Francesco Fontanella

1806

Corso di mitologia, utilissimo agli amatori della poesia, pittura, scultura, etc. Tomo I

2019
Francesco Fontanella, Corso di mitologia, utilissimo agli amatori della poesia, pittura, scultura, etc. ridotto da D. Francesco Fontanella, tomo I, Venezia, Appresso Simone Occhi, 1806, in-8, 455-[1] p.. PDF : Google.
Ont participé à cette édition électronique : Infoscribe (saisie, TEI-XML) et Nolwenn Chevalier (édition TEI).
{p. 3}

Introduzione. §

Se col volgere degli anni si videro di quando in quando anche le Scienze pressochè tutte a rinovazioni e progressi andar soggette ; onde sempre più raffinate comparveto e degne d’ammirazione ; non v’ ha dubbio che a’ giorni nostri, piucchè in altro tempo mai, così le Belle-Lettere si coltivano, e la venustà, l’eleganza, e’l buon gusto così oramai se ne accrebbero, che nuove del tutto potrebbono giudicarle l’Età trascorse. Non saprei però, se finalmente oggidì ciascuna di esse fosse da risguardarsi come a tale grado di perfezione ridotta ; che più non abbisognasse di lavoro alcuno. Tale per certo non è la Mitologia, il di cui studio è poi sì necessario a costituire l’uomo erudito ; e capace di ravvisare molti preziosi avanzi della più rimota Antichità. Di fatti se nell’ applicarsi a qualsivoglia Scienza quell’ordine prima di tutto conviene seguire ; il quale a guisa di luminosa face suole guidare agevolmente il nostro intelletto all’acquisto di ogni più sublime e difficile cognizione ; questa esattezza d’ordine non venne fin’ora osservata dalla maggior parte di quegli Scrittori, che nella nostra Italiana favella ci trasmisero la serie de’ vetusti Favolosi avvenimenti. E’ vero, che {p. 4}questi, qualora sieno alfabeticamente esposti, possono con tutta facilità offrirsi agli occhi di chi or l’uno or l’altro vuole separatemente conoscere ; ma che altro riesce poi la lettura de’ medesimi, se non imperfetta, confusa, pesante, e nojosa a chiunque imprenda a coltivarla secondo quella relazione, che gli stessi Fatti hanno tra loro ? Era dunque necessario, che le Favole eziandio a tale sistema si riducessero, per cui cosi concatenate risultassero, che potessero acquistarsi il nome di Mitologica Istoria. Ciò da alcuni già si fece ; ma l’opra loro non è poi così abbastanza compita, che non ci lasci privi di molte e molte interessanti cognizioni. Al difetto loro pertanto tentai di supplirvi io : non che abbracciando siffatto argomento in tutta la sua estensione, v’abbia introdotta una connessione di Fatti in forma di perpetua, nè mai interrotta narrazione : disegno sarebbe stato questo impossible ad eseguirsi, attesa la confusione, in cui ogni cosa a noi pervenne : siffatto lavoro bensi intrapresi, per cui riducendo tutte le Favole ad un ragionato ordine, non omettessi nel tempo stesso di soddisfare anche a quelli, che bramosi di leggere o questa solamente o quella, niente delle altre si curano. In tre Parti perciò è quest’ Opera divisa : nella prima si descrivono le Maggiori Divinità, e delle Minori pure per mezzo di Annotazioni al fine di ogni Capo, onde non interrompere il {p. 5}filo della lettura, si ragiona ; nella seconda gli Eroi più celebri vengono indicati, e degli altri ancora con Note per lo più si fa parola ; nella terza finalmente trattasi delle Virtù e de’ Vizj, de’ Beni e de’ Mali di questa vita, secondochè furono dal Gentilesimo divinizzati. I Misterj poi e le Ceremonie, con cui si onoravano que’ pretesi Numi ; gli Oracoli e le Divinazioni, che si riconobbero dalle Pagane Genti ; I Sacerdoti, gl’ Indovini, le Vestali, le Sibille, e i Ministerj loro ; le Feste, i Giuochi, i Sacrifizj, le Vittime, gli Altari, i Tempj, i sacri Boschi, e le Statue ; queste ed altre filologiche nozioni verranno quà e là indicate, in guisa però, che non resti mai violata quell’unità di disegno, a cui mira la tessitura della presente Istoria. L’indice alfabetico per ultimo, descritto nel fine della medesima, sarà oppertuno, affinchè si possa avere qualunque Mitologica nozione, anche separatamente presa.

Che se tra le Belle-Lettere alcune ve ne sono, il di cui principalissimo oggetto è quello di costituire lo spirito virtuoso ; la Mitologia al certo, facendoci ammirare quanto di bello la Grecia spezialmente e il Lazio cantarono in versi, o in tela dipinsero, o in marmo incisero, potrobbe riuscire mezzo efficacissimo a svellere dal cuore il vizio, e a spargervi in vece il seme delle più nobili virtù ; ma quali e quanti non sono poi i racconti dalla Mitologia medesima {p. 6}offerti agli occhi nostri, i quali direttamente ne combattono e impediscono il bramato effetto ? Basta leggere i Santi Padri della nostra Chiesa per intendore quanto eglino piangevano sull’esecrande laidezze, che i Poeti andavano narrando de’ loro Numi, e ch’eglino stessi non potevano non avere altamente in orrore. Era d’uopo pertanto, che con inflessibile severità distinguendosi l’utile dal nocivo, si desse que sto ad un eterno obblio, mentre se ne risvegliava la piacevole ricordanza di quello. Questo è ciò, di che c’instruiva anche M. Rollin, quando trattava della Maniera d’insegnare e studiare le Belle--Lettare ; ed è questo appunto lo scopo spezialissimo, a cui tende quest Opera. Vedrà ognuno, che quanta dili genza quì si coltiva, onde non omettere alcuna Favola, atta a promuovere i grandi oggetti del piacere e dell’utilità, altrettanto di attenzione vi si usa, affinchè varie altre di quelle o si mostrino corrette riguardo alle licenziose espressioni, colle quali sino a’ giorni nostri vennero esposte, o sieno del tutto taciute, quando il descriverle altro effetto non avesse avuto a produrre, che la funesta depravazione dello spirito.

Nè fia che la taccia d’imperfezione sia per derivare alla presente Opera, p rchè spoglia comparisce di qualsivoglia spiegazione. Le rivoluzioni successivamente avvenute ne’ differenti paesi, il mescolamento {p. 7}de’ varj abitatori, la diversità della loro origine, la stoltezza e superstizione del volgo, il capriccio de’ Poeti, gli abbagli degli Etimologisti, l’iperbole sì familiare agli Entusiasti di ogni genere, tutto ciò concorse a stabilire la varia forma della Mitologia. Quindi fu questa sempre mai un vago sì, ma immenso e fertile terreno ; esposto indifferentemente a tutti, e dove tutti credettero di scuoprirvi ciò che le loro idee, o i loro particolari sistemi li conducevano a rintracciarvi. Il Fisico col mezzo dell’allegoria ebbe a vedervi indicati gli arcani più sublimi della Natura ; il Politico vi ritrovò le più raffinate direzioni de’ Governi ; chi vi riconobbe espressi i lumi della più pura Morale, e chi l’Istoria funesta degli errori dello spirito umano. Furonvi altresì alcuni, i quali co’ frequenti equivoci della Fenicia lingua cercarono lo scioglimento d’ogni Favoloso racconto ; altri si avvisarono di aver trovata la vera spiegazione delle Favole, mediante l’interpretazione degli Egiziani Geroglisici ; altri finalmente nelle gesta dell’Ebreo popolo le vestigia vi ravvisarono del Gentile Eroismo. Come dunque in così oscure materie, e in mezzo a tanta e sì yaria copia di giudizj e opposizioni altrui, come non avrebbesi a trovare vacillante e incerto il passo di chi volesse salire alla vera sorgente di siffatte Descrizioni ? La Pagana Teologia non è agli occhi delle persone sensate, che un tessuto di {p. 8}stravaganti idee, e un cumulo (come dice il saggio Fontenalle) di menzogne non meno strane, che manifeste. Il volerne rintracciare la spiegazione sarebbe lo steaso, che voler costituirsi interprete de’ sogni di chi delira. La migliore spiegazione (soggiunge Heyne) che far si possa delle Favole, è quella di presentarle quali furono, seguendone la traccia e le alterazioni dalla prima invenzione sino a noi. Anzichè dunque frammischiarvi nella presente Opera incerte interpretazioni, migliore impresa fia, che si coltivi (per quanto però è possibile) la semplice concatenazione delle materie ; che alla castigatezza del linguaggio si attenda nell’esporle ; e che inviolabilmente si osservino le leggi e i riguardi dell’onestà rapporto a quelle, che si oppongono alla purezza de’ costumi. Tutto ciò premesso, non mi resta a desiderare, se non che questo mio, qualunque siasi lavoro, a cui lio da varj anni consecrato i ritagli di tempo, che le altre occupazioni della vita mi lasciavano, possa servire di gradimento agli amatori delle Belle-Lettere.

{p. 9}

Istoria mitologica §

Parte prima

Degli dei §

nozioni preliminari. §

L’Uomo volontariamente divenuto cieco di mente in mezzo a’ più evidenti lumi della naturale ragione, ed empiamente costituitosi perverso di cuote, non ostante i possenti ajuti della Divina Grazia, perdette la giusta idea di quell’Ente unico e supremo, ch’è la causa prima efficiente, e regolatrice di tutte le cose. Quindi in tale esecrando eccesso di follia ei cadde, che non isdegnò di ammettere con apertissima contraddizione più Nature Divine, nè ebbe in orrore di tributare alle più vili creature quel culto, che soltanto dovea al Creatore. Pare, che gli Astri sieno stati il primiero oggetto dell’ Idolatria. Si passò quindi a riconoscere quali Divinità anche gli Elementi. Finalmente quanto, per così dire, v’ha nel mondo, le acque, le pietre, i metalli, i monti, le selve, gli alberi, gli animali, i morti uomini, tutto in somma si tenne per Dio, tranne il vero Dio. Varrone dice, che il numero de’ falsi Numi ascendeva a trenta mila ; e Plinio soggiunge, che più Dei si adoravano da’ Gentili, di quel che uomini v’avesseto sulla terra.

Le tante e sì diverse opinioni de’ sacri e profani {p. 10}Scrittori non lasciano stabilire con sicurezza chi di sì enormi delirj ne sia stato l’autore. Certo è, che l’Idolatria è quasi così antica, come lo è il mondo ; ed è parimenti fuori di ogni dubbio, ch’essa con tale e sì ampio corso si diffuse, che quelle sognate Deità ben presto si acquistarono quasi da per tutto immensa turba di adoratori. Queglino stessi, che saggi Filosofi erano creduti, mentre internamente deridevano il mostruoso ammasso di tante chimeriche Divinità, ad esse-poi con sacrilega mano bruciavano incensi, e supplici ricorrevano.

I principali Numi, venerati da’ Greci e da’ Romani, furono Saturno, Cibele, Cerere, Giove, Plutone, Apollo, Ecate, Bacco, Venere, Nettuno. Minerva, Marte, Vulcano, Mercurio, ed Esculapio. Dodici di questi si dissero Consenti, o perchè aveano il diritto di prestare il loro assenso alle deliberazioni di Giove(a), o perchè erano riputati assessori e consiglieri dello stesso Giove(b) : e in questo ultimo senso si denominavano anche Paredri. I nomi loro erano Giove, Giunone, Vesta, Minerva, Cerere, Diana, Venere, Marte, Mercurio, Nettuno, Vulcano, e Apollo. Furono secondo Erodoto(c) primi gli Egiziani a introdurre il culto a questi dodici Dei : di là passò poi nella Grecia, dove sino da’ tempi di Pisistrato fu loro dedicato in Atene un tempio. Adottarono questo culto anche i Romani, da’ quali i predetti Numi furono chiamati Dei maggiori, oppure Dei delle maggiori Genti. Si veneravano altresì le loro Statue nelle primarie Città della Grecia e del Lazio. Gli Ateniesi aveano loro alzato un altare, che appellavano l’altare de’ dodici(d). In onore degli stessi vennero istituite le {p. 11}Feste Consenzie, così dette dal consenso di molti, i quali si facevano ad anorare questi Dei, uniti insieme.

Gli Dei principali, benchè fossero da per tutto riconosciuti, e però detti Azoni, ossia Deità senza paese determinato e senza particolare culto, tuttavia in certi luoghi più spezialmente si onoravano. Gli altri poi non erano venerati che presso alcuni popoli, e quindi si denominarono Epicorj, Topici, ossia Locali, e Indigeti. Indigeti però si dicevano anche quelli, i quali, essendo nati uomini, erano stati poi divinizzati(a). I Romani innoltre ammisero tra’ loro Dei moltissimi di quelli delle altre Nazioni, e li chiamarono Aggiunti. V’erano pure appresso di loro gli Dei Novensili, e questi al dire di Varrone erano quelli, che da’ Sabini si trasferirono in Roma, e a’ quali il re Tazio eresse dei tempj(b). Altri sotto tal nome riconoscono le nove Divinità, alle quali Giove accordò il privilegio di scagliare il fulmine(c). Servio poi per Dei Novensili intende gli Eroi e gli altri mortali, che per le loro esimie gesta meritarono di essere annoverati tra gli Dei(d). Più verisimile però sembra ad Arnobio, che i Romani, siccome dopochè aveano conquistato un paese, prendeano a venerarne anch’ eglino i Numi, così abbiano dato agli stessi il noms di Dei Novensili(e).

{p. 12}

Saturno. §

Saturno al dire di Platone(a) era figlio di Oceano e di Teti ; ma Esiodo nella sua Teogonia, ossia Canto intorno alla generazione degli Dei, dice che dal Caos(1) uscitono l’Erebo(2) e la Notte, da’ quali si produssero Urano e Titea, che i Latini chiamarono Cielo e Terra, e i quali generarono molti figliuoli, e tra questi i primi furono Oceano(3), Ceo, Creo, Iperione, Tia, Rea, Temi, Mnemosine, Giapeto(4), Febe, Teti, e Saturno(b). Comunemente dicesi, che dal nome della loro madre i maschi vennero chiamati Titani, e Titanidi le femmine. Il loro padre orribilmente li maltrattava. Titea finalmente trasse dal suo seno il ferro, ne formò una falce, e la diede a Saturno, ond’ egli insieme co’ Ciclopi(5), suoi fratelli, che da Urano erano stati rinchiusi nel Tattaro(6), ne facesse pagare il fio al loro snaturato genitore. Saturno lo fece perire. L’impeto del mondo passò allora appresso di lui, di Titano, e di Giapeto ; ma poi lo ritenne il solo Saturno a patto, che non lasciasse vivere alcun figliuolo maschio, affinchè il regno dopo di lui passasse a chi per diritto creditario apparteneva(7). Saturno prese quindi a divorare quanti figliuoli gli nascevano(c). Esiodo però asserisce ch’egli ciò faceva, perchè da Urano e da Titea riguardo al suo Destino(8) aveva udito, che uno de’ proprj figli lo avrebbe scacciato dal regno(d). Tra’ figliuoli di Saturno, i quali {p. 13}incontrarono la trista sorte, si numerano Nettuno, Plutone, Giunone, e Cerere. Non altrimenti era per accadere anche a Giove, se Cibele, sua madre, artifiziosamente nol avesse serbato in vita. Colei presentò al marito una gran pietra ; egli la credette il nato bambino, e secondo il solito la divorò(a)(9). Una certa bevanda, che poi Meti, figlia dell’ Oceano e di Teti, gli somministrò, fece sì, ch’ egli restituisse di nuovo alla luce tutti i figliuoli, che avea divorati(b). Titano ne venne in cognizione, e unitosi quindi a’ suoi figliuoli, caricò Saturno, e sua moglie di pesanti catene. Giove però, raccolta una numerosa truppa di Cretesi e di altri esuli, debellò i Titani, e rimise sul trono il genitore. Questi per timore di esserne nuovamente da Giove stesso scacciato, cominciò a tendergli insidie. Non vi riuscì, perchè il figlio, essendosene avveduto, lo rinchiuse nel Tartaro. Saturno seppe fuggirsene(10), e si rifugiò appresso Giano(c)(11), re degli Aborigini(12), i quali abitavano quella parte d’ Italià, che poi si denominò Lazio dal verbo Latino latere, nascondersi, perchè Saturno erasi ivi in certa guisa nascosto(d). Il Nume, accolto benignamente da quel re, gl’ insegnò la maniera di vivere, e di coltivare le campagne. Giano in ricambio lo associò al suo regno : e per indicare ciò, volle che in una parte delle monete fosse impressa la sua immagine a due faccie(13), e nell’ altra una nave, che ricordasse quella, su cui Saturno avea approdato alle di lui sponde(e)(14). Giano altresì instituì in onore di questo Nume le Feste Saturnali, le quali poi continuarono appresso {p. 14}i Romani. Le medesime duravano cinque o settê giorni, e in questo tempo, lasciata ogni occupazione, si viveva solamente tra’ piaceri(15). La statua di Saturno, mentre tutto l’ anno vedeasi carita di catene, simbolo di quelle, con cui egli era stato avvinto da Giove, allora si scioglieva, per indicare la di lui liberazione, ovvero la libertà, di cui godevano allora spezialmente i Servi(16). Costoro in que’ giorni assumevano il berettino, detto pileo, simbolo di libertà appresso quelle Genti. Eglino venivano altresì serviti in un convito(17) dagli stessi loro padroni, coperti della Sintesi(18)(a). Tra mezzo a tali Feste eravi anche un combattimento di Gladiatori(19). Gli Ateniesi pure celebrarono simili Feste, e le denominarono Cronie(b) dal Greco nome chronos, tempo, perchè Saturno era considerato come il Tempo(c)(20).

Questo Nume ebbe nella Grecia e in Roma tempj e culto singolarissimo. Orribili furono i sacrifizj(21), co’ quali per molti anni l’onorò l’Italica superstizione. Un empio e barbaro sentimento d’ omaggio versò sugli altari di lui sangue umano ; e i padri stessi col più feroce furote si videro talvolta guidare all’ ara, quai vittime sciagurate, i proprj figili(d). Eravi un’ Ara antichissima, a Saturno eretta nella via, che conduceva al Campidoglio. Al dire di Festo correva fama, che la medesima fosse stata innalzata dagli Epei, compagni di Ercole, o da Ercole stesso. Cerei pure ardevano in gran copia dinanzi a questo Dio, perchè era egli risguardato come il lume dell’ umana vita(e).

{p. 15}Saturno rappresentasi sotto l’ aspetto di un vecchio incurvato, co’ capelli bianchi, con lunga barba, con ali alle spalle, e con falce in mano(a). Le ali alludono alla rapidità, con cui trascorre il tempo ; la falce indica il fine, al quale ogni cosa si riduce dal medesimo(b). Plutarco vuole, che dalla falce si ricordi, che gli uomini appresero da Saturno a coltivare la terra(c).

{p. 26}

Cibele. §

Cibele nacque da Urano e da Titea, e fu moglie di Saturno. Venne così denominata dal monre Cibelo, situato nella Frigia, e sopra il quale fu da principio venerata(a). Sotto ii nome di questa Dea riconoscevasi la Terra, benchè questa, come abbiamo osservato, fosse di lei madre ; ma non è da maravigliarsi, giacchè appresso i Mitologi spesso trovasi confusa una coll’ altra Divinità. Cibele quindi si appellò anche Tellure e Vesta(1), i quali nomi corrispondono a quello di Terra(b). Come Vesta, chiamata in vece da’ Greci Estia(c), ebbe nella Grecia de’ solenni sacrifizj, detti Estici, le vittime de’quali appartenevano a’soli sacrificatori(d). Ella era altresì la Dea particolare de’ Trojani(e). Enea ne trasferì il culto in Italia(f). Numa Pompilio fu il primo ad alzarle in Roma un tempio(g), e comandò che in quello dovesse sempre ardervi il fuoco, perchè credeva che dalla perpetuità del medesimo avesse a dipendere quella del Romano Impero(h)(2). Se si smorzava, se ne traeva infausto presagio, nè si poteva riaccenderlo che con ispecchi opposti al Sole(i). Esso però si rinovava ogni anno alle Calende di Marzo(l). Il medesimo conservavasi sospeso {p. 27}in vasetti di terra(a), e vi si gettavano con profusione fiori odorosi, ed anche cose preziose. Dal crepitare diverso e dal diverso scherzare di quella fiamma si traevano gli Oracoli(3) ; ed ebbe da ciò origine quella spezie di Divinazione, chiamata Piromanzia.(4). Nel predetto tempio non pote ano entrare gli uomini di notte, nè penetrare giammai in quella parte del medesimo, ove si custodiva il Palladio(b)(5). Ne’ sacrifizj, che si facevano alla Dea Vesta in Roma, conveniva usare l’ acqua della fontana, in cui fu da Giove trasformata Giuturna(c)(6). Eravi finalmente appresso i Romani il costume di tenere il mentovato fuoco anche nell’ ingresso delle loro case, detto perciò Vestibolo(d).

Cibele fu anche detta Berecinzia(e), Dindimena(f), e Idea(g) daimonti(7) e dalle città, ove spezialmente era onorata. Ebbe innoltre il nome di Maja, ossia Magna-Madre, di Rea, di Buona-Dea, di Ope, e d’ Iside.

Si chiamò Maja(h), ossia Magna Madre, essendo ella risguardata come la Genitrice comune degli Dei(i).

Il nome di Rea le derivò dal verbo Greco rin, scorrere, perchè tutto proviene dalla terra(l).

Venne denominata Buona Dea, perchè la terra è la sorgente di moltissimi beni(m)(8).

Dalla voce latina opes, ricchezze, fu appellata Ope, perchè quelle si hanno dalla terra(n). Il {p. 28}primo, che nel Campidoglio le fabbricasse un tempio, fu Tazio, re de’ Sabini(a)(9).

Era finalmente riconosciuta sotto il nome d’ Iside(b). Come tale si teneva per moglie d’ Osiride(10), e per una delle più grandi Divinità dell’ Egitto. Da Iside e da Osiride nacque Oro, l’ ultimo degli Dei, cui adorò l’ Egitto(11). Iside aveva certi Sacerdoti, che si diceano Isiaci, i quali menavano una vita assai austera : non facevano uso nè di sale, nè di vino ; vestivano di lino ; andavano colla testa rasa ; e si cuoprivano i piedi con sole scorze fine dell’ albero, detto Papiro(c). Questa Dea ebbe pure in molte città della Grecia solenni Feste, chiamate Isie, nelle quali si portavano in giro vasi pieni d’orzo e di grano, perchè diceasi, ch’ ella ne aveva insegnato agli uomini l’ uso(d). Iside finalmente fu da’ Romani annoverata tra’ loro Numi(e). Nel Campidoglio v’ avea un tempio, sacro sì a Lei, che a Serapide(12). Sotto il Consolato di Pisone e di Gabinio ne fu proibito il culto, ma poi dall’ Imperatore Comodo di nuovo venne introdotto(f). E’ celebre il grande affetto, che Iside dimostrò ad Ifide. In Festo, Città dell’ Isola di Creta, dimorava un certo Ligdo, uomo oscuro e povero di condizione, ma di costumi irreprensibile. Egli, vedendo gravida Taletusa, sua moglie, le ordinò, che se partoriva una femmina, la uccidesse, poichè mon avrebbe avuto con che sostenerla. Nacque una bellissima bambina ; ma Teletusa, cui Iside avea commesso di serbarla in vita, destramente fece credere al marito di aver partorito un bambino. Ligdo lo chiamò Ifide ; e scorsi tredici anni, gli destinò in moglie Giante, figlio di {p. 29}Teleste, suo connazionale, la quale fralle giovani di Festo si decantava per la più bella. Teletusa, conoscendo l’ impossibilità di tale sposalizio, usò ogni studio per trarlo in lungo ; ma non potendo più differirlo, si recò colla figlia all’altare d’ Iside, e la pregò di soccorso. Uscì finalmente la madre dal tempio. La seguì la figlia con passo più franco del consueto, e s’ avvide ch’ era divenuta uomo. Fece subiro costei ritorno all’ ara, che poc’ anzi avea lasciatas v’ offrì un sacrifizio, e’l dì sequente prese Giante in isposa(a)(13).

Tra i molti, che si consecrarono al sacerdozio di Cibele, sono pur celebri i Galli, e le Vestali. I primi furono detti Galli, perchè prima di sacrificare alla loro Dea beveano al fiume Gallo. Divenivano allora furibondì per modo, che perfino si facevano eunuchi. Quindi appresso i Greci si chiamavano Coribanti, ossia agitati da sacro furore(b). Strabone(c) poi vuole che sieno stati così detti dall’ agitare che facevano il capo, mentre ballavano, e in mezzo il suono di timpani e altri musicali stromenti orribilmente urlavano : lo che avveniva al tempo delle loro Feste. Eglino vestivano alla foggia delle donne, e andavano quà e là mendicando, fingendo che Cibele si cibasse di ciò che veniva loro offerto : dal che acquistarono anche il nome di Matragirti, ossia raccoglitori per la Madre, come appellavasi Cibele. Conducevano allora in giro la statua della Dea, riposta sopra un asino, e anche in quel tempo suonavano il timpano(d). Il loro capo si chiamava Archigallo. Questi cingeva in capo una mitra, al collo una gran collana, che gli {p. 30}discendeva sino al petto, e da cui pendevano due busti di Ati(a). Era stato questi un bellissimo pastore della Frigia. Cibele lo avea poi stabilito preside a’ suoi sacrifizj, a patto però che avesse doveto sempre viversene casto. Egli non istette alla promessa, e prese ad amare una Ninfa(14) ; figlia del fiume Sagari o Sangaro, e però detta Sagaritide, o Sangaride ; dalla quale ebbe Lido, che diede il nome alla Lidia, e Tirreno, che lo diede a’ Tirreni(b)(15). La Dea ne prese vendetta. Sangaride era una delle Ninfe Amadriadi. La vita di queste dipendeva dall’ esistenza di certe quercie, cosicchè mancando queste, anche quelle Ninfe perivano. Cibele atterrò la quercia ; a cui era affissa la vita di Sangaride ; e questa più non esistette. Ati voleva allora per disperazione darsi la morte, ma Cibele lo convertì in Pino(16), albero che fu poscia a lei consecrato(c)(17). Quindi una delle ceremonie, che si praticavano nelle Feste di Cibele era il portare per la città un pino, e riporlo poi dinanzi al di lei tempio. Questa ceremonia si appellava Dendroforia ; e Dendroforo dicevasi quegli, che portava l’albero(d).

Gli anzidetti Sacerdoti oltre il nome di Galli ebbero anche quello di Dattili, d’ Idei, e di Cureti. Dattili, perchè dà principio erano solamente dieci, quante sono le dita della mano, le quali da’ Greci si dicono dattili ; Idei dal monte Ida nella Frigia ; appresso il quale soggiornavano ; Cureti dall’ Isola di Creta, ove poscia si trasferirono(e). Altri poi {p. 31}pretendono, che sieno stati detti Cureti dal nome Greco curà, ronsura, perchè tali Sacerdoti si recidevano i capelli nella parte anteriore della testa, onde non fossero presi per quelli da’nemici(a) ; ovvero dal verbo Greco curizo, educare dall’infanzia, perchè Giove appena nato fu affidato alla loro cura(b) : e quindi dicesi ch’ eglino al suono di certi scudi di bronzo solevano aggiungervi il canto di certi versi, detti poscia Datsili, affinchè Saturno, cui voleasi tenere occulta la nascita di quel bambino, non ne udisse i vagiti(c).

Le Vestali, così dette dalla loro Dea Vesta, furono istituire da Numa Pompilio. Questi ne aveva stabilito quatrro, ma Tarquinio Prisco alquanto dopo ve ne aggiunse altre due. La facoltà di eleggerle apparteneva prima a’ Re ; e scacciati questi, passò a’ Sommi Pontefioi. Era vietato l’ammettervi quelle, cho non ancor aveano l’età di sei anni, o aveano oltre passati i dieci(d). Al momento della loro elezione ricevevano il nome di Amata, la quale era stata la prima Vestale(e). Addette una volta al servigio di Vesta, doveano rimanorvi trenta anni, dieci per apprendere il loro ministero, dieci per esercitarlo, e dioci per addestrarvi le altre, che vi si sostituivano. Il loro principale dovere era di serbarsi vergini, e di attendere alla conservazione del sacro fuoco. Se questo per loro negligenza mancava, esse venivano severamente punite(18) ; e a maggiori supplizj ancora si condannavano, qualota aveano macchiata la loro verginirà(19). Compiuto il predetto corso dei trenta anni, potevano {p. 32}maritarsi(a). Colei, che frattanto cadeva in malattia si affidava dal Sommo Pontefice a gravi Matrone le quali ambivano di averne la cura(b). Le Ve stali finalmente godevano molti privilegi : avevane diritto di testamentare, anche essendo vivo il loro padre ; in giudizio non si poteva mai esigere da esse il giuramento, ma bastava la loro semplice asserzio ne ; nelle loro mani, come in sacro e inviolabile deposito, si conservavano i testamenti ; era punito colla morte chi le insultava ; se a caso incotravano un reo condannato al supplizio, potevano liberarnelo ; ne’pubblici spettacoli aveano luogo distinto ; ad esse finalmente era permesso il celebrare ogni anno le Feste Argee(c)(20).

In onore di Cibele s’istituirono le Feste Vestalie, le Megalesie, le Harie, e le Ordinali o Ordicidie. Al tempo delle Vestalie s’imbandivano da per tutto in Roma conviti dinanzi alle porte ; si spedivano cibi alle Vestali, onde li offrissero alla Dea Vesta ; gli asini si conducevano in giro per la città, coronati di fiori, e portando essi come certe collane, formate di pane ; finalmente si ornavano le macine di corone(d).

I Libri Sibillini(21) aveano predetto a’ Romani, che il loro Imperio sarebbesi conservato, e sempre più accresciuto, qualora avessero potuto trasferire appresso di se Cibele da Pessimunte, città della Galazia nella Frigia. Eglino vi spedirono a ricercarne l’indicata Deità, e la ottennero ; ma riposta la stessa sopra un naviglio, avvenne, che il medesimo d’improvviso si arrestò alle foci del Tevere, nè v’era forza sufficiente a farlo più oltre avànzare. {p. 33}Finalmente Claudia, una delle Vestali, vi riuscì : ella atuccò la sua cintura al vascello, e questo senza reistenza riprese tosto il cammino(a). Gli Oracoli avevano altresì dichiarato, che Cibele fosse ricevuta in Roma dal più onesto cittadino. Tale fu riputato Scipione Nasica. Questi trasse dal naviglio la statua della Dea, e la ritenne nella propria casa, tinchè le si eresse un tempio(b). In memoria di tutto ciò Roma adottò le Feste, solite a celebrarsi nella Frigia, e dette Megalesie, le quali consistevano in giuochi dinanzi al tempio della stessa Dea(c). Vi s’introdusse inoltre una certa sacra ceremonia, chiamata Lavazione, perchè essa consisteva nel lavare il simulacro di Cibele nel piccolo fiume Almone, che trovavasi suori della Porta Capena(d).

Le Feste Ilarie si celebravano col conduire in giro per Roma la statua della Dea. Cessava allora ogni lutto e ceremonia funebre. Ciascuno innanzi al simulacro di Cibele faceva pompa di ciò che aveva di più prezioso. Tutti vestivano a loro capriccio, ed anche liberamente usavano delle insegne delle dignità le più cospicue. Il fine di tali Feste era quello di ottenere in copia le frutta dalla terra(e).

Le Ordicali, o Ordicidie furono così dette dall’ antico nome Latino borda, giovenca pregna(f) : e perchè alla voce borda equivale l’altra forda, quindi le stesse Feste si denominarono anche Fordicali, o Fordicidie(g). Una carestia avvenuta sotto il regno di Numa Pompilio diede occasione alle {p. 34}medesime. Quel re dell’ oracolo di Fauno, di cuì parleremo altrove, udi che per far cessare quelle desolazione conveniva placaro Cibele col sacrifizio di due vittime, nate da una sola giovenca. Trenta di queste gravide s’immolarono in quel giorno, e la terra divenne nuovamente fertile(a).

Cibele comparisce dipinta con corona di toni il capo, donde le derivò appresso i Greci il nome a Pirgofora, porta-torri(b), e quello di Turrita e le Turrigora appresso i Latini(c). Sta ella altresì assisa sopra un carro, tirato da un leone e da un leonessa. Finalmente le si diede anche le scettro in mano. Le torri sul di lei capo indicano, che Cibe le fu la prima, che insegnò a fortificare le città co mezzo di quelle(d). I due animali, da cui viene tirato il di lei carro, ricordano Ippomene, figlio de Macareo o Megareo, e Atalanta, figlia di Scheneo re di Scito, cangiati da questa Dea negli anzideetti animali(e)(22). Lo scettro finalmente nella dillei mano allude alla potenza, che sogliono conferire le ricchezza e gli altri prodotti della terra(f).

{p. 58}

Cerere. §

Cerere era figliuola di Saturno e di Cibele(a). Gli Antichi la venerarono come la Dea tutelare de’ campi(1), perchè fu la prima che insegnasse la maniera di seminare le biade per sostituirle alle ghiande, delle quali fino allora si erano cibati gli uomini(b)(2).

Questa Dea per molto tempo andò cercando la sua figliuola, Proserpina, chiamata anche Ferefatta(3), Persefone(c), e Core(4). A tale oggetto Cerere soleva accendere di notte due fiaccole sull’ Etna, monte della Sicilia, da cui esalavano globi di fuoco ; e però fu detta Tedifera(d). Il viaggio intrapreso riuscì alla dolente madre assai penoso. Giunta ad Eleusi, si sentì talmente stanca e assetata, che si appressò ad una capanna per ricercarvi dell’acqua. Una vecchierella, di nome Baubo(c), prontamente ne la soddisfece, Mentre Cerere si dissetava, il giovinetto Abante, figlio d’ Ipotoonte e di Metanira, si fece a motteggiarla di soverchia ingordigia. Se ne offese la Dea, e lo cangiò in lucertola(f). Altri dicono, che Metanira abbia accolto Cerere in casa sua, e che la Dea abbia nell’indicato modo castigato Abante, perchè quegli avea deriso i di lei sacrifizj(g). Anche Celeo, re d’ Eleusi, avendo veduto Cerore, la quale in aria mesta stava sedendo sopra {p. 59}una pietra, la accolse nella sua Reggia. Giambe, una delle di lui serve, cercò di rallegrarla con varj ridicoli racconti(a). La Dea per ricompensare quel re dell’ accoglienza, che le avea fatto, prese ad allevare il di lui figliuolo, Trittolemo(5) ; e volendo renderlo immortale, il dì lo nutriva del suo latte, e lo nascondeva la notte sotto il fuoco. Ne venne interrotta da Celeo(b), e in vece gl’insegnò l’arte di seminare il frumento(6). La stessa Dea gli somministrò altresì un carro, tirato da dragoni alati(7), onde potesse indicare a tutti gli uomini la maniera di fare lo stesso(c). Trittolemo, scorse le Provincie dell’ Asia minore e dell’Europa, si fermò nella Scizia, dominata dal barbaro Linco. Costui, appenachè vide lo straniero, e ne intese il nome e il motivo della di lui venuta, arse d’invidia, ch’egli fosse autore di sì bel dono ; ma tuttavia, fingendo amicizia, lo accolse appresso di se, per trucidarlo poi, qualora fosse caduto in profondo sonno. Non vi riuscì però, poichè Cerere, la quale vegliava alla salvezza di Trittolemo, cangiò il perfido Linco in lince, animale di acutissima vista(d). Trittolemo poi, ritornato da’ suoi viaggi, restituì a Cerere il carro(8), e stabilì in Eleusi a di lei onore una festa(e)(9).

Non altrimenti Cerere per essere stata accolta da Fitale, uno de’ primi abitanti dell’ Attica, lo regalò della pianta, detta fico, la quale era stata sino a quel tempo ignota a tutti gli uomini(f). La Dea inoltre volle, che i di lui discendenti, {p. 60}chiamati Fitalidi, presiedessero alle di lei sacre ceremonie : il quale onore fu loro confermato da Teseo(a).

Cerere pure si presentò a Plemneo, re di Sicione, e figlio di Perato, e veggendolo afflittissimo, perchè tutti i di lui figliuoli, appena nati, morivano, si offerse di allevargli quello, che in que’giorni era comparso alla luce. Visse il fanciullo, e crebbe fino ad unirsi in matrimonio con Crisorte. Plemneo, venuto in cognizione che Cerere era una Dea, le eresse un tempio(b).

Si abbattè parimenti la Dea in Nettuno, il quale, trasformatosi in cavallo, la rendette madre di una figlia, che fu nominata Era(c). Altri dicono che Cerere in quella circostanza abbia partorito un cavallo, di cui poscia così se ne vergognò, che copertasi di nera veste, e fuggendo l’aspetto degli altri Numi, si nascose in oscurissima spelonca. La terra per la di lei assenza divenne sterile, e grave pestilenza intanto oppresse gli uomini e gli animali. Gli Dei fecero cercare Cerere, e avvertito Giove de Pane, il quale aveala trovata nell’ Arcadia, spedì le Parche, che colle preghiere la placarono(d).

Troppo lungo sarebbe il ridire quante terre e quanti mari girasse Cerere prima di ritornarsene in Sicilia. Non le restava più luogo ad esplorare nell’ Universo ; sicchè abbandonata ogni speranza di ritrovare la figlia, si fermò desolata presso una fonte. In questa avea il dolore cangiata la Ninfa Ciane, quando ella invano erasi opposta a Plutone, affinchè non rapisse Proserpina(e)(10). Ciane voleva palesare a {p. 61}Ceiere quanto le era avvenuto, nè potendo farlo colla voce, supplì col far comparire’ una fascia, caduta a Proserpina in quelle acque. La riconobbe la Dea, nè pose in dubbio che la figlia sua fosse stara rapita. Alzò frattanto la fronte dal fondo delle acque la Ninfa Aretusa, originaria di Pisa in Elide, e le natrò di aver véduto la di lei figliuola sedere in trono sposa di Plutone (a). Pausania soggiunge, che fu la Ninfa Crisantide quella che indicò il ratto di Proserpina a Cerere, quando questa Dea giunse in Argo appresso Pelasgo, figlio di Triopa (b). A sì tristo avviso restò per lungo tempo attonita la dolente madre, ma rasserenato poi lo spirito, volò di nuovo all’ Olimpo, e ricorse a’ Giove pet riavere Proserpina, ch’ era pure figlia di hai. Il Nume promise di soddisfarla, qualora la giovine non avesse gustato alcun cibo nel Regno di Plutone. Proserpina v’ avea mangiato alquante granella di melogranato. L’ avea veduta Ascalafo, partorito ad Acheronte da Orfne, una delle più celebri Ninfe dell’ Averno. Colui palesò il fatto, e fu quindi da Proserpina cangiato in Gufo, uccello annunziatore di funesti eventi. Sembrava, che per Cerere dovesse essere perduta ogni speranza di ricuperare la figlia ; ma Giove fece sì che per sei mesi dell’ anno la avesse appresso di se la madre, e per altrettanti il marito (c).

Cerere fu soprannominata Ennea, Empanda, Mallofora, Ctonia, e Ratia. Ennea, perchè in Enna, antica città della Sicilia aveva un augustissimo tempio e una statua, con tale artifizio formata, che chi la {p. 62}mirava, o credeva di vedere Cerere stessa, o la dilei effigie discesa dal Cielo (a).

Fu denominata Empanda, perchè somministrava del pane a coloro, che si rifugiavano nel di lei asilo (b)(11).

Si disse Mallofora, ossia porta-lana, perchè era risguardata come la protettrice anche de’ greggi. Sotto questo nome aveva un tempio in Megaride, perchè aveva insegnato a quegli abitanti a nutrire i greggi, e a servirsene della loro lana (c).

A Cerere Ctonia, ossia terreste, o sotterranca(d), fu eretto un gran tempio in Ermione, città della Laconia, nel quale ogni anno di Estate se ne celebrava la festa con una processione di Sacerdoti di varie Divinità e di Magistrati. Li seguivano uomini, donne, e fanciulli, vestiti a bianco, inghirlan, dati di fiori, e cantando inni. Venivano dietro giovenche, le quali s’introducevano nel tempio, e successivamente vi s’ immolavano da quattro matrone (e).

Il nome di Raria le derivò dal campo Rario in Eleusi, che fu il primo ad essere seminato da Trittolemo (f).

In onote di Cerere s’instituirono varie altre Feste. Tra queste sono rinomate l’Eleusinie, le Misie, le Demetrie, il Floriferto, le Tesmoforie, le Proarosie o Prerosie, le Talisie, le Paganali, le Ambarvali, e la Epacte. L’Eleusinie, così dette da Eleusi, borgo dell’ Attica, ove si celebravano, {p. 63}ebbero per eccellenza anche il nome di Misterj, perchè in esse tutto era mistico. Dicesi da alcuni, che sieno state istituite dalla stessa Cerere ; altri dal re Eretteo ; altri da Museo, padre di Eumolpo ; altri dallo stesso Eumolpo(12). Si solennizzavano ogni cinque anni, e duravano nove giorni (a). Si correva allora con torcia accese (b) ; si sacrificavano molte vittime a Giove e a Cerere ; si facevano libazioni con due vasi pieni di vino, uno de’ quali versavasi dalla parte d’ Oriente, e l’altro da quella d’ Occidente (c) ; finalmente si andava con gran pompa da Atene ad Eleusi, più volte fermandosi, cantando inni, e sacrificando (d). Ne’ sacrifizj di questa Dea si usavano corone di mirto o di narciso, per ricordare la tristezza, a cui Cerere soggiacque dopo il ratto di sua figlia. Queste Feste ebbero principio nell’ Attica vicino al pozzo, detto Callicoro, ossia bella danza, da’ balli sacri, che vi facevano le donne in onore di questa Dea. Non molto lungi eravi un sasso, chiamato Agelasto, ossia tristo, su cui Cerere si riposò stanca e afflitta. Le stesse Feste furono di due sorta, maggiori e minori. Le maggiori, delle quali abbiamo fin’ ora parlato, s’instituirono in onore di Cerere, le minori in onore di Proserpina. Quelle si celebravano, come abbiamo detto, in Eleusi, e queste in Agri, appresso il fiume Ilisso. Le minori erano una spezie di preparazione alle maggiori. Niuno poteva esservi ammesso, se prima non erasi {p. 64}purificato (a). Gl’ iniziati(13) alle minori si appellavano Misti, ed Efori ; ovvero Epopti, ossia ispettori, quelli, che lo erano alle maggiori (b). I primi stavano solamente nel’ Vestibolo del tempio ; i secondi ne penetravano l’ interno, e loro dopo un anno si concedeva di poter conoscere i più occulti riti e ceremonie di tali Solennità. L’iniziazione si faceva di notte, e ad essa non solo gli Ateniesi, ma tutti i Greci eziandio, anzi tutte le Nazioni concorrevano (c). V’ erano ammesse anche le donne sotto il nome di Melisse. Credevasi, che l’essere fatto partecipe di questi Misterj producesse una dolce tranquillità di vita in questo mondo, e la speranza di una migliore nell’ altra (d). Niuno poteva palesare il secreto di quelle sacre ceremonie senza soggiacere alla pena di morte. Gl’ iniziati pure si coronavano di mirto, e si cuoprivano di una veste nuova, la quale non deponevano, se non quando era divenuta lacera, nè si poteva più usare (e). Altri poi dicono, che la stessa veste dopo l’ iniziazione si consecrava a Cerere e a Proserpina (f). Vuolsi finalmente, che le predette Feste minori sieno state introdotte in grazia di Ercole, il quale per legge non poteva essere ammesso alle maggiori (g).

Le Misie furono così dette da un certo Misio Argivo, che dedicò a Cerere un tempio in un luogo alquanto distance da Pellene, città dell’ Acaja. Si {p. 65}solemizzavano pel corso di tre giorni. Nel terzo le donne scacciavano dal tempio gli uomini e i cani, vi si chiudevano colle cagne. Il dì seguente rimiamavano gli uomini, e seco loro viveano in alegrezze e conviti(a).

Chi celebrava le Demetrie, si percuoteva con flagelli, composti di corteccie d’alberi (b). In Eleuti v’ erano pure ad anore della stessa Dea e di Proserpina certi Giuochi(14) detti Demetrj, ne’ quali il vincitore riportava una corona d’ orzo (c).

Il Floriferto era una Festa, in cui i Romani portavano delle spighe al tempio di Cerere (d).

Le Tesmoforie furono così dette da Cerere, chiamata Tesmofora (e), ossia Legislatrice, attese le leggi, ch’ ella dettò al genete umano. Queste Feste per quattro giorni si facevano in più città della Grecia, e con maggior pompa d’ogni altro luogo in Atene (f). Furono instituite da Trittolemo, re d’ Eleusi (g)(15). Si celebravano da donne nobili e di onesta vita, e due di loro ciascun giorno venivano scelte a presiedervi. Queste vestivano di bianco, ed erano obbligate a vivere tre o cinque giorni innanzi nella più esatta continenza. Unito ad esse eravi anche un Sacerdote, detto Stefanoforo dalla corona, che portava in capo. Al tempo di tali Feste le predette donne portavano sulla testa sino ad Eleusi alcuni libri, ne’ quali stovano scritte certe leggi per ricordare quelle, delle quali ne fu inventrice {p. 66}Cerere. Le medesime donne innoltre porgevano allora preci a Cerere, a Proserpina, a Plutone, e a Calligenia, che secondo alcuni fu nutrice, e secondo altri sacerdotessa di Cerere (a). Queste Feste si dissero anche Cereali (b), e sotto tal nome vennero introdotte da C. Memmio Edile in Roma. Quivi si estendevano a otto giorni, e parimenti si celebravano dalle sole Matrone. Anche queste, vestite a bianco, portavano delle torcia accese, nè mangiavano che la sera, perchè così avea fatto Cerere, quando rintracciava della figlia. Elleno finalmente facevano de’ sacrifizj, ne’ quali osservavano il più rigoroso silenzio (c).

Le Proerosie o Prerosie, celebrate dagli Ateniesi e da que’ d’ Eleusi, consistevano in sactifizj, offerti alcuni giorni prima di seminare la terra. S’instituirono per comando di un certo vate, chiamato Autia, il quale asserì, che quello era il solo mezzo di placare la Dea, che affliggeva tutta la Grecia colla fame. Cerere pute da tali Feste fu denominata Proerosia (d).

Le Talisie erano Feste Greche, nelle quali gli agricoltori offrivano alla Dea e a Bacco le primizie delle frutta della terra (e)(16).

Le Paganali erano Feste, le quali si celebravano dagli abitanti delle campagne. Questi giravano intorno a ciascun villaggio, e i Sacerdoti intanto aspergevano d’acqua lustrale i prodotti della {p. 67}terrabenedirli e purificarli (a). Questa Festa seguiva qualche tempo dopo la semina (b). Dionisio d’Alicarnasso pretendo che sia stata introdotta dal re fullio (c).

Le Ambarvali erano Feste o private, e si facevaco da’ padri di famiglia ; o pubbliche, e si solenizzavano da’ Fratelli Arvali(17). Questi, maturate biade ; tre volte conducevano intorno alle stesse ne’ campi le vittime prima di sacrificarle. Un talé sacrifizio dicevasi Suovetaurilio (d), ossia di una pecora, di un porco, e di un toro (e). Il sacrificatote, coronato di quercia, seguito dal popolo, e saltando, intuonava inni a Cerere ; versava latte, vino, e mele sopra una giovenca ; e finalmente la immolava (f). Scaligero non fa alcuna distinzione tralle Feste Ambarvali e le Amburbie (g). Al tempo di queste prima del sacrifizio si conduceva la vittima intorno a’ confini delle città (h).

La Festa Epacte, così detta dalle due voci Greche epì e achthos, molestia, celebravasi appresso gli Ateniesi in memoria del dolore, che Cerere ebbe a soffrire per la perdita di sua figliuola (i).

Tra’ varj tempj, eretti a Cerere, era tinomatissimo spezialmente quello d’Eleusi. Il medesimo si riputava così sadro, che con pelli d’animali se ne cuopriva il pavimento, affinchè nol profanassero i piedi di coloro, che aveano commesso qualche delitto. Tre erano i principali Sacerdoti di questo Tempio, il {p. 68}Gerofante, il Daduco o Lampadeforo, e il Cerice. I Gerofante, ossia Gran Sacerdote, era il primo in dignità, e a lui apparteneva l’iniziare ne’ Misterj (a) L’altro fu detto Daduco o Lampadeforo, ossia Porta-fiaccola, perchè nelle Solennità di questa Dea do vea portare una fiaccola, come faceva Cerere, quan do andava in cerca di Proserpina (b). Il terzo final mente si chiamò Cerice, ossia Banditore, perchè egli intimava a’ profani, che si allontanassero dal tempio (c).

E’ celebre il castigo, con cui Cerere puni il Tessalo Erisittone, figlio di Triope. Costui, com’ era disprezzatore di tutti i Numi, così osò di tagliare anche un bosco a Cerere consecrato. Eravi in quello una quercia, in cui soggiornava una Ninfa, cara alla stessa Dea. Erisittone atterrò pure quell’ albero. Se ne sdegnò Cerere, e si propose di cruciarl col mezzo della Fame. Non conveniva però, nè permetteva il Fato, che la Fame si unisse con Cerere ; quindi costei per mezzo di una delle Oreadi la eccitò a recarsi entro le viscere di Erisittone, nè a lasciarvisi giammai vincere dall’ affluenza di qualsivoglia cibo. Così avvenne : la Fame volò di notte a spargere il suo veleno sopra lo scellerato, mentre dormiva. Appenachè egli si destò dal sonno, le viscere di lui si trovarono per avidità di mangiare in somma agitazione e tormento. In mezzo a immensa copia di cibi si querelava di trovarsi digiuno, e altri continuamente ne cercava. Per soddisfare alle sue voglie avea già consumato tutte le sue sostanze, senza però aver diminuito in modo alcuno l’interno suo martirio. Di tutti i suoi {p. 69}beninon gli restava che una figliuola, di nome Metra, e questa pure egli vendette per isfamarsi. Ella però, de mal comportava di vivere in servitù, pregò Nettuno, che ne la liberasse. La compiacque il Nume ; e cambiatala in uomo, la vestì da pescatore. Non molto dopo Metra ritornò alla primiera forma di donna ; ed Erisittone, avvedutosi del privilegio, che godeva la figlia, di tramutarsi, di nuovo la vendette. Non cessava la meschina di prendere ora questo ed ora quell’ aspetto per alimentare il padre suo, sempre più affamato. Si scuoprì alfine l’artifizio, nè più vi fu chi comperasse Metra. Erisittone allora disperato si stracciò co’ morsi le carni per cibarsene (a). Fu soprannominato Etone, ossia ardente, dall’ardore della sua fame (b).

Cerere rappresentasi coronata di spighe, e con fiaccola accesa in mano. Altri la dipingono colla falce, o col cornucopio, ossia col corno dell’abbondanza. Questo fu così denominato, perchè si credeva, che ne uscisse tutto ciò, che poteasi desiderare (c) : ed esso quindi simboleggiava l’abbondanza, che questa Dea recava alla terra. Cerere finalmente comparisce anche assisa sopra un carro, tirato da Dragoni alati, con un fascetto di papaveri nella destra, e una fiaccola nella sinistra. Le si dà il papavero, o perchè anche questo è simbolo di fertilità ; o perchè a Dea, addolorata per la perdita di Proserpina, nè potendo addormentarsi, usò di quel fiore, che ha l’ittività di conciliare il sonno (d).

{p. 81}

Giove. §

Moltissimi appresso gli Antichi ebbero il nome di Giove. Il Vossio ne numera trecento (a), Il famoso però, e quello, a cui le gesta di tutti gli altri si attribuiscono, è il figliuolo di Saturno e di Cibele. Costei, per sottrarlo alla morte, che Saturno, come abbiamo esposto, gli avrebbe dato, lo spedì secretamente nell’ Isola di Creta, in un antro del monte Ida, appresso i Coribanti(1). Questi, fingendo di sacrificare, e strepitando con cembali e timpani, facevano sì, che Saturno non potesse udire i vagiti del Nume bambino (b).

Variano i Mitografi nel riferirci da chi Giove sia stato nutrito e allevato. Lattanzio dice, che ne furono incaricate Melissa e Amaltea, figlie di Melisseo, re di Creta ; e ch’ elleno nutrirono il Nume di mele e di latte di capri (c). Apollodoro, Grammatico Ateniese, soggiunge, che altre due figliuole di Melisseo, le quali furono Adrastea e Ida, attesero a pascerlo col latte della capra Amaltea (d). In Igino leggesi, che la nutrice di Giove fu Adamantea ; che questa sospendeva la culla del bambino a’ rami di un albero, onde poter affermare a Saturno, che il di lui figliuolo non trovavasi nè in cielo, nè sulla terra, nè in mare ; e che finalmente ella, acciocchè non si udissero le di lui grida, radunava vicino a quell’ albero i giovani di que’ dintorni, e dava loro a suonare dei piccoli scudi {p. 82}di bronzo, e delle picche (a), Pausania numera tralle nutrici di Giove una certa Alcinoe, la quale ebbe poi una statua nel tempio di Minerva presso i Tegeati (b). Aglaosténe nomina tra quelle una Ninfa del monte Ida in Creta, chiamata Cinosura, che fu da Giove convertita in una stella dello stesso nome (c). Altri vogliono, che lo abbia nut ito un’ aquila col nettare (d)(2). Altri pretendono, che il Nume abbia ricevuto il suo primo alimento da certe Colombe (e) : altri dalle Api (f) ; e che Giove abbia per questo cangiato il loro colore, il quale prima era di ferro, in quello d’oro (g)(3). V’è finalmente chi dice, che Giove sia stato allevato da Celmo, uno degl’ Idei Dattili ; e che questi, per aver detto che il Nume era mortale, ne fu cangiato in diamante (h).

Giove, cresciuto nell’ età, scacciò il padre suo dal trono, e ne divise l’impero co’ suoi fratelli, Nettuno e Plutone. Destinò l’uno signore delle acque, l’altro dell’ Inferno, e riserbò per se la sovranità del Cielo e della terra (i). Ma la grandezza e la tranquillità degl’Imperj non si ottiene che cou molti stenti e somme inquietudini (l). Anche Giove, per conservarsi sul trono, ebbe a sostenere la famosa Gigantomachia, ossia il contrasto co’ Giganti(4). La terra sdegnatasi con Giove, perchè questi avea sterminato i Titanl, avea prodotto gli anzidetti Giganti, onde lo scacciassero dal Cielo. Coloro, {p. 83}perriuscirvi più facilmente, posero uno sopra l’altro i tre monti, Ossa, Pelio, e Olimpo, e cominciarono a scagliare contro la Reggia di Giove grossi macigni ed alberi ardenti (a). Giove implorò il soccorso degli altri Numi ; ma queglino spaventati corsero precipitosamente quasi tutti a nascondersi in Egitto sotto la figura di varie piante e animali (b)(5). Correva fama allora, che niuno degli Dei avrebbe potuto vincere que’ nemici, quando non avesse avuto in suo ajuto qualche mortale. Per consiglio di Minerva si cercò di Ercole, il quale v’accorse, e fece grande strage de’ Giganti. Ripigliarono ben presto gli altri Numi il loro coraggio, sterminarono tutti coloro, e patte ne precipitarono nell’ Inferno, parte ne seppellirono vivi sotto il monte Erna (c)(6).

Passato il mondo dal governo di Saturno sotto quello di Giove, finirono le altre tre età, l’una detta d’argento, l’altra di bronzo o di r me, e la terza di ferro. In quella d’argento si abbreviò l’antica primavera ; quella di rame o di bronzo fu produttrice di genj bellicosi e feroci ; e quella di ferro divenne sorgente fonesta di tutte le scelleraggini (d). Giove quindi seppellì tutti gli uomini in un abisso d’acque, nè lasciò in vita che Deucalione, figlio di Prometeo (e)(7) e re della Tessaglia, e la di lui moglie, Pirra, nata da Epimeteo eda Pandora, poichè l’uno e l’altra erano stati i soli, i quali si fossero serbati senza colpa (f). Giove poi per mezzo di questi due ripopolò in maravigliosa guisa la terra. Eglino per consiglio della Dea. Temide si velarono il capo, si sciolsero Ie vesti, e gettarono dietro allo loro spalle alcuni sassi. Quelli, tirati da {p. 84}Deucalione, in breve tempo si viddero cangiati in uomini, e in donne quelli di Pirra (a). Deucalione, allora offrì solenni sacrifizj in un magnifico terupio, che eresse a Giove(8). Pirra poi ebbe da Deucalione due figliuoli, Anfittione (b) ed Elleno(c), e una figlia, Protogenia (d), che fu da Giove renduta madre di Etlio, padre di Endimione (e), del quale parleremo.

In onore di Giove s’instituirono le Olimpiadi, ossia i Giuochi, detti Olimpici, perchè si celebravano ogni quattro anni nella campagna d’Olimpia, città d’Elea, vicino al fiume Alfeo (f). Niente si sa di certo intorno all’origine di essi. V’è chi dice che uno de’Dattili, di nome Ercole, trasferitosi con altri quattro suoi fratelli dall’Ida, monte di Creta, in Elide, ivi li abbia introdotti (g). Altri ne attribuiscono l’instituzione a Giove stesso, dopochè egli disfece i Titani ; e soggiuagono che Apollo rimase allora vincitore di Mercurio nella Corsa, e Marte nel Pugilato (h). Alcuni ne riconoscono per autore Pelopida ; e dicono, ch’egli li celebrò per onorare Nettuno, che gli avea fatto conseguire in moglie Ippodamia, figlia di Enomao, come più diffusamente vedremo. Altri vogliono che sieno stati instituiti da Ercole, figlio di Alcmena, in onore di Pelope, da cui egli traeva origine per parte di madre, e che i medesimi, essendo stati per qualche tempo {p. 85}sospesi, si sieno poi rinovati da Ifito o Ificlo, figlio di Ercole (a). Altri narrano, che Ercole li introdusse per onorare non Pelope, ma Giove Olimpico, e ch’egli ciò fece dopo avere scacciato dal trono Augia, re d’Elide, come pure vedremo (b). Strabone finalmente ne riconosce per autori alcuni dell’Etolia, e dei discendenti d’Ercole (c). In questi Giuochi i lottatori doveano spogliarsi delle loro vesti. Diede motivo a tal legge una donna d’Elea, chiamata Callipatera. Costei, sapendo, che le donne venivano precipitate da una rupe, qualora avessero passato il fiume Alfeo per assistere a’medesimi Giuochi, volle tuttavia farlo sotto le mentite spoglie di Atleta (d)(9). Col progresso poi del tempo anche le femmine poterono non solamente trovarsi presenti a que’ Giuochi, ma anche esercitarvisi (e). Il premio, dato da principio a’ vincitori, fu una corona d’ulivo selvatico (f). Vi si diedero poi corone di gramigna, di salcio, di lauro, di mirto, di quercia, di palma, e di appio. I medesimi vincitori conseguirono altresì dei ricchi doni, se ne descrissero i nomi ne’pubblici Registri degli Elei, e rientrarono nella loro patria coll’apparato del trionfo, decantati da’ Poeti, e dagli Scultori rappresentati in bronzo o in manno(g). Il tempo, in cui questi Giuochi vennero rinovati da Ifito, fu pure l’Epoca degli Ellanodici, ministri che presiedevano agli stessi spettacoli. Eglino erano prima due, e poi divennero dodici, scelti a sorte dalla città d’Elide. Era loro {p. 86}uffizio il dare degli avvertimenti agli Atleti prima di ammetterli a que’ Giuochi, e il farli giurare, che avrebbono osservate le leggi prescritte. Gli Ellanodici distribuivano il premio. Si gloriavano d’integrità ; puce conveniva talvolta ricorreré contro le loro decisioni al Senato d’Olimpia, giudice supremo de’ Giuochi (a). Notiamo per ultimo che i Giuochi Olimpici furono di nuovo int rrotti a’ tempi di Corebo(b), e che si ristabilirono da Climeno, figlio di Arcade, uno de’ discendenti d’Ercole Ideo (c).

Tralle Feste di Giove si fa menzione della Bufonia, così detta, perchè si celebrava dagli Ateniesi col sacrifizio di molti buoi (d). La medesima Solennità chiamavasi anche Diipolia, perchè con essa si onorava Giove Polico, ossia preside e custode della città(e). Si poneva allora sopra l’altare del Nume orzo mescolato con frumento. Tostochè uno de’ buoi, che dovei servire di vittima, mangiava di quel grano, il sacerdote con una scure feriva quell’animale, e davasi alla fuga. Queglino, che vi assistevano, chiamavano in giudizio la scure, la condannavano ad essere spezzata, e giudicando che il bue non avesse più a sopravvivere, di comune consenso lo sacrificavano (f). Altri dicono, che il predotto grano si riponeva sopra un trepiede, che intorno ad esso si facevano girare dei buoi, e che il primo di questi, il quale toccava quel cibo, veniva sacrificato. Tre soli, ciascuno di diversa famiglia, potevano fare in Atene siffatto sacrifizio. L’uno {p. 87}conduceva i buoi, l’altro li feriva, e il terzo li sacrificava. Vuolsi che l’origine di tal ceremonia sia stata questa : un sacerdote di Giove, detto Taulone, o Diomo, o Sopatro, vide mangiarsi da un bue una focaccia, ch’ egli avea offerto al suo Nume. Sdegnato lo uccise. Ciò era delitto per l’utilità de’ buoi. Il Sacerdote fuggì per timore degli Ateniesi. Questi chiamarono in giudizio la scure, e si assolvette il Sacerdote (a).

Tra’ Sacerdoti di Giove il maggiore si appellava Flamine Diale. Questa dignità s’instituì da Numa Pompilio (b), ed era la più distinta tra tutti i Flamini. Chi n’era fregiato, usava di una veste reale, di una sefia d’avorio, e di un anello d’oro. La di lui beretta era formata della pelle di qualche bianca pecora, ch’egli avea sacrificato a Giove. Suila sommità della stessa beretta v’avea una piccola verga d’ulivo ; ed egli solo avea di itto di portar a in ogni tempo, mentre gli altri Flamini non potevano farlo, se non quando esercitavano il loro ministero. Il Flamine Diale, quando andava per le strade, era preceduto da un littore. Benediceva le armi, e pronunziava imprecazioni contro i nemici. Eragli vietato l’entrare in qualsivoglia Magistratura, affinchè sempre attendesse al culto del suo Nume. Non poteva nè andare a cavallo, nè dormire la notte fuori di Roma, nè rimirare un esercito disposto in battaglia, nè entrare in un luogo, ove vi giacesse un morto. Se alcun reo metteva piede nella’ di lui casa, o si gettava a’ di lui piedi, non andava più soggetto la meritato supplizio. Non era permesso se non ad un uomo libero il recidere a questo Flamine i capelli ; e i medesimi doveansi poscia sotterrare sotto una verde {p. 88}quercia. Finalmente se moriva a tal Sacerdote la moglie, egli perdeva la carica (a).

Gli altri nomi, dati a Giove, sono pressochè innumerabili. Altri di essi gli derivarono, ov’ era in ispezial modo venerato ; altri da’ diversi popoli, che ciò facevano ; ed altri dalle beneficenze, ch’ egli conferiva. I più celebri sono questi : Padre, Re, Statore, Erigdupo o Brontonte o Bronteo, Ecalo o Ecalesio, Mecaneo, Olimpio o Olimpico, Ideo, Eleutero, Dodoneo, Ammone, Elicio, Diespitero, o Lucerio o Lucezio, Erceo, Pistore, Patroo, Itomete, Laziale, Orcio, Egioco, Apomio ; o Muscario, Pluvio, Feretrio, Conservatore, Capitolino, Liceo, Lapide o Lapideo, Asbameo, Atabirio, Panonfeo, Ansuro o Ansiro o Asuno, Mematte, Ceraunio, Conio, Milichio, Ilapinaste, Ctesio, Trifilio, Ultore, Sponsore, ed Ospitale.

Fu detto Padre, e Re, perchè si considerava come il Sovrano degli altri Dei, e di tutti gli uomini (b).

Gli si diede il nome di Statore, ossia che ferma, perchè Romolo, combattendo co’ Sabini, ed essendo per rimanerne vinto, invocò Giove, acciocchè fermasse i di lui soldati, che cominciavano a darsi alla fuga. Si credette, che fosse stata esaudita la preghiera ; e Romolo alle falde del monte Palatino eresse al Nume un tempio col titolo di Giove Statore (c). La statua di questo Dio ivi stringeva una picca nella destra, e un fulmine nella sinistra. Narrasi innoltre, che il Console Flaminio, marciando contro Annibale, cadde col suo cavallo dinnauzi al simulacro di Giove Statore. I di lui soldati ebbero tal fatto per infausto presagio, o per un avviso del Nume, ondo {p. 89}Haminio si arrestasse, nè si esponesse al combattimento. Egli tuttavia volle farlo, e vi rimase sconfitto (a).

Erigdupo (b) o Brontonte (c) o Bronteo fu chiamato, perchè era creduto il suscitatore del tuono. I Latini lo chiamavano per questa ragione Tonante. Sotto questo titolo Augusto gli alzò un tempio nel Campidoglio, in memoria di essere stato salvato dal fulmine, che colpì la di lui lettica, e uccise chi la dirigeva, mentre egli di notte viaggiava verso la Spagna (d). Vuolsi, che Giove siasi così denominato anche perchè dava, tuonando, gli oracolie(e).

Ecalo o Ecalesio si disse, perchè avea un tempio in Ecale, borgo della tribù Leontide nell’ Attica, dove gli si celebravano le Feste, dette pure Ecalesie (f). Filocoro, Istorico Greco, citato da Plutarco, soggiunge, che Teseo le istituì in memoria di Ecale, donna vecchia e povera, ma virtuosissima, la quale aveagli promesso di sacrificare ella stessa a Giove, se egli fosse ritornato sano e salvo dalla guerra contro i Sarmati. Colei non potè farlo, perchè morì, primachè (g). Teseo ritornasse da quella spedizione.

Prese il nome di Mecaneo dal verbo greco micanevome, intraprendere, poichè si credeva, ch’ Egli proteggesse le imprese degli uomini. V’avea in Argo presso il tempio di Cerere un bronzo, che sosteneva le statue di Giove, di Diana, e di Minerva (h). Appresso Pausania leggesi, che quel bronzo {p. 90}rappresentava Giove Mecaneo, e che gli Argivi dinanzi a quel simulacro, prima d’andarsene all’assedio di Troja, giurarono tutti di perire, piuttostochè abbandonare quell’impresa(a).

Si denominò Olimpio o Olimpico, perchè Egli cogli altti Numi soggiornava sull’ Olimpo, monte altissimo tra li Tessaglia e la Macedonia ; e però tenuto dagli Antichi per lo stesso Cielo(b). Giove sulla più alla pendice di quel monte radunava sovente a consiglio gli altri Dei (c). Gli Ateniesi fabbricarono a Giove Olimpicò nella Città d’Olimpia il più magnifico tempio, che fu chiamato il Trono di Giove. Il Dio era ivi assiso sopra un trono, cinto la fronte di una corona, che imitava la foglia di ulivo. La stessa statua era d’oro e d’avorio. Avea nella destra una Vittoria, parimenti d’oro e d’avorio ; nella sinistra uno scettro, formato di tutte le sorta di metalli Erano pur d’oro la capigliatura e il mantello del Nume (d). Questo simulacro era stato opera di Fidia, figlio di Carmida (e). Le fondamenta del predetto tempio furono gettate da Pisistrato, e moltissimi di lui successori v’aggiunsero sempre qualche ornamento fino a’ tempi d’ Adriano, ne’ quali fu ridotto a tutta perfezione. Il medesimo tempio era circondato da un bosco sacro, detto Alti (f), e per cui anche Giove venne soprannominato Alzio (g). Al tempo degli Antonini si vedeano in quel bosco molti altari e moltissime statue, erette a’ vincitori de’ Giuochi Olimpici (h)(10)(11).

Venne appellato Ideo dal monte Ida, ove fu allevato (i). Ne’ dintorni di Celeno, Città della Frigia, {p. 91}si aperse una vasta e profonda voragine. Mida, che allora ivi regnava, avvertito dall’oracolo, che quella si sarebbe chiusa, qualora vi si fossero gettate le cose più preziose del paese, v’ avea gettato gran parte delle sue ricchezze, ma inutilmente. Ancuro allora, avvisandosi non poter esservi cosa più preziosa della vita dell’ uomo, diede un addio al padre, a Timotea, sua moglie, e si precipitò a cavallo nella voragine. La terra tosto si chiuse ; e Mida in quel luogo v’alzò un’ara d’oro a Giove Ideo (a).

Eleuterio, ossia Liberatore, fu detto da’ Greci, i quali pure gli dedicarono le Feste Eleuterie, chiamate anche Parentali, ossia della libertà(b). Queste soleano essere celebrate appresso Asopo, fiume di Platea, da ambasciatori, spediti da quasi tutte le Città, della Grecia (c). Vennero instituite per causa d’una celebre vittoria, riportata da’ Greci, essendone comandante Pausania Spartano, sopra i Persiani, i quali sotto Mardonio vi perdettero trecento mila uomini(d). Tali solennità si cominciavano con una processione, anounziata colle trombe. Vi concorrevano molti corri, ornati di ghirlande di fiori, e sopra uno di essi eravi riposto un nero toro. Certi giovani portavano dei vasi pieni di vino, di Iatte, d’oglio, e di profumi. V’intervenive finalmente il principale Magistrato della Città. Giunti alle tombe de’ Greci, morti nell’anzidetta guerra, ne Iavavano la superfizie, e la ungevano d’oglio ; immolavano sopra un rogo il toro ; e dopo aver invocato Giove e Mercurio, v’ imban ivano un sacro convito, a cui ad alta voce invitavano le ombre di quegli Eroi (e).

{p. 92}Fu detto Dodoneo, perchè in Dodona, creduta da alcuni Città della Tessaglia, da altri dell’Epiro (a), eravi una foresta piena di quercie, da dove credevasi che il Nume desse i suoi Oracoli. Questi e per la loro origine e pel modo, con cui si rendevano, erano assai famosi. Strabone dice, che questo Oracolo fu instituito da’ Pelasgi, popoli i più antichi, che abitarono la Grecia (b). Altri soggiungono, che una nera colomba volò da Tebe in Dodona. Quivi sopra i rami delle predette quercie si posò, e con voce umana fece intendere, che Giove era per istabilire ivi un Oracolo (c)(12). In quella foresta scorreva una fontana, parimenti sacra a Giove. Essa si denominava Anapavomeno, ossia che cessa, perchè sul mezzodì si diminuiva, e a mezza notte cresceva. La stessa innoltre cra tale, che all’accostarsi delle fiaccole alle sue acque, le estingueva, e le riaccendeva estinte (d). La Sacerdotessa di quel luogo faceva credere, che il mormorio della medesima fonte fosse profetico, e che Giove ne avesse a lei conferito l’intelligenza (e). Ella scelse la cupa ombra d’una venerabile quercia, donde dava le sue misteriose risposte(13). La di lei riputazione s’accrebbe ; s’alzò un tempio a Giove ; e allora gli eventi si predissero dal tripode, il quale secondo alcuni era un vaso, ma secondo la comune opinione era una sedia, sostenuta da tre piedi(f). Non molto dopo s’immaginò un’altra arte per acquistare maggiore riputazione all’anzidetto Oracolo. Si formò una statua di rame, che rappresentava Giove armato di una sferza dello stesso metallo. Essa ne’ giorni, ne’ quali era permesso {p. 93}interrogare l’Oracolo, sospendevasi alla predetta quercia, e si appendevano pure intorno alla medesima parecchi vasi di bronzo. La statua, scossa dal vento, percuoteva colla sferza que’ vasi, disposti in sì piccola distanza tra loro, che bastava agitarne uno per dar moto a tutti, e produrne un lungo suono. I Sacerdoti poi, nascosti nel concavo delle altre quercie circonvicine, rendevano la spiegazione di sì confusa armonia ; e per tale motivo tutti quegli alberi erano tenuti per loquaci e fatidici (a). Questo Oracolo finalmente si consultava colle Sorti(14).

Vuolsi da alcuni, che Giove sia stato denominato Ammone da un certo pastore dello stesso nome, che fu il primo ad alzargli un tempio (b). Appresso di questo scorreva una fonte indovina, detta l’ Acqua del Sole. Questa era gelida sul meriggio, e calda al rinascere e tramontare del Sole. Ad essa niuno osava d’avvicinarsi fuorchè il sacro ministero (c). Nel mezzo al predetto tempio v’avea il simulacro di Giove, fonnato di bronzo, e fornito di pietre preziose. Il piedestallo del medesimo era d’oro, e avea la forma di navicella. Questo Nume ivi avea altresì cento are e più di cento sacerdoti. La pelle di ariete gli cuopriva la testa, e scendevagli pel dorso. Dicesi che avesse anche corna e testa dello stesso animale. Non si va d’accordo riguardo alla ragione di tale particolarità. Dicono alcuni, che Giove non volendo mostrarsi ad Ercole, suo figlio, il quale desiderava di vederlo, nè potendo più resistere alle di lui istanze, uccise un ariete, si ravvolse nella pelle di quello, e in tal guisa gli comparve (d). Altri soggiungono, che Bacco ne’ deserti dell’Arabia, {p. 94}trovandosi languente di sete, implorò l’ajuto di Giove. Questi sotto la sembianza di ariete percosse col piede la terra, e così gli additò una sorgente d’acqua(a). Comuncue ciò sia, certo è, che non v’ebbe Oracolo, cui si facesse rispondere con più solennità, quanto quello di Giove Ammone, ma i suoi detti erano molto intricati ed oscuri. La statua del Nume, quando si portava in processione, veniva riposta sopra una dorata nave. Ottanta sacerdoti se ne caricavano le spalle. Era interdetto l’avvicinarvisi gran fatto. A qualche distanza d’intorno le donné con danze e canti festeggiavano la sacra ceremonia. Il simulacro allora, muovendo il capo, accennava dove voleva andarsene ; e faceva altri moti, che interpretati da di lui Ministri, servivano di risposta a chi ne lo consultava. Così Alessandro il Grande ottenne di essere da questo Oracolo dichiarato figliuolo di Giove (b). Anche Iarba, re dell’Africa, pretendendo di essere discendente dallo stesso Dio, gli eresse cento magnifici tempj, e altrettanti altari, e gli consecrò un fuoco perpetuo (c). Giove Ammone quanto era venerato nella Libia, alttettanto ne lo era in Afite, città della Tracia, ove avea un maestoso tempio. Lisandro, figlio dello Spartano Aristocrato, assediava l’anzidetta città ; Giove gli apparve in sogno, e lo consigliò a desisterne. Così avvenne ; e ciò fu motivo, che il Nume vieppiù fosse onorato (d).

Dal verbo latino elicere, far venire, fu denominato Elicio, perchè Numa Pompilio lo fece discendere dal Cielo per apprenderne il modo, con cui si porevano allontanare i fulmini. Lo stesso re poscia gli {p. 95}eresse un altare, e gli sacrificò sul monte Aventino (a). Al soprannome di Elicio corrisponde quello di Epifane, ossia che apparisce, in quanto che Giove si manifestava alla terra co’ tuoni, e con varj prodigi (b).

Diespitero fu appellato da’Romani, perchè si risguardava come il padre del giorno, ossia l’autore della luce. Per questa ragione fu anche detto Luceno o Lucezio (c).

Si disse Erceo, perchè si venerava in un luogo di ciascuna casa, chiuso all’intorno, e il quale chiamavasi anche Penetrale (d).

Assediando i Galli il Campidoglio, e i Romani essendo già per arrendersi a motivo della fame, Giove comparve a questi in sogno, e loro disse, che di tutto il frumento, il quale aveano, formassero dei pani, e li gettassero nel campo nemico. Così fecero ; e i Galli, disperando della vittoria, li liberatono dall’ assedio. Roma quindi eresse a Giove un’ara nel Campidoglio, e diede allo stesso Nume il soprannome di Pistore (e).

Giove sotto il nome di Patroo avea nel tempio di Minerva, eretto in Argo, una statua di legno, la quale oltre i due soliti occhi ne aveva un terzo nel mezzo della fronte, per indic re che Giove vedeva tutto ciò, che avveniva in Cielo, in terra, e nell’Inferno (f) ; ovvero che conosceva il presente, il passato, e il futuro (g)

Ebbe il nome d’Itomete, perchè si pretendeva, che {p. 96}le Ninfe, Itome e Neda, lo avessero nascosto nella fonte Clepsidra, la quale trovavasi sopra un monte d’Itome, città della Messenia (a). Que’ popoli perciò l’onorarono d’un culto particolare, e gl’instituirono annue Feste, dette Itomee, nelle quali i Musici tra loro gareggiavano (b). Dicesi che Aristomene, cittadino di Messene, abbia sacrificato trecento uomini a Giove Itomete (c).

Si chiamò Laziale dal Lazio, ov’era sul monte Albano in singolare modo onorato. L’origine di siffatto culto si deriva da Tarquinio il Superbo. Questi, dopo aver fatto alleanza co’Latini, cogli Ernici, e co’Volsci, per assicurarne la perpetuità, propose di alzare a Giove sul predetto monte un tempio, che dovesse essere ad essi comune, e dove tutti gli alleati ogni anno avessero a radunarsi per sacrificarvi un toro, delle di cui viscere ne venisse distribuita a ciascun popolo una porzione (d). Tale sacrifizio si appellava Laziare (e). Questa ceremonia da prima durava un giorno, poi due, indi tre, e finalmente quattro. In questo dì v’erano nel Campidoglio corse di quadrighe (f). Questi quattro giorni si denominarono Ferie Latine(g).

Tra’varj nomi, pe’ quali i Greci e i Romani giuravano, quello di Giove era uno de’ principali. Quindi questo Nume, come preside a’ giuramenti(15), si nominò Orcio. Que’ d’ Olimpia aveano collocato nel loro Senato la di lui statua, e per inspirare alle genti maggior terrore, gli aveano posto anche il fulmimine in ambe le mani (h).

{p. 97}Giove, per conservare la memoria della capra Amaltea, col di cui latte era stato nutrito nella suainfanzia, ne cuoprì il suo scudo cotta di lei polle, e lo chiamò Egide. Da ciò anch’egli fu soprannominato Egioco, ossia portatore dell’ Egide(a).

Si appellò Apomio o Muscario, ossia qscacciatore delle mosche, perchè Ercole, sacrificandoc in Olimpia, e venendo allora molestato dalle mosche, offerse, il sacrifizio a Giove, e quelle tosto si ritiraro no al di là del fiume Alfeo (b)(16).

E’stato detto Pluvio ; ossia Piovoso, perchè in tempo di siccità se ne implorava la pioggia (c). Sotto questo titolo aveva in Roma un altare nel tempio del Campidoglio, Narrasi, che l’armata di Trajano, vedendosi agli estremi della vita per mancanza d’acqua, fece voto a Giove Pluvio, e tosto discose dal Cielo dirottissima pioggia. Per eternare la memoria di tal fatto, si scolpì sulla colonna Trajana la figura di questo Nume, e de’ soldati in atto di raccorre l’acqua nel concavo de’loro scudi (d). A Giove Pluvio si offriva un sacrifizio, detto Acquilicio (e), in tale occasione si faceva anche girare da’ sacerdoti per le vie di Roma con grande pompa la sacra Pietra, detta Manale, la quale trovavasi fuori della Porta Capena presso un tempio di Marre. Diceasi che subito dopo questa ceremonia se guiva la pioggia (f). Il Dio sotto questo aspetto era dagli Ateniesi chiamato Iezio, e da loro eragli stato eretto un altare sul monte Imetto (g).

{p. 98}Ronolo ricercò a’ Sabini e a’ vicini popoli alcune delle loro donne per popolare la città, che avea fabbricato ? nè avento potuto ottenernele, se le rapi mediante la celebrazione de’ Giuochi Consnali(17), a’ quali molte di quelle erano concorse (a). I predetti popoli, par vendicarsi di siffatta violenza, portarono tosto le armi contro gli abitatori di Roma. Romolo li rispinse, uccise Acrone, re de’ Ceninesi, ne disfece l’armata, e trasferì le spoglie opime(18) delle medesime sul Campidoglio, ove le appesse ad una quercia in dono a Giove. Ivi pure eresse il primo tempio allo stesso Nume, e a questo diede il nome di Feretrio, dal verbo latino fero, porre. Da ciò ne avvenne, che anche i di lui posteri colà vi recavano le spoglie nemiche, per consecrarvene una parte a questo Dio (b). Quindi Giove fu anche chiamato Predatore, dalla voce latina praeda, spoglia de’ nemici(c).

Domiziano impose a Giove il nome di Conservatore, perchè credette, che lo avesse salvato nella sedizione dell’Imperatore Vitellio. Divenuto poi anch’ egli Imperatore gl’innalò un piccolo tempio o un altare, su cui scolpì i motivi della sua riconoscenza (d)(19).

Giove dall’essere magnificamente onorato nel Campiloglio fu detto Capitolino (e). Servio Tullio ivi gli eresse un maestoso temoio, le di cui fondamenta erano sute gettate da Tarquinio Prisco(20). Tarquinio il Superbo lo ulcimò, e il Console Orazio Pulvillo ne fece la dedicazione (f). Il medesimo {p. 99}tempio era circondato da un vasto portico. Quivi eravi riposta un’ Oca d’argento, per ricordare, che le Oche aveano salvato col grido e col dibattimento delle ali il Campidoglio dall’invasione de’Galli (a)(21). Nel predetto portico i trionfatori, dopochè avcano sacrificato, davano un lauto banchetio al Senato. Alcuni poi pretendono, che lo dessero nello stesso tempio di Giove (b). In questo inoltre si pronunziavano i giuramenti solenni di fedeltà a’ magistrati. I Generali pure d’armata vi porgevano i loro voti prima di andarsene al campo. Anche il Senato vi si radunava pertrattare degli affari di grande importanza (c). Di questo tempio finalmente si racconta, che Tarquinio Prisco, prima di fondarlo, ordinò, che si rimovessero da quel luogo le statue degli altri Nunti, e se ne attetrassero i tempj ; che tutti quegli Dei cedettero senza difficoltà il loro luogo a Giove ; che solamente il Dio Termine(22), e la Dea Ebe, riconosciuta da’ Romani sotto il nome di Giuventa, ossia Dea della Gioventù(23), non vollero cangiare situazione ; e che quindi furono lasciati entro il recinto del nuovo tempio (d). L’immobile fermezza di Termine ebbesi per buon augurio della perpetuità del Romano Imperio, e affinchè si potesse sacrificare allo stesso Nume, si Iasciò scoperta una parte del predetto tempio, perchè altrimenti non era permesso il farlo (e). Il medesimo tempio tre volte rimase abbruciato : la prima al tempo della guerra civile tra Mario e Silla, la seconda sotto Vitellio, e la terza sotto Tito. Tre volte parimenti venne rifabbricato : l’una da Silla Dittatore, l’altra dall’Imperatore Vespasiano, l’ultima da {p. 100}Domiziano(a). In onore di Giove Capitolino, che avea salvato il Campidoglio dalle armi de’ Galli, il Senato per consiglio di Camillo instituì certi Giuochi, denominati Capitolini, e introdusse un Collegio di scelte persone, il quale ne regolava tutte le ceremonie (b). A Giove Capitolino si diede anche il soprannome di Ottimo Massimo (c).

Si chiamò Licco dal monte Liceo in Arcadia, sul quale si pretendeva ch’egli fosse stato allevato dalle Ninfe, Tisoa, Neda, e Agno (d). Eravi colà una fontana, che avea il nome della terza di queste Ninfe. In tempo di siccità il Sacerdote di Giove, dopo aver sacrificato, agitava l’acqua di quella fontana con un piccolo ramo di quercia. Da di là si alzava tosto una nuvoletta, che andava condensandosi, e finalmente si scioglieva in pioggia (e)(24). Giove sul predetto monte ebbe un tempio e un bosco. In questo chiunque metteva piede prima di aver fatto le dovute lustrazioni, necessariamente nello stesso anno moriva. Se una bestia, inseguita da’ cacciatori, colà si ritirava, essa era in sicuro. Finalmente credevasi, che nè gli alberi, nè gli animali, benchè fossero opposti a’ raggi del Sole, producessero ivi alcuna ombra di se medesimi (f). Altri poi dicono, che Giove fu detto Liceo, perchè gli Arcadi, mentre passavano a nuoto una certa palude, venivano da lui cangiati in lupi, e a que’medesimi di loro, i quali dopo nove anni nello stesso modo la ripassavano, senza essersi mai per tutto {p. 101}quel tempo cibati di carne urnana, era pet virtù di lui restituita la figura d’uomini (a).

Ebbe il nome di Lapide o Lapideo, perchè i Romani, quando stabilivano le alleanze, solevano giurare per Giove, tenendo una pietra in mano (b) ; ovvero perchè Rea, come abbiamo raccontato, presentò a Saturno in vece di Giove una pietra, che fu da quello divorata (c).

Si chiamò Asbameo dal tempio vicino alla fontana Asbamea, amendue a lui sacri, presso la città di Tiana nella Cappadocia (d). Le acque della stessa fontana erano fredde alla sorgente, e bollivano, allorchè se ne allontanavano. Esse riuscivano altresi dolci a quelli, che osservavano la fedeltà de’ gniramenti, e velenose agli spergiuri (e).

Fu detto Atabirio da’ Rodiani, l’isola de’ quali anticamente si denominava Atabiria (f). Colà avea Giove un tempio con tori di bronzo, i quali co’ loro muggiti predicevano le sventure (g).

Tra Sigeo e Reteo, Proinontorj di Troja, sorgeva un ara sacra a Giove, appellato Panonfeo (h), o perchè egli ascoltava la voce di tutti, o perchè dalla voce di tutti era onorato (i).

Giove in un tempio di Terracina, città della Campania Romana, si venerava sotto il titolo di Ansuro o Ansiro o Ansiro, ossia giovine e senza barba (l)

{p. 102}Questo Nume era anche tenuto per l’aria o pel Cielo. Quindi da lui sotto il nome di Mematte se no implorava in Atene la serenità con solenni sacrifizj, detti parimenti Mematterj (a).

Gli derivò il nome di Ceraunio, ossia Fulminatore, dal fulmine, il quale veniva scagliato spezialmente da lui (b)(25).

Que’ di Megara eressero un tempio senza tetto a questo Dio : lo che diede motivo di chiamarlo Conio, ossia Polveroso(c).

Venne denominato Milichio, ossia Placido (d), e a di lui onore si celebrarono fuori della città d’Atene le Feste Diasie, nelle quali si facevano solenni conviti e sacrifizj. L’oggetto delle medesime era quello di essere immuni da’ pericoli e disastri (e). Esichio vuole, che le Diasie si celebrassero con somma tristezza.

Ilapinaste si disse il Nume dalla Greca voce ilapine, conviti, perchè con questi era magnificamente onorato in Cipro(f).

Si chiamò Ctesio, ossia Possessore (g), perchè gli Ateniesi gli offrivano biade d’ogni sorte, oglio, e latte (h). La di lui statua si riponeva nel pubblico erario (i).

Ebbe il nome di Trifilio a cagione del magnifico tempio, ch’ egli avea in Trifilia, piccolo passe d’Elide nel Peloponneso (l), il quale secondo Stefano era la stessa Elide.

{p. 103}A Giove Ultore, ossia Vendicatore delle scellerate azioni, Agrippa, genero d’Augusto, innalzò un tempio, che fu denominato Panteon, ossia dedicato a tutti gli Dei, perchè ivi si trovavano anche le statue delle altre principali Divinità (a)(26).

Tarquinio il Superbo eresse a Giove un tempio in Roma sotto il nome di Giove Sponsore (b). Come tale presiedeva alla religione de’ contratti. Dionisio d’Alicarnasso lo confonde col Dio Fidio(27).

Si chiamò Ospitale (c) da’ Romani, e Senio (d) da’ Greci, perchè proteggeva i dritti dell’ospitalità. Gli Ateniesi onoravano il Nume particolarmente sotto questo aspetto, e aveano perciò molto riguardo degli stranieri

Non v’era tra gli Antichi chi veggendo uno straniero, nol introducesse in casa propria, e non gli presentasse subito del sale (m). Le donne lavavano i piedi agli ospiti (n). A questi pure s’imbandiva lauta mensa, e si somministravano tutte le cose necessarie, primachè se ne ricercassero il loro nome e la loro patria (o). Si celebravano inoltre delle {p. 129}feste per recare diletto agli stranieri, ed esse si cominciavano, e compivano con libazioni agli Dei (a). Gli ospiti, quando partivano, erano ricolmati di doni, i quali da loro si conservavano poi con somma diligenza, come indizj della contratta amicizia (b). Appresso gl’Istorici molto si decanta la benevolenza de’Cretesi verso gli ospiti (c). E’pur celebre un certo Assilo Frigio, della città d’Arisba, perchè egli, abitando sulla strada, impiegava tutte le sue facoltà nell’accogliero gli ospiti (d). Il diritto dell’ospitalità era sì sacro, che l’uccisione d’un ospite era il più orrendo misfatto (e). L’ospitalità anche in Roma durante la solennità de’Lettisterni esercitavasi verso ogni ordine di persone ; e le case erano aperte a tutti, sicchè tutti potevano servirsi di ogni cosa che vi trovavano, senza però portarne via alcuna.

I Lettisterni erano una religiosa ceremonia, praticata da’Romani spezialmente in tempo di pubbliche calamità per placare gli Dei. Essa consisteva in un sacro banchetto, denominato il Convito di Giove. Vi s’invitavano le statue di lui e delle altro Divinità, alle quali perciò nel tempio di Giove si drizzavano varj letti, affinchè stando sopra i medesimi, partecipassero della mensa, che veniva loro imbandita. Alle Dee però in vece di letti si preparavano dei sedili (f). Il presiedere all’anzidetto convito spettava a certi Sacerdoti, chiamati Epuloni dalla voce latina, Epulae, vivande (g), perchè eglino mangiavano i cibi, imbanditi al tempo di tale {p. 130}solennità agli Dei (a). Eglino erano da principio tre, in seguito divennero cinque, poi sette, e finalmente dieci (b).

. Giove premiò in singolar modo la benevolenza esercitata verso di quelli. Egli e Mercurio sotto le sembianze di viaggiatori ricercatono alloggio da molte case in un villaggio della Frigia, e ne vennero da per tutto rigettati. Li accolse alfine la capanna, abitata da Baucide e da Filemone, vecchi ambedue, ma sino dagli anni plù floridi congiunti insieme. Eglino offrirono subito ai due Numi fruita, latte, e melo. Volevano anche uccidere un’Oca per offrirla loro in cibò ; ma quella corse appresso i piedi delle sresse Divinità, le quali chiesero, che fosse lasciata in vita. Alzatisi di mensa i due personaggi, si manifestarono per quelli ch’erano, e seco condussero su per una collina Baucide e Filemone. Erano questi poco distanti dalla vetta, quando, abbassati gli occhi, viddero sommerse nelle acque tutte le abitazioni di {p. 104}que’ dintorni, fuorchè la loro capanna, la quale erasi anzi cangiata in magnifico tempio. Giove accordò ai duo vacchierelli, che ne divenissero i sacerdoti, e die dopo lungo tratto di vita avessero a morire nel medesimo istante, onde l’uno non avesse a soffrire il dolore di condurre l’altro alla tomba. Erano giunti all’estremo della vecchiaja, e allora fu, che dinanzi alla porta del predetto tempio Baucide rimase convertita in Tiglio, e in Quercia nello stesso momento restò pure cangiato il suo marito (a). Ma Giove come premiava l’ospitalità, così puniva severamente i violatori della medesima. Tale ebbe ad esperimentarlo anche Licaone, empio e crudele re d’Arcadia Costui faceva morire tutti gli stranicri, i quali giungevano ne’ di lui Stati. Giove sotto la figura d’uomo si recò sulla sera ad alloggiare appresso di lui. Licaone subito si propose di farlo perire ; ma prima volle assicurarsi, se era egli un Nume, quale lo aveano riconosciuto i di lui sudditi : Stabilì quindi di ucciderlo, mentre dormiva, nè essendovi riuscito, fece un altro tentativo. Gli presentò sullamensa le membra di un giovane, che i Molossi aveano spedito agli Arcadi in ostaggio. Il Padre de’Numi, pieno d’orrore e di sdegno, scagliò in quello stesso istante un fulmine, con cui incenerì la Reggia del Tiranno. Questi spaventato fuggì nelle selve, e vi si trovò cangiato in Lupo (b)(29).

Giove castigò moltissimi altri per altre ragioni, come vedremo nel decorso dell’Opera. Quì basterà ricordare i Cercopi(30), e Prometeo. I primi erano gente detestabile pe’loro inganni e spergiuri. Costoro promisero con giuramento a Giove di ajutarlo, allorchè si accingeva a scacciare Saturno dal trono ; {p. 105}ma dopo di aver ricevuti gli stipendj, gli mancarono di fede, e presero innoltre ad insultarlo. Il Nume li cangiò in Simie. E perchè cotesti animali da’ Greci si denominano pithici ; perciò Pitecuse si dissero le Isole presso alla Sicilia, nelle quali coloro abitavano (a).

Prometeo, figlio di Giapeto e Temide, o di Climene, o della Ninfa Asia (b), volle prendersi giuoco di Giove. Fece uccidere due tori ; riempì delle carni di questi la pelle d’uno degli stessi, ne pose tutte le ossa in quelle dell’altro, e presentò amendue le pelli al Nume, affinchè si scegliesse quella, che più gli piaceva. Scelse Giove la pelle piena delle ossa ; e scopertone l’inganno, talmente se ne adirò, che tolse agli uomini il fuoco (c). Prometeo allora coll’ajuto di Minerva ascese in Cielo ; e, appressata una face al carro del Sole, ne portò un’ altra volta il fuoco sulla terra (d)(31). Altri dicono, che ne lo abbia preso per animare gli uomini, che aveva formati (e). Giove, offeso di questo nuovo insulto, commise al Dio Vulcano, ch’ei pure formasse una donna, a cui si diede il nome di Pandora, ossia fornita di tutti i doni, perchè varie Divinità la ornarono poscia di molte belle prerogative. Costei venne da Mercurio condotta a Prometeo, affinchè gli offrisse un vaso, il quale conteneva tutti i mali, che potevano affliggere l’uomo, e renderlo infelice. Prometeo sprezzò il dono, e Pandora lo recò in vece ad Epimeteo, di lui fratello. Questi, spinto da stolta curiosità, aprì il vaso fatale ; e tutti subito da di là si sparsero sulla terra i {p. 106}rinchiusivi mali, nè altro restè nel fondo di quello che la speranza, unico conforto de’ miseri mortali (a). Giove frattanto comandò a Mercurio, o come vuole Eschilo (b), a Vulcano, che legasse Prometeo sul monte Caucaso ad una colonna (c), o ad una rupe (d). Là un avoltojo (e), o un’aquila, nata da Tifone e da Echidna, ogni dì gli diverava le viscere : e affinchè fosse eterna la sua pena, Giove volle altresì, che quelle si riproducessero, onde il rapace uccello avesse sempro di che cibarsi. In quesco sì do loroso stato Prometeo se ne stette per trenta anni, dopo i quali Ercole uccise con una saccta l’avoltojo, ministro delle sovrane vendette (f).

Molti vennero favoriti da Giove. Tra questi si nomina, Calamo, figlio del fiume Moandro. Egli amava Carpo, figlio di Zefiro e di una delle Ore, da cui con pari tenerezza n’era corrisposto. Avvenne, che Carpo cadde nel prodetto fiume, e vi perdette la vita. Calamo, inconsolabile per sì trista sventura, pregò Giove di togliere lui pure dal mondo, e di riunirlo all’amato suo Carpo. Il Nume lo cangiò in una pianta, la quale suole crescere lungo le rive de’ fiumi, e a cui diedesi parimenti il nome di Calamo (g).

Giove amò altresì molte donne, e per avvicinarsi ad esse si trasformò in varie guise, come vedremo. Quì solamente ricordiamo, ch’egli s’invaghì di Leda, figlia di Testio, e moglia di Tindaro, re di {p. 107}Sparta (a) ; che cangiatosi in Cigno, finse d’essore inseguito da Venere, trasformatasi pure in Aquila, e ch’egli volò a salvarsi appresso l’anzidetta giovins (b).

Nacquero a questo Nume moltissimi figliuoli tra’ quali si nominano Zagreo(32), Arcade(33), le Ore(34), i due fratelli Palici(35), o i, tre Cabiri(36).

Giove rappresentasi in varie guise, ma la più comune è sotto la figura di maestoso personaggio, conlunga e folta barba, assise sopra un trono d’avorio, col fulmine nella destra e col regio scettro (c), ovvero con una Vittoria nella sinistra. Appresso al di lui soglio siede Eunomia, e vi sta osservando tutte le azioni de’ mortali (d). A’ di lui piedi vi sta pure un’Aquila colle ale spiegate. Questo uccello porta anche tra’ piedi Ganimede (e), per alludere alla Favola, la quale dire, che Giove si trasformò in Aquila per rapire Ganimede, figlio della Ninfa Calliroe e di Troe, re della Frigia(37), e per farsi porgere da lui in Cielo il nettare in vece di Ebe (f). L’Aquila talvolta stringe tragli artigli il fulmine, e tal’altra è collocata sulla cima dell’anzidetto scettro. Alcuni pongono appresso di Giove la Fama, figlia di Titano e della Terra, in qualità di sua ambasciatrice, colle ale sparse d’occhi, e colla tromba alla bocca (g)(38). Giove finalmente fu rappresentato come fanciullo, che avea appresso di se la Capra Amaltes, e le Ninfe di Creta, me nutrici. Sotto {p. 108}questo aspetto Romolo gli consecrò un tempio, e Ovidio (a) lo denominò Vejove, ossia piccolo Giove (b).

Varie ragioni vengono addotte, per le quali l’Aquila era sacta a Giove(39). Primo perchè questo Nume, combattendo contro i Titani, onde rimettere Saturno in libertà, ebbe a vedere un’ Aquila, che gliene presagì la futura vittoria (c) : lo che fece sì che l’effigie di un’ Aquila per volere dello stesso Nume divenisse anche l’Insegna militare nelle di lui posteriori spedizioni (d)(40). Secondo perchè un’Aquila, come abbiamo osservato, gli somministrò il nettare nella di lui infanzia. Terzo perchè il Nume, come pure si è riferito, sotto la figura di tal volatile rapì Ganimede. Evvi finalmente chi dice che Perifa, uno de’ primi re dell’ Attica, divenuto tale per l’esimia sua equità, non fece uso del suo potere, che per rendete felici i suoi sudditi, e per eccitarli ad onorare gli Dei e spezialmente Apollo, a cui aveva eretto tempj e altari. Così operando, talmente si rendette egli caro a’ suoi, che ancor vivente ne riscuoteva gli onori divini, ed era in un tempio venerato sotto il nome di Giove Conservatore. Ciò talmente promosse lo sdegno del Sommo Giove, che questi voleva con un fulmine precipitarlo nel Tartaro ; ma Apollo ottenne, che lo stesso Nume lo cangiasse invece in Aquila, gli affidasse la custodia del suo fulmine, e gli permettesse di avvicinarsi al di lui trono, quando voleva (e)(41).

{p. 109}Si può consideraro come sacro a Giove anche il Nibbio, uccello di rapina. La terra avea prodotto un mostro, il quale nella parte superiore era toro, e serpente nell’inferiore. Questo era stato subito rinchiuso appresso la palude Stigia in una boscaglia, circondata da triplice muro. Un antico Oracolo avea dichiarato, che colui, il quale avesse potuto abbruciarne le interiora di quel mostro, avrebbe anche potuto vincere gli Dei. I Titani, e tra questi spezialmente Briareo, eccitato da Saturno, lo uccise, ed era anche per abbruciarne le interiora, quando un Nibbio per ordine di Giove le portò via. Giove stesso allora, dopo d’avere conferita al predetto uccello l’immortalità, lo trasferì in Cielo, affinchè divenisse una Costellazione vicina all’ Orsa maggiore (a).

{p. 140}

Bacco. §

Furonvi molti, à quali venne imposto il nome di Bacco. Quegli però, di cui favellano tutti i Poeti Greci e Latini, e al quale le gesta di tutti gli altri si attribuiscono, è il figlio di Giove e di Semele (a)(1). Giunone, gelosa dell’affetto, che Giove dimostrava per Semele, prese le sembianze della di lei nutrice, Beroe, e la eccitò a ricercare da quel Nume, ch’ei si lasciasse vedere da lei, com’era solito a comparire dinanzi a Giunone. Piacque all’incauta Semele il maligno suggerimento, e lo eseguì. Giove, che prevedeva quanto era per riuscirle fatale l’inchiesta, tentò di dissuadernela, ma sempre in vano. Ascese quindi sull’Olimpo, si armò del suo fulmine, e fece ritorno a Semele. Non appena costei lo vide, che ne rimase incenerita(2). Era allora gravida di Bacco. Giove s’inserì tosto il non ancor maturo infante a perfezionarsi in una delle sue oscie (b)(3). Da ciò ne avvenne, che Bacco acquistò il soprannome di Pirisporo, ossia nato dal fuoco (c), e quello altresì di Ditirambo, e di Bimatre. Fu detto Ditirambo, perchè essendo due volte venuto al mondo, di questo per così dire ne avea passato due volte la porta (d). Si denominò Bimatre, non perchè abbia avuto due madri, ma {p. 141}perchè Giove, rimasta incenerita Semele, se lo ripose, come abbiamo testè accennato, in una coscia, e ne fece le veci di madre(a).

Alcuni dicono, che Bacco sia nato in Tebe(b) ; ma la maggior patte soggiunge, ch’ ei trasse i suoi natali nella città di Nisa, donde prese poi il nome di Dionisio, per alludere nello stesso tempo al padre suo, che nel Greco Idioma si chiama Dios(c). Neppure si va d’ accordo riguardo i nomi delle nutrici di Bacco. Ovidio dice, ch’ egli fu prima allevato da Ino, sorella di Semele, e che da quella venne poi affidato alle Ninse di Nisa, dette Niseidi (d), o Nisiadi (e), le quali, per sottrarlo alle persecuzioni di Giunone, lo nascosero ne’ loro antri, e lo alimentarono del proprio latte. Oppiano nomina come di lui nutrici, Ino, Autonoe, e Agave(f). Demarco scrisse, che Bacco fu educato dalle Ore (g). Luciano soggiunge, che Mercurio lo pottò alle Ninfe di Nisa(h). Altri sono di parere, che lo abbiano allevato sette figlie di Atlante, re della Mauritania, dette le Iadi, e le quali erano Eudora, Ambrosia, Pasitoe, Coronide, Plesaure, Pito, e Tiche o Tite(i)(4). V’ è chi asserisce, che nell’ Isola di Nasso ebbero cura della di lui infanzia le Ninfe, Filia, Coronide, e Clida(l). Orfeo non nomina come tale, che Ippa(m). Finalmente Apollonio di Rodi vuole, che Bacco siasi portato nell’ {p. 142}Isola d’Eubea appresso Macride, figlia d’ Aristeo, inventore del mele e dell’ olio(a).

Una delle prime azioni di questo Nume fu quella di discendere nell’Inferno per trarne fuori sua madre. Nel tempio di Diana, eretto in Trezene, v’ aveano due altari, sacri agli Dei Infernali, l’uno de’ quali mascondeva l’ apertura, per cui Bacco avea ricondotto Semele sulla terra(b). Tralle altre gesta poi di lui la più celebre è la sua conquista dell’ Arcadia e della Siria, dette le Indie. Intraprese questo viaggio per sottrarsi all’ odio, con cui lo perseguitava Giunone. Egli radunò moltitudine d’uomini e di donne, e seco loro s’accinse alla grande impresa. Opponevasi a’ suoi disegni il fiume Idaspe, ed ei lo disectò. Conquistate le Indie, vi fabbricò la città di Nisa, ove insegnò l’arte di coltivare le viti : e quindi fu venerato come il Dio del vino(c). In memoria di tale conquista, per cui il Nume avea impiegato tre anni, i Beozj e i Traci celebravano le Peste Trieteriche(d), o Triennie(e), o Trieteridi(f). Queste si facevano di notte solamente dalle matrone e dalle vergini, le quali si abbandonavano allora ad ogni eccesso di frenesia(g).

Bacco fu anche appellato Antio, Briseo, Erafiote, Lisio o Lieo o Libero, Eeleo, o Iacco o {p. 143}Bromio, Biforme, Milichio, Egobolo, Evante o Evio, Tioneo, e Sabazio.

Si chiamò Antio, ossia fiorito, perchè le di lui statue in Atene erano coperte di fiori(a).

Briseo, dal nome di una delle di lui nutrici ; o perchè aveva un tempio in Brisa, promontorio dell’ Isola di Lesbo ; o perchè egli fu il primo, che insegnò agli uomini a spremere l’ uva per fare il vino : lo che significa il verbo brisare(b).

Erafiote, dalle due voci Greche, eris, contesa, e fenin, far apparire, perchè il vino spesse volte suscita i contrasti(c).

Lisio o Lieo da’ Greci (d), e Libero da’ Romani, o perchè rendette la libertà a’ Beozj(e) ; o perchè il vino scioglie l’ animo da’ pensieri molesti, o fa, che si parli liberamente(f). Sotto questa denominazione gli si celebravano in Roma le Feste, dette perciò Liberali, al tempo delle quali si mangiava in pubblico, e ciascuno aveva la libertà di dire tutto quello, che voleva. Innoltre alcune vecchie, coronate d’ ellera, stavano allora assise alla porta del tempio di Bacco, alzavano dinanzi a se un focolare, e invitavano i passeggieri a comperare certi liquori, mescolati col mele, per versali nel fuoco ad onore del Nume(g).

{p. 144}Eleleo (a) o Iacco(b)(5) o Bromio (c), dallo strepito, che si faceva al tempo delle di lui solennità, ovvero da quello, che sogliono fare i bevitori. Altri dicono, che sia stato denominato Bromio dalla Ninfa, Brome o Bromie, che lo educò(d). Dal predetto nome di Eleleo anche le di lui Sacerdotesse, delle quali quanto prima parleremo, si dissero Eleleidi(e).

Biforme, o perchè si dipingeva ora giovine, ed ora vecchio ; o perchè il vino produce effetti contrarj gli uni agli altri in coloro, che soverchiamente ne usano(f).

Milichio, dalla voce milica, fico, perchè egli era stato il ritrovatore non solo del vino, ma anche de’ fichi (g).

I Potniesi, mentre celebravano le Feste di Bacco, talmente si ubbriacarono, che ne uccisero il Sacrificatore. Il Nume tosto li afflisse con grave pestilenza. Consultarono l’ Oracolo di Apollo, e questo loro prescrisse d’ immolate a Bacco un bellissimo giovinetto. Così per molti anni si fece da loro, e finalmente per volere di Bacco stesso sostituirono in luogo del giovinetto una capra, per cui il Nume acquistò il nome di Egobolo(h).

Evante o Evio, perchè nel tempo delle di lui Feste andavasi gridando evan, evan(i) : donde {p. 145}anche alle di lui Sacerdotesse derivò il nome di Evanti(a). Altri dicono, che la voce Evio significa coraggio, o figlio, e che così Giove lo chiamò, quan de lo eccitava a sostenere il combattimento, che da’ Giganti si faceva all’ Olimpo(b). Narrasi, che Bacco in quella circostanza siasi trasformato in leone, e abbia sbranato uno di que’ nemici(c).

Tioneo, dal verbo Greco, thyn, sacrificare, perchè gli si offerse delle vittime, mentre ancor viveva sulta terra(d) ; ovvero dall’ essere stata anche chiamata Tione la di lui madre, Semele (e).

Sabazio, da’ Sabi, gente della Tracia, da’ quali era in particolar modo onorato (f). Sabazj si appellarorono pure i sacrifizj, che gli si offerivano, e i di lui misterj(g)(6).

Le altre Feste di Bacco furono le Baccanali, le Scierie o Sciere, le Brumali, le Apaturie, le Lampterie, le Antesterie, le Nittolie, le Agrionie o Agranie o Agrianie, le Tiie, e l’Ascolia(7). Le Baccanali si denominarono da’ Greci Teinie dal nome Teino, ossia Dio de l vino, con cui appellavasi Bacco (h). Le stesse da quelli si chiamarono anche Orgie(i). Erano Feste, che dall’ Egitto avea portato un certo Melampo(l) ; o come altri vogliono, Orfeo, da cui furono delle Orfiche (m). La maniera, con cui si solenizzavano, da principio era semplicissima, e si mantenne tale, finchè l’afflluenza {p. 146}delle ricchezze introdusse il lusso anche nelle sacre ceremonie (a). Ne’ primi tempi si offriva un vaso pieno di vino, una cesta di fichi, e il sacrifizio di un Irco, animale odioso al Nume, perchè esso sue le devastare le vigne (b). Queste Feste si distinsero poscia in grandi e piccole (c). Queste servivano di preparazione a quelle(d), si celebravano in aperta campagna nell’ Autunno, e si chiamavano anche. Lenee dal greco linos, torchio(e). Alle grandi davasi il nome di Dionisie, o Dionisiache dall’ anzidetto soprannome di Dionisio, proprio di Bacco ; e quelle si facevano nella Primavera (f). Nelle une e nelle altre, eravi grande concorso, benchè ne fossero esclusi i forestieri (g). Gli uomini e le donne si coronavano allora d’ ellera. Non si udivano che voci clamorose, e forte strepito di timpani e tamburi. Alcuni ubbriachi comparivano vestiti di pelli d’irco o di tigre, e colla testa entre le corna di un giovane cervo (h). Un ragazzo sopra un carro, tirato da que’ finti animali, rappresentava Bacco, mentre altri gli saltellavano d’intorno sotto le sembianne di Satiri e di Fauni(8)(i). Un vecchio, che rappresentava uno de’ Sileni(9), assiso sopra un asino, eccitava tutti all’ allegrezza. Si portavano certi altari, formati come ceppi di vite, e coronati anch’ essi d’ellera, su’ quali abbruciavano incenso ed altri aromi. L’uso {p. 147}delle Ceste mistiche(10) in queste Feste era solenne assai più che in quelle di qualunque altro Nume(a). Le predette racchiudevano le primizie di tutte le frutta, le quali si consecravano al Nume(b). La statua di Bacco era collocata sulla Tensa(11), tirata da animali (c). In Roma poi così crebbe in tali Feste il disordine e la licenza, che il Senato le proibì sotto gravissime pene (d).

Le Scierie o Sciere ogni anno si celebravano in Alea, città d’Arcadia. Per comando dell’ Oracolo di Delfo allora le donne si battevano con verghe all’ altare di Bacco, e la statua del medesimo si portava sotto un’ ombrella(e).

Le Brumali furono così dette dal nome Brumo, che secondo il Cantelio(f) era lo stesso che Bromio, e con cui gli antichi Romani soleano chiamare Bacco (g). Vennero instituite da Romolo, il quale durante le medesime trattava a convito il Senato (h). Si celebravano due volte per ciasoun anno(i), e continuavano un mese(l). V’ è chi pretende, che fosseso le medesime che le Liberali ; eche le une e le altre si chiamassero anche Vinali(m)(12).

Il nome di Apaturie derivò della voce, apati, inganne. La Beozia avea mosso guerra ad Atene per un Territorio limitrofo. Santio, re de’ Beozj, {p. 148}propose di dar fine al contrasto con un particolare com-battimento. Timete, re d’ Atene, che lo risiutò, fu deposto, e venne eletto Melanto Messenio, siglio di Neleo e di Periclimene, che lo accettò. Essendo sul punto di venire alle mani, Melanto tacciò Santio di aver violati i patti, avendo egli al suo fianco un altro guerriero, coperto con nera pelle di capra. Santio girò il capo per vedere chi era seco, e restò frattanto da Melanto ucciso. Gli Ateniesi in memoriz di questo avvenimento alzarono un tempio a Bacco Melanegiro, ossia vestito di ner a pelle di capra, perchè si credette, ch’ egli fosse allora comparso sotto quelle sembianze(a), cd uno a Giove Apatenore, ossiz ingannatore. Altri parlano diversamente riguardo allo predette Feste. Esse, dicono, duravano tre giorni, nel primo de’ quali si celebrava un convito, nel secondo si sacrificava, e nel terzo si aggregavano de’ giovani in ciascuna tribù. Tali giovani non vi si ammettevano, se non dopochè i loro genitori aveano giurato per la loro legittimità, come se sino a quel tempo i sigli fossero stati senza padri ; e però si dicevano apatori : dalla qual voce vuolsi, che le anzidette Feste sieno state chiamate Apaturie(b). I Protentiesi celebravano le medesime per cinque giorni, nel che furono poi imitati dagli Ateniesi(c).

Le Lampterie succedevano subito dopo la vendemia appresso i Pellenj, popoli d’Acaja. Si andava allora di notte con fiaccole accese al tempio di Bacco. In tutti i borghi della città si esponevano anfore piene di vino, le quali servivano per i {p. 149}passeggieri. Da tali Feste Bacco si denominò Lamptero(a).

Le Antesterie venivano solennizzate dagli Ateniesi nel giorno undecimo, e ne’ due seguenti del mese Antesterione, dal quale furono così chiamate. Ciascuno de’ predetti giorni desumeva poi il nome relativo a ciò, che vi si faceva. Il primo chiamavasi pitegia, ossia apertura delle botti, perchè si gustava il vino : il secondo coa, cogno, ossia gran misura di vino, perchè ne’ conviti ciascuno bevea da una tazza, la quale serviva per lui solo. Voleasi cou ciò ricordare un fatto, avvenuto a’ tempi di Pandione, o come altri yogliono, di Demofconte, re d’ Atene. Oreste, avendo ucciso sua madre, come più diffusamente vedremo, per purgarsi del suo delitto, giunse in Atene, mentre si celebravano le solennità di Bacco. Pendione lo invitò a banchettare seco lui ; ma temendo che gli altri convitati ricusassero di bere con Oreste, ordinò che a ciascuno di quelli fosse dato un bicchiere : e così tolse l’ingiuria, che avrebbesi potuto recare a quell’ ospite. In questo dì si faceva grande uso di vino, e chi nel bere superava ogni altro, conseguiva in premio un vaso pieno di vino, e una corona intrecciata di foglie, e la quale talvolta era anche d’oro. Andavasi parimenti in giro sopra i carri, da’ quali si motteggiavano i passeggieri. L’ ultimo giorno fu detto chitra, ossia pignatta, perchè in essa si faceva bollire ogni sorte di legumi, e questi si offrivano in sacrifizio a Bacco e a Mercurio. In tal giorno si rappresentavano Commedie(b). Le Antesterie {p. 150}secondo alcuni non erano una festa particolare, ma con tal nome si chiamavano tutte le Feste di Bacco(a).

Le Nittelie erano le Orgie, così dette, perchè si celebravano di noste, correndo con torcla accese per Atene(b). Coloro, che v’intervenivano, tenevano una tazza in mano, e faceano nel tempio di Bacco ampie libazioni. Tali Feste si celebravano anche sul Citerone, monte, che trovavasi nella Beozia. Per la stessa ragione anche il Nume fu detto Nittelio (c). Egli ebbe un tempio nell’ Attica presso una Cittadella, detta Caria da Car, siglio di Foroneco(d).

Le Agrionie o Agranie o Agrianie erano parimenti Feste notturne, le quali si solennizzavano dalle donne Greche, coronate d’ellera. Elleno le cominciavano, corrando da tutte le parti in cerca di Bacco ; e non trovandolo, lo credevano ritirato appresso le Muse(e). Si ponevano quindi a mensa, e si proponevano dégli enigmi e delle intricate questioni (f). Tra gli Orcomenj di Beozia v’ avea di particolate in queste Feste, che le donne n’erano escluse. Quindi un sacerdote di Bacco con nuda spada le inseguiva, ed eragli permesso di uccidere tutte quelle, che poteva raggiungere. Così fece Zoilo, Sacerdote Cheronese. Le figlie di Minia, che uecisero Ippaso, figlio di Leucippe, e lo recarono sulla {p. 151}mensa furono con tutta la loro famiglia per sempre escluse dalle Agrionie(a).

Le Tiie si solemizzavano dagli Eleesi, popoli del Pelopouneso, durante le quali credevasi, che Bacco onorasse della sua presenza il luogo, ove quelle si celebravano. Tre vasi vuoti allora si riponevano nella Cappella del Nume a vista di tutti. I Sacerdoti ne sigillavano le porte. Al nuovo dì rientravano nella Cappella, e si trovavano i vasi pieni di vino(b).

I Contadini dell’ Attica al tempo delle vendemmie sacrificavano a Bacco un irco, e colla pelle di questo formavano un vaso, detto otre, ora gonfio di sola aria, ora pieno di vino. Al di fuori lo ungevano d’olio, e poi vi saltavano sopra, studiandosi di rimanervi ritti con un solo piede. Chi cadeva, era deriso. Il viacitore poi ne riportava in premio o quello stesso otre, o un altro, ma sempre pieno di vino. Questa Festa fu detta Ascolia dal greco verbo, ascoliazin, saltar con un solo piede sopra l’otre. V’è chi crede, che coloro, i quali celebravano questa Festa, accompagnassero il loto salto col suono e col canto. Questa Festa passò in uso anche appresso i Romani. Eglino distribuivano varj premj a chi vi dimostrava maggiore destrezza. Dopo la festa portavasi la statua del Nume intorno alle vigne, e se ne invocava la protezione. Finalmente sulla cima degli alberi più alti e più vicini alle stesse vigne attaccavano certe figurine di Bacco, dette oscille per la piccolezza del loro volto(c).

{p. 152}Le Sacerdotesse di Bacco si chiamarono Baccani,(a), Tiadi(b), Menadi(c), i quali nomi indicano il furore, a cui elleno si abbandonavano nel tempo delle Feste di Bacco(d). Pausania vuole, che sieno state dette Tiadi da una certa Tia, che fuila prima Sacerdotessa di Bacco(e). Le sole Tiadi aveano la cognizione delle ceremonie, solite a praticarsi nell’ Eroide, una delle tre Feste, che ogni arino si celebravano in Delfo(13). Tali Sacerdotesse si dissero innoltre Mimalloni(f) o Mimallonidi(g), Edonidi(h), e Bassaridi(i). Il nome di Mimallonidi derivò loro da Mimante, monte della Jonia, sacro a Bacco ; o dal verbo greco mimiste, imitare, perchè comparivano, com’era stato solito a farsi vedere il loro Nume. Quindi vestivano pelli di tigri, portavano i capelli sparsi dietto le spalle, cingevano la fronte di ellera, e di corna, ed aveano in mano delle fiaccole accese, o il tirso(l). Era questo un asta, attortigliata di frondi di vite o d’ellera(14). Edonidi poi erano quelle, che celebravano i misterj di Bacco sul monte Edone, a’confini della Tracia e della Macedonia(m). Ebbero il nome di {p. 153}Bassaridi, o perchè solevano cuoprirsi di una lunga veste, detta da’ Traci bassaride ; o dal loro gridare, che in greco esprimevasi anche col verbo bazin ; o perchè elleno si vestivano con pelli di volpi, dette in lingua Tracia bassari ; o finalmente perchè Bacco stesso si chiamava Bassareo per aver un tempio in Bassata, borgo della Lidia(a).

Tra’ Sacerdoti di Bacco il più famoso fu Coreso. Questi divenne tale per l’amore, che nutriva per Calliroe, Principessa di Calidone, da cui però altro non otteneva che indifferenza e disprezzo. Ei se ne querelò con Bacco ; e il Nume suscitò tra que’popoli una malattia somigliante all’ubbriachezza, la quale, rendendoli furiosi, li riduceva finalmente a morte. Quella città, vedendosi in pericolo di divenire un deserto, consultò l’Oracolo di Dodona ; e questo rispose, che si doveva placare lo sdegno di Bacco col sacrificargli per mano di Coreso la giovine Calliroe, o qualche altro, che avesse voluto sostituirono in vece di lei. Niuno avendo voluto farlo, fu condotta la Principessa all’altare ; ma Coreso, accesosi allora più d’affetto che di vendetta, rivolse contro di se medesimo il ferro, e cadde morto a’di lei piedi. Riconobbe in quel momento la giovine, ma troppo tardi, quanto egli la amava, nè volendo neppure ella sopravvivere a lui, si privò di vita appresso una fontana, che prese poi il di lei nome(b).

Fu pure a Bacco molto caro Icario, o Icaro(c), figlio di Ebalo, re degli Spartani. Questi lo accolse nella sua casa, e il Nume gl’insegnò l’arte di fare {p. 154}il vino. Icario ne fece bere ad alcuni pastori dell’ Attica in sì copiosa quantità, che si ubbriacarono. Egliso stimarono di essore stati avvelenati ; e dopo aver ucciso Icario, ne nascosero il corpo in un pozzo. Avea quegli due figliuole, Penelope ed Erigone, e una cagna, chiamata Mera, la quale sempre lo seguiva. Questa abbajando corse appresso Erigone, e strascinandola per la veste, la condusse, ove Icario era stato gettato. La figlia, al vederlo, pel dolore s’appiccò(15). Mera del pari morì per eccessiva tristezza(a).

Molti vennero puniti da Bacco, tra’quali Licurgo, figlio di Driante, e re degli Edonj, popoli vicinial predetto monte Edone ; Cianippo di Siracusa ; Driope, figlia bellissima di Eurite ; Orfe e Lico, figlie di Dione, re di Laconia ; certi nocchieri della Lidia ; Penteo, figlio di Echione e di Agave ; Alcitoe colle altre sorelle, dette Minieidi da Minia, loro padre. Licurgo perseguitò sul monte Nisa Bacco e le di lui Sacerdotesse. Queste spaventate gettarono a terra i tirsi, e Bacco stesso si ritirò in Nasso(b). Il castigo, che n’ebbe Licurgo, fu, che Giove alle preghiere di Bacco lo rendette cieco, e lo fece morire di tristezza(c). V’è chi dice, che Licurgo avea comandato, che si tagliassero ne’ suoi Stati tutte le viti ; ch’egli stesso volle darne eccitamento a’ Sudditi col suo esempio ; che con un colpo d’accetta si tagliò le gambe ; e che gli Edonj, avendo inteso dall’ Oracolo, che sarebbono stati {p. 155}privati del vino, Anchè fosse rimasto in vita Licurgo, lo fecero fare a brani da’cavalli(a).

Cianippo avea disprezzato le Orgie di Bacco. Questi lo fece cadere in sì forte ubbriachezza, per cui egli commise una nefanda scelleraggine. Lo stesso Nume desolò inoltre colla peste la di lui città. L’Oracolo, consultato sopra tale disastro, rispose, che Bacco non si sarebbe placato, qualora non si fosse sacrificato Cianippo. Ciane, di lui figliuola, penetrata dall’infelicità de’suoi concittadini, trasse ella stessa il padre pe’oapelli all’altare, lo scannò, e poi anch’ella s’uccise(b).

Driope stava tenendo tralle braccia il suo figliuolino, Anfisso, avuto da Andremone, e per divertirlo gli diede in mano un fiore di Loto(16), pianta sacra a Bacco. Il Nume se ne sdegnò, e convertì lei pure in un albero di Loto(c).

Bacco, presentatosi a Dione, ne venne onorevolmente accolto. Il Dio s’invaghì della di lui figliuola, Caria ; ma non poteva mai trattenersi con essa sola, perchè le altre di lei sorelle, Orfe e Lico, sempre glielo impedivano. Se ne adirò talmente Bacco, che le trasportò sul monte Taiete, e le cangiò in rupi. Dicesi, che v’abbia trasferito anche Caria, e che l’abbia trasformata in albero, che ritenne il di lei nome(d)(17).

Certi nocchieri della Lidia ricevettero nel loro naviglio un fanciullo bellissimo. Era stato predato {p. 156}da uno di loro stessi, di nome Ofelte, in solitaria campagna ; e aggravato dal vino, trovavasi anche allora immerso nel sonno. Il piloto della nave, cui Omero dà il nome di Medede(a), e Ovidio quello di Acete, lo riconobbe per un Nume, e si fece a pregarlo di ristorarli da’loro travagli marittimi, e di perdonare a chi lo avea ivi trasportato. Dittide ne interruppe le preghiere. Acete voleva, che il giovinetto fosse posto in libertà ; ma vi si opposero gli altri di lui compagni, Libide, Melanto, Alcimedonte, Epopeo, e l’audacissimo Licaba, proscritto dalla patria. Allo strepito delle voci il fanciullo si destò, e chiese di essere condotto a Nasso. I nocchieri giurarono per le marine Deità di compiacernelo ; ma poi presero, malgrado d’ Acete, la strada opposta. Si fermò tosto il naviglio in alto mare. Non risparmiò industria e sudori l’attonita ciurma per rimetterlo a forza di vele e remi in corso ; ma questi, e quelle si cuoprirono d’ellera, e loro impedirono l’avanzarsi nel cammino(b). Demarato dice che l’albero, i remi, e l’antena si cangiarono in serpenti(c). Bacco stesso diedesi allora a divedere coronato d’uve, col tirso in mano, e circondato da tigri, leoni, e pantere. Tutti i nocchieri s’avvidero ch’egli era un Dio, e ne implorarono il perdono, ma tuttavia ne vennero cangiati in mostri marini. Acete poi condusse il naviglio, ove Bacco avea ricercato, e l’onorò co’sacrifizj(d).

Sparsasi la voce, che Bacco s’avvicinava alle {p. 157}mura di Tebe, il popolo corse ad incontrarlo con giulivi applausi. Penteo, mal sofferendo siffatte acclamazioni, ordinò ad alcuni de’suoi, che gli conducessero dinanzi il Nume strettamente legato. Ritornati coloro, grondanti di sangue, riferirono di non averlo trovato, e gli presentarono in vece uno de’di lui seguaci. Penteo volle saperne il nome di lui, e quello de’genitori, la patria, e la ragione, per cui egli onorava Bacco. Lo stranìero soggiunse, che Acete era il suo nome, la Meonia il paese, la condizione plebea. Indi gli narrò le maraviglie, che Bacco avea operato nella di lui nave. Penteo, sciolto il freno ad un subitaneo furore, comandò che si traesse Acete nelle carceri, e fosse fatto crudelmente morire. Stavasi per trucidarlo, quando da se si aprirono le porte, che lo racchiudevano, e si sciolsero le catene, che lo tenevano avvinto(a). Euripide vuole, che anche Bacco sia andato soggetto allo stesso maltrattamento(b). Penteo poi si recò al Citerone, monte, ove le Tebane celebravano le Feste di Bacco : e perchè quelle nol vedessero, montò sopra un albero di un piccolo bosco(18). Agave tuttavia, di lui madre, lo osservò, e fu la prima ad avventarsegli furibonda. Nè contenta di essere sola, chiamò anche in suo ajuto le due sorelle, Ino e Autonoe. Tutte le altre Baccanti, udita la voce d’Agave, corsero anch’elleno addosso a Penteo, e lo fecero a brani(c).

Avea intimato il sacro Ministro, che le padrone e le serve di Tebe ; abbandonato ogni lavoro, solennizzassero le Feste di Bacco. Tutte ubbidirono ; {p. 158}le sole Minieidi ostinatamente ricusarono di farlo ; Ognuna di loro, per rendere frattanto le ore meno nojose in mezzo a’lavori, si fece a tenere vatj dilettevoli racconti, e tra questi la mutazione di colore delle more del Gelso(19). Rimbombò all’improvviso in que’ dintorui grandissimo strepito, e quelle femmine viddero con istupore, che le loro tele divenivano verdi, e fronzute a foggia d’ellera, e che parte di esse si convertiva in viti, parte in tralci, e parte in pampani. Sulla sera udirono uno scuotimento di tutta la casa. Questa comparve poscia illuminata da molte fiaccole, e si sentirono orribili urli di feroci belve. Le Sorelle smarrite a sì strano evento fuggirono a nascondersi ; ma in vano tentarono di sottrarsi alla pena, che sovrastava al loro delitto, poichè in un istante si videro cangiate in Nottole(a)(20). Pausania riferisce, che queste figlie di Minia divennero allora sì acciecate, che estrassero a sorte quale di esso tre avrebbe dato uno de’proprj figliuoli a mangiarsi dalle altre. La sorte cadde sopra Leucippe, che sacrificò Ippaso, suo figlio(b).

Tra’ figliuoli di Bacco si nominano Stafilo(21), e Narce(22).

Plinio parla di un tempio di Bacco nell’ Isola di Andro, appresso il quale v’avea una fontana, la di cui acqua cangiavasi ogni anno in vino : qualità, ch’essa poi perdeva, qualora veniva trasportata a qualche distanza dello stesso tempio(c). Anche in Amiclea, città della Focide, v’avea un celebre tempio, dedicato a questo Dio, il di cui sacrificatore prediceva l’avvenire. Pausania aggiunge, che coloro, i quali invocavano colà il Nume, venivano in sogno avvertito de’rimedj, che doveano usare per guarire le loro malattie.

Era pure sacra a Bacco una quantità di vasi, {p. 159}atti a contenere il vino. I più famosi però erano i Colatoi Vinarj(a). Questi erano vasi di sottilissimi e fitti buchi traforati, chiamati da’ Greci Etmi, e de’quali gli Antichi si servivano per colare il vino nelle tazze delle mense(b). I poveri, non potendo procacciarsi Colatoi di rame, o d’altro metallo, usavano un panno, detto Sacco vinario(c).

Bacco, come abbiamo detto, dipingesi ora giovine, ed ora vecchio. Cinge egli la fronte di corona, da cui pendono varj corimbi, ossia grappoli d’ellera, per cui fu anche detto Corimbifero(d). Il di lui volto è rubicondo e allegro ; bionda la chioma, e ondeggiante sulle spalle(e). La sua veste è una pelle di pantera. Tiene in mano un tirso(23). Sta assiso sopra un carro, tirato da tigri(f), o da pantere, e talvolta da leoni o da linci(g). Virgilio dice che le redini del predetto carro crano formate di pampini(h). Fu talora questo Nume veduto anche con corna di toro nella fronte, e tal’altra con testa dello stesso animale(i). Finalmente gli si diede in mano un grappolo d’uva, o un corno di bue, perchè gli Antichi soleano bere con quello il vino(l). Per questa ragione Bacco fu denominato Tauricorno(m).

{p. 175}

Giuonone §

Giunone era figliuola di Saturno e di Cibele (a). Variano gli Scrittori nel riferirci il luogo, ov’ella nacque. Que’di Samo dicevano nella loro Isola, lungo le rive del fiume Imbraso (b). Altri dicono, che sia comparsa alla luce in Argo, dove fu in modo particolare onorata (c). Neppure si va d’accordo da chi si sia allevata : alcuni pretendono dalle Ore (d). Omero vuole da Oceano e da Teti (e) ; i Greci dicevano dalle tre figliuole del fiume Asterione, dette Eubea, Prosinna, e Acrea (f). Pausania finalmente narra, che la Dea fu allevata in Sinfalo, città d’ Arcadia, da Temeno, figlio di Pelasgo, il quale le alzò tre tempj sotto tre nomi differenti : l’uno dedicato a Giunone Parteno, ossia vergine ; l’altro a Giunone Teleia, ossia adulta ; il terzo a Giunone Xera, ossia vedova, per alludere al tempo ; in cui ella stette lontana dal suo marito, come quanto prima riferiremo (g).

Giove invaghitosi della bellezza di questa Dea, e volendo ridorla sensibile al suo amore, rendette l’aria estremamente fredda, e sotto la figura di cuculo si rifugiò appresso Ia Dea. Questa, veggendolo tutto tremante, lo cuoprì colla sua veste. Il Nume riprese allora le sue premiere sembianze, e la {p. 176}sposò. Ciò avvenne nell’ Istmo di Corinto sul Tornace, monte della Laconia, il quale poi fu detto Coccigio, ossia monte del cuculo(a). Per la medesima ragione gli Argivi nel tempio di Giunone posero la di lei statua sopra un trono collo scettro, e con un cuculo sopra di quello (b).

Quando si celebrarono le nozze di Giunone con Giove, Mercurio v’invitò tutti gli Dei, tutti gli uomini, e perfino tutti gli animali. La sola Ninfa. Chelone, se ne rise di tale matrimonio, nè volle intervenirvi. Mercurio portossi alla di lei casa, situata lungo le rive di un fiume, e la sommerse colla stessa Ninfa. Questa inoltre, cangiata in Testuggine, fu costretta a sempre portare sopra di se la propria casa, e fu condannata in pena delle sue derisioni ad un perpetuo silenzio (c). Dicesi, che la maggior parte di quelli, che assistettero alle anzidette nozze, fecero a Giunone dei doni ; e che l’ Esperidi(1) le presentarono dei pomi d’oro, raccolti dal loro giardino. La bellezza di quelle frutta talmente piacque alla Dea, che mandò un dragone(2) a custodire l’albero, che aveale prodotte (d). Ferecide, citato dallo Scoliaste d’ Apollonio, dice, che Giunone diede que’pomi a Giove per dote.

Giunone non visse troppo in buona armonia con Giove, e unita a Pallade e a Nettuno perfino lo caricò di catene. Il Gigante Briareo però sciolse que’ceppi (e), ed ella ne venne quindi severamente punita. Giove le fece legare le mani con {p. 177}catena d’oro, la sospese in aria con due ancudini, che le pendevano a piedi (a). Gli altri Numi tentarono di scioglierle que’legami, ma non potetono mai riuscirvi (b). Ricorsero finalmente a Vulcano, che li avea fabbricati, o ne vennero soddisfatti, perchè gli promisero Venere in moglie. Il motivo, per cui Giunone non visse quasi mai in pace col marito, fu la gelosia, da cui era continuamente agitata (c), e per cui fu soprannominata Zelotipa (d). E ben ebbero a sperimentame i tristi effetti anche Lamla, figlial di Nettuno (e) o di Belo o di Libia (f), e le Ninfa Io, nata dal fiume Inaco e da Ismene, e sacerdotessa di questa Divinità (g). Lamia per la sua sorprendente bellezza era amata da Giove, che la rendette madre della Sibilla Erofile. Giunone tale dispiacere no sentiva, che nun lasciavale partorire se non bambini morti. Lamia così se ne afflisse che perdette al fine la sua primiera avvenenza, e tanto divenne furiosa, che divorava tutti i fantiulli, che le si presentavano (h).

Giove, divenuto amante d’ Io, nel fiore dell’ erà la trasse a forza in un bosco d’ Acaja, fra gli orrori di una caligine, fatta porgere all’ improvviso, donde niuno si accorgesse, che un Nume stava conversando con una mortale(3). Giunone, sollecita sempre di Giove, lo andò cercando, nè potendolo trovare in alcun luogo del Cielo, abbassati gli {p. 178}occhi, alla terra, e osservatovi quel bosco d’ Acaja oscurato da insolita : nebbia, sospettò, che colà sone istesse celato il suo marito non senza qualche disegno. Scese pertanto la Dea dall’ Olimpo, s’ avviò al bosco, e ne sgombrò la caligine. Ma Giove ; il quale erasì accorio della di lei vesuta, avea giù cangiata Io in candida giovenca. Ammirò Giunonò sì vago animale, e chiese, di qual armento e pastoro egli fosse. Giove rispose, che lo avea partorito la terra. Finse, la Dea di crederlo, e pregò il marito che a lei donasse quella giovenca sì bella. A siffatta inchiesta il Nume si trovò in gradde conflitto con se medesimo, ma finalmente cedette l’animale. Giunone lo diede in custodia ad Argo, figlio di Arestore, detto da’ Greci Panopte, ossia tutte occhi, perchè intorno al câpo ne avea cento ; una parte de’ quali sempre vegliava, mentre l’ altra domiva. Ovunque egli guârdasse, l’ animale eragli sempre presente. Nelle ore del giorno lo guidavi alle pasture, e nella notte lo teneva legato e rinchiuso. Venne finalmente il tempo, in cui Giove commise a Mercurio, che cogliesse la predetta giovenca all’ importuno custode. Calò Mercurio. da Cielo in abito di pastore, e al suono di rusticale sampogna addormentò tutti gli occhi d’ Argo. Mentre però erasi per eseguire il comando di Giove, giovane Jerace svegliò Argo. Mercurio, non potendo più allora verificare di nascosto il suo furto, uccise quel custode(4), e cangiò Jerace nell’ uccello a cui si diede il nonte di Sparviero (a)(5). Se ne afflisse Giunone, e raccolti ad uno ad uno gli occh di’ Argo, ne fregiò le code de’ suoi pavoni. Sciolt poi il freno all’ ira e alla vendetta, sì furibonda {p. 179}dette la gioventa, che questa prese a correre in più parti della terra, finchè si precipitò alla fine nel cuare, che dal nome di lei fu detto Jonio (a). I Poeti Greci pretendono, che Giunone abbia mandato a molestare Io un insetto, detto da loro Estro, da’ Latini Asilo, e dagl’ Italiani Tafano. Tale intetto è una spezie di mosca, ch’ estremamente traraglia i greggi (b). Tutti convengono nell’ asserire, che Giove placò Giunone, restituì ad Io la priniera figura, e la rendette madre di Epafo (c)(6).

Nè solemente gelosa, ma superba altresì all’ eccesso diede a divedersi questa Dea. Per questo pue fece ella provare a molti il rigore del suo sdeno. Tra gli altri spezialmente si nominano le due orelle, Ifianassa e Lisippe (d)(7), dette Pretidi, erchè nacquero da Preto, re d’ Argo nel Peloponeso(8) ; Antigone, figlia di Laomedonte ; Aedoe, figlia di Pandareo Efesino, e Politecno, artefie della città di Colofone nella Lidia ; e Sida, moglio el Gigante Orione. Le Pretidi preferirono la casa el loro padre alle ricchezze de Itempio di Giunone, overo, come vuole Igino, la loro bellezza a quella ella stessa Dea. Giunone talmente agitò il loro pirito, che tutte due credettero di essere divenute iovenche, e si misero a correro per le campagne. Ina malattia di tal fatta era di gran dolore all’ aimo di Preto. Usò questi di tutti i mezzi per uarirnele, e perfino promise una parte del suo reno, e una delle stesse sue figliuole in matrimonio {p. 180}a chi le avesse ritornate a salute. Melampode, aglio di Amitaone e di Dorippe, ne intrapreso la guarigione.(9). Cominciò egli dal placare la Dea con numerosi sacrifizj, e facilmente condusse a felice esito l’impresa. Ebbe in isposa Ifianassa (a)(10) ma di ciò non contento, fece sì, che Preto cedesse un’altra partè del suo Regno, e Lisippe a sue fratello, Biante (b)(11).

Giunone cangiò Antigone in Cicognà per punirla di essersi paragonata a lei in bellezza (c).

Aedone e Politecno erano due sposi felici, ma da che si vantarono di amarsi piucchò Giove e Giunone, questa Dea mandò tra loro la Dea Eride. Stava allora il marito per finire una seuia curule, e la moglie la tessitura d’una tela. Proposero di gareggiaro, e stabilirono che chi di loro fosse per compire più presto la sua opera, avesse a ricevere dall’ altro una serva. Vinse Aedone. Politecno n’ebbe grande invidia, e andò a ricercare a Pandareo l’altra una figliuola, Chelidone, fingendo che la di lei sorella desiderasse di vederla. La ottenne, la condusse in un bosco, le recise i capelli, la cuo prì di abbiette vesti, e dopo di averle minacciata la morte, se mai avesse indicata alcuna di tali cosa ad Aedone, appresso di questa la condusse secondo il patto in qualità di serva. La sorella, non ricono scendola, andava aggravandola di fatiche e travagli continui. Udendola finalmente un giorno a diplorare il tristo suo destino, tali e sì pressanti ri cerche le fece, che venne in cognizione di tutte {p. 181}ciò, ch’erale accaduto. L’ una e l’altra risolvettero di far mangiare a Politecno l’unico suo figliuolo, Iti. Eseguito l’atroce fatto, si rifugiarono presso il loro padre. Politecno se ne accorse, e perseguitò le due sorelle sino nella casa di Pandareo. Questi lo caricò di catene, gli unse’ il corpo di mele, e nudo Io lasciò esposto in un campo. Aedone ebbe pietà del marito, e si fece ad allontanare le mosche e gli altri insetti, che lo divoravano. Un’azione sì lodevole fu risguardata come un delitto ; e già stavasi per farla morire, quando Giove, penetrato dalle triste disavventure della famiglia di Pandareo, cangiò in uccelli tutti quelli, che la componevano (a)(12).

Ferecide, citato da Apollodoro (b), dice che Giunone fece perire Sida, perchè anche questa erasi millantata di essere più bella di lei.

Benchè Giunone non sia quasi mai vissuta in buona armonia con Giove, tuttavia fu anch’essa riconosciuta come preside a’matrimonj (c)(13). Quindi le si diedero i nomi d’ Iterduca o Domiduca, di Pronuba, di Gamelia, di Curite o Quirite, di Populonia, di Febroa o Februale o Februla o Februata, d’ Opigena, di Lucina, d’ Unsia, di Giuga, e di Cinsia. Come Iterduca (d) o Domiduca, avea cura, che le spose si dovessero condurre alla casa de’loro miriti (e). Come {p. 182}Pronuba, la invocarono gli sposi nel sacrifizio, che facevano prima di unirsi in matrimonio. Tale sacrifizio consisteva nell’ offerire alla Dea porzione del capelli della sposa, e una vittima, il di cui fiele gettavasi lungi dal tempio, o a piedi dell’altare, per avvertire gli sposi della dolce armonia, che sempro dovea esservi tra loro (a). Questo medesimo sacrifizio chiamavasi Eratelia da Era, nome proprio della Dea, di cui quanto prima parleremo, e da telos, voce, che anticamente usavasi in vece di gamos, nozze : onde Eratelia secondo tale etimologia significava sacrifizio fatto a Giunone, preside delle nozze(b). Anche il nome di Gamelia la caratterizza tale. Sotto questo titolo si solennizzavano le Feste, dette Gamelie, nel tempo delle quali si contraevano le nozze in maggior quantità, perchè si credevano più felici (c). Fu detta Curite (d) o Quirite, perchè ogni anno s’imbandiva a suo onore un pubblico convito in ciascuna Curia (e). Altri dicono, ch’ella venne così denominata, perchè una delle ceremonie del matrimonio appresso i Romani era il dividere la capigliatura della sposa in sei trecce con un’ asta immersa nel corpo d’un Gladiatore, la quale appellavasi curite o quirite(f). Macrobio vuole che il predetto nome le sia derivato dall’asta, cui soleva portare (g). Si chiamò Populonia, perchè presiedende a’matrimonj, presiedeva alla sorgente naturale de {p. 183}la popolazione (a). Marziano Capella soggiunge, che fu così detta, perchè era spezialmente invocata dal popolo (b)(14). Ebbe il nome di Februa o Februalo o Februla o Februata, perchè presiedeva alle purificazioni, alle quali si sottomettevano le donne dopo il parto (c). Altri però così la denominarono, perchè in modo particolare era onorata co sacrifizj il mese di Febbrajo (d). Fu chiamata Opigena a cagione dell’ ajuto, che prestava alle partorienti (e). Alcuni dicono, che fu così detta, perchè nacque da Ope (f). Le derivò il nome di Lucina, ed anche di Lucezia, perchè si credeva, ch’ella conferisse la luce a quelli, che nascevano ; ovvero perchè avea il suo tempio in un bosco, che da’ Latini chiamavasi lucus (g). A questa Dea ricorsero le donnè Sabine, perchè dopo il loro rapimento non potevano più partorire. Un augure sacrificò un becco. Colla pelle di questa vittima furono sferzate quelle donne, ed esse al decimo mese ebbero un pronto e felice parto. Dicesi che da ciò ne sia derivato, che le donne, le quali desideravano di aver prole, si sottomettessero a’colpi di sferza, che i Sacerdoti del Dio Pane(15) al tempo de’ Lupercali(16) davano a tutti coloro, che incontravano per istrada (h)(17). Sotto il nome di Unsia presiedeva all’ unzione, che faceva la sposa al pilastro della porta dello {p. 184}sposo nell’ entrarvi(a). Si chiamò Giuga, o come Greci la dicevano Zigia, (b), perchè era preside al giogo, sotto cui si univano gli sposi. Elle sotto tal nome aveva un altare in una strada, denominata Vico Giugario (c). Finalmente si disse Cinsia, perchè assisteva lo sposo a sciorte il cingolo alla sposa(d)(18).

Molti altri nomi si diedero a Giunone, tra’quali i principali sono Regina, Era, Citeronia, Prodromia, Lacinia, Sospita, Iperchiria, Imbrasia, Feronia, Boopide, Calendaride, Moneta, Caprotina, Lanuvia, Tropea, Conservatrice, Natale, Aerea, ed Argolica o Argiva. Giunone per essersi sposata a Giove fu denominata Regina, ed Era, ossia la Signora, perchè Giove, come abbiamo detto, era il re e il signore del Cielo e della terra. Sotto l’uno e l’altro titolo ella era risguardata, come la distributrice de’regni e delle ricchezze, e consegni molti onori. Come Regina ebbe sul monte Aventino un tempio, che le fu cretto da Camillo (e). Ivi la statua della Dea era tenuta da’ Romani in grande venerazione, nè alcuno osava di toccarla (f). Come Era ottenne in Argo, in Samo, ed in Egina cette Feste, dette Eree. Al tempo di queste que’ d’ Argo, dopo d’averle offerto il sacrifizio, detto Ecatombe(19), si disputavano ciascun anno una corona di {p. 185}mirto, e uno scudo di bronzo, preposto in premio a chi ascendeva sul teatro, penetrava in un luogo, di cui n’era difficile l’ingresso, e staccava uno scudo, che colà era confiscato. Un’ altra Festa di questo nome ogni cinque anni sì celebrava in Elide, instituita ad onore della stessa Dea da Ippodamia. Vi presiedevano sedici matrone con altrettante serve. In queste garoggiavano le vergini, distinte in varie classi secondo l’età, e si esercitavano al corso, cominciando dalla minore. Tutte usavano la stessa veste, co’ capelli sparsi e colle tonache sino alle ginocchia. Quella, che vinceva, ridevea una corona d’ulivo, e porzione di un bue sacrificato, e potea consecrare alla Dea la sua immagine. Altra Festa dello stesso nome si solennizzava in Pellene con giuochi, ne’ quali davasi per premio al vincitore una veste preziosa (a). Finalmente Giunone, come Regina, lanciava anch’ella il fulmine (b).

Questa Dea, perchè Giove avea preso ad amare molte altre donne, si divise da lui, e ritirossi in Eubea. Il Nume voleva riconciliarsi seco lei, ma ella vi dimostrava sempre una forte resistenza. Citerone, re di Platea nella Beozia, e il più astuto di que’ tempi, lo consigliò che formasse una statua di legno, che la vestisse pomposamente, e che la facesse condurre sopra un carro per la città, spargendo voce, che quella era Platea, figlia del re Asopo, cui Giove voleva sposare. Così si eseguì ; e Giunone, come ne intese la nuova, corse tosto a Platea, si avvicinò al carro, e prese a stracciare le vesti della supposta novella sposa. S’avvide {p. 186}allora, che quella era una statua, e riconomendo l’azione, come un tratto d’astuzia del suo marito, so ne compiacque, e si rappacificò seco lui (a). E perchè Citerone n’era stato l’autore, perciò ella dal nome di lui fu detta Citeronia (b). Giove poi per ricompensare quel re del consiglio datogli, Io cangiò in un monte tra la Beozia e l’ Attica, il quale secondo Pausania (c) era sacco a Giove, e secondo Plinio (d) a Bacco e alle Muse(20). Quivi si celebrò la Festa delle Dedali (così anticamente si chiamavano le statue di legno) per onorare la memoria della predetta riconciliazione (e). Allorchè se ne avvicinava il tempo, quattordici delle principali città, della Grecia preparavano una statua di legno, adoma de’ più ricchi abbigliamenti. Nel giorno della Festa una Matrona di ciascuna città, coperta di lunga veste, e seguita da numerosa moltitudine di Beozj, portava la statua sull’ anzidetto monte, ove stava preparato un Rogo di straordinaria grandezza. Là s’immolavano quattordici tori a Giove, e altrottante giovenche a Giunone. Chiunque interveniva a tale solennità, portava anch’ egli delle vittime a proporzione delle sue facoltà. Finalmente si appiccava fuoco al Rogo, e questo ardeva, finchè tutte le prodette statue erano ridotte in cenere (f).

Fu detta Prodromia, perchè ella pure era una {p. 187}delle Deità, che si veneravano prima d’ intraprendere alcuna fabbrica (a)(21).

Il nome di Lacinia le derivo da Lacinio, promontorio d’ Italia, nella Gran Grecia, poco lungi del quale la Dea aveva un tempio ricchissimo (b). I Crotoniati professavano grande rispetto per quello. Al lato del medesimo eravi un bosco sacro, in cui si nutrivano varj animali, parimenti sacri alla Dea. Plinio aggionge, che sull’ingresso di quel tempio si trovava un’ara allo scoperto, su cui le ceneri de’sacrifizj restavano immobili anche quando soffiavano furiosamente i venti (c).

I Romani la chiamarono Sospita, perchè vegliava alla conservazione della loro Repubblica. La Dea sotto questa denominazione ebbe un tempio famoso in Lanuvio, città d’ Italia nel Lazio, e due altri in Roma, uno de’ quali si fabbricò da C. Cornelio. Dicono, che i Consoli, prima di assumere la loro carica, v’ andassero ad offerire a Giunone un sacrifizio (d).

Si chiamò Iperchiria dal tempio, erettole in Isparta, quando il fiume Eurota avea cominciato a Inondare quelle campagne, e fu restituito dentro i suoi limiti (e).

Ebbe il nome d’ Imbrasia dal fiume Imbraso nell’Isola di Samo, in cui i Sacerdoti lavavano la statua di questa Dea ; e però quelle acque erano riputate sacre (f). Cotesta statua divenne famosa, ed eccone {p. 188}la ragioneremo Admere, figliuola d’ Euristeo, fuggita da Argo, approdò a Samo ; e credendosi debitrice del felice esito della sua’ fuga a Giunone, si fece a custodime il tempio. Gli Argivi promisero ad alcuni Tirreni gran sonina di danaro, se avessero rubato quella statua, sperando poi di far postare ad Adniete la pena del furto, e di vendicersi così della di lei fuga. Coloro vi riuscirono ; ma trasportata la statua in un naviglio, questo non si potè mai allontanare da Samo. Persuasi finalmente i Tirreni, che fosse quello, un castigo della Dea, ne deposero a terra la statua, e procurarono di placare da Deità, cui essa rappresentava. Sul far del giorno Admete s’ accorse, che mancava nel tempio la statua. Subito ne diede avviso a que’ di Samo. Costoco, avendola trovata sulla spiaggia del mare, credettero, che volesse fuggirsene ; e per timore che lo facesse, la legarono con rami d’albero, finchè Admete la rimise nel tempio. Dopo tal fatto i Samj celebrarono le Feste Tonee, nelle quali ogni anno portavano la medesima statua sulle rive del mare ; e dopo di a verle offerto certe focacce, la riportavano a suo luogo (a).

Vuolsi che sia stata detta Feronia dalla città di questo nome, situata alle radici del monte Soratte, nella di cui sommità ella aveva un tempio (b)(22). Non si va d’accordo riguardo al culto che le si rendeva Orazio dice, ch’ el la venerò presso Terracina, lavandosi il volto e le mani nella fontana sacra, che scorreva al lato del di lei tempio (c). Virgilio racconta, che rimasto coneunto dal fuoco un bosco sacro a {p. 189}questa Dea, se ne volle trasportare altrove la statua ; ma che essendosi lo stesso bosco all’ improvviso coperto di foglie, la statua fu fasciata, dov’ era (a). Strabone soggiugne, che in quel bosco i Sacerdoci della Dea ogni anno vi facevano un sacrifizio, e camminavano nudi sopra i carboni accesi senza sofferirne danno alcuno (b). I Liberti, ossia gli Schiavi fatti liberi, tenevano Feronia per loro protettrice e assumovano nel di lei tempio il pileo (c).

Era chiamata Boopide, perchè veniva rappresentata con occhi grandi, coine quelli del bue (d).

Si diceva Calendaride, perchè le erano consecrati i primi giorni di ciascun meso, denominael Calende (e). Allora le si sacrificava una giovenca bianca, o una capra (f).

Al tempo della guetra degli Arunci i Romani furono minacciati di grande terremoto Giunone li avvertì, che per allontanarlo conveniva fare un sacrifizio alla Dea Tellura. La predetta Dea perciò venne denominata Moneta dal verbol Lotino monere, avvertire (g). Sotto questo nome le siggabbricò un tempio appresso il Campidoglio (h). Suida dà un origine differente sì al nome, che al tempio di Moneta. I, Romani, dio’ egli, mauravano d’argento nella guerra, che sostenevano contro Pirro e i Tarrentini. Ricorsero supplichevoli a Giunone, colla quale {p. 190}rispose loro, che se avessero combattusto con coraggio, neppure l’ argento sarebbe loro mancato. Così avvenne ; e i Romani onorarono quindi la Dea sotto il titolo di Moneta, cominciarono a coniare le monete nel di lei tempio, e la venerarono, come preside alle medesime.

Mentrechè i Romani stavano per ristabilire la loro città, già da’ Galli rovinata, i Popoli vicini tentarono d’ impadronirsene. Costoro affidarono il comando delle loro truppe a Postumio Livio, Dittatore de’ Fidenatì, il quale, accampatosi alle porte di Roma, ricercò al Senato le madri di famiglia, e Ie figlie loro. Una schiava, di nome Filotide o Tutela o Retania (a), accitò le altre sue compagne di vestire gli abiti delle padrone, e di offerirsi a’ nemici, come le : elleno fossero quelle, ch’ eglino ricercavano. Distribuise tralle milizie, finsero di celebraro tra loro una festa, e talmente ubbriacarono quelle truppe, che le medesime caddero tutte in profondo sonno. Le donne allora dalla cima d’ una ficaja selvaggia, detta caprifice, diedero un segno a’ Romani, i quali v’ accorsero, e fecero strage de’ nemici. Il Senato riconobbe Giunone, come autrice del fatto sì felicemente riuscito, prese dal predetto albero ad onorarla sotto il nome di Caprotina, e a lei instituì un sacrifizio, il quale sotto una selvatica ficaja ogni anno si rinovellava. Filotide poi, e le sue compagne conseguirono la libertà, furono marine a spese del pubblico erario, ed ebbero la permissione di vestire gli abiti delle Matrone Romane (b).

{p. 191}Ebbe il nome di Lanuvia per cansa del tempio che aveva in Lanuvio, città del Lazio. Numerose genti da per tutto concorrevano a quel tempio per offerirvi sacrifizj. I Romani cittadini, prima d’assumere il Consolato, doveano recarsi a venerare Giunone Lanuvia. Cicerone dice, che ivi la Dea era vestita di una pelle di capra, armata di un’asta e di uno scudo(a).

Fu detta Tropea, perchè presiedeva a’ trionfi, e perchè al tempo di quelli le si offerivano dei sacrifizj (b).

Si denominò Conservatrice, perchè di cinque cerve colle corna d’oro, alle quali Diana dava la caccia nelle pianure della Tessaglia, una ne venne salvasa da Giunone (c).

Derivò a Giunone il nome di Natale dall’esiere onorata da ognuno nel di lui giorno natalizio (d)(23).

Si chiamò Acrea, perchè era presa per l’acia (e).

E’ stata finalmente appellata Argolica (f) o Argiva dal culto speziale, che le si rendeva in Argo. Quivi aveva un tempio(24), che poi nestò connimato dalle fiamme(25). Era pur celebre la festa di questa Dea in quella città Essa consisteva in {p. 192}una solenne processione. Cento buoi inghirlandati precedevano pel sacrifizio, le carni de’ quali si di stribuivano poi in gran parte agli assistenti. Se guiva un corpo di giovani Argivi, coperti d’armi, che deponevano prima d’avvicinarsi all’altare. Finalmente v’interveniva la Sacerdotessa della Dea sopra un carro, tirato da due candidi buoi. La statua della Dea sedeva nel predetto tempio in grande soglio d’oro e d’avorio. Aveva in una mano un pomo granato, e nell’altra uno scettro, sulla sommità del quale eravi un Cuculo (a).

Le Feste, sacre a questa Dea, furono dette Giumonali o Ginnonie. Tito Livio (b) così le descrive : alcuni prodigi comparvero in Italia. I Pontefici ordinarono, che ventisette giovani, divise in tre achiere, andassero per la città cantando un cantico composto de Livio Poeta. Mentro lo imparavano nel tempio di Giove Statore, cadde un fulmine su quello di Giunone Regina nell’Aventino. A questo avvenimento si consultarono gl’Indovini, i quali risposero, che le Dame Romane doveano placare la sorella di Gìove con sacrifizj e offerte. Presentarono queste un bacino d’oro a Giunone sull’Aventino. Indi i Decemviti stabilirono un giorno solenne. Si condussero due giovenche bianche dal tempio d’Apollo nella città per la porta Carmentale. Si portarono due immagini di Giunone Regina, fatte di cipresso. Seguirono poi le ventisette giovani con abiti lunghi, e cantando un inno alla Dea. I De cemviri le accompagnarono, coronati d’alloro, e colla {p. 193}veste ricamata di porpora. Questa processione, dopo essersi fermata nella piazza di Roma, ove le predette giovani ballarono, continuò sino al tempio di Giunone. Le vittime furono scannate da’ Decemviri, e le immagini di cipresso vennero collocate nel tempio.

Giunone nella Laconia dava i suoi Oracoli da uno stagno, in cui, gettandosi delle focacce, se queste s’immergevano, ciò era di buon augurio ; se altrimenti, di cattivo (a). Giunone fu altresì onorata in Olimpia e in Cartagine. Si pretendeva che la Dea avesse presieduto alla costruzione di questa città, e che la proteggesse al pari dell’Isola di Samo. Avea ivi un tempio magnifico, che Didone aveva ornato di pitture, le quali rappresentavano i principali avvenimenti dell’ultima guerra di Troja (b). Ebbe pure nell’Isola di Lesbo un tempio, in cui le donne si radunavano per celebrare le Feste, dette Callistie, perchè elleno disputavano della loro bellezza, e la più avvenente riportava una palma (c).

Giunone dipingesi anche sopra un carro, tirato da Pavoni (d), uno de’quali le sta anche d’appresso (e). Cinge la fronte con diadema di rose e di gigli (f). Talvolta in figura di giovinetta colle ali spiegate e di varj colori sta a’ di lei piedi Iride, soprannominata Taumanziade (g), o Taumantide {p. 194}(a), perchè nacque da Taumante. Era questa la di lei ambasciatrice (b)(26).

Tralle altre Ninfe, le quali da Virgilio (c) dicesi essere quattordici, si nominano principalmente Ebe, e l’Eresidi. La prima, rigettata, come vedemmo, da Giove, fu stabilita da Giunone ad attaccare i cavalli al suo carro (d). L’Eresidi poi servivano la Dea, quando ella, per riacquistare la sua verginità, si recava a bagnarsi nella fontana Canato, vicina a Nauplia, città situata all’estremità dell’Argolide (e).

{p. 211}

Plutone. §

Plutone fu considerato figliuolo di Saturno e di Cibele. Egli, come abbiamo detto, regna nell’ Inferno(a)(1), di cui è bellissima la descrizione, che ce ne dà Virgilio(b). Due porte, dic’ egli, ha l’Inferno, una di corno e l’altra d’avorio. All’ ingresso dello stesso veglia Cerbero(2). Ivi pure si trovano il dolore, le cure mordaci, le malattie, la vecchiaja, il timore, la fame, e l’indigenza. La Morte(3) altresì vi soggiorna, la fatica, il Sonno(4), le false allegrezze dell’ animo, la guerra, e la discordia. Là parimenti Iranno la loro abitazione le Furie(5), le Arpie(6), la Chimera(7), l’Idra di Lerna(8) ; le Gorgoni(9), le Parche(10), e gli Dei Mani(11). E’ quel Regno bagnato da cinque fiumi, e da un Iago : i fiumi si chiamano l’ Acheronte(12), lo Stige(13), il Cocito(14), il Lete(15) e ’l Flegetonte o ’l Pitiflegetonte(16) ; il lago dicesi l’Averno(17). Passato l’Acheronte, si odono le lamentevoli strida de’ bambini, morti nell’ istante medesimo, in cui erano nati. Si va quindi per una vasta campagna, denominata Campo delle lagrime ; e quivi giacciono quegl’ infelici, che morirono consunti dall’ amore. S’incontrano poscia i condannati a ingiusta morte, e quelli, che, stanchi delle miserie di {p. 212}quaggiù, spontaneamente si privarono di vita. Stannovi d’ appresso i campi, abitati dagli Eroi. Quì la strada apresi in due : alla destra v’ è quella, che conduce alla Reggia di Plutone, e a’ Campi Elisj, pieni d’ogni puro piacere, e riserbati alle sole anime virtuose(18) ; alla sinistra avvi quella, che mette all’ orrida carcere, detta il Tartaro(19), e di cui abbiamo favellato. Un altro luogo finalmente trovasi nell’ Inferno, destinato a sentenziare le anime de’ trapassati. Esso si chiama il Campo della Verità, perchè nè la menzogna, nè la calunnia possono mai introdurvisi. I Giudici di colà sono Minos, primo re di Creta, siglio di Giove, e di Europa ; Radamanto, di lui fratello ; ed Eaco, nato dalla Ninfa Egina(20), e da Giove, il quale per unirsi a colei erasi convertito in fiamma(a).

I Giganti, che Giove aveva dopo la sua vittoria seppellito sotto il monte Etna, facevano ogni sforzo per liberarsi dal peso, che li opprimeva ; e le scosse, che nel muoversi davano alla terra, la facevano sino dalle fondamenta tremare, cosicchè ne sentiva spavento perfino nel suo tenebroso regno Plutone. Temette questo Dio, che, aprendosi la terre in voragini, penetrasse qualche raggio di luce giù negli abissi, e mettesse in iscompiglio le ombre colà confinate. Uscì quindi dalla sua Reggia per visitare le viscere più profonde della Sicilia. Quivi lungo le rive del lago Pergusa(b), o Pergo, vicino alla città di Enna, Proserpina, figlia di Giove e di Cerere, gareggiava colle compagne(21) in {p. 213}cogliere flori(22). La vide Plutone ; la rapì ; e apertasi una profonda voragine, si fece strada agli abissi, ne’ quali giuntovi, la prese in moglie(a)(23).

Plutone prese altresì ad amare perdutaniente Leuce, la più bella delle Oceanidi. Rapì anche quella, e la condusse nell’ Inferno. Dopochè ella ivi se ne stette tutto il tempo, che sarebbe vissuta sulla terra, Plutone, per conservarne la memoria, fece germogliare negli Elisj un pioppo, cui diede il nome di quella Ninfa(b). Quindi Omero dà al pioppo il soprannome di pianta Acherusia, ossia infernale(c).

Varj altri nonti si diedero a Plutone. Fu detto Orco dalla voce greca orcos, giuramento, perchè gli Dei solevano giurare per Plutone(d). Si chiamò Summano, ossia il sommo Dio de Mani(e), sotto il qual nome s’intendevano i morti, come più diffusamente vedremo in altro luogo. A Plutone Summano si attribuiscono i fulmini notturni(f). Pausania dice, che que’ d’Elide aveano inalzato un tempio a Summano, e che non ne aprivano le porte, se non una volta l’anno, volendo così dare ad intendere, che una sola volta si discende all’ Inferno(g). Gli si diede il nome di Februo, attesochè i Romani gli sacrificavano nel mese di Febbrajo(h) {p. 214}Gli stessi Romani lo dissero anche Quietale, perchè nel di lui regno, ossia dopo morte si gode perfetto riposo(a) Si denominò Dite, ossia ricco, perchè era considerato il Dio dell’ opulenza(b)(24). Finalmente fu detto Giove Stigio(c).

In onore di Plutone si celebrarono i Giuochi Taurilj(d) o Taurj, e i Terentini. I primi s’introdussero da Tarquinio il Superbo, e così si denominarono, perchè si credette che la pestilenza, insorta nelle donne gravide, fosse derivata dal fetore delle carni de’ tori allora immolati. Tali Giuochi sempre si celebravano fuori di Roma nel Circo Flaminio, onde gli Dei Infernali, che s’invocavano, non entrassero in città(e). I Terentini presero il loro nome da Terento, luogo del Campo Marzio, ov’ eravi il tempio di Plutone, e un’ ara sotterra(f), la quale si lasciava vedere solamente all’ occasione di tali Giuochi(g)(25)(26). Questi si denominarono anche Giuochi Secolari, perchè al termine d’ ogni secolo si solennizzavano(h). Altri poi soggiungono, che siccome tali Giuochi si celebravano di raro, così volgarmente si disse, che succedevano dopo ogni cento anni(i). Ne fu autore il Console P. Valerio Poplicola, che gl’ instituì per la salvezza e conservazione {p. 215}del Romano Impetio(a). Prima del tempo de’ medesimi si spedivano araldi per l’ Italia, acciocchè invitassero i popoli agli stessi Giuochi, come a quelli, i quali eglino non aveano mai veduto, o non orano mai più per vederli. Per tre giorni si celebravano con ogni genere e di giuochi sì nel Circo che nel teatro, e di sacrifizj, fatti in tutti i tempj non solo a Plutone, ma a Giove altresì, e a tutti quasi gli altri Numi(b).

Questo Nume fu molto onorato in Pilo, ed ebbe ivi un assai magnifico tempio(c). Non molto lungi da di là evvi il monte Menta, così detto da Menta, giovine amata da Plutone, e da lui convertita in erba, che conservò il di lei nome(d). Ovidio vuole, che sia stata Proserpina quella, che per gelosia trasformò Menta nella predetta erba(e). Lo stesso afferma anche Strabone(f).

A Plutone non s’immolavano che vittime nere, delle quali si spargeva il sangue nelle fosse, come se quello avesse dovuto penetrare fino nel regno di lui(g). La vittima la più ordinaria, dice Diodoro Siculo(h), era il toro. Questo Autore soggiugne, che i Siracusani gliene offerivano di neri tutti gli anni sulla fontana di Ciane, per dove credevano, ch’ egli avesse preso la strada dell’ Inferno.

{p. 216}Plutone porta in capo un elmo ammirabile, perchè esso fa scorgere tutti gli oggetti, senzachè chi ne usa, sia dagli altri veduto(a). Egli stringe inoltre in una mano il bidente, ossia una forca a due punte, la quale gli serve di scettro, ed ha nell’ altra varie chiavi. Queste indicano, che le porte del di lui Regno sono talmente custodite, che chi v’ entra, non può più uscirne(b). Egli finalmente viene tirato in un carro da quattro neri cavalli, chiamati Etone, Orfnco, Nitteo, e Alastore(c).

{p. 246}

Apollo §

Cicerone fa menzione di quattro Apolli (a). Comunemente però non si riconobbe che quello, il quale nacque da Giove e da Latona (b), figlia secondo Omero (c) di Saturno, e secondo Apollodoro (d) del Titano Ceo e di Febe. Giunone sdegnata, perchè Giove amava la madre di questo Nume, lo scacciò dal Cielo, e fece giurare alla Terra, che non sarebbe per accogliere Latona in alcun luogo, quando fosse per partorire. Nè contenta di ciò, suscitò contro di Latona il mostro Pitone(1), affinchè da per tutto la inseguisse per divorarla. Nettuno però trasse fuori dal mare l’isola Asteria, che fu chiamata Delo(2), acciocchè divenisse sicuro asilo alla figlia di Ceo per dare alla luce Apollo e Diana (e)(3).

Apollo si dimostrò molto destro ed esperto nell’uso dell’arco, e contro il mostro anzidetto scoccò tanti strali, che lo uccise, per vendicare la madre, che n’era stata sì fieramente perseguitata (f). Cotale uccisione avvenne non lungi dal fiume Cefisso, il quale scorre alle radici del fiume Parnasso (g). Apollo poi, secondo l’ordine di Giove, ando a purificarsi in Tempe, valle deliziosa della Tessaglia {p. 247}(4) Indi in memoria della strage fatta di quel mosto instituì i Giuochi Pitici (a)(5). Gli abitanti di quasi tutte le Isole del mare Egeo, conosciute sotto il nome di Cicladi, celebravano questi Giuochi verso il principio della Primavera (b). Si solennizzavano da prima ogni nove anni, e poi ognicinque giusta il numero delle Ninfe Parnassie, che si congratularono con Apollo vincitore, e gli offerirono dei doni (c). Allora gareggiavano tra loro i Poeti. L’argomento ordinario era un inno, accompagnato colla cetra, in cui si cantava il combattimento del Nume contro Pitone (d). Il premio de’vincitori ne’primi tempi era una piccola corona d’alloro (e). Vi s’introdussero poi anche gli esercizj ginnici (f) ; e i vincitori, che pure si appellarono Pitonici, vennero poi anche regalati di certi pomi, sacri ad Apollo (g). A tali vincitori secondo Pindaro si conferirono altresì delle corone d’oro. In questi Giuochi davasi in premio una Diota, ch’era un’anfora a due manichi d’oro, o d’argento. Orazio la chiama Sabina, perchè i Sabini ne lavoravano di eccellenti (h). Finalmente in Delfo ogni nove anni celebravasi una solennità, denominata Septerio. Mostravasi allora l’indicato Pitone in atto di essere inseguito da Apollo (i).

Apollo non dimorò sempre nell’isola di Delo, ma fu poscia trasferito in Cielo. Avvenne poi, che {p. 248}Giove fulminò Esculapio, figlio d’Apollo, conte più diffusamente vedremo altrove ; e Apollo per vendetta uccise i Ciclopi, che avevano fabbricato i fulmini a Giove. Questi pertanto esiliò Apollo dal Cielo (a). Si ritirò il Nume appresso Admeto, re di Fere nella Tessaglia. Egli lungo le rive del fiume Anfriso prese a pascerne gli animali. Questi secondo alcuni erano pecore, secondo altri buoi (b), e secondo Callimaco (c) cavalle. Ferecide dice, che Apollo se ne stette nella corte di quel re un solo anno (d) ; Servio soggiunge nove (e). Il Nume apportò molti vantaggi ad Admeto. Rendette le di lui giovenche sì feconde, che partorivano due vitelli alla volta (f) ; e si constituì il Dio tutelare della di lui casa. Ottenne dalle Parche, che Admeto, già vieino a morire, ancor vivesse, purchè qualche altro avesse voluto incontrare la morte in vece di lui. La sola Alceste, la quale Admeto per favore di Apollo avea conseguito in matrimonio(6), si trovò, che per prolungare al marito la vita, sacrificasse genetosamente la sua (g) : lo che le meritò da Omero il soprannome di Divina (h)(7).

Apollo durante il suo esilio sulla terra prese pure ad amare il giovane Giacinto, figlio di Amicla {p. 249}Volle un dì divertirsì seco lui al gioco del disco ; ed essendo questo ricaduto con impeto sul capo di Giacinto, talmente lo colpì, che lo mise a morte. Apollo ne pianse l’amara perdita, e lo cangiò in fiore, che porta espresse le due lettere A. I., le quali indicano il sospiro, mandato da Giacinto nell’ésalare lo spirito (a). Dopo tal fatto Apollo si trasferì nella Troade. Laomedonte, figlio d’Ilo, stava allora alzandovi le mura di Troja. Il Nume insieme con Nettuno, ramingo del pari sulla terra, esibì la sua assistenza a quel re per una somma di danaro. Compito il faticoso lavoro, Laomedonte ricusò di soddisfare alla convenuta mercede (b). Quindi Apollo fece perire una gran parte di quegli abitanti con una peste desolatrice (c). Nè fu solamente in Troja, dove Apollo esercitò il mestiere di muratore. Egli ajutò anche Alcatoo, figlio di Pelope, ad ergere un labirinto in Megara, città dell’Artica. Ivi si vedeva la pietra, su cui il Nume avea deposto la sua cetra, e la quale da quel momento rendeva, ogni qual volta veniva toccata, un suono simile a quello dell’accennato stromento (d).

Apollo, riconcillatosi finalmente con Giove, sali di nuovo all’Olimpo, e fu venerato come una Divinità (e). Il tempio più famoso, che gli si fabbricò, fu quello di Delfo (f), per cui il Nume conseguì anche il nome di Delfico (g). Dicevano gli {p. 250}Antichi, che questo tempio era stato prima costruiro con rami d’alloro, tolti dalla valle di Tempe, e che avea la forma di capanna. Soggiungevano, che le Api, distrutto il primo, ne alzarono un altro di cera, e di penne d’uccelli. S’inventò poi un terzo tempio, e si disse, che quello era opera di Vulcano, e ch’era di bronzo, con bel gruppo di figure sul frontespizio, le quali davano grato suono. Tutti questi tempj non furono che immaginarj. Uno realmente n’esistette, e fu quello di pietra, eretto nell’anno primo della V. Olimpiade. Trofonio e Agamede, figliuoli d’Eresino, re d’Orcomene nella Reozia, ne furono gli architetti (a). Queglino, compito il lavoro, ne chiesero in mercede dallo stesso Apollo la cosa migliore per l’uomo. N’ebbero in risposta, che la attendessero dopo tre giorni. Passati questi, eglino furono trovati morti (b)(8). Anche Antifane d’Argo, e Androstene di Tebe, statuarj, molto cooperarono col loro ingegno agli ornamenci di quel tempio (c). In esso v’aveano cinque Ministri, detti Osii, ossia santi, i quali assistevano agl’Indovini, e sacrificavano con loro (d). Maravigliosa fu la maniera, con cui Apollo manifestò, ch’egli dallo stesso tempio voleva dare i suoi Oracoli. Diodoro di Sicilia narra, che sul monte Parnasso v’avea un antro, e che in questo stava aperta una voragine, ove alcuno capro avvicinatesi furono assalite da moti convulsivi. Aggiunge, che gli abitanti de’luoghi vicini, accorsi al prodigio, {p. 251}esperimentarono lo stesso effetto, ch’eglino cominciarono a parlare confusamente, e che le loro sconnesse parole divennero predizioni. Conchiude col riferire, che, essendo pericolosa l’apertura di quella fossa, vi si soprappose un trepiede, perchè non pochi presi da insolito furore eranvi caduti(a). Il primo pastore, il quale videsi trasportato da tal furore profetico, si chiamava Coreta(b). Apollo poi, per rendere noti i suoi Oracoli nel tempio anzidetto, si servà di una Sacerdotessa, denominata Sternomantide, o Pitia, o Pitonessa, o Febade (c). Costei facea precedere non poche ceremonie a’suoi vaticinj. Digiunava tre giorni, beveva e si lavava nelle acque del Castalio fonte, e masticava foglie d’alloro, raccolte presso lo stesso. Condotta poscia da’Sacerdoti scendeva sul Tripode, detto anche Cortina(d), e il quale era tutto circondato d’alberi. Presa allora da violentissimo e improvviso tremore, faceva risuonare di grida e urli il tempio, e riempiva di sacro orrore l’animo degli astanti (e). Proferiva finalmente per intervalli alcune mal articolate parole, le quali da’Sacerdoti si raccoglievano e si riducevano in versi. Il violento entusiasmo costava gran fatica alla Pitonessa ; più giorni eranle necessarj a riaversene ; e bene spesso veniva da una presta morte sorpresa. Molte precauzioni si usavano nella scelta di tale Sacerdotessa. Dovea essera vergine, e di oscuri natali(f). La prima {p. 252}femmina, che nell’anzidetto tempio enunciò gli Oracoli di Apollo, fu Femonoe, la quale fece parlare il Nume iu verso eroico(a). Molte furono le Pitonesse, che ne vennero appresso. Elleno da principio si sceglievano tra il fiore della gioventù ; ma da che Echecrate, giovino Tessalo, rapì la Pitonessa di quel tempo, si pubblicò una legge, per cui quelle donne doveano avere più di cinquanta anni(b). Tralle medesime sono celebri Lampusia di Colofone(9), figlia di Calcante ; Nicostrata(10), nata da Ionio, re d’Arcadia ; e la Ninfa Egeria(11), moglie di Numa. Benchè talvolta l’Oracolo di Delfo riuscisse fallace, e avesse espostimoltissimi a gravi fatalità, numerosi popoli tuttavia si recavano a consultarlo. Niuno però si presentava al Nume per interrogarlo, senzachè fosse coronato il capo, e senzachè offerisse sacrifizj e ricchi doni (c). Tali ricchezze, se crediamo a Teopompo, consistevano da principio in un gran numero di vasi, e tripodi di rame. Questa semplicità non durò lungo tempo, e vi si sostituirono i più preziosi metalli. Gige, re della Lidia, fu il primo ad offerirvi grandissima quantità di vasi d’oro e d’argento(12). Venne poi imitato da Creso, suo successore. Questi tra gli altri doni vi spedì due vasi d’acqua, detti Acquiminarj, l’uno d’oro, e l’altro d’argento. Altri Monarchi pure, e varie città récarono a gara in quel tempio tripodi(13), vasi, scudi, corone, e statue d’oro e d’argento di varia grandezza(14). Narrasi, che Apollo per mezzo della Pitonessa ricercò agli abitanti di Sifno, isola del mare Egeo, la {p. 253}decima parte di ciò, che ritraevano dalle loro ricchissime miniere d’oro e d’argento. Queglino cominciarono a deporre annualmenns nel tempio di Delfo il richiesto tributo ; ma avendo in seguito cessato, il mare inondò le loro miniere, e le fece intieramente sparire(a). La custodia di tutti questi tesori fu affidata a Ione, figlio d’Apollo e di Creusa, nata da Eretteo, re d’Atene(b)(15). Il predetto tempio nell’Olimpiade LVIII si abbruniò. Dopo quaranta otto anni per comando degli Anfizioni(16) gli Alcmeonidi, ossia i discendenti di Alcmeone, famiglia potente d’Atene, scacciati dalla loro patria da’Pisistratidi, costruirono il medesimo tempio con molto più di magnificenza, di quel che era stato proposto dal nobile architetto Spintaro Corintio (c).

E’ pur celebre l’Oracolo, che dava Apollo sul Promontorio d’Epiro, detto Ninfeo, perchè era conse, crato alle Ninfe. Quegli, che lo consultava, prendeva dell’incenso, e dopo d’aver fatto le solite preghiere, gettava lo stesso incenso sul fuoco. Se era si per ottenere quel, che si ricercava, l’incenso restava subito abbruciato ; altrimenti non si consumava (d).

Le Feste, sacre ad Apollo, furono le Apollonie, l’Ebdomee, le Trofanie, le Azie, le Giacinzie, le Poliie, le Galasie, e l’Epidemie. Il Nume dopo aver ucciso il serpente Pitone, si trasferì con Diana, sua sorella, in Egialea ; ed essendone stato scacciato, si ritirò in Creta. Poco tempo dopo avvenne agli {p. 254}Egialesi una pestilenza desolatrice di tutto il loro paese. Consultarono gl’Indovini, e ne intesero, che per farla cessare era d’uopo spedire sette fanciulli e sette fanciulle ad Apollo e a Diana per placarli ed eccitarli a ritornarsene nelle loro città. Ciò piacque alle due Divinità, le quali perciò si restituirono in Egialea. In memoria del fatto si dedicò un tempio a Pito, e ogni anno si celebravano cerre feste, dette Apollonie, nelle quali la principale ceremonia era quella di far usoire dalla città lo stesso numero di fanciulle e di giovani, i quali andassero in certa guisa cercando e chiamando Apollo e Diana (a).

Le Teofanie si celebrarono da que’di Delfo in memoria del giorno, in cui Apollo per la prima volta loro si manifestò (b).

L’Ebdomee si celebravano in Delfo il settimo giorno de’mesi lunari, o solamente, come vuole Plutarco, il settimo giorno del primo mese di primavera, perchè que’di Delfo pretendevano, che in quel giorno fosse nato Apollo : e quindi il Nume fu denominato anche Ebdomagene, cioè nato il settimo giorno (c). Questo Feste consistevano nel portare focacce e rami d’alloro, e nel cantare Inni in onore del Nume (d).

Le Azie furono così dette dal Promontorio d’Azio in Epiro. Si celebravano cun combattimenti d’Atloti, di cavalli, e di navi (e). Uccidevasi allora un buc per le mosche, le quali sazie di quel sangue {p. 255}volavano via, nè più vi ritornavano(a). Augusto dopo la vittoria, che riportò sopra Marc’Antonio e Cleopatra, e di cui si credette debitore ad Apollo, rinovò queste Feste : e mentro queste per lo innanzi si colebravano ogni tre anni solamente in Azio, egli ne trasferì in Roma la celebrazione, la quale si faceva di cinque in cinque anni. Anche Apollo dal predetto Promontorio fu denominato Azio(b). Augusto poi gli aggiunse il nome di Palatino, perchè sul monte dello stesso nome gli consecrò un tempio assai celebre pe’portici e per la Biblioteca Greca e Latina, di cui era fornito(c)(17).

Le Giacinzie venivario solennizzate dagli Spartani per tre giorni appresso la tomba di Giacinto, sopra di cui vedeasi la figura d’Apollo, alla quale si offerivano sacrifizj. Il primo e il terzo giorno di queste Feste erano consecrati a piangere la morte di Giacinto : Il secondo dì eta tutto allegrezza, e gli schiavi sedevano a mensa co’loro padroni. Cori di giovanetti suonavano la lira, o cantavano inni al suono di flauto a Giacinto. Altri danzavano, o a cavallo facevano prova di loro maestria ne’pubblici luoghi. La pompa s’incamminava verso Amicle, guidata da uno col nome di Legato, il quale offeriva i voti della nazione nel tempio di Apollo. Giunta colà, vi si sacrificava, cominciando dallo spargere in libazione vino e latte. L’altare era la stessa tomba di Giacinto(d).

{p. 256}Le Poliie si celebravano in Tebe ad, onore d’Apollo Polio, ossia canuto, perchè in quella città veniva rappresentato co’capelli bianchi. In quelle solennità i Tebani solevano sacrificangli dei tori, ma per mancanza di questi fu poi introdotto il costume d’immolargli de’buoi : lo che da prima riputavasi nefando delitto(a).

Le Galasie secondo Esichio presero il nome dall’orzo cotto nel latte, ch’era in tal giorno la mater a principale del sacrifizio. Anche Apollo fu detto Galasio ; ma tale denominazione gli derivò da un luogo della Beozia, così chiamato, e dov’era in ispeziale maniera onorato(b).

L’Epidemie si celebravano in Delfo in memoria del pellegrinaggio d’Apollo sulla terra(c).

Dopo la battaglia di Canne si credette d’aver trovato ne’versi d’un certo Indovino, nominato Marzio, turte le circostanze della sventura accaduta a’Romani in quella giornata. Da quel momento si prese a considerare que’versi, come oracoli. E perchè negli stessi era indicato, che se i Romani volevano allontanare da se il nemico, dovevano obbligarsi con voto solenne a celebrare ogni anno de’ Giuochi in onore di Apollo, perciò a persuasione di Cornelio Rufo Decenviro furono subito instituiti sotto il Consolato di Appio Claudio e di. Q. Fulvio Flacco, e dal nome del Nume chiamati Apollinarj(d). I Romani v’assistevano coronati d’alloro, e vi sacrificavano un bue e due capre bianche {p. 257}ad Apollo, e a Latona una giovenca colle corna dorate(a). Macrobio dice, che quando si celebrarono per la prima volta tali Giuochi, il Popolo Romano fu avvertito, che alcuni nemici della Repubblica si avvicinavano alla loro città ; che il medesimo andò loro incontro, e li mise in fuga coll’ajuto di Apollo ; e che questi vibrò contro di loro moltissime frecce. Da principio non era fissato il giorno, in cui si doveano celebrare tali Giuochi. Si determinò poi anche quello da Licinio Varo Pretore(b).

Moltissimi altri nomi furono dati ad Apollo. Egli si denominò Oropeo da Oropo, città dell’Eubea, dove dava Oracoli(c) ; Pitio dall’uccisione di Pitone(d) ; Nomio, ossia Pastore, per aver avuto cura delle greggi di Admeto : dal che ne derivò altresì, ch’egli fosse risguardato come il Dio de’ Pastori(e)(18). Fu inoltre detto Delio, Abeo, Agieo, Peane o Peone, Alessicaco, Sminteo, Curotrofo, Didimeo, Licio, Clario, Ismenio, Licogene o Licottono, Spondio, Spodio, Carneo, Timbreo, Triopio, Soratte, Teosenio, Tirseo, Epidelio, Iperboreo, e Febo. Si disse Delio dall’isola di Delo, ov’ebbe i natali, e dava oracoli sei mesi dell’anno, cioè la primavera e l’estate, e gli altri sei in Patara, città della Licia, nell’ Asia Minore, donde acquistò anche il nome di Patareo(f). Plutarco dice d’aver veduto in Delo un’ara, sacra ad {p. 258}Apollo, la quale appellavasi Ceraton, perchè era stata da Apollo fanciulletto composta di corna di capri, uccisi da Diana sul monte Cinto(a). Su quest’ara non si sacrificavano mai animali vivi(b).

Si denominò Abeo dalla città d’Aba nella Focide, dove avea un ricco tempio, e un celebre oracolo(c).

I Greci aveano il costume di alzare degli altari nelle strade. Alcuni di questi furono sacri anche ad Apollo, il quale fu perciò detto Agieo, ossia preside alle strade(d). Pausania poi narra, che un certo Iperboreo, di nome Agieo, trasferitosi nella Focide insieme con un certo Pagaso gittò i primi fondamenti del tempio di Delfo, sacro ad Apollo, e che perciò il Nume fu detto Agieo, o Iperboreo(e).

Derivò ad Apollo il nome di Peane o di Peone(19), perchè era egli considerato come il Dio della medicina(f)(20). Quindi in onore d’Apollo cantavasi un Inno, detto parimenti Pean,dopochè erasi riportata qualche vittoria(g).

Anche il nome di Alessicaco significa quello che guarisce ; e come tale veneravasi Apollo spezialmente dagli Ateniesi, perchè li avea liberati dalla peste nel tempo della guerra, che sostenevano con alcuni popoli del Peloponneso a’giorni di Pericle {p. 259}(a). Al nome di Alessicaco corrisponde quello altresì di Apotropeo(b)(21), e di Epicurio. Sotto questo ultimo il Nume era in modo particolare venerato in Figalia, città d’Arcadia, appresso alla quale il famoso. Ittino avea fabbricato ad Apollo un tempio sul monte Cotilio, perchè lo stesso Dio avea liberato quel luogo dalla peste(c).

Al dire di Clemente i discendenti di Teucro, usciti dall’Isola di Creta, per cercare altrove il loro stabilimento, udirono dall’ Oracolo, che doveano fermarsi, ove i naturali abitanti del paese avrebbono loro mosso guerra. Costretti coloro a passare una notte lungo le rive dell’Ellesponto, avvenne che un gran numero di topi divorò i loro scudi. Il dì seguente i Cretesi, veduto quel guasto, si diedero a credere, ch’esso fosse la verificazione dell’Oracolo, e in quel luogo fabbricarono una città, che denominarono Smintia, dalla voce greca sminthos, topo ; v’eressero un tempio ad Apollo sotto il nome di Sminteo ; e risguardarono come sacri tutti i topi di que’dintorni(d). Polemone poi, citato dallo stesso Clemente(e), dice che i Frigj alzarono anch’essi ad Apollo Sminteo un tempio, per ringraziarlo, che i topi aveano divorate le corde degli archi de’loro nemici. Altri finalmente danno un’altra origine al predetto tempio. Apollo, dicono, aveva nella città di Crisa in Misia un sacerdote, di nome Crine. Il Nume per punirlo della negligenza, con cui esercitava il suo ministero, mandò {p. 260}de’topi a desolare tutti i di lui giardini. Orde, pastore di quello, lo avvisò della commessa negligenza. Si ravvide il Sacerdote, e il Nume uccise i topi. Crine in rendimento di grazie gl’innalzò quel tempio(a).

Curotrofo si chiamò Apollo, perchè i Greci giovani solevano recidersi i loro primi capelli, e consecrarli a questo Nume(b).

Diedesi ad Apollo il nome di Didimeo, perchè in Didima, luogo vicino a Mileto nella Ionia, avea un magnifico e ricco tempio. Famosi n’erano i sacerdoti, chiamati Branchidi da Branco, il quale fu pure sacerdote d’Apollo, e uno de’di lui figliuoli(c)(22). Macrobio dice, che la voce didimo significa doppio, e che fu attribuita al Nume, considerato come il Sole, perchè questo illumina il giorno co’suoi raggi, e la notte, comunicando la propria luce alla Luna(d).

Danao, disputando la corona d’Argo a Gelanore, osservò un lupo e un toro, che contrastavano tra loro. Avendone il lupo riportata la vittoria, Danao fece riflettere agli Argivi, che Apollo in quella guisa avea voluto dichiarare, che uno straniero sarebbe per prevalere ad un cittadino. Così tal discorso sorprese quel rozzo e superstizioso popolo, ch’egli diede la corona a Danao. Il nuovo re allora alzò un tempio ad Apollo Licio, ossia il Lupo(e).

Si appellò Clario, perchè eragli stato consecrato un tempio, un bosco, e una fonte in Claro, città {p. 261}della Ionia, fabbricata appresso Colofone da Manto, figlia di Tiresia, e grande Indovina, come lo era il di lei padre(a)(23). Dicesi, che quella fonte siasi formata delle lagrime, che sparse la predetta Manto, quando ebbe ad osservare la sua rovina, e quella della sua patria(b). Strabone aggrunge, che chi bevea di quelle acque, contraeva la virtù di predire le cose future(c).

E’ stato denominato Ismenio dal tempio, che avea lungo le rive del fiume Ismeno nella Beozia(d). I Tebani ogni anno conferivano il sacerdozio d’ Apollo Ismenio ad un giovane, nato da nobile famiglia, e di avvenente aspetto(e).

Licogene o Licottono da licos, lupo, fu detto il Nume, perchè Latona, essendo per partorire, fu cangiata in quell’ animale. Per questa ragione anche nel tempio di Delfo vedeasi un simulacro di lupo in bronzo. V’ è però chi soggiunge, che per altro motivo gli si diede questo nome. Alcuni ladri, dicesi, rubarono tutti i tesori del testè nominato tempio, e li nascosero sotterra. Un lupo prese pellembo della veste un sacerdote d’ Apollo ; lo condusse al luogo, ove stava riposto il furto ; e collo zampe smosse la terra, che lo tenea coperto(f).

Il nome di Spondio, che deriva da spondì, trattato, diedesi ad Apollo, perchè egli prosiedeva anch e a’ trattati(g).

{p. 262}Fu detto Spodio da spodòs, cenere, attesochè i Beozj gli aveano alzata nel tempio d’ Ercole un’ ara, formata di ceneri di vittime, sacrificate in onore dello stesso Dio(a).

E’ incerto, donde derivasse ad Apollo il nome di Carneo. Altri dicono da Carneo Trojano ; altri dal bellissimo giovine Carno, figlio di Giove e di Europa, cui il Nume teneramente amava ; altri da Carno d’ Acarnania, che Apollo erudì nell’ arte dell’ indovinare, e la di cui strage, commessa da’ Dorj, venne vendicata dallo stesso Nume con orribile pestilenza. Vuolsi da alcuni, che que’ popoli per liberarsi da tale castigo abbiano instituite le Feste Carnie. V’ è chi pretende, che le abbiano introdotte i Greci, perchè aveano provocato contro di loro le sdegno d’ Apollo, quando sul monte Ida tagliarono un albero di rami simili nella durezza e rigidezza alle corna, per formare il cavallo Trojano, di cui parleremo. Altri finalmente sono di parere, che sieno state così denominate dall’ essere stato esaudito Menelao, il quale, essendo per portarsi contro Troja, avea fatto voto ad Apollo di tributargli cospicui onori, se la di lui imptesa avesse avuto felice riuscita. Le anzidette Feste si celebravano in tutta la Grecia, e singolarmente a Sparta. Nove giorni dimoravano i Greci, vestiti da soldati, in un campo. Si alzavano nove tende, sotto ciascuna delle quali nove cittadini, scelti da tre differenti Tribù, se ne stavano notte e giorno. Esichio aggiunge, che si eleggevano altri cinqué cittadini, presi da tutte le Tribù, e detti Carneati, i quali presiedevano a ali Feste per quattro anni {p. 263}continui. Anche i Musici vi gareggiavano. Il primo a riportarvi il premio fu Terpandro(a).

Apollo si chiamò Timbreo dal cul o particolare, che gli si rendeva in Timbra, città della Troade, ove avea un bosco sacro e un tempio(b).

Si denominò Triopio dal proporsi in un certo giuoco dei tripodi di bronzo in premio a’ vincitori. Ma questi tripodi si consecravano poi al Nume, nè era lecito portarli a casa(c).

Fu detto Soratte dall’ essergli stata consecrata la montagna di questo nome, situata nel paese de’ Falisci, poco lontana dal Tevere(d)(24).

Ebbe il nome di Teosenio, ossia Dio dell’ ospitalità ; e come tale lo veneravano que’ di Pellene, città d’ Acaja. Eglino ogni anno celebravano a di lui onore certe Feste, dette parimenti Teosenie. In esse si facevano dei Giuochi, il premio de’ quali secondo Pausania era un vaso intagliato(e), ovvero una veste, detta clena, come vuole lo Scoliaste di Pindaro(f). Apollo Teosenio aveva un tempio e una statua di bronzo in quella città(g).

Apollo sotto il nome di Tirseo era onorato in Cianea, città della Licia. Ivi v’ avea una fontana, a lui sacra, in cui vedeasi indicato tutto quello, che si desiderava di sapere(h).

Saccheggiatasi l’Isola di Delo, e il tempio d’Apollo, che vi si trovava, la statua di questo Dio per {p. 264}disprezzo fu gettata in mare. I flutti la spinsero sui lido del Peloponneso. Gli Spartani la raccolsero con tutta venerazione, fabbricarono nelto stesso luogo un tempio al Nume, e lo denominarono Epidelio, ossia venuto da Delo(a).

Certi popoli, detti Iperborei, veneravano Apollo, perchè credevano, che nella loro Isola fosse nata la di lui madre, Latona. Queglino per così dire erano Sacerdoti di questo Nume, e continuamenté cantavano Inni a di lui onore. Gli aveano dedicato un vasto terreno, nel di cui mezzo eravi un magnifico tempio, rotondo, e pieno di ricchi doni. La loro stessa città era consecrata ad Apollo, e abbondava di musici e suonatori. Credevano, che ogni diciannove anni il Dio discendesse tra loto, suonasse la lira, e danzasse ogni notte dall’ Equinozio di Primavera sino all’ apparire delle Plejadi. Per testificare sempre più la loro venerazione al Nume, gli spedivano ogni anno in Delo le primizie de’ Ioro frutti. Da prima erano due o tre vergini, accompagnate da cento giovani di grande coraggio, le quali portavano quelle offerte. Fecero poi passare i donativi di mano in mano per mezzo di que’popoli, che si trovavano sulla strada dal loro paese sino a Delo(b). Tra’ Sacerdoti d’ Apollo Iperboreo è famoso Abaride Scita, e figlio di Seuta. Egli fu regalato dal Nume d’ una freccia d’ oro, con cui sollevavasi in aria, e scorreva per qualsisia inaccessibile luogo. Lo stesso vantavasi di predire il futuro, e spezialmente il terremoto ; allontanava la peste ; e abbonacciava le procelle ; finalmente {p. 265}secondo alcuni non mangiava mai, ed era stato quegli, che con uno degli ossi di Pelope avea formato il Palladio(a).

Apollo si denominò Febo, per alludere alla luce, the sparge per tutto il mondo, in quanto che egli è lo stesso che il Sole(b). Sotto questo aspetto ebbe per padre Iperione, figlio di Urano e di Titea(c). In onore di Febo s’ insituirono le Feste Dafnefotie, e le Targelie. Le prime si celebravano ogni nove anni da’ Beozj. Allora la cima del tronco d’un ulivo, coronato di alloro e altri fiori, si cuopriva con un globo di rame, il quale rappresentava il Sole. Sotto di quello se ne collocava un altro minore che indicava la Luna. Intorno di essi due ponevasi un gran numero di plù piccoli, i quali rappresentavano le Stelle. Allo stesso ramo eranvi attaccate trecento e sessanta cinque corone, quanti erano i giorni dell’ anno. Questo ramo così preparato portavasi con gran pompa in giro. Chi ciò faceva, chiamavasi Dafneforo. Egli era coperto di magnifica e lunga veste, co’ capelli sparsi, e cingeva in capo una corona d’ oro. Venivano poscia due cori, l’ uno di giovani, che stringevano in mano una bacchetta inghirlandata di fiori, e l’ altro di donzelle, che portavano rami d’ ulivo, e cantavano un inno, detto Dafneforico. Così si andava al tempio d’ Apollo Ismenio o Galasio. L’origine di tale Festa è questa : gli Eolj ; che abitavano in Arne e ne’ luoghi circonvicini, per obbedite ad un Oracolo, andarono a guastare il {p. 266}territorio di Tebe, allora assediata da’ Pelasgi. Le due armate si trovarono nello stesso tempo obbligate di celebrate una Festa d’ Apollo. Si fece pertanto una sospensione d’ armi, e sì gli uni che gli altri tagliarono degli allori, per portarli poi in mano coll’ oggetto di onorare il Nume. Polemata, capo de’Beozj, vide in sogno un giovane, che lo regalava d’una intera armata, e comandavagli di consecrare ogni nove anni degli allori alla stessa Divinità. Tre giorni dopo il sogno questo Generale disfece i nemici. Egli perciò ebbe cura di celebrare la comandata festa ; e questa poscia si conservò nella Grecia(a).

Le Targelie si solennizzavano in Atene nel sesto e settuno giorno del mese Targelione. Il primo dì s’impiegava tutto nel preparare le primizie della terra, le quali si portavano in giro ; nell’ altro si purificavano le città. Un coro di musici gareggiava poi nel canto. Era lecito nel tempo di queste Festo scrivere ne’pubblici Registri i figliuoli spurj(b)(25).

Apollo, considerato come il Sole, cangiò in biscia Arge o Argea, perchè essa, correndo dietro ad un cervo, protestò che lo avrebbe raggiunto, quand’ anche il corso di lui fosse stato rapido al par di quello del Sole(c).

Il Sole arse d’amore per la vezzosa Leucotoe, nata da Eurinome ; una delle Oceanidi, e da Orcamo, re degli Assirj(d). Il lucido Dio, prese le {p. 267}sembbianze di Eurinome, si appressò a Leucotoe ; che con alquante serve stava torcendo lo stame. Fece, che quelle si allontanassero, si manifestò per quello ch’ era, e chiese d’ unirsi seco lei in matrimonio. V’ acconsentì la giovine. Clizia, una delle Oceanidi, che amava assaissimo il Sole, penetrò il fatto ; e spinta da gelosia e invidia, corse a palesarlo ad Orcamo, Scavò questi una fossa, e vi seppellì viva la figlia. Il Sole, spettatore di tale barbarie, cercò coll’ attività de’ suoi raggi di aprire la strada alla misera, onde ritornasse alla luce del giorno, ma l’ industria riuscì vana, e la pietà fallita. Sbarazzato il terreno, trovò egli Leucotoe già morta. Ne asperse quindi allora di nettare il corpo e il terreno. Questo mandò tosto un’insolita fragranza, e produsse una pianta d’incenso. La maligna Clizia poi dovette pagarne il fio. Più non la degnò Febo de’suoi sguardi, e fino da quel momento ebbe a giurarle odio e abbominazione. Colei fra le agitazioni e i delirj fuggì la compagnia delle Ninfe, e giorno e notte giacque all’ aperto dell’ aria sul nudo terreno. Per nove giorni non prese nè cibo nè acqua, e sempte se ne stette, accompagnando coll’occhio il movimento del Sole. Consumato in sì deplorabile condizione tutto quel tempo, alfine si trovò trasformata in quel fiore, che da’ Greci chiamasi Eliotropio, e dagl’ Italiani Girasole(a).

Molti figliuoli si danno ad Apollo, considerato come il Sole. Tra quelli si nominano spezialmente Rodia(26), Aurora(27), Circe(28), Factonto(29), avuto da Climene(30), e Factusa e Lampezia(31).

{p. 268}Questo Nume sotto il medesimo aspetto ha qualche volta in mano il cornucopio, per simboleggiare l’ abbondanza, ch’ egli produce. Ha in capo una corona di raggi, ed è tirato sopra un carro da quattro cavalli, chiamati da Ovidio Piroente, Eoo, Etone, e Flegone(a). Omero non ne accenna che due, Lampo cioè, e Faetonte(b). Altri a’ questi aggiunsero Eritreo, e Atteone(c).

Apollo fu anche l’ inventore della Poesia e della Musica, e però viene tenuto come il capo delle Muse(d)(32), figlie di Giove e di Mnemosina(e)(33). Con queste il Nume soggiornava sopra i monti, Parnasso(34), Elicona(35), Pierio(36), e Pindo(37). Soleva altresì dimorare seco loro lunge le rive de’ fiumi, Permesso(38), Castalio(39), e Aganippe(40).

Varj altri furono castigati da Apollo. Tra questi si nominano Marsia, Satiro della Frigia ; Niobe, figlia di Tantalo, re della Lidia, e di Eurianassa ; il Gigante Tizio, figlio di Giove e di Elara ; Caanto, figlio di Oceano e di Teti ; Mida, figlio di Gordio, e re della Frigia ; e certi Argivi. Marsia(41) presumeva che niuno potesse uguagliarlo nell’ arte di suonare la tibia, stromento da fiato, simile al nostro flauto(42). Osò di provocare Apollo a confronto, colla condizione, che il vincitore potesse trattare a piacere il vinto. Apollo, essendone {p. 269}giudici le Muse(a), o gli abitanti di Nisa(b), vi riuscì superiore. Egli appese Marsia ad un albero, o lo scorticò(c)(43).

Niobe avea sposato Ansione Tebano. Da tal matrimonio nacquero secondo Erodoto due figli e tre figlie(d) ; secondo Omero sei maschi e altrettante femmine(e) ; secondo Esiodo, citato da Apollodoro, dieci dell’uno e dell’altro sesso(f) ; e secondo lo stesso Apollodoro sette figli e sette figlie(g). Questa è la più comune opinione. Siffatta copiosa prole tendette Niobe oltre modo superba. Giunto il tempo, in cui la fatidica Manto esortava le donne Tebane ad offerire voti e incensi a Latona, come madre d’ Apollo o di Diana, Niobe andava sgridando quelle donne riguardo al culto, che rendevano a Latona ; e tentava di persuaderle, che una madre di due soli figliuoli, qual’ era stata colei, non dovea essere posta a confronto di chi ne avea assai più. Se ne querelò Latona con Diana e Apollo, i quali ben presto la vendicarono. Amendue quelle Divinità si recarono sul Citerone, ove i figliuoli dell’ orgogliosa madre si trovavano, e colle loro frecce li misero tutti a morte. Lo stesso fine incontrarono pure le di lei figliuole, eccettuata Clori, la quale fu lasciata in vita(h). V’ è chi dice, che traquelle sieno sopravvìssute Melibea e Amicla, {p. 270}perchè elleno ne implorarono la protezione di Latona ; e che le medesime inalzarono a Latona stessa per gratitudine una statua in Argo(a). Apollodoro soggiunge, che fu risparmiata la morte anche ad uno di que’ maschi, nominato Anfione(b)(44). Niobe poi, non potendo reggere al dolore, che sofferiva per la perdita de’ figli, fu dagli Dei convertita in sasso(c).

Scrisse Ferecide(d), che Elara, come si trovò gravida di Tizio, Giove la nascose sotterra per sottrarla alle furiose gelosie di Giunone. Morì la madre, e nacque il bambino fin d’ allora d’estraordinaria grandezza. La terra fu incaricata di nutrirlo ; e quindi fu creduto di lei figliuolo(e). Igino narra, che Giunone, gelosa dell’amore, che Giove avea per Latona, comandò a Tizio, che le conducesse dinanzi la medesima ; e che Giove irritato da tale violenza, colpì il Gigante col fulmine, e lo precipitò nel Tartaro(f). Comunemente però con Apollodoro si dice, che Tizio, avendo incontrato Latona, prese ad insultarla, che colei implorò il soccorso d’ Apollo, e che questi lo uecise(g). Tizio nell’ Inferno è tormentato secondo Igino da un serpente, che di continuo gli rode il fegato e il cuore. Virgilio poi dice, che un avoltojo(h), ovvero due, {p. 271}corne altri pretendono(a), vanno pascendosi delle di lui viscere, le quali divorate rinascono di nuovo.

Caanto doveva andare in traccia di sua sorella. Melia, ch’era stata rapita da Apollo, e fatta madre d’Ismeno e di Tenero(45). Egli, come seppe, ch’ella trovavasi appresso questo Nume, nè che il medesimo gliela avrebbe restituita, incendiò il bosco Ismenio, a lui consecrato. Apollo per tal delitto scoccò contro di lui una freccia, che gli diede la morte(b).

Pane in presenza di certe Ninfe soleva cantare al suono della zampogna. Egli, benchè ineguale di fotze, ardì di anteporsi in ciò ad Apollo, e di venire seco lui a confronto. Sedette giudice della gara sopra il suo giogo il monte Tmolo. Suonò Pane il rusticale stromento, e il Nume pure fece lo stesso. Il giudizio stette in favore d’Apollo. Piacque a tutti la sentenza. Il solo Mida, Monarca ricchissimo della Frigia(46), diede la preferenza a Pane. Se ne sdegnò Apollo, e rendette le di lui orecchie sìmili a quelle dell’asino. Il Re, vedendosi di sì deforme aspetto, studiò di celarne la bruttezza col cuoprìrsì le tempia di purpurea tiara. Con tutto ciò se ne accorse quello de’suoi servi, che gli accorciava ì capelli, quando erano lunghi : e smanioso di pubblicare, che il suo Re aveva le orecchie asinine, ma non osando nel tempo stesso di farlo per timote di castigo, scavò in rimota campagna una fossa, ed ivi appagò il suo desiderio. Qualche tempo dopo uscì da quel terreno quantità di canne ; e {p. 272}queste, agitate dal vento, andarono ripetendo le stesse parole del servo, e manifestarono a tutti l’accaduto(a).

Certi Argivi avevano lasciato divorare da’cani un figliuolo, che Apollo aveva avuto da Psamate, figlia di Crotopo. Il Nume per punirli suscitò il mostro Pene, il quale strappava dal seno delle madri i loro fanciulli, e li divorava. Il valoroso Corebo, Eroe d’Argolide, lo uccise. Non per questo cessò la collera del Nume, e colla peste desolò la città d’Argo. Corebo consultò l’Oracolo di Delfo, e la Pitonessa in risposta gli vietò di più ritornarsone tra’ suoi. Gli soggiunse, che prendesse dal tempio un tripode, e che nel luogo, ove quello fosse per cadergli di mano, ergesse un tempio ad Apollo, ed ivi fissasse la sua dimora. Giunto Corebo al monte Geranieno nella Megaride, il tripode gli cadde in terra. Là esoguì l’Eroe ciò, che l’Oracolo aveagli indicato ; e il vicino villaggio fu da lui denominato Tripodisco, ossia del tripode(b).

Apollo come castigò, così amò parecchi altri. Tra questi sono celebri Cirene, figlia del fiume Peneo ; Ciparisso, figlio di Telefo ; Sinope, figlia d’Asopo ; la Ninfa Stilbe ; Iapi, figlio di Jaso ; Rea, figlia di Stafilo e di Crisotemi ; la Ninfa Acacalide ; la figlia di Macareo, detta Isse(47) ; e la Ninfa Bolina. Cirene nacque sul monte Pelio nella Tessaglia. Apollo ebbe a vederla nel momento, in cui, pascolando ella gli armenti del padre, combattè sola contro un leone. Ne ammirò il Nume l’invitto coraggio, la rapì, se la trasportò in quella parte {p. 273}dell’ Africa, che poscia fu detta Cirenaica, e la rendette madre di molti figliuoli, tra’quali si nomina Aristeo(a).

Ciparisso avea preso ad amare un cervò. Avvenne, che il giovine, avendo per giuoco scoccato uno strale, mortalmente lo ferì. Nel vederlo ridotto al fine della sua vita ne dimostrò estremo dolore, e chiese agli Dei, che gli concedessero di piangere sempre. Infruttuosa non rimase la di luì preghiera, e in tal dilovio di lagrime egli proruppe, che divenne verde cipresso. Afflitto Apollo per questa metamorfosi, ordinò, che il cipresso fosse in avvenire simbolo di lutto, ch’esso servisse d’ornamento nelle pompe funebri, e che si dovesse piantare il medesimo appresso i sepolcri(b).

Apollo rapì pure Sinope, e recatosi secolei nel Ponto, la rendette madre di Siro, il quale diede poi il suo nome a’Sirj. Dicesi da alcuni, ch’ella abbia ottenuto da Giove e da Apollo la prerogativa di conservarsi sempre vergine(c).

Da Stilbe e da Apollo nacquero Lapito e Centauro, dal primo de’quali discesero i Lapiti, e dall’altro i Centauri, popoli della Tessaglia(d).

Iapi fu vate di somma riputazione, ed esimio suonatore di cetra. Virgilio dice, che Apollo gl’inseghò l’arte degli augurj, e il modo di conoscere l’attività delle piante, e che lo regalò di celeri frecce, e di un’armoniosissima cetra(e).

{p. 274}Rea partorì ad Apollo un figlio. Se ne adirò il di lei padre, e la fece gettare nel mare. I flutti la portarono sulle rive dell’Isola di Delo, dove fu raccolta col bambino. A questo ella diede il nome di Anio. Lo depose poscia sull’altare d’Apollo, e lo pregò di prenderne cura. Così fece il Nume(a).

Apollo ebbe da Acacalide nell’Isola di Creta due figli, Filandro e Filacide. Questi furono esposti alle bestie, e nutriti da una capra. In memoria di tal fatto gli abitanti di Elira, città situara sopra una delle montagne di Creta, spedirono al tempio d’Apollo in Delfo una capra di bronzo, che allattava due bambini(b).

Apollo, per ottenere corrispondenza da Isse, si cangiò in un Pastore, che colei teneramente amava(c).

Bolina, originaria d’Acaja, contrada del Peloponneso, era amata da Apollo, ma non voleva corrispondergli. Inseguita dal medesimo, si gettò in mare. Il Nume, ammirandone la virtù, le conferì l’immortalità(d).

Dicesi, che Apollo, come Dio della Musica, abbia avuti molti figliuoli, tra’quali i più rinomati sono Lino, nativo della città di Tebe nella Beozia(48), Filamone(49), Anfione(50), Arione(51), e Orfeo(52).

Sulla montagna, la quale chiamavasi Soratte, poco lontana da Roma, v’avea un tempio dedicato ad Apollo, in cui le famiglie Irpie camminavano sopra i {p. 275}carboni accesi, senzachè i medesimi loto nuocessero(a)(53). Anche que d’ Argo ebbero questo Nume in grande venerazione. In Amicle pure, città della Laconia, sul siume Eurota. Appollo aveva uno de’più celebri tempj(b). Apollo finalmente ebbe sul monte Qulrinale in’Roma un tempio comune con Clatra(54).

Gli animali sacrì ad Apollo furono la cicala, perchè questa sempre canta ; il lupo, sì perchè Latona secondo alcuni fu trasformata in quell’animale per sottrarla alle persecuzioni di Giunone, sì perchè Apollo, come Dio de’Pastori, voleva, che gli fosse sacrificato il lupo, nemico delle greggi ; e il corvo, perchè questo Nume presiedeva anche agli augurj, i quali spezialmente si traevano dal volo e dal canto di quell’uccello(c)(55). Ovidio racconta, che Apollo, volendo celebrare una festa in onore di Giove, commise ad un Corvo di recargli pel sacrifizio dell’acqua, tratta da una fontana, che gl’indicò. L’uccello spiegò a tale oggetto il volo, ma avendo osservato un albero, carico di fichi, si fermò appresso lo stesso, finchè quelli si ridussero a maturità. Dopo essersene saziato, prese un serpente, se ne ritornò ad Apollo, e finse che quello gli fosse stato d’ostacolo per avvicinarsi alla fonte. Il Nume, per punirlo d’aver aggiunto al delitto la menzogna, lo condannò a sofferire la sete durante il tempo, in cui i fichi si maturano(d).

Apollo, come Dio delle Muse, dipingesi assiso sulla cima del Parnasso, circondato dalle Muse, di {p. 276}bell’aspetto, senza barba, co’capelli biondi, e ondeggianti sugli omeri. E’coronato d’alloro, pianta a lui in ispeziale modo consecrata. Dietro alle spalle porta il turcasso. Talvolta ha intorno di se gli stromenti di varie Arti. Con una mano stringe pure una corona d’alloro, e tratra coll’altra un arco con varie frecce, ovvero una lira.

Il motivo, per cui divenne sacro ad Apollo l’alloro, è questo ; Dafne, figlia di Peneo, uno de’fiumi maggiori della Tessaglia, era amata da questo Dio (56). E benchè ella con odio implacabile gli corrispondesse, Apollo tuttavia procurava sempre d’abbattersi in lei. Era egli per raggiungerla sulle sponde’ del fiume, suo padre, quando la giovine chiamò il genitore in sua difesa, e ne implorò altresì l’assistenza de’Numi. Quel, ch’ella bramava, era, che o la terra la nascondesse nelle sue viscere, ovvero ch’ella cambiasse di forma. Nè in vano pregò, poichè d’improvviso videsi mutata in una pianta d’alloro(a).

{p. 309}

Ecate. §

ECate secondo alcuni era figlia di Perse e di Asteria, secondo altri del Sole e della Notte, o di Cerere e di Giove, o di Giove e di Latona. Fu detta Ecate, o perchè riteneva cento anni al di là del fiume Stige chi dopo morte era rimasto senza sepoltura, o perchè le si sacrificavano cento vittime nello stesso tempo : il quale sacrifizio appellavasi, come abbiamo osservato, Ecatombe. Questa Dea era la stessa, che la Luna, Diana, e Proserpina : vale a dire ella chiamavasi Selene, ossia Luna, in Cielo ; Artemide, ossia Diana, in terra ; e Persefone, ossia Proserpina, nell’ Inferno (a). Esiodo dice, che la Luna era figlia di uno de’ Titani, cioè d’ Iperione, il quale la ebbe da Tia, una anch’ella delle Titanidi, per cui la Luna fu chiamata Titania (b). Ecate poi sotto il nome di Diana comparve alla luce del giorno sull’altissimo monte, Cinto, nell’ Isola di Delo, donde fu anche denominata Cinzia. Ella veneravasi come la Dea della caccia, e come tale avea per compagne alcune vergini(1). Amò la verginità, e ne dimostrò gelosia in sommo grado (c). Quindi uccise a colpi di frecce Bufago, figlio di Giapeto, perchè costui sul monte Foloe avea tentato d’ insultare al di lei pudore (d). Fece altresì esperimentare gli effetti del suo sdegno ad Atteone, cacciatore, nato dal {p. 310}celebre Aristeo, e da Autonoe, figlia di Cadmo. Quegli, avento fatta una grande strage di selvaggina in boschi e in monti, desistette dalla caccia per ripigliarla poi nel dì seguente. Non molto distante da quel luogo eravi la valle Gargafia, solitaria e ingombra di cipressi e di pini. Nell’estremità della stessa v’avea una sorgente d’acqua, in cui Diana era venuta a ricrearsi insieme colle vergini, sue seguaci. Si avvicinò in quel momento alla stessa fonte Atteone. Appena se ne accorsero le Ninfe, che, formata alla meglio una corona a Diana, procurarono di nasconderla. Ranide spezialmente, Fiale, e Nife allora molto si distinsero ; ma inutilmente, poichè la Dea era dal collo in su più alta di ciascheduna. Diana spruzzò di quell’acqua sul volto ad Atteone, e lo cangiò in cervo. Così trasformato s’incontrò ne’ suoi cani. Fuggì impaurito, ma finalmente raggiunto da quelli, che non potevano ravvisarlo pel loro padrone, ne venne a brani straziato (a). Lo Scoliaste d’Apollonio chiama Atteone figlio di Melisso, e soggiunge ch’egli fu lacerato da coloro, i quali celebravano le Orgie di Bacco (b). Diodoro di Sicilia però vuole, che Atteone abbia incontrato tale castigo, perchè mangiò certe vivande, ch’erano state offeme alla Dea. Euripide finalmente pretende, che colui ne sia stato così punito, perchè ebbe la vanità di credersi più abile di Diana nell’arte della caccia (c)(2). Nè sarebbe da maravigliarsi, che ciò avesse potuto essere la causa del di lui castigo. Sappiamo da Omero, che questa Dea come intese, che anche {p. 311}Orione, figlio di Nettuno e di Brille(3), oltre essere famosissimo Astronomo, era altresì celebre cacciatore, ne concepì gelosia(4), e privò lui pure di vita(5). Ella poi se ne pentì, e ottenne da Giove, che colui fosse trasferito in Cielo, dove forma una Costellazione (a)(6).

Molti altti vennero puniti da Diana. Si nominano spezialmente Chione, Cidippe, e Melanippo con Cometo. La Dea colpì con una freccia la lingua di Chione, figlia di Dedalione, perchè ella aveva osato di credersi più bella di lei. L’infelice per tale ferita morì (b)(7).

Aconzio, giovinetto dell’ Isola di Cea, nel mare Egeo, fornito di singolare avvenenza, erasi recato al tempio di Diana in Delo per vedere le Feste di quella Dea. Quivi osservò la bella Cidippe, nata in quell’ Isola stessa, e se ne invaghì. La non troppo nobile condizione, e la povertà, in cui trovavasi, gli erano di ostacolo per giungere a possederla. Per riuscirvi ricorse all’artifizio. Sapeva, che quando facevasi qualche promessa nel tempio di Diana, non v’avea più maniera di dispensarsene. Scrisse sopra un bellissimo pomo due versi, leggendo i quali Cidippe era per giurare d’unirsi seco lui in matrimonio, ed era per chiamare la stessa Diana in testimonio del giuramento. Lasciò poscia cadere il pomo a’ piedi della giovine, che lo raccolse, lesse i versi, e senz’avvedersene s’impegnò nella promessa, che desideravasi da Aconzio. Non molto dopo Cidippe fu dal padre destinata ad altre nozze ; ma tutte le volte che voleasi celebrarle, una {p. 312}violente febbre, che sorprendeva la giovine, ne le impediva. Avvertì finalmente Cidippe, ch’era quello un castigo del trascurato giuramento, e per non esperimentarlo più a lungo sposò Aconzio (a).

Melanippo, figlio di Marte, avendo veduto in un tempio di Diana la giovine sacerdotessa, Cometo, si unì a lei col più stretto vincolo di cordiale amore : e perchè eglino non potevano maritarsi, ne profanarono quel sacro luogo. La Dea per punirli mandò loro una malattia, per cui poco tempo dopo moritono. Nè quì ebbe fine lo sdegno di Diana. Ella prese ad opprimere eziandio quegli abitanti con varie sciagure. Coloro per liberarsene furono dall’ Oracolo consigliati ad immolare a Diana un fanciullo e una fanciulla. Per un secolo si rinovò ogni anno questo sacrifizio (b).

I più cari a Diana furono Endimione, figlio di Calice e di Etlio, e re d’ Elide ; Britomarti, detta da Diodoro Britona, Ninfa di Creta, e figlia di Giove e di Carme (c) ; e Aretusa, figlia di Nereo e di Coride, nata in Elide. Endimione per la sua giustizia ottenne da Giove il privilegio di sempre dormire(8) in una spelonca del Latmo, monte della Caria (d). Era là, dove Diana ogni giorno si recava a visitarlo per dimostrargli il suo affetto. Endimione secondo Pausania ebbe da lei cinquanta figliuole (e)(9).

Diana amava assaissimo Britomarti, perchè costei era inclinatissima alla corsa e alla caccia (f). {p. 313}Avvenne, che la medesima s’imbarazzò nelle reti, e vedendosi in pericolo d’essere divorata da qualche bestia selvaggia, implorò l’ajuto di Diana, che ne la liberò. Britomarti, grata a tanta beneficenza, fabbricò un tempio alla Dea sotto il nome di Dittinna, che significa la Dea delle reti(10). Altri dicono, che Britomarti per sottrarsi alle persecuzioni di Minos, re di Creta, si gettò in mare, e che dopo morte fu da Diana ammessa tralle Divinità (a). Avvertasi altresì, che il nome di Britomarti fu dato alla stessa Diana (b).

Aretusa era una delle compagne di’ Diana. Riusciva molto esperta nella caccia. A tale prerogativa vi si aggiungeva l’altra, ch’ella, benchè fosse di non ordinaria avvenenza, pure non amava di essere riconosciuta per tale, anzi arrossiva delle lodi, che per questa ragione le si davano. Stanca un giorno entrò a rinfrescarsi in un limpido fiume, e tosto intorno a lei si destò un mormorio, che la impaurì. Si ritirò alla riva dell’ Erimanto, e le apparve il Dio del fiume, chiamato Alfeo. Aretosa al vederlo fuggì, e il Nume non cessò d’inseguirla. Ella, non potendo più reggersi, implorò la protezione di Diana. Questa Dea la involse in una nuvola, e la adombrò di sì folta caligine, che per quanto Alfeo la cercasse, non mai poteva ritrovarla. Aretusa tuttavia era in angustie, nè osava di muovere un piede, nè di respirare per non iscoprirsi. Un freddo sudore scorse allora per le di lei membra, e in un istante trovossi convertita in fonte. S’avvide Alfeo della metamorfosi in lei avvenuta, e spogliatosi delle umane sembianze, ripigliò quelle di fiume. Così {p. 314}voleva pure raggiungerla, ma Diana la fece scorrere per oscure caverne sino all’ Isola Ortigia, daddove la Ninfa si rimise in Sicilia alla luce del giorno. Aretusa fu quindi soprannominata Alfeiade (a).

Diana si disse anche Lisizone, Ortione, Panagea, Elafebola o Elafia, Cariatide, Agrotera, Cindiade, Aricina, Saronia, Munichia, Brauronia, Triforme, Trivia, Febe, Egemone, Triclaria, Nottiluca, Faesfora o Fosfora o Lucifera o Coritallia, Brimo, e Levana. Le giovani d’ Atene, che non volevano imitarne la verginità, solevano portare in canestri certi sacrifizj al tempio di Diana, e divenute gravide, nè potendo più usare della loro consueta cintura, la consecravano nel tempio della Dea, detta perciò Lisizone, ossia xioglitrice della cintura(b).

Si denominò Ortione, ossia dura, inflessibile, a cagione della severità, con cui puniva quelle delle sue Ninfe, le quali non custodivano la verginità (c).

E’ stata detta Panagea dal suo scorrere di foresta in foresta ; o dal trovarsi ora in cielo, ora sulla terra, ed ora nell’ Inferno ; o finalmente dal suo cangiare di forma e di figura (d).

In Elide fu onorata sotto il nome di Elafebola (e), o di Elafia, ossia cacciatrice del cervo, perchè in ciò spezialmente ella trovava diletto (f). Come tale la onoravano anche i Focesi colle Feste {p. 315}Elafebolie, le quali consistevano nel sacrificarle dei cervi, e le quali poi passarono appresso quasi tutti i popoli della Grecia (a).

Lo Scoliaste di Stazio dice, che alcune giovani della Laconia, danzando nel tempio di Diana, chiamata perciò Cariatide, s’accorsero, che quel tempio minacciava rovina. Si rifugiarono sopra una noce, e restarono sospese a’ rami di quella (b). Elleno perciò ogni anno al tempo della raccolta delle noci onoravano Diana con balli e canti, che si chiamarono le Feste Carie (c).

Si chiamò Agrotera, o perchè era sempre ne’ campi(d), o perchè avea un tempio in Agri, città dell’ Attica, e il di cui terreno era opportunissimo alla caccia. In quel tempio si offeriva ogni anno dagli Ateniesi un sacrifizio di cinquecento capre. Intorno all’ instituzione di tale sacrifizio Senofonte dice, che fattasi nell’ Attica un’ irruzione da Dario, re di Persia, Callimaco fece voto di sacrificare a Diana tante capre, quanti Persiani avesse ucciso. Coloro poi furono tanti, che non potendosi avere in quel momento un numero corrispondente degli accennati animali, si decretò di sacrificarne cinquecento ciascun anno (e).

La statua di Diana Cindiade avea il privilegio, che nè pioggia, nè neve le cadeva sopra, benchè fosse all’aperto (f).

{p. 316}Prese il nome d’ Aricina da Aricia, piccola città del’ Lazio, fabbricata, come vedremo, da Ippolito, figlio di Teseo (a). Questi le eresse un tempio, e v’introdusse il culto medesimo, che le si rendeva nella Chersoneso Taurica. La Dea sulla sinistra della strada, che conduceva ad Aricia, ebbe altresì un bosco. Un servo fuggitivo n’era il Sacerdote col nome di Re del bosco. Esso doveva aver ucciso di propria mano il suo predecessore, e stringeva sempre una spada per resistere a chi tentava di privare lui pure di vita. Quì si celebrava anche una festa, in cui i Romani si astenevano per qualche dì dalla caccia, coronavano i cani di fiori, e con fiaccole accese si recavano nella predetta selva per sacrificare alla Dea (b).

Fu denominata Saronia da Sarone, terzo re di Trezene. Questi amò assaissimo la caccia(11). Inseguì un giorno un cervo sino alla spiaggia del mare. L’animale si gettò a nuoto, ed egli fece lo stesso, cosicchè si trovò senza accorgersi in alto mare, dove vi perdette la vita. Il di lui corpo fu portato nel bosco sacro di Diana, e poi sepolto nell’atrio di quel tempio. Per tale motivo i di lui sudditi in seguito celebrarono a Diana certe Feste, dette parimenti Saronie (c).

Fu detta Munichia dal re Munico, figlio di Pentacleo ; o da quella parte del Pireo, che si chiamava Munichia, dove gli Ateniesi le aveano eretto un tempio, il quale serviva anche d’asilo a chi vi si rifugiava. Sotto questo nome Diana ebbe in Atene ogni anno delle Feste, appellate Munichie, nelle quali le si offerivano delle focacce (d).

{p. 317}Ebbe il nome di Brauronia da Brauron, borgo dell’ Attica (a). Ivi eravi un tempio di Diana, fabbricato da Oreste, colla statua della Dea. Ogni anno vi si celebrava la memoria della liberazione del predetto Oreste e d’ Ifigenia, della quale si parlerà più diffusamente altrove. La ceremonia consisteva nell’applicare leggìermente una spada sul capo d’ una vittima umana ; e alcune gocce, sparse in orore di Diana, n’erano il sacrifizio (b). A Diana Brauronia ogni cinque anni si fecero in Atene delle Feste, dette pure Brauronie. Suida racconta, che in un borgo dell’ Attica un orso, addimesticato e sacro a Diana, viveva famigliarmente con quegli abitanti. Un’incauta fanciulla divenne sua preda. I fratelli di lei uccisero quell’animale. Venne perciò la peste. Per calmare Diana, le si sacrificarono molte fanciulle, e si fece una legge, che nessuna donzella del. Borgo si potesse maritare, se prima non era stata sacerdotessa della medesima Dea. Per questo tutte le fanciulle, soprannominate per l’anzidetta ragione Orse, da’ cinque sino a’ dieci anni dovevano assistere alle Brauronie (c).

Venne appellata Triforme, o a motivo della sua triplice potestà, in cielo, in terra, e nell’inferno ; o per alludere alle tre fasi della Luna, crescente, piena, e calante (d). Ella quindi rappresentasi o con tre figure unite, o con un corpo solo, ma questo con tre teste, e quattro braccia (e). Gli Ateniesi aveanle consecrato una statua, la quale denominavanò Epipirgide, da epi, sopra, epirgos, {p. 318}torre, perchè quella avea tre corpi d’un’altezza straordinaria, simile ad una torre (a).

Fu detta Trivia per le tre strade, ch’ella scorre, l’una del cielo, l’altra della terra, e la terza dell’ Inferno (b) ; ovvero a motivo de’ trivj, ossia delle strade che si dividevano in tre, sulle quali si riponeva il di lei simulacro (c).

Si chiamò Febe da Febo, suo fratello, il quale le comunica parte della propria luce, affinchè ella illumini di notte la terra (d).

Conseguì il nome di Egemone, ossia di conduttrice, perchè ella di notte serve in certo modo di guida a’ viaggiatori. Come tale rappresentasi con fiaccole in mano per additare il cammino (e). Ebbe tempio, e feste, dette Egemonie (f).

E’ stata denominata Triclaria, perchè i Joni, che abitavano le tre città, Aroe, Antea, e Mesati, possedevano un terreno in comune, ove trovavasi un tempio, sacro a Diana, e ove ogni anno le celebravano Feste, chiamate Triclarie, al tempo delle quali le venivano offerti in sacrifizio un fanciullo e una fanciulla per placarla, mentr’era adirata per causa del delitto, commesso nel di lei tempio da Cometo e Melanippo (g).

Si disse Nottiluca, ossia che risplende di notte. Ebbe un tempio sul monte Palatino, in cui si accendevano delle torce a un gran vaso a fuoco, il quale ardeva tutta la notte (h).

{p. 319}Si soprannominò Faesfora, o Fosfòra (a), o Lucifera (b), ed anche Coritallia, in quanto che era invocata anch’ella pe’ parti. Sotto l’ultimo de’ predetti nomi avea un tempio, nel quale le nutrici al tempo di certe Feste, dette Titenidie, portavano i fanciulli, e vi danzavano, mentre si sacrificavano alla Dea lattanti porci per la conservazione di que’ bambini. Si faceva allora anche un pubblico convito (c).

Fu chiamata Brimo, perchè avendo Mercurio tentato di conversare seco lei, ella ne fremette (d). Altri derivano questa denominazione da’ notturni terrori, che soleva destare questa Dea (e).

Il Vossio pretende, che il nome di Levana derivi dall’altro Ebraico Levanà, che nel nostro Idioma significa Luna. Tostochè un bambino era nato, la levatrice lo poneva sul terreno, e il padre poi, o altra persona in vece di lui ne lo alzava e abbracciava. Era sì necessario eseguire tale ceremonia, che il fanciullo altrimenti riputavasi illegittimo. Al medesimo atto religioso vi presiedeva Levana, e questa avea in Roma altari e sacrifizj (f).

Ecate finalmente, considerata come Proserpina, ebbe il nome di Libitina(12), e si risguardò come la Dea preside a’ funerali(13). Roma le inalzò un tempio, adorno di colonne, e di statue di bronzo, e circondato da un bosco sacro. Ivi comperavasi tutto ciò, che doveva servire a’ funerali. Per costume intredotto da Servio Tullo, sesto re de’ Romani, si {p. 320}portava anche al medesimo tempio una moneta per chiunque moriva, e riponevasi la stessa nell’erario della Dea. Coloro, ch’erano stabiliti a riceverla, registravano il nome di ciascun inorto in un libro, detto il Registro di Libitina. Per mezzo di questo si sapeva il numero de’ morti in Roma ogni anno (a). In onore di Libitina finalmente ogni novilunio si celebravano in Atene sacrifizj e feste, chiamate Ecatesie, nel tempo delle quali i ricchi imbandivano conviti, e i poveri correvano a divorarli, e poi dicevano, che lo avea fatto Libitina (b). Anche i Stratonicesi al dire di Strabone (c) solennizzavano con grande concorso le predette Feste.

Le altre Feste, dedicate ad Ecate, erano le Artemisie, le Lafrie, le Nemorali, le Numenie o Neomenie, le Caneforie, l’Efesie, e la Diamastigosa. Le prime si celebravano in molti luoghi della Grecia, e principalmente in Delfo. La vittima, che vi s’immolava, era il pesce triglia. Credevasi, che questo desse la caccia all’altro, chiamato lepre marino, e però caro a Diana (d). I Siracusani pure per tre giorni celebravano le stesse Feste con conviti e giuochi (e).

Le Lafrie erano feste, le quali si facevano in Patra, città del Peloponneso nell’ Acaja. Augusto, avendo spopolata Calidone, diede a’ Patresi una parte di quelle spoglie, tralle quali eravi la statua di Diana, chiamata da’ Calidonj Lafria, da che {p. 321}credettero che si fosse calmata la sua collera contro Eneo, di cui parleremo. Que’ popoli la custodivano gelosamente nella loro Cittadella. La medesima statua era d’oro e d’ avorio, e rappresentava la Dea come cacciatrice. I Patresi, dopo d’averle eretto un tempio, stabilirono un’annua festa in suo onore. Pausania così ne descrive le ceremonie. Attorno all’altare disponevano in giro legni verdi, e Innghi cinquanta braccia. Nel mezzo di essi collocavano quantità di legno secco. Portavano in processione la predetta statua con tutta la pompa. Una vergine sacerdotessa compariva l’ultima sopra un carro, tirato da due cervi. Si preparava il sacrifizio d’ogni sorta d’animali vivi, e di frutta. Gli animali, dal calore resi furiosi, tentavano di fuggire. Si riprendevano, e si riconducevano all’altare. In mezzo ad una tale confusione niuno ne risentiva alcun pregiudizio (a)(14).

Le Numenie o Neomenie vennero così dette, perchè si celebravano al principio di tutti i mesilunari. Gli Ateniesi allora offerivano do’ sacrifizj, e sulle pubbliche strade collocavano delle tavole con pani da distribuirsi a’ poveri. Eglino furono imitati anche da’Romani (b).

Le Caneforie non crano in uso, che in Atene. Durante le medesime tutte le giovani nobili, ornate a gran pompa, offerivano alla Dea cestelli, coronati di fiorì, e pieni di rarj doni, e tra questi eranvi i più belli lavori, formati coll’ago. Ciò facevano per ottonere un felice matrimonio (c)(15).

{p. 322}L’Efesie s’instituirono da que’ di Efeso, la principale ceremonia delle quali consisteva nell’ubbriacarsi, e nel passare la notte, mettendo la città, e spezialmento i mercati, in tumulto. Al tempo delle medesime secondo il Pitisso si celebravano con pompa nel tempio della Dea contratti di nozze. Dietro il tempio stesso eravi un bosco, in cui potevano aver ingresso a ballare le sole vergini.

La Diamastigosa era una Festa instituita da Licurgo, nella quale gli Spartani sull’altare della Dea venerata sotto il nome di Ortia, sì aspramente fla’ gellavano con verghe i più nobili giovinetti, che questi sempre si ritraevano di là aspersi di sangue, e talvolta anche spiravano sotto i micidiali colpi. I medesimi fanciulli chiamavansi Bomonici, ossia vittoriosi all’altare. Le madri loro stavano presenti a quella barbara carnificina, e con grida li animavano alla costanza. Coloro poi, come scrive Cicerone, non ispargevano mai una lagrima, nè mettevano alcun lamento. Quelli, che morivano sotto le battiture, si coronavano a guisa di vincitori, e aveano onorovole sepoltura. Una sacerdotessa presiedeva a tale sacrifizio, e durante il medesimo ella teneva tralle mani la statua della Dea, formata d’un legno leggiero, il quale però, se i Ministri della flagellazione non vibravano con forza i loro colpi, diveniva sì pesante, che la predetta Sacerdotessa, non potendo sostenerlo, comandava, che più fortemente si flagellasse. Tanta barbarie finalmente venne mitigata. I giovanetti erano scelti trall’ignobile volgo, ed essi soggiacevano alla flagellazione, finchè solamente ne usciva qualche stilla di sangue (a).

{p. 323}A proposito poi di Diana Ortia notiamo, che Anfiteno o Anfisteno, il di lui padre, Anficle, Irbo, suo figlio, e i suoi népoti, Astrabaco, e Alopeco, Spartani, divennero maniaci per aver toccata la statua di Diana Orcia (a).

Ecate oltre gl’ indicati tempj n’ebbe molti altri. Tre furono i più famosi, erecti a lei sotto il nome di Diana : l’uno sul monte Aventino, l’altro in Efeso, e il terzò nella Chersoneso Taurica. Sulle porte del primo si appendevano delle corna di bue. Plutarco dice, che ciò forse si facesse per conservare la memoria d’un Fatto, avvenuto sotto il regno di Servio Tullio. Un certo Antrone Coracio, Sabino, possedeva una bellissima giovenca. Gli fu predetto che chi la avesse sacrificata a Diana sul monte Aventino, avrebbe procurato alla sua città l’imperio del mondo. V’ andò egli. Il re Servio, avvertito del vaticinio, lo manifestò al Pontefice. Questi, per deludere il Sabino, gli fece credere, che prima del sacrifizio conveniva, ch’egli andasse a purificarsi nel Tevere. Mentre Antrone ivi si lavava, il re sacrificò la gioventa, e ne attaccò le corna alla porta del tempio, a differenza di tutti gli altri tempj di Diana, sulle porte de’ quali erano appese delle corna di cervo (b).

Il tempio di Efeso si fabbricò in dugento venti anni dal celebre Architetto Chersifrone. Era esso di sorprendente magnificenza, e conteneva cento venti sette colonne di maravigliosa lunghezza e bellezza, le quali erano state erette da altrettanti Re (c). Serse, il più fiero nemico de’ Greci, e il quale {p. 324}avea incenerito tutti i loro tempj, ebbe rispetto per questo (a). Finalmente rimase abbruciato l’anno primo dell’ Olimpiade CVI, nella notte, in cui nacque Alessandro il Grande. Lo ridusse a tal fine Erostrato Efesino per rendere immortale il suo nome (b). Il predetto Alessandro propose a que’ d’ Efeso di somministrare loro tutto ciò, che poteva rendere magnifico il nuovo tempio, che stavano innalzando alla Dea, purchè nell’ Iscrizione del medesimo avessero ricordato il di lui nome. Non v’ acconsentirono, e le donne in vece si spogliarono di tutti i loro preziosi ornamenti, cosiochè questo secondo tempio niente era minore nella magnificenza del primo (c). Gli Sciti di nuovo lo distrussero (d).

Il tempio eretto a Diana nella Chersoneso Taurica divenne famoso pel barbaro costume, introdotto da Toante(16), re di quel paese, il quale sacrificava alla Dea i forestieri, che giungevano appresso di lui. Quìndi Diana per ironia fu detta Orsiloche, Ossia ospitale(e).

Diana, considerata come la Dea della caccia, rappresentasi con una mezza luna sulla fronte, calzata di coturni, con arco e turcasso, e con un cane a’suoi piedi. Alle volte ancora dipingesi in un carro, tirato da bianchi servi (f).

{p. 337}

Venere. §

ALcuni Antichi parlano di più Veneri. Platone ne riconobbe due, Venere Urania, ossia Celeste, e Venere Pandemo, ossia Popolare(a). Cicerone ne distingue tre : l’una, figlia del Cielo e del Giorno ; l’altra, prodotta dalla schiuma del mare ; la terza, nata da Giove e da Dione, da cui ella acquistò il nome di Dejonea(b). I Poeti però Greci e Latini non fanno menzione, che di quella, la quale sortì dalla schiuma del mare, e fu risguardata come la Dea della bellezza e del piacere(c). La medesima secondo Esiodo passò nell’isola di Citera(d), e secondo Omero in quella di Cipro(e). Ella vi fu portata da Zefiro. Le Ore la educarono, e poi la trasferirono all’Olimpo(f). Ogni Nume se ne invaghì, e la ricercò in isposa ; ma finalmente fu data in matrimonio a Vulcano, il più brutto di tutti gli Dei(g).

Venere fu particolarmente venerata in Amatunte, città nell’Isola di Cipro. Dicesi, che gli abitanti di quella città, chiamati Cerasti, perchè aveano la fronte cornuta, eressero un altare a Giove, il quale soprannominarono Ospitale, essendochè gli sacrificavano i forestieri, che giungevano appresso di loro. Venere, sdegnata per tale inumanità, cangiò {p. 338}quelle genti in tori, affinchè elleno stesse servissero di vittime pe’sacrifizj(a). La Dea medesima fu anche molto onorata sul monte Idalo, che trovasi nella predetta Isola, donde ella ebbe il nome d’Idalia(b) ; in Citera, Isola dell’Arcipelago, dov’eravi il di lei più antico tempio(c) ; in Cnido, antica città di Caria, la quale divenne celebre per una maravigliosa statua di marmo, formata da Prassitele, la quale rappresentava questa Dea(d) ; in Isparta, ove trovavansi molte statue di lei(1) ; in Lesbo, Isola del mare Egeo ; in Pafo, città dell’Isola di Cipro. Cinira, figlio di Pigmalione(2), e ricchissimo re di Cipro(e), riconoscendosi ricolmato dalla Dea di favori, le consecrò la città di Pafo, da lui fabbricata, e le alzò un tempio, di cui egli stesso volle costituirsene il sacerdote(f). Ne avvenne quindi, che i sacerdoti di Pafo erano sempre scelti dalla famiglia reale, e dicevansi Ciniradi. Virgilio racconta, che nel predetto tempio eranvi cento altari, sopra i quali fumava un perpetuo incenso. La venerazione, che si avea per lo stesso tempio, estendevasi anche a’sacerdoti del medesimo. Quindi si sa, che Catone offerì al Re Tolommeo la gran Sacerdotessa di quello, ond’egli volesse cedere Cipro a’Romani. Sonovi poi alcuni Scrìttori, i quali dicono, che la città e il tempio di Pafo, dedicato a Venere, furono fabbricati da Pafo, figlio del mentovato Pigmalione. Coloro, che così pretendono, natrano, che Pigmalione concepì un disprezzo e un odio grandissimo per {p. 339}le donne a cagione delle impudiche Propetidi, abia tatrici della predetta città di Amatunte in Cipro. Queste femmine si trovarono cangiate in sassi, perchè alla loro sfrenata dissolutezza v’aggiunsero l’ardire di negare o deridere la potenza di Venere. Frattanto la Scultura, cui Pigmalione amava e conosceva perfettamente, era il continuo oggetto della di lui applicazione. Formò egli d’avorio una giovine di tale bellezza e leggiadria, che ne restò pazzamente innamorato. Giunto il dì festivo di Venere in quell’ Isola, si appressò Pigmalione all’altare della Dea, e la pregò, che gli concedesse una moglie, che fosse somiglievole alla sua statua. Sperando, che la Dea volesse consolarlo, ritorno, ove giaceva la statua, e la trovò animata. Ciò fece sì, che mentr’egli per lo innanzi erasi dichlarato odiatore di donne, e nemico di nozze, fu poi veduto a sposare pieno di contentezza l’opera stessa delle sue mani. Egli n’ebbe un figlio, di nome Pafo, di cui abbiamo testè fatta menzione(a). Ritornando poi al predetto tempio di Venere in Cipro, dicesi che in esso col progresso del tempo la Dea abbia avuto un Oracolo il quale l’Imperatore Tito consultò, quando, si trasferì in quell’ Isola per congratularsi con Galba del suo innalzamento all’ Impero(b). Si racconta innoltre, che nello stesso tempio siasi fatto venire Tamira di Cilicia per istabilirvi la scienza degli Aruspici. Ivi pure v’avea un altare, il quale, com chè si trovasse allo scoperro, pure non veniva mai bagnato dalla pioggia(c), nè sopra di quello si {p. 340}offerivano che incenso e fiori(a). Finalmente Venere era venetata anche nella città di Sesto, situata sulle rive dell’ Ellesponto(3).

Venere dagli anzidetti luoghi prese altrettante denominazioni. Fu detta Amatusia(b), Ciprigna(c) o Cipria(d), Citerea(e), Cnidia(f), e Pafia(g). Ella inoltre si denominò Acidalia, Afrodite, Genetillide, Tritonia, Pandemia, Coliade, Murcia o Murzia, Cloacina, Androfona, Libentina, Anadiomena, Calva, Automata, Epideta, Mecanitide, Venere Giunone, Verticordia, Euploea, Ericina, Afacite o Afacitide, Ponzia, Ambologera, Arginnide, e Nemesi. Si chiamò Acidalia da’ Greci, perchè Ella soventi volte cagiona delle inquietudini, o perchè erale dedicata la fonte Acidalia, la quale trovavasi in Orcomeno, città della Boozia, e in cui le Grazie, delle quali quanto prima parleremo, si bagnavano(h).

Dalla voce greca afros, schiuma, fu detta Afrodite, per alludere alla schiuma del mare, da cui era nata(i).

E’stata denominata Genetillide(l), perchè si credeva, che ella avesse avuto parte nella creazione del mondo(m). Cesare, che pretendeva di {p. 341}descendere da questa Dea per mezzo di Julo, figlio d’Enea, le fece ergere un tempio sotto l’anzidetto nome. Plinio dice, che quel Dittatore spedì al medesimo tempio quantità di pietre preziose(a).

Ebbe il nome di Tritonia, perchè veniva portata da’ Tritoni. Questi nella parte-superiore erano uomini, e nell’inferiore pesci, e finivano con una lunga coda(b).

Si appellò Pandemia, perchè è la Dea, che piace alla maggior parte degli uomini(c).

Un giovane dell’ Artica, fatto prigioniero da certi corsali Tineni, poi liberato dalla figlia del loro capo, la quale se n’era invaghita, alzò sopra un Promontorio del suo paese un tempio a Vedere, e la denominò Coliade dalla voce greca cola ; piedi mani, pe’quali era stato legato. Altri dicono, elle la Dea ricevette tal nome, perchè Jone, figlio di Suto, mentre offeriva un sacrifizio, vide un corvo, o uno sparviero, detto in greco colon, il quale rapì parte della vittima, e la depose sul predetto Promontorio(d). Nel tempio di Venere Coliade v’erano delle statue, le quali rappresentavano certe Deità, dette Genetillidi, perchè presiedevano alla generazione umana(e)(4).

Era chiamata Murcia o Murzia, ossia Dea de’pigri, perchè tali rende i suoi adoratori. Altridicono, che Venere da prima si diceva Mirzia dal mirto, ch’erale sacro ; e che tal nome fu poi {p. 342}corrotto nell’anzidetto di Murcia o Murzia. Ella aveva, una Capella non lungi dal Foro Boario alle radici del monte Aventino(a)(5).

Plinio fa menzione del nome di Cloacina(b). Egli lo deriva dal verbo latino cluere, purificare, perchè i Romani e i Sabini, dopo aver combattuto tra loro pel ratto delle donne Sabine, si riconciliarono, si purificarono dal sangue sparso, e innalzarono a Venere un tempio poco distante da Roma in un luogo paludoso, ove gli uni e gli altri si unirono in un solo popolo(c).

La voce Androfona, significa omicida, e fu attribuita a Venere, attesochè una certa donna Greca, di noma Laide, figlia di Timandra, restò uccisa nel di lei tempio a colpi d’aghi da alcune donne Tessale, ch’erano divenute gelose della di lei bellezza(d). Dicesi, che per la medesima ragione siasi dato a Venere anche il none di Anosia, empia(e).

Sotto il nome di Libentina ebbe un tempio in Roma, in cui le giovani nubili consecravano i divertimenti della loro infanzia(f).

Si chiamò Anrdiomena, ossia che sortisce dalle onde(g). Così la dipinse Apelle ; e tale pittura conservavasi in Cos nel tempio d’Esculapio. Strabone riferisce, che i Romani, per averla appresso di loro, offerirono a quelle genti di renderli esenti di cento talenti sul tributo, che pagavano alla loro {p. 343}Repubblica. Plinio aggiunge che la stessa pittura per ordine d’Augusto fu riposta nel tempio, consecrato a Giulio Cesare(a).

Si disse Calva, ossia senza capelli. Sotto questa denominazione ebbe due tempj in Roma. Il primo le fu consecrato per ricordare, che le Matrone Romane, durante l’assedio del Campidoglio fatto da’ Galli, si avevano reciso i capelli per formarne delle corde ad uso di certe macchine di guerra(b). L’altro tempio le fu fabbricato, perchè le predette donne, essendosi rasa la testa a motivo di certa malattia, ottenero mercè la protezione di questa Dea di riacquistare in brevissimo tempo i loro capelli(c).

Un fatto, avvenuto in Efeso, diede motivo alla consecrazione di due tempj in onore di Venere. Alesside e Melibea si amavano teneramente, e aveansi reciprocamente promesso con giuramento di sposarsi, quando accadde, che i genitori della giovine la costrinsero ad altre nozze. Alesside disperato abbandonò il suo paese, e Melibea nel giorno, in cui dovea sposarsi, si precipitò dall’alto della casa in istrada. Non si fece alcun male ; e presa la fuga, montò in un naviglio, che da se si mise in viaggio. I venti la portarono al luogo stesso, ove l’amante di lei erasi ritirato ; ed ella v’arrivò nel momento, in cui egli s’assideva a tavola con alcuni amici. I due giovani si maritarono, e in memoria di tale avvenimento alzarono i due predetti tempj a Venere, l’uno sotto il nome di {p. 344}Automata, perchè improvvisamente si erano rotte le gomone del predetto naviglio ; l’altro sotto quello di Epideta, perchè Melibea era arrivata, quando si stava preparando il pranzo(a).

Fu detta Mecanitide, ossia macchinatrice, per allusione agli artifizj, che soglionsi usare per procurarsi i piaceri dell’amore. Ebbe un tempio in Megalopoli, città d’ Arcadia(b).

Una statua, ch’ella ebbe a Sparta nel tempio di Giunone Iperchiria, le acquistò il nome di Venere Giunone. Questa statua era antichissima ; e le madri delle figlie nubili recavansi a farle offerte e sacrifizj(c).

Sotto il Consolato di M. Acilio e di C. Porzio la figlia d’un cittadino Romano fu colpita dal folmine. Si consultarono i Libri Sibillìni, e se ne intese, che le giovani Romane erano minacciate di castigo, perchè avevano abbandonata la virtù. A tale risposta il Senato ordinò ; che fosse eretta una statua a Venere Verticordia, ossia Cangia-cuori(d). Cadmo la chiamò in vece Apostrofia(e). L’onore poi di consecrare quella statua fu concesso a Sulpicia, figlia di Patercolo, e moglie di Fulvio Flacco, come quella, ch’era la donna la più pudica di Roma(f). Venere Verticordia al tempo di Marcello ebbe anche un tempio fuori della porta Collina sulla strada Salaria. Quivi le giovani Romane venivano ad offerire doni alla Der per conservate la {p. 345}loro castità, o per riacquistarla, se la aveano perduta.

Fu detta Euploea, ossia di felice navigazione, perchè era la protettrice de’viaggiatori per mare. Que’di Cnido le avevano alzato un tempio sotto questo nome. Un altro ne avea pure sopra un monte presso Napoli. In esso eravi la statua la più bella di questa Dea, che si fosse fatta da Prassitele, e di cui un ragguardevole giovine ne divenne amante(a).

Si denominò Ericina dalla sommità del monte Erice, nella Sicilia, dov’ebbe uno de’più celebri tempj dell’antichità. Dionisio d’ Alicarnasso(b), e Pomponio Mela(c) vogliono, che questo tempio sia stato eretto da Enea Trojano. Diodoro di Sicilia poi dice, che il medesimo sussisteva prima della discesa d’ Enea in Italia, e che quell’ Eroe non fece che arricchirlo de suoi doni(d). Si trovavano nel medesimo in gran copia l’oro e le gemme. Dedalo, eccellente artefice, di cui parleremo, v’avea riposto una giovenca d’oro, la quale perfettamente imitava il naturale, e avea decorato quel tempio di molti altri ammirabili lavori. Notte e giorno vi si conservava sull’altare la fiamma. Lo stesso tempio fu sempre in grande venerazione ; e ne’ primi tempi si aveva tanto rispetto per esso, che niuno osava di porre mano ne’tesori, che vi si custodivano. Amilcare Cartaginese finalmente lo saccheggiò, e ne distribuì le ricchezze fra’suoi soldati. Si finge, ch’egli perciò abbia dovuto vedere a perire di pestilenza la {p. 346}sua armata, e ch’egli stesso sia stato poi ucciso da’suoi concittadini(a). Venere sotto il predetto nome avea anche nel Campidoglio un tempo, dedicato da Q. Fabio Massimo nel tempo stesso, in cui il suo collega, Otacilio Crasso, consecrava quello, che Otacilio pretore avea eretto al Buon-Senso dopo la guerra Cartaginese(b)(6).

Venne denominata Afacite o Afacide, perchè aveva un tempio e un oracolo in un luogo della Palestina, detto Afaca, tra Biblo ed Eliopoli, appresso il quale eravi un Lago. Chi recavasi a consultarlo, gettava in quelle acque dei doni. Questi, se erano grati alla Dea, andavano ad fondo ; se no, galleggiavano, ancorchè fossero d’oro e d’argento(c). Zozimo racconta, che questo Oracolo fu consultato da’ Palmireni, allorchè si rivoltarono contro l’ Imperatore Aureliano ; e che nell’anno, che precedette la loro rovina, i doni andarono a fondo, ma l’anno seguente gli stessi se ne rimasero sopra l’acqua(d).

Venere, soprannominata Morfo, ebbe appresso gli Spartani un tempio, in cui ella compariva velata, con catene a’piedi, impostele da Tindaro, per indicare che la fedeltà delle donne verso i loro mariti dev’essere inviolabile(e).

La denominarono Ponzia, perchè presiedeva al mare, che da’ Greci e Latini dicesi Ponto. Sotto questo nome aveva un tempio in Ermione, città dell’ {p. 347}Istmo di Corinto, e la di lei statua era colà molto pregiabile per la sua grandezza e bellezza. Ivi le giovani avanti le loro nozze, e le vedove prima di rimaritarsi, andavano ad offerire sacrifizj(a).

Fu detta Ambologera, ossia che allontana la vecchiaja, in quanto che ella fa ringiovinire in certa guisa quelli, che anche vecchi divengono amanti(b).

Si chiamò Arginnide da un tempio, che Agamennone le consecrò nella Beozia dopo la morte di Arginno, il quale era stato da lui teneramente amato, ed erasi finalmente annegato nel fiume Cefiso(c).

Agoracrito e Alcameno, celebri statuarj e discepoli di Fidia, contrastarono chi di loro era per formare la più bella Venere. Quella d’ Alcamene secondo il gìudizio degli Ateniesi riuscì la migliore. Agoracriro, affinchè la sua non avesse a restare in Atone, la vendette a certi stranieri sotto il nome di Nemesì, e queglino la trasportarono in Ranno(d).

Dalla maggiot parte delle Greche città vennero celebrate in onore di questa Dea le Feste Afrodisie. Le più celebri erano quelle dell’ Isola di Cipro, introdotte da Cinira. Niuno v’era ammesso, se non isborsava una moneta a questa Dea(e). Gli abitanti d’Erice, città della Sicilia, celebravano tutti gli anni l’Anagogia, ossia la Festa della partenza, {p. 348}quando vedevano, che sulle loro rive più non comparivano le colombe. Pensavano, che Venere allora abbandonasse Erice per andarsene nella Libia dietro la scorta di quegli uccelli. Nove giorni dopo quelle stesse genti celebravano un’altra Festa, detta Catagogia, ossia la Festa del ritorno, perchè allora dalla parte dell’ Africa Venere e le colombe ; guidate da una porporina, e molto più bella delle altre, se ne ritornavano in Erice(a).

Venere ebbe molti figliuoli, tra’quali si numerano Priapo(7), Imene o Imeneo(8), le Grazie(9), Cupido(10), ed Enea, di cui parleremo altrove.

La stessa Dea amò assai Adone, figlio di Cinira (11), re di Cipro, e di Mirta. Costei dopo averlo partorito fu dagli Dei trasformata nell’albero, che ritenne il di lei nome(b). Altri dicono, ch’ella fu da Venere assoggettata a tale cangiamento ; perchè si vantò d’aver i capelli più belli della steasa Dea(c). Altri soggiungono che a Mirra toccò sì trista avventura, perchè Cencride, madre di lei, si milantava d’avere in Mirra una figliuola più avvenente della stessa Venere(d). Altri finalmente narrano, che Mirra fu convertita nell’anzidetto albero, primachè partorisse Adone ; ch’essendo venuto il tempo di darlo alla luce, l’albero s’aprì ; e che ne comparve un fanciullo, il quale venne raccolto dalle Najadi, e nominato Adone. Quelle Ninfe, al dire di questi ultimi Scrittori, ebbero {p. 349}cura di lui, lo nascosero sotto l’erba, e lo bagnarono delle lagrime, che sua madre andava spargendo. Il bambino crebbe sì bello, che Venere sommamente prese ad amarlo. E siccome erasi egli dedicato alla caccia, così la Dea lo ammoniva a non cimentarsi mai contro le feroci belve. Ma il giovine non fu sì facile a prevalersi delle prudenti esortazioni. E di lui cani trassero fuori dalla macchia uno smisurato cinghiale. Egli avventò uno strale contro quella fiera, ma essa strappandosi col dente dalla pelle il ferro, lo svelse intriso di sangue, inseguì il cacciatore, lo afferrò, e lo stese sull’arena. Venere, sebbene lontana, riconobbe i gemiti del moribondo. V’accorse sollecita, e alla vista d’Adone, già spirato, estremamente si afflisse, e lo convertì nel fiore, detto da alcuni rosa (a), e da altri anemone (b). Bione poi vuole, che la rosa sia nata dal sangue d’Adone, e l’anemone dalle lagrime, che sparse allora Venere (c). V’è finalmente chi dice, che la Dea siasi rivolta a Giove per riaverlo in vita ; che Proserpina non voleva acconsentirvi, perchè ella pure avea tosto concepito della tenerezza per lui ; che Giove per non dispiacere alle due Dee, le rimise al giudizio della Ninfa Calliope ; e che questa decise, che lo avessero a possedere ciascheduna per la metà dell’anno (d) (12).

La Dea oltre Adone favorì anche Selinno. Pastore d’Acaja, contrada del Peloponneso. Questi {p. 350}piacque alla Ninfa Argira, la quale ogni giorno recavasi a vederlo. Tanta premura però non ebbe a durare lungo tempo. Parve alla Ninfa, che Selinno scemasse in bellezza, nè più il guardò. Così se ne afflisse il Pastore, che morì di tristezza. Venere lo cangiò in fiume ; ma tuttavia egli non cessava di amare Argira, ch’era stata pure trasformata in fontana. Venere, cui la trista sorte di Selinno continuava a destare compassione, gli fece obbliare del tutto la memoria di quella Ninfa. Per questo si credette, che le acque del predetto fiume avessero la virtù di far perdere a chi ne bevea, o vi si bagnava, la ricordanza de’loro amori (a).

Venere castigò Anasarete, e le donne di Lenno. Ad Ifide, leggiadro giovinetto di Salamina in Cipro, bastò di rimirare un giorno Anasarete, nata da Teucro, per concepirne un amore senza limiti. La disuguanglianza de’natali tenne il di lui cuore ondeggiante per qualche tempo. Non potendo alfine la ragione superarne il contrasto, talora chiedeva patrocinio e favore agli amici, talora per lettera sfogava colla giovine le sue tenerezze, e talora drizzava i suoi voti alla porta di colei, come a una Divinità, e l’aspergeva di vino e odori, e la cingeva di fiori, e la baciava. Anasarete per altro lo sprezzava e derideva. Egli, stanco di tolerare più a lungo siffatto martirio, attaccò una fune alla soglia della porta di colei, se l’annodò alla gola, e pendulo se ne morì. Voleva Anasarete osservare il meschino, mentre veniva portato alla sepoltura ; ma Venere la cangiò in sasso {p. 351}(a). Questa Favola è simile a quella, che racconta l’Ab. Rubbi, e che dice non esservi nel Dizionario Mitologico. Arsinoe, figlia di Nicocreonte, re di Cipro, fu cangiata da Venere in pietra, perchè fu spettatrice de’funerali di Arceofonte, che morì per non poterla sposare (b).

Le donne di Lenno sacrificarono a tutte le Deità, fuorchè a Venere. Se ne offese la Dea, e volle prenderne vendetta. Frammischiò tra loro la Dea Mefiti (13), la quale, com’era proprio di lei, le rese, tutte d’un odore sì fetido, che se ne dovettero allontanare i loro mariti (14). Elleno allora, sdegnate per siffatta separazione, implorarono il soccorso di Poliso. Costei era Sacerdotessa d’Apollo, e donna fatidica. La celebrità degli avverati suoi vaticinj avea talmente reso famoso in Lenno e in tutta la Grecia il di lei nome, che senza il suo consiglio o comando niente si faceva : Poliso loro suggerì, che durante il sonno trucidassero tutti i loro padri, e matiti. Così si fece ; e Poliso stessa fu non solo autrice, ma ministra eziandio dell’esterminio. Toante, figlio di Bacco e d’Arianna, e re di Lenno, avea avuto da Mirina, sua moglie, una figlia, di nome Ipsipile. Costei ebbe pietà del suo genitore, lo nascose nel tempio di Bacco, e poi lo fece passare secretamente nell’isola di Chio appresso il fratello Enopio, che là vi regnava (15). Questa pietà si voleva punita colla morte. Ipsipile fuggì da Lenno, e presa da’corsari, fu venduta a Licurgo, figlio di Pronace, e re di Nemea (c).

{p. 352}Tra gli ustelli il più caro a Venere fu la colomba. Dicesi, che la Dea anche si trasformasse in questo uccello. Il di lei figlio, Cupido, si vantò di poter cogliere in un giardino più fiori di sua madre. Venere prese a gareggiare seco lui ; ma egli coll’ajuto delle ali sì velocemente girava di fiore in fiore, ch’era per riportarne la vittoria. La Ninfa Peristera soccorse Venere. Cupido n’ebbe dispiacere a tal segno, che vedendosi vinto, cangìò la Ninfa in colomba (a).

La rosa tra’fiori, e il mirto, come abbiamo detto, tragli alberi erano a cagione della loro bellezza le piante sacre a questa Deità (b). La prima, perchè era stata tinta del sangue d’Adone, quando si punse con una di quelle spine, per la quale puntura la rosa divenne rossa, mentre per lo innanzi era stata sempre bianca. Il mirto pure era grato a Venere, perchè nasce per lo più lungo le sponde del mare, dond’era nata la Dea ; ovvero perchè Venere, trovandosi sulle spiaggie del mare per asciugarsi i capelli, e veggendo da lungi una ciurma di Satiri, corse a nascondersi tra alcuni mirti (c) ; o finalmente perchè la Dea avea cangiata in mirto Mirena, giovine Greca, ed una delle sue sacerdotesse(16).

Le perle altresì erano particolare ornamento di Venere, come quella, che si voleva nata nel mare in una conchiglia piena di margarite (d). Plinio (e), {p. 353}e Macrobio (a) ci narrano, che la bellissima perla, simile a quella, che avea disfatto Cleopatra nell’aceto, fu divisa in due parti per farne gli orocchini ad una statua di Venere. Lampridio lasciò scritto, che l’Imperatore Alessandro Severo fece porre ad una statua della stessa Dea due grosse pietre, le quali erano state donate all’Imperatrice, sua moglie.

Venere rappresentasi in un cocchio, tirato da Colombe (b), o da Cigni (c), o da Passere (d). E’accompagnata da Cupido, ed ha per suo speziale ornamento una misteriosa cintura, detta da’Greci zona, e da’Latini ceste (e). Sul Libano poi, ov’era molto onorata, e avea il soprannome di Architide (f), compariva afflitta, col capo coperto, e appoggiato sulla sinistra in atto di piangere in morte di Adone.

{p. 365}

Nettuno. §

Nettuno fu considerato figliuolo di Saturno e di Cibele. Il di lui padre, dopo d’averlo mangiato, lo restituì poi, come abbiamo detto, alla luce, mediante una bevanda, che gli fu data da Meti. Secondo un’altra tradizione più seguita, e citata da Pausania(a), la di lui madre, tostochè lo partorl, lo nascose tra’pastori dell’Arcadia, e fece credere a Saturno, che le fosse nato un pulodro, il quale da lui venne tosto divorato. Arno fu la nutrice di Netteno(b)(1). Questo Nume nella divisione dell’Impero del mondo ebbe la signoria del mare, delle isole, e di tutti i luoghi circonvicini(c). Egli però, trovandosene mal contento, e invidiando a Giove, ch’ei regnasse nel Cielo, cospirò insiome co’Titani contro di lui, ma finalmente ne venne relegato sulla terra(d). Altri vogliono, che abbia incontrato tale castigo, perchè erasi unito a Giunone per mettere in ceppi Giove(e). Incontratosi in Apollo, che pur era stato esiliato dal Cielo, nè sapendo come vivere, si unì a lui per ajutare Laomedonte, re di Troja, il quale stava fabbricando le mura dì quella città. Egli, attesa la promessa, che gli fece quel re, di grossa somma di danaro, s’accinse a rendere quelle mura {p. 366}conforti argini sicure dalle inondazioni. Laomedonte ricusò alla fine di pagarlo. Non tollerò Nettuno l’oltraggio, e fece sortire da’lidi le acque, che portarono estrema rovina alla nascente città. Nè pago di tale vendetta, intimò per mezzo ed’un oracolo, che la figlia di quello stesso re servisse di pasto ad un mostro marino(a)(2).

Nettuno fu chiamato Asfalio o Asfalico, Ippio, Enesletone, Onchestio ; Genetlio, Posidone, Prosclistio ; e Istmico. La voce, Asfalio o Asfalico, significa stabile e fu data a Nettuno, perchè secondo Servio egli avea il potere di rendore tale la terra(b). Strabone racconta ; che il mare da quattro giorni videsi coperto di fiamme, che estremamente lo agitavano, quando finalmente dal mezzo di quelle comparve quantità di rupi ardenti, le quali, unitesi insieme, presero la forma d’Isola. I Rodiani, accellenti navigatori, accorsero al rumore, che andava facendo quell’Isola nello stabilirsi, ed essendovisi sbarcati, v’alzarono un tempio a Nettuno Asfalio o Asfalico, ossia Stabilitore(c). Con tale titolo ebbe altri tempj nella Grecia(d), e uno al Capo di Tenaro, nella Laconia, sull’ingresso della grotta, per cui i Greci pretendevano, che si discendesse nell’Inferno(e).

Nettuno non solamente fu detto Ippio, ossia Equestre, dalla corsa de’cavalli, che si faceva al tempo de’Giuochi Circensi, ma anche perchè {p. 367}trovò l’arte di cavalcare(a), ovvero perchè egli fece dono del cavallo agli uomini(b). Dagli Arcadi gli furono institnite le Feste Ippocrazie, nel tempo delle quali i cavalli non venivano assoggettati ad alcuna fatica, e si conducevano per le strade e campagne, adorni di bellissimi arnesi, e inghirlandati di fiori. Le stesse Feste si celebravano anche da’Romani col nome di Giuochi Consuali. Appresso Mantinsa, città del Peloponneso nell’Arcadia, eravi un antichissimo tempio di Nettuno Ippio, fabbricato da Agamede e Trofonio : L’Imperatore Adriano intorno a quello ne fece costruite un altro. Niuno poteva entrare nell’antico ; ed Epito, re d’Arcadia, che volle violare questa legge, divenne cieco(c).

Si chiamò Enosictone, per indicare il potere, ch’egli aveva, di scuotere la terra, e di suscitarvi i terremoti(d).

Fu denominato Onchestio, perchè aveva un tempio, un bosco, e una festa in Onchesto, città della Beozia(e).

Era soprannominato Genetlio, perchè presiedeva alla nascita. Ebbe a Sparta un tempio. Un altro ve ne fu pure nell’Argolide, eretto a Nettuno Genesio, denominazione simile alla precodente(f).

Posidone vuol dire spezza vascelli, e fu così detto Nettuno, perchè le procelle, da lui suscitate, soventi volte cigionano tal’effetto. Si celebravano a di lui onore le Feste Posidie o Posidonie. {p. 368} Questo Nume aveva nell’Isola di Tenedo, una delle Cicladi, un gran tempio, considerabile per le vaste sale, ove banchettavasi, quando si celebravano le mentovate Feste(a).

Nettuno per vendicarsi d’Inaco e degli iltritra gli Argivi, i quali avevano giudicato, che il paese d’Argo appartenesse a Giunone, mentre lo pretendeva egli, inondò la maggior parte del loro paese. Il Nume finalmente alle preghiere di Giunone ne sospese il castigo, e quegli abitanti fabbricarono un tempio a lui sotto il nome di. Prosclistio, ossia inondante, nel luogo, ove le acque si crano titirate(b).

Nettuno, non potendo indurre Anfitrite, figlia di Nereo e di Dori(3), a divenire sua moglie, spedì un Delfino, affinchè ne la persuadesse, e vi riuscì(c)(4).

Nettuno amò anche Pirene, figlia d’Ebalo, o del fiume Acheloo, come più comunemente si crede, e la rendette madre di Leche e di Cencreo(5).

Molti figliuoli nacquero a Nettuno. I più rinomati sono Nereo(6), Proteo(7), Glauco(8), Anceo(9), i Ciclopi, Cencreo(10), Tafio(11), Beto o Boeto, ed Eolo(12), Nitteo(13), e Tritone(14).

Que’di Corinto dicevano, che Nettuno e il Sole pretendevano d’avere il dominio del loro paese. Briareo, uno de’Ciclopi, scelto per giudice, decise, che il Promontorio di Corinto dovesse appartenere al Sole, e a Nettuno l’Istmo(d). Tesco {p. 369}quindi instituì certi Giuochi, li denominò Istmici, e li consecrò a Nettuno, appellato Istmico, sì perchè egli vantavasi d’esserne figlio, sì perchè il Nume su quell’Istmo avea un magnifico tempio, appresso il quale tali Giuochi si celebravano(15). I medesimi erano riputati sì sacri, che non si tralasciò di celebrarli neppure dopochè la città di Corinto venne distrutta da Mummio, Duce de’Romani, ma s’incaricarono i Sicionj a continuarli(a). Il concorso a tali Giuochi era sì grande, che i soli principali personaggi delle Greche città potevano avervi luogo. Gli Eleesi non vi si trovavano presenti, perchè temevano le imprecazioni, che Molione, moglie d’Attore, aveva pronunziato contro coloro della stessa Nazione, i quali fossero intervenuti a que’Giuochi(b). Vi furono in seguito ammessi anche i Romani, i quali li celebrarono con molta magnificenza. Eglino oltre i soliti esercizj della Corsa, del Pugilato, della Musica, e della Poesia, v’introdussero lo spettacolo della caccia, in cui comparivano i più rari animali. Questi giuochi servivano d’epoca a’Corintj e agli abitanti dell’Istmo(c). I vincitori da principio si coronavano con fron li di pino, indi con foglie d’appio secco(d). I loro nomi venivano altresì scolpiti sopra alcune colonne, erette nella pubblica piazza. Fu loro aggiunta finalmente anche una somma di danaro, che da Solone si fissò a cento dramme. I Romani v’assegnarone de’doni ancor più ricchi. Tre volte si cantava in {p. 370}lode del vincitore un Inno, detto Callinico : una volta cioè nel luogo, ov’era coronato ; l’altra nel ginnasio, dov’erasi esercitato prima d’esporsi al pubblico certame ; e la terza in patria da’suoi concittadini. L’onore, che si riportava a motivo di questo Inno, era maggiore d’ogni altro(a).

Oltre le anzidette Feste Nettuno ebbe anche le Panionie, così dette, perchè tutte le città della Jonia concorrevano a celebrarle(b). Anche il luogo, e il tempo, in cui si solennizzavano, dicevansi Panionio. Se muggiva il toro, che in queste Feste si sacrificava, ciò si aveva per buon augurio, perchè credevasi, che quella voce piacesse al Nume, soprannominato Eliconio da Elice, città dell’Acaja(c). Furono parimenti celebri le Feste, chiamate degli Egineti, perchè in Egina si celebravano a questa Divinità per sedici continui giorni. I soli cittadini liberi v’intervenivano, e n’erano esclusi i servi, i quali si dicevano monofagi, ossia che mangiavano soli. Si chiudeva la solennità con un sacrifizio a Venere(d).

La vittima. che soleasi immolare a Nettuno, era il toro(e). Gli Aruspici poi aveano il costume d’offerirgli il fiele degli animali, perchè l’amarezza di quello avea relazione con quella del mare(f). Non s’intraprendeva alcun viaggio marittimo, se prima non si faceva qualche sacrifizio al Nume(16). {p. 371}I Romani gli avevano consecrato tutto il mese di Febbrajo, affinchè egli fosse propizio nella Primivera a’naviganti(a). I Greci pescatori poi qualora aveano raccolto copiosa preda, offerivano in sacrifizio a Nettuno i pesci, detti Tinni e quindi tali sacrifizj si chiamavano Tinnei(b).

Platone nel suo Crizia ci riferisce, che Nettuno aveva nell’Isola Atlantica un magnifico tempio, ove l’oro, l’argento, e gli altri più preziosi metalli d’ogni parte vi risplendevano. Alcune figure ivi rappresentavano il Dio sopra un carro, strascinato da cavalli alati. Quell’Isola, continua lo stesso Scrittore, fu popolata da dieci figliuoli, che partorì a Nettuno una figlia di Clitone e di Leucippe. Questo Nume sul pendìo del Campidoglio aveva un tempio, e nel Circo Flaminio un’ara, la quale al dire di Tito Livio grondava di sudore. E’pur famoso il tempio, che aveva in Tenaro, Promontorio della Laconia, e ch’eragli stato eretto da Tenaro, fratello di Geresto, e figlio di Giove, che diede il suo nome al predetto Promontorio(c). A Nettuno era eziandio dedicata la piccola isola, situata in faccia al porto di Trezene, e detta Calavria da Calavro, figlio di Nettuno : così narra Filostefano, citato dallo Scoliaste d’Apollonio. Restò ancora ne’posteriori tempi in venerazione il tempio, là dedicato a quel Dio ; e tanto lo restò, che da Strabone e Pausania si sa aver servito d’asilo, ed esservisi ritirato anche Demostene, di cui vi si mostrava il sepolcro. Era altresì {p. 372} celebre il tempio, che Nettuno aveva in Geresto, città dell’Eubea, donde gli derivò il soprannome di Gerestio ; e Gerestie si diceano le Feste, che in suo onore vi si celebravano(a).

A Nettuno era sacro il pino, sì perchè questo albero trovasi lungo le rive dol mace, sì perchè esso serve alla construzione de’navigli(b).

Nettuno rappresentasi con lunga barba, e striage per iscettro il tridente, ch’è una forca a tre denti, regalatagli da’Ciclopi al tempo della guerra contro i Titani(c). Il suo carro è una vasta conchiglia, tirata sulla superfizie del mare da animali anfibj, cioè mezzo cavallo e mezzo pesci, chiamati anche Ippocampi, vale a dire cavalli, che aveano due piedi soli, e la coda di pesce(d). Comparisce Nettuno anche in atto di sedere sopra un mare tranquillo con due pesci, detti Delfini, che nuotano sulla superfizie delle acque(e). E’pure circondato dalle Nercidi e da’Tritoni. Lo precede Nerco, il quale, suonando una spezie di tromba, formata d’una conca marina, annunzia la presenza del Dio delle acque. Altri finalmente ci danno a divedere questo Nume tirato dal cavallo Arione. Dicesi che questo animale insieme con Era sia nato da Corere e da Nettuno, che si trasformò in cavallo, perchè anche la Dea erasi cangiata in giumenta(f). V’è chi soggiunge, che Nettuno con un colpo di tridente abbia prodotto {p. 373}Arione, quando egli e Minerva gareggiarono nel fare agli uomini un utile dono(a). Arione aveva i piedi dalla parte dritta simili a quelli dell’uomo. Era inoltre fornito dell’uso della favella, ed era stato allevato dalle Nereidi(b).

{p. 387}

Minerva. §

MInerva secondo Erodoto nacque dalla palude Tritonia e da Nettuno, e fu poi adottata da Giove(a). Altri la chiamarono figlia di Pallante(b). La maggior parte de’ Mitologi dicono, ch’ella fu concepita da Meti ; che questa, tostochè ne comparve gravida, fu da Giove ingojata ; che lo stesso Nume, poco tempo dopo sorpreso da gagliardissimo dolor di capo, ricorse a Vulcano, il quale con un colpo d’accetta glielo spaccò ; e che ne uscì Minerva tutta armata(c). Per questo la medesima Dea si denominò anche Pallade dal verbo greco pallin, saettare ; e sotto l’uno e l’altro titolo fu indifferentemente risguardata come la inventrice delle scienze e della guerra. Altri pretendono, ch’ella abbia acquistato l’anzidetto nome, perchè offesa da Pallante, suo padre, lo scorticò, e della di lui pelle si fece uno scudo, detto egide. Evvi finalmente chi asserisce, che sia stata appellata Pallade, da che uccise Pallante, uno de’ Giganti, i quali aveano mosso guerra a Giove(d). Le nutrici di questa Dea furono Alalcomenia, Aulide, e Telsinia, figlie d’Ogige(e)(1).

{p. 388}Moltissimi altri nomi furono dati a Minerva, e tra questi i più noti sono Alea, Boarmia, Partenia, Ergane, Scirade, Area, Calinitide, Ippia, Lafira, Poliade, Tritonia, Ellotide, Atene, Itonia, Alalcomenia, Calcieco, Madre o Matrona, Piletide, e Steniade.

Si disse Alea, perchè Aleo, re d’Arcadia, le fabbricò un tempio, il quale divenne un asilo pe’ rei, e in cui si conservò poi la pelle e i denti del Cinghiale di Calidone(a)(2).

Ebbe il nome di Boarmia da’ Beozj, perchò queglino credevano, ch’ella fosse stata la prima a sottoporre i buoi all’aratro(b).

Venne appellata Partenia, ossia Vergine, perchè quantunque fosse divenuta madre di varj figliuoli, tuttavia, bagnandosi ogni anno nella fonte Castalia, avea riacquistata la sua natìa verginità. Dal predetto nome il tempio, distrutto da’ Persiani, e rifabbricato per ordine di Pericle dal celebre Architetto Ittino insieme con Callicrate(3) in Atene, fu denominato Partenon. Questo era tutto circondato da un portico, sostenuto da molte colonne, e si poteva dire uno de’ più magnifici tra tutti i sacri edifizj dell’antichità Pagana. Fidia lo adornò d’una statua d’oro e d’avorio, la quale era alta trenta nove piedi. Il medesimo tempio chiamavasi anche Ecatompedon, ossia il tempio di cento piedi, perchè tanti ne avea di lunghezza(c). Custodi dello esso erano de’serpenti, che ogni primo dì del {p. 389}mese ricevevano dagli Agremoni sacerdoti il sacrifizio di una schiacciati, fatta col mele(a).

Fu chiamata Ergane, ossia la Dea delle arti, perchè le si attribuiva l’invenzione della maggior parte di esse(b). Sul qual proposito è famosa l’istoria di Aracne, figlia d’Idmone. Costei in Colofone, città della Lidia, così eccellentemente riusciva ne’ lavori di tapezzerie, che moltissimi stranieri si recavano da lontani paesi ad ammirare la bellezza di quelli. Gli elogi, che Aracne ne riceveva, le inspirarono tale presunzione, che osò di preferirsi in quell’arte alla stessa Minerva. La Dea, che sulle prime la bramava corretta e non punita, a lei si presentò in sembianza di vecchia, la esortò ad essere meno vana, e a chiedere perdono a Minerva d’averla provocata, sicura di conseguirlo. Aracne trattò da insensata la donna, e protestò che non sarebbe mai per mutarsi di parere. Minerva allora si, diede a conoscere per quella ch’era. Aracne con tutto ciò stette baldanzosa e intrepida nella sua opinione Postesi portanto a gareggiare tra loro, Minerva non seppe trovare eccezione sul merito del lavoro e dell’arte, usata dalla sua competitrice : bensì la disgustarono i simboli, espressi da Aracne nel suo arazzo ; nè potendo più frenare la collera, si avventò contro Aracne, e la percosse colla spola nel capo. Non meno la rabbia, che il rossore ridussero la infelico a disperato partito di sospendersi con un laccio, e morire. Minerva però volle, che colei per suo castigo vivesse sempre così cospesa, come si {p. 390}trovava ; e in tale stato la convertì in ragno, il quale anche oggidì va tessendo una finissima tela per eternare la memoria del suo antico esercizio,(a)(4).

Fu denominata Scirade o da un tempio, che le era stato eretto in Sciro, borgo tra Atene ed Eleusi ; o da un certo vate, appellato Sciro(5) ; o dalla voce greca sciros, calcina, o gesso, perchè di tal materia era composta la statua di lei, fatta da Teseo, ritornato da Creta ; o finalmente dall’altra voce sciron, ombrella, perchè sotto di questa portavasi la di lei statua dal sacerdote Eretteo, o da uno degli Eteobutadi, famiglia sacerdotale in Atene, e consecrata a Minerva. Gli Ateniesi iu onore di questa Dea celebravano le Feste Scire, o Sciroforie(b).

Si disse Area, ossia forte e valorosa. I Plateesi delle spoglie, riportate nella battaglia di Maratona, le innalzarono sotto questo titolo un tempio(c).

Le si diede il nome di Calinitide da chalinòs, freno, perchè aveva in Corinto un tempio, ov’era adorata in memoria del freno, ch’ella mise al cavallo Pegaso, quando Bellerofonte volle servirsene per combattere la Chimera. La statua della Dea in questo tempio era di legno, il volto poi e le mani di bianca pietra(d).

Si chiamò Ippia, ossia Equestre, perchè gli Arcadi {p. 391}Arcadi la riconoscevano inventrice delle quadrighe, ossia de’carri a due ruote, e tirati da quattro cavalli(a) ; ovvero perchè fu la prima, che insegnò ad attaccare i cavalli al carro(b).

Fu appellate Lafira dalla voce greca lafira, spoglie de’nemici, perchè di queste s’impadronivano quegli eserciti, cui ella favoriva(c).

Insorta contesa tra Nettuno e Minerva riguardo al Territorio di Trezene, Giove propose, che tutte le due Divinità vi fossero onorate, Minerva sotto il nome di Poliade, ossia protectrice della città, e Nettuno sotto quello di re di Trezene(d). Ciò si conferma dalle due medaglie, indicate dal Goltzio, sopra una delle quali v’è il tridente, simbolo di Nettuno, e sull’altra la testa di Minerva col motto Poliade. Il tempio, che Minerva Poliade aveva in Trezene, era della più remota antichità, e fabbricato sopra una rupe. Vi si vedeva al tempo di Strabone(e) una lampada inestinguibile, e un edifizio, opera d’Ittino, ove soggiornavano le vergini, consecrate al culto della Dea. La statua di Minerva era d’avorio, e passava per uno de’più celebri lavori di Fidia. Minerva Poliade ebbe pure un tempio sopra una delle colline di Sparta presso la Cittadella. Ebbe altresì un tempio in Tegoa nell’Arcadia. In quello si conservavano dei capelli di Medusa, i quali Minerva aveva donato a {p. 392}Cefeo, figlio d’Aleo, per assicurarlo, che Tegea non sarebbe mai stata presa da nemiche armi. Il Sacerdote di questo tempio v’entrava una sola volta all’anno(a). Questa Dea ebbe parimenti un tempio in Eritre, nell’Acaja, ove la di lei statua era di straordinaria grandezza. La Minerva Poliade, che si venerava nel Partenon d’Acropoli in Atene, avea a’piedi un grandissimo Dragone, come attesta Pausania, e lo dimostrano le due Medaglie, indicate presso l’Haimo e’l Goltzio. Era attribuito quell’animale a questa Divinità, perchè è simbolo di sapienza, attesa la sua perspicacia e accortezza.

E’stata chiamata Tritonia, o perchè la educò Tritone ; o perchè ella nacque appresso il fiume di questo nome, il quale trovasi nella Beozia(b) ; o finalmente perchè venne alla luce il terzo giorno del mese, come vuole Callistene, citato da Tzétze(c). Sotto il nome di Tritonia aveva un tempio in Arcadia presso i Feneati, e un altro nella Beozia presso d’Alalcomene(d).

I Dorj s’impadronirono della città di Corinto. Due sorelle, chiamate Ellotide ed Eurizione, si ritirarono nel tempio di Minerva per sottrarsi agl’insulti del vincitore. I Dorj ne furono avvertiti, e appiccarono fuoco a quel tempio. Le due giovani vi rimasero incenerite. Insorse ben presto una pestilenza, che desolava Corinto ; nè essa secondo la {p. 393}dichiarazione dell’Oracolo dovea cessare ; se non qualora si fosse placata l’ombra di Ellotide e di sua sorella. Così si eseguì coll’innalsare un nuovo tempio a Minerva sotto il nome di Ellotide. S’instituì allora anche una Festa, detta Ellozia, in cui i giovinetti correvano con fiaccole accese in mano(a).

Tra Minerva e Nettuno nacque contesa intorno il nome da imporsi alla nuova città, fabbricata da Gecrope nella Grecia. Gli Dei, scelti per giudici di tale questione, stabilirono, che quella delle due anzidette Deità, la quale avesse prodotto la cosa più utile alla mentovata città, la avrebbe anche dato il nome. Nettuno, squarciata col tridente la terra, ne fece uscire un cavallo, simbolo di guerra ; Minerva alli opposto fece pullulare un germoglio d’ulivo, simbolo di pace. I Numi decisero, che questa fosse migliore della guerra ; e però la Dea diede alla città il suo nome, appellandola Atene, voce greca, che significa Minerva(b). Per la stessa ragione vennero instituite in di lei onore le Feste, dette Niceterie(c).

Si denominò Itonia, perchè Itonio, figlio d’Anfittione, le dedicò appresso Coronea un tempio, in cui si celebravano le Feste, chiamate Pambiozie, perchè vi concorrevano tutti i Beozj(d).

Venne chiamata Alalcomenia, perchè si credette nata in Alalcomene, città della Beozia, e perchè ivi era tenuta in somma venerazione(e) ; {p. 394}ovveroperchè Alalcomeneo, fondatore della predetta città, le inalzò nella medesima un tempio(a) ; o finalmente perchè Minerva ebbe per nutrice, come abbiamo riferito, Alalcomenia(b).

Fu denominata Calcieco dalla voce greca chalcòs, rame, perchè di tal metallo era formata la statua e il tempio, che questa Dea avea in Isparta. I giovani di questa città oclebravano le Feste, chiamate Calciecie, nelle quali intervenivano tutti armati per sacrificare a Minerva(c).

E’stata detta Madre o Matrona dal tempio, che le cressero le conne d’Istide, perchè furono esaudite ; quando la pregarono di renderle in una sola notte madri di varj figli per accrescere il poco numero d’uomini, che si trovavano appresso di loro(d).

Si chiamò Piletide dal nome greco pili, porta, perchè la sua statua si poneva alle porte de’tempj e delle città(e).

Venne chiamata Steniade, ossia robusta, per indicare l’aria forte e maschile, che le si attribuiva(f).

Le altre Feste, instituite in onore di questa Dea, furono le Quinquatrie, l’Arreforia, e le Panatenec. Le prime si celebravano per onorare il di lei giorno natalizio(g). Si dissero Quinquatrie, o perchè {p. 395}venivano solennizzate dopo il quinto giorno degl’Idi di Marzo(a) ; o perchè esse duravano cinque giorni, nel primo de’quali si offerivano dei sacrifizj, e negli altri eranvi nel teatro varj combattimenti di Gladiatori(b). Sonovi alcuni, i quali riferiscono che le Matrone allora si mandavano reciprocamente dei regali, e trattavano a convito le loro serve, come facevano gli uomini al tempo delle Saturnali(c). Narrasi inoltre, che gli Scolari durante la celebrazione di tali Feste spedivano a’ loro Maestri certi doni, detti Minervali(d).

L’Arreforia, composta dalle voci Greche arritoncosa misteriosa, e fero, portare, fu così detta, perchè quattro vetgini, di nascita illustre, coperte di vesti bianche, e ornate d’oro, portavano le Mistiche Ceste(e).

Le Panatence, ossia Feste di tutta Atene, perchè tutti gli Ateniesi doveano intervenirvi, si dividevano in minori e maggiori. Le prime si celebravano, ogni anno, o come altri dicono, di tre in tre anni ; le maggiori poi ogni cinque anni. Da principio erano semplicissime, nè duravano che un giorno. In seguito vi s’introdussero tanti giuochi e ceremonie che convenne impiegarvi maggior tempo. Nelle minori si facevano tre sorta di giuochi. Il primo era la corsa a piedi e a cavallo con torcia accese ; il secondo la lotta ; il terzo una spezie di gara tra’ Poeti e Musici. Il premio di questi Giuochi era un vaso pieno d’oglio e una corona d’ulivo. Tali {p. 396}Giuochi erano accompagnati altresì da balli, e sì conpivano con solenne sacrifizio e pubblico convito, per cui ogni borgo dell’ Attica era tenuto a contribuire un bue. Nelle Panatence maggiori il primo dì si considerava come quello della nascita di Minerva, e vi si facevano certe offerte e sacrifizj alla Dea ; i tre giorni seguenti si solennizzavano con ogni genere di giuochi ; il quinto era il più festivo, e si faceva in quello per la città una magnifica cavalcata, alla testa della quale si portava a guisa di vessillo il Peplo di Minerva(6). Era quello una veste bianca, a ricamo, d’oro, senza maniche, sopra la quale erano espresse le azioni più memorabili di questa e delle altre Divinità(a)(7). Nel predetto ultimo dì i vecchi, belli e robusti, portavano in mano un ramo d’ulivo, come albero sacro alla Dea ; e però erano detti Tallofori(b). V’erano altresì certe donne, chiamate Idriafore, perchè elleno portavano delle urne piene d’acqua per rinfrescare gli Ateniesi, che celebravano queste Feste. Erano esse seguite da scelte nobilissime vergini, appellate Canefore, perchè soleano portare in cestelli alcune cose inservienti a quelle sacre ceremonie. Anche queste finalmente venivano accompagnate da altre vergini, dette Difrefore ; perchè portavano piecole sedie e ombrelle. Le Feste, di cui parliamo, prima di Teseo, si chiamavano Atence, perchè si celebravano da’soli Ateniesi ; Teseo poi le rendette comuni a tutti gli abitanti dell’Attica, e allora acquistarono il nome di Panatence(c). Il primo institutore delle {p. 397}medesime fu Erittonio, generato senza materna fecondità da Vulcano(8), e che fu quarto re d’Atene(a). Egli, tostochè nacque, fu da Minerva rinchiuso in un cestello, e dato in custodia ad Erse, Pandroso, e Aglauro o Agraulo, nate da Cecrope, re d’Atene, e da una figlia di Atteo, antico abitatore dell’Attica, e le quali servivano a Minerva in qualità di sacerdotesse(9). La Dea avea loro intimato di non aprire giammai l’anzidetto cestello, perchè voleva allevare quel bambino secretamente nel suo tempio. Pandroso ed Erse osservarono fedelmente il comando, ma l’altra sorella nol fece. Ciò accese talmente Minerva di sdegno, che per punire Aglauro della sua disobbedienza, la rendette sì furibonda, ch’ella si precipitò nel mare(b). Altri dicono, che Minerva le inspirò gelosia di Erse, la quale però ne veniva impedita di vedere Mercurio, da cui era sommamente amata ; e che il Nume quindi cangiò Aglauro in pietra(c) (10). Altri finalmente pretendono, che Pandroso sola abbia osservato il comando di non aprire il cestello ; e che perciò gli Ateniesi le abbiano eretto un tempio presso quello di Minerva, e instituita una festa, detta Pandroso(d).

Que’di Epidauro concorrevano ad onorare in Atene Minerva. Ecco come ciò avvenne : Ausesia, e Lamia o Damia, ve ni dell’Isola di Creta, nell’andarsene a Trezene, vi rimasero lapidate del popolo, il quale allora trovavasi in tumulto. Gli {p. 398}abitanti d’Epidauro, afflitti poscia dalla carestia, consultarono l’Oracolo. Questo rispose, che le loro terre rimarrebbono sempre sterili, qnando non avessero alzate due statue, l’una ad Ausesia, e l’altra a Lamia. Coloro interrogarono di nuovo l’Oracolo per sapere di qual materia le due comandate statue doveano formarsi. Intesero ch’esse doveano essere d’ulivo. Questo in Epidauro maficava ; e però fu necessario ricercarlo da Atene ; che ne abbondava. Gli Ateniesi aderirono all’inchiesta, a patto, che la città d’Epidauro ogni anno in segno d’omaggio dovesse inviare certe offerte a Minerva Gli Epidaurj accettarono la condizione, e da che eseguirono gli ordini dell’Oracolo, viddero riprodursi la fertilità nel loro paese. Fu per questo, ch’eglino sacrificavano ogni anno alla Dea, e celebravano una Festa, detta Litobolia, ossia Lapidazione, in onore delle due mentovate giovani(a).

Nè solamente era venerata Minerva in Atene ; la moltitudine de’tempj che le si eressere in varie altre parti della torra, prova la grande estensione del di lei culto. Ella n’ebbe in Egitto, nella Fenicia, nella Frigia, nella Sicilia, e in quasi tutte le altre città della Grecia. I primi però ad ergerle altari, e ad offerirle sacrifizj furono i Rodiani. Per questo Giove cuoprì la loro isola d’una nuvola d’oro, e’ cui fece piovere immense ricchezze(b). Minerva però sdegnata, perchè coloro si erano dimenticati il fuoco in uno de’suoi {p. 399}sacrifizj, li trascurò, e prese a proteggere Atene(a). Anche in Roma conseguì grandi onori e moltissimi tempj(b).

Questa Dea amò Eretteo, figlio di Pandione I, e sesto re d’Atene. La terra, dice Omero, lo diede alla luce, e Minerva ebbe cura di allattarlo ella medesima ; e lo ripose nel suo tempio d’Atene(c)(11).

Una figlia di Coroneo, Principe della Focide, era richiesta da più personaggi in moglie. Lo stesso Nettuno se n’era invaghito, e in varj modi avea più volte procurato di conciliarsi il di lei affetto. Ella mercè l’ajuto di Minerva non gli prestò veruna corrispondenza, finchè la stessa Dea trasformolla in cornacchia, e la tenne presso di se, come ministra e compagna. Minerva poi la allontanò dal suo lato, perchè ella corse a riferisle, che Aglauro avea aperto il cestello ; e in vece di lei prese ad lamare la Civetta, nella quale era stata cangiata Nittimene, figlia di Nitteo, re di Lesbo(d). Questo uccello ordinatiamente si confonde col Gufo, che pure è sacro a Minerva, perchè esso, veggendo tralle tenebre, diviene simbolo della sapienza.

Minerva si rappresenta in divise di guerriera, collo scudo imbracciato, con una Civetta sopra di quello, coll’Egide al petto, e coll’asta alla mano. Omero ce la dà a divedere anche colle ali alle calcagna(e).

{p. 406}

Marte. §

MArte secondo Esiodo (a) e quasi tutti i Poeti Greci era figlio di Giove e di Giunone. Ovidio poi, seguito da altri Poeti Latini, così lo fa nascere dalla sola Giunone : turbata questa Dea, perchè Giove avea fatto uscire Minerva dal suo cervello, s’avviò verso l’Oceano per conoscere in qual maniera avrebbe potuto anch’ella partorire da se sola un figlio. Stanca dal lungo viaggio, si pose a sedere appresso la porta della Dea Flora, e a questa manifestò il motivo della sua discesa sulla terra. Flora le indicò, che ne’ campi d’Olena, città dell’ Acaja, eravi un fiore, toccando il quale, ella avrebbe tosto ottenuto ciò, che bramava. Giunone ne fece l’esperienza, e diede alla luce Marte (b). Questi fu allevato da Priapo, che lo addestrò nella danza e in altri esercizj del corpo, per cui divenne siffatamente atto alla guerra, che ne fu poscia tenuto come la principale Divinità. Per questo in Bitinia si offeriva a Priapo la decima delle spoglie, che si consecravano a Marte (c).

Questo Nume ebbe anche il nome di Quirite, Bisultore, Turio, Salisubsolo, Arete, Gradivo, Afneo, e Ginecotene. Fu detto Quirite a cagione della lancia, detta da’ Sabini cures, colla quale veniva sempre rappresentato(d)(1).

{p. 407}Augusto, avendo vinto Bruto e Cassio, dedicò un tempio a Marte, denominando questo Dio Bisultore, ossia due volte vendicatore, perchè avea vendicato la morte prima di Cesare, e poi de’ due Crassi, cioè di M. il padre, e di P. il figlio (a).

Si denominò Turio dal greco verbo theo, essere in furore : lo che esprime l’impetuosità di lui ne’ combattimenti(b).

E’ stato chiamato Salisubsolo a cagione delle danze, che facevano i di lui Sacerdoti, detti Salj, de’ quali quanto prima favelleremo(c).

Il nome Arete vuol dire danno, e fu attribuito a questo Nume per alludere a’ mali, che porta seco la guerra (d).

Si disse Gradivo dal verbo latino gradior, camminare, per darlo a divedere in atto di marciare. Roma sotto questo titolo gli eresse un tempio nella via Appia(e).

Aerope, figlia di Cefeo, nel partorire un figlio morì di dolore. Benchè morta, non lasciò di pascere in gran copia il bambino col proprio latte. Ciò si ebbe per un prodigio, operato da Marte. Que’ d’ Arcadia inalzarono sul monte Cresio un tempio al Nume ; e i Greci lo chiamarono Afneo dalla voce afenos, abbondanza(f).

Venne appellato Ginecotene da que’ di Tegea, quando le donne di quella città gli offerirono un sacrifizio, cui non vollero che assistesse alcun uomo (g).

{p. 408}Le Feste, sacre a questa Deità, furono l’Equirie, le Ancilie, le Matronali, e le Armilustri. Le prime, instituite da Romolo, furono dette Equirie da equus, cavallo, perchè consistevano in corse di cavalli. Le medesime Feste si trasportavano sul monte Celio, quando il Campo Marzio era inondato dal Tevere (a). Esse furono anche denominate Giuochi Marziali (b).

Le Ancilie trassero il loro nome da certi piccoli scudi, incavati a forma di conca da due parti, i quali si chiamavano ancili. In Roma cadde dal Cielo uno scudo di rame. Numa Pompilio, il quale allora vi regnava, venne in cognizione, che l’impero del mondo era destinato a quella città, in cui si sarebbe conservato quello scudo. Lo stesso re lo frammischiò con altri undici, del tutto simili a quello, affinchè la difficoltà di riconoscerlo facesse sì, che non venisse rubato. Mamurio Veturio, eccellente artefice, li lavorò. Tutti dodici si riposero nel tempio di Marte, e se ne affidò la custodia ad altrettanti Sacerdoti. Questi si chiamavano Salj, perchè, avendo i predetti scudi nella destra, saltavano per la città, e battevano nello stesso tempo sullo scudo con una nuda spada, che tenevano nella sinistra. Cantavano anche certi Inni, ne’ quali celebravano pure il nome del predetto Mamutio, com’egli avea ricercato in premio del suo lavoro (c). Altri sono di parere, che gli anzidetti Sacerdoti sieno stati detti Salj da un certo Salio, il quale, {p. 409}venuto dalla Samottacia o da Mantinea in Italia, v’avea insegnato la danza (a).

Varie cause si assegnano all’instituzione delle Feste Matronali. La prima, perchè le Sabine, rapite da’ Romani, misero fine alla guerra, insorta tralle due Nazioni. La seconda, affinchè Marte procurasse a’ Romani la felicità medesima, che aveano goduto Remo e Romolo, suoi figliuoli. La terza, acciocchè la fecondità, che ha la terra nel mese di Marzo, si concedesse anche alle Matrone Romane. La quarta, perchè nel primo giorno dell’anzidetto Mese si avea dedicato un tempio a Giunone Lucina sul monte Esquilino. La quinta, perchè Marte era figlio della predetta Dea, la quale, come abbiamo esposto, presiedeva alle nozze e a’ parti. Al tempo di queste Feste le donne ricevevano dei regali da’ loro mariti, come a questi si davano i medesimi da quelle al tempo delle Feste Saturnali. Le donne inoltre trattavano allora a convito i servi per eccitarli a prestare più pronto il loro servigio (b).

Le Armilustri erano Feste, nelle quali i Romani, coronati d’alloro, e a cielo scoperto sacrificavano nel Campo Marzio un capro, una pecora, e un bue a Marte per espiare(2) le armi e le Insegne militari (c). In tale occasione i soldati in presenza del popolo facevano anche la revista delle armi(3).

Gli animali, soliti a sacrificarsi a Marte, erano il lupo a cagione della sua ferocia ; il cavallo, come il più bellicoso tra tutti gli animali ; la pica e {p. 410}l’avoltojo, perchè questi uccelli sono rapaci (a).

Marte sposò Bellona, figlia di Forci e di Ceto (b)(4). Plauto dà il nome di Nerieue alla moglie di questo Dio(c). Bellona poi secondo alcuni Scrittori non fu moglie, ma sorella a Marte (d)(5) ; secondo altri era figlia dello stesso Marte (e). I Poeti dicono, ch’ella preparava il carro e i cavalli di Marte, quando questi andava alla guerra (f).

Marte prese ad amare anche Filonomia, figlia di Nittino, re d’ Arcadia, e della Ninfa Arcadia. Ella coltivava assaissimo la caccia, e passava gran parte della sua vita nelle foreste. Marte prese la figura di pastora, e la rendette madre di due gemelli. Ella per timore del padre li getto appena nati nel fiume Erimanto. Le acque li portarono appresso una quercia, dove vennero allattati da una lupa. Il pastore Telefo poi li raccolse, prese cura di loro, e denominò uno Parrasio, e l’altro Licasto. Eglino conseguirono il regno dell’ Arcadia (g).

Marte andò soggetto a varie vicende. Ei volle opporsi agli Aloidi, che tentavano di rapire le Dee, Giunone e Diana. Coloro lo fecero prigioniero, e per varj mesi lo tennero rinchiuso in una gabbia di {p. 411}bronzo. Non avrebbe più riacquistata la libertà, se la bel Eribea, matrigna degli stessi Aloidi, non avesse pregato Mercurio a toglierlo da quell’ infelice stato (a). Marte inoltre alle preghiere di Venere, ferita da Diomede, figlio di Tideo, avea preso a proteggere i Trojani. Minerva, che odiava Venere, eccitò Diomede a combattere contro di Marte. Questo Dio, appenachè lo vide, tentò di ferirlo ; ma Minerva fece sì, che Diomede invece ferì lui. Peone, il Medico degli Dei, lo risanò (b). Marte finalmente uccise Allirrozio, figlio di Nettuno e della Ninfa Eurite, perchè colui aveva offeso la di lui figliuola, Alcippe. Nettuno se ne querelò appresso l’Areopago(6) ; ma il Nume seppe sì bene difendersi che ne partì assolto (c)(7).

Pare che il culto di Marte non siasi molto esteso tra’ Greci, perciocchè Pausania, il quale fece menzione degli Dei loro, non fa parola di alcun tempio di Marte, ma solamente parla di due o tre delle di lui statue (d). Per lo contrario non fuvi luogo, in cui questo Nume siasi tanto onorato, quanto in Roma, perchè questa lo risguardava come il padre di Remo e Romolo, e il protettore del suo Imperio. Tra’ tempj, ch’ebbe appresso i Romani, quello, fabbricato nella piazza sotto il nome di Marte Vendicatore da Augusto dopo la battaglia di Filippo, era uno de’ più celebri. Nell’ ingresso {p. 412}del medesimo eravi la statua di Venere a lato di quella di Marte (a). Un altro tempio, pellaro Reggia, ebbe pure in Roma. Ivi gli s’immolava un cavallo, di cui la gioventù, divisa in due partiti, se ne disputava la testa (b).

Marte ebbe per compagno Eremartea, Divinità, che gli Antichi onoravano con certi rendimenti di grazie, quando aveano conseguito qualche eredità. Il nome di quella era composto dalle due voci eredità e Marte(c).

Il picchio era uccello, sacro a Marte, perchè esso è di natura molto coraggioso, ed ha il becco sì forte, che con esso giunge a forare il tronco degli alberi sino alla midolla (d)(8).

Marte rappresentasi sotto le sembianze di gigante, con elmo in testa, armato di asta e scudo, coperto di vesti militari, e con manto sulle spalle. Alcuni gli danno un bastone da comando in mano, e gli addattano al petto l’Egide (e). Sofocle ed altri gli pongono altresì nella destra il fulmine. Sta vicino a lui il gallo, per ricordare, che questo Nume cangiò nella figura di tale uccello il giovane Alettrione in pena di essersi addormentato, quando dovea fare la sentinella alla porta del palagio di Vulcano, finchè Marte si tratteneva con Venere (f), come quanto prima vedremo. Marte {p. 413}vedesi anche sopra un carro, titato da’due cavalli, Demo e Fobo, ossia le Spavento e il Timore(a). Plutarco vuole, che Fobo fosse figlio di questo Dio, e che a lui pure si sacrificasse per tenerlo lontano dalle armate (b).

{p. 420}

Vulcano. §

VUlcano secondo alruni era figliuolo di Giunone e di Giove(a). Cicerone riconobbe quattro Vulcani, uno de’ quali era figlio del Cielo, l’altro del Nilo, il terzo di Menalio, e il quarto di Giove e di Giunone(b). La maggior parte però de’ Teogonisti vogliono, che Vulcano sia nato dalla sola Giunone(c) ; e però gli diedero il soprannome di Apator, ossia senza padre(d). Comparve sino dal suo nascere deforme. Per lo che Giunone secondo Omero, vergognatasi d’averlo dato alla luce, lo precipitò nel mare (e). Lo stesso Poeta poi in altro luogo soggiunge, che fa Giove quegli, il quale lo precipitò dal Cielo nell’ Isola di Lenno, perchè egli volle prestare soccorso a Giunone, mentr’ ella trovavasi sospesa alla volta dell’ Olimpo(f). Per quella cadura gli si ruppe una coscia, e divenne zoppo : lo che gli acquistò il nome di Tardipede, ossia tardo di piede(g). Ne presero cura di lui bambino que’ di Lenno(h). Omero vuole, che lo abbia educato {p. 421}Teti(a). Altri soggiungono, che lo abbiano fatto le scimie(b). Inoltre fu detto Ignipotente, ossia che ba il fuoco in suo petere(c) ; Mulcibero dal latino verbo mulceo, ammollire, perchè Vulcano col fuoco, cui presiedeva(1), ammolliva il ferro, e ogni altra cosa(d). Ei lo faceva in certe fucine, le quali si trovavano in Lenno, nelle caverne del monte Etna in Sicilia, e nelle Isole di Lipari, dette perciò da’ Greci Efestiadi, e da’ Latini Vulcanie(e). Aveva per compagni ne’ suoi lavori i Ciclopi(f). Secondo un’antica tradizìone, riferita da Pausania, una delle prime opere di Vulcano fu una sedia d’oro, la quale egli spedì in Cielo a Giunone per vendicarsi del disprezzo, ch’ella gli aveva dimostrato per causa della di lui bruttezza. La Dea, che non diffidava del figlio, allettata dalla bellezza del dono, si affrettò a sedervisi, e sì fortemente ne rimase stretta da certi occulti legami, che diede motivo agli Dei di grande riso(g). Bacco finalmente ubbriacò Vulcano, lo ricondusse in Cielo, lo impegno a liberare la madre, e lo riconciliò seco lei(h). Vulcano dopotal fatto costruì nell’ Olimpo un magnifico palagio di bronzo, e vi piantò una fucina, nella quale vi lavorava solo(I).

Vulcano al dire d’ Inacio sposò Aglaia ; {p. 422}comunemente però credesi, ch’egli non abbia avuto in moglie, che Venere(a). Il Nume fu avvertito dal Sole, che colei soleva starsene in affettuosi trattenimenti don Marte(2). Vulcano formò una sottilissima rete di ferro, la distese sul terreno, ove soleano adagiarsi Venere e Marte ; e postisi l’uno e l’altro colà a sedere, Vulcano tirò sì a tempo la rete, che ambedue vi rimasero inviluppati. Egli poscia invitò gli altri Dei a godere il bizzarro spettacolo. Ognuno proruppe in altissime risa, e per qualche tempo si parlò nell’ Olimpo di questa ridicola scena. Vulcano finalmente alle preghiere di Nettuno pose Venere e Marte in libertà. Questi si recò tosto verso la Tracia, e quella verso Pafo(b).

Vulcano ebbe due figli, Broteo(3), e Ceculo(4).

In onore di Vulcano oltre le Feste Lampadeforie, della quali si parlò, si celebravano dagli Ateniesi le Calcie. Queste Feste furono così denominate dalla voce greca, calcòs, rame, perchè si solennizzavano spezialmente dagli artefici di rame, per ricordare che nella loro città si trovò l’arte di portre in opera il predetto metallo(c).

Questo Nume ebbe molti tempj, il più antico de’ quali fu quello in Mena, città d’ Egitto. Esso era molto magnifico, perchè i Re d’ Egitto erano andati a gara per abbellirlo. Innanzi al portico del medesimo v’avea la statua del Nume, alta sessanta cinque piedi. Vulcano ebbe molti tempj anche in Roma. Se ne ricorda uno, fabbricato al tempo di {p. 423}Romolo, e di Tazio. Questo era fuori della città, come lo erano que’ di Marte. Gli Auguri aveano giudicato, che il Dio del fuoco e quello della guerra non dovessero starsene entro le mura di Roma, affinchè l’uno non vi cagionasse incendj, l’altro dissensioni tra il popolo(a) I Cani d’ordinario erano i custodi de’ tempj di Vulcano(b). Eliano riferisce, che intorno al tempio, eretto a Vulcano sul monte Etna, v’erano dei cani, che accarezzavano chi rispettosamente v’entrava, e divoravano chiunque irriverentemente vi si accostava (5).

Vulcano rappresentasi con barba e capigliatura negletta, coperto di veste, che appena gli giunge alle ginocchia, con beretta rotonda e appuntita in capo, tutto sparso di sudore, e annerito la fronte dal fumo, con maltello nella destra, e con tanaglie nella sinistra(c). Albrico lo dipinse coll’aspetto di fabbro, deforme e zoppo, che con una mano alza in aria un maltello, e coll’altra stringe sopra un’incudine delle tanaglie per lavorate un fulmine. Al lato poi di lui evvi un’aquila, che attende il predetto fulmine per portarlo a Giove(d).