honte, la hardiesse, l’ironie, la tendresse, l’indifférence, l’envie, la joie, la douleur et le nombre inexprimable des sentiments de notre âme.

[Pensées.25] Si l’orateur est profond dans son art, il ne sera pas content d’accompagner seulement la parole avec l’expression des yeux, il fera que celle-ci précède l’autre d’un instant ; par exemple, dans une période qui doit commencer par l’éclat d’une violente colère, si l’orateur, dans la petite pose qu’il fait à l’art, avant que de parler, d’exprimer la colère par un seul regard, il préviendra si bien le spectateur de ce qu’il va lui dire qu’il le fera entrer tout d’un coup dans des dispositions qui, par la suite du discours, lui feront recevoir plus aisément les impressions que l’on demande. C’est la même chose de toutes les autres passions.

[Pensées.26] Parmi les opérations expressives des yeux, il y en a une de très grande conséquence. L’orateur doit bien se garder de s’exciter aux larmes, mais aussi il ne doit pas faire le moindre effort pour les arrêter, si elles viennent naturellement. Lorsqu’on veut pleurer par force, l’on fait des grimaces qui choquent ou qui font rire ; mais, lorsqu’on pleure sans le vouloir, il arrive rarement que les grimaces que l’on peut faire soient désagréables. Les orateurs qui s’étudient à pleurer ne sont pas pénétrés de ce qu’ils disent, car lorsque c’est l’âme qui parle, les larmes n’ont pas besoin des opérations de la machine pour couler. Dans le premier cas, on connaît l’artifice et les larmes ne font point d’effet ; dans le second, elles touchent, et emportent les suffrages des spectateurs.

[Pensées.27] On ne saurait se persuader que le reste du visage ne jouisse de la faculté glorieuse des yeux pour exprimer les sentiments de l’âme ! Le reste du visage y contribue si bien que la parole et les yeux ont extrêmement besoin de son secours pour parvenir à leur but. Un visage inaltérable n’est pas une chose bien rare à trouver dans un orateur, et nous entendons tous les jours les spectateurs s’en plaindre en disant : « c’est un visage qui ne dit rien ». La parole du visage consiste dans les muscles dont il est fourni et dans le sang qui l’anime : les muscles et le sang, lorsqu’ils sont mis en action, expriment très sensiblement, par la couleur et par le mouvement, nos sentiments intérieurs, et non seulement le visage accompagne l’expression de la voix, mais il parle encore tout seul. Le savant Racine s’en servit bien à propos dans Mitridate, lorsqu’il fait dire à Monime : « Seigneur vous changez de visage ? ». Le poète nous expose dans cette situation Mithridate qui dissimule le trouble de son âme et qui ne parle point pour ne pas donner à Monime le moindre soupçon ; mais en même temps, comme le poète voulait que, malgré l’adresse de Mithridate, Monime se doutât de ce qui se passait en lui, il se sert de l’expression muette du visage. Il faut avouer que c’est un grand coup de maître en fait de théâtre, et qui nous apprend jusqu’où l’on peut aller, lorsque l’on suit toujours la nature de près. Je remarque aussi qu’il fallait que Racine fût bien sûr de son fait pour l’habile exécution du comédien qui jouait le rôle de Mithridate : il lui avait comme prescrit l’instant dans lequel son visage devait changer, ce qui n’est pas si aisé à faire. Je pense que les plus grands acteurs de théâtre doivent trembler lorsque ce moment approche, car ils sont dans le risque ou de ne point du tout changer de visage, ou de faire une grimace. Ce passage de Racine est une belle instruction à tous les comédiens : car il ne leur suffit pas d’écouter l’acteur qui parle, il faut encore entrer si vivement dans ce qu’on leur dit que, pour faire connaître l’impression qu’a faite sur eux ce qu’ils viennent d’entendre, il est nécessaire qu’ils changent de visage, même sans parler. Or, si le visage parle tout seul, à plus forte raison doit-on se persuader qu’il accompagne l’expression de la voix.

[Pensées.28] Il faut ce point prendre bien garde, cependant, et distinguer la différence qu’il y a entre le changement de visage qui exprime les sentiments de l’âme et les grimaces de ceux qui jouent du visage : le premier est du ressort de l’orateur, mais les autres sont l’apanage du Scaramouche. Celui qui entrera fortement dans l’enthousiasme nécessaire, et qui déclamera dans les tons de l’âme, parviendra à faire que son visage réponde et accompagne les expressions de la parole par les changements de couleur que le sang lui prêtera, et sans les mouvements diversifiés que les muscles lui fourniront. Cet accompagnement des yeux et du reste du visage est indispensable à l’expression, autant que l’accompagnement des instruments peut l’être à une belle voix qui chante ; si les yeux et le visage n’accompagnent pas la déclamation, c’est comme si le violon et la basse qui devraient accompagner la voix s’arrêtaient : le plaisir de la musique diminue et l’effet de l’expression s’affaiblit.

[Pensées.29] Si les mouvements du corps et des bras ne tiennent pas une place aussi honorable que celle des yeux et du visage, dans l’art de la déclamation, ils ne sont pas pour cela inutiles ni méprisables. Un parfait orateur destitué de l’avantage d’un maintien noble et d’un geste gracieux perd beaucoup de son mérite ; les bras ont leur éloquence aussi bien que le visage, et l’enthousiasme de cet art (lorsqu’il est vif), s’il n’ajoute pas des grâces à la nature sur l’article des bras, il lui donne de la force du moins. Car je ne disconviens pas que c’est de la nature seule qu’on a le don de les remuer avec dignité et avec grâce. C’est un droit de la nature de construire les corps humains selon qu’il lui plaît. On voit deux personnes qui sont également bien faites, et dont cependant l’une est très disgracieuse dans ses mouvements et dans tout ce qu’elle fait, et l’autre au contraire très agréable. S’il arrivait qu’un orateur n’eût pas de la nature le don de porter ses bras, il lui manquerait une chose très essentielle. Toute la peine qu’il pourrait se donner avec le secours d’un miroir et toute son étude ne lui feraient acquérir que de l’affectation dans les bras, et non pas de la vérité ; et, quoique l’on dise que Démosthène usait de la méthode de consulter un miroir pour composer ses mouvements, moi, j’en juge tout différemment. Que sait-on si le soin qu’il se donnait n’était pas plutôt pour perfectionner les talents qu’il avait que pour chercher comme les autres des talents qu’ils ne possèdent point ? Et s’il ne le faisait pas plutôt pour augmenter les agréments de sa déclamation que pour en corriger les défauts ?

[Pensées.30] L’orateur qui se trouve dans le cas d’avoir un geste défectueux, au lieu de s’étudier à donner de l’action à ses bras, doit se gêner au contraire à ne point les remuer du tout : son application doit se tourner du côté de la déclamation, qu’il doit s’efforcer de porter au plus haut degré de perfection qu’il lui sera possible. S’il parvient à déclamer dans l’enthousiasme des tons de l’âme, alors il remuera les bras sans s’en apercevoir, parce que ce sera l’âme qui les y forcera, et ses gestes ne porteront jamais à faux.

[Pensées.31] Quant à celui qui, par prédilection de cette même nature, se trouvera bien partagé sur ce point, s’il n’a pas besoin d’étudier ses gestes, il est obligé du moins de prendre bien garde à ne pas les prodiguer. Il lui arrivera ce que l’on blâme si fort dans un certains orateurs qui, ayant une poitrine forte et une voix sonore, l’élèvent continuellement avec violence, de façon qu’ils perdent le grand mérite de donner aux expressions la variété des tons qui est si nécessaire pour la peinture et pour l’intelligence des pensées ; de même, celui qui ne ménage point ses gestes fatiguera la vue des spectateurs jusqu’à les distraire et les empêcher d’entendre.

[Pensées.32] Les tons de l’expression et les mouvements du corps et des bras sont d’une parfaite intelligence et marchent toujours conjointement : ils agissent avec une telle harmonie que, si l’un se dérange, la faute en rejaillit sur l’autre ; et la perfection de l’un des deux ne peut pas le garantir du dommage qui résulte du défaut de l’autre. En effet, comment les yeux des spectateurs peuvent-ils, par exemple, être affectés agréablement par le mouvement noble et gracieux du corps et des bras, et se disposer à communiquer à l’âme le plaisir qu’ils devraient naturellement en ressentir, si, dans le même instant, les oreilles qui sont blessées des tons de l’orateur portent à l’âme une sensation tout à fait différente de celle que les yeux se préparaient à lui porter ?

[Pensées.33] Depuis la plus petite jusqu’à la plus grande des parties que l’on voit dans la construction du corps humain, tout nous découvre le divin ouvrier qui forma ce chef-d’œuvre des créatures ; or, nous voyons que, par la disposition de la nature, nous sommes contraints à faire que toutes ces parties du corps concourent dans l’art de la déclamation ; il n’en est pas de même dans les autres arts, ni dans la mécaniques : la peinture, par exemple, n’occupe point une partie de nos sens, et l’on peut, en peignant, parler, écouter, chanter, etc., et ainsi des autres. Dans l’art de la déclamation, jusqu’à la pensée nous est interdite, et si cette opération de l’esprit, qui a un empire absolu sur notre volonté, et qui nous distrait malgré nous, vient nous surprendre dans le temps qu’on déclame, elle en est repoussée malgré elle, car la déclamation la force à sortir de notre tête, ne pouvant pas agir en sa compagnie ; nous ne sommes pas, de même, les maître de la pensée dans les autres opérations humaines pendant lesquelles les pensées se succèdent les unes aux autres en dépit de nous. Que peut-on conclure, sinon que cet art qui enchaîne (pour ainsi dire) tous nos sens est un art presque divin, que notre âme en est le seul artisan et que nos membres et nos organes n’en sont que les ministres ? Je répéterai donc toujours qu’on ne peut déclamer qu’avec les tons de l’âme et que, sans cela, on ne déclame point.

[Pensées.34] J’ai dit autre part qu’il faut grossir les objets, sur le théâtre, et passer un peu les bornes de la nature, afin que l’expression et l’action ne se perdent pas pour ceux spectateurs qui sont éloignés ; je dis la même chose pour la chaire et pour les harangues, mais il faut que l’orateur et que le comédien le fassent avec une grande prudence, et jusqu’à un certain point, pour ne pas déplaire à ceux qui sont le plus près, et surtout pour ne pas trop altérer la nature et nuire à la vérité.

[Pensées.35] Je ne parlerai pas de la nécessité indispensable de bien prononcer, parce que tout le monde la conçoit ; je dirai seulement que celui qui ne peut corriger les habitudes de quelque dialecte, ou les défauts de la nature, ne doit jamais entreprendre de déclamer en public, étant exposé au risque de faire rire, lorsqu’il devrait faire pleurer.

[Pensées.36] Enfin, pour rendre encore plus sensible la proposition que j’ai avancée de déclamer avec les tons de l’âme, d’où dépend la bonne ou la mauvaise réussite d’un orateur ; et, pour expliquer ce que l’on doit entendre par « les tons de l’âme », on n’a qu’à se souvenir de ce que personne n’ignore. « Sentir ce que l’on dit » : voilà les tons de l’âme. On ne sent pas ce que l’on dit pour déclamer avec bon sens, et pour entendre ce que l’on prononce : sentir est une autre chose. Pour le démontrer, il faut que je fasse une digression.

[Pensées.37] Il est certain que l’orateur doit s’étudier à faire illusion à son auditoire sur un point important, qui fait le tout dans l’art de la déclamation. Ordinairement, l’homme hésite avant que de changer d’avis, il cherche à s’assurer si c’est la raison qui le persuade ou l’esprit de l’orateur qui le séduit. Pour son honneur, l’orateur donc est obligé de détruire ou d’empêcher qu’un pareil soupçon n’entre dans l’esprit des spectateurs et des juges. Il faut pour cela qu’il déclame si naturellement, qu’il force, pour ainsi dire, les spectateurs à croire que tout ce qu’il dit, il le pense dans l’instant même ; car tout ce qui est écrit porte avec soi la supposition presque certaine que l’orateur, en composant, a employé toutes les subtilités imaginables pour parvenir à son but. Au contraire, ce qui paraît débité sur le champ a un air de simplicité et de vérité qui prévient en faveur de tout ce que l’on dit. Donc, si la déclamation est naturellement vraie jusqu’à ce point, alors l’illusion sera parfaite ; et si, par hasard, la harangue était imprimée, on admirera toujours la vérité avec laquelle l’orateur la déclame, qui est ce que l’on peut faire de mieux. Si l’acteur de théâtre, en représentant sur la scène, s’y prend de façon à nous persuader que ce sont les personnages mêmes que nous entendons, et non pas le comédien qui les représente, si l’avocat, en parlant en la personne de celui qu’il défend, parvient aussi à faire croire que c’est l’innocent lui-même qui demande justice, ou que c’est le coupable lui-même qui demande miséricorde, je le répète encore, alors l’illusion sera parfaite, alors on sentira ce que l’on dit, et c’est alors qu’on déclamera avec les tons de l’âme.

[Pensées.38] Il est aisé de comprendre qu’en parlant de la déclamation en général, tout ce que j’en ai dit peut s’appliquer aux orateurs profanes aussi bien qu’aux orateurs sacrés ; je ne puis me dispenser, cependant, de toucher particulièrement quelque point à l’égard des derniers.

[Pensées.39] Quant à la façon de déclamer du prédicateur, la matière qu’il traite est trop grave pour ne pas sentir qu’elle doit être exprimée avec des tons, simples à la vérité, mais remplis de dignité et toujours vrais. Parmi les orateurs sacrés, il y en a plusieurs qui prennent pour modèle la déclamation de théâtre et ne suivant point la méthode naturelle dont ordinairement le barreau fait usage. Je pense qu’il est nécessaire d’examiner auparavant cette déclamation de théâtre, et connaître la force et la qualité de ses tons, pour décider ensuite si l’on peut en faire usage dans la chaire. Excepté dans la déclamation tragique où la période commence ou finit presque toujours par un grand cri, on ne peut disconvenir que les mots allongés et traînés avec monotonie, que les éclats de voix, ou poussés avec trop de violence, ou mal placés, ne soient partout ailleurs le poison de la nature. On cherche des tons dans la tragédie, que ni la musique en chantant, ni les hommes en parlant n’ont jamais pratiqués. D’où vient qu’un avocat ne s’avisera point de plaider avec les tons affectés et recherchés de la déclamation de théâtre ? C’est que, de tout temps, les orateurs ont senti que ce sont des hommes qui parlent à des hommes, et que pour cela il ne faut pas se servir d’autres tons que de ceux que la nature inspire aux hommes.

[Pensées.40] Je suis persuadé que c’est une erreur de nos pères d’avoir imaginé la déclamation de théâtre telle qu’on la voit en France. Le grand point sur la scène, comme j’ai déjà dit, est de faire illusion aux spectateurs, et de leur persuader, autant qu’on le peut, que la tragédie n’est point une fiction, mais que ce sont les mêmes héros qui agissent et qui parlent, et non pas les comédiens qui les représentent. La déclamation tragique opère tout le contraire : les premiers mots qu’on entend sont évidemment sentir que tout est fiction, et les acteurs parlent avec des tons si extraordinaires et si éloignés de la vérité que l’on ne peut pas s’y méprendre. Est-ce donc la déclamation de théâtre qu’il faut choisir pour modèle dans la chaire ? Non, assurément, et tout autre orateur profane n’a pas une si étroite obligation de déclamer dans le vrai, et dans les tons de l’âme que l’orateur sacré ; et il est certain que le prédicateur qui prononcera un sermon avec les tons de la déclamation de théâtre ne touchera jamais. On pourrait me répondre que si l’acteur touche dans la tragédie, le prédicateur peut toucher dans un sermon, s’il excelle dans les tons de cette déclamation : je soutiens que non, et voilà comme je pense.

[Pensées.41] Le plus grand nombre des spectateurs français n’est pas en état de sentir ce qu’on appelle vérité d’action ; on s’accoutume de bonne heure à la déclamation de théâtre : les jeunes gens ne raisonnent point, et l’on parvient à l’âge de maturité sans avoir jamais fait des réflexions solides sur cette matière. Si des auditeurs qui sont dans de pareilles dispositions sont touchés dans la tragédie, c’est parce qu’ils se font une illusion d’habitude où la raison n’a nulle part. Tout le monde sait que César, Alexandre, Hannibal, et toutes héros de l’Antiquité étaient des hommes comme nous, et l’on est persuadé qu’ils ne traitaient pas les plus grandes passions, ni les actions les plus héroïques, autrement que les grands hommes de nos jours ; cependant ces même spectateurs séduits dès leur tendre jeunesse par l’expression outrée de la déclamation tragique, prennent les héros de l’Antiquité sur le pied que les comédiens veulent bien les leur donner ; c’est-à-dire, comme des hommes extraordinaires ; on les voit marcher, parler tout autrement que nous, et avoir une contenance tout à fait différente de la nôtre. Or, suivant cette fabuleuse imagination que les spectateurs ont adoptée et dont ils sont frappés, ils s’en font une illusion si forte, qu’ils se laissent emporter au-delà du vrai en tout ce qu’ils voient, et en tout ce qu’ils entendent. Si les comédiens touchent dans les situations de la tragédie, ce n’est que par la seule raison, que les spectateurs se sont accoutumés au bizarre de la déclamation, et qu’elle ne fait plus sur eux l’impression qu’elle devrait faire ; car s’ils envisageaient la nature et la vérité telles qu’elles sont en effet, ils en seraient révoltés. Je ne donnerai pour garant de ce que je viens de dire que deux exemples qui méritent de passer à la postérité et d’être éternellement gravés dans l’esprit des comédiens. Nous avons vu de notre temps le Baron et la Lecouvreur toucher tout le monde avec une déclamation simple et naturelle, et le bon sens veut que nous ne cherchions point de plaisir dans la fiction, lorsque nous pouvons l’avoir dans la vérité, surtout dans une profession comme celle du comédien, qui n’emprunte ses traits que de la nature même. Presque tous les étrangers qui entendent pour la première fois la déclamation tragique en sont d’abord dégoûtés à l’excès ; il est vrai que les applaudissements de la nation les séduisent quelquefois, et qu’ils entrent bien souvent dans la corruption du pays, mais sans chercher loin d’ici des preuves de cette vérité, j’ai trouvé dans Paris plusieurs Français qui abhorrent cette sorte de déclamation et qui ne vont jamais à la tragédie ; ce sentiment se rencontre dans des personnes de grand génie et de goût : ils sont indignés, disent-ils, de voir la nature et la vérité si défigurées dans la tragédie. Comment donc une telle déclamation pourrait-elle être convenable à l’orateur sacré ? Si le prédicateur, par les faux tons de sa prononciation déguise les grandes vérités qu’il débite, les auditeurs (en convenant même de ces vérités) ne pourront jamais en être touchés. Un grain de fausseté (s’il m’est permis de m’exprimer ainsi) altère toute la masse du vrai, et l’esprit humain ne peut pas s’accoutumer à les voir associés ensemble.

[Pensées.42] Il est encore sensiblement vrai que, dans le ton général de la déclamation de l’orateur sacré, quoiqu’il doive toujours être vrai et naturel, on y doit cependant distinguer trois différences remarquables : le sermon, le panégyrique, et l’oraison funèbre. Le zèle, l’admiration et la douleur doivent régler les tons de trois sujets, en sorte que l’orateur soutienne toujours et fasse dominer le ton principal qui convient à chacun de ces trois genres.

[Pensées.43] On sent aisément que chacun de ces trois tons, soit celui du zèle, soit de l’admiration, soit de la douleur, ne peut pas être seul, et que l’orateur doit embrasser tous les tons en traitant la même matière : par exemple, dans le sermon où le zèle doit faire le ton principal, les tons d’admiration et de douleur, ainsi que les autres, n’en sont point exclus, selon que les moments et que les pensées le demandent ; de la même façon dans le panégyrique. Outre le ton principal de l’admiration pour les actions glorieuses du saint qu’on célèbre, tous les autres tons, et ceux du zèle et de la douleur, peuvent y être employés suivant l’occasion, et même ils y seront peut-être indispensables. Je dis la même chose de l’oraison funèbre, et, quoiqu’il semble qu’elle ne fasse presque qu’un même sujet avec le panégyrique, et que l’admiration des grandes actions des princes et des personnages qu’on expose aux auditeurs ait sa grande part dans le ton, cependant la douleur doit tenir la principale place dans l’oraison funèbre, et c’est en cela qu’elle diffère du panégyrique. Car il est bien vrai qu’on expose avec une égale admiration les faits glorieux des saints et des héros, mais avec cette différence qu’on rappelle la mémoire des premiers avec une admiration mêlées de joie, les regardant comme des bienheureux dans le Ciel, et que l’on ne peut célébrer les grandes actions des seconds qu’avec une admiration mêlées de douleur, et en nous attristant de la perte que nous venons de faire. Voilà pourquoi la douleur doit être le ton dominant de l’oraison funèbre, non seulement au-dessus du ton de l’admiration, mais aussi au-dessus de tous les autres tons dont l’orateur peut faire usage. Ainsi, pour les tons des trois genres différents, l’art de l’orateur consiste à faire en sorte que la variété immense des tons dont il peut se servir n’offusque en rien le ton principal que son sujet exige. Je n’en dirai pas davantage par écrit, parce que les préceptes les plus instructifs sur ce point, et même les seuls qui puissent être véritablement utiles, doivent être donnés de vive voix, et non par le moyen d’une expression morte, comme celle de l’écriture, suivant que je l’ai dit plus avant.

[Pensées.44] Au reste, j’ai dit au commencement qu’il serait à souhaiter qu’un jeune orateur ne parût jamais en public s’il n’était parvenu à un certain degré de perfection, et je ne puis m’empêcher de le répéter. Il ne doit point exiger que ses auditeurs aient la patience, durant trente ans, qu’il ait atteint la perfection de son art ; car je conviens qu’il peut l’acquérir par un long exercice. Un jeune orateur peut me répondre que l’exercice d’un art forme l’artisan ; je le sais bien et, moyennant les réflexions que j’ai faites, je sais aussi qu’on ne devrait s’exercer qu’en suivant la méthode de Démosthène. Ce grand homme, comme tout le monde sait, commença par essayer cet art une ou deux fois en public, il n’y réussit point, il s’enferma et ne reparut plus que pour faire l’admiration de toute la Grèce. Qu’un jeune orateur en fasse autant : qu’il essaie une fois cet art en public, qu’il l’abandonne s’il n’a point de talents, ou qu’il se perfectionne avant que de reparaître. C’est une chose incompréhensible ! Les grands hommes dans les sciences ont soin de cacher les ouvrages de leur jeunesse, parce qu’ils les connaissent imparfaits. Les peintres, les sculpteurs, les poètes ne mettent point leurs noms aux ouvrages par lesquels ils ont commencé. Les ouvriers ne peuvent point passer maîtres s’ils ne présentent un chef-d’œuvre qui fasse connaître qu’ils méritent ce titre. Et un jeune orateur aura l’imprudence de déclamer en public, sans avoir auparavant exercé ses talents en particulier, ou corrigé ses défauts en secret ?

[Pensées.45] Je suis étonné que, dans des siècles et parmi des nations si bien policées, on n’ait jamais pensé à établir des écoles de déclamation. Les régents des collèges et des écoles publiques donnent bien quelques notions superficielles aux enfants sur les différentes professions qui s’exercent dans tous les états de la vie civile ; mais, comme le soin principal qu’on leur impose est celui d’apprendre aux enfants la langue latine, ils n’ont pas le temps d’approfondir les autres matières ; outre qu’ils ont à faire à une jeunesse qui n’est pas formée, et qui est incapable, non seulement de faire de solides réflexions par elle-même, mais aussi de sentir celles que le régent peut lui faire. Un vieil orateur qui aurait une chaire publique, et qui régenterait sur l’art de la déclamation, serait aussi utile à la société que plusieurs des plus beaux établissements que l’on trouve dans les grandes villes. Les jeunes gens n’étudieraient la déclamation qu’à la fin de leurs études, ils seraient plus avancés en âge, et par conséquent plus à portée de comprendre les raisonnements dont on les entretiendrait, et surtout de retenir les impressions naturelles et frappantes que feraient sur eux de vive voix un modèle animé en déclamant sur tous les différents genres de cet art.

Réflexions historiques et critiques sur les différents théâtres de l’Europe. §

Avec les Pensées sur la déclamation, 1738 §

Nota al testo

In alcune edizioni delle Réflexions, prima dell’avviso «Au lecteur» compare la dedica:

«ALla Sacra Maestà di Elisabetta Farnese, Regina delle Spagne, etc, etc

SACRA REAL MAESTÀ

La mia sorte che già trent’anni seppe trovar intoppi per togliermi il grande onore di essere all’ attuale servigio del Monarca delle Spagne, quando per Reale comando l’Ambasciatore Cattolico doveva spedirmi da Venezia a Madrid; la stessa mia nemica sorte mi rapì per la seconda volta questo onore ne l’anno de gloriosi sponsali della Vostra Reale Maestà. In oggi ripara tante mie perdite la generosa clemenza della Maestà Vostra col permettermi di offrirle questa mia debole operetta.

La materia che ardisco presentare alla Vostra Reale Maestà è cosa indegna del di lei sublime spirito, ma il motivo è confacente a la di lei Christiana pietà. Il Teatro che dopo tanti secoli è stato sempre lo scopo dei due gran Partiti che lo hanno a vicenda assalito, e difeso: la Chiesa, ed il Mondo : non è mai stato, a mio credere, a bastanza svellato perché trionfi la verità. Per quanto per tutta l’Europa abbino tentato alcuni di purgare le rappresentazioni sceniche, non si pervenne mai a quel segno, che la Religione richiede, et che la Civile onestà vorrebbe.

Nell’opera mia esamino lo stato in cui si trovano tutti i teatri viventi, e reputo alla fine che non ve ne sia pur uno, che non abbisogni di riforma; il che è riserbato a farsi, non da Padri della Chiesa che non ponno che fulminar con la voce, ma bensì da qualche pietoso Principe che può operare con la mano. Chi fra questi sarà il Promotore di si grand’opera resta per anche nascosto ne gli abissi de gli Eterni Decreti.

Gli alti disegni della Provvidenza non sono compresi da gli uomini che dopo il fatto. Chi avrebbe già mai pensato che gli Eroi della Gloriosa Casa Farnese dovessero terminare in una Principessa, che è la Maestà Vostra, la quale innestata alla Real Casa di Borbone dovesse tramandare ai Posteri nuovi Eroi, sortiti da due cosi eccelsi Rami! Di ciò tutto il mondo è certo, già che non gli resta il fiacco contento di sperarlo, ma la sicura consolazione di vederlo. Chi sa che ad uno ad uno di questi dato non sia di stabilire una sorta di Teatro, che non solo convenga a spettatori cristiani, ma che tolga ben anco tanti motivi di clamori.

Il vivo desiderio mio per un tanto bene, perché lontano ed incerto, non mi lascia però perder di vista il ben presente, che è quello della somma Grazia che la Maestà Vostra mi concede di consacrarle queste mie debolezze, è persino adrizzarle i miei umilissimi pensieri. Non saprei valermi dell’ordinaria espressione di rendergliene ossequiosissime grazie, già che mi par troppo debole, mentre non v’è compenso fra l’una e le altre: abissato in un profondissimo rispetto mi ristringo però, baciandole il Real Manto, a sottoscrivermi

Della Reale Vostra Maestà,

Umilissimo ed ossequiosissimo Servidore

Luigi Riccoboni.

Commento §

Au lecteur

[Avis.1] réforme: sulla necessità che il teatro italiano dovesse essere riformato dalla sua prospettiva di attore, Riccoboni ritorna in ogni suo scritto sin dall’importante Prefaccio/Préface al Novo Teatro italiano / Nouveau Théâtre italien, Paris, Coustelier, 1716. Lien

[Avis.3] poèmes dramatiques: sia nella lingua italiana che in quella francese è in uso sino a tutto il Settecento l’espressione di poema drammatico per designare soprattutto la tragedia, ma anche la commedia.

[Avis.4] ordre […] du temps: Riccoboni avverte il lettore che seguirà un ordine cronologico rispetto alla rinascita del teatro nel Medioevo.

Théâtre italien §

[1.1] en Italie: Riccoboni si riferisce alla sua Histoire du théâtre italien depuis la décadence de la comédie latine, …, Paris, Delormel, 1728; poi riedita in due voll., Paris, Cailleau, 1731.

[1.2] théâtres des Latins: le rappresentazioni teatrali datano a Roma dal 55 a.C., quando Pompeo fece costruire il primo teatro, alla caduta dell’Impero romano nel 476 d.C.

[1.4] Bibiena: Bibbiena, pseudonimo di Bernardo Dovizi (Bibbiena Arezzo, 1470 – Roma, 1520), scrittore italiano noto soprattutto per la commedia in prosa La Calandria rappresentata per la prima volta alla corte di Urbino nel 1513 con il prologo scritto da Baldassar Castiglione che ne fa un interlocutore del Cortegiano (1528).

Machiavelli: Niccolò Machiavelli (Firenze, 1469 – 1527), scrittore e uomo politico italiano; noto anche come il “segretario fiorentino” per il ruolo ricoperto nella Repubblica di Pier Soderini (1498 – 1512); è ricordato qui come l’autore delle commedie La Mandragola (1518 ca.) e Clizia (1524). Celebri i suoi trattati politici: Il Principe, i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, le Istorie fiorentine, ecc.

Arioste: Ludovico Ariosto (Reggio Emilia 1474 – Ferrara 1533), poeta italiano al servizio dapprima del cardinale Ippolito d’Este, cui dedica la prima edizione dell’Orlando furioso (1516), poi del duca Alfonso. Scrisse cinque commedie: La Cassaria e I Suppositi (rappresentati a Ferrara nel Carnevale del 1508 e nel 1509) in prosa; Il Negromante e La Lena in versi; incompleta I Studenti. Riccoboni sceglie quest’ultima, nota anche come La Scolastica, per cimentarsi nella commedia regolare, e la rappresenta al teatro San Luca di Venezia prima di partire per Parigi. Con l’insuccesso della rappresentazione si apre l’ottavo e ultimo capitolo dell’Histoire du théâtre italien, cit.

[1.6] Passion de notre Seigneur au Coliséé: il fatto è attestato da Andrea Fulvio, Antiquitates Urbis 1526; poi L’Antichità di Roma, Venezia, 1588; [Pompilio Totti], Ritratto di Roma moderna, Roma, Moneta, 1645; Fioravante Martinelli, Roma ricercata nel suo sito, con tutte le curiosità…, Roma, Pietro Leone, 1699; Roma sacra, e moderna già descritta dal Pancirolo, …, Roma, 1725; ma soprattutto la fonte utilizzata è Giovan Mario Crescimbeni, Commentarj intorno alla storia della volgar poesia, Roma, de’ Rossi, 1702-1711, I, lib. IV, cap. XIII De i principj della Tragica Toscana; e delle Rappresentazioni, e Feste spirituali antiche, dove si afferma che le opere drammatiche tratte dall’Antico Testamento, dal Vangelo, dai Misteri della fede sono da ritenersi la prima forma di tragedia che precede la rinascita cinquecentesca; in particolare si fa riferimento alla rappresentazione della Passione di Cristo nostro Signore ogni Venerdì Santo al Colosseo in Roma (pp. 242-243).

[1.7] Paul III: Paolo III, Alessandro Farnese (Canino, 1468 – Roma, 1549), papa dal 1543, convoca il Concilio di Trento nel 1545 e approva la Compagnia di Gesù.

[1.8] Crescimbeni: Giovan Mario Crescimbeni (Macerata, 1663 – Roma, 1728), dalla fondazione, nel 1690, sino alla morte primo custode dell’Arcadia, la più importante accademia letteraria del Settecento. Con i suoi scritti partecipa alla volontà di rinascita poetica dei letterati italiani di primo Settecento.

Histoire de la poésie en langue vulgaire: il titolo originario dell’opera di Crescimbeni che Riccoboni cita è: L’Istoria della volgar poesia, Roma, Chracas, 1698.

Cionacci: Francesco Cionacci (Firenze, 1633 – Firenze, 1714), accademico apatista e biografo di molte vite di santi; a lui si deve l’edizione delle Rime sacre del Magnifico Lorenzo il Vecchjio di Madonna Lucrezia sua madre e d’altri della stessa famiglia racolte e d’osservazioni corredate per…, Firenze, Stamperia nella Torre de’ Donati, 1680. Riccoboni cita in realtà dai Commentarj intorno alla storia della volgar poesia, cit., p. 242.

François Belcari: Feo Belcari (Firenze, 1410 – 1484) autore della Sacra rappresentazione di Abraam e di Isaacs suo figliuolo, rappresentata a Firenze nel 1449.

[1.9] « Le temps… Abraham »: Così il testo italiano «Quando elleno incominciassero, non abbiam potuto trovarlo; e sebbene dal Vasari nella Vita del Buffalmacco Pittore, si dà notizia di quella stessa riferita sopra, che fu fatta in Arno l’anno 1304 in cui sopra le barche era una macchina rappresentante l’Inferno, ed il Cionacci va avvisando, che ella potesse essere quella di Teofilo nel fine della quale, com’egli dice, potrebbesi vedere lo ’nferno, essendovi notato. Entrati i Diavoli nello Inferno con l’Ebreo, un Angelo dà Licenza; o piuttosto quella di Lazzaro ricco, e Lazzaro povero, nel fin della quale il Ricco dallo ’nferno chiede invano soccorso al povero posto nel seno d’Abramo» Commentarj intorno alla storia della volgar poesia, cit., pp. 242-243.

Vasari: Giorgio Vasari (Arezzo, 1511 – Firenze, 1574), artista ufficiale della corte di Cosimo I, autore delle celebri Vite dei più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani (1550).

[1.10] la conclusion: Crescimbeni classifica come profana e non sacra la rappresentazione fiorentina del 1304.

[1.11] confrérie du Gonfalone: confraternita del Gonfalone, costituita dall’unione della confraternita fondata a Roma nel 1264 con la confraternita che si riuniva nella basilica di Santa Maria Maggiore

statuts: Statuti della venerabile Archiconfraternita del Confalone, Roma, Bonfadino, 1584; questo il passo tradotto: «Avendo la nostra Archicontraternita anticamente già per suo principale instituto il representare la Passione di N.S. Giesu Christo. Ordiniamo che occorrendo representarsi detta Passione si osservi sopra di ciò li nostri ordini antichi, et quanto sarà ordinato dalla Congregazione generale», ivi, pp. 74-75.

[1.12] Ottavio Panciroli: Tesori nascosti dell’alma città di Roma, con nuovo ordine ristampati, et in molti luoghi arricchiti da Ottavio Panciroli, Roma, Heredi di Alessandro Zanetti, 1625. A p. 488 si indica la data del 1264 come atto di nascita della confraternita dei «Raccomandati di Santa Maria», poi del Gonfalone, voluta da San Bonaventura. Costituita da secolari, essa venne riconosciuta da Gregorio XVIII nel 1576.

conjecture: è il metodo inaugurato da Riccoboni sin dalla Histoire du théâtre italien.

[1.13] mystères du Vieux Testament … 1398: drammi sacri medievali in lingua inglese o in francese, la cui rappresentazione si deve alle Confrarternite dei laici; la paternità dei primi misteri inglesi – cinque i testi pervenuti, datati attorno al 1377 – è attribuita a Sir Henry Francis. I misteri francesi hanno carattere ciclico: il ciclo del Jeu d’Adam è in volgare con didascalie in latino. La Confraternita della Passione di Parigi avvia le sue rappresentazioni nel 1398.

[1.14] au cas… générale: Riccoboni replica la citazione: «occorrendo reppresentarsi detta Passione si osservi sopra di ciò li nostri ordini antichi, et quanto sarà ordinato dalla Congregazione generale» Statuti della venerabile Archiconfraternita del Confalone, cit., p. 275. Secondo Riccoboni la rappresentazione della Passione sarebbe stata vietata soltanto al Colosseo dalla bolla emanata da Paolo III il 30 novembre 1539: Dominus noster Iesus Christus a favore della Confraternita del Ss. Sacramento. Da quella data ha termine la rappresentazione della Passione al Colosseo.

[1.15] édition … tragedie saintes: Riccoboni utilizza, e cita in nota, il fondamentale catalogo di Leone Allacci, Drammaturgia. Divisa in sette indici, Roma, Mascardi, 1666.

De la Passion… 1614: Della Passione, Morte, e Resurrezione di Giesù Christo. T. De la Passion… 1614: Della Passione, Morte, e Resurrezione di Giesù Christo. T. [Tragedia] Rappresentazione di Gio: Battista Filaùro, la terza volta ristampata e corretta di molti errori, e di gran versi accresciuta da Salvatore Massonio il giorno del Giovedì Santo, l’anno 1614, Venezia, Baroni, 1614, classificata come tragedia da Allacci, Drammaturgia, cit., p. 72.

défense de Paul III: Paolo III vieta nel 1539 con la bolla Dominus noster Iesus Christus la rappresentazione della Passione al Colosseo.

[1.16] 1660: Riccoboni si avvale, per la sua tesi, di alcune stampe indicate nella Drammaturgia dell’Allacci. Il riferimento alla data nel suo Catalogue des tragédies et comédies italiennes imprimeées depuis l’an 1500 jusqu’à l’an 1660 pubblicato nella Histoire du théâtre italien.

[1.19] Dante: Dante Alighieri (Firenze, 1275 – Ravenna, 1321), uno dei maggiori se non il maggiore scrittore italiano, autore di un’opera capitale come La Divina Commedia, e di opere altrettanto fondamentali per la tradizione italiana: la Vita nuova, il Convivio, il De vulgari eloquentia.

Leonardo Arretino: Leonardo Bruni, detto l’Aretino (Arezzo, 1370 ca – Firenze 1444), umanista e uomo politico, qui ricordato per la sua Vita di Dante scritta nel 1436. Questo il passo parafrasato: «Cominciossi a dire in rima, secondo scrive Dante, innanzi a lui 2 circa anni centocinquanta; e 3 i primi furono in Italia Guido Guinizzelli Bolognese, e Guittone Cavaliere Gaudente d’Arezzo, e Bonagiunta da Lucca, e Guido da Messina». Cfr. Le Vite di Dante e del Petrarca scritte da…, Firenze, All’insegna della Stella, 1672, pp. 67-68.

[1.20] invention de l’imprimerie: la data di nascita della stampa è fissata attorno al 1455 quando il suo inventore Johann Gutemberg realizzò la prima stampa della Bibbia; in pochi anni la tecnica si diffuse anche a Roma e a Venezia.

[1.21] Les ducs… Mantoue: riferimento alle rappresentazioni private nelle corti degli Estensi a Ferrara; dei Medici a Firenze, dei Montefeltro a Urbino e dei Gonzaga a Mantova.

L’académie de Sienne: l’accademia degli Intronati fondata a Siena attorno al 1525 ad opera di alcuni letterati di nobile estrazione; fra le rappresentazioni si ricorda quella degli Ingannati, commedia anonima attribuita a Ludovico Castelvetro. Nel 1611 appare la raccolta Delle commedie degli accademici intronati di Siena, Siena, Franceschi.

pièces à l’impromptu: canovacci della commedia dell’arte, recitati a soggetto.

[1.22] théâtre materiel: tutto ciò che concerne lo spettacolo, cioè gli edifici, le sale teatrali, il pubblico, ecc.

[1.24] Les théâtres… carême: le deliberazioni sugli spettacoli del Consiglio dei Dieci cambiano nel tempo: nel 1553 un decreto del Consiglio dei Dieci fissa i termini della stagione teatrale, il numero delle rappresentazioni, ecc. A fine Seicento, grazie alle memorie del canonico Cristoforo Ivanovich, Minerva al tavolino…, Venezia, Pezzana, 1688, si è in grado di avere un quadro molto dettagliato: in autunno erano aperti i teatri dove si rappresentava la commedia; a novembre iniziavano le prove dell’opera in musica che veniva rappresentata da S. Stefano sino al Carnevale; dalla Quaresima i teatri chiudevano e gli spettacoli si spostavano in luoghi all’aperto. Nel corso del Settecento la stagione dell’opera in musica riprende durante la festa della Sensa per l’Ascensione, che si celebra 40 giorni dopo la Pasqua. Riccoboni con la sua compagnia aveva lavorato nei teatri San Samuele e San Luca negli anni 1703-1715.

deux Lombardies: s’intendono il ducato di Milano, dal 1706 sotto la dominazione degli Asburgo, e il ducato di Modena e Reggio retto dai duchi d’Este. Nella corte filoasburgica di Modena, Riccoboni e la sua compagnia recitano la Merope di Scipione Maffei il 12 giugno 1713.

Fra i teatri nei cortili, il più noto a Milano, sin dal 1598, è il Salone Margherita, così chiamato in onore di Margherita d’Austria moglie di Filippo III di Spagna, distrutto da un incendio e subito ricostruito nel 1708.

le grand amphitéâtre de l’arène: l’anfiteatro romano della città di Verona, dove la compagnia di Riccoboni rappresenta la Merope di Scipione Maffei nel luglio 1713.

[1.26] Rome… Carnaval: in Roma dal 1465 gli spettacoli profani potevano aver luogo durante i festeggiamenti del Carnevale; questo calendario subisce dei cambiamenti con i vari pontificati.

Innocent XI: Benedetto Odescalchi (Como, 1611 – Roma, 1689), papa con il nome di Innocenzo XI dal 1676; conferma il divieto già di Sisto V contro le donne in scena del 1588 e nel 1689 vieta in Roma gli spettacoli sia pubblici che privati.

[1.27] Les théâtres… Italie: dal Seicento in avanti si costruiscono gli edifici teatrali, secondo lo stile italiano che può essere riassunto in un disegno di Andrea Pozzo del 1693: al posto dei gradoni o delle balconate aperte, compaiono cinque gallerie divise in palchi da pilastri e archi.

S. Samuel: San Samuele, teatro storico di Venezia, costruito nel 1656 su commissione della famiglia Grimani, deputato alla rappresentazione della commedia, poi dal 1710 anche dell’opera. Riccoboni vi recita per vari anni.

parterre: l’insieme degli spettatori che siedono in platea; all’epoca vi era l’uso di stare anche in piedi.

[1.28] seize sous: sedici soldi. Riccoboni descrive l’uso del pagamento del biglietto impostosi con la nascita dei teatri impresariali nella metà del Seicento.

[1.29] Le grand théâtre de Milan: il Teatro Regio Ducale, la cui costruzione fu avviata nel 1717 su progetto di Gian Domenico Barbieri.

celui de Parme: il teatro Farnese, costruito nel 1618 da Giovan Battista Aleotti e aperto dieci anni dopo; è considerato per la sua forma di transizione l’antecedente del nuovo teatro barocco. Di forma rettangolare, esso non prevede ancora le logge, ma ha i gradoni disposti a forma di semicerchio dove sono seduti gli spettatori.

[1.30] masqués: uso strettamente veneziano di utilizzare le maschere durante il Carnevale e a teatro.

[1.31] huit théâtres: nel Seicento a Venezia si contavano circa dodici teatri: San Cassiano, San Salvatore, Santi Giovanni e Paolo, San Moisè, Nuovissimo, Santi Apostoli, San Apollinaire, ai Saloni, San Samuele, Sant’Angelo, San Giovanni Grisostomo, alcuni andati distrutti nel corso del secolo come il Sant’Apollinaire, Ai Saloni, altri cambiano nome come il San Salvatore poi San Luca.

cracher: l’uso di sputare dai palchi, come in strada e nei locali pubblici, tramontato nel corso del primo Novecento.

[1.32] loge du paradis: loggione o piccionaia, la parte più alta dei palchi o della galleria.

dix livres de France: equivalenti di uno zecchino.

[1.34] Petrarca: Francesco Petrarca (Arezzo, 1304 – Arquà, 1374), uno dei maggiori poeti della tradizione italiana, celebre per il Canzoniere, (i Rerum vulgarium fragmenta) diventato il modello poetico sino al Settecento, tanto da dar vita al cosiddetto petrarchismo.

[1.35] Corneille: Pierre Corneille (Rouen, 1606 – Parigi, 1684), uno dei più grandi autori del teatro francese; celebri le sue tragedie dal Cid al Cinna al Polyeucte, ecc.

Racine: Jean Racine (La Ferté Milon, Valois, 1639 – Parigi, 1699), il grande autore tragico della dramaturgie classique francese; molto apprezzato da Luigi XIV e dalla corte divenne il rivale di Corneille con tragedie dallo strepitoso successo: Britannicus, Bérénice, Mithridate, e ancora Phèdre, Athalie, ecc.

[1.37] Martelli: Pier Jacopo Martello (Bologna, 1665 – Bologna, 1727), scrittore soprattutto di teatro, che partecipa alla riforma primo Settecento. Oltre ai trattati Del verso tragico e L’impostore o Della tragedia antica e moderna, scrisse molti testi teatrali, di cui l’Ifigenia in Tauris e La Rachele messe in scena da Riccoboni ed Elena Balletti fra il 1711 e il 1712.

Gravina: Gianvincenzo Gravina, (Roggiano, Cosenza, 1664 – Roma, 1718), giurista e letterato italiano; uno dei fondatori dell’Arcadia e poi fra i protagonisti dello scisma. Autore fra l’altro di importanti trattati, fra cui il Libro della tragedia (1715) e delle Tragedie cinque (1712) di argomento greco e romano, che Scipione Maffei gli avrebbe commissionato per farle rappresentare alla compagnia di Riccoboni.

collèges… de Parme: in molte città italiane i padri dei vari ordini religiosi e i convittori organizzavano le recite annuali. Riccoboni ricorda qui il Collegio Romano e il Collegio dei Nobili di Parma del quale aveva fatto diretta esperienza, quando fra il 1730 e il 1731 vi si era recato.

Gigli: Girolamo Gigli (Siena, 1660 – Roma, 1722), scrittore di commedie, noto soprattutto per Il don Pilone, adattato in gran parte dal Tartuffe di Molière.

Molière: pseudonimo di Jean-Baptiste Poquelin (Parigi, 1622 – Parigi, 1773), uno dei più grandi scrittori del teatro francese; autore di moltissime farse e commedie che rappresentava lui stesso, fra le quali Les Précieuses ridicules, Sganarelle ou le cocu immaginaire, L’École des maris, L’École des femmes, Tartuffe, Le Misanthrope, L’Avare, Le Malade imaginaire, ecc.

[1.38] Allacci: Leone Allacci (Chio, 1586 – Roma, 1669), erudito e teologo, noto negli studi teatrali per la fondamentale raccolta e schedatura di testi offerta dalla Drammaturgia, cit.

[1.39] tragicomédies: genere teatrale in cui si fondono elementi tragici e comici; nel suo sistema classificatorio in cui sono compresi quasi cinquanta sottogeneri, Allacci distingue la tragicommedia da quella boschereccia, morale, pastorale, pescatoria, rappresentativa, spirituale.

pastorales: genere teatrale basato sulla convenzione pastorale, nato in Italia nel Cinquecento; Allacci elenca la egloga pastorale e la favola pastorale.

tragédies sacrées: tragedia d’argomento sacro, prevista in Allacci.

[1.40] Bibliothèque du Vatican: la Biblioteca apostolica vaticana voluta già nel Quattrocento dal papa umanista Niccolò V; essa venne istituita ufficialmente da Sisto IV nel 1475.

[1.42] comédie ancienne et mercenarie: secondo lo schema dell’Histoire du théâtre italien, la farsa, che precede la commedia regolare e che è recitata all’improvviso, risale all’epoca di Dante e che sotto varie forme è una costante del teatro italiano.

[1.43] Ces farces: il riferimento è agli scenari dell’Arte, pratica diffusasi in tutta l’Europa nel corso del Cinquecento e ancora praticata dalla compagnia dello stesso Riccoboni quando nel 1716 si era trasferita a Parigi, istallandosi nel teatro della Comédie-Italienne.

l’abbé d’Aubignac: François Hédelin (Parigi, 1604 – Nempurs, 1676), autore della celebre Pratique du théâtre (1657) dove si sviliva il teatro italiano, ritenendolo espressione unicamente della commedia dell’Arte, giudicata un insieme di oscenità e buffonerie.

Théâtre français: Le Théâtre François, divisé en trois livres, où il est traité: de l’usage de la comédie; dea auteurs qui soutiennent le théâtre; de la conduite des comediens, Lyon, Mayer, 1674 (par Samuel Chappuzeau).

Moreri: Louis Moréri (Borgemont, 1643 – Parigi, 1680), erudito francese, autore del Grand dictionnaire historique, ou le mélange curieux de l’histoire sacré et profane, 1674-1681 (il secondo volume postumo)

Henri III: Enrico III di Valois (Fontainebleau, 1551 – Saint-Cloud, 1589), re di Francia dal 1574, assassinato dal domenicano Jacques Clément.

[1.44] Catalogue… Italiennes: compreso nel primo tomo della Histoire du théâtre italien, Paris, Chaubert, Imprimerie Delormel, 1728.

[1.45] troupe italienne: è la stessa compagnia di Riccoboni, che elenca subito dopo tragedie e tragicommedie del repertorio italiano, riprese al teatro della Comédie-Italienne, anche se solo per qualche sera.

Mérope: si tratta della tragedia di Scipione Maffei, più volte rappresentata, dopo la recita alla corte di Modena, a Verona e al San Luca di Venezia con grande successo. Riccoboni, che ne aveva curato la prima edizione (Venezia, Tommasini, 1714), la rappresentò anche alla Comédie-Italienne una prima volta gratis nel gennaio 1717; poi a pagamento l’11 maggio dello stesso anno.

Andromaque: tragedia di Racine tradotta in versi italiani; rappresentata alla Comédie-Italienne il 12 marzo 1725.

Hercule: tragicommedia di Luigi Riccoboni; rappresentata alla Comédie-Italienne il 19 dicembre 1717.

Samson: tragicommedia, rappresentata alla Comédie-Italienne il 28 febbraio 1717; ricavata da una tragicommedia di Perez de Moltalban (Madrid, 1602 – Madrid, 1638), commediografo spagnolo, allievo di Lope de Vega.

La Vie est un songe: tragicommedia con parti a soggetto, rappresentata alla Comédie-Italienne il 10 febbraio 1717; il testo è un adattamento di Giacinto Cicognini (Firenze, 1606 – Venezia, 1651) da Calderòn.

[1.46] cinq … Scaramouche: le maschere della commedia dell’Arte: il Dottore, Pantalone, Arlecchino, Brighella, Scaramuccia.

De l’Opéra §

[2.1] bon siècle: il Cinquecento, durante il quale si ha la rinascita del cosiddetto teatro regolare, tragedia e commedia, improntato ai modelli degli antichi.

[2.2] Réforme: si riferisce alla fondazione dei modelli letterari e teatrali del Rinascimento.

intermèdes: l’intermezzo nasce con il teatro rinascimentale; inizialmente è solo musicato poi, con parti danzate e mimate, si rappresentava fra un atto e l’altro.

L’Aurora ingannata: Ridolfo Campeggi, Filarmindo, favola pastorale, Venezia, Ciotti, 1606; arricchita con l’Aurora ingannata, favoletta per gli intermedii in musica, Venezia, Ciotti, 1628.

[2.6] opéra: opera in musica, nata probabilmente dalle sperimentazioni sull’intreccio fra parola e musica della Camerata fiorentina alla fine del Cinquecento.

Euridice: ritenuta la prima opera in musica italiana, scritta da Ottavio Rinuccini (Firenze, 1562 – Firenze, 1621), con musiche di Jacopo Peri, rappresentata il 6 ottobre 1600 durante i festeggiamenti per le nozze di Maria de’ Medici e Enrico IV. In nota è citata l’edizione delle Poesie, Firenze, Giunti, 1622.

Marie… Henri IV: Maria de’ Medici (Firenze, 1575 – Colonia, 1642) sposa per procura a Firenze Enrico IV di Borbone, re di Francia, accoltellato dal fanatico François Ravaillac.

Emilio del Cavaliere: de’ Cavalieri (Roma, 1548-1552 – ivi, 1602), compositore; sue le note del Satiro e della Disperazione di Fileno, pastorali rappresentate a Firenze nel 1590.

[2.7] Henri III: Enrico III di Valois (Fontainebleau, 1551 – Saint-Cloud, 1589) re di Francia, assassinato dal fanatico Jacques Clément.

l’an 1574: anno della visita di Enrico III, festeggiato dalla Serenissima con vari spettacoli e feste; fra cui a Palazzo Ducale una tragedia in musica di certo Cornelio Frangippani, secondo quanto attestato da Giovanni Carlo Bonlini, Le Glorie della Poesia e della Musica contenute nell’esatta Notitia de Teatri della città di Venezia (…), In Venezia, 1731, p. 18.

l’anné 1637: «Con tutto ciò conviene affermare che ne’ Pubblici Teatri tardo ancora ad introdursi la Musica sino all’anno 1637 quando, come si disse, in questo Teatro di S. Cassiano s’è incominciato con la rappresentazione d’Andromeda», ibidem.

[2.8] Andromaque: L’Andromeda, del Signor Benedetto Ferrari, rappresentata in musica in Venetia l’anno 1637, Venezia, Antonio Bariletti, 1637. Musiche di Francesco Mannelli.

La Magicienne foudroyée: La maga fulminata, del Signor Benedetto Ferrari, favola rappresentata in musica in Venetia l’anno 1638, Venezia, Antonio Bariletti, 1638. Musiche di Francesco Mannelli.

théâtre de S. Jean et de S. Paul: Teatro Santi Giovanni e Paolo, costruito in legno nel 1635, poi rifatto in legno e pietra presso la Basilica dei Santi Giovanni e Paolo; dal 1639 i Grimani lo destinano a teatro d’opera.

La Delie de Jule Strozzi: La Delia o sia La sera sposa del sole poema dramatico di Giulio Strozzi, Venezia, Pinelli, 1639; con musiche di Francesco Mannelli inaugura la nuova destinazione musicale del Teatro Santi Giovanni e Paolo.

Armide: L’Armida del Signor Benedetto Ferrari, rappresentata in musica in Venetia l’anno 1639, Venezia, Antonio Bariletti, 1639.

Thétis et Pelée: Le nozze di Teti e di Peleo, opera scenica del Signor Oratio Persiani, Venezia, Sarzina, 1639. Musiche di Francesco Cavalli.

Adonis: L’Adone, tragedia musicale del clarissimo Signor Paolo Vendramio, rappresentata in Venezia l’anno 1639, Venezia, Sarzina, 1640. Musiche di Francesco Manelli.

Arianne: L’Arianna tragedia del Signor Ottavio Rinuccini, Mantova, Osanna, 1608; riedita nel 1640 con l’indicazione sul frontespizio: posta in musica dal Sig. Claudio Monte Verdi, rappresentata in Venetia l’anno 1640, Venezia, Bariletti, 1640.

[2.9] Giovanni Carlo Bonlini, Le Glorie della Poesia e della Musica contenute nell’esatta Notitia de Teatri della città di Venezia (…), cit.

[2.10] Ranuce Farnese: Ranuccio II Farnese (Cortemaggiore Piacenza, 1630 – Parma, 1694), succede al padre nel 1646; celebri le feste farnesiane con rappresentazioni musicali e teatrali, durate circa dieci giorni, in occasione delle nozze per procura del Serenissimo principe Odoardo Farnese con Dorotea Sofia di Neuburg.

La Division du monde: La divisione del mondo, dramma per musica nel fastoso teatro Vendramino di S. Salvatore, di Giulio Cesare Corradi l’anno MDCLVVV, Venezia, Nicolini, 1675. Musiche di Giovanni Legrenzi.

Rangoni: Guido Rangoni (Parma, 1625 – Parma, 1696), di famiglia nobile, dirige il Teatro Vendramin o San Salvador durante il suo soggiorno veneziano degli anni 1673-1675.

Le Berger d’Amphrise: Il pastore d’Anfriso, tragedia pastorale per musica da rappresentarsi nel teatro Grimano di San Grisostomo l’anno 1695 di Girolamo Frigimelica Roberti, Venezia, Nicolini, 1695. Musiche di Carlo Francesco Pollarolo.

[2.11] Bibiena: Galli Bibbiena, celebre famiglia italiana di architetti, scenografi e pittori. Riccoboni ne menziona due, ma in realtà sono tre fratelli: Alessandro (Parma, 1686 – Mannheim, 1748), Giovanni Maria (Parma, 1693 – Napoli, 1777) e Giuseppe (Parma, 1695 – Berlino, 1757).

[2.12] Caton d’Utique: Catone Uticense, dramma per musica da recitarsi nel teatro Grimani in S. Gio. Grisostomo, di Matteo Noris l’anno 1701, Venezia, Nicolini, 1701. Musiche di Carlo Francesco Pollarolo.

[2.14] Scarlati: Alessandro Scarlatti (Palermo, 1660 – Napoli, 1725), compositore e fra i massimi esponenti della cosiddetta scuola napoletana, si divide fra Napoli e Roma; padre del grande Domenico, anche lui compositore e maestro di cappella, noto in tutte le corti europee.

Bononcini: Giovanni Bononcini (Modena, 1670 – Vienna, 1747), compositore e violoncellista, ha un grande successo come operista alla corte di Vienna e in seguito a Londra. Cognato di Riccoboni, condivide con lui il progetto di organizzare esecuzioni musicali per la Royal Academy di Londra.

[2.15] Pistocco: Francesco Antonio Pistocchi (Palermo, 1659 – Bologna, 1726), figlio del violinista Giovanni con cui esordisce nel canto sin dall’infanzia in varie città italiane, affermandosi come capofila della scuola di canto bolognese.

Pasqualino: Marcantonio Pasqualini (Roma, 1614 – Roma, 1691), cantante e compositore, protetto dalla cerchia dei Barberini, ha una lunga carriera esibendosi anche a Parma e a Parigi.

Siface: Giovanni Francesco Grossi (Chiesina Uzzanese, Pistoia, 1653 – Ferrara, 1697), detto Siface dal nome del personaggio dell’opera Scipione africano; uno dei più celebri castrati del suo tempo.

Matteuccio: Matteo Sassano (San Severo, 1667 – Napoli, 1737), noto cantante castrato chiamato presso le corti di Vienna e di Madrid.

Cortona: Domenico Cecchi (Cortona, metà XVII – Cortona, 1717), famoso cantante operistico; scritturato al Teatro Grimani, poi chiamato alla corta di Dresda e di Vienna con incarichi anche diplomatici oltre che come cantante.

Luigino: Luigi Albarelli, soprano, attivo all’incirca negli anni 1690-1710.

Françoise Vaini: quasi sicuramente è Francesca Vanini Boschi, attiva ne primi Settecento.

Santa Stella: Santa Stella Lotti, attiva all’incirca negli anni 1700-1720.

Tilla: forse Maria Domenica Tini detta la Titta.

Marguerite Salicoli: Margherita Salicoli Suini, attiva all’incirca negli anni 1675-1735.

Reggiana: Giovanna Albertini, detta la Reggiana, attiva negli anni 1700-1735.

Cuzzoni: Francesca Cuzzoni (Parma, 1700 – Bologna, 1772), cantante e interprete celebre sui palcoscenici di Venezia e di molte città europee; canta alla Royal Academic of Music di Londra e nella cappella di Fontainebleau negli anni 1722-1724. Dopo il nuovo ingaggio al San Giovanni Grisostomo, si esibisce a lungo a Londra conquistando una grande fama.

Senesino: Francesco Bernardi (Siena, 1677 o 1680 – post 1757), celebre primo sopranista, scritturato a Londra, dopo Dresda, per le stagioni del King Theatre, ha modo di esibirsi a Napoli e a Firenze.

[2.16] Faustina Bardoni Asse: Faustina Bordoni (Venezia, 1700 – ivi, 1781), cantante operistica, debutta al San Giovanni Grisostomo per poi cantare in varie città italiane, a Monaco e Dresda. Nel 1726 è scritturata dal teatro Haymarket di Londra, sostenuta dagli avversari della Cuzzoni; nel 1730 sposa J. A. Hasse, il noto compositore sassone di cui interpreta le opere, trasferendosi con lui a Dresda.

[2.17] Farinello: Carlo Maria Michele Angelo Broschi (Andria, 1705 – Bologna, 1782), il più celebre cantante lirico della prima metà del Settecento, noto e ammirato in tutta Europa; il suo esordio a Napoli nel 1720 lo lega a Metastasio con cui si chiamavano reciprocamente «il gemello»; si esibisce a Londra, Parigi, Versailles, Madrid alla cui corte gode di una grande reputazione e dalla quale riceve onori e compensi altissimi per l’epoca. A lui si deve il definitivo trionfo del dramma musicale italiano.

[2.18] écus romains: moneta d’oro e poi d’argento in uso nello Stato pontificio

[2.22] traiter des sujets historiques: riferimento a molti drammi per musica di Apostolo Zeno e di Metastasio, che Riccoboni evita di nominare, nonostante il successo ormai acclarato del secondo, poeta cesareo alla corte di Vienna dal 1730.

Théâtre espagnol §

[3.3] entremessés: entremés, genere teatrale molto diffuso in Spagna nel Cinquecento, consistente in una rappresentazione comica inserita fra una giornata e l’altra di un dramma serio o sacro.

Calderon: Pedro Calderón de la Barca (Madrid, 1600 – Madrid, 1681), uno dei maggiori autori teatrali del cosiddetto Siglo de Oro; a lui sono state attribuite oltre un centinaio di opere, fra cui la più celebre è La vida es sueño.

[3.4] corrales: spazio scenico del teatro spagnolo, situato nei cortili delle case e degli ospedali, il cui uso si diffonde, a fine XIV, utilizzando gli spazi preesistenti. Nel 1579 è fondato a Madrid il Coral de la Cruz, seguito da quello del Principe (1583).

patios: usato come equivalente di corrales, costituisce il cortile del corral che comprende invece tutta la struttura.

coliseo: sala di grandi dimensioni destinata a rappresentazioni teatrali e a spettacoli pubblici.

[3.6] Lope de Rueda (Siviglia, 1505 – Cordova, 1565), attore e drammaturgo spagnolo; per la sua compagnia compone commedie e intermezzi (pasos).

Navarro: verosimilmente è il commediografo Bartolomé de Torres Naharro (Torre de Miguel Sesmero ? – Roma, 1530), anche se vi è un Pedro Navarro, attore e autore attivo nel secolo XVI; sul suo operato resta la positiva testimonianza di Cervantes.

actos: ciascuna delle parti in cui è suddivisa una commedia.

jornadas: giornata; le giornate sono le parti in cui sono suddivise le commedie (in uso anche per le composizioni tragiche), corrispondente agli atti.

[3.7] regidores: persona incaricata di mantenere l’ordine.

cazuela: ampia galleria al primo piano di fronte alla scena, destinata alle dame.

aloxeros: logge situate nella galleria inferiore, sotto quella della cazuela.

alcade de corte: sindaco o magistrato di corte.

Capa y Spada: cappa e spada, commedia di carattere cavalleresco, diffusosi in Spagna nel secolo XVII.

[3.8] tertulia: seconda galleria, destinata a ecclesiastici e autorità.

gradas: gradoni.

los tabouretés: sgabelli.

on a costruit …un théâtre: è il teatro de los Caños del Peral, costruito nel XVIII secolo e rinnovato proprio nel 1738.

[3.10] reales de plata: moneta d’argento.

[3.12] salon de Palacio: sala del Palazzo Reale di Madrid, fatto costruire da Filippo III all’inizio del 1600.

Coliseo del ritiro: il Teatro del Buen Retiro è inaugurato nel febbraio 1640, all’interno del Palazzo reale della corte madrilena. In nota Riccoboni accenna a un teatro molto grande ricostruito secondo lo stile all’italiana: potrebbe riferirsi sia al rifacimento attorno al 1737 del Teatro de la Cruz oppure a quello del Principe ad opera di Giovan Battista Sacchetti chiamato alla corte madrilena alla morte di Filippo Iuvarra nel 1736.

[3.13] Lope de Vega: Felix Lope de Vega (Madrid, 1562 – Madrid, 1635), uno dei più grandi scrittori e autori di teatro del Siglo de Oro, cui si attribuiscono centinaia di opere, suddivise in commedie religiose, atti sacramentali, commedie di argomento mitologico, storico e di pura invenzione.

Moreto: Augustín Moreto (Madrid, 1618 – Toledo, 1669), drammaturgo spagnolo.

Solis: Antonio de Solís (Alcalà de Henaras, 1610 – Madrid, 1686), drammaturgo e storico spagnolo.

Salazar: Augustín de Salazar y Torres (Almazán, Soria, 1642 – Madrid, 1675), scrittore e drammaturgo spagnolo.

Molina: Tirso de Molina, pseud. di Gabriel Téllez (Madrid 1579 – Soria, 1648), celebre drammaturgo spagnolo, che inaugura la tradizione europea del Don Giovanni.

[3.14] autos sacramentales: forma di dramma religioso in un atto, che ha il suo sviluppo nel XVI secolo in Spagna e che caratterizza molta produzione drammatica degli autori del Siglo de Oro.

Fray … Thelles: Tirso de Molina era frate.

Don Juan Perès de Montalban: Juan Pérez de Montalván (Madrid, 1602 – Madrid, 1638), autore di teatro spagnolo, discepolo e ammiratore di Lope de Vega.

Amor es… amar: commedia incompiuta di Antonio de Solís, composta attorno al 1660.

[3.17] Auto… de la Plantas: La humildad coronada de la plantas è compresa nella raccolta Autosacramentales alegoricos, yde Don Pedro Calderón de la Barca, Obras postumas, Madrid, Manuel Ruiz de Murga, 1717.

[3.20] Pues… tesoro: i versi ricalcano il rito dell’Eucarestia.

[3.22] Fête-Dieu: festa del Corpus Domini che celebra la presenza di Cristo nel sacramento dell’Eucarestia.

Loa Sacramental du Fol: l’autosacramental può essere preceduto dalla lode e trattare un argomento profano, soprattutto prima che si istituisse nel corso del Cinquecento.

[3.25] Le Cid: tragedia di Pierre Corneille (1637), che procede dalle opere di Guillén de Castro, a sua volta ispirate dal leggendario protagonista del Cantar de Rodrigo, l’eroe castigliano della riconquista spagnola.

Vincislao… Rotrou: Venceslas, tragedia del drammaturgo francese Jean Rotrou (Dreux, 1609 – ivi, 1650), derivante dal dramma spagnolo di Francisco de Royas, No hay ser padre siendo rey.

Ines de Castro… Motte: tragedia dello scrittore francese Antoine Houdar de la Motte (Parigi, 1672 – ivi, 1731), ispirata alla celebre vicenda dell’amante del futuro re del Portogallo, Pietro I, fatta assassinare dal suocero Alfonso IV nel 1355.

[3.26] Art du théâtre: Art nuevo de hacer commedia en este tiempo di Lope de Vega (1609), in traduzione francese sotto il titolo Nouvelle Pratique de Théatre, accomodée à l’usage present d’Espagne, adressée à l’Academie de Madrid et traduite de l’Espagnol de Lopez de Vega, in Pièces fuggitive d’histoire et de littérature anciennes et modernes…, Paris, Jean Cot, 1704, pp. 248-264.

les deux Corneilles: Thomas Corneille (Rouen, 1625 – Les Andelys, 1709), fratello del celebre Pierre e anch’egli drammaturgo.

[3.27] Don Bernardo Joseph de Reynoso y Quisiones: Bernando José de Reinoso y Quiñones ( – 1751), autore teatrale spagnolo.

Don Joseph de Canizares: José Cañizares (1676 –1750), il poeta spagnolo più popolare della prima metà de Settecento, autore di commedie dal diverso registro, magico, mitologico, eroico, storico.

[3.30] Gracioso: personaggio comico del teatro spagnolo, spesso il servitore di un cavaliere.

Centunculus: mimo delle commedie latine dette atellane, dal costume variopinto.

[3.31] La Dame invisible, ou L’Esprit follet: scenario rappresentato nel 1716 alla Comédie-Italienne di Riccoboni, ripreso da La dama duende di Calderón de la Barca, cui si rifà anche La Dame invisible, ou L’Esprit follet di Noël Le Breton d’Hauteroche (1678).

La Maison à deux portes: canovaccio rappresentato alla Comédie-Italienne da Luigi Riccoboni nel 1716, ripreso da Casa con dos puertas males es de guardar di Calderón de la Barca.

Théâtre français §

[4.2] une histoire… imprimeé en 1734: Si tratta della Histoire du théâtre françois depuis son origine jusqu’à present, tome premier, Paris, Le Mercier, 1734, scritta da François e Claude Parfaict.

[4.3] trobadours: poeti provenzali dei secoli XII-XIII, autori di rime raffinate, espressione della civiltà romanza.

[4.4] «il y en… comédiens»: «mais pour les mieux faire connoïtre, il est bon de dire que parmi ces Poëtes, il y en eut qu’on nomma Comiques, c’est-à-dire Comédiens». Histoire du théâtre françois depuis son origine jusqu’à present, cit., p. 14.

Nostradamus: Michel de Nostre-Dame (Saint-Rémy, 1503 – Salon, 1566), medico e astrologo francese, autore delle celeberrime Prophéties, Lione, 1555.

Noües: Noues, poeta e attore, secondo la Histoire du théâtre françois depuis son origine jusqu’à present, cit., pp. 24-25.

« Ce poëte… trésor »: Histoire du théâtre françois depuis son origine jusqu’à present, cit., p. 25.

[4.5] « elles… comédies»: «qu’elles ressembloient plutôt à des Dialogues qui exprimoient l’action que l’auteur satirisoit, qu’à des Comédies», ivi, p. 13.

Amphytrion: tragicommedia di Plauto in cui Mercurio si cela sotto le sembianze di Sosia; l’argomento è poi ripreso da Molière nella commedia omonima.

[4.6] Enéide: Eneide (Aeneis), il celebre poema epico di Virgilio (I secolo a.C.) che narra la leggendaria storia di Enea, l’eroe troiano considerato il progenitore dei romani.

[4.7] Parassol: Parasols autore di cinque tragedie storiche contro la regina Giovanna di Napoli, secondo la Histoire du théâtre françois depuis son origine jusqu’à present, cit. pp. 28-35.

Jeanne… de Naples: Giovanna I d’Angiò (Napoli, 1326 – Muro Lucano, 1382)

Brantôme: Pierre de Bourdeilles (ca 1537 – 1614), fra i suoi scritti apparsi postumi anche le Vies des dames illustres.

Mezeray: François-Eudes de Mezeray (Houay, Ry, 1610 – Parigi, 1683), storico e storiografo regio, autore, fra l’altro, di una Histoire de France… e di un Abrégé chronologique più volte riedito.

[4.8] Saint Thomas d’Aquin: Tommaso d’Aquino (Roccasecca, 1225 o 1226 – Fossanova, 1274), santo, filosofo e teologo. Rispetto alla condanna che grava da secoli contro il teatro, Tommaso riconosce la liceità morale e sociale dei divertimenti teatrali se praticati con moderazione.

[4.9] comédies provençales: le commedie attribuite ai trovatori provenzali dai fratelli Parfaict nella Histoire du théâtre françois depuis son origine jusqu’à present, cit., p. 37.

[4.10] mystère de la Passion: rappresentazione organizzata da una compagnia di laici su modello dei canti dialogati cantati dai pellegrini di ritorno dalla terra santa e da altri luoghi sacri.

avant 1398: nell’ordinanza emanata in quella data dal sindaco di Parigi per vietare la rappresentazione del mistero della Passione a San Mauro si afferma che questi spettacoli datavano da almeno vent’anni; ivi, p. 43.

[4.11] Philippe le Bel: Filippo IV di Francia detto il Bello (Fontainebleau, 1268 – ivi, 1314); la festa data per la visita di Edoardo d’Inghilterra che aveva sposato la figlia del re Filippo, Isabella, è ricordata nella Histoire du théâtre françois depuis son origine jusqu’à present, cit., p. 42.

[4.13] En l’année 1690: in quella data Riccoboni all’età di quattordici anni recita con il padre nella compagnia al servizio del duca di Modena; una lettera firmata dai comici documenta il soggiorno a Genova e a Brescia nell’estate del 1690.

Carmesses: kermesse, termine fiammingo, composto da misse e kerk, messa di chiesa, usato per indicare le feste popolari, celebrate spesso nelle ricorrenze religiose.

[4.15] ville électorale: città della Germania che ospitavano i collegi dei principi elettori cui spettava l’elezione dell’imperatore del Sacro Romano Impero, le cui origini risalgono all’incoronazione papale di Ottone di Sassonia nel 962.

La gloire des bienheureux et la peine des damnés: riferimento agli spettacoli offerti nella corte di Filippo il Bello durante la festa, sopra ricordata, del 1313.

[4.18] Charlemagne: Carlo Magno (742 – Aquisgrana, 814), re dei Franchi, dei Longobardi e dall’800 incoronato a Roma imperatore del Sacro Romano Impero.

les conciles de Mayence… Chalon-sur Saône: i cinque concili episcopali di Tours, Reims, Mains, Arles, Chalon-sur Saone voluti da Carlo Magno.

en l’anné 813: l’anno dei cinque concili.

Traité de la Police: Traité de la Police, où l’on trouvera l’Histoire de son etablissement … , par M. De Lamare, Paris, Brunet, 1722, t. I., p. 43 sgg.

Histrionum… jocorum: ordinanza del Concilio di Tours, dove si esorta a sfuggire il linguaggio osceno degli istrioni.

Philippe Auguste: Filippo Augusto (Parigi, 1165 – Mantes-Gassicourt, 1223), re di Francia. In nota Riccoboni cita, dal Traité de la Police, cit., la cronaca del monaco Rigord, Gesta Philippi Augusti, vissuto dal 1150 al 1209 circa.

deux ordonnances … de 1341, et de 1395: le due ordinanze emanate dal rappresentante l’autorità del re. Traité de la Police, ed. 1729, p. 400.

[4.20] Charles V: Carlo V, il Saggio (Vincennes, 1338 – Nogent-sur-Marne, 1380), re di Francia.

chant royal: cfr. l’edizione Les Oeuvres d’Estienne Pasquier contenant ses Recherches de la France…, Amsterdam, 1723, livre septième, V, p. 695 sgg. Riccoboni ricava tale riferimento dal Traité de la Police, ed. 1729, cit., p. 401.

«défense … à peine, et. C. » : il testo dell’ordinanza del 1398 recita più esattamente così: «Elle fait défense à tous les Habitans de Paris, à ceux de saint Maur et des autres Villes de sa Iurisdiction, de representer aucun jeux de personnages, soit de vies de Saints, ou autrement, sans le congé du Roy, à peine d’encourir son indignation…». Ivi, p. 401.

[4.21] lettres… 1402: il testo dell’ordinanza di Carlo VI è riportato nella Histoire du théâtre françois depuis son origine jusqu’à present, cit., pp. 44-48.

Charles VI: Carlo VI (Parigi, 1368 – ivi, 1422), re di Francia.

théâtre... Trinité: spazio dove si istalla la confraternita della Passione, come da Histoire du théâtre françois, cit., p. 50, in cui si legge che l’edificio, dapprima chiamato Hôpital de la Croix de la Reine, era stato fondato nel XII secolo per accogliervi i pellegrini.

moralités: così il Traité de la Police, ed. 1722, p. 370 che riporta anche il rinvio bibliografico da completarsi nella seguente forma: Jacques Du Breuil, Le Théâtre des antiquités de Paris, 1612.

François premier: Francesco I di Valois (Cognac, 1494 – Rambouillet, 1547), re di Francia; sulla conferma dei privilegi alla Confraternita, Histoire du théâtre françois depuis son origine jusqu’à present cit., p. 53.

[4.22] Arrêt …1547: più esattamente così: «à condition de n’y joüer que des sujets profanes, licites et honnetês, et leur fit de très-expresses défenses d’y representer aucun Mystere de la Passion, ni autre Mystere sacrez : il les confirma au surplus dans tous leurs privileges et fit défenses à tous autres qu’aux Confreres de la Passion, de joüer ni representer aucuns jeux, tant dans la Ville, Fauxbourgs que Banlieü de Paris sinon sous le nome et au profit de la Confrerie»,Traité de la Police, ed. 1729, t. I., cit., p. 402.

Henri II: Enrico II (Saint-Germain-en-Laye, 1519 – Parigi, 1559), re di Francia.

Charles IX: Carlo II (Saint-Germain-en-Laye, 1550 – Vincennes, 1574), re di Francia.

[4.23] Hôtel de Bourgogne: situato in rue Mauconseil (oggi rue Etienne Marcel), dopo il divieto delle rappresentazioni religiose, l’edificio acquistato dai confratelli è adibito alle rappresentazioni profane, sino a diventare il teatro della Comédie-Italienne di Evaristo Gherardi e della stessa Comédie-Italienne di Riccoboni, come lo stesso precisa in nota.

[4.24] farce de Pathelin: La Farce de Maître Pathelin, rappresentata nel corso del Quattrocento e stampata a Lione nel 1485.

Jodelle: Etienne Jodelle (Parigi, 1532 – Parigi, 1573), uno dei primi autori tragici francesi.

[4.25] La destruction… grande: Jacques Millet, La Destruction de Troye, Lyon, Guillaume Le Roy, 1485.

L’Iphigénie: Ifigenia di Euripide tradotta in versi francesi da Thomas Sibilet, Paris, Gilles Corrozet, 1550. Si tratta dei primi volgarizzamenti della tragedia greca.

Hécube: Ecuba di Euripide tradotta da Guillaume Bouchelet e in un’altra versione da Lazare Baïf negli anni indicati da Riccoboni che usa la La Biblioteque cinquecentesca di du Verdier.

Electre: Elettra di Sofocle; la traduzione di Lazare Baïf è del 1537.

Cléopatre et de Didon: Cléopâtre captive, la prima tragedia di Etienne Jodelle (Parigi, 1532 – ivi, 1573), rappresenta a Reims al cospetto della corte nel 1553; Cléopâtre captive e Didon se sacrifiant sono stampate postume nel 1574.

du Verdier… française: La Biblioteque d’Antoine du Verdier… , Lyon, Barthelemy Honorat, 1585. Citazione e riferimento alla pagina sono esatti.

[4.26] Eugene: Eugène, commedia di Jodelle, rappresentata nel 1552.

de Taillebras: personaggio della commedia Le Brave (1567) di Jean-Antoine de Baïf (Venezia, 1532 – Parigi, 1589).

Miles gloriosus: una delle commedie sicuramente attribuite a Plauto (259/251 – 251 ca a. C), il commediografo più noto e amato del teatro romano.

Eunuque: Eunuco, commedia dell’autore latino Publio Terenzio, rappresentata nel 161 a. C.

Andrienne: l’Andrie di Terenzio, volgarizzata in francese dall’umanista Bonaventure des Périers pubblicata nel 1537.

[4.28] basoche: Confrérie de la Basoche, corporazione dei chierici di giustizia, cioè coloro che lavoravano per avvocati e magistrati; fra le loro attività l’organizzazione di feste e spettacoli (moralità e farse).

Marot: Clément Marot (Cahors, 1495 − Torino, 1544), scrittore francese, figlio del più noto poeta Jean Marot, partecipa da giovane a rappresentazioni di farse nei marciapiedi.

[4.29] Hotel de Flandres: spazio in uso dalla Confraternita della Passione sino al 1548 per la rappresentazione dei misteri.

[4.30] Bibliothèque des Théâtres: Bibliothèque des Théâtres, contenenat le Catalogue alphabetique des pièces dramatiques, opera, parodies, et opera comique…, Paris, Prault, 1733, esatta la citazione sull’Andrienne (ivi, p. 27)

Andrienneen 1537: più esattamente nel testo citato si legge « Ajoutés celle de Bonaventure Desperiers en 1537 », ivi, p. 323.

[4.31] théâtre de la Trinité: riferimento alla sala affittata dalla Confraternita della Passione per la rappresentazione dei misteri alla Trinità, dove sorgeva sin dal Duecento l’Ospedale adibito a ospitare i pellegrini.

[4.32] Girolamo Ruscelli: Girolamo Ruscelli (Viterbo, 1518 – Venezia, 1566), poligrafo.

Recueil… italien: l’edizione da cui cita Riccoboni, indicandola con un titolo molto lontano da quello originario, è: Delle comedie elette nuovamente raccolte insieme, con le corretioni, et annotationi di Girolamo Ruscelli …, Venezia, Plinio Pietrasanta, 1554, p. 171.

[4.34] pièces par écriteaux: pratica teatrale della Foire, che utilizza testi basati sui segni non verbali.

[4.37] Molière: la data di nascita esatta è il 1622.

[4.39] Josias: Josias, tragédie de messer PHILONE, traduite d’italien en françois, Genève, Perrin, 1556, Philone è nome di copertura che nasconde quello del poeta Louis des Mazures (Tournay, 1523 – 1580).

Sophonisme: anche il frontespizio dell’edizione di Lione (1584) recita « traduite d’italien en français par Claude Mermet ».

La Carthaginoise: La Carthaginoise ou La Liberté, o Sophonisbe, composta attorno al 1596 da Antoine de Montchrestien (Falaise, 1575), poi apparsa nelle sue Tragédies, 1601).

Les Deux Courtisanes: unica pièce di Avost Jérome tradotta attorno al 1584 da quella di Lodovico Domenichini (Firenze 1563, Venezia 1565, ecc.), a sua volta rifacimento della Bacchides di Plauto.

Les Supposeés: commedia tradotta da Jean-Pierre de Mesmes nel 1552 dai Suppositi di Ariosto.

Le Négromant: Le Négromant, comédie tirée de l’Arioste, Paris, Morel, 1573. L’autore è Jean de la Taille.

L’Emilie: il riferimento è alla seguente traduzione: La Emilia comedia nova di Luigi Groto Cieco di Hadria / Emilie comédie nouvelle de Loys Groto, aveugle d’Adria, Paris, Guillemot, 1609.

Les Bravacheries du Capitan Spavente: l’indicazione bibliografica è esatta.

Soliman empereur des Turcs: adattamento dalla tragedia Solimano di Prospero Bonarelli (Venezia, 1619) eseguito da Charles Vion de Dalibray o D’Alibray (Paris, Quinet, 1637).

[4.41] Cid, Horace, Cinna: fra le più celebri e tragedie di Corneille, rappresentate la prima nel teatro del Marais da Mondory, pseudonimo di Guillaume Gilbert, nel dicembre 1636 e poi pubblicata l’anno seguente (Paris, Courbé); Horace recitata nel 1740 e pubblicata con dedica al cardinale di Richelieu nel 1641 (Paris, Courbé); Cinna, ou la Clémence d’Auguste recitata nel 1640, ma pubblicata nel 1643.

Cosroe: scritta dopo il ritiro di Rotrou dall’incarico di poeta di teatro all’Hôtel de Bourgogne, la tragedia (La Haye, 1649) è l’ultimo testo teatrale del prolifico e poliedrico Rotrou.

[4.42] Paris …1658: la troupe de Molière arriva a Parigi nell’ottobre 1658 e vi rappresenta davanti Luigi XIV e la corte Nicomède e Le Docteur amoureux; nello stesso mese le viene assegnata la sala del Petit-Bourbon.

L’Etourdi: L’Ėtourdi ou le contretemps, comédie représentée sur le Théâtre du Palais Royal par J- B. P. Molière, Paris, Quinet, 1663, è composta a Lione nel 1655.

Dépit amoureux: Le Dépit amoureux, comédie, représentée sur le Théâtre du Palais Royal par J- B. P. Molière, Paris, Barbin, 1663; anche questa seconda commedia, scritta nel 1656, era rimasta per molti anni inedita.

Précieuses ridicules: Les Précieuses ridicules è rappresentata per la prima volta con grande successo nel novembre 1659 e pubblicata l’anno seguente (Paris, de Luyne, 1660).

Cocu imaginaire … l’Ecole des maris: Sganarelle ou Le cocu imaginaire è rappresentata per la prima volta nel maggio 1660 e stampata avec les arguments de chaque Scène a Parigi, de Luyne, 1662; L’École des maris, in scena nel giugno 1661 e pubblicata nello stesso anno.

Ces pièces … depuis: in nota il riferimento alle sue importanti Observations sur la comédie, et sur le genie de Molière, Paris, Pissot, 1736. Lien

[4.44] opéra comique: genere operistico francese di origine popolare che si afferma nel Settecento, nato dagli spettacoli del teatro della Foire e della Comédie-Italienne.

Académie de musique: l’Académie royale de musique, fondata nel 1669.

[4.46] Cet homme… maigre: con alcune modifiche la citazione è già nell’Histoire et recherches des antiquites de la ville de Paris, par Henry Saval, Paris, 1724, in seguito nella Bibliothéque des Théatres, Paris, Prault, 1733, pp. 150-151 e nel «Mercure de France», settembre 1730, p. 2168-2070. In nota il rinvio a [Samuel Chappezau], Le théâtre françois …, Lyon, Mayer, 1674.

[4.47] Turlupin: nome d’arte di Henri Le Grand (Belleville, 1583 – Parigi, 1634): attore di farse, recita dal 1615 al 1625 all’Hôtel de Bourgogne.

Gautier Garguille: Hugues Guéru, detto (Seés, 1574 – Parigi, 1634), dopo l’esordio con Molière recita all’Hôtel de Bourgogne con Gros Guillaume e Turlupin in ruoli farseschi.

Gros Guillaume: Robert Guerin, detto (1554 circa – Parigi, 1634), attore comico.

Guillot Gorgu: (Parigi, 1600 – Parigi, 1648), attore francese, succede nel 1635, all’Hôtel de Bourgogne, a Gros Guillaume.

[4.48] Crispin: personaggio del servo o valet che compare con alcune caratteristiche nel teatro francese di metà Seicento, la cui fama è legata all’attore e drammaturgo Raymond Poisson che lo recita.

[4.49] mode… andrienne: veste da camera lanciata nella moda femminile francese dal costume di scena indossato da Thèrese Dancourt nella recita dell’Andria di Terenzio, rifatta dal celebre attore francese Michel Boyron, detto Baron.

[4.50] «on fit … sédition»: «il fit défenses à toutes personnes de quelque condition qu’elles fussent, de faire aucune insolence en l’Hôtel de Bourgogne lors que l’on y representoit quelques jeux, d’y jetter des pierres, de la poudre, ou autres choses qui pussent émouvoir le Peuple à sedition, à peine de punition corporelle». Traité de la police, tome premier, Paris, Pierre Cot, 1705, p. 403.

[4.53] «d’avoir … parterre»: «Sur tout si cette premiere regle éstoit suivie de la sureté dont nous avons parlé, de quelque soin de leur commodité, et de leur faire tenir des sieges dans le Parterre», [Michel De Pure], Idées des spectacles nouveaux, Paris, Brunet, 1668, p. 174.

[4.54] «il est ordonné … tard»: «Nous avons fait et faisons très-expresses inhibitions et défensens auxdit Comediens…», Traité de la police, tome premier, cit., p. 404.

[4.55] «fait… galeries»: ivi, p. 404.

Louis XIV: Luigi XIV (Saint-Germaine-en-Laye, 1638 – Versailles, 1715), detto il re Sole, regna, dall’età di cinque anni, per settantadue anni, portando al massimo fulgore politico e culturale la monarchia e la Francia.

[4.60] Mazarin: Giulio Raimondo Mazzarino (Pescina, L’Aquila, 1602 – Vincennes, 1661), cardinale dal 1641, statista e primo ministro di Luigi XIV.

Giulio Strozzi: (Venezia, 1583 – ivi, 1660) autore poemi e libretti, fra cui il più celebre è La finta pazza, rappresentato al Teatro nuovissimo di Venezia nel 1641, con gli allestimenti scenici di Jacopo Torelli. Il testo venne riedito nel 1645 in occasione della celebre messa in scena francese con il nuovo titolo segnalato da Riccoboni.

[4.61] abbé Périn: Pierre Perrin (Lione, 1620 – Parigi, 1675), creatore dell’opera francese; ottiene nel giugno 1669 il privilegio di fondare un’Accademia di musica, inaugurata con il primo spettacolo nel 1671.

Lully: Giovanni Battista Lulli (Firenze, 1632 – Parigi, 1687), naturalizzato francese; al servizio di Luigi XIV come maestro di musica della famiglia reale, cura tutti gli spettacoli operistici, di musica e danza, innovando sensibilmente la musica francese.

Quinault: Philippe Quinault (Parigi, 1635 – ivi, 1688), drammaturgo e librettista, dal 1672 librettista ufficiale di Lully.

Proserpine: Proserpina rapita, libretto di Giulio Strozzi musicato da Francesco Sacrati (Parma, 1605 – Modena, 1650), rappresentato a Venezia nel 1644.

Persée: un Perseo è cantato al Teatro Grimani di Venezia nel 1665; le musiche sono del compositore Andrea Mattioli.

[4.63] Castor et Pollux: celebre opera di Jean-Philippe Rameau (Digione, 1683 – Parigi, 1764) andata in scena il 24 ottobre 1737 all’Académie royale de musique.

[4.67] danses… opéras: genere teatrale francese, in voga fra la fine del XVII e la prima metà del XVIII secolo, in cui si alternano parti cantate e parti danzate.

menuet: minuetto, danza introdotta nel teatro di corte all’epoca di Luigi XIV.

bourrée: altra danza di coppia entrata nell’opéra-ballet e in altri spettacoli teatrali di corte da Lully a Rameau.

courante: danza fortemente ritmica in uso nello spettacolo barocco.

Opéra de Paris: il teatro dell’Opéra che utilizzava all’epoca la sala del Palais-Royal e che è nato dalla fusione dell’Académie royale de danse, istituita nel 1661 d Luigi XIV, con l’Académie de musique nel 1671. Solo a questo teatro era concesso il privilegio di rappresentare pezzi teatrali in musica.

Parallèle des théatres italien, espagnol et français §

[5.2] Plaute: Plauto, noto commediografo latino (Sarsina, 250 a. C. ca – Roma ?, 184 a. C), autore di almeno 21 commedie certe, fra cui Amphitruo, Menaechmi, Miles gloriorious.

Terence: Terenzio, nato a Cartagine II secolo a. C., autore di sei commedie fra cui l’Andria; la sua comicità più raffinata, rispetto a quella popolare di Plauto, costituirà un modello alternativo della commedia dal Rinascimento in avanti.

[5.3] Le Chevalier du S. Sacrement: commedia di Lope de Vega, Er Caballero del Sacramento, rappresentata nell’agosto del 1610.

[5.5] nouveau genre: la cosiddetta comédie larmoyante, nuovo genere esemplificato con l’École des amis (1737) di Pierre-Claude Nivelle de La Chaussé (Parigi, 1692 – Parigi, 1754), su cui Riccoboni aveva scritto la Lettre sur L’Écoles des amis, Paris, Prault, 1737.

Théâtre anglais §

[6.2] Edouard III: Edoardo, santo, il Confessore (Islip, 1002 – Westmeister, 1666), regna dal 1043.

[6.5] Antiquité de Londres: la fonte è il volume di John Stow, The Survey of London: Contayning The Originall, Increase, Moderne Eestate, and Government of that City [….], London, Purslov, 1633 (1° ed., 1601), pp. 75-83.

Richard II: Riccardo II (Bordeaux, 1367 – Pontefract, 1400), re d’Inghilterra dal 1377 al 1399.

[6.6] représentations morales: anche per l’Inghilterra si risale alla data della istituzione della festa del Corpus Christi (1264, ma ufficializzata nel 1311) per la nascita dei miracle plays il cui allestimento nel tempo sarà ad opera delle corporazioni di arti e mestieri, pur se sotto la supervisione del clero. Oltre ai miracle plays si affermano i morality plays.

[6.9] le roi: Enrico VIII Tudor (Greenwich, 1491 – Londra, 1547), re d’Inghilterra, e poi d’Irlanda, dal 1509; dal suo contrasto con Clemente VII, per la richiesta di annullamento delle nozze con Caterina d’Aragona, procede lo scisma e la nascita della Chiesa anglicana.

représentation… Plaute: la fonte, come segnalato in nota, è R. Holinshed, The Chronicles of England, Scotland, and IrelandFaithfully gathered and set forth by Raphael Holinshed, London, Imprinted for I. Hunne, 1577.

[6.11] Elisabeth: Elisabetta I Tudor (Greenwich, 1533 – Richmond, 1603), regina d’Inghilterra e di Irlanda dal 1558.

Vie… anglais: il testo citato è Gerard Langbaine, The Lives and Characters of the English Dramatick Poets, London, Printed for Tho Leigh Vie… anglais: il testo citato è Gerard Langbaine, The Lives and Characters of the English Dramatick Poets, London, Printed for Tho Leigh […], [1698], pp. 106-107.

[6.12] « Le Seigneur… par G.G. »: Ivi, pp. 106-107. Si tratta della tragedia Ferrex e Porrex, il cui titolo originale è The Tragedy of Gorboduc di Thomas Norton e Thomas Sackville, rappresentata nel 1561 ed edita per la prima volta nel 1565 (London, William Griffith).

[6.13] Ibidem.

[6.15] Ivi, p. 107. Per un riscontro, Thomas Warton, The History of English Poetry…, (1774-1781), new edition, London, Thomas Tegg, 1824, vol. IV, p. 178.

[6.17] Vie de Shaskpear: Some account of the Life, & c. of Mr. William Shakespear in Nicholas Rowe, The Works of Mr. William Shakespear; in six volumes. Adorn’d with Cuts. Revis’d and Corrected, with an Account of the Life and Writings of the Autohor, London, Printed for Jacob Tonson […], MDCCIX, vol. I.

[6.18] Guillaume Shaskpear: William Shakespeare (Stratford, 1564 – ivi, 1616), considerato il più grande drammaturgo e uomo di teatro di tutti i tempi. Già noto nel 1592 negli ambienti londinesi di teatro, la sua carriera teatrale si lega alla riapertura dei teatri nel 1594 dopo la chiusura dovuta alla peste del 1592, quando nasce la compagnia dei Chamberlain’s Men che dal 1599 recita nel nuovo edificio teatrale del Globe.

Romeo et Giuliet: Romeo and Julet, stampata per la prima volta senza il nome dell’autore nel 1597.

Richard II: rappresentato nel 1597 e pubblicato nello stesso anno con molti interventi censori; il nome dell’autore compare nella ristampa dell’anno successivo.

[6.19] Jacques: Giacomo Stuart (Edimburgo, 1566 – Londra, 1625), già re di Scozia, sale al trono d’Inghilterra, unificando le due corone, nel 1603.

«Et leur … royaume»: è la traduzione, questa volta quasi letterale, dell’ordinanza di Giacomo I, tratta da John Stow, A survey of the cities of London and Westminster, Borough of Southwark, and Parts, cit., chapter XV, p. 229.

[6.22] Benjhonson: Ben Jonson (Londra, 1572 – Londra, 1637), poeta e drammaturgo inglese.

[6.27] Hamelet: Hamlet, Prince of Denmark, composta fra il tardo 1600 e il 1601, la cui prima stampa abusiva risale al 1603, seguita da quella del 1605. Anch’essa come Richard II e altre tragedie nasce come remake di drammi preesistenti, recitati da altre compagnie.

Le More de Venise: Othello, The Moor of Venis, prima tragedia recitata alla corte di Giacomo I nel 1604; stampata per la prima volta nel 1621.

[6.32] Critique… anglais: Jeremy Collier, A Short View of the Immorality and Profaneness of English Stage: Together with The Sense of Antiquity upon this Argument …, The Second Edition, London, printed for S. Keble […], 1698, sicuramente letto nella traduzione francese di Père Courbeville: La critique du theatre anglois, comparé au theatre d’Athenes, de Rome et de France et l’opinion des auteurs tant profanes que sacrez, touchant les Spectacles De l’anglois de M. Collier, Paris, Nicolas Simart, MDCCXV.

Collier: Jeremy Collier (Stow cum Quy, Cambridgeshire, 1650 – Londra, 1726), teologo e critico teatrale inglese.

[6.34] Athalie: protagonista dell’Athalie, l’ultima tragedia di Racine; di argomento biblico, è rappresentata per la prima volta nel 1691.

Phocas: personaggio di Héraclius, empereur d’Orient, tragedia di Pierre Corneille, rappresentata e pubblicata nel 1647.

[6.35] réforme… anglais: secondo il gusto regolare della tragedia francese e italiana.

Caton d’Utique: Cato, a tragedy, as it is acted at the Theatre-Royal in Drury Lane… , by Mr. Addison, London, Tonson, 1713. Varie le traduzioni francesi e italiani del Cato, fra cui quella erudita di Anton Maria Salvini e quella destinata alla recita dello stesso Riccoboni, entrambe del 1715.

Addisson: Joseph Addison (Milston, 1672 – Kensington, 1719), politico e scrittore inglese.

deux partis: nel prologo del Cato, scritto da Alexarder Pope, si riconobbero i due partiti, wighs e tories.

[6.36] Georges Barnewell: The London Merchant, or the History of George Barnwell, as it is acted at the Theatre-Royal in Drury Lane… by Mr. Lillo, London, Gray, 1731. L’autore è George Lillo.

[6.38] Congreve: William Congreve (Bardsey, 1670 – Londra, 1729), scrittore inglese soprattutto di commedie durante la Restaurazione, conosciuto direttamente da Riccoboni.

l’année 1727: data in cui dopo vari tentativi Riccoboni si reca per la prima volta a Londra atteso dal cognato, il compositore Giovanni Bononcini.

[6.39] le parterre… amphitéâtre: anche Riccoboni, come nota più in generale Allardyce Nicoll, percepisce la forma dei teatri inglesi non del tutto diversa dal Teatro Olimpico di Vicenza. Nelle ricostruzioni, ad esempio in quella del Drury Lane, la sala diventa rettangolare e nella platea sono istallate le panche che consentono al pubblico di stare seduti, diversamente dall’uso precedente.

[6.40] deux théâtres: i celebri Drury Lane e Covent Garden, costruiti rispettivamente nel 1663 e nel 1732 che avevano il monopolio della prosa.

[6.41] Linksinfild: Lincoln’s Inn Field: teatro londinese nato nel 1661 e precedentemente chiamato Duke’ Theatre, in cui si rappresentavano commedie.

Crispin Médecin: commedia in tre atti di Noël Lebreton de Hauterouche (Parigi, 1617 – ivi, 1707), rappresentata nel 1670.

[6.42] Guérin: Isaac-François Guérin (Paris, 1636 ca –ivi, 1728), attore francese, dopo aver fatto parte della troupe del teatro del Marais entra a far parte della Comédie-Française.

Théâtre hollandais §

Théâtre flamand et hollandais

[7.1] Langage flamand: fiammingo, lingua del ceppo germanico parlata anche oggi nel Belgio settentrionale, quasi identica al nederlandese.

Wallons … Picards: valloni, abitanti del Belgio meridionale che parlano il vallone, lingua romanza simile al francese; piccardi, abitanti della Piccardia, regione a nord della Francia.

démembrement … unies: unificate dal 1477 sotto Massimiliano di Asburgo, poi sotto la dominazione spagnola sino al 1648, le province unite comprendevano l’area dei Paesi Bassi, costituendo una repubblica federale.

[7.3] depuis 1566: è la data esatta in cui hanno inizio le rivolte delle città calviniste all’interno del movimento per l’indipendenza che ha il suo leader in Guglielmo d’Orange e che vede lo scontro civile fra indipendentisti e lealisti nei confronti della corona spagnola.

[7.4] Reden … Kameren: Camere di retorica, o gilde (corporazioni teatrali), nate attorno al 1440 come espressione della cultura media in opposizione a quella aristocratica; esse si occupavano di organizzare i mistery plays e i miracle plays e ogni tipo di processione.

[7.5] Brabant: regione dei Paesi Bassi, il ducato di Brabante comprendeva molte città quali Aversa, Bruxelles, Lovanio, ecc.

Anvers: città del Brabante, in cui fra le corporazioni teatrali si segnala la Gilda dei romanisti.

Gand: antica città delle Fiandre (Belgio); nel 1539 vi si rappresentano pièces allegoriche, cioè delle satire contro il papa, il clero e le indulgenze. L’altra opera citata è del 1562 (Anvers, Silvius) e raccoglie sotto il titolo Spelen van sinnen le pièces morali rappresentate nel 1561 in occasione del concorso delle Camere di retorica di Bruxelles, Lovanio, Anversa, ecc.

Heerlem… Vlaerdinge: la prima è una piccola città olandese, menzionata insieme a quelle di Gouda, Schedam, Alemar, Leyde, Vlaerdinge.

Rotterdam: città; il volume del 1607, citato in nota, è una raccolta di dodici pièces in versi che trattano il tema della pietà con arie musicate; quello del 1617, stampato ad Amsterdam, raccoglie le pièces dei retori delle corporazioni di Vlaerdinge.

Voorschooten… Wassenaar: piccoli centri olandesi, ricordati insieme a quello di Losduynem vicino L’Aia.

[7.6] épithalames: epitalamio, componimento per festeggiare le nozze; presso i greci la serenata che si cantava presso la stanza nuziale la sera prima delle nozze.

élegies: componimento poetico improntato a un tono meditativo, malinconico o di compianto.

éloges: discorso solenne in lode di qualcuno.

Kamerspel: Kamerspiel, dramma da camera.

Kermes: messe, fiera

Reden ryschers: Reden Rykers, assemblea dei versificatori.

chevaliers … Archebuse: detti nel Settecento anche cavalieri del nobile gioco dell’arco, derivante dalla pratica militare, trasformatasi nel corso del Cinquecento nel gioco cavalleresco del tiro all’archibugio.

[7.7] Der Spiegel der Minne: De spiegel der minnem, Haarlem, Jan van Zuren, 1561, dramma di argomento amoroso scritto da Colijn van Risjssele.

Colin Van Ryssele: Colijn van Risjssele, poeta olandese; nato a Bruxelles è attivo fra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento.

Hegmon à Horn: Thoms Asselijn, De Dood Van de Graaven Egmod en Hoorne, Treurspel, Amsterdam, by d’Erfgen, 1685; Thomas Asselijn (Dieppe, 1620- Amsterdam, 1701), autore soprattutto di commedie.

Aman: tragedia biblica del 1630 che tratta la storia di Ester, scritta dal drammaturgo riformato Jacob Revius

Tamerlan: J. Ser Wouters, Den Grooten Tamerlan met de dood van Bayaset de I, Turks Keiser, Amsterdam, by Jacob Lescaille, 1657.

Corradin: tragedia dello scrittore olandese Ludolfo Smids, morto ad Asterdam nel 1720.

[7.8] Gysbrecht van Ameste: I. V. Vondels, Gysbreght van Aemstel, d’Ondergang van zijn stad en zijn ballingschap. Trevrspel. Gespeelt op de Amsterdamsche Kamer den 4 Iannuarij 1638, Amsterdam, Voor Ioost Hartgertsen Boeckverkoper, woonende inde Gasthuys-steech by’t Stadthuys, 1638.

Siège de Leyde: Jacob Duym, Ghedruckt tot Leyden, Van Hestens, Leyde, 1606.

[7.10] à l’exception… usage: si tratta di tragedie consacrate per il loro significato politico che celebrano la resistenza e l’indipendenza dei Paesi Bassi dagli spagnoli, come Ghedruckt tot Leyden di Jacob Duym (1547-1612 o 1616) e Gysbreght van Aemstel di Joost van den Vondel, che, rappresentata per inaugurare il nuovo teatro municipale di Amsterdam nel 1638, ha 110 performances fra il 1683 e il 1665.

[7.11] Hooft: Pieter C. Hooft (Amsterdam, 1587 – L’Aia, 1647), lettore di Montaigne, traduttore di Tacito, autore di testi storici (Henrik de Grote, Nederlandsche Historien) e di varie opere teatrali, fra cui le Achilles en Polyxena (1614) Theseus en Ariadne (1614), Geeraerdt van Velsen (1613), Baeto (1617),

Vondel: Joast van den Vondel (Colonia 1587 – Amsterdam, 1679), il più rappresentativo scrittore del teatro classico barocco.

[7.12] Palamede: I. V. Vondelens, Palamedes, Trevrspel, By Iacob Aertsz Calom 1625.

prince Maurizio: Maurizio di Orange (Dillemburg, 1567 – L’Aia, 1625), statolder di tutte le province della repubblica olandese dal 1585.

Barnevelt: Johan van Oldenbarnevelt, segretario del principe Maurizio; firma senza il consenso di quest’ultimo una tregua con gli Spagnoli e viene condannato a morte.

[7.15] le … française: Dominique Bouhours (Parigi, 1628 – ivi, 1702), autore fra l’altro di La manière de bien penser dans les ouvrages d’esprit, Parigi, Mabre-Cramoisy, 1687 che avvia la polemica con i letterati italiani.

erreur: si tratta della nota querelle sulla superiorità fra le due lingue e letterature, francese e italiana, nota come polemica Orsi-Bouhours cui partecipa anche Muratori; Orsi pubblica le Considerazioni sopra un famoso libro franzese, Bologna 1703 (ma 1704) e Ludovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, Modena 1706.

[7.16] vers alexandrin: verso della poesia francese, composto da dodici sillabe.

rimes … fémminines: nella tradizione provenzale e francese, le rime maschili sono quelle fra parole ossitone; femminili fra parole in cui una sillaba segue quella tonica.

[7.17] La Mort du Prince d’Orange: Bruin Claas, De dood van Willem den Eersten, Prinz van Oranje, treurspel, Amsterdam, van J. Lescailje en D. Rank, 1721.

[7.18] Dancourt: Florent Carton (Fontaineblau, 1661 – Courcelles, 1725), attore e prolifico autore di commedie.

Le Grand: Marc-Antoine Legrand (Parigi, 1673 – Parigi, 1728), attore e autore di commedie di grande successo.

[7.19] Vangermers: potrebbe trattarsi dell’attore Douwe van deer Meer (1705-1761).

Noseman: Ariana Nozeman (Middelburg, 1626- Amsterdam, 1661), debutta nel 1655 allo Schouwburg.

Brinckhuyse: Johanna BrinkhuiJsen (Amsterdam, 1682- ivi, 1717), attrice.

Duym: Frederik Duym (Amsterdam, 1674 – ? 1751 o 1754), attore e scrittore di teatro.

[7.20] salles… ovale: le sale dei teatri olandesi avevano una forma ellittica e, come nota Nicoll, uno stile e una struttura unici.

[7.22] Théâtre d’Amsterdam: Schouwburg, costruito su progetto di Jacob van Campen nel 1638 e poi rifatto negli anni 1750-1775 secondo lo stile barocco italiano.

Lairesse: Gérard de Lairesse (Liegi, 1641 – Amsterdam, 1711), celebre pittore e decoratore e teorico d’arte del secolo d’oro olandese.

[7.23] In magnis voluisse sat est: In magnis et voluisse sat est: «Nelle grandi imprese è sufficiente anche solo l’aver voluto», Properzio, Eleg., 2, 10.

Latet quoque utilitas: «Resta nascosta anche l’utilità».

Nil volentibus arduum: «Niente è impossibile per chi vuole», altro motto di una società letteraria olandese che a fine Seicento tende al classicismo.

L’Application fait fleurir les Arts: «Lo studio fa fiorire le Arti».

[7.24] Catalogue… 1727: Può darsi si tratti di un catalogo non stampato; nel sito Oxford Bibliographies alla voce «Dutch Theater and Drama» si legge che dal 1400 al 1620 le pièces olandesi toccavano un numero molto elevato, circa 700.

[7.25] Duym: Frederik Duym o Duim (Amsterdam, 1674 – 1751 1754), attore olandese.

Baron: Michel Boyron (Parigi, 1653 – ivi, 1729), detto Baron, celebre attore della Comédie-Française.

Maze: Adriana Maas (Amsterdam, 1702-ivi, 1746), attrice.

de Brym: Anna Maria de Bruyn (Zwolle, 1708- Amsterdam, 1744), attiva nei teatri di Amsterdam dal 1719.

Théâtre germanique §

[8.2] bardes: antichi cantori di imprese epiche dei popoli celti.

chant: i bardi sono paragonabili agli aedi greci.

meistre langer: Meistersänger, i maestri cantori, artigiani riuniti secondo le corporazioni delle arti, i quali regolamentavano la composizione dei testi, delle melodie e della loro esecuzione.

600 … antiquité: riferimento al minnesang, componimento lirico, generalmente una canzone, del XII e XIII secolo, che tratta soltanto soggetti amorosi. In nota la fonte: Reiner Reineck, Oratio de Historia Eiusque Ddignitate…, Frankfurt, Wechel, 1580.

Othon le Grand: Ottone I di Sassonia (Walhausen, 912 – Memleben, 973), imperatore del Sacro Romano Impero.

Maxmilien I: Massimiliano I d’Asburgo (Wiener Neustadt, 1459 – Wels, 1493), imperatore del Sacro Romano Impero. In nota i riferimenti, coì nella forma corretta: Daniel Georg Morhof, Unterricht von den Teutschen Sprache und Poesie, Kiel, Reumann, 1682; Georg Philipp, Harsdörffer, Specimen Philologiae Germanicae, Nürnberg, Endter, 1646.

Mayence… Augsburg: le città di Mainz, Strasburgo, Norimberga, Augusta.

[8.4] Hannsach: Hans Sachs (Norimberga, 1494 – ivi, 1576), celebre maestro cantore, autore di commedie popolari e canti carnascialeschi, oltre che di testi poetici, fra cui il poema in lode di Lutero. In nota il rinvio a Johann Christoph Wagenseil, De Sacri Rom. Imperii Libera Civitate Noribergensi Commentatio. Accedit, De Germaniæ Phonascorum, Von Der Meister Singer…, Altdorf, Kolhes, 1697.

[8.5] Massenius: Jacob Masen, Speculum Imaginum Veritatis Occultæ …, Koln, Kinckius, 1650.

Charles Quint: Carlo V d’Asburgo (Gand, 1500 – San Jerónimo de Yuste, 1558) imperatore.

[8.11] Charles Paul: Carl Andreas Paulsen (Amburgo, 1620 – 1678, incerta), attore di una delle prime compagnie comiche.

Velten: Johannes Velten (Halle, 1640 – Dresda, 1692), fonda la compagnia che nel 1678 prende il nome di Chursächsische Comödien-Bande o Attori dell’Elettore di Sassonia a Dresda e vi introduce in traduzione il repertorio del teatro francese. Rappresenta anche il teatro inglese e spagnolo.

[8.13] Jean Optiz: Martin Optiz (Bunslau, 1597 – Danzica, 1639), fra i primi iniziatori di una letteratura colta, compone e traduce anche opere in musica.

André Gryphius: Andreas Gryphius (Glogau, 1616 – ivi, 1664), poeta, celebre soprattutto come drammaturgo e in particolare come autore di tragedie.

Gaspard de Lohenstein: Daniel Caspar von Lohenstein (Slesia, 1635 – 1683), poeta tragico.

[8.18] architectes italiens: fra questi, Lodovico Burnacini cui si devono importanti progetti fra cui quello del teatro di corte, inaugurato nel 1668, poi demolito. Da un disegno si evince che il palcoscenico era grande e profondo, la sala riccamente ornata, la platea e tre ordini di palchi (Nicoll). In seguito, attivo fra Vienna, Neuburg, Heidelberg, è Alessandro Galli Bibbiena.

[8.20] Livonie: Livonia, oggi territorio diviso fra Estonia e Lettonia, nel 1600 conquistata prima dalla Polonia e poi dalla Svezia, poi alla fine della guerra nordica ceduta alla Russia.

troupes … italiennes: fra quelle italiane, la compagnia di Antonio Sacco, in arte Coviello Cardocchia, che si sposta fra Vienna, Hannover, Varsavia, e a Dresda figura come compagnia di corte; un’altra compagnia della corte di Dresda è quella di Tommaso Ristori e del figlio Giovanni Alberto.

musiciens … Empereur: ad esempio Giovanni Bononcini, già ricordato, o Antonio Caldara (Venezia, 1670 – Vienna, 1736), compositore sia nel genere operistico che nella musica sacra.

Extrait de l’allemand §

Extrait

[Extrait.1.2] Le Caton mourant: traduzione del titolo della tragedia Sterbender Cato, Leipsig, 1735 di Johann Christoph Gottsched (Konisberg, 1700 - Lipsia, 1766), letterato tedesco impegnato a regolamentare sul modello francese la letteratura tedesca e il teatro. Riccoboni riporta anche la traduzione della Prefazione, il Petit traité di Fénelon (Projet d’un Traité sur la Tragédie), una critica sul Catone e la risposta di Gottsched che fanno parte dell’edizione del testo tedesco.

Préface

[Extrait.1.5] Boileau: Nicolas Boileau (Parigi, 1636 – Parigi, 1711), letterato e teorico francese, autore delle Satires e dell’Art poetique, considerato il manifesto del classicismo francese.

Le Combat… Chimène: è la tragicommedia di Corneille, Le Cid. Corneille è autore molto rappresentato dalle compagnie ambulanti anglo-tedesche fra Sei e Settecento, fra cui quelle di Michael Daniel Treu e di Andreas Elson; un adattamento del Cid si deve a Isaak Clauβ.

la troupe… Saxe: potrebbe trattarsi della compagnia in cui cantavano i coniugi Margherita e Cosimo Ermini, virtuosi di camera di sua maestà alla corte di Dresda che recitavano anche intermezzi comici, inizialmente con Giovanni Alberto Ristori (Vienna, 1693 - Dresda, 1753).

[Extrait.1.6] Horribilicribrifax: Horribilicribrifax Teutsch, dramma di Andreas Gryphius del 1663.

Endymion : Endymion, pastorale heroique, mise en musique par Monsieur Collin De Blamont… Les Paroles sont de Monsieur de Fontenelle, Paris, Ballard, 1731.

[Extrait.1.7] Rothen: Albrecht Christian Rotth, Vollständige deutsche Poesie…, Leipzig, Lanck, 1688.

Menantes: (pseud.), Christian Friedrich Hunold, Teatralische, galante und Gedichte, von Menantes Hamburg, Fickweiler, 1722.

Poétique… Dacier: La Poétique d’Aristote traduite en française avec des remarques, Paris, Barbin, 1692. Traduzione di André Dacier.

CasaubonGrecs: Isaac Casaubon, De satyrica graecorum et romanorun satira libri duo, Paris, Drouart, 1605.

Poétique … Rappolt: Rappoltus, Poetica Aristotelica sive de veteris tragoedia expositio.

Hensius… constitutione: Daniel Hensius, De Tragoediae Constitutione, 1611

Pratique…d’Aubignac: celebre trattato del letterato François Hédelin, abate d’Aubignac, apparso una prima volta nel 1657 (Paris, Sommaville) e poi nel 1715.

Danchet: Antoine Danchet (Riom, 1671 – Parigi, 1748), autore drammatico anche di libretti.

Voltaire: (pseud.) François-Marie Arouet (Parigi, 1694 – Parigi, 1778), il grande filosofo illuminista e autore tragico, già noto in Europa negli anni trenta per le sue tragedie.

Théâtre… Brumoy: Théâtre des Grecs, par le R. P. Brumoy, Paris, Coignard, 1730.

Histoire… Riccoboni: Oltre all’Histoire du théâtre italien, Paris, 1728, Gottsched citava, in apertura della prefazione, la Merope di Maffei, inserita in una triade: Cid, Cato e Merope.

[Extrait.1.8] comédiens … chef: Johann Neuber che, insiema alla moglie l’attrice Carolina, stringe un sodalizio con Gottsched; questo segna il debutto del teatro nazionale tedesco e di una riforma improntata all’utilità sociale del teatro e alla moralità.

Prince…Brunswik: Antonio Ulrico von Braunschweig (Hitzacker, 1633 – Salzdahlum, 1714), scrittore e amante delle arti, gli succede nel 1714 il primogenito Augusto Guglielmo.

Regulus… Pradon: Regulus, tragedia del 1688 di Nicolas Pradon (Rouen, 1632 – Parigi, 1698), fatta rappresentare attorno al 1725 dal poeta della corte di Dresda, Johann Ulrich König, anche lui incline al classicismo francese.

Bressand: Friederich Christian Bressand (1670? - 1699), impresario traduttore alla corte di Brunswick.

Brutus: può trattarsi del Brutus di Catherine Bernard (Mort des enfants de Brute, 1690) o di quello del P. Porée (1708). Il Brutus di Voltaire è del 1730.

Alexander: Alexandre le Grand, tragedia di Racine (Paris, Girard, 1666).

traduit… plume: Gottfried Lange, Der Cid, 1699.

[Extrait.1.9] membre… Nuremberg: Christoph Fürer von Haimendorf (Haimendorf, 1663 – Norimberga, 1732).

Vesta… Flore: Christiliche Vesta und irrdische Flora, 1702.

Iphigénie: rappresentata e edita nel 1674 (Paris, Barbin).

Bérénice: rappresentata nel 1670, edita nel 1671 (Paris, Barbin).

[Extrait.1.10] mon Caton: è il suo Sterbender Cato, ein Trauerspiel, Leipzig, Teubners Buchladen, 1732, riedito nel 1735.

[Extrait.1.11] Caton d’Utique: Marco Porzio Catone, detto Uticense (95 a. C. – 46 a. C.), uomo politico romano che si suicida in opposizione a Giulio Cesare.

Virgile: Publio Virgilio Marone (Andes presso Mantova 70 a. C. – Brindisi, 19 a. C.), il più celebre poeta latino, autore dell’Eneide dove accenna a Catone (libro VIII 8, v. 670).

Horace: Quinto Orazio Flacco (Venosa, 65 a. C. – Roma, 8 a. C.), poeta latino la cui Ars poetica diventa un modello nel Settecento. Di tendenze repubblicane nella giovinezza, elogia la morte nobile («nobile lectum») di Catone nelle Odi, I 1, 36 e il suo animo inflessibile («praeter atrocem animum Catonis»), II, 1 24.

Auguste: Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano (Roma, 63 a. C. – Nola, 14 d. C.), già figlio adottivo di Cesare, dopo il suo assassinio e la guerra civile, assume il potere nel 43 a. C. Il suo principato o impero segna la fine della Repubblica romana.

Lucain: Lucano Marco Anneo (Cordova, 39 – Roma, 65), poeta latino, autore del poema Bellum civile o Pharsalia in cui Catone è ritratto come il saggio stoico disinteressato, amante della natura e rigido osservatore delle virtù (II 380-391).

Sénéque: Lucio Anneo Seneca (Cordova, 4 a. C. – 65 d. C.), filosofo stoico e scrittore latino, le sue tragedie costituiscono un modello fondamentale in età moderna. Sul suicidio di Catone De providentia (2.10) e le Epistulae morales ad Lucilium (24.7).

Claude: Tiberio Claudio Augusto Germanico (Lione, 10 a. C. – Roma, 54 d. C.), quarto imperatore romano.

Néron: Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico (Anzio, 37 d. C. – Roma, 68 d. C.), quinto imperatore romano, regna dal 54 d. C. e muore suicida.

Maternus… éloquence: Curiazio Materno, drammaturgo latino; Tacito nel suo Dialogus de oratoribus gli attribuisce la scrittura di una favola su Catone.

[Extrait.1.13] Caton: Cato. A tragedy. As it is Acted at the Theatre-Royal in Drury-Lane, by Her MAJESTY’s Servant s. By Mr Addison, London, Tonson, 1713, come già annotato a proposito del teatro inglese.

[Extrait.1.14] Deschamps… Caton: François-Michel-Chrétien Deschamps (Troyes, 1683 – Parigi, 1747), autore di varie tragedie, fra cui Caton d’Utique, La Haye, Johnson, 1715.

[Extrait.1.15] sujet de Sophonisbe: il soggetto dell’eroina cartaginese ispira le tragedie di Trissino (1524), Jean Mairet (1634), Corneille (1663), John Marston (1666), Lohenstein (1669), James Thomson (1730).

Térence: Publio Terenzio Afro (Cartagine, 185 a. C. – 159 a. C.), poeta comico romano, di lui si conservano le commedie.

Quœ convenere…. suis: dal Prologo dell’Andria (La donna di Andro), in cui Terenzio finge che gli si rimprovera di aver tratto la Donna di Andro e la Donna di Perinto dalle commedie di Menandro: stessa trama, diversi la forma e lo stile.

[Extrait.1.16] Habet bonorum…. putat: dal Prologo del Tormentatore di se stesso (Heauton Timorumenos), in cui Terenzio, dopo aver affermato di aver tratto la trama da una commedia greca e che usa contaminare le tante commedie greche per ricavarne poche latine, dichiara che o farà ancora: ha a disposizione l’esempio di ottimi scrittori e, forte di tale esempio, ritiene che sia lecito fare ciò che era lecito ad altri.

[Extrait.1.17] Ménandre: Menandro (Atene, 344-43 o 342-41 a. C. – ivi, 291 o 290, a. C.), commediografo greco, ritenuto il maggior poeta della commedia «nuova». Le scoperte papirologiche hanno restituito parti di commedie, i cui intrecci hanno molto influenzato anche le commedie di età moderna.

Sophocle: Sofocle (497 a. C. – 406 a. C.), poeta tragico ateniese, elevato a paradigma della stessa tragedia; degli oltre cento drammi, restano sette tragedie: Aiace, Antigone, Edipo re, Elettra, Trachinie, Filottete, Edipo a Colono.

Euripide: Euripide (Salamina, 480 – Pella, 406), poeta tragico ateniese, di cui restano, oltre a frammenti di almeno sessanta drammi, 17 tragedie, fra le quali: Alcesti, Medea, Ippolito, Andromaca, Ecuba, Le Troiane, Ifigenia in Tauride, Le Baccanti.

[Extrait.1.19] Aristote: Aristotele (Stagira, 384-83 a. C. – Calcide, 322 a. C.), filosofo greco la cui filosofia in ogni ambito ha dominato la cultura occidentale sino al primo Settecento. In quello teatrale la sua Poetica ha dettato le regole, costituendo il testo fondatore del classicismo.

Petit traité de M. Fénelon §

[Traité.1.1] M. de Cambray: François de Salignac de la Mothe (Périgord, 1651 – Cambrai, 1715), filosofo, autore delle celebri Aventures de Télemaque (1699), in cui si prospetta il modello di un re che vuole la felicità dei sudditi.

dans son ouvrage: si tratta del Projet d’un Traité sur la Tragédie, che fa parte delle Réflexiones sur la Grammaire, la Rhétorique, la Poetique et l’Histoire…, par M. de Fénelon, Archevesque Duc de Cambray, l’un des Quarante de l’Académie, Paris, Coignard, 1716.

Sentiments de M. Fénelon. §

Projet d’un traité sur la tragédie

[Traité.2.2] Platon: Platone (Atene, 428/427 a. C. – ivi, 348-347), filosofo greco che ha fondato la filosofia occidentale. Qui si accenna al celebre bando della poesia fondata su favole imitatrici e delle armonie conviviali e molli, come ad esempio le ioniche. La trattazione della musica nella Repubblica (III) è assai più complessa.

[Traité.2.3] son Œdipe: tragedie di Corneille, rappresentata nel 1659, confrontata con l’Edipo re di Sofocle, a vantaggio della tragedia greca per l’introduzione dell’episodio relativo all’amore fra Teseo, re di Atene, e Dirce, figlia di Giocasta e Laio. [Traité.2.4] Impitoyable…. Amour: Corneille, Œdipe, acte, III, sc. I, vv. 779-788. [Traité.2.6] Percé… rigueur: Corneille, Le Cid, acte I, sc. VII, vv. 293-296. [Traité.2.8] Impatients… poursuis: Corneille, Cinna, I, sc. I, vv. 3-8 (così nelle prime edd.). [Traité.2.9] Despreaux: è Nicolas Boileau-Despreaux; un riferimento nella sua Art poétique, III, vv. 139-144.

[Traité.2.10] L’œil… épouvanté: Racine, Phèdre, acte V, vv. 1505-1506 e vv. 1523-1524. [Traité.2.12] Hélas… monde: lamentazioni dell’Edipo sofocleo al momento in cui scopre l’atroce verità sulla sua vera identità. La prima traduzione francese dell’Edipo re è di André Dacier: Œdipe et Electre, Paris, 1693.

[Traité.2.13] Hercule et Philoctète: allusione alle Trachinie e al Filottete di Sofocle. [Traité.2.16] Ou… secourût: Corneile, Horace, acte III, sc. VI, v. 1022. [Traité.2.17] An tragica… arte?: Orazio, Epistole, I 3 14; Fénelon sostiene il principio poetico della natura, contrapposto a chi gonfia la tragedia di parole, pratica, come dimostrerebbe la citazione da Orazio, non ignota agli antichi.

[Traité.2.18] Projicit … verba: Orazio, Arts poetica, v. 97; anche in questa citazione c’è il suggerimento di rigettare le parole ampollose e sonanti, come per altro Orazio suggerisce a chi recita e compone tragedie.

[Traité.2.20] Parcere… superbos: «usare clemenza a chi cede, ma sgominare i superbi», così Virgilio, nell’Eneide, libro VI, v. 853.

[Traité.2.21] Imperet… hostem: «Armato l’oste, il vinca: al suol se langue / la man gli porga», Orazio, Carme Secolare.

[Traité.2.22] Svetone: Gaio Svetonio Tranquillo (attorno al 69 d. C. – post 122), erudito e biografo latino, noto per il De vita Caesarum e il De viris illustribus, comunemente Le vite dei dodici imperatori.

Auguste… Seigneur: «Abborrì sempre, come un insulto e un obbrobrio, l’appellativo di signore», Vita di Augusto, LIII (Vite dei Cesari, traduzione di Felice Dessì).

Manu… plebem: «con le mani e con l’espressione del viso, frenò quelle indecorose adulazioni, e, il giorno dopo, le biasimò con un editto altissimo. Da allora non tollerò di essere chiamato “signore” nemmeno dai figli o dai suoi nipoti, né sul serio né per ischerzo, e proibì anche fra di loro questo genere di lusinghe Manu… plebem: «con le mani e con l’espressione del viso, frenò quelle indecorose adulazioni, e, il giorno dopo, le biasimò con un editto altissimo. Da allora non tollerò di essere chiamato “signore” nemmeno dai figli o dai suoi nipoti, né sul serio né per ischerzo, e proibì anche fra di loro questo genere di lusinghe […] Durante il consolato, si mostrò in pubblico quasi sempre a piedi; quando non era console, spesso in lettiga chiusa. Ammetteva ai suoi ricevimenti anche la plebe». Ivi, LIII.

In Consulato… plebem: «Durante il consolato, si mostrò in pubblico quasi sempre a piedi; quando non era console, spesso in lettiga chiusa. Ammetteva ai suoi ricevimenti anche la plebe». Ivi, LIII.

Quotiens…populo: «Ogni volta che interveniva ai comizi per l’elezione dei magistrati, faceva il giro delle tribù con i propri candidati e sollecitava il voto, secondo l’antico costume. Andava anche personalmente a votare nella sua tribù». Ivi, LVI.  

Filiam … assefaceret: «Educò la figlia e le nipoti in modo che si abitassero anche a filare la lana».   Habitavit …mansit: «abitò sul Palatino, ma nella modesta casa di Ortensio, che non si faceva notare né per la sua grandezza né per la sua eleganza, con un piccolo porticato di colonne in piperino, senza saloni adorni di marmi o di pavimenti di lusso. Per più di quarant’anni dormì nella stessa stanza, d’estate come d’inverno». Ivi, LXXII.  

Instrumenti … sint: «Possiamo constatare anche adesso la modestia delle sue suppellettili e del suo arredamento, guardando i letti e le tavole che ci rimangono, e che, nella maggior parte, hanno a stento l’eleganza di quelle di un privato cittadino Instrumenti … sint: «Possiamo constatare anche adesso la modestia delle sue suppellettili e del suo arredamento, guardando i letti e le tavole che ci rimangono, e che, nella maggior parte, hanno a stento l’eleganza di quelle di un privato cittadino […]. Indossò quasi sempre abiti fatti in casa, confezionati dalla sorella, dalla moglie, alla figlia o dalle nipoti». Ivi, LXXIII.

Cœnam… comitate: «Offriva di solito una cena di tre portate e, quando la voleva molto abbondante, una di sei, senza eccessiva spesa ma con estrema cordialità». Ivi, LXXIV.

Cibi… fere, etc: «Per quanto concerne il cibo, poiché non voglio trascurare nemmeno questo, dirò che mangiava pochissimo ed era di gusti quasi volgari». Ivi, LXXVI.  

Tibère: Tiberio Claudio Nerone (42 a. C. – Capo Miseno, 37 d. C.), adottato da Augusto, sale al trono nel 14; con il suo regno, portato a esempio di tirannide e atrocità, si consolida il potere imperiale.

Pline: Plinio il Giovane (Como, 61 o 62 d. C. – 114 circa), scrittore latino di cui è noto il Panegirico a Traiano.

Trajan: Traiano Marco Ulpio (Italica, Betica, 52 d- C. – Selinunte, 117 d. C.), imperatore romano circondato dalla fama di ottimo principe rilanciata dal Medioevo in avanti.

Tite-Live: Tito Livio (Padova, 59 a. C. – 17 d. C.), storico latino autore della celebre e fortunata anche in età moderna storia di Roma dalla sua fondazione (Ab Urbe condita libri) alla morte di Druso nel 9 a. C.  

Plutarque: Plutarco (Cheronea, Beozia, 50 d. C. – ivi, dopo il 120), scrittore greco autore di opere morali e delle celebri Vite parallele assunte come vite esemplari nella modernità presso filosofi e soprattutto scrittori.

Ciceron: Marco Tullio Cicerone (Arpino, 106 a. C. – Formia, 43 a. C.), scrittore e oratore latino, dall’Umanesimo in poi assunto come maestro di stile. Autore di orazioni e opere filosofiche, politiche e retoriche.  

Ne quicumque… captet: Ars poetica, vv. 227-230; «è necessario che la divinità o l’eroe, / ammirati alla loro apparizione / nella regalità dell’oro e della porpora, / non finiscano per la volgarità del linguaggio / nella caligine di una taverna / o che per evitare le paludi / si librino nel vuoto tra le nubi».

[Traité.2.23] Et tragicus… pedestri: Ars poetica, v. 95. In un significato più ampio: il tragico usa lamentarsi con un linguaggio pedestre.

Critique d’un ami anonyme sur le Caton §

Réponse de l’auteur aux critiques ci-dessus §

[Réponse.2] Homère: quasi sicuramente esistito, forse nato nella penisola dell’Ermo o nell’isola di Chio, ritenuto già nel VII secolo l’autore dell’Iliade e dell’Odissea, da intendersi senza alcun senso della proprietà artistica individuale.

Verum… somnun: Ars poetica, v. 360. Il riferimento è a Omero e pertanto è scusabile che in una opera lunga si possa insinuare il sonno.

[Réponse.3] Sunt… sonum: Ivi, vv. 347-348. Il senso è questo: alcune colpe o errori vanno perdonate, perché la corda non sempre risponde.

[Réponse.5] In vitium… arte: Ivi, v. 31; «se non c’è arte, per evitare errori si cade in altri difetti».

[Réponse.6] Elle… vois: Il Cid, acte III, sc. I.

[Réponse.7] liaison… scènes: regola introdotta nel teatro francese dopo il 1630.

[Réponse.13] Marc-Aurèle Antonin: Marco Aurelio Antonino (Roma, 121 d. C. – 180), imperatore romano; autore di un libro di riflessioni, A se stesso, improntate alla filosofia stoica.

[Réponse.15] ce qu’Aristote… apprend: riferimento all’indicazione di Aristotele di non mostrare personaggi ottimi che passino dalla felicità all’infelicità, né un malvagio che passi dalla felicità all’infelicità, bensì di scegliere come protagonista chi stia nel mezzo fra costoro. Poetica, 1453a.

[Réponse.17] Dissertation…. modèrne: compresa nel primo tomo dell’Histoire du théâtre italien.

Paragone… tragica: è il Paragone della poesia tragica italiana con quella di Francia, Zurigo, Rordorf, 1732 di Pietro Calepio. Lien

Becelli… Maffei: Al lettore di Giulio Cesare Becelli nell’edizione del 1730 della Merope compresa in Teatro del Sig. Marchese Scipione Maffei cioè la tragedia la comedia il drama non più stampato…, Verona, Tumermani, 1730.

Et tragicus… dolet: Ars poetica, v. 95; riprende la citazione sul lamentarsi del tragico.

[Réponse.19] Respicere… voces: Ivi, vv. 317-318. Orazio consiglia per il carattere del personaggio di avere come modello la vita per trarne figure vive.

[Réponse.20] Ne forte…aptis: Ivi, vv. 176-178; Orazio sconsiglia di affidare a un vecchio la parte di un giovane e viceversa, perché qualche tratto tipico del carattere permarrà.

[Réponse.21] Sublimis… pernix: Ivi, v. 165; il giovane, dice Orazio, è eccessivo nel bramare e allo stesso modo pronto a lasciare ciò che ama.

[Réponse.25] Fungar… secandi: Ivi, vv. 304-305; Orazio scrive che si limiterà a fare la parte della cote che non è fatta per tagliare ma per affilare la lama. Nei versi che seguono l’insegnamento per la formazione dei poeti.

[Réponse.26] Il y a aussi: Riccoboni riprende la parola e precisa che non riporta il seguito del dibattito che segue la risposta di Gottsched.

[Réponse.28] Tragédies …1558: in effetti Hans Sachs inizia a scrivere testi sin dal 1514 e continua sino al 1569, anche se il suo decennio d’oro va dal 1550 al 1560; gli sono stati attribuiti fra canti, drammi, commedie, tragedie, allegorie, salmi, sogni, visioni, ecc., oltre mille di testi. Riccoboni cita alcuni titoli su oltre cento tragedie e commedie. Fra quelle di argomento antico, storico o mitologico: Circe e Ulisse, Cleopatra regina d’Egitto, Clitennestra, Giocasta, Clizia e Agatocle i due greci; La commedia della disputa fra Giunone e Giove, La commedia di Plauto chiamata Menecmi, Lucrezia, Lucio Papirio, Perseo e Andromeda, Romolo e Remo, La conversazione fra Alessandro Magno e il Filosofo Diogene, La corte di Venere, La disputa fra Talete e Solone, La distruzione di Troia, ecc.. Fra quelle di argomento biblico: La commedia della regina Esther, Davide commette adulterio con Betsabea, La distruzione di Gerusalemme, L’intera storia della regina Esther, L’intera storia di Tobia, La commedia di Daniele, I Maccabei, La resurrezione di Lazzaro, Il sacrificio di Isacco, Sansone il Giudice, Storie di Giacobbe e Giuseppe, ecc.; di argomento storico medievale: Ugo Capeto, Rosmunda la falsa regina, ecc.

Pièces… Martin Optiz: in elenco, la traduzione delle Troiane di Seneca (1625); della Dafne di Rinuccini musicata da H. Schütz (1627), che segna l’avvio dell’opera nel teatro tedesco; ancora la traduzione dell’Antigone di Sofocle (1636), la tragedia Judith del 1635.

Pièces … Gryphius: Leo Armenius (1648), Catharina von Georgien (1657), Cardenio und Celinde (1657), Carolus Stuards (1657), Aemilius Papinianus (1659), Gebroeders (1641) adattamento dalla tragedia di Vondel; la traduzione del Berger extravagant di Charles Sorel (1661); Piastus (1657); Absurda comica oder Herr Peter Squentz (1657), Horribilicribrifax (1663)

Pièces… Lohenstein: Kleopatra (1661), Sophonisbe (1680), Ibrahim Bassa (1650), Agrippina (1665), Epicharis (1665).

Pensées sur la déclamation §

[Pensées.4] Démosthene: Demostene (384 a. C. – 322 a. C.), uomo politico e oratore ateniese assunto, sin dal 3° secolo a. C. come il retore per eccellenza; in lui l’oratoria è rivolta alla difesa delle liberà democratiche di Atene, come nelle Filippiche.

[Pensées.7] Les… Antiquité: in nota Riccoboni indica Cicerone e Quintiliano (35-40 d. C. – 96 circa). Quest’ultimo, originario dalla Spagna, è il primo retore stipendiato dallo stato. Noto sin dal Medioevo, ma poi scoperto nell’Umanesimo, il suo trattato di retorica sulla formazione dell’oratore, l’Institutio oratoria.

[Pensées.9] éloquence extérieure: fra i molteplici scritti sull’eloquenza apparsi in Francia nel XVII secolo, sicuramente note a Riccoboni le Réflexions sur l’usage de l’éloquence de ce temps (1672) del gesuita Rapin, autore anche delle Réflexions sur la poétique d’Aristote, et sur les ouvrages des poètes anciens et moderns (1674).

[Pensées.14] naturel: Quintiliano nel trattato La formazione dell’oratore, indica, sin dal primo libro l’attore comico quale esperto di pronunzia, mentre nell’undicesimo lo stesso è segnalato come modello per l’apprendimento della gestualità. Sulla pronunzia, Quint. Inst. 1,12, 14 e 2, 10,13.

[Pensées.20] en enthousiasme…en composant: qui e più avanti Riccoboni riecheggia i Dialogues sur l’éloquence en general et sur celle de la chiare en particulier avec une lettre écrite à l’Academie François, par … Fénelon, Paris, Delaulne, 1718.

[Pensées.27] Seigneur… visage?: Mithridate, Acte III, sc. IV.

[Pensées.28] Scaramouche: Scaramuccia, maschera della commedia dell’arte diventata celebre grazie alla recitazione del napoletano Tiberio Fiorilli, poi chiamato nel 1640 alla Comédie-Italienne.

[Pensées.34] autre part: in Dell’arte rappresentativa, cap. V e VI. Lien Sempre in Dell’arte rappresentativa, cap. II. Lien

[Pensées.40] déclamation… France: già ivi, cap. V, la contrapposizione fra la recitazione naturale e la declamazione francese.

[Pensées.41] Baron: Michel Boyron, detto Baron (Parigi, 1653 – ivi, 1729), celebre attore della Comédie-Française; si ritira dalle scene nel 1691 e vi rientra nel 1720. A questa performance si riferiscono le critiche avanzate nei suoi confronti, pur senza essere nominato, in Dell’arte rappresentativa, cap. III. Lien

Lecouvrer: Adrienne Lecouvreur (Damery, Marna, 1692 – Parigi, 1730), attrice molto ammirata nella recitazione non molto enfatica di Corneille e Racine; sulla sua declamazione, ivi, cap. V.

[Pensées.42] orateur sacré: sull’oratore sacro il Traité de l’action de l’orateur ou de la prononciation et du geste, Paris, 1657.

sermon: componimento poetico di carattere moralistico o didascalico; nella tradizione cristiana un discorso fatto in un luogo di culto, predica.

panégirique: nell’antica Grecia discorso tenuto in un’adunanza festiva (Quint., Inst., 3, 14); in epoca latina, discorso celebrativo di un personaggio illustre; in età moderna rivolto alle lodi di un santo.

oraison funèbre: discorso o preghiera in onore di un defunto.