Francesco Saverio Salfi

1797-1832

Della declamazione [posth.]

Édition de Matilde Esposito
2018
Source : Francesco Saverio Salfi, Della declamazione, per F. Salfi, preceduta da un cenno biografico su l’autore e pubblicata per cura di Alfonso Salfi, Napoli, Stabilimento Tipografico di Androsio, Cortile S. Sebastiano, 51, 1878.
Ont participé à cette édition électronique : Matilde Esposito avec la collaboration d’Anna Pia Filotico (OCR, Stylage sémantique), Éric Thiébaud (XML-TEI) et Anne-Laure Huet (édition TEI).

Introduzione §

[…] concediamo pure che ci sia (che esista primariamente e assolutamente; si vuol dire: indipendentemente dallo studio che se ne effettua) un oggetto degli studi teatrali. Quale sarebbe? Lo spettacolo, certo. Ma l’oggetto, oltre che significante, deve essere dato, presente: il che non avviene per nessuna, o quasi, componente dello spettacolo escluso il testo verbale cioè, per indebita identificazione, il testo letterario1.

Come sottolinea Franco Ruffini all’interno del suo studio Semiotica del testo. L’esempio teatro (1978), la ricostruzione di uno spettacolo (in particolare di spettacoli risalenti all’era pre-digitale) deve far fronte all’assenza di una fonte diretta, che non sia il testo drammatico. Se l’intenzione è quella di svincolarsi da una prospettiva logocentrica del fenomeno teatrale, occorre ricercare altrove le fonti per ricostruire la messa in scena, pur nella consapevolezza della virtualità di tale ricostruzione. Questo altrove consiste, per dirla con le parole di Marco De Marinis, nel «recupero del testo (culturale) generale (TG)2», ossia di testi teatrali ed extra teatrali che, agendo sul contesto artistico, filosofico, letterario, abbiano potuto orientare la creazione dello spettacolo. Tra questi testi rientrano dunque trattati di scenografia, di architettura o di pittura, testi letterari, filosofici, fonti iconografiche. E, ovviamente, testi sull’arte dell’attore.

Lo studio delle immagini in seno agli studi teatrali ha avuto un notevole impulso nell’ultimo decennio, soprattutto grazie ai contributi di studiosi quali Renzo Guardenti e Maria Ines Aliverti. Nonostante la difficoltà nello stabilire il grado di vicinanza che intercorre tra un documento figurativo illustrativo di una messa in scena e lo spettacolo reale, o l’apporto che un’immagine non strettamente teatrale può offrire alla ricostruzione delle pratiche teatrali, lo studio dell’iconografia si rivela un mezzo fondamentale per colmare la lacunosità delle fonti3.

Per quanto concerne i trattati italiani sull’arte dell’attore tra Settecento e Ottocento, gli studi critici in materia si rivelano invece del tutto insufficienti4. A ostacolare uno studio sistematico di tali fonti è in primo luogo lo statuto incerto di tali testi, che non hanno natura né descrittiva, né prescrittiva. Essi infatti non possono dirsi resoconto analitico delle pratiche attoriali del tempo in cui sono composti, né può essere definita la reale forza di impatto che ebbero sulla recitazione degli attori a venire. Tuttavia a partire dai testi che riflettono su come la recitazione di un attore dovrebbe essere, è possibile ricostruire quello che la recitazione non era. Le critiche mosse a certe prassi (a un certo tipo di gestualità, di intonazione, di interpretazione del personaggio) ci aiutano a formulare un modello virtuale di quello che doveva essere lo spettacolo nel periodo preso in esame, ossia l’epoca a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento. Tali testi contribuiscono inoltre, insieme a fonti quali le memorie attoriali, a inquadrare il ruolo svolto dall’attore nel contesto storico-sociale nel quale fioriscono, e ci forniscono un’idea sull’orizzonte di ricezione con cui il fenomeno spettacolare si doveva confrontare.

Il trattato Della declamazione di Francesco Saverio Salfi (Cosenza, 1759 — Parigi, 1832), abbozzato al tempo del triennio giacobino e la cui composizione probabilmente accompagnò il suo autore per il resto dell’esistenza, venne pubblicato postumo nel 1878, in un tempo lontano dall’epoca in cui quelle idee erano state concepite. L’ottica con cui analizzeremo il trattato è quella di specchio di un’epoca di transizione, che aveva fatto tesoro della nuova estetica della sensibilità elaborata al tempo dei Lumi, e al contempo guardava alle nuove sollecitazioni romantiche a proposito dello sviluppo dei caratteri. Il nostro studio ha dunque seguito le linee guida proposte da Federico Doglio all’interno dell’articolo Appunti per un progetto di ricerca su F. S. Salfi teorico e autore del teatro giacobino:

Egualmente ci domandiamo quanto dell’esperienza teatrale parigina risulti nell’opera Della declamazione che egli avrebbe letto al Talma, quanto derivi dalla conoscenza dei testi del Riccoboni, quanto dalla sua precedente vita teatrale in Italia5.

Quando ci si avventura nel campo degli studi teatrali, ci si trova spesso davanti ad una certa settorialità, che oppone il testo drammaturgico al testo spettacolare, a seconda che si tratti di ricerche inerenti alla letteratura teatrale o alla storia dello spettacolo. La storia degli attori dunque risulta divisa da quella dei letterati, come se i dibattiti svoltisi attorno al teatro, nell’accezione letteraria del termine, non avessero potere di influenza sull’elaborazione delle teorie sulla recitazione. Il discorso è valido anche nel senso opposto ovviamente. È pregiudizio comune guardare ai letterati del periodo da noi preso in esame come ad individui alieni della prassi scenica e dal contatto con gli attori. In realtà, la maggior parte di loro prestava notevole attenzione all’aspetto performativo del proprio testo, consapevole che l’incontro con il pubblico costituiva la fase determinante per giudicare il valore e l’efficacia della propria opera. Una delle ragioni che ha sottratto il trattato a uno studio puntuale ha a che fare proprio con il poco interesse che, in sede di studi letterari, viene prestato alla questione della recitazione degli attori e, in ugual misura, allo scarso spazio che, nelle discipline dello spettacolo, viene riservato alla tragedia italiana tra Settecento e Ottocento.

In questa sede abbiamo deciso di adottare una prospettiva che tenesse conto della natura fluida dell’orizzonte dell’arte attoriale, in grado di recepire gli impulsi derivanti dai dibattiti letterari, filosofici e politici coevi. Ragionare sull’attore vuol dire infatti riflettere sul personaggio da lui interpretato, sul corpo tramite il quale mette in scena le passioni, sul suo ruolo di educatore all’interno della società. L’incolmabile assenza dello spettacolo si tramuta così, se non in una presenza, almeno in delle tracce da seguire per ricostruire il macro testo spettacolare della tragedia del tempo.

Tuttavia c’è un’altra assenza, o sarebbe meglio parlare di lacuna, a cui abbiamo dovuto far fronte, ossia l’inconsistenza della bibliografia secondaria inerente al trattato preso in esame e, più in generale, al suo autore, del quale diversi testi di rilievo restano tutt’ora inediti.

Francesco Saverio Salfi rientra tra quelle figure per le quali il volto del letterato è stato subordinato a quello dell’uomo attivo, politicamente impegnato, e la cui produzione letteraria è stata spesso analizzata con un atteggiamento deterministico che la vorrebbe unicamente frutto di istanze politiche. È una prassi comune per certi letterati della stagione giacobina e Risorgimentale. Si pensi all’espressione “Poeta soldato”6 con la quale per lungo tempo è stato etichettato Ippolito Nievo, solo tardivamente sfumata. Discreto interesse ha suscitato tra gli storici il pensiero politico del Salfi, con l’obiettivo di mettere in evidenza il suo coinvolgimento nella costruzione della nazione, dagli anni del giacobinismo napoletano fino a giungere all’adesione alla Carboneria nell’esilio parigino7. Sul piano letterario, a questo proposito, notevole risalto è stato dato alla produzione teatrale del triennio giacobino, in linea con la costituzione di un Teatro Patriottico che divenisse canale di diffusione delle nuove idee rivoluzionarie venute da Oltralpe8. Sul precedente periodo napoletano, tra adesione al dispotismo illuminato, massoneria e giacobinismo, si è soffermata la monografia di Beatrice Alfonzetti, Teatro e tremuoto. Gli anni napoletani di Francesco Saverio Salfi (1994)9, che indaga la sua produzione tragica e librettistica prendendo come punto di partenza il Saggio di fenomeni antropologici relativi al tremuoto (1787). Di recente pubblicazione il lavoro dello storico Vittorio Criscuolo, La penna armata contro la «vil superstizione e la feroce tirannide». Studi sul teatro di Francesco Saverio Salfi (2016), che si è occupato della produzione tragica e per il teatro musicale risalente alla stagione napoletana, pubblicando in appendice gli inediti Giovanna I, Andromeda e Calliroe e Coreso10. Sulla produzione di libretti per i drammi per musica si sono soffermati gli studi raccolti in Salfi librettista (2001), a cura di Francesco Paolo Russo. Da segnalare in particolare l’intervento di Gerardo Tocchini, Dall’Antico Regime alla Cisalpina. Morale e politica nel teatro per musica di Francesco Saverio Salfi11, che sottolinea il valore politico che Salfi affidava alla produzione librettistica, tramite l’adozione di soggetti anticuriali e rivoluzionari che sottraessero il genere alla funzione di puro svago che aveva finito per assumere.

Studi su aspetti specifici della produzione letteraria, filosofica, critica dell’autore sono stati raccolti nel volume Francesco Saverio Salfi. Un calabrese per l’Europa, frutto di un Convegno a lui dedicato svoltosi a Cosenza (23-24 febbraio 1980), a cura di Pasquale Alberto De Lisio.

Agli anni dell’esilio parigino ha dedicato un articolo Gianluigi Goggi12, con particolare rilievo all’attività di critico letterario e alle posizioni politiche assunte da Salfi in quel periodo. Del rifacimento del Corradino del 1831, con il testo della tragedia in appendice all’articolo, si è occupato invece Nicola Galizia13.

Fondamentale per la ricostruzione dei rapporti intrattenuti dal Salfi con gli altri letterati e con esponenti della politica dell’epoca si è rivelata la raccolta di lettere, per lo più risalenti agli anni dell’esilio parigino, pubblicata da Rocco Froio14.

Il trattato Della declamazione da noi preso in esame non è stato oggetto finora di alcuno studio sistematico. Alcune pagine gli vengono dedicate nella datata, ma sempre valida, monografia di Carlo Nardi, La vita e le opere di Francesco Saverio Salfi (1925)15. Del trattato fa cenno anche Giovanni Battista De Sanctis in Francesco Saverio Salfi. Patriota, critico, drammaturgo (1970), che ne fornisce un giudizio decisamente negativo16, senza tuttavia inquadrarlo nel suo contesto e senza menzionare la fonte principale del Salfi, le Lettere sulla mimica di Engel, la cui influenza lo situa in una posizione di innovazione in area italiana. Maggiore spazio gli viene dedicato nel volume di Luciano Bottoni, Il teatro, il pantomimo e la rivoluzione17, che cerca di tracciare, a partire dagli anni del triennio giacobino, le fasi di una storia non scritta che legherebbe Salfi e la sua attenzione per una gestualità individualizzante al Manzoni autore dei Promessi Sposi. Il critico rileva l’importanza assegnata dal Salfi al corpo dell’attore e individua il precedente engeliano, sottolineando l’interesse che il Della declamazione può assumere nell’ambito di una “antropologia teatrale ottocentesca” 18.

Unicamente due capitoli del trattato sono stati oggetto di un’edizione moderna all’interno della pubblicazione Teatro giacobino (1975), a cura di Rosanna Serpa, nella quale vengono raccolti anche il testo de Il general Colli in Roma, della Virginia bresciana, de I Plateesi e delle Norme per un teatro nazionale. I capitoli in questione sono il primo, che affronta genericamente lo statuto della declamazione, e il XXIII, che tratta del progetto di costituzione di una Scuola teatrale. I due testi sono accompagnati da brevi note di commento.

Il presente lavoro nasce dalla rielaborazione delle ricerche svolte dall’autrice per la tesi di Laurea magistrale in Filologia moderna presso l’Università La Sapienza di Roma, in codiploma con l’Université Paris-Sorbonne, sostenuta nel settembre 2017, sotto la direzione della Prof.ssa Beatrice Alfonzetti e del Prof. Andrea Fabiano. L’Introduzione mira in primo luogo a stabilire il peso che le riflessioni svolte sul Termometro politico della Lombardia in veste di critico drammatico, e, più in generale, l’esperienza teatrale milanese, ebbero sull’elaborazione del trattato Della declamazione. Successivamente si è voluto delineare un quadro orientativo della querelle tra classici e romantici, argomento di primo piano al tempo dell’esilio parigino dell’autore cosentino, e si è ricostruita la posizione assunta da Salfi in tale dibattito. Alla luce di tali riflessioni, si è formulata una proposta di lettura del trattato Della declamazione come trasposizione, sul piano della prassi scenica, di quello sviluppo progressivo del carattere che i romantici sostenevano di poter ottenere tramite l’infrazione delle unità aristoteliche. L’ultima sezione introduttiva è dedicata all’inquadramento del trattato in un contesto di nascente pedagogia dell’arte dell’attore, sottolineandone la funzione pedagogica e individuandone il destinatario ideale, ossia l’attore in via di formazione.

Nella Guida alla lettura viene fornito un piano del trattato, che individua i nuclei principali affrontati in ogni capitolo del testo.

Per finire, il commento, accessibile direttamente dal testo del trattato cliccando sulle indicazioni numeriche dei paragrafi, oltre a permettere di rintracciare le fonti di riferimenti puntuali fatti da Salfi, lascia spazio alla ricostruzione del contesto estetico-filosofico in cui Della declamazione si inserisce e individua le tracce lasciate dalla trattatistica attoriale precedente.

Tra i fuochi della rivoluzione e la querelle classico-romantica §

Salfi accorreva a Milano nel 1796, in seguito all’occupazione della città da parte dei francesi, anche lui, come molti altri esuli meridionali, infiammato dagli ideali rivoluzionari19. L’imperativo dell’epoca tra i giacobini era quello dell’Istruzione pubblica20, ed è in questo orizzonte che si situava il teatro. I rischi derivanti da una rivoluzione troppo impetuosa, come lo era stata quella francese, degenerata nel Terrore, facevano optare per il gradualismo: la trasformazione sarebbe arrivata lentamente, e un passo decisivo era quello dell’istruzione delle masse. Così Matteo Galdi nel Giornale de’ patrioti d’Italia, della cui redazione faceva parte anche Salfi, all’interno dell’articolo Idea delle rivoluzioni constatava il fallimento di rivoluzioni mosse dalla precipitazione, come quella dei Gracchi o quella francese, affermando: «Dunque bisogna che le rivoluzioni si facciano placidamente e con l’ordine della natura21». Come fa notare Paul Hazard, è con la fondazione di una società drammatica all’interno della sala del collegio Longoni che il teatro repubblicano viene esportato in Italia22. A Milano si istituirà un concorso per la riforma dell’impianto teatrale, che darà luogo a tre bandi, il primo dei quali il 29 ottobre 1797, con vittoria finale di Luigi Gori.

A questo periodo risalgono degli articoli di critica teatrale scritti da Salfi per il Termometro politico della Lombardia23 di Carlo Salvador, uno dei giornali di maggior diffusione nel periodo giacobino, nato per misurare i cambiamenti della «nuova atmosfera politica, nel cui seno fermenta il sacro cuore del patriottismo24». Dall’analisi di tali testi emerge l’interesse che Salfi nutriva per gli aspetti performativi del teatro, in particolare per la recitazione degli attori. Nel numero 10, datato 8 termidoro IV repub. (martedì 26 luglio 1796), Salfi aveva formulato tredici norme per la costituzione di un Teatro nazionale. Egli insiste sul ruolo pedagogico del teatro, destinato ad insinuare nel popolo l’amore per la libertà:

Or non vi è scuola più attiva ed efficace del teatro, la cui rivoluzione effettuerebbe il più presto possibile la compiuta rivoluzione del Popolo25.

In particolare, a proposito del genere tragico, scrive: «L’oggetto della tragedia è l’interesse politico delle nazioni e quindi la loro indipendenza e l’odio de’ tiranni26 Salfi, come l’Alfieri del Parere sull’arte comica in Italia, lamenta l’assenza di attori istruiti nell’arte della declamazione, e sostiene dunque la necessità di creare «un’accademia del teatro nazionale27». Riprende poi il luogo comune plurisecolare dell’assenza di moralità dell’attore, che aveva assunto particolare rilievo nei progetti di riforma arcadica del teatro, fattore che condiziona l’opinione pubblica sull’evento teatrale, relegato a puro svago che induce al vizio e alla perdizione. Per questa ragione, in una prima fase Salfi ipotizza possano salire sulle scene attori dilettanti, dotati tuttavia di pregi morali e devozione alla Patria28. L’interscambio tra l’orizzonte dei dilettanti e l’orizzonte dei letterati si era rivelato un terreno fertile per la sperimentazione di una riforma del tragico già a partire dal secolo precedente: basti pensare al circolo di nobili bolognesi radunati attorno alla figura del marchese Orsi29. Il teatro giacobino estremizza questa pratica, assegnandole un valore politico30.

L’articolo Declamazione tragica del 20 agosto 1796 consiste invece in una recensione di una rappresentazione del Bruto I di Alfieri, allestita a Milano da una troupe di dilettanti patrioti nella Sala dei Nobili. Anche in questa sede il recensore si sofferma sulla prostituzione delle scene italiane dominate «[…] da persone ignoranti, presuntuose, ridicole ec. quali sono coloro che compongono le ordinarie truppe o greggie comiche31». Loda dunque il calore e la passione che un gruppo di non professionisti ha saputo trasmettere agli spettatori. Sul finale dell’articolo fornisce dei consigli tecnici agli attori per la rappresentazione delle tragedie alfieriane, che alludono in germe a quanto Salfi teorizzerà nel trattato:

Non sempre si richiede lo stesso movimento di voce e di gesto nel progredire un monologo, un dialogo, una qualunque ripresa. Di quanto effetto sarebbero talvolta alcuni riposi opportuni ed espressivi? Si eviti specialmente la troppa nojosa cadenza de’ versi, senza affatto smarrirne il ripieno e l’armonia32

All’interno dell’articolo Teatro, datato 15 novembre 1796, in cui si sottolinea la rapidità e l’efficacia con le quali la rappresentazione scenica trasmette dei valori al parterre, Salfi propone un piano di costituzione di un teatro nazionale articolato in diciassette punti. Egli si sofferma sulla necessità di retribuire degnamente gli attori per ovviare all’alone di disprezzo che avvolge i mestieranti di questo settore (si veda il punto 4). Il desiderio di partecipazione popolare è alla base del punto 10, nel quale si afferma:

Montato il teatro nazionale su questi principj, si dee diminuire il prezzo, il più ch’è possibile, degli spettatori, perché se ne agevoli il concorso33.

Sempre per incentivare il concorso universale, nel punto 11 si formula la possibilità di fare come ad Atene, dove si offrivano rappresentazioni al popolo, predisponendo almeno ogni dieci giorni uno spettacolo gratuito. In generale, l’intenzione che guida le proposte è quella di sottrarre il teatro all’interesse dei privati per ridonarlo al pubblico, e dunque di ottenere finanziamenti statali che concedessero una maggiore autonomia economica:

Esistono fondi per delle università; n’esistono ancora ed infelicemente per delle istituzioni pregiudicevoli o pericolose: e perché non debbono esisterne per un teatro nazionale34?

In un articolo intitolato Teatri il recensore, sempre identificabile con la figura di Salfi, parla della rappresentazione della Virginia alfieriana svoltasi nel Teatro patriottico. L’interesse della critica risiede nell’attenzione prestata alla componente gestuale della declamazione degli interpreti:

Pare che gli attori si sieno tutti chi più, chi meno imposta una legge di far rispondere a ciascuna parola un movimento di braccia e di gambe, che fa degli attori altrettanti energumeni o paralitici, cui spesso bisogna non guardare, per intendere più facilmente35.

Salfi contesta la meccanicità dei gesti, laddove questi potrebbero essere strumentali alla resa dei sentimenti più della parola stessa. Trascurando del tutto l’aspetto testuale, egli si sofferma sulla resa interpretativa, passando in lista i singoli personaggi36. A proposito dell’interprete di Virginia ad esempio scrive:

Qual effetto si sarebbe ottenuto, se non osando di alzare lo sguardo ad Appio, si fosse più manifestato il contrasto di un giustissimo risentimento e della natural verecondia37!

Invece, per quanto riguarda l’interprete di Appio, lamenta l’assenza di gradualità nel manifestare la passione, tema che acquisterà notevole importanza nelle pagine del trattato, nel quale si sottolineerà la necessità di uno sviluppo progressivo del carattere.

Occorre a questo punto domandarsi quanto del Della declamazione si mostrasse già in germe nell’attività svolta sulle colonne del Termometro politico della Lombardia. In questo senso, la sezione che maggiormente risente di tali recensioni coincide con parte finale del trattato, in cui si prospetta l’istituzione di una Scuola teatrale e di un’Accademia direttrice, più orientata dunque verso progetti concreti di organizzazione delle istituzioni operanti nel campo della diffusione dell’arte attoriale. Bisogna tuttavia sottolineare come anche l’attenzione per la gestualità dell’attore, nonché minimi accenni alla necessità di manifestare gradualmente la passione, fossero presenti già a quest’altezza.

A questo proposito, non bisogna trascurare l’esperienza maturata da Salfi tramite la rappresentazione presso il Teatro de’ Fiorentini di Napoli dell’Idomeneo (1792), scène lyrique alla maniera del Pygmalion di Rousseau, e del pantomimo Il general Colli a Roma (1797) presso La Scala di Milano. La sperimentazione all’interno di generi teatrali in cui l’espressione verbale è soppiantata dal movimento del corpo ha certamente permesso all’autore cosentino di elaborare delle riflessioni sul gesto come sostituto della parola e sulla capacità di impatto che uno spettacolo esclusivamente visivo può avere sullo spettatore.

Già dall’analisi del testo dell’Idomeneo è intuibile il lungo apprendistato compiuto da Salfi nella messa in scena del corpo dell’attore. Numerose sono infatti le indicazioni mimico-gestuali38, come «Torna ad avviarsi animato dalla gioja, ma viene arrestato da non so qual turbamento» o «Guarda i luoghi d’intorno con inquietudine39», nelle quali la descrizione del movimento da compiere si accompagna all’annotazione del sentimento corrispondente. Viene inoltre posto l’accento sui silenzi significativi, sottolineando il valore che la pausa è chiamata ad assumere, come avviene nella didascalia «Resta immobile per qualche tempo quasi considerando gli occulti moti del suo cuore40», che indica il momento in cui Idomeneo è assalito dal dubbio di poter incontrare sul lido la moglie e il figlio, ed essere costretto a sacrificarli. Particolare interesse meritano i quadri, ossia le scene corali in cui ogni individuo in scena assume una posa che riflette la sua reazione personale all’evento straordinario che si sta svolgendo. Si veda a questo proposito la didascalia: «Intanto molti, che erano accorsi a soffermarlo, restan sorpresi in diverse attitudini di raccapriccio, di orrore e di pietà41». L’attenzione per l’orchestrazione armonica della collettività troverà spazio anche nel capitolo XVIII del Della declamazione:

Dal concorso armonico di questa muta attitudine che debbono prendere tutti gli astanti si viene via via sviluppando una serie di gruppi e di quadri, che in certi momenti straordinari, se siano bene assortiti, riescono sorprendenti e maravigliosi. In tali incontri dee ciascuno atteggiarsi secondo la sua passione e la sua condizione particolare, sicché, tutte armonizzandosi fra di loro, primeggino sempre le figure predominanti42.

Per quanto concerne invece Il general Colli a Roma, il manoscritto del pantomimo consiste in una descrizione interamente didascalica di quello che avviene sulla scena, con particolare attenzione al decoro e alla disposizione spaziale di oggetti e personaggi. Si legga ad esempio la didascalia che apre il primo atto:

Sala del concistoro; nel fondo il trono pontificio, in cui si monta per tre gradini; la sedia e il di sopra del trono sono coperti di un drappo di oro ecc. Intorno siedono i cardinali, i vescovi, i prelati, teologi ecc. secondo il loro ordine. Dai due lati del trono siedono ancora il nipote del papa ed il principe romano43.

Come fa notare un articolo sul Giornale de’ patrioti d’Italia, «le decorazioni teatrali ora per la sala del concistoro, ora per la piazza di S. Pietro ora per altri oggetti magnificamente espressi, accrescono la bellezza dello spettacolo44». Questo fa pensare che non solo da quanto si evince dalle indicazioni didascaliche, ma anche nella concreta prassi scenica, l’effetto sul pubblico dovesse essere forte.

Da una recensione fatta da Matteo Galdi alla La Congiura pisoniana di Salfi, dramma per musica messo in scena alla Scala nel 1797, riceviamo inoltre una testimonianza scritta del fatto che l’autore lavorasse a stretto contatto con gli interpreti e li indirizzasse nelle prove. Nonostante alcuni difetti, la declamazione degli attori risultava infatti migliorata rispetto al passato, grazie «[…] alle cure e ai travagli incalcolabili di Salfi […]45».

Altro testo del periodo precedente all’esilio parigino, in cui è possibile rintracciare alcuni nuclei tematici che troveranno successivamente spazio nel trattato, è il Discorso dell’autore intorno la presente tragedia diretto alla Società del Teatro patriottico di Milano, pubblicato insieme alla tragedia Pausania (1801). In primo luogo, Salfi sottolinea la centralità della messa in scena nella formulazione di un giudizio in merito a un testo drammatico:

La rappresentazione è uno dei mezzi più sicuri, per giudicare massimamente dell’effetto di una tragedia. Spesse volte n’è regolarissimo il piano, ben deffiniti i caratteri, l’azione economicamente promossa, lo stile conveniente, la versificazione felice; ma tutti questi pregi mancano di quella specie di vita, che sola animando l’azione, i caratteri, lo stile, i versi, le parole medesime, rianima sempre più l’interesse non pur di chi legge, ma di chi ascolta46.

Ritroviamo poi un passo che trova perfetta corrispondenza nel Della declamazione47, nel quale si fa menzione di certe battute che, nella storia del teatro, hanno dimostrato come l’uso di alcune parole specifiche, in una determinata collocazione, possa fare la differenza:

Spesso una parola di meno, o di più, o qua piuttosto che là collocata, è capace di produrre un effetto prodigioso. Ne sono un’evidente dimostrazione il Qu’il mourût di Pierre Corneille nell’Orazio; il Vous changez de visage! di Racine nel Mitridate; il Vous pleurez! di Voltaire nella Zaira48.

Salfi si sofferma inoltre sulla questione della versificazione, sottolineando come spesso siano i versi meno agili a declamarsi a suscitare più impressione nello spettatore, mentre quelli che concedono all’interprete una maggior fluidità «[…] non producono lo stesso effetto, per non potersi evitare quella troppa armonia che spesso svela il troppo artificio del versificatore a danno della passione […]49».In tale affermazione sono già in nuce le riflessioni che troveranno spazio nel capitolo quarto del trattato, che tratta la questione della pronunciazione metrica, e nel quale Salfi sottolinea la sua predilezione per la metrica alfieriana.

All’interno del Discorso, viene inoltre espresso il rimpianto per l’assenza di attenzione nei confronti dell’arte della declamazione in Italia, che non può vantare in quest’ambito talenti degni di essere definiti tali, se non forse «[…] Petronio Zanarini, come il solo fenomeno, il quale mostrando, di quanto gli restino indietro gli attori italiani, mostra altresì di quanto potrebbero andare avanti50». La figura dell’attore Petronio Zanerini veniva d’altronde citata anche nel trattato (Intro.18), nell’elenco di quei pochi interpreti italiani che si segnalassero in un orizzonte complessivamente povero.

Altro punto chiave che emerge dal Discorso, è la proposta di aprire un giornale internamente dedicato alla censura drammatica, che troverà riscontro nel capitolo XXIV del trattato:

Io spero di sottomettere al vostro giudizio alcune mie idee sul metodo della censura drammatica, e forse all’occasione che verrà da voi destinato un giornale per questo oggetto. I trascorsi altrui, rilevati a tempo e giudiziosamente biasimati, o tollerati, offrono la miglior guida a coloro, che volessero e sapessero profittarne51.

Recensioni scritte degli spettacoli, che focalizzassero l’attenzione sull’orizzonte performativo della pièce, ossia sul tono, sul gesto, sui quadri, potevano costituire infatti un importante bagaglio per l’attore, che, a differenza di altri artisti, non può attingere ad una storia scritta della sua arte, dal momento che essa è effimera e non dura che il tempo della rappresentazione.

In seguito all’occupazione austriaca di Milano nel maggio 1814, Salfi riparerà a Napoli, dalla quale fuggirà alla volta della Francia nel 1815, in seguito alla disillusione delle speranze riposte in Gioacchino Murat. A Parigi, tramite l’amicizia con il Guinguené, otterrà la possibilità di collaborare alla Biographie universelle curata da Michaud. Entrerà inoltre nella cerchia dei recensori della Revue encyclopédique del Jullien, alla quale collaborò a partire dal 1819, occupandosi soprattutto della recensione di opere italiane, sia letterarie, che tecniche e scientifiche52, e si dedicherà alla continuazione dell’Histoire littéraire d’Italie del Guinguené. Al periodo parigino risale, oltre alla riscrittura del Corradino, anche la composizione di una Francesca da Rimini rimasta inedita. Nel 1829 pubblicherà inoltre il Saggio storico-critico della Commedia italiana, premesso all’edizione delle commedie di Alberto Nota.

Il trattato Della declamazione si situa lungo un arco temporale che va dal 1797 fino alla morte del Salfi, avvenuta nel 1832. Entra dunque in medias res in un’epoca che vedeva svolgersi un acceso dibattito attorno al genere tragico. Dibattito che, come fa notare Bernard Franco53, apertosi sulla figura di Diderot, avrà poi ripercussioni nella Germania del Gruppo di Coppet, fino a riecheggiare nei testi di un Romanticismo francese ai suoi albori, primo fra tutti quello della Préface de Cromwell (1827) di Victor Hugo.

Salfi entra nel vivo del dibattito fornendo le sue opinioni al riguardo all’interno del Ristretto della Storia della Letteratura Italiana (1831)54. Nell’ultima sezione dell’opera, dedicata all’epoca a lui coeva, si interroga infatti sulle ragioni di divergenza tra classici e romantici. Viene rimproverato in primo luogo a questi ultimi il vanto che essi fanno della propria estraneità da ogni regola e dalla dittatura degli antichi, quando invece sono i primi a imitare pedissequamente i moderni e lasciarsi soggiogare dalle loro regole. Il rifiuto aprioristico di restrizioni che tanto ostentano è per Salfi un controsenso, allorché Dante, Petrarca, Tasso e Ariosto, in cui essi dicono scorgere il genio romantico, furono i primi ad essere lettori e conoscitori dei classici. Questo significa «[…] che il genio de’ romantici può conciliarsi con quello dei classici, sebbene si credano gli uni e gli altri più opposti e più discordi, che non lo sono realmente55».

Salfi contesta poi ai romantici il voler rappresentare le vicende così come si manifestano, abolendo in tal modo la distinzione tra poesia e storia. In quanto al non rispetto delle unità drammatiche, che era divenuto il baluardo della nuova scuola romantica, Salfi sostiene essere dannoso non per il venir meno all’auctoritas di Aristotele, ma perché impedisce allo spettatore di seguire il filo delle vicende. Nei drammi moderni infatti, ogni atto diventa un’entità autonoma e si verifica così una «disgiunzione dei membri dell’azione56». Il soggetto si estende a tal punto nello spazio e nel tempo che si potrebbe scegliere di rappresentare «[…] la storia del genere umano, e dargli per scena tutto l’universo, e per durata l’infinito57».

Salfi si rivela tuttavia favorevole a una prospettiva di conciliazione tra i due partiti che stavano dividendo l’Italia come l’Europa, perché a suo parere il progresso delle Lettere non può che essere ostacolato dalle frontiere interne e perché i punti di disgiunzione tra le due scuole sembrano delle prese di posizione, piuttosto che dei veri e propri terreni di scontro. Sul finale afferma infatti:

Noi crediamo finalmente, che queste specie di contraddizioni letterarie, che spesso nutriscono l’ignoranza e la vanità, possono nuocere ai progressi della letteratura italiana, e ciò che è peggio ancora, confermare quello spirito di divisione municipale che può essere utile a tutt’altri fuorché agl’Italiani58.

C’è tuttavia un merito che egli concede come proprio della scuola romantica, ed è quello di riuscire a penetrare i caratteri meglio di quanto non facciano i classici. Egli ammette così che

[…] i romantici ad esempio di Shakespeare, si mostrano spesso eccellenti in questo genere di tratti caratteristici che si riferiscono al più profondo della natura umana; e che i classici farebbero anche meglio, se si facessero davantaggio distinguere in questa specie di bellezze, che essi hanno troppo di sovente neglette59.

Lo sviluppo dei caratteri dei personaggi nella loro complessità in effetti era una delle parole d’ordine dei romantici. Una delle ragioni per cui essi avversavano tanto le unità drammatiche risiedeva proprio nel fatto che esse circoscrivevano la vita scenica di un personaggio a un arco temporale limitatissimo, condannandolo alla stasi. L’individuo tragico classico, per via di questa mancata evoluzione, diveniva sede di uno scontro tra passioni che tendevano ad astrarlo dalla contingenza e a non definirne l’identità60. La frattura rispetto alle unità concedeva invece di seguire per un periodo disteso la vita del personaggio che, messo a confronto con situazioni più variegate, era nella posizione di far emergere la complessità del proprio io più recondito.

Manzoni fu tra coloro che, nella teoria come nella prassi, avversarono il rispetto delle unità. Che tra l’autore de I Promessi Sposi e il Salfi ci sia stato almeno un incontro è certificato da una lettera spedita dal Manzoni al Fauriel, datata 17 ottobre 1820, in cui egli porge i propri saluti a vari frequentatori del circolo della Condorcet, tra cui il Salfi61. Quella cerchia era infatti la medesima con la quale Manzoni era entrato in contatto nel suo soggiorno parigino attraverso la mediazione del Fauriel. Nel 1805 il Manzoni si era già recato a Parigi, dove le nuove teorie della scuola romantica prendevano piede e dove, a partire dal 1808, Benjamin Constant avrebbe avviato la costruzione di un sistema tragico che conciliasse quello francese con quello tedesco62. L’incontro con il Salfi avvenne però nel suo soggiorno del 1819, quando il Manzoni sperava in una rappresentazione parigina del suo Carmagnola63. Sarà lo stesso Salfi a curare la recensione del Conte di Carmagnola dalle colonne della Revue Encyclopédique64. Nonostante egli affermi la sua diffidenza verso il sistema tragico romantico, il giudizio sulla pièce non è del tutto negativo. Egli infatti scrive: «Quant aux pensées et aux sentimens, ils attestent toujours cette morale patriotique et pure qui, encore si rare, distingue particulièrement l’auteur65 L’afflato patriottico, in parte dovuto alla scelta di un soggetto della storia moderna, metteva così d’accordo il classicista Salfi con il romantico Manzoni. C’è un altro dettaglio della recensione su cui bisogna tuttavia soffermarsi. Salfi imputa alla tragedia una certa difformità nello stile, e commenta dicendo: «[…] ce qui pourrait être aussi une de qualités constitutives de la manière qu’il a adopté66». In nota sottolinea poi come siano stati i letterati tedeschi, quali Lessing e Engel, a individuare nella varietà dello stile uno degli effetti dello sviluppo dei caratteri e delle passioni. È come se, alla luce del risultato ottenuto, ossia una maggior profondità dei personaggi, anche tali dissonanze risultassero, se non degne di lode, quantomeno tollerabili.

Nel 1820 il Manzoni, in difesa delle critiche mossegli al Conte di Carmagnola, scriveva la Lettre à Monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie. In quella sede, Manzoni legava la questione delle unità di luogo e il loro mancato rispetto allo sviluppo dei caratteri. Egli prende in considerazioni due modelli tragici in cui a essere centrale è la passione della gelosia: l’Otello di Shakespeare e Zaïre di Voltaire. La scelta di questa passione non è casuale, dal momento che essa è generalmente considerata come quella più multiforme. È Engel infatti a scrivere:

Se poi si considera la gelosia dell’amore, allora si troverà dinanzi a un autentico Proteo che non ha mai una forma sua propria e che ad ogni istante ne assume una diversa. Otello infuria, piange, sogghigna, scruta diffidente, si lamenta, sviene, colpisce, uccide: queste sono tutte espressioni proprie della gelosia, eppure quanto sono infinitamente discordanti e multiformi67!

Lo stesso Salfi afferma all’interno del trattato:

Così noi veggiamo nella medesima espressione il prospetto di tutti gli elementi della passione dalla quale procede, come accade nella gelosia, la quale non è che un complesso di più affetti cospiranti insieme, che non pur si succedono rapidamente, ma simultaneamente cooperano68.

Ritornando al Manzoni, egli individua nelle figure di Otello e di Orosmane i cardini dell’opposizione tra romantici e classicisti nel trattamento delle passioni. Nonostante entrambi avvinti da una gelosia passionale, lo sviluppo della passione acquisisce tinte differenti nei due drammi. Voltaire condanna infatti il sentimento a un appiattimento in quanto, vincolando la sua tragedia al rispetto delle unità, impedisce quella sfumata gradualità alla quale può invece attingere Shakespeare, non soggiacendo a leggi: «Dans Othello, le crime découle naturellement, et comme par son propre poids, de la source impure d’une volonté perverse69». Non c’è un passaggio graduale dal sospetto alla certezza che conduce al fatale crimine. Il rispetto delle unità non lascia il tempo ad Orosmane di manifestare l’insinuarsi del dubbio: il suo delitto, come afferma Manzoni, è tutto dettato dal caso. La condanna delle unità è dunque implacabile:

Ainsi cette gradation si intéressante par laquelle l’âme atteint l’extrémité, pour ainsi dire, de ses sentiments, il a fallu y renoncer en partie; toute peinture de ces passions qui prennent en peu de temps pour se manifester, il a fallu le négliger; ces nuances de caractère qui ne se laissent apercevoir que par la succession de circonstances toujours diverses et toujours liées, il a fallu les supprimer ou les confondre70.

Sarà Schlegel nel suo Corso di letteratura drammatica, uscito nel 1809, tradotto in francese nel 1814, ad affrontare la questione dei caratteri e della gradazione delle passioni in merito alla drammaturgia di Shakespeare. Egli sottolinea come, nei drammi dell’autore inglese, le azioni compiute dai personaggi non siano ricondotte a fattori esterni ma al carattere individuale, nel tratteggiare il quale egli è maestro. Il suo talento risiede inoltre nel dipingere con verosimiglianza caratteri provenienti da ogni tempo e luogo. Per quanto riguarda la gradazione dei sentimenti, Shakespeare manifesta la sua capacità di mettere in scena una vera e propria “histoire de l’âme”. Ecco le parole di Schlegel a questo proposito:

Les sentiments qu’il sait exprimer ne sont pas, dès le commencement de la pièce, au plus haut degré d’exaltation, comme chez ces poètes tragiques qui possèdent à merveille, dit Lessing, le style de chancellerie de l’amour71.

Shakespeare non sceglie dunque di prendere le mosse dall’apice della manifestazione passionale, ma preferisce coglierla quando è ancora in embrione.

Anche Madame de Staël nel De l’Allemagne (1813) tocca la questione della costruzione del carattere del personaggio ragionando, nel capitolo dedicato al Walstein e la Maria Stuarda di Schiller, sulle differenze che intercorrono tra il sistema tragico francese e quello tedesco72:

On raisonne en France sur un personnage tragique comme sur un ministre d’État, et l’on se plaint de ce qu’il fait ou de ce qu’il ne fait pas, comme si l’on tenait une gazette à la main pour le juger. Les inconséquences des passions sont permises sur le théâtre français, mais non plus les inconséquences des caractères. La passion étant comme plus ou moins de tous les cœurs, on s’attend à ses égarements, et l’on peut, en quelque sorte, fixer d’avance ses contradictions mêmes; mais le caractère a toujours quelque chose d’inattendu, qu’on ne peut renfermer dans aucune règle73.

La Staël lamentava il fatto che, mostrando al pubblico una natura frutto di convenzione, il teatro non avrebbe avuto alcun impatto morale perché impossibilitato a costruire quell’effetto di illusione che permette l’immedesimazione. I personaggi della tragedia classica restavano dei tipi, laddove Shakespeare e i suoi partigiani mettevano in scena dei caratteri dotati di complessità.

Uno dei punti di riferimento per il Manzoni era stato, come già abbiamo sottolineato, il Wallstein di Benjamin Constant, adattamento della trilogia schilleriana per il teatro francese, con conseguente rispetto delle unità. Nelle sue Réflexions sur la tragédie de Wallstein, anche Constant ammetteva la natura vincolante delle tre unità, le quali «forcent le poète à négliger souvent, dans les événements et les caractères, la vérité de la gradation, la délicatesse des nuances […]74».

Il dibattito aveva trovato terreno fertile anche in Italia sulle pagine del Conciliatore, roccaforte dei romantici. Nel numero del 24 gennaio 1819 veniva pubblicato il Dialogo sulle unità drammatiche di luogo e di tempo, nel quale sono posti nel ruolo di interlocutori fittizi Viganò, Lamberti, il Romagnosi e il maestro Paesiello. L’estensore, ossia Ermes Visconti, scrive in nota che il suo pensiero è da identificarsi con quello del Romagnosi. Secondo quest’ultimo, le unità non sono da applicarsi ad alcun genere drammatico, che si tratti di un ballo pantomimico o di una tragedia. Lo spettacolo si fonda su una “illusione imperfetta”75 che implica una collaborazione dello spettatore a immaginare che quanto non avviene sulla scena si verifichi negli intervalli tra gli atti. La pratica della scena inglese, come di quella tedesca, dimostra che l’immaginazione è in grado di coprire spazi temporali che superino l’arco di qualche ora, fino ad arrivare ad anni interi. A sostegno dell’abolizione delle unità, Romagnosi sposta l’attenzione sulla questione dello sviluppo dei caratteri, ponendo a confronto l’ambizione di potere di Nerone nel Britannicus di Racine, e quella di Macbeth nell’omonimo dramma shakespeariano. A proposito del personaggio di Nerone egli afferma:

ROMAGNOSI. […] Supponete che un tragico rappresentasse Nerone che diventa tiranno, che si abitua a poco a poco a sprezzare la probità e la giustizia, e finalmente si lascia trasportare da gelosia d’amore o di regno ad ammazzare suo fratello Britannico: non sarebbe una tragedia bellissima? Ma se la fate durare ventiquattr’ore, bisognerà che lasciate fuori il più essenziale, la pittura dell’animo di Nerone che si pervertisce per gradi, o bisognerà che storpiate la pittura, come ha fatto Racine76.

La medesima tematica è affrontata anche da Giovanni Berchet, sotto il nome di Grisostomo, in Dialogo interamente immaginario, ed inverisimile affatto, tra Grisostomo e tutti i Lettori, a proposito della Sacontala, dramma indiano di Calidasa. L’opera, scritta in sanscrito, presenta una caratteristica eccezionale: l’essere divisa in sette atti. Questo permette a Grisostomo di avvicinarla ai drammi shakespeariani, e di sottolineare come lo svincolamento dalle regole conceda l’approfondimento dei caratteri e una gradazione nello sviluppo delle passioni:

La Sacontala è un dramma di cui l’argomento unico è l’amore. Questa passione vi è descritta dal suo nascere fino alle più miserabili delle sue sciagure, attraverso le quali gli amanti giungono finalmente ad uno stato di pacata contentezza77.

D’altronde anche le critiche delle messe in scena parigine comparse sulla Revue encyclopédique78 in quegli anni si fanno testimonianza del clima mutato e il metro di giudizio fondamentale per l’analisi una pièce è ora lo sviluppo dei caratteri.

Nel 1820 al Théâtre-Français viene rappresentata la Marie Stuart di Lebrun. Nella recensione si afferma che i critici, per sminuire il valore dell’opera, avessero addotto il mancato rispetto delle regole e, Aristotele alla mano,

[…] ils ont prétendu que c’était là un genre nouveau; que, dans une véritable tragédie, il devait toujours y avoir une série d’actions qui retardent ou avancent le dénouement de l’action principale et qu’elle ne pouvait exister là où il n’y avait pas d’espérance, et où l’auteur s’arrêtait sur une situation unique pour la décrire, la développer, et en faire sortir ces émotions sympathiques qui vont droit au cœur79.

L’adattamento della versione schilleriana dunque, nonostante i tagli imposti dalla scena francese all’estensione del soggetto, riesce a trattenere dell’originale la penetrazione dei caratteri e delle passioni.

Il 1 marzo 1825 andava in scena al Théâtre-Français la prima del Cid d’Andalousie del medesimo autore. Il recensore si esprime così nei confronti della pièce:

Il a suivi dans cette pièce, le dessein, commencé dans Marie Stuart, de peindre des mœurs modernes avec des couleurs modernes; de douer à ses personnages cette vie réelle dont la vérité nous saisit, et non cette vie de convention dont la plupart de nos poètes dramatiques animent leurs héros80.

Questa vie réelle conferita ai personaggi è ottenuta tramite l’inserimento di scene che, pur non sancendo progressi nell’azione, inspessiscono la fisionomia dei caratteri. Ne è un esempio la scena svolta nel giardino di Estrelle, dove lei e Don Sanche da teneri amanti si scambiano pensieri e ricordi. Nella parte di Don Sanche recitava infatti il Talma, che riesce a conferire un “accent sublime” alla battuta in cui, ammettendo la sua colpa, gettatosi in ginocchio ai piedi di Estrelle, dice «C’est moi, moi, moi qui l’a tué81». Alla resa del pathétique contribuisce anche la performance di M.lle Mars nella parte di Estrelle:

Sa pantomime aussi simple que pathétique, sa diction si naturelle, et qui trouve si bien le chemin du cœur, l’expression de ses traits dont la douleur n’altère jamais la beauté, tout cela nous a fait éprouver un plaisir que nous ne sommes pas accoutumés à goûter82;

All’interno dello stesso numero della Revue viene recensita la Jeanne d’Arc di Soumet, messa in scena all’Odéon per la prima volta il 14 marzo 1825. La tematica trattata offre la suggestione per introdurre la differenza tra il sistema tragico tedesco e quello francese. Se Schiller all’interno del suo dramma può sviluppare la psicologia della protagonista attraverso tratti chiaroscurali, dal momento che gli è lecito abbracciarne l’intera esistenza, questo non è concesso ai tragediografi francesi, vincolati al rispetto delle unità. La restrizione alla scelta di un unico episodio dalla vita della protagonista ne provoca l’appiattimento: «La couleur locale n’est pas toujours bien observée, et les caractères, souvent vagues, manquent en général d’individualité

La necessità, da parte delle scene francesi, di dover rivaleggiare con il sistema drammaturgico tedesco e con l’incredibile successo di pubblico che esso scaturiva, spingeva gli autori francesi a trovare delle soluzioni a metà strada tra i due modelli, pur restando fedeli alle regole classiche. Il Salfi, lettore e redattore della Revue, e probabilmente spettatore di queste pièces, non poteva restare impenetrabile di fronte a tali rivolgimenti.

Il trattato Della declamazione di Salfi non può essere soggetto a datazione certa, essendo stato pubblicato postumo soltanto nel 1878. Se la datazione ante quem viene fissata attorno al 1797, dunque al periodo cisalpino di Salfi, la datazione post quem non ci è pervenuta. Sappiamo però che nel periodo parigino l’autore si dedicò, come avvenne per altre sue opere, alla prosecuzione del testo e alla sua revisione.

Soffermandoci più nel dettaglio sulle fonti biografiche del Salfi, la notizia della composizione del trattato ci viene fornita in nota dal Renzi a proposito del progetto più generico di riformare le scene e il sistema declamatorio degli attori italiani, specie al sorgere della Cisalpina, nella sua Vie politique et littéraire de F. S. Salfi (1834):

Salfi ne laissa échapper aucune des occasions qui lui furent offertes pour étendre l’art et le goût de la vraie déclamation théâtrale. Il avait déjà été secondé dans cette entreprise par la ville de Brescia qui avait assigné des fonds pour l’établissement d’une école et d’une académie; mais lorsque cette ville eut réuni ses intérêts à ceux de la république cisalpine, il lui devint bien plus facile encore de faire sentir l’utilité de son projet, et d’en assurer l’exécution, et il eut le bonheur de voir s’opérer la reforme théâtrale qu’il avait provoquée83.

Il Greco si sofferma più diffusamente sull’opera in Vita letteraria ossia analisi delle opere di Francesco S. Salfi, fornendone un piano abbastanza dettagliato e accennando al momento della revisione parigina: «Aggiungerò solo, che questo lavoro venne molto applaudito dal Botta e dal Talma, cui il Salfi davane lettura a Parigi84

A partire da una lettera del 1816 rivolta dal Guinguené a Salfi, sappiamo che il trattato era già in cantiere:

Et vous, mon cher Monsieur, dites moi donc d’où en sont votre santé, vos grands et vos petits travaux, votre première tragédie, peut être votre seconde, et le traité sur la Déclamation, et tout le reste85.

Una lettera del 29 gennaio 1835, riportata all’interno di Vita e opere di Francesco Saverio Salfi di Carlo Nardi, attesta di uno scambio tra Angelo Maria Renzi e Francesco Salfi Junior in cui si fa menzione del trattato. In particolare il Renzi scrive:

Ho pur veduto il Sig. Botta ieri per il più tardi, poiché lo vedo spesso. Le sue occupazioni non sono grandi […] Parlando del Salfi mi ha chiesto dell’opera sulla Declamazione ch’ei crede assai buona, e urgente a darsi alla luce, come materia propria dell’autore. A questo proposito il Salfi ebbe varie conferenze col celebre Talma. Anche il Botta si è risovvenuto di ciò […]86.

La lettura del testo fatta al Talma ci porta a credere che prima del 1826, data di decesso dell’attore francese, il Salfi fosse pervenuto a strutturarne buona parte, se non la sua versione integrale.

L’edizione del 1878 sarà curata da Alfonso Salfi, che premise al trattato degli accenni biografici sull’autore e che corredò il testo di note. Vi è inoltre premessa una lettera rivolta «Al benevolo lettore», in cui si sottolinea l’importanza dell’arte della declamazione non solo per chi eserciti la professione di attore. Essa può fornire indicazioni utili a chi si deve muovere nella società civile, «la quale ben si può riguardare come un vasto teatro87». La conoscenza di tale soggetto dunque contribuisce a un’educazione completa, essendo il teatro una manifestazione particolarmente diffusa anche tra i circoli di dilettanti.

Nell’assenza di dati tangibili per individuare la data esatta di composizione del trattato, è tuttavia possibile formulare alcune ipotesi che tendono a situarne il momento di massima scrittura negli anni dell’esilio parigino, laddove il periodo passato nella Cisalpina avrebbe soltanto dato l’impulso al progetto e avrebbe permesso l’elaborazione di alcuni nuclei che nell’architettura del trattato assumono un peso minore.

Un dato a favore di un’elaborazione per lo più parigina è la traduzione, da parte dell’amico Rasori, dell’opera Lettere sulla mimica (1818-1819) di Engel. Salfi, pur dovendo, da classicista qual era, epurare l’opera di tutte le esemplificazioni sul teatro tedesco coevo (sostituite da Racine, Alfieri, e persino Dante), la elegge a punto di riferimento primario per la sua trattazione. Se è pur vero che Salfi avrebbe potuto accedere al testo già in precedenza tramite la sua traduzione francese, non si può tuttavia trascurare l’incredibile visibilità che la versione italiana aveva fatto acquistare al trattato nel circolo dei romantici riuniti attorno alle pagine del Conciliatore. Le idee promosse trovavano terreno fertile nel clima delle scene parigine del tempo che abbiamo precedentemente analizzato, in cui si consolidava la tendenza a un sistema drammaturgico compromissorio tra quello francese e tedesco, prima di tutto in vista di una maggiore introspezione dei caratteri.

Già Edmond Eggli faceva notare come in Francia un tentativo di svincolarsi dal dominio del tipo proprio del teatro di stampo classicista fosse partito dalle scene attraverso la figura del Talma, il quale «[…] cherche à individualiser au moins par les costumes et par son jeu les héros traditionnels qu’il est obligé de représenter88». Potremmo individuare nella figura del Salfi e nella sua auspicata riforma nell’ambito della declamazione un tentativo simile: quello di imprimere un afflato “romantico” a un teatro che voleva restasse ancora legato ai vincoli della classicità. Non è un caso che gli impulsi all’innovazione vengano concessi proprio nell’ambito performativo della messa in scena, l’aspetto del testo drammatico che, per eccellenza, crea un canale di comunicazione privilegiato con il pubblico. L’auspicio degli autori legati al teatro giacobino di ampliare i propri orizzonti di ricezione per la promozione di tematiche politiche e patriottiche era in gran parte fallito. Questo probabilmente sollecitò Salfi a un’ulteriore formulazione di quelle teorie che, proprio nella circostanza del teatro giacobino, avevano visto la luce. Avendo intuito, sulla scorta delle trattazioni e delle messe in scena che venivano d’Oltralpe, il potere della spettacolarità, o meglio, della visibilità, sul pubblico, anche Salfi tenta la sua rivoluzione, seppur legata a dei compromessi che restano di stampo classicista. Possiamo dunque osservare nella tragedia classicista italiana, per così dire, di transizione, tra quella alfieriana e quella romantica, un percorso simile a quello che Melai tratteggia per la tragedia classicista francese compresa tra il periodo della Restaurazione e l’avvento del dramma romantico, ossia una sorta di cammino parallelo del vecchio e del nuovo, seppur con differenti sviluppi:

Ce que montre le parcours que nous avons brièvement retracé, c’est donc que la tragédie non seulement engendre le drame romantique, mais que, par la suite, les deux genres connaissent encore des interférences et se développent parallèlement89.

In questo senso, verrebbe parzialmente ridimensionata l’osservazione fatta da Bottoni, che lega la trattazione del Salfi all’attenzione presente nel Manzoni romanziere per la gestualità dei personaggi all’interno dei Promessi Sposi, affermando che «[…] il patto con le generazioni di lettori romantici parrebbe siglato proprio nel momento in cui il genere romanzesco introduce nell’orizzonte d’attesa del suo pubblico l’eloquenza silenziosa del gesto90».

È già tra teatro e teatro, o meglio, tra il teatro come testo drammaturgico e il teatro inteso come performance, che classicisti e romantici avevano saputo trovare un punto di incontro.

Per una pedagogia dell’arte dell’attore §

Il Della declamazione di Francesco Saverio Salfi si presenta articolato in ventiquattro capitoli, ciascuno dei quali è anticipato da un cappello riassuntivo in cui se ne evidenziano i nuclei chiave. La scelta del genere del trattato, veicolo privilegiato di un’esposizione chiara e razionalmente strutturata, non è da intendersi come un’operazione neutrale, ma va inquadrata nel contesto di una pedagogia del mestiere di attore che andava sempre più assumendo carattere istituzionale. L’esperienza del teatro giacobino, fiorita attorno ad attori “dilettanti”, aveva costituito un esperimento positivo, se considerato come fase di transizione orientata verso la costituzione di un’istituzione teatrale stabile. L’impellenza di infondere i nuovi ideali di libertà e rivoluzione nel pubblico aveva trovato nell’orizzonte dei non professionisti un tramite congeniale per distinguere questo nuovo teatro da quello commerciale. Passati i fermenti rivoluzionari, occorreva tuttavia ripensare l’assetto della vita teatrale, superando la natura effimera del fenomeno del dilettantismo. Nel 1805 il Teatro patriottico di Milano era divenuto Accademia dei Filodrammatici, associando alla messa in scena delle recite anche la preparazione didattica dei futuri attori. A Brera era stata istituita una Cattedra di Poesia drammatica, al cui insegnamento fu posto Pietro Napoli Signorelli. Nel 1811 Antonio Morrocchesi91, attore ormai maturo, sorto anche lui dalle fila dei dilettanti, aveva ricevuto la cattedra di declamazione dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, dalla cui esperienza darà alla luce le Lezioni di declamazione e d’arte teatrale (1832). Alla creazione dei primi spazi dedicati alla didattica del mestiere di attore, si accompagnò il primo tentativo di creare una compagnia statale a partire da un’idea di Salvatore Fabbrichesi, attore veneziano che, dal 1807 al 1814, sarà capocomico della Compagnia Vicereale a Milano, a quel tempo sotto Eugenio Beauharnais, e successivamente, fino al 1820, capocomico di una compagnia regale stabile a Napoli, sotto i Borbone92. A Torino nel 1821 prendeva vita la Compagnia Reale Sarda, fondata da Gaetano Bazzi e sovvenzionata da Vittorio Emanuele I, che calcherà le scene fino al 1855. L’auspicio era quello di impiantare il modello della Comédie française anche in Italia, con lo scopo di garantire maggiore continuità e dignità al mestiere d’attore.

Nella trattazione allora tutto si presenta come funzionale all’organicità dell’esposizione, caratteristica che sancisce la distanza tra il testo salfiano e le opere dei suoi illustri predecessori.

Luigi Riccoboni aveva optato, nel suo Dell’arte rappresentativa, per la forma del poema in ottave, strutturato in sei capitoli. Il testo si apre sotto il segno dell’ironia, con una dichiarazione di poetica inusuale: afferma infatti di non volersi rivolgere alle solite Talìa e Melpomene, già troppo interpellate da altri, ma a una qualsivoglia Musa («ogni Musa mi basta e rauca sia»)93. La cifra giocosa della sua scrittura è in realtà uno schermo che vela una critica ben mirata nei confronti dei comici professionisti che avevano degradato le scene, e che conferisce una veste accattivante alla sua missione pedagogica, rivolta verso quei commedianti che si trovavano agli esordi, ancora non corrotti e dunque riformabili94. Come affermerà egli stesso,

Mio pensiero non è di convertire / quei che sono indurati nell’abuso, / né cerco il vanto di farli pentire. / A’ giovani inesperti e che buon uso / debbon far de’ talenti di Natura / mi volgo: addottrinarli io non ricuso / né d’espormi de’ vecchi alla censura95.

Frequenti gli appelli al lettore-attore96, nei quali la vena scherzosa dominante rende evidente come a quest’altezza un’arte attorica secondo principi razionali fosse ancora lontana dal costituirsi.

L’opera teorica di Lelio trovava un valido successore in François che, nell’Arte del teatro, aveva optato per una struttura epistolare, utilizzata anche dalla madre Elena Balletti per esporre le sue considerazioni sullo stile recitativo di Michel Baron. L’interlocutrice del Riccoboni figlio era un’anonima dama coinvolta dallo spirito di generica teatromania che dominava la società francese di allora:

Signora, il gusto che avete per la commedia è divenuto in voi una passione poiché, non potendovi limitare al piacere di vederla rappresentare sui teatri pubblici, la vostra più grande soddisfazione è di rappresentarla voi stessa97.

In realtà, come sottolinea De Luca, la scelta di una tale interlocutrice, per quanto plausibile se inserita in un contesto in cui fioriva la pratica del dilettantismo, sembra essere più che altro uno schermo per rivolgersi invece ai comici di professione, sui quali vigeva ancora la condanna delle autorità ecclesiastiche98.

La struttura epistolare veniva adottata anche da Engel ne le Lettere sulla mimica. Il destinatario era un immaginario uomo di sapere (non un attore), chiamato in causa sistematicamente all’interno del testo per creare un polo di antitesi rispetto all’opinione dell’autore. Sin dall’esordio infatti si legge:

Le ragioni con cui lei intendeva farmi desistere dal proposito che le avevo di recente annunciato di scrivere di mimica hanno sortito esattamente l’effetto opposto: mi hanno ulteriormente confermato in tale proposito99.

C’è una continua insistenza sull’impianto dialogico del testo, che sembra prendere forma passo passo a partire dal confronto o dallo scontro con l’altro, con conseguente conversione dell’interlocutore al partito engeliano. Così nell’esordio della Lettera V:

A quanto pare la situazione si è ribaltata e proprio lei che non voleva neanche sentir parlare di mimica adesso è diventato il mio primo sostenitore. Secondo lei gli attori mi sarebbero grati di tutto cuore se mi mettessi all’opera ed elaborassi una teoria dell’azione mimica100.

Le scelte formali e stilistiche dei testi presi in esame si rivelavano dunque incapaci di offrire un modello valido per Salfi. Per rintracciare un modello vicino a quello salfiano, occorre aspettare il 1801, anno di pubblicazione degli Elementi di poesia drammatica di Pietro Napoli Signorelli, scritti a Milano, dove l’autore si era rifugiato in seguito al crollo della repubblica napoletana. Lì aveva ottenuto la cattedra di poesia rappresentativa di Brera ed era divenuto direttore della scuola di declamazione nell’Accademia del Teatro Patriottico. La destinazione del testo veniva esplicitamente indicata nella Prefazione, in cui l’autore sottolineava il contrasto tra il clima di guerra vissuto nella Cisalpina in quel tempo e la creazione di una Cattedra di Poesia drammatica, e enfatizzava il ruolo di Pubblico Educatore che il teatro era chiamato a svolgere. Il trattato è diviso in tre sezioni: Basi fondamentali della poesia drammatica, Poetica d’ogni genere drammatico e Organi della poesia drammatica. Il testo è per lo più orientato a rintracciare lo sviluppo del genere drammatico e le sue caratteristiche, fatta eccezione per la terza sezione, in cui si parla dell’arte della declamazione, nella quale è possibile riscontrare una vicinanza con il testo di Salfi.

Un altro elemento da rimarcare a proposito del Della declamazione, è l’estromissione di ogni riferimento alle scene attuali. Tratto che lo separa, ad esempio, dal testo di Engel, in cui si analizzano, seguendo l’impianto della prima fase della Drammaturgia d’Amburgo101, le performances degli attori che calcavano le scene tedesche di allora, seppur l’unico nome di cui si faccia menzione esplicita sia quello di Ekhof. Abbiamo visto, a proposito degli articoli pubblicati sul Termometro, come al Salfi non mancasse la verve necessaria alla critica delle interpretazioni degli attori. Il fatto che non vi abbia dedicato spazio in questa sede sta nuovamente a sottolineare la vocazione didattica di un trattato che mirava a creare un paradigma universalmente valido, estraneo a riferimenti legati alla contingenza delle scene di allora. Si pensi alla significativa abolizione di ogni menzione del Talma, che certo aveva costituito un paradigma fondamentale per l’elaborazione del trattato. D’altronde, l’analisi delle singole performances, nella progettazione della sua utopica istituzione teatrale, spettava a un giornale promosso dalla stessa Accademia direttrice. Gli unici riferimenti a reali interpretazioni si riferiscono ad attori del secolo precedente, e si situano nell’orizzonte di un’aneddotica abusata all’interno della trattatistica teatrale. Dalla Clairon al Garrick, da Baron alla Dusmenil, le rievocazioni del passato sono frequenti, fino a giungere persino agli attori dell’antichità.

La centralità assegnata all’interno del trattato alla pronunciazione visibile può essere letta in funzione della vocazione pedagogica del testo. Come aveva sottolineato Lessing nella Drammaturgia d’Amburgo, un attore freddo, ma con una forte predisposizione alla pantomima, era preferibile a un attore mosso dal fuoco della passione. Dal momento che le passioni si manifestano a livello somatico, l’attore può esprimere i sentimenti del personaggio anche solo imitando i segni esteriori dell’affetto in causa102. In questa maniera, l’attore può sottrarsi a ogni condanna di immoralità, dal momento che non c’è identificazione tra i suoi sentimenti e quelli del personaggio interpretato. Di conseguenza, il mestiere dell’attore non sarebbe stato sottomesso al genio individuale, ma sarebbe stato retto da metodi razionali, fondati sulla corrispondenza perfetta tra corpo e anima, che avrebbero conferito un ruolo prioritario allo studio e all’esercizio, piuttosto che a un’emozione destinata a perire.

La chiave di interpretazione del contesto a cui il trattato salfiano faceva riferimento, e di individuazione del destinatario ideale che questo implicitamente auspicava, ci viene fornita dagli ultimi due capitoli, l’uno dedicato alla Scuola teatrale, l’altro all’Accademia direttrice. Il capitolo XXIII si apre infatti con la seguente riflessione:

Le nostre private considerazioni, e quelle eziando di qualunque altro che le corregga o confermi, di pochissimo o niun giovamento riuscirebbero all’arte, se non si fondi una pubblica scuola, in cui s’insegnassero a un tempo i veri principii teorici, e se ne esperimentassero l’effetto con una pratica ben regolata e metodica, e specialmente se l’arte si trovasse non pur imperfetta, ma qual la credeva l’Alfieri ai suoi tempi, sì traviata dalla strada vera da non ritrovarsi mai più fuorché incominciando da capo103.

Salfi tracciava così le linee direttrici per l’istituzione di una scuola pubblica interamente devoluta all’insegnamento dell’arte dell’attore, richiamandosi alle critiche alfieriane sull’assenza di interpreti degni delle proprie tragedie. Per quanto riguarda gli insegnamenti da impartire al futuro attore, si spazia dalla lingua, al disegno, al ballo e alla musica, alla storia, all’eloquenza, alla moralità, fino a giungere alla poesia, che fungono da propedeutica all’arte della declamazione vera e propria.

Nell’ultimo capitolo egli auspica inoltre alla creazione di un’Accademia direttrice che, mediante critiche scritte o materiale figurativo, sviluppasse un sistema di archiviazione e divulgazione degli elementi di maggior pregio di ogni performance. Egli voleva in questo modo oltrepassare una lacuna intrinseca all’arte della declamazione, ossia l’assenza di una tradizione a cui l’attore potesse fare riferimento per ispirarsi. Per l’attuazione del progetto era necessaria la collaborazione di esponenti delle arti imitative (pittura e scultura), che lasciassero traccia delle messe in scena e delle pose degli attori, seguendo il modello dell’ateniese Cabria che, secondo il racconto di Cornelio Nepote, aveva deciso di farsi rappresentare «in quell’attitudine in cui arrestò l’impeto di Agesilao104». Si richiedeva inoltre la creazione di giornali espressamente dedicati alla critica delle recite, in cui fare menzione degli attori che si fossero maggiormente segnalati e dei quadri e delle figure che avessero suscitato più effetto sul pubblico.

La preoccupazione di Salfi di dare vita a una tradizione scritta che testimoniasse l’evoluzione dell’arte dell’attore, sarà la stessa che animerà l’incipit delle Réflexions sur Lekain et sur l’art théâtral a cura di Talma, pubblicate nel 1825:

Un des grands malheurs de notre art, c’est qu’il meurt, pour ainsi dire, avec nous, tandis que les autres artistes laissent des monuments dans leurs ouvrages; le talent de l’acteur quand il a quitté la scène, n’existe plus que dans le souvenir de ceux qui l’ont vu et entendu. Cette considération doit donner plus de prix aux écrits, aux réflexions, aux leçons que les grands acteurs ont laissés105.

In un tempo, quello dell’oggi, in cui tale inquietudine si è tramutata in certezza, e in cui del passaggio della generazione di attori presa in esame e delle loro messe in scena non restano che tracce sbiadite, l’affermazione di Talma assume allora il valore di un monito ad indagare le poche ma preziose fonti che il passato ci ha trasmesso.

Guida alla lettura §

Introduzione: Nell’Introduzione Salfi ripercorre le origini dell’arte della declamazione, rintracciandone l’atto di nascita nel bisogno istintuale dell’uomo di imitare i propri simili. Viene sottolineato il carattere liturgico delle prime rappresentazioni, e viene individuata la tragedia come evoluzione delle feste in onore di Bacco. Salfi accenna dunque alla grande stagione della tragedia classica e espone brevemente l’evoluzione che la declamazione ebbe nella Roma antica, dove si presenta legata in maniera inscindibile alle figure di Cicerone e Quintiliano. La caduta dell’impero romano viene individuata come periodo buio per lo sviluppo di quest’arte, che mostra dei primi cenni di rinascita solo nei secoli XI e XII, con la diffusione delle prime recite all’improvviso. Un notevole impulso al miglioramento sarà dato, tra la fine del XVII secolo e l’inizio del XVIII, dalle figure di Pietro Cotta e Luigi Riccoboni. A quest’ultimo si deve il merito di aver restituito al genere tragico il successo del pubblico. Nel frattempo, il Diciottesimo secolo vede l’ascesa di attori come Lekain, la Clairon, Garrick e Eckoff, che riceveranno il plauso delle platee di Francia, Inghilterra e Germania. In Italia invece, dopo la partenza di Riccoboni per la Francia, l’arte della declamazione versa in uno stato deplorevole, che sarà lamentato anche dallo stesso Alfieri. L’Introduzione si chiude con una sorta di stato dell’arte dei testi relativi alla declamazione dell’attore dall’antichità fino all’epoca contemporanea.

 

Capitolo I: Salfi si sofferma sulla risonanza che l’attività dell’anima ha sull’esterno dell’individuo. Da tale corrispondenza tra interno e esterno nasce l’espressione, designata come il primo linguaggio universale. Salfi traccia le origini del linguaggio di azione, che si presentava all’inizio come meccanico, senza alcuna forma di consapevolezza. È da qui che bisogna partire per risalire agli albori delle arti imitative che, differenziandosi nella scelta dei mezzi, gradualmente assunsero connotazioni individuali. A questo punto, il focus si sposta sull’arte della declamazione tragica, il cui statuto viene definito, sottolineando la sua duplice declinazione vocale e gestuale.

Capitolo II: Il secondo capitolo è dedicato alla pronunciazione vocale. Salfi precisa le differenti nature che questa può assumere:

— Nazionale, che coincide con il dialetto eletto come rappresentativo dalla nazione;

— Grammaticale, che prende in considerazione la posizione dell’accento all’interno della parola e la sua qualità (acuto, grave, circonflesso);

— Logica, che segue l’andamento dei periodi e della punteggiatura;

— Oratoria, che si modifica con lo scopo di orientare l’attenzione di chi ascolta e corrisponde al tono.

Capitolo III: Il capitolo terzo si incentra sulla pronunciazione visibile, ossia sul linguaggio corporeo, che può essere sottoposto alle medesime prospettive di analisi evidenziate per il linguaggio verbale. Esso è infatti ravvisabile come naturale e nazionale, logico e oratorio. Salfi passa dunque a categorizzare i diversi tipi di gesti in indicativi, eccitatori, accompagnatori, pittorici e espressivi. Questi ultimi possono essere necessari, qualora la volontà non può concorrere a ostacolare o favorire la loro attuazione, o spontanei. Gli spontanei possono assumere tendenza analogica, se i movimenti esterni riproducono analogicamente uno stato interiore. Sono invece impropri quelli che operano in maniera figurata, come fa la metafora nel linguaggio verbale. I simbolici o geroglifici si sono invece formati in base a qualche nesso con l’oggetto rappresentato che si è andato poi perdendo, e riescono dunque di difficile decifrazione. I convenzionali o arbitrari invece sono identificativi di un’epoca, di una nazione, di una setta.

Capitolo IV: Salfi passa in rassegna le posizioni di alcuni autori che avevano sostenuto la superiorità della prosa rispetto al verso nell’ambito della composizione tragica (La Motte, Engel, Diderot, Ceruti). Si passa poi ad analizzare le caratteristiche della pronunciazione metrica e a sottolineare le difficoltà che l’attore potrebbe incontrare nel rendere i versi fruibili, ma allo stesso tempo non svilire il lavoro compiuto dal poeta sulla metrica. Salfi si sofferma su problemi specifici, quale la resa dell’enjambement, tecnica prediletta da Alfieri. Le argomentazioni si appoggiano su esempi concreti, ossia interi passi della Commedia dantesca o di tragedie alfieriane che permettono di affrontare casi specifici.

Capitolo V: Il capitolo quinto si concentra sull’espressione patetica, ossia quella che si modifica in funzione della passione, coinvolgendo sia la vocalità che la gestualità. Rintracciando le origini del linguaggio verbale sulle tracce delle riflessioni di Condillac, Salfi osserva come i primi barlumi di espressione (sospiri, singhiozzi o urla) fossero conseguenza del bisogno istintuale di comunicare il sentimento da cui si era penetrati. Una volta compiuta la sua evoluzione, il linguaggio verbale avrebbe mantenuto tale traccia istintuale assumendo toni e ritmi diversi a seconda della natura del sentimento. Si passa poi all’analisi del linguaggio gestuale, per il quale si individuano le seguenti categorie: la positura (ossia la postura), l’incesso (l’andamento), il volto, il naso, il mento e le labbra, gli occhi, le ciglia, la fronte, i capelli e le mani. Il capitolo si chiude sulla proposta di Sulzer di elaborare delle categorie per il gesto, simili a quelle ideate per classificare gli oggetti di studio della Botanica. Salfi polemizza contro una simile proposta, sottolineando l’impossibilità di razionalizzare le passioni, di cui il gesto è diretta espressione.

Capitolo VI: Il sesto capitolo, dedicato alla teoria dell’espressione, si apre sulla distinzione tra percezione e sensazione, la prima legata alla mente, la seconda al cuore. È dalle sensazioni che si generano le espressioni, tra le quali Salfi distingue quelle di natura cooperativa, che contribuiscono al sollievo dell’anima che vuole unirsi ad un oggetto amato o allontanarsi / scontrarsi con l’oggetto odiato. Viene poi evidenziata la possibilità di una passione di rivolgersi verso l’interno o verso l’esterno. In questo caso assumono valore paradigmatico la tristezza, che prevede un ripiegamento su sé stessi, e la gioia, che invece si apre alla comunicazione con gli altri. Salfi presenta poi i casi di transizioni rapide da una passione all’altra, che prevedano il passaggio da un’espressione imitativa a una cooperativa o viceversa. Tali transizioni sono di difficile riproduzione perché è impossibile scindere perfettamente l’espressione in segmenti autonomi: essa trattiene sempre qualcosa dell’espressione che precede e di quella che segue. Per quanto concerne la coesistenza di cooperazione e imitazione, essa si verifica quando diversi tipi di espressione sono delegati a organi differenti. Salfi fa l’esempio della gelosia, frutto di sentimenti contrastanti che si alternano rapidamente e coesistono. Un’altra distinzione fondamentale è quella tra gli imitativi, che mimano uno stato d’animo, e i pittorici, che imitano qualcuno o qualcosa di esterno al soggetto, come si verifica nell’orazione di Cicerone contro Verre riportata da Quintiliano.

Capitolo VII: Salfi dedica il settimo capitolo alla ripartizione degli affetti, specificando che il suo interesse per l’elemento passionale è orientato solo verso le sue manifestazioni fisiche. Le due passioni principali, ossia amore e odio, sono fatte discendere dalle due sensazioni di piacere e dispiacere. Ad esse si possono ricondurre tutte le altre passioni secondarie. Vengono poi passati in rassegna i segni esteriori delle varie passioni. La prima presa in esame è la pigrizia, che si caratterizza per uno stato di immobilità del corpo e che induce le membra a gravitare verso il basso. Seguono poi l’attenzione e l’ammirazione, che si esprime in pose di immobilità giustificate dall’improvviso interesse destato da qualcosa o qualcuno. Nella fase in cui l’anima sta decidendo se l’oggetto in questione gli provoca amore o odio, il sentimento predominante è l’incertezza. Il corpo segue il continuo avvicendarsi di pensieri, spesso anche contrastanti. Se il sentimento suscitato è l’amore, può avere luogo la pietà, che vede il corpo inclinarsi in direzione dell’oggetto amato. Segue la venerazione, che prevede l’abbassamento della postura, in segno di rispetto per l’oggetto amato del quale si riconosce la superiorità. Si passa allora a descrivere l’amore, nel quale il corpo si inclina verso l’oggetto amato e ne imita alcuni tratti in segno di venerazione. Hanno poi luogo la speranza, la fiducia e la gioia, qualora il desiderio di ricongiungimento è stato esaudito. Se al contrario l’unione è ostacolata, si verifica la tristezza, che ha come caratteristiche membra cadenti, tendenza alla solitudine e al silenzio, oppure al parlare sconnesso. Salfi analizza poi la passione dell’odio, nella quale il corpo manifesta fisicamente il suo desiderio di allontanamento dall’oggetto odiato. Seguono disprezzo e orgoglio, se il soggetto è consapevole dell’inferiorità dell’oggetto odiato. Dall’odio discendono l’ira, illustrata tramite un passo del De ira senecano, il timore, il terrore e l’orrore. Nella disperazione l’odio arriva a rivolgersi contro sé stessi, come avviene nel caso del Conte Ugolino, che si morde le mani a seguito dell’orrore commesso. Seguono il pentimento e la vergogna, che portano la persona a raccogliersi su sé stessa. In ultima sede, viene analizzata la gelosia, la più sfuggente e proteiforme delle passioni.

Capitolo VIII: Nel capitolo ottavo Salfi sottolinea la necessità di rifarsi, oltre che alla teoria sulle passioni, all’osservazione diretta delle stesse. Questo è reso possibile dalla contemplazione della natura, a cui si sono dedicati artisti quali Leonardo da Vinci (la fonte è Lomazzo) e Domenico Liveri. Nell’ambito della natura, bisogna saper trascegliere tra i soggetti più espressivi e saper cogliere la passione quando raggiunge il suo culmine. Viene inoltre osservato come spesso la manifestazione dell’elemento passionale viene ostacolata dalle istituzioni, che vanno a creare quasi una seconda natura. Salfi contrasta poi l’idea che le passioni siano statiche, immutabili in ogni tempo e luogo; al contrario, è possibile rintracciare passioni nuove nei personaggi della modernità.

All’artista è inoltre offerta la possibilità di attingere ai modelli offerti dall’arte, che si tratti di arti figurative, opere storiografiche o poetiche. Allo stesso modo, anche gli attori possono fungere da modello per sé stessi.

Capitolo IX: Salfi, rifacendosi all’estetica di Batteux, afferma che oggetto delle belle arti è la bella natura. Nonostante tutto quello che si trova in natura è da giudicarsi bello, alcune parti godono di una maggiore perfezione, e dilettano per sé stesse. Per quanto concerne l’espressione patetica, la sua bellezza può essere giudicata in base a tre fattori, ossia: armonia delle parti, importanza del significato e efficacia dei segni. La prima si verifica quando tutte le componenti sono concordi nell’espressione del medesimo significato; la seconda invece dipende dal grado di nobiltà del significato espresso (ad es. l’ira di Achille è più nobile di quella di Tersite); l’efficacia dei segni consiste invece nella capacità dell’espressione di cooperare all’adempimento del desiderio. A proposito di quest’ultimo punto, Salfi polemizzerà allora contro François Riccoboni e William Hogarth, che avevano prescritto agli attori di modulare i propri movimenti secondo le leggi della grazia, piuttosto che orientarli in funzione di una resa espressiva della passione.

Capitolo X: Salfi sottolinea come il compito dell’artista non consista nell’imitare la natura, ma nel portarla ad un più alto grado di perfezione. Occorre dunque formarsi un mondo ideale che, pur essendo modellato sul reale, trasformi il vero in verosimile. Salfi si rifà poi alle teorie esposte nel Laocoonte di Lessing a proposito della classificazione delle arti in spaziali, ossia le arti figurative, che rappresentano i corpi nello spazio, e temporali, ossia la poesia, che rappresenta azioni nel tempo. La declamazione si situa all’incrocio tra spazio e tempo, attingendo al massimo grado di illusione, dal momento che fa coincidere i mezzi con i fini. Si sottolinea tuttavia la necessità di porre dei vincoli alla rappresentazione, per evitare di suscitare il fastidio o il dispiacere dello spettatore. Tali divieti variano a seconda dell’arte in questione: quanto può dispiacere in un quadro, può non farlo all’interno di una rappresentazione drammatica, fondata su espressioni passeggere. Salfi sottolinea come tali divieti debbano assecondare il gusto della nazione e dell’epoca, e siano dunque soggetti a mutamento.

Capitolo XI: Nel capitolo undicesimo Salfi si interroga sul peso che l’arte e la natura abbiano nella creazione di un grande attore. Viene allora posta la questione del genio, che infonderebbe nell’attore la capacità proteiforme di calarsi indifferentemente in qualsiasi personaggio. Il genio viene descritto come un fuoco elettrico, che si propaga in tutto il corpo. Le doti naturali hanno tuttavia bisogno di essere indirizzate dallo studio. Viene allora richiamato come esemplare il caso dell’attore Michel Baron, che conquistò uno stile declamatorio naturale solo dopo anni di studio lontano dalle scene. Salfi consiglia all’attore che voglia essere penetrato da questo fuoco travolgente di attingere alle letture dei grandi poeti e storici del passato e del presente. Sottolinea tuttavia come, nel momento di massima espressione del fuoco, sia necessario per l’attore l’intervento dell’arte, che possa domarlo e indirizzarlo.

Capitolo XII: Salfi si sofferma qui più specificatamente sull’espressione tragica, sottolineando la sublimità del genere tragico, che mette in scena azioni e personaggi nobili. Egli rimarca tuttavia come nel corso del tempo la tragedia si sia andata avvicinando alle forme della commedia, con conseguente desublimazione. L’attore tragico deve avere per lui un certo physique du rôle, ossia una figura e un portamento nobile, accompagnato da qualità morali. Si prende gioco tuttavia di quegli attori che, infrangendo il muro della finzione, assumevano gli atteggiamenti dei re e delle regine che interpretavano anche fuori dalla scena.

Capitolo XIII: Salfi tocca la questione del tono dell’attore tragico, che deve essere distinto da quello della conversazione ordinaria, più adatto alla commedia. Non per questo si deve incorrere nel rischio dell’inverosimiglianza utilizzando toni elevati e enfatici, che, utilizzati nella declamazione degli antichi, trovavano giustificazione nella vastità dei loro teatri. L’attore tragico deve allora declamare come se pensasse estemporaneamente le parole che sta pronunciando. Il suo tono, come d’altronde la sua gestualità, deve tuttavia adeguarsi al grado di nobiltà dei personaggi che porta sulla scena. Se è giusto allontanarsi dall’ampollosità propria della recitazione francese, prima dell’avvento della scuola di Baron, allo stesso modo bisogna condannare il vizio opposto dei tedeschi di trasformare il tragico in drammatico.

Capitolo XIV: Nel presente capitolo, Salfi tratta la questione del sistema delle parti. Dopo aver polemizzato contro quei sistemi che favoriscono l’insinuarsi di una gerarchia in seno alla compagnia, egli propone una divisione in parti fiere e parti tenere. Viene inoltre sottolineato come ciascuna parte abbia un carattere speciale, che deve trovare corrispondenza nella fisionomia dell’attore. Per questo Salfi critica la pratica in uso di far recitare ad un attore indifferentemente il tragico come il comico. L’effetto provocato nello spettatore è infatti di disorientamento. Viene poi toccata la questione dei confidenti che molti, tra cui Alfieri, volevano bandire dalle scene. Piuttosto che eliminarli, per Salfi la soluzione risiede nel conferire loro quella dignità che merita chi viene chiamato a custodire i segreti e le preoccupazioni dei personaggi principali.

Capitolo XV: Salfi sottolinea come i caratteri speciali si individualizzino nei caratteri storici. Anche all’interno di uno stesso carattere le mutazioni sono frequenti, dettate dalle circostanze, dalle passioni del momento, dagli individui con cui si entra in contatto. I caratteri da prediligere sono tuttavia quelli dotati di una maggiore complessità, che diventano sede di scontro di passioni differenti. Da qui la critica mossa all’Alfieri, che spesso ha portato in scena caratteri piuttosto monotoni, dominati da un’unica, forte passione, come nel caso dei suoi tiranni.

Capitolo XVI: In questo capitolo si tratta dello sviluppo progressivo dei caratteri. La passione è soggetta a continue modificazioni, che possono essere di qualità e di quantità. Le prime risentono della natura mista dell’elemento passionale, nel quale si innestano sempre altre passioni, spesso di carattere contrastante. Le seconde invece sono frutto della progressione che subisce una singola passione. L’attore, per restituire spessore al personaggio, deve saper ricreare i passaggi impercettibili da una passione all’altra o da un grado all’altro tramite l’espressione. Nell’ambito della vocalità, è importante che tali progressioni non si tramutino nella scelta di toni troppo acuti. Successivamente vengono distinte tre epoche del carattere, ossia ordinaria, che corrisponde all’incirca al primo atto, media, e straordinaria, che coincide con la catastrofe finale. Per Salfi è importante che l’attore sappia individuare i momenti di massima intensità del dramma, che si annidano spesso anche in singole frasi. Condanna poi l’errore di molti di condensare tutta l’espressività nei momenti iniziali, o, al contrario, nei momenti finali del dramma. Sul finale, viene lasciato spazio al ruolo delle transizioni da una passione all’altra, che devono saper farsi espressione di un terzo sentimento, frutto della sovrapposizione passeggera tra le due passioni principali.

Capitolo XVII: Salfi si sofferma qui sul dialogo. Egli sottolinea come il carattere del personaggio si modifichi dal contatto con gli altri sulla scena. L’attore deve allora modificare l’espressione a seconda dell’individuo che ha davanti. Chi recita deve inoltre prestare tutta la propria attenzione all’interlocutore, e deve atteggiarsi a seconda dell’effetto che le sue parole gli provocano. Non deve perciò precludersi, qualora la resa della passione lo richiedesse, di recitare dando le spalle al pubblico, oppure di parlare da seduto. Salfi presenta anche la possibilità che il gesto diventi oratorio, nel caso il personaggio sia chiamato a difendersi o a accusare qualcuno davanti un’assemblea. Particolare attenzione deve essere manifestata dall’interprete in occasione di scambi rapidi di battute in cui emerge lo scontro di due punti di vista differenti, come avviene in certe tragedie alfieriane. Il suo tono allora non deve ricalcare quello dell’interlocutore, ma adattarsi alla passione di cui si fa portavoce.

Capitolo XVIII: Il capitolo tratta la questione dei silenzi in scena, sia quelli che si verificano nei momenti di ascolto dell’interlocutore, sia quelli provocati dall’impossibilità a parlare. Il corpo dell’attore deve in questi casi esprimere il non detto con i gesti e con l’attitudine. Salfi prende in considerazione varie circostanze in cui questo si verifica:

— L’ingresso in scena, durante il quale il personaggio deve manifestare la ragione che lo fa comparire sul palco;

— Gli intervalli, durante i quali l’attitudine deve modificarsi in base al sentimento suscitato dalle parole dell’interlocutore;

— Il momento precedente la battuta, che deve annunciare il sentimento da cui il personaggio è pervaso;

— Episodi specifici in cui non vuole o non osa proferire parola.

L’orchestrazione dei silenzi è particolarmente importante per i personaggi secondari, quali i confidenti o le comparse. A questo proposito, Salfi si sofferma sulla tecnica dei quadri, che mostrano i personaggi in scena inquadrati in una posa individuale che corrisponde alla loro reazione all’evento che si sta verificando sulla scena.

Capitolo XIX: Salfi affronta qui la questione dei monologhi, per i quali egli si pronuncia a favore, andando contro chi invece ne sottolineava l’inverosimiglianza. La difficoltà nella resa dei monologhi risiede soprattutto nei passaggi da una passione all’altra, che sono frequenti, dal momento che l’anima si dibatte contro sé stessa e cambia di continuo di avviso. La passione, non incontrando nulla e nessuno che ostacoli il suo manifestarsi, lascia il personaggio completamente in balia di sé stesso. I monologhi possono essere di due tipi: concentrativo, se, mosso dalla tristezza, comporta il ripiegamento su sé stesso; espansivo, qualora esploda nell’ira. Tra gli esempi proposti, il monologo di Lady Macbeth che si pulisce le mani insanguinate come per cancellare la colpa di cui è macchiata, oltre al celebre soliloquio dell’Amleto shakespeariano. Salfi individua inoltre la possibilità di tratti monologistici, che hanno luogo quando il personaggio è talmente preso dalla sua passione, mutata in ossessione, da parlare da solo pur in presenza di altri individui.

Capitolo XX: Il capitolo è dedicato ai costumi e al decoro della scena. Salfi sottolinea la necessità di restare fedeli al tempo e al luogo in cui la tragedia si svolge, senza seguire l’esempio di chi ha vestito personaggi del mito e della storia antica con le fogge della Francia contemporanea. A questo proposito, esemplari sono le figure della Clairon e di Lekain, che hanno dato avvio alla riforma dei costumi. Salfi polemizza poi contro la tendenza propria degli attori italiani di comparire in scena in abiti lussuosi che non rispecchiano in alcun modo il carattere da rappresentare. Altro punto affrontato nel capitolo, quello della scenografia, che deve anch’essa rispecchiare in maniera verosimile l’ambientazione del dramma. Questa esigenza è particolarmente impellente per le tragedie moderne, nelle quali l’azione si sposta frequentemente di luogo. Per quanto concerne l’edificio teatrale, esso deve essere strutturato in base a criteri di funzionalità. Non deve perciò essere troppo vasto, altrimenti l’attore rischia di dover sforzare la voce per farla arrivare anche agli spettatori più lontani. Un altro accorgimento utile sarebbe quello di limitare le aperture laterali, ossia i palchetti, che tendono a disperdere il suono.

Capitolo XXI: Salfi si sofferma sullo studio della parte, che si dovrebbe svolgere in tre fasi: lettura comune, studio particolare, prova generale. Nella prima fase avviene l’assegnazione delle parti, che dunque non vengono fissate aprioristicamente in funzione di primi attori e prime attrici. Nello studio particolare è importante che l’attore impari a memoria non solo le proprie battute, ma il dialogo in cui si inseriscono nella sua interezza, in modo da poter atteggiare il corpo in funzione delle parole dell’interlocutore. Questo gli consentirà inoltre di mostrare prontezza negli attacchi tra una battuta e l’altra. Salfi muove poi la sua critica alla pratica invalsa di affidarsi al suggeritore, la cui voce in sottofondo crea un effetto di raddoppiamento della parte che rompe ogni illusione. Le difficoltà degli attori del suo tempo a imparare la parte a memoria vanno tuttavia in buona parte attribuite al continuo aggiornamento del repertorio per ragioni economiche. Se si rappresentassero opere migliori, questo continuo variare gli spettacoli in scena non sarebbe necessario. Viene poi posta la questione della notazione della declamazione, la cui pratica era stata raccomandata da autori come Du Bos, D’Hannetaire, Larive. Salfi, pur pronunciandosi contrario a una notazione sistematica, si pronuncia a favore dell’utilizzo di tratti grafici che segnalino i passaggi più difficoltosi per l’attore. Per quanto concerne invece lo specchio, il suo utilizzo viene approvato da Salfi solo per la prova di pose straordinarie che si inseriscono all’interno dei quadri. Per finire, le prove generali devono svolgersi con i costumi e i decori di scena.

Capitolo XXII: Il capitolo tratta dei segnali che lasciano intuire un perfezionamento dell’arte della declamazione. Salfi sottolinea in primo luogo l’alto compito morale assegnato al genere tragico, ossia quello di trasmettere nello spettatore la compassione per i mali altrui. Per commuovere il pubblico, l’attore deve tuttavia essersi commosso egli stesso durante le prove. La reazione che si deve ricercare nel pubblico non è quella degli applausi destati dalla sorpresa per un imponente apparato scenografico o per il divismo dell’attore: la reazione da auspicare è al contrario il pianto. L’attore di talento saprà così commuovere anche gli spiriti più ritrosi, ragione per cui in alcune epoche e luoghi la tragedia è stata sottoposta a proscrizione.

Capitolo XXIII: Salfi sottolinea la necessità di aprire una scuola pubblica dedicata espressamente all’insegnamento dell’arte della declamazione. Egli passa poi a illustrare quali insegnamenti dovrebbero trovare spazio in una tale istituzione. Le cognizioni preliminari necessarie all’attore sono le seguenti:

— Cognizione della propria lingua, ossia del dialetto toscano nel caso dell’Italia;

— Disegno, affinché, conoscendo le migliori espressioni scelte dagli artisti, possa poi replicarle con il proprio corpo;

— Ballo, affinché conferisca eleganza al proprio contegno;

— Musica, perché possa esercitare la voce nel passaggio da un tono all’altro;

— Storia, per poter riprodurre in maniera verosimile i caratteri storici e i costumi dei popoli presenti e passati;

— Morale, perché abbia chiaro il sistema di ripartizione degli affetti;

— Eloquenza, perché gli insegni a sostenere le arringhe in scena;

— Poesia, affinché assuma consapevolezza delle tecniche di versificazione.

Le cognizioni proprie invece sono quelle che concernono la pratica dell’arte dell’attore e coincidono con l’iter esposto nel capitolo relativo allo studio della parte.

Capitolo XXIV: Nell’ultimo capitolo, Salfi propone la creazione di un’Accademia direttrice che possa monitorare i miglioramenti fatti nell’ambito dell’arte della declamazione. Egli propone così due soluzioni principali per sottrarre l’arte dell’attore alla sua natura effimera. Una soluzione potrebbe essere rappresentata dalla creazione di illustrazioni che riproducano le scene e i gesti più significativi delle messe in scena; di grande vantaggio sarebbe inoltre l’ideazione di un giornale interamente dedicato alla censura drammatica.

Nota al testo §

La presente edizione del Della declamazione di Francesco Saverio Salfi riproduce il testo della prima e unica stampa integrale, eseguita nel 1878 presso lo Stabilimento Tipografico di Androsio di Napoli, curata dal pronipote Alfonso Salfi, Le note dell’editore, insieme ai cenni biografici sull’autore preposti al testo, sono stati eliminati. Il testo dell’edizione ci è stato fornito dalla sezione dedicata ai Manuali di declamazione teatrale del Laboratorio di Documentazione Storico-Artistica della Scuola Normale Superiore di Pisa, coordinata dalla Prof.ssa Stefania Stefanelli (http://velasquez.sns.it/declamazione/pdf/SALFI.pdf).

Un codice manoscritto autografo del trattato, articolato in due tomi, è stato rinvenuto presso la Biblioteca Vittorio Emanuele III di Napoli, nel corpus delle Carte Salfi. L’indicazione del manoscritto è la seguente: Ms. XX. 43 (I-II), n. di ingresso 558891-558893. La prima parte è costituita da 89 carte numerate secondo una numerazione recente; la seconda parte consta di 215 carte. Conservato insieme al Ms. XX. 43 (I), corrispondente alla stesura finale, un fascicolo rappresentante un articolo conservato dal Salfi dal titolo Art du comédien. Principes géneraux di Aristippe Félix Bernier de Maligny, che risale al 1819. Il Ms. XX. 43 (II) contiene un Primo bozzo del trattato sulla declamazione, lo Sbozzo di un trattatello sulla declamazione, oltre a una sezione dedicata alla Selva per la declamazione (cc. 120-150), nella quale Salfi annota citazioni utili per la scrittura del trattato, tra cui quelle relative alle Lettere stelliniane (1811) di Luigi Mabil, che occupano le carte 143-150. Lo Sbozzo rende esplicito come la costruzione del trattato si sia sedimentata nel tempo, e come in origine il testo partisse da premesse differenti, non essendo stato concepito specificatamente per l’analisi della declamazione tragica. Troviamo infatti una serie di indici potenziali, nei quali la proposta di una riforma teatrale si accompagnava all’analisi dell’effetto sullo spettatore non solo della tragedia, ma anche della commedia, e a cui fa seguito lo studio della natura di commedia, tragedia, melodramma e pantomima. Uno di questi indici mostra inoltre come inizialmente a una sezione teorica si sarebbe affiancata un’altra sezione contenente una scelta di commedie, di tragedie, di melodrammi. Per quanto concerne la Selva, le fonti citate spaziano dal De oratore di Cicerone, al Dialogo sulla danza di Luciano, al De la littérature di Madame de Staël, alle memorie della Clairon e della Dusmenil, fino a giungere al testo On the Art of Reading di Thomas Sheridan.

Nel riprodurre il testo, abbiamo deciso di adottare una grafia conservativa. Gli unici casi in cui siamo intervenuti sono i seguenti:

— Si è ridotta a i la j intervocalica e in fine di termini al plurale (es. gioja > gioia, dubbj > dubbi);

— Il nesso nj è stato normalizzato in ng (es. conjetture > congetture);

— Si è ammodernato l’uso dell’apostrofo in caso di apocope (es. un arte > un’arte);

— Il nesso assibilato ti è stato volto in zi (es. Cintio > Cinzio);

— Si sono corretti alcuni refusi di stampa, tra cui quelli segnalati dall’errata corrige: suo rivolgimento > suo risorgimento (Introduzione), adoprano > adoprarono (I, 29), gestando > gestendo (I, 31), seguano > seguono (II, 43), mezzo a parte > mezzo aperte (V, 113), all’espressione del riso > all’espressione del viso (V, 122), parti da sé > parti da re (XIV, 280), e quello del Pepoli > è quello del Pepoli (XV, 298), quanto sono > quando sono (XVIII, 353);

— Si sono sciolte le abbreviazioni (es. sig.ra > signora);

— In caso di oscillazione, si è proceduto all’uso di una grafia uniforme (es. Shaskepeare > Shakespeare, Garrik > Garrick);

— Il carattere corsivo è stato conservato;

— Per le citazioni incorporate al testo, si sono aggiunti i segni «».

Della declamazione §

Introduzione. §

Saggio storico della declamazione — Sua origine e sviluppo presso i greci e i romani — Suo rivolgimento in Italia — Suoi progressi in Francia, Inghilterra, Alemagna — Scrittori teoretici di quest’arte.

[Intro.1] Comune ufficio delle arti belle è la imitazione della natura; ma in ciò fare ciascuna però si limita all’uso di quei mezzi acconci e propri, che intendono ad uno scopo particolare. Per lo che un medesimo oggetto viene ora imitato da una col canto o col suono, da un altra co’ colori; da questa con gl’intagli e rilievi, da quella co’ moti e con gli atteggiamenti. La facilità, l’occasione e l’attitudine, che l’uomo ha dovuto esperimentare nelle diverse e successive circostanze, per le quali è passato, per non usare anzi gli uni che gli altri, debbon determinare l’origine, l’anzianità, lo sviluppo ed il progresso d’un’ arte rispetto alle altre. Or se di tutti i mezzi che le arti maneggiano, i più pronti, i più facili ed i più propri e spontanei sono quelli che impiega la declamazione, la quale del linguaggio, della voce e del gesto propriamente si vale, noi dobbiam dire che la declamazione fosse stata la prima a nascere ed ha spiegarsi fra le altre arti sorelle.

[Intro.2] Il bisogno indusse da prima l’uomo ad imitare; ed imitando ogni specie di suoni, egli apprese a parlare. La stessa natura lo aveva a questo fine consacrato siffattamente, che anche, senza altra utilità, egli avrebbe ancora parlato per solo desiderio innato ed instancabile d’imitare. Sotto questo rapporto l’uomo è un naturale contraffacitore di quanto ascolta e di quanto vede; egli non può ristarsi dal rifare quel che altri fa. Noi ne abbiamo una pruova continua nella storia naturale de’ fanciulli, che quella esprime più o meno del selvaggio o de’ primi uomini. E sotto questo punto di vista l’uomo più colto ed incivilito non è dal selvaggio e dal fanciullo punto diverso. Quindi è l’efficacia dell’esempio. Ed Aristotele, che più di tutti avea de’ suoi tempi compreso la forza di questo principîo e l’importanza della sua conseguenza, pose l’uomo al di sopra della scimmia, riguardandolo come l’animale imitativo per eccellenza.

[Intro.3] Sentendo adunque a un tempo il bisogno, il vantaggio ed il diletto d’imitare, o di esprimere con la voce, con la figura e col gesto tutto quello che, col mezzo de’ sensi, nella sua immaginativa primamente si dipingeva, egli si pose ad imitare ed esprimere con una forza particolare quegli obbietti e quei fenomeni, che una particolare impressione e sensazione facevano sopra di lui. Egli trovò nella natura fisica esempli e modelli per cantare, per danzare e per dipingere, e per l’ordinario si pose ad imitarli tutti ad un tempo. In questo senso può dirsi che la danza, la pantomima, il canto nacquero quasicché tutte contemporanee, o andarono nella loro infanzia lungo tempo indivise, giovandosi l’una dell’altra a vicenda.

[Intro.4] Ma in questa prima epoca esse non erano se non indistinte, confuse, identificate, e la sola prima che si distinse e spiegò fu l’arte speciale della declamazione, che, tutte comprendendole da principîo, si venne, limitando in progresso di tempo, ad imitare particolarmente la natura morale, e quindi a contraffare quelle persone più segnalate, quelle azioni più importanti, quegli avvenimenti più celebri, che più meritassero di essere per comune istruzione o diletto rammemorati. Pare dunque che i fasti degli Dei e degli Eroi, e le virtù ed i vizi più insigni degli uomini, che si volevano volgarmente commendare o vituperare, esser doveano l’argomento ordinario di coteste prime imitazioni.

[Intro.5] Tale è stato l’oggetto delle antiche feste civili e religiose de’ popoli, delle quali pur si conservano alcuni tratti nelle moderne liturgie. Il sacerdote che rendeva gli oracoli del suo nume, contraffacendone il tuono ed il contegno, non era a buon conto se non un imitatore del suo nume, ch’egli rappresentava.

[Intro.6] Gli antichi storici ci hanno pure tramandato la descrizione e la origine di tali feste, le quali non erano che la solenne rappresentazione di simili avvenimenti religiosi o civili. La danza o pantomima, che eseguivano gli abitanti di Delo, detta Gru, e che i villani anco ripetevano a’ tempi di Luciano, esprimeva la memoria del laberinto di Creta, di Arianna e di Teseo. Simile rappresentazione pur celebravano i Romani nel giorno detto da loro nonae caprotinae, con danze ed altri giuochi, imitanti la vittoria riportata sopra i Latini per opera di Filotide e delle altre schiave compagne. Gli stessi Romani pur festeggiavano il ratto delle Sabine, proclamando Talasio. I misteri eleusini, le orgie di ogni fatta e di ogni tempo, il culto liturgico di ogni religione sono in tutto rappresentazioni più o meno esatte di quegli avvenimenti solenni, che massimamente interessano quelle genti, che ne conservano la ricordanza. La storia antica e moderna è tutta ripiena di siffatti esempli.

[Intro.7] È questo, secondo me, il primo embrione della teatrale declamazione. I primi teatri furono dunque i templi, e i sacerdoti i primi declamatori, ed anzi i maestri della prima declamazione. Dalle azioni sacre e liturgiche (ed erano tali tutte le antiche feste civili) si vennero spiegando i primi saggi della declamazione drammatica, la quale di semplice e monologica, ch’era da principîo, divenne di più in più complicata e dialogistica, e migliorata a tal segno, che formò la delizia ed il pregio delle genti più incivilite e più colte. Di fatti, la tragedia di molto avanzata e perfezionata rammentava tuttavia le memorie delle feste di Bacco, dalle quali ripeteva la origine. I primi tragèdi o comèdi non erano se non meri declamatori, i quali si esponevano al pubblico siccome i ciclici, per contraffar qualche persona o memorabile o ancor vivente, il cui modello fosse degno d’interessare gli spettatori. Così da un semplice inno festivo cantato ad onor di Bacco s’immagina e si esegue progressivamente il monologo, il dialogo, il dramma; e così da Tespi si arriva ad Esopo ed a Roscio, e la declamazione teatrale dispiega alfine tutta la sua pompa e la sua maestà.

[Intro.8] Gli effetti maravigliosi che quest’arte produsse nei più bei tempi della Grecia e di Roma, e il gusto e l’interessamento, che i greci ed i romani costantemente mostrarono per gli spettacoli teatrali, debbono più che altronde farci arguire, quanta fosse quest’arte, e quanto lo studio per bene apprenderla ed esercitarla. Nella Grecia furono per l’ordinario gli stessi autori, che declamavano al pubblico i propri drammi: li declamarono Eschilo ed Euripide, e gli avrebbe pur Sofocle declamati, se la natura non gli avesse niegato l’organo e la forza necessaria a ben riuscirvi. Ed i greci, e gli ateniesi principalmente, non eran gente da prendere a gabbo in materia di finezza di gusto per tutto ciò che alla bella imitazione si apparteneva. La verità e la bellezza originale, che i monumenti superstiti delle arti loro tuttavia ci conservano, più che altro ci debbon render certi di quanto pregio esser dovesse la teatrale imitazione presso un popolo, che in altri generi l’aveva a tal segno perfezionata. Le attitudini, le figure, i gruppi maravigliosi delle statue greche, sono per noi gli argomenti più luminosi della eccellenza, cui doveva esser giunta la declamazione teatrale presso quella nazione. E perciò i mimi, gl’istrioni e i declamatori d’ogni maniera con ogni diligenza indefessamente la studiavano; né sdegnavano di ragionarne i più gravi filosofi, come Socrate, Platone, Aristotele e Luciano; e di apprenderla dagli stessi istrioni gli oratori più insigni, sì come l’apprese Demostene dal vecchio Triasio, che lo dispose e lo confortò a diventare un prodigio della greca eloquenza. Perciò non è da stupire se a tali principî corrispondessero per l’ordinario gli effetti della teatrale declamazione. La rappresentazione delle Eumenidi di Eschilo operò sì fattamente nell’animo di molte femmine da farle andar sconcie e germe di che eran gravi. Merope facea palpitare gli spettatori, allorché si accingeva ad uccidere il figlio fino ad obbligare alcuno ad avvertirnela in tempo i Greci prigionieri in Siracusa talmente commosse declamando i vincitori, che ne ottennero la libertà se gli Abderiti nel loro delirio febbrile declamavano l’Andromeda di Euripide, era in gran parte dovuta a l’arte di Archelao che l’avea declamata prima con foga straordinaria.

[Intro.9] La stessa arte e lo stesso gusto passarono a Roma e i romani se non superarono i greci in questo genere gli emularono certamente come in tanti altri. Cicerone, Luciano e Quintiliano ci hanno lasciato molte pruove dell’eccellenza, alla quale si era innalzata quest’arte presso i romani. Il solo Roscio, che meritò l’ammirazione di tutta Roma e l’amicizia di Cicerone, benché fosse a tutti gli artisti superiore, bastò a farci comprendere quanto fosse l’arte sua conosciuta ed apprezzata universalmente. Il solo gesto muto emulava talvolta il linguaggio più eloquente e più vario. I pantomimi fecero dire ch’essi parlavano con le mani e con le dita e con lo stesso silenzio, sicché potevano servire d’interpreti a’ barbari, che non intendevano la loro lingua. E perciò non dee far maraviglia se lo stesso Nerone dava tutta l’opera sua ad imparare ed esercitare quest’arte, e, deposta la insegna cesarea, non isdegnava di comparir sulle scene sotto la divisa di attore; così i pantomimi più insigni giunsero ad avere emolumenti straordinari, e ad essere stimati nel pubblico assai più che i senatori, e talvolta divisero Roma in più parti, che sostenevano il merito d’Ila o di Pilade suo maestro, come altra volta seguivano il nome di Mario o di Silla.

[Intro.10] Cadono con l’impero romano tutte le arti, e fra le loro ruine si perde ogni arte drammatica e pantomimica. La lingua latina si spegne del tutto, e con essa si perde ogni comunicazione fra il tempo ch’era preceduto e quello che sieguì. E perciò riesce ancora difficilissimo, anzi impossibile, il conoscere quali fossero certe maniere e pratiche di queste arti, che dagli antichi si esercitavano, siccome riguardo all’armonia della lingua, al tuono della declamazione, al canto o alle note di questa, all’uso delle maschere, alla divisione ed esecuzione sincrona della declamazione, ed al pantomimo dello stesso dramma. Non potendo tali cose scriversi e tramandarsi alla posterità che col mezzo della tradizione, e questa, trovandosi interrotta, e quindi ignorata, non poté più per mancanza di esempi e di modelli comunicarsi ed apprendersi. Ed i pochi tratti allusivi, che di qualche scrittore di quei tempi ci rimangono, non servono ad altro che al perditempo de gli eruditi, i quali senza pruove più chiare si affogano su tali ricerche in vane ipotesi e ridicole conjetture. Forse per tutto quel tempo d’ignoranza, di barbarie e di distruzione non rimase altro dell’antico che qualche vestigio delle farse atellane e l’uso di qualche maschera, che la plebe pur sempre ritenne, che diede l’origine all’arlecchino e ad altrettali caratteri mimici, di cui ogni paese d’Italia vanta il suo proprio. Rinascono finalmente le lettere e le arti verso il secolo XI e XII, e l’arte drammatica e la declamazione particolarmente sono le più tarde a rialzarsi e rimettersi a livello delle altre. Si era intanto migliorato il genere delle farse, e queste diedero luogo ad un genere di maschere e d’improvviso, che i soli italiani conobbero e praticarono, a differenza di tutte le altre nazioni, che assai tardi cominciarono ad imitarli. E sino ai nostri tempi è invalso questo costume di gare all’improvviso sopra un soggetto qualunque appena disposto e sceneggiato; e molti commedianti si distinsero in questa pratica, la quale nell’atto che richiedeva talento e distrezza non ordinaria, non poteva pur mai toccare quella perfezione che presuppone la perfezione del dramma, e lo studio e l’apparecchio conveniente degli attori, che debbono rappresentarlo.

[Intro.11] Siccome dunque da una parte giovò quest’uso a sviluppare e addestrare l’ingegno e l’arte del commediante italiano, così dall’altro canto nocque non poco all’introduzione e al gusto della vera drammatica e della buona declamazione. La buona commedia rinacque in Italia verso la fine del secolo XIV; ma non trovo né attori né spettatori per apprezzarla. Il XV secolo non ci offre che sacre rappresentazioni della passione di Cristo, e delle vite de’ martiri e degli anacoreti; e spesso si vedevano per le chiese, convertite in teatri ed uomini e demoni ed angeli e bestie, che dialogizzavano fra loro con quella edificazione, che tali spettacoli dovevano partorire. Or quale doveva essere la declamazione conforme a tali soggetti e caratteri, a’ quali doveva principalmente servire? Appena nel secolo XVI alcuni accademici, o per mero divertimento, o per gusto speciale cominciarono a rappresentare or in una, or in altra città qualche dramma regolare, o dall’antico tradotto, o sull’antico modellato. Così fu veduto ancora qualcuno far le parti di autore e di attore insieme; e v’ha chi ha lasciato scritto di Angelo Beollo, altrimenti detto il Ruzzante, aver superato Plauto componendo le sue commedie, e Roscio rappresentandole. La tragedia era pur nata ne’ principî di questo secolo con la Sofonisba del Trissino, comparsa verso il 1520. Un certo Sebastiano Clarignano da Montefalco commediante avea recitato l’Orbecche di Giraldi Cintio, avanti che fosse pubblicata con le stampe nel 1541. Ma questi tentativi e barlumi dell’arte non iscuotono il gusto per le improvvisate e per le maschere del tempo. Nel principîo del secolo XVII dobbiamo qualche regolarità teatrale al commediante Flaminio Scala, detto Flavio, che, trovandosi a capo di una compagnia comica, fece stampare nel 1611 i suoi così detti Scenarj, con l’argomento di ciascuna scena da improvvisare, giovandosi alquanto delle buone commedie conosciute a’ suoi tempi. Si erano pure su le scene introdotte le donne, le quali aveano preso il luogo di giovanetti, che prima ne sostenevano, o piuttosto ne usurpavano le parti, con uno scandalo maggiore di quello che si voleva evitare. E, malgrado l’ordinario improvviso, si vide pur recitare alcuna buona commedia o dramma più o men regolare, come il Pastor fido. Ma infelicemente s’introdusse in questo secolo il genere tragicomico degli spagnuoli, il quale se da una parte arrestò i progressi dell’arte drammatica, concorse però dall’altra a dare qualche vivacità e dignità alla declamazione. Di fatti si distinsero moltissimi commedianti italiani, e le corti straniere, specialmente quelle di Francia e di Vienna, cominciarono a provvederne i loro teatri; e furono celebri i nomi di Pietro Maria Cecchini, detto il Triffellino, protetto dall’imperator Mattia, e di Niccolò Barbieri, cognominato Beltramo, e Giov. Batt. Andreini, detto Lelio, beneficati da Luigi XIII; i quali tutti, e qualche altro erano letterati e dottori, e principalmente per le parti di arlecchino celebrati.

[Intro.12] Verso la fine del secolo XVII i buoni attori eran quasi per mancare del tutto, allorché risorge la compagnia di Francesco e di Agata Calderoni, detti Silvio e Flamminia, nella quale si distinse Pietro Cotta romano, detto Celio, uomo di rara probità, e perciò nemico di quel genere di licenza, che dominava i teatri di quei tempi. Per opera di questo saggio attore si vide su le scene, dopo il Pastor fido del Guarini e l’Aminta del Tasso, la buona tragedia italiana, e l’Aristodemo del Dottori fu la prima che fosse rappresentata. Si rappresentarono pure le migliori tragedie di Corneille, di Racine, tradotte in Bologna ed in Roma. Ma Cotta lasciò il teatro, ed il suo esempio non fu seguito fra gli altri attori se non da Luigi Riccoboni, il quale abbastanza istruito nell’arte sua, e confortato da’ dotti del suo tempo, e particolarmente dal Conti e dal Maffei, fé gustare e applaudire la Sofonisba del Trissino, la Semiramide del Manfredi, l’Edipo di Sofocle, tradotto dal Giustiniani, l’Ifigenia del Rucellai, le tragedie di P. I. Martelli, e finalmente la Merope del Maffei. La sola semplicità di questa tragedia ci farebbe conjetturare quanta dovesse esser l’arte di quelli, che la declamavano per ottenere l’approvazione e l’interessamento di un pubblico, non ancora assuefatto a quel gusto, anzi degenerato e guasto da un gusto del tutto falso e ridicolo, che lo aveva fino allora predominato. Lo stesso Riccoboni ci assicura che in dieci anni di lavoro la buona tragedia parve stabilita ne’ teatri di Venezia e di Lombardia. Ma ad onore insieme ed a danno d’Italia, tanta fama ch’ei si aveva acquistata con la sua arte, lo fé chiamare dal re di Francia a Parigi, dove co’ migliori commedianti, che seco menò, fé gustare ed applaudire la bella declamazione italiana, che d’allora si venne ognor più degradando fra noi, a misura che si venne nella Francia avanzando.

[Intro.13] Non cessò per questo il Riccoboni, assistito e secondato dalla sua coltissima moglie, Agata Calderini. Egli fece osservazioni, paragoni e trattati sull’arte del commediante; ma la sua opera giovò più agli stranieri che ai suoi nazionali, i quali o neglessero o disprezzarono ciò che gli altri ne appresero e ne emularono. E noi veggiamo da quella epoca in poi migliorarsi l’arte teatrale in tutti i paesi, e nell’Italia mostrarsi retrograda o stazionaria. Tutte le altre nazioni, che l’hanno conosciuta assai più tardi di noi, si sono come largamente compensate di questo ritardo, ed hanno fatto progressi straordinari in questa linea. La Francia fu la prima, fra tutte, a distinguersi. Il genio di P. Corneille e di Moliere quello svilupparono di Baron, che col cominciare del secolo XVIII imprese a riformare, anzi creò la grande e bella declamazione teatrale. Fino a quel tempo, o non esisteva in Francia, od era, come altrove, incolta, triviale, plebea. D’allora può dirsi fondata in Francia una scuola, che, malgrado le sue vicende, a forza di tradizioni e di esempi, si conserva e si ammira costantemente. Essa vanta la Champmeslé, allieva di Racine, e qualche volta sua consigliera, la Couvreur e le Kain, che pur tanto concorsero a fare ammirare le tragedie di Voltaire, e così pure la Clairon, la Dumenils, e tutti quegli altri che si mostrano tuttavia capaci e solleciti di emularne l’ingegno e lo studio. Seguendo la storia dell’arte drammatica in Francia, noi possiam dire che gli attori hanno fatto a gara con gli autori per l’un l’altro distinguersi; e talvolta è rimasto in forse, se il merito del dramma sia più d’attribuirsi al declamatore o al poeta. E gli attori, ch’erano o sono altrove limitati al divertimento e al disprezzo del pubblico, sono qui apprezzati e distinti come tutti gli altri artisti, che per la loro eccellenza hanno meritato la comune ammirazione. Io non parlo di quelli che a’ nostri dì si distinguono; e, senza qui esaminare se abbiano raggiunta o alterata la perfezione di quelli che gli hanno preceduti, mi contento soltanto di dire che con la propria esperienza ho più volte provato gli effetti reali dell’arte loro, e quali che siano i difetti delle persone, o della scuola, o della nazione, o del tempo, tutti più o meno annunziano lo studio teoretico e pratico, che i migliori ne hanno fatto, e quello che dovrebbero e potrebbero fare tutti quegli altri, che volessero nobilmente emularli.

[Intro.14] Ed hanno cercato e cercano tuttavia di emularli le genti più colte di Europa. Il teatro e l’arte di Shakespeare ha grandemente giovato a promuovere la teorica e la pratica in Inghilterra. Questa si gloria di molti abilissimi attori; ma ha tutti di gran lunga sorpassato il famoso David Garrik. Egli avea lavorato più drammi, alcuni col poeta Colman, ed altri da sé solo; ma il merito di attore fu di molto superiore a quello di autore. Troppo si è parlato degli effetti maravigliosi ch’egli produceva sull’animo de’ suoi spettatori. Niuno più di lui ha fatto sentire la forza e il terrore delle tragedie di Shakespeare; e gli onori che l’Inghilterra gli rendette alla sua morte, mostran quanto quella nazione avesse in pregio e l’arte e gli artisti, che, come Garrik, seppero esercitarla.

[Intro.15] Cerca pur di emularla la Signora Cibber; e prima di questi si erano ancor segnalati vari altri attori ed attrici, come Elena Guyn, detta la Nelli, tanto cara a Carlo II, Ofields, Quins, Davesport, Marshall, Bowtel, Betteron, Ley ecc.; di modo che possiam dire che la declamazione inglese, malgrado le vicende dei tempi e dell’arte, non ha avuto in certe epoche di che invidiar la francese.

[Intro.16] Lo stesso gusto, benché più tardi, si è pure introdotto nell’Alemagna. Le buone tragedie che vi sono state prodotte, e specialmente la energia ed il calore di quelle di Schiller, dovevano eccitare la passione e il talento degli attori a ben declamarle; e molti nomi celebri in questa linea si vantano ancora da quella nazione. Ma par ch’ella stimi principalmente il talento e la maniera di Ekhoff, la cui pratica ha meritato di confirmare in molte parti la teoria di Engel. Lessing ed altri dotti ammiratori dell’arte teatrale hanno pur commendato altri attori ed attrici in quegl’incontri, ne’ quali più spiccava il loro talento; ed è questa una pruova evidente della stima dell’arte, e della perfezione del gusto, col quale si apprezza e si pratica.

[Intro.17] L’Alemagna, l’Inghilterra e la Francia sono oggi le tre nazioni, che si disputano in questo aringo il primato e la palma. Ciascuna però ha adottato de’ principî e degli usi analoghi alla propria indole, ed ha per conseguenza la sua propria scuola, che gli stessi poeti hanno in certo modo fondata e determinata col genere dei loro drammi. E siccome questo è molto libero e qualche volta licenzioso nell’Inghilterra, la declamazione, che gli tien dietro, spazia anch’essa liberamente pei campi della natura, e spesso discende dal sublime e dal grande, al volgare ed al piano nella medesima situazione. La tragedia francese, se alcuna volta non tocca il sublime delle inglesi, non mai scende sì basso, e sempre si tiene sulla stessa linea alquanto uniforme di decoro e di nobiltà. La tragedia in Alemagna ha piuttosto seguito il genio della inglese, e per l’ordinario si diletta ancor più del genere semplice e famigliare. Secondo questi tre modelli si dee distinguere il carattere proprio della loro declamazione. Non è questo il luogo di pronunciare chi di loro meriti in questa parte la preferenza. Io noto soltanto che ciascuna vanta la sua scuola particolare, e si studia di esaltarne e promuoverne la pratica, i principî e gli effetti, e che questa gara nazionale suppone ad un tempo ed accresce la perfezione dell’arte, ch’esse professano.

[Intro.18] Ora qual parte prende l’Italia in questo nobile aringo? Ancorché fosse stata la prima a conoscere ed insegnare alle altre nazioni quest’arte liberale, come le altre tutte, ancorché nel teatro e nella scuola degli italiani l’avesse appresa e provato Moliere, che fu il maestro di Baron, e quindi il fondatore della buona declamazione francese, ella è rimasta al disotto del livello delle altre. Non è per questo che su’ teatri d’Italia non sieno comparsi a quando a quando degli attori capaci di provare quel che può la natura, priva dell’arte che la sviluppi e la governi. I nomi di Patella, di Zanerini, di Andolfati ed altri provano sempre quale è stata, e quale può essere la declamazione in Italia, se attori capaci di rinnovare il merito de’ Cotta e de’ Riccoboni, uniscono lo studio alla pratica, e la scuola al teatro. La natura in questo genere ha particolarmente favorito gl’italiani, a paragone delle altre nazioni, avendo loro dato voce armonica e melodiosa, e facilità e ricchezza di espressioni, e nobiltà ed eleganza di modi; il perché tanta gloria si potrebbero impromettere dal loro impiego, quanta maggiore sarebbe la loro vergogna, se questi doni trascurassero della natura.

[Intro.19] È già pur qualche tempo che tali idee si sono svegliate in più parti d’Italia. Le tragedie di Alfieri hanno comunicato apertamente all’animo degli attori e degli spettatori quella forza tragica, che sola può farci sentire e conoscere il pregio della declamazione e del teatro. Lo stesso Alfieri tentò, come gli antichi greci tragèdi, di declamare le sue tragedie, e di promuovere con la sua pratica il gusto della declamazione, dagli ordinari commedianti ignorata ed invilita. Ed ancorché non ci avesse dato un egual modello in tutti i generi della espressione nel comporle e nel declamarle, pure raggiunto l’uno si possono pur gli altri più o meno raggiungere per l’identità de’ principî, da cui tutti dipendono, e per quella forza di armonia, che tutti i rami esprime e comprende. Per tali impulsi non solo degli attori, ma ancora di quelli che si dilettano di quest’arte per solo gusto d’esercitarla, hanno sentita e conosciuta la sua innegabile imperfezione, ed hanno procurato, per quanto è possibile, di promuoverla e di migliorarla, secondo i principî ed il fine, che l’arte si dee proporre. E questi sforzi e tentativi, che si sono fatti e ripetuti negli ultimi tempi, hanno sempre più mostrato quello che potrebbe diventar l’arte in mano degli italiani, e quello che tutta volta le manca, per porsi al livello delle altre nazioni in questa linea.

[Intro.20] Ma ciò o non potrà mai ottenersi, o con somma difficoltà e per caso, interrottamente e di rado, se l’osservazione più sagace, e la accurata diligenza, e il criterio più sano non raccolgano gli esperimenti, i tentativi, gli effetti, e, comparandone l’uso e l’impressione, riducano l’arte a regole e principî più o meno determinati, e si formi in questo modo e si sviluppi quel gusto e quel tatto, che il bello dell’arte sicuramente distingua, e ne giudichi fondatamente. Allora l’arte, procedendo da’ suoi veri principî, può, sempre più sviluppandoli ed applicandoli, progredire per quella linea che mena alla perfezione. E tutte le nazioni che si sono avvicinate più o meno a questo termine, non hanno trascurato né potevano trascurare questo metodo. La declamazione fu per essa un’ arte regolare come la scrittura, la pittura, la musica; e i più grandi filosofi, non che gli artisti più celebri, teoreticamente ne ragionarono, e ciascuna nazione vanta le sue opere e i suoi scrittori. Socrate, Platone ed Aristotele se ampiamente non ne trattarono, ne parlarono sempre come di un’arte che meritava di essere insegnata ed appresa secondo i suoi principî e le sue regole. E perciò vi erano fra’ greci e fra’ latini scuole, esperimenti ed esercizi per apprendere e perfezionare quest’arte. Esistono ancora i titoli che si davano a’ maestri che specialmente la professavano. Secondo Aristotele, Glaucone di Theos nella Jonia aveva scritto un trattato su la maniera di declamar la poesia, ma niuno, egli dice, aveva fino a’ suoi tempi trattato propriamente della declamazione oratoria. Ed ecco perché si vedevano gli oratori apprenderla dagli stessi istrioni, come Demostene l’apprese dal vecchio Triasio, ch’egli incessantemente consultava nell’esercizio dell’arte sua. Roscio presso i latini, dagli esperimenti familiari che ne faceva con Cicerone si era indotto a trattarne particolarmente, comparando i vari modi di espressioni equivalenti della pantomima e della eloquenza. Ma niente abbiamo di questa opera, del cui disegno ci parla Macrobio, né di quella di Glaucone, di cui ci parla Aristotele.

[Intro.21] I soli fra gli antichi, i quali ne abbiano trattato, e di cui abbiamo le opere, sono Cicerone, Luciano e Quintiliano; ma Luciano alla sola danza o pantomima si limitò, e Cicerone e Quintiliano della sola pronunciazione oratoria intesero ragionare; di modo che per quanto al loro subbietto particolare importava, alla teatrale declamazione più o meno si riferirono, ma niuna opera di questa materia da’ greci e da’ latini ci è pervenuta.

[Intro.22] I primi a scrivere fra’ moderni, benché tardi, furono gl’italiani. Un certo Ingegneri avea fatto un discorso Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche, ma il discorso non corrispose al titolo. Il primo che abbia trattata veramente questa materia si è Luigi Riccoboni, che alla pratica cercò pure di unir la teorica, e scrisse e pubblicò con le stampe in italiano ed in francese diverse operette sull’argomento, e specialmente i sei capitoli su l’Arte rappresentativa, stampati in Londra sul 1728, e l’Arte del teatro.

[Intro.23] Dopo lui, più che gli italiani, le altre nazioni seriamente se ne occuparono; la Francia, l’Inghilterra e l’Alemagna ebbero le loro opere particolari in questo genere. Ha la Francia il Commediante di Sainte Albine, e le note e le osservazioni assai più giuste di Dhannetaire, il Corso di declamazione di Larive, le osservazioni della Clairon, della Dumesnil, e il poema sulla declamazione di Dorat ec. ec. Ha l’Inghilterra fra le altre opere il Garrik, o gli attori inglesi, e la Lecture on mimiens. Ha l’Alemagna l’Abrégé de principes de l’eloquence du geste di Loeve, e sopratutto la teoria del gesto di Engel. In generale si può dire, che oramai non vi ha scrittore insigne di belle arti che della declamazione più o meno non ragioni. Di fatti, più volte ne ragionarono Diderot De la poésie dramatique, e Marmontel e Mercier Du Théâtre, e lo Spettatore in più luoghi, e Lessing nella sua Dramaturgie e Bibliothèque théâtrale, e Sulzer Théorie generale des beaux arts. Art.o geste. Negli ultimi tempi pur qualche cosa ne scrissero in Italia, fra gli altri, Signorelli e Planelli, ma l’uno non di proposito, e l’altro non con la debita estensione; di modoché potrebbe dirsi che dopo il Riccoboni, che da tutti gli stranieri fu commendato e seguito, niuno principalmente e debitamente ne ha scritto. La lettura e il confronto di tutti quelli scrittori, che ne hanno più o meno trattato finora, e le osservazioni e la pratica de’ teatri, che ho potuto esaminare e raccogliere, mi hanno animato a scrivere ad uso degli italiani. A questi io indirizzo particolarmente le mie osservazioni, e della declamazione tragica propriamente intendo ragionare, e spero che i miei compatrioti accolgano di buon grado le mie intenzioni, e che altri, migliorandone l’esecuzione, possano influire più efficacemente alla perfezione di un’arte, che, rinata fra noi, è pur rimasta stazionaria, a fronte delle altre nazioni, che l’hanno imparata da noi, e più di noi migliorata.

Capitolo I. §

Della espressione nel senso più generale — Della declamazione in ispecie, e propriamente della tragica.

[1.1] Ogni essere della natura, essendo dotato di forza o di facoltà propria, opera a proporzione, e genera più o meno al di fuori di certi effetti corrispondenti. Da tali effetti sensibili noi raccogliamo ed argomentiamo ordinariamente quella forza e facoltà, che la natura interna ed invisibile, propria di qualunque essere, costituiscono. Quindi diciamo l’uno più o meno operativo dell’altro, quanto più o meno produce e spiega al di fuori di tali effetti. Or questi effetti presi come indizi della forza, o cagione interna, che li produce, costituiscono nel senso più ampio la espressione comune a tutti gli esseri della natura.

[1.2] Questa attività propria di ciascheduno si manifesta progressivamente per tutte le specie organizzate, dal più semplice vegetabile sino all’animale più perfetto, che noi conosciamo, od all’uomo. Sia la forza superiore, della quale è l’uomo informato, sia la sua organizzazione più estesa e moltiplice, sia la combinazione dell’una e dell’altra, esso genera ed esprime al di fuori assai più che gli altri non fanno. E tali effetti, che noi osserviamo nelle sue esterne modificazioni, che sono pur segni visibili della occulta forza che l’anima, costituiscono la sua espressione particolare, che a differenza della universale o naturale, morale od umana propriamente può dirsi.

[1.3] Questa espressione fu la prima lingua della natura comune a tutti gli esseri più o meno attivi e modificabili, ch’essa comprende. In questo senso parlano e si esprimono tutte le cose non pure animate che inanimate, in quanto i diversi accidenti che al loro stato esteriore successivamente si spiegano, ne annunziano ad un tempo lo stato interno, o l’interno principîo che li produce. Il perché non è tutto metaforico quel che i poeti fan dire alle piante ed ai bruti.

[1.4] Questa lingua fu da principîo nell’uomo, come in tutti gli esseri inferiori, necessaria e meccanica, siccome è necessaria e meccanica la relaziona che lega gli effetti con le cagioni. L’uomo, secondo gli obbietti e le circostanze che operavano sopra di lui, vivendo e sentendo al di dentro ora in una, ora in altra maniera corrispondente, non potea fare a meno di manifestare al di fuori quella interna modificazione, che pur si comunicava e si propagava sino a tutti gli organi esterni, che più o meno ne dipendevano. E questa esterna modificazione generale, simultanea e confusa, che in tutte le parti del corpo si dispiegava, fu da principîo la prima lingua che parlassero gli uomini, secondoché erano dalla natura internamente e variamente agitati, e fu perciò detta naturale da Platone, ed istintiva da altri, e che primitiva ed elementare potrebbe dirsi; ed essa fu a un tempo e vocale e pittorica e mimica, in quanto che la persona esclamava e si colorava e si muoveva a un tempo analogamente alle sue sensazioni ed ai suoi bisogni; e così l’uomo si espresse con la voce, col volto e col gesto.

[1.5] In questo primitivo e maraviglioso magistero della natura conviene cercare l’origine, gli elementi, il principîo delle lingue, della eloquenza, d’ogni bell’arte, riguardata come imitativa della natura significante. Nel senso più generale, l’arte altro non fa, che raccogliere ed imitare l’espressioni più vive e più vere della natura parlante, e sul modello delle originali o scarse o inesatte, moltiplicarne e migliorarne delle altre artificiali, che rendono quasi la natura più bella e più perfetta, imitandola.

[1.6] Uno fu dunque l’oggetto comune a tutte le arti, cioè l’espressione della natura; e ciascuna arte si distingue per l’indole de’ mezzi particolari che adopera. In modo che in ogni imitazione bisogna primamente distinguere l’oggetto imitato, ch’è l’espressione della natura, dall’oggetto imitante, in cui l’espressione artificiale ed imitativa consiste. Questo è tante volte simile, e dello stesso genere che l’imitato, come interviene allorché l’uomo imita o contrasta più o meno il suo simile, parlando e operando alla maniera del modello che si propone. Le prime arti imitative furono quelle, che adoprano tali oggetti imitanti, che mezzi e stromenti dell’arte rispettiva soglion dirsi; perché erano questi i più ovvi ed i più facili a conoscere e mettere in opera.

[1.7] Da queste arti si passò via via a quelle altre, il cui oggetto imitante non è simile, e talvolta è molto discorde dall’oggetto imitato. Tali sono la scultura e la pittura, che adoprano l’una il marmo e l’altra i colori per imitare alcuni oggetti ed espressioni, che ai colori ed al marmo propriamente non si appartengono. La natura non ci offre uomini formati di pietra o di colori.

[1.8] L’uomo, imitando il suo simile, atteso la varietà di mezzi più o meno distinti, che contemporaneamente poneva in opera siffatta imitazione, si valse in progresso or dell’una or dell’altra specie di tali mezzi, escludendo gli altri, che d’ordinario naturalmente solevano cooperare ad un tempo. In questa guisa non si imitò tutto l’uomo operante, ma, per dir così, alcuna parte di esso. Il canto, la danza, la pantomima sono arti, per dir così, staccate ed astratte dall’arte madre e comune, alla quale in origine appartenevano. L’uomo operante parla e si muove ad un tempo; e noi per interesse di novità e di difficoltà lo facciamo ora solamente cantare, ed ora solamente gestire, e col solo canto o col solo gesto gli facciamo esprimere quello che egli esprime gestendo e parlando insieme. E così a ragione che si moltiplicavano le osservazioni, gli effetti, gli accidenti ed i tentativi, dividendosi e suddividendosi di più in più i mezzi e gli stromenti delle arti più o meno composte, si divisero e suddivisero le arti medesime; e ciascuna osò mostrarsi accompagnata dalle altre germane, e tentar sola ciò che, senza la cooperazione delle altre, non osava prima eseguire.

[1.9] In questa maniera, raccogliendo, ordinando e imitando or l’una or l’altra parte della espressione generale esclusivamente, cioè ora i suoni, ora i moti, ora i colori, ora i rilievi soltanto, si distinsero e perfezionarono sempre più la lingua ed il canto, la danza e la pantomina, la scultura, la pittura e tutte le altre arti, le quali come specie da questi generi traggono l’origine e lo sviluppo. L’oggetto delle belle arti in generale è dunque l’espressione generale della natura, siccome il particolare si determina dal carattere dell’oggetto imitante, o dei mezzi e de’ strumenti che ciascuna arte adopera, per imitare la espressione della natura che si prefìgge.

[1.10] Malgrado tutte queste divisioni e suddivisioni, in cui l’arte medesima si vide smembrata, e che pur servirono a perfezionare ciascuna sua parte, di tutte in progresso giovandosi, ella pure si conservò intera qual nacque, e sotto il nome di arte drammatica o comica si comprende. Il commediante o l’attore è quello che imita il suo simile con tutti gli estesi mezzi, con cui questi opera, cioè parlando e gestando insieme; dimodoché imitando il suo oggetto egli lo imita e ripete siffattamente, quale si suppone veramente accaduto. La sua imitazione è una pretta ripetizione della cosa medesima che s’imita.

[1.11] Tale imitazione drammatica si divise anch’essa in più specie. Gli antichi aveano distinto 1a comica, la tragica e la satirica, atteso il carattere dell’obbietto e dal subbietto imitato. Noi distinguiamo principalmente la comica e la tragica, non escludendo i gradi intermedi, che l’uno e l’altro termine, o per eccesso o per difetto possono ammettere.

[1.12] L’arte rappresentativa tragica vien detta comunemente declamazione per quella forza non ordinaria che l’attore tragico debbe adoperare parlando. Declamano anch’essi gli oratori aringando; declamano anch’essi i poeti, specialmente epici e ciclici, recitando al pubblico le cose loro; ma l’impressione particolare che fecero pur declamando gli attori tragici, riuscendo la loro declamazione, e più efficace per l’uso, e più mirabile per gli effetti, e più difficile pel suo magistero, essa venne attribuita alla tragica principalmente. E noi di questa ci proponghiamo di ragionare in ispecie.

[1.13] Quest’arte consiste adunque nel rappresentare adeguatamente la parte degli attori tragici. E qui si osservi, che se declama l’oratore e il poeta, sia che legga o che reciti le cose, delle quali sia pure egli od altri l’autore, l’attore tragico né legge né recita semplicemente la parte sua, ma la pronunzia e l’esprime siffattamente, come se sentisse o parlasse estemporaneamente nel momento che la pronunzia e l’esprime, e come se fosse egli stesso la persona medesima ch’egli imita, e niuna differenza passasse fra l’oggetto imitato e l’oggetto imitante. Come tale egli è propriamente attore tragico e declamatore; e la sua declamazione ha una maniera particolare e propria ne’ mezzi ch’essa adopera per conseguire il suo fine; e noi andremo di mano in mano determinando tali mezzi, sicché ne rendano l’esercizio e più regolare e più sicuro.

[1.14] Or, considerandola nella sua totalità, essa adopera ad un tempo i suoni articolati, o le parole ch’ella pro nunzia, e tutti i segni sensibili che la fisonomia, il portamento ed il gesto secondo il bisogno le prestano. Il perché le parole si possono riguardare come la materia prima ed estrinseca, sulla quale il declamatore deve esercitare l’arte sua, dandole quella forma che più le conviene per renderla quale debbe essere. Le nude parole, quali si trovano esposte e combinate nel dramma, e finché semplicemente si leggono o si trascrivono, non sono pur anche declamate, e così quali giacciono non hanno ancora ricevuto quella vita e quell’azione che attendono dalla declamazione. E per conseguenza quest’azione e questa vita, che la declamazione dee loro comunicare, è il vero subbietto che noi prendiamo a considerare. Bisogna dunque distinguere le parole come pura materia della declamazione, da’ mezzi propri, onde questa si vale per modificarle secondo il suo disegno e il suo fine, e darle la sua forma conveniente; e questi mezzi sono la voce, la fisonomia, il portamento ed il gesto, ossia tutta l’azione conveniente della persona che parla e declama.

Capitolo II. §

Della pronunciazione vocale — Della grammaticale — Della logica — Della oratoria — Della gesticolazione conveniente.

[2.1] La declamazione, considerata come una specie particolare della pronunciazione, ha molte cose di comune con questa, e non può prescindere da certi principî che questa principalmente riguardano. Per lo che, volendo ben trattare della declamazione in particolare, non possiamo negligere ciò che alla pronunciazione in generale appartiene. Noi diremo adunque di questa ciò che reputeremo al nostro intento più necessario.

[2.2] Di tutte le maniere o parti della espressione generale quella che domina fra le altre, si è la lingua parlata, come quella che, per facilità, per prontezza e per varietà, si presta, più che le altre, ad esprimere quanto il bisogno, l’utilità o il piacere esigono. Ed ancorché l’organo proprio di questa espressione particolare fosse il vocale, non si scompagna del tutto pur mai dal concorso delle altre parti visibili della persona parlante, le quali con la voce più o meno cospirano ad esprimere la stessa cosa. Quest’arte che alla nuda parola o a’ meri segni vocali delle idee e degli effetti aggiunge il tuono, la figura ed il gesto conveniente, si dice propriamente pronunciazione.

[2.3] La pronunciazione, impiegando il tuono della voce, la figura del viso, ed il moto del corpo, che più si convengono alle parole nelle quali si esercita, è l’arte di esprimere ed accompagnar le parole con la voce, con la fisonomia e col gesto più accomodato al significato delle parole ch’esprime. Essa può distinguersi in due parti, cioè vocale ed acustica, in quanto riguarda le parole ed i segni che l’organo della voce pronuncia, e che l’udito raccoglie; e mobile e ottica in quanto riguarda la figura e i moti del corpo, che gesti in generale si appellano.

[2.4] Scorrendo gli elementi che alla pronunciazione vocale appartengono, essi tutti si riducono al suono che accento o quasi canto volgarmente può dirsi. Questo accento può soffrire diversi accidenti: ed il primo consiste nel suono migliore che la nazione dà alla propria lingua che parla, e che accento nazionale può dirsi.

[2.5] Ogni dialetto, siccome ogni strumento della stessa specie, ha un suono comune; ma non tutti hanno la medesima qualità o perfezione. Così tutta la nazione adopera un medesimo accento, ma non tutte le province con la stessa esattezza e con lo stesso artifizio l’adoperano. Così l’accento attico era il migliore dei greci, il romano de’ latini, siccome oggi degl’italiani è il toscano. Ora tutti gli ordini e le persone che intendono parlare nel modo che posson migliore, debbono approssimarsi a quell’accento ch’è, e si reputa il più perfetto; e questo non s’apprende e s’insegna, se non sentendolo ed imitandolo da chi lo possiede e l’esercita naturalmente.

[2.6] Su questo primo accidente della voce si compongono e diversificano le parole. Ogni parola non è che un tratto di voce più o meno lungo e variamente modificato. Quindi nascono gli accidenti ed i modi, che ne determinano la quantità e la qualità, e quindi si distinguono le vocali, le consonanti e le sillabe, che le parole costituiscono. Una o più sillabe possono comporre una parola; ed ogni sillaba, sostenuta necessariamente da una vocale, può essere variamente temperata da una o più consonanti che la precedono e la seguano. Ogni vocale ha il suo suono proprio ch’è la prima modificazione o forma elementare, che la voce assume in parlando, ed ogni consonante modifica e determina la stessa vocale, obbligando chi la pronunzia ad articolarla secondo quel temperamento, che le hanno comunicato le consonanti. Or nessuno di questi elementi e de’ loro modi si dee trascurare o alterare sia parlando, o leggendo; e ciò l’arte costituisce di ben vocalizzare ed articolare pronunciando.

[2.7] Ogni parola, composta di più o meno sillabe, una ne distingue fra le altre, la quale fra queste primeggia più risentita per maggior forza di suono. Al suo confronto sembrano le altre meno aperte, meno vivaci, meno sensibili, e più mute, più oscure, più rapide e come destinate a servir quella, che sopra di esse si appoggia e signoreggia. Or questa forza o spinta, per cui la voce più in una, che in altra sillaba si raccoglie e si posa e si eleva, fu detta propriamente accento della parola, ed accentata la sillaba che n’era animata.

[2.8] Non è perciò che le altre sillabe non abbiano anche esse qualche accidente particolare e proprio, che oltre la differenza della vocale, ne modifichi e diversifichi il suono più o meno sensibilmente. Ma siffatti accidenti sono per l’ordinario così tenui e sfuggevoli, che richiedono un organo vocale ed acustico molto esercitato e squisito per accuratamente percepirli e pronunciarli. E quantunque ogni sillaba abbia il suo accento proprio, che pur concorre a formare l’indole e la bellezza delle parole e della lingua, il solo che usurpa per eccellenza un tal nome è quello che dà alle parole la esistenza e la vita. Senza di esso la pronunzia sarebbe una serie uniforme e monotona di sillabe, i cui tratti o parole non si potrebbero altrimenti distinguere e divisare che per via d’intervalli e riposi, a ciascuna di esse assegnati. Perlocché volendo evitare la confusione e la oscurità del parlare si darebbe, ch’è peggio, in un parlare disarmonico, stentato, nojevole. Questo accento è dunque come la scintilla animatrice, che trae le parole dal caos, e le avviva, le ordina e le armonizza.

[2.9] Dalla collocazione di questo acccento si raccoglie eziandio una specie di tempo, che l’arte di ben pronunziare dee pur calcolare e distinguere specialmente in certe parole. Perocché le sillabe disaccentate riescono tanto più rapide a pronunziare quanto più sono dall’accento lontane, o dall’accento piuttosto precedute che susseguite. Quindi una parola riesce, a proporzione dell’altra, più rapida e più sfuggevole quanto ha più sillabe disaccentate e continue, e più ancora se queste anzi seguano che precedan l’accentata. Così amo è più rapida di amò, amano di amerò. Quindi pur si distinsero le parole piane, le tronche e le sdrucciole in quanto hanno o possono avere l’accento sulla penultima, ultima od antipenultima sillaba, ond’è amare amerò, ed amano; e queste ben allogate e distinte rendono la pronunciazione sì varia ed armoniosa, che non v’ha udito, per rozzo che sia, il quale non l’avvertisca e ne goda in ogni genere di parlare, e nella versificazione massimamente.

[2.10] I grammatici hanno chiamato volgarmente questo accento acuto per distinguerlo da quello che alle altre sillabe sussidiarie pur si concede, e che grave per distinzione han chiamato. Ed alcuni altri più sottilmente hanno lo stesso acuto in più ancor distinto, parendo loro delle stesse sillabe accentate l’una più spiccata, e l’altra più rotonda, sia per la loro natura assoluta e primitiva, sia per la differenza della sede che tiene l’accento nelle parole.

[2.11] Alcune delle lingue moderne, come la francese, hanno pure ammesso l’accento circonflesso, che pare un accento dell’ordinario più sostenuto e prolungato. I toscani, o non l’usano affatto o di rado, e poco sensibilmente; sembra però che l’adoprino, anzi ne abusino alcune province d’Italia, come la Puglia, la Calabria, ecc.

[2.12] Avevano tutti e tre questi accenti i latini; e Quintiliano e Cicerone, fra gli altri, ci assicurano, che con le sillabe lunghe e brevi si temperavano. Ma se fossero simili a’ moderni chi può asserirlo od indovinarlo? Per quanto si voglia fare uso dell’imperio della tradizione e dell’analogia de’ termini pe’ quali ella costantemente trascorre, e si filtra e modifica, in un oggetto sì facile a variare ed alterarsi, e dopo si lungo tempo ed a capo di tali e tante vicende, questa pretesa analogia dee rimanere così sparuta e tenue, che niuna sensibile relazione di somiglianza può farci ragionevolmente arguire. Per la qual cosa quello che possiam dire di certo su tal proposito, si è che la quantità lunga viene costituita nel volgar nostro dall’accento acuto, e che ogni parola italiana non ne avendo che un solo, non può né pure avere che una sola sillaba lunga; e che per quanto dall’autorità degli antichi raccogliamo, avevano essi quantità ed accenti distintissimi ed indipendenti l’uno dall’altro, e che l’accento si combinava e con la lunga e con le brevi egualmente, rimanendo la quantità pure sempre la stessa, e che più sillabe o tutte lunghe o tutti brevi potevano consistere nella stessa parola.

[2.13] Or come possiamo determinare e distinguere la vera pronunciazione della lingua latina da quella delle moderne, se leggi così opposte ed inconciliabili ne costituivano l’indole e l’armonia, se i nostri accenti e le nostre quantità con gli accenti e quantità loro si paragonino? Ed altronde non potendo noi conoscere ed imitare l’indole nativa d’una pronunciazione se non per mezzo delle sensazioni acustiche, e però dell’esempio e dell’uso, dobbiamo su tal proposito da tali sensazioni, e quindi dall’esempio e dall’uso unicamente dipendere. E siccome tali dati ci mancano affatto, o da’ lumi che possiamo raccogliere, tali risultano, che nulla o ben poco possiamo immaginare e sostituire d’analogo tra le lingue viventi e le morte, dobbiamo invece rivolgere le nostre ricerche e la nostra analisi ad apprendere e praticare la pronunciazione e l’armonia della nostra lingua propria, e lasciar quelle che potrebbero anzi tornare a pregiudizio di essa.

[2.14] Ciò che della pronunciazione abbiamo discorso finora quella riguarda che grammaticale suole appellarsi, e che propriamente consiste nell’assegnare i suoni propri e genuini a qualunque elemento delle parole. Ma in una serie più o meno lunga di parole noi sentiamo la necessità e la utilità di soffermarci a quando a quando, e di prendere secondo il bisogno più o men di riposo. E perché tali pause giovassero a un tempo a chi parla ed a chi ascolta, furono regolate acconciamente secondo il senso delle parole. Per la qual cosa si distinsero da prima le parti più notevoli del discorso e così via via le meno sino alle più semplici e inseparabili. Quindi il periodo, i suoi membri, le loro parti o frasi, ecc. Di tali periodi vien formato il discorso, che pure in parti più o meno lunghe si suole dividere; onde risultano capitoli, articoli, paragrafi ed altrettali divisioni, che tutte di più o meno periodi successivamente compongonsi.

[2.15] Il periodo suole comprendere una proposizione più o meno complessa o composta di altre subalterne, che dalla principale dipendono. Ora queste, che sono più o meno dipendenti, si pronunciano l’una dalle altre più o men distaccate, a misura della maggiore o minor relazione, che hanno con la principale e fra loro. E, non si potendo tali relazioni logiche facilmente ed abbastanza conoscere dal comune de’ leggitori, si posero in uso i punti e le virgole; e così, procedendo dal meno al più, si passò dalla virgola al punto-virgola, a’ due-punti, al punto e al paragrafo ricominciando da capo, ecc. Così pure si sono introdotti de’ tratti orizzontali, che uniti al punto, notano un maggior distacco, e quindi richiedono una pausa maggiore. Il distinguere tali distacchi e riposi costituisce la pronunciazione logica, perché nota e distingue la separazione e la dipendenza reciproca delle idee, de’ pensieri, de’ giudizi e de’ raziocini, che l’intero discorso compongono.

[2.16] Dalla combinazione di tali accidenti vocali e di tali pause, che alla pronunciazione grammaticale e logica si appartengono, risulta la pronunciazione oratoria, la quale dà un certo suono particolare a certe parole o frasi, secondo, il loro ordinario significato, o l’intenzione straordinaria di chi le pronunzia; ed accento del discorso potrebbe dirsi. Quindi procedono quei suoni più o meno gagliardi, sostenuti e significanti che confermano ed accrescono il senso delle parole, ed agevolano l’intelligenza di chi le ascolta. E perché dalla varietà e combinazione di tali suoni risulta una certa armonia, che pur conspira allo stesso fine, si diedero ai periodi ed a’ loro membri tali incominciamenti, tali cadenze, tali riprese, che, notandone ancor più la consonanza e la correlazione, servivano ad accrescere l’intenzione di chi parlava e l’attenzione di chi ascoltava. Ebbero dunque i loro suoni particolari le virgole, i punti virgole, i punti finali; e i punti interrogativi, dagli ammirativi e dai sospensivi pur si distinsero. E così infinite altre modificazioni e modulazioni si immaginarono e si eseguirono, che accrescendo l’importanza delle parole e delle sentenze, che si enunciavano, accrescevano a un tempo l’interesse e l’intelligenza di quelli che l’ascoltavano e ricevevano.

[2.17] Tre dunque sono i principî e gli elementi che la pronunciazione oratoria costituiscono: 1.o La natura dell’idea che si enuncia, o il vero senso della parola ci detta il modo onde vuole esser questa pronunciata; 2.o Chi parla spera piuttosto da un tuono che dall’altro eccitare e determinare l’attenzione e l’interessamento di chi lo ascolta; 3.o E finalmente egli prevede che da un certo accozzamento ordinato, progressivo ed armonico di tali suoni ed accenti un certo effetto risulta, che diletta e persuade ancor più, e quindi rende ancor più efficace il magistero de’ due precedenti principî. In questo modo percorrendosi un certo numero d’intervalli dal grave all’acuto, e collocandosi gli accenti più tosto in uno che in altro luogo; e quelli adoperandosi più o meno di lentezza, di celerità, di riposo, si formò una specie di modulazione aggradevole, significante, metodica, che maravigliosamente concorse al vero fine ed alla perfezione della lingua, che consiste nell’esprimere e farsi intendere il più che si può.

[2.18] L’accento oratorio, secondo i tre suddetti principî variamente ed acconciamente modulato, prende comunemente il nome di tuono, il quale esprime in generale i differenti gradi di elevazione, di consonanza e di accordo, che la voce prende progressivamente nel pronunciare. Esso esprime più particolarmente la relazione ad un termine, a cui la voce vuole e dee corrispondere. Noi diciamo: Tu non sei in tuono, tu sei fuori di tuono, come se dir volessimo: Tu non sei in consonanza ed in accordo, tu non rispondi a quella norma, alla quale dovresti rispondere. — Ma qual è questa norma generale che può determinare sicuramente il tuono che la voce ne’ vari incontri dee prendere?

[2.19] Primieramente noi possiamo distinguere tre generi di tuoni, in cui tutta la pronunciazione oratoria si può dividere. Il primo è il tuono generale del discorso, il secondo è quello de’ periodi, il terzo delle parole. Ogni discorso dee avere il suo tuono proprio; ed, in questo senso, esso è più o meno elevato, più o meno grave, più o men grazioso conforme all’indole del subbietto, della persona e del luogo ecc. L’importanza del subbietto, la dignità delle persone, lo spazio, a cui la voce si deve estendere, debbono determinare il tuono generale del discorso. Questo tuono si modifica, secondo la natura e l’andamento di certi periodi, il cui tuono particolare si va anch’esso modulando siffattamente che non pur ciascuno corrisponda a quello che precede e che segue, ma sempre al primo si riferisca. Così parimenti, modulando il tuono delle parole secondo il loro senso, per quanto tali modulazioni sieno varie e moltiplici, non debbono giammai discordare dal tuono del periodo, a cui le parole appartengono. Quindi risulta dall’accordo di tali tre tuoni una cosifatta armonia, che la pronunciazione vocale rende efficace e perfetta. Noi possiam dire fondamentale il tuono del discorso, e questo, per quanto acconciamente si diversifichi da quello de’ periodi e delle parole, dee sempre servirgli di appoggio e di regola. E sotto questo rapporto la pronunciazione può divenir viziosa ogni qualvolta il tuono sia falso e discorde; e questo sarà falso quante volte il tuono delle parole non armonizzi e consuoni con quello de’ periodi, e l’uno e l’altro al tuono fondamentale del discorso non corrispondano. Ed ecco, secondo noi, il metodo più giusto e più semplice per regolare il tuono della pronunciazione. Così la convenienza delle circostanze vi dà il tuono del discorso, il gusto dell’armonia quello de’ periodi, e la forza del senso quello delle parole.

[2.20] Noi non abbiamo inteso di definire il carattere di ciascun tuono considerato in se stesso, e notarli tutti o i principali, come si fa nella musica. Impresa forse impossibile, e finora ridicola; imperocché quanto si è detto e tentato non mira ad altro che a distinguere il tuono grave dall’acuto, il basso dall’alto, il forte dal debole, il lento dal rapido, e l’ottava di ciascheduno. E chi per l’uso non intende il preciso significato e valore di questi termini non si aspetti di meglio intenderli per teorica. Ci siamo quindi limitati ad accennarne piuttosto quelle più generali ed importanti relazioni, che l’armonia della pronunziazione oratoria costituiscono, e sotto questo senso essa non si propone solamente di dilettare, ma, dilettando, accresce col valore assoluto e relativo di ciascun tuono l’attenzione di chi la riceve, e per conseguente il valore e l’importanza delle cose ch’espone.

[2.21] E perché non si prenda equivoco intorno al significato ed all’uso degli accenti e de’ tuoni, su di che hanno pur sempre discordato i retori ed i grammatici, noi, riepilogando quanto abbiamo osservato, possiamo conchiudere che l’accento non è che quella specie di canti lena, che prende la voce parlando, la quale, variamente modificandosi, comunica un suono proprio e distinto alla pronunzia della lingua, delle sillabe, della parola, ed a ciascuno di tali suoni dà un tuono ancor proprio e corrispondente al discorso, ai periodi ed alle parole che lo compongono. Ora dalla distinzione e dall’uso di questi accenti e di questi tuoni l’arte dipende di pronunciare accuratamente, vuoi leggendo, vuoi parlando. E la pronunzia sarà veramente perfetta ogni qualvolta distingue esattamente, ed acconciamente combina l’accento grammaticale, il logico e l’oratorio. Da queste relazioni bene osservate risulta la proprietà del dialetto, l’esattezza dell’articolazione, l’opportunità della pausa e l’armonia del discorso; e secondo queste tre relazioni, a cui tutte le regole particolari della pronunzia si riferiscono, si dovrebbero esercitare i fanciulli nell’arte di leggere e di pronunciare. Arte, che, parendo pur facilissima e di poca importanza, si trascura del tutto, o, ch’è peggio, si pratica sì viziosa e scorrettamente, che riesce poi quasi impossibile il correggerne le contratte abitudini; e quindi veggiamo degli adulti e de’ vecchi leggere e pronunciare sì malamente, che lungi d’interessare, annojano e ributtano chi pazientemente gli ascolti.

Capitolo III. §

Della pronunciazione visibile o gesticolazione conveniente.

[3.1] Con la pronunciazione vocale si unisce pur la visibile, che nel moto del corpo propriamente consiste. Il corpo si atteggia e compone acconciamente a ciò che la lingua pronuncia, quindi varia la figura, il colore, l’attitudine e l’andamento, sì che tutti gli organi del corpo col vocale pur si accompagnano e si armonizzano. Non tutti però vi concorrono egualmente, e quelli che fra gli altri primeggiano sono il viso, gli occhi e le ciglia, le mani e le dita. La loro azione si modifica e si accorda siffattamente con l’indole degli accenti, delle pause e de’ tuoni, che anch’essa ne distingue, conferma ed accresce non pur il significato e l’intelligenza, che l’armonia e l’importanza. Ed è pur questa spezie di lingua muta e visibile sì naturale e significante che non solo fu la prima lingua, di cui le genti si valsero innanzi che la vocale si fosse abbastanza sviluppata, e che pur sempre con questa l’adoprano e la congiungono; ma talvolta anche sola con la vocale gareggia, e tenta di esprimere quello che pare alla vocale solamente concesso.

[3.2] La necessità, l’utilità e il diletto sono concorsi egualmenle a sviluppare questa parte della pronunziazione che col nome generale di gesto viene volgarmente disegnata. E volendo considerarlo nella sua origine, nel suo progresso e nell’uso, noi potremmo ancor ravvisarlo come naturale e nazionale, logico ed oratorio; perocché siccome la pronunciazione vocale, anche la gesticolazione necessaria e comune a tutti gli uomini si caratterizza e si appropria alle nazioni, e serve anche essa a distinguere e notare non pure il senso che l’andamento del discorso. Quindi, secondo questa primitiva e triplice forma, si moltiplicarono e combinarono insieme i gesti, le attitudini e i movimenti delle persone, sicché non v’ha quasi parola, a cui il suo proprio non corrisponda. Ora tutti, servendo allo stesso fine come le parole, ch’è quello d’esprimere e farsi intendere il più che si può, noi crediamo di poterli tutti ridurre alle seguenti spezie, distinguendoli per la loro natura, per la loro origine e pel loro uso.

[3.3] 1.º I primi sono indicativi, in quanto accennano semplicemente gli oggetti esterni, siano vicini o lontani, di cui si parla. Gli occhi, la testa, il braccio, la mano possono agevolmente indicare qualunque obbietto, semplicemente indirizzandosi verso di esso. È questa la prima lingua del bambino, che comincia a conoscere.

[3.4] 2.º I secondi possono dirsi eccitatori, in quanto sono indirizzati principalmente a risvegliare ed accrescere l’attenzione di chi li ascolta. Così per iscuotere gli uditori estendiamo orizzontalmente la mano con le dita, battiamo la destra sulla sinistra, leviamo l’indice piegando le altre dita, o inalzando il capo, affissando il guardo ed inarcando le ciglia ecc. Spesso qualunque gesto diventa eccitatorio, accrescendone più o meno l’azione ed il movimento.

[3.5] 3.º Altri sono accompagnatorii, e non hanno altro ufficio che di semplicemente distinguere le parti del discorso, sostenendo acconciamente l’andamento, le cadenze e i riposi della voce che lo pronuncia. Essi possono considerarsi come l’ornamento ordinario del parlare, e sono i meglio significanti, ancorché i più frequenti e comuni, e sì capricciosi che sarebbe quasi impossibile il particoleggiarli e descriverli. Essi emergono per l’ordinario allorché altra gesticolazione più importante e necessaria non ci preoccupa, e perciò quando si parla di cose poco importanti e indifferenti.

[3.6] 4.º Altri gesti assai più parlanti sono i descrittivi, che dimostrativi possono dirsi secondo Cicerone e Quintiliano, e che pittorici o mimici comunemente si appellano. Essi descrivono e quasi dipingono l’oggetto di cui si parla. Così tuttociò ch’è figurabile si può, per moti ed atteggiamenti, disegnare e tratteggiare successivamente da chi gestisce, disegnando i contorni, i tratti e movimenti principali dell’oggetto che si vuole annunciare. In questa maniera si può significare il medico toccandosi il polso, il gigante ed il nano estendendo e rimpicciolendo la figura della persona e di qualunque altro oggetto ed azione, imitandola e contraffacendola co’ gesti più propri e rassomiglianti. È questa la lingua ordinaria de’ muti, e ne ritengono più o meno quei popoli che hanno parole ed espressioni vocali sufficienti per esprimere adeguatamente i loro pensieri. Io ho confermato più volte questo fenomeno, avendo osservato in più province d’Italia che là dove la lingua è assai povera ed imperfetta, specialmente se l’immaginazione è massima, la gesticolazione è assai più del parlare espressiva ed eloquente.

[3.7] 5.º Più di tutti significanti, quantunque più semplici, sono i propriamente detti espressivi, e che significativi dicea Cicerone. Essi mostrano, anziché l’oggetto esterno o la cosa di che si parla, lo stato interno o la passione di chi ne parla. Sotto questa classe cadono tutti quei gesti che appartengono all’odio e all’amore, alla gioja ed alla tristezza, all’ira ed alla pietà, al terrore ed alla disperazione.

[3.8] 6.º Alcuni de’ gesti espressivi sono necessari, ed altri spontanei. I primi che pur meccanici od istintivi si appellano sono quelli che sotto l’azione di certe idee e delle parole corrispondenti non possono punto impedirsi dalla persona, in cui si dispiegano. Tali sono l’impallidire del viso, l’infiammarsi degli occhi, il tremore di certi membri, il rabbrividire, il palpitare del cuore, che a certi incontri soffriamo nostro malgrado.

[3.9] 7.º Gli spontanei poi, che altri dicono motivati, sono quelli, in cui l’anima prende più o meno parte, e gli eseguisce con certo disegno, e per un qualche fine determinato: così l’inchinar del corpo verso l’oggetto amato, o il dechinare dall’oggetto odiato, il sogguardar bieco, gli slanci della collera ecc., e quelli tutti che tendono o ad interessare l’oggetto esterno, o ad allontanarlo o distruggerlo ecc.

[3.10] 8.º Alcuni di questi riescono più o meno analoghi all’interna attitudine della persona che gli adopera, quasi imitando più o meno al di fuori i moti e i sentimenti che prova al di dentro. Così l’estendere ed allargare il corpo, il rizzarsi su’ piedi, l’innalzar la testa, le mani, le braccia allorché si concepisce e si vuole significare un qualche oggetto o sentimento grande, sublime, meraviglioso, come se la persona volesse atteggiarsi alla forma di quello.

[3.11] 9.º Quindi molti di questi diventano impropri e figurati come le stesse parole, che per metafora impropriamente si adoperano. I pittorici o descrittivi principalmente, non potendo propriamente e direttamente descrivere gli oggetti ideali, descrivono invece quegli oggetti sensibili, che più sono a quelli rassomiglianti; ed essi riescono più o meno belli e significanti quanto maggiore o minore la loro relazione di similitudine. In questa maniera noi significhiamo il merito singolare d’una persona alzando il braccio, la divinità indi cando il cielo, la giustizia stendendo la mano con l’indice unito al pollice, come in atto di tener la bilancia.

[3.12] 10.º Parimenti alcuni diventarono a poco a poco simbolici e geroglifici. Perocché via via combinandosi variamente e più o meno alterandosi, specialmente dovendo servire ad accompagnare il discorso, per l’ordinario assai più complesso più spedito e più rapido, non si potevano spiegare per intiero, e così incompleti e per così dire strozzati si trovano obbligati ad accennar di loro appena alcuna parte o più facile, o più sensibile, o più importante. Quindi rimasero in uso cenni leggerissimi e quasi insignificanti per sé, che il volgo ha religiosamente conservati, e che adopera tuttavolta per abitudine, e quasi naturalmente senza più conoscerne l’origine etimologica, o la vera filiazione e il primitivo significato. Era di questa natura quel gesto che Vanni Fucci fece per dispregiare Iddio:

Alfine delle sue parole il ladro
Le mani alzò con ambedue le fiche
Gridando: Togli Dio, ch’a te le squadro.

[3.13] Tali erano per l’ordinario molte delle cifre e segni pittagorici che hanno perduto per noi l’antica relazione al loro significato. Ogni specie di gesti è stata più o meno sottoposta a questa vicenda; ed il filosofo curioso, che sapesse sottometterli ad analisi, potrebbe raccoglierne e determinare la storia di molti segni e riti importantissimi.

[3.14] 11.º E finalmente si distinguono i gesti convenzionali ed arbitrari, i quali, sia perché non si scorge la loro prima ragione, sia perché non abbiano altro che il capriccio e la convenzione di chi gli adoprò, sono divenuti propri di certi tempi, di certe nazioni, di certe sette. Quindi ogni tempo ed ogni nazione ebbe i suoi.

[3.15] Il rompere le stoviglie, il cingere le reni, l’aspergersi di ceneri ecc. furono in uso presso gli ebrei. Così presso gli antichi greci si toccava il mento di chi supplicavasi: Antiquis in supplicando mentum attingere mos erat. E per lo stesso fine si abbracciavano le ginocchia:

Et genua amplectens affatur talia supplex.

[3.16] Parimenti anche oggi alcuni gesti usiamo per indicare la medesima cosa, ma chi in un luogo di un modo, e chi altrove d’un altro, e chi in un modo affatto contrario. Così v’ha chi stringe con la destra la destra d’un altro, o verso l’altra orizzontalmente la porge colla palma rivolta in segno di fede e di amicizia, e chi con lo stesso significato tocca il volto dell’altro col naso e gli dà a stringere un dito, o ne impugna la destra ec. Così per rispetto, alcuni si ricoprivano il capo e stavano ritti, e noi teniamo scoperto il capo, e più o meno ci pieghiamo.

E l’abbracciaro ove il maggior si abbraccia,
Col capo nudo, e col ginocchio chino.

[3.17] E gli Ottaiti, non che il capo, si denudano tutto il corpo ecc. Così pure si supplica il cielo o con le mani giunte al petto, o elevate e distese, o prolungate orizzontalmente, e dagli uni stando, dagli altri inginocchioni, da questi prostesi a terra, da quelli intorno a sé rigirandosi, ec. E per cotal modo il più della pronunzia gesticolatoria, come la liturgica o rituale diventa propria di quella gente o di quell’ordine che l’ha particolarmente adottata.

[3.18] Sono questi gli elementi vocali e visibili, di cui la pronunciazione consiste. La sua perfezione risulta dall’accordo ed armonia di questi elementi; ed a questo generale ed unico scopo tutte si riferiscono le osservazioni e le regole che hanno date e possono dare coloro che della pronunciazione in genere od in ispecie si sono proposti o si propongono di trattare. Da chi parla nello stile più semplice e familiare sino a chi parla nello stile più studiato e sublime ciascuno preferisce e pratica una maniera propria la più conveniente di pronunziare, ossia di usare convenientemente della voce e del gesto. Ora è facile immaginare che, accomodandosi la pronunciazione a’ differenti stati dell’animo, venne distinta in più specie, secondo la differenza di subbietti, delle circostanze, delle persone e delle passioni, alle quali doveva particolarmente servire.

[3.19] Laonde ebbero la loro propria conversazione, il foro, il campo, il tempio, l’accademia, la scuola ecc. La stessa specie di modificazione si venne pure modificando secondo l’indole speciale del subbietto, al quale era destinata, e secondo il grado della passione che le comunicavano le circostanze. Per la qual cosa non pronunciavano, né doveano pronunciare allo stesso modo Demostene quando arringava agli Ateniesi contro Filippo il Macedone, né Temistocle quando animava i soldati contro il gran re della Persia, né Erodoto quando leggeva la storia sua, né Licurgo e Solone quando proponevano le loro leggi, né finalmente Socrate quando si tratteneva a disputare co’ discepoli, con gli amici ecc. E così varia pure chi parla in verso da chi in prosa. La pronunciazione del versificatore non è quella del prosista, e tra’ paesi medesimi altra è quella del lirico, dell’epico e del drammatico, e fra’ drammatici è pur diversa quella del tragico da quella del comico. E dovendo ragionare della tragica particolarmente, io non posso dispensarmi dal dire alcuna cosa della metrica in quanto a quella particolarmente appartiene.

Capitolo IV. §

Della pronunciazione metrica. — De’ versi e del ritmo. — Del suono imitativo.

[4.1] La prima modificazione che prende la pronunciazione tragica procede dal linguaggio metrico e poetico che essa adopera. Io non disamino se la versificazione sia così propria e indispensabile alla tragedia, che questa non si possa assolutamente scrivere in prosa. Molti hanno variamente opinato e tentato; e da La Mothe le Vayer tra’ francesi sino ad Engel tra gli alemanni non è mancato chi ha preteso di dare al linguaggio prosastico la preferenza. E malgrado le ingegnose riflessioni di Diderot, che avrebbe voluto comporre i due estremi con una specie di prosa armonica, che il Ceruti volle pur tentare in Italia nella sua tragedia, Le disgrazie di Ecuba, tutte le nazioni colte e gl’Italiani principalmente hanno continuato a verseggiare le loro migliori tragedie, ancorché avessero per lungo tempo discordato sul genere di versificazione più convenevole. Lo stesso Shakespeare, il cui genio mal soffriva leggi ai suoi voli, rimescolando ne’ suoi drammi il metro e la prosa, al metro pur sempre si abbandonava ogni qual volta si trovava su l’eroico e sul tragico. A noi basti per ora il supporre il fatto, senza impegnarci a giustificarlo, specialmente in Italia, la quale, al confronto delle altre nazioni, avrebbe delle ragioni peculiari per trarne gloria e vantaggio.

[4.2] Riconosciuta la differenza tra la lingua metrica e la prosastica, per quanto sia questa sonora ed armoniosa, il ritmo dell’una sarà sempre e notabilmente diverso dal ritmo dell’altra; e questo ritmo non può non influire su la loro propria pronunciazione. Il non ben distinguere, il confondere queste due lingue sì differenti, e pronunciar l’una come l’altra, sarebbe lo stesso che rendere vano ed inutile lo studio e l’intendimento che ha avuto l’autore nel trascegliere quella che ha preferito. Ma se questi si è proposto e si è pur tanto studiato di scrivere la sua tragedia in versi, e la nazione ha adottato e celebra questa pratica, non è permesso al declamatore di render nullo questo artificio e distruggere quell’effetto che il poeta ha voluto produrre, e che gli ascoltatori hanno il diritto di attendere. Io dico anzi di più che il metro per la sua natura particolare ad una pronunciazione conveniente, ove il declamatore per lo contrario si sforzi di violentare la versificazione siffattamente che una prosa più o meno rassembri, ne verrebbe ad emergere una prosa tristissima, come quella che non essendo lavorata sopra le sue proprie forme, non potrebbe avere né il proprio numero, né il proprio carattere, e quindi strana, insulsa e disarmonica riuscirebbe. E per cotal modo si sacrificherebbe il pregio della versificazione senza quello sostituirle della buona prosa; ed il poeta avendo creduto di elevar la sua lingua ad un grado superiore, la vedrebbe dal declamatore vilipesa e straziata desolantemente. È dunque evidente, che se il poeta vuol dilettare con questo mezzo, e se a questo precipuo ed unico fine consacra le sue idee, le sue espressioni, le sue parole, il declamatore non può dispensarsi dal pronunciare i versi con quel ritmo, a cui sono dal poeta principalmente destinati.

[4.3] Supponendo che il poeta abbia dato alla tragedia quel metro e quel ritmo che più le convengono, e che sono più adattati alle qualità delle persone che debbono recitarla, e quindi al genere di declamazione, e cui sono destinati, il declamatore per quanto si studi e mostri di parlare come estemporaneamente e senza la menoma ombra di precedente apparecchio, dee convenevolmente far tutta sentire la forza del verso in cui parla. Perlocché egli non dee trascurare gli accenti, le pause e le cadenze che ne costituiscono il magistero. E perciò bisogna primamente distinguere quegli accenti, quelle pause e quelle cadenze che appartengono al verso, da quelle che al periodo appartengono. Il verso all’armonia è destinato principalmente, ed al senso il periodo, e spesso termina l’uno dove l’altro non termina, e quindi le pause e le cadenze dell’uno non sempre coincidono con le pause e le cadenze dell’altro. Ma sempre però e le une e le altre talmente s’intrecciano, ed a vicenda si corrispondono, che il ritmo del verso rilevi quello del periodo, e questo il ritmo del verso.

[4.4] Nella lingua metrica si debbono dunque distinguere due termini o cadenze predominanti, quelli cioè del verso, e quelli del periodo, per cui ciascuno ha il suo proprio ritmo e la sua propria armonia. E l’eccellente versificatore dispone e congiunge i suoi versi in modo che servano unicamente al periodo, che pur sembra indipendente da quelli. Virgilio fra gli antichi è riuscito in questa parte maraviglioso. Il Cesarotti, il Frugoni e il Parini hanno dopo Dante più che altri imitato quest’artificio nella versificazione italiana; ma niuno più dell’Alfieri nelle sue tragedie. Egli è il primo che abbia concepito e tentato quel tipo di versificazione che alla tragica si conviene. Il declamatore dee dunque seguire ed esprimere lo stesso artificio, e può seguire ed esprimere l’andamento del verso in modo che, anziché nuocere, giovi al periodo a cui serve.

[4.5] Per la qualcosa siccome il periodo secondo la natura delle parole e del senso dee pronunciarsi, i versi debbono declamarsi in maniera che il senso non si alteri, non s’interrompa o soffochi, ma del ritmo, del periodo e de’ versi ritragga nuova forza e risalto. Dee però fuggirsi l’uno e l’altro vizio, in cui gl’inesperti sogliono dare in questa pratica, quello cioè di sacrificare il ritmo del verso a quello del periodo, o viceversa il ritmo del periodo a quello del verso. Dànno nel primo quelli che della versificazione non s’intendono punto; e dànno nel secondo quelli che dalla forza del verso si lasciano, per dir così, strascinare.

[4.6] L’arte poetica dee dunque consistere nel congiungere e accavallare un verso con l’altro, sicché notando la pausa finale del verso, rimanga tuttavia quella specie di cadenza e di suono pendente, che si appoggia su le parole seguenti secondo la natura del senso, che lega ad un tempo le parole ed i versi. E perciò il riposo debbe esser tale, che annunzi che l’ultima frase del verso sia completa o incompleta, richiami l’appoggio dell’altra che siegue, e la cadenza dell’uno si combaci col principîo dell’altro, sicché la continuazione del periodo e del senso non resti in alcun modo interrotta ed alterata. Nella prosa medesima occorrono tante volte certe pause, le quali, anziché dalla natura del senso, dal bisogno della respirazione derivano, e che servono ancora a sostenere e variare l’armonia della pronunciazione; così possiamo e dobbiamo più o meno notarle nelle cadenze finali de’ versi, senza che alcun pregiudizio ne risenta l’andamento generale e l’armonia del periodo. Ed esse possono e debbono variare ed essere più o meno sensibili secondo la relazione maggiore o minore, che abbia la frase finale o la parte di essa con la frase o col tutto, che il principîo comprende del verso seguente. Ed il suono generale della cadenza de’ versi viene via via così ad essere modificato da quello del senso, che sempre più nuova, varia e grata armonia ne acquistano i periodi ed i versi.

[4.7] Applichiamo i suddetti principî a qualche più notabile esempio. Dante apre in questo modo la scena terribile del Conte Ugolino:

La bocca sollevò dal fiero pasto
            Quel peccator, forbendola a’ capelli
            Del capo, ch’egli avea di retro guasto.
Poi cominciò: tu vuo’ ch’io rinnovelli
            Disperato dolor, che il cor mi preme
            Già pur pensando pria ch’io ne favelli, ecc.

[4.8] Il senso vorrebbe che quel peccator non si distacchi dal fiero pasto, e del capo da a’ capelli, e disperato dolor da rinnovelli ecc.; ma questa relazione grammaticale e logica non dee distruggere la relazione metrica e armonica che ogni verso dee conservare. E sarà questa relazione più o meno sensibile, ove la divisione e la pausa del senso più o men la comporti, siccome nella cadenza de’ versi seguenti:

Ma se le mie parole esser dèn seme,
            Che frutti infamia al traditor ch’io rodo,
            Parlare e lagrimar vedraimi insieme.

[4.9] Di questi tre versi la pausa è maggiore delle precedenti che abbiamo osservato, ma la prima è ancor minore della seconda, e questa della terza, che per ragion del senso è di tutti maggiore, ed obbliga a cangiar il tuono del verso che siegue:

Io non so chi tu sie, né per qual modo ecc.

[4.10] L’Alfieri ben di rado termina il senso, ed anche la frase col verso, ma qualunque combinazione trascelga egli sempre l’adatta al ritmo del periodo ed alla natura del senso. Prendiamo alcun tratto della sua versificazione, e sia il primo che ci offre, giacché da per tutto lo stesso artifìcio costantemente conserva. Nel Filippo:

Desio, timor, dubbia ed iniqua speme,
Fuor del mio petto omai. Consorte infida
Io di Filippo, di Filippo il figlio
Oso amar, io?… Ma chi il vede, e non l’ama?
Ardito umano cor, nobil fierezza,
Sublime ingegno, e in avvenenti spoglie
Bellissim’alma; ah! perché tal ti fero
Natura e il cielo?… Oimè! che dico? imprendo
Così a strapparmi la sua dolce immago
Dal cor profondo? Oh! se palese mai
Fosse tal fiamma ad uom vivente! Oh! s’egli
Ne sospettasse! ecc..

[4.11] Qui non è verso, il cui senso e le cui parole non si attengano e si raggruppino a quelle che seguono, e la cui continuazione non faccia che l’espressione finale del precedente non s’innesti col principîo del susseguente. Ma quanta finezza non richiedono siffatte cadenze e congiungimenti, che pur l’autore fa maravigliosamente servire al genere di pronunciazione, a cui ha destinati i suoi versi! Infelice quel declamatore che non avverte in qual modo il verso che precede, serva e debba servire a quello che siegue, e come si debba spontaneamente comporre il suono del verso con quello del periodo, sicché quello del senso ancor più ne risalti. Noi ci siamo circoscritti a parlare finora del suono generale del verso, che alla cadenza raccogliesi; ma questo suono medesimo, comune a tutti, soffre tali e tante modificazioni, che spesso l’un verso varia più o meno sensibilmente dall’altro, e questa varietà concorre anch’essa ad accrescere la forza del senso e dell’armonia. I poeti hanno ordinariamente adattato queste maniere di suono e di ritmo all’indole delle sentenze e delle circostanze, sicché non pur armoniche ed aggradevoli, ma ancor più espressive e significanti diventano. Esse dipendono per l’ordinario o dalla varia ed acconcia correlazione degli accenti, o dal suono proprio o dallo scontro artificiale delle parole, per cui il suono comune che ne risulta, ne imita ed esprime, e quindi ne accresce, e conferma il significato. E questo artifìcio, che alla prosa ancor si presta non poco, si porta a tal grado nella versificazione, che spesso dalla forza e qualità del suono, piucché dal significato delle parole, si esprime l’oggetto che si vuol significare. E tali parole, sillabe, consonanti, vocali ed accenti ti si presentano, che ora ti espongono a correre rapidamente, e quasi a ruinar tuo malgrado, ed ora ti obbligano ad andare a rilento e quasiché zoppicando, ed ora a sentirti la lena affannata dalla loro spossatezza e dal loro languore; e così il ritmo del verso col significato delle parole ti par che gareggi. Io credo oppor tuno qui notare uno de’ tratti più artificiosi della Poetica del Vida, il quale, raccomandando tali fenomeni maravigliosi dell’arte e del gusto, si è studiato ad un tempo di farne sentire con l’esempio i precetti e la pratica:

Nam diversa opus est veluti dare versibus ora,
Diversosque habitus, ne qualis primus et alter,
Talis et inde alter, vultuque incedat eodem.
Hic melior motuque pedum et pernicibus alis
Molle viam tacito lapsu per levia radit:
Ille autem membris, ac mole ignavius ingens
Incedit tardo molimine subsidendo.
Ecce aliquis subit egregio pulcherrimus ore,
Cui laetum membris Venus omnibus afflat honorem
Contra alius rudis informes ostendit et artus,
Hirsutumque supercilium, ac caudam sinuosam,
Ingratus visu, sonitu illaetabilis ipso.
Nec vero hae sine lege datae, sine mente figurae,
Sed facies sua pro meritis, habitusque, sonusque
Cunctis, cuique suus, vocum discrimine certo ecc.

[4.12] Dante avea conosciuto e maestrevolmente adoperato questo artificio, accomodando mai sempre i suoni ed i ritmi alla varietà ed all’indole delle sentenze, che esprimeva, di modo che con l’evidenza pittoresca dei suoi concetti, contendeva l’evidenza imitativa dell’armonia de’ suoi versi. Il Tasso, più che altri, si era allontanato da questo modello per aver voluto dar troppo sonorità a’ suoi versi, i quali per eccesso di risonanza sembrano alcuna volta monotoni. Ma dopo quei moderni versificatori, che hanno vie meglio imitato la varietà poetica, niuno più dell’Alfieri ne ha sentito la necessità, e ne ha fatto un uso migliore nelle sue tragedie, nel qual genere la declamazione troppo avvertita, e per più ore continuata, farebbe alla lunga sentirne la monotonia, che annoja puranche nelle sensazioni piacevoli, se la varietà non la temperasse e modificasse. E per un temperamento siffatto tale forma di versificazione n’è risultata, che, oltre il suono imitativo della sentenza, si presta in un modo speciale alla declamazione medesima.

[4.13] Pare dunque che il declamatore non deggia ancor trascurare questa parte della pronunciazione che serve a rilevare non pur l’armonia, che il significato de’ versi. Che se l’orecchio esercitato in questo genere di delicate sensazioni, le avverte e ne gode; perché non si debbono con la pronunciazione rilevarle opportunamente ed esprimerle? E si può ciò pur facilmente eseguire, ove si conosca l’artificio del verso, e si notino gli accenti e le pause conforme l’artificiosa disposizione, che l’autore ne ha fatta. Fra tanti io trascelgo un esempio dell’Oreste dell’Alfieri.

[4.14]Oreste giunto ad Argo, riconosce la sua reggia, e dice a Pilade:

Al fin siam giunti. Agamennon qui cadde
Svenato; e regna Egisto qui! Mi stanno
In mente ancor, bench’io fanciul partissi,
Queste mie soglie. Il giusto cielo in tempo
Mi vi rimena.

[4.15] Fin qui i versi procedono con una certa tranquilla regolarità, quale si conviene a persona che va richiamando i suoi pensieri, secondo le circostanze che più l’interessano. Ma ben tosto si turbano, e si vengono acconciamente modificando a misura che dipingono le circostanze più rilevanti dell’assassinio di Agamennone:

            Oggi a due lustri appunto,
Era la orribil notte sanguinosa,
In cui mio padre a tradimento ucciso
Fea rintronar di dolorose grida
Tutta intorno la reggia. Oh! ben sovvienimi:
Elettra, a fretta, per quest’atrio stesso
Là mi portava, ove pietoso in braccio
Prendeami Strofio, assai men tuo, che mio
Padre in appresso. Ed ei mi trafugava
Per quella porta più segreta, tutto
Tremante: e dietro mi correa sull’aure
Lungo un rimbombo di voci di pianto,
Che mi fean pianger, tremare, ululare,
E il perché non sapea.

[4.16] Nel verso:

Era la orribil notte sanguinosa

par che il suono tutto si raccolga in quel punto, in cui tutta raccogliesi l’attenzione.

[4.17] Il verso:

Fea rintronar di dolorose grida

fa sentire il rumore e la confusione di quella notte col suono del suo ritmo, e della parola rintronare.

            E dietro mi correa sull’aure
Lungo un rimbombo di voci di pianto,
Che mi fean pianger, tremare, ululare.

[4.18] Nel primo s’imita la celerità con cui s’incalzavano le grida e i lamenti, nel secondo il loro continuato prolungamento; e nel terzo la confusione e le qualità degli affetti che producevano. E tanto più comparisce un tal magistero, quanto più si cerca bentosto di esprimere, con la dolcezza del ritmo de’ versi seguenti, la tenerezza di Strofio:

            Strofio piangente
Con la sua man vietando iva i miei stridi;
E mi abbracciava, e mi rigava il volto
D’amaro pianto; e alla romita spiaggia,
Dove or ora approdammo, ei col suo incarco
Giungea frattanto, e disciogliea felice
Le vele al vento,

[4.19] Ed a questo tratto immantinente ne succede un altro diverso, e ripieno di quella forza che equivale alla forza de’ sentimenti, onde Oreste è ripieno.

            Adulto io torno, adulto
Alfin; di speme, di coraggio, d’ira
Torno ripieno, e di vendetta, donde
Fanciullo inerme lagrimando io mossi.

[4.20] Forse parranno ad alcuni troppo minute queste osservazioni; ma certo non sono inopportune ed inutili, se veramente costituiscono la bellezza e l’energia della versificazione. Spetta impertanto al declamatore di sapervi accomodare la pronunciazione, senza che ne ostenti l’imitazione e lo sforzo; e ciò potrà fare con tanta maggior facilità, quanto più si studierà di servire, pronunciando, al senso del verso e delle parole, alla cui forza ha pur servito il poeta adoprandoli. Imperocché se Dante, malgrado le tante regole minutissimamente accumulate, e quasi più per confondere che per istruire, faceva ed armonizzava i suoi versi sull’impronta originale delle sue passioni, che li modificava e torniva; e per dir meglio, se, informato della sua passione, li fondeva a traverso di questa analogamente, il declamatore potrà anche con la medesima passione con cui furono composti, pronunciarli, e dar loro quell’accento, quel tempo e quel ritmo, che la stessa passione richiede. Se le parole, le frasi, i versi, i periodi hanno de’ suoni più o meno analoghi al loro significato, cioè alla natura dell’oggetto o dell’idea che esprimono, le passioni medesime ch’essi svegliano somministreranno agevolmente il tuono della pronunciazione che a loro conviene. E questa risulterà da quanto saremo per dire intorno all’espressione della passione patetica.

Capitolo V. §

Dell’espressione propriamente patetica — Della espressione vocale nel tuono e nel tempo — Della visibile applicata a ciascun organo.

[5.1] La modificazione più distinta che riceve la pronunciazione del declamatore è quella che viene dalla passione, e che per eccellenza prende il nome di espressione, la quale in siffatte modificazioni principalmente consiste. Io riguardo per ora la passione in generale, per quel grado d’interesse, che qualunque idea della mente o affezione del cuore comunica alla persona, che la concepisce e l’esprime nel modo più conveniente alla sua natura. E siccome la pronunciazione è a un tempo vocale e visibile, così può dirsi propriamente espressione patetica, che dall’una e dall’altra risulta ad un tempo.

[5.2] Ogni qualvolta sia l’uomo più o meno affetto e commosso da qualche idea o sentimento, e cerchi di comunicarlo altrui con le parole convenienti, egli non può a meno di dare a queste parole l’espressione della qualità e del grado della passione ond’egli è animato. Imperocché ogni modificazione della mente e del cuore, alterando lo stato di questi organi interni, non può non manifestarsi eziandio negli organi esterni per la unione e dipendenza immediata o mediata, che hanno reciprocamente gli uni con gli altri. Laonde, la voce ed il moto, che da tali principî e per tali mezzi trapassano, anch’essi via via si modificano, e ne prendono l’indole e la forma; e la parola ed il gesto di segni arbitrari comuni ch’essi erano, diventano particolari e patetici e naturalmente significanti, cioè esprimono la passione particolare che gli anima e li modifica; quindi la pronunciazione diventa, per così dire, morbida, insinuante, umana, simpatica. Ed ove tal non riesca dobbiamo concludere che o gli organi interni mancano della forza sufficiente a muover gli esterni, o gli esterni non sono fatti abbastanza per obbedire all’azione di quelli; e quindi la voce ed il gesto duri, insignificanti, monotoni, e quasi privi affatto di espressione.

[5.3] Or incominciando dalla voce, dalle prime e più semplici modificazioni ch’essa ricevette dalle varie passioni che la domavano, emersero i primitivi e rozzi elementi d’ogni linguaggio vocale, che altro non fu, né poteva essere, fuorché una serie e un complesso di naturali interrogazioni, che le affezioni degli uomini più vive e pressanti significavano. Questi informi elementi della voce, che l’impeto della passione e lo stimolo del bisogno estemporaneamente creavano, esistettero assai prima che la parola fosse bella e formata, e somministrarono anzi la prima materia alle parole susseguenti, che di quelli via via si spiegarono e si composero. Così la prima lingua del dolore, come quella di ogni altra passione, non altro fu che un sospiro, il quale, alterandosi e sviluppandosi ognor più secondo la specie e lo sviluppo delle passioni, che lo spingeva, prese di mano in mano la forma ora del singhiozzo, che del sospiro è assai più rapido e ripetuto, ora del gemito ch’è come un singhiozzo continuo, i cui intervalli sono più estesi e più lenti, ed ora di fremito, d’urlo e di altrettanti gridi più o meno veementi, e per l’ordinario imitativi di quanto più fortemente sentivano e immaginavano. Per cotal modo la voce, sempre più dispiegandosi e articolandosi, ritenne sempre il primo suono della passione che l’aveva creata, e per quanto siasi in progresso modificata e trasformata in parola, in frase, in periodo, in discorso, essa non perde mai il carattere essenziale e primitivo della passione, che lasciò da prima come effetto, ed a cui ora come segno si riferisce.

[5.4] Per la qualcosa volendo dare il vero tuono al discorso, al periodo, alla frase ed alla parola che si dee pronunciare, si può ritrarlo dalla interjezione speciale della passione predominante che gli anima. Così pronunciando la semplice esclamazione Ah! secondo il bisogno della passione, alla quale si dee servire, darebbe il tuono per così dire fondamentale e normale di tutte le espressioni particolari, che a quella passione si riferiscono. In questo modo noi avremo facilmente il tuono del dolore o del piacere, della placidezza e dell’ira, del timore o della confidenza, della maraviglia, dell’orrore ecc.; ed ecco il metodo più giusto più semplice e più sicuro da regolare il tuono di qualunque patetica espressione; ed un solo monosillabo opportunamente aspirato diventerebbe come una specie di corista che il buon declamatore dovrebbe pur sempre consultare ed applicare al bisogno, come la sola norma esemplare, che gli fornirebbe il tuono proprio alla pronunciazione vocale di qualunque periodo, frase o parola. Ma non solo il tuono, anche un tempo suo proprio la passione richiede, e questo modifica non pur ciascuna parola, ma l’andamento successivo delle parole, delle frasi, del periodo, che più o meno rapidamente, o lentamente, o interrottamente e quasi per salti si pronunciano, secondoché dall’indole e dalla successione delle idee e de’ sentimenti ch’esprimono, ricevono l’impulso ed il moto. E siccome pur tanto variano e le passioni ed il loro grado e i loro accidenti, infinite ancor risultano le modulazioni ed i ritmi, ed infinitamente vario il portamento della voce nella pronunciazione successiva e continua delle parole. Né regola migliore e più certa possiamo trovare su tal proposito fuorché quella che ci offre il moto che notiamo nella successione delle idee e de’ sentimenti che la passione sviluppa e promuove. Quindi si accelerano e s’incalzano gli accenti dell’ira, della gioja e del furore, e tardeggiano e inciampano quelli del timore, della tristezza, dell’orrore.

[5.5] Ogni lingua ha notato e figurato i suoi elementi più o meno arbitrari e convenzionali della voce, come le vocali, le consonanti, le articolazioni, le parole intere ed alcuni loro accenti grammaticali; ma gli accenti ed i tuoni della passione furono lasciati alla natura che gli detta da per tutto e sempre gli stessi. Chi sente, naturalmente li distingue e li pratica. Dal selvaggio all’uomo più incivilito e più colto, se ne togli le picciole differenze di costituzione, di temperamento e di clima, il tuono della passione risulta sempre e da per tutto lo stesso. Quindi è che secondo certi caratteri più distintivi delle passioni, si può ancora determinare la voce, che a quelle risponde. E questo è pur quanto hanno finora trattato gli antichi ed i moderni. Quintiliano ne avea più che gli altri diffusamente parlato; ed egli non ne dice più di quanto ne avea detto più brevemente Cicerone avanti di lui: Aliud enim vocis genus iracundia sibi sumat: acutum, incitatum, crebro incidens. Aliud metus: demissum, et haesitans et abjectum. Aliud vis: contentum, vehemens, imminens, quodam incitatione gravitatis ecc. Aliud voluptas: effusum, lene tenerum, hilaratum ac remissum ecc. Aliud molestia: sine commiseratione grave quidquam, et uno pressu ac sono obductum ecc.

[5.6] Niuno fra’ moderni, ch’io sappia, ha meglio tratteggiato il tuono ed il ritmo della voce corrispondente all’indole ed al moto della passione quanto il Buffon: “Certe mozioni mentali, egli dice, affettano certi tuoni di voce. La voce del dolore è debile ed interrotta; quella della disperazione è impetuosa e non seguita; la gioja prende un tuono vivo e dolce, il timore un tuono sordo e tremante. I tuoni dell’amore e della bontà sono melodiosi ed uniformi; quelli della rabbia forti ti e dissonanti. La voce d’un ragionatore tranquillo è eguale e grave senza riuscir disaggradevole; e quegli che declama con vigore impiega molte modulazioni, variandole conforme a’ diversi movimenti che animano il suo discorso”.

[5.7] E qui pur deesi notare che lo stesso ragionatore per quanto si supponga tranquillo, non può non ricevere e come indirettamente dall’indole ed importanza delle sue idee, quel grado d’interesse, e per conseguenza di passione che lor corrisponde. Per la qual cosa non può anch’egli prescindere da quella espressione più o meno patetica, ch’è proporzionata all’impressione ed al movimento che riceve dalle sue idee. Sotto questo rapporto l’oratore più tranquillo e contento, l’istruttore più riflessivo e più semplice, il narratore di cose che men lo riguardano, non può fare a meno di essere soggetto a questa legge fisiologica. Lo stesso Buffon accuratamente rifletteva: “La voce non varia soltanto nel linguaggio della passione; un sentimento vivo, un’idea interessante vi operano pure egualmente. Si riguarderebbe quale ignorante dell’eloquenza narrativa chi parlasse con l’accento medesimo di una mozione lenta e di una mozione vivace, d’un lavoro penoso e d’un’opera facile, di una sensazione spiacevole e di un dolore spasmodico; chi rendesse conto di una tempesta strepitosa dell’oceano, de’ fragori raddoppiati del tuono, delle devastazioni di un terremoto o della caduta di una piramide egiziana col medesimo tuono di voce, col quale descriverebbe il mormorar d’un ruscello, gli accordi dell’arpa eolia, il bilanciare della culla d’un bambino, o la discesa d’un angelo. L’elevazione delle idee dà nobiltà all’espressione: e noi attendiamo naturalmente da Achille, da Sarpedonte e da Otello un accento virile ed armonioso, uno stile energico, ed un’attitudine dignitosa”.

[5.8] Da tali osservazioni risulta, che la passione determina la voce nel suono e nel tempo, e che tali modificazioni delle quali abbiamo accennate le più generali, essendo le stesse in tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, non sono state notate come quelle che vengono dettate dalla natura a chiunque senta, e sappia conoscere quel che sente.

[5.9] Quello che abbiamo osservato intorno all’organo vocale si osserva egualmente intorno agli altri che pur come quello alla passione predominante più o meno obbediscono. Ricevendo ciascuno di essi il suo movimento particolare, e prendendo la sua conveniente attitudine la figura, il colore e l’atteggiamento della persona e di ogni sua parte, più o meno modificabile, diventano anch’essi effetti ed indizi delle idee e dei sentimenti, che ne sono cagione od occasione; e così l’espressione si spande per tutta la persona, e non pur vocale diventa ancora visibile; e tutti i membri diventano più o meno espressivi e parlanti. Niuno ha meglio espresso questa efficacia quanto l’autore di quell’epigramma riferitoci dal commentatore di Sidonio:

Tot linguae, quot membra viro, mirabilis est ars,
Quae facit artículos, ore silente, loqui.

[5.10] Ed è pure questa lingua meccanica come la vocale, che abbiamo di sopra considerata, essendo dalla sua natura a tutti egualmente e costantemente insegnata. Scorriamo intanto i principali fenomeni, e veggiamo come ciascuno organo si presti e concorra a tal magistero.

[5.11] I. Positura. Lo stato interno della persona si manifesta da prima nel contegno, ossia nella maniera di tenere il corpo, il quale può star dritto o piegarsi, e stando dritto elevarsi o ritrarsi, e piegandosi inclinare innanzi o indietro, a dritta od a manca. E a determinare vie più queste generali posizioni concorre massimamente l’atteggiamento di certi muscoli o parti, quali sono il petto, le spalle, il collo, la testa, le braccia, le gambe. Essi si elevano e s’irrigidiscono nell’orgoglio nell’ammirazione, nella collera ecc., e si abbassano e si rassiderano nella tristezza, nel timore, nella pietà ecc., declinano nel dolore e nell’orrore ecc. Meravigliosa è, fra le altre, la positura che ci presenta Dante di Farinata:

Ed ei s’ergea col petto e con la fronte
Come avesse lo inferno in gran dispitto: ec.
Ma quell’altro magnanimo a cui posta
            Restato m’era, non mutò aspetto,
            Né mosse collo, né piegò sua costa.

[5.12] E quel d’Ariosto:

            In sé raccolto
La mira altier, né cangia cor né volto.

[5.13] II. Incesso. Con la positura si combina eziandio l’andamento, il quale può essere o rapido, o lento, o interrotto, o regolare ed equabile, o irregolare e confuso. Lo rende grave e tardo l’orgoglio, affrettato la gioja, debile o incerto il timore, ineguale e tumultuoso l’ira ecc. Virgilio:

Et vera incessu patuit dea.

[5.14] Ogni passione ha il suo movimento e il suo passo. Dante, ove occorre, non cessa mai di determininarli.

Questi parea, che contro me venesse
           Con la testa alta.

 

Noi andavam co’ passi lenti e scarsi.

 

Dritto, si come andar vuolsi, rifemi
           Con la persona.

[5.15] III. Volto. Il volto è quello in cui, come in un quadro, tutta l’anima si dipinge. In esso traspariscono fedelmente tutti i più piccioli moti della mente e del cuore; ed a seconda di questi la sua figura si altera e si colora; né v’ha sentimento che ivi non lasci il suo tratto e la sua tinta corrispondente. Dopo Cicerone Quintiliano n’espresse in questo modo la singolare energia: Dominatur autem maxime vultus: hoc supplices, hoc minaces, hoc blandi, hoc tristes, hoc hilares, hoc erecti, hoc submissi sumus; hoc pendent homines, hoc intuentur, hunc spectant etiam antequam dicimus, hoc quosdam amamus, hoc hodimus, hoc plurima intelligimus; hic est saepe pro omnibus verbis. Quindi veggiamo in esso ora la dolce fiamma dell’amore che lo consuma, ora il freddo pallore della paura o dell’odio, ora il rossore della vergogna, ora il vampo estuante dell’ira, ed ora un alternare di varie forme ed opposte tinte, che rapidamente si succedono, si compongono e si distruggono. È questa la parte che hanno i pittori e i poeti principalmente descritta nelle opere loro.

                                    Divenni smorto
Come fa l’uom che spaventato agghiaccia.

 

S’egli ama bene, e bene spera, e crede
             Non t’è occulto, perché il viso hai quivi,
             Ove ogni cosa dipinta si vede.

 

E quel frustato celarsi credette
             Bassando il viso.

[5.16] IV. Il naso, il mento, e specialmente le labbra si conformano anch’essi con l’espressione del volto, e vie più la caratterizzano e la confermano. Il naso si ritira nell’odio, si arriccia nel furore, si affila nel timore, si prostende al dolore. Lo stesso mento, ancorché meno docile, pur talvolta o si aguzza e si contrae, o si abbandona e si appoggia sul petto. Ma assai più che il naso ed il mento hanno le labbra una gran parte nella varia espressione del volto. Quante forme, tutte vaghe e significanti, non prendono? Esse rimangono mezzo a parte ne’ desideri e nel piacer dell’amore, si tengono chiusi nell’invidia e nell’odio, si contraggono nel furore, sicché scoprono alquanto lo strider de’ denti, si mordono nella disperazione, il superiore si abbandona sopra l’inferiore nella tristezza; ed ora s’invermigliano, ed or si appassiscono, e nella bocca risiede l’espressione della gioja, del contento e del riso.

Lo fiorentino spirito bizzarro
In se medesmo si volgea co’ denti.

 

E quando vide noi se stesso morse
Sì come quei cui l’ira dentro fiacca.

 

Ambo le labbra per furor si morse.

[5.17] V. Occhi. Sono queste le parti che nell’espressione del volto fra le altre primeggiano. L’occhio per la sua mobilità è quello che a’ moti dell’anima più prontamente obbedisce, e per la sua trasparenza ci par di vedere l’animo stesso nel di lui fondo. E quest’effetto è si meccanico e necessario, che l’uomo il più esperto non può nasconderlo, ond’è che l’occhio sempre verace smentisce pur sempre il labbro, o qualunque altro organo cercasse mentire. Esso adopera e varia ad un tempo e rapidamente moto, postura, cenno e colore. Laonde si mostrano nubilosi o sereni, turbolenti o placidi, mesti o ridenti, dimessi od alteri. Talvolta le palpebre si tengono mezzo chiuse, e la pupilla si eleva alcun poco, si cela ed annunzia il più profondo dolore; e tal’altra si spalancano le une, e l’altra o erra incerta per ira, o si affisa immobile nel terrore. Quanta espressione non aveano gli occhi di Giunone, allorché Virgilio diceva di lei?

Diva solo fixos oculos aversa tenebat.

[5.18] E Dante in quante guise pur non gli adopera? Ora annunciano la gravità, come:

Genti v’eran con occhi tardi e gravi,
Di grande autorità ne’ lor sembianti.

[5.19] Ora la vergogna:

Allor con gli occhi vergognosi e bassi,
             Temendo che ‘1 mio dir gli fosse grave,
             Infino al fiume di parlar mi trassi.

[5.20] Ora l’ira, come in Caronte:

Che ‘ntorno agli occhi avea di fiamme ruote

[5.21] E Tasso move siffattamente quelli di Armida:

Serenò allora i nubilosi rai
Armida, e si ridente apparve fuore,
Ch’innamorò di sue bellezze il cielo.

[5.22] Ma quello che rende gli occhi massimamente espressivi e significanti, si è quel vapore, che raccolto ne’ vasi lagrimali per dolore o per ira, talvolta dolcemente gli annebbia e gl’irrora, e talvolta addensato cade in gocciole, che interrottamente succedonsi, e sovente è tanta la piena, che sgorga e trabocca in torrenti; e qualche volta ancora:

Lo pianto stesso di pianger non lascia
             E il duol che trova in su gli occhi rintoppo,
             Si volve in entro a far crescer l’ambascia.

[5.23] Niuno meglio di Plinio ha descritto la forza dell’espressione oculare: Profecto in oculis animus habitat. Ardati, intenduntur, humectant, connivent. Hinc illa misericordiae lacryma. Hos cum osculamur, animum ipsum videmur attingere. Hinc fletus et rigantes ora vivi. Perlocché non dee farci meraviglia, se Apulejo veggendo a Corinto una mimica rappresentazione di Paride in Ida, trovò che Venere danzava talvolta con gli occhi soltanto, nonnunquam saltare solis oculis. Si crede che i Siciliani abbiano, più che ogni altro popolo, il talento e l’abitudine di parlare con gli occhi.

[5.24] VI. Ciglia. Con gli occhi gareggiano di espressione le ciglia, talché Le Brun dava a queste sugli occhi la preferenza. Esse ora si abbassano ed ora s innalzano, ora si appianano ed ora s’inarcano, ora si avvicinano ed ora si scostano, e prendono tali e tante forme che leggi facilmente in ciascuno il carattere dell’idea e del sentimento che vi si raccoglie e predomina:

Gli occhi alla terra, e le ciglia avea rase
             D’ogni baldanza, e dicea ne’ sospiri.

[5.25] VII. Fronte. La fronte anch’essa, alzandosi od abbassandosi, spianandosi od increspandosi, minaccia o si abbandona, si rasserena o s’intorbida, e concorre dalla sua parte all’espressione del riso. Quindi i prepotenti per Dante:

Alto terran lungo tempo la fronte.

e Tasso:

Dolcemente feroce alzar vedresti
La regal fronte.

[5.26] Spesso è la sede dei più gravi pensieri, che in essa principalmente si raccolgono e si concentrano.

[5.27] VIII. Capelli. I capelli, i peli medesimi prendono parte nell’espressione visibile della persona, ed ora si rizzano e si rabbuffano, ed ora cadono abbandonati e negletti, e la tristezza o la disperazione del volto accompagnano. Quindi Steteruntque comae, in Virgilio; ed in Dante:

Già mi sentia tutto arricciar li peli
             De la paura.

[5.28]Quintiliano aveva osservato: Capillos a fronte contra naturam retroagere, ut sit orror ille terribilis. E S. Agostino certifica che una persona dei tempi suoi comunicava spontaneamente questo movimento ai suoi capelli, facendoli rizzare e abbassare a suo talento.

[5.29] IX. Mano. L’organo che dopo il vocale è più in azione nella pronuncia si è il braccio, e per esso la mano e le dita. Questo stromento, per cui l’uomo diventa fra gli animali il più operativo ed industrioso, concorre eziandio a renderlo espressivo e significante. Infiniti sono i moti ed i gesti dei quali è capace, che gli antichi ne formarono un’arte particolare per regolarne l’uso, che Chironomia secondo Quintiliano appellavasi, e palestrici si denominavano coloro che la insegnavano. Quindi per tal ragione furono alcune volte dette le mani loquacissime e linguacciute le dita. Ma qui dovendo considerare i soli gesti che alla passione si riferiscono, possiamo sicuramente asserire, che il braccio le dita e la mano tali movimenti possono concepire, che bastano soli ad esprimere tutta la passione che li produce. Il protendere o l’incurvare del braccio, l’impugnar o l’aprire e il tremar della mano, il portarla al cuore, alla testa, al mento, lo stringer l’una e l’altra insieme, lo stendere o ritrar delle dita, l’uso dell’indice, ora assegnando ad un oggetto, ed ora regolarmente agitandolo; e così pure il cacciarsi le mani entro ai capelli e strapparli, battersi, graffiarsi, minacciare ed offendere in diversi altri modi non pur gli altri, che sé, possono riuscire di una significazione vivissima e maravigliosa.

Con le unghie si fendea ciascuna il petto
Batteansi a palma e gridavan sì alto.

 

Ossia che il cor tremando come foglia
Faccia insieme tremare e mani e braccia.

[5.30]Cicerone, lodando la declamazione di L. Crasso, notava fra gli altri pregi l’impiego del suo dito. Ad esso è riserbato principalmente la minaccia della vendetta:

Mostrarti o minacciar forte col dito.

[5.31] Si narra che la signora Dumesnil si è valuta di cotal gesto, declamando quel tratto d’Ifigenia ad Erifile: Ce n’est pas Calchas que vous cherchez ici. E il commediante Sarazin col solo agitare e tremar della mano, faceva dimenticare la sfavorevole figura della persona, e tremare e lagrimare gli spettatori.

[5.32] I pochi tratti, che abbiamo dato di ciascuno organo della pronunciazione visibile, bastano a provarci come ciascuno nella maniera sua propria concorre ad esprimere la passione. Alcuno ha desiderato, e tal altro ha tentato di raccogliere ordinare e descrivere i moti ed i segni propri di ciascuna passione e di ciascuno organo; e quindi formarsene un dizionarietto tecnico. E certo l’opera potrebbe riuscir profittevole, ed al filosofo che troverebbe de’ materiali da discutere e combinare, ed all’artista che vi troverebbe l’espressioni convenienti al bisogno per imitarle. Sulzer proponeva questa classificazione, e sperava che quanto si è fatto nella Botanica si potesse ancor fare nella mimica, e ad ogni gesto si appropriasse il suo nome. Tutto è bene tentare. Io dico solo, che gli oggetti della Botanica sono permanenti, e si possono facilmente indicare e determinare. Non così le passioni, che, per le loro infinite modificazioni, e per la rapidità dei passaggi, che si succedono e si distruggono, non ci offrono degli oggetti stabili e definibili come quella. E può anche intervenire che un lavoro siffatto non frutti quel vantaggio singolare, che altri ne speri. Le troppo minute osservazioni riescono per l’ordinario piuttosto a confondere che a schiarire; e l’ingegno creatore dietro certi modelli generali ed archetipi, ama più di creare, che di ripetere in qualunque arte.

[5.33] E qui dobbiamo notare che l’azione di tali organi, che noi abbiamo partitamente considerata rispetto a ciascuno, si mostra per l’ordinario più o meno complessa, simultanea e generale rispetto a tutti. Tutti cioè ad un tempo si muovono, si atteggiano ed operano, secondo la maniera propria di ciascuno, esprimendo simultaneamente lo stesso sentimento e la stessa idea. Ma spesso gli uni sono più espressivi quando gli altri lo sono meno, e talvolta gli uni tacciono e si riposano affatto, mentre gli altri parlano ed operano invece loro. Ond’é che alcune parti rimangono immobili e inanimate, mentre certe altre tutte preoccupano l’espressione del momento. Lo stesso organo della voce, che ha la parte principale nella pronunciazione, spesso dà luogo ad altri organi, o loro affida quello che esso o non potrebbe affatto, o non così bene eseguire. Ovidio diceva:

Saepe tacens vocem verbaque vultus habet.

[5.34] Quindi si è distinta la lingua del silenzio, la quale consiste nell espressione visibile di qualche organo, mentre il vocale si tace affatto. Niuno ha meglio di Dante tratteggiato questa lingua muta.

Io mi tacea, ma il mio desir dipinto
             M’era nel viso e il dimandar con esso,
             Più caldo assai, che per parlar distinto.

[5.35] E altrove:

Volger Virgilio a me queste parole
Con viso che tacendo, dicea taci.

[5.36] Con quanta felicità non ha descritto l’Ariosto il silenzio di Angelica in quei versi mirabili?

Stupida e fìssa nell’incerta sabbia
Co’ capegli disciolti e rabbuffati,
Con le man giunte e con le immote labbia,
I languidi occhi al ciel tenea levati,
Quasi accusando il gran motor che gli abbia
Tutti conversi nel suo danno i fati.

[5.37] Quale doveva essere l’espressione del silenzio che doveano spiegare i senatori romani alla presenza di Catilina, allorché il solo Cicerone dicea altamente a costui: Quid expectas auctoritatem loquentium, quorum voluntatem tacitorum perspicis? De te cum quiescunt, probant, cum patiuntur, decernunt, cum tacent, clamant. Ed è questo quel silenzio che clamoroso dicea Cassiodoro: Silentium clamorosum.

Capitolo VI. §

Teoria natura ed uso dell’espressione — Carattere fondamentale delle espressioni imitative e cooperative — Loro conflitto e combinazione.

[6.1] Abbiamo esposto altrove le differenti specie di accenti, di tuoni e di gesti, che sono state finora distinte, e servono generalmente alla pronunciazione oratoria. Or tale è la forza della passione o dell’interesse, che domina colui che declama, che non può non influire su quei tuoni e quei gesti che propriamente non sono detti patetici. Tutti quindi prendono questa qualità predominante, e più o meno patetici tutti diventano. Riguardate l’espressioni sotto questo punto di vista il più semplice e generale, noi cercheremo di ridurle e ordinarle secondo la loro più giusta teorica, onde più accuratamente e secondo i veri principî della natura regolarne l’arte e la pratica.

[6.2] Ogni idea o sentimento, operando fisicamente su gli organi interni ed esterni della persona, dee produrre dei moti corrispondenti; e questi come tali diventano segni naturali dell’idea o sentimento, al quale si riferiscono; come effetti delle cagioni od occasioni che li producono e li promuovono. Or riguardando tali segni od effetti rispetto alle loro cagioni, possono riferirsi o alla percezione o alla sensazione. La percezione ci rappresenta l’oggetto sia esterno e reale, sia interno e ideale; e la sensazione si circoscrive al piacere o dispiacere, ossia all’interesse, che la percezione dell’oggetto reale o ideale in noi suole produrre. Per tal ragione noi dobbiamo primamente distinguere l’espressione della percezione o della mente, e quella della sensazione o del cuore.

[6.3] Che la mente, e per essa la percezione, come il cuore, e per esso la sensazione, agiti e commuova più o men fortemente alcune parti del corpo, nessuno può dubitarne. Le speculazioni più astratte, le verità più sublimi, le più tranquille meditazioni ci alterano siffattamente la voce, il viso, gli occhi, la fronte ecc., che acquistano anch’essi le loro espressioni particolari. Noi ne abbiamo la pruova più luminosa nella scuola di Atene di Raffaello, ove fra le tante figure, e tutte riflessive e tranquille, non ve n’ha alcuna che non abbia la sua fisonomia espressiva e significante. Archimede, che entrando nel bagno trova la soluzione del problema della corona, e pieno e lietissimo di quella scoverta corre a casa tutto scomposto, e gridando: l’ho trovata, dovette atteggiarsi a pronunciare nella maniera più propria allo stato della sua mente. La storia letteraria è ripiena di siffatti fenomeni, sicché possiamo sicuramente asserire che le più astratte verità e le idee più sincere hanno anch’esse i loro piaceri ed i loro affetti, e quindi la loro espressione conveniente.

[6.4] Egli è poi verissimo che tali espressioni sono men calde e sensibili di quelle che alla sensazione ed al cuore appartengono, e che propriamente alla passione si attribuiscono, ed a queste per eccellenza il nome di espressione volgarmente suol darsi. Ora a queste limitandoci particolarmente, quelle che fra tutte prevalgono, sono le così dette fisiologiche ed istintive. Aggrinza la fronte, affisa il guardo, inarca le ciglia chi medita profondamente; così in chi sente più o meno forte ora si allenta o si accelera la respirazione, ora il sangue si raccoglie nel volto, o si riconcentra nel cuore, ora si scolora il labbro e la guancia, ora l’occhio si ammortisce o si avviva, e s’irrigidiscono o rilassano i muscoli, si gonfiano le vene, si rizzano i capelli ed i peli, e tali altri fenomeni si sviluppano, che quali effetti puramente meccanici seguono necessariamente ed immediatamente l’influenza delle loro cagioni, senza che la nostra volontà vi cooperi o possa impedirli. E per tal ragione non possono mai verificarsi per arte se questa non ha la forza di eccitare il grado di passione conveniente a tal effetto, ossia la cagione fìsica, che sola può generarli. Per la qualcosa l’attore che facilmente pianga e cangi di colore e rabbuffi i capelli come colui di cui parla S. Agostino, ci fa supporre in esso molta immaginazione per risvegliare la passione richiesta, e conforme attitudine negli organi che prontamente obbediscono.

[6.5] Dietro questi segni meccanici e necessari si spiegano i volontari e spontanei, nei quali prende più o meno parte la volontà, ed i primi a spiegarsi, e che a quelli più o meno si approssimano, sono gl’imitativi od analoghi che l’oggetto della percezione o l’effetto della sensazione in certo modo dipingono. Alla vista degli esseri non pur ragionevoli, che bruti ed inanimati noi ci sentiamo più o meno inclinati e disposti a contraffarli ed a lor conformarci secondoché più o meno ci commuovono e c’interessano. Così noi imitiamo i suoni, i moti e le forme non pur del tuono, del torrente, degli aquiloni, del leone, del toro, ma quelli della persona la cui presenza più fortemente ci affetti. Quindi alla presenza od anche alla pura immagine d’una persona benefica o malefica, noi ci sentiamo volentieri ed anche nostro malgrado sospinti a comporci alla loro maniera per una specie d’istinto, che ci obbliga a più o meno imitarli. Per questa legge fisiologica l’uomo pronuncia, si muove e si atteggia analogamente agli oggetti che più lo feriscono per l’imperio di quell’azione, che gli obbietti esercitano su l’animo nostro, e l’animo nostro sui nostri organi interni ed esterni.

[6.6] Dall’imitar tali oggetti od immagini più o meno sensibili, si passò di mano in mano ad imitare e dipingere eziandio le loro relazioni, e quindi le idee più astratte ed intelligenti, e le affezioni più delicate e sentimentali. Per lo qual magistero lo stesso uso che delle parole fu fatto convertendole di proprie in improprie, si fece pure e de’ tuoni e di gesti, i quali di propri divennero anch’essi impropri e metaforici. La qualità di certi tuoni e di certi accenti, la pronunzia rapida o lenta, regolare o confusa di certe parole, di certi moti, di certi gesti imitano più o meno figuratamente e sensibilmente la qualità e l’andamento delle idee e delle affezioni a cui si rapportano. Quindi l’ostinato stringe il pugno e si tiene ritto e saldo sulla persona, il malinconico e il timoroso contraggono e rimpiccoliscono il corpo, l’orgoglioso e il superbo gonfiano il petto, elevano le spalle, il collo e la testa, e l’incerto e dubbioso interrompe e confonde ad ogni istante i suoi pensieri ed i suoi movimenti. La stessa idea del grande e sublime nell’ordine intellettuale e morale c’induce ad ingrandire le proporzioni del corpo, ed a mostrarci compresi da alcun profondo pensiero.

[6.7] Egli è facile immaginare come da queste prime espressioni imitative ed analoghe via via sviluppate, alterate e composte, infinite altre se ne sieno in progresso moltiplicate, e se ne possano tuttavolta moltiplicare. Ma queste a misura che si vanno allontanando dall’origine loro e che si alterano, la loro forma primitiva, la loro analogia si viene egualmente oscurando, sicché perdendo alla fine il carattere di espressione patetica quello acquistano e semplicemente ritengono di segno arbitrario e convenzionale. Ed attenendoci qui soltanto al carattere dell’espressione patetica possiamo stabilire come principîo fondamentale e regolatore di essa, che la relazione più generale di causa e di effetto ne costituisce la natura e la forza. E siccome tale relazione può essere più o meno evidente o necessaria, più o meno diretta o indiretta, da siffatta necessità ed evidenza maggiore o minore risulta la maggior o minor forza dell’espressione. L’espressione può esser dunque più o meno forte, vivace e significante ogni qual volta abbia relazione più o men necessaria, evidente e diretta con l’idea o sentimento da cui procede. Ed estendendosi cotale relazione alla naturale od istintiva imitazione od analogia tra l’effetto e la cagione, ossia tra il segno e la cosa significata, possiamo determinare il sudetto principîo nel modo seguente: che l’espressione riuscirà tanto più vera, più viva, e più significante, quanto è più evidente e diretta la relazione tra l’idea o l’affetto e l’immagine, che a tale idea od affetto si sostituisce, e tra questa immagine e l’azione figurata ed impropria, con la quale si esprime al di fuori col mezzo della pronunciazione vocale e visibile.

[6.8] V’ha un altro genere di espressioni che pur sono spontanee come le precedenti, e che non già all’imitazione, ma servono bensì quali mezzi più o meno atti ed opportuni a soddisfarla ne’ suoi bisogni e ne’ suoi desideri. Nell’amore noi stendiamo dolcemente le braccia, e c’incliniamo verso l’oggetto amato, e teniamo mezzo aperte le labbra, e quasicché gli occhi socchiusi, perché tendiamo ad abbracciarlo ed a possederlo, e ad evitare qualunqne altra distrazione, e tutta trasfondere in esso l’anima nostra. Nell’odio per lo contrario decliniamo sia per timore o disprezzo dell’oggetto odiato, e mettiamo le braccia, le gambe, il corpo tutto nell’attitudine di fuggirlo e di minacciarlo, o di respingerlo e di distruggerlo. Ora a somiglianza di queste due passioni ogni altra ha pure un suo fine proprio e conveniente alla sua natura, al suo sviluppo, al suo grado, essa dee conforme a questo fine e tendere ed operare al di fuori, e per conseguente tutti gli atti ed i moti, che a tal uopo s’impiegano, diventano tanto più espressivi e significanti, quanto più sono necessari ed efficaci a conseguirlo. La forza di tali espressioni sta dunque nella relazione più o meno evidente o necessaria o diretta de’ mezzi col fine.

[6.9] Questo fine e quest’azione può riguardare o l’oggetto esterno, o la cagione della percezione o sensazione, od il soggetto, sia la persona che li riceve, sia noi medesimi. Per la qual cosa i nostri movimenti ed i nostri gesti si possono riferire direttamente o agli altri o a noi medesimi.

[6.10] Così, quando noi non possiamo o non dobbiamo reagire contro la cagione esterna della nostra passione, ci rivolgiamo e riconcentriamo in noi stessi, e la nostra azione si circoscrive allo stato interno dell’animo nostro, o temperandone l’amarezza o alimentandone la compiacenza. Ed ecco perché nella tristezza profonda che ci abbatte, molti atti tendono a sollevarci ed a sostenerci, siccome nella gioja molti altri ad esilararci e moltiplicarla. Il sedersi, il giacere, il sostenersi la fronte, dilatare o distendere certi muscoli, il sospirare, il gemere, il piangere, lo abbassare o chiudere gli occhi per evitare, soffogare od allegerire quel che ci attrista ecc. sono atti adoperati a procacciarsi opportunamente alcun rimedio, sfogo e sollievo. E per lo contrario nella gioja si vuole vivere e sentire il più che si possa, e più atti festivi si ripetono e si comunicano, amandosi di vedere la stessa passione diffusa negli altri e moltiplicata, per quindi raccoglierla di nuovo e goderne ancor più. L’uomo allegro vuole spandersi e moltiplicare la sua propria esistenza, trova e gusta per tutto la cagione della sua gioja; quindi il canto, il ballo, il batter forte la palma, il romoreggiare, l’abbracciare e baciar gii astanti e compiacersi di tutto, come se tutto fosse fatto e disposto a dilettarlo e giovargli. Ma la tristezza per una ragione contraria ci limita a noi soli, come se ogni altro oggetto ci dovesse ancor più nuocere od annojare; e gli oggetti più innocui ed indifferenti si temono, si fuggono e si abboniscono come cagioni o stromenti che possono accrescere la nostra propria tristezza. Tutte queste ed altrettali espressioni tendono o ad agevolarci ed accrescere il senso dolce e gradevole della passione, o a disfogarne e diminuirne il molesto e l’ingrato.

[6.11] Noi possiam chiamare tali gesti o segni, sia che ad altri od a noi si rapportano, cooperativi, per distinguerli da quelli che abbiamo chiamati imitativi ed analoghi. Ed a questi due generi possono, s’io mal non veggio, tutti ridursi i tuoni, i gesti ed i movimenti che si riguardano come più o meno naturalmente espressivi. E nella loro ragione sta tutta la teorica e l’arte della pronunciazione patetica, in quanto abbiamo osservato la pronunciazione tutta si restringe ad eseguire, il più fedelmente che può, l’intenzione dell’animo nostro, che si propone di fare in tutto o in parte quello che la passione richiede. Ed essendo sua intenzione o d’imitare l’oggetto o di usarne a suo meglio, o secondarne gli effetti, noi possiamo distinguere agevolmente e quando si debbano adoperare i gesti imitativi, e quando i cooperativi, e quando alternarli o comporli insieme, e sino a qual punto, qualora si determini l’interesse attuale della passione predominante.

[6.12] Imperocché se, p. e. essa comanda di fuggire o di minacciare o di assalire l’oggetto malefico, non può impiegare ad altro uso gli organi destinati a quest’uopo, e dipingerlo ed imitarlo con quei medesimi co’ quali dee fuggirlo o minacciarlo o assalirlo. In caso di collisione par dunque che la progressione da osservarsi sia la seguente, che cioè l’animo appassionato cerchi prima di attendere e provvedere all’obbietto esterno della sua passione, indi al subbietto o al suo stato interno, e finalmente all’analogia, imitazione o pittura dell’uno o dell’altro. Ove dunque dobbiamo occuparci a far quell’uso, che la passione ci detta, dell’oggetto esterno che l’eccita, poco o nulla curiamo di noi; e quando ad alleviare la nostra persona siamo principalmente ed unicamente rivolti, poco o nulla possiam badare ad imitare e dipingere l’uno e l’altra. E perciò si dee sempre trascegliere l’espressione più necessaria, più efficace e diretta, se le leggi della natura si vuol secondare.

[6.13] Ma spesso queste medesime espressioni sì diverse di indole e di fine, nello stesso incontro si succedono e si alternano con tanta rapidità, che tu credi che la pronunciazione sia non solo imitativa, ma cooperativa e relativa all’oggetto e soggetto ad un tempo, esigendo la passione che all’uno ed all’altro fine si serva ad un tempo. Quindi diviene che, servendo tutti gli organi alla stessa passione, ciascuno cerca di adempiere il suo ufficio particolare, di cui è incaricato, nel modo più conveniente alla sua natura e destinazione. Noi osserviamo un tal caso ogni qual volta certe passioni veementi rapidamente sviluppansi, per cui i gradi differenti che si succedono, diversificando a proporzione lo interesse e l’intenzione della persona, l’obbligano a variare la natura del gesto e della pronuncia, e questa variazione per la celerità con cui la passione procede, non può in alcuni incontri eseguirsi da tutti gli organi con la stessa prontezza, sia per la loro natura meno disposta a tale attitudine, sia per aver ricevuto una sì forte impressione dallo stato precedente della passione, da non potersi così facilmente ricomporsi ed atteggiarsi opportunamente. Quindi è che in generale l’espressione che precede, ritiene sempre alcuna parte o resto di quella che l’ha preceduta. Gli occhi, le ciglia ed il volto sono i primi e più pronti a risentirsi di qualunque interno movimento; ma le braccia, le gambe, la persona non possono corrispondere con la stessa faciltà. Ond’è che mentre gli uni eseguono un’espressione, possono gli altri trovarsi ancora preoccupati ed imbarazzati dall’espressione precedente. Questo fenomeno è frequentissimo nella pronunciazione successiva; e l’artista non dee trascurarlo per bene imitarlo opportunamente.

[6.14] Più diffìcile, e non meno frequente, è l’altro caso, in cui la stessa passione simultaneamente comanda agli organi rispettivi, espressioni di specie diverse. Per cui, mentre alcuni gesti sono cooperativi, l’uno è inteso all’oggetto, l’altro al soggetto, né manca chi ad un tempo sia imitativo o dell’uno o dell’altro. Perocché, servendo tutti gli organi alla medesima passione, ed essendo questa più o meno complessa, o tendendo a più fini, ciascuno organo cerca di adempiere il suo ufficio particolare, di cui è incaricato nel modo più conveniente alla sua natura o destinazione.

[6.15] Così noi veggiamo nella medesima espressione il prospetto di tutti gli elementi della passione, dalla quale procede, come accade nella gelosia, la quale non è che un complesso di più affetti conspiranti insieme, che non pur si succedono rapidamente, ma simultaneamente cooperano.

[6.16] Ond’è che distinguiamo ad un tempo l’espressione dell’amore, del sospetto, della collera, dell’odio ecc. Parimenti nella stessa passione più semplice dell’amore o dell’odio alla presenza dell’oggetto amato o abborrito nell’atto che la persona tende verso quello, o ne declina, o lo minaccia, dà alla sua voce, alla sua fisonomia a’ suoi atteggiamenti un tuono, una forma siffatta, che con alcuni tratti l’indole imita e dipinge dell’oggetto presente, dalla cui azione procede la sua passione, e con altri tende a diminuire il dispiacere, od accrescere il piacere che la passione gli fa provare.

[6.17] In tale complesso di espressioni diverse e contemporanee si osserva in generale che all’espressioni analoghe servono principalmente gli occhi e la fìsonomia, ed alle cooperative, le braccia, le mani, la positura del corpo; e così mentre questi organi s’impiegano a pro o contro l’oggetto o subbietto, imitano quelli la natura dell’uno o dell’altro.

[6.18] Dietro tali osservazioni si può distinguere quali elementi debbano comporre l’espressione complessiva, ed in caso di conflitto o di combinazione quali debbano preferirsi o predominare, o più o meno concorrervi od escludersi affatto, e come e quando i diversi organi, servendo ciascuno al suo fine particolare, servono tutti ad un tempo al loro fine generale e comune. Il perché se l’interesse principale che domina esige di mostrare la cosa che si narra o si vuol persuadere, tutta l’intenzione di chi parla si raccoglie a presentarla siffattamente che non possa non tutta vedersi da chi l’ascolta. Emerge allora l’utilità e la necessità dell’ipotiposi, non pur nelle sentenze e nelle parole, che nella voce, nella fisonomia e nell’azione. La pittura che allor se ne fa è significante, espressiva, necessaria. Ma cesserebbe di esser tale, e riuscirebbe anzi importuna, diversiva ed assurda, se l’interesse principale richiedesse degli atti, che al godimento o alla distruzione dell’oggetto esterno, o del subbietto o persona paziente si riferissero; ed a questa tendenza pur si sacrificano tutti quegli altri che al soggetto rapportansi, il quale più a sé non bada, ove in quello tutto si occupi.

[6.19] Ma se taluno ancor narrando parli di cosa che fortemente interessi non pur lui che la persona, che intento l’ascolta, non può fare a meno di sentire e di esprimere a un tempo, nel modo che sa migliore, l’interesse della cosa, della persona, di sé medesimo. Così parlando di una vittoria riportata a chi pur giovasse principalmente, quantunque ne sia lieto oltremodo, e l’allegria gli splenda nel viso e negli occhi, egli non può con l’accento e con l’attitudine non indicare simultaneamente o il lampeggiar delle spade, o lo strepitar e l’urtar dei cavalli, o lo squallor della morte, e i lamenti e le grida confuse di chi fugge, di chi incalza, di chi muore, di chi trionfa. Così chi salvo dal naufragio, ricupera il porto, e ritorna in seno alla sua famiglia, benché versi negli altri la gioja ond’è ripieno, pur non cessa di sentire e d’imitare in parte alcuni di quegli accidenti più funesti, che lo hanno principalmente colpito. Egli è contento, egli tutta prova la tenerezza che l’inspira la vista dei genitori, della sposa, delle sorelle, ma pur ti descrive e dipinge col gesto e con l’attitudine non senza raccapriccio negli occhi e nel volto, ora l’orror della notte ottenebrata, ora il fischiar dei fulmini, ora lo spingersi in alto, ed ora lo scendere negli abissi, e sempre in mezzo al contrasto dei flutti, che romorosi si affrontano e si minacciano. In tali casi le tre specie di espressioni s’incontrano, si uniscono, si combinano con tanta celerità ed accordo, che sebbene la passione dominante, e l’espressione corrispondente prevalgano sempre e primeggiano, pure è costretta a modificarsi e temperarsi con le altre, le quali servendo a fini e di segni diversi, tutti però a un solo e comune costantemente si riconcentrano.

[6.20] Dietro questa teoria, che la ragione e l’esperienza pur sempre comprovano, Engel con troppa oscurità, o meglio con troppa generalità censura quel che Dorat dicea dell’espressione, che Baron dava ai seguenti versi, che Cinna dice ad Emilia:

Au seul nom de Cesar, d’Auguste et d’empereur,
Vous eussiez vu leurs yeux s’enflammer de fureur;
Et dans un même instant, par un effet contraire,
Leur front pâlir d’horreur, et rougir de colère.

[6.21]Dorat, riferendo questi versi nel suo poema su la Declamazione, commenda Baron, perché fu veduto declamandoli impallidire e successivamente infiammarsi, cosa che secondo Engel né si poteva sì rapidamente eseguire, né anche si doveva, potendosi esprimere lo stato e le affezioni dei conspiratori, ma bensì lo stato proprio e le affezioni diverse di Cinna, il quale doveva in quel punto essere in sé pienamente satisfatto e lietissimo dell’effetto, che avea prodotto ed osservato nei cospiratori, e che racconta ed espone ad Emilia. Ma ancorché sia questo il sentimento dominante di Cinna, lo stesso interesse che prende in quello spettacolo, e la premura di farne parte ad Emilia non possono dispensarlo dall’esprimere l’orrore e il furore de’ congiurati, che era l’effetto che a lui più importava di verificare, e ad Emilia di apprendere. Oltrecché, se ben si osserva, l’accento e il tuono della voce, e la positura della persona, e qualche altro gesto analogo potevano bene indicare tali accidenti, e comporsi ad un tempo col senso dominante della satisfazione, e della gioia, di cui era Cinna in quel momento ripieno.

[6.22] E perché non si tragga abuso dall’esposta teoria, noi non dobbiamo confondere quei gesti semplicemente imitativi ed analoghi, che quai cenni più o meno rapidi, indicano l’oggetto a cui si rapportano; da quegli altri più particolareggiati e minuti, che per la loro lenta e successiva descrizione propriamente pittoreschi o mimici dovrebbero dirsi. Possono ancor questi servire alcuna volta quali mezzi più o meno utili, o necessari ad un qualche fine; ma allora perdono la natura di espressione patetica, e prendono quella di descrizione materiale, e sono riserbati a coloro che o non potessero altrimenti farsi intendere, come accade ai sordi muti, o che volessero coi soli segni visibili farsi intendere, come i pantomini. E veramente è questa ultima quella specie di dimostrazione, che Cicerone diceva mimica, e che distingue dalla significazione, che sola concedeva all’oratore, e che si limita per l’ordinario ad esprimere la sentenza generale, e non già le parole singolarmente, e più le affezioni ed i sentimenti di chi ragiona, che l’indole e le qualità di che si ragiona. Ed ecco perché Quintiliano, commentando l’osservazione di Cicerone, l’applicò opportunamente a quel luogo dell’arringa di Cicerone medesimo contro Verre, dove esponeva le circostanze più commoventi della flagellazione di Gavio. E di vero se si avesse voluto descrivere l’atto del battere, i contorcimenti e le grida di Gavio, l’attitudine di Verre, che tenendo sotto il braccio una donzella godeva ferocemente di quello spettacolo, si sarebbe grandemente pregiudicato alla dignità dell’oratore ed alla verità dell’espressione, che dovea primeggiare all’immagine di quell’ingiusta esecuzione. Ma se l’orrore e l’indignazione doveano in quel punto animare il declamatore, non potea né pur questi fare a meno di indicare con qualche tuono ed atteggiamento, acconciamente associato con l’espressione dominante, la ferocia dei flagellatori, il dolore del paziente e il contegno insultante del proconsole.

[6.23] Io ho creduto dovermi trattenere alquanto su l’analisi di una parte che è certo la più importante nella declamazione, ed alla quale, ancorché ne abbiano molti ragionato ampliamente, non hanno applicato tutta quella precisione che richiedeva. Il perché non è da credersi una tale discussione come un argomento di pura speculazione, se si riguarda la realità del fenomeno, che abbiamo sottoposto ad analisi, e più lo sviluppamento delle conseguenze, che la teorica e la pratica dell’arte riguardano.

Capitolo VII. §

Della passione in genere, e di alcune in ispecie.

Espressione complessiva di ciascheduna.

[7.1] Noi abbiamo considerato finora l’espressione rispetto a ciascun organo preso isolatamente, ed abbiamo veduto come ciascuno in particolare si presti a servire alla passione che lo predomina, e quindi secondo quale norma più giusta e sicura si sogliano e debbano combinare nella medesima espressione. Ora consideriamo il magistero complessivo di tutti gli organi simultaneamente operanti. Sotto questa relazione, l’espressione si enuncia più o men generale ed intera; perocché tutta la persona convenientemente si atteggia, e tutta esprime la passione che la governa.

[7.2] Ancorché ciascun organo operi secondo la sua indole e al modo suo, ed eseguendo il suo ufficio particolare, tutti però per l’unità e identità del principîo che gli anima, conspirano allo stesso fine, e danno alla passione una forma determinata ed una sua propria fisonomia, che dal concorso e dalla cooperazione di tutti gli organi costantemente risulta. Cicerone con la sua ordinaria eloquenza avea detto assai prima di Hume: omnis enim motus animi suum quemdam a natura habet vultum, et sonum, et gestum, totumque corpus hominis; et ejus omnis vultus, omnesque voces, ut nervi in fidibus, ita sonant ut a motu animi quoque sunt plus ecc. Di tale espressione simultanea, complessiva, completa noi qui ragioneremo particolarmente.

[7.3] Io qui non tratto della passione come fisiologo o moralista, ma soltanto come semplice artista e declamatore. È ufficio di questo il conoscere ed imitarne la parte esterna e sensibile, e non già l’analizzarne l’interna e metafisica. Ma siccome né pur da quest’ultima si può del tutto prescindere, almeno sino ad un certo grado, per bene ordinare e adoperare la prima, io dell’una mi gioverò quanto basti a bene esporre e commentar l’altra, specialmente se si rifletta che all’indole intrinseca della passione medesima, una gran parte si raccoglie e determina dell’estrinseca espressione, la quale non è che uno sviluppamento di quella. Ed essendo ancora infinite ed infinitamente varie le passioni, io quelle tralascerò che sono più acconce al nostro intento e più forti e risentite, perché le altre, o più semplici o men ovvie, allo stesso modo si osservino e si ritraggano, secondo l’uso migliore che all’arte conviene. Noi così ci faremo una serie di quadri, che ci servono di modelli obbiettivi per meglio definirne l’indole e le relazioni, e riferire a ciascun genere le modificazioni e le specie che ne dipendono.

[7.4] L’uomo, com’essere sensibile, e quindi capace di dolore e di piacere, egli è necessitato ad abbonire e fuggire a desiderare e seguire quegli obbietti che possono, o ch’egli crede recargli dolore o piacere. Quindi grida, si move e si atteggia, o per liberarsi dagli uni, o per godere degli altri. Tutti i moti interni ed esterni dell’uomo, e così dalle tendenze e dagli appetiti più leggeri sino alle passioni più forti ed alle azioni più determinate, a due generi si posson ridurre, cioè all’odio e all’amore.

[7.5] Veramente non ogni moto ed alterazione dell’animo suol dirsi passione, ma quella soltanto che per l’importanza sia reale, sia immaginaria dell’obbietto che l’eccita, o per forza dell’abitudine che l’alimenta e risveglia, obbliga la persona ad uno stato violento e straordinario, che propriamente dicesi appassionato. Ond’è che l’uomo essendo indifferente in certe circostanze e per certi obbietti, se per avventura giunge alcuno di questi ad interessarlo, si apprende in lui un sentimento od affezione che vogliam dire, che cresce, si invigorisce, si sviluppa a misura che più l’interessa, sino a tanto che diventa e si denomina passione. Allora conforme all’opinione che si ha concepita dell’obbietto, l’uomo appassionato non vede altro di quello in fuori, e tutte le sue idee, i suoi sensi ed affetti nella passione dominante trasformansi, ed una inquietudine universale ed irresistibile lo agita, né si acquieta finché non l’abbia, come pessimo, fuggito o distrutto, o conseguito e goduto come ottimo. Giunta la passione a questo grado diventa ancor trasporto ed entusiasmo, che suole pur degenerare in furore ed in fanatismo. E in tale stato ciascuna passione ha la sua espressione particolare e la sua propria fisonomia. E in tale stato noi la riguardiamo, perché i tratti della sua espressione corrispondente sieno più rilevanti e distintivi.

[7.6] Quindi, procedendo dall’odio e dall’amore, tali e tante forme se ne dispiegano sia per la condizione, qualità ed opinione degli oggetti e de’ soggetti a cui si sopportano, sia per la distanza in cui si ritrovano gli uni dagli altri, sia per altre relazioni che hanno questi fra loro, che varie specie di passioni n’emergono. In questo modo nascono e si sviluppano il timore o la speranza, l’ira o il favore, la tristezza o la gioja, la satisfazione o il furore. E ciascuna di queste ha pure il suo sviluppo e i suoi gradi che ad altre divisioni diedero luogo; e le une e le altre variamente alternate e rimescolate, prendono tali e tante forme e gradazioni, che si rende quasi impossibile il tutto discernerle e notarle accuratamente. Quindi procede la varietà di sistemi, che hanno seguito i filosofi nell’ordinarne ed esporne le classi; e noi a quello ci appiglieremo che parendoci il più conforme alla ragione, ed il più semplice ed efficace per l’uso nostro, noteremo le principali che più convengono al nostro fine ed al nostro disegno.

[7.7] Poniamo l’uomo come una macchina sottoposta all’azione degli obbietti esterni, che più o meno l’agitano e la commovono, e notiamo quelle agitazioni e commozioni che sono gli effetti e gl’indizi delle sue passioni. Il suo primo stato è quello della quiete e del riposo, che inerzia morale possiamo chiamare. Tale stato, come oggetto di desiderio, divenendo più o men volontario, prende l’indole e la forma di passione, che ha pure i suoi gradi e i suoi eccessi, e quindi la sua espressione conveniente, ed allora si dice pigrizia od ignavia. Essa esprime nella sua positura ed attitudine il piacere dell’inazione, e la difficoltà e la noja dell’operare. Il pigro, o che si giaccia o si stia, si mostra pur sempre stanco del peso del proprio corpo, e, direi quasi, della propria esistenza: le membra gli cadono come disciolte e prostrate, la testa si appoggia sulle mani o sul petto, le braccia gli pendono lungo i fianchi, o si tengono congiunte sul ventre o sulle ginocchia. Egli o non mai si risente e si sdegna, od appena di ciò, che lo costringe a sospendere il suo riposo, o ad alterare alcun poco la sua posizione. Quindi i suoi detti e i suoi moti sono parchi, stentati, languidi: e in tutti i suoi conati si arresta appena incomincia, e par che tosto dimentichi di avere incominciato. Le Brun ci ha dato il disegno del riposo; ed io credo opportuno il qui soggiungere i pochi, ma veri tratti che ne ha dati Dante, descrivendo lo stato di Belacqua:

Là ci traemmo; ed ivi eran persone
           Che si stavano all’ombra dietro al sasso,
           Come l’uom per negghienza a star si pone.
Ed un di lor che mi sembrava lasso,
           Sedeva ed abbracciava le ginocchia,
           Tenendo il viso giù tra esso basso, ecc.
Allor si volse a noi, e pose mente
          Movendo il viso pur su per la coscia
          E disse: or va tu su, che se’ valente.

[7.8] Indi alzò la testa appena, e

Gli atti suoi pigri, e le corte parole
Mosson le labbra mie un poco a riso ecc.

[7.9] Quantunque questa passione o piuttosto attitudine, non sia oggetto ordinario della declamazione nobile, pure suole talvolta congiungersi a succedere per qualche istante all’eccesso di certe passioni che abbattono le forze fisiche e morali dell’uomo, e lo determinano a tale attitudine, che suppone l’eccesso dell’abbattimento e della stanchezza.

[7.10] L’inerzia morale viene scossa o vinta dalle impressioni che la sorprendono e la travolgono; e siccome sono queste più o meno interessanti a proporzione del dolore o del piacere che recano, la prima facoltà o tendenza, che alla presenza degli obbietti si sveglia, è l’attenzione, la quale, se quelli sono o si credono nuovi rari e straordinari, diventa massima, e dicesi allora ammirazione.

[7.11] Essa si rivolge improvvisamente, e tutta si affisa immobile all’oggetto che l’eccita. La persona, che n’è sorpresa, rimane come tocca dal fulmine. Appena un’esclamazione grave e incompleta, ed un movimento indietro ed estemporaneo l’annunciano, che la testa e le braccia si elevano alquanto, s’inarcan le ciglia, si spalancano gli occhi, e la pupilla si scosta dalla palpebra inferiore, e resta ferma ed attonita; si dilatano alcuni muscoli, come per dar luogo alle nuove idee ed affezioni che si ricevono; la respirazione si arresta o si allenta, il volto è stupido; il resto del corpo rimane immobile, ed al silenzio più o meno prolungato succede un parlare aspirato e interrotto. Gli stessi movimenti, ove sieno tratteggiati più fortemente giungono ad esprimere lo stupore, l’estasi. La sede di questa passione sono gli occhi e le ciglia. Niuno ce ne ha date più belle, più vere, e più varie forme di Raffaello nella sua Scuola di Atene.

[7.12] Noi non ci determiniamo ad alcuna tendenza ed operazione, se prima non esperimentiamo e riconosciamo l’indole degli obbietti, che ne circondano e ne commovono. Ma prima di determinarci, specialmente se da più obbietti e da impressioni differenti o contrarie siamo ad un tempo fortemente agitati, qual interno contrasto non proviamo, e qual incertezza non dobbiamo vincere? Questa incertezza è sovente volte vivissima ove si contrastino a un tempo più idee, più consigli, più desideri, più affetti. Dante ne ha dipinto con la solita evidenza lo stato interno:

E quale è quei, che disvuol ciò che volle,
            E per nuovi pensier cangia proposta,
            Sì che dal cominciar tutto si tolle.

[7.13] A tale stato risponde analogamente l’espressione esterna. Quindi la testa, il passo, le mani seguono or dall’una or dall’altra parte il pensiero che varia, e mostrano ora di scuoterlo, or di lasciarlo, ed or di respingerlo. L’andare e il fermarsi, lo starsi e il sedere inopinatamente si alternano e s’interrompono. Niun discorso, niun tuono seguito. Ad ogni momentanea risoluzione succede la riflessione, il pentimento e ben tosto la risoluzione eziandio; tutto è quindi irresoluzione ed inquietezza, sino a tanto che a ferma determinazione non si risolva. Gli organi più affetti da tale passione sono la testa, le mani e le gambe.

[7.14] Gli obbietti che più c’interessano sono quegli esseri che più fra gli altri ci rassomigliano e che noi riguardiamo come utili o nocevoli, e quindi buoni o cattivi. Al cospetto di una persona, dalla quale non temiamo alcun danno, e che soffre, si sveglia in noi la pietà, ch’è un senso dell’altrui male, e che dovrebbe essere la passione caratteristica del genere umano. La persona, che n’è compresa, riguarda da un lato l’obbietto che l’affligge con la testa alquanto inchinata e con le mani, o prostese verso di lui, come in atto di prestarsi a sollievo, o presso il petto congiunte. Le ciglia si abbassano, le narici alcun poco si elevano, le guance si aggrinzano, si apre la bocca, ed il labbro superiore elevandosi anch’esso d’alquanto s’avanza su l’inferiore. Si abbassano i muscoli del viso, più che tutti languisce l’occhio, e una dolce lagrima ne appanna la pupilla. La voce è piana e simpatica, e le parole scorrono come un balsamo suave a temperare l’amarezza dell’infelice che soffre. Tutto mostra il consenso dell’altrui male, e la voglia e l’attitudine di raddolcirlo. La pupilla, i muscoli labbiali superiori e le mani sono gli strumenti principali di questa comunissima passione. Frequenti e maravigliosi sono i tratti, che ne ha dato Dante in tutto il corso del suo poema, ov’egli si

Apparecchiava a sostener la guerra
            Sì del cammino, e sì della pietate,
            Che ritrarrà la mente, che non erra.

[7.15] Spesso la persona, la quale c’interessa per le sue doti, ci appare di tanto superiore e meritevole, che c’ispira il sentimento della venerazione, che ci contrae, ci rimpicciolisce, ci atterra. Quindi ci abbassiamo col corpo per mostrare la nostra inferiorità alla presenza dell’altro. Tutto si rassidera: i muscoli delle ciglia, delle guance, della bocca si allentano e illanguidiscono; si piegano la testa, le ginocchia, le braccia. Bassi pur sono e modesti gli accenti, e non mai l’andare a paro dell’altro.

[7.16] Pare che nella postura domini principalmente l’espressione di questa passione, la quale suole degenerare in idolatria ed in viltà, ed allora altera in tutto e corrompe la condizione dell’uomo.

[7.17] La passione, che tra le altre si mostra più frequente e primeggia, è l’amore, il quale è desiderio ardentissimo dell’obbietto che si ama, e per cui l’amante verso l’amato tutto propende, si raccoglie e si stringe. Quindi inverso lui tendono gli occhi, il volto, le braccia. La testa piega da una parte alcun poco, le narici si contraggono alquanto verso la parte superiore, e le palpebre oltre l’usato si ravvicinano. La bocca alquanto aperta dà luogo ad una respirazione lenta, e sollevata da quando in quando da un profondo sospiro. E siccome una sensibile attrazione si alimenta e si spiega fra l’amante e l’amato, tutto il sangue si raccoglie al cuore, e la fiammella che vi si accende riflette nella pupilla, che oltremodo splende nell’occhio aperto e sul viso pallido ed allungato. L’uno vorrebbe congiungersi ed immedesimarsi nell’altro, e di due divenire una sola cosa medesima; e perciò si studia d’imitarne non pure i sensi e le inclinazioni, che gli accenti, l’attitudine, i modi, e si conforma il più che si può al mo dello che ammira e idolatra per rendersene ognora più degno. Quindi legge e contempla beato nella fisonomia di quello i suoi doveri, il suo contegno, le sue speranze ed il suo destino; e le sue parole escono calde, insinuanti, dolcissime. Niuno meglio di Virgilio fra gli antichi ha spiegato in tutto il suo sviluppo questa tenera ed invincibile passione, la quale sorprende, arde insensibilmente e consuma l’infelice Didone. Ed, ancorché in breve, tutta la forza n’espresse ancor Dante ne’ pochi versi notissimi, in cui descrive la sorte di Francesca da Rimini. La fisonomia e gli occhi massimamente servono a questa passione predominante.

[7.18] Se il bene o l’obbietto che ardentemente desiderasi viene a conseguirsi alla fine, la passione passando pei vari gradi della speranza e della fiducia arriva finalmente alla gioja, ch’è l’effetto del bene conseguito e posseduto. Essa dunque o si solleva dall’oppressione del male che si soffriva, o si raccoglie da qualunque distrazione nel solo godimento del bene che si possiede. E perciò la sua attitudine permanente indica riposo, sicurezza, fidanza. La testa è sollevata, la fronte è piana e serena, il ciglio immobile ed elevato nel mezzo, la bocca mezza aperta, le braccia e le mani alquanto stanche dal corpo, l’andare saltellante e leggiero, ed ogni atto asperso di agilità e di piacevolezza. La ilarità che trabocca, par che voglia inondar tutto all’intorno, e quindi esilara gli occhi, la fronte e tutti i lineamenti del viso, e si diffonde e partecipa a’ circostanti.

[7.19] Brilla il sorriso nella bocca e nella pupilla, e par che tutta la natura sorrida anch’essa con noi. Il tuono della voce equabile, aperto, sicuro annunzia un animo disposto a favorire e rallegrar tutti.

[7.20] Spesso diventa gestiente come la chiamava Cicerone, ed allora canta, danza e festeggia, ed ebbra ed avida a un tempo si mostra di nuovi piaceri. L’espressione della gioja si annunzia principalmente nella bocca, nelle mani e negli occhi.

[7.21] Si oppone alla gioia la malinconia o tristezza, la quale nasce e ci opprime allora che il bene, che si desidera, non può per alcuna via conseguirsi. Par che per essa la vita si diminuisca e dilegui; e perciò non pur le forze dell’animo, che tutta quella del corpo atterra e quasi che spegne. Cadono le membra disciolte, le giunture della spina dorsale, del collo, delle braccia, delle dita delle ginocchia diventano flosce e rilassate. Le stesse narici pendono verso la bocca, e gli angoli di questa verso il mento; la testa dechina dalla parte del cuore, e la mano si sforza appena di sostenerla. Le guance discolorate, gli occhi disposti a lagrimare o indirizzati verso l’oggetto che ci rattrista, o col guardo affiso alla terra, e con la mente da quello tutta occupata. Tutto ciò che vede ed incontra, e che tenta distrarla, l’accresce e l’esaspera; quindi schiva l’altrui cospetto, e cerca la solitudine, il silenzio, le tenebre. Essa tace per l’ordinario, e se pure alcuna volta favella, il suo favellare è come l’uomo in delirio; e siccome è lento e stentato il moto di tutte le sue membra e il suo passo, lente ed interrotte pur corrispondono le parole, e gli accenti aspirati, prolungati, ineguali. Tale è per l’ordinario la situazione di Fedra, di Saulle e di Mirra. Il volto, gli occhi e le braccia particolarmente l’esprimono.

[7.22] L’uomo odia in generale qualunque obbietto sia o creda capace di cagionargli alcun male; quindi soffre diverse affezioni più o meno forti e distinte sotto l’azione di quello; ma ha l’odio fra tutti i tratti più note voli, di che pur le altre più o meno partecipano. In generale esso desidera la lontananza, la non esistenza o l’annientamento dell’oggetto avverso e malefico. E perciò all’incontro o alla presenza di questo, per evitarlo, dechina dalla parte opposta il viso, lo sguardo, l’intera persona. Tutto è strana tensione nella figura: bassa la testa, la fronte aggrinzata, represse e increspate le ciglia, dilatate e pallide le narici, le gote giallastre, e da varie pieghe bruttamente alterate, affondati i muscoli delle mascelle. In mezzo all’occhio scintillante la pupilla si nasconde in parte tra le palpebre, quasi temendo che si manifesti il secreto disegno dell’animo, e se errando ricade per caso sull’oggetto odiato, obbliqua e fissa il sogguarda. In questa maligna situazione tiene stretti i denti, chiusa la bocca, e, se pur favella, per le labbra illividite le parole escono masticate, aride, rotte. Più che altrove l’odio si dipinge nella guancia e negli occhi.

[7.23] Se l’obbietto odiato, o per la sua debolezza o per la superiorità di chi l’odia, fosse o paresse sì debole da poco o nulla temerne, si accompagna pur con l’odio il disprezzo o l’orgoglio, che nascono e si rinforzano dalla certezza od opinione dell’altrui debolezza o della propria forza.

[7.24] Allora si rivolta bruscamente la schiena a chi si disprezza, e un fiero e rapido sguardo gli si slancia appena di sopra, che tosto ripentito altrove il rivolge, e lo riguarda d’alto in basso, negligentemente e di fuga. Le labbra si stringono, e si avanzano con qualche caricatura da un lato. Chi disprezza per l’ordinario non ragiona, ma guarda e passa, o parla pochissimo e con affettata freddezza. L’orgoglio in modo particolare affetta, gonfia ed eleva siffattamente il petto, le spalle, il collo, la testa, le ciglia, che mostra quasi di non capire in se stesso, e di esser nato per una sfera superiore; perlocché ragiona ed incede con tal fidanza di sé che par nulla temer di quaggiù. Il Tasso lo ha tratteggiato nella persona di Argante, e Voltaire in quella di Assur nella Semiramide, e Racine in quella di Rossane nel Bajazette. Il disprezzo e l’orgoglio si annunciano particolarmente dalla positura, e massime dalla testa e dagli occhi.

[7.25] Che se l’oggetto che si odia offre alcuno ostacolo all’acquisto del bene che si desidera, o all’evasione del male che si teme, e la sua forza è tale da potergli probabilmente resistere e fargli fronte, allora sorge l’ira a nostra difesa ed a sua ruina, e cresce a tale che breve furore diventa. In breve essa pone l’uomo nello stato di guerra. Niuno fra gli antichi più di Seneca ne ha caratterizzato l’indole, l’espressione e gli effetti; e dei tanti e frequenti tratti ch’egli ne ha dati, io trascelgo quello del Lib. I. c. I: Flagrant et micant oculi, multus ore toto rubor, exaestuante ab imis praecordiis sanguine, labia quatiuntur, dentes comprimuntur, horrent ac subriguntur capilli, spiritus coactus, ac stridens; articulorum seipsos torquientium sonus, gemitus mugitusque, et parum esplanatis vocibus sermo praeruptus et complosae saepius manus, et pulsata humus pedibus et totum comitum corpus, magnasque minas agens, foeda visu et horrenda facies, depravantium se alque intumescentium. — Per tali modi par che l’ira sviluppi, accresca e metta a soqquadro tutte le forze interne e le parti esterne della persona, che ne è compresa ed agitata. Bolle il sangue ed erra precipitoso per le vene, che, gonfie, par che più non bastino a contenerlo; i nervi e le ossa si squassano, le mani convulse e protese s’impugnano, e il fuoco si lancia dalle nari, dalla bocca, dagli occhi; tutto il corpo insomma minaccia incendio e ruina; e se non può compiere la sua vendetta su l’obbietto della sua collera, si getta e si sfoga non pur su gli oggetti innocenti, che non hanno alcuna relazione con quello, ma ancora sopra di se medesimo, battendosi, mordendosi e lacerandosi. Omero ha tutto descritto lo sviluppo di questa veementissima passione nella persona di Achille, e Sofocle nella persona di Oreste. Non si conosce altra passione, che nella sua espressione impieghi più di questa tutte le parti del corpo ad un tempo. Dante dicea dell’ira quando del Cerbero rapidamente accennava:

Non avea membro, che tenesse fermo.

[7.26] Ma se le forze dell’obbietto odiato fossero o si credessero tali da non potersi superare probabilmente, allora si spiega il timore, che cresce a proporzione della grandezza e della vicinanza del male che si teme, e diventa terrore se il male è grave ed improvviso, orrore se è gravissimo, e disperazione se inevitabile. Ciascuna di queste passioni ha i suoi modi, la sua lingua, i suoi gesti, e sì risentiti e sì propri, che si può l’una dall’altra agevolmente distinguere. Il timore toglie ad imprestito molti tratti dalla tristezza. La persona, che ne è colpita, rimane abbattuta, e tutta come per ripararsi, si concentra in se stessa, si ficcano gli sguardi nel suolo; un freddo sudore le ingombra la fronte, il volto pallido si prolunga, la lingua balbutisce, e fioche e mozze escono a stento dal petto le voci; zufolano le orecchie, tremano le ginocchia e le gambe, il piede o si arresta immobile, od erra incerto e vacillante, come di uomo che tutto vorrebbe imprendere, e gli manchi la forza necessaria per eseguirlo. Saffo ne avea fatta la descrizione, che forse imitò Lucrezio in questa maniera:

Ubi veementi magis est commota metu mens,
Consentire animam totam per membra videmus.
Sudores itaque et pallorem existere toto
Corpore, et infringi linguam, lucemque aboriri:
Caligare oculos, sonere aures, succidere artus;
Denique concidere exanimi terrore videmus
Saepe homines ecc.

[7.27] Rinforza questi tratti il terrore. Quindi eleva le ciglia verso il mezzo, spalanca gli occhi, e la pupilla o vi erra smarrita, od in parte si cela; gonfia ed abbassa i muscoli verso il naso, che si contrae; scolora ed illividisce il viso, le labbra, le orecchie; apre la bocca, che o immobile nulla articola, o manda interrottamente accenti incerti e sommessi. E del terrore assai più deforme l’orrore aggrinza ed abbassa molto le ciglia, spalanca le palpebre siffattamente, che la pupilla attonita non ne rimane coperta di sopra, ed apre la bocca più verso gli angoli, che nel mezzo, per cui compariscono i denti, ed al pallore del viso ed al lividore degli occhi unisce la tensione e la rigidezza di tutte le membra. Quindi le braccia contratte, le vene e i muscoli risentiti, irti i capelli, e gli accenti gelano e si smarriscono su le labbra.

[7.28] Dall’eccesso del terrore e dell’orrore si spiega la disperazione, la quale, più di ogni altra passione, ove nulla più speri, di tutte le più feroci si vale nel cospirare contro se stessa, e odiando ogni senso di esistenza e di vita, altera e snatura le umane forme della persona, e tutta infine la scompiglia e distrugge. Quindi si succedono e si avvicendano agitazioni, tremori, contorcimenti, pianti, urli, fremiti e grida; gli occhi irrequieti si serrano e si disserrano, ed immobilmente si affisano, senza pur riconoscere gli oggetti d’intorno; e la mano quanto incontra afferra e stringe violentemente, il viso pallido e stranamente alterato, il naso contratto, la chioma rabbuffata; e le parole ora traboccano impetuose, ed ora si confondono in sordi fremiti e cupi muggiti. Il gesto, il passo, qualunque moto od accento, tutto è strano ed irregolare; e se talvolta per abbattimento ed eccesso cade nel silenzio e nel riposo, il riposo ed il silenzio sono la parte più terribile della sua espressione. L’Inferno di Dante è tutto ripieno di tali immagini maravigliose:

Quivi sospiri, pianti, ed alti guai
            Risonavan per l’aere senza stelle,
            Perch’io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
            Parole di dolore, accenti d’ira,
            Voci alte e fioche, e suon di man con elle,
Facevano un tumulto, il qual s’aggira
            Sempre in quell’aria senza tempo tinta,
            Come la rena quando il turbo spira, ccc.
Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
            Cangiar colore, e dibattero i denti,
            Ratto che ‘nteser le parole crude.
Bestemmiavano Iddio, e i lor parenti,
            L’umana spezie, il luogo, il tempo, e il seme
            Di lor semenza e di lor nascimenti ecc.

[7.29] Ma, più che altrove, egli ha descritto lo sviluppo di questa orribile passione in persona del conte Ugolino. La sua postura, la sua occupazione nel rodere il teschio dell’Arcivescovo Ruggieri, le sue parole, i suoi moti, tutto in lui annunzia ed esprime:

Disperato dolor che il cor gli preme.

[7.30] Mentre ode i suoi figliuoli domandar del pane, sente egli chiavar l’uscio inferiore della torre, nella quale erano seco imprigionati, e li guarda in viso senza far motto, e tanto impietra, che mentre quelli piangono, egli immobile punto non piange; né perché gli chiegga il suo amato Anselmuccio che si abbia, gli risponde tutto quel giorno, né la notte appresso. E poiché al nuovo giorno vide il suo proprio stato nell’aspetto medesimo dei quattro figli già sfigurati per fame

Ambo le mani per furor si morse.

[7.31] Pure si fa forza, e si acqueta per non attristargli dippiù; e non pur quel giorno, ma l’altro ancora rimasero tutti muti. E cosi, tra il quinto giorno e il sesto, visto ad uno ad uno cader morti i suoi figliuoli, egli si diede,

Già cieco a brancolar sovra ciascuno,
            E tre dì li chiamò poi che fur morti:
            Poscia più che ‘1 dolor poté il digiuno.
Quando ebbe detto ciò con gli occhi torti
            Riprese il teschio misero co’ denti,
            Che furo all’osso, come di un can, forti.

[7.32] Nella serie di questi momenti la disperazione, progredendo via via, tutti dispiega i suoi effetti, i suoi gradi, i suoi eccessi.

[7.33] Fra queste passioni altre pur se ne spiegano, e vi s’innestano, e rendono l’espressione più o meno mista e composta, come la cagione da cui procede. Così il pentimento si sveglia alla memoria del bene trascurato e prende qualche abito dell’incertezza e dell’orrore; e se il biasimo sperimenta o teme degli uomini, si associa con la vergogna, la quale impronta alcune forme dal timore e dalla tristezza. Allora la persona in sé si raccoglie, e, giudicandosi, sente orrore di se medesima, e sfugge, o, se non può, mal sopporta la vista degli altri; quindi abbassa la testa, e affisa a terra lo sguardo, o riguarda appena di traverso e di furto, e rimanendo immobile non sa in che modo tenersi. Le guance intanto si arrossano, e col rossor della vergogna si alterna e contrasta il pallor del rimorso, onde attitudine e movimento duri e sforzati, silenzio ostinato, o accenti sommessi, parole mendicate e contraddittorie. Aristotele collocava la vergogna negli occhi. Ma se tale stato violento si accresca vieppiù, allora, passando per tutti i gradi della tristezza, giunge alla disperazione, e scoppia in furore. Quindi tutte queste passioni si confondono insieme; e la persona agitata da furie crudeli e da luride larve inseguita, spaventata da voce terribile, che grida da per tutto vendetta, incede atterrita sopra d’un precipizio col passo incerto, con l’occhio smarrito, col crine rabbuffato, col labbro tremante, con la voce soffocata, finché deliberata vi si slancia e ruina. Tale è Caino dopo avere assassinato il fratello; tali sono Oreste, Ninia e Seid dopo avere assassinato Clitennestra, Semiramide e Zopiro.

[7.34] Forse di tutte le passioni quella che soffre e dispiega più forme varie, diverse e contrarie è la gelosia. Essa cangia e si altera ad ogni istante, sicché pare che non abbia un abito proprio, ond’essere costantemente riconosciuta. Si vede in essa ora l’abbattimento della tristezza, ed ora la veemenza dell’ira, ora il sogguardare, e l’inquietudine del timore e dell’incertezza, ed ora l’attitudine ed immobilità dell’orrore; quindi dirotte lagrime, amaro sorriso, lamenti, minacce, tenerezze e furore. Euripide e Seneca fra gli antichi hanno sviluppato questa passione multiforme in persona di Medea, e niuno fra moderni più di Shaskepeare in persona di Otello, di cui Voltaire ha tentato una copia nel suo Orosmane.

[7.35] Tutte queste specie di passioni, che abbiamo finora tratteggiato, ci mostrano chiaramente come nel loro sviluppo e ne’ loro eccessi non ad altro intendono, che ad esprimere i loro effetti necessari, o a dipingere la loro cagione, o ad impiegare i mezzi più o meno volontari di soddisfare i loro bisogni. E sovente questi tre disegni diversi si eseguiscono a un tempo secondo l’indole e la destinazione rispettiva degli organi, che dalla stessa passione variamente si adoprano. Noi non potremmo tutte descrivere le gradazioni, le variazioni, le maniere infinite ed infinitamente varie delle passioni di sopra allegate, e delle loro specie e gradi. Chi potrebbe tutti notare i moti, le rivolte ed i cenni dell’occhio? La differenza è per l’ordinario sì picciola e sì sfuggevole, che o non si potrebbe distinguere, od anche distinta non si potrebbe con parole equivalenti indicare. Del resto combinate pure, modificate ed analizzate queste e quante altre passioni volete, tutte allo stesso modo e con la stessa legge si esprimono; e quell’analisi, che delle precedenti abbiam fatta, e l’applicazione della stessa teoria e degli stessi principî possiamo e dobbiam fare a tutte quelle altre loro specie o modificazioni, che abbiamo omesse. Egli è perciò necessario il continuare questo genere di osservazione e di studio che solo può fornirci la cognizione più estesa ed esatta del carattere distintivo e sensibile di ciascuna passione, e dell’espressione propria che le conviene. Ed a quest’uopo riserberemo le seguenti riflessioni.

Capitolo VIII. §

Osservazioni e studio delle passioni ne’ fenomeni della natura e nei monumenti dell’arte.

[8.1] L’analisi e la teoria delle passioni giova a determinarle e classificarle, esponendone l’origine, la filiazione e la convenienza degli effetti e delle cagioni, riducendo ad uno o a’ principî più semplici tutti i loro fenomeni. In tale studio noi troviamo assai più la ragione che le osservazioni di fatti, ancorché l’una dall’altra assolutamente dipenda. L’artista vi ricerca principalmente que’ modelli caratteristici delle passioni che non sono se non i fatti particolari ed universali trasformati e ridotti. Ma questo non basta all’esercizio dell’arte sua. Egli debbe, il più che può, particolareggiare e individualizzare gli oggetti della sua imitazione. E perciò quei primi o generali modelli debbono regolarlo nel moltiplicare ed ordinare le sue osservazioni particolari per trascegliere e dipingere quelle fra le altre che meglio al fine dell’arte sua corrispondono.

[8.2] Quindi risulta la utilità e necessità di apprendere la espressione più sincera e reale delle passioni nel libro della natura, o togliere da questo quei tratti particolari nuovi ed originali, che qualunque altro studio non potrebbe in verun conto fornirgli. E così la teorica renderebbe più spedita, e più sicura la pratica; e in questo modo tutti i migliori artisti si sono formati e sono riusciti eccellenti nell’arte loro.

[8.3]Leonardo da Vinci, secondo che ne certifica G. P. Lomasco, “non faceva moto in figura, che prima non lo volesse vedere nel vivo. Egli si dilettava molto di andare a vedere i gesti de’ condannati, quando erano condotti al supplizio, per notare quegli inarcamenti di ciglia, e quei moti di occhi e della vita. Ad imitazion del quale stimerei cosa espedientissima, che il pittore si dilettasse di vedere fare alle pugna, di osservare gli occhi de’ coltellatori, gli sforzi dei lottatori, i gesti degli istrioni, i vezzi e le lusinghe delle femmine di mondo, per farsi istrutto di tutti i particolari”. Si narra che il marchese di Siveri napoletano, il quale intendeva assai meglio l’arte di rappresentare, che quella di comporre le sue commedie, e che per l’ordinario sacrificava all’interesse delle rappresentazione quello della composizione, si tratteneva sovente in mezzo alla plebe estemporaneamente osservante e parlante per meglio apprenderne ed imitarne i tuoni, gli atteggiamenti e le maniere più espressive e più naturali.

[8.4] Ma questa medesima osservazione deve esser fatta con giudizio e con metodo. Perché riesca efficace e profittevole è necessario in prima che si trascelgano quegli originali, che più fra gli altri si prestano alle mire e al disegno dell’arte. Non tutte le nazioni, né tutti gl’individui hanno in questo genere la stessa attitudine. La natura non parla e si esprime in tutti egualmente; perlocché conviene osservare i più naturalmente sensibili ed eloquenti. Socrate ritrovava gli Ateniesi a tutte le altre genti superiori per la bontà della voce, per la forza e le belle proporzioni del corpo.

[8.5] Quello che più Socrate diceva degli Ateniesi fra gli antichi possiamo ben dirlo egualmente degli Italiani fra’ moderni. Questi per la loro costituzione organica, e specialmente pel torno de’ loro articoli, per l’energia delle loro passioni, e per la finezza delle loro sensibilità hanno l’eloquenza della fisonomía e della pronunciazione vocale e visibile. Engel riguardava l’Italia come una sorgente perenne ed inesauribile di espressioni, e più volte consiglia l’osservatore a raccoglierle e consultarle. E se egli avesse potuto debitamente osservarle, avrebbe rettificato in più luoghi le sue teoriche. Fra gli europei è certamente il francese quello che più si accosta all’italiano; ma spesso l’arte e l’eleganza dell’uno non superano il naturale e la forza esente di sforzo, dell’altro. I viaggiatori ci assicurano, che nel viso degli Ottaiti le affezioni si esprimono assai più vivamente che su le nostre fisonomie europee.

[8.6] Ma non basta lo scegliere le persone più atte ad esprimersi, ma bisogna osservarle e sorprenderle nel momento, in cui la passione è nel suo accesso, e tutta si dispiega quanta e qual’è. Lo stato ordinario dell’uomo non presenta di tali fenomeni, che sono gli effetti d’impressioni e di bisogni non ordinarî. Ove questi per avventura lo assalgono, la passione che giaceva come addormentata o poco sensibile, tutta spiega la sua forza, e i suoi mezzi, e l’espressione riesce più viva, più risentita, e conforme al fine ed alla cagione, a cui si rapporta, ogni qualvolta non le si oppongono la natura e l’instituzione.

[8.7] La natura le si oppone, allorquando alla specie od al grado della passione non corrisponde o tutto o in parte l’espressione della persona per qualche imperfezione della sua organizzazione interna ed esterna. La natura, siccome in tutti gli altri esseri, lascia talvolta in certe persone alcuni organi difettosi o non abbastanza perfetti, che perciò non possono interamente prestarsi a tutta servire la passione che li comanda. Allora l’espressione o per difetto o per eccesso, diventa o manchevole o esagerata, e quindi anch’essa imperfetta. Così può nuocere egualmente all’espressione e la poca e la troppo sensibilità, che la renderebbe o fredda o convulsiva. Tante altre volte le espressioni di passioni diverse, ed anche contrarie, sono così vicine e facili a scambiarsi fra loro, che spesso nostro malgrado, o per vizio dell’organo, o per associazione di movimenti, o per contratta abitudine, ad alcune passioni rispondono l’espressione contraria. Così accade alcuna volta su la tastiera del piano forte alla mano del sonatore, che non è abbastanza esercitata e sicura. Descartes aveva osservato quanto il moto del pianto è vicino a quello del riso, e si è detto di Michelangelo, che con un semplice tratto di pennello trasformasse un viso ridente in piagnevole. Ed è pur nota la singolarità di quel tapinello, il quale chiedendo l’elemosina componeva siffattamente la fìsonomia, che, volendo eccitare la compassione, eccitava il riso, contrario alla sua intenzione e a’ suoi bisogni.

[8.8] Tante altre volte la natura, per sé bene organizzata e disposta, viene alterata e guasta dall’instituzione. Ond’è che l’influenza di certe opinioni e di certi costumi contrasta e stempera siffattamente l’espressione di alcune passioni, che queste o non si manifestano affatto, od appena si affacciano, come fra le nubi la luna, annebbiate ed equivoche. Allora una seconda natura succede alla prima, assai più debile e incerta, o mascherata e fallace. Quindi certe passioni, che nella prima erano tutte spiegate, vivaci e sincere diventano nella seconda soffocate, languide, manierate. I così detti grandi apprendono ed esercitano nella nuova scuola l’arte e il talento di non mai apertamente sdegnarsi, e di celare e mentire l’odio, il timore e qualunque altra simile affezione, che sarebbe imprudente o poco dicevole il far trapelare, e di non dar luogo a quelle altre, che alla pietà ed alla benevolenza appartengono. Allora l’espressione, che a tali passioni si riferisce, è fredda per se stessa, o, ch’è peggio, mentita e falsa per arte. E perciò si è detto più volte, che, anziché i grandi, i cortigiani e le persone formate per brillare al gran mondo, bisogna osservare i fanciulli, i selvaggi, i popoli, ch’è quanto dire le persone semplici e incolte, che sono i modelli più sinceri, in cui può e dee studiarsi la vera espressione delle passioni.

[8.9] E perché non si abusi di tale considerazione, che, presa troppo assolutamente, potrebbe riuscire inesatta e male applicata, è da notarsi che certe passioni si modificano secondo le circostanze varianti de’ tempi, de’ paesi e delle persone, per cui in un tempo, in un paese, in certe persone domina piuttosto una maniera di sentire che un’altra. Per la qualcosa una certa specie di passioni, e di un certo grado si riguarda come più propria di una certa epoca o stato, che più propinguo alla natura si reputa; e così altre specie e gradi, ad altre epoche o stati si attribuiscono, che da questa prima vieppiù si allontanano. Quando adunque si dice la natura alterata e corrotta noi intendiamo di riferire l’una epoca all’altra, che tutte egualmente alla natura più o meno spiegata appartengono. Secondo questo rapporto ciascuna ha il suo carattere proprio, le sue passioni, le sue espressioni. Bisogna dunque osservare eziandio e paragonare tutte l’epoche, e dare a ciascuna quello che le conviene di proprio.

[8.10] Risulta quindi che le passioni e l’espressione de’ nostri grandi non sono né deggiono esser quelle de’ grandi de’ tempi di Pericle, siccome né pur queste eran quelle de’ tempi di Omero. E sarebbe assurdo e ridicolo il ricercare negli eroi del nostro secolo e delle nazioni presenti le passioni e l’espressioni degli Achilli, degli Agamennoni, degli Ajaci, degli Ulissi, degli Ettori ecc. L’errore consiste adunque nel ricercare e supporre negli uni quella passione, che o non conoscono, o non esprimono intera, e che gli altri fortemente sentivano ed apertamente spiegavano. E per la stessa ragione vi ha delle nuove passioni ne’ personaggi moderni, le quali ancorché più o meno fittizie, riflessive e circospette hanno anch’esse il loro carattere, la loro forza ed espressione. E se la passione è strana e veemente, e quale dobbiamo principalmente osservarla, essa pur si fa largo a traverso delle opinioni predominanti e dei comuni riguardi, e tutta nell’espressione si manifesta. Con tali massime noi crediamo che si debbano studiare utilmente i modelli originali della natura, scegliendone il luogo, il tempo, e l’individuo conveniente, per raccoglierne quelle utili osservazioni, che all’intera espressione delle grandi passioni appartengono.

[8.11] Per vie meglio osservare e gustare con maggior finezza i modelli della natura possono ancora giovar grandemente i modelli dell’arte, la quale ha saputo trasceglierli ed imitarli. In questa non solo si trova una copia della natura, ma della natura scelta ed imitata nell’aspetto più interessante. Sotto questo rapporto lo spettacolo di questi monumenti delle belle arti si può riguardare, non solo come un gabinetto de’ fenomeni più singolari dell’espressione, per bene studiarla e conoscerla, ma bensì come un certo criterio di paragone per meglio osservarla e gustarla su’ modelli della natura. Ogni artista, come puro imitatore della natura, si è studiato di notarne ed esporne gli effetti più importanti e maravigliosi, e spesso, come osservatore diligentissimo ed instancabile, l’ha sorpresa e sperimentata in certi rincontri non ordinari, in cui ella era per avventura più indulgente, più espressiva e più bella.

[8.12] Or quanti di tali fenomeni non ci sono offerti dalla pittura? Le forme grandiose e terribili di Michelangelo, le sempre varie, veraci e vaghissime di Raffaello, l’espressive del Caraccio, le nuove di Appiani e di David, le opere in somma e i disegni de’ Le Brun, de’ Poussin ecc. quanti e quali modelli di espressione non ci presentano a contemplare? Quello che io dico della pittura dee dirsi egualmente della scultura. Molte statue, bassi rilievi ed incisioni ci ha mandato l’antichità, degni di essere ammirati e studiati; e se questi come tanti altri monumenti ci fosser mancati, noi possediamo oramai le opere del Canova, che hanno tutto dell’antico, fuorché l’età.

[8.13] Quanto più tale statue vagheggi e contempli, credi che si movano e parlino, e ti sembrano quasi animate. Esse ti mostrano quel che sentono, o piuttosto quel che sentiva l’artefice allorché vi trasfuse per animarle tutta l’anima sua. La favola di Pigmalione simboleggia l’effetto verissimo che dee produrre la contemplazione di sì maravigliosi monumenti dell’arte.

[8.14] Le stesse osservazioni si possono ancora moltiplicare dalla lettura e dallo studio degli storici e de’ poeti. Infiniti quadri essi pur ci presentano di diversi caratteri e passioni dagli uni fedelmente narrati, dagli altri vagamente imitati, e tutti tratteggiati dalle espressioni più proprie e significanti. Erodoto, Tucidide, Senofonte, Sallustio, Tito Livio e Tacito, siccome Omero, Ovidio e Virgilio tra gli antichi, e Dante, l’Ariosto e il Tasso, fra i moderni, infiniti modelli ci somministrano di passioni che hanno veramente esistito, o che sono state artificialmente ideate. Noi ne abbiamo dato alcun saggio con gli esempi, di cui ci siamo finora giovati per determinarne alcune espressioni. E l’artista diligente non dee cessare dal raccogliere e meditare tali osservazioni, che sono tanto più interessanti quanto più sono rare e straordinarie. Il sig. di Marmontel proponeva tra gli altri quel tratto di Virgilio su la morte di Didone, quale esempio efficacissimo agli attori, che si trovassero in simile situazione. Ma quanti non ne offre Dante a chi sappia leggerlo ed imitarlo?

[8.15] Fin qui tali osservazioni non ci offrono fuorché le figure, le tinte, i rilievi e la descrizione di alcune parti dell’espressione, conforme i mezzi propri che adopera ciascuna arte. Lo scultore col mezzo di certi atteggiamenti e di certe forme ci offre alcune figure, ma mancano la tinta, l’accento e il corredo di quelle altre circostanze esterne, che concorrono a renderle più verisimili.

[8.16] Non mancano tali mezzi al pittore, ma non può neppure egli adoprar tutti i contorni e i rilievi delle figure, che adopera lo statuario. Quindi l’uno e l’altro con le forme reali e più o meno simili, che possono mettere in opera, ci obbligano ad immaginare e supporre quelli che realmente vi mancano. Oltre che per quanto perfetta riesca la loro espressione, essa è sempre simultanea, e a un punto solo si limita. Lo sviluppo successivo ne spiegano lo storico ed il poeta; sostituendo però i segni vocali ed arbitrari a tutti i mezzi reali, che gli altri artisti adoprano in parte, e di cui essi mancano affatto. Ma la sola arte, che tutti tali mezzi simultaneamente e successivamente impiega e combina, si è la declamazione, la quale si vale di tutti gli organi della persona per conseguire il suo fine; e perciò la sua espressione diventa la più completa e perfetta, e tocca il massimo grado della imitazione.

[8.17] Gli eccellenti attori possono dunque riguardarsi anch’essi come altrettanti modelli passivi dell’arte loro. E noi dobbiamo osservare in essi la varietà degli atteggiamenti, dei tuoni e dei gesti per sempre più accrescere la cognizione ed il dizionario di questa lingua, onde usarne ed applicarla a tempo e debitamente. Demostene consultava i migliori istrioni dei tempi suoi;

[8.18] Cicerone studiava su Roscio; e Roscio ed altri, non trascuravano di ammirare Ortenzio ed altrettali oratori per apprenderne l’azione più eloquente e più propria. Io non dubito che gli antichi artisti si giovassero gli uni degli altri a vicenda; e siccome Fidia, Apelle e Parrasio accorrevano ai teatri e all’arena per osservare gl’istrioni e gli atleti, così questi alle officine di quelli pure accorrevano per apprenderne le mosse o più significanti o più dignitose. Io non so se Timante sia stato il primo a copiare il viso di Agamennone nel quadro del sacrificio di Ifigenia; ma quel che è certo si è che i poeti e gli attori hanno ripetuto più volte la medesima espressione.

[8.19] Possiamo dunque sicuramente conchiudere che non solo dai modelli della natura, ma eziandio dai monumenti dell’arte possiamo e dobbiamo raccogliere moltissime osservazioni, che l’indole, lo sviluppo e gli effetti delle passioni riguardano. E così avvezzandoci a contemplar la natura negli originali trascelti e nelle copie più esatte, non pure apprenderemo a ben conoscerla, ma ci disporremo altresì a ben imitarla.

Capitolo IX. §

Bello dell’espressione naturale. — Verità.

[9.1] Il filosofo osserva i fenomeni della natura, e ne cerca la dipendenza e la ragione, l’artista li trasceglie per imitarli. Questi dee dunque avere un principîo e una regola per trascegliere ed imitare. Lo scegliere importa un paragone, ed una ragione da preferire l’uno o l’altro oggetto che voglia imitarsi; e si è detto e si dice comunemente che l’artista non isceglie ed imita, che la bella natura. Or qual è questo bello? ed in che veramente consiste?

[9.2] In generale, niuna cosa è sconcia ed impropria rispetto all’ordine universale. Tutto in esso è quale debb’essere; e sarebbe sconcia ed impropria quella sola cosa che s’immaginasse tutt’altra ch’essa non è nella medesima circostanza, ond’è risultata qual è di presente. In questo senso tutto è bello in natura, o, ch’è lo stesso, tutta la natura è bella per sé.

[9.3] Ma avendo noi determinati i generi e le specie degli esseri, e dato a ciascuna classe i loro fini e le loro leggi particolari, e prescindendo dal concorso delle altre circostanze, che ordinariamente impediscono l’intero adempimento di queste leggi e di questi fini, ossia l’intero sviluppamento delle forze e facoltà di questi esseri, che a tali generi o specie appartengono, noi distinguiamo alcuni individui come più o meno perfetti degli altri, in quanto più o meno ubbidiscono a tali leggi, e conseguiscono i loro fini. Dal conflitto degli altri esseri cooperanti risultano quindi certi difetti che si notano in alcune opere della natura; ed ancorché sia ciascuna perfetta rispetto all’ordine universale, può l’una essere più o meno perfetta dell’altra individualmente paragonata, riguardo al fine particolare del genere o della specie, a cui l’una e l’altra appartengono. In questo senso noi diciamo comparativamente l’uno più bello e perfetto dell’altro.

[9.4] Fra tutti gli esseri che più o meno corrispondono ai loro fini, e che sono più o meno belli e perfetti dei loro simili, ve ne ha certuni in particolare, i quali prescindando dalla corrispondenza ai fini loro, per se stessi grandemente dilettano. Essi presentano una percezione od immagine, sia semplice, sia complessa, che non mai si presenta scompagnata dalla sensazione del piacere. Così piace un colore, una figura, un fiore, una persona ecc., e tali oggetti sensibili si dicono propriamente belli, perché universalmente piacciono ed interessano. E questo genere di esseri è quello che suol dirsi la bella natura, che gli artisti ordinariamente vagheggiano e imitano, che in tutti i tempi ed in tutti i luoghi apparisce costantemente la stessa. Ora essendo tutti gli oggetti della natura più o meno complessi, quelli interessano più che hanno più elementi atti a produrre insieme lo stesso piacere. E limitandoci all’espressione patetica, che è l’oggetto delle arti imitative, e prescindendo dalla figura o dal subbietto passivo, a cui l’espressione si aggiunge, ed a quella particolarmente attenendoci, che dall’espressione unicamente dipende, io dico che a renderla bella possono, anzi debbono concorrere tre elementi indispensabili, armonia cioè delle parti, efficacia dei segni, importanza del significato.

[9.5] Per quanto una persona sia ben formata e bella in tutte le sue parti, la sua attitudine come espressiva non sarà mai bella, se tutte le parti non corrispondano al loro fine comune, e quindi per tal rispetto non si accordino e si armonizzino insieme. Questo carattere sembra fondamentale e comune ad ogni genere di bellezza; e senza di esso qualunque bellezza di forma rimane sterile e inutile, né basta a palliare o nascondere la sconcezza dell’espressione. Noi veggiamo sovente delle donne vaghissime, che appena si movano o par lino perdono tosto l’incanto della loro bellezza apparente. E per lo contrario altre persone sotto forme men belle, rendono gratissima la loro espressione per l’armonia degli elementi che la compongono. Tale era l’espressione di Laura secondo il Petrarca:

E con l’andare e col soave sguardo
Sì accordati le dolcissime parole
E l’atto mansueto, umile e tardo.

[9.6] Parimente l’Ariosto ci dipinge lo stesso bello nell’immagine dell’ipocrisia:

Avea piacevol viso, abito onesto,
Un umil volger d’occhi, un andar grave,
Un parlar sì benigno e sì modesto,
Che parea Gabriel che dicesse: ave.

[9.7] Allorché Garrick diceva di quell’attore francese, che rappresentando la parte di un ubbriaco, che non aveva ubbriache le gambe come tutto il resto della persona, intendeva di notare, che l’azione di lui non era del tutto eguale, conforme ed armoniosa. Tutto il corpo essendo animato dallo stesso principîo, tutte e ciascuna parte di esso debbono corrispondere alla stessa azione, talché anche quella parte che si riposa, o si tace rispetto alle altre, non cessa perciò di comporsi in una maniera conveniente alla circostanza; e così lo stesso silenzio e riposo diventa analogamente espressivo, e compie il quadro dell’espressione conveniente. E cresce l’effetto di questo accordo con l’efficacia o vivacità dell’espressione. L’espressione si riguarda non solo come un composto di più elementi ridotti ad uni tà, ma altresì disegni, conspiranti allo stesso significato, e tanto ci apparisce più bella, quanto tutti e ciascuno impiegano tutte le loro facoltà per manifestarci quello, che altrimenti rimarrebbe oscuro ed incerto. Quindi deriva la evidenza del suo significato, e la facilità della nostra intelligenza, che accrescono il nostro diletto, quanto più chiaramente ed agevolmente ci si presenta l’oggetto, a cui serve l’espressione. A che gioverebbe l’accordo più armonico, se poco o nulla significasse? La stessa armonia che pur ci diletta, e comprende molto apparecchio e molta arte, o cessa di dilettarci, od anche ci annoja, allorché poco o niuno è l’effetto a cui si destina.

[9.8] L’espressione, essendo armonica e significante, non può separarsi dalla natura del fine a cui serve. Ella ne prende il colore, l’indole e l’importanza, e tanto più c’interessa e diletta, quanto più c’interessa l’obbietto invisibile che ci presenta. Alcune affezioni dell’animo sono più belle, perché più nobili e generose. Quindi l’espressioni che vi corrispondono diventano belle del pari, perché contraggono il carattere di quelle qualità. In questo modo il segno si veste anch’esso della bellezza del significato. Ed ecco perché certe espressioni appajono più belle di alcune altre dello stesso genere, perché la specie delle une è più interessante della specie delle altre, per la differenza del loro significato, ch’è più interessante nelle prime che nelle seconde. L’ira di Achille ci piace dunque assai più che l’ira di Tersite; e perciò le attitudini ch’esprimono quella specie d’ira, ci piacciono ancor più che le altre. Così un’espressione di dolore, di timore, di gioja ecc., diletta più nell’uno che nell’altro, e più in questo che in quel momento, e più a questo che a quell’uso, perché l’effetto, il fine e il significato dell’uno è più generoso, magnanimo e interessante che quello dell’altro.

[9.9] Io reputo questa, se non la sola, la principal ragione per cui i romani s’interessavano tanto negli spettacoli dei gladiatori, applaudendo quelli che dignitosamente soccombessero, e diridendo quegli altri, che non soccombesser del pari. Essi deridevano non già il poco accordo o la poca forza dell’espressione, ma la poca dignità del carattere della persona, ossia la debolezza ch’ella mostrava negli ultimi suoi momenti. Quel ricoprirsi il viso in tempo, come fé Cesare spirando a pié della statua di Pompeo, quel prendere un’attitudine che indicasse il contegno forse superiore di chi soccombe, ci offrirebbe un carattere che meriti l’ammirazione e gli applausi degli spettatori. Ed ecco perché il dolore di Ajace, di Filottete e di Ercole ci piace assai più che quello di qualunque altro, che non esprimesse una forza di carattere equivalente.

[9.10] Alcuni limitandosi unicamente all’espressione visibile e materiale, e poco o nulla badando alla natura ed efficacia del significato, o della passione a cui serve, hanno raccolto e notato certi accidenti e modi particolari, che in certi casi riuscivano belli e dilettevoli, e che originalmente appartengono alla figura della persona, o a qualche passione particolare che li determina. Quindi il bello dell’espressione fu limitato all’effetto di certe linee e di certi moti piuttosto curvi, che retti, piuttosto orizzontali e dolcemente ondolanti, che perpendicolari e bruscamente interrotti.

[9.11] Dietro tali principî il Riccoboni aveva dato varie regole agli attori, ed ancor più l’Hogarth a’ pittori; e così di mano in mano tutti gli artisti le hanno accresciute e moltiplicate. Né si avvedevano ch’essi violentavano e sformavano l’espressione, condannandola a prendere certe forme, che se sono vere, convenevoli e belle in certi incontri, sarebbero in tanti altri false, sconce e bruttissime. E ciò sempre addiviene ove si vogliano empiricamente generalizzare certi fenomeni particolari, per non saperli ridurre a’ loro veri principî.

[9.12] L’espressione è cooperativa, dovendo unicamente servire alla sua destinazione; non può prendere se non sempre quella direzione, attitudine o forma, che sono le più efficaci ed acconce a conseguire il suo fine. Ed ogni altra sarebbe difforme, insignificante, bruttissima; e così viceversa. Il perché siccome sta bene all’amore l’inchinar dolcemente la persona, ed incurvare lievemente le braccia verso l’obbietto che si desidera, perché intendiamo di assimilarci ed unirci ad altri, e teneramente abbracciarlo e possederlo, così tali movimenti ed attitudini sarebbero riprovevoli nel terrore e nell’ira, sia che fuggiamo od assalghiamo l’obbietto abborrito e temuto.

[9.13] In generale ogni desiderio sceglie i mezzi i più efficaci, e quindi i più facili ed i più brevi, ed anche i retti o curvi, gli orizzontali o perpendicolari, che sono più adatti e necessari a conseguire l’intento. Chi fugge un pericolo si move per la via più corta e spedita, chi è incerto va saltellando e cangia ad ogni tratto la sua direzione; chi minaccia o ascolta, si trasforma in quelle attitudini aspre e violenti, che sono dall’impeto suggerite.

[9.14] Parimente l’espressione riguardata come imitatrice ed analoga prende il carattere della passione, alla quale si riferisce. Quindi errano pur coloro, che il carattere del bello da certe forme e movimenti graziosi, morbidi ed eleganti fanno dipendere, i quali sono allor belli, che convengono alla passione a cui si rapportano. Ond’è che ove questa li richiedesse aspri, crudi, veementi sarebbero quelli sconci e bruttissimi. La passione si dipinge nostro malgrado nella figura, nella postura, nel movimento; e non possono questi o propriamente od impropriamente non esprimere più o meno la natura di quella, che li produce. Che se ancora in tali passioni forti e violenti noi amiamo quelle espressioni, che ritengono pure dell’elegante, del grazioso, del morbido, ciò accade perché questo temperamento essendo analogo al carattere della persona, ci richiama tali affezioni pregevoli, che malgrado la passione dominante e diversa, che non può del tutto distruggere, ci rendono l’espressione più interessante e aggradevole. Ed ecco come l’espressione ripete di nuovo il suo interesse e il suo bello dalla passione che imita.

[9.15] Dalle considerazioni già fatte noi possiamo dedurre, che il bello naturale dell’espressione consiste nella sua verità e nell’importanza del suo significato. E di fatti, s’ella è vera, e perciò corrispondente veracemente alla passione che annunzia, tutti gli organi debbono corrispondere allo stesso fine, e quindi ciascuno debbe accordarsi ed armonizzarsi con l’altro, e formare uno stesso disegno. E ciò riguarda non pure la qualità che la quantità dell’espressione; per cui essa nelle parti e nel tutto debba essere non pure analoga, che proporzionata alla sua cagione; e perciò esclude ogni difformità ed ogni eccesso o difetto; ch’è quanto dire, ch’ella debb’essere tale e tanta, quale e quanta è la passione che la produce e determina. Bello e vero sono in tal caso sinonimi; e questo bello prende forza e vigore dall’importanza dell’obbietto che espone ed imita. Quindi l’espressione sarà più bella quando è più importante il significato che imita, e più veraci i mezzi che adopera a questi fini.

Capitolo X. §

Bello dell’espressione artificiale. — Spontaneità.

[10.1] Questa espressione naturale, che c’interessa e diletta in tanti modelli della natura e dell’arte, è appunto quella che l’artista si studia di trascegliere, o di ripetere o d’imitare. Ed, imitandola, non si contenta per l’ordinario di copiare esattamente l’originale quale esiste di fatti nella natura, ma gareggiando in certo modo con essa, ed aggiungendole quello ch’ei suppone mancarle, procura pur dal suo canto di più abbellirla e di migliorarla. Quindi concepisce un genere e un tipo di perfezione, secondo il quale dà l’esistenza e la forma ad opere ed esseri nuovi, e degli ordinari e reali assai più belli ed interessanti.

[10.2] Sia il confronto delle parti, che il bello naturale costituiscono, e per cui a quel che meno diletta nel complesso di alcune, si sostituisce quello che diletta più nel complesso di altre; sia la virtù di certe facoltà o ferme intellettuali, che la producono e la determinano; sia piuttosto e più facilmente quel principîo di perfettibilità indefinita, la quale dal bene si argomenta ed immagina il meglio, e dal meglio l’ottimo, o quella sorte di meglio possibile, che dietro ogni bene attuale s’immagina e si desidera; egli è certissimo che l’uomo, osservando e raccogliendo il bello della natura, può concepirlo, tratteggiarlo, ripeterlo e renderlo con l’imitazione ancor più perfetto. Or sia alcuna di queste, o tutte insieme, o qualunque altra la ragione di un tal fenomeno, niuno può dubitare della realità di esso; perocché o in se stesso l’esperimenta, allorché lo produce, o l’osserva nelle opere dell’arte, allorché con quelle della natura le paragona. In questa maniera dalle tante osservazioni che fa l’artista sul vero si forma un mondo ideale, che mentre è verisimile, perché sul reale formato, è di questo assai più bello ed interessante; ed in questo mondo ideale dee pur cercare l’espressione, il suo tipo.

[10.3] Pare dunque che un tal tipo altro non sia che un estratto del vero della natura combinato col probabile e col possibile, che meglio servono al fine dell’arte. Il migliorar la natura non può in altro consistere che in accrescerne e disvilupparne le forze ordinarie tanto nel fisico, quanto nel morale, allora ne diventan gli effetti più risentiti, maravigliosi ed interessanti non pur nell’intensità, che nella durata. In questo modo si sono formati i caratteri o generi poetici, personificati sotto l’apparenza di alcuna immagine o nome individuale; e quindi si sono ad un tempo nobilitate e perfezionate idealmente le passioni, le virtù e i vizi medesimi, elevandoli ad un livello superiore, e purificandoli da quegli elementi eterogenei, che con quelli per l’ordinario si mescono e si confondono. Per la qual cosa il giusto e l’iniquo, il magnanimo e il perfido ecc., del mondo ideale è più giusto o più iniquo, è più magnanimo o perfido di chi sia tale nel mondo reale. Tali sono gli Achilli, gli Agamennoni, gli Ulissi, i Neottolemi, gli Enea, i Turni, fra gli antichi; i Goffredi, i Tancredi, gli Arganti, i Rinaldi ecc., fra’ moderni. E questa specie di perfezione immaginata e artificiale tanto più ci diletta, quanto che rappresentando il vero sotto la forma del verisimile ci rappresenta ad un tempo il nuovo che diletta pur sempre, ed il nostro miglioramento, che pur tanto lusinga il nostro amor proprio. Pare dunque che il tipo del bello artificiale altro non sia che un estratto del vero della natura combinato col probabile e col possibile, che più interessi e diletti. Ma perché questo tipo abbia un termine più o men diffinito non dee allontanarsi dal tipo reale, se non quanto il comporti il possibile ed il probabile, che più giovi all’indole ed al fine dell’arte. Il perché non può ben determinarsi il tipo ideale di ciascuna arte, se prima non si determini qual fine l’arte propongasi in particolare, ossia qual’effetto e per quai mezzi essa voglia e deggia produrlo. Da questa analisi risulterà qual sia il bello proprio di ciascuna arte, o qual sia l’obbietto, il carattere e il grado dell’espressione complessiva, che ciascuna arte vuole imitare, e specialmente la declamazione.

[10.4] In generale tutte le belle arti vogliono imitare la bella natura, ma non tutto lo stesso obbietta con gli stessi mezzi, o per lo stesso fine. La declamazione vuol piacere illudendo. Il suo fine proprio par dunque la massima illusione prodotta con l’espressione conveniente. Ella dunque dee trascegliere la illusione più dilettevole, e l’espressione più efficace a produrla. Da questa convenevolezza del tipo concepito e della sua esecuzione col fine che si propongono risulterà la convenevolezza, la proprietà ed il bello artificiale dell’espressione, che la declamazione richiede.

[10.5] La pittura, la scultura e la statuaria non possono imitare l’espressione successiva, quindi si limitano a presentarci i corpi e le figure consistenti nello spazio, l’una con colori e con tratti di estensione variamente e distintamente colorati, e l’altra con forme solide; ma l’una e l’altra dove più, dove meno contraffanno alcune parti della natura, ma non sì da illuderci pienamente.

[10.6] All’incontro la poesia, valendosi di segni successivi ed arbitrari, imita principalmente le azioni che nel tempo via via si succedono; e se tenta descrivere la bellezza dei corpi, che nel simultaneo complesso di più elementi consiste, procura di ottenere il suo intento, più dagli effetti ch’essa produce, che dalla rappresentazione o piuttosto descrizione successiva di quegli elementi, che complessivamente la costituiscono. Quindi è la differenza dei tipi obbiettivi, che questa e quelle si formano, idealizzando, per servirmi della frase di Lessing, quelle i corpi nello spazio, e questa le azioni nel tempo. E per quanto sia la forza maggiore della poesia essa non giunge a presentare gli oggetti che descrive, ma ne risveglia le immagini.

[10.7] Così pure la mimica con l’uso di gesti pittoreschi, e significanti, e finanche la musica con la melodia ed armonia di suoni vocali e strumentali hanno tentato di tratteggiare alcuna parte della poesia, da loro più o men maneggevoli. Ma per quanto l’una e l’altra procurino di lusingare nell’uno o nell’altro modo, più o meno imitando, non tutte egualmente possono esprimere quel verosimile che si propongono, sì che al tipo originale adeguatamente rispondano.

[10.8] Quest’effetto vien tutto e solamente riservato alla declamazione drammatica. Essa immagina ed eseguisce i suoi tipi con corpi simili e con azioni successive; perlocché la sua imitazione è del tutto completa, ed è anzi una reale ripetizione del tipo ideale. Quindi non solo può imitare gli oggetti della pittura, della scultura, della poesia propriamente descrittiva, della mimica e della musica, ma presenta altresì gli stessi corpi e le stesse azioni nello spazio e nel tempo; sicché niuna differenza si osserva tra il segno ed il significato, ossia tra la persona imitante e la persona imitata. Di là nasce quella sorta o grado d’illusione, che ci fa prendere il verisimile e l’ideale pel vero e reale, ed anche le altre arti, per quanto procurino di avvicinarvisi, non possono giunger pur mai; perocché essa presenta l’obbietto imitato quale e quanto è; mentre le altre appena ne accennano alcuna parte, sicché per mezzo di questa ne richiamino pure qualche altra invisibile, che con quella più o meno probabilmente si associi; e quindi si valgono di segni o naturali o arbitrari per avvicinarsi il più che possono al tipo loro. Il tipo adunque della declamazione si confonde ed immedesima nell’esecuzione; e di essa può, anzi dee dirsi, che cerca o verifica il tipo medesimo che preconcepisce.

[10.9] In questa intrinseca differenza delle arti imitative sta la ragion vera, perché talvolta quel che può imitarsi e piace imitato dall’una, o non può imitarsi, o non piace egualmente, od anche spiace moltissimo imitato dall’altra. Primamente questa sorta di illusione esclude ogni ombra d’impossibile e d’improbabile, che immantinente l’annienterebbe. Se tutto il magistero della declamazione consiste nella illusione, come mai potrai ottener questo effetto, se ella non è fatta per conciliarsi la tua credenza? L’epressione sarebbe allora in contrasto con l’oggetto e con se medesima, che è quanto dire, assurda e ridicola. E qui non intendo solo di quel probabile e possibile, che tutte le belle arti richiedono, ma bensì di quel relativo, che propriamente alla declamazione appartiene in particolare. V’ha di certi incontri e di certe attitudini, che possono convenevolmente descriversi dalla poesia, ed anche imitarsi dalla pittura e scultura; ma non possono egualmente esprimersi dalla declamazione senza distruggere l’illusione, che vuol produrre. Essi non sono per sé improbabili ed impossibili, ma riescono quasi tali per la differenza di eseguirli con quei mezzi, che dalla declamazione si adoperano. Tali obbietti non possono essere rappresentati senza riuscir strani ed incredibili, e quindi non possono esser belli e aggradevoli. Come rappresentare credibilmente il gruppo maraviglioso di Laocoonte? Come alcuni scorci, o morti, o accidenti stranissimi, che fanno il merito di alcuni quadri di Michelangelo, di Raffaello, del Vinci? Secondariamente v’ha di certi obbietti che, riguardati nel vero o troppo da presso, sia per la loro figura apparente, sia pel significato a cui si rapportano, o tosto o alla lunga ci disgustano e infastidiscono. Ma questi medesimi imitati dalle arti e riguardati a traverso di queste, diminuiscono più o meno tale impressione ingrata a misura che l’imitazione o la copia si va allontanando dal tipo reale. Per la qual cosa la poesia e specialmente la musica possono imitare, senza pericolo di dispiacere, alcuni oggetti, i quali spiacerebbero sicuramente imitati dalla pittura, e specialmente dalla scultura e dalla statuaria, le quali per certi riguardi possono più che la pittura imitare il reale ed il vero. Or massimo sarebbe un tale effetto, se la declamazione imprendesse a produrlo, perché niun’arte, più ch’essa, può rappresentarci e quasi verificare l’oggetto imitato. E perciò certe espressioni, che più o meno ci dilettano ed interessano descritti, non ci dilettano ed interessano del pari dipinte o scolpite, e molto meno volontieri si soffrirebbero dalla declamazione imitate. La sua completa imitazione, la sua maggiore efficacia, la sua stessa perfezione diventerebbe imperfezione e difetto, e nuocerebbe al fine dell’arte; perocché la sua illusione medesima riprodurrebbe l’effetto di quella sensazione ingrata, che il vero in tal caso produce, e che le arti debbono prudentemente sfuggire.

[10.10] Par dunque manifesto che la declamazione non debba imitar tutti quegli obbietti ed attitudini, i quali, ancorché veri, potessero dispiacere mediatamente per la loro figura, o immediatamente pel loro significato, e quindi respingere quel grado d’illusione, che il fine e il bello dell’arte costituisce. Prometeo, a cui un avoltoio rode tranquillamente le viscere, Medea che trucida i suoi figli, Oreste che assassina la madre, Edipo che si strappa gli occhi ecc., ci urterebbero di soverchio, e il piacere dell’illusione rimarrebbe distrutto dal dispiacere della verità. Parimente queste stesse attitudini, che possono facilmente imitarsi, non debbono essere spinte dall’attore a quel grado, in cui, quantunque vere, sogliono ordinariamente spiacere, sia perché stranamente disformano la figura, sia perché ci rappresentano passioni per sé ignobili, disgustevoli. Le Furie di Eschilo, che fecero sconciare più donne incinte, dovettero un tale sconcio alla troppo viva espressione degli attori che le rappresentavano. Siffatte espressioni, ancorché verissime, ed anche belle, ove sieno dal poeta descritte, perdono il loro effetto imitato dall’attore, perocché il senso ingrato che in noi risvegliano tende a respingerci e distornarci da quella vista, o ci scuote e ci fa combattere l’illusione, che lo produce per riconfortarci con l’idea del falso; e questa idea, distruggendo l’effetto dell’arte, dall’interesse e dal pianto ci mena al disprezzo ed al riso. E questo forse volea intendere Orazio, allorché diceva:

Quodcunque ostendis mihi sic, incredulus odi ecc..

[10.11] E qui pur si noti, che per gli stessi principî, quell’espressione, ch’essendo permanente spiacerebbe alla lunga nella scultura e nella pittura, può interessare nella declamazione, dove diventi passaggiera e si confonda con le altre, che successivamente la temperano e l’addolciscono. Essendo transitorie nella declamazione non danno luogo né tempo sufficiente a produrre lo stesso effetto. E perciò certi atteggiamenti e tuoni per sé spiacevoli e alla lunga insoffribili, accomunati e temperati con quelli che precedono e seguono, servono anzi ad accrescerne la varietà e l’armonia, e fanno anch’essi quel che nella musica vocale e strumentale, le dissonanze. Il perché se l’attore non può, né dee tutte imitare l’espressioni, che descrive il poeta, può, e dee felicemente imitare molte di quelle che sfuggono lo scultore ed il pittore.

[10.12] Difficil cosa è poi il determinare quel grado di espressione, la quale, ancorché verisimile, pure possa non dilettare ed anche spiacere; siccome ciò dipende dalle impressioni che ordinariamente fanno negli uomini, e queste impressioni possono alterarsi secondo le circostanze e l’indole degli uomini stessi, possono e debbono molto influirvi l’uso, l’opinione e l’istituzione. E spesso questi elementi esercitano tanta forza che sensibilmente si cangia fra le nazioni ed i secoli il senso e l’idea del gusto, del bello e delle arti; ond’è che alla prima una seconda natura viene quasi a sostituirsi. Io dico dunque che ogni artista, e l’attore principalmente, dee rispettare l’opinione e l’uso predominante della nazione del secolo, ma in guisa però che la prima natura venga abbellita e migliorata, e non già guasta e distrutta dalla seconda, ed ove questa sia pur corrotta, la rimeni prudentemente al tipo più sincero della prima. Ed in caso di conflitto giova sempre piegar piuttosto dalla prima che dalla seconda. Dalle precedenti considerazioni io raccolgo l’idea più propria del bello dell’espressione, che alla declamazione appartiene. Ella comprende la bella espressione della natura ancor migliorata, probabile ed efficace a produrre quella specie d’illusione a cui è destinata. Il suo carattere distintivo sarebbe dunque la sua verisimiglianza, che non potrebbe verificarsi senza la coesistenza degli anzidetti elementi.

[10.13] Or questo tipo di bellezza artificiale vien concepito dall’immaginazione del poeta, e s’egli fosse attore ad un tempo, qual era di ordinario appo gli antichi, e come taluno è stato appo i moderni, siccome Shaskespeare, Moliere e Garrick, egli medesimo lo eseguirebbe; niuno più di lui avrebbe il talento e il diritto di determinarlo. Ma ove l’attore e dal poeta distinto, ei non può altronde ritrarre il vero modello della sua espressione, che dalla mente del poeta che lo ha concepito. Il perché tutto il carattere e le parti più minute dell’espressione dall’opera e dalle parole dell’autore debbono ricavarsi; e l’attore per tal rispetto non è, né debb’essere, se non che l’interprete fedele, ed il cieco esecutore del tipo di quello, sicché la sua imitazione non ne sia che una pretta ripetizione. E perciò sarebbe sconcio gravissimo il dare all’espressione sia totale, sia parziale una qualità ed una forza che all’idea dell’autore ed al senso della parola non corrispondessero, o tradissero il senso e la correlazione di quella, che precedessero o susseguissero. Ma è la natura o l’arte, o l’una e l’altra insieme, o più l’una che l’altra che produce un tal magistero? Io passerò a questa disamina donde tali idee potrem raccogliere, che gioveranno ancor più a determinare praticamente il bello naturale ed artificiale dell’espressione.

Capitolo XI. §

Combinazione della natura e dell’arte.

[11.1] Il tipo dell’espressione artificiale si debbe esattamente comprendere ed eseguire. Nella combinazione ed esercizio di questi due doveri tutta sta la perfezione pratica dell’arte che si vuol professare. È perciò necessaria la conveniente intelligenza ed attitudine per conseguire l’intento.

[11.2] La sola intelligenza non basta, se gli organi esterni non la obbediscono. Ma anche ove questi la obbediscono ciecamente non fanno sempre quell’effetto che far dovrebbero. Cicerone, fra gli altri, avea notato nell’ordine degl’oratori questa distinzione che i confini o l’impero dell’arte e della natura volgarmente costituisce: Sed sunt quidam aut ita lingua haesitantes, aut ita voce absoni, aut ita vultu motuque corporis vasti atque agrestes, ut etiamsi ingeniis atque arte valeant, tamen in oratorum numerum venire non possint. Sunt autem quidam ita naturae numeribus in iisdem rebus habiles, ita ornati, ut non nati secl ab aliquo eleo facti esse videantur. Or quanto più dee ciò dirsi degli attori?

[11.3] Spesso con la più bella figura e con la più elegante organizzazione, e con lo studio e con l’artifìcio più squisito, manca un certo che, che dà l’anima e la vita all’espressione. Tale era l’espressione che Socrate trovava nelle statue di Clitone prive di moto. Tali pur sarebbero state le statue di Archita e di Alberto Magno, se anche avessero ottenuto dall’arte il moto successivo e la voce; esse avrebbero sempre mancato di ciò che nelle sue desiderava Pigmalione, ch’è quanto dire, sarebbero sempre macchine inanimate ed automi, capaci di sorprendere e dilettare co’ loro movimenti, ma non mai di sentire, e di far sentire quel che sentono. Or quanti attori ci appariscono tali? Se la Clairon non ha esagerato quel che ella notava delle sue scolare

[11.4]Dubois e Raucourt, queste non erano riuscite se non macchine imitatrici della maestra: Il n’a point de peine que je ne me suis donnée pour former mademoisellesDubois etRancourt. J’en appelle à tous ceux qui les ont vues. Mes charmantes écolieres ont elles été des grands sujets? Helas! malgré mes soins et tout ce qu’elles tenaient de la nature, je n’en ai jamais pu faire que mes singes. Quindi è che le più belle espressioni originali nell’uno, ripetute religiosamente dall’altro, diventano in questo fredde, infeconde, prive di effetto.

[11.5] Questo carattere di originalità che si vuol dare all’espressione, par che consiste nell’identificarsi della persona nel tipo ideale che vuole verificare, sicché non paia di semplicemente imitare, ma di operare veramente. Alcibiade aveva sortito questo talento dalla natura, e, secondo il bisogno e le circostanze, prendeva i costumi, le attitudini e le maniere che più gli tornassero in acconcio.

[11.6] Quel che si è detto di Vertunno e di Proteo dovrebbe verificarsi da ogni abile attore, che dovesse prender le forme di tutti quei caratteri, che volesse o dovesse imitare. E perciò si attribuivano più anime a quel mimo che solo rappresentava una favola di cinque persone. Questo fenomeno maraviglioso suppone tale disposizione nel cervello, nel cuore e negli organi esterni che ne dipendono, che appena il cervello concepisce l’evidenza del tipo, il cuore lo dimostra siffattamente, che tutto, quale e quanto è, dagli organi esterni si esprime. Io chiamo questa disposizione, che nell’organizzazione interna ed esterna consiste, spontaneità.

[11.7] Per siffatta spontaneità tutta la persona s’investe di quelle forme, e diventa tutt’altra che prima non era, e un nuovo spirito in sé sperimenta, che al di dentro vivamente agitandola si diffonde pure al di fuori, ed a quanti gli stanno presenti pur si comunica. Ed è questo quello spirito che per gli effetti straordinari che esso produce in chi lo possiede, suole chiamarsi genio, entusiasmo, trasporto, e che sotto forme diverse ora ammonisce Socrate sotto nome di demone, or discute col Tasso sotto forma di voce umana, ed ora si presenta agli uni ed agli altri sotto immagine di fuoco o di tal altro specioso fenomeno; ed era pur quello che ha sempre animato i grandi artisti, e che animava i Baron, i Le Kain ed i Garrick.

[11.8] Esso ha tutti i segni di un fuoco elettrico, che subitamente si sveglia nell’animo dell’artista, e, fortemente agitandolo, si propaga per tutto il corpo, si trasfonde e comunica a quanti incontra.

[11.9] Esso attraversa, impiega e crea nel bisogno degli organi nuovi, per mezzo de’ quali penetra e si caccia per i più cupi recessi del corpo umano, e si annunzia per mezzo di un certo palpito e fremito interno, che pur conturba e diletta, e quindi si trasporta ne’ tratti, negli accenti e nei moti più delicati ed espressivi della persona; e dispone e forza chi pur gli osservi e contempli, a modificarsi con lui secondo quella forma archetipa ed esemplare che ha preso nella sua origine. Quindi sono quei tratti di luce e di fuoco, che per la loro evidenza ed efficacità sorprendono, atterriscono e violentemente travolgono chi li riceve, che è l’effetto ordinario del bello congiunto al sublime. Allora l’imitazione in tutti gli astanti diventa un bisogno, e si rinnovano i fenomeni degli Abderiti, e di quell’illusione, che è l’effetto prodigioso dell’arte.

[11.10] Gli effetti rarissimi di questa virtù straordinaria l’hanno fatta credere quasi tutta opera della natura e del cielo. Ed essa certamente suppone in chi la possiede tali facoltà, che per non esser comuni a’ più, né facili ad apprendersi da molti, sembrano piuttosto innate che acquisite. E questa opinione, che confermavano ognor più le difficoltà dell’arte e la meraviglia de’ suoi effetti, la fece abbandonare al solo talento della natura, ed in questo modo si trascurò e degradò l’arte, la quale non era né dovea essere che la natura medesima, quantunque si voglia ben disposta e organizzata, e quindi dal giudizio osservata, migliorata dalla riflessione, e dall’esercizio perfezionata. Lasciamo dunque di esaminare, se l’arte o la natura soltanto, o più l’una che l’altra sia utile e necessaria all’artista, quistione che si offre soltanto a chi non sa definirne lo stato; e supponondo invece che la natura non avesse negato all’attore quelle qualità, che l’arte preliminarmente richiede, mostriamo con più profitto in che modo l’arte medesima possa e deggia svilupparle, adoperarle e perfezionarle.

[11.11] Io dico dunque che l’arte, presa nel suo vero senso, concorre anch’essa a sviluppare e dirigere quella virtù che sembra dipender meno da lei. Essa la desta e l’alimenta sopita e debole, e, fortificandola, le fa vincere gli stessi ostacoli che le si opponevano o l’ingombravano: pur la signoreggia e governa, poiché è svegliata; sì che l’arte medesima par tante volte che trionfi della natura. Così colui che parea fatto tutt’altro dalla natura, tutte ne supera le difficoltà, o piuttosto tutte ne dispiega le segrete disposizioni, e diventa il prodigio della greca eloquenza, e il flagello e il terror di Filippo il Macedone. E per più riguardi lo stesso avvenne eziandio di Baron, e di tutti quegli attori più o meno celebri, i quali a forza di arte e di studio sono giunti a meritare l’ammirazione e gli applausi degli spettatori. Oltreché qualunque disposizione debbe essere instancabilmente esercitata per acquistare quello sviluppamento e quella forza di cui possa esser capace. Dee perciò l’attore assuefarsi a concepire, a sentire ed esprimere quelle idee e quei sentimenti, che sono il soggetto dell’arte sua. Il perché bisogna esporsi all’azione delle grandi passioni, se si vuole maneggiarle ed imitarle opportunamente. Ed è questa la ragione per cui Orazio raccomandava ad ogni artista: Si vis me fiere, dolendum est primum ipsi tibi.

[11.12] Io non trovo per tale esercizio un mezzo più efficace della lettura di quelle opere, nelle quali gli autori hanno diffuso quel fuoco, onde vogliamo esser rianimati: e tali sono tutte quelle, in cui vengono tratteggiate le grandi passioni siffattamente, che non puoi non restarne fortemente commosso leggendole, e sì t’interessano come se gli accidenti che ti presentano fossero veri, ed anzi più o meno ti appartenessero. A tutti sono da preferirsi gli storici, ed a questi i poeti, ed in quelle opere principalmente, in cui signoreggiano il patetico, il grande, il sublime. Né qui si vogliono riguardarli per semplicemente notare e raccogliere quell’espressioni, che hanno date alle passioni da loro descritte, ma bensì per esperimentare tutto l’effetto che esse producono, e così per appassionarsi ed interessarsi su quanto essi vivamente e caldamente ci espongono, per abilitarci insomma a compassionare, a piangere, a sdegnarci, ad inorridire e a fremere secondo il bisogno e le circostanze. Quale e quanta forza non esercitano su l’animo la storia di Livio, di Sallustio, di Tacito? Quale e quanta i poemi di Omero, di Virgilio, di Dante, del Tasso, del Fenélon? Lo stesso effetto ed anche maggiore produce la frequenza del teatro, e la virtù de’ buoni attori. Sotto la ripetuta azione ed impressione di tali accidenti quasi magici, l’anima di chi sa contemplarli si accende, si solleva e ricrea, e si dispone a riprodurre e moltiplicare gli stessi effetti su gli altri.

[11.13] Guai per colui che nulla sentisse alla prova di questi efficacissimi esperimenti! Egli non sarebbe capace di genio, egli non potrebbe acquistare né comunicare quel calore e quell’anima che non ha. Noi possiamo ripetere al giovane attore quel che al musico diceva G. G. Rosseau: Veux-tu donc savoir si quelqu’ etincelle de ce feu devorant t’anime? Cours, vole à Naples ecouter les chefs d’oeuvres deLeo, deDurante, deJommelli, dePergolese. Si tes yeux s’emplissent de larmes, si tu sens ton coeur palpiter, si des tresaillemens l’agitent, si l’oppression ge soffoque dans tes trasports, prendsMetastase, et travaille; son génie échauffera le tien; lu créeras à son example: c’est là ce que fait le génie, et d’autres yeux te rendront bientôt les pleurs que les maîtres t’ont fait verser. Mais si les charmes de ce grand art te laissent tranquille, si tu n’as ni délire ni ravissement, si tu ne trouves beau ce qui trasporte, oses-tu domander ce que c’est le genie? Homme vulgaire ne profane point ce nom sublime. Que t’importerait de le connaître? Tu ne saurais le sentir. Ed era di tempra sì dura o piuttosto sì stemperata quell’attrice, a cui la maestra dicea per porla nello stato di un’amante tradita: Si vous étiez abandonnée d’un homme que vous aimeriez tendrement, que feriez-vous? Moi, repondret l’actrice à qui ce discours s’adressoit: je chercherais au plutôt un autre amant. En ce cas, répliqua la maîtresse, nous perdons toutes deux nos peines. Je ne vous apprendrai james à jouer notre rôle comme il faut.

[11.14] Ma se l’attore arriva a sentire e sviluppare questo genio, non ha più bisogno di arte quanto nel momento che n’è dominato. Imperocché in ogni altro genere di imitazione può l’artista avere il tempo di esaminare e correggere quel che ha fatto, ma l’attore non può ciò fare, se non sia sorpreso al momento ch’egli declama. Se la passione si spiegasse a tale, che divenisse trasporto cieco, o furore, ogni effetto sarebbe perduto, e ciò accade per l’ordinario a tutti quelli che si abbandonano a tutto l’impeto del sentimento, senza aver l’arte necessaria di governarlo e moderarlo prudentemente secondo il bisogno. E tale riuscì quel mimo il quale, rappresentando il furore di Ajace, fé dire ch’egli non rappresentava un furioso, ma ch’era tale difatto. E perciò il celebre Eckoff non mai si muniva di tanta prudenza quanta allora che doveva esprimere le passioni più forti. Dee in tali casi l’attore tutta sentirne la forza, ma dee avere, ad un tempo tutta l’arte di regolarla convenientemente ed accomodarla al suo fine. Esso debbe animare e rilevare l’opera dell’arte, soffocarla, ma non distruggerla per eccesso. L’arte insomma dee in certo modo creare e regolare la natura, e dopo averla abbellita, migliorata e perfezionata, tutta natura apparisca, ed essa che tutto fa nulla si scopra.

Capitolo XII. §

Carattere generale dell’attore tragico.

Contegno e tuono conveniente.

[12.1] Finora abbiamo considerato l’espressione sotto un punto di vista generale; è ormai tempo di applicarla particolarmente all’attore tragico. Sotto questo rapporto ella soffre nuove modificazioni, che la rendono propria di lui, e costituiscono la natura della declamazione tragica.

[12.2] Il genere tragico viene determinato da un certo che di grande, di sublime e straordinario, che comunicandosi a tutte le parti della tragedia, ci dipinge e presenta come tali non pur le persone, che l’azione e gli accidenti, che ne dipendono. Quindi risulta quel carattere eroico, che qualifica tutto ciò che alla tragedia appartiene. Lo stesso delitto, non che la virtù vi prendono un’aria di magnanimo e di maraviglioso, che li toglie in parte quell’aspetto ributtante, ch’è proprio della sua natura. La tragedia insomma si eleva ad un ordine di cose, che certamente non è comune, e fa dell’uomo che rappresenta, un eroe, cioè un essere medio fra i mortali e gli Dei. Ed a questo tipo di natura eroica debbono accomodarsi i caratteri, le passioni, le sentenze, lo stile, e quindi la pronunzia che anch’essa dee darle la sua espressione conveniente. Tali sono le persone ideate ed esposte da Eschilo, da Sofocle ed Euripide; tali erano pur quelle di Omero; e perciò dopo la lettura di questo, gli altri uomini a chi sembravano piccoli e meschini con quelli paragonandoli, ed a chi più grandi dell’ordinario, per l’idea vantaggiosa che da quel divino poema ne avevano attinta.

[12.3] Egli è ben vero che questo carattere tragico, che più a quei tempi si conveniva, si è venuto sempre più alterando, e quasi addimesticando con l’incivilimento delle nazioni, che perdono di grandezza e di forza, quanto più acquistano di eleganza e di incivilimento, e che a misura che per tal verso si degradano e si ammolliscono, non possono credere ed apprezzar ciò che sembra dalla loro presente condizione diverso affatto o contrario. Quindi la tragedia da quel grado di elevazione, a cui era montata riguardo al suo obbietto e al suo fine, venne anch’essa a poco a poco retrocedendo, e cominciò a familiarizzarsi con persone, passioni, caratteri, stile e sentenze, che nell’antico non sarebbero state sofferte, e spesso non fu che una commedia nobile, ossia di persone volgarmente credute grandi, e ch’erano in sostanza vilissime. Io non pretendo perciò che la tragedia debba assolutamente circoscriversi a quella età, che più a quella natura eroica si adattava o si avvicinava, e che perciò non debbe trattar quelle cose e quegli accidenti, che ai popoli posteriori appartengono, od all’età nostra più si avvicinano; ma bensì ch’essa debbe più o men conservare la sua original dignità, e che per quanto i costumi, le passioni o i caratteri sieno lontani e diversi, debbe loro improntar quella forma, di cui sono essi più o meno capaci, e che al suo tipo più o meno gli assimili. Non fu il caso o il capriccio, ma l’esperienza e la riflessione che determinò questo genere presso gli antichi. Più che altra cosa la poetica di Aristotele, ben intesa, prova abbastanza quanto io qui non posso che semplicemente accennare.

[12.4] Quel carattere eroico da loro dato agli accidenti e alle persone tragiche era per essi necessario a produrre quel terribile e quel sublime, che era lo scopo indispensabile della loro tragedia. Ond’è che tutti i poeti che si sono distinti in questo genere, anziché abbassar la moderna tragedia al carattere dei tempi, onde prendevano l’argomento, si sono studiati di elevar quel carattere al livello dell’antica tragedia, e darle quella maggior dignità, che più potea combinarsi con le circostanze del vero, onde ottenere quell’intento che la tragedia si dee proporre.

[12.5] Da questo principîo importantissimo molte conseguenze si traggono intorno all’uso della declamazione propria, finora o non ben avvertite, o malamente applicate. L’espressione debbe esser dunque in tutte le sue parti conforme al carattere eroico, e propriamente tragico. La persona, il tuono, l’atteggiamento, l’incesso, tutto dee annunciare una condizione certamente non ordinaria e volgare. Scorriamone le qualità principali. La prima è certamente una taglia nobile e vantaggiosa. Omnibus barbaris, notava Curzio, in corporum majestate veneratio est; magnorumque operum non alios capaces putant, quam quos eximia specie donare natura dignata est. Lo stesso criterio avevano gli antichi Germani, secondo Tacito. Non è perciò che dentro un picciolo corpo non annida un’anima grande e superiore; ma tutti i popoli sono più o meno barbari per tal rispetto: essi si misurano e si argomentano la grandezza invisibile dalla visibile. E si sa che la stessa regina Telestri, allorché vide Alessandro, che non era di statura sì vantaggiosa, ne rimase alquanto sorpresa, e lo giudicò minor della fama. E siccome il tipo dell’arte quello migliora della natura, niuno eroe ci hanno presentato gli artisti, che non fosse di una forma autorevole. Urget presentia Turni. Gli scultori non danno più di sei piedi alla grandezza naturale d’un uomo; ma l’eroica la fanno montare da quel termine fino a dieci, oltre il quale termine comincia la statua a divenir colossale. L’ab. Batteux notava su tal proposito: “Mentre si rappresenta una tragedia romana io ben conosco col mezzo dell’istoria un Bruto ed un Cassio come fieri cospiratori, che la fama mi mostra nella distanza dei tempi, quali eroi di una taglia più che umana; ed io veggio all’incontro sotto i loro nomi una figura mediocre, una taglia meschina, una voce gracile e sforzata; io dico dunque all’istante: No, tu non sei Bruto”.

[12.6] Il pubblico si previene sinistramente contro ogni attore, la cui persona non corrisponde a quel carattere che rappresenta; e contrastando la figura e la taglia col carattere e le sentenze, manca l’illusione, e si produce invece il disprezzo ed il riso. A tempi di Luciano un attore assai meschino, rappresentando la parte di Ettore, fé tosto domandare agli spettatori quando Ettore sopravvenisse, non essendo quegli da quanto appariva, che il fanciullo Astianatte. E per lo contrario di un attore stranamente alto, che rappresentava Capaneo sotto le mura di Tebe, fu detto che non avea bisogno di scala per espugnar la città. Così ad un troppo grasso che si sforzava di saltare: Bada di non rompere il palco; e ad un altro assai magro: Pensa a guarirti.

[12.7] Infiniti accidenti simili potrebbe darci la storia dei moderni teatri, e che tutti ci provano quanto sia necessario all’attore tragico l’aver la figura siffatta che non solo non abbia difetti notabili, ma si concilii un conveniente rispetto da chi la riguardi. Né giova il dire che i personaggi veri che s’imitano o rappresentano avessero di tali imperfezioni; e che tali quali erano gli avesse rappresentati Shaskepeare, il quale introdusse Riccardo zoppo su la scena. Imperocché se le arti imitative, e massimamente la declamazione tragica, non servono al vero, ma a quel verisimile, il cui tipo dee migliorare e abbellire il vero, non possono dar luogo a tali virtù senza allontanarsi dal loro fine. E di fatti lo stesso esempio di Shaskepeare, ed il merito e la necessità di quell’attore, che ha osato farne lo sperimento, non sono stati sufficienti ad impedire il cattivo successo, che siffatte imitazioni storiche hanno riportato su le stesse scene inglesi. Il perché ove tali sconci caratterizzassero personaggi storici, il poeta e l’attore debbono porre ogni opera ad imitare la prudenza di quel pittore, il quale ritrattò di profilo colui ch’era privo d’un occhio.

[12.8] La figura e la taglia, quali noi le richiediamo, ci vengono donate dalla natura, ma queste qualità corporali punto non giovano, se dalle morali che annunziano, non sieno veramente animate e sostenute. Si richiede perciò quel contegno e quel modo che annunzii nella persona un’anima non comune, e di una condizione superiore, quale ai personaggi ideati e supposti si conviene. Ed era questa forse quella specie di decoro, di cui parlava Cicerone nel lib. I. De Oratore, e che era per Roscio il fondamento dell’arte, e la sola cosa che per l’arte, secondo lui, non si poteva insegnare. I poeti ne hanno fatto un privilegio de’ numi. Sotto qualunque forma li facciano comparire gli accompagna sempre questo decoro. Omero, anche allora che più gli assoggetta all’imperio delle passioni più violente, e quasi gli adegua alla condizione dei mortali, onde piangono, tremano, si combattono e si feriscono, trasparisce pur sempre di mezzo a tali accidenti l’indole loro superiore. Tale appariva Apollo, quantunque pastore, condannato a guardar le greggi di Admeto; e questo al certo sarebbe il dono migliore, che i numi far potessero ad un attore. Or questa dote non esiste per certo in quelle anime basse e servili, che sembrano destinate a tutt’altro mestiere, che all’arte nobile che professano. A quanti di loro potrebbe farsi la stessa dimanda che fece a non so chi quel tal danzatore di cui parla Elvezio: Di qual paese sei tu? e, quegli rispondendogli essere inglese:Come! tu inglese? ripigliò l’altro fortemente maravigliandosi:tu di quell’isola, i cui abitatori sono a parte dell’autorità sovrana? No; quella fronte bassa, quello sguardo timido, quell’andare incerto ti accusano per un miserabile schiavo titolato di qualche elettore. Ma come dare o sviluppare quella forza di carattere, che tutta nobilita la persona, che la possiede, e che dovrebbe essere quella di ogni uomo vero, se le opinioni, i costumi, l’educazione e la patria tendono ordinariamente a distruggerlo in chi l’avesse della natura sortito? Se si reputa modestia l’avvilimento, e decenza, dovere e necessità il servir suo malgrado, il dissimulare e il fìngere? La Clairon non avea torto allor che diceva:Si l’on ne trouve en moi qu’une bourgeoise, pendant vingt heures de la journée, quelques efforts que je fasse, je ne serai qu’une bourgeoise dansAgrippine. Mon ame affaissée par l’habitude d’une tournure craintive et subordonnée, n’aura que momentanément ees élans de grandeur, qu’il faut au róle que je représente.

[12.9] Ma non è perciò necessario, e talvolta potrebbe riuscir anche ridicolo, che la persona si tenga sempre violentemente montata, ed affetti questo artificio fuor della scena. Forse la stessa Clairon diede in questo eccesso, per cui era detta comunemente la regina di Cartagine. Si dice che Le Kain avesse risposto in tuono tragico all’inchiesta che gli si fece su la salute di non so chi.

[12.10]Dhannataire parla pure di un cotale attore, che, assumendo in tempo il tuono della declamazione, fu creduto un uomo di corte, e si fece liberamente passare da una sentinella che guardava il passo. Ma queste ed altre tali bizzarrie possono anzi pregiudicare all’effetto che l’arte vuole produrre. Imperocché non dee l’attore mostrarsi fuor della scena qual su la scena dee solamente apparire, se non vuol diminuire quel grado d’illusione, che dee su la scena produrre. Lungi da siffatte caricature, l’attore dee possedere un animo nobile, capace di fargli tutta sentire l’importanza e la dignità di quei caratteri che debbe rappresentare. E perciò Baron solea dire, cheun attore dovrebbe essere educato su le ginocchia delle regine; ed egli avrebbe detto ancor meglio delle matrone romane, quando il lusso ed i vizi, non aveano pur anche corrotto l’indole e la virtù. Senza una tale istituzione, o si perde o men si acquista quella forza di animo, per cui l’attore apparisce qual debbe nel mondo civile e drammatico.

Capitolo XIII. §

Del tuono proprio della declamazione tragica.

[13.1] Quello che abbiamo di sopra osservato intorno all’importanza delle qualità corporali e morali dell’attore tragico si dee più particolarmente al tuono della voce applicare, nel che la declamazione principalmente consiste. E perché su tal particolare o variano più, o s’intendono meno coloro che ne han ragionato, io mi studierò di meglio determinare i principî onde essi abusano, e l’applicazione che se ne dee fare. Supponendo alcuni che la declamazione rappresenti il colloquio di persone, che tra loro conversano, hanno concluso che il tuono di essa non deggia scostarsi dal tuono ordinario della conversazione. Ma essi non si avvedevano, così concludendo, che la conseguenza era troppo generale e maggiore del principîo, per altro verissimo, da cui partivano. Se qualunque specie di declamazione dee fondarsi principalmente sul tuono ordinario della conversazione, questo tuono dee accomodarsi alle persone, alla circostanza, all’argomento della conversazione che si vuole imitare. Il perché tanta distanza dee passare fra il tuono ordinario ed il tragico, quanta è quella che passa fra le persone volgari, che alla commedia, e i personaggi e gli eroi, che alla tragedia appartengono. E questa differenza riconobbero fra gli antichi Platone, Aristotele, Cicerone e Quintiliano, e con essi tutti quelli, che di tale argomento trattarono, e che alla tragedia diedero un tuono proprio e dall’ordinario assai più elevato e sostenuto, e quale alle persone interloquenti si conveniva. E sino a’ tempi posteriori, anche allora, che di un tal metodo si abusò per eccesso, fu comunemente chiamato vociferante il tragedo; siccome fra gli altri notava Tertulliano: tragedo vociferante, ed Apulejo: Comoedus sermocinatur, tragedus vociferatur.

[13.2] Né questa specie di declamazione dee unicamente attribuirsi, secondo che Diderot opinava, alla vastità dei teatri antichi ed allo strepito ordinariamente procelloso degli uditori, per cui l’attore era costretto ad esagerare e sforzare il tuono della voce, e declamar fortemente per farsi loro malgrado sentire. Non v’ha dubbio che la vastità dei teatri e lo strepito degli spettatori obbligavano qualche volta l’attore ad elevar la voce, onde accomodarsi alla necessità delle circostanze, siccome Orazio avea notato in quei versi:

                                                 … Quae pervincere voces
Evaluere sonum, referunt quae nostra theatra?
Garganum mugire putes nemus.

[13.3] Ma per quanto si ponessero vasti i teatri, e tumultuanti gli ascoltatori, non erano né questi né quelli pur sempre tali. Ed ancorché tali e sempre e da per tutto fossero stati, la commedia, che si rappresentava agli stessi ascoltatori, e negli stessi teatri, non obbligava gli attori come la tragedia a declamare e vociferare. Oltreché lo stesso Orazio osservando che il tragico prende alcuna volta il parlar pedestre, dovea nel tempo stesso supporre che l’ordinario era sempre il nobile e il dignitoso:

Magnumque loqui, nitique cothurno.

[13.4] Né ciò si applichi allo stile soltanto, e non già alla declamazione, che in ogni caso dee prendere anche il carattere e la forma di quello. E come altrimenti si potrebbe verificare il dovere che Orazio al tragico attribuiva?

           Pectus inaniter angit,
Irritat, mulcet, falsis terroribus implet.

[13.5] E perciò Giovenale del tuono della voce intendeva parlare, allorché diceva:

Grande sophocleo circum baccetur hiatu.

[13.6] Or volendo determinare il carattere proprio della declamazione tragica, ed assegnarle il tuono conveniente, bisogna primamente osservare ch’ella, siccome la comica e qualunque altra drammatica, imitando un linguaggio improvviso e spontaneo, quale a’ veri interlocutori naturalmente conviensi, si trova per tal riguardo sottoposta alle leggi generali e comuni al tuono della conversazione ordinaria. Il per ché l’attore tragico è sempre un interlocutore, siccome tutti quelli che qualunque conversazione sostengono; e perciò dee sempre tener presente, che egli non legge, non insegna, non predica, non arringa e perora, né per apparecchio né all’improvviso, ma semplicemente interloquisce e ragiona, mostrando di dir quel che sente, e di sentir quel che dice. Per la qual cosa dee egli operare ad un tempo tutte le relazioni di quelle inflessioni, passaggi, consonanze e cadenze, che il tuono più significante della conversazione ci detta. Parlano gli uomini, parlano gli eroi, parlano i numi. L’indole generale dell’interlocuzione è comune egualmente agli uni ed agli altri; e quindi risulta un carattere di voce ed un tuono fondamentale ad ogni interlocutore egualmente comune. E questo è il genere drammatico.

[13.7] Ma questo tuono medesimo si dee modificare secondo la condizione di ciascheduno, a cui debbe appropriarsi, e quindi debbe essere dagli uni agli altri gradatamente diverso. E siccome il dialogo tragico non è di persone volgari, che gentilmente novellino o che si intertengano piacevolmente, ma di tali che per la condizione e carattere, e per eccesso di passione debbano sorprenderci, scuoterci, atterrirci e riempirci l’animo de’ sentimenti più generosi e delle passioni più forti; dee l’attore, che di queste si suppone altamente invasato, elevarsi al di là della conversazione ordinaria, e collocarsi nello stato e nelle condizioni di quelli che debbe rappresentare. Le nostre conversazioni non ci offrono i Prometei, gli Agamennoni, gli Ajaci, i Pirri, gli Oresti; ma bensì i Mascarilli, gli Arlecchini, i Tartufi. E or come dare agli uni la condizione, l’espressione ed il tuono degli altri? Se gli eroi tengono il mezzo tra gli uomini e gli dei, e se il tuono di questi non suona mortale, neppure il tuono di quelli dee comparir volgare e plebeo: esso dee esser tale che corrisponda alla forza e alla dignità del carattere eroico, ed all’indole e grado di quelle passioni, che debbon rendere i personaggi tragici straordinariamente appassionati e caldamente operanti. E debbono in questo mezzo contenersi gli attori tragici se vogliono veramente imitare il tipo dell’arte loro, e perciò non possono sentire e parlare, siccome si sente e si parla comunemente. Si fa quindi manifesto che la declamazione tragica, modellandosi originalmente sul tuono della conversazione ordinaria, dee prendere il carattere della persona e delle passioni a cui serve. Debbe esser perciò naturalmente nobile, dignitosa, autorevole; e quindi dee prendere un grado di estensione ed intensità, che non è certamente ordinario. E, più che nell’esecuzione e nell’acutezza, dee nella gravità e nella forza consistere. E da questo temperamento di forza e di gravità risulta, secondo me, quel tuono fondamentale che la tragica declamazione più propriamente determina.

[13.8] Dallo stesso principîo si determina pur la maniera della gesticolazione conveniente. Essa debbe assumere quell’impronta d’importanza e di forza, che sia al tuono della voce proporzionato; e perciò debbe essere per l’ordinario grave e deciso, e per conseguenza preciso e semplice. Ciò esclude i molti movimenti ed atti, che pel loro numero e rapidità offenderebbero a un tempo la dignità della persona e la forza della passione a cui servono. La persona, che molto gestisce, mostra in generale incertezza e leggerezza di sentimenti e di effetti, e quindi debolezza di carattere e di passione; il che si oppone all’indole propria dell’attore tragico. Le parole sono i principali mezzi che debbono esprimere il sentimento col più d’interesse e di forza, che all’indole di questo si addice, e di ordinario precede od accompagna le parole, la fisonomia e lo sguardo principalmente, indi la gesticolazione, ed infine il movimento; e con la stessa progressione procede anche essa l’espressione degli organi anzidetti.

[13.9] Non si confonda però con quella specie di dignità e di grandezza, che da noi si richiede quell’enfasi ed ampollosità che annunzia piuttosto la debolezza e lo sforzo della persona, che crede di supplire con tale artificio a quella forza di animo che gli manca. L’attore tragico vuole esser grande, dignitoso, magnanimo, ma come sicuro in se stesso del suo carattere, non debbe punto affermarsi di apparir tale, come colui che ad ogni istante ne dubitasse. La natura umana, per quanto si sollevi all’eroica, non cessa mai di essere umana. Essa degenera se trapassa i suoi confini; e perciò l’eroismo confina con lo strano, con lo incredibile e col ridicolo; ed è facilissimo lo sdrucciolare dall’uno all’altro. Socrate volendo determinare il carattere del maraviglioso lo distinse da quello dello stravagante che costituisce il mentecatto. E così appella insensato colui che si credesse tanto grande, che passando di sotto alla porta di una città si chinasse, che presumesse tanto nella sua forza da atterrare delle case, che insomma intraprendesse cose che tutti riconoscono per impossibili. Omero, Eschilo, Alfieri ci hanno presentato i loro personaggi come grandi, generosi, straordinari, ma non sono perciò furiosi, stravolti, ridicoli. Ed è questo il giusto contegno che dee prendere e conservare l’attore tragico.

[13.10] Io so bene che in questo argomento sì dilicato e difficile è molto facile l’abusarne per la propinguità, che è fra l’uso e l’abuso. Per poco che si ecceda, si tocca subito lo snaturato, l’ampolloso, l’inverosimile. E siccome gli eccessi si ricongiungono, dal sublime e dignitoso si ruina nel basso e ridicolo. E si crede che a questo eccesso dia per l’ordinario la declamazione francese, siccome quella che prima e più delle altre ha conosciuta e sentita la natura e la necessità del carattere tragico. Pareva a Pier Jacopo Martelli di osservar nei francesi piuttosto un poeta il quale recita le sue poesie che un attore…; dimodoché par che non solo essi vogliono rilevare la verità dell’affetto naturalmente imitato, ma anche l’artificio e l’ingegno deltragico. Tutti dopo il Martelli hanno ripetuto ed esagerato la stessa imputazione, e spesso con quella caricatura, che mostra assai più lo spirito di parte, che l’amor dell’arte. Il signor Eximano dice pure apertamente di loro che pajono energumeni, che ad ogni atteggiamento vogliono staccar le braccia dal corpo, ed esprimono un affetto di pena con le contorsioni con cui potrebbe un ammalalo esprimere un dolor colico. Ma quel che più importa si è che gli stessi francesi hanno pur riconosciuto appo loro questo difetto. Clement, fra gli altri, ne ha giudicato in questo modo nelle sue Osservazioni critiche al poema della Declamazione teatrale di Dorat: Io avrei solamente deriso i nostri attori ossessi, i quali caricano tutto e non salino parlare se non per convulsioni e fanno patir chi gli ascolta per gli strani loro sforzi di voce e pel dilaceramento del loro petto.

[13.11] Ma se ben si riflette lo stesso difetto è stato pure osservato e conservato agli attori delle altre nazioni e di tutti i tempi, perché era l’abuso più facile e quasi proprio del genere tragico.

[13.12] Eccedettero gli antichi, siccome l’abbiamo altrove notato in persona di quel comico che rappresentò i furori di Ajace. E per ragion de’ moderni Shakspeare notò quell’attore del suo tempo, il quale, rappresentando Erode, voleva essere più furibondo di lui; e nella stessa tragedia deride la declamazione ampollosa e non conveniente alla natura del dramma, e fa dire ad Amleto così: Niuna cosa mi offende più quanto il sentire un autore inparrucca, il quale co’ suoi robusti polmoni lacera una passione a forza di grida, e che vomita alle orecchie di un uditorio ignorante e brontolatore, la cui maggior parte non altro desidera che del fracasso. Engel nota e riprova anch’esso questa ampollosità nella declamazione alemanna, e noi possiamo egualmente attestarla dell’italiana. Dacché questa si trova, più che altrove, decaduta miseramente, i commedianti italiani, ch’erano una volta imitati dagli altri, ora non fanno che imitare il peggio di questi, e si può dire ch’essi fanno per lo più consistere il merito della loro declamazione in una specie di predicazione o di cantilena monotona, esagerata, nojosa.

[13.13] Pare dunque che in tale sconcio sieno incorsi più o meno tutte le nazioni, e tutti gli attori che non sanno guardarsene. Ed io non convengo con quelli, che pur sono molti, i quali, non avendo ben concepito il vero tipo della declamazione tragica, hanno creduto ch’ella fosse presso i francesi ordinariamente caricata ed assurda. Imperocché non avendo essi alcun riguardo né al carattere della tragedia, né al genio della nazione, non hanno abbastanza considerato, che se i francesi danno più che gli altri in quell’eccesso, ciò loro interviene, perché degli altri naturalmente più enfatici, sentono troppo la forza tragica, e per troppo sentirla più facilmente alcuna volta ne abusano. E di fatti sono essi che hanno elevato la declamazione tragica a quel grado, che alla sua natura si conveniva. Dopo il Baron la Francia ha conservato la sua scuola, e lo stesso abuso, in cui ha dato alcuna volta, prova l’esistenza del vero metodo e dell’uso che riconosce e professa. E tendono a quest’eccesso gli Alemanni principalmente. Essi preferiscono tanto la natura ordinaria nei caratteri, nel contegno e nel tuono, che hanno quasi proscritto la straordinaria e l’eroica, che è la scelta e migliorata dall’arte. Per la qual cosa avendo troppo esteso e generalizzato un principîo, altronde vero sotto certi rispetti, hanno sacrificato il genere propriamente tragico al semplicemente drammatico, e, non dovendo con quello tutto rappresentare, hanno voluto tutto rappresentare con questo. Quindi il dramma è divenuto per loro una mera storia rappresentativa, che in altro dalla vera non differisce, se non che questa narra, e quella rappresenta ciò che è ordinariamente accaduto. In questa maniera si è non solamente adottato, ma anche ampliato il sistema di Shakespeare. Imperocché questi aveva innestato il comico al tragico, e gli alemanni vi hanno innestato il cittadinesco ed il pastorale; e quindi per imitar la natura in tutte le sue parti l’hanno guasta in quella che era più interessante e perfetta. Engel fra gli altri condannava assolutamente il tuono della declamazione, e perciò la versificazione, Egli vuole il vero schietto, senza osservare che il vero della storia e della filosofia non è quello della poesia e di ogni bella arte; egli vuole che si imiti esattamente la natura quale è, senza avvedersi che questa severa esattezza ci toglierebbe l’effetto di quel verisimile, il quale s’è più limitato, è più perfetto ed interessante. Così dando maggior latitudine al genere drammatico, veniva il tragico ad essere soffocato e distrutto.

[13.14] Io qui non esamino se debbano anzi escludersi tutte quelle specie drammatiche, le quali sono state introdotte fra il genere tragico e il comico, e che si dicono commedie lagrimanti o tragedie cittadine, e che altri riguardano quali aborti dell’uno e dell’altro genere. Siamo pure indulgenti con coloro che di tali aborti pur si dilettano; ma ci lascino anch’essi un genere che per la sua antichità, per l’effetto che produce, e per la perfezione a cui si è elevato, può ben meritare quei sacrifici, che la sua pratica ne prescrive. Un certo genere di passioni, e quindi di carattere, di sentenze, di stile, di espressione, non può ammetterne altro subalterno, e di genere affatto diverso o contrario, perocché la natura e l’effetto dell’uno, collidendosi e stemperandosi con la natura e l’effetto dell’altro, non avrebbe il suo pieno sviluppamento, né potrebbe spiegare tutta quella efficacia e quell’azione, di cui fosse ciascuno capace.

[13.15] Io credo di avere abbastanza provato quale debba essere il carattere generale della pronunciazione tragica evitando ad un tempo i due estremi dell’ampolloso e del languido. L’attore dee quindi, il più che sa, avvicinarsi alle proporzioni della statura eroica, la quale si allontana egualmente dalla colossale e dalla ordinaria; ed a questa norma debbe accomodare non pure il contegno della persona, che il tuono ed il gesto della espressione. E per quanto questo scorra pe’ suoi gradi e per le sue specie, successivamente ed alternativamente abbassandosi ed elevandosi, e monti dal minimo al massimo termine, ossia dallo stato più semplice al più violento, dee sempre conservare la sua qualità originaria e fondamentale.

Capitolo XIV. §

Carattere speciale dell’attore tragico.

[14.1] Il carattere generale dell’attore tragico ne abbraccia più specie particolari, che più o meno lo diversificano secondo certe relazioni. Quindi si sono stabiliti diversi ordini o classi di attori dello stesso genere, relative alla condizione, al sesso, all’età ed altrettali accidenti delle persone che debbono rappresentare. La forma, l’attitudine, il talento ed il merito de’ rispettivi attori gli ha fatti destinare a quelle classi speciali, a cui parevano più adattati. Io chiamo questi caratteri speciali. Dalla natura e differenza di questi emergono tali doveri, che l’attore non può dispensarsi dal conoscere ed eseguire.

[14.2] La pratica teatrale è adottato e riconosciuto finora le prime e le seconde parti, le parti da sé ed i confidenti, e così quelle di primo uomo e di secondo, di prima e di se conda donna, di padre, di amoroso. Non potendo ciascuno attore, o per natura, o per arte essere a tutte le parti adatto egualmente, né potendosi moltiplicar di soverchio il numero di buoni attori in ciascuna compagnia comica, fu necessario classificarli, assegnando a ciascuno quella specie di carattere e di parti, a cui per natura o per arte si trovasse meglio disposto. Ma infelicemente questa classificazione, da principîo utilissima e necessaria, servì col tempo a promuovere ed alimentare certi privilegi personali, o piuttosto pregiudizi, che lusingando l’amor proprio e la vanità de’ commedianti, hanno grandemente nociuto al progresso ed alla perfezione dell’arte.

[14.3] La migliore classificazione, secondo me, sarebbe quella che fosse a un tempo più semplice, e che meglio servisse al fine, a cui è destinata, e che perciò comprendesse il numero di commedianti sufficiente a rendere completa la loro compagnia. Ora a quali specie più o meno determinate e differenti si potrebbero ridurre i caratteri o le parti ordinarie della tragedia? Forse tutti si potrebbero comodamente distinguere secondo la seguente divisione, cioé di principî o di confidenti, di padri o di madri, di figli o di figlie. E siccome questi caratteri principali possono essere più o meno modificati, io crederei che due modificazioni più generali e più distinte potessero bastare a caratterizzare e comprendere tutte le altre, e che io direi di carattere fiero o tenero. Quindi risulterebbe il seguente specchietto:


PARTI
FIERE, o TENERE.
Principî e Confidenti.
Padri e Madri.
Figli e Figlie.

[14.4] A ciascuna classe si possono dare più o meno individui, e suddividere ancor questi, secondo l’importanza delle parti e l’attitudine degli attori. Ma qualunque sia la classificazione che si voglia adottare, niuna dovrebbe prescindere dalle seguenti considerazioni.

[14.5] Il carattere speciale della parte, a cui si destina il commediante, debbe ammettere certi tratti personali che lo distinguano, e che provengono unicamente dalla natura, e poco o nulla possono affettarsi dall’arte. Per le parti fiere dovrebbe dominare quel carattere di rigore, di fermezza e di ardimento, che la fierezza ordinariamente costituiscono. La figura vuole essere piuttosto secca, i tratti della fisonomia rilevati, l’occhio infossato, lo sguardo truce, la voce cupa, il contegno fermo e risoluto, e le maniere dure ecc. Al contrario la figura avvenente, i tratti amabili, l’occhio sereno, il guardo dolce, la voce piana, il contegno grazioso, le maniere gentili anuunziano il carattere tenero. Modificate queste forme, e fate che domini nella figura, nelle maniere e nel contegno dell’uno la maestà, la gravità, l’impero, ed avrete il carattere principesco; e fate che nel contegno, nella maniera e nella figura dell’altra spicchi un certo che di venerabile, di riflessivo e di assennato, ed avrete il carattere di padre. L’amabilità nelle figlie, e l’amorevolezza nelle madri dee primeggiare, sempre che dalla fierezza non debba essere il loro carattere sensibilmente alterato ecc.

[14.6] Questi ed altri simili tratti generali e pittorici, che debbono in generale caratterizzare gli attori di ciascuna specie, procedono dalla natura, e non già dall’arte, che però può e dee svilupparli e perfezionarli. Come darsi altrimenti la taglia, la figura, la fisonomia, la voce ch’essi non hanno?

[14.7] Gli antichi col coturno, con l’abito e con le maschere potevano alterare ed ingrandire le loro ordinarie proporzioni. Ma noi non possiamo egualmente giovarci di tali artifici, che altronde per molto nuocevano all’effetto teatrale. Appena la voce, il guardo ed il contegno, come più mobili e facili ad alterarsi, possono prendere quelle modificazioni che loro vogliamo imprimere. Ma se queste modificazioni per ridurle al carattere dominante che debbono esprimere, ci costassero moltissimo sforzo, riuscirebbero ingrate, dure, violente, e distruggerebbero quella spontaneità, che è tanto necessaria al bello artificiale dell’espressione; e non potendo, ch’è peggio, nascondere l’artificio e la simulazione sì studiate; darebbero in un’affettazione, che spesso si tradirebbe perla difficoltà di sostenerla a lungo, e bentosto riuscirebbe ridicola ed insoffribile.

[14.8] L’arte e lo studio sviluppano le naturali disposizioni dell’attore, ma sono sempre queste le sole che debbono comparire, e non mai lo studio e l’arte che le sviluppano.

[14.9] Determinata nel miglior modo possibile la massima differenza dei caratteri e delle parti, niuno attore, per quanto si supponga abile nell’arte sua, dovrebbe indistintamente rappresentarli.

[14.10] Imperocché egli non potrebbe rappresentarci con egual successo caratteri di specie troppo diversi o contrari affatto, attesoché per natura e per arte non può trovarsi agli uni ed agli altri egualmente disposto. E se taluno è stato in questa linea privilegiato dalla natura, i Baron e i Garrick sono singolari e rarissimi, ed essi medesimi, se ben si osservi, non riescivano egualmente ne’ differenti caratteri, che o per necessità o per uso dovean sostenere; altronde le abitudini e le arti si sviluppano e si perfezionano quanto più sono limitate e circoscritte. E poi certi miracoli della natura e dell’arte non potrebbero ridursi a regole generali e comuni, che condannerebbero al mediocre molti di quelli che potrebbero l’ottimo conseguire. E supposta tale abilità dalla parte dell’attore, essa non sortirebbe tutto l’effetto possibile dalla parte dello spettatore. Perocché per quanto l’uno si trasporti e trasformi di abito, di contegno, di tuono e di espressione dall’una all’altra rappresentazione, non può cancellare nell’altro la memoria delle impressioni precedenti, che la presente più o meno indebolirebbero o per distrazione, o per contrasto. E tanto più si correrebbe questo pericolo, quanto maggiore sarebbe la distanza dall’una all’altra specie, e certamente sarebbe massima dal genere comico al tragico. Che se l’abilità dei commedianti e la necessità delle compagnie ha più o meno conservato ed ampliato cotesto abuso, non dovrebbe in verun conto soffrirsi che l’attore, che reciti nella commedia specialmente in certe parti più importanti, si vedesse comparire e declamare nella tragedia col pericolo di turbarne e distruggerne l’illusione. Lo stesso Garrick ha provato quanto io dico, non ottenendo tutto l’effetto conveniente sostenendo una parte, per aver rappresentato poco prima un’altra del tutto diversa ed opposta di carattere.

[14.11] Stabilite tutte queste specie, ed assegnate a ciascuna le parti che le convengono, il dovere dell’attore si è di esprimere a un tempo il genere e le specie, a cui egli appartiene, onde l’accordo delle parti, l’unità del disegno e l’armonia del tutto risulta. Prima ciascuna non dee perdere di vista il genere tragico, e per quanto questo si modifichi e si digradi, dee pur serbare in tutte le sue modificazioni e degradazioni il suo carattere primordiale. I confidenti, che sembrano i più remoti della sfera dei personaggi principali, si suppongono pur sempre degni di comunicare con questi: e sarebbe grave sconcio se il poeta non gli avesse come tali concepiti; e più sconcio ancora, se come tali non sapesse l’attore rappresentarli. Oltreché la loro difformità offenderebbe la stessa dignità dei personaggi principali, che non potrebbero non degradarsi alla presenza ed al confronto di siffatti esseri, specialmente ove li debbano chiamare a parte dei loro segreti e dei loro interessi; e sovente perdono gran parte del loro effetto per non essere opportunamente secondati e sostenuti nelle loro rappresentazioni.

[14.12] Forse l’Alfieri per ragione di questo difetto ordinario delle scene specialmente italiane, si determinò di sbandire affatto dalle sue tragedie ogni razza di confidenti, quali esseri contagiosi ed incurabili, capaci di corrompere e render ridicoli tutti gli altri. Così per evitare un difetto estrinseco di pura declamazione, che si poteva più facilmente correggere, espose le sue tragedie a difetti intrinseci e più gravi, che senza l’uso opportuno dei confidenti non possono facilmente, o del tutto evitarsi. Egli dovea soltanto condannare quei confidenti che nulla serbano di comune coi principali, e sono più degni della commedia che della tragedia, ma questa colpa dee solo imputarsi ai poeti, che gli hanno sconvenevolmente adoprati. Ma i confidenti nobili e degni di meritare la confidenza dei principali, non dovevano essere dal teatro stranamente sbanditi. Lo stesso Alfieri, per quanto si fosse lusingato di osservar questa legge, si vide pur suo malgrado necessitato a violarla. E che altro sono essi se non confidenti Perez, Gomez, Pilade, Achimeleck e Euriclea ecc.? Anzicché appigliarsi ad un sistema sì violento ed improbabile, egli dovea piuttosto correggere le imperfezioni ordinarie dei confidenti, e tanto più, quanto che non sono mancati né mancano attori, i quali, anche in tali parti hanno meritato l’estimazione del pubblico.

[14.13]Le Kain era egualmente maraviglioso e nella parte di Orosmane nella Zaira, ed in quella di Pirotoo nell’Arianna. La signora Clairon è stata forse la prima, e quella che più facesse sentire l’interesse e l’importanza nella parte di Erifile nell’Ifigenia di Racine; e certamente dopo l’esempio di lei, le seconde parti ed i confidenti hanno riacquistata quella considerazione, che per inettezza degli attori aveano da lungo tempo perduta.

[14.14] Ma non solo debbono rappresentare il loro genere, ma del pari la loro specie, e ciò vuol dire che il carattere tragico e fondamentale non dee soffocare e confondere lo speciale, che nelle modificazioni di quello consiste. Quindi è che nelle loro degradazioni dee ciascuno conservare il suo posto e il suo grado. Da questa nuova proporzione risulta ancor più l’unità e l’armonia del disegno, per cui tutte le parti conspirano concordemente a far risaltare la principale. In tutti i monumenti più insigni delle belle arti si osserva questo accordo e questo disegno; ma non sempre e sì facilmente nella declamazione. Spesso le seconde parti amano di far sentire piuttosto l’eccellenza dell’attore, che quella della parte che rappresentano. Esse ambiscono di emulare l’importanza e la dignità delle prime parti; e quindi si appropriano un carattere che a lor non conviene. Tu le vedi dolersi, piangere e disperarsi a tale, che più non potrebbe la principale a cui la sventura unicamente appartiene. Io non so di quale attrice intendesse Dhannetaire, la quale nella Merope affettava un tuono di prima parte che affatto non conveniva al carattere semplice di Ismenia. Se la Clairon avesse cercato di sorpassare la dignità d’Ifigenia o di Clitennestra, non avrebbe meritata tutta l’approvazione che meritò nella parte di Isifile. Insomma dalle prime parti insino alle ultime, v’ha una gradazione relativa, che debbono tutti religiosamente osservare. Da Agamennone sino ad Euribate, da Maometto sino ad Omar, da Mirra sino ad Euriclea, quante parti medie non s’interpongono? Ma tutte debbono servire al loro interesse comune, né quindi pregiudicare alle principali, degradandosi troppo, o troppo smodatamente elevandosi. Questa legge si trova osservata dai più celebri artisti nelle loro pitture e sculture, siccome dai poeti nei loro poemi. Nei loro quadri, gruppi e disegni tutte le figure e le persone subalterne concordemente conspirano, perché risalti e primeggi la principale. L’eccellenza adunque delle parti e del tutto sta nell’eccellenza del genere e della specie; e quindi risulta l’unità e l’armonia del disegno.

Capitolo XV. §

Del carattere individuale dell’attore, e sue modificazioni.

[15.1] Noi abbiamo di sopra tratteggiato alcune passioni in ispecie; ma ciascuna di esse ha certe forme particolari, che propriamente caratterizzano e distinguono gli individui che ne sono predominati.

[15.2] Sotto questo rapporto l’amore, l’odio, l’ira, il timore ecc. soffrono differenti modificazioni, e quindi hanno i loro tratti particolari e la loro espressione conveniente. Quindi procedono i diversi caratteri delle persone, avendo ciascuna il suo proprio temperamento, come la sua propria fisonomia; perocché sono tali e tanti gli elementi che li costituiscono, e sì differenti nella loro qualità, intensità e combinazione, che niun temperamento sì fisico che morale ne risulta, il quale si possa con altro scambiare e confondere. Or siccome abbiamo di sopra distinto due generi massimi di caratteri speciali o delle parti, cioè fieri e teneri, così riescono innumerevoli le specie subalterne, e le forme individuali, in cui quelli si possono suddividere. E perciò se sono dominati dalla medesima passione Mitridate, Radamisto, Nerone e Filippo, qual differenza individuale non risulta dall’uno all’altro? Quindi sono i caratteri storici, che il poeta e l’attore imprendono ad imitare.

[15.3] Questo carattere, ch’è personale e permanente, può soffrire delle alterazioni accidentali, secondo il con corso e l’influenza delle circostanze che lo modificano. La forza e l’azione di queste, specialmente, ove sieno straordinarie, l’obbligano quasi che ad apparire tutt’altro. In tali incontri il carattere viene siffattamente combattuto dall’interesse e dalla passione straordinaria, che lo sorprende, che ne rimane soffocato e quasi che spento. Quindi è che Agamennone, nel momento che destina la sua figliuola all’altare, non appar quello che in altro momento contrasta con Achille od Ajace, ed allora che è sacrificato da Clitennestra; così pure Clitennestra, che assassina il marito, non è quella che vuol salvare l’amante e il figliuolo; né Oreste, che assassina la madre ad Argo, si mostra lo stesso allorché salva Elettra nella Tauride ecc. Le situazioni, le circostanze, gli interessi, le passioni sono così differenti, che il carattere dominante delle persone non può non risentirsene, e prendere un’attitudine propria di quella situazione particolare, ed apparire più o men differenti da quelle ch’erano per l’ordinario.

[15.4] Di più lo stesso carattere debbe avere uno sviluppo progressivo e regolare, e quindi spiegare diversi gradi ed epoche distinte, in cui dee apparire più o meno risentito, a misura dell’età, dell’esercizio, se contrarie circostanze non sorgano a combatterlo e raffrenarlo. Per queste ragioni il Nerone che ci presenta Racine non è, né debbe esser quello, che ci ha poi presentato l’Alfieri. L’uno è nella prima epoca, nella quale cominciava ad annoiarsi dei consigli altrui e dell’autorità della madre, ed è per lanciarsi nella carriera del delitto, e l’altro è già in questa di molto inoltrato, e già preferisce a Seneca Tigellino, e si appresta a ripudiare e sacrificare Ottavia per amor di Poppea. Così l’Oreste, che vendica il padre con la morte di Egisto, non è l’Oreste che uccide Pirro per compiacere Ermione. Queste differenze procedono dai diversi gradi, che acquistano i caratteri e le passioni permanenti, secondo l’età e lo sviluppo regolare a cui vanno soggetti.

[15.5] Le forme, che abbiamo distinto finora, ci si offrono dalla storia medesima, pure ve ne hanno alcune, che dobbiamo unicamente al poeta, che modifica e tempera anch’esso il carattere primordiale, che ha tolto in origine dalla storia. Egli prende, a cagion di esempio, dalla storia o dalla tradizione, che ne supplisce il difetto, certi caratteri comunemente conosciuti; e siccome questi all’incontro di certi accidenti straordinari, sieno pur veri o probabili e verisimili, più o meno reagiscono e risaltano o di un modo o di un altro, il poeta si permette di dare un grado più o meno elevato a questa specie di reazione e risalto, che altera sensibilmente il carattere predominante, che assume ed acquista una forma particolare e tutta propria di quell’incontro.

[15.6] Perlocché noi veggiamo sovente lo stesso carattere, la stessa passione, la stessa persona riuscire più o meno efficace, interessante, meravigliosa sotto l’immaginazione e la penna dell’uno, che sotto quella d’un altro, in quanto l’uno più che l’altro ha saputo sviluppare e lumeggiare quella passione, che dovea corrispondere alla combinazione delle circostanze da lui immaginate. E qui propriamente spicca l’ingegno dell’autore nel migliorare e perfezionare i modelli originali del vero, secondo il tipo dell’arte. Ond’è che i Bruti ed i Cesari del Voltaire e del Crebillon non sono quelli dello Shakespeare e dell’Alfieri, e la Fedra del Racine non è quella di Euripide, né il Don Carlo dell’Alfieri e quello del Pepoli, dello Schiller. Così pure differentissime sono le tre Meropi del Maffei, del Voltaire e dell’Alfieri. Questi paragoni, ancorché delicati e finissimi non si debbono pur trascurare, se si vuole rappresentare ed esprimere con la debita precisione il verace carattere che ha ideato il poeta.

[15.7] I caratteri migliori, e quasi propri della tragedia sono quelli in cui due passioni differenti, e per l’obbietta che le eccita e le alimenta, e per l’effetto che minacciano e preparano, e pressoché equivalenti per la forza e contrasto, si resistono e si combattono ferocemente. Sembra allora che d’uno stesso individuo si facciano due persone differenti, o quasi contrarie. Tale è Agamennone, allorché l’amor del comando e l’amor della figlia si fanno guerra a vicenda; tale è Clitennestra, allorché è combattuta ad un tempo dall’amore del figlio e dall’amor dell’adultero, tal è Fedra tra l’amor del marito e l’amor del figliastro, e Neottolemo nel Filottete ed Ajace ec. Né si creda che un temperamento siffatto indebolirebbe il carattere e la passione predominante; perocché tanto più questa risalta, quanto è maggiore la reazione e il contrasto che dee superare, e che giunge a superare di fatti. L’Alfieri o non conobbe assai per tempo un tal magistero, o non si trovò abbastanza noto per eseguirlo, poiché lo conobbe. I suoi caratteri tragici, e specialmente tiranneschi sono assai deliberati e assoluti, e perciò troppo duri ed alquanto monotoni, e per l’ordinario di pochissimo effetto, siccome egli stesso ha francamente asserito di essersene assai tardi e inutilmente avveduto.

[15.8] Ma i caratteri veramente tragici e commoventi qual sono stati concepiti dai migliori maestri dell’arte, sono animati dal più vivo contrasto di due passioni diverse o contrarie, che, rilevando la loro forza a vicenda, conspirano maravigliosamente al fine che si vuole produrre. E nel notare e distinguere tali differenze e contrasti dee principalmente occuparsi l’attore che voglia osservare ed esprimere il vero tipo de’ caratteri che imprende a rappresentare.

[15.9] Giovi l’applicare le precedenti distinzioni al solo carattere di Catilina. Eccone quello che ci somministra storicamente Sallustio: Lucio Catilina, di nobile prosapia, di animo e di complessione fortissimo, ma di prava e malefica indole, fin da’ primi suoi anni le intestine guerre, le rapine, le stragi e la civil discordia anelando, fra esse cresceva. Digiuni, veglie, rigor di stagioni, oltre ogni credere sopportava; di audace, ingannevole e versatile ingegno, d’ogni finzione e dissimulazione maestro: cupido dell’altrui, prodigo del suo; ne’ desiderii bollente; più eloquente assai che assennato. Sempre nella vasta sua mente smoderate cose rivolgea, inverisimili, sublimi troppo. Costui dopo la tirannide di Silla, invaso da sfrenatissima voglia di soggettarsi la repubblica, buono stimava ogni mezzo, purché regno gli procacciasse, ogni giorno più s’inferociva quell’animo, da povertà travagliato, e dalla coscienza de’ propri delitti; figlie in lui l’una e l’altra delle summentovate dissolutezze. Lo incitavano inoltre i corrotti costumi di Roma, cui due pessime e contrarie pesti l’affliggevano, lusso e avarizia.” Su questo fondo storico han lavorato Crebillon e Voltaire: essi lo considerano appunto nell’epoca in cui il carattere era per età e per esercizio ma turo, e nello stesso momento in cui sta per eseguire la vasta conspirazione che avea meditata. Ed in questo momento il suo carattere non è più l’ordinario, esso si dispiega nel suo massimo grado. Ma, confrontando la maniera secondo la quale e l’uno e l’altro poeta lo riguardano e lo dipingono, quale differenza non troviamo nella forma che l’uno e l’altro gli danno? Malgrado l’animo suo deliberato ad ogni eccesso a fronte di qualunque contrasto e pericolo, che costituisce il suo carattere permanente, il Catilina del Voltaire non è quello del Crebillon. Ora a ben esprimere la verità di tale carattere, bisogna non solo conoscere l’originale e lo storico, ma quello bensì che le circostanze ed il poeta gli hanno sul primo ideato, e che poetico possiamo denominare. Ed in questo modo si concepisce, si forma e s’imita il vero e perfetto modello della natura e dell’arte.

[15.10] Dalle osservazioni già fatte si può raccogliere il vero tipo della natura individuale, e quindi dare l’espressione conveniente a quelle parole, sentenze, frasi e discorsi, che dee l’attore pronunciare.

[15.11] Per l’ordinario le stesse parole, frasi, sentenze ecc. non esprimono la stessa qualità o grado della passione alla quale si riferiscono. Spesso annunziano l’amore, l’odio, l’ira, il terrore ecc., ma non sempre il quanto ed il come. Il solo tipo del carattere individuale determinato dalla situazione e dall’epoca può e dee determinare siffatti accidenti. Quindi ogni qual volta ne’ differenti personaggi paressero o fossero simili le sentenze e le frasi, dee l’espressione distinguersi secondo la differenza delle persone e delle passioni, a cui servono; e per conseguenza la stessa espressione materiale moral mente si diversifica. Così Medea, Arianna e Didone egualmente tradite, Clitennestra, Andromaca e Merope tremando egualmente sulla sorte de’ figli, pronunciano le sentenze e le parole medesime; ma il tuono, l’attitudine, l’espressione debbono essere differenti ed accomodati alla qualità del carattere dominante che debbe determinarle. E perciò fu censurata a ragione l’attrice Gaupin, perché esprimeva secondo il senso isolato delle parole, e quindi con troppa e sconvenevole tenerezza i seguenti versi, che Corneille ha messi in bocca di Rodoguna:

Il est des noeuds secrets, il est des sympathies,
Dont par le doux rapport les âmes assorties,
S’attachent l’une à l’autre, et se laissent piquer
Par ces je ne sais quoi qu’on ne peut expliquer.

[15.12] Ed all’incontro fu commendata la Clairon per averli espressi con quella sicurezza, che non dovea mai separarsi affatto dal carattere di una parte. Per lo stesso principîo non debbono neppur soffocarsi tutti quegli altri elementi più o men notevoli, che si trovassero nello stesso carattere associati; perocché tutti i sentimenti che ne emergono debbono avere la loro analoga espressione.

[15.13] Si narra che Le Kain nel rappresentare Orosmane esprimeva a un tempo il triplice carattere di sposo, di amante e di sultano. Ma di questo parleremo più partitamente nel capo seguente.

Capitolo XVI. §

Sviluppo progressivo del carattere, e suoi gradi importanti.

[16.1] Determinato il carattere individuale, bisogna quindi conoscerne ed imitarne lo sviluppamento e il progresso. Quantunque la passione che lo costituisce, sia sempre la stessa dal punto, in cui si mostra sino al suo termine, infinite modificazioni ella soffre, secondo le varie circostanze, occasioni ed ostacoli, che incontra, e con le quali o combatte o coopera. Quindi si distinguono il suo principîo, il suo eccesso, e fra l’uno e l’altro infiniti gradi più o meno importanti s’interpongono, che debbonsi tutti notare e paragonare, perché l’espressione a tutti e a ciascuno proporzionatamente si accomodi.

[16.2] La passione può variare nella qualità e nella quantità. La qualità risulta da quegli accidenti eterogenei che tra via vi si innestano, e che la rendono più o meno mista e complessa. La quantità riguarda semplicemente i gradi del suo aumento progressivo, per cui la passione medesima cresce o decresce via via. Ed essendo i modi, che la qualità ne costituiscono, l’effetto necessario del contrasto o concorso di quegli accidenti, o contrari o propizi, che la combattono o favoriscono, possono anch’essi ridursi a’ gradi della quantità, pei quali comparisce più o meno alterata, e quindi più o meno debole o risentita.

[16.3] È dunque necessario veder da prima quale sia l’interesse principale, quale il vero obbietto e l’unico fine, che genera, alimenta e disviluppa la passione predominante, e quali le circostanze e gli accidenti che più le si oppongono, o la secondano. Allora facilmente emergono l’epoche, i momenti, gli incontri, in cui dee spiegarsi la sua maggiore o massima reazione, la quale per lo più non può misurarsi dalla sola significazione delle sentenze, delle frasi, delle parole, ma dal valor relativo delle circostanze, e dal carattere delle persone, alle quali si riferiscono. Le stesse parole materiali, la stessa frase, la stessa sentenza acquistano tante volte un senso ed un’espressione più o men differente, sia nella sua modificazione, sia nella sua quantità, secondo la natura del luogo e dell’incontro in cui si ritrovano.

[16.4] Analizzato dietro questo principîo un carattere o una parte qualunque, esso può riguardarsi come una serie di momenti o diversi o distinti, che immediatamente o mediatamente succedonsi e si avvicendano, e su’ quali variando in tempo e di modo e di grado la passione predominante, si dà a ciascuno l’analoga e convenevole espressione. La prima legge è dunque di variare il più ch’è possibile, e sempre analogamente questi momenti progressivi, dando a ciascuna modificazione della medesima passione l’espressione corrispondente, senza appartarsi pur mai dalla fondamentale e caratteristica. E siccome è sempre una e la stessa la passione predominante, ancorché infinite sieno le modificazioni a cui va soggetta, così pure sarà sempre una e la stessa l’espressione fondamentale, per quanti soffra in progresso diversi accidenti e degradazioni.

[16.5] La progressione richiede adunque la massima varietà d’inflessioni, rivolta costantemente all’accordo col tuono fondamentale. Senza l’una si cadrebbe nella monotonia più nojosa ed intollerabile, e senza l’altra nella dissonanza più ributtante. Se, a differenza dei suoni musicali, la scala de’ vocali è di gran lunga più estesa e più varia, e comprende elementi sì vicini, minuti e sfuggevoli, il grande artifìcio consiste nel farli sentire opportunamente, sicché tutte esprimano successivamente le degradazioni della medesima espressione, sia crescente, sia decrescente. E qui giova particolarmente osservare che nella progressione immediata di alcun sentimento si può elevare a proporzione la voce fino alla sua ottava acuta o superiore; e se il progresso esigesse che si elevi, o, per dir meglio, si rinforzi ancor più senza esporla a tuoni strani e pericolosi, può ben discendere all’ottava grave ed inferiore, nella quale bassando ad un tempo la voce, le si può dare quel grado maggiore di forza che le conviene. Imperocché siccome le ottave sono equisone, tanto nell’organo musicale, quanto nel vocale, può ben conservarsi nella voce lo stesso grado di forza ed anche accrescerlo dall’una scendendo all’altra. La forza dell’espressione non istà sempre nella acutezza del tuono, ma può ancora comporsi, e non solo per artifìcio di economia, ma anche per effetto maggiore di verità. L’ira, il furore, le passioni tutte veementi amano per l’ordinario i tuoni acuti: ma quando non possono passare al di là senza rischio o di stancar la voce o di stonare, possono bene ancor progredire ripigliando rapidamente ed acconciamente l’ottava bassa. Per non conoscere questo artificio, che, accrescendo ad un tempo la varietà e l’armonia dell’espressione, la sostiene e rinfranca opportunamente, i più degli attori ordinari perdono la forza necessaria là dove più ne han di bisogno.

[16.6] Quello che più importa di considerare nella progressione generale dell’espressione di un’intera parte o dello stesso carattere, si è di notare ed esprimere quei momenti che sieno fra gli altri più risentiti e caratteristici, e che perciò richiedono più degli altri, che mediatamente o immediatamente li seguono o li precedono, un’espressione più forte ed equivalente. Sono questi quei tratti, in cui la passione ed il sentimento più e massimamente si spiega e risulta, ed a’ quali tutti gli altri debbono ordinariamente riferirsi e proporzionarsi. Non che tutta una parte, ogni atto, ogni scena, ogni discorso o periodo ha di tali elementi, che richiedono la massima attenzione, ed a’ quali dee riservarsi principalmente l’espressione, perché dagli altri non sia imprudentemente esaurita e soffogata. Io credo perciò importanti le seguenti considerazioni. — Noi possiamo distinguere tali momenti in tutta la parte, in ciascuna scena ed in ogni ragionamento e periodo.

[16.7] Per la qual cosa in ogni parte si possono primamente notare tre epoche, cioè ordinaria, straordinaria e media. L’ordinaria dovrebbe dominare nel primo atto, o finché duri l’espressione della favola, de’ caratteri, delle circostanze, che ne determinano lo stato e ne preparano l’andamento. La straordinaria si riserverà alla catastrofe, che, terribile nel quinto atto, ne minaccia ed eseguisce lo scioglimento. La media, che dell’ordinaria e straordinaria più o meno partecipa, si applicherà al rimanente, che fra l’uno e l’altro intercede. Egli è manifesto che tali epoche distintissime e più o meno continuate, in cui la passione più o meno conserva e sviluppa un certo grado diforza, a ciascuna proporzionato, richiedono un’espressione adeguata e corrispondente.

[16.8] Parimenti ha ciascuna scena il momento che più fra gli altri primeggia. Dunque richiede anch’essa un punto massimo o straordinario di espressione, che con l’ordinario e col medio non dee confondersi. In questo modo, determinando i tratti principali della linea progressiva per la quale si spiega e procede la passione, noi avremo i momenti più interessanti del tutto e delle sue parti, e, comparandole fra di loro, potremo al tutto e a ciascuna sua parte minore dare l’espressione conveniente, spargendo opportunamente i lumi e le ombre con quella proporzione ed economia, che la verità e l’armonia delle parti e del tutto richieggono. Dee perciò prima determinarsi nel tutto e in ciascuna parte qual sia il punto massimo di elevazione, perché i subalterni e minori siano a quello subordinati, in modo che tutti più o meno cospirino a farlo primeggiare e distinguere. Il carattere di Filippo si sviluppa e giunge al suo massimo grado alla vista di Isabella e di Carlo sorpresi da lui nella prigione; e questo momento terribile riuscirebbe languido e freddo, se l’espressione dell’attore non fosse stata maneggiata opportunamente nelle scene precedenti, per abbandonarsi a tutto l’eccesso nell’ultima. Agamennone apparisce oltremodo agitato nelle prime scene; ma egli non lo sarà quando debb’essere all’incontro della figlia e di Clitennestra, e massimamente quando alla vista loro si trova scoperto e giustamente rimproverato. Così di ciascuna scena debbono risaltare i tratti più forti, più sublimi e più sorprendenti; e l’espressione dee contenersi ed ordinarsi in guisa che là tutta spiega l’arte e la forza. Tali sono per esempio il Medea superest di Seneca, il qu’il moment del vecchio Orazio, il vous pleurez di Orosmane, simile al vous changez de visage di Monima ecc. e tanti altri, onde sono fra le altre ricchissime le tragedie dell’Alfieri.

[16.9] I migliori attori e antichi e moderni non hanno mai trascurato questo artificio di progressione.

[16.10]Cicerone ci ha lasciato una testimonianza della destrezza di Roscio in tal genere in quel passo:

Nunquam agit hunc versum Roscius eo gestu quo potest,

Nam sapiens virtuti honorem praemium, haud praedam, petit.

sed abjicit prorsus, ut in proxìmo,

Ecquid video? Ferro septus possidet sedes sacras,

indicet, adspiciat, admiretur, stupescat. Quid ille alter:

Quid petam praesidi?

Quam leniter! quam remisse! quam non actuose! instat enim

O pater! o patria! o Priami domus!

In quo tanta commoveri actio non posset, si esset consumpta superiore motu, et exhausta. Neque id actores prius viderunt, quam ipsi poetae, quam denique illi etiam, qui fecerunt modos, a quibus utrisque summittitur aliquid, deinde augetur, extenuatur, inflatur, variatur, distinguitur.

[16.11] Parimenti Racine aveva insegnato all’attrice che declamava la parte di Monima nel Mitridate ad abbassar la voce, allorché pronunziava, ed anche più che il senso non richiedeva, ne’ seguenti versi:

             Si le sort ne m’eût donnée à vous,
Mon bonheur dépendait de l’avoir pour époux.
Avant que votre amour m’eût envoyé ce gage,
Nous nous aimions. Seigneur, vous changez de visage!

[16.12] Affinché ella potesse prendere con facilità un’intonazione per l’ottava superiore a quella su la quale aveva intonato queste parole: Nous nous aimions, quando dovea pronunziare d’un tratto:

Seigneur vous changez de visage.

[16.13] Spiegando la stessa analisi a minimi termini può e dee farsi allo stesso modo di una sola sentenza, o periodo, le cui parole hanno pure un valor relativo, e perciò differente, e quindi hanno pure il loro massimo grado, minimo e medio di forza e di espressione. Il perché deve prima notarsi quella parola, la quale fra tutte primeggia, ove ch’ella si trovi, e quella primeggia fra tutte, che più, fra le altre, determina il sentimento a cui serve. Ed in questa dee massimamente calcarsi l’espressione di tutto il periodo; e le altre debbono in modo procedere, che da questa prendano il tuono ed il movimento, ed a questa si appoggino e si rapportino. Così la qualità e la forza di espressione di ogni parola si differiscono dalla principale che domina nel periodo. Per la qual cosa non già la bellezza, l’armonia, la cadenza, o il senso isolato di certe parole, o qualche altro riguardo estrinseco debbono usurpare o pregiudicare il dominio di quella, siccome addiviene tante volte per ignoranza di quei maestri di cappella o autori, i quali esprimono principalmente e servono a un sentimento diverso, appoggiandosi a certe parole subalterne, che non possono dominare senza alterare ed offendere il sentimento che veramente domina nel periodo. E ciò riuscirebbe tanto più assurdo, quanto che certe parole si prendono in senso negativo o contrario; e sarebbe ridicolo il dare a queste maggiore espressione o diversa da quella che richiede la parola, che indica il soggetto o l’azione principale, a cui il significato relativo di tutte le altre si dee riferire.

[16.14] A due difetti contrari possono tutti ridursi quelli che l’accennata progresssione ordinariamente sovvertono. Il primo consiste a profondere troppo di espressione nel cominciamento del dramma, della scena, della parlata o periodo. Ond’è che l’espressione assai pur troppo sforzata, e troppo violenta, o non può facilmente maneggiarsi nel seguito, o si trova oltremodo indebolita, allorché dee più fortemente annunziarsi. In questa maniera si nuoce ad un tempo ed alla varietà successiva di tuoni, che non può sostenersi dietro quel tuono, ed all’effetto speciale che da’ momenti più rilevanti si debbe attendere. Debbono perciò gli attori contenere prudentemente l’espressione, perché possa più modularsi, accrescersi e rinforzarsi secondo il bisogno.

[16.15] Altrimenti accadrà di loro, quel che Orazio diceva di quei poeti che con troppo strepito ed arroganza cominciavano i loro poemi:

Parturient montes, nascetur ridiculus mus.

[16.16] L’altro difetto sembra a questo in certo modo contrario, e consiste nel riservare il più dell’espressione constantemente nel fine; e non sempre nel fine l’interesse del momento lo richiede. Egli è vero che in generale tutto nelle belle arti debbe procedere in guisa, che progredendo nulla si raffreddi ed annoi; ma questo principîo non dee recar pregiudizio a quei momenti più interessanti, che si trovassero altrove nel corso della scena, del discorso o del periodo. Ciò non ostante si sono adottati nel portamento della voce e del gesto certi metodi che sacrificano questo interesse della passione e del sentimento a certe cadenze finali del verso, del periodo, della parlata, oppur della scena; e periodicamente si ripete sempre lo stesso, talché a sentirne una ti par sentire tutte le altre, siccome può dirsi per lo più delle nuove arie melodrammatiche; e supponendo che l’interesse maggiore sia sempre nel fine, come in quei sonetti che lo facevano consistere unicamente nella loro chiusa, e riuscendo sempre alla stessa modulazione periodica e progressiva, si rende questa ad un tempo e falsa, perché non propria, e monotona, perché sempre a un di presso la stessa.

[16.17] L’altro oggetto che la progressione della passione e dell’espressione riguarda, si è il passaggio che dall’uno all’altro modo o grado suol farsi. Spesso è quasi massima la loro differenza d’indole, e minima la distanza dall’uno all’altro, perché l’impressione par che dall’uno all’altro passi rapidamente, e senza alcuno intervallo. In tali incontri i sentimenti più diversi ed opposti par che immediatamente si tocchino, si succedano, si avvicendino, si contrastino e si raggruppino, finché, gli uni abbattuti o distrutti, trionfi l’altro e tenga il campo vittorioso. La persona in tali incontri si mostra agitata dagli accidenti della sua passione, come il mare sbattuto da’ venti diversi o contrari: tutto sembra tumulto, violenza e confusione; ma tutto a un tempo obbedisce all’impressione, alla divisione ed al moto che l’espressione come l’onda del mare riceve e ripete. Or qual sarà quella legge che dee governare la rapidità di questi passaggi in un momento che sembrano meno disposti ad ubbidire?

[16.18] Per quanto si voglia rapido un tal passaggio, e la passione e l’espressione che le conviene, non possono dispensarsi da quella legge di continuità, a cui la natura ha tutti gli esseri e i loro fenomeni sottoposti. Imperocché dando ad ogni effetto la sua cagione, e quindi una nuova combinazione di elementi capaci di produrlo, e per conseguenza di distruggere una preesistente combinazione diversa, per quanto si supponga operosa e celere, e quasi che improvvisa la combinazione susseguente, essa richiede sempre una preparazione, che arrivi ad unire il termine della prima col principîo della seconda. E perciò si è detto ch’essa non può operare per salti, ma dee sempremai proceder per gradi, sia che progredisca, sia che degradi. Con questa legge si disviluppa e progredisce la passione, e con la legge medesima dee pur seguirla l’espressione. E se questa trascurasse queste intermedie attitudini, riuscirebbe propriamente slegata, falsa, dissonante, irregolare e quasi impossibile ad eseguirsi. Perocché per quanto la persona sia indifferente od inetta, allorché da una passione, da un sentimento, o da uno stato, passa immediatamente ad un altro diverso, non può fare a meno di non indicarne un terzo, che nel contatto, e contemporaneamente, dell’uno e dell’altro consiste. Or tali passaggi o vuoti intermedi si lasciano dal poeta all’attore, a cui solo appartiene di eseguirli e calmarli, debitamente esprimendoli. Il poeta non vi dà che il passaggio brusco delle idee e de’ sentimenti, che, malgrado l’indole contraria che li separa, immediatamente si toccano e si succedono. Or come l’associazione dell’uno può e dee associarsi e comporsi con quella dell’altro? O per dir meglio quale sarà l’espressione intermedia, che l’una nell’altra acconciamente rifonda e trasformi?

Capitolo XVII. §

Del dialogo, o della pronunciazione dialogistica.

[17.1] L’attore tragico, qualunque ei sia, è uno di quelli che la favola rappresentano, e co’quali dee nel corso di essa interloquire e cooperare. Però, riguardandolo come interlocutore, dee pur dare alla sua espressione alcune modificazioni particolari, che dalla natura del dialogo propriamente derivano. L’attore appena entra in iscena non è più solo: egli s’incontra, vive ed usa con altri simili in un modo tutto diverso da quello ch’ei lascia; epperò debbe conformarsi a tutte quelle relazioni, che risultano dall’indole e dalle circostanze di questa nuova società. Egli dunque esiste in quel luogo e in quel tempo, in cui interviene l’azione od il fatto in cui prende parte. Questo fatto e quest’azione, che in tutto il dramma si espone e si circoscrive, si ripartisce in più scene, le quali sono per l’ordinario altrettanti dialoghi di due o più persone, che animate dallo stesso o diversi interessi, sia che più o meno, o pur conspirino, o pur discordino, s’intertengono a ragionare e disputar fra di loro.

[17.2] Questa relazione reciproca, la quale pur varia al variare degli interlocutori, importa che l’espressione conveniente all’indole ed allo sviluppamento della passione dominante si modifichi eziandio secondo la relazione che passa fra l’uno e l’altro. L’espressione, che Isabella adopera con Filippo, non è certamente quella che adopera con D. Carlo; né Antigone parla e si esprime nella stessa guisa ad Argia, a Creonte e ad Emone; né Oreste si mostra con Pilade ed Elettra come con Egisto e Clitennestra. E lo stesso personaggio dee dare alla sua espressione caratteristica tante modificazioni distinte e diverse quante sono le relazioni distinte e diverse ch’egli abbia con gli interlocutori co’ quali si incontri a ragionare nella stessa tragedia. Tale modificazione non dipende dal carattere proprio, originario e permanente, ma bensì dalla diversa impressione, che producono sopra di essa la presenza e l’azione rispettiva degli interlocutori. Or tali relazioni possono essere o di natura, o d’instituzione, o di passione, e questa variando pur sempre può ancor quella variare ed alterare a proporzione; così possono riguardarsi o come variabili o come permanenti, ed allora l’espressione sarà anch’essa variabile o permanente. In questo modo gli stessi interlocutori possono cangiare fra loro di interesse, di contegno, di tuono e di passione; imperocché spesso si ama o si odia chi prima si odiava od amava. Molti di siffatti accidenti intervengono nella tragedia, ed Isabella dopo aver lungo tempo rispettato

[17.3] Filippo passa ad apertamente aborrirlo; e G. Bruto, che ama teneramente i suoi figliuoli allorché difendono la patria, si trasporta quasi ad odiarli allorché la tradiscono. Così Fedra che amava Ippolito con trasporto giunge ad odiarlo a tale, che lo calunnia e lo uccide. E così l’espressione può variare al variar non solo degli interlocutori, ma delle loro relazioni. Stabilite queste necessarie distinzioni, e quindi il tuono ed il contegno conveniente, che l’attore dee tenere co’ rispettivi interlocutori, variano costantemente al variar delle scene e delle persone. Ma diventano tanto più difficili quanto più sono vere e belle ed interessanti, eseguendole, ove s’incontrino e si combinino nella medesima scena o dialogo, siccome per l’ordinario allorché più e diversi interlocutori si trovano insieme. Così nelle scene rispettive la stessa Ifigenia in un modo ragiona con la madre e col padre, ed in un altro con Erifìle sua amica, o con Achille suo amante.

[17.4] Parimente Egisto cangia in tempo di contegno e di espressione ogni qual volta si trattenga con Clitennestra e con Elettra, o con Agamennone. Ma di quanto più cresce la difficoltà e l’interesse, ove questi si trovino insieme nella medesima scena, e l’uno deggia agli altri riferirsi ad un tempo? Gli attori eccellenti non confondon queste digradazioni di fisonomia, di contegno e di tuono, ancorché sono minute e vicinissime. Si sa con quanto artificio e verità esprimesse un celebre attore la doppia relazione di Mitridate verso i due figli, rimproverando la medesima colpa all’uno ed all’altro, rivolgendosi a Xifares col ciglio e con l’accento della tenerezza, ed a Farnace con quelli della diffidenza. Si narra, che Baron sostenendo la parte di Cesare nella morte di Pompeo entrava nella reggia di Tolomeo, come nella sua sala di udienza, circondato da innumerevoli cortigiani, a ciascuno de’ quali si presentava o di un modo o d’un altro cortesamente, e secondo i rapporti rispettivi di amicizia o di conoscenza, che aveva con essi; e che Beaubourg con l’alterigia di un padrone, il quale non vede all’intorno di sé che degli schiavi.

[17.5] Se ciò è vero Baron esprimeva assai meglio che Beaubourg il carattere di Cesare a vista de’ suoi cortigiani.

[17.6] L’attore serbando costantemente questa relazione in ogni scena d’altro non debbe occuparsi che degli interlocutori coi quali ei tratta, ed a’ quali debbe unicamente rivolgere il guardo, la parola, l’attitudine, la persona. E siccome tutto il dramma si espone agli spettatori che debbono principalmente goderne, gli attori debbono scegliere quella posizione che non nuoccia, né all’attenzione degli spettatori, né a quella degli interlocutori. Quindi si collocano in modo che parlando tengano la parte anteriore della persona rivolta per lo più agli spettatori, e la testa e lo sguardo per lo più rivolti verso di loro.

[17.7] Determinata questa prima relazione, secondo la quale dee situarsi il guardo ordinario della scena, può e dee in progresso di tempo l’attore modificarne più o meno le attitudini e i movimenti successivi, secondo quei rapporti subalterni ed accidentali che via via si spiegassero dal corso dell’azione e della combinazione delle circostanze. Altrimenti, stando troppo servilmente attaccato a quella generale posizione, perderebbe gran parte di moto e di verità, e l’espressione così povera e circoscritta nuocerebbe assaissimo all’illusione. È necessario dunque il variare questo quadro secondo il movimento che lo sviluppo della passione dee comunicare alla figura e agli interlocutori, e questi si possono e debbono situare o di scorcio, o di profilo, o di fianco, ed anche da tergo, e rivolgersi intorno, siccome il pittore dispone il più delle volte le sue figure. Per la qual cosa lungi dal credere un’eresia teatrale il presentare alcune volte la schiena agli spettatori, può anzi in certi momenti essere utilissima ed anche necessaria una tale posizione, ove la forza della passione ed il vero la richiedesse, ed evitasse ad un tempo alcune attitudini insignificanti ed assurde. In questo modo diventa il quadro più vario, più vero, più spontaneo e più bello. E perché non si abusi di questa libertà, essa debb’essere subordinata alla posizione generale e fondamentale, alla quale tutte le altre subalterne e passaggiere debbono riferirsi. Così, per esempio, se l’attore dovesse alcuna volta più dirittamente all’interlocutore rivolgersi ed affissarsi, egli potrebbe destramente farsi alquanto più indietro ed allontanarsi dall’altro, sicché possa più comodamente guardare all’interlocutore, e non togliere il meglio della persona e dell’espressione agli spettatori.

[17.8] L’indole del dialogo e degli interlocutori dee pure determinare la positura particolare, che gli attori debbono tenere fra loro in qualunque scena. Finora par che si sia adottata la pratica di tenersi per l’ordinario in piedi anche se a casa ragionano, e di passeggiare qualche volta, e di muoversi per non ristarsi sempre immobile nel medesimo sito. È della natura del colloquio, specialmente ove sia interessante e caldissimo, il tenersi fermi nel sito dove le persone si scontrano, o pur convengono per ragionare insieme. Occupato un cotal sito che il caso o la scelta abbia, loro fornito, essi non debbono variarlo se dal seguito del discorso, o dal sopravvenire di alcuno non emerga qualche accidente, che gli obblighi o gli abiliti a tal cangiamento. Sino a questo momento essi debbono guardare il loro posto, ma non sì che ciascuno nel suo non prenda quelle attitudini e non segua quei movimenti, che circoscritti allo stesso luogo, servono ad animar le persone secondo l’indole della passione e dell’espressione corrispondente.

[17.9] L’interloquire passeggiando, sente ordinariamente del comico, o annuncia poco interesse nel subbietto del colloquio; e si approva o si tollera appena nelle tragedie, quando si rifletta lentamente e a riprese intorno a qualche deliberazione, ma non già quando si parli di cose gravi incalzanti, caldissime. Ed è pur questa la ragione per cui d’ordinario gli interlocutori non seggono; ma non perciò dovrebbero sempre tenersi in piedi, perché la condizione del luogo e delle persone non vietasse loro di sedere o durante tutta la scena, o almeno in qualche parte di essa. Il sedersi ove non sia più che necessario, ed espressamente prescritto dal poeta, sembra come illecito ed indecente, quasi che fosse una creanza comune a tutti gli attori; ed io credo al contrario, che sovente se ne potrebbe cavare un gran partito, dando maggior varietà e naturalezza allo stato ed all’attitudine degli interlocutori.

[17.10] Dee pure il gesto conformarsi al carattere del dialogo; e siccome in generale non debbe esser mimico, ma semplicemente accennante, può e dee ancora accomodarsi alla condizione e relazione delle persone con le quali si interloquisce. Poco accennano le persone autorevoli per quella ragione analoga al loro carattere, che o non amano di troppo trattenersi e sfogarsi con gl’inferiori, o vogliono al primo cenno essere pienamente compresi, e ciecamente obbediti. Parimenti gl’inferiori dicono ed esprimono poco, e meno gestiscono per rispetto o per timidezza, e sentirebbe di soverchia confidenza un gestire non abbastanza contenuto e moderato.

[17.11] I soli che si abbandonano a tutta la libertà dell’espressione sono i pari di condizione, o quelli che tali renda la forza della passione. Ovidio diceva che l’amore s’incontra di rado con la maestà.

[17.12] L’amore vero adegua le condizioni; e lo stesso può dirsi di tutte le passioni violente che più non conoscono modi e riguardi.

[17.13] Ancorché in generale il gesto dell’attore tragico sia quello di una conversazione eroica, e segue l’impeto d’un improvviso e spontaneo parlare, pure alcuna volta diventa oratorio, e serve al genere deliberativo o giudiziale o dimostrativo. In quei momenti l’attore esercita una funzione pubblica e si suppone anch’esso come preparato a parlamentare, e prende il tuono, il gesto e l’espressione dell’oratore secondo il genere di eloquenza e della pronunciazione, che dee spiegare. Tali sono le scene, in cui Semiramide dichiara il suo proponimento ai grandi ed al popolo; in cui Cesare, Bruto e Cicerone perorano al Senato; in cui Carlo ascolta le accuse e le difese del suo figliuolo ecc. Ma queste situazioni non sono frequenti; e perciò il carattere ordinario della scena è drammatico e dialogístico; ritenuta quella relazione, che tra superiori ed inferiori interviene, il gesto come l’espressione in generale dee seguire la natura e la forza della passione, che ove sia straordinaria, obbliga la persona a non aver rispetti ad alcuno, e a non obbedire che a movimento di lei, purché non si abbia l’interesse di celarla e dissimularla. Ed in quest’ultimo caso la passione è complessa e tutt’altra, e tale insomma, che non ama dispiegarsi, e che piuttosto dee mostrarsi ed esprimersi a quella maniera.

[17.14] Ha pure le sue leggi particolari l’accento dialogistico, e tutte riguardano il cangiamento e la corrispondenza de’ tuoni fra gl’interlocutori. Ogni senso che sia di troppo, o del tutto staccato da’ precedenti ci obbliga a cangiar di voce. E siccome dialogizzando ogni qualvolta il dialogo sia naturale operoso e legato, le serie e l’associazione delle idee e delle sentenze non è costantemente e regolarmente seguita, qual è per l’ordinario in tutti gli altri ragionamenti studiati e lavorati metodicamente, ma sembra per lo più non preparata, momentanea, interrotta, ne viene quella specie di apparente disordine ne’ frequenti e inopinati passaggi dall’una all’altra sentenza, il che ci obbliga continuamente a cangiar di tuono e di tempo. Riesce però felice ed eccellentissimo quell’attore, che alla flessibilità dell’organo vocale abbia aggiunto la cognizione di tutte quelle digradazioni che a tutte le modificazioni e gradi della passione deggiono corrispondere. La copia e varietà di queste maniere e colori della voce bene adottati, e spontaneamente eseguiti, formano la parte più bella della declamazione dialogistica.

[17.15] Oltre il vario e successivo cangiar di voce si dèe pure osservare la corrispondenza de’ tuoni nelle riprese del dialogo. Essi debbono ancor, variando, conservare una certa consonanza, che forma una specie di accor do e di armonia fra il domandare, il rispondere e il ripigliare. Se il tuono dell’uno non ha punto di relazione con quello dell’altro, o questo ripete esattamente il tuono di quello, che è quanto dire, se l’uno con l’altro non si modifica e combina opportunamente, esso riuscirebbe dissono e monotono, e quindi molesto o annojevole. Per lo contrario risulta la più interessante armonia ogni qualvolta alle acconce inflessioni di voce, ed alle varie intonazioni dell’uno, l’altro risponde e ripiglia sempre in consonanza, sì che non risulti lo stesso tuono fra chi termini e chi ricominci; ma bensì che l’uno all’altro per quanto varii la sentenza, corrisponda e rincalzi. Questo artifìcio è massimamente necessario là dove per impeto di passione, per varietà di sentimento e per celerità di transizioni sieno le riprese più staccate, vibrate, brevissime e sempre incalzantisi. Ne hanno di queste soventemente il teatro greco e latino; i moderni le hanno pure felicemente imitate, e fra tutti l’Alfieri principalmente; ed esse riescono di mirabile effetto ove sieno opportunamente allogate, e gli attori sappiano corrispondentemente esprimerle ed intonarle. — Scegliamone qualche esempio. Uno è certamente quel verso dell’Antigone dell’Alfieri, il quale racchiude cinque sentenze, e tutte importantissime, fra Creonte ed Antigone, nell’atto quarto della prima scena:

Creonte.

Scegliesti?

Antigone.

Ho scelto.

Creonte.

Emon?

Antigone.

Morte.

Creonte.

L’avrai.

[17.16] L’interesse e la forza stessa delle dimande, delle risposte, del verso medesimo non t’invita e non ti obbliga a modulare e rincalzare l’intonazione a misura che all’una succede l’altra? Tale è il principîo della scena terza dell’atto quinto della Virginia fra Appio e Virginia:

Appio.

Di’; risolvesti alfine?

Virginia.

E già gran tempo.

Appio.

Qual padre il de’?

Virginia.

Qual roman padre il debbe.

Appio.

Rotto ogni nodo hai con Icilio dunque?

Virginia.

Stringonmi a lui tre forti nodi.

Appio.

E sono?

Virginia.

Sangue, amistà, virtù!

Appio.

Perfido! il sangue
Scorrerà dunque ad eternarli, ecc.

[17.17] Così nell’Agamennone fra Egisto ed Agamennone nella fine della scena seconda dell’atto terzo:

Egisto.

Tu pur mi scacci?
E che mi apponi?

Agamennone.

Il padre.

Egisto.

E basta?

Agamennone.

È troppo.

[17.18] E fra Egisto e Clitennestra nell’atto quarto scena prima:

Egisto.

Altro partito forse or ne rimane;…
Ma indegno…

Clitennestra.

Ed è?

Egisto.

Crudo.

Clitennestra.

Ma certo?

Egisto.

Ah certo.
Pur troppo!

Clitennestra.

E a me tu il taci?

Egisto.

E a me tu il chiedi?

[17.19] Lo stesso artifìcio è nella scena quinta dell’atto secondo del Filippo tra Filippo e Gomez:

Filippo.

Udisti?

Gomez.

Udii.

Filippo.

Vedesti?

Gomez.

Io vidi.

Filippo.

Oh rabbia!
Dunque il sospetto?…

Gomez.

È omai certezza…

Filippo.

E inulto
Filippo è ancor?

Gomez.

Pensa….

Filippo.

Pensai… mi segui.

[17.20] Quanti altri simili tratti non vi offrono le tragedie di questo autore, che più di tutti ha fatto servire l’artificio del dialogo, del metro, del periodo e del ritmo al solo effetto della declamazione teatrale!

Capitolo XVIII. §

Dei silenzii o riposi.

[18.1] Noi abbiamo altrove osservato che non sempre gli organi dell’espressione possono e deggiono tutti a un tempo operare. Talvolta l’uno di essi rimane in riposo, mentre gli altri continuano a più o meno operare analogamente alle circostanze. E ciò accade per l’ordinario all’organo della voce, allorché l’interlocutore dee nel corso del dialogo alternativamente parlare e tacere. In questi silenzi e riposi spicca particolarmente l’intelligenza e l’abilità dell’attore.

[18.2] In generale l’attore è obbligato a tacere, o perché debba ascoltare chi parla, o perché non vuole né debbe parlare, ancorché l’altro si taccia. E nell’uno e nell’altro caso egli dee prendere quel contegno, quella figura o quell’attitudine convenienti al suo stato, e spesso tanto più risentiti e significanti, quanto meno può con l’organo della voce apertamente spiegarsi. L’indole e lo sviluppamento del dialogo dee determinare questa specie di espressione, che muta o taciturna potrebbe dirsi. Imperocché l’interlocutore ogni qual volta si taccia, o cessi di parlare, non cessa però di sentire e di esprimere ciò che sente con tutti quegli organi che non sono sospesi o preoccupati. Cerchiamo intanto di applicare questo principîo generale a’ casi particolari e più considerevoli, in cui l’interlocutore debbe tacersi.

[18.3] Il primo è quello in cui si entra in iscena. Non potendo la persona presentarsi senza una ragione o disegno, ed è questa quella ragione che lega e giustifica tutte le scene, appena essa si presenti debbe annunciarsi animata di quel sentimento o motivo che ivi direttamente e pensatamente la meni. Perlocché venendo o per comunicare o per intendere quel che attualmente vie più l’interessa, nella fisonomia, nell’attitudine, e nell’andare dee tutto esprimere il suo desiderio e il suo intendimento. Come dunque dee presentarsi? Che fare? Come disporsi a parlare? È questo il primo momento che dee fermare l’attenzione degli spettatori, e che per l’ordinario decide di tutto il seguito. Allorché Fedra si avanza per isvelare ad Ippolito la sua inclinazione, allorché

[18.4]Clitennestra consapevole della sua infedeltà incontra Agamennone che ritorna trionfante da Troja; allorché questi rivede in Aulide Clitennestra od Ifigenia, allorché Mirra si presenta alla madre od al padre, e i figliuoli di G. Bruto al padre, e Cinna ad Augusto ecc., che e quanto non possono e debbono esprimer tacendo? Spesso l’abile attore ha impiegato più momenti in questa prima uscita; e possono esser tali pause più o meno lunghe e variate se la riflessione o l’incertezza od altra passione più o meno lenta sorprende ed agita la persona. Si narra che il commediante Le Kain impiegava più momenti di silenzio prima che cominciasse a parlare. Se certi cantanti melodrammatici sentissero l’importanza di tale espressione, non domanderebbero il corredo di tante circostanze estrinseche, per fare la più grande impressione sul pubblico, entrando in iscena.

[18.5] Cominciata la scena, si succedono quegl’intervalli, in cui l’interlocutore sospende il parlare ed ascolta. Cessando di parlare per la legge di continuità non cessa l’espressione del sentimento, ch’egli ha precedentemente esposto. E siccome ascoltando via via si viene alterando e modificando il suo stato dalle nuove impressioni dissone o consone ch’egli riceve, dee pure alterarsi e modificarsi analogamente la sua espressione successiva. Nella sua fisonomia e nella sua attitudine, convenientemente alterate, si dee leggere tutto l’effetto o la reazione, che le nuove impressioni dell’interlocutore vi destano e vi sviluppano. Noi abbiamo un bellissimo esempio di questa espressione muta nel Cimbelino di Shakespeare:Oh jupiter! Lorsqu’assis sur un escabeu à trois pieds, je racconte les exploits belliqueux cle ma jeunesse, toute son âme s’élance vers mon récit, lorsque je dis: «ainsi tomba mon ennemi, ce fut ainsi, que je posai mon pied sur sa gorge, dans le moment son noble sang monte et colore ses joues, une sueur couvre tout son corps, et roidit ses muscles, il se met lui même dans la posture qui réprésente l’action de mon récit. Et son jeune frère Cadwal, autrefois Aviragus, dans une attitude semblable anime, échauffe mon récit, et montre que son ame sent bien plus encore.

[18.6] La ripresa dell’interlocutore producendo tali impressioni nell’animo di chi lo ascolta lo dispone a rispondere, a tacere o a partire; e qualunque sia la deliberazione di questo, egli dee sempre indicarle con l’attitudine conveniente a ciò che si propone di dire o di fare; e per la stessa legge di continuità, che modifica ed altera lo stato precedente, prepara ed annunzia il susseguente. E perciò l’interlocutore, che ascolta prima che ripigli il suo discorso, ha già fatto intravedere nel suo movimento quanto si dispone a fare od a dire. E ciò massimamente interviene, allorché inteso unicamente al suo disegno, abbandona la scena, e fa presentire quel che tacendo si è fìtto nell’animo. Parte Medea per assassinare i propri figli; parte Garzia per assassinare l’amico; parte Filippo per vendicarsi del proprio figliuolo; parte Erifile per vendicarsi di Achille ecc.;ma quale debbe essere il loro andare, la loro attitudine, l’espressione di tali momenti? Uno dei più belli è certamente quello di Matan nell’Atalia di Racine, allorché, atterrito dai rimproveri e dalle minacce di Ioad, abbandonando il tempio, smarrisce la via, e Nabal in tempo gli dice.

            Où vous égarez-vous?
De vos sens étonnés quel désordre s’empare?
Voilà votre chemin.

[18.7] Dalle osservazioni già fatte io credo poter ritrarre questa regola generale, che cioè la persona che tace dee rimanere nell’attitudine di quel sentimento onde era preoccupata parlando, e via via modificandola conforme alle nuove impressioni, ch’ella successivamente riceve ascoltando, dee passare insensibilmente a quella che annunzi il suo proponimento e la sua risposta. L’attore adunque dacché entra in iscena sino a tanto che ne parte dee sempre mostrarsi qual egli è, o quale debb’essere, e perciò sia ch’ei parli o che taccia, dee sempre mostrarsi animato di quell’interesse predominante che lo fa attualmente e parlare e tacere, e venire ed andare. L’ottimo attore rimane ancor tale quando ha abbandonato la scena, ritenendo tuttavia quel contegno e quel movimento che avea dal dialogo concepito. Quintiliano ci assicura di aver veduto alcuni continuare a piangere fuor della scena, ed Engel trovava ancora in Ekard, terminata la scena, lo stesso personaggio che aveva rappresentato.

[18.8] Il silenzio più espressivo si verifica allora che, a vista di chi ascolta od attende la risposta, l’interlocutore si tace, o perché non osa, o perché non dee dire, e pur suo malgrado egli dice alla fine ciò che non vorrebbe, o pur non dovrebbe. Questi momenti s’incontrano allorché due interessi o doveri opposti combattono, si resistono e riescono per l’ordinario i più tragici e commoventi. Quindi nascono quelle incertezze, quei sentimenti, quegli imbarazzi, che gli antichi dicevano morae, e che manifestavano nel silenzio la più grande agitazione di un animo contrastato. Ti par tante volte che l’anima affannata si affacci appena con le parole sul labbro, e spaventata o pentita rifugge indietro, e si ritiri di nuovo e riconcentri nel cuore. Intanto il segreto più terribile, malgrado il più ostinato silenzio, trasparisce tra il pallore del volto, l’incertezza del guardo e il perturbamento di tutta la persona. Quante volte si trova la misera Fedra in questa violentissima posizione, allorché, celando la fiamma incestuosa che la divora e che pur vorrebbe manifestare ad Emone e ad Ippolito, ancorché taccia, l’annunzia pur suo malgrado nelle sue smanie e nel suo terrore? La stessa espressione accompagna Mirra nella sua lunga ed ostinata taciturnità. Nasconde Agamennone alla moglie e alla figlia il suo atroce proponimento, e fa tutti gli sforzi perché la sua tenerezza non lo tradisca. E qui si possono pur riferire tutte quelle reticenze studiate, le quali sogliono appena prorompere in qualche breve ripresa apparentemente diversa o contraria al vero proponimento, o stato dell’animo che si vuole o si cerca nascondere.

[18.9] Tali si mostrano Rossane, allorché freddamente ed imperiosamente dice a Bajazette dopo averlo pazientemente ascoltato: Sortez; ed Agamennone quando dice ad Ifigenia che gli domanda del sacrificio che si prepara: Vous y serez ma fille; ed Otello, allorché a Iago, che gli diceva: Io mi accorgo che le mie riflessioni hanno alquanto agitato il vostro cuore; gli risponde solamente: No, niente affatto. Garrik ci assicura che in questo momento sentendosi tutto rabbrividire aveva inteso un fremito di terrore in tutta l’udienza; e questo effetto non proveniva certamente dalle parole insignificanti ch’egli pronunciava, ma dalla muta espressione che lo tradiva, e tutta manifestava l’agitazione dell’animo suo. E di questa specie sono altresì quelle comunicazioni segrete che si danno ad alcuno sommessamente nell’atto della scena, sì che né gli interlocutori, né gli spettatori l’intendono punto. L’Alfieri ne ha fatto un uso efficacissimo nell’Antigone, allorché da Creonte fa comunicare all’orecchio d’Ipseo la pronta esecuzione di quell’infelice.

[18.10] Finalmente v’ha pure un silenzio di stupore, che non solo la voce, ma tutti gli altri organi lascia come interdetti ed immobili. È questo l’effetto delle passioni straordinarie ed eccessive, sia per novità o per intensità. Noi abbiamo altrove notato i fenomeni della meraviglia e del terrore; ma di tutte le passioni quanto sono montate ad un certo eccesso può dirsi: Ingentes stupent. La violenza e la piena è tale, che o non si può più articolar parola, o si prorompe in qualche esclamazione interrotta e disordinata, e la persona rimane tutta come inoperosa, insensibile e inanimata. Sofocle ha tratto un gran partito da tali silenzi. Alla scoperta del suo stato nefando Giocasta si ritira senza pronunciare alcun motto, ed ella ha già risoluto di tosto morire.

[18.11] Parte ancor taciturno Ajace con lo stesso disegno, ed il suo furore lo ritiene più tempo in iscena senza nulla esprimere. I migliori poeti, che non sacrificano tali momenti ad insignificante ed inopportuna diceria, lasciano alla muta eloquenza dell’attore il dovere di esprimerli e rilevarli.

[18.12] Son pure di queste specie quei silenzi che annunciano l’odio o il disprezzo; chi odia o disprezza, o sogguarda obbliquo o d’alto in basso e si tace, o parte senza nulla rispondere. Così Assur tratta Ninia nella Semiramide di Voltaire, e cosi Carlo tratta Perez nel Filippo dell’Alfieri.

[18.13] Io ho parlato finora degli interlocutori principali; ma spesso alla loro presenza se ne trovano dei subalterni, i quali come confidenti o spettatori, più o meno prendono parte negli interessi di quelli. Se per rispetto o per altri riguardi, di raro e pochissimo parlano, debbono pur sempre, quando essi tacciono, mostrarsi più o meno scossi e turbati da quanto o ascoltano, o vedono.

[18.14] Quali ch’ei sieno, essi non sono né possono essere persone indifferenti, che di tali non ammette la vera tragedia, e non è il favellare senza necessità ed indiscretamente, che possa renderla interessante. Sofocle non fa mai parlare a Pilade, che pur sempre accompagna, conforta e seconda Oreste nel vendicarsi di Egisto. E chi potrebbe credere che Pilade si rimanesse affatto inutile e senza effetto, ancorché nulla dicesse nelle lunghe scene di Oreste? I confidenti, i cori, le guardie, ancorché non debbono se non di rado favellare o non mai, non cessano punto di essere attori e di sentire e di operare come tutti gli altri.

[18.15] Dal concorso armonico di questa muta attitudine che debbono prendere tutti gli astanti si viene via via sviluppando una serie di gruppi e di quadri, che in certi momenti straordinari, se siano bene assortiti, riescono sorprendenti e maravigliosi. In tali incontri dee ciascuno atteggiarsi secondo la sua passione e la sua condizione particolare, sicché, tutte armonizzandosi fra di loro, primeggino sempre le figure predominanti. E siccome atteggiamenti siffatti hanno bisogno di molto artifizio perché si formi un bel tutto, tutto dee parere naturalmente avvenuto senza che l’affettato apparecchio ne tolga l’incanto. Essi occorrono per l’ordinario là dove s’incontrano quelle sorprese inopinate, o improvvisi riconoscimenti, che danno luogo a mutazioni stranissime di fortuna, sia che si passi da tristo a lieto stato, o da lieto o tristo a tristissimo; oppure là dove gravi accidenti si attendono. Della prima specie sarebbe la riconoscenza di Oreste e di Elettra ad Argo, o di Oreste ed Ifigenia nella Tauride, o di Merope e di Cresfonte ecc.; della seconda sarebbe il quadro sorprendente col quale Sofocle apriva la prima scena del suo Edipo, nella quale tutto il popolo raccolto e diviso in vari gruppi in atto di supplichevole invoca la protezione del re e degli Dei. Le tragedie moderne sono ricche di tali quadri, e spesso vi presentano lo spettacolo d’un tempio, d’una piazza, d’un senato, d’una reggia ecc. L’importanza di questi dipende dal numero e dalle funzioni delle persone, anziché dall’accidente straordinario che le sorprende e conturba. Ma che sarà se l’una e l’altra circostanza si combinano insieme? E tale sarebbe il momento in cui l’ombra di Dario compariva ad Atossa in mezzo ai suoi cortigiani, e quella di Nino a Semiramide alla vista dei grandi e del popolo. I quinti atti delle tragedie dell’Alfieri sono quasi tutti di questo genere.

Capitolo XIX. §

De’ monologhi o soliloqui.

[19.1] Alcuni avrebbero voluto proscrivere il monologo dalla tragedia, come se fosse strano ed inverosimile che una persona fortemente preoccupata dal suo disegno e travagliata da colpi d’iniqua fortuna, non potesse più o men vaneggiare e chiamare i suoi pensieri a consiglio, e trattenersi a parlamentar con se stesso. Ma qual’è quell’uomo che sia capace di vivamente sentire e di meditare profondamente, e che non abbia più volte sperimentato in se stesso cotesto fenomeno? E non si incontrano sovente delle persone, ed anche le meno capaci di grandi passioni, e per le strade più frequenti e di pieno giorno che, occupate da cura non ordinaria, si sentono andar brontolando e ragionando fra sé? Or che non sarebbero sotto il pungolo di passione veementissima nella solitudine e fra le tenebre della notte? I monologhi sono anzi meno rari dei sonniloqui, e gli uomini se ben si osservi delirano e sognano assai più di giorno che di notte. Diciamo dunque che il monologo è il linguaggio d’ogni passione violenta e profonda, e che allora diventa sconcio ed anche ridicolo quando gli manca quel grado di passione che sia sufficiente a produrlo e giustificarlo. Nel primo caso è l’uomo veramente appassionato che c’interessa, e nel secondo è l’uomo freddo ed importunamente loquace, che ci annoja e disgusta.

[19.2] Supponendo dunque il monologo quale debbe essere, l’attore si trova per esso obbligato a declamar solo in iscena, o piuttosto a ragionare con se stesso, perocché in tali incontri egli si consulta, si corregge, si accusa, e giustifica ed eseguisce per tal modo una specie di dialogo con se medesimo. E per questo riguardo il monologo è la pietra di paragone per provare il valore e la maestria degli attori. Gli antichi chiamavano questi tratti drammatici cantiche, e l’attore e lo spettatore li riguardavano come quelli che comprendessero maggiore importanza e difficoltà.

[19.3] Esso comprende tutte le difficoltà del dialogo, oltre le sue proprie; perocché trovandosi la persona più che mai perturbata, sola e in balìa della passione che l’agita, non può essere né richiamata, né temperata dal consiglio e dalla cooperazione degli altri; quindi, senza alcun riguardo a persona, or tacito, or vaneggiante erra ed ascolta, e passa per salti dall’un sentimento all’altro; e tali passaggi sono tanto più difficili e pericolosi, quanto è minore l’intervallo e la relazione che li separa, e sembrano quasi che impossibili a combinarsi insieme. Ed inoltre, essendo l’attore solo in iscena, e tutta a lui rivolta l’attenzione del pubblico, non potranno a questo sfuggire le più leggiere imperfezioni di lui.

[19.4] Il carattere generale dell’espressione monologistica è l’agitazione più violenta o la più profonda concentrazione, è l’abbandono d’ogni riguardo, il non sentire, né spiegare altro che la propria passione; quindi lo sfogarsi liberamente, il vagare a seconda della passione estuante, senza che incontri al difuori ostacoli o limiti, che la raffrenino e la contengano. In tale stato violento la persona in balia di se stessa, or passeggia, or si arresta, ora siede, or si leva, e passa da un sito all’altro, e prende alternativamente tutte quelle attitudini analoghe ai diversi dubbj, o giudizi, o proponimenti che in lei successivamente si affacciano e si dileguano, ritornano e si contrastano. Quindi or si domanda e si risponde, o ripiglia da sé, come se la risposta gli fosse già stata fatta alla maniera del Tasso, il quale sovente ragionava o credeva di ragionar col suo genio, che non era che la sua immaginazione personificata; e così divide le sue brevi riprese con opportune reticenze e riposi ch’esprimono la sua profonda meditazione o la sua irrequieta sollecitudine. Quindi un continuo alternar di tuoni, di atteggiamenti, di situazioni, di movimenti, di pause, di silenzi, di vaniloqui; e spesso più che sentenze non si odono che parole tronche e scomposte, le quali accennano appena quel che dir si vorrebbe, o piuttosto il subito pentimento di quel che appena si è concepito od immaginato. In questi momenti si meditano, si deliberano si dispiegano le più terribili macchinazioni, i più disperati disegni, i delitti più atroci, e tutto ciò che di più geloso si teneva egli celato. Allora Medea medita e risolve l’assassinamento dei propri figli; Isabella scopre la fiamma occulta che l’arde; Agamennone piange senza riguardi il destino della sua figliuola ecc.

[19.5] Tutti i monologhi si possono ridurre a due generi, siccome le passioni che gli animano.

[19.6] Imperocché queste obbligano la persona o a riconcentrarsi in se stessa, o a vaneggiare fra le sue meditazioni, o a disfogarsi al di fuori ed espandersi fra’ suoi rapporti; e nell’uno e nell’altro caso il monologo può distinguersi in concentrivo ed espansivo. Domina nell’uno l’eccesso della tristezza, e quindi la fissazione, la gravità, la lentezza; domina nell’altro l’eccesso dell’ira, e quindi l’aberrazione, l’irrequietezza, la veemenza, la celerità. Fra tutti sono quelli i più interessanti e drammatici, che ammettono più varietà di passaggi, più delirio e trasporto. Giovi il commentarne alcuni dell’uno e dell’altro genere, affinché se ne comprenda ancor più l’indole e l’importanza.

[19.7] Uno certamente de’ più naturali e maravigliosi è il monologo di Macbet, dove combinandosi a un tempo la disposizione ordinaria della persona con l’accesso straordinario della passione che l’investe, lady Macbet, naturalmente sonnambula e lacerata da’ suoi rimorsi, sorpresa ed inorridita riguarda la sua mano macchiata di sangue, ed indarno si affanna di tergerla od almeno di celar l’orrida macchia. Compresa da quell’immagine, ella non parla, ma tacita e chiusa in se stessa, fra vani suoi tentativi tutto esprime e manifesta nel suo orrore quel che tace e vorrebbe celare. Alquanto simile è la situazione di Riccardo nella 1a scena dell’att. V. della tragedia di questo nome, dove, dopo aver sognato il suo esterminio, appena si sveglia, dice secondo la traduzione di Calsabigi:

Presto un altro destrier… la mia ferita
Presto fasciate… Odio, pietà!,.. Ma… piano…
Fu sogno… Oh come mi contristi in sogno,
O coscienza codarda!… Un fosco lume
Tremola nelle faci;… a mezzo il corso
Non è la notte… Gelido sudore
Mi scorre sopra le agghiacciate carni…
Perché?… Temo di me?… Io son qui solo….
Riccardo ama Riccardo… Ed io… son io… è qui un sicario?… No… Sì, io vi sono…
Dunque fuggiam…. Che…. da me stesso?,.. Sì,
Da me stesso: Perché?… Perché vendetta
Non faccia… Come!… in me di me? Io m’amo…
M’amo? per qual ragion? per qualche bene
Ch’io mi sia fatto? Ah no; m’odio piuttosto
Per mille abbominevoli, odiosi
Delitti che ho commesso… Un scellerato
Io son… Mento… Nol sono. O stolto, meglio
Parla di te, … non adularti, o stolto…
La mia coscienza ha mille lingue; ognuna
Fa il suo racconto, e ciaschedun racconto
Condanna me di scellerato ed empio ecc.

[19.8] Parla Otello nella 1a scena del IV atto, e le sue parole per la rapidità de’ pensieri che si succedono e si avvicendano, sono l’una dall’altra isolate ed in dipendenti; ma questo disordine diventa ricomposto e ligato per l’opportuna espressione di Garrick, il quale ne riempie i voti e ne rileva i passaggi con l’azione. La parola era per lui come un semplice e rapido cenno dell’espressione che doveva compierne e determinarne il significato. Così il talento di Garrick gareggiava con quello dello Shakespeare, siccome ad altri tempi il talento di Roscio con quello di Cicerone.

[19.9] Talvolta i monologhi del secondo genere sembrano tranquilli e riposati, e sono dettati dalla più profonda fissazione; e più che i sentimenti e i trasporti sono le idee e le riflessioni che si succedono e si contrastano. Tale è quello di Amleto nella 3a scena del IIIo atto, il quale è legato più nell’animo di chi parla, che nelle parole che interrottamente pronuncia. Io cerco di tradurlo nel modo che so migliore:

Essere, o no,… questo è il gran punto!… Dessi
Gli aspri colpi soffrir di sorte iniqua,
O rivolgersi incontro a questa immensa
Piena di mali, e dar lor fin? Morire. —
Dormir — non altro, e per tal sonno porre
Un termine alle angosce, a’ danni, a’ tanti
Dolori innumerabili, retaggio
Che da natura sol questo riporta
Massa di carne… questo istante, in cui
Tutto sarà consunto…. ardentemente
Desiarsi dovria. — Morir — Dormire —
Dormire? Sognar forse; ecco, ecco il grande
Inciampo. — Il non saper quai sogni questo
Possan turbar sonno di morte, allora
Che spogliati sarem di questo ingombro
Mortale, ah sì, questo pensier ci sforza
Ad arrestarci. È la ragion sol questa
Che alla miseria dà sì lunga vita.

[19.10] Forse sopra di questo modello formò l’Addison il monologo del suo Catone, quantunque sia questo più grave, e quale al carattere di quello stoico si conveniva.

[19.11] Io non finirei più se tutte volessi esporre quelle bellezze che tali situazioni tragiche sogliono racchiudere. L’Alfieri fra tutti i moderni ne offre delle maravigliose. Ancorché qualche volta il difetto di confidenti lo avesse obbligato a qualche monologo storico, sono tutti per l’ordinario animati di quel calore e di quell’interesse che li rende naturali ed efficacissimi. Si possono distinguere quali esempi e mezzi ad un tempo di espressione per gli attori che vogliono perfezionarsi in quest’arte, la scena 1a del V atto del Polinice, la 1a scena dell’atto I e la scena 1a del V atto dell’Agamennone, la scena 3a del IV atto del D. Garzia ecc.

[19.12] Finalmente si possono considerare come monologistici quei tratti, che sogliono occorrere nello stesso dialogo, allorché uno degli interlocutori è siffattamente occupato della sua idea o affezione predominante, che ne parla e delira come se fosse pur solo, ed ancorché scosso, e come ridesto dalla sua concentrazione o distrazione, pur vi ricade senza avvedersene, e vaneggia pur suo malgrado. Euripide fra gli antichi ne ha fatto un uso mirabile nella Fedra e nell’Ifigenia in Aulide, che Racine ha nelle sue giudiziosamente imitate. Fedra entra in iscena con Emone, la quale si studia di confortarla, ed ella, come alienata, continua a dolersi ed esclamare senza avvertirla:

Dieux! que ne suis-je assise à l’ombre des foréts!
Quand pourrai-je, autravers d’une noble poussière
Suivre de l’oeil un char fuyant dans la carrière?

[19.13]Agamennone, agitato su la sorte della sua figlia, e ripentito di averla chiamata, e temendo di vederla arrivare per essere sacrificata, mentre Arcade gli parla e lo ascolta, egli occupato di tutt’altra idea esclama senza avergli alcun riguardo:

Non, tu ne mourras point, je n’y puis consentir.

[19.14] Questi sono delicatissimi, e procedono da concentramento, ma sono più risentiti quelli che procedono da trasporto. Tali sono quelli di Giocasta nella fine del Polinice, di Oreste nella 2a scena dell’atto II dell’Oreste, allorché questi contempla e delira su la tomba del padre, e nella scena ultima del V atto allorché sa di avere ucciso la madre, e specialmente nella scena 3a dell’atto V del Saul ecc. nelle tragedie dell’Alfieri. Racine e Voltaire ne hanno pur de’ bellissimi.

[19.15] Ed a questi io pur riferisco quelle narrazioni di cose e di memorie sì interessanti per chi li fa, che non può a meno di comparire tutto compreso e preoccupato dal solo oggetto di cui favella, come se questo fosse a lui soltanto presente. Di questo genere è il momento di Atalia, allorché manifesta il sogno che ha fatto. Ella è talmente inorridita, che pare di rivedere quel ch’espone parlando. A questo modo dee pur Clitennestra narrare ad Elettra l’ombra di Agamennone che la perseguita. I sogni e le visioni di questa sorta debbono sempre esporsi, come se in quel punto si ripetessero.

Capitolo XX. §

Della decorazione della persona e della scena.

[20.1] Tutto ciò che riguarda la decorazione tanto dell’attore quanto della scena dee anche esso considerarsi come parte più o men necessaria all’espressione, e per conseguenza all’effetto della declamazione. E di vero se l’attore dee fare tutti gli sforzi per convertirsi e quasi identificarsi con la persona che rappresenta, tutti i suoi sforzi riuscirebbero vani, se la decorazione tendesse ad indebolirne od annientarne l’effetto, che nell’illusione unicamente consiste. E l’attore sarebbe tanto più riprovevole, quanto è più facile l’adempì mento di questa parte, e sommo il pregiudizio che non adempiuta apporterebbe a tutte le altre. La decorazione dunque della persona e della scena, dee concorrere anch’essa alla verità dell’espressione ed al fine dell’arte.

[20.2] E cominciando dalla persona, l’abito dee riguardarsi come la sua forma estrinseca e distintiva, e per conseguenza debbe essere conforme al carattere della persona, e quindi del paese, del tempo e delle condizioni, a cui la persona si riferisce. Sarebbe assurdo e ridicolo che Clitennestra ed Agamennone, che Andromaca ed Ettore, che Orazio e Virginia ecc. vestissero le fogge di Francia e de’ nostri giorni; e sarebbe più o meno sconcio se l’uno prendesse indistintamente la foggia dell’altro, ed il greco comparisse in toga, ed in pallio il romano, e così l’americano all’orientale, e viceversa. L’attore si troverebbe il più delle volte in aperta contraddizione con le sentenze che dovrebbe esprimere; e lo spettatore ne riderebbe fra sé, come noi rideremmo di un francese od italiano che si abbigliasse fra noi alla romana o alla greca. Tutti gli artisti che all’espressione muta e visibile si sono soltanto circoscritti, hanno finalmente sentito la necessità di evitare questo sconcio nelle statue e nelle pitture, e niuno di essi vi dipingerebbe Adamo sotto la forma di un pastore siracusano, e con una zappa d’oro accanto per lavorare la terra. E perché de’ pittori e degli scultori, il cui fine è meno d’illudere che di dilettare con la bella imitazione, sarebbero gli attori meno intelligenti ed esperti?

[20.3] E pure assai tardi hanno essi cominciato a conoscere ed osservare sul teatro questo dovere. A’ tempi di Pier Jacopo Martelli, Agamennone compariva su le scene di Parigi col cappello e con la parrucca sino al collare, dal collo poscia giù in giubbone, e in brache tempestate di giojelli, ricamate d’oro. E sino all’età della Clairon e di Le Kain nessuno eroe del teatro osava mostrarsi al pubblico senza gran parruccone, chiome magnificamente pettinate ed impolverate, cappelli sormontati da piume sventolanti e guanti a larghe frangie.

Spectatum admissi risum teneatis, amici?

[20.4] E pure a questa specie di parodia erano condannati i capolavori del gran Corneille e dell’elegante Racine; e vi sarebber stati condannati tuttavia quelli di Voltaire, se i due prelodati attori, meglio istruiti e confortati da’ lumi e dagli artisti dell’età loro, non avessero osato dichiararsi contro questa barbara e ridicola usanza. E viene ancor chi si vanta di essere stato il primo a comparire in iscena da vero romano. Da quel tempo in poi la scena francese ha portato il costume a quella verità ed esattezza che annunzia i progressi dell’arte e del gusto di questa nazione, e non manca di qualche opera opportuna ad istruire gli attori sopra questo particolare.

[20.5] L’Italia, ch’era pur ricca e prima e più d’ogni altra nazione di monumenti teoretici e pratici di questo genere, è stata a paragone delle altre più restiva e più tarda a farne uso ne’ suoi teatri. I nostri artisti che pur tanto valevano ad imitare la natura ch’essi vedevano, poco o nulla curavano di apprender quella che non esisteva fuorché ne’ libri. Ond’è che i nostri commedianti per l’ignoranza e l’inopia, in cui si trovavano, non comparivano insieme a rappresentare qualunque carattere, che non fossero vestiti, o piuttosto immascherati di seta lustrante, e con ornamenti e contorni di orpello e di talchi. Perlocché il vario luccicare e bagliore ond’erano ornati, non solo pregiudicava alla verità, ma toglieva alla fisionomia dell’attore la miglior parte dell’espressione, ed all’occhio dello spettatore la debita fissazione. E spesso il tintinnio dell’orpello accompagnava i varii movimenti della persona, cagionando la distrazione ed il riso degli ascoltatori. Io credo che basti ad abborrir tale scandalo il semplicemente accennarlo; e finalmente si va pur fra noi ogni giorno più correggendo. E se tuttavia la miseria obbliga alcuni a conservar questa pratica, l’intelligenza degli altri ha già cominciato ad introdurre su tal proposito le cognizioni ed il gusto dell’antico e del vero, ed applicarli opportunamente alla scena.

[20.6] Se questa specie di verità è pur tanto necessaria all’illusione che è il fine dell’arte, questa medesima illusione esige talvolta che non tutta si mostri quanto è, se troppo si trovasse in contraddizione con gli usi e con le opinioni dominanti del tempo e del paese, nel quale viviamo.

[20.7] La consuetudine esige qualche riguardo là dove è giunta ad associare a tali segni tali idee, che risvegliate produrrebbero per abitudine incontrastabile certe impressioni ed effetti del tutto contrari a quelli che l’imitazione si propone di cagionare. In tali incontri bisogna, il più che è possibile, conciliare prudentemente la verità con la consuetudine, perché non si diminuisca o distrugga da una parte il verosimile e la credenza, e dall’altra la decenza ed il costume. E forse eccedendo per tal riguardo siccome Corneille e Racine aveano dato a’ caratteri greci e romani il linguaggio della galanteria e della corte francese, soffrirono ancora che ne fossero francesi le fogge. Ma la verità dee sempre signoreggiare, specialmente là dove gli usi del tempo fossero anziché no degenerati, o coi buoni e migliori direttamente non contrastassero. Noi abbiamo altrove osservato che la verità non produrrebbe l’effetto che si propone l’imitazione di essa.

[20.8] Questo principîo dee pur regolare la decorazione della persona. La nudità degli americani, certe fogge degli antichi sciti ed egizii, degli arabi, de’ cinesi, ed altrettali maniere degli orientali e dei barbari, ecciterebbero lo scandolo od il ridicolo, e distruggerebbero ogni effetto dell’espressione e dell’arte. Dunque dee mostrarsi della stessa verità quanto basti a farla riconoscere e vagheggiare, ed a promuoverne l’interesse col verisimile e convenevole.

[20.9] Determinata la forma comune e propria della persona dee pur adattarsi non solo alla condizione particolare di ciascheduno, ma anche al maggior armonizzamento di tutti insieme. Perlocché si dovrebbero tra le fogge vere o verisimili quelle trascegliere che più si accordassero fra di loro con quella conveniente proporzione che le principali figure fa risaltare. I pittori hanno riconosciuto l’importanza di questa legge, e ri cercano in tutto la progressione e l’accordo. E noi proviamo tuttodì che se la menoma dissonanza ci spiace e raffredda, la maggiore consonanza delle parti c’interessa e diletta massimamente. Or qual effetto non produrrebbero quelle scene e quei gruppi che ci presentassero siffattamente armonizzate le loro figure? Di quanto non si accrescerebbe l’espressione degli attori, l’attenzione e l’interesse degli spettatori?

[20.10] Per la stessa ragione non dee neppur trascurarsi il carattere della scena, la quale anch’essa concorre dal suo canto a render vera e credibile l’espressione. La scena dee rappresentare il luogo, il tempo e le circostanze più rilevanti, più notevoli in cui l’azione del dramma si sviluppa e consuma. Alcune cose possono più o meno supporsi ed immaginarsi, ma non debbono mancar quelle che si vogliono indicare o mettere in opera su le scene. E peggio ancora sarebbe se le cose che si veggon sott’occhi sieno diverse od affatto contrarie a quelle che si accennano o che si adoprano. La contraddizione riuscirebbe tanto più fatale alla verosimiglianza ed illusione, quanto più fosse sensibile e facile ad evitarsi. E perciò in generale quello che richiede la scena dell’Edipo tebano, o del Prometeo, o della Ifigenia in Aulide, non può indifferentemente adoprarsi per la scena delle Trojane o del Filottete o di Ione.

[20.11] Egli è vero che alcune volte il carattere della scena è alquanto generale ed indefinito, e specialmente presso gli antichi, nei quali, per la latitudine della scena che comprendeva più membri, e per l’uniformità delle situazioni e degli argomenti, in cui doveva di necessità prender parte il coro od il popolo, essa era permanente e quasi sempre la stessa, come quella che doveva e poteva rappresentare ad un tempo la città, la piazza, il tempio, la reggia, il campo, dove l’azione in tutto o in parte si doveva eseguire. Per la qual cosa ogni scena, che in sé presentasse tali aspetti, poteva servire comodamente alla rappresentazione di tutte le tragedie greche e romane. Ma l’indole ed il sistema delle tragedie moderne, essendo di gran lunga variato, ed essendone gli argomenti più particolari caratterizzati e distinti, e la scena, per la sua ristrettezza, non potendo ammettere diversi membri simultaneamente, non può la scena medesima servire a più tragedie indistintamente; e tanto più se fossero conosciuti i luoghi dove l’azione delle moderne tragedie fosse addivenuta. La scena del Maometto non può scambiarsi con quella del Cesare, del Tancredi, e così di ciascuna di queste per tutte le altre.

[20.12] E giovano ancora non poco all’effetto della decorazione e dell’espressione dell’attore la forma, la capacità del teatro. Noi abbiamo altrove notato quanto nuoce alla verità ed al progresso dell’espressione lo sforzar troppo la voce sia per enfasi esagerata, sia per farsi meglio sentire.

[20.13] Non v’ha dubbio che la voce dee pervenire sino all’estrema circonferenza del teatro, e perciò la capacità di questo non debbe esser tale che sforzi troppo la declamazione degli attori, e l’attenzione degli uditori. Se il teatro fosse assai vasto produrrebbe i seguenti sconci: 1.o Non adoprando i nostri attori la maschera a tromba, che appo gli antichi rinforzava ed ingrandiva la voce a proporzione della grandezza dei loro teatri, sarebbero costretti a forzarla oltremodo, e quindi a snaturarla e renderla all’uopo meno flessibile ed efficace; 2.o Parimenti si toglierebbe all’espressione l’uso tanto importante della fisonomia, del ciglio, e dell’occhio principalmente, vantaggio che per le maschere mancava agli antichi, e che per la troppa distanza non si potrebbe godere dalla più parte degli spettatori.

[20.14] Si dovrebbe ancora provvedere allo stesso fine che la parte superiore della scena, ove gli attori declamano fosse opportunamente coperta, sicché la voce non si dissipi in gran parte prima che arrivi agli ultimi spettatori. Le soverchie aperture che circondano la scena, specialmente se si presentino alla voce in modo che una gran parte ne assorbiscano e ne distruggano, la rendono più o meno fievole e rotta e condannano gli uditori a non riceverla intera, e l’attore a sforzarla col pericolo di attenuarla ed indebolirla ancor più. Ma questa cura appartiene agli architetti intelligenti, i quali debbono costruire il teatro e la scena, secondo le leggi dell’acustica, relative all’unico fine dell’arte, sicché si agevoli il portamento della voce, e se ne diffondano i raggi regolarmente per le parti di mezzo e per l’estreme di tutto il teatro. E basti quel che abbiamo avvertito finora, per ciò che riguarda l’espression degli attori.

Capitolo XXI. §

Studio della parte

[21.1] Le considerazioni generali e particolari che abbiam fatto finora debbono regolare lo studio che ogni attore dee fare della sua parte. E perché molte cose si trascurano, e molte altre se ne fanno che non dovrebbero farsi, io credo giovevole lo stabilire alcune massime che possono servire a meglio determinarne la pratica. Dico dunque che la parte dee studiarsi, perché se ne comprenda tutto il valore, perché si mandi tutta a memoria, e perché se ne esprima tutta l’azione.

[21.2] A conseguire questi tre effetti, io propongo i tre mezzi seguenti: 1o Lettura comune; 2o Studio particolare; 3o Prova generale.

[21.3] Primamente è necessario, che avanti ogni altra cosa si legga la tragedia a tutti gli attori in comune, perché da tutti egualmente si comprenda la natura del subbietto e delle persone, e quel che risulta di più considerevole intorno alle loro relazioni e contrasti, ed a quai punti le loro passioni massimamente si spiegano e si distinguono. Da questa lettura si dee ritrarre il vero da imitarsi; e perciò dovrebbe farsi dal proprio autore che l’ha composta, ed in assenza di lui da persona intelligente e capace di rilevarne le bellezze originali, ed interpretare all’uopo tuttociò che paresse dubbio intorno agli oggetti più interessanti, che i doveri di ciascuno attore riguardano. In questa maniera non solamente si assegnerebbero le parti a chi più si convengano, ma ciascuno ricevendo la sua, ne avrebbe già compreso tutto il valore, cioè l’assoluto ed il relativo; e quindi risulterebbe quell’unità e quell’armonia, che è pur tanto rara a verificarsi, ove ciascuno si abbandoni al suo capriccio particolare, e che è pur tanto necessaria ove ciascuno voglia conseguire l’effetto desiderato. Così verrebbe a definirsi la vera idea del tutto e delle sue parti, e quel che gli attori hanno di comune e di proprio, perché poi ognuno, imparando la parte da sé, non divaghi dalla sua linea, e conspirando tutti al fine comune, adempia ciascuno la sua funzione.

[21.4] Da questa lettura si determinerebbe eziandio non pur la foggia del vestire generale e particolare, che il carattere e la disposizione della scena, e tutte quelle più importanti relazioni che con la scena deggiono avere gli attori. Per tal modo nulla resta al capriccio ed al caso, o alla differente maniera di giudicare o d’indovinare di ciascheduno; e tutto riuscirà armonizzato negli abiti e nei movimenti che avessero alcuna relazione locale con la scena.

[21.5] Instruito e pieno del disegno del dramma passa l’attore da questa lettura allo studio particolare della sua parte; e questo non debbe essere limitato alle sole parole, ch’ei dee recitare, ma a tutto il dialogo a cui esse appartengono. Se l’attore non solamente sente ed opera quando parla, ma ancora e talvolta più quando tace ed ascolta, il suo studio debbe abbracciare non pur quello che dee sentire ed esprimere quando ei parla, ma quello ancora che dee sentire ed esprimere quando tace. Ed in che modo si potrebbe eseguire tutto quello che l’espressione dialogística assolutamente richiede, se l’attore non tenga presente e prontissimo ciò che dee dire ove parli, e ciò che dee fare ove taccia? Oltrecché la variazione opportuna della fisionomia, dell’attitudine e la qualità conveniente del tuono, or più, or meno elevato od accelerato, e sempre concorde e consono a quello che precede e che siegue, non possono essere accuratamente determinate, se non dalla natura delle idee e dei sentimenti che debbono svilupparsi e succedersi. Ora se questi non si prevedono in tempo come potrete proporzionare ed economizzare l’azione e la voce secondo le circostanze e il bisogno? Io ritengo come cosa certissima, che non si può ben declamare qualunque scena, se ciascuno interlocutore non apprende egualmente il dialogo intero.

[21.6] Lo studio della parte consiste a mandarla tutto a memoria, sicché non abbia alcun bisogno di rammentatore per recitarla. Si richiede perciò una memoria tenace, esercitata, prontissima. Non è possibile esprimer bene, cioè con franchezza, con sentimento e spontaneità quello che non si sa o si dubita d’indovinare. L’attore in tale stato esprimerebbe assai più il suo imbarazzo e la difficoltà di mendicare ed aspettar le parole da un importuno rammentatore, che la forza degli affetti, di cui dovrebbe apparire solamente animato. E senza dire altro noi possiamo francamente asserire che senza l’apparecchio e l’uso conveniente della memoria ogni altro talento od esercizio sarebbe perduto.

[21.7] E pure una cosa evidentemente sì necessaria è quella che nei teatri d’Italia si trascura del tutto.

[21.8] L’uditorio è condannato, e pazientemente lo soffre, a sentirsi recitare da cotali rammentatori quello che gli attori vengono via via ascoltando e ripetendo comodamente. Si è creduto da alcuni, che presso i Romani due attori distinti sostenessero per l’ordinario, o piuttosto in certi incontri particolari la stessa parte, cioè l’uno declamandola, e l’altro nel tempo stesso gestendola. Forse il dividerne tali funzioni, superata la difficoltà del concerto facea sperare maggior destrezza e riuscita in ciascuno. Ma noi al contrario soffriamo che si raddoppi la stessa persona, e che la stessa parte si reciti a un tempo dal suggeritore e dall’attore pel solo effetto della più annojevole monotonia. E supposto che il rammentatore non venga dagli spettatori avvertito (cosa impossibile nei nostri teatri non molto grandi) non potrà l’attore celare quella specie di attenzione, che è costretto a prestargli e che l’obbliga a continue distrazioni, trovandosi mai sempre nel bivio o di negligere la vera espressione della sua parte, o di smarrir le parole che dee il suggeritore imboccargli.

[21.9] Io so che i commedianti italiani non possono in brevissimo tempo imparare tutti quei drammi e di genere diversissimo, che sono obbligati a rappresentare, sì perché sono essi pochissimi di numero, si perché debbono rappresentar sempre dei nuovi drammi, i quali invecchiano affatto appena rappresentati. Ma di tale sconcio son pur cagione gli attori medesimi, i quali per quanto sia il dramma eccellente, non potendo interessar gran fatto con la rappresentazione di esso mal eseguita, si trovano obbligati ad alimentare con le novità la curiosità ed il concorso del pubblico, e così a progredir sempre di male in peggio. Il che non accadrebbe se gli attori e le rappresentazioni fossero quali dovrebbero essere; e tali non saran mai se non si studii ed impari la parte come conviene. E di fatti le migliori tragedie dei Corneille, dei Racine, dei Voltaire, ond’è sì ricco il teatro francese, non annojano, né invecchiano mai, ancorché volgarmente si dica che i francesi sien fatti per annojarsi e variare più che altri; e lasciando da parte queste differenze comparative, e le ragioni che le producono e le giustificano, diciamo invece che i migliori teatri delle altre nazioni non soffrono tali scandali, dovrebbero gli italiani una volta imitarli e non più tollerare di tali attori e suggeritori. Non si dovrebbe dunque ammettere sulle scene alcun commediante che avesse bisogno di rammentatore, il quale dovrebbe limitarsi a seguire l’attore soltanto col guardo perché sia pronto a richiamarlo e soccorrerlo ove alcuna volta si smarrisca o vacilli.

[21.10] Dovendo l’attore mandarsi a memoria non pur le parole ed i versi che dee recitare, ma tutti i modi e gli accidenti che all’espressione appartengono, si potrebbe, anzi dovrebbe, potendosi, notare i tratti principali, che più meritassero la sua attenzione. Si è disputato lungamente fra molti, se gli antichi notassero la loro declamazione, come noi il recitativo, e se quella fosse per loro in tutto od almeno inparte una specie di canto, capace di tali gradazioni più o men spiccate per la loro intonazione o tenuta. Ma lasciando agli eruditi tali ricerche e congetture, noi ci contentiamo di osservare, che per quanto gli elementi della pronunciazione ordinaria sieno sfuggevoli e difficilissimi a calcolarsi ed a maneggiarsi, è pur riuscito a molti di notarne utilmente e prudentemente le più sensibili modulazioni. E quantunque il signor Larive avesse tentato di ridurre questa pratica a sistema generale, i più esperti commedianti se n’erano assai prima giovati secondo la loro maniera particolare. L’avea di fatti adoperata Baron, e proposta e commendata Dhannetaire, e taluno al riferir di Du Bos, avea pur tentato di notare, come il canto, tutta la declamazione seguitamente. Dietro gli esempi ed i tentativi di costoro, io penso che se è difficilissimo e di niun uso, e forse ancora di pregiudizio il notarla seguitamente e per intero, può giovare non poco, ove si notino prudentemente quei tratti soltanto che meritassero alcuna avvertenza particolare. Né mancano dei segni riconosciuti a quest’uopo, come i tratti orizzontali continuati o punteggiati, che indicano un sensibile cangiamento di voce dopo alcuna pausa od interrompimento di senso principîato, o che si voleva principîare. Si potrebbe su lo stesso esempio moltiplicarne degli altri, più o meno lunghi e raddoppiarli e triplicarli orizzontalmente o perpendicolarmente tanto al finire o cominciare delle parole, quanto al di sopra o di sotto, assegnando a ciascuno il suo significato per un certo genere o specie di espressione, sia di tuono o di atteggiamento. E così si potrebbe aiutar la memoria e l’attenzione in certi luoghi più interessanti, senza imbarazzar troppo il libero andamento della declamazione, che potrebbe essere offeso dall’eccesso di regolarità e di analisi.

[21.11] Ogni artista che intende ad imitar la natura ne’ suoi modelli ha questi sott’occhi, e può esaminarne la giustezza e correggerne i difetti e dar loro quella perfezione che non avessero ne’ primi esperimenti sortita. Il solo attore non ha come gli altri questo vantaggio: egli non può osservare ed esaminare in se stesso l’obbietto e l’effetto dell’arte sua. Molti hanno quindi adoperato a quest’uopo lo specchio per osservare e migliorare il portamento, le mosse ed il gesto della persona. Per tal ripiego Minerva, riguardandosi nell’onda pura d’un ruscello, gittò il flauto ch’ella suonava. Il buon Plutarco sperava dallo stesso ripiego, che l’iracondo potesse correggersi, ricorrendo allo specchio negli eccessi della sua collera, come se al collerico spiacesse di apparire quale vuole essere, secondo che Seneca rifletteva. Può dunque lo specchio avvertire e correggere soltanto i difetti della persona tranquilla. E tale potrebbe essere sino a certi termini il commediante. E da temersi però che stando rivolto ed inteso ad osservare la sua immagine, non si avvezzi a trascurare qualche altra parte dell’espressione, ed a prendere alcuna sconcia abitudine, a cui l’obbligasse cotesta applicazione. Certamente l’espressione non può vedersi nella sua integrità, perocché il guardo inteso ad osservar su lo specchio l’atteggiamento della persona, e col guardo la miglior parte della fisonomia che da quello dipende, non possono simultaneamente accompagnarla e convenientemente atteggiarsi col resto della persona.

[21.12] Ad evitare tali pericoli, l’uso dello specchio dovrebbe limitarsi con miglior successo ad esaminare quelle mosse e posture straordinarie, in cui la persona in certe situazioni più rilevanti e pittoresche, dee singolarmente spiccare ed atteggiarsi a far gruppo con le altre. Tali atteggiamenti possono quindi considerarsi per la loro importanza e specialità come separati da tutto il resto dell’espressione, e ripetersi e migliorarsi e rendere accurata con l’osservazione, e spontanea con l’esercizio quell’attitudine che altrimenti riuscirebbe pericolosa e difficile a colpire. E tale esperimento sarebbe ancor più utile se si facesse qualche volta con l’abito caratteristico indosso; perocché concorre ancor questo, ed in gran parte alla dignità ed espressione del portamento, del gesto e della figura, che in certi momenti raccomandano al maneggio dell’abito il loro effetto. Così il farsi cadere or di un modo, or di un altro il pallio o la toga; il pigliare or l’una or l’altra falda del manto, e gittarla or sull’uno or sull’altro braccio, e comporre all’uopo le forme opportune dell’abito con gli slanci della passione dominante ed inventarne delle nuove e significanti. I pittori non hanno trascurato questo studio ne’ loro panneggiamenti. Timante presentò Agamennone col volto coperto dal suo manto sul punto che s’immolava sull’altare la sua figliuola. Così pure Ovidio fa coprire il viso a Mirra davanti al padre:

Saepe tenet vocem, pudibundaque vestibus ora.
Texit.

[21.13] Ed Argante nella Gerusalemme liberata si esprime assai più con l’artificiosa disposizione del manto, che con le parole.

[21.14] E qui conviene particolarmente avvertire che più dello specchio sarebbe acconcio ed efficace un amico intelligente, al cui giudizio si sottoponga l’attore. Se Roscio lo faceva con Cicerone, perché non possono e debbono farlo i nostri attori, che certo non superiori a quello per merito? Si sa che Le Kain consultava sovente un suo amico particolare su’ passi più difficili e interessanti della sua parte, e fattine più sperimenti davanti a lui, preferiva per lo più quello ch’era dall’altro giudicato il migliore. In questa maniera tutto ciò che non potremmo osservare e giudicare da noi, ne verrebbe avvertito opportunamente da chi, potendo interamente ed imparzialmente osservarci, sarebbe nel caso di meglio consigliarci e correggerne.

[21.15] Dopo lo studio particolare conviene che tutto si ricomponga nella prova generale. Questa esige che ciascuno attore sappia già la sua parte, e francamente la reciti. Fatto prima qualche esperimento per assicurarsi della recita, si faranno gli altri su la scena per combinare ed eseguire tutto ciò che riguarda l’accordo, l’armonia delle parti e dell’espressione, specialmente riguardo al movimento, all’attitudine e alla situazione rispettiva, sia entrando, sia uscendo di scena, sia nel corso del dialogo, e massime ne’ gruppi o nella disposizione delle figure che possono occorrere.

[21.16] E perciò qualche prova dovrebbe esser fatta con gli abiti propri e con tutto l’apparecchio della decorazione scenica per giudicare dell’effetto. Per tali esperimenti mille cose praticamente si conoscono, si tentano, si correggono e si migliorano, sino a tanto che la rappresentazione giunga a quel grado di perfezione, che la renda degna di esporsi al pubblico.

[21.17] Io non determino il numero delle prove. L’Alfieri ne voleva almeno dieci, e senza rammentatore, e potrebbero ancor dieci non esser bastanti. Credo però che il loro numero dovrebbe determinarsi secondo l’esercizio e l’abilità degli attori. Ora per quanto questi si suppongono abili ed esercitati, una o due prove non possono esser mai sufficienti a quella perfezione che si richiede; e chi credesse altrimenti, mostrerebbe la sua stolta presunzione, o piuttosto l’ignoranza dell’arte sua. Che se l’arte non si conosce affatto, e, che è peggio, sia corrotta e viziosa, quale l’Alfieri la compiangeva in Italia, e debba del tutto rinascere e crearsi di nuovo, non debbono risparmiarsi più prove ed esperimenti per conoscerla, correggerla e perfezionarla. E se a taluni paresse troppa la fatica, a cui tal mestiere dovrebbe assoggettarli, qualunque artista non è mai riuscito, né può riuscire perfetto, se a questa legge non si sottoponga. I migliori fra gli antichi non la trascurarono. Cicerone dicea per tutti: Jam vocis, et spiritus, et totius corporis, et ipsius linguae motus, et exercitationes, non tam artis indigent quam laboris. E se ciò dell’oratore avvertiva, quanto più dell’attore si debbe esigere? Improbo fu lo studio di Roscio, e continui gli esperimenti ch’egli faceva del suo talento e dell’arte sua. Molti ci parlano di varii esercizi, ai quali gli attori si assoggettavano. Nerone medesimo si tormentava sovente per ben rappresentar le sue parti. E i Baron, i LeKain, le Clairon hanno pure emulato il loro studio e la loro gloria.

Capitolo XXII. §

Indizi ed effetti del perfezionamento dell’arte.

[22.1] Il fine della tragedia è di eccitare la passione più nobile e più sublime dell’uomo, la quale è la sorgente di tutte le virtù civili, e che la società corrotta ha per lo più soffogata e quasiché spenta. Tutte le arti dovrebbero unicamente cospirare ad interessar l’uomo nella sventura dell’uomo, a fargli prender parte ne’ mali degli altri, e farlo anzi compiacere nel suo spontaneo compatimento. Ma questa vera e divina virtù, che è la cagione ad un tempo e l’effetto dell’unione, della forza e della perfezione degli uomini, e che ci rende tollerabili, e, quasi non dissi, aggradevoli gli stessi mali che la generano e l’alimentano, è massimamente e propriamente raccomandata al ministero della tragedia, la quale fra le eroiche passioni che adopera, del terrore e della compassione si diletta principalmente. Ora l’attore dee secondare, ed oso ancor dire, assicurare ed accrescere questo fine col mezzo dell’illusione, e verificare con l’espressione questo effetto maraviglioso, senza del quale il fine dell’autore non potrebbe ottenersi. Dunque la tragedia non può conseguire l’intero suo fine, se il fatto che rappresenta non ha da prima commosso fortemente l’autore, e se l’opera di costui non ha poi commosso egualmente l’attore, e se questo alla fine non riesce a ripetere le medesime impressioni negli spettatori.

[22.2] Per la qual cosa il primo indizio dell’abilità dell’attore nella sua commozione consiste. S’egli si sente fortemente agitato, s’egli ha prima versato delle lagrime nello studio della sua parte, può probabilmente provarsi di farne spargere agli altri nel declamarla. Quintiliano vide sovente degli attori uscir dalla scena ancor piangendo a cagione della calamità che aveano veramente imitato:Vidi ego saepe histriones atque comoedos cum ex alieno graviore actu personam deposuissent, flentes ad huc egredi. L’attore è dunque il primo a sperimentar l’arte sua, ed a compiacersene nel suo segreto, avanti che agli altri l’esponga; e per quanto l’amor proprio lo insidi, è desso il primo giudice dell’opera sua. E in che modo e con qual dritto potrebbe sperare e pretendere d’interessar gli altri, s’egli che debb’essere interessato più d’altri, si trovi indifferente e freddissimo? A me sembra non pur fina che giusta ed applicabile al caso nostro l’osservazione che faceva il poeta e filosofo Euripide nella tragedia delle Supplici:

Non può poeta o musico giammai
Senza diletto degli studi suoi
Componendo e cantando i versi, prima
Altrui piacer, se prima a sé non piace,
Che la dilettazion dell’arte è quella,
Che la conduce al suo perfetto stato.

[22.3] Ma l’effetto più grande e mirabile è quello che si raccoglie dall’animo degli spettatori, e che pienamente ottenuto diventa il segno più certo della perfezione dell’arte. Ma siccome possono esser varie le impressioni e le occasioni negli accidenti che le producono, cerchiamo di caratterizzare la propria e la genuina, e distinguerla dalle false ed estranee, che prendono spesso il luogo di quella. Sovente l’interesse che il pubblico spiega per qualche rappresentazione deriva dall’apparecchio specioso della scena, dalla novità delle decorazioni, e da altrettali circostanze estrinseche e meno proprie del carattere tragico. Allora non è l’espressione e il merito dell’attore, ma quello bensì del decoratore e del macchinista che si sperimenta e si approva, ancorché il pubblico poco intelligente confonda l’uno con l’altro, e si contenti, ch’è peggio, di tali speciose apparenze per applaudire delle rappresentazioni, altronde inette e ridicole.

[22.4] Nascono talvolta gli applausi dalla qualità della persona, e non già dall’attore. Ancorché tutte le arti tendano ad istruir dilettando, sovente il solo diletto diventa il mestiere ordinario del commediante, massime in quei paesi, dove l’arte non si conosce né si rispetta. Allora si cerca nella persona quella specie d’interesse che non può trovarsi nell’arte; e la scena degenera in uno spettacolo di tutt’altra natura che non è quello cui è destinata. Quindi si formano e si dispiegan quelle preoccupazioni e favori, che in parti e fazioni sovente degenerano, che pur divisero una volta l’antica Roma, e che turbano la pace di tutti i paesi che le alimentano. Io vorrei lusingarmi che non esistano di tali teatri fatti per l’obbrobrio degli artisti, che vi si espongono, e delle nazioni che li mantengono.

[22.5] V’ha pure un altro genere di applausi, che suppone nell’artista una certa destrezza, che sorprende e seduce gli spettatori non esperti, e destano in quelli tutt’altra affezione che quella che unicamente dovrebbero. V’ha de’ ciarlatani e degli empirici in ogni mestiere; e la declamazione ne abbonda fra gli altri. Hanno questi tali artifici e maniere, tutti falsi e speciosi, che tendono a lusingare, ammaliare e sorprendere i semplici spettatori, che pur si dilettano e si compiacciono di quello effetto, non conoscendo, non trovando altro di meglio che più li soddisfi. Quindi si sono inventate e conservate certe tiritere, certe progressioni di tuoni speciosi, certe fughe precipitate, certe cadenze affettate, che provano l’arte ciarlatanesca dell’attore che l’eseguisce, e il niun gusto del pubblico che le ammira. Egli è vero che spesso tali artifici costano molto studio e fatica, e sono pur difficili ad eseguirsi; ma non son mai da approvarsi, se sono falsi, inopportuni ed assurdi. E se il pubblico è inetto a tale da lasciarsi illudere, ed ammirarli, non dee il buono attore aspirare a questo genere di applausi. Ed a chi si mostrasse superbo di tal fortuna si potrebbe dire quel che disse Ippomaco, sonatore di flauto, ad un de’ suoi allievi:Puoi tu credere di aver ben suonato, mentre simili uditori ti applaudiscono? Finalmente il solo effetto che si vuole produrre, e che può assicurarci del merito dell’attore e della perfezione dell’arte, si è il terrore e la pietà, che sempre si manifestano nel più profondo silenzio, ne’ palpiti e nelle lagrime degli spettatori. Senza questo effetto precedente gli Abderiti non sarebbero giunti a delirare tragicamente ne’ loro accessi febbrili, e declamare le scene intere di Euripide. Quando Merope era sul punto di trucidare il suo proprio figliuolo, credendo di vendicarlo: arrestati, gridò attonito uno spettatore; desso è tuo figliuolo. — E per tacer degli antichi noi possiamo alla greca Merope opporre la moderna Arianna (Clairon) in quella bella scena, in cui, disperata, domanda a tutta la natura chi le abbia rapito il cuore di Teseo. Vous vous rappellez l’anglais, scriveva Maister al suo Ippolito, qui durant toute cette scène, appuyé sur la rampe du théatre, les yeux fixés sur l’attrice sublime qui jouait ce rôle avec tant de doleur et de noblesse, ne cessait de lui dire toul bas en sanglottant: C’est Phédre, c’est Phédre.

[22.6] Talvolta lo stesso effetto si genera nell’animo di chi suole essere preoccupato in contrario.

[22.7]Cicerone ci narra di C. Gracco, che declamando su la morte di suo fratello Tiberio le seguenti sentenze:Quo me miser conferam? quo vertam? in Capitolium ne? ac fratris sanguine redundat: an domum? matrem ne ut miseram, lamentantemque videam, et abjectam? era tale e tanta l’espressione del suo dolore, che traeva le lagrime dal cuore de’ suoi nemici. E per non allontanarci dalla storia del moderno teatro, la stessa Clairon ci confessa pur suo malgrado la sorprendente impressione che fece su l’animo suo la sig.a Desenne; e si sa che l’attrici non sogliono essere favorevolmente preoccupate l’una per l’altra.

[22.8] E cresce di tanto il merito dell’attore, se giunge la sua espressione a penetrare ne’ cuori più difficili e meno fatti per sentir le voci della natura. Si dice di Condé ch’ei si scioglieva in lagrime, allorché sentiva declamare quei versi di Augusto nel Cinna: “O siecles! o memoires! ecc.” Condé non aveva allora che venti anni, e le sue lagrime annunciavano o l’integrità del suo cuore, o l’impero dell’espressione. E perciò la tragedia ben declamata sarebbe per tal rispetto il mezzo più efficace di sorprendere e commuovere a favore degli infelici i potenti ed i grandi, e di purgare con la pietà e col terrore quegli affetti, di cui questi sogliono pur tanto abusare. Plutarco ci attesta che Alessandro tiranno di Fera, assistendo alle Troadi di Euripide, e vergognandosi di piangere sopra le calamità di Andromaca e di Ecuba, improvvisamente si ritirasse dal teatro. Questo aneddoto prova ad un tempo la forza dell’espressione tragica e la impotenza di quel principe, che non osava resistere all’azione di lei. E noi potremmo aggiungere in ultimo che talvolta la vera tragedia è stata proscritta, perché si temeva che gli spettatori, fortemente commossi su’ pubblici mali, non sentissero quella pietà che suole precedere le più grandi catastrofi degli stati.

[22.9] Può dunque conchiudersi che il segno più certo della perfezione dell’arte e del merito degli artisti non consiste in veruno di quegli applausi, che profonde la sorpresa, o il favore, o la meraviglia, o qualunque altro affetto, che non sia quello del terrore e della pietà, e che per conseguente non già l’evviva, i battimenti di mano, ed altrettali strepiti, ma bensì i palpiti, le lagrime, i fremiti ed i singhiozzi sono l’elogio più sincero, che i buoni attori possano e deggiano riportare. Tu allora non osservi fra gli spettatori immobili ed attoniti, che un freddo e profondo silenzio, interrotto da qualche sospiro, e foriero de’ più nobili sentimenti; ed è questo il vero trionfo del poeta, dell’attore e dell’arte.

Capitolo XXIII. §

Scuola teatrale.

[23.1] Le nostre private considerazioni, e quelle eziandio di qualunque altro che le corregga o confermi, di pochissimo o niun giovamento riuscirebbero all’arte, se non si fondi una pubblica scuola, in cui s’insegnassero a un tempo i veri principii teoretici, e se ne esperimentasse l’effetto con una pratica ben regolata e metodica, e specialmente se l’arte si trovasse non pur imperfetta, ma qual la credeva l’Alfieri ai suoi tempi, sì traviata dalla strada vera da non ritrovarsi mai più, fuorché incominciando da capo. Che s’egli diceva che non vi è arte in Italia finora, perché non vi son tragedie eccellenti e commedie, ora che vi sono le sue, non dovrebbe mancar chi la insegni, e per conseguenza una scuola che ne offra l’insegnamento, secondo i veri principî del gusto e della ragione. E perché se tutte le arti imitatrici hanno delle pubbliche scuole che le professano e degli alunni che le apprendono e l’esercitano, non debbe accordarsi lo stesso dritto alla declamazione che di tutte le altre si giova, e che ben eseguita può a vicenda a tutte le altre giovare? Sarà forse perché si reputa meno delle altre difficile, men dilettevole, men necessaria. Ma perché sono sì rari gli attori, anche là dove l’arte e la scuola si tengono in pregio? e niuno da più tempo ne apparisce colà dove né dell’arte, né della scuola si tiene conto? Perché sprezzare la perfezione di un’arte che anche rozza, difettosa ed imperfetta qual’è, attira e diletta il pubblico più che ogni altra? E perché trascurarla se oltre il diletto potrebbe servire di mezzo potentissimo ad istruire e purificare le passioni e le opinioni del popolo, e rendere più civile e più colta la nazione?

[23.2] Ma io non credo che vi abbia alcuno che dubiti della necessità ed utilità di tale istituzione, sia per creare o per conservare, sia per correggere o migliorare un’arte tanto diffìcile ed importante.

[23.3] Perlocché io reputo necessario al compimento del mio disegno il dar qui alcune considerazioni che possono pienamente realizzarlo. E primamente distinguo tale insegnamento in cognizioni preliminari ed in proprie, cioè in quelle che debbono precedere l’arte della declamazione, ed in quelle che propriamente la costituiscono. E supponendo che chi voglia imparare quest’arte non abbia alcuno di quei vizi naturali che sono incapaci di correggersi o tollerarsi; e che anzi abbia tutte le naturali disposizioni che si richiedono per l’esercizio di quest’arte, pare, secondo me, che volendo esercitarla decentemente, si trovi obbligato alle seguenti condizioni.

[23.4] 1o Cognizione della propria lingua. Egli è vero che l’attore non è destinato a scriverla, ma soltanto a pronunciare ciò che l’autore ha composto; ma non è possibile ch’egli pronunci con la debita accuratezza certe maniere, certe frasi, certi giri particolari della sua lingua, se non ne conosca la proprietà e la forza. Questo dipende per l’ordinario o dalla natura stessa delle parole, o dalla loro artificiale combinazione. L’una costituisce la parte materiale, ossia il dizionario della lingua, e l’altra la parte formale, cioè la grammaticale o sintassi. Or come si pretenderebbe esprimere esattamente quello che esattamente non si conosce? E conosciuta che sia perfettamente egli è pur necessario il pronunciarla come quelli che più propriamente la parlano. In Parigi non si soffrirebbe un attore che pronunciasse con l’accento dei Provenzali. E perché si dovrebbe soffrire qualunque pronunzia provinciale nei migliori teatri d’Italia? L’Alfieri richiedeva assolutamente che essendo il toscano il miglior dialetto d’Italia, quello per l’appunto si dovesse apprendere e praticare, finché la divisione politica delle sue provincie ne arresti e impedisca l’influenza e la propagazione. Malgrado siffatti ostacoli l’Italia colta dovrebbe a quella principalmente attenersi, e senza disprezzar gli altri, far sì che l’uno primeggi, degli altri pur giovandosi a un tempo, evitando sempre la licenza ed il pedantismo.

[23.5]Disegno. Quest’arte è oramai reputata comunemente come parte constitutiva di una buona educazione. Tutti i mestieri ne hanno tirato più o men di profitto. Ma l’attore principalmente potrebbe giovarsene per apprezzare, distinguere ed imitare quelle attitudini, che sono a un tempo più espressive e più aggradevoli nell’esercizio dell’arte sua. Con tali cognizioni egli potrà meglio conoscere le forme migliori dei più grandi pittori e scultori, ed emularne il gusto e la verità nell’atteggiarsi alla vista dei suoi spettatori. Ed in questa maniera potranno indi i pittori e gli scultori, a vicenda, emulare da lui quel ch’egli aveva prima emulato da loro.

[23.6]Ballo. Se questo tende principalmente a regolare l’andamento del corpo, ed a facilitare nell’incesso, nel contegno e nel gesto quella solidità, dignità ed eleganza che ne rendono l’azione più interessante, io non credo che un buono attore ne possa del tutto prescindere. Io non intendo perciò ch’egli abbia con troppo artifizio a misurare i passi, i gesti e qualunque più picciolo movimento del corpo. Questa sarebbe un’ostentazione ed un abuso che farebbe dell’attore un semplice ballerino. Il ballo non dee servirgli ad altro uso, che a rendergli il corpo più sicuro ad eseguire quelle attitudini e quei movimenti che la passione esiga e comandi. E secondo questo disegno era raccomandata quest’arte da Socrate, che certo non era né galante, né ballerino.

[23.7]Musica. Quello che il ballo ottiene dall’esercitazione dei moti del corpo, la musica vocale può eziandio ottenerlo dall’esercitazione della voce. Con questo esercizio non pur si addestra, ma si fortifica l’organo vocale; e l’attore imparando a conoscere le degradazioni più semplici della voce, potrebbe farne un uso più esteso e conveniente per la parte più difficile dell’espressione.

[23.8] Quanto abbiamo osservato dei tuoni, delle modulazioni e delle consonanze dialogistiche, sarà sempre meglio eseguito da una voce addestrata opportunamente dall’arte del canto. Gli attori antichi non cessavano di provare la voce continuamente, facendola scorrere su tutti i tuoni possibili; e per tal modo si può evitare l’ordinaria monotonia, ed abilitarsi a quella varietà, la quale, servendo opportunamente all’indole varia delle circostanze e dei sensi, giova e concorre non poco all’armonia del parlare.

[23.9] Storia. Il disegno, il ballo ed il canto formano, per dir così, la parte meccanica dell’educazione dell’attore, ma è pur necessario formarne la parte morale; ed a questa giova particolarmente la storia. Senza di questa egli non conoscerebbe i caratteri, i costumi ed i riti di quelle persone, di quelle genti e di quei tempi che debbe imitare. Per quanto sieno questi accennati o tratteggiati dal poeta, che ne circoscrive la descrizione pressoché al solo spazio, di una giornata, in cui si limita l’azione della tragedia, l’attore non ne avrà mai quella prima cognizione, che può solamente ottener dalla storia. Che razza di attore sarebbe colui, che dovendo rappresentare il Nerone di Racine o dell’Alfieri, non ne abbia prima compreso tutto il carattere dagli annali di Tacito? Oltrecché come convertirsi e trasformarsi in un Greco o Romano, senza prima aver conosciuto il fare dei romani e dei greci dalle storie loro? I riti diversi e una parte di quei gesti che abbiamo denominato convenzionali, non potrebbero punto imitarsi, senza averli prima conosciuti nella loro storia rispettiva, che è come dire senza prima aver qualche tempo dimorato e vissuto con esso loro?

[23.10] Morale. Pare che questa non solamente sia necessaria per praticarla onde conservare all’attore quella dignità e quella forza che la pratica dei vizi gli toglierebbe o diminuirebbe, ma ancora per conoscere per distinguere e ben imitare il carattere delle passioni, dei vizi e delle virtù. Oltreché conoscendo abbastanza se stesso è abilitato a vie meglio conoscere gli altri; e così a determinare con maggiore facilità ed esattezza la natura e la proprietà di quelle persone, di cui dovrà sostenere le parti. Tutte le passioni ed abitudini hanno la loro fisonomia particolare, e quindi i loro tratti, le loro tinte, la loro figura; e se di queste si avesse un’ idea oscura e confusa non potrebbero con la conveniente precisione contraffarsi ed esprimersi. La vera idea del carattere tragico non potrebbe mai bene afferrarsi, senza prima essere pienamente istruito e convinto di certe grandi verità, che i doveri ed i diritti più importanti riguardano dell’uomo e delle città.

[23.11] Quindi risultano le passioni ed i sentimenti più generosi, e non potrà mai sperimentarli, né quindi imitarli colui che non conosca i principî, ond’esse derivano e si sviluppano. Quante parole, quante frasi, quante sentenze si pronunciano senza effetto, perché se ne ignora la vera forza?

[23.12]Eloquenza. Se l’eloquenza è quella che fa conoscere la forza e la bellezza del dire, e quindi la natura e l’uso delle figure e dei tropi, diretti a manifestare e comunicare i propri sentimenti ed affetti, ossia a far sentire agli altri quel che si sente in se stesso; io non so come un buono attore potrebbe dispensarsi da siffatta cognizione. Per questa ignoranza si osserva per l’ordinario che l’attore non anima e lumeggia quei tratti che egli dovrebbe a paragone o a preferenza di certi altri, che senza alcuna ragione, gli vanno più a verso. Tanto più che sovente la tragedia ammette delle aringhe deliberative o giudiziarie, sia per discutere qualche subietto di politica ragione, sia per fare le difese e le accuse di alcuno, e queste non si potrebbero con verità pronunciare, se non se ne intenda alquanto l’artifìcio ed il valore.

[23.13]Poesia. La poesia ha molte relazioni con la declamazione; e se l’attore non debbe esser poeta, egli non può però prescindere dal conoscerla se vuol ben declamarla. La poesia in tutte le lingue, ma specialmente nell’italiana, ha un linguaggio tutto suo proprio e diverso affatto da quel della prosa. Cotesta differenza è tale fra noi, che spesso t’incontri in persone colte, che parlano e scrivono la prosa correttamente, e che non sono atte egualmente ad intendere, non che scrivere la lingua poetica. Ed è questa la prima ragione per la quale in Italia né gli attori declamano la tragedia sì facilmente, né gli spettatori sì facilmente l’intendono. Noi abbiamo altrove discorso quanta difficoltà s’incontri, e quanta maestria si richiegga per pronunciare convenevolmente la versificazione italiana, tutte quelle osservazioni ci provano abbastanza la necessità di apprenderne la meccanica e l’artificio. E dalla sola abilità e destrezza dell’attore si può sperare di vedere accresciuta l’attenzione ed agevolata l’intelligenza degli spettatori.

[23.14] Ed è certamente di tutte le parti la drammatica la più necessaria. Imperocché l’ignoranza di questa parte fa sovente trascurare e perdere quelle bellezze dell’arte, che dovrebbero essere specialmente sentite ed assaporate, e che, per questo difetto, o non si avvertiscono, o, ch’è peggio, si disprezzano. La drammatica degli attori sembra, il più delle volte, affatto diversa, per non dir contraria, da quella che professano gli autori. Il genere di bellezze che cercano gli uni non è quello che procurano gli altri. Amano quelli per l’ordinario sorprese, strepiti, accidenti maravigliosi ed inaspettati, incontri improvvisi, complicazioni d’intrighi e simili tratti, cui danno il titolo specioso di situazioni, di colpi di scena, di contrasti ecc. E questi tengono dietro alla semplicità della favola, alla naturalezza degli accidenti, alla verità della passione, alla facilità dello scioglimento, per cui, il più delle volte, le loro tragedie, o non sono ben declamate, perché male intese da loro, o si trascurano affatto, perché da loro non approvate. La Francia stessa ha sofferto più volte questo scandalo. L’Edipo di Voltaire non fu ricevuto se prima l’autore non l’avesse peggiorato introducendovi un genere di galanteria, che è il difetto più intollerabile di quella tragedia. La Merope sarebbe stata negletta, se la Dumesnil non ne avesse conosciuto il merito. E si dovette impiegare la protezione di un pasticciere per far ricevere la Zaira. Tralascio altri simili fatti che formano, secondo l’ingegnosa espressione di non so chi, il martirologio degli attori drammatici, e che formano la storia più vergognosa dell’ignoranza degli ordinari commedianti.

[23.15] Più barbaro è poi il trattamento che sogliono fare di un dramma poi ch’è ricevuto, troncandone e sopprimendone alcune parti, credute da loro superflue, e che spesso sono importantissime alla perfezione del tutto. Quanti caratteri, quante scene, quanti tratti bellissimi si veggono alterati, indeboliti o distrutti con sommo pregiudizio dell’azione principale per l’ignoranza e la temerità degli ordinari commedianti che non intendono il proprio mestiere?I caratteri più delicati sono spesso male accolti e peggio declamati, perché sembrano loro poco interessanti, per non saperne gustare le finezze e le grazie che sfuggono i tatti grossolani e poco esercitati. Per questa ragione il carattere della Fedra di Euripide si posporrebbe a quello della Fedra di Racine; e si cercano piuttosto delle passioni che strepitano e che svaporano, che di quelle le quali, ancorché veementissime, si comprimono e si soffogano. Si è pur notato che la stessa Clairon nell’Ifigenia di Racine sopprimeva gli ultimi versi coi quali Erifìle termina l’ultima scena dell’atto IV. Essa dunque ignorava quanta efficacia aveano quei versi su la sospensione degli spettatori intorno al destino d’Ifigenia, e per conseguenza di qual pregiudizio riusciva la loro soppressione all’azione ed all’interesse del dramma. E per non più dilungarmi noi possiamo asseverantemente concludere, che la buona declamazione non può assolutamente prescindere dalla cognizione dell’arte poetica.

[23.16] Forse parrà ad alcuno che io pretenda troppo dalla istituzione di un attore, come se quello che ho proposto fosse d’assai superiore alla sua condizione. Luciano richiedeva ancor più per la semplice danza o pantomima. E perché i pantomimi di quel tempo devono essere più istituiti de’ nostri attori? Noi abbiam pure osservato quale e quanta opera dessero all’arte loro Ila, Esopo e Roscio. Essi erano spesso gli ammiratori e gli amici di Ortenzio e di Cicerone, che tutta volta si compiacevano di comunicarsi a vicenda le loro cognizioni. Lo stesso Baron si formò sotto la disciplina del celebre Moliere. Riccoboni e la moglie avevano ancora delle cognizioni superiori alla loro professione. I migliori attori di Francia e d’Inghilterra sono per l’ordinario istruiti; e perché debbono essere a loro inferiori gl’Italiani? perch’essi soli non debbono conoscere e sentire ciò che declamano, essi che potrebbero pe’ vantaggi sortiti dalla natura emulare e superare l’arte e i talenti di tutti? Io spero che si riconosca e si proscriva un tale errore, che disonora non solo l’arte, ma gli attori che la professano, e la nazione a cui essi appartengono.

[23.17] Si potrebbe ancora oppormi che troppo dispendio costerebbe un’istituzione siffatta se tante scuole le si dovessero destinare. Ma non v’ha città colta e gentile, in cui non esistono di tali scuole; si potrebbe dunque semplicizzarla e ridurla alla scuola della poetica e della declamazione teoretica e pratica e far sì che niuno almeno vi sia ammesso, che non abbia frequentato le altre, o non esperimentato prima la sua abilità in quelle arti che ha precedentemente imparate. Del resto io non debbo occuparmi a minorare le spese che a ciò si richiedessero: il mio istituto esige, che io mostri quali siano i veri mezzi che possono stabilire, correggere e perfezionare l’arte della declamazione teatrale, e quante volte sieno tali io lascio la cura a chi può di verificarli.

[23.18] Fornita che sia la persona delle precedenti cognizioni, più o meno necessarie a sentire o far sentire quello che si voglia declamare, potrà allora esercitarsi colla pratica. E questa dee darsi sopra la scena. Il professor della scuola dovrebbe prima esercitar gli alunni a leggere avvertitamenre il dramma pel quale si propone di esercitarli. Questa prova si potrebbe fare in giro più volte. Il professore avrebbe così l’occasione di fare di mano in mano le sue opportune avvertenze intorno a quei tratti che le meritano, e di applicare in questo modo le massime teoretiche più rilevanti dell’arte, e di dedurre ad un tempo a quale parte o carattere si mostri ciascuno più adatto. Questa lettura eseguita in questa maniera ecciterebbe ancora l’emulazione, assegnando sempre a quello che legge meglio, la parte migliore che sia del suo genere.

[23.19] Dopo questo primo esperimento dovranno studiar la parte. E qui si debbe loro persuadere la necessità di mandarla a memoria rileggendo sempre adagio e riflessivamente, e quasi allo stesso modo come se attualmente la declamassero, tanto se la leggono a bassa, quanto che ad alta voce.

[23.20] Se non si usasse questa precauzione si darebbe luogo ad abitudini viziose che poi sarebbe difficilissimo di correggere. Leggendo con troppa celerità e quasi meccanicamente e sotto voce, per l’ordinario le parole non si articolano esattamente, e, fatta così abituale la celerità di pronunciarle, non si potrebbe più moderare quando il bisogno lo richiedesse. E, moderandola all’uopo, la memoria non abituata a quella specie di tempo resterebbe o scompigliata o malsicura, e le parole non verrebbero sempre con quella prontezza, con la quale erano assuefatte a succedersi. E lo stesso può avvertirsi rispetto alle varie intonazioni ed inflessioni di voce, che, smarrite o confuse nella lettura rapidamente fatta, non si potrebbero facilmente imitare nel corso della declamazione, che per contratte abitudini si troverebbe esposta ad omettere, o ad eseguire quello che non dovrebbe.

[23.21] Imparata la parte si passa agli esperimenti su la scena. Qui il professore dee prima evitare quelle più sconce maniere a cui gli alunni inclinassero, perché insensibilmente non si fortifichino, e diventino abiti difficilissimi ad emendare. E così, correggendo le viziose, procederà a loro insegnare le adattate e le proprie, richiamando sempre ed applicando all’uopo i veri principî dell’arte, che non debbono mai scostarsi da quelli della natura. E nelle varie ripetizioni ed esperimenti, paragonando l’una con l’altra, gli avvezzerebbe a poco a poco a quei tratti arditi e felici, ed a quell’espressioni spontanee e commoventi, ed a quel decoro tanto diffìcile ad insegnarsi, che annunciano il progresso dell’arte, che dovranno professare. Io non entro in altre particolarità, che si possono raccogliere agevolmente da quanto abbiamo discorso di sopra.

Capitolo XXIV. §

Accademia direttrice.

[24.1] Gli alunni, divenuti artisti, passeranno a professare l’arte loro su le scene; ma non per questo è da credersi che l’arte non possa ancor migliorarsi. E ad ottenere questo massimo miglioramento possibile, nel che la perfezione consiste, debbono attender coloro, a cui la gloria dell’arte e della nazione è principalmente commessa. Nuove osservazioni, nuovi paragoni, nuovi lumi possono emergere sotto una censura fina, imparziale e metodica, che, assegnando la debita lode agli artisti, promova costantemente il vantaggio dell’arte. E supponendo che esistano e debbano esistere, almeno nelle grandi capitali delle nazioni, un ordine delle persone più colte ed esperte, che sotto nome o di Accademia, o di Università, o d’Istituto ecc. veglia su lo sviluppo ed i progressi delle scienze e delle arti, si potrebbero unire alla classe delle belle arti anche di quelli che s’intendessero della declamazione, e si occupassero a scrivere e ragionare così dell’una come dell’altre. I migliori attori ne aveano sentito la necessità, e reclamata la pratica. Il famoso Le Kain aveva sentita l’importanza di tale stabilimento, in cui si leggessero in certi giorni delle memorie istruttive, non solo sopra de’ vizi comuni della declamazione teatrale, ma ancora sopra i difetti di concerto, di proprietà, di pronunciazione, di carattere ecc. Salzer anch’esso desiderava che si fossero analizzate e commentate a quest’uopo le scene migliori; e con tal metodo si potrebbe ognor più perfezionare l’arte e gli attori.

[24.2] Io aggiungerei un altro espediente a quest’uopo. La sig.a Clairon notava nelle sue Memorie dolendosi della sua condizione: Je ne dissimulerai pas que je mettais infiniment de prix au desir juste et naturel d’avoir un état plus honnéte, mon talent ne peut s’écrire ni se peindre, l’idée s’en perd avec mes contemporains. E di fatti, tutto ciò che riguarda l’espressione vocale non può notarsi come si nota la musicale, atteso la sua sfuggevole celerità e varietà; e perciò se si notava l’antica declamazione essa non poteva essere che una specie di canto o di recitativo. Può notarsi ancora in gran parte la danza; ma della declamazione non possono notarsi se non se alcuni tratti visibili e pittoreschi. Tutto il resto si abbandona alle tradizioni, che, alterandosi o smarrendosi affatto, dà luogo a stranezze, a indovinelli e caricature, e che, mancando per l’ordinario di vita, non può eccitare quel grado di passione e quello spirito di emulazione, che pur tanto si richiedono a perfezionar l’arte. Il solo mezzo più sicuro e più efficace di conservare quel che più si può di quest’arte, si è il disegnare tutti quei tratti che ne fossero meritevoli. E se di alcuno è stato per avventura fatto, egli dovrebbe farsi degli altri, ma con intelligenza e con metodo.

[24.3]Cornelio Nepote (in Chabrias) dice sul proposito della statua che Cabria si fece innalzare nel foro in quell’attitudine in cui arrestò l’impeto di Agesilao:Ex quo factum est, ut postea athletae caeterique artifices his statibus in statuis ponendis uterentur, in quibus victoriam essent adepti.

[24.4] Or perché non adoperare opportunamente lo stesso ripiego? e notare successivamente di ciascuno attore eccellente per talento e per arte quelle posizioni, quegli atteggiamenti più rilevanti, che hanno meritato di essere nel teatro distinti ed ammirati universalmente?

[24.5] Ed a questo potrebbero intendere quegli stessi disegnatori, che debbono concorrere al teatro con quello stesso consiglio, col quale i declamatori debbono studiare i monumenti più espressivi dell’arte loro. Tutte le arti d’imitazione si debbono l’una l’altra giovare; e perché tutto conspiri armonicamente ad un fine comune, essi dovrebbero conformarsi alle massime ed al criterio di quegli accademici, che hanno la cura di tutto ciò che alla perfezione delle arti teatrali appartiene.

[24.6] In questa maniera si darebbe a un tempo una ricompensa più permanente e lusinghiera ai buoni attori, ed una serie ordinata di esemplari a quegli alunni che volessero imitarli o piuttosto emularli.

[24.7] Ma quello che potrebbe ancor più estendere e perpetuare il merito dell’attore ed il progredimento dell’arte sarebbe un giornale ben eseguito, secondo i principî allegati di sopra. Esso potrebbe indirizzarsi a tutto ciò che all’arte drammatica ed alla declamazione appartiensi. Esso dunque abbraccerebbe l’analisi ed il giudizio de’ drammi, della loro rappresentazione, del merito degli attori, e degli attori che più si sono distinti, promovendo sempre i gran principî dell’arte e del gusto. In esso si depositerebbe tutto ciò che nelle memorie accademiche è stato osservato, giudicato o notato, e quindi la vera storia imparziale delle rappresentazioni del dramma, dell’eccellenza degli attori e delle impressioni che hanno più o meno fatte negli spettatori, co’ rispettivi disegni o dell’attore particolare, o de’ gruppi o de’ quadri, che si sono più segnalati alla vista del pubblico. In questo modo si verrebbero ognor più conservando, moltiplicando e comparando le osservazioni teatrali, le quali, confermando o rettificando le massime e regole della teorica e della pratica, perfezionerebbero non pur l’arte, che la sua lingua tecnica, il cui difetto suppone sempre il difetto di quella. E in questa maniera la scuola, l’accademia e il giornale conspirerebbero allo stesso segno, e la declamazione potrebbe fare quei progressi, che, a paragone delle altre arti sorelle, non ha fatto finora.

FINE.

[Errata] §


ERRATA CORRIGE.
Pag. 5. linea 28. pubbliceta nel pubblicata nei
» 33. » 4. suo rivolgimento suo risorgimento
» 55. » 3. Adoprano adoprarono
» 56. » 24. Gestando gestendo
» 60. » 24. Seguano seguono
» 99. » 1. mezzo a parte mezzo aperte
» 102. » 8. all’espressione del riso all’espressione del viso
» 141. » 2. osservazione di fatti osservazione de’ fatti
» 153. » 16. che non aveva non avea
» 192. » 27. parti da sé parti da re
» 203. » 1. e quello del Pepoli è quello del Pepoli
» 228. » 20. si presenti si presenta
» 232. » 15. penuta rifugge pentita rifugge
» 233. » 25. quanto sono quando sono
» 247. » 32. Riconosciato riconosciuto
» 250. » 9. Fosso fosse

Commento §

Introduzione §

[commento_Intro.1] Ripresa di una teoria che, a partire da Batteux con il suo testo Les Beaux-Arts réduits à un même principe (1746), aveva svolto un ruolo chiave all’interno dell’estetica settecentesca. Le belle arti risultano in questo modo accomunate nel loro oggetto di imitazione, distinguendosi invece per la scelta dei mezzi utilizzati: «Ainsi la peinture imite la belle nature par les couleurs, la sculpture par les reliefs, la danse par les mouvements et par les attitudes du corps. La musique l’imite par les sons inarticulés, et la poésie enfin par la parole mesurée» (Charles Batteux, Les Beaux-Arts réduits à un même principe, édition critique par Jean-Rémy Mantion, Paris, Aux amateurs de livres, 1989, cap. V, p. 99). Per un inquadramento delle teorie estetiche del periodo, si veda Elio Franzini, L’estetica del Settecento, Bologna, Il Mulino, 1995.

[commento_Intro.2] Si veda quanto affermato da Aristotele nella Poetica: «L’imitare, infatti, è connaturato agli esseri umani fin dall’infanzia e ciò li distingue dagli altri animali perché sono i più inclini all’imitazione e attraverso l’imitazione si procurano le prime conoscenza, e perché sono portati tutti a provare piacere delle imitazioni» (Aristotele, Poetica, introduzione, traduzione e commento di Daniele Guastini, Roma, Carocci editore, 2010, par. 4, p. 53).

[commento_Intro.3] Per questa sezione, Salfi segue le riflessioni compiute da Pietro Napoli Signorelli (1731-1815) all’interno della Storia critica de’ teatri antichi e moderni (1777): «L’oggetto, di cui l’uomo riceve da’ sensi le prime e le più frequenti notizie, è l’uomo stesso. I bambini tratti dal natural bisogno di nutrirsi si assuefanno alla vista della balia o della madre prima che si avveggano di ogni altra cosa». (Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni, 2a edizione, vol. I, Napoli, Vincenzo Orsino, 1787, p. 6). A questo proposito, si veda anche la teoria sull’ordine del discorso proposta da Diderot all’interno della Lettre sur les sourds et muets à l’usage de ceux qui éntendent et qui parlent (1751). La lettera si rivolgeva a Batteux, il quale affrontava lo stesso tema in Lettres sur la phrase française comparée avec la phrase latine. Diderot vi sostiene che, risalendo alle origini del linguaggio, è possibile osservare come l’uomo sia stato colpito in primo luogo dagli oggetti sensibili; poi da questi oggetti abbia estratto delle qualità sensibili, cioè legate all’esperienza dei sensi; e alla fine abbia individuato dei «noms métaphysiques et généraux» (Denis Diderot, Lettre sur les sourds et les muets, in Id., Œuvres philosophiques, édition publiée sous la direction de Michel Delon, avec la collaboration de Barbara de Negroni, Paris, Gallimard, 2010, p. 203). L’ordine naturale sarebbe dunque quello che parte dalle qualità sensibili, per giungere poi fino all’astrattezza dei sostantivi e alle distinzioni di tempo nel campo del predicato.

[commento_Intro.4] La declamazione è la prima a distinguersi tra le arti perché indotta dal bisogno naturale dell’uomo di imitare l’altro da sé tramite il proprio corpo e la propria voce. Sulla declamazione come l’arte più naturale, si veda Napoli Signorelli: «A chi attribuiremo la prima invenzione dell’arte drammatica? Alla maggior parte delle nazioni. Essa s’ingegna di copiar gli uomini che parlano ed operano; è adunque di tutte le invenzioni quella che più naturalmente deriva dalla natura imitatrice dell’uomo, e non è maraviglia, che essa germogli e alligni in tante regioni come produzione naturale di ogni terreno». (Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni, cit., vol. I, p. 7).

[commento_Intro.5] Sull’origine liturgica delle prime rappresentazioni teatrali, si veda quanto affermato da Pietro Napoli Signorelli: «Troviamo perciò nella storia anteriore ad ogni profana produzione gli oracoli composti da’ sacerdoti gentili, le greche poesie nosiche e ditirambiche ad Apollo e Bacco, i versi saliari del Lazio, gli inni peruviani al Sole, quelli dei Germani alle loro guerriere divinità, e tanti altri». (Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni, cit., vol. I, p. 11).

[commento_Intro.6] Per un inquadramento delle origini e sviluppi della pantomima nell’antichità, si veda quanto scritto da Luciano nel dialogo De saltatione, nel quale, oltre a tracciare una storia della disciplina, ne sottolinea, per bocca di Licino, l’utilità.

[commento_Intro.7] La tesi della tragedia come evoluzione delle feste in onore di Bacco veniva accolta anche dal Signorelli (Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni, cit., vol. I., p. 53).

[commento_Intro.8] L’aneddoto narrato a proposito della rappresentazione delle Eumenidi di Eschilo veniva riportato anche da Napoli Signorelli: «Le Furie rappresentate da cinquanta attori ne formavano il coro, i quali furono dal poeta in tale spaventevole e mostruosa foggia mascherati, e con sì orribili modi e grida entrarono nella scena, che tutto il popolo si riempì di terrore, ed è fama che vi morisse qualche fanciullo, e più di una donna incinta vi si sconciasse». (Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni, cit., vol. I, p. 62). Anche quello sull’Andromeda è presente nel testo di Napoli Signorelli: «Archelao buon commediante rappresentò in Abdera l’Andromeda in una state sommamente calma, e non pochi spettatori uscirono dal teatro febbricitanti. Ora avendo essi l’immaginazione piena della mentovata tragedia, altro non vedevano se non Perseo, Andromeda, Medusa, e ne recitavano i versi, imitando il modo di rappresentare di Archelao». (ivi, vol. I, p. 138)

[commento_Intro.9] Su Nerone attore, si veda quanto affermato da Napoli Signorelli: «Nerone stesso, secondo Svetonio, colla maschera finta a somiglianza delle femmine ch’egli amava, cantando rappresentò Carace che partoriva». (Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni, cit., vol. II, 1787, p. 235-236). Per quanto riguarda Ila e Pilade, i due istrioni che dilettavano il pubblico romano con le loro pantomime in epoca augustea, Signorelli attribuisce a Batillo il titolo di maestro di Ila (ivi, vol. II, p. 239). Anche a proposito delle due fazioni che dividevano Roma nell’esprimere la preferenza per il proprio istrione preferito, Salfi si distanzia da Signorelli, opponendo a Batillo / Pilade la coppia Ila / Pilade. A questo proposito si veda Napoli Signorelli: «Da Batillo e Pilade si formarono le due famose scuole, o partiti, chiamate i Batilli e i Piladi, i quali scambievolmente si disprezzavano e facevansi ogni male». (ivi, vol. II, p. 240).

[commento_Intro.10] Salfi non esprime un giudizio di condanna assoluta nei confronti dei comici dell’arte, sottolineando come questa modalità di recitazione richiedesse una prontezza nell’improvvisare che solo gli italiani a quel tempo dimostrarono di avere. Aggiunge tuttavia che tali messe in scena non poterono attingere alla perfezione che solo un attento studio della declamazione può concedere. Il parere espresso è dunque in linea con l’impostazione del trattato, che vuole fare della declamazione un’arte scandita da regole e dell’attore un mestiere da insegnare.

[commento_Intro.11] Nel Saggio storico-critico della commedia italiana (1829) Salfi parlerà di queste sacre rappresentazioni come «i primi abbozzi drammatici dell’Italia», dove «si vedevano alla rinfusa frammisti i personaggi più gravi e più eroici co’ più ridevoli e più grotteschi; e fra gli angeli e i santi faceva ancor l’asino la sua figura» (Francesco Saverio Salfi, Saggio storico-critico della commedia italiana, Milano, Per Giacinto Battaglia, Editore dell’Indicator Lombardo, Co’ tipi di Luigi Nervetti e C., MDCCCXXIX, p. 11).

Per quanto concerne la storia dell’evoluzione della commedia in Italia, Salfi prende a riferimento Luigi Riccoboni con la sua Histoire du Théâtre Italien (1728). Su Angelo Beolco, detto Ruzzante, Riccoboni scrive: «Je crois que Ruzante a pris de Plaute l’idée de mettre ses differens Dialectes dans la Comedie, et que les Mascarades du Carnaval lui ont fourni les habits et les caractères de ses Acteurs» (Luigi Riccoboni, Histoire du Théâtre Italien, depuis la décadence de la Comédie Latine, Paris, André Cailleau, M. DCC. XXX, p. 52).

A proposito dell’Orbecche di Cinzio, rappresentata in casa dell’autore davanti al Duca Ercole II nel 1541, Salfi fa menzione del talento dell’attore che la portò in scena, Sebastiano Clarignano da Montefalco, che Cinzio citava all’interno della Dedica: «Composta adunque ch’io hebbi questa tragedia, che fu in meno di due mesi, havendole già parata in casa mia il detto M. Girolamo Sontuosa, fu rappresentata da M. Sebastiano Clarignano da Montefalco, il quale si puote sicuramente dire il Roscio e l’Esopo de nostri tempi […]». Giovanbattista Geraldi Cinzio, Orbecche, In Venigia, appresso Gabriel Giolito De Ferrari e Fratelli, MDLI, p. 3.

La notizia che vorrebbe l’introduzione delle donne sulle scene contemporanea a Flaminio Scala (1552-1624) viene ricavata sempre da Riccoboni: «On ne sera pas faché d’apprendre ici en passant que c’est du tems de Flaminio Scala que les femmes furent introduites sur la Scene, c’est-à-dire, vers l’an 1560, du moins si Flaminio Scala n’étoit pas encore Comedien lorsque cela arriva, il peut l’avoir vû.» Luigi Riccoboni, Histoire du Théâtre Italien, depuis la décadence de la Comédie Latine, cit., p. 42.

A proposito di Pietro Maria Cecchini (1563-1645), Riccoboni scrive: «Je conserve une copie imprimée des Lettres de l’Empereur Mathias qui annoblit Pietro Maria Cecchini, homme d’esprit et de Lettres, qui jouoit le Rôle d’Arlequin» (Luigi Riccoboni, Histoire du Théâtre Italien, depuis la décadence de la Comédie Latine, cit., p. 57); e su Nicolò Barbieri (1576-1641) e Giovan Battista Andreini (1576-1654): «Nicolò Barbieri detto Beltrame pour prouver, que les Comédiens modestes dans leurs paroles et dans leurs actions sont dignes de l’estime des plus grands Princes, nous apprend dans son Livre intitulé Suplica, qui est un traité sur la Comedie, que le Roi Louis XIII. l’honora de sa protection et le combla de bienfaits. Giovan Battista Andreini, qui jouoit le Rôle d’Amoureux fut aussi favorisé de l’estime de ce grand Monarque» (ivi, pp. 57-58).

[commento_Intro.12] Pietro Cotta, detto Celio, attore originario di Roma vissuto nella seconda metà del Diciassettesimo secolo. Inizialmente parte della compagnia Calderoni, alla partenza della troupe per la Baviera decise di restare in Italia, assumendo il ruolo di capocomico. Significativa l’apertura del suo repertorio verso generi diversi dal comico, come attestato dalle rappresentazioni del Pastor Fido di Guarini e dell’Aminta di Tasso, nonché dell’Aristodemo del Dottori, opera che riscosse un travolgente successo. Si veda Xavier de Courville, Un apôtre de l’art du théâtre au xviiie siècle : Luigi Riccoboni dit Lélio, chef de troupe en Italie (1676-1715), Genève, Slatkine reprints, 1967, pp. 17-20. Da segnalare anche la collaborazione con il marchese Orsi, impegnato nella traduzione dei capolavori dei tragediografi francesi. Sulla questione si veda Gerardo Guccini, «Giovan Gioseffo Orsi», in Uomini di teatro nel Settecento in Emilia e Romagna. Il teatro della cultura: prospettive biografiche, a cura di Eugenia Casini-Ropa, Marina Calore, Gerardo Guccini, Cristina Valenti, Modena, Mucchi Editore, 1986, pp. 175-180.

La separazione tra teatro dei letterati e mestiere degli attori, spesso impiegata per descrivere il teatro settecentesco, specie quello tragico, si infrange se si considera la fertilità del sodalizio di Riccoboni con Maffei e Martello, che consentiva una mediazione tra utopia riformatrice del teatro tragico e esigenze sceniche. Il successo più tangibile di questa stagione fu la messa in scena della Merope di Maffei a Modena nel 1713 da parte della compagnia Riccoboni, che rivelava la possibilità insita al genere tragico di conquistare il plauso di un pubblico che si credeva sedotto solo da risa e lazzi (si veda Roberto Tessari, Teatro e spettacolo nel Settecento, Bari, Laterza, 1995, p. 17). La centralità della resa scenica veniva sottolineata da Maffei nel discorso di prefazione al Teatro italiano, o sia scelta di tragedie per uso della scena, pubblicato tra il 1723 e il 1725. Nell’esplicitare la ragione per la quale aveva scelto di includere alcuni testi, piuttosto che altri, egli sottolineava come il criterio non fosse stato quello «[…] di accogliere tutte le tragedie nostre lodevoli, che troppo ci vorrebbe, né tutte quelle, che possono esser lette con approvazione in una camera, o in una scuola: l’intenzione è di porre insieme opere da Teatro, che possano in oggi rappresentarsi con piacer dell’udienza: però l’effetto della maggior parte di queste si è prima veduto in pratica, come recitate da’ Comici in questa città, e in altre» (Scipione Maffei, Teatro italiano o sia scelta di tragedie per uso della scena, In Verona. MDCCXXIII, presso Jacopo Vallarsi, p. XX). Maffei dunque aveva fondato la propria edizione dei capolavori tragici italiani sulle precedenti rappresentazioni sceniche tenute dalla compagnia Riccoboni. Ma il discorso non si esaurisce qui, e si apre alla considerazione della necessità di promuovere lo studio dell’arte attoriale nei circuiti professionistici, laddove l’orizzonte delle messe in scena private, e dunque del dilettantismo, veniva sprezzato come inadeguato.

[commento_Intro.13] Michel Boyron, detto Baron (1653-1729), attore allievo di Molière, lasciò le scene nel 1691 per ricomparirvi nel 1720, forte di anni di studio durante i quali mise a punto uno stile recitativo naturale, distante dall’enfasi declamatoria del tempo. Si legga quanto affermato da Marmontel: «Baron parlait en déclamant, ou plutôt en récitant, pour parler le langage de Baron lui-même; car il était blessé du seul mot de déclamation. Il imaginait avec chaleur, il concevait avec finesse, il se pénétrait de tout» (Jean-François Marmontel, Déclamation théâtrale, in Écrits sur l’art théâtral (1753-1801), I — Spectateurs, textes édités par Sabine Chaouche, Paris, Honoré Champion, 2005, p. 78). Sulla sua figura si veda Bert-Edward Young, Michel Baron, auteur et acteur dramatique, Genève, Slatkine, 1971.

Marie Desmares Champmeslé (1642-1698), attrice tragica allieva di Racine, interprete di grandi ruoli femminili come quello di Bérénice, Monime in Mithridate, Atalide in Bazajet, Iphigénie, Phèdre. A proposito dell’apprendistato dell’attrice sotto la guida di Racine, si veda Jean-Baptiste Du Bos, Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, Première partie, Paris, chez Jean Mariette, M. DCCXIX, pp. 465-466.

Adrienne Lecouvreur (1692-1730), fu attrice tragica alla Comédie-Française. Così la donna viene descritta nella Seconda lettera del suggeritore della Comédie di Rouen (1730) di Jean Dumas d’Aigueberre: «Mai si presentava sul palcoscenico se non per apparire compenetrata. I suoi occhi annunciavano ciò che avrebbe detto, la paura e i gemiti erano dipinti sul suo volto. Per giunta sapeva utilizzare opportunamente il suo cuore e i suoi sentimenti. Passava senza difficoltà dalla violenza a una calma perfetta, dalla tenerezza al furore, da un’improvvisa paura alla dissimulazione, ecc. Il suo volto era progressivamente sereno, turbato, sottomesso, fiero, abbattuto, minaccioso, incollerito, pieno di compassione». In Jean Dumas d’Aigueberre, Seconda lettera del suggeritore della Comédie di Rouen al garzone del caffè, ovvero conservazione sui difetti della declamazione, introduzione, traduzione e note di Valeria De Gregorio Cirillo, Napoli, «Acting Archives Review», maggio 2012, p. 327.

Henri-Louis Caïn, detto Lekain (1729-1778), interprete di rifacimenti di pièces di Racine e Coneille, oltre che di diverse tragedie di Voltaire, tra cui Zaïre, Sémiramis e Mahomet. Insieme a Voltaire, lottò per l’abolizione del privilegio di alcuni spettatori di assistere allo spettacolo sul palco, fattore che infrangeva l’effetto di illusione che il teatro dovrebbe suscitare. All’attore si deve inoltre una riforma dei costumi di scena, che lo porterà ad abbandonare gli abiti da petit maître, per adeguarsi al principio di congruenza storica. A seguire le sue orme sarà François-Joseph Talma (1763-1826), l’attore della rivoluzione, che nel 1825 pubblicherà le Réflexions sur Lekain et sur l’art théâtral.

[commento_Intro.14] David Garrick (1717-1779), grande interprete di drammi shakespeariani, fu attore e, dal 1747 al 1776, direttore del Drury Lane di Londra. Esordì nella parte di Riccardo III, nei panni del quale verrà ritratto da William Hogarth. Reso celebre dal suo gioco pantomimico e dalla sua declamazione naturale, l’attore, con la sua capacità proteiforme, era in grado di incarnare qualsiasi personaggio.

[commento_Intro.15] Susannah Maria Arne (1714-1766), attrice andata in sposa al commediografo Theophilus Cibber, opererà al Drury Lane di Londra. Dopo un periodo di formazione nel teatro cantato, verrà iniziata al teatro parlato sotto la guida di John Hill, autore del testo The Actor.

La fonte per la lista di attrici inglesi è ricavata da Napoli Signorelli: «Dopo la Nelly, cioè Elena Guyn attrice comica sì cara al re Carlo II, fiorì la celebre Ofields ammirata in vita e sepolta poi accanto a’ gran poeti del suo paese in Westminster. Quins, Davesport, Marshall, Bowtell, Betteron, Lees furono parimente attrici rinomate» (Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni, cit., vol. 5, 1789, p. 224, nota 64).

[commento_Intro.16] Hans Conrad Dietrich Ekhof (1720-1778), attore tedesco, fondatore della Theatralische Akademie di Schwerin, che promuoveva lo studio della recitazione secondo un metodo riformato. Come sottolinea Paolo Chiarini, Ekhof segnalò «la necessità che l’attore studiasse non solo la propria parte, come allora accadeva, ma l’intero copione, l’obbligo di far precedere sistematicamente ogni spettacolo da una serie di prove, la subordinazione dei singoli elementi all’impostazione generale» (Paolo Chiarini, Introduzione a Gotthold Ephraïm Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, cit., p. XXII). Ekhof rappresenta per Engel il modello dell’attore ideale, che sa esprimere il sentimento senza esserne penetrato: «Io so di un solo attore, il migliore tra quelli che conosco — mi riferisco al nostro Ekhof — che non si affidava mai, né nella declamazione né nella gestualità, al sentimento puro e semplice. Anzi, nel corso della rappresentazione evitava con cura di abbandonarsi più del dovuto al sentimento perché temeva che la mancanza di autocontrollo potesse nuocere alla verità, all’espressione, all’armonia e al contegno richiesti dalla parte». Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 356.

[commento_Intro.17] L’impostazione comparatista era alla base delle Réflexions historiques et critiques sur les differents théâtres de l’Europe (1738) di Luigi Riccoboni, dove si metteva in luce come gli autori drammatici e gli attori adeguassero le rappresentazioni teatrali allo spirito della nazione. Il comico attribuiva ad esempio la libertà delle scene inglesi al carattere del popolo d’Oltremanica, per natura incline a pensare incessantemente, e che, senza la presenza di sangue sulla scena e di trame complesse, avrebbe finito per addormentarsi a teatro: «Le fond du caractère des Anglois est de se plonger dans la rêverie, comme nous l’avons dit: c’est parce qu’ils sont continuellement attachés à penser, que les Sciences les plus élevées sont traitées par les Écrivains de leur Nation avec beaucoup de profondeur, et que les Arts font portés à ce degré de perfection que nous savons» (Luigi Riccoboni, Réflexions historiques et critiques sur les différents théâtres de l’Europe. Avec les Pensées sur la déclamation, Amsterdam, Aux dépens de la Compagnie, MDCCXL, p. 129).

[commento_intro.18] Ettore Patella (1750-1786), prese parte, tra le altre, alla messa in scena dell’Aristodemo del Monti. La sua recitazione segnò in particolar modo Salfi, tanto che l’attore viene ricordato anche all’interno della Vie politique et littéraire de F. S. Salfi scritta da Angelo Maria Renzi: «Salfi assistait un jour à une représentation de l’Électre de Crebillon. Le jeune acteur (Patella) chargé du rôle d’Oreste, le rendit avec tant d’énergie et de vérité, sa voix et sa physionomie exprimèrent si bien les fureurs et les remords d’Oreste après le meurtre de sa mère, que Salfi, tout entier à l’impression que lui causaient et le personnage et l’acteur, se crut à la fois et acteur tragiques». Angelo Maria Renzi, Vie politique et littéraire de F. S. Salfi, cit., pp. 12-13.

Petronio Zanerini (1737-1802), attore originario di Bologna, si segnalò particolarmente per la cura che metteva nella scelta degli abiti di scena. Si legga quanto affermato da Luigi Rasi: «Nel Padre di famiglia di Diderot, nel Gustavo Wasa di Piron, nella Principessa filosofa e nel Moro dal corpo bianco di Carlo Gozzi, nel Radamisto di Crebillon, nel Filottete (di De la Harpe?) e in altre moltissime opere di ogni genere egli spiegava tutta la forza della sua intelligenza sia per altezza d’interpretazione, sia per forbitezza di dizione, e sia anche per esattezza scrupolosa di costumi; al cui proposito ci avverte il Bartoli ch’egli stesso ne inventava, disegnava e coloriva i modelli, facendo poi ad altri colla sua assistenza ultimarne l’esecuzione» (Luigi Rasi, I comici italiani, biografia, bibliografia, iconografia, Firenze, Fratelli Bocca, 1897, vol. II, p. 725).

Pietro Andolfati (1750 circa — 1828/1830), fu capocomico e direttore del Teatro del Cocomero di Firenze e successivamente dell’Accademia dei Filodrammatici di Milano.

[commento_Intro.19] Vittorio Alfieri (1749-1803) non si sottrasse al confronto con le scene, lamentando l’inadeguatezza del sistema attoriale italiano. Sull’argomento scrisse il Parere sull’arte comica in Italia (1785), dove sottolinea il legame inscindibile che tiene insieme autori, attori e spettatori, affermando che solo a partire dalla collaborazione tra i tre versanti dello spettacolo si possano realizzare delle messe in scena di pregio. Egli si sofferma sull’incapacità tecnica degli attori, dotati di uno stile ampolloso, artificioso sia al livello del tono («cantarono in versi, e non li recitarono»), sia al livello dell’espressione mimica («faceano mille cose indecenti in teatro, cioè di boccheggiare se avevano a morire, di contorcersi e sfigurarsi se avevano ad esprimere qualche passione che non sentivano»), in Vittorio Alfieri, Parere sull’arte comica in Italia in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche, a cura di Morena Pagliai, Asti, Casa d’Alfieri, 1978, p. 244.

[commento_Intro.20] Così scrive Aristotele all’interno della Retorica a proposito dell’azione oratoria: «È dunque chiaro che anche nella retorica vi è questo elemento come già per la poetica, la qual cosa, tra gli altri, veniva fatta oggetto di trattazione anche da Glaucone di Teo» (Aristotele, Retorica. Testo greco a fronte, Introduzione, traduzione, note e apparati di Fabio Cannavò, Milano, Bompiani, 2014, Libro III, 1403b). Macrobio invece fa riferimento alla scrittura, da parte di Roscio, di un testo che metteva a paragone l’eloquenza dell’oratore con quella dell’attore (Macrobio Teodosio, I Saturnali, a cura di Nino Marinone, Torino, UTET, 1967, III, 14, 12, pp. 426-427).

[commento_Intro.21] Sulla trattazione del soggetto della recitazione nelle opere dell’antichità, si veda Claudio Vicentini, La teoria della recitazione. Dall’antichità al Settecento, cit., pp. 19-56.

[commento_Intro.22] Angelo Ingegneri (1550-1613), autore Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche, testo che lascia poco spazio alla riflessione sull’arte dell’attore. Tale aspetto veniva messo in luce anche dallo stesso Lelio nell’esordio al suo Dell’arte rappresentativa, che rimarcava la presenza di indicazioni solo «per ciò che spetta alle Scene, alle Machine, al modo di illuminare e cose simili […]». Luigi Riccoboni, Dell’arte rappresentativa, cit., p. 52.

Luigi Riccoboni (1676-1753), pubblica il Dell’arte rappresentativa nel 1728 a Londra. Strutturato nella forma del poemetto in ottave, il testo si compone di sei capitoli. Quello che Lelio si propone è di istruire i giovani in un’arte tanto trascurata come quella della declamazione, farsi «chirurgo teatrale» in grado di sanare i mali della recitazione (Luigi Riccoboni, Dell’arte rappresentativa, cit., v. 104, p. 60). Il suo concetto di rappresentazione si fonda sull’imitazione di una natura non realisticamente intesa, ma sublimata di quanto potrebbe ledere alla convenientia. Sulla produzione teorica di Luigi Riccoboni, si veda Sarah Di Bella, L’Expérience théâtrale dans l’œuvre théorique de Luigi Riccoboni: contribution à l’histoire du théâtre au xviiie siècle, Paris, Champion, 2009.

Salfi cita inoltre l’Arte del teatro, non specificando che l’autore non è Luigi, ma suo figlio, François Riccoboni. Il testo usciva nel 1750 usciva a Parigi, si presentava nella forma epistolare, avente per destinataria un’anonima Madame, e si sviluppava in 30 brevi paragrafi. Sulla figura di François Riccoboni, si veda Emanuele De Luca, «Un uomo di qualche talento». François Antoine Valentin Riccoboni (1707-1772): Vita, attività teatrale, poetica di un attore-autore nell’Europa dei Lumi, Pisa-Roma, Fabrizio Serra editore, «Biblioteca di Drammaturgia», collana diretta da Annamaria Cascetta, 2015.

[commento_Intro.23] Pierre Rémond de Sainte-Albine (1669-1778), autore de Le Comédien (1747). Il trattato porrà le basi per la polemica che vedrà lo scontro tra i fautori dell’emozionalismo e quelli dell’antiemozionalismo. Sainte-Albine vedeva come cardini della recitazione tre doti: l’esprit, il sentiment, il feu. La prima dote potrebbe essere intesa come una sorta di intelligenza scenica che rende l’attore atto ad assegnare convenientemente le giuste sfumature al personaggio e alla situazione rappresentata. La seconda dote è il cardine attorno al quale si costituirà il dibattito futuro, specie sull’impulso di Diderot che recensirà l’opera di Sainte-Albine. Mediante il sentimento l’attore penetra nelle passioni del personaggio come fossero le proprie. Questo implica la necessità di una certa propensione a determinate emozioni e di una corrispondenza tra animo dell’attore e quello del personaggio: «Chi non ha l’animo elevato rappresenta male un eroe» (Pierre Rémond de Sainte-Albine, L’attore, traduzione, introduzione e note di Edoardo Giovanni Carlotti, Napoli, «Acting Archives Review», novembre 2012, p. 299). La terza dote giudicata necessaria da Sainte-Albine è il feu, ossia il calore che imprime naturalezza al sentimento, che distingue una declamazione verosimile da una ampollosa, in cui si ha la tendenza a eccedere nel sentimento.

Jean-Nicolas Servandoni, detto D’Hannetaire (1718-1780), è invece autore delle Observations sur l’art du comédien (1776), che si presentano nella forma di lettere indirizzate a dei giovani attori. D’Hannetaire, che è legittimato a istruire chi vuole affacciarsi al mondo del teatro dalla sua passata esperienza di attore, insiste sulla necessità dello studio dell’arte drammatica. Promuovendo l’istituzione di scuole e assegnando un ruolo privilegiato alla figura del maestro, egli sancisce la superiorità dell’Arte sulla Natura. Il commediante non deve affidarsi al fuoco del momento, ma deve seguire dei modelli di recitazione prestabiliti grazie all’ausilio di una guida: «Ce ne serait donc que par l’établissement des Écoles et des maîtres dramatiques, suivant la forme indiquée plus haut, que cette meilleure façon de réciter pourrait se perpétuer» (Jean-Nicolas Servandoni, dit D’Hannetaire, Observations sur l’art du comédien, Paris, chez la veuve Duchesne, MDCCLXXV, p. 45). A questo proposito, si veda quanto affermato da Sabine Chaouche: «Une perception du jeu qui se ferait uniquement de l’intérieur est tronquée selon D’Hannetaire. Car si l’acteur peut parler de lui-meme, c’est en aveugle. Il ne se voit jamais tel qu’il est sur scène — et par conséquent refuse bien souvent d’admettre ses propres défauts» (Sabine Chaouche, Écrits sur l’art théâtral (1753-1801), II — Acteurs, Paris, Honoré Champion, 2005, p. 25).

Jean Mauduit, detto Larive (1747-1827), attore francese, scrisse il Cours de déclamation (1804), quando si era già ritirato dalle scene. L’autore si fa partigiano dell’emozionalismo, facendo del palco la scena dell’anima, che aggiusta anche i difetti della fisionomia. La Natura ha dunque la meglio sull’Arte: «L’art d’être vraiment tragique tient donc aux seules émotions de l’âme: c’est un talent d’inspiration» (Jean Mauduit, dit Larive, Cours de déclamation, divisé en douze séances, par Larive, Paris, de l’Imprimerie de Charles, 1804, p. 32-33).

Hippolyte Clairon (1723-1803), e Marie-Françoise Marchand, nota come M.lle Dumesnil (1713-1803), furono attrici alla Comédie-Française. Entrambe lasciarono delle Memorie, pubblicate nel 1758, nelle quali agli aneddoti di vita personale e professionale si uniscono delle riflessioni sull’arte drammatica. Per un approfondimento sulla figura di M.lle Clairon si veda Valeria De Gregorio Cirillo, Introduzione, in Hippolyte Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale, traduzione, introduzione e note di Valeria De Gregorio Cirillo, Napoli, «Acting Archives Review», novembre 2014, pp. 9-31.

Per un quadro generale degli attori e della recitazione in Francia nel XVIII secolo, si rimanda a Martine de Rougemont, «Le jeu des acteurs», in La Vie théâtrale en France au xviiie siècle, Paris, Honoré Champion, 1988, pp. 109-131.

Claude-Joseph Dorat (1734-1780), autore di un Poème didactique en trois chants (1766) dedicato al tema della declamazione teatrale, diviso in tre sezioni: una per la tragedia, una per la commedia e l’ultima per l’opera in musica. Il testo è preceduto da un Discours préliminaire, nel quale viene ripercorsa la storia della declamazione dell’antichità e dove l’autore offre un quadro dettagliato degli attori che hanno segnato la vita teatrale francese nel Diciottesimo secolo. L’impostazione, complice la scelta del verso e i toni spesso scherzosi, presenta scarsa sistematicità. L’autore si limita a dare dei consigli ai giovani attori e, più in generale, agli amatori di teatro, ma è lontano dall’elaborare una trattazione che miri a rendere insegnabile il mestiere dell’attore.

Garrick, ou les acteurs anglois (1769), da attribuire a Michel Sticotti, è una traduzione libera, con annessi commenti del traduttore, del testo inglese The Actor di John Hill. Frequenti le citazioni di drammi shakespeariani e i riferimenti all’idolo delle scene inglesi, David Garrick. Il testo porrà le basi per il dibattito sollevato da Diderot sulle pagine della rivista Correspondance dell’ottobre 1770, in occasione della recensione di Garrick, ou les acteurs anglais, in un articolo intitolato Observations de Diderot sur Garrick, ou les acteurs anglais.

Johann Friedrich Löwen (1727-1771), è autore dell’opera che Salfi cita in traduzione francese, ossia l’Abrégé de principes de l’éloquence du geste, pubblicata ad Amburgo nel 1755. Il testo, che si presentava come un breve trattato sulla mimica, veniva menzionato da Engel, che lo giudicava di scarso valore. A questo proposito, veniva contestata l’incoerenza dell’autore, che: prima si scagliava contro le teorie di François Riccoboni, promotore di un gesto retto dalle leggi dell’eleganza ma nemico della verità; poi consigliava ai suoi lettori le riflessioni sulla bellezza di Hogarth. A questo proposito si veda Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., pp. 376-378.

Johann Jakob Engel (1741-1802), fu autore di Ideen zu einer Mimik (1785-1786), apparso in Francia già dal 1788 e in Italia nel 1818 nella traduzione curata da Rasori, amico di Salfi, stampato a Milano presso l’editore Pirotta. È nelle pagine del Conciliatore che l’opera in traduzione italiana verrà recensita dallo stesso Rasori, unita ai sei capitoli del Dell’arte rappresentativa di Luigi Riccoboni (N. 16, 25 ottobre 1818. In Il Conciliatore: foglio scientifico-letterario, a cura di Vittore Branca, cit., vol. I, p. 254). Il rischio dell’applicazione della teoria cartesiana, attraverso la mediazione di Le Brun, alla pratica teatrale era quella di un’eccessiva composizione e staticità dell’espressione, che sarebbe risultata inadatta alle transizioni da una passione all’altra. Engel, al contrario, propone una teoria che segua le passioni nella loro dimensione dinamica, e auspica all’elaborazione di una trattazione che sia scientifica. Nelle Lettere sulla mimica, composte di 44 lettere rivolte ad un ipotetico destinatario, Engel distingue due categorie principali di gesti, una relativa alla rappresentazione, l’altra all’espressione, da cui si determinano da una parte i gesti pittorici, dall’altra i gesti espressivi. I gesti pittorici imitano oggetti sensibili, i gesti espressivi le disposizioni assunte dall’anima. In generale, Engel sottolinea insistentemente la sua diffidenza rispetto a un catalogo delle passioni, rivelando in questo una sensibilità pre-romantica che guarda all’individuo come a un’entità emozionale irripetibile.

Jean-François Marmontel (1723-1799) fu autore della voce Déclamation théâtrale (1753) all’interno dell’Encyclopédie. Egli ripercorre la storia della declamazione a partire dalle origini, affrontando la questione della musica all’interno della tragedia e sottolineando l’incredibile diffusione della pantomima nella Roma antica. Arrivando rapidamente al secolo Diciassettesimo, Marmontel sottolinea la centralità di Michel Baron per la rinascita di una buona declamazione, seguito dalla Lecouvreur. Dopo aver elencato le qualità che un buon attore dovrebbe possedere, passa poi a parlare più distesamente della voce e del gesto, concedendo un particolare rilievo a quest’ultimo: «Il n’est point de scène, soit tragique, soit comique, où cette espèce d’action ne doive entrer dans les silences» (Jean-François Marmontel, Déclamation théâtrale, in Écrits sur l’art théâtral (1753-1801), I — Spectateurs, cit., p. 93). Di particolare rilievo anche l’articolo che Marmontel scrive a proposito della distinzione tra pathétique direct e pathétique réfléchi, espressioni chiave per comprendere il dibattito tra emozionalisti e antiemozionalisti. Con il primo si intende «le pathétique dont l’émotion se communique sans changer de nature […]» (Jean-François Marmontel, Éléments de littérature, dans Id., Œuvres complètes, tome IV, première partie, Paris, Belin, 1819, p. 835). Con il secondo, «le pathétique dont l’impression diffère de sa cause […]» (ibid.). Per riassumere la questione, la distanza tra i due risiede nello stato emotivo dell’oratore/attore. Se l’interprete è in preda all’emozione, corre il rischio di cadere in ridicolo e far perdere di dignità all’eloquenza. Se invece riesce a creare una sorta di distanziamento, provocherà la commozione degli spettatori, e solo a quel punto anche lui sarà preso dal sentimento, facendo seguire al pathétique réfléchi quello direct (ivi, p. 836).

Louis-Sébastien Mercier (1740-1814), autore del testo Du théâtre, ou Nouvel essai sur l’art dramatique (1773), dove viene sottolineata la necessità di assegnare una funzione civile al teatro, come avveniva ai tempi dell’antica Grecia, facendo divenire la scena una cattedra dalla quale esortare alla virtù: «Quelle étude plus digne du poète que de bien sentir ce qu’il faut exposer à son siècle au moment où il écrit; et d’approprier tellement son drame aux circonstances, que les abus soient à la fois dévoilés, attaqués et corrigés, s’il est possible» (Louis-Sébastien Mercier, Du théâtre, ou Nouvel essai sur l’art dramatique, Amsterdam, chez E. Van Harrevelt, MDCCLXXIII, p. 41). A questo proposito, Mercier sottolinea la superiorità del dramma, in grado di farsi portavoce della contemporaneità e di abolire l’arbitraria distinzione tra commedia e tragedia.

Gotthold Ephraim Lessing, autore della Drammaturgia d’Amburgo (1767-1768), testo che si caratterizza per un’impostazione empirica. Gli interventi sorgevano infatti in concomitanza con le messe in scena del teatro di Amburgo, e dall’analisi di queste prendevano le mosse, per poi arrivare a toccare temi di carattere più generale, che tuttavia sono lontani dal costituire una riflessione sistematica. Sulla questione si veda Paolo Chiarini, Introduzione, in Gotthold Ephraim Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, cit., pp. VII-LXIV.

A proposito delle riflessioni di Johann Georg Sulzer (1720-1779), Salfi probabilmente ebbe accesso ad alcuni articoli tradotti in francese comparsi sul Supplément all’Encyclopédie, estratti dal testo Theorie der schönen Künste (1771-1774). Tra questi, quello dedicato all’Expression (Art théâtral), nel quale Sulzer, in opposizione alla teoria di Riccoboni fils, si pronuncia a favore dell’emozionalismo.

Nell’ambito della produzione teorica di Denis Diderot, viene invece fatta menzione del testo De la poésie dramatique (1758), all’interno del quale il filosofo assegnava un ruolo privilegiato alla gestualità dell’attore e esprimeva la sua concezione di dramma come successione di quadri. A questo proposito, egli riconosceva il merito degli attori italiani, che «[…] jouent avec plus de liberté que les comédiens français; ils font moins de cas du spectateur». Diderot, Denis, De la poésie dramatique, in Id., Œuvres esthétiques, éditées par Paul Vernière, Paris, Classiques Garnier, 2014, p. 268.

Antonio Planelli (1737-1803), autore del testo Dell’opera in musica (1772). La sezione che mostra un’affinità con le riflessioni portate avanti da Salfi è quella relativa alla pronunciazione, nella sua duplice componente gestuale e vocale. In particolare, a proposito del gesto, egli abbozza una categorizzazione che si presenta come una versione semplificata di quella esposta nel Della declamazione: «Si divide il Gesto in Imitativo, Indicativo ed Affettivo. Gesto Imitativo è quello, che contraffà il moto, o la figura di una cosa; […] Gesto Indicativo è quello, che dimostra dov’è la cosa, di cui si ragiona, o dove se l’immagina chi gestisce […] Il Gesto Affettivo è quello, che dimostra la passione, che in quel punto possiede chi l’adopra». Antonio Planelli, Dell’opera in musica. Trattato del cavaliere Antonio Planelli dell’ordine gerosolimitano, Napoli, nella Stamperia di Donato Campo, MDCCLXXII, pp. 160-161.

Pietro Napoli Signorelli (1731-1815), autore della Storia critica de’ teatri antichi e moderni (1777), opera magistrale che ripercorre la storia del teatro dall’antichità fino alla sua contemporaneità. Il testo tuttavia si sofferma solo marginalmente sulla componente performativa dei drammi, e dunque sullo sviluppo dell’arte della declamazione. Un maggiore spazio le viene invece riservato all’interno degli Elementi di poesia drammatica (1801), che approntano un tentativo di suddivisione dei gesti in imitativi, indicativi e patetici, svolgono una riflessione sul ruolo del silenzio, si soffermano sulla postura che l’attore deve tenere in scena, il tutto in una prosa limpida e organizzata, come la vocazione didattica del testo richiede.

Capitolo I §

[commento_1.1] Per comprendere la corrispondenza tra anima e corpo, qui espressa nei termini di dualismo tra facoltà-forza dell’anima / effetto, occorre risalire a Descartes. Era stato lui il primo a rivoluzionare l’approccio nella trattazione delle passioni, sottolineandone la natura propriamente fisica e analizzando sistematicamente le modificazioni che queste apportavano nei tratti somatici. Il suo Les Passions de l’âme (1649) avrà, specie attraverso la mediazione di Charles Le Brun e le sue conferenze pubblicate nel 1698, grande influenza nell’ambito della trattatistica teatrale settecentesca (Joseph Roach, The Player’s Passions: Studies in the Science of Acting, Newark, University of Delaware Press Associated, 1985, p. 66). Assumendo la perfetta corrispondenza tra passione e azione e la contiguità tra corpo e anima, uniti attraverso la mediazione della ghiandola pineale, Descartes conferisce alle passioni cause e effetti fisici. La causa risiede infatti nel movimento degli spiriti animali, le parti più sottili del sangue, dal cuore verso il cervello. Una volta penetrati i pori del cervello, passano attraverso i nervi, per arrivare fino ai muscoli che producono il movimento. La dottrina elaborata da Cartesio sulle passioni trovava un compendio in lingua italiana nell’opera Delle scienze metafisiche per gli giovanetti (1767), all’interno della sezione Antropologia, scritta da Antonio Genovesi (1713-1769), filosofo che ebbe un ruolo di spicco nella Napoli del Diciottesimo secolo. Salfi cita il testo all’interno dell’articolo Du génie des Italiens et de l’état actuel de leur littérature, pubblicato nel 1819, sottolineando come la sua trattazione fosse «d’après la méthode originale de Descartes» («Revue encyclopédique», 1819, tome I, p. 522). Anche Genovesi sostiene infatti la necessità di analizzare l’elemento passionale a partire dai fenomeni nei quali si manifesta, in quanto il suo scopo è tratteggiarne «la natura fisica» (Antonio Genovesi, Delle scienze metafisiche per gli giovanetti del Sig. Abate Genovesi, Venezia, Presso Tommaso Bettinelli, Con regia approvazione, MDCCCLII, cap. VI, p. 333). Per un inquadramento della figura di Antonio Genovesi si veda Giovanni Gentile, Storia della filosofia italiana: dal Genovesi al Galluppi, vol. I, Firenze, Le Lettere, 2003, pp. 1-23.

[commento_1.2] Tale esternazione dell’attività interiore accomuna tutti gli organismi, viventi e non. L’idea di una natura «parlante» lo stesso linguaggio dell’uomo è retaggio vichiano, il quale sosteneva che, ai primordi dell’umanità, la natura fosse concepita al pari di un corpo, e le manifestazioni esterne di questa considerate come il corrispettivo delle umane passioni. Così il tuonare del cielo era l’immagine dell’ira della natura. Sull’argomento si veda Luigi Rosiello, Le teorie linguistiche di Vico e Condillac, «Forum Italicum», 2, 1968, pp. 386-393.

[commento_1.3] La propensione dei primi uomini al parlare per metafora è ancora riferimento alla teoria vichiana. Vico mostra allora l’esistenza di una continuità tra le prime forme di linguaggio verbale, dalla naturale fortemente figurale, e il linguaggio muto dei primi uomini. Grazie ai tropi, che donano natura corporale a entità astratte prive di corpo, persiste il tratto della visibilità proprio del linguaggio muto, seppur mediato attraverso le parole. Il primato spetta così alla metafora, che conferisce tratti sensibili a cose spirituali: «Quello è degno di osservazione, che ‘n tutte le Lingue la maggior parte dell’espressioni d’intorno a cose inanimate sono fatte con trasporti del corpo umano, e delle sue parti, e degli umani sensi, e dell’umane passioni» (Giambattista Vico, La scienza Nuova (1744), in Id., La Scienza Nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744, a cura di Manuela Sanna e Vincenzo Vitiello, Milano, Bompiani, 2012, cpv. 156, p. 932).

[commento_1.4] Salfi entra nel vivo del dibattito a proposito dell’origine del linguaggio. Riferimento fondamentale restava a questo proposito la teoria del sensista Condillac, Nell’Essai sur l’origine des connaissances humaines (1746) egli individuava tre categorie di segni: i segni accidentali, i segni naturali e quelli istituzionali. Con il primo termine ci si riferisce alle percezioni o oggetti cui si legano delle idee; con il secondo si intendono i cris naturels legati all’espressione dei sentimenti; con il terzo termine ci si riferisce a segni creati appositamente dall’uomo in relazione a determinate idee.

La terza categoria proposta da Condillac implica un diverso grado di sviluppo rispetto alle prime due, e porta con sé la formazione della memoria. Era la casualità infatti che inizialmente determinava il ripresentarsi degli stessi segni, che fossero essi accidentali o naturali, perché per entrambi era necessaria la riproposizione del medesimo oggetto, situazione o sentimento. Il primo distacco dalla situazione contingente si ebbe in primo luogo quando si presentò la necessità della comunicazione. Inizialmente l’imitazione di gesti che un altro individuo aveva compiuto in una determinata situazione era istintiva, successivamente subentrò la riflessione: attraverso un meccanismo di ripetizione grazie alla facoltà mnemonica, il gesto diveniva infatti segno di sentimenti legati a oggetti assenti o situazioni passate. Il filosofo poneva l’esempio di due bambini di sesso opposto che, in seguito al Diluvio, dopo aver vissuto da soli, si ritrovano insieme in una terra disabitata, avulsi dalla società, con l’esigenza di comunicare. La prima forma di scambio comunicativo avveniva attraverso i gesti: «Plus ils se familiarisèrent ces signes, plus ils furent en état de se les rappeler à leur gré». In Étienne Bonnot de Condillac, Essai sur l’origine des connaissances humaines, présentation d’Aliénor Bertrand, Paris, Librairie philosophique J. Vrin, 2002, p. 101. Il gesto si interiorizzava ripresentandosi al comparire di una stessa passione, come il terrore, e poi la memoria agiva facendo sì che rimanesse impresso nella mente anche al venir meno del medesimo stato emotivo. Sull’argomento si veda Roberto Salvucci, Sviluppi della problematica del linguaggio nel XVIII secolo: Condillac, Rousseau, Smith, Rimini, Maggioli Editore, 1982.

[commento_1.6] Salfi propone qui una distinzione tra le arti imitative, in base alla distanza esistente tra oggetto imitato e oggetto imitante, ossia gli strumenti e i mezzi con i quali l’imitazione viene realizzata. La voce e il gesto, strumenti rispettivamente del canto e della danza pantomimica, appaiono dunque come le prime arti ad essersi sviluppate. Sulla confluenza della pantomima nelle arti musicali si veda Jean-Baptiste Du Bos, Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, Troisième partie, 4e éd., Paris, Jean-Pierre Mariette, MDCCXL, p. 214.

[commento_1.7] Più tarde risultano la pittura e la scultura, che utilizzano strumenti lontani dall’oggetto imitato, ossia la natura. Uno schema simile aveva guidato anche le riflessioni di Pagano, che attribuiva il primato cronologico alla pantomima, mossa dall’istinto imitativo proprio dell’uomo. «Questo animale imitativo che forse non per altra cagione che per tal proprietà su gli altri animali s’innalza, ed a cui si approssima bella gran catena degli esseri sensibili ed animali, quella bestia che tra tutti i brutti è di più forza imitativa dotata, cioè la scimia, questo animale, io dico, cominciò da prima cogli atti e coi gesti a ritrarre le azioni degli altri uomini suoi simili, e creò la pantomimica, la quale non andò scompagnata dal ballo, che divenne una parte dì quella» (Francesco Mario Pagano, Discorso sull’origine e natura della poesia, cit., p. 61).

[commento_1.8] A questo proposito, l’Abbé Du Bos, nelle sue Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, si sofferma sulla spartizione che gli attori dell’antichità facevano del gesto e della voce, affermando che fossero due gli attori ad andare in scena, uno destinato a declamare, l’altro a eseguire i gesti corrispondenti. L’origine di questa pratica era stata raccontata da Tito Livio a proposito di Livio Andronico che, stanco dei continui bis domandati dal pubblico, aveva lasciato declamare al suo schiavo mentre lui continuava a eseguire i gesti.

[commento_1.10] La messa in scena del corpo dell’attore, attraverso la quale la declamazione attinge al sommo grado di illusione, sarà anche la ragione che porterà i moralisti a condannare il teatro, nell’idea che si determini un contagio di passioni nocive tra la scena e la sala. Tali idee trovavano una spiegazione filosofica nella dottrina di Malebranche, che, nel 1674, pubblica De la recherche de la vérité. Egli dedica un ampio spazio alla questione del contagio delle passioni, che si verifica attraverso canali prettamente sensibili, ossia la vista e l’udito. All’interno di una sezione dedicata all’immaginazione, egli individua nell’uomo un’inclinazione all’imitazione dei simili, attraverso dei liens naturels che lo uniscono agli altri: «Ces liens naturels, qui nous sont communs avec les bêtes, consistent dans une certaine disposition du cerveau qu’ont tous les hommes pour imiter quelques-uns de ceux avec lesquels ils conversent, pour former les mêmes jugements qu’ils font et pour entrer dans les mêmes passions dont ils sont agités» (Nicolas Malebranche, De la recherche de la vérité. Où l’on traite de la Nature de l’Esprit de l’homme, et de l’usage qu’il en doit faire pour éviter l’erreur dans les Sciences, in Id., Œuvres complètes, Paris, Imprimerie de Sapia, 1837, tome premier, livre II, IIIe partie, ch. I, p. 77). Questa capacità di attrarre l’inclinazione mimetica altrui si verifica soprattutto negli individui dotati di una «imagination forte et vigureuse». Gli elementi che questi utilizzano per contagiare gli altri agiscono sul piano dell’emotività piuttosto che della razionalità, e vanno individuati ne «l’air de leur visage, le ton de leur voix, et le tour de leurs paroles» (ivi, livre II, IIIe partie, ch. I, p. 80). In questo possiamo trovare una vicinanza con l’attore, che fa partecipare lo spettatore delle stesse passioni del suo personaggio attraverso i medesimi strumenti, in grado di far leva sul pathos della platea. Un contagio implica infatti che colui che contagia sia il primo a essere contagiato. Come afferma il filosofo, «Car enfin un homme qui est pénétré de ce qu’il dit en pénètre ordinairement les autres» (ibid.) Egli riprenderà la questione anche nel libro V, dedicato alle passioni tout court, sottolineando ancora una volta come sia la natura fisica delle passioni a permettere il contagio, che avviene attraverso la contemplazione dei segni che la passione manifesta al livello del corpo. A proposito dell’individuo preso dalla passione, dice infatti che gli spiriti che si muovono nel corpo «[…] répandent sur son visage et sur le reste de son corps un certain air capable d’agiter les autres de la même passion dont il est ému» (ivi, livre V, ch. 3, p. 169).

[commento_1.11] Era stato Shakespeare a infrangere i confini tra comico e tragico, la cui influenza determinerà la diffusione di forme drammatiche intermedie, quali il dramma borghese e la comédie larmoyante.

[commento_1.12] Salfi individua come materia privilegiata del trattato la declamazione, ossia l’arte drammatica propria del genere tragico. Bisogna sottolineare come il termine fosse spesso connesso a un’idea di recitazione ampollosa e enfatica, propria della maniera alla francese. Luigi Riccoboni si era scagliato contro questa maniera di declamare che, invece di attingere all’illusione, produceva nello spettatore un immediato effetto di finzione. Gli attori francesi, a suo dire, avevano infatti abituato il pubblico a credere che i personaggi tragici dovessero esprimere le passioni diversamente da come farebbe un uomo comune, allontanando la declamazione dal naturale: «Tout le monde sait que César, Alexandre, Annibal, & tous les Héros de t’Antiquité étoient des hommes comme nous; et l’on est persuadé qu’ils ne traitoient pas les plus grandes passions, ni les actions les plus héroïques, autrement que les grands hommes de nos jours: cependant ces mêmes Spectateurs séduits dès leur tendre jeunesses par l’expression outrée de la Déclamation Tragique, prennent les Héros de l’antiquité sur le pied que les Comédiens veulent bien les leur donner, c’est-à-dire, comme des hommes extraordinaires; on les voit marcher, parler tout, autrement que nous, et avoir une contenance tout-à-fait différente de la nôtre» (Luigi Riccoboni, Réflexions historiques et critiques sur les différents théâtres de l’Europe. Avec les Pensées sur la déclamation, cit., p. 267).

[commento_1.13] Salfi precisa la distanza che intercorre tra attore e oratore, in linea con quanto avevano già fatto i suoi predecessori, a partire da Riccoboni che nel Dell’arte rappresentativa (1728) aveva scelto di rivolgersi specificatamente all’universo dei professionisti del teatro. In questa sede riprende in particolare Engel, che aveva sottolineato come il dramma, a differenza dell’epica e dell’oratoria, si fondasse sull’idea di presenza: «I personaggi del dramma espongono pensieri che stanno nascendo proprio in quel momento; il predicatore pensieri che ha già meditato in precedenza; i primi si trovano in uno stato di effettiva agitazione esteriore e sono in bilico tra idee e sentimenti; il secondo se ne sta in uno stato di calma esteriore, ed è occupato da un solo oggetto, come pure da un solo sentimento principale, permanente, che può sviluppare a proprio piacimento» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 541).

[commento_1.14] L’idea che il testo drammatico prenda vita unicamente una volta portato in scena era già ampiamente diffusa nel Settecento. Si pensi alla figura di Alfieri e alla sua attenzione per gli aspetti performativi dei suoi drammi. Egli si soffermerà lungamente, ad esempio, sulla natura visiva da conferire alla catastrofe. Nel Parere sulle tragedie, pubblicato nel 1789 nell’edizione parigina delle sue tragedie, a proposito del Filippo scriveva: «Circa alla catastrofe di questa tragedia, io rimango molto in dubbio, se ella stia bene o male così. Bisognerebbe ch’io la vedessi ottimamente recitata più volte, per ben giudicarne. Quel che mi pare a lettura, e che sul totale mi pare d’ogni mio quint’atto, si è, che le catastrofi, nel solo stampato non ajutate dall’azione, non possono ottenere, né per metà pure, il loro effetto; essendo fatte assai più per gli occhi, che per gli orecchi» (Vittorio Alfieri, Parere sulle tragedie, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche, cit., p. 86).

Come spesso fa notare nelle riflessioni a proposito delle varie tragedie, è proprio il momento performativo che consente la verifica dell’impatto sullo spettatore, proprio perché il testo, specie nel caso dei quinti atti, trova piena realizzazione solo nell’azione drammatica.

Capitolo II §

[commento_2.1] Nell’ambito della trattatistica concernente la retorica o la declamazione il termine pronuncia (o pronunzia) si vede sostituito da pronunciazione (o pronunziazione), trasposizione del latino pronunciatio. Si legga ad esempio Planelli: «Ora alla Formazione dell’Opera in Musica concorrono la Poesia, la Musica, la Pronunziazione, e la Decorazione» (Antonio Planelli, Dell’opera in musica. Trattato del cavaliere Antonio Planelli dell’ordine gerosolimitano, cit., p. 26). Lo stesso in Napoli Signorelli: «Ma perché la pronunciazione di cui in questo capo trattiamo è un talento d’immensa estensione, e necessario per ogni sentimento da comunicarsi altrui per la voce, pel volto e pel gesto, uopo è farne parola in prima in generale, ed in seguito passare alla teatrale» (Pietro Napoli Signorelli, Elementi di poesia drammatica di Pietro Napoli Signorelli, Professore nel Ginnasio nazionale di Brera, Milano, 1801, p. 130).

[commento_2.2] Stessa premessa in Planelli: «Per vedere ora qual sia la Pronunziazione, di cui abbisogna l’Opera in Musica, la considereremo relativamente al Gesto e alla Voce, che sono i due oggetti di quest’Arte» (Antonio Planelli, Dell’opera in musica. Trattato del cavaliere Antonio Planelli dell’ordine gerosolimitano, cit., p. 160).

[commento_2.4] Rousseau aveva parlato a questo proposito di accent de la langue: «La seule différence de plus ou moins d’imagination et de sensibilité qu’on remarque d’un peuple à l’autre en doit introduire une infinie dans l’idiome accentué, si j’ose parler ainsi. L’Allemand, par exemple, hausse également et fortement la voix dans la colère; il crie toujours sur le même ton. L’Italien, que mille mouvemens divers agitent rapidement et successivement dans le même cas modifie sa voix de mille manières […]» Jean-Jacques Rousseau, «Accent», in Id., Dictionnaire de musique, Paris, chez la Veuve Duchesne, M. DCC. LXVIII, p. 16.

[commento_2.6]«Une voyelle peut faire une seule syllabe. Deux voyelles aussi peuvent composer une syllabe, ou entrer dans la même syllabe; mais alors on les appelle diphthongues, parce que les deux sons se joignent en un son complet, comme mien, hier, ayant, eau. […] Les consonnes ne peuvent seules composer une syllabe; mais il faut qu’elles soient accompagnées de voyelles ou de diphthongues, soit qu’elles les suivent, soit qu’elles les précèdent» (Antoine Arnauld, Claude Lancelot, Grammaire générale et raisonnée de Port-Royal, par Arnauld et Lancelot, précédée d’un Essai sur l’origine et les progrès de la langue françoise, Paris, chez Perlet, 1803, pp. 257-258).

[commento_2.7] Si veda quanto scritto da Marmontel: «C’est l’accent qui donne du caractère à l’expression: de l’esprit, de la vérité, de la variété à la lecture; de la vie et de l’âme à la déclamation […]». (Jean-François Marmontel, Éléments de littérature, in Id., Œuvres complètes, cit., p. 60).

[commento_2.8]«Questa misura ha per norma l’osservazione, l’ordine e l’usanza, come nella parola Amo, l’accento ritrovasi nella prima Sillaba, in Amare nella seconda, Amerò nella terza: e se ne vedrà in fine la regola» (Giovanni Lancillotti, I principj della lingua italiana, https://www.liberliber.it/mediateca/libri/l/lancillotti/i_principj_della_lingua_italiana/pdf/i_prin_p.pdf, p. 10).

[commento_2.9] Come scrive l’Abbé Olivet: «Par l’accent prosodique, on entend, comme je l’ai dit ci-dessus, une inflexion de la voix, qui s’élève, ou qui s’abaisse. Quelquefois aussi, et l’on élève d’abord, et l’on rabaisse ensuite la voix, sur une même syllabe. Voilà ce qui forme trois accens, que les Grammairiens appellent l’Aigu, le Grave et le Circonflexe […]» (Pierre-Joseph Thoulier d’Olivet, Traité de la prosodie françoise, par M. l’Abbé d’Olivet, cit., p. 24).

[commento_2.10] A questo proposito si legga quanto scritto da Trissino: «[…] sì come i Latini, ed i Greci governavano i loro Poemi per i tempi, noi, come vederemo, gli governiamo per li toni» (Giovan Giorgio Trissino, Le sei divisioni della poetica, in Id., Tutte le opere di Giovan Giorgio Trissino Gentiluomo vicentino non più raccolte. Tomo secondo contenente le prose, In Verona, Presso Jacopo Vallarsi, Con Licenza de’ superiori, 1719, p. 15).

[commento_2.11] Salfi diffida della possibilità di ricostruire la declamazione degli antichi, come ad esempio aveva cercato di fare Du Bos nelle sue Réflexions.

[commento_2.12] Il testo di riferimento per l’analisi logica del discorso sono i Principes généraux de grammaire pour toutes les langues: avec leur application particulière à la langue française (1798) di Condillac, il quale si serve a titolo esemplificativo del discorso pronunciato da Racine per l’ingresso di Corneille all’Académie Française: «Une pensée qui demande un développement d’une certaine étendue, telle que celle qui nous sert d’exemple, forme ce qu’on appelle un paragraphe; plusieurs paragraphes un chapitre; plusieurs chapitres font un livre; plusieurs livres font un traité» (Étienne Bonnot de Condillac, Principes généraux de grammaire pour toutes les langues: avec leur application particulière à la langue française, Paris, chez A. J. Dugour, 1798, p. 91).

[commento_2.13]«Dans le discours prononcé, les repos de la voix tiennent lieu d’alinéa et de points. C’est par ces repos que Racine distinguoit les différentes parties de sa pensée lorqu’il prononçoit son discours». E ancora: «Chacun de ces alinéas est formé de parties distinctes: et vous remarquerez, en y jetant les yeux, qu’elles sont séparées, tantôt par un point, tantôt par deux, tantôt par un point et une virgule, tantôt par une virgule. Les deux points marquent un repos moins grand que le pont; et le point et la virgule, un repos plus foible encore». (Étienne Bonnot de Condillac, Principes généraux de grammaire pour toutes les langues: avec leur application particulière à la langue française, cit., pp. 90-93).

[commento_2.14] A proposito dell’ordre oratoire, Batteux scriveva: «Il faut donc en revenir à la troisième espèce d’ordre ou d’arrangement, c’est-à-dire, à celui qui est fondé sur l’intérêt ou le point de vue de celui qui parle. […] Si je veux faire entendre à un homme autre que moi, qu’il doit fuir ou rechercher quelque objet, commencerai-je par l’engager à avancer ou à s’éloigner? Je lui montrerai l’objet, et l’objet lui dira ce qu’il doit faire. L’ordre que j’ai suivi pour moi est le même à suivre pour lui. Sa machine étant composée comme la mienne, c’est le même ressort qui doit la faire mouvoir. J’ai vu un serpent, j’ai fui. Il faut donc que je lui donne d’abord l’idée du danger, si je veux qu’il se détermine à fuir» (Charles Batteux, Traité de la construction oratoire, Paris, chez Demonville, 1810, pp. 6-7. Per un quadro generale sui dibattiti di ordine linguistico del periodo si veda Raffaele Simone, Seicento e Settecento, in Storia della linguistica, a cura di Giulio C. Lepschy, vol. II, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 313-395.

Capitolo III §

[commento_3.1] La superiorità della superficie visiva era da rintracciarsi già nella trattatistica cartesiana. Egli apre l’art. 113 affermando: «Il n’y a aucune Passion que quelque particulière action des yeux ne déclare […]» (René Descartes, Le passioni dell’anima, cit., art. CXIII, p. 282). La preferenza assegnata alle sopracciglia risaliva invece a Le Brun: «Et comme nous avons dit que la glande qui est au milieu du cerveau est le lieu où l’âme reçoit les images des passions, le sourcil est la partie de tout le visage où les passions se font mieux connaître, quoique plusieurs aient pensé que ce soit dans les yeux» (Charles Le Brun, Conférence de M. Le Brun, sur l’expression générale et particulière, Amsterdam, chez J. L. De Lorme, MDCXCVIII, pp. 19-20). Sulle mani e le dita si erano invece soffermati gli oratori dell’antichità. Era Quintiliano infatti a affermare: «Per quanto riguarda le mani, poi, senza le quali l’azione oratoria sarebbe mutila e debole, è quasi impossibile dire quanti movimenti possiedano, perché essi eguagliano quasi il numero stesso delle parole» (Marco Fabio Quintiliano, La formazione dell’oratore, testo latino a fronte, traduzione e note di Cesare Marco Calcante, Milano, BUR, 1997, vol. III, libro XI, cpv. 85, p. 1893). Anche Lessing aveva dedicato loro uno spazio all’interno della Drammaturgia d’Amburgo, alludendo in maniera evocativa al linguaggio delle mani elaborato dagli oratori antichi, e contrapponendolo ai «gesti meccanici», complici di rendere gli attori simili a marionette, che degradavano la scena coeva: «Poco sappiamo della cosiddetta chiromania degli antichi, cioè del complesso di regole che essi avevano proscritto per il movimento delle mani; ma sappiamo di certo che avevano portato il linguaggio delle mani a un grado di perfezione quale i nostri oratori non sanno neppure immaginare» (Gotthold Ephraim Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, cit., p. 25).

Salfi intende il linguaggio del corpo in termini sensistico-vichiani, ossia come prima tappa della comunicazione, la cui naturale evoluzione è costituita dal linguaggio verbale. Questa tematica aveva trovato spazio anche nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia, frutto degli insegnamenti da lui impartiti a Brera e a Napoli. In una sezione dedicata al linguaggio, facendo esplicito riferimento alle riflessioni di Condillac, assegnava il primato temporale alla lingua «pantomimica o di azione» (Francesco Saverio Salfi, Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di Franco Crispini, Morano, 1990, p. 260).

[commento_3.2] Salfi passa qui a definire le forme che il gesto può assumere, concependo la triade «naturale e nazionale, logico e oratorio», e applicando i termini del dibattito sull’ordine del discorso verbale formulati da Batteux a quello non verbale. Estraneo rispetto al dibattito è solo il binomio naturale / nazionale, che va a formare un’unica categoria. Questa aggiunta discende probabilmente da Engel. Egli infatti prendeva come esempio il caso della venerazione e sottolineava come, nella sua espressione, si potessero rintracciare tratti caratteristici delle singole nazionalità, ossia il coprirsi il capo degli orientali e lo scoprirsi il capo degli europei. Tuttavia questi gesti si accompagnano a un tratto universale, quello di piegare il corpo in segno di rispetto dell’oggetto di venerazione (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., pp. 362-363). Il gesto esprimente la venerazione, declinato in più cinemi simultanei, permetteva così la coesistenza di naturale e nazionale.

[commento_3.3] Essi hanno dunque natura deittica, perché fanno riferimento al contesto spazio-temporale in cui il personaggio si trova ad agire, traslando la funzione deittica del linguaggio verbale a quello non verbale. A questo proposito Patrice Pavis individua la seguente funzione: «Fonction indicielle: elle s’applique à la fois au geste d’indication (regard, index pointé vers…, voix s’adressant à…) et au systèmelinguistique: les déictique (ici, maintenant, etc.)» (Patrice Pavis, Voix et images de la scène: pour une sémiologie de la réception, Lille, Presses universitaires de Lille, 1985, p. 118).

[commento_3.4] Gli eccitatori possono essere visti come l’equivalente della funzione fatica propria del linguaggio verbale.

[commento_3.5] Gli accompagnatori sono invece di semplice supporto al discorso e alla scansione del suo andamento. Appartengono dunque alla sfera della pre-espressività.

[commento_3.6] I pittorici sono volti alla rappresentazione dell’oggetto o della persona in questione e costituiscono, sul piano gestuale, quello che gli ideogrammi sono nel linguaggio verbale. Nel caso di questi gesti si verifica dunque un’esclusione del soggetto, che sacrifica la rappresentazione di sé per lasciare spazio all’altro. A proposito del linguaggio dei sordo-muti al quale Salfi fa riferimento, occorre fare menzione della figura dell’Abbé de l’Épée, primo istitutore gratuito dei sordo-muti di nascita. Al pari di Condillac, che fa partire le sue riflessioni sull’origine del linguaggio dal bisogno comunicativo di due bambini situati ai primordi dell’umanità, anche le riflessioni dell’abate nascono da un’impellenza comunicativa: quella tra due gemelle sordo-mute, che egli incontrò attorno al 1760. Morto il loro precettore, il padre Vavint, l’Abate le prese sotto la sua ala, elaborando un nuovo metodo per l’istruzione dei sordo-muti di nascita, che approdò nella pubblicazione di scritti al riguardo e l’inaugurazione di un istituto. All’interno della sua prima opera pubblicata nel 1776, Institution des sourds et muets par la voie des signes méthodiques, egli constaterà l’inadeguatezza della Dactylologie, ossia dell’alfabeto a due mani, in quanto questi segni non sono che lettere, incapaci di comunicare l’idea della cosa. Egli propone allora di partire da un linguaggio che i sordo-muti già possiedono naturalmente, quello dei segni, e che essi utilizzano in relazione a bisogni istintuali. A questi segni naturali, egli intende affiancare dei «signes méthodiques», dal momento che non sempre ciò di cui parliamo è sotto ai nostri occhi o può essere percepito dai sensi (si pensi all’idea di tempo, del tutto astratta). Per un inquadramento della sua figura si veda Maryse Bézagu-Deluy, L’abbé de l’Épée, instituteur gratuit des sourds muets (1712-1789), Paris, Seghers, 1990.

[commento_3.7] La distinzione tra pittorici e espressivi era già presente in Engel. I gesti pittorici imitano oggetti sensibili, i gesti espressivi le disposizioni assunte dall’anima. Egli tuttavia sottolineava la debolezza della pura rappresentazione: «La montagna da imitare il corpo umano che la imita sono due entità tra loro troppo dissimili, che a stento hanno dei punti in contatto» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 379). A proposito dell’espressione invece Engel afferma: «con il termine espressione [designo] ogni raffigurazione sensibile del contegno, della disposizione che l’anima assume in quanto compenetrata dal pensiero di un determinato oggetto, ovvero ogni raffigurazione sensibile dello stato d’animo complessivo indotto dal pensiero» (ibid.).

[commento_3.8] Era stato Descartes a sottolineare l’impossibilità della volontà dell’anima di intervenire per evitare alcune manifestazioni somatiche, ossia «[…] les changements de couleur, les tremblements, la langueur, la pâmoison, le ris, les larmes, les gémissements et les soupirs» (René Descartes, Le passioni dell’anima, cit., art. CXII, p. 280). La sola possibilità per l’attore di riprodurle risiede nel possesso di potenti facoltà immaginative, in grado di evocare immagini dell’oggetto a cui sono legate le idee di piacere o dispiacere. In Engel tali gesti erano stati classificati come movimenti «che traggono origine dal meccanismo del corpo», in opposizione a quelli determinati «dall’attività dell’anima» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit. p. 367).

[commento_3.9] Sono quelli che Engel chiama gesti intenzionali, indici di una volontà da parte del soggetto, «ad esempio il piegarsi in direzione dell’oggetto che desta il nostro interesse, la postura rigida e pronta all’aggressione di chi sia in preda all’ira, le braccia protese all’amore […]». (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 384).

[commento_3.10] Nel caso degli analoghi, vi è l’applicazione di un tropo del linguaggio verbale al linguaggio del corpo. La pittura in questo caso non ha come oggetto un corpo sensibile, ma un sentimento, che sia esso con o privo di interlocutore.

[commento_3.11] La prova tangibile della parentela tra il linguaggio verbale e quello gestuale, o meglio, della discendenza primo a partire da quello di azione, risiede nelle tracce residue che ne testimoniano la continuità: le forme di scrittura pittoriche e geroglifiche e la presenza dei tropi, figure del discorso nelle quali il linguaggio si fa corpo. Salfi sfrutta questo legame in funzione inversa: non si tratta di risalire dalle tracce alle origini, ma di valutare le origini in funzione delle tracce. In sintesi, la novità dell’oggetto di studio e la prospettiva pseudoscientifica che Salfi si propone di adottare implicano la necessità di strumenti di catalogazione del gesto. Le categorie allora, invece di essere create ex novo, vengono attinte dall’orizzonte del linguaggio verbale: dalle sue forme di scrittura, dal dibattito sull’ordine del discorso, dai tropi del linguaggio.

[commento_3.12] L’evoluzione da lui prospettata presenta un’evidente somiglianza con quella che Condillac individuava per la scrittura. Nell’Essai egli sottolineava come le prime forme di scrittura non fossero altro che il disegno dell’oggetto che si voleva esprimere, ossia «une simple peinture» (Étienne Bonnot de Condillac, Essai sur l’origine des connaissances humaines, présentation d’Aliénor Bertrand, Paris, Librairie philosophique J. Vrin, 2002, p. 154). Pittorica è l’origine dei caratteri della scrittura come lo sono quei gesti, pittorici appunto, che Engel giudica come i più elementari e che tende a scartare dal bagaglio cinestetico attoriale. Furono gli Egizi che, per primi, elaborarono un sistema di scrittura che fosse più sintetico e permettesse di accorpare i significati di più cose in uno segno. Dalla sola pittura, si passò allora a «peinture et caractère» (ivi, p. 155) Successivamente tre metodologie si andarono sviluppando e perfezionando. La prima potrebbe essere definita di tipo metonimico (che Engel fa rientrare nei gesti pittorici) e viene così descritta: «La première consiste à employer la principale circonstance d’un sujet pour tenir lieu du tout». La seconda è invece di tipo metaforico e «[…] consistait à substituer l’instrument réel ou métaphorique de la chose à la chose même». La terza era invece di natura analogica.

Dante Alighieri, Inferno, con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 1991, canto XXV, vv. 1-2, p. 737.

[commento_3.13] Nel corpus salfiano la riflessione sul linguaggio mimico in relazione alla ritualità massonica era presente all’interno della memoria Dell’utilità della F. Massoneria sotto il rapporto filantropico e morale (1807), nella quale il gesto viene designato come il linguaggio della fratellanza massonica, nella sua capacità di infrangere i vincoli di spazio e tempo che dividono l’uomo dall’uomo: «La lingua mimica fu la prima ad usarsi tra gli uomini, ed è la più facile a comunicarsi da chi non abbia altro mezzo da farsi intendere; ed è perciò la sola, che i massoni abbiano adottata, come quella ch’è meno esposta della vocale ad essere dai varj popoli alterata e confusa. Per essa dunque tutti si riconoscono, s’intendono e si avvicinano; e l’identità ed universalità della lingua c’ispira e prescrive l’identità ed universalità degli affetti», (Francesco Saverio Salfi, Dell’utilità della F. Massoneria sotto il rapporto filantropico e morale, Dai tipi del Grande Oriente d’Italia, 1811, p. 51).

[commento_3.14] Il testo di riferimento è ancora una volta l’Essai di Condillac, che prospettava una gradazione dagli albori del linguaggio di azione, nei quali i gesti erano mossi da bisogni istintuali, fino al progressivo svincolarsi dalla situazione contingente, complice l’attivazione delle facoltà mnemoniche.

[commento_3.15] Plinio, Storia naturale, libro XI, V, 123;

«abbracciandogli le ginocchia in tali suppliche si profonde» (Publio Virgilio Marone, Eneide, Introduzione di Alessandro Barchiesi, Traduzione e note di Riccardo Scarcia, Milano, BUR, 2006, Libro X, 523, p. 314).

[commento_3.16] Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, commento di Emilio Bigi, a cura di Cristina Zampese, Milano, BUR, 2012, canto XXIV, 19, p. 798.

[commento_3.17] Si veda quanto affermato da Engel: «Stando al Talmud, invece, la consuetudine dei cristiani di scoprirsi il capo affonderebbe altrove le proprie radici, sarebbe riconducibile al fondatore della loro religione, il quale avrebbe manifestato la sua intenzione di sopprimere le consuetudini del culto ebraico proprio entrando a capo scoperto nella sinagoga» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 362).

[commento_3.18] Salfi esplicita la natura individualizzante del gesto, che muta al mutare delle passioni, della contingenza, del grado sociale, della nazione. In questo senso il linguaggio di azione si rivelerà un veicolo per conferire al personaggio sulla scena un maggiore spessore psicologico.

Capitolo IV §

[commento_4.1] Antoine Houdar de La Motte (1672-1731) fu tra i primi ad accendere la polemica contro l’uso del verso. In particolare, nel Discours sur la tragédie à l’occasion d’Œdipe, opera che pubblica sia in prosa che in versi, egli sottolinea la superiorità della prosa nel conferire verosimiglianza: «N’est-il pas, j’ose le dire, contre nature, qu’un héros, qu’une princesse asservissent tous leurs discours à un certain nombre de sillabes; qu’ils y ménagent scrupuleusement des repos reglés; et qu’ils affectent, jusques dans le détail de leurs intérêts, ou dans leurs passions les plus impetueuses, le retour exact des mêmes sons qui ne peut être que le fruit d’une recherche aussi puerile que pénible?» (Antoine Houdar de la Motte, Discours sur la tragédie à l’occasion d’Œdipe, in Id., Œuvres de Monsieur Houdar de La Motte, tome quatrième, Paris, chez Prault, M. DCC. LIV, p. 392.) La Motte raccomandava così di impiegare il tempo che normalmente il poeta utilizza per la versificazione per conferire alla prosa quella nobiltà ed eleganza delle quali ingiustamente si crede che essa sia priva.

Su tale querelle, si veda Georges Lote, Histoire du vers français, tome VII, troisième partie, I, Le vers et les idées littéraires; la poétique classique du xviiie siècle. Aix-en-Provence, Université de Provence, 1992, pp. 79-96.

Nelle Lettere sulla mimica Engel aveva contestato l’uso del verso in tragedia, al quale veniva anteposta la prosa. Se infatti la tragedia era chiamata a mettere in scena la simultaneità tra l’avvicendarsi dei sentimenti e la loro espressione, l’uso della versificazione difficilmente avrebbe potuto riprodurre queste transizioni: «Senza entrare troppo nel merito dell’effettiva natura del genere drammatico, possiamo riconoscere a prima vista che in questo caso l’anima non deve essere compresa da un unico sentimento, che deve essere percorsa da una molteplicità di sentimenti e che tutta la bellezza e tutto l’effetto dei lavori drammatici si basano proprio su questa ben collegata molteplicità. Per conseguire questo fine ultimo come può essere vantaggioso per il poeta legarsi totalmente a uno stesso metro che resta fisso e immutato?» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 529.) L’utilizzo del medesimo metro avrebbe condannato all’uniformità il sentimento ma, allo stesso tempo, anche l’impiego di metri differenti si sarebbe rivelato inadatto a esprimere la graduale progressione delle passioni, causando al contrario stacchi bruschi e del tutto innaturali. Già gli antichi, attraverso l’adozione del metro giambico, avevano dimostrato la necessità di variatio, che un metro uniforme, quale quello epico, non avrebbe potuto concedere. La declamazione cantata che l’uso del verso porta con sé, e che conferisce un effetto di languore generale, viene paragonata così all’utilizzo di una mimica orientata soltanto secondo le leggi della bellezza e della grazia. In virtù di questa corrispondenza, secondo Engel era necessario portare l’intuizione degli antichi a ulteriore sviluppo, e abbandonare definitivamente il verso. La composizione di drammi in prosa risultava così in armonia con la scelta di far virare la tragedia verso nuove forme, quelle della tragedia borghese o domestica. Nei suoi Entretiens sur le Fils naturel, Diderot scriveva: «Les tragédies de Shakespeare sont moitié vers et moitié prose. Le premier poète qui nous fit rire avec de la prose, introduisit la prose dans la comédie. Le premier poète qui nous fera pleurer avec de la prose, introduira la prose dans la tragédie» (Denis Diderot, Entretiens sur le Fils naturel, in Id., Œuvres esthétiques, cit., p. 120). Nell’Éloge de Richardson (1762) Diderot sottolineava come l’impatto dell’autore inglese sui suoi lettori fosse da attribuire all’infrazione della distanza tra la pagina e la vita. Le situazioni, le passioni, i caratteri che si incontrano nei suoi romanzi sono gli stessi con cui ci si interfaccia nella vita di tutti i giorni. L’inconsistenza dello scarto tra realtà e finzione è evidente allorché Pamela, Clarissa e gli altri personaggi diventano oggetto di conversazione all’interno della società. (Denis Diderot, Éloge de Richardson, in Id., Œuvres esthétiques, cit., p. 37). La poetica richardsoniana si proietta nei drammi in prosa di Diderot, nei quali il baricentro si sposta verso il microcosmo familiare e i personaggi si scalzano dei coturni per indossare gli abiti della borghesia. La tragedia si desublima nel dramma borghese, o meglio, gli eroi del nuovo universo borghese assumono la grandezza interiore degli eroi antichi. L’abolizione del verso permetteva così di dare un linguaggio verosimile ai nuovi protagonisti che andavano popolando le scene, e che difficilmente avrebbero goduto di credibilità presso il pubblico se si fossero espressi attraverso l’enfasi declamatoria dell’alessandrino. Sull’argomento si legga quanto osservato da Georges Lote, «Quelles que soient en effet les intentions les plus louables du comédien, quelque désir qu’il ait de ne pas balancer les hémistiches, la prose le préserve de toutes les défaillances que le vers rendrait inévitables; le plus sûr moyen pour qu’un acteur ne soit pas victime de la césure et de la rime, c’est de lui enlever et la césure et la rime» (Georges Lote, Histoire du vers français, tome IX, troisième partie, III, Le xviiie siècle. Les genres et les formes, la versification, du classicisme au romantisme, Aix-en-Provence, Université de Provence, 1996, p. 273).

Salfi fa inoltre menzione di Giacinto Ceruti (1735-1792) che, ne Le disgrazie di Ecuba, aveva adattato la prosa armonica ad un soggetto tragico tradizionale. Con queste parole Signorelli descriveva l’esperimento: «Il piano è semplice, e l’economia della Favola è sul gusto de’ Greci; ma è scritta in prosa, giusta il progetto anni sono proposto da M. Diderot e da non seguitarsi punto nella tragedia» (Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni, cit., tomo VI, 1790, p. 171, n. 48).

[commento_4.3] Alfieri insisteva sulla necessità da parte degli interpreti di comprendere il senso di quanto stessero recitando e adattarvi la propria declamazione, per non rischiare che i versi restassero oscuri al pubblico. Un esempio positivo si rivela allora la messa in scena dell’Antigone, nella quale aveva recitato lui stesso insieme ad altri nobili dilettanti: «I versi dell’Antigone erano da noi recitati, non bene, ma a senso, e quindi erano chiari a più idioti; letti poi forse non così a senso, ma badando al punteggiato, divenivano oscuri. Recitati, parlano energici, perché il dire era breve, e non cantabile, né cantato» (Vittorio Alfieri, Risposta di Vittorio Alfieri a Lettera del Sig.r Rinieri de’ Calzabigj scrittagli sopra le sue Tragedie, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche, cit., p. 232). Salfi resterà fedele alla prescrizione alfieriana di una recitazione a senso, ma esigerà dagli attori anche la capacità di ricreare, attraverso la pronunciazione, non solo i nessi sintattici, ma anche quelli metrici.

[commento_4.4] L’Alfieri costituisce per Salfi il modello privilegiato di riferimento quanto alla versificazione. Questi aveva infatti intuito la necessità di adattare il verso alle variegate forme del sentimento espresso, superando la monotonia dell’endecasillabo tradizionale. Per questa ragione, ispirandosi al verso senecano, Alfieri, in seguito a un lungo periodo di sperimentazione, sceglie di conferire mobilità all’endecasillabo per piegarlo alle sue intenzioni. L’asprezza della versificazione avrebbe portato con sé l’allontanamento dalla declamazione cantata, che sottraeva vigore all’espressione dei sentimenti.

[commento_4.5] Come sottolineava Alfieri nella Risposta di Vittorio Alfieri a Lettera del Signor Ranieri de’ Calzabigj scrittagli sopra le sue Tragedie (1784), il pericolo risiedeva da una parte nell’eccesso di languore e monotonia, dall’altra nella degenerazione verso il comico: «In tragedia un amante parla all’amata; ma le parla, non le fa versi: dunque non le recita affetti con armonia e stile di sonetto; bensì tra il sonetto e il discorso familiare troverà una via di mezzo, per cui l’amata che in palco lo ascolta non rida delle sue espressioni, come fuori di natura il dialogo; né la platea che lo sta a sentire rida del suo parlare, come triviale e di comune conversazione» (Vittorio Alfieri, Risposta di Vittorio Alfieri a Lettera del Sig.r Rinieri de’ Calzabigj scrittagli sopra le sue Tragedie, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche, cit., p. 231).

[commento_4.6] Questo problema si ripresentava spesso nell’interpretazione dei testi tragici alfieriani, caratterizzati da un uso insistito dell’enjembement, che nega la coincidenza tra la fine del verso e la fine della frase.

[commento_4.7] Dante Alighieri, Inferno, cit., canto XXXIII, vv. 1-6, pp. 981-982.

[commento_4.8] Dante Alighieri, Inferno, cit., canto XXXIII, vv. 7-9, p. 982.

[commento_4.9] Dante Alighieri, Inferno, cit., canto XXXIII, v. 10, p. 982.

[commento_4.10] Vittorio Alfieri, Filippo, in Id., Tragedie, cit., I, 1, p. 7.

[commento_4.11]«Infatti, ai versi occorre dare un volto, per così dire, mutevole, perché il primo verso non sia mai uguale al secondo e il secondo non sia uguale al terzo; insomma, perché nessuno di essi appaia mai con la fisionomia di un altro. Un verso è migliore per il movimento dei piedi, e con le sue ali veloci, in volo leggero e silenzioso, è in grado di sfiorare appena il suolo; un altro invece sopporta inerte grandi pesi, procede con mille vani sforzi, rimanendo attardato. Ecco che nasce un altro stupendo verso dall’aspetto solenne e Venere gli rende volentieri onore in ogni sua parte; al contrario, un altro verso duro esibisce le sue membra sgraziate, il sopracciglio irsuto e la coda tortuosa; è sgradevole nell’aspetto e ha, per giunta, un suono inquietante. In realtà questi vari tipi di versi non si danno senza una regola e senza una fondatezza; al contrario, ad ognuno di essi si deve riservare una forma, una posizione e un suono convenienti, con una scelta rigorosa delle relative soluzioni verbali» (Marco Girolamo Vida, L’Arte poetica, introduzione, testo, traduzione e note a cura di Raffaele Girardi, Bari, Adriatica Editrice, 1982, Lib. III, vv. 370-384, pp. 184-187).

[commento_4.12] Sulla ripresa dello stile di versificazione dantesco da parte di Alfieri, così Salfi si esprimeva all’interno del Ristretto della Storia della Letteratura italiana: «Diretto dal medesimo spirito Alfieri non potè tollerare quello stile e quella versificazione o troppo molli o troppo lirici, e più o meno effemminati che sfigurarono le precedenti tragedie. Quantunque ammiratore del Petrarca, credeva, che egli avesse alquanto spogliata la sua propria lingua della forza che Dante le aveva impressa. Intraprese a formare il suo stile sopra quello di questo gran poeta che gli sembrava il più drammatico di tutti, e che ci fa ancor versare delle lacrime sopra le sventure di Francesca da Rimini, del conte Ugolino, di Manfredi e di tanti altri» (Francesco Saverio Salfi, Ristretto di storia della letteratura italiana, cit., vol. II, pp. 490-491).

[commento_4.14] Vittorio Alfieri, Oreste, in Id., Tragedie, cit., II, 1, p. 275.

[commento_4.15] Vittorio Alfieri, Oreste, in Id., Tragedie, cit., II, 1, pp. 275-276.

[commento_4.17] Vittorio Alfieri, Oreste, in Id., Tragedie, cit., II, 1, p. 276.

[commento_4.18] Vittorio Alfieri, Oreste, in Id., Tragedie, cit., II, 1, p. 276.

[commento_4.19] Vittorio Alfieri, Oreste, in Id., Tragedie, cit., II, 1, p. 276.

[commento_4.20] A proposito della metrica dantesca, Salfi si esprimeva in questo modo: «Riguardasi la lingua italiana come la più armoniosa di tutte le lingue moderne; ma nessuno fra i poeti italiani ha concepito una varietà così grande di ritmi come Dante. Quasi ogni suo verso è imitativo, ed il suono contribuisce sempre al colorito del soggetto, ed all’espressione del sentimento» (Francesco Saverio Salfi, Ristretto della Storia della Letteratura italiana, cit., vol. II, pp. 36-37).

Capitolo V §

[commento_5.1] Il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo si caratterizzano per l’assegnazione di una funzione espressiva al gesto, che viene visto come riflesso diretto della passione, al contrario di quanto avverrà in epoche più recenti, che vedranno l’ascesa del «geste comme production» (Patrice Pavis, Dictionnaire du théâtre: termes et concepts de l’analyse théâtrale, Paris, Éditions Sociales, 1980, p. 192). Per un inquadramento più dettagliato della questione, si veda Patrizia Magli, The System of the Passions in Eighteenth-Century Dramatic Mime, in «Versus: quaderni di studi semiotici», 22, 1979, pp. 32-47.

[commento_5.2] Riferimento fondamentale a proposito della corrispondenza tra anima e corpo è la dottrina di Jacopo Stellini (1699-1770), Professore di Etica e Morale presso l’Università di Padova, che, originariamente in latino, venne divulgata tramite le Lettere stelliniane (1811), redatte da Luigi Mabil. All’interno del MS. XX. 42 (I), cc. 143-150, conservato presso la Biblioteca Vittorio Emanuele III di Napoli, troviamo delle annotazioni di Salfi tratte da questa opera che vanno a confluire nella Selva per la declamazione.

Salfi si esprimeva in questi termini a proposito dello Stellini: «Après les tentatives d’Hobbes et de tant d’autres, ce célèbre professeur de Padoue, dont les ouvrages sont plus vantés que connues, voulut donner à la morale la méthode et la forme de la physique expérimentale» («Revue encyclopédique», 1819, tome I, p. 522).

[commento_5.3] Nel ripercorrere la genesi del linguaggio verbale, Salfi seguiva passo passo le riflessioni proposte da Condillac nell’Essai sur l’origine des connaissances humaines. In quella sede, il filosofo francese sottolineava la natura del tutto istintiva dei primi suoni emessi tramite l’organo vocale, dettati dal bisogno contingente di comunicare i propri stati d’animo.

[commento_5.4] L’impossibilità dei primi uomini di articolare parole complesse faceva sì che le forme embrionali di linguaggio che essi erano in grado di pronunciare assumessero valore polisemico. Condillac poneva il caso del suono Ah!, che, a seconda dell’intonazione che gli si assegnava, era in grado di coprire da solo l’ampio repertorio delle passioni: «Or, les cris naturels introduisent nécessairement l’usage des inflexions violentes, puisque différents sentiments ont pour signe le même son varié sur différents tons. Ah, par exemple, selon la manière dont il est prononcé, exprime l’admiration, la douleur, le plaisir, la tristesse, la joie, la crainte, le dégoût, et presque tous les sentiments de l’âme» (Étienne Bonnot de Condillac, Essai sur l’origine des connaissances humaines, cit., p. 105). Queste teorie potevano così offrire a Salfi l’esempio di un tempo in cui la povertà del linguaggio non costituiva un limite per l’espressione della varietà del sentimento. Tutto stava nel comprendere il potere della flessibilità del tono.

[commento_5.5]«L’ira, ad esempio, assumerà per manifestarsi un certo tono di voce acuto, agitato con continue interruzioni […] Altro ancora è il tono della paura, basso, esitante, abbattuto […] La violenza invece sarà espressa da un tono teso, impetuoso, incalzante come per un’esaltata solennità […] Il piacere ne impiegherà uno scorrevole e lieve, rallegrato e sereno […] Altro ancora sarà quello dello scoraggiamento, un po’ solenne senza commiserazione e che proceda in modo uniforme e monotono» (Marco Tullio Cicerone, De oratore, traduzione e commento a cura di Pietro Li Causi, Rosanna Marino, Marco Formisano, introduzione di Elisa Romano, testo latino a fronte, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2015, Libro III, 58, 217-219, pp. 366-369).

[commento_5.6] La citazione non trova corrispondenza nella sezione Della virilità, contenuta nella Storia naturale dell’uomo di Georges-Louis Leclerc de Buffon, a cui rimanda la nota apposta da Alfonso Salfi nell’edizione del 1878.

[commento_5.7] Si veda la nota 5.6.

[commento_5.9] In Anthologia Latina, sive Poesis Latinae supplementum, recensuit Alexander Riese, Lipsiae, in aedibus B. G. Teubneri, MDCCCLXVIII, 111, vv. 3-4, p. 108.

[commento_5.11] Le citazioni tratte da testi letterari che Salfi utilizza in questa sezione, come altrove, assolvono il compito di «didascalie implicite», funzionali a illustrare i movimenti che l’espressione di una determinata passione chiama in causa. I testi da cui attingere sono dunque selezionati in funzione della loro potenzialità drammatica, della loro capacità di generare immagini mentali. Come scrive nel Ristretto della Storia della Letteratura Italiana: «I quadri di Dante non sono mai tanto notabili, che quando caratterizza i suoi personaggi e le loro passioni. Direbbesi che le sue frasi hanno qualche cosa di magico. In poche parole egli disegna un bel ritratto, e questo ritratto è veramente vivo» (Francesco Saverio Salfi, Ristretto della Storia della Letteratura Italiana, cit., vol. I, p. 31). Dante si prefigura così come un pittor poeta, in grado di comporre scene dalla forte vocazione drammatica. Sulla visione che Salfi aveva della Commedia dantesca, si veda Giuliana Angiolillo, Dante nel pensiero di F. S. Salfi, in Francesco Saverio Salfi, un calabrese per l’Europa, a cura di Pasquale Alberto De Lisio, cit., pp. 227-235.

Dante Alighieri, Inferno, cit., canto X, vv. 35-36, pp. 311-312;

Ivi, canto X, vv. 73-75, pp. 319-320.

[commento_5.12] Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, cit., canto XI, 35, p. 375.

Un giudizio simile a quello su Dante viene espresso da Salfi anche a proposito dell’Ariosto: «Se i discorsi, se le azioni sono sempre appropriati allo stato ed al carattere dei personaggi, il colorito di una estrema freschezza, non è meno costantemente adattato ai quadri ed ai ritratti che gli delinea» (Francesco Saverio Salfi, Ristretto della Storia della Letteratura Italiana, cit., vol. I, p. 104).

[commento_5.13]«e veramente dea apparve al portamento» (Publio Virgilio Marone, Eneide, cit., I, 405, p. 34).

[commento_5.14] Dante, Inferno, cit., canto I, vv. 46-47, p. 19;

Dante, Purgatorio, con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 1994, canto XX, v. 16, p. 585;

Dante, Purgatorio, cit., canto XII, vv. 7-8, p. 354.

[commento_5.15] La rilevanza del volto nell’espressione delle passioni era un luogo comune nella trattatistica teatrale, messa in luce già da Riccoboni all’interno del poemetto Dell’arte rappresentativa: «Oh! se agli occhi di tutte le persone / fosse appiccato un filo e si portasse / al punto ove lo sguardo si dispone! / A quai de’ membri credi si attaccasse / la gomena formata? Solo al viso, / né altrove pensar già che terminasse» (Luigi Riccoboni, Dell’arte rappresentativa, cit., cap. 4, vv. 16-21, p. 66).

A questo proposito si vedano le critiche mosse da parte degli attori del Settecento al pigmento della biacca, che cristallizzava i movimenti del volto: l’uso di una tale sostanza «[…] assorbe la fisionomia, fa scomparire la preziosa mobilità dei muscoli e mette continuamente in contraddizione ciò che si sente con quanto si vede» (Hippolyte Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale, traduzione, introduzione e note di Valeria De Gregorio Cirillo, «Acting Archives Review», 2014, p. 139). Da qui anche la condanna dell’uso delle maschere durante i balletti pronunciata da Cahusac: «Il est certain que les mouvements extérieurs du visage sont les gestes les plus expressifs de l’homme: pourquoi donc tous les danseurs se privent-ils sur nos théâtres de l’avantage que leur procurerait cette expression supérieure à toutes les autres?» Si veda Louis de Cahusac, «Geste», Encyclopédie, 1751, tome VII, pp. 651-653. Cfr. Jean-Georges Noverre, Lettres sur la danse et sur les ballets, Lyon, chez Aimé Delaroche, MDCCLX, p. 55.

«Elemento dominante è soprattutto il viso. Con esso esprimiamo supplica, minaccia, adulazione, tristezza, allegria, fierezza, umiltà: è il viso che gli uomini fissano, guardano; è questo che viene osservato anche prima che si inizi a parlare; con questo esprimiamo amore e odio nei confronti di determinate persone; è questo che ci fa comprendere moltissime cose; questo fa spesso le veci di ogni parola» (Marco Fabio Quintiliano, La formazione dell’oratore, cit., vol. III, Libro XI, 3, 72, pp. 1886-1887);

Dante Alighieri, Purgatorio, cit., canto IX, vv. 41-42, p. 269;

Dante Alighieri, Paradiso, con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 1997, canto XXIV, vv. 40-42, p. 663;

Dante Alighieri, Inferno, cit., canto XVIII, vv. 46, 47, p. 546.

[commento_5.16] Dante Alighieri, Inferno, cit., canto VIII, vv. 62-63, p. 253;

Ivi, canto XII, v. 14-15, p. 363;

Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, cit., a cura di Lanfranco Caretti, Torino, Einaudi, 2014, canto IV, I, p. 100.

[commento_5.17]«la dea contrariata manteneva gli occhi fissi al suolo» (Publio Virgilio Marone, Eneide, cit., I, 482, p. 36).

[commento_5.18] Dante Alighieri, Inferno, cit., canto IV, vv. 112-113, p. 121.

[commento_5.19] Dante, Inferno, cit., canto III, vv. 79-81, pp. 89-90.

[commento_5.20] Dante, Inferno, cit., canto III, v. 99, p. 93.

[commento_5.21] Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, cit., canto IV, LXXXIV, p. 124.

[commento_5.22] Dante Alighieri, Inferno, cit., canto XXXIII, vv. 94-96, p. 995.

Una descrizione fisiologica del fenomeno della lacrimazione era stata fornita da Descartes all’interno de Les passions de l’âme, in cui specifica che i vapori presenti negli occhi sono presenti anche negli altri organi del corpo, nei quali però si volgono in sudore (si vedano gli articoli CXXVIII, CXXIX, CXXX, CXXXI. In René Descartes, Le passioni dell’anima, cit., pp. 302-309).

[commento_5.23]«[…] indubbiamente l’anima abita negli occhi. Brillano, si fanno acuti, si inumidiscono, si chiudono. Da essi scendono le lacrime della pietà; quando li baciamo ci sembra di toccare l’anima stessa; da loro scendono i rivi di pianto che bagnano il viso» (Plinio, Storia naturale. II. Antropologia e zoologia. Libri 7-11, traduzioni e note di Alberto Borghini, Elena Giannarelli, Arnaldo Marcone, Giuliano Ranucci. Testo originale a fronte, Torino, Einaudi, 1983, XI, cap. 54, p. 615. Al passo, proveniente si faceva allusione anche in Engel: «È d’accordo con Le Brun oppure con Plinio il vecchio, secondo il quale il primato spetta all’occhio?» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 372.) Lo stesso può dirsi dell’aneddoto raccontato da Apuleio (Metamorphoses, Libro X, cap. 32): «Quando Apuleio descrive una rappresentazione pantomimica a cui aveva assistito a Corinto, che aveva per oggetto Paride sul monte Ida, e riferendosi alla dea dell’amore dice che ella spesse volte danzava con gli occhi» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 466).

[commento_5.24] La sesta categoria è quella delle ciglia, a cui Le Brun aveva assegnato la preferenza. Egli sottolineava come l’elevarsi o l’abbassarsi del sopracciglio rispetto al centro corrispondesse a passioni gradevoli o sgradevoli, e come movimenti semplici fossero segno di passioni semplici, movimenti composti di passioni composte. La trattazione delle passioni nella loro accezione fisica veniva tradotta da Le Brun in una serie di codici da applicare in pittura, atti a rendere i mutamenti nel volto al manifestarsi del sentimento. Egli accompagnava la pubblicazione delle sue conferenze di una serie di disegni in cui il volto si trovava inquadrato in una griglia. Aderendo alla classificazione cartesiana delle passioni e alla corrispondenza tra passione e azione, egli amplifica l’importanza che Descartes aveva assegnato al volto, facendo risiedere il culmine dell’espressività nei movimenti delle sopracciglia, in quanto costituiscono la parte più vicina alla ghiandola pineale, situata al centro del cervello: «Et comme nous avons dit que la glande qui est au milieu du cerveau est le lieu où l’âme reçoit les images des passions, le sourcil est la partie de tout le visage où les passions se font mieux connaître, quoique plusieurs aient pensé que ce soit dans les yeux» (Charles Le Brun, Conférence de M. Le Brun, sur l’expression générale et particulière, Amsterdam, chez J. L. De Lorme, MDCXCVIII, pp. 19-20). R. Darren Gobert fa tuttavia notare come Le Brun traduca in termini prescrittivi ciò che in Descartes era espresso in termini descrittivi, costruendo dei paradigmi universali per le passioni, laddove invece il filosofo ne aveva sottolineato la soggettività, il loro mutare da individuo a individuo. Si veda Robert Darren Gobert, The Mind-Body Stage: Passion and Interaction in the Cartesian Theater, Stanford, Stanford University Press, 2013, p. 85.

[commento_5.25] La forma corretta del verso è: «Alte terrà lungo tempo le fronti». (Dante Alighieri, Inferno, cit., canto VI, v. 70, p. 193);

Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, cit., canto I, LVIII, p. 31.

[commento_5.27] Dante Alighieri, Inferno, cit., canto XXIII, vv. 19-20, pp. 683-684.

[commento_5.28]«spingere indietro i capelli dalla fonte in modo innaturale perché si drizzino in modo terrificante» (Marco Fabio Quintiliano, La formazione dell’oratore, cit., vol. III, Libro XI, 3, 160, pp. 1928-1929).

[commento_5.29]«Manus vero, sine quibus trunca esset actio ac debilis, vix dici potest quot motus habeant, cum paene ipsam verborum copiam persequantur. Nam ceterae partes loquentem adiuvant, hae, prope est ut dicam, ipsae locuntur» («Per quanto riguarda le mani, poi, senza le quali l’azione oratoria sarebbe mutila e debole, è quasi impossibile dire quanti movimenti possiedano, perché essi eguagliano quasi il numero stesso delle parole. Infatti le altre parti del corpo aiutano chi parla, queste, starei quasi per dire, parlano da sé»). In Marco Fabio Quintiliano, La formazione dell’oratore, cit., vol. III, Libro XI, 3, 85, pp. 1892-1893;

Dante Alighieri, Inferno, cit., canto IX, vv. 49-50, p. 281;

Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, cit., canto IX, 76, p. 321.

[commento_5.30] Dante Alighieri, Inferno, cit., canto XXIX, v. 26, p. 866.

[commento_5.31]«Souvenez-vous de quel air et de quel ton elle vous adressait ce quatrième vers, avec une sorte de menace du doigt, qu’elle savait si bien ennoblir» (Mémoires de Mlle Dumesnil, en réponse aux Mémoires d’Hippolyte Clairon; revus, corrigés et augmentés d’une notice sur cette comédienne par M. Dussault, Paris, chez Ponthieu, libraire, 1823, p. 153).

[commento_5.32] Salfi rimanda qui al progetto formulato da Sulzer di elaborare un «dizionarietto tecnico» volto alla classificazione dei gesti con gli stessi criteri con cui si esaminavano gli oggetti di studio della Botanica. La proposta di Sulzer veniva riportata anche in Engel, nel quale suscitava il medesimo dissenso: «Quanto poi al paragone così dissimilmente simile su cui Sulzer costruisce tutta la sua argomentazione ci sarebbe così tanto da dire che preferisco non parlarne affatto. Del resto lei mi ha già rimproverato una volta di aver chiamato in causa questo altrimenti stimabile e valente uomo solo per dargli torto; ma mi chiedo se questa sia colpa mia o non piuttosto piuttosto di Sulzer» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 375). Il gesto infatti, per la possibilità di essere scisso in unità minimali simultanee, consente di esprimere la coesistenza delle passioni, cosa che la linearità alla base della successione dei segni linguistici è meno incline a rendere. La pronunciazione visibile può infatti declinarsi contemporaneamente in più organi, in grado di sfumare la passione tramite espressioni diverse o, addirittura, di diventare terreno di battaglia tra due passioni contrastanti. Facendosi strumento privilegiato delle emozioni, il gesto non può che soggiacere ai limiti che investono la tassonomia del fenomeno passionale. Il trattato dunque nasce nella consapevolezza di un fallimento.

[commento_5.33]«Un volto che tace spesso ha voce e parole» (Publio Ovidio Nasone, L’arte di amare, traduzione a cura di Cesare Vivaldi, testo latino a fronte, Roma, Newton Compton, 2005, I, v. 572, pp. 550-551).

[commento_5.34] Dante Alighieri, Paradiso, cit., canto IV, vv. 10-11, p. 108.

[commento_5.35] Dante Alighieri, Purgatorio, cit., canto XXI, vvv. 103-104, pp. 630-631.

[commento_5.36] Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, cit., canto VIII, 39, p. 284.

[commento_5.37]«A che scopo attendi un ordine esplicito, quando la loro volontà traspare anche solo dal silenzio? […] Invece, trattandosi di te, approvano col silenzio, lasciandomi parlare pronunciano giudizi, tacendo gridano» (Cicerone, Le catilinarie, a cura di Elisabetta Risari, Milano, Mondadori, 1993, I, VIII, 20-21, pp. 52-53).

Capitolo VI §

[commento_6.2] Locke aveva individuato le due idee semplici di piacere e dolore all’interno del Saggio sull’intelletto umano (1689), concependole come nozioni comprensibili solamente a livello empirico. Da esse dipendono il concetto di bene o male che attribuiamo a un oggetto. Piacere e dolore si rivelano in questo modo essere «[…] i cardini intorno a cui ruotano le nostre passioni» (John Locke, Saggio sull’intelletto umano, testo inglese a fronte, a cura di Vincenzo Cicero e Maria Grazia D’Amico, introduzione di Pietro Emanuele, Milano, Bompiani, 2004, libro II, cap. XX, p. 409). A risentire dell’influsso di Locke fu Hume, che pubblicò il suo Trattato sulla natura umana nel 1738. All’interno del secondo libro dell’opera, viene affrontato il soggetto delle passioni, e vengono così riprese le idee di piacere e dolore facendo discendere da esse le passioni dirette, ossia desiderio / avversione, angoscia / gioia, speranza / terrore, disperazione / fiducia, e la maggior parte delle passioni indirette (David Hume, Trattato sulla natura umana, testo inglese a fronte, introduzione, traduzione, note e apparati di Paolo Guglielmoni, 2001, libro II, par. 276, p. 553).

Tale concezione viene egregiamente sintetizzata da Francesco Soave (1743-1806), il padre somasco noto per aver diffuso in Italia il pensiero empirista di Locke e il sensismo di Condillac: «Or l’atto di accorgerci di quella interna modificazione piacevole, o dispiacevole, da noi si dirà propriamente sensazione; e l’atto di accorgerci di quella esterna rappresentazione si dirà in vece percezione. Al fiutar di una rosa pertanto diremo di aver la sensazione dell’odor suo, ed al mirarla di aver la percezione del suo colore, e della sua figura» (Francesco Soave, Istituzioni di logica, metafisica ed etica, Napoli, Dalla Stamperia della Biblioteca Analitica, 1819, vol. I, p. 79). Sulla figura di Soave si veda Franco Venturi, Settecento riformatore. L’Italia dei Lumi (1764-1790), V.I, La rivoluzione di Corsica. Le grandi carestie degli anni sessanta. La Lombardia delle riforme, Torino, Einaudi, 1987, pp.755-764.

[commento_6.3] All’interno del trattato non mancano riferimenti ad opere d’arte, indice della cultura artistica del Salfi. Sull’argomento si veda, Emilia Zinzi, Francesco Saverio Salfi e la letteratura artistica. Primi appunti per una ricerca, in a cura di Pasquale Alberto De Lisio, Francesco Saverio Salfi, un calabrese per l’Europa, cit., pp. 251-259.

[commento_6.4] A proposito dei gesti fisiologici, Engel non nascondeva la difficoltà dell’attore di riprodurli sulla scena, e mostrava la sua diffidenza nell’evocazione mentale di immagini che possano riprodurre quegli stessi indizi somatici. Da qui si denota l’avversione dell’autore per le teorie emozionaliste, nel cui filone si inserivano Riccoboni e Sainte-Albine, e il suo allineamento con la teoria antiemozionalista di François Riccoboni: «I sentimenti veri si impossessano con troppa facilità del cuore e così facendo finiscono con l’inibire o falsare quelle espressioni che, nelle intenzioni dell’attore, avrebbero dovuto rafforzare» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 387).

[commento_6.5] Così si esprimeva Engel: «I gesti analoghi traggono origine in parte dall’istinto dell’anima che tende a ricondurre, ad assimilare alle idee sensibili quelle che tali non sono e quindi a riprodurre figuratamente, per mezzo di immagini, i suoi effetti non immediatamente sensibili» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 384) Tra gli esempi, viene posto quello dell’andatura che segue il succedersi rapido dei pensieri, e che dunque rende visibile, attualizza un movimento astratto che si sta svolgendo nella mente.

[commento_6.6] L’analisi della gestualità tramite il ricorso alle figure retoriche era già presente in Engel, che allargava il circolo anche alla metonimia, alla sineddoche e all’ironia. Un esempio di uso metonimico del gesto veniva fornito dalla figura del servitore che, mentre allude alle potenziali percosse che riceverà dal padrone per le malefatte compiute, si tocca la schiena con la mano, mostrando «l’effetto in luogo della causa» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 382).

[commento_6.8] Nella descrizione della gestualità legata all’innamoramento possiamo notare come ad emergere sia una dimensione attiva. Non c’è solo contemplazione dell’amato, ma desiderio di possederlo, e questo si traduce, visivamente, in una serie di linee che, dal soggetto, conducono all’oggetto del sentimento. Tutto il corpo tende nella direzione dell’innamorato, come se la vicinanza fisica, oltre a creare una comunicazione tra i corpi, la creasse anche tra le anime. Nell’odio, al contrario, le linee si muovono in direzione opposta rispetto all’oggetto della passione, quasi che all’allontanamento fisico corrispondesse anche l’allontanamento del pensiero dell’oggetto.

[commento_6.10] Se il sentimento da cui siamo occupati non prevede o non permette una reazione contro corpi esterni all’individuo, si verifica un ripiegamento del corpo su sé stesso, allo stesso modo con cui l’anima è tutta ripiegata nella sua interiorità. Questa differenza separa la gioia dalla tristezza. Se, nel caso della seconda, il desiderio di esternazione si coniuga con un desiderio di comunicazione e propagazione del sentimento agli altri, la tristezza non vuole avere alcun impatto sull’orizzonte esterno, che viene rifiutato per paura di aggravare lo stato in cui si versa.

[commento_6.11] Salfi, sulla scorta di Engel, si allontana da una tassonomia che, impostata da Descartes, era arrivata fino a Hume, estromettendo il Desiderio dall’orizzonte delle passioni. Ne Les passions de l’âme esso veniva individuato come passione a sé declinata verso l’avvenire, mentre in Salfi si presenta come tratto sovrapposto all’Amore e all’Odio, conferendo loro un dinamismo, un impulso all’azione del tutto inediti. La cooperazione dunque nasce dalla sovrapposizione di una passione con il desiderio. Evidente dunque l’influsso della ripartizione operata da Engel in affetti contemplativi (affetti dell’intelletto) e affetti desiderativi, che si ripercuote nel binomio imitazione / cooperazione. Si veda quanto affermato da Engel: «Distinguo pertanto due specie di affetti. Perché l’attività dell’anima può risolversi nella contemplazione di uno stato di fatto oppure nell’anelito verso ciò di cui vorremmo appropriarci. Definisco desiderio quest’ultima specie di attività dell’anima, che sola ci rende effettivamente consapevoli delle nostre forze, laddove nel primo caso non facciamo altro che subire, accogliere passivamente impressioni» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 402).

[commento_6.12] Salfi sottolinea le differenze di utilizzo tra cooperativi e imitativi ponendo come esempio una situazione in cui si richieda la fuga da un oggetto o la minaccia di esso. Gli organi non possono indugiare nella pittura dell’oggetto o nella pittura del sentimento provato dal soggetto, e allora si renderà necessaria la cooperazione, che dà l’impulso all’azione. La preoccupazione risiede primariamente nell’intervento sulla realtà esterna (attraverso la fuga o lo scontro), poi sulla realtà interiore e, solo in seguito, magari all’interno del resoconto dell’accaduto a un interlocutore, si può fare uso di gesti pittorici o imitativi per descrivere l’oggetto o il proprio sentire in rapporto all’oggetto. L’esempio dell’uomo in fuga era presente anche in Engel: «È dunque sbagliato il disegno di Lairesse che rappresenta un uomo che non è ben chiaro se sia già stato morso o stia per essere morso da un serpente; l’individuo in questione, che è in procinto di darsi alla fuga, tiene ancora il piede in terrà in prossimità del serpente, laddove quel piede dovrebbe essere immediatamente ritratto, come si ritrae il dito dalla fiamma quando ci si scotta» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 421).

[commento_6.13] Salfi sottolinea la possibilità di simultaneità di cooperazione e imitazione, inserendosi nel solco delle riflessioni engeliane, che contemplavano la coesistenza di espressione e rappresentazione. Questo si verifica perché il succedersi delle passioni è talmente rapido che alcuni organi reagiscono più lentamente degli altri al mutamento del sentimento e quindi, mentre una componente è ancora impegnata nella cooperazione, l’altra è già passata all’imitazione. È il caso di passioni che investono le braccia, le gambe, la persona, organi che, rispetto ad esempio al viso, impiegano più tempo nel passare da una posa all’altra, e quindi sembrano ostacolare la pronunciazione successiva.

[commento_6.14] Il gesto, al contrario del linguaggio verbale, fondato sulla successione lineare, può essere scisso in unità minimali simultanee. In questo senso, la pronunciazione verbale consente di esprimere la coesistenza di passioni diverse, dislocate in organi differenti.

[commento_6.15] Si legga quanto affermato da Engel: «Se poi considera la gelosia dell’amore, allora si troverà dinanzi a un autentico Proteo che non ha mai una forma sua propria e che ad ogni istante ne assume una diversa. Otello infuria, piange, sogghigna, scruta diffidente, si lamenta, sviene, colpisce, uccide: queste sono tutte espressioni proprie della gelosia, eppure quanto sono infinitamente discordanti e multiformi! Quanto poco simili a se stesse ad ogni istante!» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., pp. 436-437.) Sulla figura di Otello si veda anche quanto scritto da Home: «He is resolved to put her to death, but he will not shed her blood, not so much as ruffle her skin» (Henry Home, Elements of Criticism, cit., p. 178). Non è un caso che anche Manzoni, per sottolineare come le unità aristoteliche ostacolino lo sviluppo del carattere, prenderà il considerazione il diverso trattamento a cui è soggetta la gelosia nell’Otello di Shakespeare e nella Zaïre di Voltaire nella Lettre à Monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie (1820).

[commento_6.18] Si veda la definizione di ipotiposi fornita da Dumarsais: «L’hypotypose est un mot grec qui signifie image, tableau. C’est lorsque dans les descriptions on peint les faits dont on parle, comme si ce qu’on dit étoit actuèlement devant les yeux; on montre, pour ainsi dire, ce qu’on ne fait que raconter; on donne en quelque sorte l’original pour la copie, les objets pour les tableaux» (Dumarsais, Les Tropes, publiées avec une introduction de Gérard Genette, Genève, Slatkine reprints, 1967, tome I, p. 151).

[commento_6.19] Salfi fa propria la visione prospettata ha Hume, che affronta il tema delle passioni nel Trattato sulla natura umana (1738) e nella già menzionata Dissertazione sulle passioni. Se da una parte nella sua trattatistica sono ancora vivi molti retaggi cartesiani (quale la presenza degli spiriti animali e certe analogie nella tassonomia), dall’altra il filosofo scozzese ha saputo cogliere il fenomeno nel suo dinamismo, cosa che Descartes non erano riuscito a fare. Tale mobilità del fenomeno passionale si concretizza nell’individuazione della natura mista di ogni passione, che risente sempre della persistenza della passione precedente o delle prime tracce della passione che le succederà

[commento_6.20] Pierre Corneille, Cinna, in Id., Œuvres complètes, préface de Raymond Lebègue, presentation et notes de André Stegmann, Paris, Seuil, 1963, I, 3, vv. 159-163, p. 271.

[commento_6.21] Salfi riporta le critiche mosse da Engel a Dorat che, all’interno de La déclamation théâtrale, aveva inserito la battuta pronunciata da Michel Baron nel ruolo di Cinna nell’omonima tragedia di Racine: «Et dans un même instant, par un effet contraire, sachez pâlir d’horreur et rougir de colère» (Claude-Joseph Dorat, La Déclamation théâtrale, poème didactique en quatre chants, précédé d’un discours, et de notions historiques sur la danse, nouvelle édition, Paris, Sébastien Jorry, 1767, chant I, p. 71). Egli, parlando dei congiurati che muovevano contro Augusto, aveva saputo far succedere al pallore dettato dal terrore, il rossore mosso della collera, utilizzati in funzione analogica per dipingere lo stato emotivo dei congiurati. Engel aveva rilevato l’impossibilità, da parte del corpo, di passare così rapidamente da una passione all’altra. In primo luogo, questo passaggio sarebbe stato impedito dal trucco dell’attore. In secondo luogo, anche nel caso in cui Baron vi fosse riuscito, la scelta non sarebbe stata degna di lode, perché il sentimento dominante da trasmettere sarebbe stata la speranza: «Non vuole infonderle nell’anima speranza e coraggio? E non è egli stesso pieno di speranza e di coraggio? Come potevano permettere questi sentimenti che nella sua anima quelli opposti della collera e dell’orrore raggiungessero una potenza tale da manifestarsi così rapidamente e attraverso i loro effetti più violenti?» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., pp. 481-482.) Salfi in questo caso sembra prendere le parti di Dorat nell’apprezzamento nei confronti della performance di Baron, affermando tuttavia che il problema si sarebbe facilmente risolto attraverso la coesistenza tra gesti analoghi, aventi per referenti la collera e il terrore dei congiurati, e gesti cooperativi, volti a comunicare a Emilia il sentimento di speranza che lo animava.

[commento_6.22]«Infatti nel seguente periodo: — Il pretore del popolo romano stava in piedi calzato di sandali — non bisogna mimare Verre inclinato che si appoggia alla donnina, o nel seguente: — Veniva fustigato nel mezzo del foro di Messina — non bisogna imitare il movimento di torsione dei fianchi che è usuale quando si è esposti alle percosse […]» (Marco Fabio Quintiliano, La formazione dell’oratore, cit., vol. III, Libro XI, 3, 90, p. 1895). Si veda quanto affermato da Engel: «Dunque ciò che Quintiliano vuole vedere rappresentati sul pulpito e sulle scene non sono gli oggetti esterni sensibili di cui stiamo parlando, né i sentimenti altrui, da cui scaturisce il nostro particolare sentimento, bensì proprio il nostro sentimento attuale, o per dirla altrimenti: Quintiliano non vuole che si rappresentino sensibilmente gli oggetti a cui pensiamo, bensì i sentimenti che proviamo mentre pensiamo a questi oggetti» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 480).

Capitolo VII §

[commento_7.1] La scelta di Salfi di conferire un ruolo visibilmente prioritario al gesto piuttosto che alla pronunciazione vocale risiede nella volontà di stabilire dei precetti per insegnare il mestiere dell’attore. Imitare i gesti dell’innamorato consentiva di inscenare la parte dell’innamorato anche a chi non fosse penetrato dal sentimento amoroso; conoscere le reazioni somatiche della collera e saperle riprodurre significava non affidare la messa in scena a sentimenti effimeri, che potevano fare il successo di una recita, ma condannare al fallimento la successiva e che, soprattutto, dipendevano dal genio dell’attore. Questa impostazione, già largamente adottata nella trattatistica teatrale tedesca (Lessing, Engel), risente del pensiero di Edmund Burke, autore del testo A Philosophical Enquiry into the Sublime and Beautiful (1757), la cui recensione, scritta da Mendelssohn, comparve tra le pagine della Bibliothek der schönen Wissenschaften und der freyen Künste nel 1758. La rivista era frutto della collaborazione, oltre che di Mendelssohn, anche di Nicolai e Lessing. Nella quarta sezione dell’opera, Burke evidenzia in particolare la stretta interdipendenza che lega corpo e anima. Da questo ne consegue che il corpo, spinto per qualche ragione a un certo movimento, può provocare il prorompere di una passione analoga nell’anima, allo stesso modo con cui un’emozione interna crea un corrispettivo sul piano somatico. Burke in questo modo apre la strada a quanti, nell’ambito della trattatistica teatrale, insinueranno la possibilità di ricreare le passioni sulla scena, mimandone solamente i segni fisici, legittimando in termini filosofici la possibilità dell’antiemozionalismo.

[commento_7.2]«Infatti ogni emozione ha ricevuto dalla natura come un’espressione del volto, un suono e un gesto; ogni parte del corpo dell’uomo, ogni espressione del suo viso e il suono di ogni sua parola, come le corde della lira, producono un suono corrispondente all’emozione che li tocca» (Marco Tullio Cicerone, De oratore, cit., Libro III, 57, 216, pp. 366-367). Il passo è citato anche in Francesco Mario Pagano, Discorso sull’origine e natura della poesia, cit., cap. II, p. 6.

[commento_7.3] Anche Engel, designandosi analista di mimica, aveva preso le distanze dalla figura del filosofo: «L’analista di mimica che ha a che fare esclusivamente con le manifestazioni esteriori delle passioni, non deve in generale seguire troppo da presso il filosofo né conformarsi troppo scrupolosamente alle sue spiegazioni e partizioni. Perché per il filosofo c’è unità, laddove per l’analista di mimica c’è molteplicità» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 435). La frase rieccheggia inoltre dell’affermazione programmatica di Descartes a proposito della sua opera Les passions de l’âme: «[…] mon dessein n’a pas été d’expliquer les Passions en Orateur, ni même en Philosophe moral, mais seulement en Physicien» (René Descartes, Response à la seconde lettre, in Id., Le passioni dell’anima, cit., p. 110). Si veda anche quanto scritto nelle Lettere stelliniane: «Mi guardi il cielo dell’inselvarmi nella molteplice divisione degli affetti proposta dai filosofi. È impossibile noverarli tutti, non che ridurli a certe classi, varii tanto, quanto sono varii gli oggetti che li destano, la costituzione dell’animo che vi è commosso, varie e pressoché infinite le maniere con cui possono gli uni cogli altri rimescolarsi e confondersi» (Luigi Mabil, Lettere stelliniane e prospetto della dottrina stelliniana intorno all’origine e al progresso dei costumi del Cav. Luigi Mabil, Padova, Coi tipi della Minerva, 1832, p. 87).

[commento_7.5] Salfi individua una scala ascendente della passione che, a seconda dell’intensità, si muta in trasporto e entusiasmo, fino a degenerare in furore e fanatismo. Una progressione simile era già prospettata da Francesco Soave all’interno delle Istituzioni di Logica e Metafisica, dove veniva sottolineato come dallo stato di indifferenza si passasse al sentimento, poi alla passione vera e propria, «indi al trasporto e all’entusiasmo, e finalmente al fanatismo, al furore, alla manìa […]» (Francesco Soave, Istituzioni di Metafisica, Pisa, presso Sebastiano Nistri, 1814, Parte prima, pp. 144-145)

[commento_7.6] Salfi si attiene alla tassonomia del sistema passionale che si era imposta a partire da Descartes, fondata su una serie di opposizioni binarie, da cui far discendere le passioni secondarie.

[commento_7.7] Pur essendo evidente il retaggio cartesiano di una tale definizione, una fonte più vicina va rintracciata nel saggio di Francesco Mario Pagano, Discorso sull’origine e natura della poesia, in cui si parlava del corpo umano come «macchina», paragonandolo a uno strumento a corde (evidente l’influenza di Hume): «L’uomo nelle violente passioni è poeta e cantore. La sua macchina considerar si può come un istrumento da corde. Le sensazioni son simili a’ tuoni. Quando le corde son tese e le vibrazioni più forti, riescon più acuti i tuoni. Così del pari le fibre più tese e gagliardamente vibrate generano le più vive sensazioni» (Francesco Mario Pagano, Discorso sull’origine e natura della poesia, cit., cap. II, p. 3). L’introduzione della pigrizia all’interno del sistema delle passioni si caratterizza come un’innovazione rispetto alla tassonomia elaborata a partire da Descartes. Il fatto che Salfi la inserisca tra le passioni potrebbe sembrare una contraddizione, visto che precedentemente aveva sottolineato come lo stato passionale si connotasse come violento e straordinario. Tuttavia anche la pigrizia può assumere i tratti di un atteggiamento ostinato, di un volontario rifiuto di ogni impulso all’azione. Già Engel aveva tratteggiato le caratteristiche del pigro, individuando come emblematici: «una testa che non si tiene retta sulla cervice, ma ricade avanti sul petto; le labbra dischiuse che lasciano cadere il mento; gli occhi con la pupilla per metà nascosta dalle palpebre; le ginocchia piegate; il ventre sporgente; i piedi rivolti verso l’interno; le mani conficcate nelle tasche o addirittura le braccia che ricadono penzoloni» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 391).

Dante Alighieri, Purgatorio, cit., canto IV, vv. 107-108, p. 126.

[commento_7.8] Dante Alighieri, Purgatorio, cit., canto IV, vv. 121-122, p. 127.

[commento_7.11] L’ammirazione si accomuna con la pigrizia per l’atteggiamento di staticità che caratterizza il corpo. Tuttavia se nel caso precedente tutti gli organi manifestavano un completo disinteresse per il fuori, ora l’immobilità è data da un interesse troppo forte, quanto improvviso, per un oggetto o un individuo. Descartes faceva discendere questa immobilità («[…] le corps demeure immobile comme une statue») dal fatto che gli spiriti, tutti rivolti verso il luogo che conserva l’impressione dell’oggetto, non riescono ad arrivare ai muscoli che danno l’impulso al movimento. Si veda René Descartes, Le passioni dell’anima, cit., art. LXXIII, p. 224.

[commento_7.12] La sollecitazione di impulsi diversi provoca in noi l’incertezza, che si connota come uno stato di irrequietezza provocato dall’insinuarsi del dubbio. In termini cinetici, essa si traduce in un procedere inquieto avanti e indietro, che segue la transitorietà dei pensieri e la provvisorietà delle decisioni prese. Ha dunque un impatto particolarmente forte sull’incesso. Quella dell’incertezza è dunque una frase transitoria necessaria perché si possa deliberare se quello che si prova per l’oggetto in questione è odio o amore. Come afferma Engel, «Così come l’intelletto, quando in luogo di un’idea che considera alla stregua di una verità e in cui si è acquietato, deve accogliere un’idea totalmente opposta, deve necessariamente passare prima attraverso il dubbio; analogamente il cuore, dovendo improvvisamente trascorrere dalla quiete a una qualunque data passione, deve necessariamente prima attraversare uno stato di confusione» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 551).

Dante, Inferno, cit., canto II, vv. 37-39, p. 53.

[commento_7.13] L’autore delle Lettere sulla mimica forniva come esempio la condizione di Amleto, che «medita sui pro e i contro del suicidio» (ivi, p. 395), distinguendo la sua attitudine da quella del «freddo moralista», intento a vedere solo i risvolti intellettuali della questione.

[commento_7.14] Dante, Inferno, cit., canto II, v. 4, p. 46.

[commento_7.15] Nella venerazione invece la postura tende all’abbassamento, in analogia con la sensazione di inferiorità che si percepisce rispetto a un oggetto o a un individuo. Questa inclinazione verso il basso veniva ravvisata anche da Le Brun a proposito delle sopracciglia e dei lati della bocca: «Cet abaissement de sourcils et de la bouche marque la soumission et le respect que l’âme a pour un objet qu’elle croit au dessus d’elle» (Charles Le Brun, Conférence de M. Le Brun, sur l’expression générale et particulière, cit., p. 5).

[commento_7.17] Per usare dei termini propri alla semiotica teatrale, potremmo parlare, a proposito dell’amore, di deissi prossimale, ossia di un movimento di avvicinamento verso il corpo dell’altro (Keir Elam, Semiotica del teatro, traduzione di Fernando Cioni, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 78). Tuttavia occorre notare come l’innamorato si serva di una gestualità di natura deittica anche quando l’oggetto dell’amore è assente, e dunque è dato parlare di deissi orientata verso il fantasma (ivi, p. 149). Il corpo si atteggia come se l’amato fosse lì, in quel momento, e dunque non solo il pensiero, ma anche gli organi del corpo sviluppano una particolare tensione. Descartes faceva risalire questa attitudine fisica al movimento degli spiriti, che incitano l’anima «à se joindre de volonté aux objets qui paroissent lui estre convenables» (René Descartes, Le passioni dell’anima, cit., art. LXXIX, p. 232). Engel tratteggia questo atteggiamento apportando come esempio la postura di Giulietta nella messa in scena della tragedia shakespeariana da parte di Gotter: «Prendiamo in esame, se le va, un altro più nobile esempio! Si figuri Giulietta — nell’opera di Gotter e Benda — che mentre aspetta Romeo esclama: “Ascolta! Un passo!” Che atteggiamento crede che assumerà Giulietta in questo momento? Sicuramente quello che mi accingo a descriverle: tenderà l’orecchio insieme a tutto il corpo — che non osa muovere di un passo per timore di non riuscire a sentire più quel suono — nella direzione da cui proviene il rumore» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 418).

[commento_7.18] A questo proposito si rimanda a quanto scritto nelle Lettere stelliniane: «Questa pienezza di grato senso si spande fuori, esilara gli occhi e la fronte, tutti i lineamenti del viso; si diffonde sugli altri, e ripercossa ritorna a noi ad aumentare il nostro giubilo» (Luigi Mabil, Lettere stelliniane e prospetto della dottrina stelliniana intorno all’origine e al progresso dei costumi del Cav. Luigi Mabil, cit., p. 99).

[commento_7.20] L’espressione «laetitia gestiens» è contenuta in Marco Tullio Cicerone, Le Tuscolane, a cura di Fabio Demolli, testo latino a fronte, Milano, Bompiani, 1993, IV, 13, p. 234.

[commento_7.21] Il pallore del volto veniva individuato come tratto caratteristico già in Descartes, che lo attribuiva al fatto che il sangue, scorrendo lentamente, si facesse freddo e denso e tendesse ad abbandonare le vene lontane, quali quelle del viso. (René Descartes, Le passioni dell’anima, cit., art. CXVI, p. 286).

L’individuo soggetto a tale passione cerca di sfuggire il contatto con l’altro, ricercando la solitudine.

La tristezza può declinarsi o in una totale afasia, oppure in un parlare delirante. Salfi individua come caratteristiche di questo stato la situazione di Fedra, Saul e Mirra. Guardando alla Mirra alfieriana, sin dal primo atto le forme della malinconia si manifestano nei termini che abbiamo osservato. Riportiamo qui le parole pronunciate dalla madre per descrivere il sentimento di cui è preda la figlia: «CECRI. […] una muta, una ostinata ed alta / malinconia mortale appanna in lei / quel sì vivido sguardo; e, piangesse ella!… / Ma, innanzi a me, tacita stassi; e sempre / pregno ha di pianto, asciutto sempre ha il ciglio. / E invan l’abbraccio; e le chieggio, e richieggio, / invano ognor, che il suo dolor mi sveli: / niega ella il duol; mentre di giorno in giorno / io dal dolor strugger la veggio» (Vittorio Alfieri, Mirra, in Id., Tragedie, cit., I, 1, p. 460).

Gli elementi caratteristici sono dunque quelli dell’ostinato mutismo, l’inclinazione al pianto, il rifiuto del confronto con l’altro. E, nelle parole del futuro sposo Peréo, «PERÉO: […] in volto / d’alto pallor si pinge; de’ begli occhi / dono a me mai non fa; dubbj, interrotti, / e pochi accenti in mortal gelo involti / muove; nel suolo le pupille, sempre / di pianto pregne, affigge; in doglia orrenda / sepolta è l’alma; illanguidito il fiore / di sua beltá divina: — ecco il suo stato» (ivi, II, 1, vv. 42-49, p. 473).

Oltre al pianto, nella descrizione qui proposta emerge anche il languore e l’impallidirsi del volto.

A proposito delle manifestazioni di tristezza presso la Fedra raciniana, riportiamo qui un passo in cui la sposa di Teseo descrive il suo stato e la passione che la opprime: «PHÈDRE. Je ne me soutiens plus, ma force m’abandonne. / Mes yeux sont éblouis du jour que je revois, / Et mes genoux tremblants se dérobent sous moi» Jean Racine, Phèdre, in Id., Théâtre complet, édition d’Alain Viala et Sylvaine Guyot, Paris, Classiques Garnier, 2014, I, 3, cit., p. 842. Ritroviamo dunque la spossatezza del corpo e la conseguente impossibilità di movimento e, poco dopo, si ripresenta l’elemento del pianto («Et mes yeux malgré moi se remplissent des pleurs»).

[commento_7.22] In questo caso la deissi è tuttavia di tipo distale (Keir Elam, Semiotica del teatro, cit., p. 78), in quanto tutti gli organi del corpo, in un atteggiamento di rifiuto per un oggetto o un individuo, presente o assente che sia, sono in posizione di allontanamento. Descartes sottolineava come questa aspirazione alla separazione fosse dettata dal movimento degli spiriti, che incita l’anima a allontanarsi dagli oggetti visti come nocivi. (René Descartes, Le passioni dell’anima, cit., art. LXXIX, p. 232).

[commento_7.23] Significativo, a proposito dell’orgoglio, l’aneddoto raccontato da Engel: «Ekhof, già incurvato dall’età, non dimenticava mai quando interpretava personaggi orgogliosi, ciò che il carattere del personaggio esigeva; ancora dietro le quinte, fintantoché l’occhio dello spettatore riusciva a scorgerlo, teneva la cervice ritta; quindi tornava improvvisamente ad essere l’ometto gobbo e raggrinzito che era e che tutto si sarebbe pensato potesse essere fuorché un attore» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 461).

[commento_7.25]«come il pazzo ha un’espressione insolente e minacciosa, la fronte accigliata, lo sguardo torvo, il passo nervoso, le mani irrequiete, il colorito alterato, il respiro affannoso e frequente, così l’adirato ha gli occhi accesi e fiammeggianti, il viso arrossato per via del sangue che sale e ribolle fin dai precordi, le labbra tremanti, i denti serrati, ispidi e dritti i capelli, il respiro faticoso e stridente, le articolazioni contorte e scricchiolanti, la voce spezzata e confusa mista di gemiti e brontolii, frequenti colpi delle mani, un pestar la terra coi piedi, mentre dal corpo tutto eccitato “schizzano grandi e minacciosi segnali”: turpe e orrendo è l’aspetto di un uomo sfigurato dall’ira» (Lucio Anneo Seneca, L’arte di non adirarsi, cura e traduzione di Mario Scaffidi Abbate, Roma, Newton Compton, 2007, I, 1, p. 37);

Dante Alighieri, Inferno, cit., canto VI, v. 24, p. 182.

[commento_7.26]«Ma quando la mente è commossa da più violento terrore, vediamo l’anima tutta consentire attraverso le membra, e sudore quindi e pallore affiorare per tutto il corpo, e incepparsi la lingua e la voce languire, oscurarsi gli occhi, ronzare le orecchie, mancar le ginocchia, infine per il terrore dell’animo vediamo spesso crollare gli uomini» (Tito Lucrezio Caro, La natura, a cura di Armando Fellini, Torino, UTET, 1997, III, vv. 152-158, pp. 208-209).

[commento_7.27] Si veda quanto affermato da Le Brun a proposito dell’orrore: «[…] le sourcil sera encore plus foncé que dans la première action, la prunelle au lieu d’être située au milieu de l’œil, sera située au bas, la bouche sera entr’ouverte, mais plus serrée par le milieu que par les coins qui doivent être comme retirés en arrière. Se formeront par cette action des plis aux joues, le couleur du visage sera pâle, et les lèvres et les yeux un peu livides» (Charles Le Brun, Conférence de M. Le Brun, sur l’expression générale et particulière, cit., p. 13).

[commento_7.28] Dante Alighieri, Inferno, cit., canto III, vv. 22-30, pp. 81-82;

Dante Alighieri, Inferno, cit., canto III, vv. 100-105, pp. 93-94.

[commento_7.29] Il Conte Ugolino veniva menzionato come emblema della disperazione anche in Engel, dove veniva illustrato tramite la descrizione di una stampa inglese di Joshua Reynolds: «[…] se osserviamo la nota stampa inglese che ritrae Ugolino, emaciato e mezzo morto dalla fame, nessuno potrà negare che quella è l’espressione della disperazione, ma lo è altrettanto il ritratto di un suicida tratteggiato da Da Vinci: e tuttavia non è possibile individuare la sia pur minima somiglianza tra i due, né nell’espressione del volto né nella postura» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 438);

Dante Alighieri, Inferno, cit., canto XIII, v. 5, p. 982

[commento_7.30] La citazione dantesca corretta è: «ambo le man per lo dolor mi morsi» (Dante Alighieri, Inferno, cit., canto XIII, v. 58, p. 989). Salfi cita in realtà un’espressione ricavata da Tasso (Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, canto IV, 1).

[commento_7.31] Dante Alighieri, Inferno, cit., canto XXXIII, vv. 73-78, pp. 991-992.

[commento_7.34] La passione che più delle altre assume forme di gradazione differenti è la gelosia, perché accoglie ora i tratti della tristezza, ora quelli dell’ira, del timore, dell’incertezza o dell’orrore. Prendiamo il caso di Otello. Nella scena prima, atto IV, in seguito alla dichiarazione di Iago che Desdemona e Cassio hanno giaciuto insieme, la didascalia che riguarda Otello indica il seguente movimento: «Sviene» (William Shakespeare, Otello, in Id., Teatro completo di Shakespeare. Le tragedie, vol. IV, a cura di Giorgio Melchiori, Milano, Mondadori, 1976, IV, 1, p. 455). La gelosia sembra dunque assumere i tratti della disperazione. Emblema della natura multiforme della gelosia è la scena dell’uccisione di Desdemona (V, 2). Le transazioni dalla venerazione amorosa all’odio sono rapide tanto che al bacio farà presto seguito il soffocamento.

[commento_7.35] L’ammissione dei limiti del progetto di catalogazione costituisce un leitmotiv anche all’interno delle Lettere sulla mimica di Engel. Nella lettera XLII, ad esempio, in risposta alle possibili rimostranze del suo interlocutore, che probabilmente auspicherebbe da parte sua a una trattazione più dettagliata delle espressioni corrispondenti alle sfumature passionali, obietta: «Con quanta precisione dovrebbe essere possibile determinare le differenze proprie della maniera di procedere delle idee, che io ho indicato solo in generale, come pure le differenze che occorrono nelle modificazioni esteriori prodotte dal riso, dal pianto, dal tremore, e via di questo passo; con quanta esattezza dovrebbe essere possibile individuare nelle prime il rapporto tra le differenti condizioni, nelle seconde il grado e le sfumature, se i risultati non dovessero risultare dappertutto o estremamente imprecisi, o anche di tanto in tanto totalmente inesatti!» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 566.) Ogni discorso sul gesto deve dunque essere formulato nel segno dell’approssimazione, nella consapevolezza che è in tale impermeabilità alla razionalizzazione che risiede la sua forza espressiva sul luogo della scena. Considerato in quest’ottica, il gesto sfugge al paragone con le pose immobilizzate individuate da Le Brun o dalla fisiognomica.

Capitolo VIII §

[commento_8.3] Giovanni Paolo Lomazzo, Trattato dell’arte della pittura scultura ed architettura, Roma, presso Saverio Del Monte editore proprietario, 1844, vol. 1, libro II, cap. I, p. 176.

Domenico Barone, marchese di Liveri (1685-1757), nato come attore dilettante in seno al Collegio gesuitico dei Nobili, aveva cominciato a far rappresentare le sue commedie da compagnie di filodrammatici all’interno del suo palazzo a Liveri. Era poi diventato il commediografo prediletto del teatro di corte di Carlo di Borbone e ispettore al Teatro San Carlo. In questi termini Salfi parla delle sue messe in scena all’interno del Saggio storico-critico della commedia italiana: «Si vedevano a un tempo diversi gruppi di persone, ciascuno occupato esclusivamente de’ suoi negozii particolari. Diderot tentò poscia di mettere in voga alcune di tali pratiche; ed a lui fu attribuito da taluni una parte di quella gloria che al Liveri era principalmente dovuta» (Francesco Saverio Salfi, Saggio storico-critico della commedia italiana, cit., p. 42). Particolare rilievo veniva assegnato alla sua «arte di rappresentare», ossia all’attenzione da lui prestata alla gestualità degli attori e alla concertazione delle scene, che si sviluppavano su più piani simultanei. Questo faceva di Domenico Barone un precursore delle tecniche utilizzate da Goldoni e Diderot, che infatti ne fanno menzione, l’uno nella prefazione al Filosofo inglese, l’altro all’interno del Paradoxe sur le comédien. Per un approfondimento sulla figura di Domenico Barone, si veda Francesco Cotticelli, Intorno al Liveri e a Partenio, in Domenico Barone, Marchese di Liveri, Il Partenio, a cura di Francesco Cotticelli, «Biblioteca Pregoldoniana», nº 16, Venezia, Lineadacqua edizioni, pp. 9-19.

[commento_8.4] L’insistenza sull’influenza che il carattere nazionale aveva sulle opere letterarie era presente nell’opera De la littérature considérée en rapport avec ses institutions sociales di Madame de Staël, citata da Salfi all’interno della Selva per la declamazione (Ms. XX. 43 (II), 122v), dove viene riportato il seguente passo: «Les Italiens ont de l’invention dans les sujets, et de l’éclat dans les expressions, mais les personnages qu’ils peignent ne sont point caractérisés de manière à laisser des profondes traces, et les douleurs qu’ils représentent arrachent peu des larmes» (Germaine de Staël-Holstein, De la littérature considérée en rapport avec ses institutions sociales, in Ead., Œuvres complètes, tome quatrième, Bruxelles, Louis Hauman & C., M DCC XXX, p. 176).

[commento_8.5] Engel si soffermava sulla vivacità e la potenzialità espressiva della gestualità dell’italiano nella lettera VIII, descrivendo la pantomima che mette in atto per mettere in guardia qualcuno, oppure il gesto che indica non curanza rispetto a una minaccia o un ammonimento. Si veda Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., pp. 382-383. La riflessione continuava anche nella lettera seguente: «Prendendo a modello l’attore italiano, l’attore tedesco finirebbe con l’imbattersi in espressioni che sono frutto della maggiore irruenza delle passioni e che pertanto possono darsi solo in quei paesi situati più a Mezzogiorno, dove il sangue è più caldo; espressioni che però anche noi, proprio in virtù di tale loro eccesso di verità, siamo in grado di comprendere immediatamente» (ivi, p. 384).

[commento_8.7]«Comme le Ris n’est jamais causé par les plus grandes Ioyes, ainsi les larmes ne viennent point d’une extrême Tristesse, mais seulement de celle qui est médiocre et accompagnée ou suivie de quelque sentiment d’Amour ou aussi de Ioye» (René Descartes, Le passioni dell’anima, cit., art. CXXVIII, pp. 303-305).

[commento_8.8] Il modello del cortigiano prospettato dalla trattatistica cinquecentesca, in primis ne Il Libro del Cortegiano (1528) di Baldassar Castiglione, apriva la strada a un parallelo con l’arte della recitazione: alla scena teatrale si sostituiva la scena della società, dove le virtù sovrane sono grazia e sprezzatura. Come scrive Castiglione, «Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l’hanno, trovo una regola universalissima, la quale mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi» (Baldassar Castiglione, Il Libro del Cortegiano, introduzione di Amedeo Quondam, note di Nicola Longo, Milano, Garzanti, 2006, cap. XXVI, pp. 59-60). Le indicazioni di Castiglione risultano bel lontani dalla spontaneità nell’espressione delle passioni ricercata da Salfi. A proposito si legga la sezione La recitazione negli esperimenti umanistici e nelle rappresentazioni di corte contenuta in: Claudio Vicentini, La teoria della recitazione. Dall’antichità al Settecento, cit., pp. 70-75.

[commento_8.10] Impossibile non relazionare la riflessione che Salfi fa a proposito della nascita di passioni nuove nei personaggi moderni con l’apertura del suo repertorio tragico alla tematica amorosa con la scrittura della Francesca da Rimini nell’esilio parigino. Il mancato adeguamento delle passioni portate in scena alla sensibilità di un pubblico moderno era uno dei cardini della critica rivolta dai romantici all’Alfieri. Come scriveva Niccolini all’interno di un articolo pubblicato nel Conciliatore, non era giusto prendere per assunto quello che in tanti affermavano, cioè «[…] che dopo Alfieri non sia più lecito compor tragedie in Italia, quando pur fosse vera in una parte, nol sarebbe assolutamente nell’altra» (n. 79, 3 giugno 1819, in Il Conciliatore: foglio scientifico-letterario, a cura di Vittore Branca, cit., p. 670). L’autore dell’articolo indica dunque una nuova via per il tragico italiano: «[…] l’Alfieri occupato delle pubbliche passioni, delle pubbliche calamità, degli enormi misfatti, raro o non mai seppe o volle discendere alle private virtù, alle tenere passioni, alle peripezie della natura e dell’amore» (ivi, pp. 671-672). L’astigiano si era lasciato dietro una lunga fila di soggetti, non penetrando mai nella sfera delle passioni private, prima fra tutte l’amore, e non indugiando mai sull’elemento patetico.

[commento_8.13] Particolarmente suggestivo il giudizio formulato da Salfi su Antonio Canova, autore di sculture che «hanno tutto dell’antico, fuorchè l’età». Le sue opere non sono frutto di una pedissequa imitazione, ma hanno saputo ricreare la bellezza dell’antico pur restando all’interno di una sensibilità moderna. Impossibile non pensare al poemetto Le Grazie (1814) di Ugo Foscolo, ispirato all’omonima opera dello scultore veneto.

[commento_8.15]«Les livres ne présentent point de modèle aux yeux, mais ils en offrent à l’esprit: ils donnent le ton à l’imagination et au sentiment; l’imagination et le sentiment le donnent aux organes. L’actrice qui lirait dans Virgile: — Illa graves oculos conata attollere, rursùs / Deficit… / Ter sese attollens, cubitoque innixa levavit, / Ter revoluta toro est, oculisque errantibus alto / quaesevit coelo lucem, ingemuitque reperta.— L’actrice qui lirait cette peinture sublime, apprendrait à mourir sur le théâtre» (Jean-François Marmontel, Déclamation théâtrale, cit., pp. 84-85).

[commento_8.17]«La pittura, nelle sue composizioni coesistenti, può utilizzare solo un singolo momento dell’azione, e deve perciò scegliere il più pregnante, sulla base del quale quel che lo precede e quel che lo segue si rende più comprensibile. Allo stesso modo anche la poesia può utilizzare nelle proprie imitazioni progressive solo un’unica qualità dei corpi, e deve pertanto scegliere quella che suscita la più sensibile immagine del corpo dal punto di vista di cui si serve» (Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte, cit., p. 63).

[commento_8.19] Il Sacrificio di Ifigenia rappresentato da Timante (V-IV sec. a. C) veniva menzionato anche da Lelio all’interno del Dell’arte rappresentativa. Il dipinto diveniva l’esempio di come fosse possibile individualizzare la passione a seconda del soggetto («In cento un sol dolor vario pingesti»). In Luigi Riccoboni, Dell’arte rappresentativa, cit., cap. 4, v. 63, p. 67. In Lessing il dipinto si ergeva a emblema dell’impossibilità di rappresentare con le immagini la forza brutale di certi sentimenti umani. Così si esprimeva a proposito di Timante: «Egli sapeva che lo strazio che si addiceva ad Agamennone in qualità di padre si manifesta con stravolgimenti del volto che sono comunque brutti. […] Ciò che non poteva dipingere, lo lasciò indovinare. In breve, questo nascondimento è un sacrificio che l’artista fece alla bellezza». Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte, cit., p. 28.

Capitolo IX §

[commento_9.1] La nozione di bella natura ricopriva un ruolo fondante all’interno dell’estetica di Batteux, che la distingueva dalla natura realisticamente intesa: «Sur ce principe, il faut conclure que si les arts sont imitateurs de la nature, ce doit être une imitation sage et éclairée qui ne la copie pas servilement, mais qui choisissant les objets et les traits, les présente avec toute la perfection dont ils sont susceptibles: en un mot, une imitation, où on voit la nature, non telle qu’elle est en elle-même, mais telle qu’elle peut être, et qu’on peut la concevoir par l’esprit» (Charles Batteux, Les Beaux-Arts réduits à un même principe, cit., p. 91).

[commento_9.4] Sull’immutabilità del paradigma di bella natura, si legga Batteux: «Si le fond essentiel des arts a été revêtu de différentes formes, dans les différents temps, chez les différents peuples qui ont des décences d’institutions, des préjugés, des modes, des caprices qui varient, ces différences n’ont eu pour objet que l’accessoire, et jamais le fond des choses» (Charles Batteux, Les Beaux-Arts réduits à un même principe, cit., p. 131).

[commento_9.5] Francesco Petrarca, Come ‘l candido pie’ per l’erba fresca, in Id., Canzoniere, edizione commentata a cura di Marco Santagata, Milano, Mondadori, 1996, vv. 9-11, p. 751.

[commento_9.6] Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, cit., canto XIV, 87, p. 468.

[commento_9.7] L’aneddoto viene riportato da Engel: ««Lei», pare che Garrick abbia detto una volta ad un attore francese che terminato lo spettacolo gli aveva chiesto cosa ne pensasse della sua interpretazione, «lei ha interpretato il ruolo dell’ubriaco con molta verità e — cosa che in simili casi è difficile da conciliare con la verità — anche con molto decoro; è solo che — se mi è consentito farle questo piccolo appunto — il suo piede sinistro era troppo sobrio» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 459).

[commento_9.9] Salfi, nel suo eclettismo nella ripresa delle fonti, mostra talvolta delle contraddizioni. Egli riprende infatti da Lessing la menzione dei gladiatori e della loro morte dignitosa che suscitava interesse nel pubblico ma, nel paragonarli alla dignità che mantengono Aiace, Filottete e Ercole pur in preda al dolore, diverge dal critico tedesco. Se per Lessing nella bella morte dei gladiatori ad agire è l’arte, che «[…] doveva insegnare a nascondere ogni sensazione», negli eroi tragici ad agire è la «semplice natura», che gli permetta di esprimere umanamente le loro sensazioni (Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte, a cura di Michele Cometa, Palermo, Aesthetica, 2007, p. 36). I due piani che qui divergono trovano invece convergenza in Salfi, che probabilmente sarebbe stato poco favorevole a trasporre sulla scena le grida di dolore di un Filottete, come voleva la tragedia sofoclea.

[commento_9.10] Come specificherà nel paragrafo seguente, si fa qui riferimento alle indicazioni contenute ne l’Arte del teatro di François Riccoboni e ne L’analisi della bellezza (1753) di William Hogarth. Si riveda a questo proposito la critica fatta da Engel a Löwen: Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., pp. 377-378.

[commento_9.11] Le linee non devono essere scelte per la grazia del movimento che esprimono, ma per la loro capacità di resa veritiera dell’espressione. Da qui deriva la critica che Salfi muove a François Riccoboni, che ha fissato delle regole per i gesti che sono generalmente valide per l’acquisizione di un movimento aggraziato, ma che si rivelano inadeguate ad esprimere una specifica passione. In questo caso i movimenti che egli descrive non appaiono tanto diversi da quelli di un ballerino, più incline a far risaltare la propria figura, piuttosto che a votarsi alla creazione della verosimiglianza scenica. A proposito della posizione delle braccia ad esempio afferma: «Perché il movimento del braccio sia dolce ecco la regola che si deve osservare. Quando se ne vuole alzare uno, bisogna che la parte superiore, cioè quella compresa tra la spalla e il gomito, si distacchi per prima dal corpo e che conduca con sé le altre due, che devono prendere forza per muoversi solo successivamente, e senza troppa precipitazione» (François Valentin Riccoboni, L’arte del teatro, cit., p. 173). Riccoboni non fornisce dunque nessun riferimento ad una passione specifica, ma dei paradigmi generali da osservare. Lo stesso aveva fatto Hogarth nelle sue indicazioni date ai pittori all’interno de L’analisi della bellezza, in cui egli aveva delineato il maggior o minor concorso alla bellezza che i vari tipi di linee potevano apportare. Si va dalle linee rette, «le meno ornamentali», passando per le curve, quelle composte, le ondeggianti fino a giungere alla linea serpentina, che è la linea della bellezza (William Hogarth, L’analisi della bellezza, a cura di Maria C. Laudando, presentazione di Laura Di Michele, Palermo, Aesthetica, 1999, p. 67). Dal pittore inglese il Salfi poteva trarre l’idea che «[…] tutti i movimenti sono linee» (ivi, p. 126), ma non poteva sottostare ai paradigmi che lo stesso Hogarth sosteneva applicabili anche all’arte attoriale (ivi, p. 132).

[commento_9.12]«Una seconda osservazione che troverà conferma in tutti i casi di desiderio vivace è che il corpo sia che voglia approssimarsi all’oggetto del suo desiderio, sia che voglia allontanarsi da esso si muove sempre seguendo una linea retta. La ragione è evidente; perché il desiderio vuole congiungersi all’oggetto che brama o allontanarsi da quello che aborrisce il più velocemente possibile; e tra tutte le linee che congiungono due punti, la linea retta è quella che segue il percorso più breve» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 411).

[commento_9.13] Salfi sfrutta dunque l’impostazione di Hogarth fondata sulle linee, ma alla linea curva predilige le linee che contribuiscano maggiormente al soffisfacimento del desiderio di unione o di fuga.

Capitolo X §

[commento_10.1] La ricerca di una sublimazione della realtà tramite l’arte era propria anche dell’estetica riccoboniana. Nel Dell’arte rappresentativa infatti vi si affermava: «Oh, mi dirà talun, che su la scena / deve immitarsi il natural vivente / e chi più cerca è pazzo da catena. / È pazzo chi non cerca e se ne mente. / Scherza talor natura o talor falla / ne la struttura dell’umana gente. / V’è chi ha un piede più corto e chi una spalla / più sollevata e chi l’occhio bugiardo, / chi è lungo in picca e chi rotondo in palla. / […] Immitabil non è certo colui / che sia gibboso, se vuol farsi il bello, / e non pur quei che guarda a un tempo dui» (Luigi Riccoboni, Dell’arte rappresentativa, cit., cap. I, vv. 109-126, p. 56).

[commento_10.2] Si veda quanto scritto a proposito del genio da Batteux: «Sa fonction consiste, non à imaginer ce qui ne peut être, mais à trouver ce qui est. Inventer dans les arts, n’est point donner l’être à un objet, c’est le reconnaître où il est, et comme il est» (Charles Batteux, Les Beaux-Arts réduits à un même principe, cit., p. 85). Per un approfondimento sulla questione, si veda Giampiero Moretti, Il genio, Bologna, Il Mulino, 1998.

[commento_10.4] Il tema dell’illusione compariva anche in apertura del Laocoonte di Lessing, dove, a proposito di pittura e poesia, si affermava: «Entrambe […] ci rappresentano oggetti assenti come se fossero presenti, la parvenza come realtà; entrambe ci illudono, e l’illusione di entrambe piace» (Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte, cit., p. 21). Appare chiaro come la declamazione, rispetto alle altre due arti sopraelencate, rappresenti una fase successiva, in quanto all’assenza sostituisce la presenza tramite l’esposizione di corpi sulla scena.

[commento_10.5] Salfi riprende la classificazione delle arti operata da Lessing all’interno del Laocoonte. Le arti figurative erano da lui designate come arti spaziali, che fanno uso di segni naturali, laddove le arti temporali (ossia la poesia) facevano uso di segno arbitrari. La teoria dei segni aveva la sua radice in Mendelssohn, che la esponeva all’interno de I principî fondamentali delle Belle Arti (1757): «I segni tramite i quali un oggetto può essere espresso possono essere naturali o arbitrari. Si dicono naturali quando il nesso tra il segno e la cosa designata si fonda sulle caratteristiche della cosa designata stessa. Le passioni sono, per loro natura, connesse a determinati movimenti degli organi del nostro coro, per esempio determinati suoni o gesti. Chi dunque esprime un moto dell’anima tramite i relativi suoni, gesti e movimenti, usa segni naturali. Si dicono invece arbitrari quei segni che per loro natura non hanno nulla a che fare con la cosa designata, ma che tuttavia sono stati adottati in modo arbitrario. Di questo tipo sono i suoni articolati in tutte le lingue, gli alfabeti, i segni geroglifici degli antichi, e alcune immagini allegoriche che si possono a ragione assimilare ai geroglifici» (Moses Mendelssohn, I principî fondamentali delle Belle Arti, Palermo, Aesthetica, 1989, p. 35).

[commento_10.6]«Oggetti che esistono l’uno accanto all’altro, o le cui parti esistono l’una accanto all’altra si chiamano corpi. Di conseguenza sono i corpi, con le loro qualità visibili, i veri oggetti della pittura. Oggetti che si susseguono l’un l’altro, o le cui parti si susseguono, si chiamano in generale azioni. Di conseguenza le azioni sono i veri oggetti della poesia» (Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte, cit., p. 63).

[commento_10.7] Engel giudicava la musica, nell’accezione che ad essa davano gli antichi, come arte all’incrocio tra il tempo e lo spazio, e per questa ragione la poneva a modello per l’attore che dovesse imparare a passare da un tono all’altro: «Se lei pone a confronto le summenzionate belle arti, allora riconoscerà subito che nell’antico concetto di musica si trovavano riuniti i due contrassegni essenziali: l’energico, ossia operante nello spazio; e il sensibile. Dal primo erano escluse tutte le arti rappresentative, tutte le arti operanti nello spazio; dal secondo la poesia, in quanto essa si rivolge non solo ai sensi, bensì alla fantasia, e alle restanti forze interiori dell’anima» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 507).

[commento_10.8] Nel Laocoonte lo statuto della declamazione appare incerto: «Il dramma, che è destinato alla pittura vivente dell’attore, forse dovrebbe anch’esso attenersi alle leggi della pittura materiale» (Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte, cit., p. 32). Tuttavia, procedendo nella riflessione, egli non nega la possibilità, da parte dell’attore, di spingersi laddove solo la poesia può farlo. Tutto dipende dal talento individuale dell’interprete: «Io non oso né affermare né negare che l’attore possa portare le grida e le convulsioni del dolore fino a creare un’illusione. Se trovassi che i nostri attori non ci riescono, dovrei prima sapere se non ci sia neppure capace uno come Garrick» (ivi, p. 37).

È nella Drammaturgia d’Amburgo che la declamazione viene invece posta all’incrocio tra le arti spaziali e quelle temporali: «L’arte dell’attore tiene qui una via di mezzo tra le arti figurative e la poesia; come “pittura visibile” [sichtbare Malerei], la sua legge suprema deve essere naturalmente la bellezza; ma come “pittura effimera” [transitorische Malerei], essa non ha sempre bisogno di dare alle sue posizioni quella calma che rende così imponenti le antiche opere d’arte. Essa può e deve assai spesso permettersi l’impeto selvaggio di un Tempesta o l’audacia sfrontata di un Bernini […] ma essa non deve indugiarvi troppo, quanto piuttosto prepararle a poco a poco attraverso i movimenti precedenti e a poco a poco discioglierle di nuovo attraverso i susseguenti […]. Poiché essa è, sì, poesia muta, ma tale che si deve rendere comprensibile immediatamente ai nostri occhi» (Gotthold Ephraim Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, cit., p. 34).

[commento_10.9] Salfi si interroga su quale sia l’estensione del campo del rappresentabile in relazione all’arte della declamazione. La teoria estetica lessinghiana aveva messo in crisi l’estetica di Batteux che, all’interno dell’opera Le Belle Arti ricondotte a unico principio, accomunava le belle arti nel loro oggetto di mimesi, ossia la bella natura. Al contrario, Lessing scardinava questa unione, sottolineando come quanto era concesso rappresentare all’una, non lo era all’altra. Se nel gruppo scultoreo del Laocoonte le grida vengono tramutate in stoicismo nell’accettazione del dolore, perché la bocca spalancata negava la legge suprema della bellezza, al contrario lo stesso soggetto, in sede di poesia drammatica, sarebbe stato rappresentato diversamente: «Tra i drammi perduti di Sofocle si trova persino un Laocoonte. Se solo il destino ce l’avesse concesso. Dai brevi accenni che ne fanno i grammatici non si riesce a dedurre come il poeta abbia trattato questo argomento. Tuttavia sono certo che egli non avrà rappresentato Laocoonte più stoico di Filottetete e di Ercole. Lo stoicismo è antiteatrale; e la nostra compassione è sempre commisurata alla sofferenza che l’oggetto del nostro interesse esprime» (Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte, cit., p. 25). Su tale questione il punto di vista di Salfi diverge da quello di Lessing. L’attore da lui prospettato si deve arrestare prima di varcare le soglie del deforme e del disgustoso, categorie verso le quali si apriva l’estetica lessinghiana, se utilizzate in funzione dell’evocazione del terribile e del ridicolo (si veda Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte, cit., pp. 94-99). Il trattato salfiano resta invece vicino a un’estetica più tradizionale, come lo era quella del Riccoboni del Dell’arte rappresentativa, fondata sul rispetto delle bienséances.

[commento_10.10]«ciò che mi mostri, incredulo respingo» (Quinto Orazio Flacco, Arte poetica, in Id., Le opere. II. Le satire. Le epistole. L’arte poetica, testo critico di Paolo Fedeli, traduzione di Carlo Carena, Roma, Istituto Poligrafo e Zecca dello Stato, 1977, v. 188, pp. 936-937).

[commento_10.12] Fu per compiacere il gusto del popolo inglese contemporaneo che i drammaturghi inglesi, come osserva Luigi Riccoboni, «[…] ont ensanglanté la Scène au delà de l’imagination […]» (Luigi Riccoboni, Réflexions historiques et critiques sur les différents théâtres de l’Europe. Avec les Pensées sur la déclamation, cit., p. 128). Sulla questione della necessità, da parte dei poeti drammatici, di adeguarsi al gusto della nazione, Riccoboni si soffermava nel cap. VIII della Dissertation sur la tragédie moderne: «Le but des Poètes Dramatiques est de plaire. Pour y parvenir ils doivent se conformer au goût de leur Nation. Chez les Grecs, le Peuple aïant une grande part aux affaires, rien ne l’interessoit tant, que les révolutions des Roïaumes. Il aimoit à voir la peinture des passions, qui les causent, il se plaisoit à entendre les Théâtres retentir des maximes de politique. Les François, contens d’être gouvernés heureusement depuis tant de Siècles par les volontés sages de leurs Princes, sont moins touchés de tout ce qui leur depeint les intrigues de l’ambition. Ils se livrent plus volontiers au plaisir de voir l’amour, et la jalousie occuper leur Théâtre» (Luigi Riccoboni, Dissertation sur la tragédie moderne, in Id., Histoire du Théâtre Italien, depuis la décadence de la Comédie Latine, cit., pp. 314-315).

Capitolo XI §

[commento_11.2]«Ma ci sono persone che hanno una lingua così impacciata, una voce così sgradevole, un modo di atteggiare il viso e di muoversi così rozzo e inurbano che, anche se sono intellettualmente dotate e conoscono la tecnica della retorica, non potranno mai essere inserite nel novero dei veri oratori. Al contrario, ve ne sono altre che sono così dotate di quelle stesse qualità, così benevolente fornite dalla natura di doni da sembrare, più che comuni mortali, esseri plasmati da una qualche entità divina» (Marco Tullio Cicerone, De oratore, Libro I, 25, cit., 115, pp. 48-49).

[commento_11.3] Senofonte, Memorabili, a cura di Fiorenza Bevilacqua, Torino, UTET, 2010, Libro III, X, 6-8, pp. 557-559.

[commento_11.4]«Non ho risparmiato sforzo alcuno per formare mademoiselle Dubois e mademoiselle Raucourt; faccio appello a tutti quelli che le hanno viste. Le mie deliziose scolare sono state figure importanti?» (Hippolyte Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale, cit., p. 156.) Il resto della citazione, assente dalla prima edizione a stampa delle Memorie, viene riportata in nota dalla traduttrice: «Ahimè, malgrado le mie cure e quanto avevano di doni naturali, non ho mai potuto farne che le mie scimmie. Il loro debutto prometteva le più grandi speranze perché ero dietro le quinte e perché il pubblico si entusiasmava sempre per la gioventù e la bellezza, ma si è visto che, cessando le mie lezioni, i loro talenti erano scomparsi» (ivi, n. 271, p. 156).

[commento_11.6]«[…] credo che l’egizio Proteo di cui l’antico mito narrava, altro non fosse che un pantomimo, un imitatore capace di assumere le movenze di qualsiasi cosa e trasformarsi, di imitare nell’impulso del suo movimento la fluidità dell’acqua e la veemenza del fuoco, la ferocia del leone e l’impeto del leopardo, l’agitarsi dell’albero e qualsiasi cosa desiderasse» (Luciano, La danza, a cura di Simone Beta, traduzione di Marina Nordera, Venezia, Marsilio, 1992, p. 67). E, per l’aneddoto raccontato, si veda ancora Luciano: «A questo proposito voglio ora parlarti di un altro straniero che, avendo visto cinque maschere già predisposte — altrettante infatti erano le parti dello spettacolo — e vedendo un solo pantomimo, si domandava chi fossero gli attori e i danzatori che avrebbero interpretato gli altri personaggi. Quando seppe che un solo pantomimo avrebbe recitato indossando tutte le maschere disse: «Caro amico, avevo dimenticato che tu hai un solo corpo ma molte anime» (ivi, 93)

[commento_11.7] A proposito del Tasso e del suo frequente dialogare con uno spirito, nutrimento per la sua ispirazione, si legga l’aneddoto raccontato in Giambattista Manso, Vita di Torquato Tasso scritta da Giambattista Manso napoletano, Bologna, Presso Riccardo Masi, Nella Stamperia di S. Tommaso d’Aquino da S. Domenico, 1832, pp. 144-152. La prima edizione dell’opera risale al 1621. L’opera del Manso sarà inoltre la fonte utilizzata da Leopardi per la costruzione del suo Dialogo di Tasso e del suo genio familiare, contenuto nelle Operette morali (1827).

[commento_11.8] Impossibile non rintracciare l’eco delle riflessioni esposte da Sainte-Albine, che faceva leva sul feu dell’attore, mosso dal calore dal sentimento: «La prima regola è muovere l’uditorio, e a teatro la recitazione fredda è sempre la più difettosa» (Pierre Rémond de Sainte-Albine, L’attore, cit., p. 288).

[commento_11.9] Salfi si trova a scrivere il trattato Della declamazione in un’epoca in cui il dibattito tra emozionalisti e antiemozionalisti aveva perso di attualità. Egli non si pronuncia esplicitamente in favore dell’attore freddo o dell’attore caldo, ma mostra un certo eclettismo. Da una parte l’impostazione del trattato e la finalità pedagogica rivelano una propensione verso le prospettive assunte da Lessing e Engel, partigiani di un attore freddo che riproducesse le passioni imitando la gestualità corrispondente, senza venirne penetrato; dall’altra, Salfi concede spazio al ruolo del genio e al potere del sentimento, sottolineando come un ruolo fondamentale all’interno della performance sia svolto da «un certo che», ossia da un elemento irrazionale che tuttavia conferisce vita e anima alla parte da portare sulle scene.

[commento_11.10] L’autore del Della declamazione tuttavia è ben lontano dall’affidare il successo di una performance al solo travolgimento emotivo dell’attore, e dunque sottolinea come a questa propensione naturale debba accompagnarsi lo studio, in grado di perfezionare la natura attraverso l’arte. Il massimo momento di genio è anche quello in cui l’attore ha maggiore bisogno dell’arte, in grado di razionalizzare questo furore divampante. Anche un attore rivoluzionario come Talma, tanto impegnato nella valutazione ragionata dei costumi e nello studio della gestualità tramite l’ausilio della pittura, affidava tuttavia un peso notevole alla forza travolgente del sentimento. Così, nell’introduzione alle sue Réflexions sur Lekain, insisteva sul ruolo del genio nel fare la differenza tra un’interpretazione e l’altra: «Tout acteur doit être son propre instituteur. S’il n’y a pas en lui-même les facultés nécessaires à l’expression des passions, à la peinture des caractères, tous les conseils du monde ne pourront les lui donner: le génie ne s’apprend pas» (François-Joseph Talma, Réflexions sur Lekain et l’art théâtral, cit., p. 28).

L’approccio paradossale del Salfi, che propugna l’apertura di scuole che insegnino il mestiere d’attore e poi si lascia andare all’encomio dell’attore caldo, è in realtà proprio di tutto il secolo. L’Ottocento italiano sarà l’epoca in cui si tenterà di inquadrare l’arte attorica in canoni razionali, ma sarà anche il tempo in cui troverà affermazione il grande attore, mosso da ardori romantici, i cui precursori solcavano le scene già ai tempi del Salfi. Studio e sentimento sono i due cardini di una nuova generazione per certi versi contraddittoria. Ne è un emblema Antonio Morrocchesi (1768-1838), che nel 1794, con il «ferimento accidentale in scena» durante la rappresentazione del Saul di Alfieri, rivelava un’anima «romantica». Ma l’interprete che, per il troppo furore, genera confusione tra realtà e scena, sarà lo stesso che, a partire dal 1811, si troverà, dall’alto di una cattedra, a sostenere la possibilità di insegnare il mestiere di attore. A questo proposito si legga Stefano Geraci, Comici italiani: la generazione «alfieriana», «Teatro e storia», vol. 7, ottobre 1989, pp. 215-243.

[commento_11.11] L’espressione più idonea a definire il modello del tempo è quella dell’attore come «sciacallo dei sentimenti» (Sandra Pietrini, Fuori scena: il teatro dietro le quinte dell’Ottocento, Roma, Bulzoni, 2004, p. 161): non è tanto necessario calarsi nelle emozioni del personaggio, quanto attingere a emozioni già sperimentate e adattarle alla parte interpretata. All’attore si richiede dunque non di provare sentimenti nel momento della performance, ma di avere una particolare propensione al sentimento fuori dalle scene, in modo poi di riuscire a attuare, sul palco, uno sdoppiamento tra componente emozionale e tra la componente gestuale corrispondente.

[commento_11.12] Nel contesto di didattica attoriale nel quale il Della declamazione si situa è possibile inquadrare anche la grande mole di citazioni da opere letterarie, drammatiche e non, presenti all’interno del testo. Il trattato assume allora su di sé una doppia finalità pedagogica: da una parte si propone come manuale atto a fornire precetti circa la vocalità e la gestualità dell’attore; dall’altra, adempie a una funzione di divulgazione culturale, offrendo in compendio una sorta di antologia dei testi di maggior valore di autori che vanno da Dante a Shakespeare, da Ariosto a Alfieri.

[commento_11.13] Jean Jacques Rousseau, «Génie», in Id., Dictionnaire de musique, cit., pp. 230-231. L’aneddoto sull’attrice è invece riportato in Jean-Nicolas Servandoni, dit D’Hannetaire, Observations sur l’art du comédien, cit., p. 93.

[commento_11.14]«Mi ricordo di aver visto una volta un pantomimo che aveva una buona fama, intelligente e veramente degno di essere ammirato, il quale, non so per quale sorte, incappò in una sgradevole interpretazione per eccesso di immedesimazione. Mentre danzava nel ruolo di Aiace impazzito subito dopo la mancata assegnazione delle armi di Achille, oltrepassò il limite fino al punto che qualcuno avrebbe potuto pensare che non stesse recitando la follia, ma che fosse egli stesso folle» (Luciano, La danza, cit., pp. 106-107).

Capitolo XII §

[commento_12.2] La superiorità del tragico risiedeva, nella visione del Salfi, nella capacità di coinvolgere lo spettatore in tematiche di attualità politica, seppur rappresentate attraverso il filtro della temporalità, come era accaduto in epoca giacobina, dove le tragedie alfieriane si erano fatte interpreti di sentimenti propri del presente, in cui si auspicava la morte del tiranno e il trionfo delle libertà individuali. L’ossessione di Salfi per il genere tragico è vivo sin dagli anni napoletani, quando, in una lettera datata 9 agosto 1792, scriveva a Luigi Serio, censore dei teatri di Napoli: «Maledetto questo coturno, che sono entrato in impegno di volermi calzare. Non vi è tempo, non vi è destrezza, che basti. Sacrifico i giorni, le veglie, la mia salute, me stesso ad un’opera tanto difficile; ed il frutto che finalmente ne colgo, si riduce ad una ragionata disperazione di giungere a quello scopo, a cui miro» (Francesco Saverio Salfi, Salfi tra Napoli e Parigi. Carteggio 1792-1832, cit., p. 109). Il contesto è quello della scrittura di una tragedia di soggetto «barbaro» andata perduta, ambientata al tempo degli odi tra Napoli e una Benevento longobarda. Dalle sue parole emerge la forza totalizzante che lo spinge al lavoro sul tragico, dettata dalla volontà di portare sulla scena quella «ferocia» nei caratteri e nelle passioni che il genere richiede, nell’idea che «[…] ogni tempo ed ogni paese possa aver degli uomini capaci di grandi passioni, e quindi di grandi delitti, e talvolta ancora di grandi virtù» (ivi, p. 110). Un elemento da non sottovalutare è il fatto che il trattato di Salfi si rivolga all’attore tragico, proprio al tempo in cui cominciava a affermarsi una generazione di attori, nati in seno al dilettantismo, che aveva acquisito una particolare vocazione al tragico in virtù di anni di messe in scena delle tragedie alfieriane. Tra questi Antonio Morrocchesi e Paolo Belli Blanes che, una volta penetrati nelle compagnie dei professionisti, nonostante la necessità di piegarsi a un repertorio eclettico, avevano potuto apportare un contributo notevole nell’approccio con il genere (Stefano Geraci, Comici italiani: la generazione «alfieriana», «Teatro e storia», cit., p. 230). È giusto non sottostare al pregiudizio secondo il quale la tragedia settecentesca fosse oggetto di sola lettura e fosse separata dalla prassi scenica. Ma non va dimenticato come solo con i drammi alfieriani il genere tragico aveva fatto ingresso sistematico nel repertorio dei comici professionisti. Basta sfogliare gli elenchi delle opere messe in scena dalle compagnie privilegiate sotto la guida di Fabbrichesi per rendersi conto di come la presenza alfieriana fosse tra le più preponderanti (si veda l’Elenco cronologico degli spettacoli proposti dalla compagnia vicereale, dalla reale di Napoli e dalla compagnia Fabbrichesi (1806/1826), in Alberto Bentoglio, L’arte del capocomico. Biografia critica di Salvatore Fabbrichesi (1772-1827), cit., pp. 231-303).

[commento_12.3] Pur pronunciandosi a favore della nobiltà del genere tragico, non per questo Salfi sostiene sia necessario trarre i propri soggetti unicamente dall’antichità, come dimostra il fatto che egli stesso abbia attinto alla storia moderna. Al contrario, più i soggetti sono vicini alla platea, più è possibile ottenere l’effetto auspicato. È necessario tuttavia che le virtù messe in luce sulla scena abbiano la grandezza che era propria di quelle antiche. Si legga quanto scritto nella prefazione alla Virginia bresciana: «I fatti patrii e domestici debbono esser sempre mai prescelti a cagione dell’effetto, che possono pro durre grandissimo nell’animo d’un uditorio, che a preferenza degli altri mette sempre maggiore interesse in quelli, che più gli appartengono. Quantunque sia l’oscurità e la stranezza d’un fatto, la memoria n’è sempre cara a quel popolo, che in essa richiama la dolce memoria de’ suoi maggiori. Il teatro greco non ammetteva se non se i fasti della Grecia; e forse a tempi di Eschilo e di Sofocle non erano meno oscuri ed incerti gli argomenti delle loro tragedie, ed i costumi de’ tempi e delle persone, da loro caratterizzati» (Francesco Saverio Salfi, Virginia bresciana. Tragedia, Brescia, Dalla Stamperia Nazionale, VI. R. F., p. XV).

[commento_12.4] Una posizione simile, di difesa della nobiltà tradizionale del genere tragico, era stata assunta anche da Luigi Riccoboni e dalla sua consorte, Elena Balletti Riccoboni, che avevano mosso le loro critiche contro lo stile recitativo troppo realistico di Baron. Riccoboni adombrava la sua figura nei seguenti versi: «Su le ginocchia il re (stando a sedere) / i gomiti appoggiava, e le mascelle / in fra le mani si vedea tenere» (Luigi Riccoboni, Dell’arte rappresentativa, cit., vv. 91-93, p. 63). La Balletti invece ne parlava diffusamente in una lettera ad Antonio Conti, pubblicata nel 1736 nella Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici: «Nel resto poi (sia detto però con quel rispetto che merita la riputazione di un sì grand’uomo) trovai la maniera di Monsieur Baron sempre vera e naturale al certo; ma come che la natura non è sempre bella, né ogni verità convenevole sul teatro, parvemi qualche volta non in tutto confacente al soggetto. È senza contraddizione che l’eroe della tragedia, essendo uomo, non deve scostarsi dalla natura; ma è ben anche vero che la grandezza delle azioni e l’altezza della nascita o del grado de’ tragici eroi addimanda una natura maestosa e degna» (Elena Virginia Balletti, Lettera della signora Elena Balletti Riccoboni al signor abate Antonio Conti gentiluomo viniziano, sopra la maniera di Monsieur Baron nel rappresentare le tragedie franzesi, a cura di Valentina Gallo, «Les savoirs des acteurs italiens», collection numérique dirigée par Andrea Fabiano réalisée dans le cadre du programme interdisciplinaire «Histoire de Savoirs», p. 7).

[commento_12.5]«tutti i barbari infatti hanno un senso di venerazione davanti ad una statua imponente e non ritengono capaci di grandi opere se non quelli che la natura s’è degnata di dotare di uno straordinario aspetto» (Quinto Curzio Rufo, Historiarum Alexandri Magni Macedonis, Libro VI, V, 29, pp. 334-335);

«li stimola la presenza di Turno». Publio Virgilio Marone, Eneide, cit., Libro IX, v. 73, p. 268;

Charles Batteux, Les Beaux-Arts réduits à un même principe, cit., pp. 212-213.

[commento_12.6]«Gli abitanti di Antiochia, nobile città che onora la pantomima in modo particolare, osservano con tale attenzione tutto ciò che viene detto e fatto sulla scena, che non si lasciano sfuggire nulla. Una volta salì sulla scena un pantomimo piccolo di statura per interpretare il ruolo di Ettore; tutti proruppero in un unico grido: “Tu sei Astianatte, ma dov’è Ettore?”» (Luciano, La danza, cit., p. 101.)

Capaneo, uno dei sette che assediarono Tebe, compariva nel canto XIV dell’Inferno dantesco, nel terzo girone del settimo cerchio, ed era punito per essersi macchaito di violenza contro Dio.

[commento_12.7] A questo proposito Madame de Staël affermava: «Une des beautés de la tragédie de Richard III, à la lecture, c’est ce qu’il lui dit lui-même de sa difformité naturelle. On sent que l’horreur qu’il cause doit réagir sur son âme, et la rendre plus atroce encore. Cependant qu’y a-t-il de plus difficile dans le genre noble, de plus voisin du ridicule, que l’imitation d’un homme contrefait sur la scène? Tout ce qui est dans la nature peut intéresser l’esprit; mais il faut, au spectacle, ménager les caprices des yeux avec le plus grand scrupule; ils peuvent détruire sans appel tout effet sérieux» (Germaine de Staël-Holstein, De la littérature considérée en rapport avec ses institutions sociales, cit., p. 204)

[commento_12.8] L’aneddoto, riportato nella Biographie universelle di Michaud, riguardava il maestro di ballo francese W. Marcel, che si vantava di saper riconoscere la nazionalità di un individuo dalla sola postura e attitudine del corpo («Marcel W.», in Biographie universelle, ancienne et moderne, Paris, chez L. G. Michaud, 1820, tome XVI, pp. 589-590).

«Se durante ventiquattro ore al giorno mi comporto come una borghese, per quanti sforzi faccia non sarò che una borghese in Agrippina. Toni, gesti familiari mi sfuggiranno a ogni istante, la mia anima, svilita dall’abitudine di un fare timoroso e subalterno non avrà, o solo a momenti, gli slanci della grandezza di continuo necessari al ruolo rappresentato»(Hippolyte Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale, cit., p. 146).

[commento_12.9]«Senza mai dimenticare la mia posizione, mi sono imposta di non fare e di non dire alcunché se fosse stato privo del carattere di nobiltà e di austerità. Non ignoro le ridicolaggini che questo modo d’essere ha suscitato nei miei compagni e nel gran numero di quelli che non si rendono conto di nulla: pretendevano che avessi sempre l’aria della regina di Cartagine» (Hippolyte Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale, cit., p. 146).

[commento_12.10]«Anecdote. Feu des Essarts, très-bon premier rôle de la Troupe de La Haye, ayant été un jour surpris à la chasse, sur les plaisirs du Stathouder, sut profiter à propos de cette magie poétique & théâtrale pour sortir d’embarras… Un des principaux Gardes, qui n’avoit jamais vu cet Acteur que dans des rôles de Prince, l’ayant abordé en lui demandant,de quel droit il venoit chasser en ce lieu-là?, l’autre, sans se démonter, lui répondit, en déclamant avec l’air & le ton de la fierté la plus héroïque: de quel droit, dites-vous?… […]Ce qui en imposa tellement au Garde, que tout étourdi du ton & de la réponse, il se retira en disant: Ah!… c’est autre chose; excusez, Monsieur, je ne savais pas cela» (Jean-Nicolas Servandoni, dit D’Hannetaire, Observations sur l’art du comédien, cit., p. 338). E, a proposito della frase pronunciata da Baron, la fonte resta sempre D’Hannetaire: «Baron avoit coutume de dire qu’un Comédien devroit avoir été nourri sur les genoux des Reines. Expression peu mesurée, mais bien sentie» (ivi, p. 357).

Capitolo XIII §

[commento_13.1] Tertulliano, De spectaculis, in Id., Opere catechetiche, a cura di S. Isetta, S. Matteoli, T. Piscitelli, V. Sturli, Roma, Città Nuova, 2008, XXV, 3, p. 92.

«un comico recita in tono dimesso, un tragico declama a gola spiegata». (Lucio Apuleio, Florida, in Francesca Piccioni, I Florida di Apuleio. Prolegomena, testo critico e traduzione. Tesi di Dottorato in Storia, Letterature e Culture del Mediterraneo, XXVI ciclo, Università degli studi di Sassari, XVIII, p. 126).

[commento_13.2]«Je n’exige pas qu’on admette cette conjecture. Je demande qu’on l’examine. N’est-il pas assez vraisemblable que le grand nombre de spectateurs auxquels il falloit se faire entendre, malgré le murmure confus qu’ils excitent, même dans les momens attentifs, a fait élever la voix, détacher les syllabes, soutenir la prononciation, & sentir l’utilité de la versification?» (Denis Diderot, Entretiens sur Le Fils naturel, in Id., Œuvres esthétiques, cit., p. 123);

«ci son forse voci in grado di superare il fracasso dei nostri teatri? Diresti che sta muggendo il bosco Gargano […]» (Quinto Orazio Flacco, Epistole e Ars poetica, cit., II, 1, vv. 200-202, pp. 110-111).

[commento_13.3]«innalzò il tono dei discorsi e diede agli attori il sostegno del coturno» (Quinto Orazio Flacco, Arte poetica, in Id., Le opere. II. Le satire. Le epistole. L’arte poetica, cit., v. 280, pp. 942-943).

[commento_13.4]«che invade di fantasmi il mio cuore, lo punge e lo accarezza, lo colma di terrori vani», Quinto Orazio Flacco, Arte poetica, in Id., Le opere. II. Le satire. Le epistole. L’arte poetica, cit., vv. 211-212, pp. 898-899.

[commento_13.5]«siamo poi noi […] a delirare invasati da Bacco, con la rimbombante bocca di Sofocle in un carme grandioso» (Decimo Giunio Giovenale, Satire, a cura di Giovanni Viansino, Milano, Mondadori, 1990, Libro II, VI, v. 636, pp. 252-253).

[commento_13.6] Salfi riprende l’idea di presenza, individuata da Engel come fondatrice del dramma. In esso compaiono «[…] personaggi che comunicano i loro sentimenti nel momento stesso in cui ricevono una data impressione; le loro idee nel momento stesso in cui le concepiscono; che non sono mai occupati esclusivamente dallo sviluppo di quelle idee e di quei sentimenti, bensì intendono sempre perseguire una mira, i loro pensieri sono sempre proiettati in avanti, verso l’avvenire, sono sempre soggetti a cambiamenti e rivolgimenti della loro condizione interiore o esteriore, cambiamenti e rivolgimenti che ora producono personalmente ora sono indotti da altri» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 531).

[commento_13.7] La ricerca di una soluzione mediana tra il conversevole e la preservazione della sublimità del tragico era individuata come necessaria anche da Alfieri: «In tragedia un amante parla all’amata; ma le parla, non le fa versi: dunque non le recita affetti con armonia e stile di sonetto; bensì tra il sonetto e il discorso familiare troverà una via di mezzo, per cui l’amata che in palco lo ascolta non rida delle sue espressioni, come fuori di natura il dialogo; né la platea che lo sta a sentire rida del suo parlare, come triviale e di comune conversazione» (Vittorio Alfieri, Risposta di Vittorio Alfieri a Lettera del Sig.r Rinieri de’ Calzabigj scrittagli sopra le sue Tragedie, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche, cit., p. 231).

[commento_13.10] Pier Jacopo Martello, Della tragedia antica e moderna. Dialogo di Pier Jacopo Martello, In Bologna, Nella Stamperia di Lelio Dalla Volpe, MDCCXXXV, pp. 165-166. La seconda citazione è tratta da Antonio Eximeno, Dell’origine e delle regole della musica, In Roma, MDCCLXXIV, Nella Stamperia di Michel’Angelo Barbiellini, p. 428.

La citazione di Clement veniva invece riportata in Pietro Napoli Signorelli, Storia critica dei teatri antichi e moderni, cit., vol. V, p. 175.

[commento_13.12] L’introduzione frequente di citazioni provenienti da Shakespeare testimonia la fluidità delle categorie di classicisti, che condannano l’infrazione delle unità aristoteliche e la commistione di tragico e comico propria delle opere del tragediografo, e romantici, che si proclamavano discendenti del genio proveniente d’Oltremanica.

[commento_13.14] A proposito della penetrazione di queste contaminazioni tra tragico e comico in Italia, si legga quanto scritto da Salfi nel Saggio storico-critico della commedia italiana: «Mentre tali scrittori si succedevano, non cessavano tanti altri di tradurre i drammatisti oltremontani più stravaganti e d’imitare, ed anche esagerare la loro maniera. Quindi a’ drammi di Mercier, d’Arnaud, di Beaumarchais, di Kotzebue e simili si uniscono le più strane imitazioni che ne fecero il veneziano Avelloni, il Gualzetti napoletano, il Greppi di Bologna e specialmente il Gamerra, nomi tutti universalmente sprezzati da quegli stessi Italiani che loro usavano qualche indulgenza nel teatro» (Francesco Saverio Salfi, Saggio storico-critico della commedia italiana, cit., p. 65).

Capitolo XIV §

[commento_14.1] Salfi si inoltra qui in riflessioni di ordine più concreto, che coinvolgono la gerarchia stessa delle compagnie e la divisione delle parti. Non dimentichiamoci che il trattato Della declamazione si inserisce in un piano di riforma che non coinvolge solo l’orizzonte della recitazione, ma anche la dimensione istituzionale del fare teatro.

[commento_14.2] Sull’argomento si veda Cristina Jandelli, I ruoli nel teatro italiano tra Otto e Novecento. Con un dizionario di 68 voci, Firenze, Le Lettere, 2002.

[commento_14.3] Ecco allora che il trattato si presenta come una serie di riflessioni volte non tanto a perfezionare la resa scenica del singolo, quanto l’orchestrazione armonica del dramma nel suo complesso. La scena non è, nella concezione del Salfi, il tempio di venerazione dei primi attori acclamati dal pubblico, ma un luogo senza gerarchie, dove anche le espressioni delle comparse risultano determinanti per la creazione di un prodotto di successo.

[commento_14.4] La scelta delle due macro categorie di parti fiere e parti tenere rende esplicita la volontà di privilegiare la reale corrispondenza tra le caratteristiche dell’attore e quelle del personaggio da interpretare, piuttosto che promuovere aprioristicamente alcuni attori, i primi uomini e le prime donne della compagnia.

[commento_14.5] Sull’importanza del physique du role si era già soffermato Luigi Riccoboni in Dell’arte rappresentativa: «Per ben fingere un re fra nobil coro / non ti basta apparire in regia corte, / né il manto aver di gemme asperso e d’oro. / Sguardo irritato che minacci morte, / portamento cortese in uno e altero, / voce che ti spaventi e ti conforte!» (Luigi Riccoboni, Dell’arte rappresentativa, cit., cap. II, vv. 25-30, p. 58.)

[commento_14.6] Sull’insostituibilità dell’apporto della Natura, si legga Riccoboni: «Chi le gambe bistorte e fatte in esse / e la testa congiunta in un col petto / e le due anche sgangherate avesse, / se in onta di Natura e per dispetto / sciegliendo il ballo per lo suo mestiere / danzasse la corrente e il minuetto, / non sarebbe una cosa da vedere / per far che si scompisci una brigata, / non potendo le risa contenere? / Così del comediante: se adeguata / non avrà la fi gura, non imprenda / un’arte sì gentile e delicata» (Luigi Riccoboni, Dell’arte rappresentativa, cit., cap. II, vv. 1-12, p. 58).

[commento_14.7] Salfi si riferisce alla tendenza degli attori italiani di alternarsi tra rappresentazioni tragiche e comiche, procurando un effetto straniante sullo spettatore. Questa convenzione, dettata da esigenze economiche, veniva segnalata da Riccoboni come un pregio proprio della nazione: «On voit d’ailleurs en Italie ce qu’il n’est pas facile de trouver parmi les autres Nations. Jamais une troupe italienne n’a plus d’onze Acteurs ou Actrices; parmi lesquels, cinq, y compris le Scaramouche, ne parlent que Boulonois, Venetien, Lombard et Napoletain. Cependant lorsqu’il s’agit de jouer une Tragédie qui est chargé d’Acteurs, tous s’y employent, jusqu’à Arlequin qui ôte son masque, et tous déclament des vers en bon Romain […]» (Luigi Riccoboni, Réflexions historiques et critiques sur les differens théâtres de l’Europe. Avec les Pensées sur la déclamation, cit., p. 29).

[commento_14.8] Salfi aveva trattato il tema già nel numero 10 del Termometro politico della Lombardia, datato 8 termidoro IV repub. (martedì 26 luglio 1796), nel quale aveva formulato tredici norme per la costituzione di un Teatro nazionale. Nel punto VII si alludeva infatti a una riforma da adottare nel sistema dei ruoli, in particolare sull’impossibilità per un attore di calarsi indifferentemente nel comico e nel tragico, di interpretare «[…] ora Bruto, ora Arlecchino» (Teatro nazionale, n. 10, 26 luglio 1796, in Termometro politico della Lombardia, a cura di Vittorio Criscuolo, cit., vol. 1, p. 164). Cristina Jandelli si è soffermata sulla questione, sottolineando come tale stato di cose fosse sorto in seguito alla disgregazione della comicità dell’arte. Il passaggio da un sistema fondato sui ruoli fissi e dunque sulla specializzazione dell’attore, a un’epoca di transizione in cui al contrario la qualità più apprezzata era la versatilità nel comico quanto nel tragico, risultò in molti casi disorientante: «Nella fase di transizione dal teatro delle maschere a quello dei ruoli l’attore restò privo di punti di riferimento, con il proprio bagaglio di riferimento svanito e irrecuperabile: il teatro delle maschere stava perdendo la sua identità, il teatro dei ruoli non ne aveva ancora una» (Cristina Jandelli, I ruoli nel teatro italiano tra Otto e Novecento. Con un dizionario di 68 voci, Firenze, Le Lettere, 2002, p. 6). Il problema era stato evidenziato anche da Alfieri nel Parere sull’arte comica: «Quando ci saranno autori sommi, o supposto che ci siano, gli attori, ove non debbano contrastare colla fame, e recitare oggi il Brighella, e domani l’Alessandro, facilmente si formeranno a poco a poco da sé, per semplice forza di natura» (Vittorio Alfieri, Parere sull’arte comica in Italia, cit., p. 241).

[commento_14.9] L’importanza dei confidenti era già stata riscontrata in pieno Settecento da Madame Clairon: «I direttori dello spettacolo e persino gli attori credono che il primo arrivato sia all’altezza delle parti di confidente. Lungi da me tale idea, il ruolo richiede un’intelligenza molto acuta e pronta, per di più quasi tutti rappresentano governatori, principi, ministri, generali, ambasciatori, comandanti delle guardie o favoriti, sono i depositari di tutti i grandi segreti, vengono loro affidati ordini importantissimi» (Hippolyte Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale, cit., p. 134).

[commento_14.10] L’ostilità dell’Alfieri per i confidenti emerge viva in questo passo: «Ora io domando, se un soliloquio di persona importante e appassionatissima, un soliloquio rotto, pieno, breve, e accennante piuttosto che narrante le cose, non debba riuscire più caldo, meno stucchevole, e altrettanto probabile, quanto una lunga scena tra quel personaggio importante e un personaggio subalterno, il quale invano tentando di riscaldare se stesso alla fiamma dell’altro, in vece di ciò, e l’altro e se stesso e gli spettatori raffredda» (Vittorio Alfieri, Parere sulle tragedie, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche, cit., p. 151). Come nota Giuseppe Antonio Camerino, «Sua preoccupazione primaria è quella di creare soltanto «personaggi attori» e di escludere nel modo più assoluto sia il «personaggio indifferente e creato soltanto per ascoltare» sia il «narratore indifferente»» (Giuseppe Antonio Camerino, Alfieri e il linguaggio della tragedia: verso, stile, tópoi, Napoli, Liguori, 1999, p. 40). La critica all’introduzione dei confidenti era già presente in Luigi Riccoboni: «En ôtant le Chœur, et le Coriphée de la Tragédie, et en introduisant les Confidens, on est tombé, si je ne me trompe, d’une irrégularité, et d’une petite faute dans une plus grande. Leurs Héros, à l’imitation de Cirus, d’Oroondate, et de tant d’autres Romans, font dépositaires de leurs secrets, non pas un novica de l’art de la Chevalerie, comme l’étoient les Ecuïers; mais un Esclave très souvent, à qui ils confient non seulement leurs amours, mais les conspirations les plus délicates» (Luigi Riccoboni, Dissertation sur la tragédie moderne, in Id., Histoire du Théâtre Italien, depuis la décadence de la Comédie Latine, cit., pp. 276-277).

[commento_14.12] Sull’interpretazione di Piritoo fatta Lekain, D’Hannetaire si esprimeva in questo modo: «Quant aux Confidens, dont je faisois mention; fans entrer dans de plus longs détails sur ce qui les concerne, quiconque aura vu jouer le Rôle de Pirithoüs, dans Ariane, par M. le Kain, pourra apprendre quel ton de vérité il faut mettre dans de pareils Rôles pour les rendre importans, quelque peu qu’ils paroissent l’être par eux-mêmes» (Jean-Nicolas Servandoni, dit D’Hannetaire, Observations sur l’art du comédien, cit., p. 296). A proposito di M.lle Clairon, Larive scriveva: «M.lle Clairon a fait connaître les beautés du rôle d’Eriphile, qu’avant elle on avait toujours regardé comme mauvais» (Jean Mauduit, dit Larive, Cours de déclamation, divisé en douze séances, cit., p. 264).

[commento_14.13] La citazione da D’Hannetaire a proposito dell’inadeguatezza dei confidenti che si atteggiano a primi attori è la seguente: «C’est ce que je me rappelle avoir vu faire à Paris, par une très-grande Actrice, dans la Confidente de Mérope, dont elle rendoit, il est vrai, le récit supérieurement; mais tout le reste fort mal. Effectivement, elle affectoit un air et un ton de premier rôle, qui ne conviennent point au caractère simple d’Isménie. Rien ne dénote donc le défaut de jugement de la part d’un Acteur, comme cette inexactitude des convenances dans chaque caractère» (Jean-Nicolas Servandoni, dit D’Hannetaire, Observations sur l’art du comédien, pp. 292-293).

Capitolo XV §

[commento_15.2] Sulla natura individuale delle passioni, che prendono forme differenti a seconda del carattere del personaggio, si veda quanto affermato da Riccoboni: «les mêmes passions ne rendent pas les Hommes semblables, au contraire, les differens caractères des Hommes rendent la même passion différente dans chaque Homme: tous les Hommes peuvent être amoureux; mais chaque Homme est amoureux à sa façon, et cette façon dépend du caractère, qui domine en lui, et qui est plus ou moins alteré par ces passions accidentelles, suivant qu’il est plus, ou moins propre à résister à leurs impressions» (Luigi Riccoboni, Dissertation sur la tragédie moderne, in Id., Histoire du Théâtre Italien, depuis la décadence de la Comédie Latine, cit., pp. 303-304).

[commento_15.4] Per quanto riguarda la figura di Nerone, la tragedia di Racine a cui si fa riferimento è il Britannicus (1669), mentre quella alfieriana è l’Ottavia (1783). A proposito della figura di Oreste, Salfi allude invece a Le Coefore (458 a.C.) di Eschilo e all’Andromaque (1668) di Racine.

[commento_15.7] La critica ad Alfieri è presente anche all’interno del Ristretto della Letteratura italiana, sede in cui viene ulteriormente sviluppata. Salfi sottolinea come egli attinga per i suoi caratteri al mito e alla storia, per poi trasporli su un piano ideale, con l’effetto di «collocarli al di sopra della specie umana, o piuttosto della generazione attuale» (Francesco Saverio Salfi, Ristretto della Storia della Letteratura Italiana, cit., vol. II, p. 254). Egli riconosceva all’astigiano una certa uniformità nella creazione dei caratteri, provocata dall’aver infuso troppo del suo io ai personaggi messi in scena: «La sola cosa che si può con ragione rimproverare all’Alfieri si è di aver mescolato un po’ troppo della sua tempra nella rifusione fatta di questi esseri, che ha voluto rappresentarci. Sembra qualche volta ispirar loro il proprio pensiero, piuttosto che esprimere il loro: ciò che viene a gettare una tinta un poco uniforme, soprattutto in certi personaggi» (ibid.)

[commento_15.8] L’interesse per la complessità e contraddittorietà dei caratteri, soggetti a uno sviluppo progressivo, era la parola d’ordine dei romantici, che vedevano nel rispetto delle unità un appiattimento del personaggio. A questo proposito si legga l’introduzione al trattato.

[commento_15.9] Salfi cita a partire dalla traduzione curata da Vittorio Alfieri. Si veda Gaio Sallustio Crispo, La guerra di Catilina, in Id., C. Crispo Sallustio tradotto da Vittorio Alfieri. Col testo latino a piè di pagine, Napoli, Stamperia dell’Ancora, 1836, p. 10.

Il Catilina di Crébillon risale al 1748, mentre quello di Voltaire al 1752.

[commento_15.11] Nei suoi Mémoires M.lle Clairon criticava l’esibizione di M.lle Gaussin nella parte di Rodogune: «Rodogune ama e l’attrice, dimentica che l’espressione del sentimento si modifica secondo il carattere e non secondo le parole, diceva questi versi con una grazia, un’ingenuità voluttuosa, giusta, secondo me per Lucinde nell’Oracle e non per Rodogune.» La Clairon sottolineava invece come nella propria esibizione ebbe l’ardire di discostarsi dall’interpretazione a cui il pubblico era abituato, e restituire a Rodogune il carattere con il quale era stata concepita: «Declamai quei versi con l’irritazione di una donna fiera che si vede obbligata a confessare di essere sensibile. Non ci fu un rifiuto, ma neanche un applauso: era bastevole per il mio tentativo. […] Sentii Duclos, dell’Académie française, dire, col suo tono di voce assertivo, che la tragedia era stata ben recitata, che avevo avuto degli ottimi momenti, ma che non dovevo pensare a recitare le parti tenere dopo mademoiselle Gaussin. Stupita da un giudizio così poco misurato, temendo l’impressione che avrebbe potuto produrre su tutti coloro i quali lo ascoltavano e spinta da un moto di collera, andai da lui e gli dissi: Rodogune, una parte tenera, signore? Una Parta, una furia che chiede ai suoi amanti la testa della loro madre e regina, una parte tenera? Ecco, certo, un bel giudizio!…» (Hippolyte Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale, cit., pp. 63-64);

Pierre Corneille, Rodogune, princesse des Parthes, in Id., Œuvres complètes, cit., I, 5, vv. 359-362, p. 422.

Capitolo XVI §

[commento_16.1] Oltre alla trattazione di Hume, ulteriore punto di riferimento per Salfi a proposito della mobilità del fenomeno passionale fu Henry Home, autore scozzese di un’opera di teoria estetica chiamata Elements of Criticism (1762), che risente delle riflessioni humiane risente. Salfi ne aveva preso conoscenza molto probabilmente attraverso la mediazione di Engel. La sezione quarta del capitolo II dell’opera è infatti dedicata alle Coexistent passions and emotions, nella quale sottolinea l’impossibilità di considerare le passioni unicamente nella loro individualità, dal momento che si contaminano continuamente l’una con l’altra: «To have a thorough knowledge of the human passions and emotions, it is not sufficient that they be examined singly and separately. As a plurality of them are sometimes felt at the same instant, the manner of their coexistence, and the effects thereby produced, ought also to be examined» (Henry Home, Elements of Criticism, Edinburgh, printed for A. Millar, London; and A. Kincaid and J. Bell, Edinburgh, MDCCLXIL, vol. 1, cap. II, part IV, p. 151).

[commento_16.2] Le modalità di coesistenza di passioni diverse, di transizione da una passione all’altra e da una passione di grado debole alla corrispondente di grado forte erano state indagate da Hume. Hume definisce i principi che regolano la coesistenza di più passioni insieme o il passaggio da una passione all’altra. Specifica ad esempio l’impossibilità, da parte dell’orgoglio e dell’umiltà, di convivere nello stesso momento, in quanto entrambe hanno per oggetto l’Io: una lo sublima, l’altra lo sminuisce. Al massimo si può verificare la transizione dall’una all’altra, ma la coesistenza è negata (David Hume, Trattato sulla natura umana, cit., p. 557, par. 278). Dunque il passaggio da una passione all’altra può sintetizzarsi in questi termini: «[…] quando due passioni pongono la mente nella stessa disposizione, o in disposizioni simili, questa passa con molta naturalezza da una all’altra: come, al contrario, un contrasto di disposizioni ostacola il passaggio delle passioni» (ivi, p. 683, par. 343). Oltre alle differenze di genere, occorre considerare le differenze di grado. Il passare da una passione di grado forte a una di grado debole si rivela non privo di ostacoli. Hume sottolinea come il sovrapporsi di una passione all’altra spesso non faccia che accrescere la passione dominante, anche se tra di esse manca una relazione. Fornisce così vari esempi per certificare la sua ipotesi: mostra come le gelosie e i litigi nell’amore finiscano per alimentarlo; o come la paura e il terrore in un soldato coraggioso non facciano che aumentarne il coraggio (ivi, p. 831, par. 420). Questo è particolarmente evidente quando si trovano a scontrarsi passioni di segno opposto: «Si può infatti osservare che un’opposizione fra passioni di solito provoca una nuova emozione negli spiriti animali, e produce più disordini che al convergere di due affezioni di uguale forza. Questa nuova emozione si converte facilmente nella passione predominante, e accresce la sua violenza oltre il livello a cui sarebbe arrivata se non avesse incontrato alcuna opposizione» (ivi, p. 833, par. 421).

Riassumendo, si può affermare che: «le passioni contrarie si susseguono quando sono provocate da oggetti differenti; una distrugge l’altra se provocate da due lati diversi dello stesso oggetto; coesistono mescolandosi se dipendono dalle possibilità contrarie insite a ciascun oggetto» (ivi, p. 875, par. 443).

[commento_16.5] Gli scatti da un tono all’altro, all’interno di una medesima battuta, non devono apparire bruschi, ma seguire la progressione graduale della passione. Salfi si scontra con il pregiudizio secondo il quale, al culmine del sentimento, debba corrispondere l’innalzamento della voce verso i toni più acuti. Discendere «all’ottava grave e inferiore» non equivale niente affatto a smorzare il sentimento, ma anzi può conferirgli nuova forza e, in più, allontanare la voce dal rischio di inoltrarsi in «tuoni strani e pericolosi». La medesima obiezione veniva formulata anche da Planelli a proposito dell’opera in musica: «Comparve, poco tempo è, sopra uno de’ più illustri Teatri d’Europa una valente Cantatrice, dotata di voce sì acuta, che non avea forse avuta mai la pari in questo genere. Costei con una voce da calderino si tirò la maraviglia di tutti; ma non altro poté ottenere che maraviglia. Quella sua voce non solamente era incapace di servire alla drammatica passione, ma non appagava né pur l’orecchio» (Antonio Planelli, Dell’opera in musica, cit., p. 126).

[commento_16.8] Lucio Anneo Seneca, Medea, in Id., Tragedie, a cura di Giancarlo Giardina, con la collaborazione di Rita Cuccioli Melloni, Torino, UTET, 1987, p. 286, v. 166;

Pierre Corneille, Horace, in Id., Œuvres complètes, cit., III, 6, p. 260;

Voltaire, Zaïre, in Id., The Complete Works of Voltaire. 1731-1732, 8, Oxford, The University of Oxford, 1988, IV, 2, p. 492.

Jean Racine, Mithridate, in Id., Théâtre complet, cit., III, 5, p. 701.

[commento_16.10]«Roscio non recita mai con quel gesto con cui potrebbe, il verso: Il saggio pretende come premio per la sua virtù l’onore, non il guadagno, anzi recede con la voce, cosicché al successivo:Ma che vedo? La sacra sede quello occupa cinto d’armi possa precipitarsi, sgranare gli occhi, meravigliarsi e restare attonito. E quell’altro attore famoso: Che aiuto potrò chiedere? recita quanto più dolcemente e placidamente possibile, senza alcun eccesso nel gesto, per poi incalzare: O padre, o patria, o casa di Priamo! Verso cui una così impressionante azione drammatica non potrebbe suscitare emozioni, se fosse stata consumata nel movimento precedente, e per questo esaurita. E gli attori non se ne accorsero certo prima dei poeti stessi, né di coloro che composero la musica; entrambi infatti assumono un tono basso, che dopo aumentano, attenuano, gonfiano, variano e sfumano» (Marco Tullio Cicerone, De oratore, cit., Libro III, 26, 101-102, pp. 314-317).

[commento_16.12]«Afin qu’elle pût prendre facilement un ton à l’octave au-dessus de celui sur lequel elle avoit dit ces paroles: Nous nous aimions, pour prononcer à l’octave, Seigneur, vous changez de visage. Ce port de voix extraordinaire dans la déclamation, étoit excellent pour marquer le désordre d’esprit où Monime doit être dans l’instant qu’elle apperçoit que sa facilité à croire Mithridate, qui ne cherchoit qu’à tirer son secret, vient de jetter, elle & son amant dans un péril extrême» (Jean-Baptiste Du Bos, Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, cit., p. 144-145).

[commento_16.15]«Partoriranno i monti, nascerà un ridicolo topo» (Quinto Orazio Flacco, Arte poetica, in Id., Le opere. II. Le satire. Le epistole. L’arte poetica, cit., v. 139, pp. 932-933).

[commento_16.18] Il contatto tra una passione e l’altra deve così dare vita a una terza passione che indica la coesistenza tra le due, finché la dominante non abbia annichilito l’altra. Salfi sottolinea come la resa di questi passaggi intermedi sia interamente nelle mani dell’attore, perché si tratta di gradazioni impercettibili che il poeta non riuscirebbe a tratteggiare con le parole. È dunque alla performance che viene destinato il compito di colmare lo spazio bianco lasciato tra una parola e l’altra, tra un sentimento e l’altro, per consentire il naturale sviluppo del carattere. La dilatazione della temporalità che i romantici ottenevano infrangendo le unità, poteva così essere ottenuta se trasposta unicamente nella resa scenica. L’attore poteva prolungare la durata di una battuta tramite i silenzi, e, a ogni gesto, far corrispondere una progressione del sentimento. Laddove il poeta sottomesso ai vincoli della classicità doveva fermarsi, subentrava l’attore, in grado di mostrare agli spettatori il percorso interno vissuto dai personaggi interpretati, rendendo manifesti quei nessi passionali, quella coesistenza di sentimenti che l’autore aveva elaborato nella mente e che lì aveva serbati.

Capitolo XVII §

[commento_17.1] Finora Salfi ha considerato l’attore nella sua fisionomia individuale, come se lo spazio della scena fosse un luogo deserto, sede di una serie ininterrotta di monologhi. Non bisogna dimenticare che il primo motore del teatro è il dialogo tra personaggio e personaggio, tra corpo e corpo, e allora la scena diviene un luogo di incontro o di scontro tra gli interessi e le passioni che guidano la condotta dei singoli. L’attitudine individuale non può restare impermeabile al contatto con gli altri interlocutori.

[commento_17.4] Il «celebre attore» di cui parla è Baron. L’episodio era raccontato da Marmontel: «On sait, par exemple, avec quelle finesse d’intelligence et de sentiment, Baron, dans le début de Mithridate avec les deux fils, marquoit son amour pour Xipharès, et sa haine contre Pharnace» (Jean-François Marmontel, Déclamation théâtrale, cit., p. 82). E, sull’interpretazione dello stesso Baron ne La Mort de Pompée, si legga: «Dans la Mort de Pompée, Baron jouant César entrait chez Ptolomée comme dans sa salle d’audience, entouré d’une foule de courtisans qu’il accueillait d’un mot, d’un coup d’œil, d’un signe de tête. Beaubourg, dans la même scène, s’avançait avec la hauteur d’un maître au milieu de ses esclaves, parmi lesquels il semblait compter les spectateurs eux-mêmes, à qui son regard faisait baisser les yeux» (ivi, p. 79).

[commento_17.5] Pierre Trochon, sieur de Beaubourg (1662-1725), fece il suo debutto alla Comédie nel 1691, prendendo il posto di Baron che aveva abbandonato le scene. A proposito dell’eccessiva enfasi della sua recitazione, Lemazurier scrive: «[…] son jeu était outré, ses gestes forcés, sa déclamation peu naturelle, ses inflexions désagréables» (Pierre-David Lemazurier, Galerie historique des acteurs du théâtre français depuis 1600 jusqu’à nos jours, tome premier, Paris, Joseph Chaumerot, MDCCCX, p. 124).

[commento_17.6] La necessità da parte dell’attore di ignorare il pubblico in sala era stata sottolineata da Diderot in diversi luoghi dei suoi scritti. Già nell’ambito della critica d’arte, egli aveva mostrato la sua preferenza per pittori quali Greuze e Van Loo, che raffiguravano i loro soggetti assorbiti dalle loro attività, inconsci di essere osservati. Questa tecnica, che Michael Fried identifica con il nome di absorbement, si traduce sulla scena in un’attitudine di indifferenza che, secondo Diderot, l’attore deve mostrare nei riguardi del parterre, mostrandosi completamente assorto da un’attività o da un dialogo che richiede tutta la sua attenzione. Michael Fried, La Place du spectateur, traduit de l’anglais par Claire Brunet, Paris, Gallimard, 1990.

[commento_17.7] La recitazione in posizione non frontale era un punto che aveva generato scontri in sede di dibattito teatrale, di cui è testimonianza ben nota lo scambio epistolare tra Madame Riccoboni e Diderot. La lettera in questione è datata 27 novembre 1758 e venne scritta dalla moglie di François in seguito alla lettura del manoscritto de Le Père de famille. L’attrice manifesta la sua disapprovazione per una recitazione di spalle, adducendo a motivo la perdita dell’espressività del viso: «La position des acteurs, toujours debout, toujours tournés vers le parterre, vous paraît gauche, mais ce gauche est nécessaire pour deux raisons. La première, c’est que l’acteur qui tourne assez la tête pour voir dans la seconde coulisse, n’est entendu que du quart des spectateurs. La seconde, c’est que dans une scène intéressante, le visage ajoute à l’expression; qu’il est des occasions où un regard, un mouvement de tête peu marqué fait beaucoup; où un souris fait sentir qu’on se moque de celui qu’on écoute, ou qu’on trompe celui auquel on parle; que les yeux levés ou baissés marquent mille choses; et qu’à trois pieds des lampes un acteur n’a plus de visage» (Marie-Jeanne Riccoboni, Lettre de Madame Riccoboni, actrice du Théâtre-Italien, auteur des Lettres de miss Fanny Butler et du Marquis de Cressy à Monsieur Diderot, in Denis Diderot, Œuvres complètes, par J. Assézat, tome VII, Paris, Garnier Frères, 1875, p. 396). Ancor prima di Diderot, era stato Goldoni, nel suo Teatro comico (1750), comédie des comédiens, a mostrare la sua predilezione per una recitazione spontanea, che concedesse all’attore di dare le spalle al pubblico. Nella commedia gli attori di una troupe, guidati dal capo-comico Orazio, sono rappresentati nel corso delle prove per la messa in scena de Il padre rivale del figlio, ancora legata all’universo della comicità dell’arte. Sin dall’inizio della pièce tuttavia, Goldoni immerge il pubblico in una modalità di declamazione del tutto innovativa, dal momento che i due personaggi sulla scena, Orazio e Eugenio, cominciano a parlare prima che le tende del sipario siano state del tutto tirate su (la didascalia recita: «S’alza la tenda, e prima che interiamente sia alzata, esce»). Inoltre, essi mostrano le spalle agli spettatori, come evidenzia l’insistenza della didascalia verso la scena. Queste annotazioni sottolineano il fatto che, dialogando sul palco, i due attori fanno conto che il pubblico non sia lì. (Carlo Goldoni, Il teatro comico, in Id., Tutte le opere di Carlo Goldoni, a cura di Giuseppe Ortolani, Milano, Mondadori, 1959, vol. 2, I, 1, p. 1049.)

[commento_17.9] Si veda la scena di apertura de Le Père de famille: «Sur le devant de la salle, on voit le Père de famille qui se promène à pas lents. […] Un peu sur le fond, vers la cheminée qui est à l’un des cotés de la salle, le Commandeur et sa nièce font une partie de trictrac. — Derrière le Commandeur, un peu plus près du feu, Germeuil est assis négligemment dans un fauteuil, un livre à la main. […]» (Denis Diderot, Le Père de famille, in Id., Denis Diderot, Œuvres. Esthétique — Théâtre, édition établie par Laurent Versini, Paris: Robert Laffont, 1996, tome IV, I, 1, p. 1198).

[commento_17.12] Non è un caso allora che il soggetto della sua ultima opera tragica, la Francesca da Rimini, sarà proprio l’amore. Salfi intuisce nel dispiegamento della passione amorosa la possibilità di conferire maggior impatto al messaggio ideologico. Un individuo affetto da amore, e di un amore colpevole agli occhi del mondo, sarebbe infatti risultato più umano agli spettatori. Di conseguenza, anche i sentimenti politici di cui si faceva portavoce, sarebbero apparsi più condivisibili, dal momento che ad esprimerli non era un eroe, ma un uomo con le debolezze che l’umanità porta con sé. L’individuazione nel binomio amore-politica di un tramite per veicolare il messaggio civile ad un pubblico più vasto va inquadrata nei rivolgimenti politici del tempo, che lasciano intuire il ruolo determinante che il popolo avrebbe potuto svolgere all’interno del processo di unificazione nazionale. La scelta di Salfi di seguire le tracce di Pellico, travolto da un incredibile successo di pubblico con la sua Francesca da Rimini, messa in scena nel 1815, va dunque letta in funzione dell’imperativo a coinvolgere nuovi interlocutori. La tragedia mostra dunque un volto inedito dell’autore cosentino, che, senza abbandonare la vena anticuriale della produzione precedente, si avvia a nuove sperimentazioni. Lo slittamento verso la sfera intima dell’individuo, manifestato già in germe nella Virginia bresciana, ci mostra un’incredibile capacità di introspezione del tragediografo, che può essere letta in parallelo all’attenzione manifestata nel Della declamazione per lo sviluppo delle passioni.

[commento_17.13] Siamo ormai lontani dall’epoca in cui la nobilitazione dell’arte dell’attore passava per il parallelo con l’oratoria. Salfi è estraneo dal voler conferire al teatro una dignità acquisita per riflesso, e la distinzione tra l’attore, chiamato a esprimere passioni che il personaggio vive in quell’istante, e l’oratore è ormai chiara. Sui rapporti tra declamazione e retorica si veda Marc Fumaroli, Héros et orateurs. Rhétorique et dramaturgie cornéliennes, Genève, Droz, 1996.

[commento_17.15] Vittorio Alfieri, Antigone, in Id., Tragedie, cit., IV, 1, p. 143.

Salfi si servirà di questa tecnica di ascendenza alfieriana in grado di mimare uno scambio rapido di battute attraverso la frantumazione del verso anche all’interno della propria scrittura tragica. Si veda Francesco Saverio Salfi, Virginia bresciana, in Id., Teatro giacobino, a cura di Rosanna Serpa, Palermo, Palumbo Editore, 1975, III, 5, p. 69; ivi, IV, 2, p. 73.

[commento_17.16] Vittorio Alfieri, Virginia, in Id., Tragedie, a cura di Luca Toschi, Introduzione di Sergio Romagnoli, Firenze, Sansoni Editore, 1985, V, 3, p. 368.

[commento_17.17] Vittorio Alfieri, Agamennone, in Id., Tragedie, cit., III, 2, pp. 217-218.

[commento_17.18] Vittorio Alfieri, Agamennone, in Id., Tragedie, cit., IV, 1, pp. 228-229.

[commento_17.19] Vittorio Alfieri, Filippo, in Id., Tragedie, II, 5, cit., p. 36.

[commento_17.20] Per un approfondimento della versificazione alfieriana, si veda Gian Luigi Beccaria, I segni senza ruggine. Alfieri e la volontà del verso tragico, in «Sigma», IX, n. 1-2, 1976, pp. 107-151.

Capitolo XVIII §

[commento_18.1] Luigi Riccoboni dedicava all’arte del tacere un capitolo apposito, il sesto, all’interno del testo Dell’arte rappresentativa: «Tu credi, comediante, che sia un gioco / quando hai parlato il doverti tacere, / mentre il compagno dal gracchiar vien roco. / Or io pretendo, e tel farò vedere, / che mai non fosti in più grande imbarazzo / d’alora che uditor déi comparere» (Luigi Riccoboni, Dell’arte rappresentativa, cit., cap. VI, vv. 16-21, p. 77).

[commento_18.3]«La seconda regola, che gl’inglesi scrittori osservano poco più della prima si è che niuna persona debba mai comparir sulla scena o partirne, senza una qualche apparente ragione. Non vi ha cosa più goffa, e più contraria all’arte, di quello che un attore si presenti senza altro motivo, se non che importava al poeta ch’ei comparisse precisamente in quel punto, o parta senz’altra ragione di ritirarsi, fuorchè il poeta non aveva più altre parole da porgli in bocca» (Hugh Blair, Lezioni di retorica e belle lettere di Ugone Blair Professore di Retorica e Belle Lettere nell’Univ. Di Edimburgo, tradotte dall’inglese e commentate da Francesco Soave, Milano, Presso Ferdinando Baret, tomo II, pp. 290-291).

[commento_18.4] A proposito della critica al dramma per musica, si rimanda al testo L’autore al pubblico premesso a Clitemnestra, dove Salfi mette in luce la tendenza diffusa di tali produzioni teatrali a rivolgere attenzione unicamente a quei fattori che destino diletto (canto e decorazione), piuttosto che al testo e al messaggio da trasmettere al pubblico (Francesco Saverio Salfi, L’autore al pubblico in Id., Clitemnestra, in Salfi librettista, a cura di Francesco Paolo Russo, cit., p. 343).

[commento_18.5] William Shakespeare, Cymbeline, in Id., Œuvres dramatiques de Shakespeare, traduites de l’anglais par Letourneur, tome XII, Lavigne, Libraire, 1836, III, 3, p. 844.

[commento_18.6] Jean Racine, Athalie, in Id., Théâtre complet, édition d’Alain Viala et Sylvaine Guyot, Paris, Classiques Garnier, 2013, III, 5, p. 1047. A questo proposito si veda anche quanto affermato nel paragrafo Il Tempo da François Riccoboni ne L’arte del teatro: «Quando dovete rispondere a colui che ha appena parlato, esaminate se ciò che dovete dirgli è di una natura tale che non possa provenire che da un moto che il suo discorso ha appena prodotto nel vostro animo, subitamente, e senza preparazione. Più questo moto deve sembrare improvviso e più è necessario che la vostra risposta sia preceduta da una pausa. Poiché, quando siamo sorpresi da un sentimento imprevisto, il nostro animo si riempie d’un colpo di un gran numero di idee, ma non le distingue con la stessa velocità. Esso resta per qualche momento impacciato di fronte alla scelta dell’idea che deve determinarlo; infine l’idea che prende maggiormente dominio su di noi è quella che ci trasporta; allora tutte le altre svaniscono e noi esprimiamo con forza il sentimento da cui siamo dominati» (François Antoine Valentin Riccoboni, L’arte del teatro, cit., p. 199).

[commento_18.7]«Ekhof, già incurvato dall’età, non dimenticava mai quando interpretava personaggi orgogliosi, ciò che il carattere del personaggio esigeva; ancora dietro le quinte, fintantoché l’occhio dello spettatore riusciva a scorgerlo, teneva la cervice ritta; quindi tornava improvvisamente ad essere l’ometto gobbo e raggrinzito che era e che tutto si sarebbe pensato potesse essere fuorché un attore» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 461).

[commento_18.9] Jean Racine, Bajazet, in Id., Théâtre complet, cit., V, 4, p. 632;

Jean Racine, Iphigénie, in Id., Théâtre complet, cit., II, 2, p. 766.

La citazione dall’Iphigénie trovava spazio anche in Marmontel: «L’expression des yeux et du visage est l’âme de la déclamation: c’est là que les passions vont se peindre en caractères de feu; c’est de là que partent ces traits qui nous pénètrent, lorsque nous entendons dans Iphigénie, Vous y serez, ma fille» (Jean-François Marmontel, Déclamation théâtrale, cit., p. 39).

L’aneddoto su Garrick era riportato in nota nella traduzione francese del dramma: «M. Garrick dit que dans ce moment terrible, il s’étoit senti pâlir sous son crêpe noir, et qu’il avoit entendu un frémissement de terreur dans toute l’assemblée» (William Shakespeare, Othello, ou le More de Venise, in Id., Shakespeare traduit de l’anglois, dédié au Roi, tome premier, Paris, M.DCC.LXXVI, p. 126, n. I).

La battuta dell’Antigone a cui si fa rimento è: «Odimi Ipseo (Gli favella alcune parole all’orecchio. In Vittorio Alfieri, Antigone, in Id., Tragedie, cit., V, 4, p. 165.

[commento_18.15] Impossibile, tramite il termine «quadri», non richiamare alla mente i tableaux di Diderot, nella doppia declinazione di tableau comble e tableau stase, tra espressione delle passioni e espressione delle condizioni. Per le due nozioni si veda Pierre Frantz, L’Esthétique du tableau dans le théâtre du xviiie siècle, cit. Tuttavia Salfi non fa menzione esplicita del filosofo francese, probabilmente in virtù dell’ostilità per il genere del dramma borghese. I suoi richiami provengono dunque dall’orizzonte dei classici. Salfi menziona inoltre i quinti atti alfieriani, in cui all’ostensione del corpo in scena si doveva accompagnare un’adeguata reazione da parte degli altri personaggi, spettatori interni del dramma, chiamati, al pari degli spettatori in sala, a contemplare la catastrofe. Sull’argomento si veda Beatrice Alfonzetti, Il corpo di Cesare: percorsi di una catastrofe nella tragedia del Settecento, Modena, Mucchi, 1989).

Questo tipo di orchestrazione veniva sperimentata anche all’interno di un altro orizzonte, quello del coreodramma, genere portato alla ribalta da Salvatore Viganò, coreografo e pantomimo che compariva tra gli interlocutori nel Dialogo sulle unità drammatiche di Visconti nelle pagine del Conciliatore. Non è un caso che il suo genio venga caldamente lodato nella dedica Al signor conte Luigi Porro Lambertenghi della traduzione delle Lettere di Engel da parte del Rasori. In essa si rievocano le migliori interpretazioni del Viganò, tra cui quella del Coriolano, messo in scena alla Scala nel 1804: «Dopo lunghi anni, pieni di tante e sì gravi vicende, che nell’abbondanza e nel tumulto loro mi si confondono e mi si cancellano quasi dalla mente, ho ancora dinanzi agli occhi vegeto e fresco il Coriolano, e tutti dipinti, che gli esprimerei colla matita, i bei gruppi e le attitudini varie, commoventi parlanti, della gran scena ultima tra la madre e il figlio alle porte di Roma» (Giovanni Rasori, Al signor conte Luigi Porro Lambertenghi, in Johann Jakob Engel, Lettere intorno alla mimica, versione dal tedesco di G. Rasori, aggiuntovi i capitoli sull’arte rappresentativa di L. Riccoboni, Milano, presso Batelli e Fanfani, 1820, p. XV). L’espressione i bei gruppi e le attitudini varie richiama il talento del Viganò nel dare vita a composizioni corali in cui il gesto si presentasse come individualizzato, seppur in comunicazione con i gesti altrui. Sulla figura di Salvatore Viganò si veda Ezio Raimondi, Il coreografo perduto, in Id., Le pietre del sogno. Il moderno dopo il sublime, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 123-157.

All’interno della Drammaturgia d’Amburgo Lessing, paragonando la comparsa di un fantasma nell’Amleto di Shakespeare e nella Semiramide di Voltaire, sosteneva che l’autore francese non avesse considerato che il terrore nello spettatore non nasce dalla visione del meraviglioso, ma dalla contemplazione dell’effetto che il meraviglioso ha sui personaggi: «Se Voltaire avesse fatto un po’ di attenzione ai gesti e atteggiamenti degli attori, si sarebbe dato ragione, anche da un altro punto di vista, della opportunità di far apparire un fantasma davanti agli occhi di una grande folla. Tutti devono esprimere paura e orrore nel momento stesso in cui lo scorgono, e tutti in maniera differente, se non si vuole che la scena abbia la gelida simmetria di un balletto» (Gotthold Ephraïm Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, cit., p. 62). Salfi aveva sperimentato questa tecnica all’interno del dramma per musica Saulle, rappresentato al Teatro del Fondo di Napoli nel 1794. La scena undicesima del secondo atto si apre infatti sulla seguente didascalia: «Tutti si compongono nelle attitudini del terrore e della sorpresa. Saulle cade a terra spaventato, e tosto si dilegua la visione» (Francesco Saverio Salfi, Saulle, in Salfi librettista: studi e testi, a cura di Francesco Paolo Russo, cit., II, 11, p. 271). Saulle e gli astanti si connotano così come spettatori interni di una scena alla quale anche il pubblico sta assistendo, e si fanno portatori delle reazioni che l’autore auspicava dalla sala. La comparsa spettacolare di Samuele si verificava anche all’interno di un’altra tragedia, della quale è possibile che il Salfi avesse avuto lettura: il Saulle (1788) di Francesco Ringhieri, ecclesiastico dedito al teatro originario di Imola. La didascalia che apre la scena settima del secondo atto recita infatti: «Samuele, che sorge improvvisamente dalla terra vestito di un lungo purpureo Manto, che mirasi diviso in due parti. All’apparir di Samuele cadono rovesciate sull’Ara le immagini di Plutone, e delle Furie infernali, fuggono i seguaci di Tanatea, ed ella, abbandonando la face, palpita alla vista di Samuele» (Francesco Ringhieri, Saulle, tragedia del Padre Francesco Ringhieri monaco ulivetano. In Padova MDCCLXI, nella Stamperia Conzatti. Con Licenza de’ superiori, atto II, scena 20, p. 20).

Capitolo XIX §

[commento_19.1] A questo proposito, Alfieri rispondeva alle critiche di chi reputava inverosimili i suoi soliloqui in questo modo: «Circa all’inverosimile, io non lo credo tale: ed io senza esser persona tragica, parlo spessissimo solo: ed anche che io non parli con bocca, parlo con la mente, ed alle volte per fino dialogizzo con altri. Ma lasciamo andar questo; chi crederà per esempio, che un uomo che medita di ucciderne un altro, non possa parlar da sé: e chi non vede anzi, che ogni uomo, che medita una terribile impresa, dev’essere solo, e non fidare in nessuno?» (Vittorio Alfieri, Parere sulle tragedie, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche, cit., p. 331).

[commento_19.2] Sulla difficoltà di interpretare i soliloqui si era soffermato anche Goldoni nel Teatro comico:

ORAZIO. — Signor Lelio, con chi intendete di parlar?

LELIO. — Non vedete ch’io recito?

ORAZIO. — Capisco che recitate; ma recitando con chi parlate?

LELIO. — Parlo da me stesso. Questa è un’uscita, un soliloquio.

ORAZIO. — […] Pare che venghiate in iscena a raccontare a qualche persona dove siete stato.

LELIO. — Ebbene, parlo col popolo.

ORAZIO. — Qui vi voleva. E non vedete, che col popolo non si parla? Che il comico deve immaginarsi, quando è solo, che nessuno lo senta e che nessuno lo veda? Quello di parlare è un vizio intollerabile e non si permette in verun conto.

(Carlo Goldoni, Teatro comico, in Id., Tutte le opere di Carlo Goldoni, cit., III, 2, p. 1089.)

[commento_19.7] Il gesto di Lady Macbeth era stato menzionato anche da Diderot come esempio di sublimità del linguaggio di azione: «[…] parce qu’il y a des gestes sublimes qui toute l’éloquence oratoire ne rendra jamais. Tel est celui de Mackbett dans la Tragédie de Shakespeare. La somnambule Mackbett s’avance en silence et les yeux fermés sur la scène; imitant l’action d’une personne qui se lave les mains, comme si les siennes eussent encore été teintes du sang de son Roi qu’elle avait égorgé il y avait vingt ans» (Denis Diderot, Lettre sur les sourds et les muets, in Id., Œuvres philosophiques, édition publiée sous la direction de Michel Delon, avec la collaboration de Barbara de Negroni, Paris, Gallimard, 2010, p. 208).

La traduzione del secondo monologo viene tratta da Ranieri Calzabigi, Lettera al Signor Conte Vittorio Alfieri sulle quattro sue prime tragedie, in Id., Scritti teatrali e letterari, a cura di Anna Laura Bellina, Roma, Salerno, 1994, vol. I, pp. 224-225.

[commento_19.8]«OTELLO. Giacere con lei! Giacere su di lei! Noi diciamo “giace” anche di chi è immobile per sempre. Giacere con lei! Cristo, che schifo! Il fazzoletto — confessione — il fazzoletto! Farlo confessare e poi impiccarlo per quello che ha fatto», William Shakespeare, Otello, in Id., Teatro completo di Shakespeare. Le tragedie, vol. IV, cit., IV, 1, p. 453.

[commento_19.9] A proposito di Salfi traduttore di Shakespeare, si legga quanto scritto da Renzi sulla fuga del cosentino da Napoli verso Capri nel 1794, in seguito all’accusa di aver partecipato alla congiura giacobina dello stesso anno: «[…] malgré les inquiétudes qui venaient à tout moment l’assaillir, Salfi trouva moyen d’exercer son esprit en traduisant en vers italiens les tragédies de Shakespeare» (Angelo Maria Renzi, Vie politique et littéraire de F. S. Salfi par M. A. Renzi, cit., p. 15).

[commento_19.10] Joseph Addison, Cato, a Tragedy by Mr. Addison: Il Catone, Tragedia del Signore Addison, Tradotta da Anton Maria Salvini Gentiluomo fiorentino, In Firenze, MDCCXXV, Nella Stamperia di Michele Nestenus, Con lic. de’ Super., V, 1, pp. 143-146.

[commento_19.11] Jean Racine, Phèdre, in Id., Théâtre complet, cit., I, 3, p. 843.

[commento_19.13] Jean Racine, Andromaque, Id., Théâtre complet, cit., III, 8, p. 262.

[commento_19.14]«GIOCASTA: […] Ma, chi altronde mi appella? Un fragor odo, / che inorridir fa Dite: ecco di brandi / Suonar guerriero. O figli del mio figlio, / O figli miei, feroci ombre, fratelli, / Duran gli sdegni oltre la morte? O Lajo, / Deh! dividili tu. — Ma al fianco loro / Stan l’Eumenidi infami!… Ultrice Aletto, / Io son lor madre; in me il vipereo torci / flagel sanguigno: è questo il fianco, è questo, / Che incestuoso a tai mostri diè vita. / Furia, che tardi?… Io mi t’avvento… […]» (Vittorio Alfieri, Polinice. Testo definitivo e redazioni inedite, a cura di Carmine Jannaco, Asti, Casa d’Alfieri, 1953, V, 3, p. 87);

«ORESTE: O sacra / tomba del re dei re, vittima aspetti? / L’avrai.» A queste parole fanno seguito le battute di Elettra e Pilade («ELETTRA: Che dice? / PILADE: Io non l’intesi»). In Vittorio Alfieri, Oreste, in Id., Tragedie, cit., II, 2, p. 287;

«ORESTE: Ove son io? Che feci?… / chi mi trattien?… chi mi persegue?… […]» a cui fa seguito la constatazione di Elettra: «Ahi misero fratello!… / Già più non ci ode; […]» (ivi, V, 13, p. 353).

«SAUL: Ombra adirata, e tremenda, deh! cessa: / Lasciami, deh!… Vedi: a’ tuoi piè mi prostro… / Ahi! dove fuggo?… Ove mi ascondo? O fera / Ombra terribil, plàcati… Ma è sorda / Ai miei preghi; e m’incalza?… Apriti, o terra, / Vivo m’inghiotti… Ah! pur che il truce sguardo / Non mi saetti della orribil ombra» (Vittorio Alfieri, Saul, in Id., Tragedie, cit., V, 3, pp. 445-446.

[commento_19.15]«CLITEMNESTRA: «Dal punto in poi, quel sanguinoso spettro / e giorno e notte orribilmente sempre / sugli occhi stammi. Ov’io pur muova, il veggo / di sanguinosa striscia atro sentiero / precedendo segnarmi […]». (Vittorio Alfieri, Oreste, in Id., Tragedie, cit., I, 2, p. 263).

Per il sogno di Athalie si veda Jean Racine, Athalie, in Id., Théâtre complet, cit., II, 5, pp. 1021-1023.

Capitolo XX §

[commento_20.1] Per un inquadramento della questione si veda Renzo Guardenti, Il costume teatrale: un lento cammino verso il realismo, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, a cura di Roberto Alonge, Guido Davico Bonino, cit., pp. 1163-1193.

[commento_20.2] Talma, attore di riferimento per Salfi, aveva dimostrato un interesse inedito per il teatro francese dell’epoca rispetto alla veridicità dei costumi. Il 17 novembre 1790 egli comparirà sulle scene del Théâtre de la Nation in toga romana, braccia e gambe scoperte, per ricoprire fedelmente il ruolo del tribuno Proculo in occasione di una replica del Brutus di Voltaire. Nelle Réflexions egli alluderà all’incongruenza dei costumi nelle messe in scena del suo tempo scrivendo: «Je me rappelle très bien que dans mes jeunes années, en lisant l’histoire, mon imagination ne se représentait jamais les princes et les héros que comme je les avais vu au théâtre. […] Je voyais César serré dans un bel habit de satin blanc, la chevelure flottante et réunie sous les mœurs de rubans» (François-Joseph Talma, Réflexions sur Lekain et l’art théâtral, édition établie et présentée par Pierre Frantz, Paris, Éditions Desjonquères, 2002, p. 36). La sostituzione di belletti, parrucche e abiti da petit maître con la veste da antico romano era qualcosa di più che una semplice riforma estetica dettata dalla volontà di congruenza storica. Era la fine di un’era, dentro e fuori la scena, e l’inizio di un tempo in cui il corpo dell’attore sarebbe diventato il veicolo per messaggi rivoluzionari. Sulle implicazioni rivoluzionarie del denudamento del corpo dell’attore, si rimanda a Denis Guénoun, Le Dénudement: une invitation à la lecture de Talma, «Les Temps modernes», n. 534, janvier 1991, pp. 44-69. Per uno studio approfondito sull’attore si veda: Mara Fazio, François-Joseph Talma: le théâtre et l’histoire de la Révolution à la Restauration, traduit de l’italien par Jérôme Nicolas, Paris, CNRS éditions, 2011.

Nell’ambito del teatro tragico italiano, l’interesse per la verosimiglianza dei costumi è precedente rispetto all’orizzonte francese. Si pensi alla lettera dedicatoria del Giulio Cesare (1726) di Antonio Conti, nella quale si legge: «Se mai si volesse rappresentare sul teatro questa Tragedia, bisogna che gli attori sieno vestiti alla foggia Romana. Nel terzo volume de’ Monumenti antichi del Padre Montfaucon si possono vedere le forme delle toghe, e la maniera di portarle» (Antonio Conti, A Sua Eminenza il Signor Cardinale Bentivoglio D’Aragona, in Id., Le quattro tragedie composte dal Signor Abate Antonio Conti patrizio veneto dedicate a S. E. il signor conte Emanuele di Richecourt, In Firenze, MDCCLI, appresso Andrea Bonducci. Con licenza de’ superiori, vol. I, p. 348).

[commento_20.3] Pier Jacopo Martello, Della tragedia antica e moderna. Dialogo di Pier Jacopo Martello, cit., p. 172. A proposito della Clairon, si legga quanto l’attrice scrive nelle sue Memorie: «Desidero, innanzi tutto, che con grande rigore si evitino tutti gli abiti e tutte le mode del tempo. La pettinatura delle Francesi, nel momento in cui scrivo, la massa di capelli e le mostruose acconciature danno al loro insieme una sproporzione scioccante, denaturandone le fisionomie, nascondono il movimento del collo e conferiscono un’aria avventata, goffa, rigida e sconcia. L’unica moda da seguire è il costume della parte interpretata» (Hippolyte Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale, cit., p. 138).

«chiamati o amici, ad osservare il quadro, vi tratterreste dal riso?» (Quinto Orazio Flacco, Arte poetica, in Id., Le opere. II. Le satire. Le epistole. L’arte poetica, cit., v. 5, pp. 922-923.)

[commento_20.4]«Je fus le premier qui osai paraître en vrai romain; j’osai le premier supprimer les grands cheveux et la poudre» (Jean Larive, Cours de déclamation, cit., vol. II, p. 397).

[commento_20.9] Salfi si riferisce qui alla tendenza dei primi attori di ostentare abiti lussuosi sulla scena, oscurando gli attori secondari.

[commento_20.10] Sulle inverosimiglianze della scena si legga: Francesco Algarotti, Saggio sopra l’opera in musica, Livorno, MDCCLXIII, Per Marco Coltellini in Via Grande, pp. 59-70.

[commento_20.13] L’interesse per la struttura fisica dell’edificio teatrale, determinante per la resa scenica, era viva anche in un autore come Foscolo che, sul Giornale del Lario, il 28 agosto 1813 pubblicava un articolo intitolato Sul nuovo teatro di Como, nel quale, pur lodando la costruzione, esprimeva alcune critiche al riguardo. Tra queste, la preoccupazione che l’apertura della scena fosse troppo vasta e rischiasse di non far arrivare le voci degli attori sino alla platea. Al contrario, veniva apprezzata la scelta di posizionare i palchetti in modo che da ognuno fosse visibile la scena, e di eliminare i palchetti in proscenio, che «[…] rammettendosi come una nuova fabbrica tra la scena e l’orchestra, rompono l’illusione, e lasciano sovente vedere una finta principessa che recita da innamorata accanto una dama che nel palchetto del proscenio fa veramente all’amore col suo cicisbeo» (Ugo Foscolo, Sul nuovo teatro di Como, in Prose politiche e letteraria dal 1811 al 1816, vol. VIII, a cura di Luigi Fassò, Edizione Nazionale delle Opere, Firenze, Le Monnier, 1933, p. 371).

[commento_20.14] Salfi sottolinea come nella pianificazione della struttura del teatro gli architetti debbano essere guidati da criteri di funzionalità: in primo luogo devono far in modo che l’acustica sia tale da far pervenire la voce dell’attore a tutti gli spettatori; in secondo luogo, l’edificio deve essere strutturato in maniera da permettere una buona visuale da qualsiasi punto della sala. Dietro questi dettagli materiali si cela un’idea estremamente democratica di teatro, che riecheggia delle proposte fatte in epoca giacobina, le quali auspicavano a un teatro specchio della rivoluzione che si voleva attuare in società. Tra i punti cardine, un certo numero di spettacoli gratuiti perché anche il popolo accorresse, e l’abolizione di logge e palchetti. Sull’argomento si veda Paola Bignami, L’edificio teatrale: estetica e razionalità, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, a cura di Roberto Alonge, Guido Davico Bonino, pp. 977-996.

Capitolo XXI §

[commento_21.1] All’epoca in cui Salfi scrive il trattato Della declamazione, l’apprendimento integrale della parte non costituiva un requisito indispensabile per l’attore, complice il fatto che, per fini commerciali, il repertorio subiva un continuo aggiornamento e che gli spettacoli non venivano allestiti che in pochi giorni. Per questo le proposte da lui formulate a proposito di tale soggetto, che ai nostri occhi potrebbero apparire scontate, vanno inquadrate in un orizzonte spettacolare ancora dominato dal suggeritore, figura professionale che si era resa quanto mai necessaria con la fine del sistema della comicità dell’arte, in cui prevaleva la recitazione all’impromptu.

[commento_21.5] Lo studio individuale della parte rientrava già nella prassi scenica del tempo, seppure solitamente, per motivi di tempo e per scarso sviluppo delle facoltà mnemoniche (certo incoraggiato dalla presenza del suggeritore), non durava che poco tempo e si limitava alle proprie battute. Salfi sottolinea come l’attore, in presenza di dialogo, debba conoscere non solo la propria parte, ma anche quella dei suoi interlocutori, per non cadere in errore negli attacchi tra una battuta e l’altra. Non si trattava solo di orchestrare correttamente le parole, ma anche di concertare i momenti di silenzio, durante i quali l’attore avrebbe dovuto sapere adattare velocemente la propria fisionomia all’effetto generato dalla risposta dell’interlocutore. Le riforme proposte da Salfi mostrano notevole vicinanza con quelle promosse da Ekhof in seno alla Theatralische Akademie: «la necessità che l’attore studiasse non solo la propria parte, come allora accadeva, ma l’intero copione, l’obbligo di far precedere sistematicamente ogni spettacolo da una serie di prove, la subordinazione dei singoli elementi all’impostazione generale» (Paolo Chiarini, Introduzione a Gotthold Ephraïm Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, cit., p. XXII). Si legga anche quanto scritto da Noverre a proposito di Garrick: «Garrick avoit une mémoire imperturbable Le souffleur étoit pour lui une machine étrangère, dont il ne connissoit ni l’usage, ni l’utilité. Cette faculté prodigieuse devoit nécessairement lui procurer cette aisance, et cette sécurité si essentielle au jeu de l’acteur, qui, dans le cas contraire, se trouve perpétuellement embarrassé» (Jean-Georges Noverre, Lettres sur Garrick, écrites à Voltaire par M. Noverre, in Jean Étienne François Marignié, Vie de David Garrick, suivie de deux lettres de M. Noverre à Voltaire sur ce célèbre acteur et de l’histoire abrégée du théâtre anglais depuis son origine jusqu’à la fin du xviiie siècle, Paris, de l’Imprimerie de H. L. Perronneau, p. 134).

[commento_21.6] Il suggeritore, tramite un effetto di raddoppiamento della parte, infrange ogni illusione, ricordando allo spettatore che si trova in una sala di teatro e che lo spettacolo non è altro se non artificio. Per questo Pellico, nel tessere le lodi di Carlotta Marchionni, la Francesca da Rimini dell’omonima tragedia messa in scena al Teatro Re di Milano nel 1815, mette in luce il fatto che l’attrice avesse rigettato l’uso del suggeritore (Lettera al fratello Luigi, Milano, 18 luglio 1815, in Silvio Pellico, Lettere milanesi (1815-1821), a cura di Mario Scotti, Torino, Loescher, 1963, p. 18).

[commento_21.8] Du Bos, nel suo tentativo di ricostruzione dello spettacolo nell’antichità, si sofferma sulla spartizione che gli attori facevano del gesto e della voce, affermando che fossero due gli attori ad andare in scena, uno destinato a declamare, l’altro a eseguire i gesti corrispondenti. L’origine di questa pratica era stata raccontata da Tito Livio a proposito di Livio Andronico che, stanco dei continui bis domandati dal pubblico, aveva lasciato declamare al suo schiavo mentre lui continuava a eseguire i gesti (Jean-Baptiste Du Bos, Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, troisième partie, cit., pp. 174-175).

[commento_21.9] Si legga quanto scrive Larive a proposito della novità del suo metodo di insegnamento della declamazione nella prefazione: «Jusqu’à présent personne n’a pensé à indiquer, comme je l’ai fait, les tons, les intonations et les nuances qui composent la déclamation, et l’on doit convenir qu’il n’y a qu’une manière de dire et de lire avec justesse et précision. Je m’appuierai d’une faible autorité: c’est de celle de ma femme, qui n’est pas née française, et qui ne s’est servie que de mes cahiers pour apprendre à dire des vers d’une manière correcte et pure» (Jean Mauduit, dit Larive, Cours de déclamation, tome second, première partie, Paris, chez Delaunay, 1810, s.n.).

Du Bos aveva trattato la questione della notazione della declamazione, presumibilmente praticata dagli antichi. Nonostante i pregiudizi legati alla presunta meccanicità che ne deriverebbe, egli sottolinea come tale pratica non impedisse (né impedirebbe, se trovasse nuovamente spazio) di lasciare il terreno libero per la manifestazione del genio del singolo attore, perché non tutto può essere annotato con precisione; né questo provocherebbe la freddezza dell’interprete, che avrebbe comunque la possibilità di emozionarsi e emozionare (Jean-Baptiste Du Bos, Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, troisième partie, cit., pp. 309-323). Come fa notare Claudio Vicentini, «In questo modo Du Bos si trova inconsapevolmente all’avanguardia di quanti, tendenzialmente antiemozionalisti, reagiscono nel corso del settecento alla crisi del rapporto tra oratoria e recitazione teatrale riformulando il codice vocale e gestuale corrente, irrimediabilmente schiacciato nei limiti dell’actio» (Claudio Vicentini, Du Bos e la recitazione teatrale, in Jean-Baptiste Du Bos e l’estetica dello spettatore, a cura di Luigi Russo, Palermo, Supplemento al periodo Aesthetica Preprint edito dal Centro Internazionale Studi di Estetica, p. 85).

D’Hannetaire, nelle sue Observations, sosteneva che la dizione dovesse essere fissata per ogni parte, creando così un bacino di tradizione a cui attingere, e negando l’esistenza di stili diversi adeguati a interpretare uno stesso carattere: «De nos jours, la meilleure récitation ainsi fixée et transmise par la tradition, auroit tous les avantages de la déclamation notée, sans en avoir les inconvéniens» (Jean-Nicolas Servandoni, dit D’Hannetaire, Observations sur l’art du comédien, cit., p. 44).

[commento_21.10] Luigi Riccoboni adduceva a un uso troppo ossessivo dello specchio la perdita di ogni spontaneità e la tendenza a sviluppare una gestualità rigida. Rivolgendosi all’ipotetico lettore-attore del suo poema, gli chiede se, nella vita quotidiana, ci fosse forse uno specchio che lo indirizzasse nei suoi movimenti: «chi ti consiglia quando in casa o in strada / parli con varie sorti di persone?» (Luigi Riccoboni, Dell’arte rappresentativa, cit., cap. II, p. 59, vv. 89-90). L’invito è allora a affidarsi alla Natura maestra, piuttosto che a uno studio troppo sistematico che sottrarrebbe di verosimiglianza alla recita. Riccoboni sembra tuttavia contraddirsi nel cap. IV, quando consiglia, a chi non riesca a emozionarsi sulla scena: «Abbi dunque uno specchio a te davante / e, per arte forzando i sensi tuoi, / o senti o fallo credere all’astante; / e la tanto vantata ignota a noi / arte mimica cerca, pensa, inventa / e sia fittizio il ver, s’altro non puoi» (ivi, cap. IV, p. 69, vv. 136-141). A questo proposito si esprimeva anche Riccoboni fils: «Oltre a ciò, guardatevi bene, Signora, dal recitare davanti ad uno specchio per studiare i vostri gesti; questo metodo è il padre dell’affettazione: bisogna sentire i propri movimenti e giudicarli senza vederli» (François Antoine Valentin Riccoboni, L’arte del teatro, introduzione, traduzione e note a cura di Emanuele De Luca, Napoli, «Acting Archives Review», novembre 2015, p. 174).

[commento_21.11] L’ausilio dello specchio è dunque auspicabile nel lavoro propedeutico per la messa in scena dei quadri, in cui la funzione individualizzante assegnata al gesto, corrispettivo di una specifica reazione del personaggio a un evento straordinario, richiede una preparazione particolare. In queste circostanza, è bene che la prova sia fatta in costume, perché l’interazione con l’abito di scena può contribuire a far risaltare l’espressività del movimento.

«più volte trattiene la voce, e nascondendosi con la veste il viso per la vergogna sospira». In Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi. Testo a fronte, a cura di Piero Bernardini Marzolla, con un saggio di Italo Calvino, Torino, Einaudi, 2015, Libro X, 421, pp. 406-407.

[commento_21.17] Sulle dieci prove auspicate da Alfieri: «Costoro non hanno mai neppure per ombra contentato nessuna persona di senso e di gusto […] perché avean fatto due o tre sole prove, e male, in vece di dieci esatte che bisognavano» (Vittorio Alfieri, Parere sull’arte comica in Italia, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche, cit., p. 244);

«Infatti la scioltezza della lingua, il movimento del corpo, il respiro hanno bisogno, per essere migliorati, non della teoria, ma dell’allenamento» (Marco Tullio Cicerone, De oratore, cit., Libro I, 34, 156, pp. 62-63).

Capitolo XXII §

[commento_22.1] La fiducia che Salfi riponeva nelle potenzialità educatrici del genere tragico e, più in generale, del teatro, appare manifesta se ci considera il corpus drammatico dell’autore, orientato verso soggetti di chiara attualità politica. Già all’interno del Saggio di fenomeni antropologici relativi al tremuoto, trattato composto attorno al 1783, relativo agli effetti che un cataclisma naturale, come il terremoto che aveva investito le Calabrie quello stesso anno, potesse avere sulla popolazione, egli aveva discusso del ruolo centrale svolto dai «trattenimenti sensibili» (Francesco Saverio Salfi, Saggio di fenomeni antropologici relativi al tremuoto, Napoli, MDCCLXXXVII. Per Vincenzo Flauto. Con licenza de’ superiori. A spese di Michele Stasi, p. 145). Salfi assegnava agli spettacoli non soltanto la capacità di distrazione delle masse, ma soprattutto di istruzione contro le superstizioni: per questa ragione «[…] il Poeta non dovrebbe perdere di veduta il secolo la nazione e più la sua patria» (ivi, p. 150). Significativo appare allora il paragone che egli instaura all’interno della memoria Dell’utilità della F. Massoneria sotto il rapporto filantropico e morale tra catarsi tragica e ritualità massonica: «Quando Aristotele diceva, che lo spettacolo drammatico servisse a purgare le passioni, egli non diceva altro, che lo spettacolo delle passioni altrui servisse potentemente a corregger le proprie» (Francesco Saverio Salfi, Dell’utilità della F. Massoneria sotto il rapporto filantropico e morale, cit., p. 19). Nel rito massonico, come nel rito tragico, l’uomo, facendo esperienza della «morte massonica», risorgeva a nuova vita, dando avvio a un cammino di perfezionamento e purgazione. Non è un caso che tra gli emblemi della simbologia massonica comparisse la fenice, l’uccello che, dopo la morte risorge dalle sue ceneri.

[commento_22.2] Euripide, Supplici, introduzione e traduzione di Umberto Albini, note di Fulvio Barberis, Milano, Garzanti, 2009, vv. 180-183, p. 76.

[commento_22.3] La critica agli apparati troppo maestosi sembra ricordare certe sue polemiche indirizzate contro la tendenza generalizzata dei drammi per musica dell’epoca, in cui l’ostentazione della ricchezza della scena e lo sfruttamento di elementi estriseci al dramma, non era funzionale all’azione, ma ad un’effimera presa sullo spettatore. Si legga ad esempio quanto scritto nel Saggio di fenomeni antropologici relativi al tremuoto: «Io non fui, che ammaliato alla prima dalle più superbe decorazioni dellle machine più ingegnose dalla musica più toccante, in una parola, da tutto quel mostruoso rendevous di vedute incantatrici ma isolate, e che sembrano non aver veruno attacco fra loro» (Francesco Saverio Salfi, Saggio di fenomeni antropologici relativi al tremuoto, cit., p. 154, nota b).

[commento_22.4] La necessità di giudicare le qualità performative in base a dei criteri oggettivi, senza lasciare offuscare la critica all’attore dal carisma della sua figura, era già presente in D’Aigueberre. Egli sottolineava allora come fosse del tutto inadeguata la lode che, nella cornice di finzione del suo testo, faceva pronunciare da uno dei commensali nei confronti di un’attrice, in quanto questi invalidava il suo giudizio contaminando il parere critico con l’invaghimento che provava nei confronti della donna: «[…] la conversazione ben presto si fece vivace e uno dei Normanni, invaghito di una delle nostre attrici, volle a ogni costo che tutti fossero d’accordo nel giudicare ammirevole la sua declamazione». In Jean Dumas d’Aigueberre, Seconda lettera del suggeritore della Comédie di Rouen al garzone del caffè, ovvero conservazione sui difetti della declamazione, cit., p. 230.

[commento_22.5] Certe critiche pronunciate in questa sede da Salfi mostrano una certa vicinanza con quelle che egli rivolgeva, dalle colonne del Termometro politico della Lombardia, ai cantanti del dramma per musica, sempre pronti a cogliere di sorpresa il pubblico con i loro virtuosismi, inclini maggiormente a mettere in risalto le proprie capacità piuttosto che a concentrarsi sull’espressione del sentimento. A questo proposito si leggano le osservazioni sul castrato Crescentini: «Di fatto il pubblico non applaudiva, che là dove Crescentini giuocava del gorguzzolo, come un ballerino giuoca di gamba sulla corda. Una volata, un gorgheggio, uno sforzo di arte non fanno che sorprenderci per un momento, e tosto ci lascian freddi ed indifferenti come prima. […] Se il cantante in vece di di sorprendere (e la sorpresa non è mai successiva e di lunga durata) commovesse il cuore degli ascoltanti, allora questi non avrebbero né il tempo, né la libertà di applaudire» (Sul presente spettacolo del teatro della Scala, n. 52, 30 dicembre 1797, in Termometro politico della Lombardia, cit., vol. 3, p. 403).

L’episodio del suonatore Ippomaco, tratto dalle Storie varie di Eliano (Libro XIV, cap. VIII), veniva riportato anche da Engel: «Bene spesso quando il teatro risuona di applausi fragorosi, vorremmo bisbigliare all’orecchio dell’attore che esce di scena le parole che una volta il suonatore di flauto Ippomaco disse a uno dei suoi allievi: «Hai suonato male: se no questa gente non ti elogerebbe»» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 476).

Jacques-Henri Meister, Lettres sur l’imagination, Paris, chez Lemierre libraire, 1799, pp. 162-163.

[commento_22.7]«Dove infelice recarmi? Dove rifugiarmi? In Campidoglio, dove scorre il sangue di mio fratello? O a casa, per assistere allo spettacolo di una madre infelice e prostrata dal dolore?» (Marco Tullio Cicerone, De oratore, cit., Libro III, 56, 214, pp. 364-365.)

[commento_22.8] L’aneddoto su Condé veniva riportato da Napoli Signorelli: «Si sono renduti assai memorabili pel pubblico plauso e per le lagrime del gran Condè i versi dell’ultima scena […]» (Pietro Napoli Signorelli, Storia critica dei teatri antichi e moderni, cit., tomo V, p. 12);

«Alessandro, tiranno di Fere (solo così conviene chiamarlo anche per non disonorare il nome di Alessandro), assistendo alla recita di un attore tragico, fin troppo compreso nella sua parte, fu mosso a pietà dal piacere. Balzato dunque in piedi, si allontanò dal teatro più di corsa che a passo normale, dicendo che era intollerabile veder piangere sulle sventure di Ecuba e Polissena colui che faceva uccidere tanti cittadini» (Plutarco, La fortuna o la virtù di Alessandro Magno, Seconda orazione, introduzione, edizione critica, traduzione e commento a cura di Maria Rubina Cammarota, Napoli, M. D’Auria Editore, 1998, II, 1, 334a, p. 113).

Salfi parla con cognizione della proscrizione del genere tragico, dal momento che aveva potuto sperimantala sulla sua stessa pelle nell’anno 1794 a Napoli, dove regnava un clima di sospetto da parte del potere monarchico nei confronti delle logge massoniche, culminato nella congiura ordita, fra gli altri, dal ventunenne pugliese Emmanuele De Deo, membro della neonata Società Patriottica Napoletana, che venne repressa nel sangue. A questo proposito Beatrice Alfonzetti nota, a partire dall’analisi di uno schizzo di Francesco Lapegna che ritrae Salfi mentre declama il Timoleone di Alfieri nel 1794, come la lettura in circoli private di tragedie dai forti contenuti politici andasse a sopperire l’impossibilità della rappresentazione: «Il verbo “declamare” è usato dalla didascalia collocata in basso, quasi a sottolineare, secondo i valori semantici del tempo, la stretta affinità con un certo tipo di recitazione — si pensi infatti alla pratica assai diffusa della lettura tragica — nella quale sembra impegnato Salfi» (Beatrice Alfonzetti, Teatro e tremuoto. Gli anni napoletani di Francesco Saverio Salfi (1787-1794). Nuova edizione rivista e ampliata, cit., p. 181).

Capitolo XXIII §

[commento_23.1] Come è già stato osservato nella nostra Introduzione al trattato, l’impostazione pedagogica del Della declamazione ne fa un documento del processo di stabilizzazione che stava vivendo il teatro dell’epoca, con la costituzione delle prime cattedre di declamazione e la creazione delle prime compagnie privilegiate. Il progetto di apertura di una scuola pubblica, che insegnasse all’attore non solo i rudimenti del mestiere, ma anche la storia, la poesia, la morale e la lingua italiana, si inscrive così in un contesto più ampio di rivalutazione sociale e morale del ruolo dell’attore. Se l’esperienza del Teatro Patriottico aveva rivelato la funzione civile che le scene erano chiamate a svolgere, finiti i fuochi della rivoluzione era apparsa quanto più impellente la necessità di creare un settore di professionisti moralmente irreprensibili e il cui mestiere non fosse frutto di improvvisazione, ma di uno studio approfondito. La condanna plurisecolare che aveva gravato sugli attori, considerati alla stregua di ciarlatani e gente di malaffare, si tramutava così nel tentativo di sviluppare le potenzialità educative dell’evento teatrale.

Salfi negli anni dell’esilio parigino aveva inoltre potuto acquisire esperienza tangibile del sistema teatrale francese, improntato su una netta divisione tra compagnie privilegiate e le altre compagnie relegate ai margini. In epoca napoleonica in Francia aveva inoltre visto la luce il Conservatoire impérial de musique et de declamation di Parigi, scuola di lirica e declamazione sovvenzionata dallo Stato.

[commento_23.4] Alfieri sostiene la necessità per gli attori «[…] di saper parlare e pronunziare la lingua toscana; cosa, senza di cui ogni recita sarà sempre ridicola. E, prescindendo da ogni disputa di primato d’idioma in Italia, è certo che le cose teatrali sono scritte, per quanto sa l’autore, sempre in lingua toscana; onde vogliono essere pronunziate in lingua e accento toscano. E se in Parigi un attore pronunziasse in un teatro una sola parola francese con accento provenzale o d’altra provincia, sarebbe fischiato, e non tollerato, quando anche fosse eccellente per la comica» (Vittorio Alfieri, Parere sull’arte comica in Italia, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche, cit., p. 241). Le citazioni proposte all’interno del Della declamazione potevano dunque assolvere anche al compito di proporre un modello linguisticamente positivo in un tempo in cui non si parlava l’italiano, ma i dialetti. Se nel genere comico l’uso del dialetto poteva giocare a favore delle rappresentazioni, questo non avveniva nel caso del tragico, che richiedeva l’uso dell’italiano letterario, ossia il toscano. Sulla questione si veda: Teatro e spettacolo nel primo Ottocento, a cura di Claudio Meldolesi, Ferdinando Taviani, Bari, Laterza, 1991, pp. 136-137.

[commento_23.5] A questo proposito si legga quanto scritto da Talma: «Ce n’est que lorsque notre célèbre David parut, qu’inspirés par lui, les peintres et les sculpteurs et surtout les jeunes gens parmi eux, s’occupèrent de ces recherches. Lié avec la plupart d’entre eux, sentant toute l’utilité dont cette étude pouvait être au théâtre, j’y mis une ardeur peu commune. Je devins peintre à ma manière» (François-Joseph Talma, Réflexions sur Lekain et l’art théâtral, cit., pp. 36-37).

[commento_23.6] Il riferimento alla danza era fondamentale per François Riccoboni. Si veda quanto scritto ne L’arte del teatro: «Se si facesse attenzione al modo in cui un uomo è costruito, si vedrebbe che non è mai più comodamente posizionato, e con più certezza ben disegnato, che quando, poggiandosi in egual misura su entrambi i piedi, poco distanti l’uno dall’altro, egli lascia cadere le braccia e le mani dove il loro peso le porta naturalmente; è ciò che si chiama, in termini di danza, essere alla seconda posizione, le mani sulle tasche» (François Antoine Valentin Riccoboni, L’arte del teatro, cit., p. 173). Si legga inoltre quanto affermato dalla Clairon: «Per camminare armoniosamente, per presentarsi con signorilità, per gesticolare con grazia e facilità, per avere sangue freddo ed equilibrio, per non mostrare mai atteggiamenti contrari alla natura è indispensabile studiare a fondo la danza nobile e figurata, bisogna assolutamente evitare d’imparare a eseguire dei passi e di assumere l’aria atteggiata del ballerino, ma il resto della sua arte è di grande necessità» (Hippolyte Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale, cit., p. 141).

[commento_23.7] A questo proposito si tenga a mente il parallelo instaurato tra musica e declamazione da Engel. Si legga inoltre quanto scritto da M.lle Clairon: «Senza pretendere di approfondire la musica, bisogna apprendere gli elementi per conoscere l’estensione della propria voce, per rendere facilmente ogni intonazione, per evitare le discordanze, per graduare i suoni, sostenerli, variarli e per dare agli accenti acuti o lamentosi la giusta modulazione. Senza questo studio è quasi impossibile interpretare bene Corneille: è così grande o così comune che, in mancanza di una notevole sicurezza delle proprie intonazioni, si corre il rischio di apparire o grandioso o triviale» (Hippolyte Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale, cit., p. 141).

[commento_23.12] Con il termine Morale Salfi intende qui che l’attore deve padroneggiare nozioni di filosofia morale.

[commento_23.13] Il riferimento all’eloquenza come materia di studio separata testimonia l’affrancamento che la declamazione aveva ormai compiuto dalla retorica.

[commento_23.14] La sezione del trattato dedicata alla pronunciazione vocale, con l’esposizione dei rudimenti del sistema di versificazione, poteva certo assolvere a guida per l’attore che si inoltrasse nello studio di tale materia.

[commento_23.15] A proposito dell’Edipo di La Motte, Signorelli scriveva: «In effetto egli purga quest’argomento tanto dell’episodio degli amori di Teseo e Dirce, alieni dall’avventura di Edipo, introdotto con mal consiglio dal padre del teatro francese, quanto di quello non meno eterogeneo della galanteria di Filottete che con rincrescimento si legge nell’Edipo del Voltaire» (Pietro Napoli Signorelli, Storia critica dei teatri antichi e moderni, cit., vol. V, p. 80);

« Tout le monde se rappelle encore les refus obstinés des acteurs, quand Voltaire faisait représenter Zaire. Toutes les portes lui étaient fermées. Un seul homme parvint à les faire ouvrir. Cet habile négociateur, à qui Voltaire ou plutôt la France doit le grand succès de Zaire, était un pâtissier». In Mémoires de M.lle Dumesnil, en réponse aux Mémoires d’Hippolyte Clairon, revus, corrigés et augmentés d’une notice sur cette comédienne par M. Dussault, Paris, Chez Ponthieu, Libraire, 1823, p. 100.

[commento_23.16] I versi a cui si fa riferimento sono i seguenti: «Et vous, rentrez ma fille, et du moins à mes lois / Obéissez encor pour la dernière fois» (Jean Racine, Iphigénie, in Id., Théâtre complet, cit., IV, 4, p. 797).

Capitolo XXIV §

[commento_24.1]«Je désirerais qu’il pût être établi entre nous, à des époques désignées, des séances consacrées à la lecture de Mémoires instructifs, non seulement sur les vices généraux de la représentation théâtrale, mais sur les fautes de langue, sur les contresens, et sur la manière d’entendre bien ou mal tels et tels rôles dont la tradition serait malheureusement perdue, et que l’on ne peut retrouver que par des réflexions profondes, ou un tact fin et délicat». (Henri-Louis Caïn, detto Lekain, Observations soumises à M. de La Ferté, in François-Joseph Talma, Mémoires de Lekain, précédées de réflexions sur cet acteur, et sur l’art théâtral, par M. Talma, Paris, chez Étienne Ledoux, Libraire, 1825, pp. 185-186). La proposta di Sulzer è nota a Salfi tramite Engel, che l’aveva estratta dalla voce «Pantomime» contenuta nel testo Allgemeine Theorie der schönen Künste: «Sulzer avrebbe voluto che qualcuno si dedicasse all’analisi critica di un cospicuo numero di singole scene, con particolare riguardo alla pantomima che si conviene alle differenti situazioni» (Johann Jakob Engel, Lettere sulla mimica, cit., p. 367).

[commento_24.2]«Non nasconderò che univo un’illimitata vanità al desiderio giusto e naturale di godere di uno status più onesto; il mio talento non può né descriversi né rappresentarsi, se ne perde l’idea con i miei contemporanei […]». (Hippolyte Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale, cit., p. 55).

[commento_24.3] Ecco cosa scrive Cornelio Nepote a proposito della sconfitta di Agesilao da parte di Cabria: «Il fatto ottenne tanta fama in tutta la Grecia, che Cabria volle essere ritratto in quell’atteggiamento nella statua che gli Ateniesi gli eressero nella piazza a spese pubbliche. Di qui l’abitudine, invalsa tra atleti e artisti, di adottare nelle raffigurazioni statuarie, quella posa con la quale avevano ottenuto la vittoria» (Cornelio Nepote, Liber de excellentium ducibus exterarum gentium, in Id., Opere, a cura di Leopoldo Agnes, Torino, UTET, 1977, XII, I, 3, pp. 176-177).

[commento_24.4] Promuovendo la creazione di un’Accademia direttrice che, mediante critiche scritte o materiale figurativo, sviluppasse un sistema di archiviazione e divulgazione degli elementi di maggior pregio di ogni performance, Salfi intendeva oltrepassare una lacuna intrinseca all’arte della declamazione, ossia l’assenza di una tradizione a cui l’attore potesse fare riferimento per ispirarsi.

[commento_24.7] Un simile progetto appare già in nuce negli scritti di critica teatrale di Salfi contenuti all’interno del Termometro politico della Lombardia che, più che soffermarsi su aspetti legati al testo, si concentrano sui meriti o i vizi emersi nell’ambito della performance.