François-Joseph-Michel Noël

Charles-Pierre Chapsal

Pietro Thouar

1861

Corso di mitologia, o, Storia delle divinità e degli eroi del paganesimo: Per la spiegazione dei classici e dei monumenti di belle arti (3e éd.)

2019
François-Joseph-Michel Noël, Charles-Pierre Chapsal et Pietro Thouar, Corso di mitologia, o, Storia delle divinità e degli eroi del paganesimo: Per la spiegazione dei classici e dei monumenti di belle arti; dei signori Noël e Chapsal; tradotta dal francese e accresciuta per cura di Pietro Thouar, 3. ed. notabilmente migliorata e corretta e corredata di un numero maggiore d'incisioni in legno, Firenze, G. Ricordi e S. Jouhaud, 1861, in-12, VII-424 p. PDF : Internet Archive.
Ont participé à cette édition électronique : Infoscribe (OCR, saisie) et Anne-Laure Huet (transformation XML-TEI).
[n.p.]

Avviso
per questa terza edizione. §

La favorevole accoglienza ottenuta dalle nostre due antecedenti edizioni del Corso di Mitologia dei Signori Nöel e Chapsal, ci ha confortati a mettere al la luce questa terza edizione, che abbiamo cercato rendere anche migliore delle altre per esattezza nella correzione, e per un numero maggiore d’incisioni in legno intercalate nel testo.

Giovi poi ripetere come la traduzione di quest’opera non sia un semplice volgarizzamento, giacchè il Signor Pietro Thouar l’ha in gran parte rifusa e vi ha fatte delle notabili aggiunte le quali consistono in molte e nuove illustrazioni poetiche dei fatti mitologici, cavate da alcuni dei nostri più valenti poeti ; in una Cronologia mitologica, ossia indicazione delle più notabili epoche storiche alle quali si riferiscono le favole ; e principalmente in un’ Appendice che contiene varj ragionamenti d’illustri scrittori concernenti la caduta del Paganesimo e la fondazione del Cristianesimo. E qui giovi spiegare l’oggetto di quest’appendice, affinchè i giovani lettori ne traggano utile ammaestramento.

La descrizione delle favole assurde, strane, spesso [p. VI]immorali, per lo più oscure, che sovrabbondavano nella falsa credenza dei gentili, finchè rimane disgiunta affatto dalla storia dei tempi antichi, a poco più può servire che ad agevolare l’intelligenza dei Classici ed a spiegare i monumenti d’arte dei Greci e dei Romani. Ma a volere che sia parte proficua della storia dell’umano incivilimento, e che vada immune da qualsivoglia rischio d’ingenerare [ILLISIBLE]nelle menti inesperte dei giovani, è mestieri che la ce[ILLISIBLE]ità dell’idolatria e del politeismo sia posta a confronto della Verità Divina del Cristianesimo, e che sia fatto conoscere il passaggio dalla civiltà antica basata su falsi fondamenti, alla civiltà nuova sostenuta dall’ opera della Redenzione. I discorsi aggiunti dunque in Appendice a questo trattato di Mitologia sono opportuno avviamento a tale studio importantissimo, e vogliono essere meditati accuratamente.

Gli Editori.
{p. 1}

Avvertimento. §

Nel dare alla luce la terza edizione di questo Corso di Mitologia, stimiamo opportuno riprodurre l’avvertimento premesso all’ edizione antecedente pubblicata nel 1854.

« Nel 1838 fu pubblicata a Parigi la quinta edizione del Corso di Mitologia dei signori Noël e Chapsal, che è stato sempre favorevolmente accolto dal pubblico, e che riesce molto utile nelle scuole.

» Il maggior pregio di questo libro elementare consiste, a parer nostro, nella distribuzione delle materie, le quali sono ordinate in paragrafi numerati, e non contengono le ripetizioni inevitabili nei così detti Dizionarj della Favola, nè gl’ inconvenienti ormai a tutti noti del metodo per dimande e per risposte.

» — Il racconto non interrotto, dicono gli Autori di questo Corso, offre all’ alunno una lettura più gradevole e più istruttiva, mentre la divisione in paragrafi somministra le dimande più opportune, e risparmia le ripetizioni, additando al lettore con un semplice numerò tra due () i particolari dei fatti già narrati nei paragrafi antecedenti o nei successivi. — »

« Volendo noi pubblicare un Corso di Mitologia pei giovinetti, abbbiamo stimato dover preferire questo a molti altri, in grazia della sperimentata bontà del metodo. Ma supponendo che la pura traduzione di esso non {p. 2}avrebbe pienamente soddisfatto al bisogno dei primi studj letterarj, abbiamo accresciuto non poco le notizie mitologiche, tenendoci sempre nei limiti di un libro elementare.

» Gli autori francesi vi hanno opportunamente inserito alcuni passi dei loro poeti, e noi invece di tradurre quelli vi abbiamo sostituito, ed in maggior copia, le citazioni e le descrizioni cavate dai nostri autori originali, Dante, Petrarca, Metastasio, Alfieri, Foscolo, ec., e dai migliori traduttori dei Greci e dei Latini, Annibal Caro, l’Anguillara, Ippolito Pindemonte, Vincenzo Monti, Giuseppe Borghi ec. Così possiam dire che il nostro libro comprenda una specie d’Antologia Mitologica opportunissima anche ai cultori delle Belle Arti.

» Ci siamo poi studiati di render profittevole alla morale questa lettura, eccitando i giovinetti a ricavare utili avvertimenti da ciò che per lo più era di solo pascolo alla curiosità giovanile. È noto che molta dell’ antica sapienza civile e politica è riposta nelle spesso oscure e per noi strane allegorie della favola ; ma l’esporla non sarebbe argomento da libro elementare, nè studio adattato all’età de’ nostri lettori. Bensì abbiamo avuto cura, per ciò che alla moralità si riferisce, d’aggiungere alcune interpretazioni che non ci parvero troppo superiori all’ intelligenza comune. »

Ora, per aderire alle ricerche che ne vengono fatte, ristampiamo il Corso di Mitologia, riveduto e migliorato con aggiunte del traduttore, ed ornato di stampe fatte da valenti artisti, utilissime a dar meglio a conoscere le cose descritte, pregevoli perchè ricavate dai celebri monumenti dell’arte antica.

{p. 3}

Tavola analitica
secondo il metodo di giov. humbert §

(Le cifre arabe indicano i paragrafi).

I. Divinità primarie. §

Il Caos, 22.

Celo o il Cielo, 25, 26.

Terra, idem.

Saturno, 26—39.

Cibele, 40—50.

Giove, 63—84.

Giunone, 85—94.

Vesta, 43—46.

Cerere, 51—62.

Nettuno, 185—212.

Plutone, 213—253.

Apollo o Febo, 96—136.

Diana, 137—145.

Minerva o Pallade, 262—269.

Mercurio, 160—169.

Marte, 255—261.

Venere, 170—184.

Proserpina, 52—58.

Vulcano, 270—273.

Bacco, 146—159.

Bellona, 287, 288.

Giano, 32—37.

Genio, 329—331.

Parche, 235, 236.

II. Divinità subalterne. §

Aurora, 112—117.

Pane, 294—299.

Pale e Flora, 310—312.

Pomona e Vertunno, 311.

Sileno, 149, 150.

Priapo e Termine, 307—309.

Driadi, 318, 319.

Oceano e Teti, 192, 193.

Anfitrite, 188, 189.

Nereo, 193.

Najadi, 317.

Proteo, 195.

Glauco, 201, 202.

Eolo, 199, 200.

Lari e Penati, 325—328.

Pluto, 254.

Cupido o Amore, 172, 173.

Grazic, 175.

Muse, 274—280.

Momo e Como, 282—286.

Arpocrate, 336.

Mani, 243.

Ebe e Ganimede, 87.

Iride, 93.

Temi ed Astrea, 337—339.

Latona, 97, 98.

Furie o Eumenidi, 232—234.

{p. 4}

III. Seml-Del ed Eroi. §

Giapeto, 30.

Prometeo, 70, 71.

Ercole, 364—401.

Perseo, 353—363.

Giasone e gli Argonauti, 448—460.

Castore e Polluce, 441—447.

Orfeo, 469—473.

Cadmo, 482—490.

Danao, 252,

Bellerofonte, 461—468.

Teseo, 402—440.

Piritoo, 429—434.

Ippolito, 432—438.

Meleagro, 626—628.

Pelope, 511—513.

Atreo, 514, 515.

Edipo, 491—504.

Trittolemo, 54.

Orione, 618—620.

Lino, 121.

Esculapio, 289—293.

Anfione, 481.

Arione, 478—480.

Dedalo, 421—424.

Minosse, II, 415—423.

Telamone e Peleo, 229, 320, 344, 536.

Medea, 454—459.

Amazzoni, 375.

Semele, 75, 147, 148.

IV. Personaggi della guerra di Tebe. §

Adrasto, 506—508.

Tideo, 506.

Eteoele e Polinice, 505—509.

Creonte, 503—509.

Anfiarao, 506, 662, 663.

Alcmeone, 506.

Partenopeo, 506.

Capaneo, 506.

Meneeeo, 507.

Tiresia, 660, 661.

Emone, 510.

Epigoni, 510, 2°.

V. Personaggi dell’Iliade, dell’Odissea e dell’Eneide. §

Achille, 536—542.

Agamennone, 527—532.

Menelao, 530, 531.

Ulisse, 568—582.

Diomede, 550—552.

Ajaee Telamonio, 561—566.

Nestore, 553—555.

Patroelo, 540.

Filottete, 546—549.

Laoeoonte, 605—607.

Palamede, 583—586.

Caleante, 664.

Pirro, 543—545.

Idomeneo, 558—560.

Priamo, 587, 588.

Paride, 597—603.

Ettore, 591—596.

Enea, 608—615.

{p. 5}Mennone, 113—115.

Reso, 570.

Elena, 433, 434, 528, 531.

Clitennestra, 532, 533.

Ifigenia, 527, 529.

Calisso, 577, 578.

Circe, 575.

Nausica, 578.

Penelope, 579—581.

Didone, 610—612.

Lavinia, 614.

VI. Divinità allegoriche. §

Destino, 21, 23, 24.

Fortuna, 332.

Necessità, 24, 232. 2°.

Pace, 347.

Libertà, 341, 2°.

Fama, 340, 341.

Invidia, 342.

Discordia, 343, 344, 345, 598.

Tempo, vedi Saturno, 39.

Lavoro, 347. 2°.

Vigilanza, 347. 3°.

Occasione, vedi Fortuna.

Nemesi, 333, 334.

Atea (l’Ingiustizia), 335.

Arpocrate (il Silenzio) 336.

Giustizia (Temi ed Astrea) 337—339.

Forza, 346.

Calunnia, 345. 2°.

Dolore, 345, 3°.

Melanconia, 345. 4°.

Vittoria, 348.

Amicizia, 351, 2°.

Fedeltà, 351. 3°.

VII. Mostri della Favola. §

Giganti, 65—69.

Centauri, 430.

Ciclopi, 272.

Polifemo, 273.

Sfinge, 497.

Gorgoni, 357.

Tifeo o Tifone, 69.

Crisaorso, 358, 379.

Idra di Lerna, 371.

Arpie, 191.

Chimcra, 466.

Lestrigoni, 574.

Scilla, 202.

Sirene, 196—198.

Pimmei, 387.

Gerione, 379.

Cerbero, 226, ec.

VIII. Episodj. §

Deucalione e Pirra, 647—650.

Filemone e Bauci, 621—623.

Fetonte, 118, 119.

Ippomene e Atalanta, 640—643.

Filomcla e Progne, 634—638.

Psiche, 178.

Cefalo e Procri, 116.

Ceice ed Alcione, 206.

{p. 6}Piramo e Tisbe, 644—646.

Mida, 126—129.

Ero e Leandro, 646. 2°.

Cleobi e Bitone, 624, 625.

Egeria e Numa, 324.

Milone di Crotone, 670.

Epimenide, 658, 2°. ec.

IX. Cerimonie religiose. §

Giuochi, 669, 670.

Giuochi ismici, 674.

Giuochi pitii o pitici, 672.

Giuochi nemei, 673.

Giuochi olimpici, 671.

Giuochi floreali, 312.

Eleusinie, 60.

Misteri d’Eleusi, 60.

Sibillini (libri) 666.

Oracoli, 122, 667.

Auguri, IV.

Aruspici, III.

Ara o altare, II.

Feciali, V.

Flamini, VII.

Vestali, 46.

Feste e Ferie, VI.

Purificazione, XII.

Jerofante, 60.

Tesmoforie, 60.

Magia, XI.

Lustrazioni, X.

Apoteosi, I.

Funerali, 689.

Lettisterni, VIII.

Vittime ed Ostie, XIII.

Libazioni, IX.

Orgie o Baccanali, 153.

X. Luoghi celebri della Favola. §

Elisi (campi) 206.

Inferno, 215—217.

Tartaro, 216.

Tenaro, 216.

Leucade, 177.

Delfo, 122.

Delo, 97.

Efeso, 143,

Eleusi, 60.

Epidauro, 291.

Elicona, 123.

Dodona, 82.

Ippocrene, 123.

Averno, 215.

Lenno, 270.

Lesbo, 478.

Creta, 228.

Troia, 517.

Citera, 179.

Laberinto, 419, 420.

XI. Divinità favolose d’altre nazioni. §

Egiziane. §

Iside e Osiride, 696—707.

Api, 703.

Anubi, 705.

Serapide, 705.

Oro, 701.

{p. 7}

Babilonesi e Persiane. §

Belo, 711.

Mitra, 713.

Oromaze e Arimane, 715.

Indiane. §

Brama, 717—720.

Siva, 721.

Visnù, 722—725.

Galliche. §

Teutatete, 727—729.

Eso, 730—731.

Tanarete, 732—738.

Scandinave. §

Odino, 739—742.

[n.p.]
{p. 9}

Cenni Preliminari

sul significato di alcune parole e sull’ uso di alcuni oggetti più specialmente relativi alle cerimonie religiose notate nella mitologia. §

I. Apoteosi (apo, da, theós, dio, gr.), deificazione ; cerimonia con la quale gli eroi, gl’ imperatori e i poeti eran collocati dopo morte fra i Numi. L’origine dell’ apoteosi risale all’epoca dell’idolatria, e la usarono gli Assiri, i Persiani, gli Egiziani, gli Etiopi, i Greci e i Romani. Prima gli uomini adorarono le cose materiali create da Dio, come il sole dal quale riceviamo la benefica luce, e che feconda le campagne. Poi deificarono per gratitudine coloro che li seppero governare, che fecero buone leggi, che assicurarono la pace ed aumentarono l’incivilimento ed il bene dell’ uman genere. Quindi l’adulazione dei popoli avviliti nella servitù concesse l’apoteosi a indegni monarchi ; ed essi, prevalendosi del potere, divinizzarono uomini stolti o scellerati ministri delle loro prepotenze e dei loro vizj. È noto che Alessandro il grande, non contento dei magnifici funerali pel suo amico Efestione, volle che gli fosser fatti onori divini ; laonde gli consacrarono feste, gli alzaron templi, gli offersero sacrifizj, e giunsero ad attribuirgli guarigioni ed altri miracoli. Sono pur note le follie dell’imperatore Adriano pel suo favorito Antinoo. L’onore dell’ apoteosi fu talora conferito dai Romani anche alle donne, massime alle mogli degl’imperatori. — Ora in senso figurato si chiamano apoteosi anche gli onori straordinarj o gli elogi esagerati fatti a un vivente.

{p. 10}II Ara o Altare, luogo destinato pei sacrifizj agli Dei. Quasi tutti i popoli fecero i primi altari con piote erbose, e le alzavano sotto gli alberi coprendole di sacre palme ; quindi alle piote sostituirono le pietre, ed alle rozze pietre i mattoni, il marmo e i metalli più rari. Le are furono ricovero o asilo di sventurati, di schiavi, di supplichevoli e di malfattori ; e a piè di esse furon fatte alleanze di popoli, riconciliazioni di parti, sponsali, e celebrazioni di pubbliche feste.

III. Aruspici,1 sacerdoti istituiti da Romolo, e destinati principalmente ad esaminare gli animali offerti in sacrifizio ed immolati agli Dei, ossia le vittime, per cavarne i presagi. Se la vittima doveva essere trascinata per forza all’altare, se sfuggiva di mano al conduttore, se schivava il colpo, e via discorrendo, erano cattivi prognostici ; e se il sangue sgorgava in maggior copia del so[ILLISIBLE]o, era indizio di prossimi e inevitabili guai. Quanto alla fiamma, perchè fosse buono il presagio, doveva elevarsi presto, impetuosa, a piramide, ed essere trasparente, senza molto crepitare, senza fumo, ec.

IV. Auguri.2 I Romani chiamaron cosi nove magistrati eletti a predire il futuro, e li credevano interpreti degli Dei. Eran tenuti in grandissima venerazione, e consultati sempre innanzi d’intraprendere cose di gran rilievo, a fine di prevederne l’esito. Le risposte degli auguri avevano quattro sorgenti primarie : 1° i fenomeni celesti, come i venti, il fulmine, i lampi, le comete e gli ecclissi ; 2° il volo e il {p. 11}canto degli uccelli ; 3° il modo di beccare dei polli sacri a qualche Nume : se non volevano uscir di gabbia nè cibarsi, il presagio era funesto ; se divoravano i grani e raccoglievano quelli sgusciati dal becco, favorevole ; 4° infine gli auguri traevan prognostici da molte altre combinazioni, come dall’arrovesciarsi d’una saliera, da uno starnuto, da uno strepito insolito, da un incendio, da una candela che si spengesse senza motivo apparente, da un topo che rodesse i mobili, dall’incontro di una serpe, di una lepre, di una volpe, ec. ! Ma in effetto cotesti impostori erano segretamente governati nei loro presagi dal volere dei principi, dei legislatori o dei faziosi, secondo che ad essi premeva che il popolo fosse animato a sperare o a disperar d’una impresa. In ogni caso poi il loro zelo era sostenuto dai ricchi guadagni e dai lauti banchetti a spese dei creduli. Gli auguri goderono in Roma di molta considerazione ; ma a poco per volta caddero in discredito ; e un cittadino poteva dire impunemente : « Io non so come due auguri possano incontrarsi senza ridere l’uno dell’altro. » Ma il volgo ignorante e coloro che ci trovavano il proprio conto mantennero per lungo tempo siffatte puerili e dannose superstizioni, che non sono ancora del tutto distrutte, benchè non sussista più la religione che le aveva consentite. Tanto è vero che è più facile perpetuare dieci errori o dieci pregiudizi che stabilire una verità !

V. Feciali, sacerdoti romani che avevano ufficj analoghi a quelli dei nostri araldi di guerra o ambasciatori straordinarj ; poichè generalmente erano destinati a dichiarare la guerra ed a presiedere ai trattati di pace.3 Quando un popolo offendeva la Repubblica, il feciale si recava tosto a chiedere le discolpe dell’ ingiuria. In caso di negativa eran concessi 33 giorni a risolvere, dopo i quali rompevan liberamente la pace. Il feciale tornava {p. 12}allora sul territorio nemico, e vi lanciava una picca insanguinata, intimando guerra con cerimonie religiose.

VI. Feste e Ferie. I giorni consacrati ad onorare gli Dei ed a ricreare il popolo eran detti feste. In antico furono pochi, cioè quelli soli della messe e della vendemmia ; ma il numero delle feste aumentò con quello degli Dei. Le principali appo i Greci erano quelle di Adone, di Bacco, di Minerva, di Cerere, nel tempo delle quali era vietata ogni specie di lavoro, nè si potevano far leve di soldati, muover guerre o punire i colpevoli. Tutti s’incoronavano di fiori ; celebravano giuochi, balli, banchetti, e si astenevano scrupolosamente dal proferir parole di cattivo augurio. I Romani chiamaron ferie (feriœ da ferire, colpire, immolar la vittima) i giorni sacri al riposo ed ai sacrifizj in onor degli Dei. Le ferie latine furono le più solenni. Tarquinio il superbo le istituì per assuefare tutti i popoli latini a tener Roma in conto di città più ragguardevole e di capo luogo del Lazio, sì rispetto alla religione che alla politica. Poi furon detti ferie o giorni feriali quelli della settimana, e prima feria il lunedì, seconda feria il martedì ec. ; e nel tempo stesso ferie autunnali son le vacanze dei magistrati, degli scolari ec.

VII. Flamini,4 sacerdoti istituiti da Numa, e destinati al culto di qualche deità in particolare. Prima furon tre soli ; il flamine di Giove, quello di Marte e quello di Quirino ; poi arrivarono a quindici. Grandi furono i privilegi del Flamine di Giove : andava fuori preceduto da un littore,5 aveva la sedia curule o da senatore, l’anello d’oro, {p. 13}ed un posto in senato. Non poteva salire a cavallo, nè giurare, nè toccar fave od ellera o carne crud[ILLISIBLE] e gli era vietato di veder lavorare la gente ; laonde quando passava per le strade, un araldo lo precedeva per avvisare gli operai che sospendessero i loro lavori. Aveva il diritto di accordare sicuro asilo ai colpevoli che appo lui si rifugiavano, e di far grazia a quelli che, andando al supplizio, erano da lui incontrati per via. Egli benediva gli eserciti ; e portava in capo una berretta fatta con la pelle di una pecora bianca, e con in cima un ramoscello d’ulivo legato con un nastro.

VIII. Lettisterni, banchetti sacri dei Romani in tempi di pubbliche calamità, per placare lo sdegno del cielo. Nel tempo di questa cerimonia toglievano di su i piedistalli le statue degli Dei, le posavano su letti messi intorno ad una tavola apparecchiata nel tempio, e offrivan loro a spese della Repubblica un lauto pasto. I cittadini stessi tenevan tavola aperta a tutti, e convitavano indistintamente amici e nemici, poveri e ricchi, incogniti, viaggiatori ec. Questa cerimonia e questi divertimenti miravano a distrarre l’attenzione del popolo dallo spettacolo delle pubbliche calamità, ed a guarire il corpo ricreando lo spirito. Il primo lettisterno indicato dalla storia durò otto giorni, e fu celebrato l’anno 400 av. l’èra crist. in occasione di una pestilenza che devastava Roma e i suoi contorni. Ancorchè la storia nol dica, possiamo tener per fermo che il rimedio deve essere stato peggiore del male.

IX. Libazione, cerimonia religiosa nei sacrifizj. Il sacerdote assaggiava il vino di cui era colma la tazza, l’offriva ad alcuno degli assistenti, e versava il resto sull’ altare o sulla terra o sulla fronte delle vittime. Non vi erano sacrifizj senza libazione, ma spesso facevano libazioni senza sacrifizj, come nei matrimonj, nei funerali, nei trattati d’alleanza, nei banchetti, nei pasti giornalieri ec. Oltre al vino adoperavano nelle libazioni anche il latte, il miele, {p. 14}l’olio, l’acqua delle fonti o del mare ed il sangue degli animali.

X. Lustrazioni, cerimonie sacre unite ai sacrifizj ; ed avevano per iscopo di purificare i campi, gli eserciti, i greggi, gl’ individui, le città, i templi, le case, ec. La lustrazione di un campo consisteva nel condurvi tre volte all’intorno una vittima scelta, e nel bruciare i profumi sul luogo stesso del sacrifizio. Per quella di un esercito, alcuni soldati cinti d’alloro conducevano tre volte intorno all’esercito schierato in ordine di battaglia una pecora, una scrofa ed un toro, e gli immolavano con imprecazioni contro il popolo nemico. Nella lustrazione dei greggi il pastore aspergeva d’acqua pura il bestiame, bruciava alloro, sabina e zolfo, faceva tre volte il giro della cascina, ed offriva a Pale latte, vin cotto, miglio ed una focaccia. Le lustrazioni pubbliche e nazionali erano celebrate di cinque in cinque anni, il quale spazio di tempo essendo chiamato lustrum (lustro) ha dato origine al vocabolo lustrazione.

XI. Magia, fu l’ arte di fingere cose soprannaturali con l’ajuto di spiriti immaginari, con parole cabalistiche e cerimonie misteriose. La divisero in più rami, come astrologia giudiziaria, sortilegio, incanti, evocazione di morti, divinazione o predizione del futuro, scoperta di tesori nascosti, guarigione di malattie incurabili, e simili altre imposture. Questi artifizj malvagi e spregevoli caddero naturalmente in discredito delle persone assennate : ma per mala sorte gl’ ignoranti e i superstiziosi non li dimenticarono mai per l’affatto, e furono spesso fomento di vizj e cagion di delitti. Ecate fra le divinità pagane presiedeva ai misteri della magia. Medea l’aveva propagata nella Tessaglia, ec. La Chiromanzia era una parte della magia, e consisteva nel predire il destino di un uomo dall’esame delle linee che s’incontrano sulla palma della mano. Con la Negromanzia pretendevano di richiamare in {p. 15}vita i morti per consultarli intorno alle eose future. I Greei ed in speeie i Tessali la usavano molto, ed incomineiavano l’ areano rito eol bagnare di sangue ealdo i eadaveri.

XII. Purificazione, atto religioso dei Pagani per onorare gli Dei, per espiare i delitti o per allontanare una calamità. Prima del saerifizio il sacerdote tuffava un ramo d’alloro nell’aequa lustrale,6 e girando tre volte intorno all’assemblea, ne aspergeva i eireostanti pronunziando alcune parole saere. In tempo di peste e di carestia le purifieazioni dei Greci erano aceompagnate da azioni erudeli. Un omicida non si poteva purificare da sè del suo delitto, e rieorreva a un saeerdote ehe lo bagnava di sangue, lo fregava eon l’ aglio, gli faeeva portare al collo una filza di fichi, e non gli permetteva d’ entrare nei templi se non che dopo una eompleta espiazione.

XIII. Vittime, ostie, olocausti. Furon dette vittime gli animali destinati ai saerifizj. Ogni divinità aveva le sue vittime diverse, ed erano scelte fra le più belle. Il nome di vittima era dato solamente agli oggetti vivi ed agli animali grossi ; quello di ostia agli animali di latte, e tanto alle eose animate ehe inanimate ; e l’olocausto era un sacrifizio nel quale la vittima veniva interamente consumata dal fuoco, senza che ne restasse alcuna parte per il banchetto dei sacerdoti o degli assistenti.

[n.p.]
{p. 17}

Della mitologia in generale. §

1. La descrizione delle credenze religiose e delle superstizioni dei principali popoli antichi, ossia la storia delle divinità del Paganesimo, è chiamata Mitologia coi vocaboli greci mythos che significa favola, e logos, trattato o parola o detto ; e contiene : le leggende o la narrazione dell’origine e delle gesta dei falsi Dei, la spiegazione dei simboli e delle immagini ad essi allusive, e la descrizione dei loro attributi, del modo col quale erano adorati, delle cerimonie sacre, dei templi, altari, santuarj, boschi sacri, vittime, libri santi, ec. I Romani la chiamarono favola da fari, discorrere.

2. Alle descrizioni delle divinità adorate dai Greci e dai Romani sogliono essere uniti i fatti dei primi uomini celebri e degli antichi eroi ; laonde giova repartire queste narrazioni come segue :

1° in favole o finzioni ricavate dalla Storia ;

2° in invenzioni relative alla Filosofia, ovvero all’amore della sapienza ;

3° in racconti immaginati a somiglianza dei fatti veri, o Allegorie opportune a correggere i difetti degli uomini ;

4° ed in racconti relativi ai buoni costumi od alla Morale.

Molti asseriscono che le antichissime e fantastiche tradizioni mitologiche alludono alle grandi catastrofi della Terra, cioè diluvj, inondazioni, eruzioni di vulcani, sprofondamenti di paesi, apparizioni d’isole, pestilenze e carestie ; ed allora potrebbero esser dette favole fisiche. Infatti i primi popoli che doverono più spesso essere spettatori delle rivoluzioni naturali del globo (e ne fanno fede i tanti diluvj rammentati da ogni nazione e le tracce {p. 18}frequentissime dei vulcani) non seppero nella loro rozzezza attribuire questi sconvolgimenti, se non che allo sdegno di altrettante potenze oceulte o Dei che presiedessero ai diversi elementi. Quindi un Nettuno dio delle acque ; un Eolo dei venti ; un Plutone in sotterraneo regno con la reggia di fuoco e eon fiumi che menavano fiamme.

3. Le favole storiche sono semplicemente le antichissime credenze storiche miste ai sentimenti religiosi, e abbellite dalle finzioni poetiche ; ovvero contengono la semplice reminiscenza dei fatti conservata nella memoria degli uomini, che è quanto dire la tradizione delle cose accadute tra i primi popoli. Laonde è verosimile che i falsi Dei o Idoli chiamati Giove, Apollo, Bacco, Ercole ec. fossero stati in origine uomini distinti dagli altri, considerati poi quali cuti soprannaturali per azioni egregie o pessime, e adorati per gratitudine o per paura ; e così possiam dire che il fondamento delle favole ad essi relative sia storico.

4. I diluvj d’Ogige, di Deucalione, di Prometeo, di Proteo, d’Achelao, se ne togliamo le strane particolarità, sono immagini di quello di Noè ; e la favola dei Giganti ehe assalgono il cielo rammenta la presunzione orgogliosa di coloro ehe fondarono la torre di Babele, o le grandi eruzioni vulcaniche anticamente più frequenti, e per le quali preso aspetto diverso la superficie di vaste regioni.

5. Le favole filosofiche son creazioni di poetiche fantasie, e. « sotto il velame delli versi strani » ascondono antica sapienza e utili verità. Sicehè questa specie di favole è per lo più un modo di parlar figurato, che poi negl’idioti divenne religiosa credenza c fondamento di culti.

6. La favola, per esempio, dicc chc l’Oceano fu padre dei Fiumi ; ehe la Luna sposò l’Aere e generò la Rugiada ; c piena di sapienza è l’invenzion delle Furie, ministre inesorabili degli aeuti rimorsi di una eoscienza colpevole, nate dal sangue umano scelleratamente versato.

7. Le favole allegoriche sono specie di parabole o {p. 19}paragoni o similitudini, che descrivendo un’ azione o un oggetto, tendono a chiarirne meglio un altro, e comprendono utili verità, e con graditi ornamenti le imprimono meglio nella memoria.

8. Ceice ed Alcione trasformati in alcioni sono immagine commoventissima dell’amor coniugale ; e la favola d’ Orfeo, il quale colla soavità del canto mansuefaceva le tigri e spetrava i massi, esprime il potere dell’ eloquenza e della musica sugli uomini, ed anche l’ effetto maraviglioso che i naturali oggetti e le loro proprietà producevano sui primi popoli, avvezzi a veder la natura nella sua. bellezza selvatica, e indotti a supporre in ogni corpo vita e anima come in loro.

9. Le favole morali inchiudono precetti e norme di saviezza e lezioni di civil convivenza ; e va d’ accordo con la morale antica il credere che le stelle inviate da Giove splendessero sulla terra quali occhi del cielo per rammentare agli uomini che tutte le loro azioni son note a Dio.

10. Le Furie scatenate contro Oreste, o l’ Avvoltojo che divorava le viscere di Prometeo, son quadri significanti il rimorso : e Medusa che impietrisce chi la rimira, ci dipinge il danno cagionato dalle passioni sfrenate ; mentre che Narciso invaghito e vittima della propria bellezza, rappresenta gli effemminati e i sedotti da eccessivo amor proprio.

11. La poesia destinata a cantare gli Dei e gli eroi, ad abbellire ogni cosa, ad animare anche gli oggetti materiali, ha popolato d’ esseri immaginarj l’ universo ; e per effetto delle sue finzioni i mortali egregi divennero spiriti celesti, i pastori Satiri, Ninfe le pastorelle, Centauri gli uomini a cavallo, e le arance furono dette aurei pomi.

12. Dopo che gli uomini ebbero perduto la memoria del vero Dio e del suo culto, e quando non sapevano ancora spiegare gli effetti delle forze fisiche, ossia i fenomeni dei corpi celesti e terrestri, cominciarono ad adorare le cose materiali, il Creatore, cioè, nella creatura ; ed il sole, {p. 20}la luna, le stelle, il tuono ed il fulmine furono i loro Dei ; e quindi giunsero ad onorar come tali anche i bruti, le piante ed i sassi.

13. Poi ottennero templi ed altari gli uomini celebri ed i benefattori dell’ umanità, e la riconoscenza rese divini i guerrieri famosi, gli artisti di grande ingegno ed i legislatori dei popoli. Cosicchè Esculapio che fu eccellente nella medicina ebbe vanto d’ essere figliuolo d’ Apollo ; e Bacco, per avere insegnato a coltivare la vite, fu Dio del vino, ec. Indi l’inclinazione degli Orientali al maraviglioso e l’ immaginazione dei Greci fecero il resto.

14. Ad ogni corpo di questo universo fu assegnata la propria divinità ; nè vi fu luogo che non fosse sotto la protezione di uno Dio. Sicchè gli uomini vollero, per così dire, adorar la natura partitamente ; e come scrisse Bossuet : Tutto era deità, fuorchè Dio stesso. Gli antichi Dei Titani, figli di Celo e della Terra, forse non erano altro che le forze naturali e le potenze motrici della terra e dei corpi celesti, mentre pare che Giove, Nettuno e Vulcano successi ai Titani rappresentino le potenze secondarie, agitatrici dell’ aria, dell’ acqua, del fuoco. Le quali manifestandosi in principio con grandissimi sconvolgimenti nelle tempeste, nelle inondazioni e nelle eruzioni, parvero aver combattuto e vinto le prime, ossia i Titani, per dividersi tra di esse il regno del cielo e della terra. E così le origini di queste favole, che forse furon le prime ad essere inventate, possono dirsi fisiche.

15. La più comune opinione fa nascere questa Mitologia e questa favola nell’ Oriente, nell’ Egitto, nella Fenicia ; di dove recata nell’ Occidente, fu accolta dai Greci, abbellita e trasmessa ai Romani ; i quali in un tempio chiamato il Panteon adunarono tutte le divinità adorate in paesi diversi ; ed insieme con le loro armi vittoriose introdussero il culto dei falsi Dei fin nelle estreme parti del mondo.

{p. 21}

Mitologia dei Greci a dei Latini.

Divisione degli dei. §

16. Varrone, poeta latino, nato verso l’anno 82 av. G. C., fece ascendere a trentamila il numero degli Dei. Gli antichi annoveravano più di trecento Giovi, ed almeno quaranta Ercoli ; perlochè Giovenale, poeta satirico latino nato l’anno 42 di G. C., compiange Atlante quasi schiacciato dal peso del cielo, a motivo del gran numero di Dei che vi erano stati collocati.

17. Gli Dei eran distinti in tre classi : La prima comprendeva gli Dei supremi o i grandi Numi (Dii majores), ed erano in numero di venti.

18. La seconda era quella degli Dei subalterni o inferiori (Dii minimi), i quali presiedevano ai campi, alle foreste, ai fiumi, alle fonti, ai fiori, ec., come Pane, Flora, Pomona, Vertunno, Pale, ec. Potremmo chiamarli piuttosto poetica famiglia, che classe mitologica.

19. Nella terza eran collocati i Semidei, cioè tutte le divinità supposte prole di un Nume o di una Dea, come Ercole, Esculapio, Castore, Polluce, ec., e con essi gli eroi che avevano meritata l’ immortalità, come Achille, Ettore Ulisse, ec.

Divinità della prima classe. §

20. Gli Dei della prima classe abitavano il cielo nella reggia d’ Olimpo, o presiedevano alla terra, al mare o all’ inferno ; e dodici di essi componevano il consiglio {p. 22}celeste, cioè : Giove, Giunone, Nettuno, Cerere, Mercurio, Minerva, Cibèle, Apollo, Diana, Venere, Marte e Vulcano.

Il destino. Celo. §

21. Il Destino o Fato, secondo che insegna Esiodo, poeta greco e contemporaneo d’Omero e che fiorì 9 o 10 secoli prima di G. C., nacque dal Caos e dalla Notte (238), ed era cieco.7

22. I pagani chiamarono Caos quella congerie di cose casuale ed informe, nella quale immaginarono confusi tutti gli elementi della natura prima della creazione e della separazione dei corpi. La terra, il foco e ’l mare era nel cielo ; nel mar, nel foco e nella terra il cielo. (Anguillara, Metamorfosi lib. I.) Uno Dio, pensarono i pagani, cambiò l’aspetto e lo stato di questa materia inerte ; ne trasse l’etere che formò il cielo, dimora degl’immortali, il fuoco e l’ aria in mezzo alla quale restò sospesa la terra circondata dall’ acqua ; e questo Dio fu lo stesso Caos, divenuto, secondo la favola, potenza ordinatrice.

23. Il Destino poi altro non era che un’ immagine della fatale necessità che tutto governa nel mondo ; e gli altri Dei, come anche lo stesso Giove, andavano a consultarlo, ma senza poter mutare gl’ inesorabili suoi decrèti. E qualora questi decreti fossero la conseguenza degli eterni veri, quanta filosofia non racchiude la {p. 23}immutabilità del Fato, cui non vincono nè i potenti della terra nè gli stessi Dei !

24. Il Destino era seduto sopra un trono di ferro, con gli occhi bendati e un piede sul nostro globo ; aveva sul capo un diadema stellato, e nell’ una mano lo scettro simbolo del supremo potere, nell’ altra un’ urna od un libro di bronzo contenente le umane sorti. Dietro a lui è rappresentata in alcuni momenti la inesorabile Necessità, figlia dell’ Intemperanza, recando nella sua mano di ferro e chiodi e cunei e graffi e liquido piombo, e tutta intera una suppellettile da patibolo, per significare che il cattivo destino è per chi lo merita, e che il male par necessario solamente perchè l’ uomo da sè stesso si allontana dal bene (332. 2°). Le tre Parche (235) eran le ministre del Destino, pronto a fare eseguire immediatamente gli ordini della inesorabile divinità.

25. Cielo o Cèlo figlio dell’ Aria e del Giorno passava per una divinità antica quanto il Destino. I poeti lo chiamano anche Urano (45), e suppongono che sposasse Titea o la Terra sua sorella, detta anche Vesta (43) o Cibele (40), nella qual doppia parentela è evidentemente addimostrata la stretta relazione delle cose terrene colle celesti.

26. Dall’ unione di Celo colla Terra nacquero Saturno (27), Cibele (40), Titano o i Titani (27) e i Ciclopi (272). Celo, temendo la potenza dei figliuoli, operò ostilmente contr’essi, e gl’ imprigionò nelle viscere della terra ; ma Titea non volendo sopportare questa ingiustizia, aperse loro le carceri, e lasciò che facessero uso delle proprie forze ; laonde Saturno assalì Celo, lo vinse, e si conquistò il dominio del mondo. Chi non direbbe adombrato in questa favola un primo sconvolgimento cagionato sulla superficie della terra dalle riposte sue forze, che parevano essersi ribellate incontro al cielo (14) ?

{p. 24}
Saturno. Titano. Giano. §

27. L’ impero del mondo apparteneva a Titano, perchè era fratello maggiore di Saturno ; ma ad istanza di Cibele, Titano lo cedè al minore, a condizione che questi non allevasse figliuoli maschi. Saturno osservò i patti ; ed essendo in lui personificato il Tempo che distrugge tutto ciò che egli stesso produce, la favola con bene accomodata allegoria fingeva eh’ ei divorasse i figliuoli.

28. Ma vedremo poi come le promesse incaute, consigliate da sfrenata e crudele ambizione, tornino a danno di chi le fa. Intanto Cibele (40), sorella e moglie di Saturno, avuti due figliuoli ad un parto, Giove (63) cioè e Giunone (85), fece veder solamente questa al marito, e gli tenne celato Giove, offrendogli in sua vece una pietra che da Saturno fu subito divorata. E ciò fece anche quand’ ebbe gli altri due figli Nettuno (185) e Plutone (213).

29. Giove fu dato a educare alle Ninfe del monte Ida nell’ Isola di Creta ed ai sacerdoti di Cibele, chiamati Cureti, Galli, Coribanti o Dattili (48) ; e la capra Amaltea (77) gli fu nutrice. Narrasi che le Ninfe e i Coribanti, che furon poi anche sacerdoti di Giove, per celar meglio a Saturno i vagiti del Nume in fasce, si ponessero a ballare suonando i cembali e battendo fra loro molti scudi di bronzo.

30. Finalmente questa cautela non valse, e Titano scoprì la frode ; laonde per non vedere esclusi dal trono i Titani suoi figli, mosse guerra a Saturno, lo vinse, e lo imprigionò con Cibele in angusto carcere ; ma poi Giove da buon figliuolo venne a capo di liberarli ambedue. Il più celebre tra i Titani fu Giapeto, che i Greci tenevano per padre del genere umano ; od almeno non riconoscevano altro uomo più antico di lui ; sicchè nè le loro istorie nè le loro tradizioni segnavano epoche anteriori alla sua. Giapeto abitava in Tessaglia, vale a dire in uno dei paesi {p. 25}dell’ Europa che furono i primi ad essere abitati e inciviliti : ed i suoi figliuoli hanno lasciato più fama del padre. Poiché, oltre a Prometeo (70, 71), tanto celebre nella favola, ebbe Epimeto (73), Atlante (382) ed Espero (altri dicono Meneceo) (507). Forse passa qualche relazione fra questo Giapeto dei Greci e quell’ Jafet che la Genesi racconta essere andato a popolare l’ Europa, nel tempo che Sem restò nell’ Asia e Cam passò l’ istmo di Suez per istabilirsi nell’ Affrica.

31. Poichè Saturno udì dal Destino (21) che Giove gli avrebbe usurpato il regno, appena fu libero, gli mosse guerra ; ma Giove lo vinse ; e temendo che il padre usasse un’ altra volta a suo danno della libertà che gli avea procurata, lo discacciò dal Cielo.

32. Saturno, perduto il cielo e l’ impero, si rifugiò in quella parte d’ Italia ove poi fu eretta Roma, e che ebbe il nome di Lazio dal latino vocabolo Latere,8 forse perchè Saturno vi si celò cercando un asilo. Giano (33-37), originario della Tessaglia, e divenuto re del Lazio, accolse amorevolmente l’ esule Nume, e se lo fece compagno nel supremo potere.

33. Saturno, per gratitudine dell’ ospitalità generosa, lo dotò di così raro intelletto e di tanta prudenza, che non dimenticava mai il passato, e prevedeva il futuro ; laonde è stato detto che Giano aveva due teste o due volti per conoscere tanto l’ uno che l’altro, ed ebbe perciò il soprannome di bifronte.

34. Il regno di Saturno e di Giano in Italia fu chiamato Età dell’ oro, ossia regno degli Dei e prima età del mondo, perchè sotto il loro savio governo gli uomini vissero semplicemente e naturalmente buoni, virtuosi, in pace, godendosi i beni della terra, spontaneamente da essa prodotti. Ma le età successive travagliate da nuovi bisogni, per sodisfare ai quali nacquero le faticose arti, furono {p. 26}denominate dall’ argento, dal rame e dal ferro, per significare il successivo traviamento del genere umano :

Lo secol primo, quant’ oro, fu bello ;
Fe’savorose con fame le ghiande,
E nettare per sete ogni ruscello.
Dante, Purg., c. 22.

Ovidio nelle Metamorfosi (traduzione dell’ Anguillara) descrive la beatitudine dell’

Età dell’ oro.9

Questo un secolo fu purgato e netto
D’ogni malvagio e perfido pensiero :
Un proceder leal, libero e schietto,
Servando ognun la fè, dicendo il vero.
Né v’ era chi temesse il fiero aspetto
Del giudice implacabile e severo ;
Ma, giusti essendo allor, semplici e puri,
Vivean senz’altro giudico sicuri.
Senza esser rotto e lacerato tutto
Dal vomero, dal rastro e dal bidente,
Ogni soave e delicato frutto
Dava il grato terren liberamente ;
E quale egli venia da lui produtto,
Tra sé il godea la fortunata gente ;
Che, spregiando condir le lor vivande,
Mangiavan corne, more, fraghe, ghiande.
Febo sempre più lieto il suo viaggio
Facea, girando la superna sfera ;
E con fecondo e temperato raggio,
Recava al mondo eterna primavera.
Zefiro i fior d’ aprile e i fior di maggio
Nutria con aura tepida e leggera.
Stillava il mel dagli elci e dagli olivi ;
Correan nèttare e latte e i fiumi e i rivi.
Oh fortunata età ! felice gente,
Che ti trovasti in cosi nobili anni ;
{p. 27}Che avesti il corpo libero e la mente,
Questa da’ rei pensier, quel da’ tiranni ;
Dov’era almen securo l’ innocente
Dagli odj, dall’ invidie e dagli inganni :
Beato, e veramente secol d’ oro,
Dove, senz’ alcun mal, tutti i ben fòro !

Età dell’ argento.

Poichè al suo vecchio Dio10 nojoso e lento
Dal suo maggior figliuol fu tolto il regno,
Segui il secondo secol dell’argento,
Men buon del primo, del terzo più degno ;
Chè fu quel viver lieto in parte spento,
E all’ uom convenne usar l’ arte e l’ ingegno,
Servar modi, costumi e leggi nove,
Siccome piacque al suo tiranno Giove.
Egli quel dolce tempo, ch’ era eterno,
Fece parte dell’ anno molto breve,
Aggiungendovi state, autunno e verno,
Foco empio, acuti morbi e fredda neve.
S’ebber gli uomini allor qualche governo
Nel mangiar, nel vestir, or grave, or leve,
S’ accomodaro al variar del giorno,
Secondo ch’ era in Cancro o in Capricorno.

Età del rame.

Dal metallo, che, fuso in varie forme,
Rende adorno il Tarpejo e il Vaticano,
Sorti la terza età nome conforme
A quel che trovò poi l’ ingegno umano,
Che nacque all’ uom si vano e si difforme,
E li fece venir con l’ arme in mano
L’un contro l’ altro, impetuosi o feri
In lor discordi, ostinati pareri.
All’ uom che già vivea del suo sudore,
S’ aggiunse noja, incomodo ed affanno,
Pericol nella vita e nell’ onore,
{p. 28}E spesso in ambedue vergogna e danno ;
Ma, sebben, v’era rissa, odio e rancore,
Non v’era falsità, non v’era inganno ;
Come fu nella quarta età più dura
Che dal ferro pigliò nome e natura.

Età del ferro.

Il ver, la fede e ogni bontà dal mondo
Fuggiro, e verso il ciel spiegaro l’ali,
E in terra usciro dal tartareo fondo
La menzogna, la fraude e tutti i mali :
Ogn’ infame peusiero, ogni atto immondo
Entrò ne’ crudi petti de’ mortali ;
E le pure virtù, candide e belle,
Gîro a splender nel ciel fra l’ altre stelle.
Un cieco e vano amor d’ onori e regni
Gli uomini indusse a diventar tiranni ;
Fêr le ricchezze i già svegliati ingegni
Darsi ai furti, alle forze ed agli inganni,
Agli omicidj ed a mille atti indegni,
Ed a tante dell’ uom ruine e danni ;
Chè per ostare in parte a tanti mali,
S’ introdusser le leggi e i tribunali.
Nè fur molto securi i navigauti,
Ch’ oltre l’ orgoglio de’ venti e de’ mari,
Molti uomini importuni ed arroganti
In varj legni diventâr corsari.
La terra, già comune agli abitanti,
Come son l’aure e i bei raggi solari,
Fu fatta in mille parti, e posto il segno
Fra cittade e città, fra reguo e regno.
Va il ricco peregrino al suo viaggio,
Ecco un ladro il saluta, il bacia e ride ;
E, fingendo amistà, patria e linguaggio,
L’invita seco a cena, e poi l’ uccide.
Il cittadin più cortese che saggio
Alberga con amor persone infide,
Che scannan poi, per rubarlo nel letto,
Lui che con tanto amor diè lor ricetto.
S’accendon l’aspre ed orride giornate
Piene di sanguinosi alti perigli,
{p. 29}Che spingono a morir le genti armate
Sotto l’ offese de’ lor fieri artigli ;
Onde le donne afflitte e sconsolate
Piangono i morti lor mariti e figli ;
E il fanciullin con l’angosciosa madre
Resta senza governo e senza padre.
Astrea11 che con la libra e con la spada
Conosce di ciascun l’ errore e il merto,
Poi che s’ avvide che non v’ era strada
Da giunger con la pena al gran demerto,
Se non rendeva per ogni contrada
Il mondo affatto inutile e deserto,
Pria che veder che il tutto si consumi
Ultima andò fra i più beati Numi.

35. I Romani onorarono Giano con special culto ; e pel {p. 30}suo regno lungo e tranquillo fu detto il Dio della pace. Appena giunto sulle sponde del Tevere vi aveva trovalo gente selvaggia, senza religione e senza leggi. Ed esso migliorò i costumi di quei popoli, li radunò a vivere insieme nelle città, creò le leggi, e dette loro l’ idea del giusto e dell’ onesto. Numa Pompilio secondo re di Roma (714 anni avanti Gesù Cristo) gli edificò un tempio con dodici altari, uno per ciascun mese dell’anno ; il qual tempio stava aperto in tempo di guerra, e chiuso in tempo di pace. Gli fu consacrato il monte Gianicolo che è uno dei sette colli di Roma ; e le porte delle case, dette in latino Januœ, erano sotto il suo patrocinio, come sotto quello degli Dei Lari e Penati (325). Secondo altri questo tempio era stato eretto da Romolo fondatore di Roma e da Tazio re dei Sabini, in memoria del trattato di pace tra essi conchiuso.

36. È rappresentato in sembianze di giovine con una bacchetta in mano, quale Dio tutelare delle strade, e con una chiave per aver inventate le porte. Talvolta le sue statue hanno quattro facce alludendo alle stagioni, e spesso con la destra additano il numero 300 e con la sinistra il 65 per significare la misura dell’ anno. Da lui ha preso il nome il mese di gennaio, nel quale era celebrata la sua festa con offerte di datteri, di fichi e di miele. Facevano ancora giuochi e danze, e si abbandonavano ad ogni specie di pubblica gioja. Nel primo giorno di questo mese i Consoli designati entravano in carica ; seguiti dalla folla, salivano il Campidoglio, ed in mezzo ai profumi immolavano a Giove-Capitolino (79) due tori bianchi non ancora domati. Nello stesso giorno i Romani si avvicendavano buoni augurj e donativi e mance e premj chiamati strenae, (onde abbiamo ricavato la parola strenna) :

Virgilio inverso me queste cotali
Parole usò, e mai non furo strenne
Che fosser di piacere a queste iguali.
Dante, Purg., c. XXVII.

{p. 31}37. Giano era invocato il primo nei sacrifizj, tanto per aver alzato altari e statuito le cerimonie del culto, quanto per esser tenuto in conto di valido intercessore ai supplichevoli mortali appo gli Dei.

38. Le feste istituite nel Lazio in onor di Saturno e in memoria della dimora da esso fattavi e dell’ età dell’ oro, furon dette Saturnali, e celebrate ogni anno il dicembre. Cominciavano il di 16, e duravano tre giorni, e tutto allora spirava gioia e piacere. Il Senato nel tempo dei Saturnali sospendeva le adunanze ; eran chiuse le pubbliche scuole ; i parenti e gli amici si ricambiavano doni e banchetti ; era vietato eseguir le sentenze e far la guerra ; ed i padroni servivano a tavola i loro schiavi, per rammentare l’antica libertà ed eguaglianza goduta dagli uomini nell’età dell’oro. A questo medesimo Dio è attribuita l’ invenzione della moneta per agevolare il commercio ; e i primi conj rappresentavano da un lato una nave, simbolo del commercio, e dall’altro un uomo con due leste, ossia il ritratto del re Giano. Si crede che fossero di bronzo ; e i Latini solevano offrirle in dono per capo d’ anno, dal che forse ebbero parimente origine le strenne.

39. Saturno fu comunemente rappresentato qual vecchio curvo dal peso degli anni e armato di falce, per indicare ch’ei presiede al tempo che tutto distrugge ed all’ agricoltura che tutto riproduce. È anche alato, e gli sta presso un orologio a polvere, e talora un serpente che si morde la coda od è in atto di divorare un fanciullo. L’ orologio a polvere è la misura del tempo, mentre le ali rammentano la velocità con cui passa ; e il serpente che forma un cerchio è l’ emblema dell’ eternità e della prudenza ; mentre il fanciullo che sta per essere divorato allude alla favola dei figli. È questo il luogo da ricordare i bellissimi concetti del Petrarca nel Trionfo del Tempo :

Seguii già le speranze, e’ l van desio :
Or ho dinanzi agli occhi un chiaro specchio,
{p. 32}Ov’io veggio me stesso, e ’l fallir mio :
E quanto posso, al fine m’ apparecchio,
Pensando ’l breve viver mio, nel quale
Stamane era un fanciullo, ed or son vecchio.
Chè più d’un giorno è la vita mortale,
Nubilo, breve, freddo e pien di noja,
Che può bella parer, ma nulla vale ?
Qui l’umana speranza, e qui la gioja ;
Qui i miseri mortali alzan la testa ;
E nessun sa quanto si viva o moja.
Veggio la fuga del mio viver presta ;
Anzi di tutti ; e nel fuggir del sole,
La ruina del mondo manifesta.
Or vi riconfortate in vostre fole,
Giovani, e misurate il tempo largo :
Chè piaga antiveduta assai men dole.
Forse che ’ndarno mie parole spargo :
Ma io v’ annunzio che voi siete offesi
Di un grave e mortifero letargo :
Chè volan l’ ore, e i giorni, e gli anni, e i mesi ;
E ’nsieme con brevissimo intervallo,
Tutti avemo a cercar altri paesi.
Non fate contra ’l vero al core un callo,
Come sete usi, anzi volgete gli occhi,
Mentr’ emendar potete il vostro fallo.
Non aspettate che la morte scocchi,
Come fa la più parte : chè per certo
Infinita è la schiera degli sciocchi.

Ma vi sono i grandi ingegni, i famosi Eroi che non temono la falce del tempo, sicchè messer Francesco prosegue :

Vidi una gente andarsen queta queta
Senza temer di tempo, o di sua rabbia :
Chè gli avea in guardia istorico o poeta….

Tuttavia anco le maggiori celebrità dovranno essere finalmente dimenticate, e volgendo ad esse la parola, sentenzia così :

Un dubbio verno, un istabil sereno
È vostra fama ; e poca nebbia il rompe :
E ’l gran tempo a’ gran nomi è gran veneuo.
{p. 33}Passan vostri trionfi e vostre pompe :
Passan le signorie, passano i regni :
Ogni cosa mortal Tempo interrompe….
Così ’l Tempo trionfa i nomi e ’l mondo.

Ma questi decreti si riferiscono solamente alle glorie terrene, le quali, ancorchè grandissime, sono pur sempre sottoposte a perire. La mente umana tende a più alto fine ; laonde lo stesso poeta nel Trionfo della Divinità :

Da poi che sotto ’l ciel cosa non vidi
Stabile e ferma, tutto sbigottito
Mi volsi e dissi : Guarda ; in che ti fidi ?
Risposi : Nel Signor, che mai fallito
Non ha promessa a chi si fida in lui….
Cibele. Vesta. Vestali. §

40. Cibele, qual sorella e moglie di Saturno (27), era tenuta per genitrice della maggior parte degli Dei, e perciò fu detta gran madre, e poi Berecinzia, Dindimena e Idea, dai nomi di tre montagne di Frigia (Asia minore) dove con special culto era onorata.

41. La chiamarono anche Tellus, dal presiedere alla terra, come Saturno aveva presieduto al cielo ; ed Ops, cioè soccorso, ricchezza, perchè stimavano che procacciasse ai mortali ogni sorta di beni.

42. Ebbe il nome di Rea, dal greco rhéin che vuol dire, scorrere, essendochè la benefica terra produce ogni bisognevole al vivere umano ; e infine fu talor conosciuta sotto quello di Vesta.

43. Gli eruditi distinguono tre divinità con lo stesso nome di Vesta : una, detta anche Terra e moglie di Celo (25), è la madre di Saturno (27) ; l’ altra, ossia Cibele gli è moglie ; e la terza è sua figliuola.

44. A ragione immaginarono Cibele con sembianze di donna veneranda e forte, e le posero in capo una ghirlanda di quercia, perchè un tempo gli uomini semplici e robusti {p. 34}si nutriron di ghiande ; e le torri e le merlate mura, che le ricingon la fronte, additano le città poste sotto la sua tutela ; mentre una chiave nella destra significa i tesori chiusi nelle viscere della terra. Il suo carro, tratto da due leoni, è l’ emblema della terra equilibrata nell’ aere pel proprio peso ; e le vesti di color verde alludono alla vegetazione che ne abbellisce la superficie. Indi le posero ai piedi un timpano pieno d’ aria, immagine dei venti e delle procelle…. Terribile invero, e fantastica maestà d’ una Dea feconda di tanti beni e di tanti mali !

45. Vesta, soprannominata la giovane Vesta, figlia di Saturno e di Cibele e moglie d’ Urano (25), presiedeva al fuoco, perchè il calore feconda la terra ; od era lo stesso fuoco secondo il significato di quel nome. L’ onoravano in Frigia, di dove Enea (608) figliuol d’Anchise ne recò in Italia la statua ed il culto. Numa re di Roma le consacrò un tempio12 dov’ era custodito il Palladio (570) di Troja, e dove sorgeva un altare con perpetua fiamma chiamata il fuoco sacro. I Greci non davano principio nè termine a verun sacrificio se prima non avessero onorato Vesta. Il suo simulacro era coperto con ampio manto, e aveva la testa turrita e velata la fronte ; nella destra sosteneva una face e nella sinistra un giavellotto o il corno dell’abbondanza ; talora le si vedevano ai piedi due leoni, per la custodia che Pindaro le attribuisce degli stati e dei regni. Bellissimi sono i concetti, stupendi i versi coi quali Ugo Foscolo parla del fuoco sacro di Vesta nel suo carme le Grazie :13

Solinga nell’ altissimo de’ cieli,
Inaccessa agli Dei, splende una fiamma
Per proprio fato eterna ; e n’ è custode
La veneranda Deità di Vesta.
{p. 35}Vi s’ appressa e deriva indi una pura
Luce che, mista allo splendor del Sole,
Tinge gli aerei campi di zaffiro,
E i mari allor che ondeggiano al tranquillo
Spirto del vento, facili a’ nocchieri ;
E di chiaror dolcissimo consola
Con quel lume le notti ; e a qual più s’ apre
Modesto fiore a decorar la terra
Molte tinte comparte, invidïate
Dalla rosa superba. Anco talora
Di quel candido foco una scintilla
Spira la Dea nell’ anime gentili,
Che recando con sè parte del cielo,
Sotto spoglie mortal scendon fra noi.
Di quel, candido foco ardono i petti,
Pronti al perdono, al beneficio, e pronti
A consolare i miseri col pianto.

46. Sei vergini donzelle furon create sacerdotesse di Vesta col nome di Vestali, destinate in Roma alla custodia del suo tempio, del Palladio (570) e del fuoco sacro simbolo della conservazion dello stato. Sceglievanle i re, e, abolita la monarchia, i pontefici ; e dovevano avere non meno di sei, nè più di dieci anni, ed essere di famiglie romane e di libera condizione. Se per loro negligenza il fuoco sacro si fosse spento, tutta la città n’ era in lutto ; i pubblici negozj rimanevano interrotti ; e le colpevoli venivano punite severamente, poichè la superstizione allo spegnersi di quel fuoco attribuiva terribili conseguenze. I sacerdoti per riaccenderlo adoperavano i raggi del sole o il fulmine, od un pezzo di legno secco incendiato col farvi girar dentro velocemente un succhiello. Le Vestali eran soggette a rigoroso celibato, e volevansi modello di castità e d’innocenza, sotto pena di essere sepolte vive. Andavan poi onorevolmente distinte tra i cittadini. Tutti i magistrati cedevano ad esse il primo posto, e fuor del tempio erano precedute da un littore armato dei fasci consolari. Se una Vestale incontrava un reo condotto al supplizio, poteva intercedergli grazia, purchè {p. 36}asserisse che l’incontro era stato casuale ; e nei più serj negozj la loro semplice affermativa aveva forza di giuramento. Nelle loro mani erano depositati i testamenti e quanto poteva esservi di segreto e di sacro. Al circo ed a tutti gli spettacoli avevano luogo distinto. Il pubblico erario le manteneva con splendidezza. Dopo trent’ anni di sacerdozio eran libere di abbandonare la custodia del fuoco di Vesta per accendere la face dell’ Imeneo ; ma per lo più preferivano di rimanere nel tempio ed esser guida ed esemplare alle novizie. Le Vestali conservaronsi in Roma fino ai tempi dell’ Imperatore Teodosio.

47. Le feste in onor di Cibele furono dette Megalesiache, o giuochi megalesii dal greco mégas megále, che vuol dir grande, perchè istituite dai Frigii in onore della grande Dea. In Roma, dove furono introdotte nel tempo della seconda guerra punica, erano celebrate dalle matrone in un tempio chiamato Opertum, ossia nascondiglio, perchè agli schiavi era vietato l’entrarvi sotto pena di morte. I magistrati vi assistevano con abiti di porpora.

48. I sacerdoti di Cibele avevano il nome di Galli in latino, da Gallus, fiume di Frigia, bevendo l’ acqua del quale si fingevano furibondi a segno di lacerarsi il corpo con staffilate e coltelli, indizio del cieco fanatismo (il furor sacro) d’una falsa religione. Uscivano costoro dalla feccia del popolo, ed a guisa di ciarlatani andavano di città in città recando la statua di Cibele, cantando inni in sua lode e mendicando. Talora avevano seco alcune vecchie che facevano professione d’ impostura con versi di magia, con incantesimi e sortilegi, e turbavano spesso il riposo delle famiglie, appunto come fanno ancora le zingane a vergogna di un secolo incivilito. Furono detti anche Coribanti o Dattili (29),14 , servendo al culto di Giove ; e celebravano {p. 37}le feste di Cibele con immenso tumulto, mischiando a’ loro urli lo strepito dei tamburi, percotendo gli scudi con le lance, ballando e movendo la testa con atti di frenesia. In prima abitarono il monte Ida nella Frigia, di dove si trasferirono in Creta, e aiutarono i Cureti a educar Giove (29).

49. Sacrificavano a Cibele un toro o una capra o una scrofa a motivo della sua fecondità. Il bossolo ed il pino eranle sacri, perchè col legno del primo formavano i flauti sacerdotali dei Coribanti, e la Dea avèva trasformato nel secondo il giovine Ati.

50. Cibele prese a proteggere e creò suo sacerdote questo Ati, bellissimo pastorello di Frigia ; ma egli trascurò il suo ministero per isposare la ninfa Sangaride (sangarius in latino è lo stesso che frigio) ; e la Dea per punirlo della sua ingratitudine fece ferire quella ninfa, e abbandonò lui in preda a tanta disperazione, che era sul punto di uccidersi ; quand’ella impietosita, lo trasformò in pino, e volle a sè consacrato quell’ albero. Atùzo, in greco, vuol dire io spavento, essendochè lo sciagurato spinto da soverchio affanno a levarsi la vita è oggetto di massimo terrore.

Cerere. Proserpina. §

51. Fu invero benefica divinità questa Cerere, figlia di Saturno (27) e di Cibele (40), se istruì gli uomini nell’arte di coltivar la terra e di seminare il grano ; sicchè gli antichi l’ adorarono quale Dea dell’ agricoltura, e più specialmente delle messi e dei cereali.

52. Cerere ebbe dal fratello Giove (63) una figlia {p. 38}chiamata Proserpina (53) ; e Giasone, figlio di Giove e d’ Elettra, la fece madre di Pluto (254), Dio delle ricchezze.

53. Plutone (313), re dell’ inferno, era brutto e nero (Dante lo dipinge rabbioso, con enfiate labbia, e lo chiama maledetto lupo, qual si conviene al nume di coloro in cui usa avarizia il suo soperchio) ; ed il suo regno, benchè pieno di dovizie, incuteva tale spavento, che nessuna Dea volle unirsi in matrimonio con lui : tanto è vero che la sola ricchezza non ha alcun pregio. Laonde un giorno adocchiata Proserpina che stava cogliendo fiori con le sue compagne sulla pianura d’ Enna in Sicilia, rapilla ; nè valse l’ ardita difesa della ninfa Ciane che fu da lui trasformata in fontana. La terra si spalancò al colpo del suo scettro, ed egli trasse la preda nei suoi tenebrosi dominii.

La tenera fanciulla ed innocente
Tutta lieta cogliea questo e quel fiore,
E quinci e quindi avea le luci intente,
Correndo a quei ch’ avean più bel colore.
Quest’ era il maggior fin della sua mente,
D’ aver fra le compagne il primo onore.
Intanto il novo amante ch’ io vi narro,
Le afferrò un braccio, e la tirò sul carro.
Ella, che tutto avea vòlto il pensiero
Alle ghirlande e a’ fior, come si vede
Prender da quel cosi affumato e nero,
Stridendo alle compagne aiuto chiede.
Plutone intanto al suo infernale impero
Gl’ infiammati cavalli instiga e fiede.
Chiama la mesta vergine in quel corso,
Più d’ ogni altra la madre in suo soccorso.
Anguillara.

Cerere sconsolata salì un carro tratto da draghi alati per volare in traccia della prediletta figliuola.

54. Si pose a percorrere velocemente la terra per montagne e per boschi ; e inclusive là notte continuava le sue ricerche al lume delle faci. Intanto per mostrarsi grata all’ ospitalità di Celeo, re d’Eleusi nell’ Attica, insegnò a {p. 39}Trittolemo suo figliuolo l’arte dell’agricoltura, e gli donò un carro coi draghi per recarsi a diffondere la pregevole arte sopra la terra tra i popoli ancor selvaggi. Ma Tritlolemo sarebbe stato vittima della gelosia, che tanti favori svegliarono in Linco re della Sicilia, se costui non fosse stato cangiato da Cerere in lince. Indi Celeo eresse un tempio in onor suo, il qual tempio d’Eleusi diventò poi uno dei più famosi della Grecia pei misteri Eleusini e per le feste che ogni quattro anni vi erano celebrate.

55. Nell’attraversare la Licia (Asia-minore) le intravvenne di voler estinguere la sete ad una fonte ov’ erano certi villani che per malvezzo gliela intorbidarono ; ed essa, quanto era stata generosa verso la cortesia di Celeo, {p. 40}altrettanto fu severa con essi trasformandoli in rane in quel pantano, a significare come sia riprovevole la sgarbatezza.

56. Giove (63) commosso dall’ affanno di Cerere, promise di farle ricuperare la figlia, se questa nell’Inferno non avesse toccato nè bevanda nè cibo ; ma per sua sventura Proserpina aveva assaggiato alcuni chicchi di melagrana, ed Ascalafo figliuolo dell’Acheronte (218) lo riferì a Giove. Laonde Cerere sdegnata gettò in faccia al delatore l’ acqua del Flegelonte (220), ed egli fu subito trasformato in sozzo gufo notturno. Infatti

Non è chi sia nel mondo peggio visto
D’un che rapporta ciò che sente e vede….
Senza amor, senza legge e senza fede.
Anguillara.

Ascalafo poi sotto questa forma diventò il favorito di Minerva, indicando che quanto la coperta delazione è vituperevole, altrettanto la onesta curiosità e la continua osservazione rivolte alla ricerca del vero e della sapienza possono essere nobili e profittevoli.

57. Cerere, stanca un giorno de’suoi viaggi, e tormentata dalla sete, entrò in casa di una vecchiarella per nome Bècubo, che amorevolmente le offerse da bevere, e le dette da mangiare una scodella di pappa. E Cerere a dir vero ne faceva onore alla vecchia, trangugiandola sì ingordamente che il fanciullo Stelle o Stellio, all’aspetto di tanta avidità non potè fare a meno di riderne e di beffarla. Di che offesa la Dea gli scaraventò in faccia il resto della pappa ; e lo converse in tarantola. Invero non istà bene ai fanciulli pigliarsi beffe d’alcuno, e in ispecie di coloro che essendo per miseria o per altre necessità travagliati dalla fame possono parere ingordi nel satollarsi.

58. Alfine, dopo aver girato il mondo senza trovar notizie della figliuola, tornò in Sicilia, e quivi la ninfa Aretusa (323) le fece sapere come Proserpina fosse già moglie di {p. 41}Plutone (213) e regina dell’inferno. Laonde, accesa una fiaccola al fuoco del monte Etna, entrò nelle viscere della terra ; e di lì nell’inferno per richiedere a Plutone la sua figliuola ; ma ogni preghiera fu vana. Corse poi opinione che Giove, impietosito da Cerere, concedesse a Proserpina (53) di passare sei mesi dell’anno colla madre e gli altri sei col marito.15

59. Cerere ha volto bello, membra robuste, leggerissime vesti ; è incoronata con una ghirlanda di spighe o di papaveri ; e le sue mammelle piene di latte l’additano nutrice del genere umano. Talora ha nella destra un covone di spighe od una falcetta, e nella sinistra una fiaccola. Al suo carro vanno attaccati due leoni o due serpenti.

60. Le feste di Cerere furon chiamate Eleusine, o Eleusinie, perchè gli Ateniesi le celebrarono ogni cinque anni ad Eleusi città dell’Attica. Duravano nove giorni, e in quel tempo era vietato l’occuparsi dei pubblici affari, aprire i tribunali e arrestare i malfattori. Niuno degl’iniziati in coteste cerimonie poteva divulgare in che modo fossero eseguite ; sicchè tanto lo svelarne che l’udirne il segreto era sacrilegio. Quindi la porta del tempio si teneva chiusa rigorosamente ai profani ; e tra le greche solennità fu questa la più celebre e la più misteriosa. Perciò tali feste furon dette misteri per eccellenza. Alcuni autori ne attribuiscono l’istituzione ad Orfeo (469), altri ad Eumolpo.16Gli Ateniesi poi le fanno derivare da Cerere stessa, {p. 42}che sotto spoglie mortali aveva abitato alcun tempo appo Celeo re d’Eleusi.17 Oltre alle Eleusinie furono istituite in onor di Cerere parimente nell’Attica le Tesmoforie (thesmos, legge, phéro, io porto, gr.) in memoria delle savie leggi da essa date ai mortali. Erano celebrate dalle donne più distinte, le quali parecchi giorni prima dovevano purificarsi, astenersi da ogni divertimento, e vivere con sobrietà esemplare. Agli uomini era vietato l’assistervi ; e nei cinque giorni della loro durata le donzelle vestite di bianco andavano da Atene ad Eleusi recando in capo i canestri sacri dov’era chiuso un fanciullo, un serpente d’oro, un vaglio, alcune focacce ed altri simboli. In Sicilia, nel tempo {p. 43}di questa processione, le donne correvano qua e là con fiaccole accese chiamando ad alta voce Proserpina.

61. Per lo più la vittima sacrificata a Cerere fu una scrofa gravida o una ariete ; nè a’suoi altari mescevasi vino o si recavano fiori, chè talora l’abuso del primo non togliesse vigore e senno agli agricoltori, e i secondi non denotassero mollezza ; ma sì v’era ammesso il papavero, il quale conciliando il sonno a Cerere aveva dato tregua all’affanno della madre sventurata. — È opinione che Cerere sia l’Iside (696) degli Egiziani e la Cibele dei Frigii.

62. Eresittone o Erisittone, tessalo, figlio della ninfa Driope nipote di Nettuno (185) e avo materno d’Ulisse (568), oltraggiava gli Dei, e negava d’offrir loro i sacrifizj. Indi, forse per rapacità, o in onta a Cerere, ebbe l’audacia di tagliare parecchi alberi in un bosco a lei consacrato ; sicchè ella ne lo punì col tormento d’insaziabile voracità :

Se l’infelice il cibo prendre
Ed alla gola cupida compiace,
Non la satolla, anzi l’ardore accende….

Vendè la casa e le masserizie per procacciarsi alimenti, ed era ridotto in estrema povertà. Allora la sua figliuola Metra, degna di miglior padre, studiando ogni via di liberarlo da tanta miseria, ottenne da Nettuno di potersi, come il marino Proteo (195), trasformare in ogni sorta d’oggetti. Così trasformata, il padre la vendeva e la rivendeva per vivere ; ma lo strattagemma non bastò alla voracità sempre maggiore ond’egli era assalito, e finalmente morì divorando con orrenda rabbia le proprie membra. Chi non vede in questa favola atroce quanto grave delitto sia l’empietà contro i Numi, e come il filiale affetto s’ingegni di mitigare il destino di un padre colpevole sì, ma troppo crudelmente punito ! Nanrano alcuni che Erisittone perisse d’un colpo d’asce datosi da sè stesso mentre abbatteva il bosco sacro di Cerere.

{p. 44}
Giove. §

63. Giove, figlio di Saturno (27) e di Cibele (40), bandito il padre dal cielo, s’impossessò dell’Olimpo, divenne padrone del fulmine, e divise l’impero del mondo co’suoi fratelli, ritenendo per sè il cielo, dando il dominio delle acque a Nettuno (185), e quello dell’inferno a Plutone (213).

Disse ; e il gran figlio di Saturno i neri
Sopraccigli inchinò : su l’immortale
Capo del Sire le divine chiome
Ondeggiaro, e tremonne il vasto Olimpo.
Omero.

64. Giove sposò Giunone (85) sua sorella, ad esempio del padre che aveva sposato Cibele (40), e del nonno Urano (25) o Celo che s’era congiunto a Vesta (43).

65. Ma il suo regno, che gli costava un delitto di violenza incontro al padre, non fu mai lieto ; poichè la Terra (25) moglie di Celo (25) per vendicare i Titani suoi nipoti precipitati da Giove nel Tartaro, gli fece ribellare i Giganti (69) figliuoli degli stessi Titani. Questi enti favolosi erano uomini di statura e di forza tanto straordinaria, che osarono d’assalire il re del cielo.

66. Deliberati dunque i Giganti di combattere contro Giove, presero ad assalirlo sullo stesso suo trono sovrapponendo Ossa a Pelio, ed Olimpo ad Ossa, tutte montagne della Grecia, di sulle quali s’argomentarono dar la scalata al cielo, avventando incontro agli Dei massi enormi ed interi monti.

Non sai qual contro a Dio
Fé di sue forze abuso,
Con temeraria fronte,
Chi monte impose a monte ?
Parini.

Alcuni di quei monti ricadendo nel mare diventarono {p. 45}isole, altri tornando a precipitare sulla terra formaron nuove montagne. Ecco un’altra immagine delle eruzioni vulcaniche di quei tempi, ingrandita dal terrore dei popoli che ne furono spettatori senza saperne spiegare le cause.

67. Lo stesso Giove, sgomentato alla vista di sì tremendi nemici, chiamò in soccorso gli altri Dei, ma tutti temevano più di lui, e si rifugiarono nell’Egitto ove stettero celati sotto varie forme d’animali. Forse di qui, secondo alcuni, ebbero origine gli onori divini che gli Egiziani rendevano ai bruti (704).

68. Bacco (146) fu men codardo, poichè presa la figura d’un leone, combattè per qualche tempo con intrepidezza, animato da Giove che di continuo gli gridava : Coraggio, figlio mio, coraggio ! Alcuni attribuiscono ad Ercole (364) questo generoso contegno verso l’impaurito Nume.

69. Allora Giove crucciato prese la folgor acuta (Dante Inf. c. xiv) opera dei Ciclopi (272), e saettati con tutta la sua possa i Giganti, restò vittorioso. I più terribili tra’suoi nemici in questa così detta pugna di Flegra (valle della Tessaglia) furono Encelado, che lanciava i più grandi massi contro l’Olimpo ; Briareo che aveva cento braccia e cinquanta teste :

Vedeva Briareo fitto dal telo
Celestïal, giacer dall’altra parte,
Grave alla terra per lo mortal gelo ;18
Dante, Inf., c. XII.

e Tifone o Tifeo, mezz’uomo e mezzo serpente, che arrivava con la testa al cielo, e che per sè solo, al dir d’Omero, più degli altri Giganti insieme uniti, sgomentava gli Dei ; Fialte poi fu quello che pose il monte Ossa sul Pelio. Giove sotterrò vivi, sotto l’isola d’Ischia, Tifone e Briareo ; ed {p. 46}Encelado sotto l’Etna. Il fine dei giganti adombra quello degli orgogliosi che presumono sollevarsi contro il cielo.

È fama che dal fulmine percosso,
E non estinto, sotto questa mole
Giace il corpo d’Encelado superbo ;
E che quando per duolo e per lassezza
Ei si travolve o sospirando anela,
Si scuote il monte e la Trinacria tutta ;
E del ferito petto il fuoco uscendo
Per le caverne mormorando esala,
E tutte intorno le campagne e’l cielo
Di tuoni empie e di pomici e di fumo.
Virgilio, Eneide, trad. del Caro.19

{p. 47}70. Giove, mantenutosi l’impero del mondo e non avendo più nemici da temere, s’occupò della formazione dell’uomo. Indi Prometeo, figlio di Giapelo (30) e nipote d’Urano (promethéomai, io provvedo), preso ad imitare il padre degli Dei, formò alcune statue umane col fango della terra, e le animò col fuoco sacro rapito al carro del Sole.20

71. Ma Giove, sdegnato dell’audacia di Prometeo, ordinò a Vulcano d’incatenarlo ad uno scoglio sul monte Caucaso in Asia, e quivi un avvoltoio gli doveva eternamente divorare le viscere, le quali, rinascendo sempre, erano cagione di continuo martirio allo sventurato. Con tal favola sembra che i poeti volessero indicare la prepotenza dispotica, la quale si studiava di tenere oppressi coloro che, illuminando le menti della moltitudine, davano opera a distruggere tra gli uomini ogni disuguaglianza contraria alla naturale giustizia. E siccome i sacerdoti del paganesimo secondavano talora i despoti per aver parte nell’ambizioso potere, così la pena di Prometeo appariva ordinata da Giove. Ma lo stesso rigeneratore a veva presagito che alfine la forza della giustizia avrebbe trionfato di quella della tirannide ; e infatti Ercole, (364) figlio dello stesso Giove, con l’andar del tempo uccise l’avvoltoio, e liberò Promeleo :

Sulla scitica rupe incatenato,
Gran simulacro dell’uman pensiero,
Stassi Prometeo, e il preme
Forza crudel che a’generosi insulta ;
{p. 48}Ma il profetato Alcide in cor gli freme,
E nel futuro esulta.
Silvestro Centofanti.

72. Addolorati gli altri Dei per la severità di Giove, e ingelositi nel vedere che egli solo si arrogava il diritto di creare gli uomini, si concertarono fra di loro, e formarono una donna facendole ciascuno di essi un dono particolare. Pallade (263) le donò la saviezza, Venere (170) la beltà, Apollo (96) l’arte della musica, e Mercurio (160) l’eloquenza ; e la chiamarono Pandora, vale a dire formata coi doni di tutti gli Dei (pan tutto, dôron dono, gr.). « E i doni degli Dei altro non sono che le arti e le cose tutte giovevoli all’uomo, il trovar le quali è effetto della fortuna. Sicchè sotto la favola di Pandora è compreso il regno della Fortuna (332), ossia l’invenzione delle arti che avvenne nella seconda età del mondo. » (Mario Pagano, Saggi politici.)

73. Simulando Giove di voler ricolmare anch’egli dei suoi doni Pandora, le regalò un vaso chiuso, con l’ordine di recarlo a Prometeo ; il quale, prevedendo qualche inganno, respinse Pandora ed il vaso ; ma Epimeteo suo fratello, meno accorto di lui, l’accolse e la sposò. Allora fu aperto il vaso fatale, onde scaturirono tutti i mali che poi si sono sparsi sopra la terra ; e la sola Speranza, vero dono celeste e ultimo scampo, restò nel fondo del vaso.21

{p. 49}74. Giove protesse con parzialità parecchie mortali, e prese a tale oggetto diverse forme. Si trasmutò in toro per rendere immortale Europa figlia del re Agenore, la quale partorì Minosse (228) e Radamanto (230) ; prese la figura di un cigno per trasportare in cielo Leda figlia di Testio re dell’Etolia e moglie di Tindaro re di Sparta, la quale fu madre di Castore e Clitennestra (441), di Polluce e d’Elena (601) ;22 poi comparve da satiro ad Antiope regina delle Amazzoni e madre di Zeto e d’Anfione (481) ; e sotto le sembianze d’Anfitrione (amphi, intorno tryo, io fatieo, gr.) re di Micene nell’Argolide, ebbe favori dalla di lui moglie Alcmena, che fu madre d’Ercole (364).

75. Si cangiò in pioggia d’oro per penetrare nella torre di metallo dov’era ehiusa Danae figlia d’Acrisio e poi madre di Perseo (353) ; sotto la figura di un giovine apparve a Semele figlia di Cadmo (485) e madre di Bacco (146) ; e fintosi Diana (137), dette a Calisto (140) il figliuolo Arcade ; e finalmente in rozza veste di pastore si palesò alla madre delle nove Muse (274) ossia alla ninfa Mnemosine (Mnéme, memoria, gr.).

76. Perifa (da perì e phaino, io splendo intorno), che era uno dei Lapiti, popoli di Tessaglia famosi per le loro guerre contro i Centauri (430), e che fu re d’Atene prima di Cecrope, per le sue belle azioni aveva meritato anche in vita onori divini ; ma il re del cielo mal sofferendo che un mortale acconsentisse d’essere adorato in terra al pari di uno Dio, voleva fulminarlo. Apollo intereedette per lui, e Perifa, cangiato in aquila, diventò l’uccello favorito di Giove e il eustode delle sue folgori.

77. La capra Amaltea (amaltheyo, io nutro, gr.) che aveva allattato Giove, ebbe l’onore d’esser collocata fra le {p. 50}Costellazioni (676) co’suoi dodici capretti ; e le Ninfe che avevano costudito il Nume nell’infanzia, ebbero in dono un corno della stessa capra. Quel corno aveva la prerogativa di produrre tutto ciò ch’elleno a vesser bramato ; e fu detto il Corno dell’Abbondanza o Cornucopia.

78. Licaone, principe dell’Arcadia, fu il primo ad immaginare sacrifizj di animali agli Dei, e per questa assuefazione alle atrocità divenne crudele a segno da far morire tutti i forestieri che passavano pe’suoi stati. Giove in sembianza umana volle andare ad ospizio da lui, e Licaone s’apparecchiò a levargli la vita mentre dormiva ; ma sapendo che gli Dei solevan talora scendere sulla terra, s’argomentò di scoprire se per avventura il nuovo ospite fosse uno di loro, e scelleratamente gl’imbandì carne umana. Allora una fiamma vendicatrice distrusse per ordine di Giove il palazzo di Licaone, e l’empio fu convertito in lupo. Questa metamorfosi, come ognun vede, raffigura la crudeltà e la rapacità dei despoti, e nasce dallo stesso nome di Licaone che in greco significa lupo.

79. Giove ha parecchi nomi negli autori profani, e i più comuni son questi : Lucezio o Diespiter, ossia diei pater, padre del giorno : Feretrio, da ferre, perchè nel suo tempio erano recate le spoglie opime, cioè le spoglie dei vinti ; Ospitale o Xenus, come preposto all’ospitalità ; Tonante, Fudminante, Vendicatore, Vincitore, Dio delle mosche, perchè, mentre Ercole sacrificava agli Dei, fu assalito da uno sciame di mosche trattovi dall’odore della vittima ; ma andando poi a sacrificare al simulacro di Giove, gl’importuni insetti si dileguarono. In Roma fu detto anche Giove Statore, stator dalla parola stare, perchè alle preci di Romolo aveva rattenuto i Romani fuggenti innanzi ai Sabini ; Giove Laziale qual protettore della confederazione dei popoli latini,23 e Giove Capitolino dall’essere adorato {p. 51}sul Campidoglio. Il soprannome piu celebre e più usitato fu quello d’Olimpico dall’abitar ch’ei faceva con la sua corte sulla cima del monte Olimpo in Tessaglia. Olimpo vuol dire anche cielo : (holos, intero, lámpo, io riluco, gr.) Lo chiamavano inoltre Ottimo Massimo, e Sancus o Sanctus, che secondo alcuni era lo stesso che Pistius, altra sua denominazione. Lo invocavano col nome di Terminale quando ponevano sotto la sua protezione i termini o limiti dei campi. Quando si figuravano di costringerlo a mostrarsi ai mortali, invocando il fulmine propizio, Io dicevano Rlicio, dal latino elicio, cavar fuori, ec.

80. Egli era poi onorato anche in Affrica sotto il nome di Giove Ammone, ed ecco perchè : Bacco (146) essendo in pericolo di morir di sete nei vasti deserti della Libia, implorò il soccorso di Giore ; ed il padre degli Dei, apparsogli in forma d’ariete, battè la terra con la zampa, e ne fece scaturire una sorgente. Allora Bacco, per gratitudine, gli consacrò un tempio sotto il nome di Giore Ammone (Ammone in greco significa rena o sabbia) ; e per questo ancora Giove era talvolta rappresentato sotto le forme d’ariete, le corna del quale sono simbolo di forza e di coraggio. Ma i più sono di sentimento che questo Giove Ammone altro non sia che il dio Osiride (696, 697) degli Egiziani.

81. Siccome Giove teneva il primo posto tra le divinità, così il suo culto fu sempre il più solenne ed il più diffuso tanto in Europa che in Asia. Il suo tempio più celebre fu in Olimpia, ed ivi era la mirabile statua di Giove Olimpico, scolpita da Fidia, e annoverata tra le sette maraviglie del mondo (135, 143). Sotto il nome di Giove Statore (79) n’ebbe uno in Roma erettogli da Romolo ; e moltissimi altri per tutto. I suoi tre Oracoli (667) principali {p. 52}erano quelli di Dodona nell’Epiro, di Libia, e di Trofonio24 in Beozia. Comunemente gli immolavano la capra, la pecora e il toro bianco al quale crano indorate le corna ; ma spesso si limitavano ad offrirgli farina, sale ed incenso.

82. Gli antichi consacrarono a Giove la quercia, perch’egli a somiglianza di Saturno aveva insegnato agli {p. 53}uomini a cibarsi di ghiande. Credevano poi che le querci della foresta vicina alla città di Dodona nell’Epiro rendessero gli oracoli, e vi eressero un tempio per adorarlo sotto il nome di Giove Dodoneo ; e quindi eragli specialmente sacra la quercia. Anche le colombe di quella foresta pronunziavano oracoli, e in essa fu tagliato il fatidico albero della nave degli Argonauti.

83. Il Giove dei Greci e dei Romani fu sempre rappresentato con maestoso aspetto, con lunga e folta barba, assiso in un trono d’avorio, avente nella destra la folgore ed uno scettro simbolo dell’onnipotenza, ed una statuetta della Vittoria nella sinistra ; allato gli seggono le Virtù, ed ai piedi ha l’aquila a lui consacrata, siccome il più forle ed il più coraggioso tra i volatili ; talvolta l’aquila è ad ali spiegate in atto di rapir Ganimede (87).

84. Gli autori sono discordi sul numero degli enti mitologici che hanno avuto il nome di Giove ; e Varrone ed Eusebio li fanno ascendere sino a trecento, lo che viene spiegato dall’uso che la maggior parte dei re avevano di prendere questo nome. Perciò tanti popoli diversi vantavano Giove esser nato fra loro, e additavano sì gran numero di monumenti per attestarlo.

Giunone. §

85. Giunone, figlia di Saturno (27) e di Rea, (42) sposò Giove (63) suo fratello, e divenne regina degli Dei. Era la divinità dei regni, degl’imperi e delle ricchezze, e perciò soprannominata Regina, e la protettrice dei matrimonj, Matrona o Pronuba ; e presiedeva anche ai parti pigliando allora da lux (luce) il nome di Lucina. Fu anche detla {p. 54}Moneta da moneo, per cagione dei salutari avvertimenti o ammonizioni date da essa ai Romani, massime nella guerra coi Galli Senoni od in quelle con gli Arunci o con Pirro.

86. Ebbe tre figli : Marte (255) generato per virtù di un fiore, o secondo altri comparso già cresciuto ed in armi di sotto tcrra allorchè Giunone, rampognando Giove, la battè incollerita col piede ; Vulcano (270) che Giove precipitò dal cielo sulla terra da quanto era deforme ; ed Ebe (87) Dea della giovinezza.

87. Questa Ebe fu destinata a mescere il néttare agli Dei ; ma poichè un giorno le intravvenne di cadere nel bel mezzo della celeste assemblea, ella n’ebbe tanta vergogna che non s’arrischiò più a comparirvi. Allora Giove dette l’ufficio di coppiere al bellissimo Ganimede (ganos, gioia, medos, consiglio, gr.) figliuolo di Tros re di Troja, facendolo rapire da un’aquila nel tempo che il giovinetto era a caccia sul monte Ida nell’Asia minore. Taluni invece lo fanno precedere ad Ebe in quest’ufficio, e dicono che avendolo male adempito, Giove glielo tolse, e collocò il giovinetto in una costellazione detta l’Aquario (687).

88. Giunone era d’indole altera, diffidente, gelosa e fastidiosissima a Giove, tanto che una volta, volendo egli punirla de’suoi interminabili piati, la condannò a star sospesa per aria a due calamite, con due incudini ai piedi e colle mani legate a tergo da una catena d’oro.

89. Ma non essendo stata efficace questa lezione a correggerla, Giove risolse di prendere un’altra moglie, e di sceglierla tra le semplici mortali ; sicchè pose gli occhi sopra la giovanetta Io figlia d’Inaco re d’Argo ; e per salvarla dalla persccuzione di Giunone la celò in una nube, e la trasformò in vacca. Giunone insospettita, come colei che sapeva di meritare ogni gastigo, finse miglior contegno, e poi si mostrò meravigliata della bellezza di quell’animale, e chieselo in dono al marito con tante carezze ch’ei gliel concesse. Allora Giunone, per paura che Io non le fosse {p. 55}ritolta, la diede in custodia ad Argo, celebre architetto e inventore della nave degli Argonauti (452), il quale aveva cent’occhi e soleva tenerne aperti cinquanta nel tempo che gli altri eran chiusi dal sonno. Ma la Dea non ottenne il suo intento, perchè Giove ordinò a Mercurio suo araldo (160) di fare addormentare il maraviglioso vigilatore, con la voluttà della musica e con l’ajuto di Morfeo Dio del sonno (241) che a tale effetto gli diede un mazzo de’suoi papaveri, e poi d’ucciderlo. E questa fia lezione a coloro che si lasciano troppo sedurre dai piaceri. Allora Giunone raccolse gli occhi dell’estinto Argo, e ne fregiò la coda del pavone, o sivvero trasmutò Argo in quest’uccello dotato solamente di esterna bellezza, e lo prese a proteggere qual simbolo della sua vanità regale.

90. Giunone vie più sdeguata contro Io la consegnò alle Furie (232), e la fece tormentare da un assillo che di continuo la pungeva ; sicchè la sventurata principessa n’ebbe tanto travaglio che fuggendo passò il mare a nuoto ;25 e dopo aver percorsa tutta la terra si fermò sulle sponde del Nilo, ove Giove le rese la primiera sua forma. Quivi partorì Epaso, e gli Egiziani l’hanno adorata sotto il nome d’Iside, sorella e moglie d’Osiride (696).

91. Quindi la repudiata moglie di Giove non ebbe più ritegno alle vendette, alla gelosia, all’orgoglio. È noto come Troja pagasse cara la preferenza che il pastore Paride (597) concesse a Venere (170) nel giudizio della bellezza. Si vendicò d’Europa (74, 483) prediletta a Giove, financo sui discendenti del suo fratello Cadmo (482), poichè Melicerta (449), Atteone (138) e Penteo (155) re di Tebe perirono miseramente ; la figliuola Semele (147, 148) restò, per sua malizia, incenerita da Giove ; e fu esposto Ercote (364) a grandi rischi.

{p. 56}92. Giunone devastò l’isola d’Egina con una spaventosa pestilenza che fece perire tutti gli abitanti, per vendicarsi della protezione di Giove verso la figlia d’Asopo regina di quell’isola. Eaco, (229) figliuolo di questa regina e di Giove, pregò il padre perchè ripopolasse il suo regno ; ed egli fece scaturir fuori da una vecchia querce della dodonea foresta una quantità prodigiosa di formiche, le quali presero tosto figura umana. Da ciò possiamo vedere come fino dai primi tempi fosse opinione che la fatica e l’industria valgano più di tutto a ripopolare i paesi devastati. I nuovi abitanti d’Egina chiamati Mirmidoni, che in greco significa formiche, accompagnarono Achille (536) all’assedio di Troia. — E guai a chi avesse offeso la vanità di Giunone ! Piga, piccola regina dei Pigmei che ardì paragonarsele nella bellezza, fu cangiata in gru ; e le figlie di Preto rè d’Argo (462), Lisippa, Ifinoe ed Ifianasse, per essersi vantate belle quanto Giunone, furono assalite da tale impeto di frenesia, che andavano errando furiose in mezzo alle compagne dandosi orribili cozzi, e credendosi vitelle. Melampo restituì loro la ragione con un’acqua mescolata d’elleboro ; ed in premio di questa cura mirabile ebbe la mano d’Ifianasse, con una parte degli stati di Preto.

93. Iride figlia di Taumante, che di là cangia sovente contrade, dice Dante nel Purg. c. xxi, perchè l’arcobaleno si mostra ora in un luogo ora in un altro, fu la messaggera di Giunone ; l’ambiziosa regina degli Dei non volle esser da menò del-marito, il quale aveva per suo araldo Mercurio (160). Giunone amò tanto questa sua confidente, saggia e docile giovinetta, dalla quale riceveva sempre buone nuove, che per ricompensa le regalò una splendida veste di tre colori, e la pose in cielo ; e noi la vediamo bellissima nell’arcobaleno apportatore di gioja sopra la terra. Così spiegarono gli antichi il mirabile effetto dei raggi del sole refratli a traverso le nubi ancora pregne di pioggia dopo il temporale. Ora un prisma di cristallo nelle mani di una {p. 57}fanciulla, o pochi sorsi d’acqua spruzzati in aria voltando le spalle al sole, possono farci apparire a nostro talento la vezzosa messaggera di Giunone.

94. Giunone più spesso è rappresentata sopra un carro tirato da due pavoni, con lo scettro in mano, e la fronte coronata di gigli e di rose. I pittori le pongon sempre a’piedi un pavone, e la cingon talora dell’arcobaleno, emblema d’Iride.

95. In ogni parte di Grecia e d’Italia erano templi a questa Dea consacrati ; ma con maggior culto l’onoravano ad Argo, a Samo ed a Cartagine. Nella prima di queste città si celebravano le sue feste col sacrifizio di un’ecatombe, {p. 58}vale a dire di cento bovi ; e presso al suo tempio scorreva un fonte dotato della prerogativa di far tornare la giovinezza. Credevano che la Dea una volta l’anno vi si bagnasse. Le feste, che a lei come Lucina o Illitia (protettrice dei parti) si celebravano a Roma, eran dette Lupercali, a somiglianza di quelle del dio Pane (294). Lucina è la figura di una matrona che ha nella destra una tazza e una lancia nella sinistra ; oppure comparisce assisa con un bambino fasciato ed un giglio. Qualche volta aveva sulla fronte una corona di dittamo, perchè la superstizione credeva che questa pianta procurasse alle donne un parto pronto e felice. Secondo alcuni poeti Lucina è la stessa che Diana o la Luna (137). Anche il papavero e la melagrana venivano offerti a Giunone dai sacerdoti ; e le immolavano più comunemente un’agnella. Fu adorata anche in Egitto sotto la forma di una vacca o di una donna con le corna in capo ; ma cosi gli Egiziani la confondevano con la dea Iside (690, 691 ec.)

Apollo. §

96. Giove (63), abbandonata Giunone (85) per unirsi a Latona (97) figlia del titano Ceo, n’ebbe Apollo e Diana (137).

97. Prima che Apollo e Diana nascessero, la gelosa moglie di Giove mosse contro la loro madre il serpente Pitone, nato dalla terra26 (pytho, imputridisco, gr.), affinchè la misera ne fosse perseguitata senza riposo ; e la terra aveva promesso alla regina dei Numi di non dare asilo alla sua rivale. Infatti Latona era quasi nelle fauci dell’orrendo mostro, allorchè Nettuno, (185) impietosito dal tristo caso, fece apparire nel mare Egeo l’isola di Delo,27 e Latona {p. 59}trasformata in quaglia da Giove, si rifugiò in quell’isola, e vi partorì Apollo (96) e Diana (137). Il primo ebbe il soprannome di Delio dal luogo della sua nascita.

Certo non si scotea si forte Delo
Pria che Latona in lei facesse ’l nido ;
A partorir li due occhi del cielo.
Dante, Purg., c. XX.

98. Un dì Latona nel fuggire la persecuzione di Giunone attraversava la Licia, e certi contadini, non istruiti dall’esempio di quelli che offeser Cerere (55), ebbero la crudeltà di negarle un po’d’acqua ; ed essa li puni col solito gastigo di convertirli in rane.

99. Appena che Apollo fu in età da far uso delle sue forze, consacrò la prima prova di valore alla madre per vendicarla del serpente Pitone che l’aveva tormentata si crudelmente, e che devastava i campi della Tessaglia. Lo assalì, lo trafisse con le sue frecce divine, e lo uccise ; e la pelle del mostro servì poi a ricoprire il tripode sul quale sedeva la Pitia o Pitonessa (122) per dare gli oracoli. Indi furono istituiti da Teseo i giuochi Pitii per rammentare questa prova di filiale affetto (672).

100. Ma la vittoria gli fu amareggiata dalla morte del figliuolo Esculapio (289), il quale aveva fatto molti progressi nell’arte della chirurgia e della medicina imparata dal padre e dal Centauro Chirone (430, 536), e n’era considerato quale Dio. Infatti aveva fin reso la vita ad Ippolito (432) figlio di Teseo (402) che era morto per cagione dei mostri marini ; ma Giove, reputando questa risurrezione quale oltraggio alla divina potenza, e istigato da Plutone {p. 60}(213), che malvolentieri vedeva ritorsi da Esculapio i suoi morti, fulminò il medico temerario che troppo si vantava delle sue prodigiose guarigioni.

101. Il dolore di Apollo divenne cieca disperazione, e non potendo pigliarne vendetta sullo stesso Giove, uccise a colpi di strali i Ciclopi (272) che avevano fabbricato la folgore ; laonde Giove, per punirlo di tanto ardire, lo scacciò dal cielo, e lo privò della divinità per molti anni.

102. Allora Apollo, per procacciarsi la sussistenza, si pose ai servigj di Admeto re di Tessaglia, pasturando gli armenti, e fin d’allora fu onorato quale Dio dei pastori. Soggiornando poi in quelle campagne inventò la lira ; e per essere utile agli abitanti, si studiò di farne più miti i costumi con le dolcezze della musica, simbolo della persuasione operata dall’eloquenza.

103. La ninfa Dafne, seguace di Diana e figliuola del fiume Peneo, fu incontrata all’improvviso da Apollo nel tempo del suo esilio sopra la terra, e svegliò in lui ardentissimo affetto. Ma ella, non conoscendo il Nume, timida e pudibonda si pose a fuggirlo con tanta precipitazione, che suo padre, per meglio nasconderla, sulle proprie sponde la trasformò in alloro. Apollo, afflitto da questa avventura, staccò un ramo dall’albero, se ne formò una ghirlanda (che Dante chiama la fronda Peneia), e volle che il lauro in memoria di un amor puro ed ardente gli fosse sacro e divenisse nobile ricompensa di poeti, d’artisti e di guerrieri. Il significato del vocabolo è il fondamento di questa favola, poichè Dafne in greco vuol dir lauro. I poeti attribuivano due particolari virtù a questa pianta : l’una di preservare dalla folgore ; l’altra di far vedere la verità in sogno a coloro che ne mettevano alcune foglie sotto le orecchie.

104. Fu grande amico di Apollo il giovine Giacinto, figlio di Amicla e di Diomede ; e mentre un giorno giocavano insieme alla palla, Zeffiro, per gelosia d’amicizia, fece {p. 61}stornare la palla ribattuta da Apollo, in modo che Giacinto ne restò colpito ed ucciso. Lo Dio, sventurato anche nell’amicizia, trasformò l’estinto giovinetto in quel fiore che ne porta il nome. Forse per questo i giacinti adornano con tanta mestizia la tomba delle tenere vittime della morte.

105. I genitori di Giacinto si posero ad inseguire Apollo per vendicar su lui la morte del figliuolo, e lo ridussero a ricovrarsi nella Troade, ove s’imbattè in Nettuno (185), esule anch’egli dal cielo in pena d’una cospirazione ordita con altri Dei contro Giove.

106. Allora ambedue chiesero asilo a Laomedonte, figliuolo d’Ilio e padre di Priamo, quando appunto faceva costruire la città di Troia ; e venuti a patti con lui, s’allogarono per fabbricargli le mura. Ma condotta a fine la costruzione, Laomedonte negò loro la pattuita mercede, ed essi crucciatine, fermarono di vendicarsi. Nettuno inondò la nuova città, e Apollo fece devastare dalla peste il paese.

107. Laomedonte cercò rimedio a tanti mali, e consultò l’oracolo, che gli rispose di dover placare Apollo e Nettuno, esponendo ogni anno sul lido una giovanetta per esservi divorata dai mostri marini.

108. Dovevano estrarre a sorte la vittima ; un anno uscì dall’urna il nome della stessa Esione (518) figliuola del re, e l’infelice principessa era già stata incatenata sopra uno scoglio, quando Ercole (364), approdatovi con gli Argonauti (452), giunse in tempo a salvarla uccidendo il mostro.

109. Laomedonte aveva promesso in dono al liberatore della sua figlia certi destrieri invincibili e tanto snelli che correvan sull’acqua ; ma dopo la vittoria negò ad Ercole il meritato premio : laonde l’eroe, pieno di giusto sdegno, assaltò la città, uccise il re tante volte spergiuro, ne fece prigioniero il figliuolo Priamo (587), che poi fu riscattato dai Troiani, e maritò Esione a Telamone re di Salamina, uno degli Argonauti.

{p. 62}110. Finalmente il lungo esilio e le sventure d’Apollo placaron Giove, che gli rese la divinità con tutti i suoi privilegj, e lo destinò a diffondere la luce sull’universo. Per tale ufficio è chiamato Sole, Febo, o padre del giorno ;

Lo ministro maggior della natura,
Che del valor del cielo il mondo imprenta,
E col suo lume il tempo ne misura,
(Dante, Parai., c. X.)

apparisce guidando il carro del sole tratto da quattro focosi cavalli, chiamati Etone (aitho, io ardo, gr.) Piroo (pyr, fuoco, gr.), Eoo (Eòs, l’Aurora, gr.) e Flegone (phégein, infiammare, gr.)

111. Secondo la favola Apollo ebbe parecchi figli, ed i più celebri sono l’Aurora, Fetonte, le Eliadi e Lino.

112. L’Aurora sposò Titone, figlio di Laomedonte re di Troia, e gli ottenne da Giove l’immortalità, ma non pensò ad implorargli anche il privilegio d’una perpetua giovinezza ; sicchè Titone, riducendosi ad essere oppresso da interminabile decrepitezza, desiderò ed ottenne di trasformarsi in cicala.

113. Dal matrimonio dell’Aurora con Titone nacque Memnone (Memnésthai, rammentarsi, gr.), re d’Etiopia, il quale militò con Priamo (587) nella guerra di Troia, e vi rimase ucciso da Achille (536). Questa morte riescì dolorosa oltremodo all’Aurora, e le eterne lacrime dell’afflitta madre son quelle, secondo la favola, che producono la rugiada mattutina.

114. Dal rogo di Memnone volaron fuori gli uccelli memnonidi, i quali si separarono in due branchi, e si combatterono con tanto furore ed ostinazione, da cader morti accanto al rogo a guisa di vittime immolate alle ceneri dell’estinto.

115. Gli Egiziani alzarono a Memnone una statua nella città di Tebe ; e credesi che quando questa statua era {p. 63}investita dai primi raggi del sole di levante, ossia quando l’Aurora s’imbiancava al balzo d’Orïente (Dante, Purg. c. ix.), mandasse fuori alcuni suoni armoniosi, e che all’incontro facesse udire un lugubre gemito quando il sole andava ad illuminare l’altro emisfero. Così pareva che si rallegrasse {p. 64}del ritorno dell’Aurora, e s’addolorasse alla sua partenza.

116. Il secondo marito dell’Aurora fu Cefalo re di Tessaglia che prima era stato sposo di Procri figlia d’Eretteo re d’Atene. Questo Cefalo andava di continuo a caccia ; e Procri, presa da gelosia, volle seguirlo occultamente e nascondersi in una folta macchia per ispiare i suoi passi. Cefalo, [ILLISIBLE]ssato dalla stanchezza e dal caldo, andò per caso a riposarsi sotto un albero vicino, e cominciò ad implorare il refrigerio dello zeffiro, esclamando : Aura veni, aura veni ! ossia, spira, Zeffiro, spira ! La moglie, non bene intesa l’invocazione, e non so che sospettando, per volersi maggiormente accostare smosse il cespuglio. Cefalo si credè di essere insidiato da una belva nascosta in quelle fronde, vi lanciò il suo giavellotto, e ferì mortalmente la moglie. E’ la riconobbe alle grida, e se la vide spirare nelle braccia rimproverando a sè stessa gl’ingiusti sospetti. Cefalo per disperazione si ferì con la medesima arme, e fu cangiato con Procri nella stella mattutina che precede l’Aurora.

117. Gli antichi rappresentavano l’Aurora con la veste di color rancio, con una face in mano, in sull’uscire da un palazzo vermiglio, assisa sopra un carro color di fuoco. Omero la descrive con un gran velo dato alle spalle per significare che l’oscurità si dissipa innanzi a lei, mentre con le mani di rose apre le porte del giorno. Talvolta è rappresentata sotto le forme di giovinetta ninfa, incoronata di fiori e sopra un carro tratto dal Pegaseo (124), perch’ella è amica dei poeti.

E quale, annunziatrice degli albori,
L’aura di maggio muovesi, ed olezza,
Tutta impregnata dall’erba e da’fiori….
Dante, Purg., c. XXIV.

Annibal Caro, nel suggerire al pittore Taddeo Zuccheri le invenzioni per dipingere una camera nel celebre {p. 65}palazzo di Caprarola appartenente alla famiglia Farnese di Roma, descrive così con molta leggiadria l’Aurora. « Facciasi dunque una fanciulla di quella bellezza che i poeti s’ingegnano di esprimer con parole, componendola di rose, d’oro, di porpora, di rugiada, di simili vaghezze, e questo quanto ai colori e alla carnagione. Quanto all’abito, componendone pur di molti uno che paia più appropriato, s’ha da considerare che ella, come ha tre stati e tre colori distinti, così ha tre nomi, alba, vermiglia, e rancia. Per questo le farei una veste fino alla cintura, candida, sottile, e come trasparente. Dalla cintura fino alle ginocchia, una sopravvesta di scarlatto con certi trinci e groppi che imitassero quei suoi riverberi nelle nugole, quando è vermiglia. Dalle ginocchia in giù fino ai piedi, di color d’oro, per rappresentarla quando è rancia. E così la veste, come la sopravveste, siano scosse dal vento e facciano pieghe e svolazzi. Le braccia vogliono essere ignude, e d’incarnagione pur di rose. Negli omeri le si facciano l’ali di vari colori ; in testa una corona di rose ; nelle mani le si ponga una lampada o una facella accesa, ovvero le si mandi avanti un Amore che porti una face, e un altro dopo, che con un’altra svegli Titone. Sia posta a sedere in una sedia indorata sopra un carro simile tirato o da un Pegaseo alato, o da due cavalli, chè nell’un modo o nell’altro si dipinge. I colori dei cavalli sieno, dell’uno splendente in bianco, dell’altro splendente in rosso, per denotarli secondo il nome che Omero dà loro di Lampo e di Fetonte. Facciasi sorgere da una marina tranquilla, che mostri d’esser crespa, luminosa e brillante. » (Vasari, vita di Taddeo Zucchero.)

118. Fetonte (phaétho, io brillo, gr.) figliuolo d’Apollo e della nereide Climene figlia dell’Oceano e creduta madre d’Omero, soleva per effetto di stolto orgoglio vantarsi con tutti e continuamente de’ suoi celesti natali ; quasichè l’avere {p. 66}Apollo per padre e Giove per avo fosse merito suo, e tenesse luogo di virtù e di sapienza. Un giorno venne a contesa di natali con Epafo (90), figliuol di Giove, e con altri suoi folli compagni ; e vantando, secondo il solito, l’alta sua origine, gli fu contradetta da tutti. Di che andato a lagnarsi col padre, gli chiese in grazia di condurre un giorno il carro del Sole per attestare così la propria nobiltà vilipesa ; ed Apollo, benchè sulle prime ne lo dissuadesse, fu poi tanto debole da acconsentirvi. Allora i cavalli, accortisi di esser guidati da mano inesperta, deviano il corso ; ed ora salendo troppo alto per le vie del cielo fanno temere lassù inevitabile incendio, ora accostandosi soverchiamente alla terra prosciugano i fiumi e inaridiscono le campagne.

119. La terra, adusta fin nelle viscere, alza i suoi gemiti a Giove (63), ed egli, per impedire l’ultima ruina dell’universo, scagliò la folgore contro il figlio di Apollo, e lo precipitò nell’Eridano, fiume d’Italia, oggi chiamato Po. Così « i Greci primitivi ancor barbari e memori forse della catastrofe atlantica (69), avuta notizia di consimile incendio nel littorale d’Italia, immaginarono una caduta del sole, il quale ad essi pareya che tramontasse in Italia posta all’occidente di Grecia. Crederono forse che l’astro del giorno prima di giungere al prefisso termine del suo corso fosse caduto in quel suolo che era ingombrato di fiamme. Ma comecchè materiali e grossolani, non potevano attribuire al rettore del sole un sì gran fallo ; un Dio non erra. S’avvisarono adunque con quella rozza acutezza che è propria dei barbari e dei fanciulli che Febo n’avesse ceduto il reggimento al suo figliuolo Fetonte, il quale per l’imperita età mal resse il commesso freno. » (Mario Pagano.) — Questa favola poi è opportuna lezione a quei presuntuosi, i quali vantando la grandezza degli avi senza saperne imitare le gesta, si empiono di vano orgoglio, e periscono miseramente.

120. Le Eliadi, figliuole di Apollo e di Climene e {p. 67}sorelle di Fetonte, si afflissero tanto della sua morte, che per quattro mesi lo piansero sulle sponde dell’Eridano, e gli Dei le trasfermarono in pioppi, e le loro lacrime in gocce d’ambra. Cigno poi

…. dell’amor di Fetonte acceso,
Come si dice, mentre che piangendo
Stava la morte sua, mentre ch’all’ombra
Delle Pioppe, che pria gli eran sorelle,
Sfogava colla musa il suo dolore,
Fatto cantando già canuto e veglio
In augel si converse, e con la voce,
E con l’ali da terra al cielo alzossi.
Eneide, lib. X, trad. del Caro.

Gli antichi credevano che il cigno, per Io più taciturno, all’avvicinarsi della morte alzasse un canto melanconico e pieno d’armoniosa dolcezza. L’affettuoso tratto di amicizia ch’ei ricorda, questa credenza del suo dolce cantare, la candidezza delle penne, i miti costumi ne fecero un animale caro ai poeti ; e da essi ebbe culto, quale uccello sacro ad Apollo, alle Muse ; indi i poeti stessi erano trasformati ed onorati nei cigni. Ugo Foscolo nel carme le Grazie dedica a questo simbolo della beltà, che veleggia con pure ali di neve, i seguenti bei versi :

A quanti alati28
Godon l’erbe del par, l’acre ed i laghi,
Amabil sire é il cigno ; e coll’impero
Modesto delle grazie i suoi vassalli
Regge ; ed agli altri volator sorride,
E lieto la superba aquila ammira.
Sovra l’omero suo guizzan securi
Gli argentei pesci, ed ospite leale29
{p. 68}Il vagheggiano s’ei visita all’alba
Le lor ime correnti, desioso
Di più freschi lavacri, onde rifulga
Sovra le piume sue nitido il sole.

121. Lino, figliuolo d’Apollo e di Tersicore, (275) ha fama di avere inventato i versi lirici, e fu quegli che insegnò a sonare la lira ad Orfeo (469) e ad Ercole (364) ; il quale Ercole, se volessimo credere alla favola, offeso da una riprensione troppo severa, avrebbe con la sua lira spezzato il capo al maestro.

122. Apollo pronunziava i suoi oracoli (667) in Delo, in Pataro, in Claro, in Tenedo, in Cirra, ma soprattutto a Delfo30 in un magnifico tempio, mediante una sacerdotessa chiamata Pitia o Pitonessa (V. Sibille, § 665) che incoronata di lauro riferiva i responsi della delfica Deità, stando a sedere sopra uno sgabello a tre gambe, coperto con la pelle del serpente Pitone (97), e indicato col nome di Tripode o Cortina. Nel tempio di Delfo i giovinetti dedicavano ad Apollo la loro chioma. Era molto venerato anche a Cirra città della Focide, a piè del Parnaso. Aveva un altro bel tempio a Delo dov’era nato, e dove Teseo (402 e seg.) stabilì i giuochi Pitii ; ed uno sul monte Soratte ove i suoi sacerdoti camminavano a piedi nudi sui carboni accesi. — Il tripode della Sibilla, tutto d’oro massiccio, era stato trovato nel mare da alcuni pescatori. Costoro, dopo molte contese intorno a chi dovesse possedere la ricca preda, consultaron {p. 69}l’oracolo, il quale ordinò loro d’offrire il treppiede all’uomo più savio di tutta la Grecia. Allora lo recarono al filosofo Talete, il quale, oltre al sapere la geometria, la fisica e l’astronomia, studiava profondamente la morale, e soleva dire essere più difficile d’ogni cosa il conoscer sè stesso. Ma Talete mandò il treppiede a Biante ch’ei teneva per più saggio di lui ; ed infatti Biante era proprio un’arca di scienze e di virtù. Nel tempo che i nemici pigliavano d’assalto Priene sua patria, fu stimolato a porre in salvo i suoi averi ed i suoi scritti, ed egli partendo a mani vuote rispose, io porto con me ogni cosa31. Forse questa risposta poteva esser tacciata di presunzione ; ma vero è che Biante ebbe la modestia d’inviare il treppiede a Pittaco, che lo spedì a Cleobulo, e questi a Periandro, tutti filosofi celebri per saviezza e per dottrina. Periandro offerse il treppiede a Solone, il quale riponeva la vera ricchezza nella virtù, solo tesoro cui nè tempo nè fortuna possono far perire. Laonde anche Solone ricusò il ricco dono, inviandolo a Chilone che faceva consistere tutta la filosofia nel contentarsi del necessario, dicendo : bando al superfluo. Dopo che il tripode fu passato così dalle mani dei sette savi, tornò a Talete, che lo depositò nel tempio d’Apollo consacrandolo al servigio della Sibilla.

123. Apollo dette a’Greci la prima cognizione delle scienze ; e l’eloquenza e la musica da lui professate o inventate impressero nel loro animo i precetti della morale. Quindi lo adorarono particolarmente quale Dio della poesia, della musica e delle belle arti. Fu maestro delle Muse (274) con le quali abitava il Parnaso, l’Elicona in Beozia, ed il Pindo. Il Parnaso ha anche il nome di monte sacro, e sacra è pur detta la valle sottoposta. In essa scorre il fiume Permesso che nasce sul monte Elicona dalle acque della ninfa Castalia trasformata in fonte da Apollo, e da quelle dell’Ippocrene (hippos, cavallo, kréne, fonte) che {p. 70}scende dall’Elicona, e che il cavallo Pegaseo (124) fece con un calcio scaturir dalla terra. Alle falde dell’Elicona v’era anche la tomba d’Orfeo (469).

124. Pegaso o Pegaseo era un cavallo alato, e nacque dal sangue di Medusa (357), allorchè Perseo (353) recise il capo a questa Gorgone. Suol dirsi che Apollo e le Muse consentono a’veri poeti menare a’lor servigi il Pegaseo, simbolo del genio.

125. Un satiro di Frigia chiamato Marsia, che reputasi inventore del flauto, ebbe la temerità di sfidare Apollo nella eccellenza della musica, a patto che il vinto restasse a discrezione del vincitore ; e furon chiamati a giudicare i Nicii. Il Nume superò l’emulo col suono della lira e col canto, benchè gli fosse stata contesa lungamente la palma. Tuttavia Marsia, quasichè non volesse riconoscere la sua inferiorità, si pose a dileggiare Apollo ; ed ei, legatolo ad un albero, lo trasse vivo dalla vagina delle membra sue. (Dante, Parad. c. i.). Così il poveretto pagò il fio della sua presunzione.

126. Anche Pane (294) aveva osato sfidare Apollo, e andava spacciando che i suoni del suo flauto superavano la lira ed il canto del Nume dell’armonia. Venuti infine a cimento, volle esserne giudice Mida re di Frigia, nel quale non si sapeva se fosse maggiore la ricchezza o l’ignoranza. Questa infatti lo indusse a decretar la vittoria a Pane suo favorito ; ma Apollo volle punirlo di tale parzialità facendogli spuntare le orecchie d’asino, destinate a quei pedanti che presumono poter giudicare delle cose che non conoscono, ragionare di affetti che non sentono.

127. Mida si studiava di nascondere la propria deformità celando le orecchie asinine sotto un magnifico diadema. Nonostante il barbiere se ne accorse, e non ardiva farne parola ad altrui ; ma alla fine pesandogli troppo il segreto, corre in un luogo remoto, fa un buco in terra, e sdraiatosi sopra, dice sottovoce che il suo padrone ha le {p. 71}orecchie d’asino ; indi ricopre il buco e va via. Con l’andar del tempo crebbero in quel luogo alcune canne, le quali nell’esser mosse dal vento ripetevano le parole del barbiere : Mida ha le orecchie d’asino ; e così ammaestravano ognuno che l’ignoranza pur troppo si fa palese, comunque esser possa accompagnata dal potere e nascosta sotto lo splendore di ricchi arredi.

128. Quando Bacco (146) andò in Frigia, Sileno (150) che lo accompagnava si fermò a una fonte ove Mida aveva fatto porre uno spillo di buon vino per adescarlo. Infatti alcuni contadini vi trovarono Sileno ubriaco, e dopo averlo inghirlandato lo condussero a Mida che lo accolse con magnificenza regale. Bacco volendo ricompensarlo di sì bella ospitalità largita al suo balio, promisegli d’esaudire il primo desiderio ch’ei gli avesse manifestato. Il re di Frigia quasi che volesse far conoscere come bene gli si addicevano le note orecchie asinine, chiese ed ottenne il privilegio di convertire in oro tutto ciò ch’ei toccava ; ma presto ebbe a pentirsi della voglia avara, perchè gli stessi alimenti gli si mutavano in quel metallo, e ne fu presso a morir di fame. Ecco l’immagine dei sordidí avari che si lasciano mancar di tutto per accumular ricchezze.

129. Ma Bacco, mosso a compassione di tanta miseria,

E la miseria dell’avaro Mida,
Che segui alla sua dimanda ingorda,
Per la qual sempre convien che si rida,
Dante, Purg., c. XX.

lo consigliò a tuffarsi nel fiume Pattolo che irriga la Lidia. Mida obbedì, e perdette la singolare prerogativa, comunicandola alle acque del Pattolo che fin da quel tempo recarono sabbia d’oro. Potremmo riflettere su tal proposito che le ricchezze adoperate in utili imprese, come nel regolare il corso delle acque, nell’irrigare i campi, nel muovere macchine, sono sorgente di prosperità vera e {p. 72}durevole, mentrechè rinchiuse nello scrigno impoveriscono lo stesso possessore. Molte son poi le metamorfosi che la favola attribuisce ad Apollo.

130. Clizia, ninfa dell’Oceano, fu sacerdotessa di Apollo ; ma vedendosi preferita Leucotoe (la stessa che Ino) (449), ne concepì tanta gelosia da lasciarsi morire di fame. Il Nume la cangiò allora in girasole od elitropio, il qual fiore, per dimostrare l’affetto che Clizia avea per Apollo, dicesi vòlto sempre al disco solare, o più veramente fiorisce d’estate quando il sole è nel Tropico del Cancro.

131. Leucotoe era figlia di Orcano od Orcamo re di Persia ; ed Apollo invaghitosi della sua bellezza prese l’effigie della madre per indurla a sposarlo ; ma Orcano, avutone sentore da Clizia, celò in un sotterraneo la figliuola. Allora Apollo irrigando col néttare la terra che la copriva, ne fece spuntar subito l’albero dell’incenso.

132. Il giovine Ciparisso, amico d’Apollo, s’allevava con grande affetto un bel cervo ; quand’ecco che inavvertentemente lo uccide, e ne rimane sì addolorato da perdere a poco a poco la vita. Apollo, afflittone grandemente, volle eternare la memoria di quell’amico trasformandolo in cipresso, come suona il vocabolo di greca origine.

133. Coronide figlia di Flegias e madre d’Esculapio (289) fu anch’essa amata da Apollo ; ma poichè un corvo gli ebbe svelato ch’ella poco di lui si curava, tratto dal primo impeto dello sdegno, la trafisse con un dardo e la cangiò in cornacchia. Indi si pentì del subitaneo gastigo, e per far pagare al corvo il fio della delazione, gli ridusse nere le penne che prima eran bianche.

134. Solevano sacrificare sugli altari d’Apollo un toro bianco e un agnello, e far libazioni d’olio e di latte, queste in memoria del tempo nel quale fece il pastore, quelle perchè l’olivo, fedele al Dio del giorno, alligna bene in quei luoghi che sono ravvivati dalla sua presenza. Gl’inni più celebri che erano cantati in onor suo furon detti Peani o {p. 73}Peane, perchè ordinariamente cominciavano con queste due parole Io Paean per rammentare la sua vittoria sul mostro Pitone. Gli spettatori di quella tremenda lotta gli gridavano continuamente Io Paean, avanti ! colpisci ! oppure lancia i tuoi dardi ! e con l’andare del tempo, dopo ogni vittoria, questa esclamazione diventò grido di gioia. Il Corvo ed il Cigno (120) furon sacri ad Apollo, denotando colla differenza del colore, che a questo Nume era noto tutto ciò che soglion produrre sì i giorni che le notti. Quindi il cigno si riferiva anche alla tenera armonia con la quale supponevasi che questo volatile cantasse la vicina sua morte, quasi principio di felicità. Fu poi attribuito al corvo il naturale istinto di predire il futuro, ed il suo crocidare serviva spesso di prognostico. L’aquila che fissa nel sole l’audace suo sguardo, il gallo che ne celebra col canto mattutino il ritorno, e la cicala che festeggia infaticabilmente i bei giorni del suo impero, avevano anch’essi l’onore di essergli consacrati.

135. Gli emblemi di questo Dio diversificano secondo i personaggi ch’ei rappresenta. In Lesbo la sua statua teneva in mano un ramo di mirto. Ha talora un pomo come premio dei giuochi pitii ; e quando è adorato come sole impugna un gallo, ha la raggiera e percorre lo Zodiaco (676) sopra un carro tirato da quattro cavalli bianchi. A Lebadia nella Beozia, dov’era il bellissimo tempio fabbricatogli da Trofonio, i popoli e i re andavano frequentemente a consultare il suo oracolo, recando magnifici donativi. I Rodiani che ambivano di esser chiamati figli del Sole, gli aveano consacrato uno smisurato colosso, il quale contavasi tra le sette meraviglie del mondo. Era questa una statua di bronzo alta settanta braccia, che posando i piedi sopra due rôcche distanti oltre venticinque braccia l’una dall’altra, sovrastava all’entrata del porto di Rodi. Rappresentava il dio Apollo con una radiante corona in testa, armato d’arco e di freccia, ed alzando con la destra mano un bacino, nel {p. 74}quale di notte tenevasi accesa la fiamma che serviva di fanale ai marinari. L’interno del colosso era vuoto dalla parte destra per poter salire al fanale. Un terremoto lo fece cadere non molto tempo dopo la sua erezione, che ebbe luogo 700 anni av. G. C., e rimase in terra dall’anno 222 av. G. C. tinchè l’imperator Vespasiano lo fece rimetter su 69 anni dopo G. C. Ma nel 667 Rodi era caduta in mano dei Saraceni, e Moavia loro re ordinò d’atterrare la statua per venderla ad un ebreo, il quale ne fece trasportare i pezzi sopra 900 cammelli. Un uomo poteva appena abbracciare il dito pollice del colosso, e un bastimento anche dei più grandi gli passava tra le gambe a vele spiegate. Le altre così dette maraviglie del mondo furono : Il tempio di Diana in Efeso (143) ; la statua di Giove-Olimpico (81) scolpita da Fidia ; i giardini e le mura di Babilonia costruiti da Semiramide ; il palazzo di Ciro che dicono avesse le pietre cementate con l’oro ; le famose Piramidi di Egitto, che si crederono destinate per tomba ai Re di quel fertile paese ; e finalmente la tomba che Artemisia alzò al re Mausolo suo sposo. Questo monumento prese il nome dal principe del quale conteneva le ceneri ; e ancora diamo lo stesso nome ai sepolcrali monumenti. Era circondato da 36 colonne, aveva 200 braccia di circuito, 70 di altezza, e sorgeva sulla sua cima un bel carro tirato da quattro cavalli. Le statue e i bassi rilievi di questo monumento erano capi-lavori dei celebri scultori Scopa, Timoteo e Leucarete. Alcuni, invece del palazzo di Ciro, pongono tra le meraviglie il Faro d’Alessandria in Egitto, costruito da Sostrate architetto di Gnido sotto il regno di Tolomeo Filadelfo.

136. In generale poi i monumenti antichi rappresentano Apollo in sembianza di un bel giovine imberbe, con lunga e bionda chioma inghirlandata d’alloro ; gli stanno ai piedi gli emblemi delle arti, ed ha nella destra l’arco e i dardi, e nella sinistra quell’aurea lira di sette corde, emblema dei sette pianeti allor noti e dei quali esso {p. 75}regolava la celeste armonia ; quella stessa lira onde traeva i dotti concenti che facevano stupire uomini e Dei. Talora av[ILLISIBLE] a un elmo, come protettore degli uomini, ed era in atto di far donativi alle Grazie (175) che animano il genio e le belle arti. Roma possiede la più celebre statua di questo Dio, chiamata l’Apollo di Belvedere, ed è una meraviglia dell’arte.

Diana. §

137. Diana era figlia di Giove (63) e di Latona (97), e sorella d’Apollo (96). Forse questo suo nome principale deriva da dios che in greco vuol dire Giove.

138. In cielo fu chiamata Luna o Febea dall’aver Febo {p. 76}per fratello, Diana sulla terra, Ecate (234, 2°) nell’inferno ; ma con questi diversi nomi era una sola divinità, e i poeti la chiamavano triforme Dea e triplice Ecate. Il nome più comune poi fu quello di casta Diana, perchè aveva in gran pregio la verecondia, e cangiò in cervo e fece inseguire dai suoi cani il cacciatore Atteone (aktè, sponda, gr.), che ebbe la temeraria curiosità di guardarla mentr’ella si bagnava con le sue ninfe.

E Cinzia sempre fu alle Grazie amica,
E ognor con esse in tutela al core
Delle ingenue fanciulle, ed agli infanti,
Foscolo. Le Grazie.

Ebbe soprannome di Delia dall’isola di Delo ove nacque ; quello di Lucina perchè invocata anch’ella nei parti, e perciò confusa con Giunone ; ed i Latini la dissero Genitalis od Illitia dal greco, perchè al pari degli Efesj la onorarono quale mistica immagine della genitrice Natura.

139. Tuttavia alcuni mitologi narrano che Diana, considerata qual divinità celeste, ossia la Luna o Febea, sposasse il pastore Endimione e n’avesse cinquanta figliuoli ; ma dicono altrimenti che Giove, trovato questo pastore nelle stanze di Giunone, l’aveva condannato a dormire eternamente senza invecchiare. Endimione dormiva in [ILLISIBLE] valle spesso illuminata dalla Luna, ed ecco l’origine de favola delle nozze di Diana e d’Endimione. Sarebbe fac spiegar tutto ciò supponendo che Endimione fosse un abi astronomo che passava la sue notti sulla cima delle mo[ILLISIBLE]tagne a misurare ed a studiare il corso degli astri. No[ILLISIBLE] invecchiava, perchè l’ingegno fa immortali coloro che [ILLISIBLE] adoperano in cose lodate.

140. È notabile la severità che Diana usava con le sue seguaci. Calisto era la ninfa prediletta di questa Dea, e le aveva promesso di vivere continuamente nubile con lei ; ma ad insinuazione di Giove, che le apparve sotto le {p. 77}effigie della stessa Diana, si maritò, e divenne madre di Arcade (75). Allora Diana, conosciuta la poca fede di Calisto, la cacciò dal suo cospetto, e la mutò in orsa ; ma Giove la collocò in cielo insieme con Arcade, ove ambedue formano le costellazioni della grande e della piccola orsa.

141. Diana poi fu molto più crudele contro la sventurata Niobe (629) che in onta a lei s’era vantata della sua bella e numerosa prole, imperocchè le fece perire sotto gli occhi tutti i figliuoli.

142. Diana in terra s’era dedicata alla caccia ; e perciò l’adoravano quale Dea dei cacciatori ; e andava scorrendo i boschi e le selve, in compagnia di sessanta ninfe oceanine, armate come lei d’arco e di frecce.

143. In Efeso, città dell’Jonia nell’Asia minore, ebbe un celebre tempio annoverato, al pari del colosso di Rodi (135), fra le sette maraviglie del mondo. Questo edifizio lungo circa 210 braccia e largo 110, era sostenuto sopra cento ventisette colonne alte 30 braccia, erette da altrettanti re, nello spazio di duecento venti anni, e arricchito dei tesori di tutta l’Asia, con pitture, statue e bassorilievi che erano capolavori dei più celebri maestri. Le porte furon fatte di cipresso, tutto il resto di legno di cedro, e la statua di Diana fu gettata in oro. Erostrato diede fuoco a questo tempio nel dì che nacque Alessandro il grande, e mentre Diana, come credevano, assisteva in parto Olimpia madre di quel principe. Pare che Erostrato commettesse questo misfatto per fare immortale con l’infamia il suo nome. Gli Efesj decretarono, ma invano, che il nome di questo folle non fosse mai pronunziato. Quindi ricostruirono il tempio con eguale magnificenza ; ma fu poi saccheggiato da Nerone ; e gli Sciti lo arsero nuovamente verso l’anno 260 dopo G. C.

144. Erano offerte in sacrifizio a Diana le primizie della terra, i bovi, gli arieti e i cervi bianchi. Ma invocandola, qual Dea della notte e degl’incantesimi, sotto il nome {p. 78}di Ecate infernale (234, 2°), i viaggiatori le sacrificavano un cane nero per non aver cattivi incontri nelle tenebre. In più solenni occasioni le facevano anche un sacrifizio di cento bovi, chiamato Ecatombe, parola greca composta, che significa appunto cento buoi. Con l’aiuto di Ifigenia (527) sacerdotessa di questa Dea, Oreste (527) e Pilade (534) ne recarono in Italia il simulacro.

145. Sulla maggior parte delle antiche medaglie è vestita da caccia, in abito succinto, coi capelli annodati dietro, col turcasso in ispalla, un cane al fianco e l’arco in mano ; e i poeti la dipingono anche sopra un carro tirato da cerve o da cervi bianchi ; ma quando presiede all’astro notturno ha la testa ornata d’una mezza luna, e un branco d’amorini l’accompagna verso Endimione (139). Ed allora il suo carro è di madreperla :

Il lume
Che Cinzia versa placido dal carro
Di madreperla.
Foscolo. Le Grazie.

Anche qui ci varremo delle parole d’Annibal Caro (117, per offrire maggior numero d’immagini ai lettori. « La sua figura (della Luna) sarà d’una giovine d’anni circa diciotto, grande, d’aspetto virginale, simile ad Apollo, con le chiome lunghe, folte e crespe alquanto, o con uno di quei cappelli in capo, che si dicono acidari, largo di sotto, ed acuto e torto in cima, come il corno del Doge, con due ali verso la fronte, che pendano e cuoprano le orecchie, e fuori della testa con due cornette, come d’una luna crescente, o secondo Apuleio, con un tondo schiacciato, liscio, e risplendente a guisa di specchio in mezzo la fronte, che di qua e di là abbia alcuni serpenti, e sopra certe poche spighe, con una corona in capo o di dittamo, secondo i Greci, o di diversi fiori secondo Marziano, o di elicrisio secondo alcuni altri. La {p. 79}veste chi vuol che sia lunga fino ai piedi, chi corta fino Ile ginocchia, succinta sotto le mammelle e attraversata sotto l’ombilico alla ninfale, con un mantelletto in ispalla affibbiato sul destro muscolo, e con osattini in piede vagamente lavorati. Pausania alludendo. credo, a Diana, la fa vestita di pelle di cervo. Apuleio (pigliandola forse per Iside) le dà un abito di velo sottilissimo di varj colori, bianco, giallo e rosso, ed un’altra veste tutta nera, ma chiara e lucida, sparsa di molte stelle, con una luna in mezzo, e con un lembo intorno con ornamento di fiori e di frutti pendenti a guisa di fiocchi. Pigliate un di questi abiti qual meglio vi torna. Le braccia fate che siano ignude, con le loro maniche larghe ; con la destra tenga una face ardente, con la sinistra un arco allentato, il quale, secondo Claudiano, è di corno, e secondo Ovidio, d’oro. Fatelo come vi pare, ed attaccatele il turcasso agli omeri. Si trova in Pausania con due serpenti nella sinistra, ed in Apuleio con un vaso dorato col manico di serpe, il qual pare come gonfio di veleno, e col piede ornato di foglie di palma. Ma con questo credo che voglia significare pur Iside ; però mi risolvo che le facciate l’arco come di sopra. Cavalchi un carro tirato da cavalli, un nero, l’ altro bianco, o (se vi piacesse di variare) da un mulo, secondo Festo Pompeio, oda giovenchi, secondo Claudiano e Ausonio. E facendo giovenchi, vogliono avere le corna molto piccole, ed una macchia bianca sul destro fianco. » (Vasari. Vita di Taddeo Zucchero).

Bacco. §

146. Bacco era figlio di Giove (63) e di Semele, figlia di Cadmo (482) fondatore e re di Tebe.

147. Giunone (85) fu presa da fiera gelosia della {p. 80}predilezione di Giove per Semele, causa di tanti guai a’ Tebar

Nel tempo che Giunone era cruccciata
Per Semelè contra ’l sangue tebano.
Come mostrò già una ed altra fiata….
Dante, Inf., c. XXIX.

La sdegnata Dea apparve a Semele sotto le sembianze di Berœ sua nutrice, ed accendendo tutta la sua vanità, la istigò a chiedere a Giove ch’ei se le manifestasse in tutta la maestà della celeste gloria. Giove negò lungo tempo di compiacerla ; ma cedendo infine alle voglie importune della femmina vanagloriosa, le apparve circondato di folgori e di lampi.

148. Allora andò in fiamme il palazzo, e Semele, vittima della sua ambizione, perì nell’incendio, come sovente àccade che il fasto e la splendida protezione dei grandi sieno causa di rovina a chi stoltamente agogna e vagheg gia quelle cose vane ; ma Giove si tolse con sè il bambino del quale Semele era incinta, e lo custodì fino al momento della sua nascita ; e questo bambiuo era Bacco. Indi il Nume dette alla madre alto guiderdone in cielo facendola immortalmente beata :

Colta dall’ igneo telo
La chioma di Semèle alto cadea,
Ma lieta or vive in cielo
Al figlio, a Giove e alla tritonia Dea
Sovra ogni dir gradita.
Pindaro, Trad. del Borghi.

149. Dicono i più che Bacco fu allevato in vicinanza della città di Nisa (altri danno questo nome alla nutrice di Bacco) dove Mercurio lo recò in fasce alle figliuole d’Allante (359) ; e che dopo cresciuto, per gratitudine a Coloro che avevano avuto cura della sua infanzia, le cangiò in stelle chiamate Jadi. Ma quando fu in età da essere istruito, presero a educarlo le Muse (274) ed il vecchio Sileno (150), sicchè diventò in breve sublime poeta, dotto astronomo, egregio musico e sveltissimo danzatore.

{p. 81}150. Sileno, chiamato più comunemente il balio di Bacco, apparisce sempre immerso nell’ubriachezza, ora inforcalo sopra un asino, dove appena può reggersi, ora camminando barcollon barcolloni con l’ aiuto d’ un tirso, che è un bastone coronalo di pampani o d’ellera.

151. Bacco nella sua prima giovinezza girò tutta la terra e conquistò le Indie con un esercito d’ uomini e di donne che per armi avevano tirsi e tamburi ; indi si trasferì nell’ Egitto, ove insegnò agli uomini l’agricoltura, introdusse la coltivazione della vite, e fu adorato qual Dio del vino. Notammo già il suo valore nella guerra dei Giganti (68). Questi viaggi favolosi di Bacco si rassomigliano a quelli del dio Visnù e Vicnu delle Indie (722) e d’ Osiride (696, 697) egiziano ; laonde è probabile che sia sempre il medesimo Dio, variato nome. Altri vi riconoscono l’immagine del sole che si alza dalla parte dell’ Oriente dove è posta l’ India, e illumina successivamente co’ suoi raggi tutto l’universo.

152. Dopo il ritorno delle Indie sposò Arianna, figliuola di Minosse (228) re di Creta, che era stata abbandonata da Teseo (402), c le regalò una corona d’ oro ingemmata, capo d’opera di Vulcano (270). Morta questa principessa, la sua corona fu posta fra le costellazioni.

153. Le feste in onore di Bacco erano celebrate con grande strepito nelle città e nelle campagne dai Satiri (304) primi sacerdoti di Bacco, indi dalle Naiadi (317), dai Baccanti, dalle Tiadi e dalle Menadi, ed avevano il nome di Baccanali od Orgie. Prima furono istituite in Egitto, di dove quest’uso passò in Grecia ; e poi in Italia ; ma il senato romano, vedendo la sfrenata licenza che le accompagnava, le proscrisse per sempre l’anno 186 avanti l’èra cristiana. Quando poi i costumi peggiorarono sotto il governo assoluto e dissoluto degl’ Imperatori, allora furono ripristinate e celebrate anzi ogni mese con ogni eccesso di sregolatezze.

{p. 82}154. Le Baccanti o Menadi erano vestite con pelli di tigri o di pantere, e andavano correndo e urlando scarmigliate sulle colline con faci o tirsi (150) nel pugno, dietro alla statua di Bacco recata dai sacerdoti ; e di quando in quando la collocavano sotto l’ombra di una quercia o d’un fico, ed ivi le facevano i soliti sacrifizj :

………. le folli
Menadi, allor che lorde
Di mosto il viso balzan per li colli.
G.Parini.

155. Penteo, re di Tebe, volle abolire le feste di Bacco ; ma il culto per questo nume era così radicato, che le Baccanti furibonde aggredirono il principe e lo sbranarono.

156. Le Mineidi, ossia le figlie di Mineo re di Tebe, non fecero senno per tale esempio ; chè anzi ricusarono d’assistere alle feste di Bacco, e nel tempo che erano celebrate vollero per disprezzo continuare i loro lavori ; quand’ecco la casa empirsi a un tratto di coruscanti fuochi ed echeggiare d’ urla tremende, e la vendetta del Nume colpir le sacrileghe, che furono tutte trasformate in pipistrelli. Le vergini ateniesi offerivano a Bacco panieri pieni delle primizie della stagione ; e le feste di Bacco andavano sempre, come tante altre, a finire in banchetti. Ma dopo i banchetti, i sacerdoti avvinazzati, al suono di piferi e di cembali, ballavano sopra otri e vessiche pieni d’aria e unti di lardo o d’olio. Figuriamoci se potevano andare a tempo e star ritti ! Ogni sdrucciolone, ogni cascata erano accolti dagli scoppi di risa, dal suon di mano e dalle fischiate degli spettatori ; ma era dato un premio al ballerino che avesse saputo serbar l’equilibrio meglio degli altri. Questi risevoli giuochi passarono d’ Atene a Roma, dove le principali feste di Bacco furono anzi tratto celebrate tre volte l’anno : la prima nel mese d’agosto, ed {p. 83}appendevano allora sugli alberi vicini alle viti tante figurine di Bacco per custodire le uve ; la seconda nel mese di gennaio, quando erano recati a Roma i vini più squisiti d’ ogni parte d’ Italia ; e la terza, la più solenne, nel mese di febbraio ; dei quali Baccanali conserviamo anche noi la memoria nelle stravaganze del Carnevale. Spesso la divinità di Bacco ha inspirato i Poeti. È a tutti noto il bellissimo Ditirambo del Redi, intitolato Bacco in Toscana. Fra gli antichi, niuno forse meglio d’ Anacreonte greco seppe piacevolmente scherzare intorno a Bacco. Ecco una canzonetta piena di festività baccanale :

— Quando Bacco mi corre le vene,
Alle pene — alle cure do bando ;
Di dovizie allor mi pare
Agguagliare — il re di Lidia,
E men vo lietamente cantando.
Ghirlandetta al crin mi faccio
Intrecciata di fresch’ edere,
E riposatamente indi mi giaccio ;
E coll’ animo scarco e giocondo
Vo di sopra alle cose del mondo.
Altri adopri aste e corazze ;
Io guerreggio colle tazze.
O fanciul, dammi il bicchiere ;
Mesci, mesci di quel nèttare :
Io voglio, anzichè morto, ebro giacere.

157. Bacco è figurato comunemente con le corna, simbolo di forza e di potenza, e per rammentare ch’egli fu il primo ad aggiogare i bovi all’aratro. Ha sempre la corona di pampani o d’ellera, con la faccia di giovine ridente ed imberbe, essendochè l’uso moderato del vino mantiene la vivacità della giovinezza ; ed ha nell’ una mano i grappoli d’uva o la tazza, e nell’altra un tirso. Talora è assiso sopra un toro, e in tal modo si assomiglia molto al dio Mitra (707) dei Persiani ; tal altra è in un carro tirato da tigri o da pantere od anche da Centauri (430).

{p. 84}158. Era immolata a Bacco la gazza, per avvertire che il vino ci rende indiscretamente loquaci ; ed il capro perchè quest’animale è infesto ai germogli della vite. Tra gli animali favolosi eragli sacra la Fenice, e tra le piante l’ellera, cui s’ attribuisce la prerogativa di dissipare i vapori del vino mediante la sua naturale freschezza. Lungo due fiumi di Beozia, l’Ismeno e l’Asopo, andavano di notte correndo in folla e furia i Tebani, e invocando Bacco nei loro bisogni :

E quale Ismeno già vide ed Asopo
Lungo di sè di notte furia e calca
Pur che i Teban di Bacco avesser uopo….
Dante, Purg., c. XVIII.

{p. 85}159. Molti scrittori d’antiquaria suppongono che Bacco sia la stessa cosa che Noè, il quale piantò la vite, e insegnò agli uomini a fare il vino. Molti lo confondono con Nembrod, perchè i loro nomi in greco e in ebraico si rassomigliano ; ma tra Bacco e Mosè passa analogia tanto maggiore che renderebbe la loro identità più verosimile. Egli è dunque probabile che quanto la favola attribuisce a Bacco altro non sia che imitazione della storia di Mosè : Bacco e Mosè furono allevati nell’ Arabia ; ambedue furono conquistatori, legislatori e benefattori dei popoli conquistati. Bacco è rappresentato con due corna, Mose con due raggi sul capo. Il tirso di Bacco fece scorrere fonti di vino, e la verga di Mosè fece scaturire una sorgente d’acqua. Infine il primo, toccate col tirso le acque dell’Oronte e dell’Idaspe, gli attraversò a piedi asciutti ; il secondo fece altrettanto sul Mar Rosso. I quali paralleli attestano che se Mosè e Bacco non sono lo stesso uomo, furono almeno ambedue utili all’universo.32 Noi poi, serbando la dovuta fede e riverenza alle sacre carte, indichiamo questo parallelo a solo oggetto di ricordare una ipotesi degli eruditi. Anche Bacco ebbe più nomi ed in Grecia ed in Roma, tra i quali quelli di Libero, Dionisio, Leneo, Bromio, Iacco. Tioneo, Evio, Bassareo, ec.

Mercurio. §

160. Mercurio, figliuol di Giove e della ninfa Maja figlia d’Atlante, alla quale fu consacrato il mese di maggio, nacque in Arcadia sul monte Cillene ; fu il messaggero e l’interprete di Giove e degli altri Dei tanto in cielo che in terra, sì nel mare che nell’inferno ; dirigeva egli stesso le loro imprese, ed entrava a parte di tutte le loro brighe e degli affari relativi alla guerra e alla pace. Per essere {p. 86}più sollecito nell’eseguire gli ordini dei Numi aveva ali alla testa, ed ai piedi talari :

Ali son queste
Con penne d’oro, ond’ ei l’aria trattando,
Sostenuto da’ venti ovunque il corso
Volga, o sopra la terra o sopra ’l mare
Va per lo ciel rapidamente a volo.
Virgilio, Encide, lib. IV. Trad. del Caro.

161. Il caduceo tenuto in mano da Mercurio era una verga alata in cima e con due serpi avvoltele intorno. Si narra che un giorno avendo incontrato quei due animali che si battevano, li separò con la verga, ed essi vi rimasero avviticchiati ; quindi il caduceo fu simbolo della concordia e dell’astuzia, od anche della pace di cui molto si giova il commercio.

162. I poeti attribuiscono grandi virtù al caduceo. Con esso Mercurio ha possanza

Fin nell’ Inferno, onde richiama in vita

L’anime spente, onde le vive adduce

Nell’ imo abisso, e dà sonno e vigilia,

E vita e morte ; aduna e sparge i venti,

E trapassa le nabi. (Luogo citato.)

Nel tempo stesso il caduceo aveva la proprietà di ricongiungere tutto ciò che la collera aveva separato, nuovo simbolo dell’ eloquenza. La credenza in cui erano gli antichi che Mercurio dopo un certo numero di secoli riconducesse sulla terra le anime e le collocasse in nuovi corpi nasce dall’ aver ammesso la Metempsicosi, ossia il passaggio delle anime da un corpo morto in un corpo vivo. Cosi gli antichi credettero universalmente che le nostre anime, dopo aver lasciata la morta spoglia, trasmigrassero nel corpo di quegli esseri, che per le loro inclinazioni s’accostano più alla nostra indole. Gl’Indiani, i Persiani e tutti gli Orientali hanno ammessa la metempsicosi senza limiti, acconsentendo di credere che la loro anima passi {p. 87}dal corpo di un uomo in quello d’un animale, e da questo in un albero o in una pianta, perchè essi dicono che tutto ciò che vegeta vive, e tutto ciò che vive deve avere un’ anima. Il filosofo Pitagora propagò questa credenza in Italia ; ed era convinto d’aver già vissuto a tempo dell’ assedio di Troja nel corpo del guerriero Euforbo. In alcuni popoli dell’ India sussiste ancora la credenza della metempsicosi, e specialmente nella religione dei Bramini, i quali mantengono spedali per tutti gli animali malati, essendo persuasi che, soccorrendoli, porgono alcun sollievo forse ai loro parenti od ai loro amici. Questa falsa opinione potrebbe almeno essere utile ai progressi della veterinaria. Del resto, la nostra vers metempsicosi consiste nell’imitare le azioni dei valorosi e dei savi.

163. Mercurio sonava perfettamente il flauto, era logico esimio, ed aveva fama di padre dell’ eloquenza ; ed allora lo rappresentavano con una catena d’oro pendente dalla bocca a significare ch’ ei legava le menti e gli animi con la forza della persuasione.

164. Questo Nume presiedeva ancora al commercio, 33e vegliava all’osservanza della buona fede tra i mercatanti ; era figurato per lo più con una borsa nell’una mano, un ramo d’olivo e una clava nell’altra : il primo, simbolo della pace tanto opportuna al commercio ; la seconda, emblema di vigore e di virtù necessarj al buon esito della mercatura. Fece poi varie invenzioni utili alla società, e tra le altre, quella della palestra, incominciamento di ginnastica, la quale è utilissima a incivilire gli uomini ed a mantenerli valorosi ed onesti. Laonde Mercurio, interprete ed esecutore delle volontà degli Dei, eloquente per la musica e per la parola, industrioso, commerciante, educatore, segna, quale uomo, una bella epoca di perfezionamento sociale, e quale Dio era il più {p. 88}affaccendato di tutti, poichè aveva inoltre l’incarico di condurre all’inferno le anime degli estinti.

165. Ma pretendono che Mercurio fosse anche il Nume dei ladri, forse per avvertire gli uomini a starne guardinghi, non già per proteggere quel malvagi, tanto più che vigilava anche la sicurezza delle strade pubbliche. Fatto sta che a lui stesso attribuiscono molta abilità nel furto, poichè essendo ancora fanciullo rubò la faretra a Cupido (173), il tridente a Nettuno (185), le frecce ad Apollo (96), la spada a Marte (255), il cinto a Venere (170) e lo scettro a Giove (28) ; ma questa è una bizzarra allegoria della prontezza con la quale Mercurio seppe anche da giovinetto cattivarsi l’animo di tutti, e divenire rispettabile ed assennato quanto il vecchio Dio dei mari, eloquente al pari d’Apollo, valoroso al pardi Marte, amabile quanto Venere.

166. L’immaginazione fecondissima dei Greci fa parere più strana, ma non meno evidente l’allegoria con altri consimili fatti. Mercurio era sempre in fasce quando portò via i bovi ad Apollo, ed ebbe l’accortezza di farli camminare all’ indietro perchè le orme non lo scoprissero ; ma fu inutile ; il Nume conobbe l’audacia del fanciullo, e se ne mostrò sdegnato oltremodo. Siechè Mercurio, per calmarne la collera, gli regalò la lira, della quale era già reputato inventore. Questa lira fu formata col guscio d’una testuggine e con le corde di lino.

167. Un altro giorno Mercurio involò allo stesso Apollo la lira, il turcasso ed i greggi ch’ ei pasturava pel re Admeto (102). Batto pastore fu il solo testimone di questo audace furto, e Mercurio col regalo della vacca più bella lo indusse a tacere. Poi finse di ritirarsi, e tornando poco dopo sotto le sembianze di contadino gli offerse un bove e una vacca per farsi dire dove fosse il gregge che era stato portato via ; e Batto palesò subito il segreto, laonde Mercurio sdegnatosi di tanta venalità prima per {p. 89}nascondere il furto indi per tradire il segreto, lo mutò in pietra di paragone, la qual pietra è adoperata a fare esperienza della purezza dell’oro ; quasi volessero insegnarci che nello stesso modo che l’oro corrompe la fede e l’onestà dei mortali, così può essere termine di paragone per metterli a prova. Un’altra metamorfosi operata da Mercurio, ma non più in occasione di furti, vien rammentata da Dante nel c. XIV del Purg. a proposito dell’invidia : Io sono Aglauro che divenni sasso. Fu costei figliuola d’Eretteo re d’ Atene, che invidiosa perchè la sua sorella Erse fosse protetta da Mercurio, pose ostacoli all’amore del Nume ; ed ei, volendonela punire, la converse in pietra.

168. Mercurio fu chiamato Cillenio da un monte d’Arcadia che secondo alcuni fu luogo della sua nascita ; ebbe nome Ermète, cioè interprete, quando lo consideravano preposto alle ambascerie ed ai negoziati ; fu detto Nomio quanto al commercio, alla musica ed all’eloquenza ; Agoreo se proteggeva le piazze dei pubblici mercati ; Vialis, perchè tutelava le vie o le strade, ove sorgeva per lo più in forma di pietra quadrata, ed aveva il soprannome di Quadratus ; finalmente lo dissero Triceps (triplice o trino) per gli uffiej che esercitava nel cielo, sulla terra e nell’ inferno.

169. Secondo quello che dice Cicerone, vi sono stati cinque Mercurj, uno dei quali probabilmente aveva ricevuto il dono dell’eloquenza, un altro era medico, il terzo esperto mercatante, ec. ; ed è verosimile che coll’andar del tempo queste diverse qualità sieno state tutte attribuite al solo figliuol di Giove e di Maja.

Venere. §

170. Venere, Dea della bellezza e degli amori, nacque dalla spuma del mare il primo giorno della prima primavera del mondo ; e secondo altri era figlia di Giove (63) e di Diana ninfa dell’ Oceano (192). Abitava i contorni di {p. 90}Citera ; ma Zeffiro ne la tolse, e la trasportò nell’ isola di Cipro.

In più alto concetto fu tenuta dagli antichi la deità di Venere, allorchè diedero alla Natura stessa il suo nome, e la fecero genitrice delle cose. Cosi la ricorda il Foscolo in quei bellissimi versi :

Una diva scorrea lungo il creato
A fecoudarlo, e di Natura avea
L’ austero nome : fra’ Celesti or gode
Di cento troni ; e con più nomi ed are
Le dan rito i mortali, e più le giova
L’inno che bella Citerea la invoca.

Tito Lucrezio Caro nel suo poema della Natura delle cose a lei chiede la ispirazione, e svolge ampiamente il concetto della Venere genitrice, dichiarando i suoi pregi ed il suo potere. Vediamone la elegante traduzione del Carrer :

Madre d’ Enea, desio d’ uomini e Numi,
Alma Venere, tu, che sotto a’ segni
Roteanti del cielo il mar fecondi
Navigero, e le glebe fruttuoso ;
Per cui quantunque gente d’animali
Concepe, e nata a’ rai del sol s’ allegra ;
Tu venti e nubi, o Dea, sperdi dal cielo
All’apparir tuo primo ; a te sommette
I giocondi suoi fior l’industre terra,
T’arridon le marine, e serenato
Brilla di luce interminata il cielo.
Poiché non prima al di mostra il vivace
Suo viso primavera, e il genïale
Alito di Faonio era diffuso,
L’aerio volator che in cor ti sente,
Te, o Diva, tosto e il tuo venir festeggia ;
Salta il gregge ferin ne’ lieti paschi,
E traversa le rapide correnti ;
Tale, a’ tuoi vezzi preso e alle lusinghe,
Ovunque trarlo vuoi, cupidamente
Te segue ogni animante, e in mari e in alpe,
Entro rapidi fiumi, ne’ frondosi
{p. 91}Ritiri de’ volanti, e nelle verdi
Campagne universal spirando amore,
Fai si che d’una in altra si propaghi
Stirpe la vita con accesa brama.

171. Le dodici Ore, cui fu commessa la sua educazione, la condussero in cielo, e quivi tutti gli Dei, rapiti dalla sua bellezza, la desiderarono per isposa ; ma Giove l’accordò a Vulcano (270) in ricompensa dei servigi avutine in fabbricare le folgori contro i Giganti (65) ; e così la bellissima delle Dee ebbe a marito il più deforme di tutti i Numi.

172. I poeti la fanno madre di molti figli, e i più celebri sono Cupido o l’Amore, Imene o Imeneo, le tre Grazie ed Enea ; e figurarono parimente nati da lei il Riso, gli Scherzie i Piaceri, che appariscono quali genii o fanciulli alati.

173. Cupido o l’Amore, che’l ciel governa (Dante, Parad. c. I) detto dai poeti figliuol di Venere e di Marté (255) è un fanciullo alato, con l’arco, simbolo di potenza, ed il turcasso pieno di frecce ; talvolta è cieco o con una benda sugli occhi ; ha in mano una face, simbolo di attività, e conserva sempre la statura, la freschezza e l’agilità d’un fanciullo. Lo dipingono ancora con un dito alla bocca ; indizio di quella discretezza che è tanto necessaria per ben governare le passioni che accende.

Uomini e Dei solea vincer per forza
Amor, come si legge in prosa e ’n versi.
Petrarca.

Lo stesso Petrarca nel Trionfo d’Amore ne fa una descrizione più ampia e feconda di nuove idee :

Quattro destrier via più che neve bianchi :
Sopr’ un carro di fuoco un garzon crudo
Con arco in mano, e con saette a’ fianchi,
{p. 92}Contra le qua’ non val elmo nè scudo :
Sopra gli omeri avea sol duo grand’ ali
Di color mille, e tutto l’altro ignudo :
D’intorno innumerabili mortali,
Parte presi in battaglia, e parte uccisi,
Parte feriti di pungenti strali….
Questi è colui che il mondo chiama Amore….

E siccome può esservi l’amore virtuoso che gli antichi chiamavano Eros34 e quello opposto detto Antèros, il primo figlio dell’onestà, amico della pace, della concordia, di tutte le virtù, e sprone a magnanime imprese, il secondo padre della vergogna e di tutti i vizj, Nume crudele e causa di mille mali ; così venne rappresentato nell’atto di tormentare e di straziare una farfalla afferrata per le ali ; e il Petrarca parla di quest’ultimo in aspro modo :

Ei nacque d’ozio e di lascivia umana,
Nutrito di pensier dolci e soavi,
Fatto signore e Dio da gente vana.
Qual é morto da lui, qual con più gravi
Leggi mena sua vita aspra ed acerba
Sotto mille catene e mille chiavi.

Ed a questa medesima pessima divinità la Mitologia ha dato per nutrice la Follia. Nè tutti gli autori antichi sono d’accordo sulla nascita di Cupido. Platone, intento sempre a far bella la verità e profittevole la finzione, lo fa nascere da Poro Dio dell’ abbondanza unitosi in matrimonio con Penia Dea della povertà, che nello stesso giorno nel quale celebravano in cielo la nascita di Venere, era accorsa al banchetto degli Dei per raccorne gli avanzi. Forse quel sommo filosofo esponeva questa opinione perchè Amore, sebbene ricco d’ineffabili e infiniti diletti, pure ha sempre bisogno dell’oggetto in cui si pone ; e {p. 93}se questo gli manca, riman privo di tutto, e tapino e mendico diventa ; o piuttosto pensava che l’amor puro e vero non guarda a ricchezza nè a povertà ; chè anzi si accompagna principalmente con la carità, la quale santifica gli affetti ispirati da lui. Saffo (177), celebre e soavissima e sventurata poetessa greca, lo fa nascere dal Cielo e dalla Terra per significare i sentimenti sublimi che debbono nobilitarlo, e senza dei quali i materiali desiderj sarebbero inetti e turpi ; Simonide lo salutò figlio di Marte e di Venere, ovvero della Forza e della Bellezza ; Alceo della Discordia e dell’Aria, volendo significare che senza pace si risolve in nulla ; e Alemeone di Zeffiro e di Flora, perchè nulla è che sia più gentile e innocente dei fiori e dell’aura di primavera che gli accarezza. Il nostro altissimo poeta Dante Alighieri, non contento che l’amor suo fosse santo ed unico in terra, lo pose nel cielo, ed inspirato da esso a quel canto che dovea rendere ma ravigliata e riverente l’ Italia, surse tant’alto, che altri nol raggiunse giammai nè prima nè dopo. « Quindi avvi un Amore universale, un sentimento comune in tutti gli nomini, spirato da tutti gli oggetti della pura e schietta natura ; un impulso al bene, sempre attivo e costante in sè stesso ; regola immortale data ai mortali dal Cielo, che è indipendente da ogni umano volere, che la natura insegna, che la religione perfeziona, che la civiltà interpreta, applica, sanziona. » (Venanzio.)

174. Alcuni mitologi dicono che Imene, o Imeneo, che presiedeva agli sponsali, fosse figlio di Venere e di Bacco (146). È un giovinetto incoronato di fiori, con la face nella destra e un velo nuziale nella sinistra. Il suo volto spira soavi affetti, e gli sguardi rivelano un’ardentissima segreta fiamma dal pudor governata, e in tutto il suo contegno dimostra quante virtù sieno necessarie perchè riescano avventurate le nozze. Tra l’infinito numero di poesie per nozze, adorne dei fiori ormai appassiti della {p. 94}Mitologia, il seguente Sonetto del Parini è forse dei più leggiadri, perchè semplice e modesto :

Fingi un’ ara, o pittor : viva e festosa
Fiamma sopra di lei s’inalzi e strida ;
E l’un dell’ altro degni e Sposo e Sposa
Qui congiungan le palme, e il Genio arrida.
Sorga Imeneo tra loro ; e giglio e rosa
Cinga loro alle chiome ; Amor si assida
Sulla faretra dove l’arco ei posa,
E i bei nomi col dardo all’ ara incida.
Due belle madri alfin, colme di pura
Gioja, stringansi a gara il petto anelo,
Benedicendo lor passata cura.
E non venal cantor sciolga suo zelo
A lieti annunzj per l’età ventura ;
E tuoni a manca in testimonio il cielo.

175. Anche le tre Grazie, Aglaia (aglaos, bello, gr.) Talia (thalia, giorno di festa, gr.) ed Eufrosine (euphrosyne, gioia, gr.) ebbero Bacco per padre, e furon compagne inseparabili della madre, perchè la Dea della bellezza riceve da loro la leggiadria e tutti i divini pregi che la fanno meravigliosa.

Nate il di che a’ mortali
Beltà, ingegno, virtù concesse Giove :
Onde perpetue sempre e sempre nove
Le tre doti celesti,
E più lodate e più modeste ognora
Le Dee serbino al mondo.
Foscolo, Le Grazie.

Sono dipinte per lo più nude e sempre vagamente insieme abbracciate per indicare che fanno gradito e bello il vincolo dell’ umano consorzio, e che la semplice beltà della natura vince gli studiati adornamenti dell’arte. Ma talora appariscono anche ricoperte di leggero velo, forse per la sentenza d’ alcuni che dicono non esservi grazia senza decenza, nè decenza priva di velo. Sacra tutela son le Grazie al core — Delle ingenue fanciulle, dice il Foscolo nel più {p. 95}volte ricordato suo carme alle Grazie. Chi vuol meglio conoscere le immagini della Mitologia, e vederle sempre adorne di quella stessa immortale bellezza che spira dalle opere del genio greco, legga quel carme. Una delle sue parti più belle è la descrizione del velo delle Grazie.

Pindaro volge questi versi alle Grazie in una delle sue Odi olimpiche :

Per voi negli uomini
Tutto è diletto,
O senno chiudano
Verace in petto,
O pompa facciano
D’oro e beltà.
Senza voi tessere
Balli graditi,
Senza voi mescere
Lieti conviti
De’ Numi eterei
Lo stuol non sa.
Chè sulle splendide
Sedi beate
Ogni bell’ opera
Voi dispensate,
Accanto a Delio
Dall’ arco d’or ;
Presso cui nobileTrono v’ergeste,
D’onde all’olimpico
Nume celeste
Interminabile
Rendete onor.
O diva Aglaia,
O sempre amante
Di meuse Eufrosine,
Figlie al Tonante,
Fauste volgetevi
Al mio pregar.
Tu pure ascoltami,
Vocal Talia ec….
(Traduz. del Borghi.)

{p. 96}176. Enea (608) fu detto figliuolo di Venere e d’Anchise (608) principe troiano, che la Dea della bellezza protesse e ricolmò di favori. Dicono che questo principe, osando una volta vantarsi di tanta predilezione, fu punito di questa sua indiscretezza da Giove (63) con un colpo di fulmine che gli sfiorò la pelle.

177. Adone, figlio di Mirra (Adò, io piaccio, gr.) nato in Arabia, era giovine di straordinaria bellezza, ed appassionatissimo per la caccia. Non faceva che abbandonarsi a questo esercizio, benchè Venere lo scongiurasse a non esporsi a tanti pericoli contro le belve feroci. Un giorno, tratto dal suo coraggio, e dimentico dei consigli della Dea colpi un cignale sul monte Libano ; ma la belva furiosa lo inseguì e lo fece in pezzi, prima che Venere fosse in tempo a soccorrerlo ; talchè non potè che ricoprirlo di néttare e di lacrime, e cangiarlo in anemone. La sola bellezza, scompagnata dalla forza e dalla prudenza, non vale a salvar l’uomo dai pericoli, e ne fa una debole femminuccia. Venere afflittissima di questa morte, richiese a Giove 35 il suo diletto Adone, {p. 97}ed ottenne ch’ egli passasse ogni anno sei mesi sulla terra e sei nell’inferno. Adone fu posto tra gli Dei, ed ebbe tempio e culto e feste chiamate Adonie, le quali duravano otto giorni ; i primi quattro erano consacrati al lutto, gli altri alla gioja per indicare l’apoteosi del prediletto di Venere.

178. Psiche (psyche, spirito, anima, soffio, gr.), fu giovane principessa di molta bellezza ; ma, secondo alcuni, d’indole tanto altera, volubile ed incostante, che non stava mai ferma in un proposito ; e non valevano meriti nè buoni ufficj per cattivarsene il cuore ; sicchè l’alitar dello zeffiro, il volo della farfalla sarebbero immagini insufficienti per dare un’idea della leggerezza del suo animo. Infatti è rappresentata con ali di farfalla, o con uno di questi animaletti che le svolazza intorno. Un Nume potente, amabile e giovine, fu preso d’amore per lei, ed immaginò uno strattagemma per esserne costantemente corrisposto. Dopo avere studiato lungo tempo la sua indole si accorse che la passione più dominante di Psiche era la curiosità, e fin da quel punto ravvolse nel mistero le sue intenzioni. Fece costruire un bellissimo palazzo in mezzo a boschetti e giardini, ornandolo dentro e fuori di tutto ciò che può far deliziosa la vita ; e quindi la tenera voce di un ente invisibile disse a Psiche : « Voi siete padrona di questo palazzo, o potete comandarvi da principessa. » Psiche ordina infatti, e ad ogni suo cenno compariscono vesti sontuose, dolcissime sinfonie, mense di squisiti cibi imbandite ; e un gran numero di servi e d’ancelle sempre solleciti ad obbedirla. Per qualche giorno le parve un incanto la vita ; ma per far piena la sua felicità bisognava conoscere l’autore di tanti doni e di tanti prodigj. Interrogava le sorelle, le amiche ed i servi, ma nessuno sapeva darlene contezza. L’ente misterioso si ostinava a celarsi di giorno, e solamente nelle tenebre della notte, di mezzo ai cespugli dei giardini la chiamava, le parlava affettuosamente, e le chiedeva la promessa {p. 98}di non iscegliere altro sposo che lui. Prima del far del giorno spariva, e abbandonava la donzella ai tormenti d’ una curiosità non sodisfatta. « Chi sei tu dunque, esclamava : chi sei tu che dici di amarmi e di vivere per me ? Tu vuoi ch’ io ti ami, e fuggi i miei sguardi ! Temeresti forse di dispiacermi ? Ah ! tu non sarai forse il più bello degli uomini ; e che importa ? tu sei il più sensibile e il più generoso. Ebbene ! scopriti ! Ch’ io ti veda ; ch’ io conosca colui che debbo amare ! » Ma il Nume s’ostinava a rimanere invisibile. Dal canto loro le sorelle di Psiche aumentavano la sua impazienza, e la eccitavano a discoprire il mistero. Finalmente arrivarono a tal segno da inspirarle diffidenza contro il donatore meraviglioso. « Bada, le dicevano, bada di non esser vittima della tua fiducia. Chi sa che questo amante, che ha paura della luce del giorno, non sia un mostro, e che dopo aver acquistata la tua affezione osi tradirti ? Tu devi scoprirlo ad ogni costo ; prendi questa lucerna e questo pugnale ; sincerati sul conto suo ; e se le nostre congetture non sono mal fondate, punisci l’indegno. » Psiche, credula e insospettita, diventò impaziente di chiarire i suoi dubbi ; e il giovine incognito, saputi i consigli imprudenti delle sorelle, si argomentò di porgere a Psiche l’occasion di vederlo, ma senza conoscerlo. Sceglie una bella notte d’estate ; piglia le ali e le freccie ; va nel più bel punto di quell’ amena dimora, si stende sopra un tappeto sparso di rose, finge di addormentarsi, e aspetta che il caso guidi a lui la donzella. Psiche vi giunge, si accosta…. ed oh maraviglia ! trova addormentato colui ch’ ella cercava da tanto tempo. « Oh ! egli dorme, » esclamò sotto voce ; « approfittiamoci di questo momento ; ora non potrà fuggire ai miei avidi sguardi ; ed io saprò se debbo amarlo o vendicarmi. » Si accosta di più ; e, « Dei immortali ! come ! lo stesso Amore è il mio amante ! Ed è questo il mostro temuto da me e dalle mie sorelle ? Ah ! è il dio Amore, egli stesso nel {p. 99}più bel fior dell’età ! Chi più felice di me ? Amore mi sceglie per sua sposa !…. » E si chinava su lui avidamente per contemplarlo, non badando che i suoi moti facessero pendere la lucerna ; sicchè una goccia ardente cadde sul seno del giovine, che svegliato dal dolore si alza precipitoso, e sparisce come ombra, esclamando : Ah ! Psiche, Psiche ! cos’ hai tu fatto ? Invano ella tenta di rattenerlo, e lo scongiura ; ma una voce debole e lontana susurra queste parole : « Tutto è finito ; poichè hai dubitato, tu sei colpevole verso l’ Amore, e indegna dei suoi beneficj. Amore non vuole diffidenza nè sospetti ; egli ti chiedeva intera corrispondenza. Hai voluto vedere, hai visto ; l’incanto è distrutto. Addio, Psiche ; Addio per sempre ! » Addio per sempre ! Questo terribile detto le scosse l’animo ; la prostrò : le rese odiosa la luce del giorno, e insopportabile la vita. Alfine deliberò di consultare l’oracolo di Venere, e la Dea la condannò a sopportare gravi fatiche, una più penosa dell’altra. Ed ella, docile e rassegnata soffre tutto, obbedisce come un fanciullo, e spera così d’espiare la sua colpa e d’impietosire l’adirato Nume. Venere le ordinò d’andare ad attingere una secchia d’acqua fangosa ad una fontana custodita da quattro furibondi draghi ; quindi dovè arrampicarsi fin sulla cima d’un’alta montagna, e tagliare un vello di lana dorata di sui montoni che vi pascolavano. Per ultima prova Venere le disse : « Va a Proserpina, e chiedile per me di porre in questa scatola una porzione della sua bellezza ; ma bada poi di non aprirla : tu non hai bisogno d’esser più bella. » Psiche obbedì anche a questo comando ; ma non potè vincere la sua curiosità ; e volle vedere come fosse fatta quella bellezza che si spediva a scatole. Apre, e ne scaturisce un fumo nero che le si ferma sul volto : si specchia, e scorge la deforme maschera da cui è rimasta coperta. A tal vista sviene, e si riduce in uno stato da far temere della sua vita. Le vengono prodigati soccorsi, ed è condotta a piè {p. 100}degli altari di Venere, dove ritorna in sè, ed invoca la Dea. In quel punto Amore sopraggiunge per mettere il colmo alla sua confusione. Vorrebbe nascondersi ; ma egli, vistala pentita, la rassicura, e le porge la mano. La commozione di Psiche è tanto grande che non ha forza di parlare ; si prostra a’ piedi del generoso vincitore, ed implora con umiltà il suo perdono. Lo sposo celeste, contento di questa umile sottomissione, le fa sparire di sopra il volto la maschera nera, e ambedue passarono dal tempio di Ciprigna (180) in quello d’Imeneo (174). La gioia presiedè alla cerimonia del matrimonio, e non vi fu mai più perfetta nè più felice unione di quella. Facile è discoprire gl’insegnamenti morali che in questa favola sono ingegnosamente riposti. Altri con più elevati intendimenti asserisce essere adombrata nella mitologica Psiche l’anima immortale ; il che può rilevarsi anche dalla etimologia del suo nome : onde i filosofi hanno derivato la parola psicologia o trattato dell’anima. Il Foscolo così ricorda questa favola ch’ ei finge istoriata nel velo delle Grazie :

Scegli, o madre de’ fior, tenui le fila ;
E per te in mezzo il sacro vel s’adorni
Della imago di Psiche, or che perfetta
Ha la sua tela, e ti sorride in volto.
Mortale nacque, e son più care in cielo
Sue belle doti ; e se a noi canta o danza,
Se mesta siede o amabile sospira,
Se talora alle fresche onde eliconie
Gode i puri lavacri, atti e parole
D’una venusta immortal luce abbella.
Segga, e carezzi il fanciulletto figlio
Del Sonno, a cui le rose Amor sacrava
Perché in silenzio i furti suoi chiudesse ;
E si gli additi in aurea nube il sogno
Roseo, che sulla fresca alba di maggio
Sovra dormente giovinetta aleggia,
E le ripete susurrando i primi
Detti d’amor che da un garzone udia.

{p. 101}179. Venere ebbe maggior culto in Idalia, in Amatunta ed in Pafo, città dell’isola di Cipro, e nell’isoletta di Citera nel Mediterraneo a mezzodì del Peloponneso, ov’era il suo più celebre tempio.

Giace oltra, ove l’Egeo sospira e piagne,
Un’isoletta delicata e molle
Più ch’altra, che ’l sol scalde, o che ’l mar bagne.
Nel mezzo è un ombroso e verde colle
Con si soavi odor, con si dolci acque,
Ch’ogni maschio pensier dell’alma tolle.
Quest’è la terra che cotanto piacque
A Venere ; e ’n quel tempo a lei fu sacra,
Che ’l ver nascoso e sconosciuto giacque….
Ed anco è di valor si nuda e macra,
Tanto ritien del suo primo esser vile,
Che par dolce a’cattivi, ed a’buoni acra.
(Petr., Trionfo d’Amore, c. IV.)

Ora questa isoletta, un tempo tanto leggiadra, è uno sterile scoglio, quasi inabitabile, chiamato Cerigo.

180. Venere era chiamata Cipride, Cipria e Ciprigna dall’ essere adorata particolarmente nell’isola di Cipro, ove la città e la montagna Idalia eranle sacre ; ed aveva anche il nome di Citerea, perchè, appena formata dalla schiuma del mare, fu tratta nell’isola di Citera sopra una conca marina, accompagnandola le Nereidi (315) e gli Amori. Secondo poi la natura del suo culto aveva altri soprannomi, come vedremo nel § seguente.

181. Gli antichi hanno rappresentato in più modi la Dea della bellezza. In Elide stava a sedere sopra una capra, con una testuggine sotto il piede, a significare che l’amore della sola materiale bellezza ci fa divenire pigri ed abietti : a Sparta, patria d’eroi, ed a Citera indossava l’usbergo come Minerva ; e ad Olimpia era stata dipinta in atto di uscir dalle onde, incoronata di rose da Pito o Suada, Dea, della persuasione e sua fida compagna. Ma per lo più la rappresentarono assisa con Cupido in un carro di {p. 102}madreperla, ossia sopra una conchiglia marina, tratta da colombe, da cigni o da passeri. Senza velo era bella, velata poi era divina, perchè univa la modestia alla beltà che senza essa non è pregevole. Fu anche figurata col pomo della bellezza in una mano ed un mazzo di papaveri nell’altra, perchè talora il solo culto delle forme addormenta e snerva lo spirito. Ma quando apparisce sotto la figura di vergine ad occhi bassi e coi piedi sopra un guscio di testuggine, indica che la gioventù virtuosa deve sempre tener custodita dall’ onestà la bellezza. Infine appariva anche sopra un carro d’avorio tratto dai cigni. Le Grazie la seguivano ; aveva mæstoso il portamento, serena la fronte, elevata la testa, e gli occhi fissi nel cielo. {p. 103}Amore stavale a’ piedi, con gli occhi bendati, ad ali aperte, con la faretra piena di fiammeggianti dardi ; e Venere sotto questi attributi presiedeva a quell’amore casto e puro, a quella fiamma celeste che dà vita all’universo, e che solleva le anime ai pensieri della divinità. Le stava a fianco la dolce Persuasione, il Candore sopra la fronte ; la Timidezza temperava l’ardore dei suoi sguardi ; il Sorriso animava con eloquenza le labbra ; l’alterezza e il valore spiravano in ogni suo atto ; e la Venere Celeste, così rappresentata dai Greci, era l’immagine della donna virtuosa, della eletta fra le creature, di quell’essere che, quando si mostra nella sua possibile perfezione, vince ogni umana lode, ogni maraviglia della natura. La sua statua più celebre, che ci sia pervenuta dall’antichità, è la Venere dei Medici, così detta per aver appartenuto alla famiglia dei Medici, ed è ora uno dei più belli ornamenti della galleria pubblica di Firenze. Ognun sa che uno dei capi d’opera della moderna scultura che l’italiano Canova seppe far risorgere con tanta lode, è la sua Venere ; e questa pure si ammira in Firenze nella galleria del Palazzo Pitti.

182. Omero ha fatto una vaghissima descrizione del cinto misterioso di Venere, che è l’emblema della modestia, della grazia e della dolcezza, senza le quali doti beltà non vale.

183. La colomba, il mirto e la rosa erano sacri a Venere ; la prima a motivo di questo fatto : Un giorno Cupido passeggiava con sua madre in un prato smaltato di fiori, dove volendo far prova dell’ agilità delle sue ali, si vantò che in pochi minuti avrebbe colto più fiori di sua madre. Venuti infatti alla prova, Amore era per vincere, quando la Ninfa Peristeria (Péristéria, colomba, gr.), seguace di Venere, le empì in un momento il paniere ; e Cupido, sdegnato della tolta vittoria, cangiò la ninfa in colomba. Il mirto le è pur sacro in grazia della soave fragranza ; e sacra è a lei la rosa, perchè in prima essendo bianca, {p. 104}aveva cangiato colore dopo essere stata tinta del sangue di Venere rimasta ferita dalle sue spine nell’ accorrere in aiuto d’ Adone (177) moribondo per la lotta col cinghiale.

184. Le sacerdotesse di Venere, con la fronte incoronata di mirto, recavanle in offerta il latte ed il miele. La gran sacerdotessa si prostrava la prima ai piedi di Venere Celeste, e le offriva due colombe. Indi facevano libazioni di vino in onore di Venere popolare, e le sacrificavano una capra bianca sull’ara ove il fuoco era acceso col ginepro e coll’acanto. Intanto altre vergini ed altre donne si appressavano all’ ara di Venere nuziale che teneva nell’una mano il globo del mondo da essa rigenerato, e presso alle mammelle la face dell’ Imeneo (174). Erano incoronate di rose, l’incarnato e il candore delle quali indicavano nel tempo stesso l’ardore e la purezza dei loro voti. Le belle lor chiome, o nere o bionde, scendevano sul candido collo pendendo fino a terra. Le vergini chiedevano lo sposo, e le spose i figli ; supplicavano Venere d’esaudire i lor voti ; e le consacravano le loro chiome. Allora la sacerdotessa tagliava le belle trecce, e le appendeva agli altari della Dea. Questo sacrifizio, grato a Venere, durò quanto il suo culto ; e Berenice, sposa di Tolomeo Evergete re d’ Egitto, le offerse in voto i suoi capelli bellissimi, implorando ch’ei tornasse incolume e vincitore dall’Asia. Infatti la sua chioma fu appesa nel tempio della Dea ; ma la notte seguente scomparve ; e un astronomo, Conone, annunziò che Venere l’aveva posta nel cielo e cangiata in stella ; quindi la costellazione detta la chioma di Berenice.

Quel Conon vide fra’ celesti raggi
Me del Berenicéo vertice chioma
Chiaro fulgente. A molti ella (Berenice) de’ Numi
Me, supplicando con le terse braccia,
Promise, quando il re, pel nuovo imene
{p. 105}Beato più, partia, gli assirj campi
Devastando….
Foscolo, la Chioma di Berenice, pœma di Callimaco, volgarizzato dalla versione latina di Catullo.36
Nettuno. §

185. Nettuno era figlio di Saturno (27) e di Cibele (40) e fratello di Giove (63) e di Plutone (213). Appena nato, la madre, per liberarlo dalla voracità (allegorica) di Saturno (28), lo celò tra i pastori d’Arcadia, e in luogo del bambino fece vedere al marito un poledro, dandogli a credere d’aver partorito quell’ animale.

186. Quando i tre fratelli si divisero il dominio dell’universo, Nettuno ebbe l’impero del mare e delle isole ; quindi è lo Dio delle acque.

187. Poichè fu scoperto complice in una congiura ordita contro Giove, n’ ebbe per castigo l’esilio dal cielo nello stesso modo che Apollo (96) ; e per vivere, si trovò come lui ridotto nella necessità di lavorare alle mura di Troja. È stata già narrata la mala fede di Laomedonte re di Troja (106), che negò a Nettuno la pattuita mercede, e la vendetta dello Dio marino che inondò il pæse e fece emergere dalle acque un mostro a desolare le spiagge. Dopo ciò Nettuno, pacificatosi con Giove, tornò al governo delle onde.

188. Anfitrite (Amphì, intorno, trizo, io strido o mormoro, gr.), figlia di Nereo e di Doride (193), fu moglie di {p. 106}Nettuno. In sulle prime ella s’era celata per isfuggirlo, ma un delfino affezionato a Nettuno, andandone in traccia, la trovò alle falde del monte Atlante, e la persuase a cedere alle brame del Nume ; e Nettuno ricompensò il delfino collocandolo tra gli astri (478). Percorrendo il suo impero, Anfitrite saliva una conchiglia di splendida candidezza con una gran vela ondeggiante color di porpora ; cavalli più bianchi della neve tiravano questo carro circondato dalle Nereidi (316) e preceduto dai Tritoni (190).

189. Nettuno ebbe dal matrimonio con Anfitrite parecchi figli, ed i più noti sono i Tritoni e le Arpie (191).

190. I Tritoni nella parte superiore del corpo somigliavano l’uomo ; e nel resto il pesce. Precedevano il Nume o Anfitrite, ed annunziavano il suo arrivo col suono della conca marina. Talora anch’ essi erano assisi su carri tratti da cavalli azzurri. I pœti hanno attribuita loro la virtù di spianare le onde e di sedar le procelle.

……….. E, grave
D’immane peso assai, rosa dall’onde,
La rauca di Triton buccina tace.37
Mascheroni, Invito a Lesbia.

191. Le Arpie (harpázo, togliere violentemente, gr.) eran mostri con volto femminile, mammelle cascanti ed irsute, orecchi d’orso, corpo d’ avvoltojo, ali di pipistrello, crini di cavallo e artigli ai piedi ed alle mani. Quale orrido simbolo dei vizj, infettavano ogni cosa che toccavano, ed erano cagione di carestia e d’infiniti guai. Abitavano le isole Strofadi rimpetto alla costa occidentale del Peloponneso, e le più note furono Aello, Ocipeta e Celeno.

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
Che cacciâr delle Strofade i Trojani
Con tristo annunzio di futuro danno.38
{p. 107}Ali hanno late, e colli e visi umani,
Pié con artigli, e pennuto il gran ventre :
Fanno lamenti in sugli alberi strani.
(Dante, Inf. c. XIII.)

Virgilio ci fa nota anche la patria di questi mostri :

Strofadi grecamente nominate
Son certe isole in mezzo al grande Ionio
Dalla fera Celeno e da quell’altre
Rapaci e lorde sue compagne Arpie
Fin d’allora abitate, che per tema
Lasciàr le prime mense, e di Finéo (362)
Fu lor chiuso l’albergo ; altro di queste
Più sozzo mostro, altra più dira peste
Dalle tartaree grotte unqua non venne.
Sembran vergini a’volti, uccelli e cagne
All’altre membra : hanno di ventre un fedo
Profluvio, ond’è la piuma intrisa ed irta ;
Le man d’artigli armate, il collo smunto,
La faccia per la fame e per la rabbia
Pallida sempre, e raggrinzata e magra.
(Eneide, lib. III, traduz. del Caro.)

Alcuni dicono che la favola delle Arpie fu originata da un gran nuvolo di enormi cavallette che, dopo aver devastato parte dell’Asia Minore, si gettarono sulla Grecia e nelle vicine isole, cagionarono grande carestia, ed infettarono l’aria coi loro cadaveri. — V’ è chi non riconosce nelle Arpie altro che gli uccelli del lago Stinfale. E finalmente altri dicono che fossero Corsari frequentemente scesi negli stati di Fineo, ed usi a predare e a ridurre gli abitanti agli estremi.

192. Tra gli altri Dei marini si distingue l’Oceano, figlio di Celo e della Terra, il quale sposò Teti o Tetide, tenuta parimente qual Dea del mare. Aveva Teti per abitazione un palazzo, dove, al dir della favola, ogni sera il sole andava a riposarsi, e per carro una conchiglia di straordinaria bellezza e più candida dell’avorio ; e pareva che questo carro volasse radendo la superficie delle acque. {p. 108}La Teli, moglie d’ Oceano, non deve esser confusa con l’altra Teli (320) che fu madre d’ Achille (536).

193. Oceano e Teti generarono Nereo e Dori o Doride, i quali sposatisi fra di loro ebbero per figliuoli quell’infinito numero di divinità secondarie chiamate Ninfe (313) e rappresentate da tante vezzose fanciullette.

194. Anche i Fiumi eran tenuti per figliuoli dell’Oceano e di Teli. Ed in ciò pure la Mitologia perfettamente si accorda con la Fisica. I pittori e i pœti li rappresentano sotto l’effigie di vecchi con folta barba, chioma lunga e ondeggiante, e in capo una corona di giunchi. Si appoggiano sopra un’ urna di dove scaturisce l’acqua che è la sorgente del fiume al quale presiedono.

195. Proteo nacque dall’Oceano e da Teti ; ed era guardiano dei greggi di Nettuno composti di foche e di vitelli marini. Il Dio del mare gli aveva accordato la cognizione del passato, del presente e del futuro ; ma allorchè andavano a consultarlo, pigliava ogni specie di forme per atterrire chiunque gli s’accostasse ; ed ora diveniva leone, or leopardo, or cinghiale, e talvolta si trasformava in acqua ed anche in fuoco ; dimodochè, per astringerlo a rispondere, bisognava armarsi di coraggio, assalirlo, e legarlo in modo da non lasciargli campo a scappare. Parrebbe questo un avvertimento per coloro i quali, studiando il vero, non debbono rimanere atterriti nè dalle difficoltà di ritrovarlo nè dai pericoli di manifestarlo. Secondo alcuni Proteo fu un abile oratore che sapendo con arte adoperare tutte le figure della rettorica e tutti gli accorgimenti dell’eloquenza, si cattivava l’animo degli uditori e vinceva ogni contraria opinione. Altri hanno giudicato doversi riconoscere in lui un comico perfetto, un abile pantomima, che seppe imitare con la voce e co’gesti ogni specie di persone ; e v’è chi lo paragona agl’incantatori egiziani, i quali coi loro travestimenti ingannavano la moltitudine ignorante.

196. Le Sirene (seirà, catena, gr.), figlie del fiume {p. 109}Acheloo (393) e della musa Calliope (274), abitavano per entro gli scoscesi massi che sono tra l’isola di Capri e le coste d’Italia, od in un’isola del Capo Peloro in Sicilia. Le principali sono queste tre : Leucosia, Lisia e Partenope che diede il nome alla città dove morì ; ma Falari, che rifabbricò Partenope, la chiamo Napoli, Neopoli, ossia città nuova. Queste Sirene avevano la testa e il corpo di donna fino alla cintura, e nel rimanente erano uccelli. Andavano adescando e trattenendo i passeggeri con la dolce melodia dei loro canti e dei loro suoni ; consigliavano i piaceri e la vita molle, e facevano dimenticare la famiglia e la patria ; sicchè poste rimpetto alla parte più bella d’Italia e sotto il clima più mite dell’ universo, e celando negli scogli la mostruosità del loro corpo, erano immagine di quelle seducenti delizie terrene che rapiscono l’uomo, lo distraggono dai suoi doveri, e lo spingono a lacrimevol ruina tostochè si è lasciato vincere e soggiogare. O, se vogliamo, troveremo in esse simboleggiati semplicemente gli scogli invisibili, intorno a’quali gorgogliando l’onda vorticosa attræ ed ingoia in profondi abissi le navi degl’ incauti nocchieri.

197. L’oracolo aveva predetto alle Sirene che sarebbero perite, appena che un uomo avesse saputo resistere alle attrattive della loro voce e delle loro parole, quasi che volesse indicare la maravigliosa potenza del buon esempio. Laonde quelle perfide incantatrici si studiavano di adescare e di far perire chiunque fosse capitato tra loro ; e la vicina terra biancheggiava delle ossa di infinite vittime.Tentarono di adescare gli Argonauti ; ma Orfeo prese la lira, e incantò loro stesse a tal punto che divennero mute e gettarono i proprj istrumenti nelle acque. Segno che il verò merito ha attrattive infinitamente maggiori delle apparenze.

198. Cinquanta anni dopo, Ulisse (568), ammonito da Circe (575), turò con cera le orecchie di tutti i suoi compagni, e fece legare sè medesimo all’albero mæstro della sua nave. Non furon già troppe queste cautele ; {p. 110}essendochè Ulisse restò così preso dalle lusinghe delle Sirene, che fe’cenno a’compagni di voler essere sciolto ; ma essi non infransero il severo ordine che avevano avuto di non obbedire a quel cenno ; e le Sirene indispettite si precipitarono in mare ; talchè dipoi quel luogo fu chiamato Sirenide dal loro nome.

199. Tra gli Dei marini non è da passare sotto silenzio Eolo, il quale aveva il potere di sollevar le onde e d’eccitar le tempeste. Era figlio di Giove (63), e regnava sulle isole Eolidi, chiamate ora di Lipari.

200. Così Eolo stava a custodia dei venti incatenati in profonde caverne, e vegliava affinchè non accadessero più sconvolgimenti simili a quelli da essi cagionati, allorchè separarono la Sicilia dall’Italia ed apersero lo stretto di Gibilterra :39

……..Ivi in un antro immenso
Le sonore tempeste, e i tempestosi
Venti, siccome é d’uopo, affrena e regge.
Eglino impetuosi e ribellanti
Tal fra lor fanno, e per quei chiostri, un fremito,
Che ne trema la terra, e n’urla il monte ;
Ed ei lor sopra, realmente adorno
Di corona e di scettro, in alto assiso,
L’ira e gl’impeti lor mitiga e molce.
(Caro, Eneide di Virg., lib. I.)

201. Glauco, figlio di Nettuno (185) e della ninfa Naiade, fu celebre pescatore d’Antedonte in Beozia ; il quale, posati che ebbe un dì alcuni pesci sopra certa erba, si accorse che ripigliavano il vigor della vita, e con maravigliosi slanci si rituffavano in mare. Volle farne anch’esso esperienza, ed appena si fu cibato di quell’ erba, corse a precipitarsi nelle onde. Allora l’ Oceano e Teti (192) gli tolsero {p. 111}quanto aveva di mortale, e lo fecero « consorte in mar degli altri Dei » (Dante, Parad. c. I.)

202. Scilla era una bella ninfa figlia di Forco ed’Ecale, amata da Glauco (201), ma che non gli voleva corrispondere ; sicchè egli andò a lagnarsene con Circe (575), famosa maga, la quale avvelenò la fontana dove Scilla solea bagnarsi. Appena entratavi, la ninfa si vide cangiata in un mostro con dodici branche e sei teste ; e una moltitudine di cani le uscivan dal corpo, i quali col continuo abbaiare atterrivano i passeggeri. Laonde, venuta in orrore a sè medesima, si buttò in mare, e fu cangiata in deità malefica, terrore e tormento dei nocchieri. Qual più viva immagine dei pericolosi scogli ?

203. Cariddi, figlia di Nettuno e della Terra, involò alcuni bovi ad Ercole ; e Giove (63) volle fulminarla in pena della sua insaziabile voracità. Allora la colpevole cadde nel Mediterraneo, e diventò pericolosa voragine appunto nello stretto di Sicilia rincontro a Scilla (202) :

Come fa l’onda là sopra Cariddi,
Che si frange con quella in cui s’intoppa….
(Dante, Inf. c. VII.)

Omero suppone che inghiotta le onde tre volte il giorno e tre volte le ributti fuori con orribili muggiti. L’ingordigia può ella essere dipinta più vivamente ? Virgilio poi dà più ampia descrizione d’ambedue questi nemici dei naviganti :

Nel destro lato é Scilla, e nel sinistro
É l’ingorda Cariddi : una vorago
D’un gran baratro è questa, che tre volte
I vasti flutti rigirando assorbe,
E tre volte a vicenda li ributta
Con immenso bollor sino alle stelle,
Scilla dentro alle sue buie caverne
Stassene insidïando, e colle bocche
De’suoi mostri voraci, che distese
{p. 112}Tien mai sempre ed aperte, i naviganti
Entro al suo spece a sè tragge e trangugia.
Dal mezzo in su, la faccia, il collo, e ’l petto
Ha di donna e di vergine : il restante
D’una pistrice immane, che simili
A’delfini ha le code, ai lupi il ventre.40
(Eneide, Trad. del Caro, lib. III.)

204. Forco (phórkyn, mostro marino, gr.), figliuolo di Nettuno (185) e della Terra (25), era anch’esso potente deità marina, e, secondo la favola, fu padre delle Gorgoni (357). Toossa altra sua figlia ebbe da Nettuno il ciclope Polifemo (273) e quella Scilla della quale abbiamo già parlato (202). Credono che da Forco fosse nato ancora il serpente che stava a custodia degli aurei pomi delle Esperidi (382).

205. Gli Alcioni sono uccelli marini, i quali fanno i loro nidi sulle onde anche in mezzo ai rigori dell’inverno. E in questo tempo, secondo che dice la tradizione, il mare si mette in calma, e la tempesta rispetta la tenera prole ; ma questa calma dura solamente per quattordici giorni, che dai marinari sono chiamati dies alcyonei (giorni degli alcioni).

206. L’origine poi degli Alcioni è spiegata così : Alcione, affettuosa moglie di Ceice re di Trachinia, sognò che il marito naufragava ritornando da Delfo, sicchè atterrita, in sul far del giorno corse alla spiaggia, e visto infatti galleggiar sulle acque il cadavere dello sposo, vi si slanciò per abbracciarlo e per morire con lui, Gli Dei {p. 113}inteneriti da tanto amor coniugale cangiarono l’una e l’altro in Alcioni.

207. Nettuno ha folta barba, in capo il regio diadema, ed è coronato di piante marine ; comparisce per lo più col tridente in mano ; sta ritto sulle acque del mare, e spesso procede mæstosamente in un carro condotto da cavalli marini che hanno la parte posteriore del corpo fatta a guisa della coda dei pesci, ed i piedi palmati per nuotar meglio.

208. Il carro di Nettuno aveva la forma d’una larga conchiglia ; le ruote erano d’oro, e pareva che volassero a fior d’acqua. I Tritoni (190), le Nereidi (315) e i Delfini {p. 114}con le scaglie somiglianti all’oro e all’argento, nuotavano in folla intorno al carro.

209. Il Tridente, ossia lo scettro a tre punte, indica il triplice potere attribuito a Nettuno di conservare, di agitare e di rendere la calma alle onde ; oppure il dominio ch’egli ottenne sulle acque del mare, dei fiumi e dei fonti ; ed aveva inoltre la proprietà di spalancare la terra a piacere del Nume.

210. I Libii tenevano Nettuno per la loro maggiore divinità ; e la Grecia e l’Italia gli avevano consacrato molti templi e feste e giuochi. Tra i giuochi erano celebrati con molta solennità quelli del Circo a Roma41 e quelli dell’istmo a Corinto (674), dove Nettuno aveva un tempio celebre e una statua di rame alta sette cubiti. Gli abitanti di Trezene avevan coniato sulle loro monete il tridente di Nettuno da un lato e la testa di Minerva dall’altro, per indicare il commercio governato dalla saviezza. I Romani destinarono il primo giorno del mese di luglio per celebrare la sua festa, e gli consacrarono il febbraio per averlo favorevole alla vicina epoca della nuova navigazione.

211. Le sue vittime più comuni erano il cavallo ed il toro bianco, ma gli aruspici gli offrivano acqua marina e acqua dolce, e particolarmente il fiele della vittima perchè è amaro come le onde salse.

212. Il cavallo segnatamente è sacro a Nettuno, perch’ei lo fece apparire di sotto terra percotendola col tridente. Quindi era chiamato anche Ippio ossia equestre ; e Ippodromio, cioè, preside degli equestri certami. Inoltre fu detto Conso, o Dio dei buoni consigli ; Poseidon, ovvero sfascia vascelli, ed Enosigeo, ossia scotitor della terra.

{p. 115}
Plutone. §

213. Plutone, fratello di Giove (63) e di Nettuno (185), fu il terzo figlio di Saturno (27) e di Cibele (40). Assistè il fratello Giove nella guerra che ebbe a sostenere contro Saturno (31), e dopo la vittoria ottenne il regno infernale.

214. Proserpina, figlia di Giove (63) e di Cerere (51), fu moglie di Plutone, ed egli dovè rapirla (53), giacchè nessuna Dea voleva sposarlo per paura della sua deformità e del tenebroso suo regno.

215. L’impero di Plutone, ossia l’Inferno della favola, era un luogo sotterraneo dove scendevano le anime degli estinti per esservi punite o ricompensate ; e vi penetravano attraversando il fiume o la palude Stige (221), posta nell’Arcadia. Ma fingevano che anche in Italia e segnatamente nella Campania presso il lago Averno esistesse una via per discendervi, quella per la quale Enea fu condotto dalla Sibilla Cumana (665) :

Era un’atra spelonca la cui bocca
Fin nel baratro aperta, ampia vorago
Facea di rozza e di scheggiosa roccia :
Da negro lago era difesa intorno,
E da selve ricinta annose e folte.
Escia della sua bocca all’aura un fiato,
Anzi una peste, a cui volar di sopra
Con la vita agli uccelli era interdetto ;
Onde da’ Greci poi si disse Averno.
(Eneid., lib. VI.)

Ma assai più spaventoso è il sotterraneo limitare, ove Dante trovò scritte quelle tremende parole che tutti sanno : « Per me si va nella città dolente ec., » ed Enea vide una folla d’ orrendi spettri :

Nel primo entrar del doloroso regno
Stanno il Pianto, l’Angoscia e le voraci
Cure e i pallidi Morbi, e ’l duro Affanno,
{p. 116}Con la debil Vecchiezza. Evvi la Tema,
Evvi la Fame, una ch’ é freno al bene,
L’altra stimolo al male, orrendi tutti
E spaventosi aspetti. Havvi il Disagio,
La Povertà, la Morte, e della Morte
Parente il Sonno. Havvi de’cor non sani
Le non sincere Gioie, havvi la Guerra
Delle genti omicida, e delle Furie
I ferrati covili ; il Furor folle,
L’empia Discordia, ché di serpi ha ’l crine,
E di sangue mai sempre il volto intriso.
Nel mezzo erge le braccia annose al cielo
Un olmo opaco e grande, ove si dice
Che s’annidano i sogni, e ch’ogni fronda
V’ha la sua vana immago e ’l suo fantasma.
Molte oltre a ciò vi son di varie fere
Mostruose apparenze. In su le porte
I biformi Centauri, e le biformi
Due Scille ; Briareo di cento doppj ;
La Chimera di tre, che con tre bocche
Il fuoco avventa ; il gran serpe di Lerna
Con sette teste ; con tre corpi umani
Erilo e Gerïone, e con Medusa
Le Gorgoni sorelle, e l’empie Arpie,
Che son vergini insieme, augelli e cagne.
(Eneid., lib. VI.)

216. I Greci consideravano l’Inferno come diviso in due vaste regioni : l’una era « la valle d’abisso dolorosa, Che tuono accoglie d’infiniti guai ; Oscura, profonda era e nebulosa, » chiamata Basso Inferno, Tenaro42 o Tartaro. ove s’incontravano pantani d’acqua putrida e limacciosa ; e dalla morta gora esalavano micidiali vapori ; torri di ferro e di bronzo, « vermiglie come se di fuoco uscite » s’alzavano su quella terra sconsolata, fra ardenti fornaci, {p. 117}popolate di orribili mostri che rabbiosamente tormentavano le ombre dei malvagi :

Quivi sospiri, pianti ed alti guai
Risonavan per l’ær senza stelle….
Diverse lingue, orribili favelle,
Parole di dolore, accenti d’ira,
Voci alte e fioche, e suon di man con elle,
Facevan un tumulto, il qual s’aggira
Sempre in quell’aria senza tempo tinta,
Come la rena quando il turbo spira.

Così Dante nel Canto III dell’Inferno ; e con non meno terribile dipintura nel V, ove dice :

Ora incomincian le dolenti note
A farmisi sentire : or son venuto
Là dove molto pianto mi percote.
Io venni in loco d’ogni luce muto,
Che mugghia, come fa mar per tempesta,
Se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal che mai non resta,
Mena gli spirti nella sua rapina,
Voltando e percotendo li molesta….
E come gli stornei ne portan l’ali,
Nel freddo tempo, a schiera larga e piena :
Cosi quel fiato gli spiriti mali
Di qua, di là, di giù, di su li mena :
Nulla speranza li conforta mai,
Non che di posa, ma di minor pena.

L’altra regione, cui davano il nome di Campi Elisi, era tutta ridente e pacifica, abbellita d’ eterna primavera :

Non avea pur natura ivi dipinto,
Ma di soavità di mille odori
Vi facea un incognito indistinto….

E quivi soggiornavano con beatitudine le ombre dei saggi. Virgilio descrive i Campi Elisi e le loro ombre :

….. È questa una campagna
Con un ær più largo, e con la terra
{p. 118}Che di un lume di porpora é vestita,
Ed ha ’l suo sole, e le sue stelle anch’ella.
Qui se ne stan le fortunate genti
Parte in su’ prati, e parte in su l’arena
Scorrendo, lotteggiando, e varj giuochi
Di piacevol contesa esercitando.
Parte in musiche, in feste, in balli, in suoni
Se ne van diportando, ed han con essi
Il tracio Orfeo, ch’in lungo abito e sacro
Or con le dita, ed or con plettro eburno,
Sette nervi diversi insieme uniti,
Tragge del muto legno umani accenti….
…………………
E questi eran color che combattendo
Non fur di sangue alla lor patria avari ;
E quei che sacerdoti erano in vita
Castamente vissuti ; e quei veraci,
E quei più ch’ han di qua parlato o scritto
Cose degne di Febo ; e gl’inventori
Dell’Arti, ond’è gentile il mondo e bello ;
E quei, che ben oprando han tra’mortali
Fatto di fama e di memoria acquisto.
Cui tutti, in segno di celeste onore,
Candida benda il froute orna e colora.
(Eneide, lib. VI, trad. del Caro. )

In questi beati luoghi il fiume Lete scorre placidamente, e le sue onde fanno dimenticare tutti i mali della vita, Saturno vi regna con la moglie Rea, e vi rende perpetua l’età dell’oro che fu tanto breve sopra la terra. Alcuni credevano i Campi Elisi essere nella Luna, altri nelle isole Canarie o Fortunate, od anche in vicinanza delle colonne d’Ercole nelle fertili campagne della Betica.43

{p. 119}217. I principali fiumi dell’Inferno erano l’Acheronte, il Cocito, il Flegetonte, lo Stige, l’Erebo e il Lete. Dante impara da Virgilio la misteriosa origine delle acque infernali mediante un ritrovato pieno d’altissima sapienza. Nell’isola di Creta, ove cominciò con Saturno la prima età, s’innalza la statua del Tempo, composta da capo a piedi di varie materie gradatamente inferiori, come quella che nelle Scritture Sacre dicesi veduta da Nabuccodonosor : e dal corrompimento delle materie stesse componenti la detta statua, che è quanto a dire dai vizj di tutti i tempi, derivano gli orrendi fiumi d’Abisso :

In mezzo ’l mar siede un paese guasto,44
Diss’ egli45 allora, che s’appella Creta,
Sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto.46
Una montagna v’è, che già fu lieta
D’acque e di fronde, che si chiamò Ida :
Ora è diserta come cosa vieta.47
Rea la scelse già per cuna fida48
Del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
Quando piangea, vi facea far le grida.
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio
Che tien volte le spalle inver Damiata,49
E Roma guarda sì, come suo speglio.
La sua testa è di fin’oro formata,
E puro argento son le braccia e il petto,
Poi è di rame infino alla forcata ;
Da indi in giuso è tutto ferro eletto,
Salvo che il destro piede é terra cotta,
E sta in su quel, più che in su l’altro eretto.
Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta
D’una fessura che lagrime goccia,
Le quali accolte foran quella grotta.
{p. 120}Lor corso in questa valle si diroccia.50
Fanno Acheronte, Stige e Flegetonta ;
Poi sen van giù per questa stretta doccia
Infin là ove più non si dismonta.51
Fanno Cocito ; e qual sia quello stagno,
Tu lo vedrai ; però qui non si conta.

Ma la mitologia degli antichi assegna a ciascuno di questi fiumi una più distinta origine, feconda anch’essa d’idee morali.

218. Acheronte (achos, dolore, rhoos, fiume, gr.), figlio d’Apollo (96) e della Terra (25) fu cangiato in fiume e precipitato nell’Inferno (215) per aver somministrato l’acqua ai Giganti (65) allorchè mossero guerra a Giove (63). I poeti lo figurano vecchio riposantesi sopra un’ urna nera ; dicono le sue acque esser capaci di consumare i più duri metalli, talchè niun vaso può contenerle ; e scorrono tanto rapide da travolver seco enormi scogli, sicchè nulla vale a rattenerne l’impeto :

………un fiume è questo
Fangoso e torbo, e fa gorgo e vorago,
Che bolle e frange, e col suo negro loto
Si devolve in Cocito.
(Eneid., loc. cit.)

219. Il Cocito (Kokyo, io piango, gr.) circondava il Tartaro (216) ; le sue onde altro non erano che le lacrime dell’eterno pianto dei malvagi, come suona il vocabolo ; ed il loro mormorio ne imitava i gemiti. Credevano gli antichi che le anime degl’ insepolti andassero errando per cento anni sulle sue sponde, e così la carità dei congiunti e dei cittadini era pietosamente stimolata a dare onorevole sepoltura alle spoglie mortali. Sulle sue sponde coronate di tassi che mandavano ombra mesta e tenebrosa, {p. 121}era una porta eretta su cardini di bronzo, e che dava accesso al Tartaro (216).

220. Il Flegetonte (phlegétho, io brucio, gr.) menava torrenti e vortici di fiamme, e circondava da ogni lato il Tartaro. Nella sua vicinanza non cresceva alcun albero, non una pianta verdeggiava sulle sue sponde ; e dopo lungo corso opposto a quello del Cocito, si gettava com’esso nell’Acheronte.

221. Lo Stige era un « tristo ruscello con acqua buia » dalla quale esalavano mortiferi vapori, e che per nove volte girava intorno all’Inferno. I poeti ne hanno formata una ninfa, figlia dell’ Oceano (192) e di Teti (192), e le danno per figliuole la Forza (346) e la Vittoria (348). Allorchè Giove (63) chiamò in aiuto tutti gli Dei per combattere i Giganti (67), Stige accorse la prima con le sue due figlie, onde il padre dei Numi, grato a tanto zelo, la ricolmò di doni. Volle che lo Stige diventasse il vincolo sacro delle promesse degli Dei, e decretò gravissime pene contro coloro che avessero violato i giuramenti fatti nel suo nome.

222. Giurando per lo Stige gli Dei dovevano tenere una mano stesa sulla terra e l’altra sul mare ; e chi rompea questo giuramento era per dieci anni bandito dal cielo, e privato dell’ ambrosia e del néttare. L’Ambrosia (ambrosios, immortale, gr.) era il cibo degli Dei, ed il Néttare la lor comune bevanda. La prima era molto più dolce del miele, e spandeva deliziosa fragranza ; dava o conservava la giovinezza, guariva le ferite, e procurava l’immortalità. L’Aurora con essa rese immortale Titone ; Apollo imbalsamò il corpo del valoroso Sarpedonte, e Venere guarì le ferite del suo figlio Enea. Si dice che l’ambrosia scaturisse la prima volta da uno dei corni della capra Amaltea.

223. L’Erebo, figlio del Caos (22) e della Notte (238), fu trasformato in fiume e precipitato nell’ inferno per aver {p. 122}soccorso i Titani contro Giove. Talora significa una parte o tutto l’inferno.

224. Il Lete, chiamato anche fiume dell’Oblio, « là dove vanno l’anime a lavarsi » era figurato in un vecchio con l’urna nell’ una mano, e la tazza dell’oblio nell’altra. Era imposto alle ombre di bevere le sue acque, le quali avevano la proprietà di far loro dimenticare il passalo e di prepararle a patire di nuovo le miserie della vita.

225. Caronte, figlio dell’Erebo (223) e della Notte (238), era il « nocchier della livida palude : »

……Demonio spaventoso e sozzo,
A cui lunga dal mento, incolta ed irta
Pende canuta barba ; ha gli occhi accesi
Come di bragia ; ha con un groppo al collo
Appeso un lordo ammanto ; e con un palo
Che gli fa remo, e con la vela regge
L’affumicato legno, onde tragitta
Sull’ altra riva ognor la gente morta.
Vecchio è d’aspetto e d’anni, ma di forze,
Come Dio, vigoroso e verde è sempre.
A questa riva d’ogn’intorno ognora,
D’ogni età, d’ogni sesso e d’ogni grado
A schiere si traean l’anime spente….
……….I primi avanti orando
Chiedean passaggio, e con le sporte mani
Mostravano il desio dell’ altra ripa ;
Ma ’l severo nocchiero, or questi or quelli
Scegliendo o rifiutando, una gran parte
Lunge tenea dal porto e dall’ arena.
(Loc. cit.)

Ogni ombra dovea pagargli il passo con una moneta ; per lo che i Greci e i Romani ponevano un obolo nella bocca dei morti ; e ne sono stati trovati anche sotto la lingua di parecchie mummie. Quindi alle anime degl’ insepolti, come dicemmo :

………..non è concesso
Traiettar queste ripe e questo fiume,
{p. 123}Se pria l’ossa non han seggio e coverchio.
Erran cent’anni vagolando intorno
A questi lidi, e ’l desiato stagno
Visitando sovente, infin ch’al passo
Non sono ammessi.
(Loc. cit.)

226. Cerbero, cane con tre teste ed il collo orridamente cinto di serpenti, custodiva la porta dell’inferno :

Cerbero, fiera crudele e diversa,52
Con tre gole caninamente latra
Sovra la gente che quivi é sommersa.
Gli occhi ha vermigli, e la barba unta ed atra,
E il ventre largo, ed unghiate le mani ;
Graffia gli spirti, gli scuoia ed isquatra.
(Dante, Inf. c. VI.)

Accoglieva talora con carezze le ombre che entravano, e minacciava abbaiando con le sue tre bramose gole quelle che accennavano di volerne uscire. Raccontano che Ercole (364) lo incatenò e se lo tirò dietro fino sulla terra, allorchè liberò dall’inferno Alceste sposa d’Admeto (102) ; che Orfeo (469) lo addormentò col suono della sua lira, quando scese per richiedere a Plutone (213) la sua Euridice ; e che la Sibilla che condusse Enea (608) all’inferno,

Tratta di mêle e d’incantate biade
Una tal soporifera mistura,
La gittò dentro alle bramose canne.
Egli ingordo, famelico e rabbioso
Tre bocche aprendo, per tre gole al ventre
Trangugiando mandolla, e con sei lumi
Chiusi dal sonno, anzi col corpo tutto
Giacque nell’ antro abbandonato e vinto.
(Loc. cit.)

Questo mostro favoloso deriva forse da un antico uso degli Egiziani, i quali facevano custodire i sepolcri dai cani, affinchè le belve non andassero a disotterrare i cadaveri.

{p. 124}227. Minosse, Eaco e Radamanto erano i tre giudici dell’ Inferno, ed esaminavano le anime di mano in mano che Mercurio (160) le conduceva al loro tribunale. Eaco giudicava i popoli dell’Europa, Radamanto quelli dell’Asia, e Minosse era presidente del tribunale, dove non valevano a mitigar la pena meritata nè ufficio d’avvocato, nè potere di’ re, nè donativi, nè scuse.

228. Minosse, figlio di Giove (63) e d’Europa (91), fu re di Creta,53 isola del Mediterraneo al sud dell’Arcipelago, e governò il suo regno da savio e mite sovrano. Affinchè le sue leggi avessero maggiore autorità appo i Cretesi, ogni nove anni si ritirava in una caverna, dando a credere che ivi Giove (63) gliele dettasse. Come presidente dei giudici infernali, aveva in una mano lo scettro e nell’altra l’urna fatale contenente il destino di tutti i mortali :

Stavvi Minos orribilmente, e ringhia :
Esamina le colpe nell’entrata,
Giudica e manda secondo che avvinghia.
Dico, che quando l’anima malnata
Gli vien dinanzi, tutta si confessa :
E quel conoscitor delle peccata
Vede qual loco d’inferno è da essa :
Cignesi colla coda tante volte
Quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte :
Vanno a vicenda ciascuna al giudizio ;
Dicono ed odono, e poi son giù volte.

229. Eaco, figlio di Giove (63) e d’Egina, fu re dell’isola d’Egina da lui così chiamata in onor della madre. Siccome la peste aveva spopolato i suoi stati, così ottenne dal padre che le formiche diventassero uomini, e dette ai suoi sudditi il nome di Mirmidoni (92). Vi governò poi con tanta sapienza e giustizia che ebbe l’onore di tener nell’Inferno la bilancia con la quale eternamente libra il {p. 125}vizio e la virtù. Eaco ebbe due celebri figli, Telamone e Peleo. Il primo, esiliato dal padre per aver ucciso per disgrazia Foco suo fratello minore nel fare il chiasso, si rifugiò a Salamina, dove Cencreo re di quell’ isola gli dette in moglie Glauca sua figlia, e lo destinò a suo successore. Morta Glauca sposò Peribea figlia d’Alcitoo re di Megara, e ne ebbe Aiace Telamonio (561). Telamone si trovò alla spedizione di Colchide ed alla presa di Troja fatta da Ercole sotto il regno di Laomedonte, ed ebbe la gloria di far la prima breccia nelle mura di quella città e d’ entrarvi il primo. Ercole in premio del suo coraggio gli fece sposare la figliuola di Laomedonte, Esione, che fu la sua terza moglie e madre di Teucro. — Peleo sposò Teti (320) e fu padre d’Achille (536). Le sue nozze, che la Discordia turbò col pomo fatale, furono la prima causa della rovina di Troja (344).

230. Radamanto, figlio di Giove (63) e d’Europa (91), e fratello di Minosse, recò nella Licia le leggi di Creta, e regnò in Oecalia, città della Beozia, dove sposò Alcmena (74) vedova d’Anfitrione (364). Le sue virtù, tra le quali si distinguevano la giustizia e la frugalità, lo fecero adorare dai propri sudditi, e gli antichi avevan tale opinione della sua equità, che se volevano attestare la giustizia di una sentenza, benchè severa, la chiamavano una sentenza di Radamanto. Anch’ egli

……..ode, esamina, condanna,
E discopre i peccati che di sopra
Son dalle genti o vanamente ascosi
In vita, o non purgati anzi alla morte :
Nè pria di Radamanto esce il precetto
Che Tesifone (232) è presta ad eseguirlo.
Ella con l’una man la sferza impugna,
Nell’altra ha serpi ; ed ambe intorno arrota,
E grida e fere ; e delle sue sorelle
Le mostruose ed empie schiere tutte
Al ministero de’ tormenti invita.
(Loc. cit.)

{p. 126}231. Così la saviezza del governo di Minosse, d’Eaco e di Radamanto, e soprattutto la fama di giustizia, hanno mosso i poeti ad attribuir loro la funzione di giudici supremi dell’Inferno (215). E non a caso, nell’affidare ad essi il finale ed inappellabile giudizio dei mortali, era contemplata la doppia qualità di legislatore e di giudice non comportabili in un solo uomo, a meno ch’egli non sia ente soprannaturale dotato d’intemerata virtù : imperocchè dalle cattive leggi e dai giudici ignoranti o corrotti principalmente deriva il disordine sociale che spinge alle colpe ; e quindi i legislatori e i giudici sono in gran parte mallevadori dei portamenti degli uomini. I Greci potrebbero aver preso l’idea di questi giudici dell’ inferno dal costume che avevano gli Egiziani di giudicare pubblicamente la memoria di ciascun uomo, e specialmente dei re, appena morti, prima d’accordar loro l’onore della sepoltura.

232. Le Furie furono divinità infernali, ministre del rigor degli Dei contro i malvagi, figlie dell’Acheronte (218) e della Notte (238). Erano tre : Megèra (Megairéin, invidiare, gr.) ; Tesifone (tisis, pena, phonos, uccisione, gr.), ed Aletto (alektos, indicibile, gr.).

Cui son l’ire, i dannaggi, i tradimenti,
Le guerre, le discordie, le ruine,
Ogni empio officio, ogni mal opra a core :
E tale un mostro in tanti e cosi fieri
Sembianti si trasmuta, e de’ serpenti
Si tetra copia le germoglia intorno ;
Che Pluto e le tartaree sorelle
Sue stesse in odio, ed in fastidio l’hanno.
(Eneide, lib. vii. Trad. del Caro.)

Queste deità tremende mostravano aspetto severo e minaccioso ; e le loro vesti sempre sanguigne erano ora nere, ora bianche ; nere quando le accendeva lo sdegno, ed allora le chiamavano Nemesie (furiose) o Erinni ; bianche {p. 127}quando si mostravan placate, e[ILLISIBLE] furon dette Eumenidi (benefiche). Ma furono quasi sempre rappresentate con ali di pipistrello, con serpenti attorcigliati sul capo, e una fiaccola in mano ; ed avevano per compagni il Terrore, la Rabbia, il Pallore e la Morte : in una parola ecco il rimorso co’ suoi tormenti a’ quali niun colpevole può sottrarsi :

…. in un punto vidi dritte ratto
Tre furie infernal di sangue tinte,
Che membra femminili avean ed atto ;
E con idre verdissime eran cinte ;
Serpentelli e ceraste avean per crine,
Onde le fiere tempie erano avvinte.
E quei,54 che ben conobbe le meschine
Della regina dell’ eterno pianto :
Guarda, mi disse, le feroci Erine.
Questa è Megera dal sinistro canto :
Quella che piange dal destro è Aletto :
Tesifone è nel mezzo : e tacque a tanto.
Coll’unghie si fendea ciascuna il petto,
Batteansi a palme, e gridavan si alto,
Ch’io mi strinsi al poeta per sospetto.
(Dante, Inf. c. IX.)

E G. – B. Niccolini nell’Edipo :

Dietro all’orme funeste
Vengon l’insidie e l’ire,
Pugne, ruine, incendj :
Voi mille aspetti avete, e tutti orrendi :
Feroce Aletto fra le dense schiere
Un re tiranno, a lui sol nota, affronti :
Nuovo pallor copre la faccia ; ei sente
Il nume tuo presente ;
Tu dalla mano incerta
Togli l’insanguinato
Scettro, e sul trono gli t’assidi al lato.
……..A voi diletta
Di chi delira il canto,
E su pallide labbra inno di pianto :
{p. 128}Raccor [ILLISIBLE]e in atri vasi il sangue
Di chi [ILLISIBLE]
Svegliar subiti a[ILLISIBLE]
Negli attoniti petti ;
Per voi, turba feroce,
Spesso a color, che morte
Sull’ orlo spinge di nascoso abisso
(Crude primizie del tormento eterno)
È cura, è gioia il palesar l’inferno.
Non del cimier l’orgoglio,
Nè il piè veloce di corsier superbo
Il guerrier dalle vostre ire difende.
Su lui, vergini orrende,
Le negre ali spiegate, e la seguace
Ira dei serpi eterni
Preme il timido tergo,
E trema il cor sotto l’infido usbergo.

CORO.

Odi lo strepito
Del ferreo piede,
Gli atroci sibili
Del serpe eterno.
Ecco Tisifone,
E la precede
Notte d’inferno.
Il crin sollevasi
All’empio in fronte ;
Deh ! l’onda arrecami
Da puro fonte ;
D’erbe mortifere
I nappi ornate,
Su via, le gelide
Acque versate :
Ecco le Eumenidi ;
Empi trematel

233. Gli Dei, che le avevano preposte a tormentare le anime dei perversi, le destinavano anche a gastigare gli uomini in vita con tutti i flagelli della celeste collera. Così le Furie empivano di spavento i colpevoli, turbavano i {p. 129}loro sonni, li perseguitavano con dilanianti rimorsi e con visioni paurose, che li riducevano in tetra disperazione, incominciando sulla terra a patire gli eterni supplizi del Tartaro.

234. A sì temute Dee furono offerti singolari omaggi ; e tanto era il pauroso rispetto per esse, che quasi non s’arrischiavano a nominarle o ad alzare gli occhi verso i loro templi, i quali servivano d’inviolabile asilo ai colpevoli, supponendo che già il rimorso facesse ivi patir loro la meritata pena con supplizio maggiore di quello al quale si volevan sottrarre. Infatti presso la città di Cerina in Acaia, appena il colpevole aveva posto il piede sulla soglia del tempio delle Furie, uno spaventoso delirio ne occupava i sensi, e lo faceva passare in un istante dal furore alla disperazione, alla morte. Sacrificavano alle Furie pecore pregne, arieti e tortorelle, emblema dell’innocenza, essendochè solo per essa l’uomo può sottrarsi agli spasimi del rimorso. Oreste (533), per tentar di placarle, alzò in fondo dell’Arcadia un tempio alle Furie nere. Incoronò le loro statue di zafferano e di narcisi ; coperse gli altari con frutta e miele ; immolò una pecora nera, e consumò il corpo della vittima sopra un rogo di cipresso, di biancospino e di ginepro. Le Dee commosse alfine dal suo pentimento gli comparvero vestite di bianco, ed egli eresse allora un secondo tempio in onore delle Furie bianche o Eumenidi. Quivi le incoronò d’olivo, sacrificò due tortorelle, e fece una libazione d’acqua di fonte con vasi che avevano i manichi fasciati di lana d’agnello. I ministri del loro tempio in Atene vicino all’Areopago formavano un tribunale, avanti a cui non era lecito comparire se non dopo aver giurato sull’altare delle Eumenidi di dire la verità.

234. 2°. Ecate è la più formidabile tra le potenze infernali. Con membra immani sta sulla soglia del Tartaro, ed ha tre teste, o d’uomo, di cavallo e di cane ; o di cane. {p. 130}di leone e di toro. Una corona di querce è intrecciata al vipereo suo crine ; a’ piedi le stanno cani furiosi, con occhi di fuoco e fauci aperte a lamentevoli latrati. Nella destra ha una face, un flagello e un pugnale ; nell’altra una chiave e una tazza funebre, per le libazioni alle quali presicde. Questa triplice divinità esercita con tre nomi tre diversi poteri, nel Tartaro, nel cielo e sulla terra : Ecate con le chiavi dell’ abisso infernale, Febea (138) nella notte per regolare il corso della luna, Diana (138) nei boschi. Era fama che Ecate profondesse ricchezze a’ suoi adoratori, gli accompagnasse nei loro viaggi, e disponesse a favor loro dei suffragi del popolo c degli allori della vittoria (Esiodo). Talora assisteva ai consigli dei re ; e più spesso errando sulle pendici o nelle valli moltiplicava i greggi, o di sterilità li colpiva. Perciò gli Ateniesi le offerivano focacce con l’impronta d’ un bove o d’en ariete. In mezzo ai trivj dove sorgeva la sua statua, le imbandivano ogni mese una cena che era poi goduta dai poveri in onor suo. Talvolta le era fatta un’ Ecatombe, o sacrifizio di cento bovi. A Roma le venivan sacrificati di notte i cani, dei quali credevano che i lamentevoli latrati allontanassero gli spiriti maligni.

235. Dopo di queste gli antichi avevano immaginato altre tre divinità infernali che presiedevano alla vita e alla morte, ossia le Parche, figlie di Giove e di Temi od anche della Notte, e secondo altri della Necessità ; ed erano così dette dalla parola parcere, perdonare o risparmiare, usata ironicamente perchè esse non fanno mai grazia a nessuno. A mitigare o a rattenere l’esecuzione dei loro severi decreti non valgono nè bellezza, nè gioventù, nè amicizia, nè amore ; quelle sventurate non lo hanno mai conosciuto ! Ognuna poi aveva il suo nome proprio Cloto (Klotho, io filo, gr.), Lachesi (lanchanèin, tirare a sorte, gr.) e Atropo (atropos, immutabile, gr.). Assise in fondo a squallida caverna al fioco barlume d’una lampada, vestile {p. 131}di ampia e candida cappa filavano quello stame che è simbolo ingegnoso del corso della vita. Il suo colore indicava il destino dei mortali : il nero annunziava una vita corta e sventurata, il bianco un’esistenza più lunga. Di rado nel pennecchio di Cloto si vedeva apparire qualche filo di seta o d’oro, simbolo della felicità che pochi mortali sanno procacciarsi.

236. Cloto teneva in mano la conocchia, Lachesi « che il crin si vela di dorata benda » filava, e Atropo impaziente tagliava con le sue forbici il fatale stame.

237. La fertile immaginazione dei poeti ha popolato il Tartaro d’ infinito numero di divinità allegoriche, tra le {p. 132}quali tengono il primo posto la Notte, il Sonno, i Sogni, la Morte, gli Dei Mani ec.

238. La Notte, dea delle Tenebre, era figlia del Cielo (25) e della Terra (25), e secondo altri del Caos (22). Sposò l’Acheronte (218) dal quale ebbe le Furie (232) ; da sè sola concepì la Morte (242) ; dal Caos (22) ebbe il Destino (21) e l’Erebo (223) ; dal Sonno (240), Momo (282), e dalla Morte (242), la Frode.

239. La si vede negli antichi monumenti, ora con intorno alla testa una zona svolazzante smaltata di stelle, ora con un manto azzurro ed una teda rovesciata ; e scorre silenziosa pel cielo, sopra un carro d’ebano, dopo il tramonto del sole, seguita da un corteggio di Costellazioni (686). Talora ha in braccio due bambini ; uno nero, emblema della morte o della notte, e l’altro bianco, simbolo del sonno o del giorno. Vespro o Espero, fratello o figlio d’Atlante (382), che fu trasformato in astro (la stella della sera) e creato Dio della sera, e Dio del mattino sotto il nome di Lucifero, ha cura del suo carro, e glielo mette in ordine pel tacito viaggio. Quando la Notte era considerata qual madre del Giorno avuto dall’ Erebo insieme con le tre Parche (235), le veniva sacrificato il gallo, che nelle tenebre canta il ritorno della luce ; e come madre delle Furie le immolavano pècore nere. Anche di questa divinità immagina più compiuta pittura l’Annibal Caro :

« Nell’opposita parte, a piè dell’ovato, sia la Notte, e come l’Aurora sorge, questa tramonti ; com’ ella ne mostra la fronte, questa ne volga le spalle ; quella esca di un mar tranquillo e nitido, questa s’immerga in uno che sia nubiloso e fosco. I cavalli di quella vengano col petto innanzi ; di questa mostrino le groppe. E così la persona istessa della Notte sia varia del tutto a quella dell’Aurora. Abbia la carnagione nera, nero il manto, neri i cavalli, nere l’ali ; e queste siano aperte come se volasse. Tenga le mani alte, e dall’una un bambino {p. 133}bianco che dorma per significare il sonno, dall’ altra un altro nero che paia dormire, e significhi la morte, perchè d’ambedue questi si dica esser madre. Mostri di cader col capo innanzi fitto in un’ ombra più folta, e ’l ciel d’intorno sia d’azzurro più carico, e sparso di molle stelle. Il suo carro sia di bronzo, con le ruote distinte in quattro spazii, per toccare le sue quattro vigilie. »

« Per significar questo (il Crepuscolo), trovo che si fa un giovinetto tutto ignudo, talvolta con l’ ali, talvolta senza, con due facelle accese, l’una delle quali faremo che s’accenda a quella dell’Aurora ; e l’altra che si stenda verso la Notte. Alcuni fanno che questo giovinetto con le due faci medesime cavalchi sopra un cavallo del Sole o dell’ Aurora ; ma questo non farebbe componimento a nostro proposito. Però lo faremo come disopra, e volto verso la notte ponendogli dietro fra le gambe una grande stella, la quale fosse quella di Venere, per chè Venere e Fosforo, ed Espero e Crepuscolo, par che si tenga per una cosà medesima. » (Vasari, vita di Taddeo Zucchero.)

240. Il Sonno, figlio dell’Erebo (223) e della Notte (238), abitava un antro impenetrabile ai raggi del sole, ove non entrava anima vivente a turbarne la quiete. Il fiume dell’Oblio scorre alla bocca dell’antro, e il solo mormorio delle sue acque rompe il silenzio. Sul limitare crescono papaveri ed altre piante sonnifere, onde la Notte raccoglie i soporiferi umori per ispanderli sulla terra. Il Nume è coricato sopra un letto d’ebano, coperto da brune cortine.

« Ovidio la pone (la casa del sonno) in Lenno e ne’ Cimmerii, Omero nel mare Egeo, Stazio presso agli Etiopi, l’Ariosto nell’Arabia. Dovunque si sia, basta che si finga un monte, quale se ne può immaginare uno, dove siano sempre tenebre e non mai sole. A piè d’esso una concavità profonda, per dove passi un’ acqua come morta, per mostrare che non mormori, e sia di color {p. 134}fosco, perciocchè la fanno un ramo della Letea. Dentro questa concavità sia un letto, il quale, fingendosi d’esser d’ebano, sarà di color nero, e di neri panni si cuopra, in questo sia coricato il sonno, un giovine di tutta bellezza, perchè bellissimo e placidissimo lo fanno, ignudo secondo alcuni, e secondo alcuni altri vestito di due vesti ; una bianca di sopra, l’altra nera di sotto. Tenga sotto il braccio un corno che mostri riversar sopra ’l letto un liquor liquido, per denotare l’oblivione, ancorchè altri lo facciano pieno di frutti. In una mano abbia la verga, nell’altra tre vessiche di papavero. Dorma come infermo, col capo e con tutte le membra languide, e come abbandonato nel dormire. Dintorno al suo letto si vegga Morfeo, Icelo e Fantaso, e gran quantità di sogni, che tutti questi sono suoi figliuoli. I sogni siano certe figurette, altre di bello aspetto, altre di brutto, come quelli che parte dilettano e parte spaventano. Abbiano l’ali ancor essi e i piedi storti, come instabili ed incerti che sono. Volino, e si girino, intorno a lui, facendo come una rappresentazione, con trasformarsi in cose possibili ed in impossibili. Morfeo è chiamato da Ovidio, artefice e fingitore di figure ; e però lo farei in atto di figurare maschere di variati mostacci, ponendone alcune di esse ai piedi. Icelo dicono che si trasforma esso stesso in più forme ; e questo figurerei per modo, che nel tutto paresse uomo, ed avesse parte di fiera, di uccello, di serpente, come Ovidio medesimo lo descrive. Fantaso vogliono che si trasmuti in diverse cose insensate ; e questo si può rappresentare anche con le parole di Ovidio, parte di sasso, parte d’acqua, parte di legno. Fingasi che in questo luogo siano due porte ; una d’avorio, donde escono i sogni falsi, ed una di corno, donde escono i veri. E i veri, siano coloriti, più distinti, più lucidi e meglio fatti, i falsi confusi, foschi, ed imperfetti. » (Vasari, loc. cit.)

{p. 135}241. Il Sonno (240) aveva anch’esso i suoi figli, ed erano i Sogni dei quali due o tre si distinguevano tra gli altri, come Morfeo protettore dei pigri e sonnolenti mortali, Fobetore, e Fantaso (phantasia, immaginazione gr.) conosciuto anche sotto il nome d’ incubo o di fantasima, d’orrido aspetto, per lo più in sembianza di scimmia accovacciata ; e questo non visitava mai gli uomini sobri o tranquilli di coscienza ; ma andava sempre a turbare i sonni degl’intemperanti o di coloro che avevano da rimproverarsi qualche malvagia azione. Costoro poi abitavano solamente i palazzi, laddove gli altri sotto forme quasi sempre gradevoli di alati puttini stavano con la moltitudine ; ma raramente aveva essa bisogno d’invocarne l’aiuto, perchè la vita faticosa concilia subito e dolcemente il riposo ; mentre pei ricchi molli ed oziosi il culto del sonno era dei più importanti ; e spesso la invocata divinità si mostrava sorda ai loro voti. Morfeo, capo degli altri sogni, era nel tempo stesso ministro del Sonno suo padre, e talora veniva confuso con lui. È rappresentato con ali di farfalla per esprimerne la leggerezza.

242. La Morte (232), figlia dell’ Erebo (223) e della Notte (238), e sorella del Sonno (240), è la divinità più inesorabile di tutte, sorda ai voti ed alle suppliche dei mortali, senza portar rispetto nè a grado nè ad ingegno :

Ed una donna involta in vesta negra,
Con un furor qual’io non so se mai
Al tempo de’ giganti fosse a Flegra….
Io son colei che si importuna e fera
Chiamata son da voi, e sorda, e cieca,
Gente a cui si fa notte innanzi sera.
I’ ho condotta al fin la gente greca,
E la troiana, all’ ultimo i Romani,
Con la mia spada, la qual punge e seca ;
E popoli altri barbareschi e strani :
E giungendo quand’altri non m’aspetta,
Ho interrotti mille pensier vani.
{p. 136}Or a voi, quand’ il viver più diletta,
Drizzo ’l mio corso….
Ivi55 eran quei, che fur detti felici ;
Pontefici, regnanti e ’mperatori :
Or sono ignudi, poveri, e mendici.
U’ son or le ricchezze ? u’ son gli onori,
E le gemme e gli scettri, e le corone,
E le mitre con purpurei colori ?
Miser chi speme in cosa mortal pone !
(Ma chi non ve la pone ?) e s’ei si trova
Alla fine ingannato, è ben ragione.
O ciechi, il tanto affaticar che giova ?
Tutti tornate alla gran madre antica ;
E ’l nome vostro appena si ritrova….
(Petrarca, Trionfo della Morte)

Colei che così ragiona si vede sulle sculture antiche armata di falce, con pallido e scarno volto, e incavernati gli occhi. Una lacera e nera gramaglia appena ricuopre il livido carcame. Talvolta ha in mano un corno, forse per indicare che nemmeno l’abbondanza di tutte le cose ci salva da lei, e le svolazza intorno una farfalla per rammentare che, se il corpo muore, l’anima non perisce, e che

La morte è fin d’una prigione oscura
Agli animi gentili : agli altri è noia,
C’ hanno posto nel fango ogni lor cura.

Quindi i buoni non debbon temerla,

…pur che l’alma in Dio si riconforte,
E ’l cor che ’n sè medesmo forse è lasso ;
Che altro che un sospir breve è la morte ?

Ma ben si può dire :

O misero colui, ch’ i giorni conta,
E pargli l’un mill’anni, e ’ndarno vive,
E seco in terra mai non si raffronta !

Era consacrato alla morte il tasso, il cipresso ed il gallo, {p. 137}essendochè sembri che il suo canto debba turbare il silenzio delle tombe.

243. Gli antichi non avevano idee fisse intorno ai Mani, ma possiamo distribuirli in tre specie diverse : le anime dei morti virtuosi ; le Larve o i genj malefici degli scellerati, i quali, essendo condannati ad errar sulla terra, appariscono di notte con spaventosi aspetti (e gli spiriti, nell’ esistenza dei quali crede ancora il volgo ignorante, sono un resto di questa antica superstizione) ; finalmente gli Dei-Mani che stanno a custodia delle tombe. Per questo nei vecchi sepolcri troyiamo le due iniziali D M che significano, Diis Manibus, come per raccomandare a loro la tutela dell’urna. Per lo più immolavano pecore nere agli Dei-Mani ed alle Larve, ed era lor consacrato il cipresso ; ai Mani poi degli amici solevano offerir latte, miele, vino e profumi.

244. Fra i grandi colpevoli che furono precipitati nel Tartaro (216) convien citare prima i Giganti (65), schiacciati sotto il peso del monte Etna, il quale, a motivo dei suo cratere ignivomo era preso per una sbocco infernale. Ovidio dice che quando il gigante Tifone (69) si smuove, cagiona i terremuoti, e che le eruzioni del vulcano altro non sono che disperati sospiri dei Giganti, « quando l’ira d’Encelado trabocca. »

245. Sisifo, figliuolo d’Eolo, (199) aveva desolato l’Attica devastando ogni cosa e assassinando i passeggieri che s’imbattevano in lui ; sicchè Giove (63) lo punì precipitandolo nell’inferno, e condannandolo a spingere fin sulla cima d’ un’ alta montagna un masso enorme che sempre rotolava giù pel proprio peso, e non gli concedea riposo giammai ; immagine degli ambiziosi e degl’invidiosi del merito altrui, i quali consumano la vita in continue fatiche eccedenti le loro forze ; e quando si credono all’ apice dei loro voti, la pietra ricade, e li condanna a nuovi travagli ; ma il lavoro e la fatica non son perduti quando {p. 138}vengono animati da emulazione virtuosa, e non da bassa gelosia.

246. Salmoneo, fratello di Sisifo (245), per aver conquistato l’Elide s’empì di tanto orgoglio,

Che temerario veramente ed empio
Fu di voler, quale il Tonante in cielo,
Tonar quaggiuso e folgorare a prova.
Questi su quattro suoi giunti destrieri,
La man di face armato, alteramente
Per la Grecia scorrendo, e fin per mezzo
D’Elide, ov’è di Giove il maggior tempio,
Di Giove stesso il nome e degli Dei
S’attribuiva i sacrosanti onori.
Folle ! che con le fiaccole e co’ bronzi,
E con lo scalpitar de’ suoi ronzini,
I tuoni, i nembi e i’folgori imitava
Ch’ imitar non si ponno. E ben fu degno
Ch’ ei provasse per man del padre eterno
D’altro fulmine il colpo e d’altro vampo
Che di tede e di fumo ; e degno ancora
Che nel baratro andasse.
(Virgilio, Eneide, traduzione del Caro.)

247. Flegia, figlio di Marte (255) e di Crisa, ebbe una figlia chiamata Coronide (133) che fu amata da Apollo (96). e divenne madre d’Esculapio (100). Ma Flegia, per odio e disprezzo contro Apollo, dette fuoco al tempio di Delfo. laonde, per punirlo, gli Dei lo condannarono nel Tartaro a vivere nel perpetuo timore di restare schiacciato sotto uno scoglio che gli pende in bilico sulla testa :

…….E Flegia infelicissimo
Va tra l’ombre gridando ad alta voce :
Imparate da me, voi che mirate
La pena mia : non violate il giusto,
Riverite gli Dei. (Loc. cit.)

248. Issione, re dei Lapiti e padre dei Centauri (430), negò al suocero Deioneo i donativi promessigli per isposarne la figlia Dia ; ed esso gl’involò i suoi cavalli. Issione, {p. 139}dissimulando lo sdegno, chiamò a sè il suocero, e lo fece morire. Questo delitto svegliò universale orrore ; ed Issione fu assalito da così cocenti rimorsi, che non solo quella degli altri ma la vista di sè medesimo gli era tormento atrocissimo. Ma dopo aver pagato il fio lungo tempo con questo strazio, Giove (63), credendolo pentito, gli aprì un asilo nel cielo, e lo fe’ sedere alla mensa degli Dei. Spesso il colpevole è anche ingrato ; ed Issione si diportò tanto male da cortigiano col padre dei Numi, che questi lo fulminò nel Tartaro (216), dove Mercurio (160) ebbe ordine di legarlo a una ruota fasciata di velenose serpi, e che girando continuamente Io tormentava.

249. Tizio,

Quel della terra smisurato alunno,
Che tien, disteso, di campagna quanto
Un giogo in nove giorni ara di buoi.
(Virgilio, Eneide, traduzione del Caro.)

Ebbe costui tanta audacia per essere così grosso, da volere offendere nell’onore Latona (99) ; ma Apollo (96) e Diana (137) lo uccisero con le frecce, e lo mandarono a patire nel Tartaro (215), dove

… ha sopra un famelico avvoltore,
Che con l’adunco rostro al cor d’intorno
Gli picchia e rode ; e perchè sempre il pasca,
Non mai lo scema, si che’l pasto eterno
Ed eterna pur sia la pena sua ;
Che fatto a chi lo scempia esca e ricetto,
Del suo proprio martir s’avanza e cresce ;
E perchè langua unqua non muore. (Loc. cit.)

250. Tantalo, (tantalizo, io accumulo tesori, gr.) figlio di Giove (63) e re di Lidia, era sordidamente avaro, nè riconosceva altra deità che il denaro. Un giorno i Numi andarono ad alloggiare in casa sua ; ed egli ebbe tanto a male di dover fare le spese a quegli ospiti, che dando lor da mangiare se ne doleva come se si trattasse di sacrificare {p. 140}le proprie viscere. Quindi gli Dei non vollero pigliar parte al banchetto, non accettarono un dono fatto per forza, ad eccezione di Cerere (51) che era fuor di sè pel dolore della rapita figliuola. Giove poi volle punire nel Tartaro (216) l’avarizia di Tantalo ; e Nettuno, preso da compassione pel suo figlioletto Pelope che menava con lui vita stentata, lo condusse in cielo per ministrare il néttare agli Dei prima che vi andasse Ganimede.

251. Omero nell’Odissea (lib. XI) descrive così il supplizio di Tantalo visto da Ulisse (576) :

Stava là presso con acerba pena
Tantalo in piedi entro un argenteo lago,
La cui bell’ onda gli toccava il mento.
Sitibondo mostravasi, e una stilla
Non ne potea gustar ; chè quante volte
Chinava il veglio le bramose labbra,
Tante l’onda fuggia dal fondo assorta,
Si che appariagli al pié solo una bruna
Da un Genio avverso inaridita terra.
Piante superbe, il melagrano, il pero,
E di lucide poma il melo adorno,
E il dolce fico, e la canuta uliva,
Gli piegavan sul capo i carchi rami ;
E in quel ch’egli stendea dritta la destra,
Vèr le nubi lanciava i rami il vento.
(Trad. del Pindemonte.)

Come poteva esser meglio dipinta l’avarizia che rende povero l’uomo in mezzo alle sue ricchezze ?

252 Danao, re d’Argo e figlio di Belo, ebbe cinquanta figlie chiamate dal nome paterno Danaidi, o Belidi da quello dell’avo ; ed Egitto, suo fratello e re d’Egitto, aveva cinquanta figli, e desiderò sposarli con le cugine. I cinquanta matrimonj furono celebrati nello stesso giorno ; ma Danao, saputo dall’oracolo che uno dei suoi generi Io avrebbe detronizzato, ordinò alle figliuole di uccidere i mariti nella prima notte delle loro nozze. L’empio ordine fu eseguito : ma una di esse, Ipermestra, salvò lo sposo Linceo. Giove (63) {p. 141}punì le scellerate fanciulle condannandole nel Tartaro a travagliarsi eternamente invano per empire d’acqua un vaso sfondato. Per quanto sia molta la inverosimiglianza della favola, tuttavia l’effetto del crudele ordine paterno, e la fatale urna delle Danaidi avvertono chiaramente che le scelleratezze le meglio ordite non rimangono mai nascoste, e che un padre che ordina delitti non va obbedito. Gli Argivi istituirono la festa delle fiaccole per celebrare la tenerezza coniugale d’Ipermestra.

Ecco dunque da chi era popolato il Tartaro ; e poi

…… Tra questi tali
È chi vende la patria, chi la pose
A giogo de’ tiranni, chi per prezzo
Fece leggi e disfece………
……… Quei che frode
Hanno ordito ai clienti ; i ricchi avari,
E scarsi a’ suoi, di cui la turba è grande….
Tutti, che brutte ed empie scelleranze
Hanno osato o commesso ; e cento lingue,
E cento bocche, e voci anco di ferro
Non basterian per divisare i nomi,
E le forme de’ vizj e delle pene,
Ch’entro vi sono.
(Eneide, lib. IV, trad. del Caro.)

253. Il supremo Dio dell’inferno, Plutone, il fratello di Giove e di Nettuno, era rappresentato con differenti attributi, secondo il genio dei popoli che l’adoravano. Spesso è dipinto nell’atto di rapire Proserpina (53), recandola svenuta nel suo carro tirato da cavalli neri. Nell’Inferno siede sopra un trono di bronzo, sui gradini del quale stanno tutti i flagelli che affliggono l’umanità. Ha in capo una corona d’ebano, di narcisi e di cipresso. La destra è armata di lunga forca, e l’altra ha la chiave che tien chiusa la porta dell’eternità. Gli seggono intorno a ministri della sua corte il Furore, l’Odio, l’Ipocrisia, la Vendetta e il Tradimento, vera immagine della corte di un tiranno ; e {p. 142}in mezzo a tutti sorge la Morte agitando la sanguigna falce nella scarna mano (242). I Greci dettero a Plutone il nome d’Agesilaos, per significare ch’egli trae a sè tutti i popoli. I Latini lo soprannominarono Februas, dal verbo Februare, far libazioni sulle tombe ; le quali cerimonie erano celebrate nel secondo mese dell’anno, che serba sempre il nome di Febbraio, e lo chiamarono anche Summanus, o sovrano dei Mani (243).

A meglio dipingere la immagine di questo re infernale ricordiamo anche la bellissima ottava del Tasso :

Orrida maestà nel fero aspetto
Terrore accresce, e più superbo il rende :
{p. 143}Rosseggian gli occhi, e di veneno infetto,
Come infausta cometa, il guardo splende :
Gl’involve il mento e sull’irsuto petto
Ispida e folta la grau barba scende :
E in guisa di voragine profonda
S’apre la bocca d’atro sangue immonda.
Pluto. §

254. Pluto, Dio delle ricchezze, era figlio di Cerere (51) e di Giasone celebre agricoltore. Fu annoverato tra le Deità infernali, perchè le ricchezze si ricavan dal seno della terra che è il loro soggiorno. Anche dai genitori che gli vengono attribuiti si può inferire come specialmente l’agricoltura sia la prima e la più nobile origine della dovizia. E figurato vecchio con una borsa in mano ; e zoppicando va innanzi a passi lenti ; ma nel tornare indietro si serve delle ali e corre velocemente, perchè le ricchezze sogliono essere acquistate adagio e andar disperse in pochi istanti. È cieco, per indicare ch’egli dispensa i suoi tesori a caso, tanto ai buoni quanto ai cattivi. Ma vuolsi avvertire che a questi comunica insieme coi ricchi doni anche la propria cecità che gl’induce ad usarne male ; laddove le ricchezze acquistate con industria onesta e con ingegno probo durano e fruttano il bene. Ma non si creda che le ricchezze consistano solamente nel denaro simboleggiato dalla borsa di Pluto : chè anzi hanno esse la minima parte nel conseguimento dei veri beni ; e la ricchezza veramente pregevole consiste nella buona riputazione d’onestà, e nel sapere. Quanti ricchi non vediamo sguazzare nell’oro, ed esser privi di quelle cose che fanno piacevole, desiderata, utile a sè od agli altri la vita ! Avete mai osservato, come l’uomo giudizioso si studj sempre disfarsi dell’oro adoperandolo ad alimentare l’industria dei concittadini, ad alleviare le altri disgrazie, a educar bene la sua famiglia, e viva sempre più lieto e sicuro quanto meno è pingue il suo {p. 144}scrigno ? Ora gettate uno sguardo sopra gl’ingordi e sopra gli avari ; e mirate quanto cresce la loro miseria coll’aumentare dei lor tesori :

Ché tutto l’oro ch’é sotto la luna
O che già fu, di quest’anime stanche,
Non poterebbe farne posar una.
(Dante, Inf. c. VII.)
Marte. §

255. Marte, Dio della guerra, era figlio di Giove (63) e di Giunone (85) ; ma taluni scrissero che Giunone lo generò da sè sola battendo con un piede la terra (86), o mediante il contatto di un fiore dei campi Olenii. Siccome Giove aveva fatto uscir Pallade (263) tutta armata dal proprio cervello, così la moglie del Tonante non aveva voluto esser da meno di lui.

256. Marte ebbe da Venere (170) una figlia chiamata Ermione, e da Rea-Silvia sacerdotessa di Vesta, Romolo e Remo. Un altro suo figlio chiamato Ascalafo rimase estinto nell’assedio di Troia.

257. Si narra che Marte avendo preso a combattere pe’ Troiani nella guerra mossa loro da’ Greci, restò ferito dalla lancia di Diomede (377) invisibilmente guidata da Minerva (262) ; e che nel ritrarsela dalla piaga

…… mugolò il ferito
Nume, e ruppe in un tuon pari di nove
O dieci mila combattenti al grido
Quando appiccan la zuffa. I Troi l’udiro,
L’udir gli Achivi, e ne tremâr : si forte
Fu di Marte il muggito.
(Omero, Iliade.)

258. Marte è dunque un nume e un guerriero coperto d’armi « Cinto di ferro i piè, le braccia e ’I collo » (Petrarca), e talora sopra un carro tratto da ardenti cavalli ch’ei guida da sè o fa guidar da Bellona (283). Gli mettono {p. 145}accanto un gallo per indicare quanto importi la vigilanza nel mestier delle armi.

259. Debole fu il culto dei Greci per Marte a paragone di quello dei Romani, i quali, come ognun sa, lo tenevano per protettore del loro impero, e per padre di Romolo. Gli Etruschi poi lo adoravano sotto forma di una lancia confitta in terra.56

260. I suoi dodici sacerdoti istituiti da Numa eran detti Salii dal latino sallare, perchè celebrandone le feste, ballavano per le vie, e recavano attorno altrettanti piccoli scudi tutti compagni, chiamati ancilia, uno dei quali (mescolato tra gli altri, perchè niuno lo involasse) credevano che fosse caduto dal cielo ; e la superstizione romana faceva dipendere dalla conservazione di quello, come dal Palladio i Troiani, la salvezza della patria.

261. È cosa probabile che il nome di Marte sia stato dato alla maggior parte dei principi bellicosi, e che ogni paese abbia voluto fregiarsi così d’un Marte come d’un Ercole (364). Quindi i mitologi ne hanno segnalati parecchi ; ma il più celebre è quel de’Greci, al quale sono state attribuite le alle gesta e le avventure di molti eroi.57

{p. 146}
Minerva o Pallade. §

262. Minerva, figlia di Giove (63), era la Dea della Sapienza, e presiedeva alla guerra, alle scienze ed alle arti.58 La favola narra che Giove, tormentato da un gran dolore di testa, chiese aiuto a Vulcano (270) ; e il medico bizzarro, afferrata un’asce, gli spaccò il cranio. Allora ne uscì fuori Minerva bell’e armata da capo a piedi, e già in età da poter valorosamente soccorrere il padre contro i Tilani (30). Invero quelli Dei avevano un singolar modo di guarire le malattie e di generare i figliuoli ! Ma nelle fantastiche tradizioni degli antichissimi tempi, non è meno bella e grande l’idea che fa nascere dal cervello del padre dei Numi la Dea della Sapienza.

263. Se vogliamo considerare Minerva solamente quale Dea della guerra, ella prende allora il nome di Pallade, sotto il quale era principalmente adorata nella città di Troia ; ma il primo nome le è più comune per tutto il resto : « Minerva spira, e conducemi Apollo, » dice Dante ; nondimeno ambedue questi nomi, come anche quello di Atenea in Atene, le venivano dati indifferentemente. Fino dalla sua nascita ella si dedicò all’invenzione delle arti che allora mancavano ; ed a lei fu attribuita la scoperta della scrittura, della pittura e del ricamo, nel quale riuscì abilissima.

264. Notabile nella storia di Minerva è la sua disputa con Nettuno (185) per dare un nome alla città fondata da Cecrope egiziano, condottiero d’una colonia in Grecia. I dodici Numi principali furono eletti arbitri, e decretarono quest’onore a chi dei due avesse creata la cosa più utile per una città. Allora Nettuno, battendo la terra col suo {p. 147}tridente, ne fece sbucar fuori un ardimentoso destriero, e Minerva con un colpo della sua lancia faceva spuntare un ulivo, simbolo della pace ; laonde tutti giudicarono a favore della Dea della sapienza, e la città fondata da Cecrope fu detta Atene in onor di Minerva, che un tempo i Greci chiamavano Atena o Atenea. Luminoso esempio si è questo dell’onore in che furono e debbono esser tenute sempre le arti della pace, e soprattutto l’agricoltura.

265. Una lezione per gli orgogliosi ci viene offerta da Aracne abile tessitrice e ricamatrice, che si vantava di superar Minerva in quest’arte. La Dea andò a farle visita in sembianza di vecchia, ed Aracne ebbe la temerità di sfidarla ; ma tanto la punse vergogna di restar vinta, che, per disperazione, stracciato il lavoro, s’impiccò, e da Minerva fu allora cangiata in ragno sulla sua tela :

O folle Aragne, si vedea io te
Già mezza aragna, trista in sugli stracci
Dell’opera che mal per te si fe !

Da taluni questo fatto è narrato in altri termini, ma poco favorevoli alla riputazion della Dea ; essendochè, dicono fosse superata ella stessa da Aracne, la quale ne menò troppo vanto ; ed allora Minerva indispettita stracciò l’opera della rivale, e le battè la spola sopra le dita ; il resto come sopra. Ma benchè la superbia della tessitrice fosse sempre colpevole, tuttavolta la Dea della saggezza non si sarebbe governata saviamente.

266. Minerva appare dotata di beltà semplice e mo desta, di contegno grave e spirante mæstà e fortezza qualità tutte della virtù e della vera sapienza. Di consueto ha in capo l’elmo con sopra una civetta ; in una mano l’asta, nell’altra la scudo, e l’egida sul petto. Talora le stanno accanto i simboli delle scienze e delle arti.

267. L’egida di Minerva era una corazza coperta con la pelle di un mostro chiamato Egide, il quale vomitava {p. 148}fuoco, e fu da lei ucciso. Su questa divina armatura campeggiava la testa anguicrinita di Medusa principale tra le Gorgoni (357) ; ed Omero dice :

….. Intorno agli omeri divini
Pon la ricca di fiocchi Egida orrenda,
Che il terror d’ ogn’intorno incoronava.
Ivi era la Contesa, ivi la Forza,
Ivi l’atroce inseguimento, e il diro
Gorgonio capo, orribile prodigio
Dell’Egioco signore ;

quasichè niuno s’avesse ad invogliar mai della guerra che seco tragge tanti danni.

268. L’ulivo, immagine della pace, e il taciturno gufo o la nottola, simbolo della prudenza e della saggezza, eran sacri a Minerva. Ma l’apparizione di quest’uccello era di tristo presagio quand’ei cantava, e di buon augurio se stava zitto, perchè la prudenza non è ciarliera. Forse da questa antichissima allegoria è nato il pregiudizio della sinistra influenza degli uccelli notturni, pregiudizio al pari di tanti altri non ancora del tutto sradicato per l’ignoranza delle menti volgari.

269. Minerva era principalmente onorata ad Atene dove aveva un magnifico tempio, sotto l’altare del quale era nutrito un serpente a lei sacro, perchè questo rettile fu giudicato l’immagine della prudenza. Le sue feste annuali furon dette prima Atenee, quindi Panatenee. Eranvi decretati premii pei certami della ginnastica e per quelli della poesia e della musica. Le minori feste Panatenee erano celebrate ogni anno, e le più solenni ogni quinquennio. Quelle celebrate in Roma duravano cinque giorni, e chiamavansi Quinqualia e Minervalia.

{p. 149}
Vulcano. §

270. Vulcano era figliuolo di Giove (63) e di Giunone (85) ; ma nacque così deforme, che il padre vergognandosene lo afferrò per un piede, e lo scagliò fuor del cielo, quasi fosse stata sua colpa il nascer brulto. Pensate s’ei dovè rimanere sbalordito per la caduta, dopoche, secondo narra da sè stesso nell’Iliade

…… Un giorno intero
Rovinai per l’immenso, e rifinito
In Lenno caddi coì cader del sole,
Dalli Sinzj raccolto a me pietosi.

Gran mercè che della smisurata caduta non riportò alla fine che una gamba rotta ! Gli abitanti di Lenno59 lo raccolsero e n’ebber cura ; ma e’n’andò poi sempre zoppo (69).

271. Ad intercessione di Bacco (146) tornò in cielo, e Giove cominciò a volergli bene ; anzi gli parve che fosse proprio arrivato in buon punto per farlo marito di Venere (170). Così al Nume più deforme toccò la più bella tra le Dee ; e chi sa che Giove non lo facesse per ammonirla a non invanirsi della sua bellezza !

272. La favola lo dichiara Dio del fuoco, e lo celebra abilissimo nell’arte di fondere e di lavorare i metalli ; sicchè questo celeste fabbro aveva le sue fucine nell’isola di Lenno, a Lipari e nelle caverne del monte Etna, e i vortici di fuoco e di fumo eruttanti dai vulcani parevano uscire dalle sotterrance fornaci. Erano suoi garzoni i Ciclopi (Kyklos, circolo, ops, occhio, gr.) creduti figli di Nettuno, mostruosi giganti che avevano un solo occhio in mezzo alla fronte ; ma non pertanto seppero fabbricare a {p. 150}Plutone (213) un elmo che lo fece diventare invincibile, a Nettuno (185) il tridente che suscita e seda le procelle, a Giove la folgore che fa tremare uomini e Dei :

Sospira e suda all’opera Vulcano,
Per rinfrescar l’aspre saette a Giove.
(Petrarca, Parte I, Son. XXVI.)

Sterope, Bronte e Piragmone erano i suoi più assidui lavoranti. — Questi Ciclopi furono probabilmente i primi abitatori della Sicilia, e dall’usar che facevano in guerra, per difesa del volto, di un piccolo scudo con un buco nel mezzo, la favola attribuì loro un solo occhio.

273. Polifemo (polyphemos, celeberrimo, gr.) fu il più celebre tra’Ciclopi. Enea lo vide (come finge Virgilio) nell’isola di Sicilia, e così lo descrive a Didone :

Sembrato mi sarebbe un alto monte,
{p. 151}A cui la gregge sua pascesse intorno ;
Se non che si movea con essa insieme,
E torreggiando inverso la marina
Per l’usato sentier se ne calava :
Mostro orrendo, difforme e smisurato,
Ch’avea, come una grotta oscura in fronte
Invece d’occhio ; per bastone un pino,
Onde i passi fermava : avea d’intorno
La greggia a’ piedi, e la zampogna al collo,
Quella il suo amore e questa il suo trastullo
Ond’orbo alleggeriva il duolo in parte.

Egli prese ad amare la bella, e più che giglio nivea Galatea, figliuola di Nereo e di Doride (193) ; ma la ninfa era già amante del pastorello Aci ; sicchè il Ciclope nella sua brutale gelosia glielo schiacciò sotto un scoglio. Galatea trafitta da immenso dolore, cangiò il sangue del suo diletto in un fiume di Sicilia, che porta quel nome, e rese così eterna l’esecrazione della prepotenza. Chi non riconoscerebbe in Polifemo un tiranno violento, che a guisa dei signorotti del Medio-Evo, dal suo monte o dal suo castello usava la forza contro i deboli per assoggettarli e per derubar loro ogni cosa ?

Le muse. §

274. Giove, (63) trasformatosi in pastore, amò Mnemosine, Dea della memoria, (mneme, memoria, gr.) figlia di Celo (25) e della Terra (25) ; e dal suo matrimonio con lei nacquero le nove Muse. Abitarono l’Elicona, il Pindo e il Parnaso (123) dove ebbero per precettore il loro fratello Apollo (96). Queste nove sorelle furono oltremodo amanti della virtù e del sapere, e nutrirono sentimenti così magnanimi, da meritare la venerazione di tutti gli uomini. Da ciò venner loro i diversi nomi di dotte fate, di sorelle d’Apollo e di Dee della sacra valle ; e son chiamate anche le nove sorelle, e le Figlie della Memoria. Apollo, a cui {p. 152}piacque vivere insieme con loro, statuì che la concordia fosse fondamento del bel collegio, e perciò volle che si chiamassero Muse, per indicare la loro eguaglianza. Infatti Cassiodoro fa derivare il vocabolo Muse da una parola greca che significa eguali, simili.

275. Esse presiedono tutte insieme alle scienze, alle belle arti ed alla poesia. Ora ponendo mente alla umiltà della loro origine, poichè ebbero per padre un pastore, ed alla belta e verecondia di cui furono dotate, sarà manifesto come la verità nella scienza e il bello nelle arti e nella poesia vogliano essere cercati nella natura e sempre ricavati da oggetti sommamente morali. Il ministero delle Muse è santo ; l’ingegno vuol esser puro come l’innocenza ; e siccome gli oggetti di dove il bello ed il vero emergono sono molti, e le differenti loro bellezze son quelle che costituiscono la perfezione di ciascuna arte, così ogni Musa ha un ministero particolare :

Calliope (Kallos, bellezza, ops, voce, o canto, gr.) presiede all’eloquenza ed al poema eroico (oratoria ed epica) ;
Clio alla storia (Kléio, io celebro, gr.) ;
Erato (eráo, io amo, gr.) alle poesie liriche ed amorose (erotiche) ;
Melpomene (melpoméne, colei che canta, gr.) alla tragedia ;
Talia (thalia, giorno di festa, gr.) alla commedia ;
Tersicore (da terpo, e choros, che si diletta di danze, gr.) al ballo ;
Euterpe (che vale « molto gioconda » gr.) alla musica ed agli istrumenti musicali ;
Polinnia (da polys, e ymnos, di molto canto, gr.) all’ode e alla rettorica, ovvero all’arte di scrivere con eleganza ;
Urania (ouranós, cielo, gr.) all’astronomia.

276. Così vediamo che Clio serbando la memoria dei tempi scorsi narra con la dignità del vero e con alto stile {p. 153}le vicende dei popoli e dei re ; Calliope con nobili ed armoniosi versi celebra le grandi gesta degli eroi e dei numi ; e Melpomene armata di pugnale empie di terrore la scena con lo spettacolo dei delitti dei grandi, delle scelleratezze della tirannide, degli spasimi del rimorso, e commuove al pianto con le lacrime della virtù oppressa e dell’innocenza insidiata ; ma Talia ridendo insegna a correggere i nostri propri difetti, smaschera l’ipocrisia e rende odioso il mal costume ; mentre Tersicore muove il piede alle danze con decoro e con grazia, e accresce pregio all’arte pigliando spesso a rappresentare purissimi affetti, belle e nobili passioni, e gl’interni moti di un’anima elevata e gentile. Euterpe, vaga d’aggirarsi tra i semplici pastori, di commovere e di educare le loro anime pure, tragge soavi concenti dall’agreste zampogna ; ed Erato suonando con più leggiadria il liuto e la lira, accompagna i sospiri degli amanti, ne interpreta i desiderj, ne mitiga gli affanni, e consiglia un amor puro e casto, senza del quale non è vera dolcezza sopra la terra. Ma Polinnia

…..alata Dea che molte
Lire a un tempo percote, e più dell’altre
Muse possiede orti celesti….

come dice il Foscolo, adorna di beltà maschia e severa e piena di sublime eloquenza, inspira l’oratore e il poeta, perchè non sieno timidi amici al vero, perchè a egregie cose accendano l’animo de’ forti, e il loro grido sia « come vento che le più alte cime più percuote, » come folgore che atterra gl’idoli della cieca superstizione, o della barbara prepotenza ; e intanto la dottissima Urania, investigando tutto l’universo, rivolta al cielo dov’è il principio e il fine d’ogni sapere, scuopre le leggi dei corpi celesti, e addita alla terra che la vera perfezione sta nell’ordine del creato. La musa dell’astronomia doveva naturalmente {p. 154}presiedere anche alle matematiche ; perciò il Monti nella Mascheroniana :

Colei che gl’intelletti apre e sublima,
E col valor di finte cifre il vero
Valor de’ corpi immaginati estima ;
Colei che li misura, e del primiero
Compasso armò di Dio la destra, quando
Il grand’arco curvò dell’emispero ;
E spinse in giro i soli, incoronando
L’ampio creato di fiammanti mura,
Contro cui del caosse il mar mugghiando,
E crollando le dighe, entro la scura
Eternità rimbomba, e paurosa
Fa del suo regno dubitar Natura.

277. Le Muse sono rappresentate con sembianze di vergini modestamente belle, con semplici vesti, e sovente con ali al tergo. Apollo (96) sta in mezzo all’eletto coro, temprando la lira, e incoronata di lauro l’augusta sua fronte. Siccome poi ogni Musa presiede a un’arte speciale, così tutte hanno simboli e attributi particolari. Il Parini proponeva di dipinger così le quattro Muse del Teatro :

« Melpomene, di sembiante, di forme, d’atteggiamento serio ed augusto, con abito ed acconciatura ricca e regale, coturni alle gambe, scettri e corone vicini a lei, e pugnale nudo in mano ;

» Talia, avrà viso allegro e ridente, abito semplice, corona d’ellera in capo, specchio in mano ;

» Erato come preposta alle rappresentazioni liriche, avrà sembiante grazioso, occhi teneri, abito vago di colori e di forme, corona di mirti e rose in capo, lira in mano o vicina, Amorino al fianco, con arco, faretra e facella accesa ;

» Tersicore con fisonomia gentile, corpo ed atteggiamento svelto in atto grazioso quasi di ballare, abito leggero, ghirlanda di varie plume in capo, e massime bianche e nere. Avrà una mano appoggiata ad un’arpa. »

{p. 155}Se queste arti sono esercitate con vera dignità, ingentiliscono e onorano il popolo ; ma talora i cultori di esse traviano dal retto sentiero, si fanno ministri di malcostume, e cagionano gravi danni alla società che si lascia adescare dalle false bellezze. Quindi lo stesso poeta vorrebbe che fossero indicati i vizi opposti a tali arti, affinchè ognuno imparasse a fuggirli ; e questi vizi sono : il Cattivo Gusto, la Licenza e la Scurrilità.

« Il Cattivo Gusto sarà un giovinetto nudo, di fisonomia stupida e di fattezze grossolane, con due grandi orecchie d’asino e una zampogna in mano. Sarà in atto di fuggire dal cospetto d’Apollo, saltando giù da un sasso rozzamente scolpito e rappresentante una figura con testa e crine di cavallo, viso e collo di donna, corpo e piedi d’uccello, coda di pesce.

» La Licenza poi è una baccante scapigliata, mezzo nuda, col viso tinto di mosto, corona di viti in capo, tirso in mano. Anch’ella sarà in atto di fuggire schermendosi con una mano dai raggi d’Apollo che la persi cuolono.

» E la Scurrilità è un satiro che fuggendo fa un movimento osceno, e colla bocca fa smorfie ad un fanciullo vicino a lui, mentre questi si tiene con una mano al viso una grande maschera caricata e ridicola. »

278. Le Muse presero le ali per sottrarsi agli oltraggi di Pireneo re della Focide, presso il quale avevano sperato di trovar ricovero da un improvviso temporale. Il principe ardì far loro villania, e quando le vide involarsi con le ali dei genii, pretese di inseguirle, immaginandosi di poter volare com’esse ; ma appena spiccatosi dall’alto d’una torre, precipitò, com’era naturale, sulla terra, e vi restò morto. Questa favola fu immaginata allorquando un antico Pireneo, re stolto e ignorante, nemico delle belle arti e delle lettere, scacciò dal suo regno i dotti e i filosofi, distrusse le biblioteche, e chiuse le pubbliche {p. 156}scuole. — Anche le nove figlie di Pierio, dette le Pieridi, pagarono il fio d’una stolta presunzione, poichè avendo voluto sfidare al canto le Muse, ed essendone rimaste vinte, furono trasformate in Piche.

279. Le Muse avevano altari in Grecia, nella Macedonia ed a Roma ; ed erano sempre onorate insieme con le Grazie (175) nel medesimo tempio ; nè celebravasi onesto e gradevole banchetto senza che vi fossero invocate per tutelare la decenza pericolante tra la gioia dei biechieri. Ma coloro che più di tutti le venerarono furono i poeti, i quali usavano d’invocarle sul principio dei loro poemi, come valevoli più d’ogni altra divinità ad infiammare l’ingegno : « O muse, o alto ingegno, or m’aiutate » dice Dante nel II° dell’Inferno ; e nel principio del Purgatorio :

Ma qui la morta poesia risurga,
O sante Muse, poichè vostro sono,
E qui Calliopea alquanto surga ;
Seguitando il mio canto con quel suono
Di cui le Piche misere sentiro
Lo colpo tal che disperâr perdono.

Bellissima poi è l’invocazione che egli fa ad Apollo nel del Paradiso, dove comincia :

O buono Apollo, all’ultimo lavoro
Fammi del tuo valor si fatto vaso,
Come dimandi a dar l’amato alloro ec.

Troppo lungo sarebbe il citare le più belle invocazioni dei sommi poeti dell’antico e del moderno Parnaso ; e solo gioverà riflettere, che anche i grandi ingegni della Cristianità hanno adoperate le finzioni, mitologiche non per vano lusso di fantasia, ma per dedurne nobilissimi sentimenti, e trar frotto dalle morali verità in esse contenute, le quali verità restano per avventura bene impresse {p. 157}nell’intelletto quando sono vestite delle più dette fra le greche immagini.

280. Il fonte d’Ippocrene, di Castalia e il fiume Permesso (123), insieme con la palma e con l’alloro, erano sacri alle Muse.

Divinità della seconda classe. §

281. Credevano gl’idolatri che molte divinità subalterne, benchè spesso dipendenti dalle primarie, abitassero solamente la terra, e non fossero ammesse nella celeste reggia dell’Olimpo. Immenso fu il loro numero, poichè vi era compresa una moltitudine di divinità allegoriche, le quali, come la Verità, l’Invidia, il Furore, altro non sono che virtù o vizj che gli antichi mossi da rispetto o da paura, solevano personificare ed onorare di special culto. Siccome troppo lungo sarebbe il parlar di tutte, accenneremo soltanto quelle che paiono più opportune all’interpretazione dei classici e dei monumenti.

Momo. §

282. Momo, figlio del Sonno (240) e della Notte (238), era il Nume della maldicenza, tenebroso e scellerato artifizio degl’intelletti oscuri e degli animi ipocriti o invidiosi che voglion denigrare l’altrui riputazione. Costui era principalmente satirico, e criticava tutto e tutti con l’accrbità del sarcasmo ; non soleva risparmiare nemmeno gli stessi Dei ; e non fu mai capace di far nulla di suo, come suole chi pretende troppo dagli altri. Scelto da Nettuno. {p. 158}da Vulcano e da Minerva per giudicare le loro opere, non fece che stoltamente beffarli.

283. Biasimò Nettuno (185), perchè modellando il suo toro non gli aveva messo le corna davanti gli occhi affinchè l’animale potesse cozzar più dritto ; criticò l’uomo composto da Vulcano, pretendendo che avesse dovuto fargli un finestrino in direzione del cuore per poterne scrutare i più segreti pensieri ; e la casa di Minerva gli parve architettata senza criterio, e voleva che fosse ambulante per trasportarla altrove caso mai l’abitatore incappasse in un cattivo vicino. Pareva che la perfetta bellezza di Venere non potesse cadere sotto la sferza dei suoi motteggi, ma egli trovò materia di biasimo nei coturni. Alla fine le sue continue ed insipide baje lo resero insopportabile a tutti, e fu espulso dal cielo.

284. È rappresentato col capo coperto da un berretto ornato di sonagli con una maschera in una mano ed una marionetta nell’altra, indizio della follia, arredi che furono poi assegnati ai buffoni di corte. Non sia discaro il leggere intorno a questo satirico Nume un grazioso sonetto moderno composto da uno dei più colti ed arguti ingegni del nostro tempo.

Momo, di cui la nominanza dura,
E durerà nelle lontane genti,
Per sovrumani usci nuovi argomenti
Dal cavo grembo della Notte oscura.
Pronto, audace, festivo in sua natura,
Di spirti alteri, impetuosi, ardenti,
Or con motti giocosi ed or pungenti
Fe guerra al vizio, e non serbò misura.
Lode si grande derivonne a lui
Ch’ebbe da prima e sacrificii e tempio :
Avvolse quindi negli scherni sui
Vizii e virtù ; poi dileggiò (fatt’empio)
L’opre di Palla, e fu solenne altrui
Nome d’infamia e d’aborrito esempio.
(Prof. J. Jozzelli pistoiese.)
{p. 159}
Como. §

285. Como, Dio della gioia e dei banchetti, presiedeva alle feste, alle danze notturne ed alle nuove fogge di vestire e di adornar la persona. Non aveva nè tempio, nè sacerdoti, nè sacrifizj di vittime. I suoi adoratori lo invocavano e prima e dopo il pasto, e andavano in volta la notte mascherati, al lume di fiaccole, cinta di fiori la testa, e accompagnati da fanciulli e donzelle che cantavano e ballavano al suono di varii istrumenti.

286. I poeti lo dipingono giovine, ben pasciuto, rubicondo, con breve panneggiamento, e spesso nudo, e inghirlandato di rose appassite. E’ s’appoggia languidamente col braccio sopra una lunga lancia da cacciatori ; gli sta presso una fiaccola arrovesciata, e a stento si regge il capo con una mano sotto il mento. I vapori del vino, la rilassatezza delle membra, la sazietà, la noia sono espresse nel suo contegno ; e dà bene a conoscere quanto sia misera e breve la vita di coloro che si abbandonano soverchiamente ai piaceri.

Bellona. §

287. Bellona, Dea della guerra, fu sorella di Marte (255). Ella attaccava i cavalli al suo carro quand’ei s’apparecchiava alle pugne. La dipingono armata della face della Discordia che spinge i popoli alle stragi ; ha i capelli sciolti e scarmigliati, l’occhio scintillante di fuoco, ed è in atto di sferzare con sanguinoso staffile.

288. I suoi sacerdoti, chiamati Bellonarj, ne celebravano le feste con tanta ebrezza di furore, che si facevano da sè stessi tali ferite da versarne sangue ; e poi raccolto quel sangue l’offrivano in sacrifizio alla Dea scellerata.

{p. 160}
Esculapio. §

289. Esculapio era figliuol d’Apollo (96) e della ninfa Coronide (133). Istruito da Chirone (430), diventò presto abile nell’arte di guarire le malattie, e passò per inventore e Dio della medicina. Accompagnò Ercole (364) e Giasone (448) alla spedizione di Colco ; e rese grandi servigi agli Argonauti (452).

290. Ma non si contentò di saper guarire i malati ; volle anche tentare di render la vita agli estinti, e ne venne a capo con Ippolito figlio di Teseo. Allora Giove, temendo le conseguenze di tale scoperta, fulminò l’audace mortale. Apollo ne fu sconsolato oltremodo, e implorò dal padre degli Dei che Esculapio fosse accolto nel cielo, dove egli lo trasformò in un astro chiamato Ofio o Serpentario. Secondo Pindaro la colpa d’Esculapio veniva dall’essersi lasciato corrompere dalla venalità :

Or quanti afflitti volsero
Al grande alunno60 il passo,
Vinti da piaga ingenita,
Ovver da ferro o da scagliato sasso,
E quanti raggio fervido,
O acuto gel percosse,
Ei tutti dal moltiplice
Sciogliea crudo malor,
E lunge ogni dolor — quinci rimosse.
A tal con note magiche
Porgea dolci ristori,
Ad altri seppe mescere
Di segreta virtù pieni licori ;
Talor le membra strignere
Solea con placid’erbe,
Talor col ferro docile
Pronta recò mercè,
E risanar potè — ferite acerbe.
{p. 161}Ma nella rete avvolgersi
Pur suol del lucro, il saggio.
Cosi l’eroe benefico
Del fulgid’oro pervertissi al raggio,
E osò ritorre all’Erebo
Uom già concesso a morte ;
Sicchè di Giove il fulmine
Tolse ad ambo il respir,
E videsi perir — con egual sorte.
(Trad. del Borghi.)

291. Il suo culto fondato prima in Epidauro, città del Peloponneso nell’Argolide sul golfo Saronico dov’ebbe i natali, si sparse tosto in tutta la Grecia, e l’onoravano principalmente in Epidauro nella figura di un serpente, perchè stimavano che si manifestasse agli uomini sotto quelle spoglie. Ciò dipende forse dalle virtù mediche attribuite in antico ad alcune specie di rettili, o dalla lunga vitalità di questi animali, per lo che i ciarlatani hanno usato fino ai nostri tempi di comparire in faccia alla gente semplice recando avvolta intorno al collo o nelle mani od in seno una grossa biscia. È noto che il serpente fu adorato anche dagli Ebrei nel deserto, e che è uno dei simboli dell’immortalità. Esculapio ebbe tempio anche nell’isola di Coo (una delle isole dell’Arcipelago), ed i malati erano soliti di andare a scrivere sulle mura di quel tempio i rimedi che gli avevano liberati dalle loro infermità. Pare che nei primi tempi fosse questa la sola scuola pratica dei medici greci.

292. Esculapio è rappresentato a sedere in trono con un bastone nella destra, e appoggiando l’altra sulla testa d’un serpente. Gli ponevano ai piedi un cane accovacciato, e gli sacrificavano galli e galline.

293. Esculapio lasciò due figli, Macaone e Podaliro, i quali accompagnarono i Greci all’assedio di Troja, e vi si resero utilissimi col medicare i feriti. Poi i discendenti d’Esculapio furono chiamati Asclepiadi, e di padre in figlio {p. 162}per diciassette generazioni esercitarono la medecina nell’isola di Coo, e ne diressero la scuola. In questa famiglia nacque il celebre Ippocrate. È attribuito agli Asclepiadi un opuscolo di ventun versi contenenti precetti intorno alla sanità, tra’quali si leggono i seguenti :

Contentati di un pasto per giorno. — Fa’che il tuo pasto sia semplice e parco. — Lascia i cibi e le bevande prima d’esserne sazio. — E con moderate fatiche esercita sempre il tuo corpo. — Per dormire, coricati sul fianco destro. — Che le tue fauci non patiscano arsione, e che il palato non sia amaro. — La temperanza ti libererà dalla sete e dalle cattive digestioni, che son causa di quasi tulle le malattie ec.

Pane §

294. Alcuni dissero che Pane fu figliuol di Giove (63) e della Ninfa Calisto (140), altri gli assegnarono per genitori Mercurio (160) e Penelope (569). Quale Dio dei pastori, dei boschi e dei prati, egli tenne il primo posto fra le agresti divinità, c fu collocato in cielo ove forma il segno del capricorno, in’ricompensa d’aver consigliato gli Dei a ricovrarsi in Egitto sotto forma d’animali al tempo della guerra dei Giganti.

295. Per lo più il suo aspetto è deforme, poichè ha la faccia soverchiamente rubiconda, con folti sopraccigli, col naso schiacciato e bernoccoluto e con la bocca ridente che arriva fino agli orecchi. I suoi capelli sono arruffati, e la barba incolta. Gli spuntano in fronte le corna, ed ha il corpo di caprone dalla cintura all’estremità inferiore, mentre dalla schiena gli spunta la coda a spazzolar le cosce e i piedi caprini. Aveva per compagni i Satiri e Silvano (302) prcposto alla tutela delle selve.

296. Pane era più che altro onorato in Arcadia. I Romani ogni anno di Febbraio gli celebravano le feste {p. 163}chiamate Lupercali dal nome di una grotta presso alla quale era stato costruito il suo tempio. Credevasi che fosse la stessa grotta ove Romolo e Remo furono allattati dalla lupa. Nel tempo di quelle feste i sacerdoti di Pane, chiamati Luperci, andavan correndo nudi per Roma.

297. Il vocabolo pan in greco vuol dir tutto, e questo Dio era considerato qual simbolo dell’universo, ossia il gran Tutto, guardando forse alla semplice rozzezza della primitiva natura, ed alla qualità degli alimenti pastorali ed agresti, che soli possono bastare ai bisogni dell’uomo.

298. Narra Pausania lo storico che allorquando i Galli invasero la Grecia sotto Brenno, volevano saccheggiare il tempio di Delfo ; ma Pane li colpì di così improvviso terrore, che si volsero tosto alla fuga benchè inseguiti non fossero ; quindi nacque il dettato di timor panico.

299. Questo Dio s’innamorò di Siringa (syrinx, canna, gr.), ninfa d’Arcadia ; ma ella atterrita dal suo aspetto deforme si dette a fuggirlo, e il fiume Ladone suo padre la trasformò in canna ; ed ecco che il verde cespuglio, mosso dai sospiri dolorosi del Nume, mandò un dolce suono : laonde Pane, toltine alcuni cannelli, formò quell’istrumento a sette voci, chiamato flauto di Pane o zampogna.

Fauno §

300. Fauno, figlio di Pico re dei Latini e nipote di Saturno (23), ebbe per madre Canente figlia di Giano, la quale fu cangiata in voce, per esser troppo ciarliera. Fauno era del numero delle divinità agresti, perchè aveva insegnato agli uomini alcune cognizioni d’agricoltura ; ed egli stesso introdusse in Italia il culto degli Dei della Grecia. Dicono che fiorisse verso il 1300 av. l’èra cristiana. Sposò Fauna, e n’ebbe prima un figliuolo chiamato Sterculio stercus, concio, ingrasso, lat.), il quale inventò l’arte di {p. 164}concimare la terra. Fauna dopo la morte del marito si segregò da tutti, e morì senza aver più parlato ad alcun uomo. I Latini divinizzarono questo modello delle vedove, e le alzarono un tempio, i sacerdoti del quale distribuivano al popolo erbe o semplici per curare ogni specie di malattie. Fu chiamata anche Fatua o Fatuella quand’era animata da ispirazione divina, e prediceva ai suoi contemporanei il futuro. Quindi il suo nome fu dato a tutte le donne che pretendevano d’imitarla, e furon dette Fatue o Fate.

301. I Fauni eran genj campestri dei Romani, e discendenti di Fauno ; abitavano le campagne e le foreste. La loro occupazione principale si riferiva all’agricoltura, distinguendosi dai Satiri e dai Silvani, che {p. 165}soprintendevano alla pastorizia ed ai boschi. Veniva immolata ai Fauni una capra, ed era lor consacrato il pino. Avevano i piedi di cavallo e di bove, e raramente di capra ; la barba, le corna e le orecchie di caprone ; eran cinti da una corona d’abeto, e ne tenevano un ramo nella destra.

Silvano §

302. Silvano, divinità campestre dei Romani, e protettori dei boschi, fu creduto figlio di Fauno, e taluni lo confusero con Pane. I poeti e i pittori lo dipingono cornuto ; dal mezzo in giù gli fanno le membra caprine, e gli pongono in mano un ramo di pino. Le feste Lupercali (296) erano celebrate anche in onor suo.

303. Il nome di Silvani, appartenente ai figliuoli di Silvano, è attribuito comunemente a tutti gli Dei campestri, ed è vocabolo generale per indicare i Fauni, i Satiri, i Sileni, ec. Il culto di tutte queste divinità dei campie dei boschi mostra in quanto onore fosser tenute le faccende agricole più confacenti alla moralità ed all’agiatezza del vivere, e come il mantenimento dei boschi fosse reputato profittevole all’agricoltura ed alla salubrità delle dimore. Benchè anche i Greci onorassero sommamente le arti agricole, tuttavia i Fauni e i Silvani furono divinità più specialmente romane. In generale poi queste divinità pastorali, boschereccie, son care ad Apollo ed alle Muse :

E di Driadi col nome e di Silvani
Fur compagni di Febo. Infra le Muse
Scherzar ne’fonti suoi vedeali Imetto,
E ne’suoi colli il Tebro. Oggi, le umane
Orme temendo, e de’poeti il vulgo,
Che con lira straniera, evocatrice
Di fantastiche larve61 a sè li chiama,
Invisibili e muti nelle selve
Celansi. (Foscolo, le Grazie.)
{p. 166}
Satiri §

304. I Satiri, molto somiglianti ai Fauni, erano divinità agresti discendenti da Bacco (146) e dalla naiade Nicea che fu da esso inebriata col trasformare in vino l’acqua d’una fonte ov’ella era solita dissetarsi.

305. Hanno la figura d’omiciatti pelosi con le corna, le orecchie, la coda e le gambe di capra ; ed è loro attribuito il mal vezzo di far paura ai pastori e d’inseguire le pastorelle. Laonde bisognava placare queste importune divinità con sacrifizj, offrendo loro le primizie dei frutti e dei greggi. Intanto gli agricoltori e i pastori, credendo all’esistenza di tanti invisibili testimoni delle loro azioni, erano più guardinghi e più solleciti nelle loro faccende, ed avevano forse un ritegno al mal fare. Ma convien che sia molto rozzo quel popolo il quale ha bisogno di tanti vigilatori. Siccome la coscienza delle proprie azioni è il maggior gastigo dei malvagi, così deve essere la miglior guida pei buoni.

306. I Satiri più vecchi eran chiamati Sileni ; e l’anziano tra di essi è il balio di Bacco, del quale abbiamo parlato ragionando di questo Dio (146). Nelle pitture e nelle sculture vediamo questi genj rappresentati con tirsi, con flauti e con cembali guidar le ninfe alla danza e promuovere il giubbilo degli abitatori delle campagne.

Priapo §

307. Priapo, caporione dei Satiri (305), figlio di Bacco (146) e di Venere (170), era il Dio tutelare dei giardini e dei frutti, giacchè a lui ne attribuivano la buona {p. 167}custodia e la fecondità. Quindi i Romani collocavano la sua statua ne’giardini.

……. E tu, Priapo,
S’unqua gli altari tuoi di fiori ornai,
Con la gran falce e con l’altre arme orrende
Spaventa i ladri che notturni vanno
Predando ingiusti le fatiche altrui.
Crescete, erbette e fior, crescete lieti,
Se’l ciel benigno a voi giammai non neghi
Tepidi soli e temperata pioggia.
(B. Baldi, Egloga.)

Per lo più è rappresentato a modo del dio Termine (308), con le corna di becco, le orecchie di capra, e una corona di pampani o d’alloro : e talvolta la sua statua comparisce nel mezzo agl’istrumenti di giardinaggio e d’orticoltura. Gli veniva sacrificato un asino in memoria d’una singolare sfida di canto seguita tra lui e un somaro, nella quale il quadrupede, indispettito d’esser rimasto perdente ; s’era avventato contro il vincitore, e a forza di calci l’aveva lasciato moribondo all’ombra de’suoi allori. Il maggior culto di Priapo fu a Lampsaco donde era stato scacciato per aver messo paura negli abitanti co’suoi neri sopraccigli, coi capelli arricciati, l’enorme bocca, il naso aquilino, le spalle straordinariamente larghe, ed una invereconda deformità insomma da non ’si dire. Ma egli sdegnato della cattiva accoglienza, tolse il senno ai malcreati, ed essi incominciarono dove a battersi, dove a ballare senza riposo, a ridere sgangheratamente, a urlare di continuo, e la città di Lampsaco pareva uno spedale di matti. I vecchi, i quali avevano conservato un barlume di ragione, decretarono il ritorno del Nume esiliato, e onori e feste per placarlo ; ed allora l’orribile tafferuglio ebbe fine.

{p. 168}
Termine §

308. Il dio Termine proteggeva i confini dei campi, e credesi ne fosse istituito il culto da Numa a fine di porre un freno, che fosse anche più efficace delle leggi, alla cupidigia dei limitrofi o dei viandanti. Prima fu un tegolo o un tronco d’albero ; poi una grossa pietra quadrata o un piuolo, indi uno stipite piramidale con sopra una testa che aveva l’effigie d’idolo agreste ; ma non gli dettero nè braccia nè piedi, affinchè non potesse mai mutar posto. Altri narrano che quando Tarquinio il vecchio ordinò la costruzione del Campidoglio, i Romani scavando i fondamenti trovarono la statua di questo Dio. Consultati gli auguri intorno a ciò che dovessero farne, ordinarono che fosse lasciata al suo posto nel Campidoglio. Ed i Romani pigliando quest’avventura per buono augurio, dissero che il dio Termine collocato nel Campidoglio doveva essere la principal difesa delle frontiere del loro impero. La storia dimostra come ciò si avverasse, fintantochè peraltro i petti dei cittadini e le virtù della repubblica seppero essere la vera difesa dello stato.

309. Il dio Termine era onorato non solamente nei templi, ma più di tutto sui confini dei campi, ove il suo simulacro veniva sempre coperto di fiori. Il temerario che con mano sacrilega gli avesse fatto mutar posto veniva proscritto, abbandonato alle furie (232), e ad ognuno era lecito ucciderlo. Le sue feste a Roma erano celebrate l’ultimo giorno dell’anno. Lo incoronavano di spighe nel tempo della mèsse, e di fiori all’arrivo della primavera. Per lungo tempo i sacrificj a lui fatti consistettero in libazioni di latte e vino con offerte di frutta e di focacce. Poi cominciarono ad immolargli agnelli e majali, consumando finalmente le carni di queste vittime in lieti banchetti attorno al simulacro del Nume.

{p. 169}
Pale §

310. Pale era l’idolo dei pastori, e presiedeva ai prati, ai greggi, alle cascine. Alcuni studiosi delle etimologie ne fanno derivare il nome dal vocabolo palea, paglia. Vero è che nel mese di maggio, o, secondo altri, d’aprile celebravano in onor suo le feste dette Palilie. La cerimonia consisteva nell’offrir latte e miele, e poi nel dar fuoco a tre grandi barche di paglia ; ed i pastori un dopo l’altro saltavano la fiamma. Il più agile otteneva in premio comunemente una capretta o un agnello. La festa finiva con un banchetto nel quale il pastore più vecchio faceva una patetica invocazione alla Dea della pastorizia. La scongiurava a difendere i greggi dai lupi, a impedire che le pecore si smarrissero, a mantenere la fedeltà nei cani ; e faceva voti affinchè i suoni del flauto e della voce fossero sempre uditi dalle mandre, e il latte fosse munto sempre puro ed in abbondanza. Queste feste furono istituite da Romolo il giorno stesso della fondazione di Roma, ed i pastori vi accorrevano da ogni parte incoronati d’olivo e di ramerino, il cui odore disinfetta le stalle. Vi portavano anche gran numero di fragorosi istrumenti, come tamburi e cembali. La Dea copriva con un velo la sua ingenua bellezza. Un po’d’alloro o di ramerino le incoronavan la chioma ; ed aveva in mano un covone di paglia, per significare che di essa deve esser formato il letto al bestiame.

Pomona e Vertunno §

311. Pomona, tutta piena di freschezza e di leggiadria, presiedeva con Priapo (307) ai giardini e segnatamente ai frutti. Era sua cura prediletta potar gli alberi, innestarli e annaffiarli ; e tutta dedita a queste faccende rifiutava ogni offerta di matrimonio che le venisse fatta {p. 170}dai Numi campestri. Ma Vertunno dio delle stagioni tentò ogni arte per indurla a sposarlo. Ora si trasformava in bifolco, ora in vignaiuolo, in mietitore, in pastore per parlarle ; ma invano. Alla fine le apparve sotto le sembianze di vecchia ; e tanta eloquenza usò nel colloquio, che datosele poi a conoscere, Pomona acconsentì alle sue nozze. Le metamorfosi di Vertunno son forse una lezione agli agricoltori, poichè non potrebbe meritare il favor di Pomona chi non si studiasse per opera di moltiplici esperimenti di perfezionare la cultura dei giardini e degli orti. I poeti descrivono Pomona incoronata di pampani e di grappoli d’uva, con in mano il corno dell’abbondanza, od assisa sopra una paniera colma di fiori e di frutta. In Roma ebbe tempio ed are.

Ed a voi mi rivolgo, o Dei, ch’avete
Degli orti cura e di chi agli orti attende.
Fa dunque, Clori (553), tu, che mai non manchi
Al mio verde terren copia di fiori :
Tu fa, Pomona, che de’frutti loro
Non sian degli arbor mai vedovi i rami :
E tu che tante e si diverse forme
Prendi, Vertunno, il culto mio difendi
Or con la spada se soldato sei,
Or con pungente stimolo, se i buoi
Giunger ti piace al giogo….
(Baldi, L’Orto.)
Flora e Feronia §

312. Flora, questa vezzosissima Dea dei fiori e della Primavera, fu sposa di Zeffiro (104) che n’ebbe in dote l’impero sulla vaga e infinita famiglia dei fiori. Tazio pel primo le alzò un tempio a Roma. Le feste istituite in onor di lei verso l’anno 172 av. l’èra crist. in occasione d’una grande sterilità, eran dette giuochi floreali o fiorali ; ed a Roma le celebravano leggiadre fanciulle correndo e ballando al suon delle trombe. La più snella otteneva in {p. 171}premio una corona di fiori. Nei monumenti antichi vediamo Flora in sembianze di bella e semplice donzelletta, adorna di ghirlande e di mazzi, e recando in capo una paniera di fiori :

Salve, o sorriso degli Dei, gioconda
Essenza della gioja, alma famiglia,
Per cui natura di bellezza abbonda.
Per te Religïon, del Cielo figlia,
S’ornò : per te la terra all’uom non spiacque,
Quando dal cielo al suol bassò le ciglia.
Per te la vita rincorossi e piacque ;
Per te la morte sul feral tragitto
Vinta ai soavi farmachi pur tacque,
O men cruda comparve ; e il sa d’Egitto
La Donna augusta, che il mortifer angue
Porse fra i fiori avvolto al seno invitto….62
Dai profumi de’fior, Ligure ingegno,
In un mar senza stelle e senza fondo
Senti la sponda ormai vicina, e il regno
Dell’uomo estese, e raddoppiògli il mondo.63
(Angelo Maria Ricci.)

Flora, Pomona e Vertunno sono divinità di origine etrusca, adottate poi dai Romani, i quali adoravano anche Feronia, altra ministra della Primavera, e preposta al governo dei frutti nascenti, finchè Pomona (311) non vien da sè a regnare nel suo impero :

Era diletto suo, di peregrine
Piante, e di fiori in suolo estraneo nati
L’odorosa educar dolce famiglia,
Propagarne le stirpi, e cittadina
Dell’Ausonio terren farne la prole.
Sotto la mano della pia cultrice
Ricevean nuove leggi e nuova vita
Le selvatiche madri, e, il fero ingegno
{p. 172}Mansuefatto e il barbaro costume,
Del ciel cangiato si godean superbe.
Ed essa, la gentil Ninfa sagace,
Con lungo studio e paziente cura
I tenerelli parti ne nudria,
Castigando i ritrosi, e a culto onesto
Traducendo i malnati. Essa il rigoglio
Ne correggeva ed il non casto istinto :
Essa gli odj segreti e i morbi e i sonni
E gli amor ne curava e i maritaggi,
Securo a tutti procacciando il seggio,
E salubri ruscelli ed auro amiche….
(V. Monti.)
Ninfe §

313. Fu dato il nome di Ninfe ad un gran numero di divinità subalterne originate da Nereo e Doride (193), e rappresentate sotto belle sembianze di giovanette ; ma gli antichi non le onoraron di templi, nè vollero accordar loro la immortalità, supponendo nondimeno che avessero lunghissima vita. Alcuni autori indicano anche il numero degli anni, e ne attribuiscon loro novemila settecentoventi ! Dopo morte ottenevano un posto nell’Olimpo.

314. V’è chi le fa ascendere al numero di tremila ; ed erano ripartite in Ninfe delle acque o marine, ed in Ninfe della terra o terrestri.

315. Le Ninfe delle acque comprendevano le Nereidi od Oceanidi e le Najadi.

316. Le Nereidi od Oceanidi, figlie di Nereo e di Doride, eran le ninfe del mare. La mitologia ne conta cinquanta, e le più distinte sono Teti (192) moglie di Peleo e madre d’Achille, Galatea (273) amante d’Aci, Cassiopea (361) madre d’Andromeda, Calisso (577) regina d’Ogigia, Glauca. Clizia, Cimotoe, Panope, Spio, Cimodoce e Climene. Ora abitavano in fondo alle acque, ora in grotte ornate di conchiglie e di pampani. Venivano invocate dai naviganti sulla riva del mare con offerte di latte, d’olio e di miele, {p. 173}per ottenerle propizie alla navigazione. I poeti le rappresentano quali vaghe fanciulle assise su cavalli marini, con in mano un tridente o una corona od un piccolo delfino. Talora la parte inferiore del loro corpo va a finire in pesce. Formavano il corteggio d’Anfitrite (188) moglie di Nettuno, e scorrevano sulla superficie delle acque, sull’argenteo dorso dei delfini, con la testa ornata di perle e di coralli.

La Grotta delle Ninfe.

« Era dentro al pascolo di Driante una grotta consacrata alle ninfe, cavata d’un gran masso di pietra viva, che di fuora era tonda, e dentro concava. Stavano intorno a questa grotta le statue delle ninfe medesime nella medesima pietra scolpite ; avevano i piedi scalzi insino a’ginocchi, le braccia ignude insino agli omeri, le chiome sparse per il collo, le vesti succinte nei fianchi, tutti i lor gesti atteggiati di grazia, e gli occhi d’allegria, e tutte insieme facevano componimento di una danza. Il giro dentro della grotta veniva appunto a rispondere nel mezzo del masso. Usciva dall’un canto del sasso medesimo una gran polla d’acqua, che per certe rotture cadendo, e mormorando, rendeva suono, al cui numero sembrava che battendo si accomodasse l’attitudine di ciascuna ninfa ; e giunta a terra si riducea in un corrente ruscello, che passando per mezzo di un pratello amenissimo, posto innanzi alla bocca della grotta, lo teneva col suo nutrimento sempre erboso, e per lo più tempo fiorito ; d’intorno vi pendevano secchj, ciotule, pifferi, cornamuse, sampogne e molti altri doni d’antichi pastori. » (Annibal Caro.)

Drimo, Tremerte e Glauco de’cavalli
Di Nettuno custode, e Toe vermiglia
Di zoofiti amante e di coralli ;
{p. 174}Galatea che nel sen della conchiglia
La prima perla invenne, e Doto e Proto
E tutta di Nereo l’ampia famiglia ;
Tra cui confuse de’Tritoni a nuoto
Van le torme proterve. In mezzo a tutti
Dell’onde il re da’gorghi imi commoto
Sporge il capo divino, e, al carro addutti
Gli alipedi immortali, il mar trascorre
Su le rote volanti, e adegua i flutti.
(V. Monti, Mascheron.)

317. Le Naiadi (nao, io scorro, gr.) eran le Ninfe dei fiumi, dei torrenti, dei laghi e delle fonti. Abitavano nelle grotte vicine al mare o sul margine dei ruscelli o nei freschi recessi dei boschetti. Stanno mollemente appoggiate sopra un’urna d’argento onde scaturisce l’acqua ; hanno in mano conchiglie o perle, e una ghirlanda di canne incorona la sciolta chioma. Il popolo credeva che fosse lor cura l’innaffiare i fiorellini dei prati e dei boschi ; e niuno osava intorbidare le fonti sapendo che eran date in custodia ad enti così leggiadri. Venivano sacrificate a queste ninfe capre ed agnelli, e fatte libazioni di vino, d’olio e di miele. Spesso si contentavano delle offerte di latte, di frutta e di fiori.

318. Le Ninfe terrestri erano divise in più schiere, ed avevano vari nomi secondo la natura dei luoghi da esse abitati, come : Driadi, Napee, Oreadi e Amadriadi.

319. Le Driadi eran le ninfe dei boschi e degli alberi in generale (Drys, quercia, gr.) ; e furono forse immaginate per impedire ai popoli di distruggere troppo facilmente le foreste, poichè non poteva esser tagliato un albero prima che i sacerdoti lo dichiarassero abbandonato dalle ninfe. Le Napee (nape, valle, gr.) presiedevano alle campagne, ai boschetti ed ai prati. Le Oreadi (oros, montagna, gr.) proteggevano le montagne, e solevano accompagnar Diana nei suoi viaggi e nelle sue cacce. Queste ninfe insieme con le Napee furono nutrici di Cerere e di {p. 175}Bacco, perchè le mèssi crescono nelle campagne, e le uve preferiscono le pendici. Alle Oreadi andiamo debitori del miele. Una di esse, chiamata Melissa, trovato nella cavità di un albero un favo, lo fece assaggiare alle compagne, che tutte liete di questa scoperta, dettero alle api il nome di Melisse, ed al loro nèttare quello di mèli, onde abbiam fatto miele.

Tacea splendido il mar, poi che sostenne
Sulla conchiglia assise, e vezzeggiate
Dalla Diva, le Grazie : e a sommo il flutto,
Quante alla prima prima aura di Zeffiro
Le frotte delle vaghe api prorompono,
{p. 176}E più e più succedenti invide ronzano
A far lunghi di sé aerei grappoli ;
Vanno alïando su’nettarei calici,
E del mele futuro in cor s’allegrano ;
Tante a fior dell’immensa onda raggiante
Ardian mostrarsi a mezzo il petto ignude
Le amorose Nereidi oceanine ;
E a drappelli agilissime seguendo
La Gioia alata, degli Dei foriera,
Gittavan perle, delle ingenue Grazie
Il bacio le Nereidi sospirando.
(Foscolo, le Grazie.)

Le Amadriadi (hama, con, drys, querce, gr.) avevano in, particolar custodia le foreste, e la favola narra che morivano e nascevano con le querci ; quindi ebbero anche il nome di Querculane.

320. La più celebre fra le Nereidi fu Teti, ed era tanto bella che Giove (63), Nettuno (185) ed Apollo (96) se ne disputaron le nozze ; ma saputo da un antico oracolo di Temi (337) come il primogenito di questa ninfa fosse destinato a divenire più famoso del padre, non vollero altrimenti porre a tal rischio la propria dignità e potenza, e la cederono a Peleo. Infatti da questo connubio nacque il divino e prode Achille (536).

321. Nè minor celebrità di Teti ebbe la ninfa Eco, figlia dell’Aria e della Terra ; essendochè meritato avendo lo sdegno di Giunone (85), fu da lei condannata a ripeter sempre le ultime sillabe dei discorsi che udiva. Le intravvenne poi d’innamorarsi di Narciso che « Biondo era e bello e di gentile aspetto, » figliuolo della ninfa Liriope e del fiume Cefiso, e si pose lungamente dietro alle sue orme, senza mai lasciarsi vedere ; ma il giovinetto la spregiò sempre, sicchè alla fine Eco andò a celare i vani sospiri ed a struggersi d’affanno per entro le più riposte parti dei boschi. Così di « quella vaga, Che amor consunse, come sol vapore » (Dante, Parad., c. xii), non {p. 177}rimase altro che la voce, perchè fu trasformata in durissimo scoglio.

322. Ma Narciso crudelmente pagò il fio della sua indifferenza ; poichè Amore (172) prese a vendicare la sventurata Eco ; menò’l’insensibile giovinetto sul margine d’una fonte, e lasciatolo ivi a specchiarsi nelle onde, lo accese di sì folle amore di sè medesimo, che diventò passione sfrenata, e gli logorò la vita al punto da cadere estinto in quello stesso luogo. Ecco la sorte dei giovani stoltamente invaniti di sè medesimi, o dei freddi egoisti ; ma gli Dei ebbero pietà di Narciso, e lo cangiarono in quel fiore che porta il suo nome.

323. Aretusa, ninfa e seguace di Diana (137), preferiva com’essa le innocenti ricreazioni della campagna alle pericolose lusinghe dell’amore. Ma Alfeo rapito dalla sua bellezza continuamente ne chiedeva la mano. Allora gli Dei per metter fine a quelle importune dimande trasformarono Aretusa in fontana nella Sicilia, ed Alfeo in fiume nella provincia d’Elide. Tuttavia questa metamorfosi non valse a diminuir l’affetto d’Alfeo, poichè le sue acque attraversavano il fondo del mare senza mischiarsi alle salse, e andavano sempre limpide e pure ad unirsi a quelle d’Aretusa,

…. Che di Grecia volve
Per occulto cammin l’onda d’argento,
Com’è l’antico grido ; e il greco Alfeo,
Che dal fondo del mar non lungi s’alza,
E costanti gli affetti, e dolci l’acque
Serba tra quelle dell’amara Teti.
(Pindemonte, I Sepolcri.)

324. Correva fama che la ninfa Egeria giovasse Numa Pompilio de’suoi consigli, poichè quel saggio legislatore, col pretesto di andare a consultarla, si appartava in un bosco vicino a Roma, e così accortamente avvalorava le sue leggi con l’autorità della religione. La favola aggiunge {p. 178}che Egeria rimase tanto afflitta della morte di Numa, che andò a rifugiarsi ed a piangere continuamente nella foresta d’Aricia, ove Diana (137) la trasformò in fonte. Alcuni trovano in Egeria il simbolo della solitudine tanto opportuna alla meditazione del filosofo e del sapiente.

Lari. Penati. §

325. Gli Dei famigliari o domestici erano chiamati Lari e Penati.64 I Lari erano propriamente i genii tutelari di ciascheduna casa, come a dire i custodi delle famiglie ; ed i Penati passavano per essere protettori delle città e degl’imperi, e venivano scelti fra gli Dei primari dell’Olimpo o fra gli eroi deificati ; ma spesso andavano ancora confusi coi primi, quali Dei del domestico focolare, ossia del luogo ove la famiglia manteneva il fuoco sacro.

326. V’erano inclusive i Lari preposti alle strade, ai trivj, alle vie, ai campi, ai navigli ; e sui luoghi stessi ricevevano pubblico culto.

327. Le statuette dei Lari, spesso in forma di cane, per allusione alla fedeltà di questo animale, e quelle dei Penati per lo più effigiati in due giovani assisi con una lancia per uno ed un grosso cane accovacciato a’piedi, risiedevano per entro i recessi più segreti della casa in una cappella detta Lararium ; e colà avevano tabernacoli ed are con lampade accese ed offerte d’incenso, di vino e talora di vittime. Ad essi erano consacrati i cani perchè animali domestici e fedeli ; e i medesimi Lari avevano spesso per manto una pelle di cane. Ciascuna famiglia romana aveva i suoi propri Penati, e li portava seco ad ogni variar di casa ; ma i Lari non abbandonavano mai l’abitazione dove erano stati collocati una volta.

328. Le feste celebrate in onore di questi idoli erano dette compitali dal latino compita che suona crocicchio o {p. 179}trivio. I divoti appendevano pubblicamente certi fantocci di lana a guisa di vittime espiatorie, e scongiuravano gli dei Lari affinchè sfogassero tutto il loro sdegno su quei fantocci, ed a loro facessero sopportare tutte le pene che potevano essere meritate dagli uomini. Quindi le statue degli dei Lari si vedevano per tutto, e gli schiavi divenuti liberi appendevano ad essi in ringraziamento le loro catene. Quanta carità civile in queste idee ! E come la moltiplicità di siffatti idoli rappresentava bene l’importanza della cura domestica e della pubblica polizia ! Ettore (591) apparso ad Enea (608) nella tremenda notte dell’ eccidio di Troia,

… Oh fuggi, Enea, fuggi,… disse :
Togliti a queste fiamme ; ecco che dentro
Sono i nostri nemici ; ecco già ch’ Ilio
Arde tutto, e ruina. Infino ad ora,
E per Priamo e per Troja assai s’è fatto.
Se difendere omai più si potesse,
Fôra per questa man difesa ancora.
Ma dovendo cader, le sue reliquie
Sacre, e gli santi suoi numi Penati
A te solo accomanda, e tu li prendi
Per compagni a’ tuoi fati : e com’ è d’uopo
Cerca loro altre terre, ergi altre mura ;
Chè dopo lungo e travaglioso esiglio
Le ergerai più di Troja altere e grandi.
Detto ciò, dalle chiuse arche reposte,
Trasse, e gli consegnò le sacre bende,
E l’effigie di Vesta, e ’l fuoco eterno.

Ed Anchise (176), conosciuta anche per celesti annunzi ormai inevitabile la ruina di Troia, esclama :

…….O della patria
Sacri numi Penati, a voi mi rendo.
Voi questa casa, voi questo nipote65
Mi conservate : questo augurio è vostro ;
E nel poter di voi Troja rimansi.
(Eneide, lib. II. Trad. del Caro.)

{p. 180}Indi Enea lasciava la città incenerita, seguito da Creusa (608) e da Julo, e recandosi in ispalla il vecchio Anchise il quale sosteneva con le sue mani il sacro incarco de’santi arredi e de’patrii Penati, perchè al guerriero, lordo di sangue e uscito allora da tanta uccisione, non era permesso toccarli prima che si fosse lavato alla pura onda di un fiume.

Genio §

329. Il Genio,66 figlio del Cielo (25) e della Natura secondo la favola, dava l’essere e il moto ad ogni cosa ; era l’idea fatta divina della generazione e della creazione dell’universo ; e così gl’ imperi, le città, ogni luogo, avevano il loro genio tutelare.

330. Era dunque naturale che anche ogni uomo avesse il suo Genio, la ispirazione generatrice delle sue azioni ; e di più riconoscevano tutti un genio buono che gl’ induceva al bene, ed uno genio cattivo che li tentava a commettere il male. Quindi ognuno nel suo giorno natalizio sacrificava al proprio Genio, offerendogli vino, fiori ed incenso, ma senza mai spargere una goccia di sangue.

331. Il genio buono aveva sembianze di giovine con volto bello ed onesto riso, poichè la serenità del sembiante suol essere testimone della bontà del cuore ; era inghirlandato di papaveri, quasi farmaco ad assopire le passioni sfrenate, e recava a piene mani pampani e grappoli d’uva, od anche la cornucopia, perchè la vita innocente e le buone azioni sono feconde di molti beni. Anche le foglie del platano gli servivano.di corona. Ma il genio cattivo era un tristo vecchio con accigliati ed incerti sguardi, rabbuffato il crine e lunga la barba, con in mano un gufo, uccello di cattivo augurio. Guai a chi non sentiva {p. 181}raccapriccio al solo immaginarselo accanto ! Talora ne era immagine un serpente.

La fortuna §

332. La Fortuna, onnipotente figlia di Giove e sorella del Fato, arbitra universale degli uomini e degli Dei, stava, per così dire, al governo delle cose umane, distribuendo a capriccio i beni ed i mali. Essa è origine e madre di tutte le invenzioni umane, dice Mario Pagano. Al caso debbonsi tutti i ritrovamenti più utili alla vita. L’uomo vede ed osserva l’incontro di certi naturali effetti, gli imita, e nascono indi le arti ; cosicchè gl’inventori delle cose altro non sono che i fortunati osservatori di alcuni fenomeni della natura e gli abili imitatori di essi. Quindi la Fortuna venne sulla terra dopo l’età dell’ oro, vale a dire quando nacque la necessità di lavorare ; ed è la stessa cosa che Pandora (72), ed anche la Natura medesima, vale a dire il concorso fortuito ed il conflitto di vari naturali effetti. I poeti la descrivono calva con una benda sugli occhi, ritta con ali a’piedi, e l’un d’essi già staccato dal suolo in atto di volare, mentre l’altro appena tocca la superficie di una sfera, od il cerchio d’una ruota che gira, ed è simbolo dell’incostanza. Qualche monumento la rappresenta assisa sopra un serpente, a significare ch’ ella vince ogni umana prudenza. Talora è ritta sopra un carro tirato da quattro cavalli ciechi al par di lei, e schiaccia i suoi adoratori, e ogni dì muta favoriti e ministri. Il cielo le posa sul capo : ed ella reca in mano nello stesso tempo il fuoco e l’acqua, emblema del bene e del male che spande sopra la terra. Talora ha nella destra un timone, o il corno dell’ abbondanza, perchè donatrice di tutti i beni e protettrice del commercio e delle arti ; e con la sinistra conduce per mano l’ Occasione, che ha la {p. 182}testa calva e un sottil ciuffo di capelli sulla fronte ; posa un piede sulla ruota, e tien l’altro per aria ; in una mano ha un rasoio e nell’altra un velo ; i quali emblemi indicano che una volta perduta l’occasione, è impossibile ritrovarla ; sicchè quando ci si offre il punto propizio bisogna troncare ogn’indugio ed afferrarla. I Romani adoravano la Fortuna Aurea ; ed infatti la sua statua d’oro era collocata nel quartiere accanto al letto dell’ Imperatore regnante, di dove, appena morto, la trasferivano in quello del suo successore. L’adoravano anche sotto i titoli di Conservatrice, Nutrice (mammosa), Cieca, Favorevole, Passeggera, Famigliare, Privata, ec. Gli avventurieri adoravano la Fortuna Venturiera (Fors Fortuna). La Fortuna Virile aveva il tempio accanto a quello di Venere. Roma, sottratta alla vendetta di Coriolano dalle lacrime della sposa e della madre, alzò un tempio alla Fortuna femminile, perchè due donne avevan salvato la patria. Domiziano, dopo aver sofferto alcune disgrazie alle quali tennero dietro migliori eventi, dedicò un altare alla Fortuna reduce ; indi le furon coniate medaglie col titolo di Fortuna stabile o costante (Fortuna stata) ; ma diventarono presto rarissime. Parrebbe cosa singolare che il Dio delle ricchezze, Pluto (254), che è cieco, fosse guidato dalla Fortuna egualmente cieca, la quale dipende dal cieco Destino (24), se la instabilità dei beni del mondo non ce ne mostrasse ogni giorno i lacrimevoli esempj ; ma la buona Fortuna sta in mano di chi la vuole, se per essa intendiamo un vivere agiato e felice secondo i buoni suggerimenti della natura, una felicità premio della virtù e del lavoro ; che se si possono erroneamente chiamar fortuna le inaspettate ricchezze, lo dicano quei tanti ai quali sono state causa di rovina, o che per ottenerle hanno perduto la tranquillità della coscienza, l’amore del prossimo, la stima di sè medesimi, ed altri beni veri e senza paragone più pregevoli di quelli che sogliono essere chiesti alla cieca Dea. Ma {p. 183}più nobilmente e con sapienza e versi sublimi ne ragiona Dante nel VII dell’ Inferno :

Colui, lo cui saper tutto trascende67
Fece li cieli, e diè lor chi conduce,68
Sicché ogni parte ad ogni parte splende,69
Distribuendo ugualmente la luce :
Similemente agli splendor mondani
Ordinò general ministra e duce,
Che permutasse a tempo li ben vani,
Di gente in gente, e d’uno in altro sangue,
Oltre la difension de’ senni umani :70
Perchè una gente impera e l’altra langue,
Seguendo lo giudicio di costei,
Che è occulto come in erba l’angue.
Vostro saper non ha contrasto a lei :
Ella provvede, giudica e persegue
Suo regno, come il loro gli altri Dei.71
Le sue permutazion non hanno triegue :
Necessità la fa esser veloce ;
Si spesso vien chi vicenda consegue.72
Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce
Pur da color che le dovrian dar lode,
Dandole biasmo a torto e mala voce.
Ma ella s’è beata, e ciò non ode :
Con l’altre prime creature lieta
Volve sua spera, e beata si gode.

In Italia i suoi tempj più famosi erano ad Anzio, città del paese dei Volsci, ed a Preneste. Il tempio d’Anzio era arricchito di offerte e di doni magnifici ; la statua della Dea vi proferiva gli oracoli, e per consueto artifizio dei sacerdoti speculatori sulla ignoranza e sulla superstizione dei divoti, rispondeva alle dimande dei supplicanti con un muover di testa o d’occhi e con alcuni altri gesti.

{p. 184}
La necessità. §

332, 2°. L’immaginazione ricca d’allegorie suggerì ai Greci altri emblemi per questa indivisibile compagna del Destino oltre quelli già indicati parlando di esso (24) e della Fortuna (332). Nelle mani di bronzo aveva lunghe ritorte e piombo strutto che uniscono e legano indissolubilmente tutti gli oggetti ; e portava lunghi cunei di ferro atti a dividere i legami più forti e più intimi. Ella stessa fu sottomessa alle sue proprie leggi, cedendo alla voce irresistibile dell’amore ; ma quale sovrana dei mortali non volle sottoporre il suo cuore, se non che al supremo dei Numi che la fece madre dell’ inflessibile Nemesi (333), Dea della giustizia e della vendetta celeste.

Nemesi. §

333. Nemesi (némesis, indignazione, gr.) chiamata anche Adrastea o Adrastia (adran, essere inevitabile, o non fuggire, gr.), Ancaria (formidabile), e Ramnusia perchè il suo più celebre tempio fu situato sopra un’eminenza presso Ramnunte borgo dell’Attica, era figlia della Necessità (332 2°) e di Giove, o secondo altri, della Notte (238) e dell’ Oceano (192), e ministra della celeste vendetta. Le sue funzioni consistevano in gastigare col sentimento della propria perfidia quei colpevoli che sfuggivano alla giustizia umana, gl’ipocriti, gl’invidiosi, gl’ingrati, gli orgogliosi, gli spergiuri e gl’ inumani. I suoi gastighi erano rigorosi ma giusti, e gli stessi re non se ne potevan sottrarre. Aveva inoltre l’ufficio di mischiare le sciagure alle umane felicità, affinchè gli uomini si tenessero lontani dall’ insolenza e dall’orgoglio ; quindi era il terrore di tutti coloro che abusavano dei favori della fortuna e del potere.

334. Nemesi ha la fronte serena, lo sguardo severo e {p. 185}il contegno franco ; ma facilmente le si scorgono scolpiti nel volto anche i terrori della minaccia inesorabile. Una corona di narcisi le inghirlanda la nera chioma, un leggerissimo velo adombra le severe bellezze, ed ha un manto bianco dato alle spalle, e che scende fino a terra con larghe pieghe. Nelle mani ha il freno e il compasso, l’uno per governare l’impeto delle passioni, l’altro per distribuire agli uomini con esatta misura le pene e le ricompense, e per serbare quella giusta eguaglianza per cui sia protetto l’innocente e il debole contro l’oppressore. Talora ha una lancia per colpire il vizio, ed una tazza piena di liquore celeste per fortificare la virtù contro la sventura. Altri poi l’hanno descritta con le ali al tergo, armata di serpi e di faci ardenti, e la testa regalmente coronata, a significare ch’ ella è il flagello dei tiranni. Le sue ali « Infaticabilmente agili e preste, » denotano che spesso la pena segue tosto il delitto. Gli Ateniesi istituirono in onor suo le feste Nemesie, solennità funebre, perchè credevano ch’ella pigliasse anche a proteggere i morti e vendicasse le ingiurie fatte alle tombe ; ed i Romani le alzarono un’ara nel Campidoglio, sulla quale deponevano una spada prima di partir per la guerra, scongiurando la Dea imparziale a proteggere la giustizia delle loro armi.

Atéa. §

335. Atéa (ate, ingiustizia, gr.), figlia di Giove (63), era una Dea malefica, di null’altro sollecita che di far del male agli uomini. Giunone per consiglio di questa Dea aveva ingannato Giove facendo nascere Euristeo prima d’ Ercole ; e il padre degli Dei sdegnato afferrò Atéa pei capelli, e la fece precipitare sopra la terra, giurando che non sarebbe mai più tornata nel cielo. Fin da quell’ epoca ella va percorrendo ogni dove la terra con incredibile celerità, {p. 186}e gode a ritrovarsi nel mezzo alle sventure ed in compagnia dei malvagi, de’ quali alla fine accelera la ruina :

Lieve ed alta dal suolo ella sul capo
De’ mortali cammina, e lo perturba ;
E a ben altri pur nocque. Anche allo stesso
Degli uomini e de’ numi arbitro Giove
Fu nocente costei ….
(Omero, Trad. del Monti.)

Le Preghiere sue sorelle, e, come lei, figlie di Giove, la seguono sempre, ma zoppicando, e s’ingegnano di rimediare ai mali da essa prodotti.

Arpocrate. §

336. Arpocrate, Dio d’egiziana origine, era figlio d’Osiride e d’Iside (690), e presiedeva al Silenzio. La sua statua era collocata sul limitare dei templi, o per indicare che gli Dei vogliono essere adorati in silenzio, o per significare che gli uomini, conoscendoli imperfettamente, ne debbono parlare con molta circospezione. Fu rappresentato giovine, severo in volto, con l’indice della destra alla bocca e un sigillo nella sinistra. Aveva la fronte ornata d’ una mitra con la punta divisa in due parti eguali, ed era tenuto in somma venerazione dai sapienti, nelle scuole, e nelle famiglie numerose. Gli era consacrato segnatamente il pesco, perchè le foglie di quest’ albero hanno la forma della lingua che deve tacere i segreti, ed il frutto ha quella del cuore che li tiene celati ; ed è parimente ingegnoso emblema dell’ accordo che deve passare tra il cuore e la lingua degli uomini onesti e dei giovani virtuosi. Il suo altare era coperto di legumi, dei quali gli abitanti delle sponde del Nilo gli consacravano le primizie.

{p. 187}
temi ed astrea. §

337. Temi (thémis, diritto, gr.), figlia del Cielo e della Terra (25), aveva regno in Tessaglia, e governava i popoli con tanta saviezza, che fu quindi onorata quale Dea della Giustizia. La favola aggiunge che Giove (63) ebbe da lei, ed era ben naturale, questre tre figlie : l’Equità, chiamata Eunomia, in greco Buona-legge, la Legge e la Pace (347).

338. Gli artisti diedero a Temi sguardo franco e severo, ed immaginarono che avesse in una mano le bilance, simbolo dell’equità, e nell’altra una spada, non quale istrumento di vendetta o di violenza, ma per indizio di ben usato potere. Talvolta ha gli occhi bendati e le orecchie chiuse, perchè il vedere e l’udire potrebbero in qualche caso renderla soverchiamente compassionevole o rigorosa, parziale o corruttibile ; ed in alcuni monumenti è priva di mani, volendo forse far riflettere quanto sia meglio che la saviezza delle leggi prevenga le liti o i delitti, di quello che ridurre la Giustizia a dover porre in bilancia le une ed a far punire gli altri ; se pure questa mutilazione non è più severo avvertimento ai giudici corruttibili. Spesso anche si vede appoggiata ad un leone, simbolo della forza che deve sostenere i suoi giusti decreti. Prima del diluvio di Deucalione aveva già un tempio e un oracolo molto celebri alle falde del monte Parnaso.

339. Astrea, figlia di Giove (63) e di Temi (337), presiedeva come sua madre alla giustizia, laonde spesso va confusa con lei. Nel tempo del beato secolo d’ oro ella aveva stabilito la sua dimora sopra la terra ; ma venuto il regno della violenza esercitata dai pochi sui molti, non le bastò l’animo di rimanersi nelle città, e andò a ricovrarsi nelle campagne ; ma poichè l’innocenza fu bandita anche dai luoghi più alpestri, non le rimase altro asilo che il cielo dove regnano eterne le leggi dell’ eguaglianza. Quivi fu {p. 188}collocata in quella parte dello Zodiaco detta la Vergine (682).

La fama. §

340. La vera poesia, degna encomiatrice del merito, ha fatto Dea anche la Fama « Che trae l’uom del sepolcro, e in vita il serba, » dandole per genitori Titano (30) e la Terra (25), e facendola messaggéra di Giove (63). Degnamente celebra il Petrarca nel suo Trionfo la buona Fama :

Quale in sul giorno l’amorosa stella
Suol venir d’oriente innanzi al sole,
Che s’accompagna volentier con ella,
Cotal venia ; ed or di quali scole
Verrà il maestro, che descriva appieno
Quel, ch’ i’ vo’ dir in semplici parole ?
Era dintorno il ciel tanto sereno,
Che per tutto ’l desio ch’ardea nel core
L’occhio mio non potea non venir meno.
Scolpito per le fronti era ’l valore
Dell’ onorata gente …….

E qui si fa a nominare una lunga lista d’uomini e donne illustri di tutti i tempi e di tutte le nazioni.

341. Ma Virgilio si tiene al peggio, o sivveramente manifesta come gli uomini giungano spesso a farne un mostro, quando le danno da raccontare vane o cattive azioni, e quando mescolano il falso col vero :

È questa Fama un mal, di cui null’ altro
È più veloce, e com’ più va più cresce,
E maggior forza acquista. È da principio
Piccola e debil cosa, e non s’arrischia
Di palesarsi ; poi di mano in mano
Si discopre e s’avanza ; e sopra terra
Se ’n va movendo, e sormontando all’ aura,
Tanto che ’l capo infra le nubi asconde.
Dicon, che già la nostra madre antica
Per la ruina de’ Giganti irata,
{p. 189}Contra i Celesti al mondo la produsse,
D’Encelado e di Ceo minor sorella ;
Mostro orribile e grande, e d’ali presta,
E veloce de’piè, che quante ha piume,
Tanti ha sott’occhi vigilanti, e tante
(Meraviglia a ridirlo !) ha lingue e bocche
Per favellare, e per udire orecchi.
Vola di notte per l’oscure tenebre
Della terra e del ciel, senza riposo
Stridendo sempre, e non chiude occhi mai :
Il giorno sopra tetti, e per le torri
Sen va delle città spiando tutto
Che si vede, e che s’ode ; e seminando
Non men che ’l bene e ’l vero, il male e ’l falso,
Di rumor empie e di spavento i popoli.

Spesso è rappresentata con ali al tergo e con la tromba ; talora ne ha due, l’una per divulgare la menzogna, l’altra la verità.

La libertà. §

341, 2°. I Greci e i Romani ebbero in gran venerazione questa Dea.

Libertà va cercando ch’ è si cara,
Come sa chi per lei vita rifiuta.
(Dante, Purg., c. I.)

Il padre dei Gracchi fu il primo ad alzarle in Roma un tempio sul monte Aventino ; ma un incendio lo distrusse, e Pollione lo fece rifabbricare con maggiore sontuosità, collocandovi la prima biblioteca pubblica che i Romani abbiano avuto. La Libertà, che si vede rappresentata ne’quadri e sulle pareti, è vestita di bianco a guisa di matrona romana, ed ha in capo un berretto frigio, poichè davasi questo berretto agli schiavi messi in libertà. Gli altri suoi attributi sono uno scettro od una bacchetta chiamata vindicta, un giogo spezzato ed un gatto, perchè questo animale non {p. 190}sopporta vincoli nè servitù. Belli sono quei versi del Monti nella Mascheroniana, coi quali allude alle vicende di Francia nel cadere del secolo passato. Son parole della Giustizia all’ Eterno :

Libertà che alle belle alme s’apprende,
Le spedisti dal ciel, di tua divina
Luce adornata e di virginee bende ;
Vaga si che nè greca nè latina
Riva mai vista non l’avea giammai
Di più cara sembianza e pellegrina.
{p. 191}Commossa al lampo di quei dolci rai
Ridea la terra intorno, ed io t’adoro,
Dir pareva ogni core, io ti chiamai.
Nobil fierezza, matronal decoro,
Candida fede, e tutto la seguia
Delle smarrite virtù prische il coro ;
E maestosa al fianco le venia
Ragion d’adamantine armi vestita
Con la nemica dell’ error, Sofia.
Allor mal ferma in trono e sbigottita
La tirannia tremò ; parve del mondo
Allor l’antica servitù finita.
Ma il Foscolo nel ricordato inno :
E quando sparve la celeste fiamma73
Che la diva recato avea sul Tebro,
Canta la Fama che le Grazie un giorno
Vider l’Onore andar fuggiasco, in veste
Di dolente eremita, e sovra l’urne
Muto prostrarsi degli antiqui Eroi ;
E seco starsi, in abito d’errante
Pellegrino, la sacra e da’ mortali
Mal conosciuta Libertà. Pietose
Le tre sorelle addussero per mano
Il pellegrino e il tacito eremita
Ne’ queti orti de’ vati, e nell’ umíle
Tetto, ove, ignoti a’ re, lieti i scultori
Veston d’eterna giovinezza il marmo ;
Dove i pittori col divin sorriso
De’ color varj irraggiano le menti
Ottenebrate.
L’invidia. §

342. Tanta è la prepotenza di questa funesta passione che gli antichi la immaginarono di origine sovrumana, facendola nascere peraltro dalle tenebre della Notte (238) ; e le diedero effigie di vecchia orribilmente livida e scarna, con la testa coperta di colubri invece di capelli ; guardatura {p. 192}losca e affossate pupille ; i denti neri, e coperta di micidial veleno la lingua ; in una mano ha tre serpi, un’ idra nell’altra od una torcia accesa, e sul seno un rettile mostruoso che la divora continuamente e le infonde il suo veleno ; sempre agitata dall’ inquietudine, non ride mai ; nè mai il dolce sonno chiude le sue pupille. Ogni evento felice l’affligge o sveglia i suoi sdegni ; destinata a patire ed a far patire, ella è il continuo carnefice di sè stessa.

La discordia. §

343. La Discordia o Erinni, figlia della Notte, éra una Dea autrice d’immensi guai, ed alla quale venivano attribuite le cause di guerra e le irate fazioni che dividono le famiglie ed i cittadini. Abitò un tempo nel cielo, ma Giove ne la bandì, perchè metteva sempre lo scompiglio tra i Numi.

344. Indispettita per non essere stata convitata alle nozze di Teti e di Peleo, gettò nel mezzo alle Dee un pomo fatale, per cui nacque la famosa disputa che fu giudicata da Paride (598), e cagionò poi infinite sventure ai Troiani.

345. Anch’ella è anguicrinita e cinta di sanguinose bende ; ha livido colorito, torvo cipiglio, e bocca schiumante di rabbiosa tabe ;

E scomposte le chiome in sulla testa,
Come campo di biada già matura,
Nel cui mezzo passata è la tempesta.
(Monti, Basvilliana.)

È coperta di veste stracciata e color di fuoco ; agita nelle scarne mani e faci accese e vipere e pugnali, e sparge rotoli di pergamena dove sta scritto : guerre, tirannidi, confusione, fazioni, odii, vendette ec. Ella in compagnia di Bellona, si caccia innanzi la Paura per la quale i sette {p. 193}Capitani (Eschilo) giurarono a Tebe la ruina di quella città sventurata ; quella stessa Paura a cui i Romani messi in fuga alzarono altari, e andaron poi debitori della vittoria. (Tito Livio, lib. II.) Ha costei la testa leonina che al minimo strepito si rizza ; la sua veste, di color cangiante come il suo cuore, ondula sul petto agitato, e le ali a’ piedi ne rendono più ratta la fuga. Dietro a lei, con occhi smarriti, capelli rabbuffatti e stravolto il sembiante, si trascina il Pallore che ne divide il culto e gli altari. Indi la segue la Menzogna con occhi loschi e perfido sorriso, traendo per mano la Frode che viene con passi obliqui, ed alza la femminea testa sopra un corpo di serpente armato della coda di uno scorpione (Esiodo).

La calunnia. §

345, 2°. Carlo Dati nella vita d’Apelle ci somministra una bella descrizione di questa maligna divinità. « Dipinse egli nella destra banda (del suo quadro) a sedere un uomo con orecchie lunghissime, simiglianti a quelle di Mida, in atto di porgere la mano alla Calunnia che di lontano s’inviava verso di lui. Stavangli attorno due donnicciuole, ed erano, s’ io non erro, l’ Ignoranza e la Sospezione. Dall’ altra parte venia la Calunnia tutta adorna e liscia, che nel fiero aspetto e nel portamento della persona, ben palesava lo sdegno e la rabbia ch’ ella chiudeva nel cuore. Portava nella sinistra una fiaccola, e con l’altra mano strascinava per la zazzera un giovane, il quale, elevando le mani al cielo, chiamava ad alta voce gli Dei per testimoni della propria innocenza. Facevale scorta una figura squallida e lorda, vivace ed acuta nel guardo, nel resto simigliantissima ad un tisico marcio ; e facilmente ravvisavasi per l’ Invidia. Poco meno che al pari della Calunnia eranvi alcune femmine, {p. 194}quasi damigelle e compagne, il cui officio era incitare e metter su la signora, acconciarla, abbellirla ; e si interpretava che fossero la Doppiezza e le Insidie. Dopo a tutti venia il Pentimento colmo di dolore, rinvolto in lacero bruno, il quale, addietro volgendosi, scorgea venir da lungi la Verità, non meno allegra che modesta, nè meno modesta che bella. Con questa tavola scherzò Apelle sopra le proprie sciagure, mostrandosi ugualmente valoroso pittore e bizzarro poeta in esprimer favolosamente i veri effetti della Calunnia. »

Il dolore. §

345, 3°. Il Dolore, compagno del Pentimento, è un giovine pallido e magro, coperto di lungo velo, e che sta mestamente appoggiato ad un’ urna funebre. Ora alza gli sguardi al cielo, ora gli affissa sopra la terra, quasichè all’uno richieda il ben che gli ha tolto, e implori dall’altra il tesoro che gli tien chiuso nelle sue viscere.

La melanconia. §

345, 4°. Presso al Dolore procede con lento passo una giovinetta sua sorella coperta di velo più sottile. Ella ha per compagna indivisibile la Dolcezza, ma è distratta, pensierosa, e non guarda nè la terra nè il cielo ; e par che ricerchi nel proprio cuore soltanto le sue consolazioni, e che deliziosamente s’inebrii di tacita e soave mestizia pari al sole cadente inverso sera, quando la luce impallidisce, e languide appariscono le tinte e vicine a spegnersi, ed inclinanti ad una cara e mesta conformità. Lo sventurato che fugge la Follia e respinge il Piacere seco lei si consiglia e si cela nelle solitudini, e si asside sulle patrie ruine.

{p. 195}
La forza. §

346. Gli antichi onoravano la Forza facendone una Dea figlia di Temi (337) e sorella della Temperanza, senza la compagnia della quale non può sussistere. La rappresentavano sotto l’emblema di una donna armata all’amazzone, che abbraccia con la destra una colonna, e impugna con la sinistra un ramo di quercia. Il leone è il suo più comune attributo.

{p. 196}
La pace. §

347. In veste candida, e con celeste riso sul volto bello, compariva questa figlia di Giove (63) e di Temi (337), ed era la Dea tutelare del secol d’ oro, e l’ origine della felicità che in esso fu dato di godere ai mortali. La Pace ebbe are, culto e statue in Roma. Il suo tempio posto nella Via Sacra era il più grande ed il più sontuoso che fosse nella città ; fu cominciato da Agrippina e finito da Vespasiano, e accolse le spoglie che questo imperatore ed il suo figliuolo recarono dal tempio di Gerusalemme. La Pace teneva nella destra il corno dell’abbondanza, e nella sinistra un ramo d’ olivo ; talora ebbe il caduceo come favorevole al commercio, una face arrovesciata ed alcune spighe di grano.

Il lavoro. §

347, 2°. È rappresentato nella figura di un uomo nerboruto, pieno di forza, di statura alta e di buon colorito. Ila in mano ed accanto a sè gli strumenti necessarj a diverse arti. Talvolta egli ha per emblema un giovine assiso che scrive al lume di una lucerna con un gallo accanto. — « Occuparsi, dice Voltaire, vuol dire saper godere, perchè l’ozio è un tormento. L’anima è un fuoco che ha bisogno d’esser nutrito, e se non viene alimentato si spenge. »

La vigilanza. §

347, 3°. « La Vigilanza vuol esser così fatta, che paia illuminata dietro alle spalle dal sol che nasce, e che ella per prevenirlo si cacci dentro nella camera per lo {p. 197}finestrone che si è detto. La sua forma sia di una donna alta, spedita, valorosa, con gli occhi ben aperti, con le ciglia ben inarcate, vestita di velo trasparente fino ai piedi, succinta nel mezzo della persona ; con una mano si appoggi ad un’ asta, e con l’altra raccolga una falda di gonna ; stia fermata sul piè destro, e tenendo il sinistro indietro sospeso, mostri da un canto di posar saldamente, e dall’ altro di aver pronti i passi. Alzi il capo a mirare l’Aurora, e paia sdegnata ch’ella si sia levata prima di lei. Porti in testa una celata con un gallo suvvi, il quale dimostri di batter l’ali e di cantare. E tutto questo dietro l’Aurora. Ma davanti a lei nel cielo dello sfondato farei alcune figurette di fanciulle l’una dietro all’altra, quali più chiare e quali meno, secondochè meno o più fossero appresso al lume di essa Aurora, per significare l’ore che vengono innanti al Sole ed a lei. » (Vasari, Vita di Taddeo Zucchero.)

La quiete. §

347, 4°. « Questa Quiete trovo bene che era adorata, e che l’era dedicato il tempio, ma non trovo già come fosse figurata, se già la sua figura non fosse quella della Securità. Il che non credo, perchè la Securità è dell’anima, e la Quiete è del corpo. Figureremo dunque la Quiete da noi in questo modo. Una giovane d’aspetto piacevole, che come stanca non giaccia, ma segga e dorma, con la testa appoggiata sopra il braccio sinistro. Abbia un’asta che le si posi disopra nella spalla e da piè punti in terra, e sopr’essa lasci cadere il braccio destro spenzolone, e vi tenga una gamba cavalcioni in atto di posare per ristoro e non per infingardia. Tenga una corona di papaveri ed uno scettro appartato da un canto, ma non sì che non possa prontamente ripigliarlo. E, dove la Vigilanza ha in capo un gallo che canta, a {p. 198}questa si può fare ai piedi una gallina che covi, per mostrare che ancora posando fa la sua azione. » (Vasari, Vita citata.)

La vittoria. §

348. La Vittoria, figlia dello Stige (221) e di Pallante, e secondo altri, dell’Acheronte, ebbe magnifici templi in Grecia e in Italia, dove sorgeva alata con augusto sembiante, porgcndo con l’una mano la corona d’alloro, e recando nell’ altra con aspetto di trionfale maestà una palma intrecciata all’ ulivo per denotare che la vera gloria è non tanto frutto della Pace quanto della Vittoria. Poggiava i piedi sopra un globo perchè la Vittoria domina su tutta la terra ; ed era in atto di volare verso il tempio dell’Immortalità e della Memoria a scolpirvi i nomi dei suoi adoratori. Quando il fulmine ruppe le ali alla statua che le era stata eretta in Roma, Pompeo, per confortare il popolo che pigliava quel fatto per tristo augurio, esclamò : « Romani, gli Dei hanno tarpato le ali alla Vittoria : ella non può ormai più fuggire da noi. »

La speranza. §

349. Gli antichi immaginarono ingegnosamente che la Speranza fosse sorella del Sonno (240) che per breve tempo sospende i nostri affanni, e della Morte (242) che vi pone un termine. I Romani l’ebbero in molta venerazione ; e le alzarono templi. Ila l’aspetto di giovane ninfa, inghirlandata di fiori nascenti che promettono il frutto : ella predilige il color verde, emblema delle mòssi future : ed è alata, perchè pur troppo la speranza è sollecita e fugace.

{p. 199}
La verità. §

350. La Verità è figliuola del Tempo o di Saturno (27) e madre della Virtù ; ed appare nuda o coperta di semplici vesti, ma dignitosa nell’aspetto e nel contegno, e con occhi sfavillanti al par degli astri. Regge con la sinistra un libro aperto e una palma, che spesso è quella del martirio ; ed ha nella destra un lucido specchio, talvolta adornato di fiori e di gemme, poichè non è vietato abbellirla, purchè quei fiori non sieno finti e quelle gemme non sieno false. Democrito filosofo greco era di sentimento ch’ella preferisse di starsene celata in fondo a un pozzo. Con bel modo ne fa la dipintura il Pignoni nelle sue sestine sull’origine della favola. Ecco il principio di quel componimento :

« Una donna più bella assai del Sole,
E più lucente, e di maggior etade, »
Mandata fu sulla terrestre mole
Dalle celesti lucide contrade,
Per dissipar col suo divin fulgore
La cieca nebbia dell’umano errore.
Nude le membra aveva, il crine incolto,
E rozza era negli atti e semplicetta ;
Ma cosa non mortai sembrava al volto,
Tanto più vaga quanto più negletta ;
E folgorando, quasi accese faci,
Gettavan lampi i negri occhi vivaci.
Mover vedeasi in portamento altero
Il franco piè sicura e baldanzosa ;
Sereno era lo sguardo, e insiem severo ;
E stava sulla fronte maestosa,
Figlia della virtù, nobil fierezza,
Che i tardi suoi timidi amici sprezza.
Era costei la più lucida Dea
Del Ciel, la Verità : fiaccola ardente
Lassuso accesa in una man tenea,
Nell’altra un specchio in guisa tal lucente,
{p. 200}Che l’imagine mostra d’ogni oggetto,
Non quale ei sembra, ma qual è in effetto.
In questo se talor si specchia il rio
Ipocrita, non mirasi il soave
Volto, o le mani giunte in atto pio,
« O l’umil volger d’occhi, o l’andar grave ; »
Ma cade il manto, e appar sotto di quello
La man che stringe e cela il reo coltello.
La virtù. §

351. Chi non avrebbe fatto una Dea di questa augusta figliuola della Verità (350) ? Ella è una donzella « Pudica in faccia e nell’andare onesta, » e che al solo mirarla sveglia amore e rispetto. Le sue grandi ali sono spiegate a significare che sotto di esse possono ricovrarsi gli uomini ; e candidissimo è il suo manto per simbolo di purità. Impugna l’asta, il bastone del comando, e porge la corona d’alloro, indizio delle battaglie che le conviene sostenere contro i vizi, della possanza che acquista nelle continue lotte e nella vittoria, e della ricompènsa che le è dovuta. Il suo trono è un cubo di marmo per denotare la perseveranza, la imperturbabilità, la fortezza della vera virtù. Chi non si sentirebbe infiammato al suo culto ? Bene si addicono alla severa e modesta Dea le note parole che Dante mette in bocca di Virgilio :

Vien dietro a me, e lascia dir le genti ;
Sta, come torre, fermo che non crolla
Giammai la cima per soffiar de’venti.

E così tutti le avessero sempre scolpite nel cuore !

L’amicizia. §

351, 2°. I Greci onoravano di culto divino anche l’Amicizia, che davvero lo meritava, e la chiamavano la {p. 201}Divinità delle grandi anime. I Romani poi la rappresentarono sotto la figura di una giovinetta, vestita di semplice tunica, sull’orlo della quale era scritto : La morte e la vita. Il primo sentimento virtuoso che ne accende deve seguirci fino alla tomba, perchè una volta che abbiam cominciato ad amare, il non amar più è lo stesso che non vivere. Sulla fronte della Dea si leggeva quest’altra iscrizione : l’estate e l’inverno, per indicare che l’amicizia vera è costante sì nella buona che nella rea fortuna : ovvero che questo soave sentimento non appartiene alla gioventù, ma è frutto della ragione, che si matura nel corso della nostra estate, e del quale godiamo nel nostro inverno. Felici coloro che lo posseggono anche prematuro ! La statua dell’Amicizia aveva inoltre il lato sinistro aperto, e con l’indice della destra scopriva il suo cuore, nel cui mezzo erano scritte queste parole : Da vicino e da lontano.

La fedeltà. §

351, 3°. La Fedeltà è compagna della vera Amicizia, e non va confusa con la Buona-Fede. 74 In Roma accanto al Campidoglio ebbe un tempio consacratole, per quanto si crede, da Numa Pompilio. La Dea era rappresentata a mani giunte, e con lungo abito bianco, per cui forse Virgilio la chiama Cana Fides, se pure con questo epiteto non volesse indicare la vecchiezza della Fedeltà incanutita. Per lo più le giace a’piedi un cane bianco, simbolo che le è comune con l’Amicizia ; ed infatti il cane unisce l’affetto alla fedeltà. I sacerdoti della Fedeltà erano al par di lei coperti da lungo e candido manto che ravvolgeva la loro testa e le loro mani ; e le facevano molte offerte, ma senza macchiar mai i suoi altari col sangue delle vittime. Sul {p. 202}rontespizio del tempio erano scolpite due destre in atto di stringersi. I Romani ci hanno lasciato un altro gentile emblema della Fedeltà, il quale consiste in due vergini che pigliandosi per la mano si promettono fedele amicizia.

Divinità della terza classe. §

352. Le divinità della terza classe comprendevano gli Dei che ebbero per genitori un ente celeste ed una creatura mortale, e quelli Eroi che furono prediletti a qualche Nume, o che per sovrumano valore e per ingegno straordinario avevano meritato onori divini, quali furono tra i più noti : Perseo, Ercole, Giasone, Teseo, Castore e Polluce, Bellerofonte, Esculapio, Orfeo, Cadmo, ec. Queste divinità dimoravano sulla terra, e son dette anche Semidei.

Perseo. §

353. Perseo era figlio di Giove (63) e di Danae. Acrisio re d’Argo rinchiuse la figlia in una torre di metallo, perchè l’oracolo aveva predetto che un dì il suo nipote gli avrebbe tolto corona e vita. Ma Giove trasformato in pioggia d’oro, che è quanto dire dopo aver corrotto con denaro le guardie della principessa, la involò e la fece sua moglie ; da questo imeneo nacque Perseo.

354. Acrisio, scoperta l’esistenza del temuto nipote, lo fece esporre con sua madre in preda alle onde in una debole navicella. La sventurata coppia fu spinta sulle coste della isoletta di Serifa tra le Cicladi, ove Ditti {p. 203}pescatore la raccolse, e la condusse a Polidetto re di essa isola. Questi ricevè umanamente la madre ed il figlio, e dettelo a educare ai sacerdoti del tempio di Minerva.

355. Perseo nel crescere dell’età mostrò tanto valore che il popolo prese ad amarlo singolarmente ; ma Polidetto, ingelositone, si studiò di allontanarlo dalla corte. A tale effetto cominciò a fargli desiderare la gloria, e gli propose una spedizione lontana e difficile. Si trattava di andare a combattere le Gorgoni (357), mostri che desolavano il paese prossimo al giardino delle Esperidi ; e bisognava recidere il capo alla tremenda Medusa. Il re sperava ch’ei sarebbe perito in impresa di tanto rischio.

356. Il giovinetto eroe accettò impavido la proposta ; ma gli Dei che lo proteggevano vollero aiutarlo. Minerva gli prestò il suo scudo lucido come specchio, Mercurio le sue ali e la spada adamantina, e Plutone un elmo che lo faceva divenire invisibile.

357. Le Gorgoni erano tre sorelle che regnavano insieme sulle isole Gorgadi, e avevan nome : Medusa, Euriale e Steno, figlie di Forco Dio marino e di Celo. Medusa, la maggiore, era nata oltremodo avvenente e con una chioma di maravigliosa bellezza ; ma ne andava tanto orgogliosa, che Minerva cambiò i suoi capelli in serpenti, e insieme con le sorelle che partecipavano dello stesso difetto, la fece divenire orribilmente deforme. In tutte e tre avevano un solo occhio ed un solo dente che adoperavano a vicenda ; ma questo dente era più lungo delle zanne del cinghiale, ed uno sguardo solo del loro occhio bastava ad uccidere o ad impietrire gli uomini. « Volgiti indietro, e tien lo viso chiuso » dice Virgilio a Dante nel IX dell’Inferno « Che se ’l Gorgon si mostra, e tu ’l vedessi, Nulla sarebbe del tornar mai suso » ossia, non si parlerebbe più di tornare nel mondo. E il Petrarca dice : « il volto di Medusa, Che facea marmo diventar la gente. » Le mani poi di questi mostri erano di metallo, e tutte tre le sorelle {p. 204}avevano orrenda chioma di serpi. E opinione che questi mostri nefandi significhino le abiette e scellerate azioni dei tiranni, le discordie cittadine funeste ai popoli, i flagelli delle signorie straniere, le audacie dei facinorosi, i vizi che sogliono spingere i giovani a immatura morte od all’infamia. Perseo, che ebbe vanto d’amoroso figliuolo, di giovine di costumi illibati, e che fu prediletto ai Numi perchè ambiva la vera gloria, potè con le armi divine, essere invisibile ai mostri, assalirli, vincerli e recider la testa a Medusa.

358. D’allora in poi Perseo recò sempre seco quel teschio, e nelle sue avventure l’adoperò ad impietrire i nemici. Parte del sangue versato da Medusa produsse il mostro Crisaorso che sposò Calliroe figlia dell’Oceano, e n’ebbe tre figli mostruosi, Gerione (379), Echidna (466) e la Chimera (465). Dal rimanente nacque il cavallo Pegaseo, il quale, percuotendo la terra, ne fece scaturire la fontana d’Ippocrene (123). Così la vittoria riportata sul vizio produce sempre buoni effetti, quantunque il mostro possa tuttavia celarsi ogni dove a spiare il tempo di nuocere. Perciò conviene che la virtù non si riposi giammai, e sfugga il pericolo d’illanguidirsi. Infatti, mentre Perseo recava quella testa a Polidetto, tutte le gocce del sangue che ne uscivano senza che egli se ne accorgesse, diventarono serpi infeste alla Libia.

359. Perseo, salito a cavallo al Pegaseo (124), attraversò gl’immensi spazi dell’aria, e giunse nella Mauritania, dove regnava Atlante di gigantesca statura. Costui possedeva il giardino delle Esperidi, e n’era estremamente geloso. Un oracolo lo aveva ammonito a star guardingo contro un figliuolo di Giove (63) ; ed egli udendo come Perseo fosse tale, non volle accordargli ospitalità. Ma il giovine eroe punì subito tanta scortesia facendolo diventare di pietra col mostrargli la testa di Medusa. Così il gigante fu trasformato nella montagna che porta il suo nome, e {p. 205}Perseo potè impossessarsi dei pregiati frutti del giardino delle Esperidi.

360. Alcuni poeti dicono che Atlante regge il cielo sulle spalle, forse perchè questo monte è quasi sempre coperto di nubi, o perchè un celebre astronomo chiamato Atlante fu l’inventore della sfera.

361. Perseo con l’aiuto d’un’arme così tremenda potè liberare da cruda morte l’infelice Andromeda. Questa principessa, figliuola di Cefeo re d’Etiopia e di Cassiopea, era stata esposta sulla riva del mare per esservi divorata da un drago marino, in pena d’aver gareggiato di bellezza con Giunone e con le Nereidi (316). Perseo dall’alto del suo aereo viaggio scòrse la giovinetta, il mostro che era per divorarla, e udì i pianti dei desolati genitori. Precipitarsi sull’enorme drago, ferirlo ed ucciderlo fu un punto solo ; i pianti si mutarono in giubbilo, e le voci di maraviglia e gli applausi del popolo echeggiarono lungamente sul lido.

362. Cefeo offerse tosto la figliuola in isposa al generoso liberatore, ed ei l’accettò ; ma gli convenne conquistarla con altre prove di valore, e combattere contro Fineo suo pretendente, che alla testa di molti armati accorse a rapirgliela. Perseo era per essere soverchiato dal numero, quando si rammentò della sua arme fatale, e il rapitore e i suoi compagni diventarono pietre. L’eroe, vittorioso di tutti i nemici, consacrò a Minerva (262) la testa di Medusa che indi fu scolpita sulla formidabile egida della Dea.

363. Quantunque Perseo avesse ragione di lagnarsi dell’avo Acrisio, tuttavia s’adoperò per rimetterlo sul trono, dal quale era stato scacciato da Preto (462) suo fratello ; ed uccise l’usurpatore. Ma poco dopo gli accadde che volendo far mostra di destrezza nel giuoco del disco, colpì Acrisio, e lo stese morto. Così rimase avverato l’oracolo. Fu tanto il dolore cagionatogli da questa disgrazia, che abbandonò il soggiorno d’Argo, e andò a fondare una {p. 206}nuova città col nome di Micene, ove poi fu ucciso con frode da Megapento figliuolo di Preto (462), che volle vendicare la morte del padre. I popoli di Micene e d’Argo alzarono gloriosi monumenti alla sua memoria, e Giove (63) lo pose in cielo tra le costellazioni settentrionali con Andromeda, Cassiopea e Cefeo (361).

Ercole o Alcide. §

364. Ercole ed Euristeo nacquero da Alcmena moglie d’Anfitrione re di Tebe, e vennero al mondo gemelli mentre questo principe era alla guerra. Giove (63), che amava Alcmena, volle pigliarsi special cura d’Ercole, e lo adottò per figliuolo.

365. Giunone (85), sempre gelosa di tutto, si apparecchiò a perseguitare Ercole, forzando Giove a giurar per lo Stige che il primo nato de’due fanciulli dovrebbe avere imperio sull’altro ; quindi usò ogni arte perchè Euristeo venisse al mondo prima d’Ercole, ed il protetto di Giove fosse sottoposto al fratello per decreto del Fato. Così accadde ; ma non fu paga. Ercole era in fasce, ed ella mandò due serpenti a divorarlo nella cuna ; ma il bambinello, senza mostrarsi atterrito, gli sbranò, e fece manifesto fino dai primi giorni della sua vita ch’ei poteva meritamente esser chiamato figliuol di Giove.

Noto a Giuno superba, il divin germe
Godea del ciel sereno,
E col fratei posava in crocei veli :
Ma la Saturnia, lacerata il seno
D’aspro geloso verme,
Duo volanti spedia draghi crudeli,
Che ratti entràr le soglie,
Ove del rege partoria la moglie.
Avidamente in tortuose spire
Stringean l’eccelso figlio,
Quand’ei levossi alla tremenda guerra ;
{p. 207}E fatal prova nel primier periglio
Dando d’immenso ardire,
Con mano inevitabile n’afferra
Gli orridi mostri insani,
E strangolati li divelle in brani.
(Pindaro. Trad. del Borghi.)

Il Dati nella vita di Zeusi, illustrandone un quadro fa una bella descrizione di questo fatto : « Tra le opere di Zeusi, bellissimo fu tenuto Ercole in culla, strangolante i dragoni, sendo ivi presente Anfitrione e la madre Alcmena, in cui si scorgea lo spavento. E se questa non fu la medesima tavola, simigliantissima era ella almeno a quella che ci descrive il giovane Filostrato nelle Immagini. Scherzava nella culla il bambino Ercole, quasi che si burlasse del gran cimento ; e avendo preso con ambe le mani l’uno e l’altro serpente da Giunone mandati, non si alterava punto nè poco in veder quivi la madre spaventata e fuori di sè. Già le serpi erano distese in terra, non più raccolte in giro, e le teste loro infrante scoprivano gli acuti denti e velenosi. Le creste eran divenute cadenti e languide sul morire, gli occhi appannati, le squame non più vivaci per la porpora e per l’oro, nè più lucenti nel moto, ma scolorite e livide. Sembrava che Alcmena del primo terrore si riavesse, ma che non si fidasse ancora degli occhi proprj. Imperciocchè non avendo riguardo di esser partoriente, appariva che per la paura, gettatasi attraverso una veste, si fosse tolta di letto scapigliata, gridando a mani alzate. Le cameriere, stordite mirandosi, diceano non so che l’una all’altra. I Tebani con armi alla mano erano accorsi in aiuto di Anfitrione, il quale al primo romore, col pugnale sguainato s’era quivi tratto per intendere e vendicare l’oltraggio. Nè ben si distingueva s’era ancor atterrito od allegro. Avea egli pronta alla vendetta la mano ; raffrenavalo il non {p. 208}vedere di chi vendicarsi, e che nello stato presente piuttosto abbisognava di chi spiegasse l’oracolo. Scorgevasi appunto Tiresia (660), che vaticinando presagiva il fato del grau fanciullo il quale giacea nella culla. Era egli figurato pieno di spirito divino e agitato dal furor profetico. Tutto ciò si rappresentava di notte, illuminando la stanza una torcia, perchè non mancassero testimoni alla battaglia di quel bambino. »

366. Si trova scritto che ad intercessione di Pallade (263), Giunone si placò a segno d’allattare col proprio seno il famoso pargolo per farlo diventare immortale ; e che allora Ercole, versandone alcune gocce, originasse in cielo quella zona bianchiccia detta la Via lattea. Così nascondevano gli antichi la loro ignoranza in fatto d’astronomia.

367. Parecchi furono i maestri d’Ercole, poichè imparò a trar d’arco da Radamanto (230) o secondo altri da Eurito ; a combattere in armi da Castore ; col Centauro Chirone (430) studiò l’astronomia e la medicina, e da Lino (121) gli fu insegnato suonar la lira.

368. Ercole ebbe gran numero di discendenti chiamati Eraclidi ; e dicesi che coll’andar del tempo andarono ad assalire Eurisleo e che lo uccisero per vendicare le persecuzioni sofferte dal padre loro. Quindi più volte scacciati dal Peloponneso alfine vi ritornarono, occupando il paese fino allora posseduto dalla famiglia dei Pelopidi. ossia dai discendenti d’Atreo e di Tieste nipoti di Pelope (514

369. Vero è che Euristeo, per suggerimento di Giunone (85), aveva ordinato ad Ercole di affrontare i pericoli più imminenti, confidandosi che alla fine vi sarebbe perito. Questo severo comando, al quale per voler del Fato Ercole non poteva disobbedire, originò le così dette dodici fatiche d’Ercole. E qui convien rammentare come la prima giovinezza d’Ercole ed il suo accingersi a tali imprese, abbia somministrato a’poeti il concetto di simboleggiare {p. 209}in lui l’età più pericolosa della nostra vita ; quella cioè nella quale, essendo liberi di noi ed in tutto il vigore della gioventù, dobbiamo scegliere la via da percorrere : se quella dei piaceri e delle mollezze, piana e fiorita e seducente per lusinghiere delizie, ma inetta e vile ; o quella ripida ed aspra che par faticosa a salire, ma ehe infine a forza di superare ostacoli ci diventa agevole, e conduce al tempio della virtù, alla conquista dei veri beni :

……. Questa montagna è tale,
Che sempre al cominciar di sotto è grave,
E quanto uom più va su, e men fa male.
Però quand’ella ti parrà soave
Tanto, che ’l su andar ti sia leggero,
Come a seconda in giuso andar per nave ;
Allor sarai al fin d’esto sentiero :
Quivi di riposar l’affanno aspetta…
(Dante, Purg. c. IV.)

E da ciò ha origine la favola d’Ercole al bivio, il quale, sdegnando Venere, e seguitando Minerva, meritò (d’esser fatto immortale. Alcuni poi sono di sentimento che le fatiche d’Ercole sieno un’allegoria di quelle che l’agricoltore deve sopportare nei dodiei mesi dell’anno, e che si vedono significate nei segni dello zodiaco (676).

Il Pàrini ne traggo opportuno insegnamento nella sua Ode bellissima sulla Educazione :

Gran prole era di Giovo
Il magnanimo Alcide ;
Ma quante egli fa prove,
E quanti mostri ancide,
Onde s’innalzi poi
Al seggio degli eroi ?
Altri le altere cune
Lascia, o garzon, che pregi :
Le superbe fortune
Del vile anco son fregi.
Chi della gloria è vago,
Sol di virtù sia pago.

{p. 210}370. Un leone di smisurata grandezza erasi rifugiato nella foresta Nemea, e devastava il paese. Ercole assali quel mostro, e dopo lunga e perigliosa battaglia, nella qualé non valevano le armi perchè la sua pelle era impenetrabile, potè agguantarlo, lo soffocò stringendolo nelle nerborute sue braccia, e gli tolse di dosso la pelle, che fu quindi la sua corazza e la sua veste.

371. Nelle paludi di Lerna vicino ad Argo città del Peloponneso era un’Idra più terribile di quel leone. Questo nuovo mostro avea sette teste, e troncatagliene una, altre due ne spuntavano più tremende, a meno che non si mettesse il fuoco sulla piaga ; ma Ercole con un solo colpo di clava le schiacciò tutte, e intrise la punta delle sue frecce nel sangue dell’Idra perchè mortali ne fossero le ferite. Così da ogni impresa uscia vittorioso e più forte e più temibile. Forse gli antichi vollero celebrare in questa fatica il prosciugamento di qualche pestifera palude. Oppure è da credere con alcuni che questa Idra significasse una moltitudine di serpenti velenosi che desolavano quei luoghi, e parevano indestruttibili. Ercole immaginò di dar fuoco alle macchie dove s’annidavano ; l’espediente riuscì ; il paese rimase libero da quei rettili ; e la poesia tramandò ai posteri l’avvenimento abbellito dalle sue finzioni.

372. Uno spietato cinghiale che s’intanava nel monte Erimanto, devastava tutta la campagna circonvicina : Ercole lo agguantò vivo, e lo trasse ad Euristeo, che al primo vederselo in faccia fu per morirne dalla paura.

373. Nel monte Menalo s’annidava una cerva smisurata, co’piedi di metallo e con le corna d’oro, e tanto agile al corso, che niuno aveva mai potuto raggiungerla. Ercole, scansando di ferirla con le sue frecce perchè era consacrata a Diana (137), non la potè prendere che dopo un intero anno di caccia, e l’ebbe in suo potere al varco del fiume Ladone. Allora se la recò in spalla fino a Micene, e l’offerse ad Euristeo.

{p. 211}374. Certi mostruosi uccelli di rapina frequentavano in gran numero il lago Stinfale in Arcadia, e distruggevano i greggi e le mèssi dei vicini paesi. Ercole gli esterminò con le sue frecce ; ed erano tanti e sì grossi che alzati a volo gli facevano ombra con le ali. Altri autori dicono ch’esso li pose in fuga battendo grandi colpi sopra un tamburo di rame da lui stesso inventato.

375. Le Amazzoni (a, senza ; mazòs, mammella, gr.) furon donne guerriere abitatrici della Cappadocia nell’Asia Minore, lungo le coste del Mar Nero e sulle rive del fiume Termodonte in Tracia. Addestravano le loro figlie all’uso delle armi, e non facevano conto alcuno dei figli maschi. Euristeo comandò ad Ercole di soggiogarle e di recargli la cintura d’Ippolita (432), regina delle Amazzoni. L’eroe penetrò nel paese di quelle intrepide guerriere, le combattè, le vinse e ne fece prigioniera la regina. Si legge ancora che vedendo di non poter bastare egli solo a tanta impresa, si unì a Teseo suo prode amico.

376. Due sfacciati tiranni, Diomede e Busiride, s’erano dati a commettere ogni sorta di scelleraggini ; ed Ercole purgò la terra da quei nefandi.

377. Diomede, re di Tracia, figlio di Marte (255) e della ninfa Cirene (474), aveva certi destrieri ardentissimi che vomitavano fuoco dalla bocca ; e correva voce ch’ei li nutrisse di carne umana. Ercole corse ad assalir Diomede, lo vinse, e lo dette a sbranare ai proprj cavalli. Poi condusse quei feroci animali ad Euristeo.

378. Busiride re di Spagna, famigerato per crudelissime azioni, udito menar vanto della saviezza e della beltà delle figlie d’Atlante (362), le fece rapire da’suoi pirati ; ma Ercole inseguì i rapitori, gli uccise, e andò in Spagna a trucidare Busiride.

379. Gerione, figlio di Crisaorso e di Calliroe, regnava nell’isola di Gades in Spagna. I poeti l’hanno descritto gigante con tre teste, tre corpi e sei ali, che faceva {p. 212}custodire i suoi greggi da un cane con due teste, e da un drago con sette. Dicono anche di lui che facesse nutrire i suoi bovi con la carne umana ; e sotto le forme di quest’orribile mostro per lo più vogliono denotare la tirannide sostenuta dall’ipocrisia e dalla frode. Dante nel XVII dell’Inferno ne fa una maravigliosa pittura :

Ecco la fiera con la coda aguzza,
Che passa i monti, e rompe muri ed armi ;
Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza :
Si cominciò lo mio duca75 a parlarmi,
Ed accennolle che venisse a proda,76
Vicino al fin de’passeggiati marmi :77
E quella sozza immagine di froda
Sen venne, ed arrivò la testa e ’l busto :78
Ma in su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era faccia d’uom giusto,
Tanto benigna avea di fuor la pelle,
E d’un serpente tutto l’altro fusto.
Duo branche avea pilose infin l’ascelle :79
Lo dosso e ’l petto ed ambedue le coste
Dipinte avea di nodi e di rotelle.80
Con più color sommesse e soprapposte81
Non fer ma’in drappo Tartari nè Turchi,
Né fur tai tele per Aragne imposte.
Come talvolta stanno a riva i burchi,82
Che parte sono in acqua e parte in terra,
E come là tra li Tedeschi lurchi
Lo bevero s’assetta a far sua guerra ;83
Cosi la fiera pessima si stava
Sull’orlo, che, di pietra, il sabbion serra.
{p. 213}Nel vano tutta sua coda guizzava,
Torcendo in su la venenosa forca
Che a guisa di scorpion la punta armava.

Ercole uccise Gerione e tutti i suoi sgherri, e gli tolse i bovi.

380. Augia, re dell’Elide e figlio del Sole (110), aveva certe stalle che contenevano tremila bovi, e fino da trenta anni non erano state ripulite, sicchè appestavano d’ogn’intorno il paese. Ercole, per rimediare con efficacia a tal guaio, deviò il fiume Alfeo (346), facendo passar le sue acque per mezzo alle stalle ; e così in un giorno rimasero perfettamente pulite. Allora Ercole si recò ad Augia per ricevere il premio della sua fatica ; ma costui avendoglielo villanamente ricusato, l’eroe, preso dallo sdegno, pose a sacco la città d’Eli, ed uccise il principe sconoscente.

381. Nettuno (185), propostosi in una sfuriata di collera di distruggere tutta la Grecia, aveva mandato negli stati di Minosse (228) un furiosissimo toro che gettava fiamme dalle narici ; ma Ercole fece una delle maggiori prove di valore domandolo e liberando la Grecia dall’esterminio.

382. Euristeo impose ad Ercole di andare a prendere i pomi d’oro del giardino di tre sorelle chiamate Esperidi figliuole di Atlante (30) re in Affrica. Gli alberi che portavano questi preziosi frutti erano dati in custodia a un orribile drago con cento teste, e che nel tempo stesso mandava cento diversi sibili. Ercole uccise il drago, e recò ad Euristeo l’ambito tesoro.

383. Teseo (482) ebbe l’ardire di scendere nell’inferno con l’amico Piritoo per involare Proserpina (53), e vi restò prigioniero ; ma Ercole accorse ad incatenare il Cerbero (226), e potè così liberare da tanto rischio il suo emulo.

384. Giunto a buon fine delle dodici fatiche, ma non contento dell’acquistata gloria, Ercole si pose a percorrere la terra con intenzione di liberarla dai mostri e dai {p. 214}tiranni, e di mitigare le miserie dell’umana famiglia. Troppo ci vorrebbe a descrivere tutte le memorabili azioni compite con questo generoso proponimento, perchè ogni paese e quasi ogni città della Grecia andavan lieti d’aver vista qualche maravigliosa prova del suo valore. Ci contenteremo di citare le più note.

385. Caco, figliuolo di Vulcano (270), era uno sfrontato masnadiero che s’appiattava in un antro del monte Aventino, uno dei sette colli ove fu poi fabbricata Roma. Ebbe costui tanta audacia da rubare alcuni dei bovi che Ercole avea tolti a Gerione e condotti in Italia a pascere sulle sponde del Tevere ; e s’argomentò di nascondere le tracce del furto facendoli camminare all’indietro nel tradurli alla sua caverna, Ercole, ignorando l’autore di questa perfidia, si apparecchiava ad abbandonare il paese, quando i suoi tori passando in vicinanza della caverna cominciarono a muggire ; le vitelle risposero a quei muggiti, e scopersero il traditore. Allora l’eroe corse tosto a quell’antro, dove Caco si preparò alla difesa mandando fuori dalla bocca e fumo e fiamme ; ma fu inutile, perchè il figliuolo d’Alcmena strettolo fra le robuste sue braccia lo soffocò. Dante che lo trova all’inferno tra’Centauri nel cerchio dei violenti, narra in altro modo il suo gastigo :

…………Questi è Caco,
Che sotto ’l sasso di monte Aventino
Di sangue fece spesse volte laco.
Non va co’suoi fratei per un cammino,
Per lo furar frodolente ch’ei fece
Del grande armento, ch’egli ebbe a vicino ;
Onde cessâr le sue opere biece 84
Sotto la mazza d’Ercole, che forse
Gliene diè cento, e non senti le diece.

386. Il gigante Anteo, figlio di Nettuno (185) e della Terra (25), molestava tutti i viaggiatori che attraversavano {p. 215}le sabbie della Libia. Ercole, offeso da questo mostro, lo assalì, e lo atterrò tre volte ; ma invano, poichè la Terra sua madre ogni volta ch’ei la toccava gli rendeva nuove forze ; sicchè, per finirla, il prode lo alzò di peso, e lo soffocò tra le sue braccia.

387. 1 Pimmei erano uomiciatti alti poco più d’una spanna, ma pieni appunto di sfacciatissima presunzione, ed abitavano, chi volesse prestar fede alla favola, nell’Etiopia o nella Tracia. Fabbricavano le loro case a forza di gusci d’uovo, viaggiavano su carretti tirati dalle pernici, e mietevano il grano con l’asce come faremmo noi per tagliare un bosco. Quando le grù od altri uccelli movevano guerra a questi nani, essi si armavano di tutto punto, salivano sui caprioli, ed in questo arnese correvano ad affrontare i nemici. Un dì riuniti in gran numero s’argomentarono niente meno che d’assalire Ercole che s’era addormentato sulla spiaggia dopo la sua lunga lotta con Anteo. Si condussero in questa impresa come all’assalto d’una città. Le due ali dell’esercito si precipitarono sulle braccia d’Ercole ; il centro s’avventò alla testa, ed i bersaglieri lanciavano le loro frecce contro il gran petto. Il fortissimo eroe, svegliato dal ronzio di quel nuvolo di nemici, ebbe a scoppiar dalle risa in vederli ; e raccattandone parecchi nella sua pelle di leone, li recò in dono ad Euristeo.

388. La mano d’Alceste figlia di Pelia fu ambita da molti principi ; e suo padre, per liberarsi dall’importunità di tante dimande, giurò che l’avrebbe concessa solamente a colui che avesse saputo aggiogare ad un carro due fiere di diversa specie. Admeto re di Tessaglia si raccomandò ad Apollo che era suo Dio tutelare, e questi gli procacciò un leone e un cinghiale agevoli, i quali poterono facilmente condurre il carro d’Alceste, e così egli ne ottenne la mano. Poco tempo dope Admeto si ammalò, ed era in pericolo di morire, se non che un oracolo annunziò ch’ei ne sarebbe scampato se qualcuno fosse morto in sua vece {p. 216}Alceste allora non esitò a dar la sua vita per quella del marito, e compiè generosamente il sacrificio :

……..Unico esempio
Di coniugalo amor, felici e degni
Sposi, all’età lontane i nomi vostri
E celebrati e riveriti andranno.

Ercole giunse in Tessaglia nello stesso giorno di questo pietoso avvenimento, e Admeto, quantunque fosse afflitto oltremodo, non trascurò veruno dei doveri dell’ospitalità. Laonde l’eroe, per essergli grato, scese tosto all’inferno a combattere contro la morte ; gli riesci di vincerla, di legarla con catene di diamante, e ritoltale la sua preda, rese la diletta sposa ad Admeto. Alfieri ha tessuto una tragedia su questo bellissimo argomento ; e ci piace riferir qui le parole d’Alceste a Fereo vecchio padre d’Admeto, che vorrebbe impedire il sacrifizio della generosa donna :

Già il mio giuro terribile dai cupi
Suoi regni udia Proserpina ; ed accetto
Anco l’ebb’ella indissolubilmente.
Secura in me del morir mio già stommi,
Cui nulla ormai può togliermi. Tu dunque
Ora i miei sensi ascolta : e tu, qual vero
Padre, al proposto mio fermo consuona.
Non leggerezza femminile, o vano
Di gloria amore, a ciò mi han tratto : il vuole
Invincibil ragione. Odimi : Il sangue
Tutto di Admeto, a me non men che caro,
Sacro è pur anco : il genitor, la madre,
E i figli suoi, questo è d’Admeto il sangue :
Or, qual di questi in vece sua disfatto
Esser potea da morte ? Il figlio forse ?
Ei due lustri non compie : ancor che in esso
L’ardir non manchi, l’eta sua capace
Non è per anco di spontaneo, vero
Voler di morte : e se il pur fosse, io madre
D’unico figlio il soffrirei ? Lo stesso
{p. 217}Dico vieppiù della minor donzella.
Riman l’antica e sempre inferma madre,
Specchio d’ogni altra matronal virtude ;
Pronta (son certa), ove il sapesse, a darsi
Vittima a Stige del suo figlio in vece :
Ma tu poi, di’, tu che sol vivi in essa,
Dimmi, in un col suo vivere non fòra
Tronco all’istante il tuo ? Dunque in te solo,
Ecco, che a forza ricadea l’orrendo
Scambio, se primo eri ad udir del Nume
La terribil risposta. Onde mia cura
Fu di carpirla io prima ; io che straniera
In questa reggia venni, e a me pur largo
Concede il Fato, che salvarne io possa
Tutti ad un tempo i preziosi germi.

389. Cosi Ercole viaggiava gastigando i malvagi, soccorrendo gli sventurati, liberando gli uomini dalle calamità da cui erano oppressi. Anche Prometeo (70) andò a lui debitore della libertà, poichè gli spezzò le catene che lo tenevano avvinto sul monte Caucaso.

390. Essendo arrivato Ercole insino a Gades (la moderna Cadice), e credendosi ormai all’estremità della terra, volle pur mettere il Mediterraneo in comunicazione coll’Oceano, e separò due montagne che si toccavano, l’una detta Calpe in Europa, l’altra Abila in Affrica. Così, la favola immagina, restò aperto lo stretto di Gibilterra. Quelle montagne furono dette le Colonne d’Ercole, ed egli vi scolpì l’iscrizione : Nec plus ultra :

Testimoni colà dei flutti estremi
Il divo Alcide prescrivea le mete
Ai faticosi remi ;
Poichè distrusse negli equorei chiostri
Ben mille orridi mostri,
E spontaneo tentò le vie segrete,
D’onde rostrato abete,
Ritorno aver secondo
Potesse alfin dal visitato mondo.
(Pindaro, trad. del Borghi.)

{p. 218}391. Tanta gloria non bastò per render mite ad Ercole l’implacabile Dea ; chè anzi inasprita l’ira da nuova gelosia, Giunone (85) lo dette in preda a un furor cieco e sì tremendo, che l’infelice eroe, senza saperlo, uccise Megara sua moglie e i propri figliuoli ; e quando ritornato in sè conobbe il fallo, si sarebbe data per disperazione la morte, se non glielo avessero impedito gli amici.

392. Giunone (85) sempre più indispettita in veder Ercole trionfare di tutti i nemici, ed uscir vittorioso dai rischi maggiori, commise ad Amore la sua vendetta. Questo Dio svegliò allora in Ercole una passione così sfrenata per Onfale regina di Lidia, che il vincitore di tanti mostri non arrossì di vestir gonna femminile e di farsi veder filare steso a’piedi d’Onfale. Mirabile esempio dell’umana fragilità, e della tirannia delle passioni !

393. Poi Ercole andò perduto d’amore per Dejanira, principessa già fidanzata ad Acheloo figlio del Sole e della Terra. Ercole vinse il rivale in singoiar battaglia, inonorata ma non meno aspra delle altre, poichè Acheloo s’era trasformato ora in serpente, ora in toro, ora in uomo con testa e corna di bove. Ercole gli staccò uno di questi corni che fu raccolto dalle ninfe, empito di fiori e di frutti, e divenne anch’esso il Corno dell’abbondanza.85 Dopo che Ercole ebbe sposato Dejanira volle condurla con, sè, quand’eccolo rattenuto dal fiume Eveno che aveva straordinariamente gonfie le acque.

394. Allora comparve il Centauro Nesso, e gli propose di tragittar Dejanira sopra il suo dorso. Ercole accettò il favore, e fu il primo a traversare il fiume ; ma {p. 219}giunto sull’ altra sponda s’ accorse che il Centauro aveva la cattiva intenzione di rapirgli Dejanira. Lo prevenne, e lo piagò con le sue frecce tinte nel sangue dell’ Idra di Lerna (371).

395. Nesso, prima di morire, volle vendicarsi ; e donò a Dejanira una tonaca bagnata col suo sangue, facendole credere che se Ercole volesse mai indossarla, non avrebbe più amato altra donna che lei.

396. La donna troppo credula accettò il dono, e aspettò l’ occasion di valersene. Infatti, venuta un tempo in sospetto che il marito le preferisse Jole, figlia d’ Euriteo re dell’ Ecalia, gl’ inviò la tonaca di Nesso per un giovane schiavo chiamato Lica.

397. Poichè Ercole appunto allora preparava un sacrifizio sul monte Eta, accolse con giubbilo il dono : ma non sì tosto ebbe indossato la fatai veste, che il violento fuoco del veleno gli serpeggiò per tutte le membra, e lo dette in preda a sì acerbi dolori, che divenutone furioso, afferrò Lica e lo scaraventò nel mare, dove fu cangiato in iscoglio.

398. Sentita l’ eroe già vicina l’ ultim’ ora, donò a Filottete (546) le sue frecce tinte nel sangue dell’ Idra di Lerna (372), senza le quali, per voler del Fato, Troja non avrebbe potuto esser presa ; e tagliando da sè medesimo alcuni alberi sul monte Eta, s’ alzò un rogo sul quale finì la faticosa vita. Ma ingiunse prima a Filottete di non palesare ad alcuno il luogo dove era morto e sepolto, affinchè la paura di vederlo tornare sulla terra tenesse in soggezione i masnadieri e i tiranni. Dejanira fu tanto addolorata della morte d’ Ercole, che si privò della vita.

399. Ercole fu annoverato fra gli Dei, e accolto in cielo, dove sposò Ebe (87) Dea della giovinezza. Le genti di Grecia e d’ Italia, memori delle sue gesta, gli eressero molti templi, uno dei quali, tra’ più celebri in Roma, era detto il Tempio del grand’ Ercole.

{p. 220}400. Questo Eroe spesso è chiamato Alcide, ossia figlio d’ Alceo, che era suo avo materno. Ebbe il nome d’ Ercole dopo avere strangolato i due serpenti mandatigli nella cuna da Giunone ; e questo nome derivante da due vocaboli greci, hèra e cléos, suona appunto la gloria di Giunone, perchè le persecuzioni della Dea non fecero che illustrare maggiormente il nome di questo fanciullo.

401. Rappresentano Ercole quale uomo forte e robusto, con rilevata muscolatura e faccia severa, coperto con la pelle del leone di Nemea (370), ed appoggiato con dignitosa calma sulla sua clava. Talvolta ha una corona di pioppo bianco, che era l’ albero a lui sacro per essersi cinta la {p. 221}testa con le sue fronde scendendo all’ Inferno. Passa molta somiglianza tra l’ Ercole greco e l’ Osiride egiziano (690, 691), ed in ambedue queste divinità era personificato il sole ; le dodici fatiehe d’ Ereole rappresentavano i dodici mesi dell’ anno ; e qualche idea sul moto dei segni celesti (676, 677) rende facile l’ interpretazione dei principali avvenimenti di questi due personaggi mitologici.

Teseo. §

402. Teseo ebbe per padre Egeo re d’ Atene, e per madre Etra, figlia di Pitteo re del Peloponneso, che lo educò nel borgo di Trezene nell’ Argolide. Fu parente e contemporaneo d’ Ercole (364).

403. Ma alcuni poeti gli danno per padre Nettuno (185), fondandosi sulla favola seguente : Teseo volendo mostrare a Minosse (228) re di Creta, com’ egli fosse discendente di Nettuno, gettò in mare il suo anello, poi si tuffò nelle onde, e ne lo ritrasse unitamente ad una corona che Anfitrite (188) gli aveva posto sul capo. Tuttavia questa opinione merita poca fede, essendo smentita dal seguito della storia di Teseo.

404. Egeo, partendo dal Peloponneso per tornare ad Atene, laseiò la moglie negli stati di suo padre ; ed Etra era incinta ; sicehè Egeo celò la sua spada sotto una enorme pietra ; e le raccomandò, qualora partorisse un maschio, di non lo inviare a lui se non quando fosse tanto robusto da sollevare la pietra, e prendere quella spada che doveva servire a farlo riconoscere. Appena giunto a sedici anni, Teseo potè cingere la spada del padre, e saputa la propria origine, andò a rintracciarlo.

405. Ma prima di darsi a conoscere quale erede del trono d’ Atene, risolse di mostrarsene degno ; e poichè la gloria e le virtù d’ Ercole (364) infiammavano il suo coraggio, si propose d’ imitarne le gesta, e percorse l’ Attica {p. 222}purgandola dai masnadieri e dai mostri che infestavano le campagne e le facevano pericolose ai viandanti.

406. Giunto che fu ad Atene, Teseo trovò la città in preda alla confusione. Vi si era rifugiata Medea (454), che pe’ suoi delitti aveva dovuto fuggir da Corinto, e governava a nome d’ Egeo preso da folle passione per la rea maga. Ella temendo che la presenza di uno straniero, celebre per le sue gesta, le avesse a sventare il progetto d’ usurparsi il trono d’ Atene, si studiò di farlo cadere in sospetto al re, e n’ ottenne licenza di farlo avvelenare in mezzo a un banchetto ; ma quando Teseo era per ingoiare il veleno, il padre lo riconobbe alla spada che cingeva al fianco ; e scoperti i perfidi disegni di Medea, la scacciò dai suoi stati.

407. Poichè Teseo fu dichiarato erede del trono, dette maggiori prove del suo coraggio, trucidando un gran numero di scellerati che pei loro delitti meritavano solenne gastigo : son tra costoro Falaride, Stiro, Procuste, Perifeto, Cercione ec.

408. Falaride, tiranno d’ Agrigento, aveva fatto gettare un toro di bronzo per ardervi a fuoco lento i condannati alla morte, e pareva godesse dei lamenti delle sue vittime, che si assomigliavano ai muggiti di un bove.

409. Si narra che Perillo, inventore dell’ orribile supplizio, fosse il primo a sperimentarlo, volendo il tiranno pagargli in questo modo il promesso salario ; indi Falaride stesso fu massacrato da Teseo ; o, secondo altri, cadde per sollevazione in mano del popolo stanco della sua tirannide : e fu il secondo a morire arso nell’ orrendo supplizio del toro di bronzo. Severa lezione ai malvagi, che con le loro iniquità si preparano da sè stessi il gastigo.

410. Sciro, crudelissimo assassino, desolava l’ Attica, spogliando i viandanti. Teseo lo uccise, e bruciò le sue ossa, facendone un sacrifizio a Giove (63).

411. Anche Procuste, il quale commetteva crudeltà {p. 223}orrende nell’ Attica, soggiacque per man di Teseo allo stesso gastigo di Falaride (408) e di Sciro (410).

412. Perifeto, figlio di Vulcano (270), abitava nei contorni d’ Epidauro, dove assaliva i viaggiatori. Teseo, nel recarsi da Trezene a Corinto, lo uccise, e ne prese la clava, che d’ allora in poi recò seco in memoria del fatto.

413. Cercione o Sinnide era un altro flagello dell’ Attica. Dotato di grandissima forza, sfidava tutti alla lotta, ancora che non volessero combattere, e vincendoli gli uccideva ; ma Teseo superò lui, e lo punì dell’ abuso che faceva della sua forza.

414. Teseo, vinti questi tiranni, volse il suo valore contro i mostri, ed ebbe tosto la gloria di liberar la terra da un toro di smisurata grandezza che devastava le campagne di Maratona. Raggiunse ed uccise il cignale di Calidone spintoda Diana (137) contro gli Etolj per punirli d’ aver tenuto in non cale il suo culto. Finalmente fece perire il Minotauro, mostro con effigie umana e corpo di toro.

415. Pasifae, figlia del Sole (110) e moglie di Minosse II re di Creta aveva messo al mondo questo mostro, e il re lo teneva chiuso nel laberinto dell’ isola di Creta. L’ orrenda belva si nutriva di carne umana, e gli Ateniesi, vinti da Minosse, erano obbligati a mandarvi per tributo ogni anno sette giovani tirati a sorte per esser pasto del Minotauro.

416. Forse questo tributo non era altro che di denaro ; ma gli Ateniesi, per far comparire più odioso il nemico al quale dovevano pagarlo, se ne saranno lagnati, quasichè si trattasse di mandargli la loro prole. Indi la storia narra che fu loro imposto da Minosse per vendicare la morte del suo figlio Androgeo ucciso da alcuni giovani ateniesi gelosi di lui perchè era sempre vincitore nei pubblici giuochi. Il tributo era già stato pagato tre volte, allorchè Teseo offerse la propria vita per liberarne la patria, e salpò a Creta a combattere il Minotauro.

{p. 224}417. Non gli avrebbe arriso fortuna nella sua impresa senza l’ ajuto d’ Arianna, figliuola di Minosse, che s’ era impietosita all’ aspetto di quelle vittime, e che dette all’ eroe un gomitolo di filo, mercè del quale potè ritrovare la via, ed uscire dal Laberinto dopo aver ucciso la belva.

418. Teseo, che aveva condotto seco la sua liberatrice fuggendo da Creta, l’ abbandonò poi con atroce ingratitudine nell’ isola di Nasso ; ma Bacco (146), venuto poco dopo in quell’ isola, volle consolarla della perfidia di Teseo, e sposandola, le donò una bella corona d’ oro, capo d’ opera di Vulcano (270), e che fu poi collocata fra gli astri.

419. Il Laberinto era un vasto recinto, pieno di stanze e di corridori méssi in comunicazione fra loro per mezzo d’ innumerabili andirivieni, sicchè diveniva impossibile trovarne l’ uscita a chi vi fosse stato rinchiuso.

420. I Laberinli più celebri furon due : il primo in Egitto, fabbricato da dodici re, secondo Erodoto 86 in vicinanza del lago Meride non lungi da Arsinoe, e fu annoverato fra le maraviglie del mondo. Conteneva tremila stanze in dodici grandi palazzi. Si crede che i sotterranei che li ponevano in comunicazione tra loro servissero di sepoltura ai re dell’ Egitto e di tempio ai coccodrilli sacri. Ancora rimangono alcune vestigia di quest’ immenso edifizio. L’ altro laberinto è quel medesimo dell’ isola di Creta vicino alla città di Gnosso, fatto sul modello dell’ egiziano, e destinato a dimora del Minotauro.

421. Dedalo, uno de’ più abili artefici della Grecia eroica, fu quello che immaginò e costrusse il laberinto dell’ isola di Creta ; ed egli stesso ebbe poi ad esser la prima vittima della sua invenzione, poichè caduto in sospetto di infedeltà, Minosse ve lo fece rinchiudere col figlio Icaro e col Minotauro.

422. Tuttavia l’ industre Dedalo, risoluto di uscire dalla prigione, congegnò due paja d’ ali posticce, e le {p. 225}attaccò a forza di cera alle sue spalle ed a quelle d’ Icaro. In questo modo potè sollevarsi nell’ aria e recuperare la libertà ; ma il figliuolo, imbaldanzito di così bella invenzione, e non obbedendo alle savie ammonizioni del padre, volle volare troppo alto vicino al sole ; sicchè la cera delle sue ali si strusse, e il giovine temerario, precipitato nelle onde, vi s’ annegò, e dette il suo nome a quel mare : 87

…. Quando Icaro misero le reni
Senti spennar per la scaldata cera,
Gridando il padre a lui : mala via tieni.
(Dante, Inf., c. XVII.)

423. Lo sventurato Dedalo scese in Sicilia, e secondo alcuni in Egitto ; ma il re Cocalo che sulle prime gli dette asilo, indotto poi dalle minacce di Minosse, lo fece perire soffocato in una stufa.

424. Dedalo ebbe anche fama di esimio scultore ; ed a lui stesso furono attribuite molte invenzioni, e specialmente quella delle vele. Credesi anzi che le sue ali sieno un’ allegoria per indicare le vele di una nave, quantunque non manchi fondamento a supporre che l’ ingegno umano anche in quei tempi avesse fatto invenzioni, delle quali solamente oggi si onora. Non è raro incontrar le tracce di una civiltà molto inoltrata negli antichissimi tempi, e distrutta poi dai grandi sconvolgimenti fisici della terra, o da quelli dell’ ordine sociale. Dedalo ebbe un nipote, {p. 226}chiamato Acalo, ateniese, quanto lui rinomato per abilità nelle arti meccaniche. È creduto inventore della sega, della lima e del compasso. Per queste scoperte ottenne tanta riputazione, che lo zio, divenutone geloso, lo precipitò dalla sommità della cittadella di Minerva ; ma questa Dea protettrice delle arti lo rattenne per aria, e lo trasformò in pernice. Per togliere a Dedalo l’ odiosità di quest’ azione indegnissima, possiamo supporre che anche Acalo, volendo emulare lo zio in qualche ardito sperimento meccanico, ne rimanesse vittima, siccome tanti a’ di nostri sono periti per l’ aereonautica.

425. Quando Teseo mosse a combattere il Minotauro, viaggiava sulla medesima nave che soleva condurre le sette vittime chieste in espiazione da Minosse ; e quella nave era armata di nere vele ad esprimere il lutto degli Ateniesi. Egeo aveva raccomandato al figliuolo, se mai ritornasse vittorioso, di metterle bianche ; ma questi invaso dalla gioia della vittoria scordò l’ ingiunzione paterna.

426. Quel povero padre, veggendo la nave tornar da lontano col funebre arredo, credè morto il figliuolo, e preso dalla disperazione, si gettò in mare. Gli Ateniesi dettero il suo nome a quel mare (il mare Egeo) che oggi è detto Arcipelago.

427. Teseo compì il voto fatto ad Apollo (96) di mandare ogni anno a Delo ad offrir sacrifizj in ringraziamento del buon esito della sua impresa. Così tutti gli anni vi andavano i messaggieri coronati con fronde d’ olivo, e adoperavano a ciò la medesima nave che fu condotta da Teseo, e che tenevano custodita con gran cura, perchè fosse sempre pronta a dar le vele a’ venti ; quindi i poeti l’ hanno detta immortale.

428. Dopo che Teseo ebbe dato savie leggi agli Ateniesi, abbandonato il potere sovrano, con nobilissimo e raro esempio restituì la libertà al popolo, e riprese la primiera sua vita cercando nuove occasioni di render utile il suo valore.

{p. 227}429. Piritoo, figlio d’ Issione e della Nuvola e re dei Lapiti, sposando Ippodamia (511) invitò alle nozze i Centauri, i quali avvinazzati si abbandonarono a colpevoli insolenze ; ma Ercole (368) e Teseo non lasciarono impunita la loro audacia, e ne uccisero molti.

430. Questi Centauri furono, come a dire, maestri d’ equitazione, e sapevano tanto bene l’ arte d’ andare a cavallo, che uomo e bestia parevan tutt’ uno. Perciò i poeti li finsero mostri con volto e torace d’ uomo e corpo di cavallo. Il più celebre di tutti è Chirone, dotto non meno in medicina che in astronomia, e precettore d’ Achille (536) e d’ alcuni altri fra i principali eroi della favola.

Il tessalo maestro
Che di Tetide il figlio
Guidò sul commin destro….
Già con medica mano
Quel Centauro ingegnoso
Rendea feroce e sano
Il suo alunno famoso ;
Ma, non men che alla salma,
Porgea vigore all’ alma.
(parini. L’ Educazione.)

Il suo nome, derivante dal greco chéir, che vuol dir mano, dà evidentemente a conoscere essere egli il simbolo della destrezza in tutte le cose ; la mano di Chirone è la mano per eccellenza. La destrezza nella chirurgia, nel suono, nella ginnastica, nella guerra erano infatti i principali oggetti dell’ educazione degli eroi.

431. Piritoo, infiammato al racconto delle grandi gesta di Teseo, ardeva di misurarsi con lui, e lo sfidò al paragone. Teseo accettò l’ invito ; ma quando i due eroi furono in procinto di venire alle mani, vinti da segreta scambievole ammirazione, si abbracciarono giurandosi eterna amicizia.

432. Teseo, insieme con l’ emulo e amico Piritoo, volle andare sulle sponde del Termodonte incontro alle {p. 228}Amazzoili (373), per aver come Ercole la gloria di vincerle. Infatti la difficile impresa gli riuscì, e poi ne sposò la regina Antiope o Ippolita (375) fatta sua prigioniera. Da essa ebbe lo sventurato Ippolito (435).

433. I due amici, debellate le Amazzoni, si accinsero ad involare la bella Elena, sacerdotessa di Diana (137), la cui bellezza fu poi causa di rovina alla città di Troja. Dopo che ebbero compito questo ratto, pattuirono che la sorte decidesse fra loro chi dovesse essere il possessore della rapita, a condizione che il preferito procacciasse un’ altra moglie al compagno. Elena toccò a Teseo, il quale si propose di scendere con Piritoo all’ inferno per involar Proserpina moglie di Plutone. Peccato che questi eroi, dopo esser giunti all’ apice della gloria con utili imprese, macchiassero il resto della loro vita con azioni vituperose, e talora con quelle stesse violenze che avevan punite negli altri ! Ma vedremo come le perfidie conducano gli uomini a tristo fine.

434. Scesi adunque insieme all’ inferno, il can Cerbero (226) s’ avventò a Piritoo e l’ uccise, mentre l’ amico, avuto appena il tempo di difender sè stesso, restò prigione e fu tenuto in catene, finchè non scese Ercole (383) a liberarlo. Nel tempo di questa prigionia Elena fu rimessa in libertà dai fratelli, e ricondotta a Sparta sua patria, ove diventò sposa di Menelao (528).

435. Teseo scampato dall’ inferno, sposò Fedra, figliuola di Pasifae (415) e di Minosse (228) e sorella d’ Arianna (417), intanto che faceva educare a Trezene il figliuolo avuto dalla regina delle Amazzoni. Una volta condusse in questa città la nuova sposa, e non sì tosto Fedra ebbe visto il giovine Ippolito, che si sentì pungere da acuto rammarico per non aver dato ella stessa a Teseo un figliuolo ornato di tanti pregi.

436. Ippolito, di null’ altro premuroso che dello studio della sapienza e delle ingenue ricreazioni della caccia, {p. 229}era incorso nello sdegno di Venere per averne spregiato il culto. La Dea giurò di punirlo, e si valse dell’ invidia di Fedra, istigandola ad accusarlo di tradimento a Teseo.

437. Il padre, ingannato dalla malvagia donna, bandì il figliuolo, e lo abbandonò alla vendetta di Nettuno (185) che gli aveva promesso d’ esaudire tre dei suoi voti. Ippolito, salito sopra il suo carro, abbandonava mestamenteTrezene, quand’ ecco apparir sulla riva un mostro marino che lanciava fiamme dall’ orrenda gola, e ruggiva come leone. I cavalli spaventati si danno a fuga precipitosa, trascinano il carro fra gli scogli, e il giovine sventurato cadendo è fatto in brani.

438. Ovidio narra che Esculapio (289) rese la vita ad Ippolito, e che Diana (137) lo coperse d’ una nube per farlo evadere dall’ inferno. Fedra poi lacerata dai rimorsi, fu astretta a confessare la sua calunnia, e si diede da sè stessa la morte.

439. Alla fine gli Ateniesi, sui quali Teseo era tornato a regnare, testimoni delle iniquità della sua corte, gli si ribellarono ; ed egli, sdegnato di tale ingratitudine eccitata per altro dalle sue imprudenze, scagliò maledizioni contro Atene, e si ritirò nell’ isola di Sciro, proponendosi di finirvi in pace i suoi giorni nelle dolcezze della vita privata. Ma Licomede, re di quell’ isola, mosso da gelosia per la fama dell’ eroe, o istigatovi da’ suoi nemici, lo fece assalire a tradimento e dirupare dalla cima d’ un alto masso.

440. Gli Ateniesi, molti secoli dopo, resero grandi onori alle ceneri di Teseo. È fama che questo eroe apparisse in armi alla battaglia di Maratona. Allora ne cercarono con gran premura le spoglie, e nel luogo dove la tradizione indicava che fossero state riposte, rinvennero gigantesche ossa, e lì presso una lancia e una spada. Cimone fece trasportare le venerate ossa ad Atene, ove furono ricevute con solenne festa ; e un bellissimo tempio, di cui tuttora vedonsi le vestigia, ne consacra la memoria.

{p. 230}
Castore e Polluce. §

441. Questi due eroi furono figli d’ una bellissima donna dell’ Etolia, chiamata Leda (74), la quale ebbe due mariti : Giove che fu padre di Polluce e d’ Elena (433), e Tindaro re di Sparta dal quale ebbe Castore e Clitennestra (532). I figliuoli di Tindaro erano mortali, e quelli di Giove parteciparono dell’ immortalità del padre. Nonostante i poeti sogliono chiamare Tindaridi ambedue i maschi. Ebbero anche il nome di Dioscuri, da diòs, di Giove, e kouros, giovine, parole greche.

442. Polluce acquistò molta fama combattendo col cesto, nella qual lotta vinse il vigoroso Amico re di Bebricia o della Bitinia ; Castore addivenne celebre domatore di cavalli ; laonde ambedue passarono per protettori degli Atleti, ed erano invocati nei giuochi olimpici (671).

443. Ebbero poi a comune la gloria di liberar l’ Arcipelago dai pirati che lo infestavano ; e per questo beneficio meritarono d’ essere annoverati fra gli Dei marini. Così avevano sacrifizj di candidi agnelli, mentre le pecore nere erano immolate alle tempeste.

444. Questi due fratelli seguirono Giasone (448) nella Colchide, ed ebbero molta parte nella conquista del Vello d’ oro (449). Nel tempo di una furiosa procella gli Argonauti videro comparire una fiammella sulla lor testa, e subitamente il cielo si rischiarò e l’ uragano fu dissipato. D’ allora in poi fu dato il nome di Castore e Polluce a quelle fiammelle che appariscono sulla cima delle antenne quando il mare è in tempesta. Tornati in patria, i Dioscuri liberarono la sorella Elena (433) che era stata rapita da Teseo (405), e condussero schiava Etra madre di quell’ eroe.

445. Castore e Polluce volevano sposare due sorelle di rara bellezza già fidanzate a Linceo e Ida. Sostennero {p. 231}contr’ essi un ostinato combattimento, nel quale Castore restò ucciso da Linceo che pur cadde sotto i colpi di Polluce, nel tempo che Ida restò fulminato da Giove (63).

446. Polluce, pieno d’ afflizione per la morte del fratello, scongiurò Giove affinchè lo facesse immortale come lui ; ma questo voto non poteva essere pienamente esaudito ; laonde Polluce ottenne soltanto di poter metter Castore a parte della propria immortalità : e così questi due fratelli, che furono sempre uniti da tenerissimo affetto, vivevano e morivano a vicenda. Quindi i loro nomi sono diventati simbolo dell’ amor fraterno.

{p. 232}447. Essi poi formarono in cielo il segno dei Gemini o Gemelli ; e siccome crederono gli antichi, ma falsamente, che una delle due stelle di questa costellazione tramonti quando l’ altra si leva sull’ orizzonte, così la favola era un’ allegoria della legge che secondo essi governava i moti di quei corpi celesti. Per lo più i Dioscuri sono rappresentati in due giovani di rara bellezza, coperti d’ armi da capo a piedi e con due cavalli bianchi ; il loro elmo ha la forma di un mezzo guscio d’ uovo, e brandiscon la lancia. Talora si abbracciano, ed una lucida stella splende sul loro capo.

Giasone, Medea, Gli Argonauti. §

448. Giasone ebbe per padre Esone re d’ lolco in Tessaglia, al quale era stato tolto il trono da Pelia fratello ; ma quando Giasone ebbe vent’ anni, chiese il retaggio paterno. Pelia che non deponeva di buon grado il potere, gli propose d’ intraprendere la conquista del Vello d’ oro, gloriosissima impresa e piena di rischi, promettendo di rendergli i suoi stati qualora tornasse vittorioso dalla Colchide (oggidì Georgia russa o Mingrelia in capo al Mar Nero) dov’ era questo tesoro.

449. Il Vello d’ oro fu la pelle di un ariete regalato dagli Dei ad Atamante re di Tebe. Frisso, figliuolo di questo principe, per fuggire con Elle sua sorella i mali trattamenti della matrigna Ino, si valse dell’ aiuto di questo maraviglioso ariete, e potè con esso attraversare lo stretto che separa l’ Europa dall’ Asia. Ma Elle, impaurita dallo strepito delle onde, vacillò e cadde in mare, e diede il suo nome all’ Ellesponto, ora stretto dei Dardanelli. Intanto Ino pagava il fio delle sue persecuzioni contro i figliastri ; poichè Atamante, reso furioso da Tisifone per opera di Giunone, incontrando la moglie con due figliuoletti, uno per braccio, la credè una leonessa con due leoncini. Allora si {p. 233}spinse forsennato contro di lei, le svelse dalle braccia il fanciullo Learco, e lo uccise. La madre disperata s’ annegò con l’ altro per nome Melicerta. Maestrevolmente dipinge Dante quest’ orribile caso, nel XXX dell’ Inferno :

Nel tempo che Giunone era crucciata
Per Semelè contra ’ l sangue tebano,
Come mostrò già una ed altra fiata,
Atamante divenne tanto insano,
Che veggendo la moglie co’ duo figli
Andar carcata da ciascuna mano,
Gridò : Tendiam le reti, si ch’ io pigli
La lionessa e i lioncini al varco :
E poi distese i dispietati artigli,
Prendendo l’ un che avea nome Learco ;
E rotollo, e percosselo ad un sasso ;
E quella s’ annegò con l’ altro incarco.

450. Frisso arrivò senza rischio, ma spossato, presso ad un capo vicino a Colco, e vi si addormentò. Già gli abitanti erano per ucciderlo, quando l’ ariete che aveva il dono della parola, lo svegliò, e gli fece noto il pericolo imminente. Allora Frisso andò subito ad Aeta re della Colchide, vi consacrò al dio Marte il Vello d’ oro, e lo appese ad un albero, in mezzo ad un bosco dedicato a quel Nume. Quindi Aeta gli donò in moglie la figliuola, ma poi invidiando le ricchezze del genero, entrò per violenza al possesso del Vello d’ oro.88

451. Giasone, essendo nell’ età nella quale più ferve l’ amor di gloria, colse avidamente l’ occasione d’ acquistarne ; e la spedizione del Vello d’ oro, divulgata per tutta Grecia, gli procacciò per seguaci i più scelti guerrieri che ambivano divider con lui l’ onore di tanta impresa.

452. Tutti questi prodi salirono sopra un naviglio a cinquanta remi, del quale Minerva stessa aveva dato il disegno. Il legname, col quale fu costruito, era stato preso sul {p. 234}monte Pelio e nella foresta di Dodona (82), e perciò fu detto che quella nave dava i responsi dell’ oracolo ; ed ebbe il nome d’ Argo, o per essere stata costruita ad Argo, o perchè Argo (89) ne fu l’ architetto ; quindi Argonauti furon detti coloro che vi salirono sopra. Giasone fu eletto capitano, e lo accompagnarono Admeto, Teseo, Castore e Polluce, Ercole che non potè continuare il viaggio perchè il suo peso faceva pericolare il vascello, Peleo padre d’ Achille, Piritoo, Augia, Meleagro, Esculapio ec. Ognuno dei principali tra questi prodi aveva il suo ufficio. Tifi stava al timone ; Linceo, di vista acuta scopriva gli scogli, ed Orfeo alleggeriva le noie della navigazione con gli accordi della sua lira e col canto. Si dice che gli Argonauti recassero sulle loro spalle la nave dal Danubio fino al mare, e che fosse il primo vascello comparso sulle onde. Giasone, dopo l’ impresa della Colchide, lo consacrò a Nettuno nel golfo di Corinto. Tutti questi avventurieri s’ imbarcarono al capo di Magnesia in Macedonia, entrarono nel Ponto Eussino, pervennero ad Ea capitale della Colchide, e compita la conquista ripartirono per la Grecia, e sbarcarono all’ isola d’ Egina, onde giunsero in Tessaglia viaggiando in mezzo a molti rischi. I più dicono che questa spedizione ebbe luogo 60 anni prima della guerra di Troja.

453. I pericoli poi dell’ impresa del Vello d’ oro erano molti e gravi : Giasone doveva anzi tratto domar due tori, dono di Vulcano (270), i quali avevano piedi e corna di bronzo, e vomitavano fiamme ; indi gli conveniva aggiogarli ad un aratro di diamante, e guidarli ad arare quattro jugeri di terreno, per seminarvi i denti del drago già ucciso da Cadmo. Da quei denti sarebber nati tanti guerrieri armati di tutto punto, che bisognava esterminare fino all’ ultimo : e finalmente v’ era da uccidere un mostro enorme posto a custodia del Vello d’ oro ; e tutto questo doveva esser compito in un giorno.

{p. 235}454. Giasone venne felicemente a capo di tutto, ma con l’ ajuto di Medea, figliuola del re Aeta (450), la quale per voler di Giunone e di Minerva protettrici dell’ eroe, al primo vederlo si sentì tratta ad amarlo. Ei le corrispose, e promisele di sposarla. Medea, che era esperta nella magia, addormentò co’ suoi incantesimi il drago, e spianò a Giasone la via a superar gli altri ostacoli.

455. Dopo aver predato il tesoro, Giasone fuggì da Colco insieme con Medea, alla quale non rimaneva altro scampo che la fuga per sottrarsi allo sdegno del padre ; {p. 236}ma il re inseguiva minaccioso i fuggitivi ; ed essi accecati dalla paura non risparmiarono iniqui mezzi per rattenere i passi del furibondo. Sfuggiti alle sue ricerche, e pervenuti alla dimora d’ Alcinoo re dei Feaci, vi celebrarono il matrimonio, e gli Argonauti si dispersero, mentre gli sposi tornavano vittoriosi ad Iolco.89

456. Ma Pelia, (448) ad onta della sua promessa, negò di rendere a Giasone (448) il trono paterno, e Medea già usa alle colpe si prese l’ incarico di punirlo. Costei, che si vantava d’ aver trovato con le sue arti il segreto di rendere la gioventù al padre di Giasone, ingannò le figlie di Pelia con la fama di tanto prodigio, e le indusse a farne esperimento sul padre loro ; ma gl’ incantesimi non ebbero alcun effetto. E in sostanza nè gli artifizj nè l’ audacia di quella colpevole avventuriera bastarono per rivendicare a Giasone i suoi stati, perchè i figliuoli di Pelia li ritennero con la forza.

457. Dopo aver vissuto dieci anni con Medea, scordò Giasone ciò ch’ ella aveva fatto per lui, e la ripudiò per isposare Glauca figlia del re di Corinto. La lega tra i malvagi non produce mai buoni frutti ; ed i beneficj fatti mercè le colpe rendono sconoscente il beneficato.

458. Cotanta infedeltà spinse al furore la malvagia donna, la quale, dissimulando lo sdegno, perseguitò la rivale, e fu causa della sua morte. Giasone voleva punirla ; ma ella, prevenendolo con nuovi delitti, salì alla fine sopra un carro tratto da due draghi alati, e disparve.

459. Aggiungono che Medea tentasse dipoi d’ involgere nelle sue frodi anche Teseo (406) erede del trono d’ Atene ; ma scoperta da Egeo la sua malvagità, e costretta nuovamente a fuggire, andò ramingando per l’ Asia {p. 237}Minore, dove unitasi a un re oscuro, n’ ebbe un figliuolo chiamato Mida, o Medo, che passa pel primo re dei Medi. Alcuni autori non dipingono Medea tanto iniqua, e l’ accusano solamente del delitto d’ avere abbandonato il padre fuggendo con Giasone. Le altre scelleraggini, tra le quali la uccisione dei proprj figliuoletti, furono forse inventate dai Corintii per denigrarne la fama.

460. Dopo la fuga di Medea, Giasone visse miseramente ramingo e turbato dai rimorsi della sua imprudente condotta. Medea, che era dotata della cognizion del futuro, gli aveva predetto la morte per causa della nave degli Argonauti ; e infatti mentre egli passeggiava un giorno sulla sponda del mare dietro quella nave tirata a secco, gli rovinò addosso una trave, e n’ ebbe fracassata la testa.

Bellerofonte. §

461. Bellerofonte era figlio di Glauco re di Corinto, e d’ Epimede, figlia di Sisifo. Quest’ eroe ebbe anche il soprannome d’ Ipponoo, per indicare ch’ egli era stato il primo ad insegnare agli uomini l’ arte di guidar con la briglia un cavallo ; ma poi accadutogli per disgrazia di uccidere, cacciando, il fratello Bellero, fu chiamato Bellerofonte.

462. Per quel delitto, benchè involontario, dovè rifugiarsi nella reggia di Preto (363) re d’ Argo ; ma Stenobea, moglie di questo principe, lo vide di mal’ occhio, e lo accusò al marito di una pretesa cospirazione ordita contro di lui.

463. Preto, non volendo violare i diritti dell’ ospitalità, lo mandò in Licia con lettere per Jobate re di quel paese e padre di Stenobea, facendogli nota la supposta colpa, e istigandolo a pigliarne vendetta. Bellerofonte, ingannato da {p. 238}Preto, s’ immaginava di recar lettere di cortese raccomandazione.

464. Jobate, com’ era uso in quel tempo, lo accolse benignamente, e gli fece passare in festa i primi nove giorni della sua dimora appo lui. Ma poi, aperte le lettere del genero, mutò contegno ; e non volendo neanch’ esso offendere le leggi dell’ ospitalità col punire Bellerofonte nella sua corte, pensò di esporlo a qualche gran rischio.

465. Allora Jobate eccitò il giovine valoroso alle più difficili imprese ; ma egli trionfò di tutti i pericoli, e con un pugno di soldati debellò i Solimi, le Amazzoni ed i Licii. Alla fine il re lo mise all’ impegno di combattere la Chimera, sperando che in tale impresa sarebbe certamente perito.

466. Questo mostro nato in Licia avea la testa di leone, la coda di drago e il corpo di capra, e dall’ enorme gola mandava fuoco e fiamme. I poeti lo dicono nato dal gigante Tifone (69) e da Echidna mostro mezzo donna e mezzo serpente. 90

467. L’ eroe protetto da Minerva (262) che gl’ inviò il Pegaseo, salì sull’ invitto destriero, e spense la Chimera a colpi di frecce. Allora Jobate, conosciuta l’ innocenza d Bellerofonte per la protezion degli Dei, gli dette in moglie la sua figliuola Filonoe, e lo dichiarò suo successore. Stenobea tormentata dai rimorsi prese il veleno, e Bellerofonte inorgoglito delle sue gesta volle salire in cielo col Pegaseo ; ma Giove fece pungere da un insetto il piede del destriero, che lo precipitò sulla terra, e così l’ eroe fu punito del suo orgoglio. Tuttavia, secondo alcuni, risplende col poetico Pegaseo nel numero degli astri.

468. Quest’ avventura ha fatto passare in proverbio {p. 239}le Lettere di Bellerofonte, che sono quelle contenenti sensi contrarj all’espettativa di chi le porta. Omero fa narrare queste avventure con bella semplicità da un discendente dell’eroe :

…….. Dagli Dei scortato
Parti Bellorofonte, al Xanto giunse,
Al re de’ Licj appresentossi, e lieta
N’ebbe accoglienza, ed ospitai banchetto.
Nove giorni fumò su l’are amiche
Di nove tauri il sangue. E quando apparve
Della decima aurora il roseo lume,
Interrogollo il sire, e a lui la lettra
Del genero chiedea. Viste le crude
Note di Preto, comandògli in prima
Di dar morte all’indomita Chimèra.
Era il mostro d’origine divina,
Lion la testa, il petto capra e drago
La coda, e dalla bocca orrende vampe
Vomitava di fuoco. E nondimeno
Col favor degli Dei l’eroe la spense…
Orfeo. §

469. Questo celebre musico e poeta ebbe per genitori Apollo (96) e Clio (275) ; e tanta era la dolcezza dell’armonia della sua lira e della sua voce, che a sentirlo suonare o cantare, le belve più indomite diventavano mansuete, i fiumi arrestavano il corso, e gli alberi e i massi si movevano quasi che avessero sensi di vita. Solita allegoria per indicare i popoli dallo stato selvaggio ridotti a vita più civile con le persuasioni dell’eloquenza.

470. Orfeo sposò la ninfa Euridice, ma ebbe la sventura di vederla morire (474) il giorno stesso delle sue nozze, sicchè mortalmente afflitto di questa perdita scese all’inferno (215), e la richiese a Plutone (213). La melodia della sua lira, inspirata da tanto dolore, commosse le divinità infernali ; e lo stesso Nume del Tartaro impietosito gli {p. 240}concesse Euridice, ma a patto ch’ei la precedesse nell’uscire dai regni buj, e non si voltasse a guardarla se non dopo aver varcato la soglia infernale. Quando Orfeo si vide ormai presso all’aperta luce, non potè più resistere alla brama di rivedere la diletta Euridice ; si volse un poco, e quella tenera sposa gli fu ritolta per sempre.

471. Allora, preso da disperazione, andò a nascondere il suo dolore sul monte Rodope. Le Baccanti (153) tentarono di richiamarlo alle dolcezze della vita ; ma egli, spregiandole, ne eccitò lo sdegno ; sicchè, mentre un giorno celebravano le feste di Bacco (153), divenute furibonde, assalirono lo sventurato Orfeo, e lo gettaron nell’ Ebro, dove travolto nelle onde faceva pur sentire i dogliosi concenti ripetuti dall’eco :

………..Mentre volgea
Sanguinosa la testa il tracio fiume ;
E, misera Euridice, ancor dicea
L’anima fuggitiva, ed Euridice,
Euridice la ripa rispondea.
(Monti, Mascheroniana.)

472. Fu eretto un tempio ad Orfeo nel luogo dove rinvennero la sua spoglia ; ma ne era vietato l’accesso alle donne. Quindi suo padre lo cangiò in cigno ; e la celebre sua lira fu collocata fra gli astri con una corona di nove bellissime stelle somministrate dalle nove Muse (285) :

Conversa in astro quella cetra elice
Si dolci suoni ancor, che la dannata
Gente gli udendo si faria felice.
(Monti, Mascheroniana.)

473. Gli antichi monumenti rappresentano Orfeo incoronato di lauro, con la lira o il liuto in mano, e varj animali feroci all’intorno, mansuefatti dagli armoniosi concenti. Riporterò qui il gentile sonetto del Parini, intitolato

{p. 241}Il Lamento di Orfeo.

Qual fra quest’erme, inculte, orride rupi,
Che han di nevi e di ghiaccio eterno manto,
Echeggiando per entro agli antri cupi,
S’ode accostar melodioso pianto ?
Ah ! ti conosco al volto, al plettro, al canto,
Giovin di Tracia, che il bel core occupi
Sol di tua doglia, e d’ammansare hai vanto
Gli uomini atroci e gli stess’orsi e i lupi.
Deh ! un momento ti arresta, e il caro oggetto
Come perdesti e gl’infortunii tui
Canta, e ne inonda di pietade il petto.
Qui Baccanti non son, ma ninfe a cui
L’alma é gentile : e più d’ogni altro affetto
È dolce il palpitare ai casi altrui.
Aristeo. §

474. Aristeo era figlio d’Apollo (96) e della ninfa Cirene. Fu educato dalle Ninfe che gl’insegnarono la coltivazion dell’ulivo e l’arte di fare il cacio ed il miele. Questo pastore industrioso amava Euridice (470) ; ma ella, fedele ad Orfeo (466), non lo curò ; ed il giorno stesso delle sue nozze, volendo fuggirne la presenza, fu punta da un serpe, e morì nell’atto.

475. Gli Dei per vendicar questa morte fecero perire tutte le api d’Aristeo, ed egli ne fu sconsolato, e ricorse a sua madre. Cirene, impietosita dal suo dolore, gli consigliò d’andare a consultar Proteo (195).

476. Il Nume, secondo il suo solito, si trasformò prima in serpente, poi in tigre, in leone, e quindi in fiume ; ma Aristeo, riuscitogli finalmente d’incatenarlo, potè costringerlo a ripigliare la prima forma. Allora Proteo gli svelò la causa della sua disgrazia, e gli ordinò di far sacrifizj espiatorj ai Mani (243) d’Euridice.

{p. 242}477. Aristeo, seguendo questo consiglio, immolò subito quattro tori e altrettante giovenche, e fu preso da inesprimibile gioia al vedere uscir fuori da quelle vittime una moltitudine d’api, anche maggiore di quelle che aveva perdute. Quindi sposò Autonoe figlia di Cadmo, dalla quale ebbe Atteone (138). Dopo la sventurata morte di questo figlio si ricovrò nell’isola di Coo, quindi in Sardegna e poi in Sicilia ; dove propagò le sue cognizioni d’agraria e di pastorizia. Alla fine si stabilì nella Tracia, ove Bacco lo iniziò nei misteri delle Orgie. Dopo la sua morte parecchie città della Grecia l’onoraron di culto e di tempio ; e soprattutto i pastori siciliani lo tennero per loro Dio. In Sicilia acquistò celebrità lo squisito miele del monte Ibla.

Arione. §

478. Arione, poeta e cantore, nacque nell’isola di Lesbo91 nel mare Egeo al sud della Troade. Fu emulo d’Orfeo (469), e visse lungo tempo alla corte di Periandro, re di Corinto, ove il suo ingegno era largamente ricompensato. Un giorno, mentr’ei ritornava da Taranto a Corinto, i marinari s’argomentarono di ucciderlo per carpire le sue ricchezze.

479. Arione chiese almeno la grazia di poter suonare un’altra volta la lira, ed empì 1’aere della più commovente armonia ; ma veggendo con tutto ciò di non intenerire quei barbari, si lanciò in mare con una ghirlanda in capo e con la lira in mano.

480. Quand’ecco un delfino, che insieme con altri, tratto dal dolce suono teneva dietro alla nave, guizza a {p. 243}raccorlo sul suo dosso, e lo reca fino al capo Tenaro in Laconia, di dove Arione passò a Corinto anche prima che vi giungessero i suoi nocchieri. Periandro, saputa la loro perfidia, se li fa tradurre davanti, e chiede notizie d’Arione che era già nascosto nel suo palazzo. Essi sfrontatamente risposero ch’egli era in Italia a godere i favori della fortuna e gli omaggi dovuti al suo merito. A queste parole Arione comparisce al loro cospetto. Gl’impostori stupefatti e svergognati confessano il loro delitto, e sono condannati a ignominiosa morte nel luogo stesso ove il delfino aveva recato in salvo Arione. Quel delfino per ricompensa fu collocato da Giove fra gli astri, in una costellazione vicina a quella del Capricorno (676). È già comune opinione che il delfino sia amico dell’uomo, e sensibile alle dolcezze dell’armonia. Gli antichi lo avevano in tanta venerazione, che, se per avventura ne incappava taluno nelle loro reti, subito lo rimettevano in mare per non violare i diritti dell’amicizia. Quindi i delfini riconoscenti soccorrevano gli uomini nelle tempeste e riconducevano a riva i cadaveri. Si narra infatti che recarono sulla spiaggia il corpo d’ Esiodo ucciso nel tempio di Nettuno, e gettato in mare ; salvarono dal naufragio Falanto generale spartano, e Telemaco figlio d’Ulisse (568) che da giovinetto cadde nelle onde baloccandosi sulla riva. Ulisse, per eternarne la memoria, fece scolpire un delfino sul suo scudo.

Anfione. §

481. Anfione discendeva da Giove (63), ed era figlio d’Antiope, moglie di Lico re di Tebe, e sposò Niobe (629). Egli fu tanto abile nella musica, da far dire ai poeti che le mura di Tebe furono alzate mediante i suoni della sua lira, poichè le pietre sensibili alla dolcezza di {p. 244}quell’ armonia andavano da sè stesse a collocarsi l’una sull’altra. Ingegnoso emblema del potere della poesia e della musica, ossivvero della persuasione, dell’esempio e dell’eloquenza, usata dai primi incivilitori del genere umano sopra quelli uomini rozzi, i quali dall’abitare sparsi pei boschi a guisa di belve, furono indotti a riunirsi in società ed a fabbricarsi le case.

Cadmo. §

482. Cadmo era figlio d’ Agenore re di Fenicia e della ninfa Melia, ed ebbe per sorella Europa, fanciulla di così rara bellezza che fu protetta singolarmente da Giove (63).

483. Il padre degli Dei si trasformò in toro bianco, e scese in riva al mare dove Europa passeggiava con le sue donzelle. Essa gli s’accostò per ammirare la bellezza dell’animale, e s’azzardò anche a montarvi sopra. Allora Giove scappò verso il mare con tanta velocità, che la giovinetta non potè fare altro che alzare inutili grida. Il Nume la condusse in Creta, e quivi riprese la primiera sua forma.

484. Agenore, disperato per questa perdita, ordinò a Cadmo di andare a cercare la sorella per tutto il mondo, e di non ritornare senz’essa.

485. Cadmo la cercò inutilmente ; e non potendo ritornare negli stati del padre, consultò l’oracolo di Delfo per sapere in qual luogo dovea stabilirsi. Apollo (96) gli ordinò allora di fondare una città nel punto dove sarebbe stato condotto da un bove. Cadmo obbedì, e fabbricò Tebe in Beozia sul modello della Tebe d’Egitto. Anfione (481) costruì le mura di questa città col suono della sua lira.

486. La favola aggiunge che i suoi compagni nell’andare a prendere l’acqua dalla fontana di Diria furono divorati da un drago, e Cadmo andato per vendicarli uccise {p. 245}il mostro, e per consiglio di Minerva (262) ne seminò i denti in un campo vicino.

487. Quella sementa di nuovo genere fruttò subito tanti uomini armati, che prima assalirono Cadmo e poi si combatterono furiosamente tra loro, dimodochè cinque soli ne sopravvissero, ed essi lo aiutarono nella costruzione della città.

488. Troviamo scritto che Cadmo introdusse nella Grecia il culto delle divinità egiziane e fenicie, e che insegnò ai Greci l’uso dei caratteri alfabetici, e l’arte di scrivere.

489. Cadmo sposò Armonia figlia di Venere (170) e di Marte (255) ; e ben si rileva dal nome di questa donna quale arte ella debba avere insegnato ai Greci.

490. Siccome un oracolo aveva detto a Cadmo che la sua posterità era minacciata da grandi sventure, cosi prese volontario bando da Tebe per non esserne spettatore, e si ritirò in Illiria, dove insieme con la moglie fu cangiato in serpente.

Edipo. §

491. Laio re di Tebe, dando ascolto a un oracolo che gli prediceva dover esser colpevole di un gran delitto il figliuolo di cui era incinta Giocasta sua moglie, ordinò che il pargoletto appena nato fosse condotto in un bosco, ed ivi esposto alle fiere.

492. Forba, pastore del re di Corinto, ritrovò a caso questo bambino sul monte Citerone, e lo ricoverò nella sua capanna.

493. La regina di Corinto, avuta questa notizia, volle vederlo ; e siccome non aveva figli, lo adottò per suo, e lo fece regalmente educare.

494. Divenuto grande, edipo consultò l’oracolo intorno al suo destino, e n’ebbe in risposta ch’egli era nato {p. 246}per commettere delitti orrendi, e per esser padre di una detestabile prole. Allora, atterrito dalla funesta predizione, prese volontario bando da Corinto, e s’incamminò verso la Focide.

495. Appunto questa sua premura di fuggire i decreti del Fato lo trasse ad offendere il padre senza conoscerlo.

496. Entrò in Tebe, e trovò che la Sfinge desolava quella città, e seppe come fosse stato promesso un gran premio a colui che avesse liberato dal mostro il paese.

497. La Sfinge, figlia d’Echidna (466) e di Tifone (69), aveva la testa di donna, il corpo canino, le ali d’uccello, la coda di drago, i piedi e le unghie di leone : si rintanava sulla montagna di Ficea, dove arrestava i passeggieri proponendo loro a sciogliere enimmi suggeriti dalle Muse, e divorando chi non li sapeva spiegare. Questo flagello era stato mandato a’danni de’ Tebani dallo sdegno che Giunone (85) aveva concepito contr’essi. Alcuni spiegano questa favola supponendo che la Sfinge fosse una fanciulla presuntuosa, figliuola di Laio, la quale sdegnata per non aver parte alcuna negli affari dello stato, s’era messa alla testa d’una masnada di malviventi, e devastava le campagne vicine a Tebe.

498. L’enimma dato a indovinare dalla Sfinge ai Tebani era questo : « Quale sia l’animale che la mattina cammina con quattro piedi, con due a mezzodì e con tre la sera ? » La Sfinge poi era destinata a perire appena avesse trovato lo scioglitore del suo enimma.

499. Edipo, mosso dalla ricompensa e dall’avidità di regno, andò al cospetto della Sfinge, e seppe penetrare il senso degli ambigui detti. Rispose quell’animale esser l’uomo, che nell’infanzia va carponi ; nell’età matura cammina qual si conviene ; e declinando la vita, regge la sua vecchiaia con un bastone che gli fa da terzo piede. La Sfinge, vinta da questa spiegazione, si annegò da sè stessa nel mare.

{p. 247}500. edipo, dopo aver liberato i Tebani dalle stragi del mostro, fu proclamato re di Tebe, ed ebbe due figli, Eteocle e Polinice (505), e due figlie Antigone ed Ismene.

501. Qualche anno dopo, il regno di Tebe fu desolato da crudelissima peste. Consultarono l’oracolo, e seppero che le sventure dei Tebani non sarebbero finite se non dopo l’esilio di chi aveva cagionato la ruina della famiglia di Laio.

502. Dopo molte ricerche, edipo stesso conobbe l’esser suo da chi l’aveva condotto bambino fuor di Tebe, e scoperse di quanti guai era stato cagione, senza saperlo, ai genitori ed al paese.

503. Allora inorridito di sè medesimo, non potè più sostenere la vista del sole, degli uomini, della sua persona, e si accecò con le proprie mani. I figliuoli, più scellerati di lui, lo scacciarono da Tebe ; ed egli povero, sfuggito con orrore da tutti, e cieco, non ebbe altro sostegno, altra guida che la giovinetta Antigone sua figliuola. Con la memoria di lei gli antichi ci tramandarono il più commovente esempio della pietà filiale. Dopo aver lungamente ramingato mendicando, l’infelice padre si fermò presso un borgo dell’Attica chiamato Colono, in un bosco sacro alle Eumenidi, sotto il qual nome venivano onorate le Furie, degne ospiti di un uomo che era crudelmente perseguita to dal destino. Qui pone la scena di una sua bella tragedia il celebre Niccolini, e crediamo di far cosa grata a’giovinetti riportandone quei versi che dimostrano la tenerezza d’Antigone per suo padre. Creonte, uomo pessimo, insultando alle sventure di edipo, gli rimprovera la vita raminga ch’ei faceva condurre alla figlia :

Creonte. …………. Ma forse è rea
Delle tue colpe la regai fanciulla,
Cui le tenere membra offende il gelo,
O l’ardor del meriggio, e il piè si stanca
Sull’aspra via di faticose rupi ? —
{p. 248}Qual core è il tuo quando di porta in porta
Mendicando la vita, affronti (ahi lassa !)
Turpe rifiuto, o domandar più grave
Della pietà fastosa, e tu (sul ciglio
Trattengo appena il pianto) o celi il nome
Che sei figlia d’Edippo, oppur tu dei
Dirlo, e arrossire ; e se mercè tu chiami,
Un fremito d’orror sol ti risponde. —
Alla vita raminga, al duro esiglio
I lieti giorni dell’età fiorita,
Padre crudel, condanni ! — E che fa teco
Questo squallido manto ? Imene appresta
E liete vesti, ed ara, e pompe, e trono.
Antigone. Vince gli oltraggi, che sostenne Edippo,
Questa infame pietà…. Si vil mi credi
Che il padre, e vecchio, e sventurato, e cieco
Io possa, ahi crudo ! abbandonar ? chè parli
A me di nozze e di regai fortuna ?
È pei Creonti il trono ; ebbi del regno
Parte migliore, il genitor diletto.
Vivo per te, nè un solo istante, o padre,
Dall’amarti io cessava, e mille affanni
Dimenticai per un amplesso.

504. Tratto poi da quel bosco, che era interdetto ai profani, edipo fu condotto ad Atene, ove Teseo (409) lo ricevè umanamente. Poco tempo dopo, il tuono di Giove gli annunziò la sua prossima fine, e la terra gli s’aperse sotto i piedi, ma senza violenza, per nascondere quetamente nel suo seno la vittima d’una tremenda persecuzione celeste. Antigone, modello di amor filiale, rimase in vita per dar nuovo esempio d’amor fraterno (510).

Eteocle e Polinice. §

505. Eteocle, figlio maggiore di edipo (491), dopo la partenza del padre, divise col fratello Polinice il trono di Tebe, pattuendo di regnare alternativamente un anno per uno. Eteocle fu il primo a prenderne il possesso ; {p. 249}ma compito l’anno ricusò di cedere il trono al fratello. Questa perfidia originò la famosa guerra di Tebe tanto celebrata dai poeti ; e le stragi e i delitti fraterni mostrarono a’popoli quanto nefanda e micidiale fosse 1’ambizione di regno. Laonde le città greche, testimoni dei delitti che nelle famiglie dei loro principi erano continuamente commessi, delle guerre intestine che spesso ne derivavano e dei vizj che vi regnavano, cominciarono ad agognare la libertà e la repubblica.

506. Polinice, per far valere i suoi diritti, eccitò le armi di tutta Grecia contro il fratello ; e i principali eroi degli Argivi s’unirono a questa guerra iniqua di fratelli contro fratelli, e fatta per avidità di regnare. I capitani furono Adrasto, Polinice e Tideo, il presuntuoso Capaneo, « quel che cadde giù de’ muri » dice Dante, perchè mentre insultava Giove fu percosso dal fulmine sulle mura di Tebe,92 Ippomedonte, l’indovino Anfiarao (662) che fu inghiottito dalla terra, il suo figlio Alcmeone, e Partenopeo.93 Sono conosciuti sotto il nome dei sette capitani davanti Tebe.

507. Gli Argivi stringevano già Tebe d’assedio, e gli abitanti oppressi dalla fame erano ridotti agli estremi, quando l’indovino Tiresia (660) presagì la salvezza ai Tebani, ma a patto che Meneceo figliuolo di Creonte, ultimo rampollo della famiglia di Cadmo (482), fosse stato sacrificato alla patria. Creonte, come colpito dal fulmine a questa risposta, non vuole acconsentire alla morte del figlio ; offre sè stesso per vittima, e interroga Tiresia per udire se l’oracolo concedesse questo cambio. Ma in quei momenti di ansietà e di dubbiezza, Meneceo esclamando : Se altro non manca, io {p. 250}son pronto, lascia il padre, e corre generosamente a precipitarsi dalla cima della cittadella. La caduta fu mortale, e la patria gli dovè la salvezza. Altri narrò ch’ei si trafiggesse con la propria spada.

508. Infatti a così bella prova di patriottismo tenne dietro una completa vittoria ; gli Argivi furon respinti, e, ad eccezione di Adrasto, tutti gli altri capitani, insieme coi due fratelli, causa della scellerata guerra e sfidatisi a singoiar certame, perirono.

509. Creonte, dopo la morte dei figli d’edipo, da lui stesso accesi al fraterno odio perchè venissero a quelli {p. 251}estremi, s’impadronì del trono, e vietò severamente gli onori della sepoltura a Polinice in pena d’aver condotto contro Tebe armi straniere.

510. La pietosa Antigone tornò a Tebe per rendere furtivamente gli ultimi onori al fratello ; ma scoperta nell’atto che ne raccoglieva le ossa, fu condannata a perir crudelmente. L’altra sorella Ismene si dichiarò complice d’ Antigone, e volle subire la stessa sorte. Così perì una progenie infausta, nata ad ammaestrare i popoli sulle luttuose conseguenze dell’ambizione e del dispotismo. Emone, figlio di quello scellerato di Creonte, non partecipava della sua barbarie, ed essendo innamorato d’Antigone, quando ne seppe la disgraziata morte, non le potè sopravvivere.94

Pelope e la sua posterità. §

511. Pelope, figlio di Tantalo (250) re di Lidia, costretto ad abbandonare i suoi stati a motivo di un terremoto, si rifugiò in Grecia nélla reggia d’Enomao re di Pisa in Elide, ove amò Ippodamia figlia di quel re.

512. Ma siccome un oracolo aveva predetto ad Enomao che il suo genero gli avrebbe tolto il regno, così egli condannò la figliuola a perpetuo celibato ; e, per sempre più allontanarne i pretendenti, dichiarò che non avrebbe accordato la mano d’Ippodamia se non a chi lo avesse vinto nella corsa dei carri. I perdenti dovevano perire di sua mano. L’amante poteva correre il primo, ma il re, che {p. 252}lo inseguiva con una lunghissima lancia ; era tratto da due cavalli invincibili, perchè figliuoli del vento.

513. Già tredici sventurati amanti erano stati immolati in questa gara ineguale, finchè gli Dei mossi a sdegno fecero dono a Pelope di due cavalli alati. Quantunque cosi potesse essere certo della vittoria, tuttavia vogliono alcuni ch’ei la macchiasse col tradimento ; e subornato Mirtillo, figliuolo di Mercurio (160) e cocchiere d’Enomao, fece sì che il carro del principe si rovesciasse ; ed Enomao perì nella caduta. Pelope allora sposò Ippodamia, prese gli stati della moglie, e diede loro il suo nome, chiamandoli Pelopponneso, che è la moderna Morea.

514. Questo principe ebbe molti figli, tra i quali i più noti furono Atreo e Tieste, nomi che rammentano atroci fatti, e discendenza che al pari di quella di edipo sembrò destinata a far inorridire delle sue scelleraggini la terra.

515. Tieste offese Atreo nell’onore, e dovè fuggirne lo sdegno ; ma ingannato da una falsa riconciliazione pagò crudelmente il fio dell’offesa.

516. Tieste ebbe a figliuolo un Egisto, che si rese più empio del padre suo per vendicarlo. A suo tempo il giovine lettore conoscerà meglio questi fatti nelle istorie, ed anco nelle tragedie che il sommo Alfieri ne compose. Qui sono ricordati soltanto perchè hanno qualche attinenza con la favola.

Guerra di troja. §

517. La città di Troja, capitale della Troade nella piccola Frigia nell’ Asia Minore, fondata parecchi secoli avanti l’era volgare, sotto i suoi re, che furono Dardano, il fondatore, Erittonio, Troo, Ilo, Laomedonte e Priamo, acquistò possanza e splendore ; e tre secoli dopo il suo {p. 253}nascimento era già la più celebre città dell’universo.95 Ma sotto il regno di Priamo restò distrutta da capo a fondo dall’armata dei Greci collegati a vendicare l’ingiuria fatta da Paride (601) a Menelao (528) re di Sparta.

518. Dopochè Ercole (364) ebbe saccheggiato la città di Troja per punire Laomedonte d’avergli mancato di parola (106), promise a Telamone re di Salamina la mano di Esione figliuola di Laomedonte ; ma Priamo, il successor di questo re, spedì Paride suo figlio a riprendere Esione. Paride, chiamato anche Alessandro, nell’andare a Salamina si fermò alla corte di Menelao, e gli rapì la moglie giurando di non la rendere, se prima non gli fosse stata restituita Esione sua zia. I principi ricusarono di rendere Esione, presero le armi, ed alla testa di formidabili schiere accorsero a richiedere Elena sotto le mura di Troja.

519. Questa guerra divise in due parti anche i Numi ; nè Giove (63) seppe impedire uno scandalo così grande : Nettuno (185), Apollo (96) ed Ercole (364), che volevano vendicarsi delle antiche offese, stettero apertamente contro a’ Trojani, ed ebbero seguaci nell’odio Giunone (85) e Minerva (262), deliberate anch’esse di pigliar vendetta del preteso affronto ricevuto da Paride (597) nel giudizio della bellezza.

520. Ma Venere (170) protesse sempre i suoi diletti Trojani, e talora trasse anche Giove nel suo partito. Gli stessi due fiumi della campagna di Troja, il Xanto e il Simoenta, unirono le loro acque per annegare Achille (536) uno dei più tremendi nemici dei Trojani ; e l’eroe sarebbe perito, se Giunone (85) non avesse mandato a soccorrerlo Vulcano (270), che armato di fiamme arse i due fiumi, e prosciugò il loro letto.

521. Vogliono i poeti che la presa di Troja non {p. 254}potesse aver luogo senza certi avvenimenti predestinati che dovevano compiersi nel tempo dell’assedio. Questi avvenimenti furono detti fatalità o fati, ed erano sei :

1° Bisognava che intervenisse all’assedio un discendente d’ Eaco ; ed era questi il prode Achille (536) ;

2° Che i Greci possedessero le frecce d’ Ercole (364) ;

3° Che rapissero da Troja il Palladio, statua di Minerva collocata nel tempio di quella Dea ;

4° Che impedissero ai cavalli di Reso (570) di bever le acque del Xanto (520) ;

5° Che Troilo figlio di Priamo (587) morisse, e che la tomba di Laomedonle rimanesse distrutta ;

6° Finalmente bisognava che i Greci avessero nella loro armata Telefo figlio d’ Ercole e re di Misia.

522. Già da dieci anni durava l’assedio della città fatale, quando i Greci, tante volte respinti, ordirono uno strattagemma. Per consiglio di Pallade (263) costruirono un cavallo di legno alto quanto una montagna, e pieno i fianchi di risoluti guerrieri. Indi spacciarono esser quella un’offerta consacrata a Minerva (262) ; e, fingendo di partire, si ritirarono in agguato dietro l’isola di Tenedo che sorge rimpetto a Troja.

523. I Trojani, credendosi ormai liberi dai nemici. spalancate le porte, introdussero l’enorme cavallo nella città, atterrando parte delle mura perch’ei passasse, e lo collocarono alla porta del tempio di Minerva (262). Ma la notte seguente, mentre che tutti erano in preda all’ebrezza od al sonno, i soldati uscirono dal ventre del simulato cavallo, introdussero l’armata greca nella città, e questa in breve fu ridotta in cenere dopo un assedio di dieci anni, nel qual tempo eran periti ottocentomila Greci, e quasi altrettanti Trojani.

524. I principali eroi dalla parte dei Greci furono Agamennone (527), re d’ Argo, che aveva il supremo comando di tutte le milizie greche ; Menelao (528), suo fratello ; {p. 255}Achille (536), Patroclo amico suo, e Pirro suo figliuolo (543) ; i due Ajaci (561), Diomede (550), Filottete (546), Nestore (553), Protesilao (556), Idomeneo (558), Palamede (583), Ulisse (568) ec.

525. Fra i Trojani furono Priamo (587), re di Troja, e capo dell’esercito trojano, Ettore (591) e Paride (597), suoi figli : Laocoonte (605) ; Reso (570) re di Tracia ; Memnone (113), Enea (608), ec.

Personaggi celebri
Dell’esercito greco, alla guerra di troja §

Agamennone, Menelao. §

526. Questi due principi erano figli di Plisteno, re d’Argo e fratello d’ Atreo (514), laonde furono chiamati gli Atridi.

527. Agamennone, dopo essere stato spogliato del trono d’Argo da Tiesle (514) suo zio, si rifugiò alla corte di Tindaro (441) re di Sparta ; con 1’aiuto del qual principe cacciò da Argo Tieste, uccise Tantalo figliuolo dell’usurpatore, e sposò Clitennestra, moglie di Tantalo e figlia di Tindaro, dalla quale ebbe due femmine, Ifigenia ed Elettra, e un figliuolo chiamato Oreste.

528. Menelao sposò Elena (601), sorella di Clilennestra (527), e successe a Tindaro sul trono di Sparta ; ma Elena bella « per cui tanto reo tempo si volse » essendogli stata involata da Paride (597), tutti i principi greci presero le armi per vendicar quest’offesa ; e il comando dell’esercito fu affidato ad Agamennone (527).

529. La flotta, che doveva portare sì numeroso esercito per la spedizione di Troja, era composta di circa 1200 {p. 256}navigli piccoli di quel tempo, e si radunò in Aulide, città marittima della Beozia, dove fu trattenuta dai venti contrarj. L’indovino Calcante (664) dichiarò allora che Diana sdegnata contro Agamennone, perchè ei le aveva ucciso una cerva a lei consacrata, negava ai Greci il vento favorevole ; ed era mestieri per placarla il sacrifizio d’Ifigenia. La figlia d’Agamennone era sul punto d’essere immolata, allorchè Diana, sodisfatta dell’obbedienza, fece comparire invece d’Ifigenia una cerva ; e contenta di questa vittima, trasportò la vergine in Tauride per farla sua sacerdotessa (535).

530. Agamennone fece mostra di molto orgoglio e di poco senno nel campo dei Greci, mentre Menelao vi spiegò molto valore, e propose a Paride (597) di terminare la contesa fra di loro con un duello, a condizione che Elena restasse in premio al vincitore. Il duello fu fatto sotto le mura di Troja al cospetto dei Greci e dei Trojani. Paride ebbe la peggio, e fu debitore della salvezza alla protezione di Venere (170) che, per sottrarlo ai colpi del vincitore, lo ravvolse in una nube (cioè a dire che il codardo rapitore d’Elena prese la fuga). Tornato in Troja, i suoi compagni ed Elena stessa gli rinfacciarono la sua viltà ; Menelao chiese il premio della vittoria, ma i Trojani glielo negarono, e questa perfidia riaccese gli sdegni dei Greci.

531. Dopo la presa di Troja, i Greci restituirono Elena a Menelao ; ed egli aveva deciso d’immolarla ai mani di tanti eroi periti nella lunga guerra : ma lasciatosi intenerire dalle sue lacrime, le concesse il perdono.

532. Egisto (516), nella lunga assenza d’Agamennone, adoperando le arti della perfida ipocrisia, dispose in favor suo l’animo di Clitennestra, si fece partigiani in Argo, e tese tante insidie ad Agamennone, che al suo ritorno fu tradito dalla moglie, ed ucciso nella propria reggia ; indi lo scellerato seduttore sposò Clitennestra, ed usurpò il trono.

{p. 257}533. La presenza d’Oreste (527), figlio d’Agamennone, era un grande ostacolo per Egisto, che non avrebbe risparmiati nuovi delitti per amor del trono ; ma la sorella Elettra (527), che vegliava sul fanciullino, trovò modo di salvarlo dalle insidie, e di mandarlo segretamente a Strofio re della Focide e suo parente. Dopo dodici anni d’assenza, Oreste tornò in patria per punire il tiranno ; e, non senza grave pericolo, con l’aiuto d’Elettra e di Pilade suo amico, potè finalmente assalire Egisto ed ucciderlo ; ma fu tanto il cieco impeto del giovine ardimentoso in quell’incontro, che, non vedendo Clitennestra accorsa in difesa del tiranno, ebbe la sventura di ferire a morte anche lei.

534. Fino dal momento che Oreste ebbe commesso, benchè involontario, l’atroce misfatto, fu in preda ai tormenti delle Furie ; e quel supplizio durò tanto e fu sì crudele, che le furie d’ Oreste (232) sono passate in proverbio, e il nome suo svegliò orrore nei posteri. Consultato l’oracolo d’ Apollo (96), n’ebbe in risposta che avrebbe trovato un qualche lenimento alla sua disperazione, andando in Tauride a rapire la statua di Diana ; ed egli vi si recò in compagnia di Pilade suo costante amico nella sventura. Ma Oreste fu arrestato prima che potesse compire il ratto del simulacro ; e il costume di quel paese voleva che fossero immolati alla Dea tutti gli stranieri che vi approdavano. Allora fu vista una generosissima gara d’amicizia, nella quale ambedue i giovani amici volevano dar la vita l’uno per l’altro.

535. Alfine la condanna cadde sopra Oreste ; ma per avventura, mentre era per compiersi il sacrifizio, Ifigenia sacerdotessa e sua sorella lo riconobbe, e trovò modo di sottrarlo alla morte. Allora tutti e tre fuggirono trafugando la statua. di Diana, e la disperazione d’ Oreste ebbe alcuna calma, benchè i rimorsi continuassero a tormentarlo in segreto. Sposò Ermione figliuola di Menelao (528), dette Elettra in moglie a Pilade, e dopo aver sempre vissuto in {p. 258}preda alla mestizia, morì di novant’anni pel morso di un serpente.

Achille. §

536. Achille, figlio di Teti e di Peleo (320), nacque a Flia in Tessaglia, e fu discendente d’ Eaco re dell’isola d’ Egina e giudice dell’inferno (229). Sua madre, che teneramente lo amava, andò ad immergerlo nelle acque dello Stige (221), e lo rese invulnerabile fuorchè nel calcagno pel quale lo teneva sospeso. Quindi gli dette per precettore il centauro Chirone (430), il quale, al dir della favola, lo alimentò con cervello di leone e di tigre, dal che provennero in lui quell’ardito coraggio e quella prodigiosa forza che mostrò nelle pugne.

537. L’oracolo aveva predetto che per la presa di Troja era necessario Achille, ma ch’ei sarebbe perito sotto le sue mura. Teli, per distornare questa predizione funesta, vestì il giovinetto in abiti da donna, e mentre dormiva lo tolse a Chirone, e lo mandò alla corte di Licomede re di Sciro, dove poi sposò segretamente Deidamia figlia del re, e n’ebbe Pirro (543). Dante cita questo fatto nel IX del Purgatorio per fare un paragone con sè medesimo :

Non altrimenti Achille si riscosse,
Gli occhi svegliati rivolgendo in giro,
E non sapendo là dove si fosse,
Quando la madre da Chirone a Sciro
Trafugò lui dormendo in le sue braccia,
Là onde poi li Greci il dipartiro ;
Che mi scoss’io, si come dalla faccia
Mi fuggi il sonno, e diventai smorto
Come fa l’uom che spaventato agghiaccia.

538. Ma Ulisse (568) potè aver sentore del nascondiglio d’Achille, e adoperò ogni artifizio per trarnelo. Travestitosi da mercante andò alla corte di Licomede, e offerse {p. 259}alle donzelle varie gioie ed arredi femminili, tra i quali aveva mischiato ad arte una spada, un elmo ed altre armi. Achille, secondo che Ulisse aveva previsto, avidamente vagheggiò e prese le armi, e fu tosto riconosciuto :

………Invano
Si preme un violento
Genio natio, che diventò costume.
Fra le sicure piume
Salvo appena dal mar giura il nocchiero
Di mai più non partir ; sente che l’onde
Già di nuovo son chiare,
Abbandona le piume, e torna al mare.
(Metastasio, Achille in Sciro.)

{p. 260}Allora seguì Ulisse all’assedio di Troja, ed ebbe dalla madre un’armatura impenetrabile fabbricata da Vulcano (270), e quattro cavalli immortali.96 Presto Achille diventò il primo eroe della Grecia ; ma una contesa nata fra lui ed Agamennone privò lungo tempo i Greci dell’ aiuto del suo valore.

539. Agamennone aveva fatto prigioniera Criseide, fìglia di Criseo, sacerdote d’Apollo (96), ed il Nume per vendicarlo desolò con la peste il campo dei Greci. Achille propose di placar l’ira d’Apollo rendendo Criseide a suo padre ; e il supremo comandante de’Greci fu obbligato a sottoporsi a questa restituzione ; ma per rendere il {p. 261}contraccambio ad Achille fece sì che anch’ egli dovè liberare la giovine Briseide, prigioniera di guerra nella tenda del Pelide. Egli allora sdegnatone all’ estremo si ritrasse ne’ suoi alloggiamenti deliberato avendo di non voler più combattere. Questa sua ostinazione fu favorevole ai Trojani, che in quel tempo riportarono molte vittorie ; ed Ettore (591), figliuolo di Priamo (587) re di Troja, uccise Patroclo (592) sviscerato amico d’Achille.

540. Non ci voleva altro che la morte di Patroclo per far ripigliare le armi ad Achille, dopo che era stato più di un anno senza combattere. Spinto allora da brutale vendetta privò di vita Ettore combattendo con lui corpo a corpo ; e non contento di questo, inferocì nello stesso cadavere trascinandolo dietro il suo carro per tre volte intorno alle mura di Troja e alla tomba di Patroclo (593), finchè lo rese alle lacrime dello sventurato Priamo, che da sè stesso andò a’ piedi d’Achille per implorar pace alle ossa del vinto figliuolo (594).

541. L’amore doveva essere causa della morte d’Achille. Così volevano i fati ; nè valsero i consigli di Chirone che lo aveva ammonito di non lasciarsi vincere da molle affetto, finchè la patria avesse avuto bisogno del suo valore. Ma egli, avendo conosciuto in tempo di tregua la giovane Polissena figlia di Priamo, ed ammiratane la rara bellezza, fece di tutto per averla in isposa, e gli fu concessa ; ma quando erano per essere celebrate le nozze, il vilissimo Paride scoccò a tradimento nel calcagno d’Achille una freccia avvelenata, e l’uccise. Passò per tradizione che quella freccia fosse stata diretta dallo stesso Apollo. I Greci lo tumularono sul promontorio dj Sigeo, vicino alle pianure di Troja ; gli fabbricarono un tempio, e gli resero onori divini. Polissena divenne poi schiava di Pirro (543) che la menò sopra la sua flotta, e la immolò ai mani d’Achille, presso la riva del Chersoneso.

542. Quando Teti ebbe saputa la morte del suo {p. 262}figliuolo, uscì dal seno delle acque, accompagnata da una lunga schiera di ninfe per andare a piangere sulla sua spoglia. Anche le nove Muse (274) amaramente lo piansero, e l’oracolo di Dodona (82) gli decretò onori divini. Alessandro il Macedone andò a visitarne la tomba, la onorò d’ una corona, e disse che invidiava ad Achille d’aver avuto in vita un amico come Patroclo, e dopo morte un poeta come Omero.

Giunto Alessandro alla famosa tomba
Del fero Achille, sospirando disse :
Oh fortunato, che si chiara tromba
Trovasti, e chi di te si alto scrisse !
Petrarca. Parte I. Son. CXXXV.
Pirro. §

543. Pirro, figliuolo d’Achille (536) e di Deidamia (537), fu educato alla corte del re Licomede (439) suo avo materno ; e dopo la morte d’Achille, rammentandosi i Greci dell’ oracolo che aveva dichiarato non potere essere debellata Troja se tra gli assedianti non vi fosse un postero d’Eaco, mandarono a Sciro a pigliar Pirro che aveva allora diciotto anni.

544. La smania di vendicare la morte del padre lo rese uno dei più tremendi nemici dei Trojani : egli stesso uccise lo sventurato Priamo (587), fece precipitare dall’ alto d’ una torre il giovine Astianatte figliuolo d’ Ettore (591), e chiese il sangue di Polissena (541) per immolarlo alla memoria d’Achille.

545. Quando furono divisi gli schiavi tra i vincitori di Troja, gli toccò Andromaca vedova d’Ettore, e l’amò tanto da preferirla ad Ermione che doveva essere sua sposa. Questo amore gli riesci funesto, perchè recatosi a Delfo per sacrificare ad Apollo (96) e rendersi propizio quel Nume, vi trovò nello stesso tempio la morte per mano {p. 263}d’Oreste agitato dalle furie, e spinto a vendicare la tradita Ermione.

Filottete. §

546. Filottete fu uno dei più celebri eroi nell’esercito greco. Essendo stato amico d’Ercole (364) aveva ereditato le sue frecce ; ma un giuramento l’obbligava a nascondere il luogo dove erano sepolte con le ceneri del figliuolo d’AIcmena (364). Tuttavia essendo volere del fato (521) che Troja non potesse cadere senza l’uso di queste frecce, i Greci spedirono ambasciatori a Filottete per sapere da lui in che luogo fossero riposte ; e Filottete, non volendo violar la promessa nè tradire le speranze dei Greci, additò con un piede la sepoltura del grand’eroe.

547. Nonostante Filottete aveva mancato alla promessa, e ne pagò il fio ; perchè nell’andare a Troja una di quelle frecce gli cadde appunto sul piede col quale aveva additata la tomba d’ Ercole, e vi produsse una piaga da cui esalava un fetore così insopportabile, che gli ambasciatori furono costretti a lasciarlo solo nell’isola di Lenno, dove per dieci anni patì atrocissimi dolori. Ma alla fine il bisogno d’aver quelle frecce costrinse i Greci a ricorrere di nuovo a Filottete, e lo condussero all’assedio di Troja.

548. Appena giunto Filottete nel campo greco, Paride (597) ebbe l’ audacia di sfidarlo a singolare battaglia, e restò ucciso con una delle frecce d’Ercole, che ferivano sempre mortalmente per essere state intrise nel sangue dell’ Idra di Lerna (371).

549. Dopo la presa di Troja la piaga di Filottete fu curata da Macaone figlio d’ Esculapio (289). Ma l’eroe non volle tornare in Grecia, forse per non rivedere i luoghi dov’era morto il suo amico ; e unitosi ad una schiera di {p. 264}Tessali andò a stabilirsi nella Calabria, dove fondò la città di Petilia.

Diomede. §

550. Diomede, figlio di Tideo uno dei capi della spedizione contro Tebe (505), fu educato alla scuola del celebre Chirone (530), insieme con gli altri eroi della Grecia. All’ assedio di Troja si segnalò per tante prodezze, che passò pel più valoroso dell’ esercito dopo Achille (536) ed Ajace (561) figlio di Telamone (518).

551. Omero fa di quest’eroe il prediletto di Pallade (263), e narra che con l’ aiuto di questa Dea potè ghermire i cavalli di Reso (570) ; involare il Palladio (570) a’ Troiani ; uccider loro molti duci ; uscir glorioso dai duelli contro Ettore (491), Enea (608) ed altri capi trojani ; e finalmente ferir Marte (255), e la stessa Venere (170) la quale scendeva in soccorso d’ Enea, e non potè salvarlo dall’ impeto di Diomede se non col celarlo in una nube.

552. Questa Dea, per punirlo di tanta audacia, mise tale scompiglio nella casa di Diomede, che al suo ritorno non potendo più vivere in pace con Egiale sua moglie, dovè fuggire e ricoverarsi presso Dauno re d’Illiria, dove co’ suoi compagni fu cangiato in airone. Pare che questa finzione sia immaginata per esprimere la valorosa audacia di Diomede, essendochè quegli uccelli non temono le procelle, e dalla cima dei più aspri scogli si librano sulle onde agitate dai venti.

Nestore. §

553. Nestore re di Pilo era uno dei dodici figli di Nereo e di Cloride, il solo che sfuggisse ai colpi d’Ercole (364) quand’ egli punì la sua famiglia d’aver preso parte per Augia (380).

{p. 265}554. Viaggiò contro la Colchide con gli Argonauti (452) ; si ritrovò alle nozze di Piritoo (429), e combattè i Centauri (430). Sicchè era già molto vecchio quando concorse all’ assedio di Troja ;

…..ei già trascorse avea
Due vite, e nella terza allor regnava.

Ma fu tanto utile ai Greci per la saviezza dei suoi consigli, da far dire ad Agamennone, che se avesse avuto nell’esercito dieci Nestori, Troia sarebbe caduta più presto. Era ancora molto eloquente, sicchè Omero lo dice :

Facondo si, che di sua bocca usciéno
Più che miel dolci d’eloquenza i rivi.

555. Apollo (96) in premio della sua saviezza lo fece vivere trecento anni, ossia tre età d’ uomo, come dicevano i poeti. La saviezza e la longevità di Nestore son passate in proverbio. Nè è qui da tacere ciò che narrano Omero e Pindaro del figliuolo di Nestore, chiamato Archiloco, il quale sotto le mura di Troja sacrificò la sua per salvare la vita del genitore :

Ecco al Nestoreo cocchio s’implica
Destrier, cui Paride feri col dardo :
Ecco discendere contra il gagliardo
L’asta nemica.97
Corse al Messenio per l’ ossa un gelo,
E, vieni, salvami, fedel mia prole,
Gridò, nè inutili le sue parole
Volâr pel cielo.
Corso il magnanimo fra mille spade,
E i giorni a Nestore comprò co’ suoi ;
Quindi l’ annovera tra i figli eroi
L’antica etade.
Tai giorni volsero………
(Trad. del Borghi.)
{p. 266}
Protesilao. §

556. Il primo a scendere sul lido troiano fu questo Protesilao, e ben meritava che Omero eternasse il suo nome, perchè l’ oracolo aveva predetto una morte certa al primo che ponesse piede sulla spiaggia nemica. Quindi nessuno de’suoi compagni, e nemmeno lo stesso Achille (536) osavano abbandonare le loro navi ; ma egli generosamente sacrificandosi per la patria, balzò dalla sua, e appena sbarcato fu ucciso da Ettore (591).

557. E tanto più era da valutare quest’azione, in quanto che Protesilao aveva sposato la sua diletta Laodamia la vigilia stessa della partenza per la guerra. La sventurata sposa e vedova ad un tempo chiese almeno agli Dei la grazia di riveder l’ombra del marito, ed essendole apparsa, morì di dolore mentre sforzavasi d’abbracciarla.98

Idomeneo. §

558. Idomeneo, figlio di Deucalione (647) e nipote di Minosse (228), regnava in Creta, e si fe’chiaro per luminose prodezze all’assedio di Troja.

559. Dopo la caduta della città questo principe ritornava a Creta, carico delle spoglie troiane, quando lo colse una tempesta violentissima, e lo ridusse agli estremi. Allora, per sottrarsi al pericolo, fece voto a Nettuno (185 che se gli concedeva il ritorno nei suoi stati, gli avrebbe immolato il primo vivente che gli fosse venuto incontro sulla spiaggia di Creta. Cessò la tempesta, e il re approdò {p. 267}felicemente nel porto, ove il figliuolo, che lo aspettava, fu il primo a comparirgli davanti… Lo sciagurato padre voleva esser fedele al suo voto !

560. Ma i Cretesi inorriditi da tanta barbarie gliela impedirono ; nè vollero più servire ad un re tanto iniquo ; e l’obbligarono ad abbandonare i suoi stati ; laonde si rifugiò sulle coste della grande Esperia dove fondò Salento. Pose in vigore nella nuova città le savie leggi di Minosse, e perciò i suoi sudditi molto l’onorarono dopo morte.

Ajace. §

561. Ajace, figliuolo di Telamone (229), fu, dopo Achille (536), il più valoroso tra’ Greci, e com’ esso ardito, impetuoso ed invulnerabile, fuorchè in una parte del petto soltanto a lui nota.

Cosi, quando Bellona entro le navi
Addensava gli Achei, vide sul vallo
Fra un turbine di dardi Ajace solo
Fumar di sangue ; e ove diruto il muro
Dava più varco a’ Teucri, ivi a traverso
Piantarsi ; e al suon de’brandi, onde intronato
Avea l’elmo e lo scudo, i vincitori
Impaurir col grido, e rincalzarli :
Fra le dardanie faci arso e splendente
Scagliar rotta la spada, e trarsi l’elmo,
E fulminare immobile col guardo
Ettore che perplesso ivi si tenne.
(Foscolo, Le Grazie.)

562. Ercole (364). essendo andato a far visita a Telamone che si lagnava di non aver prole, supplicò Giove (63) affinchè concedesse all’ amico un figliuolo con la pelle impenetrabile quanto quella del leone di Nemea (374) ch’ ei soleva portare per sua difesa. Nacque infatti il fanciullo, ed Ercole, avvolgendolo entro la pelle del leone, lo rese {p. 268}invulnerabile, eccettone il luogo dove questa pelle era stata sbranata dalla ferita con che Ercole aveva ucciso la belva.

563. Ajace mostrò dunque molto valore all’assedio di Troja ; e pugnò per un giorno intero con Ettore (591), finché stanchi ambedue, e mara vigliati l’uno del valore dell’altro, posarono le armi, e si scambiarono donativi, tra’quali era la cintura che servì poi a legare il cadavere d’Ettore al carro d’Achille, allorchè questi lo trascinò intorno alle mura di Troja (540).

564. Dopo la morte d’Achille, Ajace ed Ulisse (563) vennero a contesa fra loro per ereditare le armi di quell’eroe. I capitani dell’esercito greco ne furono eletti giudici, ed Ajace propose che le armi fossero lanciate in mezzo ai nemici e concesse a chi dei due fosse andato il primo a riscattarle ; ma Ulisse, che in cuore non si reputava da tanto, fece rigettare l’ ardita proposta, e con la sua eloquenza sedusse i giudici a segno che proferiron sentenza a favor suo.

565. Ajace fu tanto sdegnato di questa parzialità che perdette l’uso della ragione, e divenne così mattamente furioso, da scagliarsi nel mezzo ad un branco di maiali, e massacrarli, figurandosi di sfogare la sua ira contro Agamennone (527) e Menelao (528) che avevano proferito un ingiusto decreto ; ma tornando in sè stesso, e vedendosi ormai meritevole delle beffe di tutto l’esercito che era stato testimone di quella pugna bestiale, non resse alla vergogna, e si ferì con la propria spada.

Sorge talor del debole
L’arte a domar l’audace :
Cesse all’astuto Eolide
Il sanguinoso Ajace,
Notturno il seno aprendosi
Col vindice pugnai.
E là sul Xanto i Danai
Copria di vitupero :
{p. 269}Ma sua virtù fe’stabile,
Ma chiaro il rese Omero,
Cagion porgendo ai secoli
Di cantico immortal.
(Pindaro, Traduz. del Borghi.)

566. Dal sangue d’ Ajace spuntò un fiore simile al giacinto, sul quale paiono impresse le due prime lettere del suo nome A J. Anche Giacinto fu trasformato nello stesso fiore, e suol dirsi che le due lettere esprimano il suo ultimo sospiro. I Greci eressero un magnifico monumento ad Ajace sul promontorio Reteo.

567. Insieme col Telamonio vi fu un altro Ajace figliuolo d’Oileo re di Locri, celebre anch’esso tra gli eroi della spedizione greca contro i Trojani ; ma la sua maggior fama consistè nella robustezza, nell’ agilità delle membra, e in un incredibile dispregio dei Numi. Narrano i poeti che Minerva (262), per punirlo della sua tracotanza, gli suscitò contro una furiosa burrasca mentr’ ei ritornava da Troja. Ajace Oileo, sfidando la maggior furia degli elementi, potè alla fine salvarsi sopra uno scoglio gridando : scamperò a dispetto degli Dei. Ma non prima ebbe proferito queste parole, che Nettuno (185) sdegnato, franse lo scoglio col suo tridente, e lo fece sprofondare nei flutti.

Ulisse. §

568. Ulisse, altrimenti detto Odisseo, figliuolo di Laerte e d’ Anticlea, era re della piccola isola d’Itaca nel mare Ionio.

Ulisse, il figlio di Laerte, io sono,
Per tutti accorgimenti al mondo in pregio,
E già nolo per fama insino agli astri.
Abito la serena Itaca, dove
Lo scuotifronde Nérito99 si leva
{p. 270}Superbo in vista, ed a cui giaccion, molto
Non lontane tra loro, isole intorno,
Dulichio, Samo, e la di selve bruna
Zacinto. All’ orto e a mezzogiorno queste,
Itaca al polo si rivolge, e meno
Dal continente fugge : aspra di scogli,
Ma di gagliarda gioventù nutrice.
Deh qual giammai l’ uom può della natia
Sua contrada veder cosa più dolce ?….
(Omero, Traduz. di Pindemonte.)

569. La sua moglie Penelope fu chiara non tanto per virtù e per prudenza che per bellezza, e fu sì grande l’amore ch’ei le portava, da indurlo a fingersi pazzo per non accompagnare i principi greci alla grande impresa. Per dare a credere la sua finta pazzia, s’ era posto ad arare la sabbia sulla spiaggia del mare, ed a seminarvi sale invece di grano. Ma Palamede (583), che già sospettava della finzione, collocò a giacere il bambinello Telemaco a traverso il solco, ed Ulisse allora dovè tradirsi voltando il vomere per non ferire il figliuolo. Allora fu costretto a partire contro i Trojani ; ma Palamede ebbe a pagargli cara questa scoperta (584).

570. Ulisse con l’eloquenza, con le frodi e con la scaltrezza contribuì molto alla rovina di Troja, mentre gli altri Greci la distrussero col valore e con le armi. Sicchè Omero, quanto alla prudenza, lo paragona allo stesso Giove (63). Ecco i più segnalati servigi ch’ ei rese ai Greci :

Achille (536), il discendente d’Eaco, necessario alla presa di Troja, stava celato sotto spoglie femminili nell’isola di Sciro, ed Ulisse ne scoperse l’asilo (538), e lo condusse all’ assedio di Troja.

2° Con l’aiuto di Diomede (550) rapì il Palladio, che era la statua di Pallade, ossia di Minerva (263), religiosamente custodita dai Trojani nel tempio di questa Dea, e {p. 271}che vantavano scesa dal cielo, e collocatasi da sè stessa sopra l’ altare.100

Reso, re di Tracia, era venuto a soccorrere i Trojani ; ed-essendo arrivato di notte, pose gli alloggiamenti vicino a Troja per aspettarvi il mattino. Ulisse e Diomede (550) gli assalirono all’improvviso, uccisero Reso nel sonno, ed involarono i suoi cavalli prima che {p. 272}potessero abbeverarsi alle acque del Xanto, fiume della Troade.

4° Fece risolvere Telefo (521), figliuolo d’ Ercole, a trasferirsi nel campo dei Greci ; la quale impresa era di difficile riuscita, essendochè a questo principe, re di Misia, erano state devastate le campagne dai Greci, ed egli stesso era stato ferito gravemente da Achille. Ulisse, che seppe dall’oracolo non potersi guarire quella ferita se non dal ferro che l’aveva fatta, prese un po’ di ruggine della lancia d’Achille, ne compose un medicamento, e lo mandò a Telefo, che essendone guarito, si pose per gratitudine nella lega dei Greci.

5° Infine, benchè Filottete (546) gli fosse nemico, seppe indurlo a seguirlo all’assedio di Troja con le frecce d’Ercole (364).

571. Dopo che Ulisse ebbe sostenuto le fatiche d’un assedio che durò dieci anni, prima di poter ritornare nei suoi stati dovè ancora lottare per altrettanto tempo contro la fortuna che in pena delle sue frodi non finì mai d’essergli avversa. Quindi le sue avventure, dalla caduta di Troja fino al ritorno in Itaca, sono argomento di un altro poema d’Omero, intitolato l’ Odissea.

572. Essendo stato per lungo tempo in balia delle tempeste, i venti lo spinsero alfine sulla terra dei Ciclopi (272) in Sicilia, dove Polifemo, figliuolo di Nettuno (185), e il più possente fra loro, lo rinchiuse nella propria caverna con tutti i suoi compagni per farne lauto pasto.

573. Ulisse per sottrarsi a tanto pericolo immaginò l’ espediente di far ubriacare Polifemo, e poi con un palo gli accecò il solo occhio che aveva in mezzo alla fronte ; indi comandò ai suoi compagni d’aggrapparsi sotto il ventre dei caproni di Polifemo, e fatto anch’ esso altrettanto, sbucarono tutti dalla caverna, passando fra le gambe del gigante mentre il suo gregge usciva alla pastura.

{p. 273}574. Di Sicilia passando Ulisse negli stati d’ Eolo re dei venti, n’ebbe amichevole accoglienza, e il dono di certi otri ove stavano rinchiusi i venti contrarj alla sua navigazione. Ma i suoi compagni, vinti da indiscreta curiosità, apersero gli otri, e tosto si scatenarono i venti sollevando una furiosa tempesta che li respinse nuovamente in Sicilia sopra le coste dei Lestrigoni, ferocissimi popoli, dai quali poco mancò non fossero tutti divorati.101

575. Ulisse ebbe a veder perire undici delle sue navi in quella tempesta, ed appena potè egli stesso approdare all’isola d’ Ea abitata da Circe, bellissima figlia del Sole. Questa Dea, sendo esperta nella magia, usò tutto il potere de’ suoi incantesimi contro lo scaltro re d’Itaca e contro i suoi compagni, perchè non le uscissero dalle mani. Trasformò questi in maiali ; ma Ulisse potè serbare la forma umana in virtù d’un’erba che gli era stata data da Giove. Con l’aiuto del medesimo Dio obbligò Circe a restituire le primiere sembianze ai suoi compagni, indi si riconciliò con lei, e trovò il modo di partire dalla sua isola.102

576. Dipoi scese all’ inferno, trattovi dal desiderio di conoscere lo stato dell’anima dopo la morte del corpo, e per consultare il famoso indovino Tiresia (660), dal quale, nell’udire le nuove disgrazie che lo minacciavano, seppe ancora il miserando fine che avrebbe fatto. E di nuovo si pose in viaggio per la sospirata isola d’Itaca, e fu gran ventura se tanto egli che i suoi compagni poterono resistere, come già narrammo, alle seduzioni delle Sirene (196).

{p. 274}577. Liberatosi ancora, non senza molta fatica, dai rischi di Scilla e Cariddi, ebbe a patire un’ altra tempesta suscitatagli contro da Nettuno che volle punirlo per aver tolto la vista al figliuol suo Polifemo. Allora vide sfasciarsi e perire con tutti i compagni la sua ultima nave, ed egli solo trovò salvezza nell’ isola d’Ogigia (secondo alcuni vicina a quella di Malta) soggetta all’ impero della Ninfa Calisso.

578. Questa Dea lo accolse benignamente, lo trattenne per sette anni nella sua isola, e gli promise l’immortalità se avesse consentito di sposarla : ma egli volle serbar fede a Penelope, sicchè Giove (63) ordinando a Calisso di non più opporsi alla sua partenza, ella lo lasciò andar via sopra una fragile zatta. A gran fatica Ulisse potè approdare all’ isola dei Feaci nominata Scheria o Corcira, la moderna Corfù, dove regnava Alcinoo. Il palazzo di questo re era sontuoso, ed in mezzo ad ameni giardini che in tutte le stagioni producevano vaghi fiori e bei frutti. La sua famiglia manteneva l’innocenza e l’illibatezza di costumi dei tempi antichi ; i figliuoli erano umili e discreti, e sapevano servirsi da sè medesimi ; la moglie dava l’ esempio del lavoro e dell’ economia ; e Nausica sua figlia, bella e vereconda fanciulla, aiutava la madre nelle faccende domestiche. Filava, tesseva la lana, lavava la biancheria, le sue vesti e quelle dei suoi fratelli ; e Minerva, Dea delle arti, vegliava su lei, e ne dirigeva la buona condotta. Quando Ulisse potè metter piede sulla spiaggia di Corcira a lui ignota, era quasi moribondo per aver combattuto tanti giorni contro il furore delle onde, e non seppe scorgere nè abitazioni nè abitanti ; ma vinto dalla stanchezza, dal sonno, dall’angoscia, appena gli era riescito di trascinarsi in un bosco poco lontano dalla costa. Lì presso scorreva il limpido ruscello dove Nausica era solita di recarsi a fare il bucato ; e quel giorno v’andò con le compagne per lavare {p. 275}le vesti de’ suoi fratelli. Intanto che il sole le asciugava, Nausica, aspettando il declinar del giorno, s’era messa a scherzare innocentemente con le compagne ; i loro gridi, le danze, le risa svegliarono Ulisse. Era pallido e rifinito, quasi nudo, con le membra intirizzite dal freddo. Si alza, e il primo sentimento è quello della paura, dubitando di essere in un altro paese di barbara gente. Ma all’udir liete voci si riconforta, e si pone a spiare attraverso i rami e le foglie. Or come ardirà egli di comparire così malconcio alla presenza delle donzelle ? Si copre alla meglio con le frondi, e si risolve ad uscire dal nascondiglio. Appena scortolo, le giovanetle si danno alla fuga ; ma Nausica rimane imperterrita, ed egli se le trascina a’piedi implorando il suo aiuto. Nausica impietosita chiama le sue compagne, e le invita a soccorrere lo straniero : « Giove, ella disse, ci manda i poveri e i supplichevoli perchè sieno assistiti : dategli da mangiare, e conducetelo lungo il fiume in luogo riparato dal vento perchè possa bagnarsi ; indi ponetegli accanto questo vaso d’essenza e le vesti delle quali ha bisogno. » Quando Ulisse tornò a lei rivestito e lavato con aspetto nobile e franco, qual si addiceva ad un eroe, svegliò riverenza nella principessa e nelle compagne. Indi fu guidato al palazzo ; e giunto al cospetto d’Alcinoo e della sua moglie, si prostrò alle loro ginocchia aspettando con umiltà il suo destino. Alcinoo lo rialza con fraterna benevolenza, e lo fa sedere ; i servi apparecchiano una tavola e la ricoprono di squisite vivande ; la serata passa in divertimenti, in suoni, in amorevoli colloqui ; ed Alcinoo mette il colmo alla sua buona accoglienza annunziando all’ospite ch’ei farà allestire uno dei suoi migliori navigli perchè lo conduca ad Itaca. Ulisse corrispose a tante cortesie col racconto delle sue avventure, e svegliò tenerezza e stima in tutti quelli che lo ascoltarono. La nave era pronta, ed ei v’ascese lieto di grati e doviziosi regali. Nausica lo {p. 276}accomiatò col più tenero addio, ed i suoi occhi seguirono per lungo tempo la nave. L’ eroe arrivò finalmente ad Itaca dopo un’ assenza di venti anni.

579. Siccome parecchi principi suoi vicini, che lo credevano morto, erano andati a farla da padroni in casa sua, e volevano costringere Penelope a scegliersi tra loro un nuovo marito, così Ulisse immaginò di travestirsi per sorprenderli.

580. Penelope stessa, pigliandolo per un amico d’Ulisse, gli narrò in che modo avesse fino allora potuto deludere le pretensioni dei Proci :

Giovani, amanti miei, tanto vi piaccia,
Poichè già Ulisse tra i defunti scese,
Le mie nozze indugiar, ch’io questo possa
Lugubre ammanto per l’eroe Laerte,103
A ciò le fila inutil io non perda.
Prima fornir che l’inclemente parca
Di lunghi sonni apportatrice il colga.
Non vo’che alcuna delle Achee mi morda,
Se ad uom che tanti avea d’arredi vivo
Fallisse un drappo in cui giacersi estinto.
………… Intanto,
Finchè il giorno splendea, tessea la tela
Superba, e poi la distessea la notte
Al complice chiaror di muto faci.
Cosi un triennio la sua frode ascose,
E deluse gli Achei….
(Omero, Odissea Lib. II, traduz. del Pindemonte.)

Ed aggiunse che non potendo ormai opporsi più alla loro insistenza, per consiglio di Minerva (262) aveva promesso di sposare colui che fosse stato capace di tendere l’arco d’Ulisse, e di far passare una freccia a traverso molti anelli messi in fila.

581. Ulisse applaudì a questa proposta ; e tutti i pretendenti si provarono ma invano a tender l’ arco. Allora, senza farsi mai riconoscere, chiese di poterne fare {p. 277}anch’ egli l’ esperimento, e teso in un subito l’ arco, lo volse contro gli amanti di Penelope, e ad uno ad uno gli uccise.

582. Ristabilito così nel suo regno, sarebbe stato felice senza la predizione di Tiresia ; e volendo sottrarsi alla minacciata sventura si disponeva a vivere solitario, quand’ ecco arrivar Telegono suo figliuolo per visitarlo. Le guardie lo respingevano come un incognito, e nacque scompiglio alla porla del palazzo ; Ulisse vi accorreva per sedarlo ; e senza esser visto dal figliuolo restò ucciso da una sua freccia avvelenata. Ma Dante, che lo trova all’Inferno nella bolgia dei frodolenti, fa palesare a lui stesso il vero fine dei suoi viaggi, e gli fa narrare in altro modo l’ esito dei medesimi : (Canto XXVI).

…………Quando
Mi diparti’ da Circe, che sottrasse
Me più d’un anno là presso a Gaeta,
Prima che si Enea la nominasse ;104
Nè dolcezza di figlio, nè la pieta
Del vecchio padre, né il debito amore,
Lo qual dovea Penelope far lieta,
Vincer potero dentro a me l’ardore
Ch’io ebbi a divenir del mondo esperto,
E degli vizj umani e del valore :
Ma misimi per l’alto mare aperto
Sol con un legno, e con quella compagna105
Picciola, dalla qual non fui deserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna.
Fin nel Marocco, e l’isola de’ Sardi,
E l’altre che quel mare intorno bagna.
lo e i compagni eravam vecchi e tardi,
Quando venimmo a quella foce stretta
Ov’Ercole segnò li suoi riguardi,106
Acciocchè l’ uom più oltre non si metta :
Da la man destra mi lasciai Sibilia,107
Da l’altra già m’avea lasciata Setta.
{p. 278}O frati, dissi, che per cento milia108
Perigli siete giunti all’occidente ;
A questa tanto picciola vigilia109
De’ vostri sensi, ch’ è del rimanente,
Non vogliate negar l’ esperienza,
Diretro al sol, del mondo senza gente.
Considerate la vostra semenza :
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
Li miei compagni fec’io si acuti,
Con questa orazion picciola, al cammino,
Che appena poscia gli avrei ritenuti :
E volta nostra poppa nel mattino,110
De’remi facemmo ali al folle volo,
Sempre acquistando del lato mancino.111
Tutte le stelle già dell’ alto polo
Vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
Che non sorgeva fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso, e tante casso112
Lo lume era di sotto dalla luna,
Poich’entrati eravam nell’alto passo :
Quando n’ apparve una montagna bruna
Per la distanza, e parvemi alta tanto,
Quanto veduta non n’ aveva alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto113
Chè dalla nuova terra un turbo nacque,
E percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fe’girar con tutte l’ acque,114
Alla quarta levar la poppa in suso,
E la prora ire in giù, com’altrui piacque,
Infin che ’l mar fu sopra noi richiuso.
{p. 279}
Palamede. §

583. Palamede era figlio di Nauplio, re dell’isola d’Eubea, e capitanava gli Eubei all’assedio di Troja, ove acquistò fama di prudente, di coraggioso e abile nell’arte della guerra.

584. Egli dovè perire sventuratamente per effetto delle frodi di Ulisse (568), il quale, per vendicarsi d’esserne stato tratto all’esercito greco, lo accusò d’avere segrete corrispondenze coi nemici. Furono immaginate lettere finte, e fu posta nella sua tenda una somma di denaro per far credere che gli fosse stata data da Priamo (587) ; tantochè i suoi stessi soldati gli si levarono contro e lo lapidarono.

585. Il caso di Palamede accese gran desio di vendetta nel cuor di Nauplio ; e allorchè la flotta dei Greci, tornando dalla presa di Troja, fu assalita di notte da una furiosa tempesta, egli fece subito accendere molti fuochi tra gli scogli che circondavano l’isola, argomentandosi di tirarvi in inganno le navi greche, e vedervele urtare e sfasciarsi. I fati avversi a’Greci secondarono la perfidia di Nauplio ; i piloti, credendosi alla riva, s’accostarono agli scogli ; le navi percosse andarono in pezzi, ed i vincitori dei Trojani perirono nelle onde, meno che pochi, tra i quali era Ulisse, causa principale di tanto danno.

586. La tradizione rammenta che Palamede insegnò a’Greci a formare ed a schierare i battaglioni, e gli attribuisce l’invenzione della parola di ricognizione per le sentinelle ; non meno che quella di varj giuochi, come i dadi e gli scacchi, per dare a’Greci un passatempo nelle noje del lungo assedio.

{p. 280}

Personaggi primarj
Dell’armata trojana. §

Priamo. §

587. Priamo re di Troja successe a suo padre Laomedonte (106) ; rifabbricò la città ruinata da Ercole (368), e rese floridissimi i suoi stati ; ma il rapimento d’Elena (601) commesso da Paride (597) pose fine a tanta prosperità. I {p. 281}Greci per vendicar Menelao, distrussero Troja, e fecero miseramente perire Priamo e tutta la sua famiglia.

588. Lo sventurato padre fu ucciso da Pirro (543), in mezzo a’suoi Dei, e quando appunto abbracciava l’altar di Giove. Un bel quadro di Pietro Benvenuti, e l’incisione che ne fece Morghen rappresentano questo fatto assai meglio di qualunque descrizione.

589. Ecuba, infelice moglie di Priamo, scampò da morte per cadere in misera schiavitù, nelle mani dei suoi nemici. Ulisse, dopo averla lungamente cercata, la trovò quasi mentecatta ed errante fra i sepolcri de’suoi figliuoli periti tutti sotto i suoi occhi. Presala seco, la menò alla corte di Polinestore re di Tracia, al quale Priamo aveva dato in custodia Polidoro il minor dei suoi figli, con immensi tesori, ed ella trovò sulla spiaggia il corpo del giovinetto che Polinestore aveva fatto uccidere per impadronirsi delle sue ricchezze. Allora questa infelicissima madre entrò furibonda nel palazzo dell’assassino, con altre donne trojane che la seguivano in schiavitù, ed avventate segli addosso lo accecarono, e spensero la sua prole.

590. Le guardie del principe sleale la inseguirono per lapidarla, e da quanto ella era disperata mordeva le pietre anciatele addosso. Alla fine gli Dei n’ebbero compassione, e la trasformarono in cagna, alludendo forse alle orribili imprecazioni ch’ella scagliava sui Greci. Toglie l’inverosimile, ed aumenta col sublime il patetico di tante sciagure quel signor dell’altissimo canto nel XXX dell’Inferno :

E quando la fortuna volse in basso
L’altezza de’Trojan che tutto ardiva,
Si che ’nsieme col regno il re fu casso ;115
Ecuba trista, misera e cattiva, 116
Poscia che vide Polissena morta,
E del suo Polidoro in su la riva
{p. 282}Si fu del mar la dolorosa accorta,
Forsennata latrò si come cane,
Tanto il dolor le fe’ la mente torta. 117
Ettore. §

591. Ettore, figliuolo di Priamo (587) e d’Ecuba (589), era fra’Trojani il più prode. Dopo aver sostenuto con molta gloria varj scontri co’più formidabili eroi dell’assedio, respinse i Greci da tutti i luoghi ove s’erano afforzati, e approfittandosi dell’inazione d’Achille (356), penetrò fino in mezzo alla loro flotta, e gli riuscì d’appiccarvi il fuoco.

592. Patroclo (539), figlio di Menezio, volendo rattenere i progressi del vincitore, indossò le armi d’Achille suo amico, respinse i Trojani, e sfidò Ettore a singoiar battaglia, ma cadde sotto la possa del Priamide.

593. Il desiderio di vendicare la morte dell’amico fece tornare Achille nel campo. Alla vista del tremendo guerriero chiedente ad alle grida la vita del suo nemico, Ecuba e Priamo tremano pei giorni del loro figliuolo, e lo scongiurano a non combattere ; ma egli deliberato inesorabilmente a non passare da vile, riman solo fuori della città assediata per aspettare impavido il suo rivale :

Ed ecco Achille avvicinarsi, al truce
Dell’elmo agilator Marte simile.
Nella destra scotea la paventosa
Peliaca trave ; come viva fiamma,
O come disco di nascente sole,
Balenava il suo scudo. Il riconobbe
Ettore, e freddo corsegli per l’ossa
Un tremor, nè aspettarlo ei più sostenne ;
Ma lasciale le porte, a fuggir diessi
Atterrito……….

{p. 283}Indi, ritornato animoso, si ferma incontro al nemico gridando :

Più non fuggo, o Pelide. Intorno all’alte
Iliache mura mi aggirai tre volte,
Nè aspettarti sostenni. Ora son io
Che intrepido t’affronto, e darò morte,
O l’avrò. Ma gli Dei, fidi custodi
De’giuramenti, testimon ne sieno,
Che se Giove l’onor di tua caduta
Mi concede, non io sarò spietato
Col cadavere tuo, ma renderollo,
Toltone sole le bell’armi, intatto
A’tuoi. Tu giura in mio favor lo stesso.

Achille non vuol parlare d’accordi, perchè a placare l’ombra di Patroclo è poca la morte del suo uccisore. Gli eroi si scagliano contro le loro aste ; ma quella d’Ettore colpisce invano l’impenetrabile scudo d’Achille, il quale con la sua ferisce a morte il nemico nel collo. Indi lo spoglia delle armi, e lo lega al suo cocchio :

……. Sul carro indi salito
Con l’elevate glorïose spoglie,
Stimolò col flagello a tutto corso
I corridori che volàr bramosi.
Lo strascinato cadavere un nembo
Sollevava di polve, onde la sparta
Negra chioma agitata e il volto tutto
Bruttavasi, quel volto in pria si bello,
Allor da Giove abbandonato all’ira
Degl’inimici nella patria terra.
All’atroce spettacolo si svelse
La genitrice i crini, e via gittando
Il regai velo, un ululato mise
Che alle stelle n’andò. Plorava il padre
Miseramente, e gemiti e singulti
Per la città s’udian, come se tutta
Dall’eccelse sue cime arsa cadesse.
Rattenevano a stento i cittadini
Il re canuto, che di duol scoppiando
Dalle dardanie porte a tutto costo
{p. 284}Fuori volea gittarsi. S’avvolgea
Il misero nel fango, e tutti a nome
Chiamandoli e pregando : Ah ! vi scostate,
Lasciatemi, gridava ; è intempestivo
Ogni vostro timor ; lasciate, amici,
Ch’io me il’esca, ch’io vada tutto solo
Alle navi nemiche. Io vo’cadere
Supplichevole ai piè di quell’iniquo
Violento uccisor. Chi sa che il crudo
Il mio crin bianco non rispetti, e senta
Pietà di mia vecchiezza ? Ei pure ha un padre
D’anni carco, Peleo, che generollo
E de’ Teucri nudrillo alla ruina,
Soprattutto alla mia, tanti uccidendo
Giovinetti miei figli : nè mi dolgo
Si di lor tutti, oimèl quanto d’un solo,
Quanto d’Ettor, di cui trarrammi in breve
L’empia doglia alla tomba. Oh fosse ei morto
Fra le mie braccia almen ! Cosi la madre,
Che sventurata partorillo, e io stesso
Sfogo avremmo di pianti e di sospiri.

E Andromaca, la sventurata moglie d’Ettore, lamentando la sorte del figliuolino Astianatte, diceva :

………….. Abbandonato
Da’suoi compagni é l’orfanello ; ei porta
Ognor dimesso il volto, e lagrimosa
La smunta guancia. Supplice indigente
Va del padre agli amici, e all’uno il saio,
Tocca all’altro la veste. Il più pietoso
Gli accosta alquanto il nappo, e il labbro bagna,
Non il palato. Ed altro tal che lieto
Va di padre e di madre, alteramente
Dalla mensa il ributta, e lo percote,
E villano gli grida : Sciagurato,
Esci, il tuo padre qui non siede al desco.
Torna allor lagrimando Astïanatte
Alla vedova madre, egli che dianzi
D’eletti cibi si nutria, scherzando
Sul paterno ginocchio…….

594. Così il palazzo di Priamo era divenuto la {p. 285}magione del duolo. E il vecchio padre, non potendo finalmente più sopportare il pensiero che il corpo del valoroso Ettore dovesse rimanere insepolto e nelle mani dell’acerbo nemico, risolse di andare inerme, di notte, con doni e supplichevoli preci a’piedi dello stesso Achille per riscattarlo. Omero dice che Mercurio, in sembianze mortali, lo accompagnò, l’aiutò a passare non visto davanti al campo de’Greci, e fecelo entrare nella tenda del Pelide che era tuttavia a mensa :

…….. Il venerando veglio
Entrò non visto dà veruno, e tosto,
Fattosi innanzi, tra le man si prese
Le ginocchia d’Achille, e singhiozzando
La tremenda baciò destra omicida
Che di tanti suoi figli orbo lo fece…

Achille stupì a quella vista, e

Il supplice cosi sciolse la voce :
Divino Achille, ti rammenta il padre,
Il padre tuo da ria vecchiezza oppresso
Qual io mi sono. In questo punto ei forse
Da’ potenti vicini assedïato
Non ha chi lo soccorra, e all’imminente
Periglio il tolga. Nondimeno udendo
Che tu sei vivo, si conforta, e spera
Ad ogn’istante riveder tornato
Da Troja il figlio suo diletto. Ed io,
Miserrimo ! io che a tanti e valorosi
Figli fui padre, ahi ! più nol sono, e parmi
Già di tutti esser privo…
…………Mi restava Ettorre,
L’unico Ettorre, che de’suoi fratelli
E di Troja e di tutti era il sostegno :
E questo pure per le patrie mura
Combattendo cadeo dianzi al tuo piede.
Per lui supplice io vegno, ed infiniti
Doni ti reco a riscattarlo. Achille !
Abbi a’Numi rispetto, abbi pietade
Di me : ricorda il padre tuo : deh ! pensa
Ch’io mi sono più misero, io che soffro
{p. 286}Disventura che mai altro mortale
Non soffri, supplicante alla mia bocca
La man premendo che i miei figli uccise.
A queste voci intenerito Achille,
Membrando il genitor, proruppe in pianto,
E preso il vecchio per la man, scostollo
Dolcemente. Piangea questi il perduto
Ettore ai piè dell’uccisore ; e quegli
Or il padre, or l’amico ; e risonava
Di gemiti la stanza. Alfin satollo
Di lagrime il Pelide, e ritornati
Tranqui lli i sensi, si rizzò dal seggio,
E colla destra sollevò il cadente
Veglio, il bianco suo crin commiserando
Ed il mento canuto.
(Omero, Versione del Monti.)

Indi si diè a confortarlo, e volle ristorarlo di cibo e di riposo, mentre le ancelle, per ordine suo lavavano il cadavere d’Ettore, e lo involgevano in candidi lini per restituirlo al padre. Da sè medesimo Achille collocò poi la salma dell’eroe trojano sul cocchio di Priamo ; gli accordò undici giorni di tregua, perchè i Trojani potessero col decoro conveniente dare gli onori funebri al valoroso lor duce, e non senza nuovo pianto ambedue si congedarono pietosamente. I Trojani, dopo che ebbero rifabbricata la città, resero ad Ettore onori divini.

595. Quest’eroe lasciò un figliuolo chiamato Astianatte ; e siccome l’indovino Calcante (529) avea predetto che, sopravvivendo, sarebbe stato più valoroso del padre, e ne avrebbe un giorno vendicata la morte, così Andromaca sua madre, per sottrarlo alla persecuzione dei nemici, lo aveva nascosto nella tomba del marito. Ma la tenerezza materna, che le facea volger sempre gli sguardi su quella tomba, tradì l’infelice donna ; perchè Ulisse scoperse l’asilo d’Astianatte, ed allora il misero fanciullo fu precipitato dalla cima delle mura di Troja.

596. Andromaca, moglie d’Ettore, si ritrovò, dopo {p. 287}la caduta della patria, ad essere schiava del figliuolo dell’uccisore di suo marito (545), che la condusse in Epiro, e l’obbligò contro sua voglia a sposarlo. Morto lui, ebbe un terzo marito in Eleno fratello d’Ettore, e con esso menò sempre afflitto il rimanente della sua vita, perchè non potè mai consolarsi della perdita del suo caro Ettore, nè di quella dell’innocente Astianatte.

Paride. §

597. Paride era figliuolo di Priamo e d’Ecuba (589), la quale essendo incinta di lui sognò d’aver nel seno una face che un giorno avrebbe incenerito l’impero trojano. Gl’indovini, che furono interrogati, risposero dover la regina partorire il futuro distruttore di Troja ; e Priamo, perchè la funesta predizione non si avverasse, appena nato il bambino, ordinò a un servo che lo facesse perire ; ma colui, mosso dalle preghiere della madre, lo dette ad allevare a certi pastori del monte Ida. Paride in breve si fece chiaro tra i pastori, per beltà, per ingegno e per destrezza nei giuochi pastorali.

598. Accadde poi alle nozze di Teti (304) che la Discordia, volendosi vendicare di non esservi stata invitata, comparve in mezzo a una nube, e lasciò cadere fra le Dee un pomo d’oro sul quale era scritto, per la più bella. Ecco subito tutto l’Olimpo in iscompiglio ; ogni Dea pretendeva il vanto della bellezza, e la disputa fu maggiore tra Venere (170), Minerva (262) e Giunone (85).

599. Giove, per finire lo scandalo, mandò le tre Dee sul monte Ida ad essere giudicate da Paride. Ognuna d’esse pose in opera il suo potere per ottener favorevole la sentenza : Giunone gli promise potenza e ricchezza ; Minerva sapienza e virtù ; e Venere il possedimento della più bella donna del mondo.

600. Paride, che tanto era bello quanto vano, sedotto {p. 288}dalle carezze di Venere e più che altro dalla promessa, giudicò doversi dare a lei il pomo d’oro ; e fino da quel momento Giunone e Minerva, punte da gelosia, macchinarono la rovina di Troja ; nè tardò l’occasione.

601. Paride, fattosi riconoscere per figlio di Priamo, ebbe commissione dal padre di andare a Salamina a richiedere Esione (518) sorella di lui stata rapita da Ercole. Allora, a istigazion di Minerva, di Giunone e di Venere, mosse da fini diversi, si fermò per viaggio negli stati di Menelao (528) sotto pretesto di sacrificare ad Apollo (96). Quel principe aveva sposato Elena figlia di Giove e di Leda (441) e celebratissima per la bellezza ; laonde Paride, abusando dell’ospitalità ricevuta da Menelao, se la tolse per sè ; e la condusse a Troja mentre il marito era assente. Questo tradimento fece scoppiare la guerra, e cagionò la vaticinata distruzione di Troja.

602. Nel tempo dell’assedio, Paride combattè con Menelao, nè sarebbe stato salvo senza la protezione di Venere. Ferì Diomede (550), Macaone (530), Palamede (584), ed uccise, ma a tradimento, Achille (541), operando sempre da vile qual si conveniva ad un rapitore di donne.

603. Ferito a morte da Filotlete (546) con una freccia d’Ercole (368), Paride si fece recar subito sul monte Ida alla ninfa Enone da lui conosciuta quand’era pastore, e che aveva ricevuto in dono da Apollo una profonda cognizion delle piante medicinali. Quantunque Enone avesse a dolersi di lui, nonostante adoperò tutto il suo sapere a guarirlo ; ma ogni sforzo fu inutile, poichè la freccia era avvelenata ; e Paride spirò nelle braccia della ninfa che ne morì di dolore.

604. Cassandra, sorella di Paride e d’Ettore, aveva ottenuto da Apollo il dono di conoscere il futuro ; ma questo Dio vistosi negare da lei il contraccambio d’altri favori, e non potendo ormai ritogliersi il dono, la fece passare per folle, acciocchè niuno desse fede alle sue predizioni. {p. 289}Dacchè ella ebbe presagito la ruina di Priamo suo padre, di Paride e della città, la rinchiusero in una torre dove « verace sempre, e non creduta mai » cantava le sventure della sua patria. Agamennone (527), che la possedè schiava dopo la presa di Troja, conosciutone il merito e la bellezza, la condusse in Grecia ; ed ella gli annunziò la trista ventura a che il fato lo riserbava (531) ; ma secondo il solito non le fu creduto, ed Agamennone restò vittima della scelleraggine d’Egisto e di Clitennestra (537).

Laocoonte. §

605. Laocoonte, figliuolo di Priamo (587) e d’Ecuba. (589), era sacerdote d’Apollo (96) e di Nettuno (185) ; e s’adoperò ardentemente a dissuadere i Trojani dall’introdurre nelle mura il cavallo di legno che i Greci avevano finto d’abbandonare sul lido a guisa di voto offerto a Minerva (522). Laocoonte asseriva che quella macchina era un artifizio del nemico per entrare nella città ; ed affinchè fossero persuasi della verità de’suoi detti, lanciò nei fianchi del cavallo il suo giavellotto, e udissi tosto il cupo rimbombo e lo strepito delle armi dei soldati rinchiusi.

606. Ma i Trojani, tratti in inganno dal fraudolento Sinone che i Greci avevano lasciato a bella posta sul lido per tentare i nemici, e ciecamente ostinati a credere che l’immenso cavallo fosse dedicato a Minerva (262), tennero per sacrilega l’azione di Laocoonte ; e ne furono più che mai persuasi, allorchè

……. due serpenti immani
Venir si veggon parimente al lito
Ondeggiando coi dorsi onde maggiori
Delle marine allor tranquille e quete :
Dal mezzo in su fendean coi petti il mare,
E s’ergean con le teste orribilmente
Cinte di creste sanguinose ed irte.
Il resto con gran giri e con grand’archi
{p. 290}Traean divincolando ; e con le code
L’acque sferzando si, che lungo tratto
Si facean suono e spuma e nebbia intorno.
Giunti alla riva con fieri occhi accesi
Di vivo foco, e d’atro sangue aspersi
Vibràr le lingue e gittâr fischi orribili.
……….. E gli angui
S’affilàr drittamente a Laocoonte ;
E pria di due suoi pargoletti figli
Le tenerelle membra ambo avvinchiando,
Sen fero crudo e miserabil pasto.
Poscia a lui, ch’a’ fanciulli era con l’arme
Giunto in ajuto, s’avventaro, e stretto
L’avvinser si che le scagliose terga
Con due spire nel petto, e due nel collo
Gli racchiusero il fiato, e le bocche alte
Entro al suo capo fieramente infisse,
Gli addentarono il teschio. Egli, com’era
D’atro sangue e di bava e di veleno
Le bende, ’l volto asperso, i tristi nodi
Disgroppar con le man tentava indarno,
E d’orribili strida il ciel feriva,
Qual mugghia il toro, allor che dagli altari
Sorge ferito, se del maglio appieno
Non cade il colpo, ed ei lo sbatte e sfugge.
I fieri draghi alfin dai corpi esangui
Disviluppati, invêr la rocca insieme
Strisciando e zufolando al sommo ascesero,
E nel tempio di Palla entro al suo scudo
Rinvolti, a’piè di lei si raggrupparo.
(Virgilio, Eneide. Lib. II. Traduz. del Caro.)

Altri narra che il misero padre avesse nel tempo stesso perduta la vista ; e l’udire le supplichevoli grida de’figliuoletti, e il tentar brancolando ma invano di recarsi loro in ajuto, ne faceva spettacolo sì doloroso da vincere ogni più lacrimevol tragedia.

607. Questa catastrofe è rappresentata in una delle più belle sculture greche, divenuta ormai patrimonio dell’Italia, e tenuta qual raro monumento dell’eccellenza delle arti antiche in quella Roma che ne meritò il {p. 291}retaggio. Questo capo lavoro del Laocoonte è attribuito allo scalpello di Polidoro, d’Atenodoro e d’Agesandro, celebri artefici di Rodi che lo scolpirono tutto d’un pezzo.118 Nella galleria di Firenze se ne vede la copia in marmo per mano di Baccio Bandinelli.

Enea. §

608. Enea, figlio d’Anchise e di Venere (170), aveva sposato Creusa, figlia di Priamo (587). Quando Paride ebbe rapito Elena, prevedendo Enea le funeste conseguenze di quest’iniqua azione, consigliò che fosse resa colei che {p. 292}doveva cagionare la perdita della patria ; ma fu vano il consiglio ; e benchè fosse stato ardente in consigliare la pace, non fu meno valoroso nelle battaglie ; e secondo Omero, Ettore (591) solo fra’ Trojani lo superava.

609. Nella notte dell’eccidio di Troja dette le più alte prove del suo valore ; ma debole troppo per resistere a tanti vittoriosi nemici, si tolse sulle spalle il vecchio genitore con gli Dei Penati (325-328), e menando seco il figliuoletto Ascanio, si ricovrò sul monte Ida con quanti potè raccogliere dei Trojani. In questa fuga piena di rischi e d’affanno perdè la diletta moglie Creusa, la quale indi gli apparve, e gli disse che Cibele (40) l’aveva seco rapita per consacrarla al suo culto.

610. Enea potè costruire una flotta di venti vascelli, e co’ Trojani sopravvissuti all’ultima ruina della patria, andò errando pe’mari in traccia d’una terra ospitale ; costeggiò la Tracia, la Grecia e l’Epiro ; ma sempre inseguito dall’ira di Giunone (85), incorse, per causa sua, in una furiosa tempesta che lo gettò sulle coste dell’Affrica, dove fu accolto in Cartagine da Didone, resagli favorevole da Venere. Così un compagno di Enea, Ilioneo, narra a Didone lo scopo e il travaglio dei viaggi dei Trojani :

Una parte d’Europa é che da’Greci.
Si disse Esperia, antica, bellicosa,
E fertil terra, dagli Enotrj colta ;
Prima Enotria nomossi : or (com’ è fama)
Preso d’Italo il nome, Italia è detta.
Qui ’l nostro corso era diritto, quando
Orïon (618) tempestoso i venti e ’l mare
Si repente commosse, e mar si fero,
Venti sì pertinaci, e nembi e turbi
Cosi rabbiosi, che sommersi in parte,
E dispersi n’ha tutti………..
(Virgilio, Eneide. Lib. I. Traduz. del Caro.)

611. Didone era figlia di Belo re di Tiro, e fuggì dalla patria per involarsi alle crudeltà del fratello Pigmalione, {p. 293}che aveva assassinato Sicheo suo marito per possederne le ricchezze. Approdata all’Affrica, comprò da Jarba, re d’un paese vicino, tanto terreno quanto potesse contenerne in giro una pelle di bove tagliata a strisce ; e su questo spazio fondò la città di Cartagine, che per tal cagione fu chiamata anche Birsa, cioè a dire, pelle di bove.

612. Le sventure ed i meriti dell’eroe trojano mossero a pietà la bella Didone, ed egli cedè per qualche tempo alle seduzioni di molli affetti ; ma il nunzio di Giove (160) scese a ritrarlo dalle insidie che l’odio di Giunone tendeva sempre alla sua gloria, e gli ordinò d’andare sulle coste d’Italia in traccia della nuova patria promessa alla sua schiatta. Enea seppe staccarsi dalle delizie e obbedire :

Vincere i proprj affetti
Avanza ogni altra gloria.
(Metastasio, Didone abbandonata.)

Ma Didone non potè sopravvivere alla partenza d’Enea ; e vinta dalla disperazione salì sopra un rogo fatto alzare a bella posta, e si trafisse con la spada che aveva donato all’eroe.

613. Spinto nella Sicilia da una nuova tempesta, Enea vi celebrò i giuochi funebri in onore d’Anchise, morto in quell’isola l’anno innanzi ; e quindi passò in Italia, ove consultò la Sibilla di Cuma (668), per sapere in qual modo avrebbe potuto scendere nell’inferno. La Sibilla gli ordinò di cogliere un ramo d’oro per farne dono a Proserpina (53) ; ed obbeditala, penetrò nell’inferno, e vide nei Campi Elisi (216) gli eroi trojani e suo padre, dal quale udì i suoi futuri destini e quelli della sua posterità.

614. Tornato che fu dall’inferno andò ad accamparsi sulle sponde del Tevere, dove Cibele (40) trasformò in ninfe le sue navi, e quivi avendo saputo che gli Dei avevano finalmente posto un termine alle sue peregrinazioni, {p. 294}andò a visitare Latino re del Lazio, il quale, avvertitone dall’oracolo, favorevolmente lo accolse, e gli promise in moglie Lavinia sua figlia. Ma Turno re dei Rutuli che pretendeva la mano della fanciulla, lo aggredì per sostenere le sue pretese. I Rutuli furono vinti due volte ; e finalmente la guerra ebbe termine con un duello tra il loro re ed il figlio d’Anchise, nel quale Turno perdette la vita.

615. Dopo quattro anni di pace i Rutuli ricominciarono la guerra, ed Enea scomparve nel tempo di una battaglia, essendo stato rapito in cielo da Venere (170), secondo quello che racconta la favola.

616. Succedette ad Enea il suo figlio Ascanio, che fabbricò la città d’Alba-lunga ; e quindi i posteri suoi in numero di quattordici regnarono sul paese latino, fino a Numitore zio di quel Romolo che fondò Roma.

617. Virgilio Marone, poeta latino che fioriva sotto Augusto un mezzo secolo prima di G. C., cantò le sventure d’Enea in un poema chiamato l’Eneide, monumento pregevolissimo dell’ingegno dei padri nostri. Invero quel gran poeta commise un anacronismo facendo Enea contemporaneo di Didone, quantunque l’eroe trojano vissuto avesse tre secoli prima della regina di Cartagine ; ma volle immaginare la passione di Didone per Enea, a fine di toccare dei grandi fatti che avvennero tra Roma e la bellicosa colonia dei Fenicj.

{p. 295}

Fatti incidentali. §

Orione. §

618. Giove (63), Nettuno (185) e Mercurio (262) andarono una volta ad alloggio in casa di un contadino della Beozia, il quale, benchè povero, gli accolse con amorevole sollecitudine, e per imbandir loro men parca mensa uccise il solo bove che possedeva. Giove, desiderando ricompensarlo, promise di accordargli ogni sua richiesta ; e il buon uomo si contentò d’impetrare un figliuolo, senza bisogno di pigliar moglie. Furono esauditi i suoi voti ; e dalla pelle del bove che aveva ucciso nacque Orione, celebre pel suo grande amore all’astronomia che gli fu insegnata da Atlante (359), e per la sua passione della caccia che, al dire dei poeti, ei serbò ancora poichè fu sceso nei Campi Elisi.

619. Orione era inoltre uno dei più belli uomini del suo tempo, ed aveva la statura sì appariscente, che ne hanno fatto un gigante capace di uscir fuori dell’acqua con la testa camminando nel fondo del mare. Una volta ch’egli attraversava così l’Arcipelago, Diana (137) vedendo quella testa senza saperne altro, ebbe voglia di far conoscere ad Apollo (96) che ne la istigava, la sua bravura nel tirare a segno, e mirò tanto bene, che Orione rimase mortalmente ferito da una sua freccia. Ecco come sovente i capricci e le folli gare dei grandi sono cagione di danno e di ruina ai soggetti !

620. Ma altri mitologi suppongono di Orione un fine diverso da questo, poichè dicono che avesse, non si sa come, offeso Diana, e che questa Dea per punirlo facesse sbucare dalla terra uno scorpione che lo ferì a morte colla {p. 296}sua puntura. Fatto sta che Diana si pentì molto d’aver tolto di vita quel bell’uomo d’Orione ; ma che valeva il pentimento ? il male era fatto, e senza rimedio. Tuttavia credè di poterlo diminuire facendogli gli onori del funerale, vale a dire, impetrando da Giove che fosse posto nel cielo, ove forma la costellazione più rilucente di tutte le altre (676).

Quando Orïon dal celo
Declinando imperversa,
E pioggia e nevi e gelo
Sopra la terra ottenebrata versa….
(Parini, Odi.)
Filemone e Bauci. §

621. Filemone, povero vecchiarello, aveva per moglie Bauci anche più vecchia di lui. Giove (63) e Mercurio (160) viaggiando per la Frigia sotto spoglie di semplici mortali si trovarono villanamente negato l’alloggio di tutti i più ricchi possidenti d’un villaggio, e solamente questa misera coppia di vecchiarelli con tutto amore gli accolse.

622. Sicché Giove, che ne li volle ricompensare, ordinò loro di seguirlo sulla cima del monte, dove rivoltisi a guardare in giù, videro il borgo ed i contorni tutti inondati dall’acqua, meno la loro capanna che era trasformata in un tempio.

623. Indi promise loro di non negar nulla di quanto gli avrebbero chiesto ; ed i pietosi vecchi implorarono la salvezza dei borghigiani, l’ufficio di sacerdoti in quel tempio, e la grazia di morire insieme nel medesimo giorno. I loro voti furono esauditi. Giunsero beatamente ad estrema vecchiezza ; ed un giorno, mentre restava attonito Filemone dal veder Bauci che diventava un tiglio, la vecchia faceva le maraviglie in vedere il marito trasformarsi in quercia ; ed allora si diedero teneramente l’ultimo addio.

{p. 297}
Cleobi e Bitone. §

624. Cleobi e Bitone si resero celebri per la loro commovente pietà filiale verso la madre Cidippe che era sacerdotessa di Giunone (85),

625. Questa sacerdotessa doveva esser condotta al tempio sopra un carro per fare i soliti sacrifizi ; ma Cleobi e Bitone erano tanto poveri che non avevan cavalli…. Ebbene ! attaccarono al carro sè stessi, e la condussero fino al tempio, facendo un tragitto di circa sei miglia. Intenerita da quest’azione, la madre implorò dalla Dea pe’suoi figliuoli il bene più grande che ai mortali possa essere accordato dal Cielo. Il giorno dopo addormentatisi nel tempio non si svegliarono più, quasichè per l’uomo fosse il supremo dei beni l’essere liberato dalle miserie della vita. Gli abitanti d’Argo alzarono loro le statue nel tempio di Delfo. Oh generosi ! i vostri nomi saranno eternamente cari a’buoni figliuoli ; e l’esempio che donaste sarà prediletto argomento a chi brama significare in carte, in marmi ed in tele la tenerezza del filiale affetto. Ed oh ! come l’ingegno dell’artista, che sortì cuore pari al vostro, s’infiammerà nell’immaginare le ingenue sembianze e gli atti pietosi. Singolare poi è la differenza che passa tra le buone azioni di questi personaggi d’infima classe e le gesta vanagloriose o crudeli o colpevoli dei re, degli eroi e dei Numi stessi della greca mitologia.

Meleagro. §

626. Meleagro, figlio d’Oeneo re di Calidonia, e d’Altea, era destinato a vivere tanto tempo quanto avrebbe durato ad ardere un tizzone che le Parche avevan messo nel fuoco mentre sua madre lo partoriva ; sicchè Altea, per {p. 298}prolungare i giorni al figliuolo, si tolse quel tizzone, lo spense, e lo tenne custodito con grandissima cura ; ma ad ogni modo lo sdegno di Diana (137) cagionò la morte di Meleagro.

627. Questa Dea, incollerita contro Oeneo, che s’era scordato di lei nel sacrificare a’Numi per ringraziarli della fertilità dell’anno, mandò un cinghiale a devastargli le campagne. Teseo (405), Giasone (448), Castore (441), Polluce (441) e il fiore della gioventù greca s’unirono a dar la caccia a quella belva tremenda. Meleagro, duce di tutti, ebbe la gloria d’uccidere il mostro ; e siccome Atalanta, figliuola del re d’Arcadia vivamente amata da lui, era stata la prima a ferirlo, credè ben fatto di regalare la testa a lei stessa. Ma i due fratelli d’Altea s’ingelosirono di quella preferenza, e tentarono di rapirla per loro ; laonde nacque una zuffa, nella quale Meleagro, ferì a morte gli zii.

628. Altea, non dando più ascolto che al suo furore, si dimenticò d’esser madre, e lanciò tra le fiamme il tizzo fatale. Allora Meleagro, che aveva già sposato Atalanta, cominciò a sentirsi divorare da interno fuoco, a languire, a consumarsi come il tizzone, e finalmente spirò. Altea. lacerata dai rimorsi, non gli potè sopravvivere.

Niobe. §

629. Niobe, figlia di Tantalo (250) e sorella di Pelope (511), sposò Anfione (481) re di Tebe, dal quale ebbe quattordici figli, sette maschi e sette femmine. Omero dice dodici, sei dell’un sesso, e sei dell’altro.

630. Niobe, inorgoglita della sua fecondità, spregiava Latona (96) che aveva avuto due figliuoli soltanto, Apollo (96) e Diana (137) ; ed osò anche impedire il culto che le rendevano, argomentandosi di meritar tempio ed altari più giustamente di lei.

631. Latona commise ai suoi figliuoli la vendetta di {p. 299}tanta offesa ; laonde Apollo e Diana uccisero a colpi di frecce tutta la prole di Niobe. Scellerate divinità, che punivano nei figliuoli innocenti le colpe dei genitori !

632. La sventurata madre, vista cotanta strage, piena d’affanno e di disperazione non potè fare altro che sciogliersi in lacrime sopra i cadaveri de’ suoi cari figliuoli ; e tanta era la sua immobilità che pareva non desse più segno di vita ; infatti era cangiata in scoglio :

O Niobe, con che occhi dolenti
Vedeva io te, segnata in sulla strada
Con sette e sette tuoi figliuoli spenti !
(Dante, Purg., c. XII.)

{p. 300}633. Nonostante un oragano la trasportò nella Libia in vetta d’ una montagna, dove continuò a spargere lacrime, le quali si vedevano sgorgare da una rupe marmorea. — Nella galleria pubblica di Firenze vedonsi le statue che rappresentano la Niobe ed i suoi figliuoli, opere attribuite a scalpelli greci ; ma nella sola figura della madre si scorge la divina arte di Fidia ; ed è monumento d’inestimabile pregio.119

Filomela e Progne. §

634. Filomela, figliuola di Pandione re d’Atene, e sorella di Progne, seguì Tereo re di Tracia, marito di sua sorella, la quale non poteva vivere separata da lei.

635. Tereo si fece a perseguitarla, e la tenne rinchiusa in stretta prigione ; e stanco degli acerbi rimproveri della sua vittima, le tagliò la lingua.

636. La misera Filomela visse un anno intero in mezzo ai tormenti prima di poter far sapere alla sorella, che la credeva già morta, il deplorabile avvenimento ; e vi riuscì disegnandone con un ago in sulla tela tutta la storia.

{p. 301}637. Progne, non pensando che alla vendetta, in occasione delle feste di Bacco, potè liberare di carcere la sorella, e imbandito con le membra del fanciullo Iti, figliuolo di Tereo, un atroce banchetto, ve la fece comparire sulla fine a far sapere al marito fino a qual punto era arrivata la ferocia di Progne per vendicar la sorella ; laonde Tereo infuriato chiese le armi ; ma le donne fuggirono sopra una nave che le aspettava, e si ricovrarono in Atene.

638. Ovidio narra che Filomela « mutò forma. Nell’uccel che a cantar più si diletta » (l’usignuolo), e che Progne diventò rondinella ; Tereo che le inseguiva fu trasformato in upupa ; ed Iti suo figlio, vittima innocente degli altrui delitti, in cardellino. Pandione alla notizia di tanti orrori morì di dolore.

Pigmalione. §

639. Pigmalione, celebre scultore dell’isola di Cipro, fece una statua tanto bella che ne divenne innamorato perdutamente, e scongiurò il cielo a darle vita. « O Dei, esclamava, se è vero che la vostra possanza non abbia limiti, fate che una figura adorabile come questa diventi mia sposa. » In sul finire di tali parole s’accostò alla statua, e gli parve di vederla muoversi ; la toccò, ed il marmo era cedevole. Attonito a tanto prodigio, non osava ancora abbandonarsi ai trasporti della sua gioia ; la toccò di nuovo, e già le belle membra avevano il calor della vita, già il sangue scorreva nelle lor vene. Le strinse la mano, v’impresse un bacio…. Non è più una statua. Ella può vederlo, può udirlo, scende dal piedistallo, e s’incammina verso di lui. Ah ! la felicità di Pigmalione non è un sogno ; ed egli andò debitore al suo ingegno della più bella e della più virtuosa delle mogli. Chi non vede ingegnosamente adombrata in questa favola la suprema contentezza del genio creatore dei miracoli dell’arte ?

{p. 302}
Atalanta. §

640. Atalanta, figliuola di Scheneo re di Sciro, fu dotata di straordinaria bellezza ; ma non è da confondersi con l’ altra che fu sposa di Meleagro (627). Siccome l’oracolo le aveva predetto che dopo aver preso marito avrebbe perduto la forma umana, così risolse di rimaner sempre nubile ; ed essendo tanto agile al corso da non poter venire superata dagli uomini più veloci, dichiarò, per liberarsi da una folla importuna di pretendenti, che non voleva dar la sua mano se non a chi l’avesse vinta nel corso ; quindi minacciava di far perire tutti coloro che fossero rimasti vinti da lei.

641. Già molti avevano dovuto soccombere, quando si offerse alla prova Ippomene protetto da Venere (170), che gli aveva regalato tre pomi d’oro colti da Ercole (368) nel giardino delle Esperidi.120

642. Ecco dato il segnale : Ippomene si slancia il primo, e accortamente lascia cadere i suoi tre pomi d’ oro l’ uno a qualche distanza dall’ altro, sicchè Atalanta invaghitane li raccoglie, perde tempo, riman vinta, e le convien darsi in premio del vincitore. Così la fatalissima seduzione dell’oro vince talvolta i più forti proponimenti.

643. Poco tempo dopo, avendo i due sposi recato offesa a Cibele (40), furono puniti da questa Dea coll’ essere trasformati in leoni.

Piramo et Tisbe. §

644. Piramo giovine assiro è divenuto celebre pel suo amore per Tisbe che era la più bella tra le giovanette di {p. 303}Babilonia. Dovevano già sposarsi ; ma i lor genitori, venuti a contesa, sciolsero queste nozze, e impedirono ai figliuoli di più vedersi. Gli amanti non poterono obbedire a questa legge severa, e fissarono un ritrovato fuori della città sotto un gelso bianco, presso alla tomba di Nino.

645. Tisbe arrivò la prima sotto quel gelso, ma fu sorpresa da una leonessa che aveva le fauci lorde di sangue ; e spinta da terrore si dette a fuga tanto precipitosa, che perdette il suo velo. La belva si scagliò su di esso, lo sbranò, e lo intrise di sangue. Giuntovi poco dopo Piramo, che aveva già visto sulla sabbia le orme dell’animale, e che tremava per Tisbe, scoperse il velo, lo riconobbe, e persuaso che l’infelice fosse stata divorata, si lasciò cadere sulla punta della sua spada. Quand’ ecco Tisbe uscir dal luogo dove s’ era nascosta, ritrovar Piramo già spirante, e darsi la morte con la medesima spada !

646. Narrano che il gelso restasse tinto dal sangue {p. 304}dei due amanti, e che i suoi frutti cominciassero allora a nascere vermigli invece di bianchi com’ eran prima.

Ero e Leandro. §

646 2°. Leandro, giovinetto d’Abido, città dell’Asia, era fidanzato alla bella Ero giovane sacerdotessa di Venere che abitava a Sesto sulla opposta spiaggia d’Europa.121 Ma i genitori degli sposi, avuta querela fra loro, li costrinsero a non più vedersi. Nonostante Leandro ogni sera attraversava a nuoto lo stretto per abboccarsi con colei che ormai gli era stata destinata per moglie ; ed Ero per dirigerlo nel tragitto accendeva una face sulla cima della torre dove abitava. Nell’ autunno il mare divenne così tempestoso che l’esporvisi a nuoto sarebbe stato lo stesso che andare incontro alla morte. Leandro per sette giorni aspettò che le onde si calmassero, ma l’ottavo non potè resistere al desiderio di rivedere la fidanzata. Partì, che il vento imperversava, ed il cielo era oscuro. Lottò lungo tempo contro l’impeto dei flutti ; ma alla fine rimase spossato, e scomparve nel profondo abisso. Pochi giorni dopo le onde trassero il suo cadavere sotto quella medesima torre di dove Ero, già turbata da tristo presentimento, spingeva i suoi sguardi ora sulla superficie delle acque, ora sopra la spiaggia. All’aspetto di Leandro estinto, non potè moderare l’eccesso della sua disperazione, e si uccise. Anche questo lacrimevole fatto è stato argomento di bei quadri e di poemi.

Deucalione e Pirra. §

647. Deucalione figlio di Prometeo (70) e di Pandora (73) aveva sposato Pirra figliuola d’Epimeteo (73), e {p. 305}regnava sulla Tessaglia vicino al Parnaso, quando sopravvenne il diluvio che porta il suo nome.

648. Giove (63), sdegnato della perversità degli uomini, aveva statuito di sommergere il genere umano, ed ecco inondarsi tutta la superficie della terra, meno che una montagna della Beozia chiamata Parnaso (123).

649. Solamente Deucalione, che era il piu giusto fra gli uomini, e Pirra sua moglie, che era la donna più virtuosa, andarono illesi dall’esterminio, e la navicella che li recava approdò sul Parnaso.

650. Appena furono ritirate le acque, andarono a consultare la dea Temi (336) che pronunziava oracoli alle falde del Parnaso, e che ordinò loro di velarsi il capo e di andar gettando dietro le spalle le ossa della loro madre. Deucalione dopo aver lungamente pensato all’ arcano senso di quest’ oracolo, capì che la loro madre comune era la Terra e le sue ossa le pietre. Sicchè andarono raccattando pietre, e gettandole dietro le spalle ; ed allora accadde che quelle di Deucalione si cangiavano in uomini e quelle di Pirra in donne. Chi non riscontra nella durezza delle pietre divenute uomini la rozzezza di quei nuovi popoli incolti, la vita laboriosa che doveron condurre per sussistere, e quella età di ferro tanto diversa dalla vantata beatitudine dei tempi antidiluviani ? Un diluvio poi accadde effettivamente nella Tessaglia sotto il regno di Deucalione verso l’anno 1532 ; e fu cagionato da un terremoto e da continue piogge per le quali il fiume Peneo sommerse quelle campagne.

I venti. §

651. I Venti erano Dei figli del Cielo (25) e della Terra (25), che secondo gli antichi dimoravano nelle isole Eolie (Lipari), ed avevano per re Eolo (199) che li teneva incatenati in vaste caverne.

{p. 306}652. I quattro venti principali erano detti dai Romani Borea o Tramontana, Euro o Levante, Austro o Mezzogiorno, Zeffiro o Ponente.

653. I poeti attribuivano a Borea faccia minacciosa e sdegnata, perch’ egli solleva le tempeste e ricopre la terra di geli e di brine ; dicevan poi che volando pel cielo era tutto circondato di fitte nebbie ; e che stava in mezzo a’turbini polverosi quando percorreva la terra, quando, cioè, i venti

………. avvolgon tutta
Di turbini la terra e di tumulto.
(Eneide, Versione dell’ Arici.)

654. Borea rapì la Ninfa Orizia122 figlia d’Eretteo re d’Atene, la condusse in Tracia, e ne ebbe due figli, Calai e Zete, i quali fecero il viaggio della Colchide con gli Argonauti (452), ed avevano le ali che crebbero loro con i capelli. Ercole (364) gli uccise perchè non avevano voluto che la nave degli Argonauti andasse a ripigliarlo dopo ch’ei n’era sbarcato per rintracciare il giovine Ila, che era stato rapito dalle ninfe nel recarsi a far provvista d’acqua dolce per la nave.

655. Euro suol essere dipinto in sembianze di giovine alato che va spargendo fiori con ambo le mani dovunque passa ; gli resta dietro il levar del sole, ed è bruno in volto, perchè soffia dalla parte dell’ Etiopìa abitata dai Negri.

656. Austro ha figura d’uomo alato, che cammina sopra le nuvole ; e soffia a piene gote per indicare la sua violenza, e tiene in mano un annaffiatoio, perchè comunemente adduce la pioggia.

657. Zeffiro, figlio d’Eolo (199) e dell’Aurora (143), gentil marito di Flora (312), spira tutta serenità e dolcezza, ed ha le ale di farfalla ; è un giovinetto vermiglio e fresco {p. 307}siccome i fiori ch’egli accarezza ; il suo colorito è rosso virgineo al par di quello della rosa nascente ; e negli sguardi ha la dolcezza dei primi raggi della primavera. Tutto sollecito dei fragili tesori che abbelliscono il seno di Cibele (la Terra), col suo soffio e con le sue ale ne tien lontani gli Aquiloni e le nere Tempeste, e con le lacrime della madre nutrisce l’infanzia dei fiori, dei frutti e delle mèssi ; è inghirlandato d’ogni sorta di fiori, perchè giova tanto alla fecondità della terra.

658. In molti paesi eressero templi ai Venti, e ad Atene ve n’era uno di forma ottagona, avendo ad ogni angolo la figura d’uno dei Venti corrispondente alla parte del cielo onde spira.

Epimenide. §

658, 2° Epimenide era un filosofo dell’ isola di Creta, contemporaneo di Solone. La storia della sua vita è tessuta di prodigj. Ancor giovinetto si smarrì col gregge lungi da una casa campestre di suo padre ; e venuta la notte si ricoverò in una caverna, ove dormì per cinquantasette anni di seguito. Alla fine svegliatosi, cercò del gregge, e non trovandolo corse tutto dolente al villaggio. Ogni cosa aveva mutato d’aspetto ; stentò a ritrovare la casa paterna, e nessuno seppe riconoscerlo, meno che il suo fratello minore che era già vecchio, ed al quale narrò i casi suoi. Divulgatasi la fama di questo miracolo in tutta la Grecia, Epimenide passò per uomo prediletto dal cielo, e cominciarono a consultarlo a guisa d’oracolo. Visse dugento anni, ed in questa lunga età si nutrì solamente d’Ambrosia (222) somministratagli dalle ninfe di Creta. Così con bella immagine è simboleggiata la soavità dell’ eloquenza del sapiente, e la immortalità del vero.

{p. 308}
Gl’ Indovini. §

659. La predizione del futuro formava una scienza tutta fondata sulla superstizione, ed aveva molta parte nella teologia pagana. Gl’ indovini od impostori più celebri appo i Greci furono Tiresia, Anfiarao e Calcante.

660. Tiresia vantava l’esser suo da uno di quei guerrieri nati dai denti del serpente, che Cadmo seminò nella terra a tempo della fondazione di Tebe. Un giorno incontrò sul monte Cillene due serpenti avviticchiati fra loro, li colpì con la sua verga, e tosto diventò donna, e dopo essere stato così per sette anni, ritrovati i due serpenti nel medesimo posto, e colpitili di nuovo con la medesima verga, riebbe subito la primiera sua forma. Di lui fa menzione anche Dante nel XX dell’Inferno, e tocca varie altre cose che fanno al nostro proposito ; ma convien prima avvertire che a coloro i quali ebbero la presunzione di vaticinare il futuro, che è quanto dire, furono sfrontati impostori, l’Alighieri assegna per gastigo l’avere il collo e la faccia volti al contrario, verso la schiena, sicchè non potendo vedere innanzi, sono costretti a camminare all’indietro :

Mira, ch’ha fatto petto delle spalle :
Perché volle veder troppo davante,
Dirietro guarda, e fa ritroso calle.123
Vedi Tiresia, che mutò sembiante
Quando di maschio femmina divenne,
Cangiandosi le membra tutte quante ;
E prima poi ribatter le convenne
Li duo serpenti avvolti con la verga,
Che riavesse le maschili penne.124
{p. 309}Aronta è quei ch’al ventre gli s’atterga,125
Che nei monti di Luni, dove ronca
Lo Carrarese che di sotto alberga,
Ebbe tra bianchi marmi la spelonca
Per sua dimora ; onde a guardar le stelle
E il mar non gli era la veduta tronca.
E quella che ricopre le mammelle,126
Che tu non vedi, con le trecce sciolte,
E ha di là ogni pilosa pelle,
Manto127 fu, che cercò per terre molte ;
Poscia si pose là dove nacqu’ io ;128
Onde un poco mi piace che mi ascolte.
Poscia che ’l padre suo di vita uscio.
E venne serva la città di Baco,129
Questa gran tempo per lo mondo gio.
Suso in Italia bella giace un laco
Appiè dell’ alpe, che serra Lamagna
Sovra Tiralli, ed ha nome Benaco.130
Per mille fonti, credo, e più si bagna,
Tra Garda, e Val Camonica, e Pennino131
Dell’ acqua che nel detto lago stagna.
Luogo é nel mezzo là dove ’l Trentino132
Pastore, e quel di Brescia, e ’l Veronese
Segnar poria, se fesse quel cammino.
Siede Peschiera, bello e forte arnese133
Da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
Ove la riva intorno più discese.
Ivi convien che tutto quanto caschi
Ciò che in grembo a Benaco star non può,
{p. 310}E fassi fiume giù pei verdi paschi.
Tosto che l’acqua a correr mette co,134
Non più Benaco, ma Mincio si chiama
Fino a Governo, dove cade in Po.135
Non molto ha corso, che trova una lama
Nella qual si distende, e la ’mpaluda,
E suol di state talora esser grama.
Quindi passando la vergine cruda136
Vide terra nel mezzo del pantano,
Senza cultura, e d’abitanti nuda.
Li, per fuggire ogni consorzio umano,
Ristette co’suoi servi a far sue arti,
E visse, e vi lasciò suo corpo vano.
Gli uomini poi, che ’ntorno erano sparti,
S’accolsero a quel luogo, ch’era forte
Per lo pantan che avea da tutte parti.
Fèr la città sovra quell’ossa morte ;
E per colei, che ’l luogo prima elesse,
Mantova l’ appellâr senz’ altra sorte.137

661. Poichè Tiresia aveva avuto occasione di conoscere i vantaggi e gl’inconvenienti d’ambedue i sessi, fu scelto giudice d’una contesa insorta tra Giove (63) e Giunone (85) su chi sia più felice, o l’uomo o la donna. Vedi senno da Numi di prima classe ! Tiresia giudicò a favore delle donne ; ma Giunone, che era di contrario parere, se l’ebbe a male, e lo acciecò. Giove per consolarlo fecelo diventare uno dei più grandi indovini del suo tempo, e ne prolungò la vita oltre cinque secoli. Diversamente, e con più gentile poetica finzione, è narrato da altri l’ avvenimento per cui Tiresia perdette la vista. Leggiamolo in questi bei versi del Foscolo, nell’inno alle Grazie :

Innamorato, nel pïerio fonte
Mirò Tiresia giovinetto i fulvi
Capei di Palla, liberi dall’elmo,
{p. 311}Coprir le rosee disarmate spalle ;
Senti l’aura celeste, e mirò l’onde
Lambire a gara della Diva il piede,
E spruzzar riverenti e paurose
La sudata cervice e il casto petto,
Che i lunghi crin discorrenti dal collo
Coprian, siccome li moveano l’ aure.
Ma né più salutò dalle natie
Cime eliconie il cocchio aureo del Sole,
Né per la coronea selva odorata
Guidò a’ ludi i garzoni, o alle carole
Le anfionie fanciulle ; ed insultanti,
Delle sue frecce immemori, le lepri
Gli trescavano attorno, e i capri e i cervi,
Che non più il dardo suo dritto fischiava ;
Però che la divina ira di Palla
Al cacciator col cenno onnipossente
Avvinse i lumi di perpetua notte.
Tal destino è ne’fati. Ah ! senza pianto
L’uomo non vede la beltà celeste.

E da questa favola può cavarne grande insegnamento chi audacemente presume investigare gli arcani che l’ uomo non potrà mai discuoprire.

662. Anfiarao era figlio d’Apollo (96) e d’Ipermestra (252), e fu celebre indovino al tempo della guerra di Tebe. Sapendo per sua propria scienza che in quella guerra avrebbe dovuto perire, si nascose per non andarvi ; ma Erifile sua moglie, sedotta dal donativo d’una collana, svelò a Polinice (505) il suo nascondiglio. Anfiarao costretto a partire vide avverarsi, nel tornar dalla spedizione, il funesto vaticinio, poichè Giove (63) per punirlo della sua presunzione lo fulminò, e la terra inghiottì lui ed il suo carro.

663. Dopo morte fu collocato fra gli Dei ; e gli Oropi, popolo dell’ Attica, gli alzarono un tempio, l’oracolo del quale diventò famoso quanto quello di Delfo. Per consultarlo bisognava purificarsi, astenersi dal cibo per ventiquattr’ ore e dal vino per tre giorni ; poi sacrificare un {p. 312}ariete, stenderne per terra la pelle, dormirvi sopra, e aspettare in sogno la risposta del Nume.

664. Calcante ebbe in dono da Apollo (96) la cognizion del presente, del passato e del futuro, e fu gran sacerdote e indovino dell’esercito greco nella guerra trojana. I capitani non facevano alcuna cosa di rilievo senza prima udire il suo parere ; e con Agamennone (527) e con Ulisse (568) concertava il senso degli oracoli. Voleva il fato ch’egli perisse dopo aver incontrato un indovino più abile di lui. Infatti morì di dolore nel bosco di Claro con sacrato ad Apollo, per non aver potuto indovinare gli enimmi propostigli da un altro indovino chiamato Mopso.

Le Sibille. §

665. Gli antichi chiamarono Sibille certe donne alle quali attribuivano la cognizione del futuro e il dono di predirlo. Questa parola che significa inspirato fu prima attribuita alla profetessa di Delfo, e poi diventò comune a tutte le donne che pronunziavano oracoli. Chi annovera tre, chi quattro, chi dieci Sibille, e le più famose furono quella d’Eritrea nell’Ionia, di Sardi, di Delfo, figliuola dell’indovino Tiresia (660), la Sibilla Libica figlia di Giove (63) e di Lamia, e quella di Cuma, Deifobe, che risiedeva in una città di quel nome in Italia, e fu la stessa che andò a presentare a Tarquinio il superbo i libri poetici, detti Sibillini. Altri attribuirono questo fatto alla Sibilla Demofila o Demo. Coperta di lungo velo si avanzò Demofila gravemente e con sicurezza verso il palazzo di Tarquinio, e chiese di parlargli. Giunta al suo cospetto, gli mostrò nove manoscritti, dicendo : « Principe, io voglio 300 monete d’oro per questi manoscritti che contengono i destini di Roma. » Tarquinio sorridendo non si degnò di rispondere ; ma Demofila, senza sconcertarsi, ne gettò tre alle fiamme, e ripetè la stessa dimanda per i sei rimastile. {p. 313}Tarquinio trattandola di stravagante era per farla cacciare dalla sua presenza, quand’ella ne bruciò altri tre, e gli offerse il rimanente al medesimo prezzo. Tarquinio maravigliato, consultò allora i grandi della sua corte, fece sborsare alla vecchia sibilla la richiesta somma, e acquistò gli oracoli.

666. I Romani consultavano nelle grandi calamità questi libri, i quali, essendo una raccolta delle predizioni delle Sibille, contenevano i destini dell’ impero romano, ed erano tenuti in custodia da quindici sacerdoti chiamati quindecemviri, col divielo, sotto pena di morte, di lasciarli {p. 314}vedere a chicchessia. Questa raccolta d’oracoli restò incenerita nell’ incendio del Campidoglio sotto la dittatura di Silla, e vi furono sostituiti altri libri composti dei versi sibillini che poterono essere raccolti in Italia, in Grecia ed in Asia ; ma non ebbero per la moltitudine la stessa autorità dei primi.

667. La più celebre tra le Sibille fu la Cumana che dicevano inspirata da Apollo (96), e rispondeva dal fondo di una caverna nel tempio di questo Dio. La caverna aveva cento sbocchi di dove uscivano altrettante voci tremende contenenti i responsi della profetessa. Questi responsi erano anco vergati sopra leggiere foglie che il vento portava per aria e confondeva insieme. Immagine efficacissima a significare la impostura degli oracoli. Eppure, gli uomini sempre ciechi vi prestavano fede ! Ivi erano religiosamente conservati i versi proferiti dalla Sibilla, e da ogni parte accorrevano gli uomini a consultarla, essendochè i suoi oracoli ottenevano venerazione presso i Romani come quelli di Delfo presso i Greci. Eleno dice ad Enea :

Giunto in Italia, allor che nella spiaggia
Sarai di Cuma, il sacro Averno lago
Visita, e quelle selve, e quella rupe,
Ove la vecchia vergine Sibilla
Profetizza ’l futuro, e ’n sulle foglie
Ripone i fati : in su le foglie, dico,
Scrive ciò che prevede, e nella grotta
Distese ed ordinate ove sian lette,
In disparte le lascia. Elle, serbando
L’ordine e i versi ad uopo de’mortali,
Parlan dell’ avvenire ; e quando aprendo
Talor la porta il vento le disturba,
E van per l’antro a volo, ella non prende
Più di ricorle e d’accozzarle affanno :
Onde molti delusi e sconsigliati
Tornan sovente, e mal di lei s’appagano.138
(Eneide, lib. III, Trad. del Caro.)

{p. 315}668. Questa Sibilla, nata a Cuma, aveva nome Deifobe o Erofila, ed era figliuola di Glauco (201) e sacerdotessa d’ Apollo. Si narra che questo Dio, rapito dalla sua bellezza, le offerisse d’accordarle ogni sua dimanda ; ed ella chiese di vivere tanti anni quanti chicchi di sabbia erano nella sua mano. Apollo vi acconsentì, e le concesse ancora di serbare per tutta la vita la freschezza della gioventù ; ma la figlia di Glauco ricusò questo dono, sicchè una malinconica e languida vecchiaja tenne dietro alla serenità dei primi anni. A tempo di Virgilio ne aveva già vissuti settecento, e per compiere il numero dei chicchi di sabbia le restava da vivere altri tre secoli. Dopo il qual tempo il suo corpo consumato dalla vecchiezza doveva struggersi a poco a poco, e di lei non restar che la voce, alla quale il destino aveva attribuito durata eterna. Quando Creso, prima di combattere Ciro, consultò la Sacerdotessa, n’ ebbe questa risposta : Creso, passando l’ Alcice, rovescerà un grande impero. Infatti, se questo re di Lidia avesse trionfato di Ciro, sarebbe stato distrutto l’impero dei Persiani ; e soccombendo egli stesso, la medesima sorte era serbata al suo. Quando la Pitia disse a Nerone : diffida dei settantatrè anni, egli credè di dover morire in quell’età {p. 316}avanzata ; ma non pensò al suo luogotenente Galba che aveva settantatrè anni, e che gli tolse lo scettro e la vita. Alessandro prima della sua spedizione nell’Asia andò a Delfo in uno dei mesi nei quali l’Oracolo non dava risposta. La Pitia non voleva salire sul tripode, e allegava la legge del divicto ; ma egli sdegnandosi della resistenza, la trasse a forza dalla sua cella, e la condusse nel Santuario, dov’ella disse : figlio mio, tu sei invincibile. Alessandro non volle altri oracoli, e andò a fare la conquista del mondo.

Giuochi pubblici, cerimonie religiose ec. §

669. I Giuochi pubblici tanto in Roma che in Grecia erano spettacoli consacrati dalla religione a qualche divinità, ed i popoli li celebravano in un circo od in uno stadio od in altri luoghi destinati a tale uso. Quindi non erano mai incominciati senza offrire sacrificj.

670. Quelli della Grecia, i più celebri di tutti, erano di quattro specie : Olimpici, sacri a Giove ; Pitii, ad Apollo : Nemei, ad Ercole ; ed Ismici a Nettuno. Nell’Attica poi usavano i giuochi Panatenei, Eleusinii, Erculei e Panellenii, oltre ai giuochi Olimpici di ordine inferiore a que’ d’ Elide. In Argo eranvi i giuochi Ecatombei in onore di Giunone. e il vincitore aveva uno scudo di bronzo ; in Arcadia si celebravano i Licei ; in Tebe gli Erculei o gli Iolai ec. Questi giuochi furono adottati dai Romani che ne istituirono parecchi altri, cioè, quelli di Cerere, i Floreali, i Megalesj. i Troiani e i Secolari. In Grecia poi, e specialmente in Elide, musica, poesia, pittura e storia patria, narrata al cospetto dell’intera nazione, e fatta solenne coi sentimenti {p. 317}religiosi, mantenevano mirabilmente nei greci petti l’amore della libertà e della gloria, e facevano di questi giuochi uno spettacolo veramente sublime ; al quale s’univa poi l’agilità della corsa a piedi, i pericoli di quella col celete o cavallo da sella e coi carri, il salto, il disco, la lotta ed il cesto. Una corona d’oleastro, che pe’ gloriosi valeva più d’un regno, era il premio ambito sopra ogni altra cosa dai re stessi e decretato così a loro, come all’ultimo cittadino che l’avesse saputo meritare. La famiglia, la patria stessa del vincitore diventavano celebri in tutta la Grecia ; ed egli, fregiato di una nobiltà meno vana di quella che vien dai natali, aveva monumenti ed immagini ; e se morte o sventura gl’ impediva di farsi sostegno ai vecchi genitori, la nazione tutta li accoglieva sotto la sua tutela ; ed anche senza tale estremo bisogno, la patria adottava i suoi figli e provvedeva alla loro educazione ed alla futura lor sorte. Indi era bello per le greche città l’esser liete di viventi cittadini, i quali e gloria e vite ed onore collocavano interamente nella patria, tutti a quella devoti e tutti pieni di quella ; e gli atleti, fintantochè l’esercizio ginnastico non divenne mestiero, non gradivano le proprie lodi, se non venivano a queste mescolate le lodi della città natia. Il XXIII canto d’Omero contiene una bella e compiuta descrizione dei primitivi giuochi dei Greci, celebrati da Achille alla memoria di Patroclo ; e Virgilio, nel libro V dell’ Eneide canta quelli co’ quali Enea onora l’ ombra del padre Anchise. Ma chi brama più ampie notizie dei certami propriamente detti d’ Olimpia, legga la bella descrizione che ne vien fatta da Barthelemy, nel viaggio d’Anacarsi, dove sono anche notati alcuni de’ più celebri tra gli olimpici eroi. Noi non faremo che citarne pochi esempi. E convien prima avvertire che sul principio fu rigorosamente vietato di pigliar parte in questi giuochi alle donne ; ma con l’andar del tempo alcune vi si recarono in abiti maschili, osarono di entrare in lizza e meritarono il premio. Allora andò {p. 318}in disuso la legge che ne le escludeva ; e troviamo che nella 25ª Olimpiade, Licisia figlia d’Archidamante principe di Macedonia trionfò nella corsa dei carri o delle bighe. Molte altre donne macedoni la imitarono, e furono anch’esse incoronate di mirto, di quercia o d’olivo. — Trasibulo, figlio di Senocrate d’Agrigento, avendo riportato il pitio trionfo col carro, volle che fosse pubblicato vincitore suo padre. Pindaro celebra con una bella ode139 questo tratto d’ amor filiale. — Diagora di Rodi che si era fatto illustre con una vittoria riportata ai giuochi Olimpici, condusse un giorno in Olimpia due suoi figliuoli, i quali concorsero, e meritarono la corona. Ma appena l’ebbero essi ricevuta, la posero sul capo del loro padre ; e prendendolo sulle spalle lo condussero in trionfo in mezzo agli innumerabili spettatori, che empivano l’aere d’applausi e gettavano fiori a piene mani su quel padre avventurato. — Dionigi tiranno di Siracusa voleva con l’oro indurre il padre di un vincitore olimpico a dichiararsi cittadino di Siracusa, perchè anche quella città partecipasse di tanta gloria ; ma il figlio, in cui l’ amor di patria era sprone al valore, spregiando i doni del tiranno, gridò che egli era di Mileto, e fece scolpire sotto la sua statua : Antipatro figliuolo di Clinopatro, Milesio, il primo fra gl’ Ionj ottenne la vittoria d’ Olimpia. — Teagene di Taso, piccola città presso Lacedemone, trionfò due volte ; e i concittadini gli alzarono una statua. Un invidioso andava ogni notte a schernirla e a frustarla ; sicchè alla fine una volta la statua gli cadde addosso e lo schiacciò. Ben 23 corone adornavano il crine di Alcimide di Egina, giovine lottatore. — Gli Atleti dotati di forza prodigiosa furono talora sedotti dalla presunzione, e ne pagarono il fio. Milone di Crotone nel Brutium (Abruzzi) superò tutti quelli del suo tempo. Era stato visto mettersi sulle spalle un toro di quattro anni, correr con esso lo stadio senza ripigliar fiato, ucciderlo con un pugno, e {p. 319}mangiarlo tutto in un giorno. Sia o no esagerata, questa prova dimostra che l’uso della forza era diventato ormai spettacolo brutale e mestiero, e che quei giuochi avevano cominciato ad allontanarsi dal primitivo lor fine. Milone era già vecchio ; aveva trionfato sei volte nei giuochi pitii e altrettante ad Olimpia ; passeggiando solo in un bosco remoto, scòrse un’albero spaccato dal vento. Rammentatosi dell’antica sua forza, volle finire di scoscenderlo ; ma il suo braccio non era più quello di prima. L’albero apertosi alla prima scossa, tosto si richiuse, nè l’atleta potè più cavarne le mani, e gli toccò ad esser pasto delle belve. — Polidamante, suo emulo ed amico, il quale da fanciullo, dicono, aveva soffocato un leoue mostruoso sul monte Olimpo, ed era capace in età più adulta di fermare con una mano un carro tirato da sci cavalli, banchettava un giorno in una grotta coi suoi amici, quando ne cominciò a franare la volta, ed i convitati scapparono ; ma egli, fidando nella sua forza, pretese di sostencre l’enorme peso, e dovè soccombere sotto la ruina. Questi giuochi dettero origine anche al seguente fatto, che può dare un cenno dei costumi e dell’indole dei Greci di quel tempo. « Un vecchio avvolontato di vedere i giuochi che si celebravano in Olimpia, non avea ove sedere, e qua e là scorrendo riceveva molte ingiurie ed oltraggi, e niuno lo volea ricevere. Arrivato che fu al luogo ove sedevano gli Spartani, tutti i giovinetti si rizzarono, e molti uomini fatti gli cedeano il luogo. Tutta l’assemblea con lieto scoppiettar di mano lodò questa buona speranza, ed il vecchio crollando la canuta chioma e la bianca barba, con le lagrime in su gli occhi così disse : Oh Dio ! come sono i costumi corrotti ! tutti i Greci conoscono il bene, e solo vi si appigliano i Lacedemoni. » Dicesi ancora che ciò avvenne in Atene nella festività solenne che essi appellavano Panatenea. « Sbeffavano gli Attici un vecchio, e come se lo volesser ricevere, lo chiamavano, e {p. 320}venuto che era lo scacciavano. Passato ch’e’ fu dinanzi a tutti gli altri, viene avanti a’ seggi dei Lacedemoni, i quali tutti rizzandosi in piè gli offeriscono luogo fraessi. Il popolo si compiacque di questo fatto, e lietamente romoreggiò con gran dimostranza di averlo approvato. Disse allora uno Spartano : Certo conoscono gli Ateniesi il bene, ma nol fanno. » (Adriani. Volgarizzamento di Plutarco.) Pindaro, maraviglioso poeta, celebrava con altissimo canto le glorie dei vincitori, e tutta Grecia ripeteva con ardore quei versi, tramandando d’età in età ai posteri i nomi dei celebrati. Nè solamente dispensava lode il grand’uomo, ma con belle massime rammentava non esser vera gloria senza la virtù per compagna ; doversi le forze, il valore spender tutto per il ben della patria ; ed esser veramente magnanimo colui che sa vincere le umane debolezze. Quindi crediamo opportuno riportare alcune delle sentenze sparse nelle Odi di Pindaro, e scelte nella traduzione del Borghi, le quali sentenze saranno intanto come una conclusione della morale che si può ricavare dai già dichiarati avvenimenti mitologici :

Folle chi spera d’adoprar celato
Al Dio che veglia intorno.
Il tempo a tutto è padre ;
Ma richiamar non può, se corser, l’opre
O deformi o leggiadre.
Ma co’ rischi un gran cor non si consiglia.
Perchè fra quelli cui morir conviene
Alcun trapassa i gelid’anni, e giace
In tenebrosa pace,
Né bella gloria di bell’opre ottiene ?
Ma ugual se il giorno ride,
Ugual se mancar suole
Ai figli di virtù risplende il Sole.
{p. 321}Degli amici all’udir l’inclite imprese
Meglio allegrar si suole
Qual alma eccelsa di virtù s’accese.
D’empia menzogna profanar non giova
Le generose lodi :
Nella stagion di faticosa prova
Lice gl’imbelli ravvisar dai prodi.
Talor, ben prima che l’età sia stanca,
Sulla fronte del prode il crine imbianca.
Nelle bell’opre alla virtù fan guerra
Perigliosa fatica e chiesto argento ;
Ma nella patria terra,
Se alcun s’allegra di beato evento,
Lui tien, lui saggio chiama
Fra i miglior cittadin pubblica fama.
Ma se non oro, non vigor ti manca,
Non lodati costumi,
Fuggi, o mortal, di pareggiarti ai Numi.
Nell’ Ocean, nel suolo,
Frutto d’onor non coglie
Virtù che rischio teme.
Ah ! che di folle errore
Anche il saggio talor giuoco divenne,
Se cieca rabbia si racchiuse in core !
Esperta mano insegna
La via d’onor più degna :
Ma stolto è ben colui,
Che ignora il calle, e vuol mostrarlo altrui.
Sol quella lode che spontanea muove
Quando l’avel ne prema,
Sol quella mostra chi quassu fu degno
Di storia o di poema.
Sé stesso il saggio moderar procuri,
Nemico al folle orgoglio,
E ognor pacato i suoi desir misuri.
{p. 322}Lieti favor non durano,
Benchè ad alcun ne mandi
Gran copia il ciel propizio.
Nullo a gran vanti ascende
Senza travagli.
E l’alma a cure più lodate inchina
Che non all’ôr ; ma come
Leva in alto i mortali aura divina,
Così destin severo
Al suol gli sbalza, e ne disperde il nome.
Nati, cader bisogna :
Che siam noi dunque o che non siam ? Leggiero
Veder d’ombra che sogna ;
Ma se mai sovruman raggio n’è dato
Dal fulminante padre,
Bello é l’uman fulgore, e il viver grato.
Spira intorno aura maledica
Contro i pallidi tiranni,
Né i tesori gli assicurano ;
Ma nascosto passa gli anni
Chi fortuna umil sorti.
Rattemprando i voti fervidi
A comun virtù m’appiglio,
E così d’atroce invidia
Mi ghermisce invan l’artiglio ;
Ella stessa è strazio a sè.
Chi verso un bene aspira
Che aver non può, delira.
Ma chi nell’arche tacite
Tesor raduna occulti, e altrui dileggia,
Non sa, che d’onor povero
Coll’avaro Pluton l’alma patteggia.

671. I giuochi Olimpici furono i più frequentati e i più celebri, e presero il nome dalla città d’ Olimpia nell’ Elide presso la quale si celebravano ; o piuttosto furono così detti, perchè sacri a Giove Olimpico. Pindaro in più {p. 323}luoghi e Strabone nel libro VIII, ne attribuiscono l’istituzione ad Ercole (364), il quale dopo aver debellato Augia (380) re d’ Elide, usò le ricche spoglie del tiranno e della sua città ad aprire questo pubblico esperimento di coraggio e di forza, secondo alcuni l’anno 884 av. G. C. Vi è ancora chi li crede istituiti da cinque fratelli chiamati Dattili, parola greca che significa dito, e indica il loro numero e la loro riunione ; ovvero da Pelope figlio di Tantalo ; e v’è memoria che anche Atreo gli istituisse verso l’anno 1250 avanti l’èra cristiana. Li celebravano ogni 5 anni, o, come altri dicono, ogni 50 mesi cominciando il 22 giugno o nel plenilunio d’ecatombeone, che risponde quasi al nostro luglio, e duravano cinque giorni. Da questi giuochi trassero origine le Olimpiadi, il più antico e più celebre sistema cronologico del quale si sieno valsi i Greci, e che fu adottato da molti scrittori latini per andar d’accordo con loro. Ogni Olimpiade formava un periodo di quattro anni e due mesi. Giusta i migliori critici la prima incominciò 776 anni av. G. C. quando Corebo vinse nella corsa, e continuarono in numero di 294 fino al principio del quinto secolo dell’èra cristiana.

672. I Giuochi Pitii che celebravansi ogni quattro anni nella città di Pitona appiè del monte Parnaso, o dalla città medesima o dal serpente Pitone, ucciso da Febo (99), più comunemente appellati si vogliono. Se ne attribuisce l’istituzione allo stesso Dio in memoria della vittoria riportata contro quel mostro, ed erano dai Greci tenuti in massimo pregio. Si dettero ai vincitori corone, prima di quercia, poi d’alloro o di palma ; nè vi mancarono premj di musica, di danza e di poesia. I Romani adottarono questi giuochi verso l’anno 130 avanti G. C., e li chiamarono Apollinari.

673. I Giuochi Nemei, già istituiti nella selva di Neme dai sette capitani a Tebe in memoria dell’ucciso Archemoro, furono ripristinati e consacrati a Giove da Ercole {p. 324}dopo la sua vittoria contro il famoso leone (370). Una corona d’apio premiava i vincitori ; e vi era usato ogni genere d’atletico esperimento, almeno all’età di Pindaro. Li celebravano ogni tre anni, e gli atleti erano sempre vestiti a lutto.

674. I Giuochi Ismici presero il nome dall’ismo di Corinto, ove con gran pompa erano solennizzati ogni cinque anni. Furono istituiti da Sisifo in onore di Melicerta, e poscia verso l’anno 1260 av. l’èra volgare ripristinati da Teseo (482) e consacrati a Nettuno (185). Ogni genere di atletico esercizio vi si tentava, come la corsa, il salto, il disco, la lotta e il pugillato ; e nella prima istituzione una corona d’apio cingeva le tempie dei vincitori. In tempo di questi giuochi il console Flaminio fece proclamare da un araldo la libertà della Grecia dopo aver vinto Filippo il Macedone, due secoli circa avanti G. C.

675. I principali giuochi di Roma erano di tre specie : La corsa fatta nel circo dedicato a Nettuno od al Sole (110) ; i combattimenti del disco, del pugillato e d’ogni altra sorta celebrati nell’ Anfiteatro sacro a Marte (255) e a Diana (137) ; e i giuochi scenici, consistenti nel rappresentare tragedie, commedie e satire in onor di Bacco, di Venere e d’ Apollo.140

Descrizione dei giuochi solenni usati dai Greci. §
La corsa a piedi. §

675, 2°. Fu primieramente proposta la corsa di mille passi, dal tempio di Minerva al Foro : alla quale distanza non {p. 325}poteva giungere un dardo, quantunque scoccato da robusto arciero. Si presentarono dieci cursori, vestiti in sajo succinto, con leggierissimi coturni, ed avvolti in largo manto. Si posero quindi in ordinanza a piè dell’atrio del tempio, donde era il principio dello stadio ; e, vicendevolmente guardandosi con emula curiosità, gettò ciascuno leggiadramente dagli omeri il manto, raccolto dai seguaci. Apparvero le persone loro snelle in quel leggiero vestimento ; e, senza ritardo, al primo cenno della già imboccata tromba, tutti in un tempo si slanciarono, mostrando, e nell’impeto della corsa e nell’avidità degli sguardi verso la meta, quel violento desiderio, ond’erano animati, della sperata vittoria. Erano già alquanto trascorsi in retta schiera, l’uno non superando l’altro di minimo spazio, quando quegli ch’era di mezzo crebbe il suo corso, ed avanzò alquanto. Gli altri, che erano a lato di lui, sforzaronsi parimenti di raggiungerlo, per modo che formossi la loro schiera simile a quella delle grui, che volano altissime ne’ tempi invernali, messaggiere delle caligini e delle nevi, per ignoto istinto, in ordine angolato. Rimasero per breve spazio in quella disposizione, quando colui che correva al destro lato di quello che tutti superava nel mezzo, fatto repentino impeto, trascorse avanti di lui. Risonò l’aria di lietissimi applausi ; dai quali punto, non meno che da desiderio della corona, colui che il primo essendo, era stato allora superato, radunando tutte le forze, si spinse, non che a corsa, a salti maravigliosi, e riapparve ben presto innanzi di tutti, siccome da prima, a sè di nuovo rivolgendo lo stridore degli applausi. Ma pure il vicino cursore, non deponendo la speranza di trascorrere di nuovo innanzi di quello, si slanciava anelando vicino in modo, che l’altro sentiva l’affannoso di lui respiro, onde, per tôrsi da tale molestia, trattenendosi all’improvviso, con mirabile arte stese il piede verso di lui ; il quale non potè evitare l’inciampo, e però cadde prostrato e {p. 326}deriso dalla moltitudine, mentre il vincitore seguitava la sua carriera fra gli applausi. Giunto solo alla meta, ne staccò la sospesa corona d’alloro, e se la pose in fronte, scotendo dai capelli la polvere, e tergendo il sudore. Gli altri tutti deviaron fuori dello stadio, come già inutile fatica il trascorrerlo più oltre.

La corsa de’ carri. §

Ma già nel medesimo luogo, donde erano partiti i cursori, apparivano, disposti a nuovo spettacolo, sei carri ; ciascuno dei quali aveva al timone, di fronte, quattro corsieri, che, anelando dalle allargate nari, scotevano la polvere con l’ugna e i crini del collo, altieramente nitrendo. Dentro i cocchi, alti in piedi, con le redini nella manca, e nella dritta sospeso il flagello in atto di percuotere, col viso rivolto al trombettiere, stanno i giovani, ansiosi che il magistrato dia il segno. Tiene imboccata la tromba alle labbra l’esperto sonatore, ed egli pure rimira aspettando il segno consueto. I sei giovani condottieri, in abito succinto, hanno sciolte all’aura molte bende, perchè, svolazzando, sia più grata la corsa e più festiva ; ma pure hanno il capo ricoperto di un elmo leggiero, a difesa delle tempie in una fortuita caduta. Ed ecco già suona la tromba ; al desiderato segno si lanciano i frementi destrieri, ed i giovani ad un tempo istesso allentano la briglia, animandoli colla voce e colla sferza, chini verso di loro alquanto, o per essere più facilmente intese le minacce, o per naturale ansietà che induce a quell’atto involontariamente i condottieri. Tutti a un tempo in quel modo si dipartirono, tacendo la moltitudine sospesa ; e solo udivasi il fischio de’ flagelli, lo stridore delle rote, e il fremer delle voci, insieme al calpestio delle ferrate ugne. Ma ben presto, al volger di tante rote e al battere di tante {p. 327}orme, la in prima serena aria offuscò tal nembo di arida polve, che, come la luna, tra le nubi, ora appare ed ora s’asconde, così ora un cocchio si mostrava, ed ora spariva nel turbine polveroso. Ma pure alla fine surse leggiero vento da un lato, e spinse la sollevata polvere nelle contraria parte ; d’onde non piccola molestia n’ebbero gli spettatori, costretti a ricoprirsi colle vesti il capo. Dall’altro lato comparivano intanto senza alcuno ingombro i sei carri ; e quegli astanti si compiacevano non solo di rimirarne a cielo sereno la corsa, ma deridevano ancora il tumulto dell’opposta moltitudine. Il vento però è detto giustamente infido e capriccioso da’ poeti, come quello ch’è autore delle subitanee procelle, e che converte la ingannevole calma in repentini pericoli. Ora nondimeno dimostrò una maravigliosa equità : perchè, subitamente variando, spinse da un lato all’altro la densa polvere, sollevando dalla molestia i derisi, e rendendo loro spettacolo di beffe gli stessi derisori.

Ma già un carro, i cui destrieri erano biondi con nere chiome, trascorreva gli altri di non breve spazio, ed il condottiere dimostrava la speranza della vittoria, rispondendo agli applausi, ch’empivano il cielo, collo scoppiare in larghi giri lo stridente flagello. Ecco però che, a turbare così liete lusinghe, si appressa un altro cocchio, i cui destrieri erano foschi come quelli di Pluto rapitore di Proserpina. A somiglianza di quelli, sembrava che loro uscissero le faville insieme coll’alito dalle polverose nari e dalla bocca spumante ; e, cogli occhi ardenti, correvano veloci come il vento e tumultuosi quanto il mare. Già la testa loro pareggia il centro delle rote di quel carro che precede ; il condottiero del quale, volgendosi alquanto a tal vista, esorta palpitando vie più i suoi, chiamandoli a nome. Ma essi, animati dal vicino calpestio degli emuli veloci, colle orecchie lese, ognor più rapido stendevano il corso : ed i seguaci non meno gareggiando, quel poco che rimanea {p. 328}d’intervallo trascorrendo come flutto spinto dal vento, giunsero a lato di quelli. Per qualche tratto di stadio corsero così, che le otto teste delle due quadrighe sembrava che fossero una schiera sola, appartenente ad un sol carro. Si calmarono gli applausi, rimanendo indecisa la vittoria.

Ma la fortuna decise spiacevolmente quella nobile contesa, invece del valore. Posciachè, avendo alla fine i foschi destrieri trascorso a segno, che la rota del cocchio loro corrispondeva ai cavalli dell’altro, avvenne che in quell’atto, infranto dal veloce impeto il ritegno della rota stessa, uscì, volgendosi ancora per l’impeto benchè fuori dell’asse. Al quale oggetto spaventati i biondi destrieri, cadde uno di loro ; e gli altri tutti, da lui repentinamente trattenuti, furono stesi sul terreno. Il condottiero traboccò sul timone : ed intanto l’altro cocchio pendeva da una parte, trascinando nella polvère l’asse privo di rota, mentre che il giovane giaceva supino, rimasto indietro nello stadio senza speranza di premio, benchè il vòto carro giugnesse alla meta. Gli altri quattro, che ad eguali distanze seguivansi, deviando l’inciampo di quello ch’era rimasto per via, incominciarono a gareggiare fra di loro, rianimando le speranze, e finalmente giunse prima alla meta la quadriga bianca sparsa di nere macchie, onde presentandosi il condottiero al dispensatore de’ premj, ebbe in dono un elmo ed un usbergo d’acciajo, ornato di argento, sul petto di cui si vedeva scolpita una quadriga in oro, col motto : « È felice ogni affanno per acquistare la gloria. » Gli altri tacitamente deviarono tutti, nascondendosi per vergogna ; ed i due caduti furono soccorsi da’ più prossimi spettatori.

La lotta. §

Ecco che immantinenti, in altra parte non molto distante dallo stadio, s’udivano risonare giulivi {p. 329}istrumenti, e richiamare la moltitudine a nuovo genere di spettacolo. Al qual segno trascorse l’avida turba verso il suono, come l’api quando il pastore le richiama battendo la caldaia. Si preparavano gli esercizj ginnastici nella palestra, in cui molti pugillatori apparvero, armati di cesti ; e molti vennero lieti e baldanzosi, che partirono sostenuti dalle braccia dei pietosi amici, col viso tinto di sangue. Non ancora appariva Faone,141 benchè in questi giochi celebrato, forse per eccitare maggior desiderio di sè : come infatti prorompeva la impazienza della moltitudine, chiamandolo più volte a nome. Quand’ecco si udì susurrare e crescere alla fine una voce d’applauso ; ed apparve nello steccato il così bramato garzone, con invidia de’ competitori, e con giubbilo della turba spettatrice. Egli aveva quel giorno scelto l’esercizio della lotta : e si mostrò nella palestra con leggiadro coturno involto al piede candido ed ignudo. Una cerulea veste lo ricopriva sino al ginocchio, annodata con fascia d’oro al petto. E poichè alquanto ristette, contemplando intorno la folla, in aspettazione di un competitore, ben presto apparve un atleta cretese, di smisurata grandezza ; il quale, a lui presentandosi, gettò con impeto un breve manto in cui era involto, e si mostrò ignudo, con una fascia ai lombi, secondo è costume. Erano fosche le membra di lui, come arse al raggio estivo in questi cimenti, e, lanuginose per virile robustezza, mostravano i turgidi muscoli in quel modo che gli scultori sogliono rappresentare Ercole. Faone, senza ritardo, gettò animosamente ad un suo satellite il succinto sajo, sciogliendone al petto il nodo della fascia, ed apparve nudo in tutto, fuorchè cinto dalla consueta zona atletica. Non erano così alte e smisurate le sue membra come quelle del competitore, ma formate con piacevole proporzione. Non appariva in lui l’azione de’ muscoli {p. 330}esternamente visibili, ma soltanto dubbiosamente adombrati. Spuntava lanugine delicata dalle guance, fresche come i fiori mattutini ; ed il colore di tutta la persona non potrebbe in altro modo esprimersi, che mescolando i gigli alle rose. Erano sospesi gli animi ; ma però tutti concordi nella propensione, perchè vinti dalla bellezza divina del giovine atleta, che desideravano ottenesse la corona, o almeno che uscisse illeso dal pericoloso cimento. Ed invero, considerando la mostruosa forza del competitore di lui a fronte di quelle membra così delicate, dovevano essere gli animi commossi da dubbio così pietoso.

Mentre gli spettatori erano perplessi in questi pensieri, quelli, attentamente guardandosi l’un l’altro, da prima alquanto discosti, e poi con lento e cauto passo inoltrandosi alla fine si slanciarono reciprocamente. Veniva il Cretese colle braccia aperte in atto non che di stringere ma d’ingojare il garzone ; il quale, deviando l’incontro, destramente inchinandosi, passò sotto il braccio di lui, e quindi, rivolgendosi rapidamente, lo prese di dietro ai fianchi. Quegli però, scotendosi con impeto, si disciolse ; perchè non ancora Faone aveva potuto adattare le mani, intrecciando le dita, per afferrarlo sicuramente. Stettero così alquanto di nuovo discosti, ed il Cretese fremeva nel vedersi, al principio del cimento, quasi sul punto di essere superato, parendogli piuttosto audacia che valore la competenza di così delicato garzone. Che se la vergogna del vano colpo non l’avesse animato a sdegno, forse avrebbe sentito pietà di lui. Ma reso crudele dall’ira, abbassato il capo, si abbandonò contro di quello, siccome un toro che assalta il bifolco. Fu veramente maravigliosa l’agilità di Faone ; perchè, giunta la testa dell’avversario chino e violento, quasi ad urtargli il petto, appoggiò su quella ambe le mani, ed allargando le gambe spiccò un salto, per cui rimase di nuovo a tergo del suo deluso competitore. Questi, feroce anzichè artifizioso, essendosi slanciato {p. 331}qual nave spinta nell’acque, poichè andò vano il violento impeto, privo di resistenza, cadde boccone, ed impresse nell’arena la propria immagine. Aspettò Faone che risurgesse l’avversario, secondo la giustizia delle leggi atletiche ; ed intanto gli spettatori, che taciti avevano trattenute le grida nel rimirare quel dubbioso incontro, proruppero in applausi ed in ismoderate risa, vedendo così sconciamente caduto il prepotente atleta, e rialzarsi poi col viso imbrattato di polvere. Ma quegli, oramai cieco, e per la rena entrata negli occhi, e per la brama di vendetta, mordendo le labbra, e con pupille ardenti, nondimeno cauto, e pronto alle sorprese, tornò alla tenzone, ed accostandosi entrambi, alla fine di slancio strettamente si abbracciarono. Stettero da prima alquanto immobili, aspettando ciascuno di loro qualche atto dell’avversario, da cui ritrarre vantaggio ; e quasi si combaciavano le vicine sembianze, offrendo agli occhi una piacevole differenza il volto del giovine cosi leggiadro, a canto del satirico e polveroso del contrario atleta. Quando costui, impaziente della vittoria, incominciò a scuotere il garzone, or da una parte or dall’altra agitandolo, per istenderlo al suolo. Ma egli, secondando agilmente gli urti violenti, reggeva sè stesso, come canna al vento, finchè gli si offerse l’opportunità d’introdurre la destra gamba, e con essa il sinistro di lui piede a sè traendo, e nel tempo istesso spingendogli il petto, lo costrinse a vacillare, ed alla fine a cadere. Pure egli rimase in piedi : perchè il cadente avversario, colla speranza di sostenersi, lo abbandonò.

Tutti acclamarono Faone vincitore : questi girò gli sguardi con nobile compiacenza della ottenuta gloria, vieppiù abbellendo le sembianze co’ raggi dell’interno giubbilo che vi trasparivano. Intanto l’umiliato Cretese si sollevò dall’arena, e ne parti fra le amare derisioni. Il vincitore, accompagnato dagli applausi delle fanciulle, che versavano su di lui copiosamente i fiori estivi, tra i balli e gl’inni, {p. 332}animati dal suono estivo di cetere o di sistri, s’inoltrò a traverso dell’arena ; passeggiando in attitudine trionfale all’alto seggio del giudice atletico, che pose la corona su le tempie di lui, ed aggiunse in premio un lucido elmo, da cui pendevano bianchissime chiome di destriero, e un ampio scudo, nel cui centro era incisa la torva Medusa.

Alessandro Verri.
Oreste ai giuochi olimpici. §
675, 3°. … Di Grecia all’adunanza illustre
Per li delfici ludi Oreste venne.
E là primiera ad alta voce udendo
Bandir la gara del pedestre corso,
Entrò splendido in lizza e maestoso,
Maraviglia di tutti ; e dell’arringo
Tosto adeguando alla sembianza il fine,
Il primo onor della vittoria ottenne. —
Poco a dirti per molto, io mai non vidi
Tanta d’uom lena, ed opre tali. Insomma
Di quante giostre in quel primiero giorno
Fur bandite e commesse, egli di tutte
Portò la palma, e proclamato sempre
Fu vincitor l’argivo Oreste, il figlio
D’ Agamennon già condottier de’ Greci.
Ma se un Dio ne persegue, invan sottrarsi
Tenta l’uom, benchè forte. Il di seguente,
Che al surgere del sole era il certame
Delle quadrighe, in campo anch’egli venne
Fra molti aunghi. Achivo l’un ; di Sparta
L’altro ; due Libj, ed ei venía per quinto
Con tessale puledre. Etolo il sesto,
Biondi corsieri aggiunti al carro avea ;
Il settimo Magnesio ; era Eniano,
Bianco il destrier, l’ottavo ; e della sacra
Atene il nono ; e di Beozia l’altro
Che li diece compiea. Gli arbitri eletti
Trasser le sorti, e in ordine di quelle
Postati i cocchi, a uno squillar di tromba
{p. 333}Sbucaron tutti, ai cavalli gridando,
E squassando le briglie. Empiè l’arena
Tosto un fragor di rumorose rote ;
Iva in alto la polve ; l’un con l’altro
Misti e confusi alla pungente sferza
Niun perdonava, onde l’un l’altro a prova
Oltrepassarsi. Ai precorrenti aurighi
Su le terga sbuffavano la spuma
I seguenti cavalli ; e sempre Oreste
Presso presso la meta ripiegava
Il fervid’asse rallentando al destro
Corsier la briglia, e rattenendo il manco.
E già incolumi tutti, aveano il sesto
Altri, e il settimo giro altri compiuto,
Quando i destrier dell’ Eniano indocili
Rivoltansi repente, e dan di fronte
Entro i cocchi barcei. L’un contro l’altro
Forte urtò, l’un su l’altro arrovesciossi,
E pien fu tosto d’equestri naufragi
Tutto il campo criseo. Questo veggendo
Il pro’ d’ Atene aurigator, le redini
Stringe ad un tratto, e da una parte sbalza,
Evitando de’ carri e de’ cavalli
La confusa burrasca. Ultimo Oreste
Segue, nel fin tutto fidando ; e, visto
Restar quel solo, un forte grido incute
Nell’orecchio a’destrieri ; e già l’aggiugne,
E già d’ambo le mute a paro a paro
Erano i gioghi, ed or questi ed or quegli
Sporgea più innanzi de’ corsier col capo.
Ma il misero garzon, ritto sul cocchio
Gli altri giri trascorsi, ecco la guida
Inavvedutamente rilasciando
Al corridor che per voltar piegava,
Forte diè nella meta ; entro le rote
L’asse spezzò ; precipitò dal carro ;
Fra le briglie s’avvolse, e per lo circo
Dileguaronsi rapidi i cavalli.
Mandâr le genti un doloroso grido,
Quando il vider caduto, e tanto strazio
Soffrir giovin si prode, orribilmente
Per terra strascinato, or alto or basso
Rotante i piè ; fin che gli aurighi a stento
{p. 334}Le furenti puledre rattenute,
Nel ritrassero pesto, insanguinato,
Tal che nessun più degli amici suoi
Ravvisar lo potea. Tosto arso a lui
Fu il rogo ; e chiuso il cenere infelice
Di si grande persona in piccol’urna
Qua recheran Focensi eletti, ond’egli
Abbia almen tomba nella patria terra.
Sofocle,
Trad. diF. Bellotti.
Segni dello zodiaco. §

676. Lo Zodiaco è quello spazio di cielo apparentemente percorso dal sole in un anno. Ma, per parlare con le teorie dell’astronomia, se si prendono nove gradi del cielo, tanto da una parte quanto dall’altra dell’eclittica,142 per quanto si stende la circonferenza di questa, ne nasce una zona o cintura o fascia, la quale fu chiamata zodiaco dalla voce greca zodion che significa piccolo animale : essendochè tra i nomi dei segni dello zodiaco vi sono quelli d’alcuni animali. Questa zona è divisa in dodici parti, ossia in dodici costellazioni o gruppi di stelle chiamati segni dello Zodiaco. L’origine di queste costellazioni è sepolta nelle tenebre del tempo. Si leggono nella Bibbia i nomi d’ Orione, delle Jadi, delle Plejadi, di Arturo ed altri ; ma pende questione tra’ dotti sul vero significato de’ vocaboli ebraici corrispondenti. Le dodici costellazioni dello Zodiaco sono senza dubbio le più antiche. Or chi ne attribuisce l’invenzione agli Egizj, chi a’ Caldei, chi agl’ Indiani e chi finalmente ad un altro popolo asiatico anteriore a questi, del quale siasi perduto perfino il nome. Ognuna delle costellazioni dello Zodiaco non resta veramente tutta {p. 335}intera dentro la larghezza di esso, ma questa fu limitata a 18 gradi con l’unico oggetto di circoscriver la zona celeste, dentro la quale s’aggirano tutti i pianeti. I nomi delle dodici costellazioni zodiacali, già conosciuti comunemente, sono i seguenti : l’ Ariete, il Toro, i Gemelli, il Cancro, il Leone, la Vergine, la Libra, lo Scorpione, il Sagittario, il Capricorno, l’ Aquario, i Pesci. L’uno vuole che questi nomi abbiano relazione alle faccende dell’agricoltura ed alla varietà delle stagioni ; l’altro li fa derivare dall’istoria ; chi dalla mitologia ; e chi, all’incontro, sostien che la favola non sia altro che un’allegoria perpetua delle leggi astronomiche. Noi, dovendo seguire le tradizioni mitologiche, diremo :

677. L’ Ariete è quel caprone del Vello d’oro (419) che fu immolato a Giove (63) e messo nel numero degli astri, ossivvero quello che indicò una sorgente a Bacco (146) allorchè questo Dio errava sitibondo nei deserti della Libia. Intanto il segno dell’ Ariete, condottiero del minuto bestiame, annunzierebbe lo spuntar dell’erba e l’uscita dei greggi ai pascoli, se le costellazioni fossero rimaste in perfetta corrispondenza coi segni che le rappresentano.

678. Vien dopo il Toro a significare non meno il vigore degli armenti che quello della vegetazione delle piante, ed è l’animale in cui si trasformò Giove per rapire Europa (483). Il Nume riconoscente lo pose tra le costellazioni ; ma v’è chi dice piuttosto essere la ninfa Io condotta in cielo da Giove, dopo che l’ebbe cangiata in giovenca (89).

679. I Gemelli, che ebbero un tempo figura di capretti, rappresentano la fecondità dei bestiami e degli alberi fruttiferi, e secondo la più comune opinione sono i due Tindaridi, cioè Castore e Polluce (441), nè manca chi li dichiari Apollo (96) ed Ercole (364).

680. Il Cancro, ossia gambero, esprime il ritrarsi che fa il sole dopo esser giunto alla maggiore altezza estiva. Ma la mitologia dice che fu quel gambero mandato da Giunone (85) contro Ercole, mentr’egli combatteva l’idra {p. 336}di Lerna (371). L’animale lo morse in un piede, ma Ercole lo uccise, e Giunone lo pose in cielo.

681. Ognun vede come dal Leone sia figurata la forza cocente de’ raggi solari ; e questo dicono fosse il leone della foresta Nemea (370) ucciso da Ercole.

682. La Vergine, la qual si dipinge con una spiga in mano, sta collocata framezzo alle ricolte maggiori, cioè tra le mèssi e le vendemmie : ed è quell’ Astrea (339) che fugata dalla terra pei delitti degli uomini, se ne ritornò in cielo.

683. La Libra o bilancia, chiarissimo emblema dell’eguaglianza tra i giorni e le notti, è la stessa Temi (337) dea della Giustizia.

684. Dallo Scorpione, animale velenoso, si vogliono denotare le malattie dell’ Autunno ; ed è quello stesso che fu mandato da Diana (137) a pungere il calcagno d’ Orione (618) per punirlo d’avere offeso la casta Dea.

685. Il Sagittario, finite le operazioni rurali, invita gli uomini all’occupazione della caccia, ed è sotto la figura di Centauro (430) in atto di scagliare una freccia ; lo che potrebbe anche denotare la violenza del freddo e la rapidità dei venti in quel tempo. Credesi che il Sagittario sia il Centauro Chirone (430) collocato fra gli astri.

686. Nel Capricorno s’intende che il sole, arrivato alla minore altezza vernale, cominci ad andar sempre in su come fa la capra Amaltea (29) nutrice del padre degli Dei.

687. Chi non dirà che l’ Aquario sia il simbolo delle pioggie ? e secondo la favola è Ganimede (87) rapito in cielo da Giove. Ci rammenteremo che questo giovine mesceva il nettare a’ Numi.

688. Finalmente dai Pesci sembra indicata la pesca, quale occupazione dei popoli agricoli nella stagion fredda, e secondo i Mitologi sono i Delfini che condussero Anfitrite (188) a Nettuno (185).

{p. 337}
Le stagioni. §

688, 2°. Anche le stagioni furono onorate con templi, statue ed are dai Greci e dai Romani. La Primavera ha per emblema un fanciullo coronato di fiori ed appoggiato ad un arboscello con le foglie che principiano a verdeggiare. Ha seco un agnello od accarezza una pecora. L’ Estate è coronata di spighe e quasi nuda ; ha in una mano una falcetta, e nell’altra un mazzo di spighe già legate. L’ Autunno ha in capo un paniere di frutti e nelle {p. 338}mani un grappolo d’uva matura. L’ Inverno tutto coperto di vesti, in mezzo a desolata campagna, raccoglie in un focolare pochi stecchi, e vi si scalda le mani ; ha accanto un paniere di frutta appassite.

Cerimonie funebri. §

689. Con grande solennità e con molta tenerezza onoravano gli antichi i defunti, sia nel collocarne sotto la terra le spoglie, sia nel celebrarne la memoria con annue feste. Era quest’uso grande argomento a condurre onesta e chiara la vita, era conforto ai vecchi, esempio utile ai giovani. Ma vi fu un tempo nel quale la depravazione dei costumi contaminò con vana pompa e con bugiarda ostentazione anche la cerimonia dei funerali. Peggio fu poi quando all’orgoglioso fasto successe l’indifferenza dei parenti. Allora la spoglia dei poveri fu gettata sotterra come quella dei bruti, e il compianto dei ricchi estinti fu misurato con l’oro. Divini sono i versi d’ Ugo Foscolo sui sepolcri, ed hanno maravigliosa possanza a rammentare la pietà pei defunti. Ei parla dell’uomo dopo la morte :

Non vive ei forse anche sotterra, quando
Gli sarà muta l’armonia del giorno,
Se può destarla con soavi cure
Nella mente de’ suoi ? Celeste è questa
Corrispondenza d’amorosi sensi,
Celeste dote è negli umani ; e spesso
Per lei si vive con l’amico estinto,
E l’estinto con noi, se pia la terra
Che lo raccolse infante e lo nutriva,
Nel suo grembo materno ultimo asilo
{p. 339}Porgendo, sacre le reliquie renda
Dall’insultar de’ nembi e dal profano
Piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
E di fiori odorata arbore amica
Le ceneri di molli ombre consoli.
………………..
Dal di che nozze e tribunali ed are
Diero all’umane belve esser pietose
Di sè stesse e d’altrui, toglieano i vivi
All’etere maligno ed alle fere
I miserandi avanzi che natura
Con veci eterne a sensi alti destina.
Testimonianza a’fasti eran le tombe,
Ed are ai figli ; e uscian quindi i responsi
De’domestici lari, e fu temuto
Sulla polve degli avi il giuramento :
Religion che con diversi riti
Le virtù patrie e la pietà congiunta
Tradussero per lungo ordine d’anni.
…………………..
……… Ma cipressi e cedri,
Di puri effluvi i zeffiri impregnando.
Perenne verde protendean su l’urne
Per memoria perenni ; e prezïosi
Vasi accogliean le lagrime votive.
Rapian gli amici una favilla al sole
A illuminar la sotterranea notte,
Perchè gli occhi dell’ uom cercan morendo
Il sole, e tutti l’ultimo sospiro
Mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
Amaranti educavano e viole
Sulla funebre zolla ; e chi sedea
A libar latte e a raccontar sue pene
Ai cari estinti, una fragranza intorno
Sentia qual d’aura de’ beati Elisi.

690. Molti hanno dottamente descritto le cerimonie funebri dei popoli antichi ; il Costume Antico e Moderno del Ferrario sodisfa in parte al bisogno degli artisti e degli studiosi ; ed è così divulgato che ci parrebbe inutile compendiarlo ; quindi ci limiteremo a indicare quei passi {p. 340}di Omero e di Virgilio che più d’ogni altra descrizione son per noi opportuni.

691. Tanta era la venerazione pei morti appo i Greci che in un duello anche i più acerbi nemici ponevano per prima condizione di rendere ai parenti il corpo del vinto perchè avesse onorata sepoltura. Così esclama Ettore in mezzo ai due eserciti combattenti nella guerra di Troja, e nell’invitare a singolar battaglia i nemici eroi :

Eccovi i patti del certame, e Giove
Testimonio ne sia. Se il mio nemico
M’ucciderà, dell’armi ei mi dispogli,
E le si porti : ma il mio corpo renda,
Onde i Trojani e le trojane spose
M’onorino del rogo. Ov’io lui spegna,
Ed Apollo la palma a me conceda,
Porteronne le tolte armi nel sacro
Ilio, e del Nume appenderolle al tempio :
Ma l’intatto cadavere alle navi
Vi sarà rimandato, onde d’esequie
L’orni l’achea pietade e di sepolcro
Su l’Ellesponto.
(Iliade, lib. VII, Traduz. del Monti.)

692. Patroclo, benchè morto in gnerra e fuor della patria, ebbe nel campo tutti gli onori funebri, ed inclusive i giuochi coi quali solevano celebrare la memoria degli eroi :

…………. Essi una pira
Cento piedi sublime in ogni lato
Innalzàr primamente, e sovra il sommo,
Di angoscia oppressi, collocàr l’estinto ;
Poi davanti alla pira una gran torma
Scuoiàr di pingui agnelle e di giovenchi,
E traendone l’adipe il Pelide
Copriane il morto dalla froute al piede,
E le scuoiate vittime d’intorno
Gli accumulò. D’accanto indi gli pose
Colle bocche sul feretro inchinate
Due di miele e d’unguento urne ricolme.
Precipitoso ei poscia e sospiroso
{p. 341}Sulla pira gettò quattro corsieri
D’alta cervice e due smembrati cani
Di nove che del sir nudria la mensa.
…………………
……. Destò del fuoco in quella
L’invitto spirto struggitor, che il tutto
Divorasse, e chiamò con dolorosi
Gridi l’amico : Addio, Patroclo, addio
Ne’regni anche di Pluto : Ecco adempite
Le mie promesse.
…………………
Ma del morto Patróclo il rogo ancora
Non avvampa. Allor prende altro consiglio
Il divo Achille. Trattosi in disparte,
Ai due venti Ponente e Tramontana
Supplicando, solenni ostie promette,
E in aurea coppa ad ambedue libando,
Di venirne li prega, e intorno al morto
Sì le fiamme animar, che in un momento
Lo si struggano tutto, esso e la pira.
…………………
………. E quei levârsi
Con immenso stridor, densate innanzi
A sè le nubi. Si sfrenâr soffiando
Sulla marina, sollevaro i flutti,
E di Troja arrivati alla pianura,
Ruinâr su la pira ; e strepitoso
Immane incendio si destò. Dai forti
Soffi agitata divampò sublime
Tutta notte la fiamma, e tutta notte
Il Pelide da vasto aureo cratére
Il vino attinse con tritonda coppa,
E spargendolo al suol devotamente,
N’irrigava la terra, e l’infelice
Ombra invocava dell’estinto amico.
Come un padre talor piange bruciando
L’ossa di un figlio che morì già sposo,
E morendo lasciò gli sventurati
Suoi genitori di cordoglio oppressi ;
Così dando alle fiamme il suo compagno,
Geme il Pelide, e crebri alti sospiri
Traendo, intorno al rogo si strascina.
Come poi nunzio della luce al mondo
{p. 342}Lucifero brillò, dopo cui stendo
Sul pelago l’Aurora il croceo velo,
Mori la vampa sul consunto rogo,
E per lo tracio mar, che rabbuffato
Muggia, tornaro alle lor case i venti.
Stanco allora il Pelide, e dalla pira
Scostatosi, sdraiossi, e dolce il sonno
L’occupò. Ma il tumulto e il calpestio
Dei capitani, ch’all’Atride in folla
Si raccogliean, destollo ; ei surse, e assiso
Così loro parlò : Supremo Atride,
E voi primati degli Achei, spegnete
Voi tutti or meco con purpureo vino
Di tutto il rogo in pria le bragie, e poscia
Raccogliam di Patroclo attentamente
Le sacrate ossa ; e scernerle fia lieve,
Imperocchè nel mezzo ei si giacea
Della catasta…………..
………. Indi d’opimo
Doppio zirbo ravvolte, in urna d’oro
Le riporremo, finchè venga il giorno
Ch’io pur di Pluto alla magion discenda.
Non vo’gli s’erga una superba tomba,
Ma modesta. Potrete ampia e sublime
Voi poscia alzarla, o duci achei, che vivi
Dopo me rimarrete a questa riva.
Del Pelide al comando obbedïente
Con larghi sprazzi di vermiglio bacco
Di tutto il rogo ei spensero alla prima
Le vive brage, e giù cadde profonda
La cenere. Adunàr quindi piangendo
Del mansueto eroe le candid’ossa ;
Le composer nell’urna avvolte in doppio
Adipe, e dentro il padiglion deposte,
Di sottil lino le coprir. Ciò fatto,
Disegnàr presti in tondo il monumento,
Ne gittaro d’intorno all’arsa pira
I fondamenti, v’ammassàr di sopra
Lo scavato terreno, e a fin condotta
La tomba, si partian. Ma li rattenne
Il Pelide, e li fatto in ampio agone
Il popolo seder, de’ludi i premi
Fe’dai legni recar ; tripodi e vasi
{p. 343}E destrieri e giumenti e generosi
Tauri e captive di gentil cintiglio,
E forbite armature.
(Op. cit., lib. XXIII.)

693. Nè meno solenni erano gli anniversarj, come rilevasi da quello che il pio Enea istituì per Anchise :

Generosi e magnanimi Trojani,
Degna prole di Dardano e del Cielo,
Questa è l’amica terra, ov’oggi é l’anno
Ch’a le sant’ossa del mio padre Anchise
Demmo requie e sepolcro, e i mesti altari
Gli consecrammo. Oggi è (s’io non m’inganno)
Quel sempre acerbo ed onorato giorno,
Ch’onorato ed acerbo mi fia sempre,
(Poichè si piacque a Dio) quantunque, ovunque,
Questo esiglio infelice mi trasporti ;
Pongami ne l’arene, e ne le secche
De la Getulia ; spingami a gli scogli
Del mar di Grecia ; ne la Grecia stessa
Mi chiugga, e dentro al cerchio di Micene ;
Ch’io l’arò sempre per solenne ; e voti
Farogli ogn’anno e sacrificj e ludi.
Or poichè da’ Celesti, oltre ogni avviso
Nostro, tra’nostri siamo in prova addotti
Per onorar le sue ceneri sante,
Onoriamle, adoriamle ; e dal suo Nume
Imploriamo devoti amici i venti,
E stabil seggio, ove gli s’erga un tempio.
In cui sian queste esequie e questi onori
Rinnovellati eternamente ogn’anno.
Due pingui buoi per ciascun nostro legno
Vi profferisce il buon troiano Aceste.
Voi d’Aceste e di Troja i patrj Numi
Ne convitate ; ed io quando l’aurora
Tranquillo e queto il nono giorno adduca,
A solenni spettacoli v’invito,
Di navi, di pedoni e di cavalli,
Al corso, alla palestra, al cesto, a l’arco.
Ognun vi si prepari : ognun ne speri
Degna del suo valor mercede e palma.
E voi datevi assenso, e tutti insieme
{p. 344}V’inghirlandate ; e ciò dicendo, il primo
Del suo mirto materno il crin si cinse.
Elimo lo segui, seguillo Alete ;
Un di verd’anni, e l’altro di maturi ;
Poscia il fanciullo Julo ; e dietro a loro
D’ogni età gli altri tutti. Enea disceso
Dal parlamento, in mezzo a quante intorno
Avea schiere di genti, umile e mesto
Al sepolcro d’Anchise appresentossi ;
E con rito solenne in terra sparte
Due gran coppe di vino e due di latte
E due di sangue, di purpurei fiori
Vi nevigò di sopra un nembo, e disse :
A voi sant’ossa, a voi ceneri amate
E famose e felici, anima ed ombra
Del padre mio, torno di nuovo indarno
Per onorarvi ; poichè Italia e ’l Tebro
(Se pur Tebro è per noi) ne si contende.
Or, quel ch’io posso, con devoto affetto
V’adoro e ’nchino come cosa santa.
Mentre cosi dicea, di sotto al cavo
De l’alto avello, un gran lubrico serpe
Uscío placidamente ; e sette volte
Con sette giri al tumulo s’avvolse.
Indi strisciando, in fra gli altari e i vasi
Le vivande lambendo, in dolce guisa
Con le cerulee sue squamose terga
Se’n gío divincolando, e quasi un Iri
A sole avverso scintillò dintorno
Mille varj color di luce e d’oro.
Stupissi Enea di cotal vista ; e l’angue
Di lungo tratto in fra le mense e l’are,
Ond’era uscito, alfin si ricondusse.
Rinnovellò gl’incominciati onori
Il frigio duce, del serpente incerto,
Se del loco era il genio, o pur del padre
Sergente o messo ; e com’era uso antico,
Cinque pecore elette e cinque porci,
Con cinque di morello il tergo aspersi
Grassi giovenchi anzi a la tomba uccise,
Nuove tazze versando, e novamente
Fin d’Acheronte richiamando il nome
E l’anima di Anchise. Indi i compagni,
{p. 345}Ciascun, secondo la sua possa, offrendo,
Lieti colmàr di doni i santi altari.
Altri di lor le vittime immolaro,
Altri cibo ne fero ; e tutti insieme
Su ’l verde prato a convivar si diero.
(Virgilio, Eneide, lib. V, Traduz. del Caro.)

694. Lo stesso Enea con non minor pompa compie i funerali di Miseno, araldo dell’esercito, e già compagno d’ Ettore :

Non s’intermise di Miseno intanto
Condur l’esequie al suo cenere estremo ;
E primamente la gran pira estrutta
Di pingui tede e di squarciati roveri
V’alzâr cataste ; di funeste frondi
D’atri cipressi ornâr la fronte e i lati,
E piantâr ne la cima armi e trofei.
Parte di loro al fuoco, e parte a l’acque,
E parte intorno al freddo corpo intenti
Chi lo spogliò, chi lo lavò, chi l’unse.
Poichè fu pianto, in una ricca bara
Lo collocaro, e di purpuree vesti,
De’suoi più noti e più graditi arnesi
Gli feron fregi e mostre e monti intorno.
Altri (pietoso e tristo ministero)
Il gran feretro a gli omeri addossârsi :
Altri, come è de’ più stretti congiunti
Antica usanza, vôlti i volti indietro
Tenner le faci, e dier foco alla pira ;
E gran copia d’incenso e di liquori
E di cibi e di vasi ancor con essi,
Siccome è l’uso antico, entro gittârvi.
Poichè cessâr le fiamme, e ’ncenerissi
Il rogo e il corpo, le reliquie e l’ossa
Furon da Corineo tra le faville
Ricerche e scelte, e di viu puro asperse ;
Poi di sua mano acconciamente in una
Di dorato metallo urna riposte.
Lo stesso Corinéo tre volte intorno
Con un rampollo di felice oliva
Spruzzando di chiar’onda i suoi compagni,
Li purgò tutti, e ’l vale ultimo disse.
{p. 346}Oltre a ciò fece Enea per suo sepolcro
Ergere un’alta e sontuosa mole,
E l’armi e ’l remo e la sonora tuba
Al monte appese, che d’Aerio il nome
Fino allor ebbe, ed or da lui nomato
Miseno è detto, e si dirà mai sempre.
(Op. cit., lib. VI.)

Divinità favolose d'altre nazioni. §

695. Sotto questo titolo comprendiamo le divinità favolose degli Egiziani, dei Babilonesi, Persiani, Indiani, Galli, Scandinavi e Americani.

Divinità Egiziane. §

696. Osiride era uno dei maggiori Dei degli Egiziani e il più generalmente adorato. Lo facevano discendere da Giove(63) e da Niobe(629), e, secondo alcuni, da Inaco re d’Argo (89) ; ed ebbe per sorella e compagna Iside, divinità egiziana, celebre quanto il fratello.

697. Questo Dio, che prima era re d’Argo, avendo lasciato i suoi stati al fratello Egialea, andò a stabilirsi in Egitto, ove regnò con Iside, adoperandosi ambedue a incivilire i loro sudditi, e ad insegnare l’agricoltura e varie altre arti necessarie alla vita. Quindi volle intraprendere la conquista dell’universo, e parti alla testa di un grand’esercito, lasciando Iside a governare i suoi stati per lui, e dandole Mercurio (160) per consigliere, Ercole (364) per generale, e per ministro Argo (89) suo fratello, il quale per sapere tutto ciò che accadeva, distribuì nelle principali città cento intendenti, chiamati poi gli occhi d’Argo. In {p. 347}poco tempo Osiride soggiogò un gran numero di nazioni, ma piuttosto con la dolcezza e con la persuasione, di quello che con le armi.

698. Nella sua assenza Tifone suo fratello aveva tentato d’usurpargli il trono. Osiride al ritorno s’adoperò invano a frenarne l’ambizione, e dovè perire vittima della di lui perfidia.

699. Tifone trovò tra gli stessi cortigiani beneficati da Osiride un numero di malcontenti indiscreti e desiderosi di mutar padrone, coi quali ordì una congiura, e, invitato Osiride ad un banchetto, gli fece da essi togliere a tradimento la vita e gettarne il corpo nel Nilo.

700. Iside, saputo il fine lacrimevole del fratello, fece di tutto per rintracciarne le spoglie, e potè trovarle a Biblos sulle coste della Fenicia, dove erano state trasportate dalle onde. Ella le riportò in Egitto, e fece costruire un magnifico monumento per tumularle.

701. Tifone era tutto intento ad assicurarsi il nuovo potere, allorchè Oro figlio d’ Osiride mise in piedi un esercito, lo battè e gli tolse il trono usurpato. Così Oro suecesse al padre, benchè dovesse poi soccombere per la prepotenza dei Titani (30) che lo sconfissero e l’uccisero ; ma Iside lo richiamò in vita, lo fece immortale, e gl’insegnò la medicina e l’arte di predire il futuro. V’è ragione di credere che l’ Oro degli Egiziani e l’Apollo (96) dei Greci fossero un solo e medesimo ente mitologico.

702. Gli Egiziani decretarono onori divini ad Osiride e ad Iside in memoria dei beneficj ricevutine ; e siccome per loro mezzo avevano imparato l’agricoltura, così stabilirono per simboli di queste divinità il bue e la vacca. Quindi fu divulgato che le anime d’ Osiride e d’Iside erano andate ad abitare il Sole e la Luna, e che s’erano immedesimate con quei benefici astri, dimodochè ebbero egual culto.

703. Il bue, simulacro vivente d’ Osiride perchè gli {p. 348}Egiziani credevano che la sua anima fosse andata in quell’animale (Metempsicosi 162 2°), era chiamato Api, e scelto di color nero, con in fronte una macchia bianca di forma quadra, una figura d’aquila sul dorso, e a destra un altro segno bianco a guisa di mezza-luna. Il volgo credeva che questi segni fossero naturali, ma i sacerdoti gl’ imprimevano segretamente sul corpo dell’ animale quando era lattante. Questo bue veniva nutrito per quaranta giorni a Nilopoli, e lo custodivano le donne che sole avevano il diritto di vederlo ; indi era condotto pel Nilo in una bellissima nave sino a Memfi, ed allo sbarco era accolto dai sacerdoti e da immensa folla di popolo. Condottolo nel santuario d’ Osiride, lo collocavano davanti a due stalle coperte d’oro, e secondo ch’egli entrava nell’una o nell’altra era buono o cattivo augurio per l’Egitto. Non usciva di lì che per pigliare aria sopra un prato, o per girar la città in certe occasioni ; ed allora procedeva in mezzo ad ufiziali che allontanavano la moltitudine, ed era preceduto da fanciulli che celebravano le sue lodi. — Secondo i libri sacri degli Egiziani Api doveva vivere un certo numero d’anni, dopo i quali i sacerdoti lo conducevano sulle sponde del Nilo, e con solennissima cerimonia e coi segni di profondo rispetto vel sommergevano Indi ne imbalsamavano il corpo, gli facevano magnifici funerali, e poi il popolo si dava alla disperazione come se avesse perduto Osiride ; e il lutto durava finchè non fosse piaciuto ai sacerdoti di dargli un successore. Allora tornavano in tutti la gioia e l’allegrezza come se Osiride fosse resuscitato ; e le pubbliche feste duravano sette giorni. Gli Egiziani consultavano il bue Api a guisa d’oracolo ; la risposta era favorevole quando accettava le offerte ; ma suo rifiutarle passava per cattivo augurio. Talora lo consultavano accostando un orecchio alla sua gola, e poi uscivan dal tempio chiudendosi le orecchie con ambe le mani ; quand’erano fuori del santuario le riaprivano, e la {p. 349}prima parola che udivano, era presa per la risposta del Nume.

704. Anche gli Egiziani istituirono annue feste in onore d’Osiride e d’Iside, nelle quali la cerimonia principale era l’apparizione del bue Api. La festa d’Iside143 era celebrata nell’anniversario dell’epoca nella quale essa aveva pianto la morte del fratello. Appunto allora le acque del Nilo cominciavano a crescere ; e gli Egiziani dicevano per figura che l’inondazione di quel fiume fosse cagionata dalle lagrime d’Iside, e non già dalle lunghe piogge dell’Etiopia.

705. Osiride ha in capo una specie di mitra, dalla quale spuntano due corna ; nella sinistra un bastone a guisa di pastorale, e nella destra uno staffile a tre corde per indicare ch’egli è anche onorato come il sole, al quale è attribuito quell’istrumento per isferzare i cavalli attaccati al suo carro. Talora comparisce in figura d’uomo con la testa di sparviero, perchè quest’uccello, emblema del sole, ha la vista acuta e rapido il volo. A Osiride viene aggiunto un figliuolo chiamato Anubi, il Mercurio degli Egiziani ; ma la sua origine è incerta come quella degli altri Dei principali di quel popolo. Questo Anubi è rappresentato in un uomo con la testa di cane, vestito di corazza, col caduceo in una mano ed il sistro nell’altra. Il suo culto fu sempre associato a quello d’Iside e d’ Osiride. Anche Serapide è una delle principali divinità egiziane, ed aveva un magnifico tempio a Memfi, uno ad Alessandria ed un terzo a Canopo ; ma i più credono che sia la stessa cosa che Osiride. Erodoto non ne parla, e Apollodoro dà questo stesso nome al bue Api. L’imperatore Antonino Pio introdusse in Roma il culto di Serapide l’anno 146 dell’èra cristiana ; ma il Senato lo abolì per la troppa licenza delle sue feste.

706. Iside, distinta col nome di Madre di lutte le cose {p. 350}e di Dea universale, spesso è rappresentata in sembianza di donna con le corna di vacca, simbolo delle fasi lunari, ed un sistro nella diritta mano ed un vaso nella sinistra, il primo per indicare il perpetuo movimento della natura, il secondo la fecondità del Nilo. Talora ha in capo un velo svolazzante ; il globo della terra sotto i piedi, e la testa coronata di torri come quella di Cibele. In alcuni monumenti la si vede ancora con le ali, con la faretra a tergo, un corno dell’abbondanza nella sinistra, e nella destra un piccolo trono con sopra il berretto e lo scettro d’ Osiride ; anch’essa ha i leoni a’piedi. Alcuni di questi attributi fanno supporte infatti che gli antichi la confondessero con Cerere (51) o con Cibele. In certe medaglie antichissime ha in mano una nave per denotare i servigi da lei resi alla navigazione, essendochè le fu attribuita anche l’invenzione della vela. Ogni anno nella primavera gli Egiziani le dedicavano, come a regina dei mari, una bella nave costruita apposta ; e sulla vela erano scritti a grandi lettere i voti del popolo per ottener da lei felice navigazione. I sacerdoti d’Iside, detti Isiadi, viveano celibi e poveri ; si radevano il capo, non mangiavano carne di maiale nè carne salata, si coprivano con lunghe vesti di lino, camminavano a piedi nudi o con sandali di scorza d’albero ; recavano una bisaccia sulle spalle ed un campanello in mano. Ogni mattina cantavano prima di tutto le lodi d’Iside, e poi andavano attorno a chiedere l’elemosina, e non tornavano al tempio altro che la sera per ivi adorare in piedi la statua d’Iside.

707. Il culto d’Iside si diffuse presto in Grecia, in Italia e fin nelle Gallie e nelle estreme parti della Germania, ove era adorata sotto lo stesso nome. A Roma le feste d’Iside erano accompagnate da tali disordini che furono vietate 60 anni avanti l’èra volgare. Ma dopo due secoli e mezzo, Commodo imperatore le ristabilì quasi per denotare come sotto i governi dispotici non importi aver {p. 351}cura dell’illibatezza dei costumi. Alcuni dotti credono che da Iside venisse il nome alla città di Parigi (Parisiis) che supponesi fabbricata vicino ad un tempio d’Iside : para Isidos. Vero è poi che questa divinità era considerata qual protettrice di Parigi. Quei popoli credevano ch’ella fosse giunta fra loro sopra una nave, ed alcuni scrittori danno questa origine alla nave disegnata nell’arme della detta città.

708. Gli Egiziani accordarono onori divini non solamente al bue Api (703), ma anche a varii altri animali, cioè, il cane, il gatto, il coccodrillo ec. ; e l’uccidere, benchè involontariamente, un animale sacro, era delitto punito di morte.

709. Ma in questo culto degli animali non seguivano tutti lo stesso uso. Dove era adorato il coccodrillo e dove l’icneumone nemico del coccodrillo ; in un luogo il montone, in un altro la capra. Quindi nascevano odii e dispute religiose.

710. L’origine di questo culto, secondo la favola, nasce dai tempi nei quali gli Dei perseguitati dai Titani, si rifugiarono nell’Egitto, e vi si nascosero sotto le forme di varii animali (67). Così gli Egiziani credevano di onorare le divinità che s’erano celate sotto quelle spoglie.

Divinità dei babilonesi e dei persiani. §

711. La maggior deità dei Babilonesi era Belo considerato come il sole o come la natura fecondata da questo astro benefico ; e il tempio che eragli stato eretto in Babilonia vinceva ogni magnificenza. Taluni credono che fosse la famosa torre di Babele.

712. I Caldei erano i sacerdoti dei Babilonesi ; e siccome osservavano continuamente gli astri sotto un bel cielo, così ne impararono a conoscere la posizione ed i movimenti, e divennero astronomi ; ma resero falsa ed assurda {p. 352}la loro scienza pretendendo d’indovinare il futuro mediante l’osservazione delle stelle ; ed è forse questa l’origine dell’astrologia giudiciaria.

713. I Persiani conoscevano l’unità di Dio. Il Sole che veniva da loro adorato sotto il nome di Mitra, e il fuoco sacro del quale tenevano religiosa custodia, non erano altro che simboli della divina potenza. Non ebbero nè templi nè simulacri.

714. I loro sacerdoti, chiamati Magi, erano venerabili per virtù e per sapere ; e da Zoroastro antico legislatore dei Persiani avevano ricavato la dottrina dei due principii con la quale spiegavano l’origine del bene e del male.

715. Il principio o genio buono, Oromaze, era l’essere supremo, origine d’ogni bene ; ed il cattivo principio, detto Arimane, passava per l’autore di tutto il male. Il primo era rappresentato dalla luce e l’altro dalle tenebre, loro emblemi naturali.

Divinità Indiane. §

716. La riunione dei tre poteri, ossia la trinità degl’Indiani, è composta di Brama, di Siva e di Visnù. Il primo è il potere creatore, il secondo il potere distruttore, e terzo il potere conservatore. Queste divinità sono adorate in figure umane di tre teste, chiamate Trimurti.

Brama. §

717. Gl’Indiani suppongono che il moto delle acque producesse un uovo d’oro, splendido quanto mille soli, nel quale nacque Brama padre di tutti gli esseri.

718. Questo Dio dopo aver soggiornato nell’uovo per un gran numero d’anni, scompartì la sua stanza in due parti eguali, di cui formò il cielo e la terra. Brama governò l’India con molta sapienza, e vi dettò leggi che sono sempre in vigore.

{p. 353}719. Una di queste leggi ordina agl’Indiani di nutrirsi di sole frutta, e d’astenersi dall’uccidere enti animati ; poichè, secondo la dottrina della metempsicosi da lui professata, le anime degli uomini passavano nei corpi dei bruti.

720. Gl’Indiani rappresentano Brama con quattro braccia e con quattro teste. Ha in una mano un circolo, emblema dell’immortalità, in un’altra il fuoco, segno di forza ; e con le due rimanenti scrive sopra certe olles o libri indiani, simboli del potere legislativo.

Siva. §

721. Questo Dio è tenuto per la stessa divinità che distrugge o muta le forme. È dipinto con tre occhi, e perciò talvolta è chiamato Triloco.

Visnù. §

722. Questo Dio è celebre in specie per le sue nove metamorfosi, la storia delle quali è piena d’assurdità e di stravaganze. Gl’Indiani sostengono che sotto il velame di questi racconti stieno riposti profondi misteri che essi non vogliono svelare ai profani. Ecco due di tali metamorfosi.

723. La terra, spossata dal peso della montagna Merupatu, era in pericolo di sprofondarsi nell’abisso, quando Visnù, trasformato in testuggine, fu in tempo a sottentrare alla montagna e dare un po’di riposo alla terra.

724. Un gigante, per nome Paladas, aveasi presa la terra e recatala fino nel profondo dell’inferno ; ma Visnù trasformato in maiale vinse il gigante ; riportò la terra sopra il suo grifo, e la collocò nel primiero suo posto. Le altre metamorfosi di questo Dio son dello stesso tenore.

725. Gl’Indiani credono di più che Visnù debba subire una decima trasformazione, nella quale piglierà la forma di un cavallo bianco alato. Questo Pegaseo indiano {p. 354}starà lungo tempo ritto sopra tre piedi, tenendo sempre alzato il quarto. Quando lo poserà sulla terra, la farà sprofondare nell’abisso, ed il mondo verrà distrutto. Aspettando il tempo di quest’ultima metamorfosi, Visnù dorme intanto tranquillamente in un mare di latte, e sta sdraiato sopra un serpe con cinque teste.

Divinità galliche. §

726. Tra gli Dei, che i Galli onoravano di parzial culto, i più celebri erano Teutatète, Eso e Tanarete.

727. Teutatète era il supremo Dio dei Galli, i quali riconoscevano in esso il principio attivo, l’anima del mondo ; e le sue cerimonie erano celebrate al lume di luna od alla luce di grandi fiaccole in luoghi elevati od in folti boschi.

728. Lo adoravano sotto emblemi diversi, cioè, sotto la figura d’una querce quando lo scongiuravano a comunicare la sua sapienza alle assemblee del popolo ; e sotto quella di un giavellotto se imploravano le vittorie.

729. Immolavano a questo Dio cani e cavalli, ed in tempi calamitosi anche vittime umane.

730. Eso, divinità di gran conto pei Galli, presiedeva alla guerra, ed era rappresentato semi-nudo, armato di scure, in atto di vibrar colpi.

731. I Galli nella loro barbara ferocia credevano rendersi favorevole questo Nume con ogni sorta di vittime, ed il suo culto fu il più scellerato e il più sanguinoso.

732. Benchè Tanarete avesse il dominio delle cose celesti, tuttavia non era pei Galli il padre dei Numi ; anzi veniva terzo nella gerarchia delle loro divinità ; ma gl’immolavano vittime egualmente che agli altri.

733. I Galli adoravano anche un gran numero di Dei tolti dai Greci, vale a dire Mercurio (160), Minerva (262), {p. 355}Apollo (96), ec. ai quali assegnavano altri nomi ; serbando loro gli stessi attributi. Quindi è facile riconoscere in Tanarete ed in Eso gli Dei adorati dai Greci sotto i nomi di Giove e di Marte.

734. I Galli si vantavano discendenti di Plutone (213), e per questa credenza misuravano il tempo non a giorni, ma a notti.

735. Dopo le divinità la querce era il primario oggetto della venerazione dei Galli. Era essa il loro tempio, ed anche lo stesso Nume, poichè, come dicemmo parlando di Teutatète, la statua del loro supremo Dio era un’altissima querce. Fu pur sacro per essi il vischio, pianta parasita che rampica sulla querce, ed ogni anno i loro Druidi o sacerdoti andavano a raccorla con gran pompa. Il capo dei Druidi, al cospetto del popolo, saliva sull’albero, e segava con una falcetta d’oro quel vischio, il quale pel capo d’anno era distribuito al popolo qual cosa santa e quale indizio di buon augurio.

736. I Druidi non erano solamente ministri di religione, ma tenevano anche le redini del governo temporale, formando una corporazione numerosa e prepotente, padrona assoluta delle Gallie.

737. Le mogli dei Druidi si davano cura più specialmente dei sacrificii e delle altre cerimonie della religione, ed avevano fama di predire il futuro. Quindi i divoti le consultavano quali profetesse, ed i loro oracoli passavano per infallibili.

738. Il campo dove era stata celebrata qualche cerimonia religiosa diveniva sacro, ed era profanazione il lavorarne la terra. Quindi per impedire che anche a’tempi lontani quei campi servissero a qualche uso profano, solevano ricoprirli di pietre enormi. Tale dicono esser l’origine dei monti di pietre che ancora sussistono in certi luoghi della Francia, e specialmente vicino a Carnac in Bretagna.

{p. 356}

Divinità scandinave. §

739. Odino, conquistatore e legislatore del Nord, fu il primo ed il più antico Nume della Scandinavia, ossia di quella porzione d’Europa che comprende la Danimarca, la Svezia e la Norvegia. Fu chiamato Padre universale, perchè padre degli Dei e degli uomini al pari del Giove dei Greci. Ebbe anche il nome di Padre delle battaglie, {p. 357}perchè adottava per suoi figliuoli tutti coloro che rimanevano uccisi combattendo ; e così fu preso anche pel Marte degli Scandinavi.

740. Nei primi tempi quei popoli offerivano a questo Dio le primizie dei frutti della terra ; indi cominciarono a sacrificargli vittime viventi, e talora gli offersero in olocausto i re malvagi. Dall’ispezione delle vittime presagivano i sacerdoti il buono od il cattivo esito delle imprese.

741. Odino aveva in Upsal un magnifico tempio col tetto contornato da una catena d’oro ; e un altro gliene fu eretto in Islanda, ove i sacerdoti solevano aspergere i divoti col sangue delle vittime.

742. Due corvi erano sempre appollaiati sulle spalle d’Odino per dirgli all’orecchio quanto avevano udito o visto di nuovo nel mondo. Odino li mandava ogni giorno a raccoglier notizie, e ritornavano la sera all’ora di cena dopo aver girato tutta la terra. Ecco perchè quel potentissimo Dio sapeva un visibilio di cose, ed era chiamato per antonomasia il Dio dei Corvi !

743. Genii. Fra questi, tutti quasi di sesso femminile, prima è Gna messaggera di Freya, figlia di Odino o la Terra, che la spedisce nei mondi per eseguir commissioni, con un cavallo che corre per l’aria attraverso al fuoco. Vengono poscia le Walchirie che nel Valhalla (paradiso delle divinità scandinave) versano da bere birra e idromele agli eroi, e che da Odino son mandate nelle battaglie per fissar quelli che vi debbon perire. Segue Yduna custode dei pomi mangiati dagli Dei a preservativo dalla vecchiezza. Fra i men noti di sesso maschile si notano Balder potente figlio di Odino, Niord, equivalente all’Eolo de’Greci, e il lupo Fenris, figlio di Loke genio del male, e fratello di Hela, la morte.

{p. 358}

Divinità americane. §

744. Molte sono le mitologie americane : le più varie tra esse la peruviana, la messicana, e la canadiese. Di ognuna ecco pochi cenni.

Divinità Peruviane. — I Peruviani riconoscono per Dio supremo Pasciacamac o anima del mondo. Da lui, essi dicono, l’universo ebbe vita, da lui si conserva. Ma come ei non l’hanno veduto mai, lo riguardano qual Dio sconosciuto. Per ordine suo venne dal settentrione un uomo straordinario chiamato Scioun che avea corpo senz’ossa e senza muscoli : al suo passare si abbassavan le montagne, colmavansi le valli, e se gli apriva una via per luoghi inaccessibili. Da lui furon creati i primi abitanti, che qual Dio lo adorarono fino alla venuta di Pasciacamac che più potente mutò in belve gli uomini da Scioun creati, e ne creò di nuovi.

Adoravano il Sole quale rappresentante di Dio, e gli davano per moglie e sorella la Luna, dai quali fu generato Manco-Capac, Dio più volgarmente noto, e gl’Incas loro dinastia reale. A Pasciacamac opponevano Cupac, ed allorchè eran costretti a nominarlo, sputavano in terra per dimostrar l’orrore svegliato da quest’essere malvagio.

Conoscevano anche i buoni Genii che chiamavan Huecas, e come tali tenevano la Luna, le Pleiadi, l’arco baleno, le stelle, il tuono ed i lampi.

Offrivano al Sole piccole immagini di uomini, d’uccelli e di quadrupedi in oro, argento e legno ; inoltre grano e frutti.

Messicane. — I Messicani veneravano Vitzliputzli come sovrano signore di tutte le cose, e dopo lui riguardavano il Sole come massimo degli Dei. Adoravano pure un Dio delle ricchezze sotto l’immagine di uomo colla testa di {p. 359}uccello, con in capo una mitra di carta dipinta. Un altro dei loro idoli era composto di tutti i semi della terra impastati col sangue di molti fanciulli ai quali si era strappato il cuore.

Il culto di queste divinità consisteva principalmente nel sacrificare ad essi creature umane. Le vittime condotte a piè dell’altare aspettando il momento fatale, rimiravano i teschi di chi le avea precedute, ed un sacerdote, tenendo in mano l’idolo anzidetto, lo presentava loro dicendo : Ecco il vostro Dio.

Canadiesi. — I Canadiesi credono un Dio in quattro persone, Padre, Figlio, la Madre e il Sole. Il padre, detto anche Grande Spirito e Kici-Manitù, è il principio del bene ; la Madre lo è del male. Creato l’universo, il Grande Spirito prese certo numero di frecce e piantatele in terra, trasse da questo germe l’uomo e la donna. Riconoscono essi pure dei cattivi Genii cui consacrano le ossa degli animali che hanno mangiato.

Il loro principal sacrifizio consiste nell’offrire agli Dei, per bruciarle poscia, le merci di cui trafficano cogli Europei, ed il sacrifizio giunge talvolta fino a cinquantamila scudi, e la cerimonia viene accompagnata da danze.

[n.p.]

Appendice. §

Folli Dei sull’Olimpo sedenti
Più la terra ricompra non sogna,
E l’oscena vetusta menzogna
Vuota suona, e concetto non ha.
L. Carrea.
La Poesia dei secoli cristiani.

745. Tale è in succinto la istoria degli errori della idolatria appo i popoli più noti dell’antichità ; istoria vie più tenebrosa per la lontananza dei tempi ai quali appartiene. Intanto questi errori dominarono per molti secoli sopra la faccia della terra, e contaminarono le menti di popoli che pur giunsero ad avere splendida civiltà ; laonde non breve fu la lotta che la verità del Cristianesimo dovè sostenere contro di essi. E appunto per dare un’idea di questa lotta, per far conoscere ai giovani studiosi questa importantissima epoca di transizione tra il Paganesimo ed il Cristianesimo, per somministrare ad essi maggior copia di argomenti a meditare su questo gran fatto, abbiamo, in questa seconda edizione, aggiunto anche, a guisa d’appendice, i seguenti discorsi cavati dalle opere di chiari scrittori. Così lo studio stesso dell’antica Mitologia non sarà sterile di morali e civili insegnamenti.

Il politeismo del primo secolo dell’era cristiana. §

746. Quando la luce del Cristianesimo spuntò nell’Asia, i Romani, ch’erano divenuti il popolo dominatore dell’universo, già da lungo tempo vedevano svanire le {p. 362}antiche loro credenze. Il Paganesimo s’era infiacchito a tal segno, che, cessata la fede ne’falsi Iddii, omai per tutto si dubitava persino dell’esistenza d’una natura divina.

Cotesta rivoluzione fu da principio lenta e quasi impercettibile. I dogmi religiosi erano in Roma rafforzati dalla politica, tenuti in pregio come la patria, e osservati come leggi tutelari dello Stato. Il commercio co’Greci tutto cangiò : essi recarono in Roma i loro sistemi di filosofia liberi e svariati ; ed i poeti latini ben presto si fecer lecite strane libertà ne’rozzi lor versi ; Lucillo e Lucrezio si beffarono degli Dei di Roma, e de’ Romani che inchinavansi ai vani simulacri immaginati da Numa, paragonando il loro religioso terrore a quel de’fanciulletti, i quali prendono per uomini vivi tutte le statue che lor vien fatto di vedere. Così crollava l’idolatria dei Romani a misura ch’essi uscivano dalla loro primiera ignoranza ; e cadevano in dispregio quelle divinità fantastiche e capricciose, che agli occhi del politeista popolavano l’universo come altrettanti genj del male coi quali tregua non v’era mai ; e che senza posa prendevansi giuoco della sorte e della vita degli uomini.

Nulladimeno pare che l’Epicureismo,144 speculazione oziosa della Grecia, accolta dalla malefica attività de’Romani, fomentasse tutti i vizj degli oppressori del mondo. Nelle scuole di Atene o di Corinto, un filosofo epicureo, un cinico, un peripatetico disputava ingegnosamente sul vizio, sulla virtù, sull’anima, sugli Dei ; ma tutto ciò non altro era che spiritosa lizza d’ingegno. Ma i patrizj di Roma, sfrenati così nei loro vizj come nel loro potere, trovando la dottrina d’Epicuro tra l’arti della Grecia, ne attinsero un raffinamento di corruzione, di lusso e di crudeltà.

{p. 363}Anche i più insigni personaggi che fecero sì splendido il tramonto di Roma repubblicana, come a dire Cicerone, Cesare, Varrone, Orazio, Augusto e Catone medesimo, per non parlare di molti altri insigni o nell’armi o nelle lettere o nelle magistrature, non aveano più fede nessuna in quella moltitudine d’Iddii a cui il popolo bruciava ancora gl’incensi ; e la religione della classe più illuminata e più potente di Roma non era altro che un brutale epicureismo. Cicerone nel suo libro Sulla natura degli Dei lasciò scritto : « La superstizione sparsa tra i popoli ha oppresso quasi tutte l’anime, ed ha signoreggiato la debolezza umana. Noi siamo convinti, che avremmo fatto il bene de’nostri concittadini e di noi medeaimi, se avessimo estirpato siffatto errore. Tuttavia (poichè su questo proposito voglio che il mio pensiero sia da tutti ben inteso) la caduta della superstizione non è la ruina della religione. È saggia cosa il mantenere le osservanze istituite dai nostri avi nei sacrificj e nelle cerimonie ; e l’esistenza d’una natura eterna, la necessità per l’uomo di riconoscerla e d’adorarla è attestata dalla magnificenza del mondo, e dall’ordine delle cose celesti. Così devesi a un tratto e propagare la religione che s’accompagna alla conoscenza della natura, e sradicare affatto la superstizione. »

Le metamorfosi d’Ovidio, che sono il monumento più completo a noi rimasto dalla mitologia pagana, pajono il trastullo d’una immaginazione poetica che ricrea lettori sbadati e non curanti. Tu non vi trovi scintilla di quell’entusiasmo di buona fede che presso tutte le società nascenti inspira l’uomo di genio, e consegna negli inni sacri le tradizioni degli avi e le antiche superstizioni del paese. Ovidio facea della terra, non solamente il tipo, ma il teatro di tutti i vizj de’suoi Dei ; per modo che si può argomentare, che le credenze del politeismo più non servissero ad altro che a lusingare quegl’intelletti che non poteano persuadere. Cotesto poema dunque è insieme {p. 364}il più ingegnoso commentario del paganesimo ed il segnale più chiaro della sua decadenza.

Il solo Livio rimpiangeva la pietà dei primi Romani per gli antichi loro Dei, ma questa pietà confondevasi allora coll’amor della gloria e della patria. La morte sul campo di battaglia era un olocausto agli Dei ; nè c’era cosa che così profondamente scolpita avesse la religione in quell’anime semplici e bellicose, come il continuato uso degli augurj e degli auspicj. Quelle predizioni di vittoria così spesso avverate riempivano i Romani d’un’orgogliosa superstizione. Le viscere delle vittime, il canto o il volo degli uccelli, tutte quelle minute osservanze che la guerra mai sempre teneva in vigore, davano continuo alimento alla fede dei soldati. Vincitori, credeano negli Dei da cui si sentivano protetti ; vinti, attribuivano i rovesci delle loro armi ad auspicj negletti o mal compresi. Il campo era un tempio, e quanto più la vita guerriera teneva occupati i Romani, tanto più le credenze del politeismo signoreggiavano ne’loro cuori, di cui formavano continuamente o la speranza o lo spavento.

La vita civile de’Romani non era men piena di cerimonie politiche a un tempo e religiose. La convocazione delle assemblee, l’elezione dei magistrati, la forma del voto popolare, tutto infine nell’esercizio della libertà pubblica era preceduto, convalidato, sancito dagli auspicj ; e, se spesso la scaltrezza del senato abusava della loro prevalenza per disciogliere le assemblee, sconcertare o preparare intrighi, la facilità stessa con cui ne veniva a capo, era una prova della superstiziosa credulità del popolo.

Il discredito poi in che venne il politeismo presso i Romani crebbe a dismisura, e si mutò in disprezzo generale, quando un vile ossequio agl’imperatori introdusse l’apoteosi, colla quale vennero annoverati tra gli Dei anche i più scellerati mostri che sedettero sul trono imperiale di Roma. Quindi i Romani, che nella severità dell’antica {p. 365}loro disciplina aveano ammesso il culto degli avi, ma non avevano pubblicamente deificato nè gli Scipioni, nè i Camilli, e restringevano il loro culto ad offerir sacrifici all’ombre dei padri che riputavano domestiche divinità, dovettero arder incensi anche ai più atroci tiranni ; e come sacrileghi e rei di lesa maestà erano giudicati e condannati coloro che avessero mancato alla menoma delle cerimonie dell’apoteosi.

Intanto lo scompiglio de’tempi, le frequenti rivoluzioni dello stato, l’ardente curiosità del popolo di conoscer l’avvenire in cui leggea sempre affrancamento e libertà, l’ambizione dei pretendenti all’imperio, e certa qual frenesia scusabile in quella nazione che avea tutto conquistato, che a tutto era stata avvezza, che tutto avea sofferto, empievano le fantasie di mille strane aberrazioni, e davano pieno potere alla fallace scienza degli astrologi. Questi aveano, a così dire, rubato il mestiero agli oracoli ed agli auspicj caduti in disuso ; e la magia s’era arricchita della ruina del paganesimo.

Nel resto del mondo soggetto al dominio romano, l’istinto religioso non era men profanato, sebbene la civiltà romana avesse in alcun luogo reso il culto pubblico meno crudele. Nelle Gallie e nell’Affrica più non si offrivano agli Dei vittime umane. La sola Germania, nelle parti che ancor resistevano alle armi romane, conservava i suoi culti sanguinarj ; nè conosceva libazioni più grate agli Dei di quelle fatte col sangue dei prigionieri romani. I sacerdoti godevano di grande autorità presso le nazioni germaniche, che aveano pure in grande riverenza le profetesso scelte tra le vergini consacrate ; e i nomi d’Angaria e di Velleda, deificate dalla superstizione de’Germani, più d’una volta avevano spaventato la fortuna di Roma.

Il politeismo era ancora in fiore, più che altrove, nella Grecia, qualora se ne giudichi dalle statue, dai tempj, dai monumenti consacrati alla religione. {p. 366}Nell’avvilimento della conquista, nell’inerzia che la seguiva, il culto degli Dei pareva la più grande faccenda politica de’ Greci. I vecchi odj tra le città rivali erano sepolti sottò il comune servaggio ; ma disputavasi ancora pel possesso di un tempio, o d’un terreno consacrato. Pare che la Grecia non potesse abbandonare l’idolatria nella stessa guisa che non poteva ripudiare le arti. Sparsa dappertutto di monumenti e di tradizioni, ell’era come il Panteon dell’universo pagano, nè vi si potea muover passo senza abbattersi in qualche capolavoro delle arti, posto a consacrare una tradizione religiosa. Ma l’incredulità s’era già da molto tempo intrusa fra i sacerdoti, ed avea fatto grande avanzamento per cagione delle sventure del paese. Più non sorgevano tribune per gli oratori ; ma i sofisti più liberamente poteano beffarsi del culto degli Dei. Le antiche sètte filosofiche tuttor fiorivano, ma l’epicurea e la cinica erano le più possenti e più popolari : e queste poneano in derisione ad un tempo e l’antica religione e l’antica filosofia.

L’Asia minore offriva in ogni sua parte la mescolanza degli Dei eleganti della Grecia colle superstizioni del paese. Tu v’incontravi ad ogni piè sospinto schiere di sacerdoti erranti, che si recavano sul dorso un fardello di divinità impure, e passavano per astrologi e giocolieri.

Ma il paese, ove pareva che la superstizione si rinverdisse con fecondità straordinaria, era l’Egitto. L’antica religione del paese, il politeismo greco, il culto romano, le filosofie orientali erano riunite e confuse come gli strati del fango che il Nilo straripato ammucchia sulle sue sponde. Nel riposo della conquista romana gl’intelletti non aveano altra occupazione che le controversie religiose e filosofiche. Alessandria, città di commercio, di scienza e di piaceri, visitata da tutti i navigatori d’Europa e d’Asia, co’suoi monumenti, con la sua vasta biblioteca, con le sue scuole, parea l’Atene dell’Oriente, più ricca, più popolosa, più feconda di vane dispute che non la vera Atene ; {p. 367}ma priva di quella saggezza d’immaginazione e di quel gusto squisito nelle arti che formava la gloria di questa, Alessandria era piuttosto la Babele dell’erudizione profana. Il resto dell’Egitto correva dietro a mille superstizioni assurde o malintese, che faceano sorridere di compassione il paganesimo romano. Gli Egizj avevano sotto ogni guisa di simboli raffigurate le loro divinità : di qui ne venne la tradizione che essi adorassero le cipolle ed i gatti, e che s’armassero città contro città per vendicare le ingiurie fatte ad alcuna di queste innumerabili divinità.

Gl’Indi giacevano sotto il giogo del loro antico sacerdozio, e nell’immobilità delle loro caste ereditarie. Le comunicazioni che aveano avuto da tempo immemorabile coll’Europa, e le cui tracce, smarrite nella storia, si rinvengono così manifeste nell’antica lingua della Grecia e del Lazio,145 s’erano ravvivate colla conquista d’Alessandro. Attraversata dagli eserciti macedoni, l’India avea dischiusi i suoi tesori all’avidità dell’Occidente ; era il nuovo mondo di quell’epoca, e vi s’accorreva dalla Grecia e da altre parti dell’universo, e se ne narravano le cento maraviglie.

Pare che la Persia, dai Greci chiamata barbara, avesse avuto nei tempi più remoti un culto più ragionevole e più puro del politeismo d’Europa. Non ammetteva idoli ; ed il suo culto, cioè quello di Zoroastro, era un’adorazione dell’Essere eterno rappresentato sotto il simbolo del fuoco. I Magi, che ne erano i sacerdoti, all’epoca dell’invasione d’Alessandro, furono perseguitati, e si spartirono in numerose sètte ; il loro culto diventò un rito solitario e nascosto che si smarrì in vane superstizioni ; e questa religione così semplice produsse dipoi quell’impostura che portava il nome di magia in tutto l’Oriente, e che si sparse tra i Romani degenerati.

{p. 368}L’Armenia e la Cappadocia aveano anch’esse adottato il culto dei Magi. In Armenia segnatamente veneravasi il culto di Mitra, i cui misteri erano celebri nei primi tempi del Cristianesimo, e s’assomigliavano in parte alle cerimonie di questa legge santa. Dominava soprattutto in questi paesi la tradizione dei due genj del bene e del male.

Ci rimane a parlare di quel popolo nato a mutar gli altri tutti, mentre egli solo dovea durare immutabile, e che, già sparso quasi per l’intero universo, non avea partecipato del generale traviamento, e solo tra tutti i popoli chiudeva il proprio tempio all’idolatria. I disastri della guerra, la schiavitù, il commercio avean cominciato la dispersione de’ Giudei e diffuso nel mondo le pagine dei loro libri sacri. Dal tempo di Ciro gli Ebrei s’erano qua e là dispersi nella Siria, nella Persia e fino nell’India ; dopo Alessandro trovavansi in gran numero nelle province dell’Asia minore e dell’Egitto ; sotto Pompeo penetrarono nell’Italia, e in tutte le parti dell’imperio. Contavansi tra’Giudei tre sètte distinte, i Farisei, i Saducei e gli Essenj ; ma nel mentre che i Romani vennero a cinger d’assedio Gerusalemme, queste sètte si fusero in quella degli Zelanti, cioè di coloro che voleano scacciare i Romani o perire sotto le ruine del tempio. Di qui l’accanimento di quella guerra spaventevole che fece terrore ai Romani medesimi, e diè loro per la prima volta a combattere il fanatismo religioso. Questi Giudei, sì spregiati a Roma e nel resto dell’impero, merciajuoli, mercadanti, astrologi, usurai, pasciuti per tutto d’insulti, fecero sul suolo della loro patria una eroica resistenza. L’assedio di Gerusalemme fu più orrendo ancora che quello di Cartagine, e così nell’uno come nell’altro un vincitore, spesso generoso, fu lo stromento della più barbara distruzione.

Singolar cosa ! l’eccidio di Gerusalemme parve la vittoria del politeismo sopra il culto d’un solo Dio. Il tempio fu consunto dalle fiamme ; Tito, tornato a Roma, si fece {p. 369}portare dinanzi nel suo trionfo i vasi sacri, il velo del santuario e il libro della legge ; la nazione giudaica sparì, e le sue ceneri furono, per così dire, gettate come polvere al vento nell’universo intero. Non ostante questi mucchi di rovine non soffocarono la novella credenza che usciva dalla Giudea ; anzi ella vide in questo esterminio una prova della sua verità ; e Roma, dopo aver distrutto una nazione stanziata in un angolo dell’Asia, ebbe a combattere con una religione universale.

Il mondo romano, travolto in mille stranezze da’suoi vizj, dai suoi lumi stessi, dall’avvilimento di tutti i culti, dal fascino del commercio, delle sofisticherie e delle immaginazioni orientali, dalle comunicazioni rese più facili fra i varj popoli, dal contrasto o dalla confusione delle loro credenze, andava sfasciandosi da tutte parti, o, a dir meglio, si maturava per un grande mutamento. Ma gli uomini non avean forza da ciò. Essi commentavano le antiche favole in vece di prestarvi fede ; logoravano il vecchio paganesimo per ringiovanirlo ; non facevano altro che rimescolare il caos delle opinioni senza rinvenire una credenza che potesse rialzare l’intelletto dell’ uomo e affratellare tra loro le nazioni. Il Cristianesimo solo fu da tanto : esso profittò dell’ordine e della pace fiorenti nell’impero per ispargersi con incredibile rapidità ; e marciò, per così dire, a grandi giornate su quelle vaste strade che la politica romana avea aperto da un capo all’altro dell’impero pel passaggio delle legioni. Lusingò tutte le inclinazioni che l’odio del giogo romano nodriva nel cuore dei popoli soggetti ; rialzò coll’entusiasmo le anime abbattute dall’oppressione ; e parlando in nome dell’umanità, della giustizia, dell’eguaglianza primitiva tra gli uomini, ben presto trasse intorno a sè tutti gli schiavi e gli oppressi, che è quanto dire l’universo.

Nulla di meno quanti ostacoli s’opponevano alla promulgazione d’un nuovo culto ! In tutti gli angoli {p. 370}dell’universo, qualche antico rito, qualche superstizione locale conservava tutto il suo potere : intieri popoli erano ingolfati nella più crassa ignoranza, e troppo erano istupiditi per poter diffidare d’alcuna impostura che tuttavia mirasse a tenerli soggetti. Altri s’accomodavano ad un culto senza doveri, e ad una vita piena di passioni e di godimenti : il vecchio politeismo formava ancora la base della società romana : i suoi templi e i suoi idoli erano per tutto innanzi agli sguardi ; i suoi poeti signoreggiavano la serva fantasia. Le sue feste erano lo spettacolo della folla ; esso frammettevasi a tutto come un’usanza o come un sollazzo ; brillava sulle insegne delle legioni ; ornava le nozze e i funerali. Più tardi insanguinò i circhi e i teatri : avea sopravvissuto pur anco all’incredulità che fomentava ; era divenuto una specie d’ipocrisia pubblica professata dallo Stato ; e nella sua decadenza, sorretto dal potere, dall’interesse, dall’abitudine, parea fatto per durare quanto l’impero medesimo.

Villemain.

Prima lotta fra il politeismo ed il cristianesimo. §

747. Allorchè il Cristianesimo apparve sulla terra, il genere umano più non vivea, per così dire, che pei sensi. Il culto, simbolo vano, non era più da veruna credenza rafforzato, e conservavasi per consuetudine a cagione delle sue pompe e delle sue feste. e soprattutto de’ suoi legami colle istituzioni dello Stato. Ma la religione in sè medesima più non ispirava nè fede nè riverenza. I sapienti ed i grandi disdegnosamente la confinavano tra la plebe, la quale, meno corrotta forse, volea che i vizj, a cui rendeva ossequio sotto finti nomi, avessero almanco nei loro emblemi alcun che di divino. All’ultimo altra religione non eravi in fatto che la voluttà ; e le sette più {p. 371}severe nella loro origine, degenerate fra breve da un’austerità presa ad imprestito, per opera d’un sovvertimento d’idee, onde fu guasto il linguaggio medesimo, a questo eran giunte di fare una cosa sola della virtù e del piacere.

Da queste semplici osservazioni si può giudicare della buona fede di quegli scrittori che hanno sostenuto essersi il Cristianesimo stabilito naturalmente e senza ostacoli. E di vero esso non ebbe a lottare se non colle passioni, gl’interessi e le opinioni dominanti in tutto l’universo I Armato d’una croce di legno, fu veduto a un tratto avanzarsi in mezzo ai pazzi tripudj ed alle sguajate religioni d’un mondo invecchiato nella corruzione. Alle splendide feste del Paganesimo, alle seducenti immagini d’una vaga mitologia, alla comoda licenza della morale filosofica, a tutti gli adescamenti delle arti e dei piaceri, oppone le pompe del dolore : oppone riti gravi e lugubri, le lagrime della penitenza, le minacce del terrore, l’arcano dei misteri, il tristo séguito della povertà, il cilicio, la cenere e tutti i simboli d’una deplorabile miseria, d’una profonda costernazione ; chè quest’è appunto quello che il mondo pagano ravvisò sulle prime nel Cristianesimo. Ed ecco le passioni irrompono furibonde contro il nemico che si presenta a disputar loro l’impero dell’universo ; e i popoli, a torme a torme, come le onde d’un mar tempestoso, traggono sotto le loro bandiere : l’avarizia vi guida i sacerdoti degli idoli : la superbia vi conduce i sapienti, e la politica gl’imperatori. Allora comincia una guerra sterminatrice : non si perdona nè a sesso nè ad età ; le pubbliche piazze, le vie, le campagne, e persino i luoghi più deserti, si coprono di stromenti da tortura, di eculei, di roghi ; i giuochi si frammettono al macello ; da tutte parti s’accorre a goder dello spettacolo dell’agonia e della morte degli innocenti sgozzati ; e il barbaro grido : I Cristiani alle fiere, fa fremer di gioja una moltitudine ebbra di sangue. Finalmente, i carnefici stanchi s’arrestano, la scure sfugge {p. 372}loro di mano, e un’arcana virtù celestc, scaturita dalla croce, comincia a commuovere anche questi feroci. Vinti dall’esempio di nazioni intiere soggiogate prima di loro, cadono pur essi a piè del Cristianesimo, che in premio del pentimento lor promette l’immortalità, e già fa lor copia della speranza.

La croce, sacro segno di pace e di salute, sventola da lontano sulle rovine del Pagancsimo abbattuto. I Cesari gelosi avean giurato la rovina del Cristianesimo, ed eccolo assiso sul trono de’ Cesari. Come ha vinto sì gran possanza ? Offrendo il petto alla spada e ai ceppi le mani inermi. Come ha trionfato di tanta rabbia ? Dandosi mansueto in balia dei suoi persecutori.

Lamennais.

Difesa de’ cristiani. §

(Al tempo dell’imperator Severo, essendo perseguitati i Cristiani per lo solo odio in che avevano i Gentili il nome cristiano, Tertulliano Cecilio cartaginese, presentò ai governatori dell’impero romano una scrittura in loro difesa, che intitolò : Apologetico contro cl’ Idolatri. Da essa sono tratti i due brani che seguono.)

748. Se non è lecito a voi, o presidenti dell’impero romano, che, quasi nel più alto e cospicuo soglio, anzi quasi nella cima stessa della città,146 a giudicare assistete, il considerare alla scoperta e pubblicamente esaminare ciò che di chiaro si trovi nella causa de’ Cristiani che a condannare quelli v’astringa ; se in questo solo la vostra autorità teme o si vergogna di scrutinare in palese le ragioni del suo procedere per dare il diritto alla giustizia, mentre per avere pur troppo, come ultimamente è accaduto, nelle domestiche sentenze operato per la sola inimicizia che avete con questa setta, è stato precluso il sentiero alla sua difesa ; sia lecito almeno alla verità per la tacita via delle lettere di pervenire alle vostre orecchie. {p. 373}Questa invero per la sua causa non vi prega, perchè nemmeno della sua sorte si maraviglia, mentre, sapendo d’esser peregrina in terra, non ignora che ritrova fra gli estranei facilmente i nemici ; ma essendole noto che la sua stirpe, la fede, la speranza, la grazia e la dignità tiene dal Cielo, solo alle volte s’adopra, acciocchè, senza esser conosciuta, non resti condannata. Che cosa ne anderà alle leggi che sono in vigore nel regno, se essa è udita ? Forse si glorierà maggiormente la potestà di quelle, perchè esse condanneranno la verità senza ascoltarla ? Ma se la condanneranno senza udirla, oltre al biasimo d’iniquità, meriteranno il sospetto di non retta coscienza, non volendo saper quello che, saputo, non potrebbero poi condannare. Laonde vi opporremo, per prima causa della vostra poca equità, l’odio che portate ai Cristiani.

Ed in vero una tale sorta di poca equità, dal titolo medesimo, che è l’ignoranza, onde sembra che scusata sia, vien caricata e convinta ; poichè qual cosa è più di lungi dall’equità, quanto che gli uomini abbiano in odio ciò che non sanno se in fatti merita l’odio loro ? Poichè dir si può che lo merita, quando la cagione di meritarlo è palese. Non vi essendo dunque la notizia di tal merito, come si potrà difendere la giustizia d’un simil odio, la quale si dee provare non dall’odiare, ma dal sapere perchè si deve odiare ? Onde, essendo che gli uomini odiano senza che ad essi noto sia che cosa sia quella che hanno in odio, non può egli essere che essi medesimi odiino ciò che non debbono ? Così da ogni parte restan convinti, o mentre ignorano quello che odiano, o mentre odiano ingiustamente quello che ignorano ; e questo è il testimonio della ignoranza, la quale, mentre scusa la poca equità, la condanna. Poichè tutti coloro che per lo passato odiarono, non sapendo ciò che fosse lo scopo dell’odio loro, subito che abbandonarono l’ignoranza, parimente cessarono d’odiare. Di questa sorta di gente si fanno i {p. 374}Cristiani,147 cioè di quelli che, deposta l’ignoranza con l’informarsi, incominciano ad odiare quello che furono e professare quello che odiarono : e son tanti quanti vedete che noi siamo. Vociferano che la città è assediata e circondata ; e che nei campi e nell’isole e ne’ castelli ogni sesso, ogni condizione, ogni età, ogni grado a questa setta se ne passi ; e se ne attristano come d’un grave danno ; e ad ogni modo, questo vedendo, non si fanno a considerare, se questo mai fosse un bene occulto, non essendo loro lecito di sospettare più rettamente e più da vicino scrutinare. Qui solo la curiosità umana s’impigrisce : amano d’ignorare mentre gli altri godono di sapere. Non vogliono informarsi, perchè sono impegnati a odiare ; però quel che non sanno giudicano alla cieca esser tale, che, se lo conoscessero, non lo potrebbero non odiare, dove che, non trovando motivo d’odiare, ottima cosa è cessar d’odiare a torto. Se poi la ragione d’odiare è palese, allora niente si diminuisca quest’odio, ma più s’accresca e si perseveri in esso, operandosi così coll’ autorità della giustizia medesima. Dicono però costoro : Non è buona cosa, perchè questa setta molti tira al suo partito, mentre quanti sono gli scellerati, quanti quelli che dal retto sentiero traviano ! E chi lo nega ? Contuttociò quello che è veramente male, neppure da que’ medesimi che da esso travolti sono, per cosa buona è difeso. La natura ogni opera biasimevole fa che sia accompagnata dal timore e dal rossore di chi la commette. Finalmente gli uomini cattivi si affaticano di nascondersi, e s’ingegnano di non apparire quel che e’sono. Sorpresi, tremano ; accusati, negano ; e tormentati, non sempre confessano con facilità ; condannati, s’attristano, si scolpano, e accusano gl’impeti d’una non ben disciplinata inclinazione, il destino e le stelle, e non vogliono che sia suo quello che riconoscono per male.

Ma qual somiglianza hanno costoro co’ Cristiani ? Di {p. 375}questo alcuno non si vergogna, alcuno non si pente, se non di non essere stato per lo passato Cristiano. Se è biasimato, si gloria ; se è accusato, non si difende ; interrogato, anche alle volte spontaneamente confessa ; condannato, ringrazia. Or che sorta di male si dirà mai questo, nel qual non si trova la natura del male ? Cioè nè timore, nè vergogna, nè tergiversazione, nè penitenza, nè doglianza ? Che sorta di male, dico, del quale il reo si allegra, l’accusa del quale si brama, la pena del quale per felicità si considera ? Non puoi dire che sia pazzia, perchè sei convinto di non giungere a tale cognizione.

Pure se noi siamo colpevoli, perchè non ci trattate da pari nostri, cioè come gli altri colpevoli ? Al delitto istesso conviene l’istesso trattamento. Noi siamo creduti rei come gli altri : ma essi o della propria bocca, o di mercenarj difensori si servono per provare l’innocenza loro. Possono rispondere ed altercare, non essendo lecito che senza punto esser uditi e difesi siano condannati. Ma ai soli Cristiani non è permesso di fiatare, onde si purghi la causa e si difenda la verità, perchè il giudice non sia ingiusto. Solo si attende quello che è lo scopo del pubblico odio, cioè la confessione del nome e non l’esame del delitto. Se si tratta d’altro reo, al solo nome d’omicida, di sacrilego o di pubblico inimico (acciocchè io parli degli elogi di che voi ci favorite), non date sentenza, ma richiedete e ricercate le circostanze convenevoli, la qualità del fatto, il numero, il luogo, il tempo, i complici ed i compagni. Con noi poi non fate così ; ancorchè bisognerebbe pure chiarirsi di quello che falsamente si va di noi vociferando, cioè quanti infanticidj148 fatti abbiamo per imbandire i conviti, e quanti altri delitti tra le tenebre si sian commessi ; quali siano stati i cuochi ed i cani {p. 376}assistenti.149 Qual gloria sarebbe di quel presidente, se potesse venire in chiaro che alcuno avesse divorato cento infanti ! Ma certamente anche il cercare a nostro danno è proibito. Imperciocchè Plinio Secondo, mentre reggeva la sua provincia, condannati alcuni Cristiani, alcuni dal suo posto rimossi, turbato alfine per tanta moltitudine, scrisse a Trajano, allora imperatore, che, fuori dell’ostinazione di non voler sacrificare agl’idoli, niente altro aveva delle loro cerimonie scoperto, cho alcune adunanze avanti giorno tra loro praticate per cantare inni a Gesù Cristo, come a Dio, e per confermar il loro istituto che proibiva l’omicidio, la fraude, la perfidia e l’altre scelleraggini. Rescrisse allora Trajano che genti di tal sorta non si dovevano cercare, ma, denunziate, di punirle era d’uopo. Oh sentenza confusa dalla necessità ! Nega cho si debbano ricercare come innocenti, e comanda che si puniscano come rei ! Perdona e incrudelisce ! dissimula e condanna !…

Quante volte contra i Cristiani incrudelite, parte di vostro volere, parte per obbedire alle leggi ! Quante volte, senza riguardo a voi, di sua autorità l’inimico volgo ci assale colle pietre e cogl’incendj ! Nelle furie dei baccanali non si perdona neppure ai Cristiani già defunti : anzi quegli estraggono dal riposo del sepolcro, dall’asilo sicuro della morte, già divenuti un’altra cosa e non interi, e li lacerano, e li dispergono. Contuttociò di questi, per altro intrepidi, così da voi trattati, quali offese potete contare ? Da questi cotanto uniti e disposti fino al morire, per questa ingiuria come vi è corrisposto, quando anche una sola notte con poche facelle potrebbe aprir la strada ad una larga vendetta, se fosse lecito a noi ricompensare il male col male ? Ma non fia mai che una setta, che ha del divino, con fuoco umano vendichi i suoi torti, e che {p. 377}si dolga di soffrire quel male, il quale fa prova della sua virtù. Che, se noi volessimo farla da nemici scoperti, non da occulti vendicatori, ci mancherebbe egli la forza della moltitudine e degli armati ? Son forse in maggior numero i Mauri, i Marcomani, gli stessi Parti, o l’altre genti qualunque siano, purchè d’un sol luogo e dei suoi confini, che le genti d’un mondo intero ? Noi siamo di jeri, e pur abbiamo ripieno tutte le case vostre, le città, l’isole, i castelli, tutti i luoghi di vostra dipendenza, le congreghe, gli eserciti stessi, le tribù e le decurie, il palazzo, il senato, il fòro. Solamente vi abbiamo lasciato i templi. A qual guerra non saremmo idonei e pronti, anche ineguali di numero, noi che tanto volentieri ci lasciamo trucidare ? Se non che, secondo la dottrina nostra, si stima più lecito l’essere ucciso che l’uccidere. È stato in nostro potere, disarmati e non ribelli, ma solamente separandoci da voi altri, il combatter contra di voi ; mentre, se tanta moltitudine d’uomini si fosse distaccata da voi e ritirata in qualche remoto angolo del mondo, certamente avrebbe la perdita di tanti cittadini, qualunque noi siamo, svergognato il vostro impero ; anzi collo stesso abbandonarlo l’avrebbe punito. Senza dubbio vi sareste atterriti per la vostra solitudine, per lo silenzio delle cose, per un certo stupore del mondo ; e quasi avreste cercato a chi comandare. Sarebbero a voi rimasi più nemici che cittadini. Di presente avete meno nemici per la moltitudine dei Cristiani quasi tutti vostri cittadini, anzi quasi cittadini di tutte le città. Ma voi piuttosto avete voluto chiamarli nemici del genere umano. Chi di voi però da quegli occulti nemici che devastano per ogni parte la vostra mente e la salute, vi scamperebbe dalle invasioni, io dico, dei demonj, i quali noi senza premio e senza mercede da voi cacciamo ? Sarebbe alla nostra vendetta bastato lasciare agl’ immondi spiriti libero il possesso di voi. Nondimeno, non riflettendo alla ricompensa di tanto ajuto {p. 378}a voi prestato, noi che siamo un genere di persone non solo a voi non molesto, ma necessario, avete voluto stimare nemici, mentre che siamo certo nemici non del genere umano, ma bensì dell’umano errore….

Ma proseguite pure, buoni presidenti, che sarete più accetti appresso il popolo, se a lui sagrificate i Cristiani ; tormentateci, straziateci, condannateci, riduceteci in polvere. La vostra iniquità è la prova della nostra innocenza. Perciò Iddio permette che soffriamo queste cose. Non però qualunque vostra crudeltà molto vi giova, servendo per allettamento ad abbracciare la nostra religione, che tanto più germoglia, quanto più da voi si miete, essendo il sangue de’ Cristiani una sorta di semenza. Molti appresso di voi esortano alla tolleranza del dolore e della morte, come Cicerone nelle Tuscolane e Seneca, come Diogene e Pirrone. Non però trovano tanti discepoli le loro parole, quanti ne trovano i Cristiani, insegnando con le opere. Quella ostinazione stessa, che voi calunniate, n’è la maestra, mentre, e chi mai, ciò considerando, non è sospinto a ricercare che cosa infatti ella intrinsecamente sia ? Ma chi è che, dopo averne ricercato, a noi non s’unisca, ed unito non brami di patire per acquistare intera la divina grazia e per ottenere il perdono col prezzo del proprio sangue ? Perciocchè dal martirio sono cancellati tutti i delitti. Onde avviene che parimenti ringraziamo le vostre sentenze, mentre al contrario di quello che s’opera dagli uomini, s’opera da Dio ; poichè quando siamo da voi condannati, siamo assoluti da Dio.

Costumanze de’cristiani contrapposte a quelle de’gentili. §

749. Siamo un corpo unito dalla religione, e da una dottrina divina, e da una confederazione piena di speranza. {p. 379}Siamo soliti di congregarci, acciocchè, orando avanti a Dio, quasi, per dir così, fatto uno squadrone, l’assediamo colle preghiere. Questa violenza però è grata a Dio. Preghiamo anco per l’imperadore, per i ministri suoi, per le potestà secolari, per la quiete delle cose, per lo ritardamento della fine del mondo.150 Ci uniamo per rammemorare le divine Scritture : chè la qualità de’presenti tempi ci necessita ad insegnare e a riconoscere la verità. Nutriamo la fede con le sante cantilene, innalziamo la speranza, stabiliamo la fudicia, e nondimeno, anche con reiterati ricordi, inculchiamo la dottrina de’maestri. Ivi parimenti si fanno esortazioni, si gastiga, e si corregge da parte di Dio ; poichè quivi si giudica, ma con gran riguardo, come certi della presenza di esso. Talchè è un gran contrassegno della futura dannazione per colui che in tal modo pecca, che si venga a relegarlo dalla comunione dell’orazioni, e da queste adunanze, e da ogni santo commercio. Presiedono alcuni buoni uomini, i più vecchi,151 i quali non con prezzo alcuno, ma per pubblica approvazione hanno acquistato tale onore, perciocchè le cose di Dio non hanno prezzo ; e se pure abbiamo una sorta di cassetta, non è di disonore il danaro che vi si raccoglie, quasi che si compri la religione ; mentre in un giorno del mese ciascuno vi pone qualche danaro, quanto gli piace, o se gli piace, o quando ei può ; poichè niuno è costretto, ma lo dà di proprio volere. E questi sono depositi di carità ; poichè quel danaro non s’impiega in conviti, o in isbevazzare, nè in odiosi mangiari ; ma bensì serve per nutrire i mendichi e per seppellirli, per le fanciulle e per i fanciulli privi di averi e di genitori, per i vecchi domestici e per gl’inabili, per i naufraghi, e per ehi è condannato alle miniere de’metalli, o nell’isole, e nelle prigioni, solamente per la {p. 380}confessione della divina religione che professano. Tutte queste opere, e sopra ogni cosa la carità che è tra noi, ci rende appresso alcuni degni di biasimo. Vedi, dicono, come scambievolmente s’amano ! (poichè eglino scambievolmente s’odiano). C’infamano, perchè ci stimiamo tra noi fratelli, non per altra ragione, mi persuado, se non perchè appresso di loro ogni nome di parentela è finto per affettazione. Siamo ancora vostri fratelli per diritto di natura, madre comune, benchè voi siate poco uomini, perchè siete cattivi fratelli. Ma quanto più degnamente si chiamano e stimano fratelli coloro che hanno conosciuto Dio per unico loro padre, e si sono imbevuti d’un solo spirito di santità, e, dall’unico seno della medesima ignoranza usciti, sono restati abbarbagliati da una stessa luce di verità ! Ma forse tanto meno siamo reputati legittimi, o perchè non vi è tragedia che faccia strepito della nostra fratellanza, o perchè siamo fratelli rispetto a’nostri beni e alla nostra roba, la quale appresso di voi quasi rompe la fratellanza. Noi però, perchè abbiamo un volere e un cuor solo, non abbiam difficoltà ad accomunare gli averi, laonde tra noi tutto è indiviso fuori che la moglie….

Che maraviglia, se con tanta carità da noi si fanno de’conviti ? Anche le nostre povere cene, oltre ad averle infamate per iscellerate, da voi son tacciate di prodighe. Veramente a noi calza quel detto di Diogene : I Megarensi mangiano come se dovessero morire il giorno dopo, e fabbricano come se non dovessero morir mai ! Ma si vede la festuca negli occhi altrui, e non si vede nei suoi la trave. Tante tribù, tante curie e decurie infettano l’aria cogli aliti puzzolenti del loro stomaco. Per le cene de’Salj vi è necessità d’indebitarsi. I computisti soli possono calcolare le spese di coloro, che gettano nelle crapule il loro avere nell’occasione di pagare le decime ad Ercole. Nel celebrare i misteri di Bacco secondo l’antica usanza fa d’uopo d’arrolare una legione di cuochi. Le guardie del fuoco stan {p. 381}vigilanti al gran fumo delle serapiche cene.152 Nondimeno solamente del modesto convito dei Cristiani si mormora. E pure la nostra cena col proprio vocabolo rende buon conto di sè ; perciocchè è detta Agape, che appresso i Greci suona quello che suona carità appresso di noi, talchè sia di qualunque dispendio, è da reputarsi guadagno, mentre si spende per la pietà : poichè certamente con questo sollievo ajutiamo anche i mendichi, non per la vanagloria di renderci schiavi gli uomini liberi, come appresso di voi succede, arrolandosi i parassiti anche a ricevere ingiurie per ingrassare il ventre, ma perchè appresso a Dio è in gran conto la considerazione che si ha delle persone bisognose. Laonde, si la causa del convito è onesta, argomentatene l’ordine rimanente esserne secondo che l’obbligo della religione ci prescrive. Non ci ha luogo nè la viltà, nè l’immodestia. Non ci mettiamo a tavola prima d’aver fatto a Dio un poco d’orazione. Uno si ciba quanto basta per sedare alquanto la fame : si beve quanto giova ad uomini pudichi ; onde si satollano in maniera da non si scordare di dovere nella notte levarsi ad adorare Dio. Discorrono in quella guisa che discorre chi sa che il suo Signore l’ascolta ; poichè, data l’acqua alle mani, e posti i lumi, e invitato ciascuno a cantare al Signore o qualche cosa delle divine Scritture, o di proprio genio ; quindi si prova come veramente abbia bevuto. Parimente l’orazione scioglie il convito, di dove s’esce di poi, non per andar tra le truppe di coloro che fanno alle coltellate, nè tra le schiere di chi va gridando a far delle insolenze o delle disonestà ;153 ma bensì ad attendere alla cura medesima della modestia e della pudicizia, come quelli che nella cena non cibarono solo il corpo di vivande ; ma l’animo {p. 382}ancora di santi ricordi. Or questa è l’adunanza de’Cristiani, la quale dire si può illecita, se si rassomiglia ai ridotti illeciti, ed è con giustizia condannabile, se alcuno di quella si duole per la ragione stessa onde della fazioni suol darsi querela. In danno di chi ci aduniamo mai ? Congregati, siamo gli stessi che siamo disuniti, ed in comune siamo gli stessi che soli : nessuno da noi s’offende, nessuno da noi si contrista. Quando i giusti, i buoni, i pii, i casti insieme s’adunano, non si dee chiamare fazione. ma adunanza, dove del ben comune si tiene consiglio….

Con un altro titolo ingiurioso noi siamo accusati, cioè come inutili per ogni affare. In che modo di questo ci fate rei, che pure con voi viviamo, che abbiamo il vitto ed il vestire stesso e le medesime necessità della vita ? Perciocchè nè siamo Bracmani, nè Ginnosofisti degl’Indi, abitatori delle selve, o staccati dalla vita comune. Abbiamo in mente quanto siamo tenuti a Dio, al Signore e Creatore nostro. Non rigettiamo alcun frutto delle sue opere. Bene è vero che siamo temperanti, per non servircene smoderatamente e fuori di regola ; onde non si vive da noi nel secolo senza il fòro, senza il macello, senza i bagni, senza botteghe, senza officine, senza alberghi e mercati, e senza gli altri commerci bisognevoli. Navighiamo anche noi in vostro compagnia, militiamo e coltiviamo, e mercanteggiamo insieme. Le arti e le opere nostre accomuniamo al vostro uso. Io non so in che maniera vi sembriamo infruttuosi ne’vostri negozj, co’quali e de’quali viviamo. Ma, se non frequento le tue cerimonie, contuttociò anche in quel giorno son uomo. Non mi bagno avanti giorno nelle feste di Saturno per non perdere la notte e il di Contuttociò all’ora debita e giovevole mi bagno per conservarmi il calore ed il sangue. Intirizzire ed impallire dopo la lavanda, posso farlo ancor dopo morte.154. Non mi metto a mensa {p. 383}pubblicamente ne’giuochi di Bacco, perchè è costume de’combattenti con le fiere, che cenano per l’ultima volta. Tuttavia, quando io ceno, compro le roba da voi altri. Quando però mi cibo, non compro la corona pel mio capo ; ma, comprando non ostante i fiori, che importa a te del come io me ne serva ?155 Sembrano a me i fiori più vaghi, mentre son liberi o sciolti, e vaganti per ogni parte, che non se sono ristretti in corona : noi godiamo delle corone solo colle narici. Il facciano coloro che fiutano i fiori per mezzo de’capelli. Non veniamo negli spettacoli ; ma ciò che in quelle adunanze si vende, se da me sarà bramato, con maggior libertà lo prenderò dalle proprie botteghe. Non compriamo incensi ; e se l’Arabia si lamenta, sanno i Sabei che le loro merci hanno più spaccio presso di noi, e migliore, servendocene per dar sepoltura ai Cristiani, non per affumicare gli Dei.156 Certo voi dite : Calano di giorno in giorno l’entrate de’templi. E chi omai vi getta più un quattrino di limosina ? Ma noi però non siamo bastanti a riparare agli nomini e a’vostri Dei mendicanti ; nè crediamo di dover dare la limosina, se non a chi la chiede. Del rimanente, se la vuole, porga Giove la mano, e prenda la limosina ; essendo che frattanto la nostra misericordia più spende per le strade, che la vostra religione per i templi. Le altre imposte ringraziano i Cristiani per la fedeltà con cui sono pagate puntualmente, essendo noi lontani dal defraudare quel d’altrui. Talchè, se si considera quanto si perde per la frode e per la bugia delle vostre professioni, si farà facilmente il conto, che la querela che ci fate in ordine ad una sola spezie di cose, vien compensata dal comodo degli altri dazj che da noi medesimi ricavate con tutta esattezza.

Tertulliano.
(Traduz, di Maria Selvaggia Borghini.)
{p. 384}

Qual sarebbe al presente lo stato della società se il cristianesimo non fosse comparso nel mondo. §

750. È probabilissima cosa che, senza il Cristianesimo, il naufragio della società e delle scienze sarebbe stato compiuto. Non può calcolarsi quanti secoli sarebbero bisognati al genere umano per uscire da quella ignoranza e da quella corrotta barbarie, nelle quali si sarebbe trovato sepolto. Non ci volea meno che una moltitudine immensa di solitari sparsi nelle tre parti del mondo, e tutti diretti al conseguimento di un medesimo fine, per conservare almeno quelle scintille che riaccesero presso i moderni la face delle scienze. Nessun ordine politico, filosofico, o religioso del Paganesimo, avrebbe potuto operare questo effetto d’inestimabile pregio, se fosse mancata la religione cristiana. Gli scritti degli antichi, trovandosi dispersi nei monasterj, salvaronsi in parte delle rapine dei Goti. Finalmente il Politeismo non era punto, com’è il Cristianesimo, una specie di religione letterata (se così possiam dire), perchè non congiungeva coi dogmi religiosi la metafisica e la morale. La necessità in cui si trovarono i sacerdoti cristiani di pubblicare dei libri, o vuoi per propagare la fede, o vuoi per combattere l’eresia, servi possentemente alla conservazione ed al risorgimento del sapere.

In qualunque ipotesi che immaginare si voglia, si trova sempre che l’Evangelio impedì la distruzione della società : perchè, supponendo da un lato ch’esso non fosse comparso sulla terra, e dall’altro che i Barbari avessero continuato a starsene nelle loro foreste, il mondo romano, marcendo ne’suoi costumi, era minacciato de una spaventevole dissoluzione.

Forse che si sarebbero sollevati gli schiavi ? Ma essi eran perversi al pari dei loro padroni, partecipavano degli stessi piaceri e della stessa vergogna, avevano una medesima religione ; e questa religione passionata distruggeva {p. 385}ogni speranza di cambiamento nei principj morali. Il sapere non procedeva più oltre, ma s’immiseriva ; e le arti decadevano. La filosofia non serviva che a spargere una specie d’empietà, la quale, senza condurre alla distruzione degl’idoli, produceva i delitti ed i mali dell’ateismo nei grandi, mentre lasciava ai piccioli quelli della superstizione. Il genere umano avea forse fatto verun progresso, perchè Nerone non credeva negli Dei del Campidoglio, e ne calcava con disprezzo le statue ?

Tacito pretendeva che sussistesse ancora qualche costumatezza nelle province ; ma è da notare che queste province già cominciavano a divenir cristiane ; e noi poniamo invece il caso che il Cristianesimo non si fosse mai conosciuto, e che i Barbari non fossero usciti dai loro deserti. Quanto agli eserciti romani, i quali avrebbero verosimilmente dilacerato l’imperio, i soldati eran corrotti del pari che tutto il resto dei cittadini ; e più in là sarebbero andati, se i Goti e i Germani non gli avessero arruolati. Tutto quello che puossi congetturare si è, che dopo lunghe guerre civili, e dopo un generale sommovimento da durare più secoli, la stirpe umana si sarebbe ridotta a prochi uomini erranti sopra rovine. Ma di quanti anni non avrebbe poi avuto bisogno questo albero dei popoli prima di stendere i suoi rami di nuovo su tutte quelle reliquie ? Che lungo spazio di tempo non avrebbero impiegato a rinascere le scienze obliate e perdute ! E in quale stato d’infanzia non si troverebbe anche ai dì nostri la società !

Come il Cristianesimo ha salvato l’umana famiglia dalla distruzione, convertendo i Barbari, e raccogliendo i resti della civiltà e delle arti, così avrebbe salvato anche il mondo romano dalla sua propria corruzione, se non fosse soggiaciuto alla forza di armi straniere : sola una religione può rinnovellare un popolo nelle sue sorgenti. E già quella di Gesù Cristo ristabiliva tutte le basi morali. Gli antichi ammettevano l’infanticidio, e lo scioglimento del nodo {p. 386}nuziale, che non è, a dir vero, se non il primo nodo della società ; la loro probità e la loro giustizia si limitavano ai confini della patria, nè oltrepassavano l’estensione del proprio paese. I popoli nel loro complesso avevan principi diversi da quelli del cittadino particolare. Il pudore e l’umanità non si annoveravano fra le virtù. La classe più numerosa era schiava ; le società ondeggiavano continuamente fra l’anarchia popolare ed il dispotismo : ecco i mali a cui il Cristianesimo apportò un rimedio sicuro, come fece manifesto liberando da questi mali medesimi le società moderne. Anche l’eccesso delle prime austerità dei Cristiani era necessario : bisognova che vi fossero dei martiri della castità, quando vi erano pubbliche inverecondie ; penitenti coperti di cenere e di cilicio, quando le leggi autorizzavano i più grandi delitti contro i costumi ; eroi della carità, quando vi erano mostri di barbarie : finalmente, per istrappare tutto un popolo corrotto ai vili combattimenti del circo e dell’arena, bisognava che la Religione avesse, per così dire, anch’essi i suoi atleti ed i suoi spettacoli nei deserti della Tebaide.

Gesù Cristo può dunque con tutta verità esser detto Salvatore del mondo nel senso materiale, come si dice nel senso spirituale. Anche umanamente parlando, il suo passaggio sopra la terra è il più grande avvenimento che avesse mai luogo fra gli uomini, poichè la faccia del mondo cominciò a rinnovarsi dopo la predicazione dell’Evangelio. Notabilissimo è il momento in cui s’avverò la venuta del Figlio dell’uomo : un po’prima la sua morale non era di assoluta necessità, perchè i popoli sostenevansi ancora colle antiche loro leggi ; un po’più tardi questo divino Messia non sarebbe comparso se non dopo il naufragio della società.

Chateaubriand.
(Traduz. di L. Toccagni.)
{p. 387}

Cronologia Mitologica.

Indicazione delle epoche principali e meno incerte della storia antica, le quali hanno qualche relazione coi fatti ricordati dalla favola mitologica. §

Fondatori di popoli. §


Secoli. Anni av. G.C.
XXV. 2467.

Menete,157 fondatore degli Egiziani.

XX. 1993.

Belo, fondatore degli Assiri.158

XVII. 1640. Agenore, fondatore dei Fenicj.
XVI. 1590-1568. Teucro e Dardano, fondatori dei Trojani.
1582. Cecrope, fondatore dei Greci, e più specialmente degli Ateniesi.
1579. Meone, capo degli Atiadi, fondatore dei Lidii.
1549. Cadmo, fondatore dei Tebani.
1516. Lelege, fondatore degli Spartani.
1348. Perseo, fondatore dei Micenii.
1328. Sisifo, fondatore dei Corinzii.
IX. 860. Didone, fondatrice dei Cartaginesi, colonia di Fenicia.
VIII. 753. Romolo, fondatore dei Romani.
VI. 536. Ciro, fondatore dei Persiani.
IV. 360-330. Filippo e Alessandro, fondatori dei Macedoni.
{p. 388}

Avvenimenti parziali. §


Anni av. G.C.
1986. Inaco, oriundo di Fenicia o d’Egitto, conduce una colonia nel paese che poi fu detto Argolide.
Molte fondazioni furono poi fatte dai suoi figli e nipoti, detti Inachidi.
Foroneo, figlio d’Inaco, fonda Foronea.
Argo, pronipote d’Inaco, dà a Foronea il proprio nome.
Efira, sua sorella, fonda Corinto.
Fegeo, suo figlio, erige Feges in Arcadia.

Pelasgo, suo nipote, fonda nel 1883 il regno d’Arcadia. Indi emigra in Tessaglia con gli Arcadi, detti Pelasgi.159

Sparto o Spartone suo nipote, dà principio a Sparta.
Miceneo, figlio di Spartone, fonda Micene.
Licaone, figlio di Pelasgo, costituisce Licosura, ed immola vittime umane a Giove ; forse a significare la crudeltà di siffatti sacrifizj, i poeti narrano che fu trasformato in lupo.
Io, sua figlia, rapita da mercanti Fenicj, e condotta in Egitto, e per la sua bontà stimata degna d’Osiride, soprannominato Giove ; da ciò evidentemente ebbe origine la nota favola della metamorfosi della involata donzella.
Acrisio, nipote di Linceo, la cui figlia Danae sposò Perseo.
Megapente, figlio di Preto, pronipote di Danao, capo della terza casata d’Argo, detta Pretide.
Agenore, pronipote d’Inaco, fondatore dei Fenicj.
1835.

Primi popoli della Grecia.160 I Pelasgi. Sicione fondata da Egialeo.

{p. 389}1764. Diluvio d’Ogige, re dell’Attica e della Beozia. Credesi che questo diluvio fosse un’inondazione prodotta dallo straripamento del lago Copaide. Anche ai tempi di Silla era celebrata in Atene una festa che ricordava questo fatto.
1582. Cecrope, d’origino egizio, conduce una colonia nell’Attica, già chiamata Actea. Sposa la figlia d’Atteo, successore d’Ogige. Fabbrica una piccola città, detta Cecropia, che fu poi l’Acropoli (città alta). Quindi le dodici borgate che Teseo riuni in una sola città, col nome d’Atene. — Instituzione del Senato e dell’Areopago.
1549. Cadmo, figlio d’Agenoro re di Fenicia, non potendo rinvenire la sorella Europa rapita da Giove (vedi la favola), conduce una colonia nella Beozia, fonda Cadmea, che fu poi la cittadella di Tebe ; introduce in Grecia la scrittura alfabetica, il commercio ec.
1532.

161Diluvio di Deucalione, figlio di Prometeo, re di Tessaglia. Una terribili inondazione che devastò le sue terre fu l’origine di questo diluvio. Deucalione si rifugia colla sua moglie Pirra sul monte Parnaso, e poi ripopola la Tessaglia. A Deucalione succede Elleno. I figli di questo sono stipite dei quattro popoli principali della Grecia, e ne scacciano i Pelasgi che riparano nelle isole e nell’Italia. Doro diè origine ai Dorii ; Eolo agli Eolii ; Xuto ebbe due figli, Acheo, origine degli Achei, ed Jone degli Jonii.

1522. Consiglio degli Amfizioni. Era un’assemblea composta dei deputati dei 12 principali popoli della Grecia. Questa Lega o Confederazione prese nome da Amfizione figlio di Deucalione. Adunavasi nella Primavera a Delfo, nell’Autunno ad Antela presso le Termopile.
{p. 390}1516. Lelege, egiziano o fenicio, fonda Sparta, fra i primi re della quale son ricordati Eurota, Lacedemone, Amicla.
1511. Danao, già re della Cirenaica nella Libia, cacciato dal fratello Egitto, si ricovera nell’isola di Rodi, indi s’impadronisce d’Argo, scacciandone gl’Inachidi. Favorisce l’agricoltura, e abolisce le vittime umane. Alle figlie di Danao é attribuita la istituzione delle Tesmoforie (Tesmos, legge, phero porto), in memoria delle savie leggi date ai mortali da Cerere. Altri dicono che questa festa fu istituita nell’Attica. — Il vascello, su cui Danao approdò in Grecia, servi di modello ai greci operaj ; era grandissimo, e spinto da cinquanta rematori. (Vedi la favola.)
1480. Imprese di Bacco nell’India.
1434. Minosse e Radamanto. Loro legislazione nell’isola di Creta. Eaco regna in Tessaglia : Radamanto nelisola d’Eubea.
1416. Aristeo insegna ai Greci a far coagulare il latte, coltivare gli ulivi, raccogliere le Api negli alveari e cavarne il miele. — Trittolemo insegna l’agricoltura.
1350. Gli Argonauti nella Colchide, condotti da Giasone alla conquista del Vello d’oro, ec. (Vedi la favola.)
Ercole o Alcide. Le sue dodici fatiche, ec. Credesi che la vita di Sansone abbia dato la idea delle prodezze d’Ercole.
1348. La Fondazione di Micene, e avventure di Perseo.
1335. Giano, principe greco della Tessaglia, conduce una colonia nel Lazio (Campagna di Roma). Età dell’oro (vedi la favola. Saturno ec.). Ma prima di questa epoca, fino da tempi antichissimi, l’Italia è abitata da popoli che forse precederono la stessa Grecia nella coltura ; e principalmente gli Etruschi. — La guerra degli Dei contro Tifeo {p. 391}(nella Campania e ad Inarìme o Ischia), quella dei Giganti contro Giove, indicanti i grandi sconvolgimenti del suolo per opera di terremoti o di vulcani, il Vesuvio, l’Etna, Stromboli, i campi Flegrei, danno copiosa materia alle favole mitologiche.
1328. Fondazione di Corinto. Più antichi re di Corinto sono Efira sorella d’Inaco, Maratone, Corinto, Polibio che accolse Edipo bambino, Creonte, appo cui rifugiaronsi Giasone e Medea. Ma vero fondatore di quella città è detto dalla storia essere stato Sisifo, figlio di Deucalione (altri dice d’Eolo), capo dei Sisifidi che tennero lo stato finché non furono cacciati dai Pelopidi.
Pelope, figlio di Tantalo re di Frigia, invade una parte del Peloponneso. Atreo e Tieste, discendenti di Pelope.
1321. Espulsione degli Eraclidi dal Peloponneso, per opera dei Pelopidi.
1318. Edipo figlio di Lajo re di Tebe.
Eteocle e Polinice si uccidono scambievolmente in singolar tenzone.
I sette prodi o Capitani davanti a Tebe, e gli Epigoni.
1316. Teseo re d’Atene. — 1300. Fondazione d’Ercolano. — Fiorisce Orfeo.
1310. Atreo e Tieste regnano a Micene ed a Tirinte.
1283. Agamennone, nipote d’Atreo, regna a Sicione.
1280.

Caduta di Troja.162 L’armata dei Greci era composta principalmente di guerrieri di Micene, d’Ornea, di Corinto, ec. condotti da Agamennone, capitano supremo che aveva 100 navi ; di Lacedemoni, condotti da Menelao con 60 navi ; quei d’Argo, Epidauro, Tirinte, Trezene, Ermione, condotti da Stenelo, Eurialo, Diomede, con 80 {p. 392}navi ; i Messenj di Pilo e di Ciparisso, da Nestore con 90 navi ; Ateniesi, da Menesteo con 50 navi ; di Megara e di Salamina, da Ajace Telamonio, con 12 navi ; Locresi, da Ajace d’Oileo, con 40 navi ; di Calcide, Calidone, ec. da Toante re d’Etolia, con 40 navi ; Mirmidoni, Elleni, Achei, da Achille re di Larissa, con 50 navi ; di Metone, di Melibea, ec. da Filottete con 7 navi ; i Magnesiani del Peneo, da Protoo, con 40 navi ; di Zacinto, Nerito, Cefalonia, Itaca, da Ulisse con 11 navi ; Cretesi, da Idomeneo e Merione con 80 navi ; Rodiani, da Tlepolemo, figlio d’Ercole, con 9 navi. — Erano insiem coi Trojani, e condotti tutti da Ettore figlio di Priamo, i Dardanii, con a lor capo Enea figlio d’Anchise, gli abitanti di Zelea sull’Ida con Pandaro figlio di Licaone, i Misii con Cromio, i Frigii con Ascamo e Foreide, i Paflagonii con Pilamene, i Carii con Naste, i Licii con Sarpedonte e Glauco, i Traci con Piroo ed Acamante. Dicesi che questa guerra costasse ai Greci 800,000 uomini ed ai Trojani 600,000.

1280. Viaggio d’Ulisse, dopo la caduta di Troja. Vedi la favola e l’Odissea d’Omero.
1190. I Dorii e gli Etolii, condotti dagli Eraclidi o discendenti d’Ercole, ritolgono ai Pelopidi il Peloponneso.
1182-1120. Emigrazioni di colonie greche nelle più lontane parti d’Europa, d’Asia e d’Affrica.
1009. Abolizione della dignità regia in Atene, Codro ultimo re d’Atene muore per la patria.
907.

Fiorisce Omero163 poeta sommo, autore della Iliade (la guerra di Troja) e dell’Odissea (i viaggi d’Ulisse) ec. Otto città si disputarono la gloria d’avergli dato i natali : Smirne, Rodi, Colofone, {p. 393}Salamina, Chio, Argo, Atene e Cuma. In un frammento d’Eraclide Pontico è detto : « Omero attesta dalla Tirrenia (Toscana) esser egli venuto in Cefallenia ed Itaca, ove per malattia perdette gli occhi. » (Vedi Mazzoldi, Origini Italiche).

900.

Fiorisce Esiodo,164 il più valente degli imitatori d’Omero, autore della Teogonia o genealogia degli Dei, dello Scudo d’Ercole, poema descrittivo, e di un poema didattico sull’agricoltura, intitolato le Opere e i Giorni. Il poema d’Omero e quelli d’Esiodo sono i principali fonti delle notizie intorno alle favole mitologiche.

866. Legislazione di Licurgo (Sparta).
776. Prima Olimpiade, base della greca Cronologia, e principio di epoche istoriche meno incerte.
753. Romolo. Fondazione di Roma.
714. Numa Pompilio.
624.

Intorno a questo tempo fiorirono i sette Sapienti della Grecia, ricordati nella favola (Chilone, Biante, Pittaco, Cleobulo, Periandro, Solone, Talete).165

598. Epimenide filosofo, chiamato dall’isola di Creta ad Atene, riforma la religione, abolisce molte costumanze barbare, precede Solone (anni 594) nelle riforme sociali.
565. Falaride, tiranno di Sicilia. Perillo punito.
560. S’incomincia in Atene a scolpire le statue nel marmo.
522. Callimaco architetto inventa il Capitello corinzio.
401. Arcesilao di Paro inventa la pittura sulla cera e sullo smalto.
[n.p.]

Indice alfabettico. §

(I numeri Indicano 1 paragrafi.)

A §

Abila, monte dell’Affrica, 390.

Acalo, meccanico, nipote di Dedalo, 424.

Acheloo, figlio del Sole e della Terra, 393.

Acheronte, fiume dell’Inferno, 218.

— padre d’Ascalafo, 56.

Achille. Sua infanzia, 536 ; — sue avventure all’assedio di Troja, 538-540 ; — sua morte, 541.

Aci, trasformato in fiume, 273.

Acrisio, 75. Rinchiude la figlia in una torre di metallo, 353 ; — perde il trono e lo riacquista per opera di Perseo, 363.

Admeto, re di Tessaglia, 102, 388.

Adone, protetto da Venere ; — trasformato in anemone, 177.

Adonie, feste in onor di Adone, 177.

Adrasto, capitano nella guerra di Tebe, 506.

Aello, Arpia, 191.

Aeta, possessore del Vello d’oro, 450.

Agamede, fratello di Trofonio, 81.

Agamennone, supremo duce nella guerra di Troja, 527.

Agenore, padre di Cadmo e d’Europa, 482.

Agesandro (di Rodi), uno degli scultori del Laocoonte, 607.

Agesilaos, V. Plutone.

Aglaia, una delle tre Grazie, 175.

Aglauro. Sua invidia punita, 167.

Ajace, eroe greco, figlio d’Oileo, 567.

{p. 396}Ajace, eroe greco, figlio di Telamone, 561 ; — sue gesta all’assedio di Troja, 563 ; — contesa con Ulisse, 564 ; — sua morte, 565.

Alceo, 478 (nota).

Alceste, esempio d’amor coniugale, 388.

Alcide, soprannome d’Ercole, 400.

Alcimide, 670.

Alcinoo, re di Corcira, padre di Nausica, ospite d’Ulisse, 578.

Alcione, 206.

Alcioni, uccelli, 205.

Alcitoo, re di Megara, 229.

Alcmena, madre di Ercole, 74, 364.

Alcmeone, figlio di Anfiarao, uno dei sette capitani sotto Tebe, 506.

Alessandro alla tomba d’Achille, 542. — L’Oracolo, 668.

Aletto, Furia, 232.

Alfeo, innamorato di Aretusa e cangiato in fiume, 323, 380.

Altea, madre di Meleagro, 626.

Amadriadi, ninfe delle foreste, 319.

Amaltea (capra), nutrice di Giove, 29 ; — collocata in cielo, 77.

Amatunta, V. Cipro.

Amazzoni, donne guerriere vinte da Ercole, 375 ; — vinte da Teseo, 432.

Ambrosia, cibo degli Dei, 222.

Amicizia, divinità allegorica, 351 2°.

Amicla, madre di Giacinto, 104.

Amico, re di Bitinia, 442.

Amore, figlio di Venere, 172, 173.

Anchise, eroe trojano protetto da Venere, e padre d’Enea, 176, 608.

Androgeo, figlio di Minosse, 416.

Andromaca, moglie d’Ettore, 545, 593 e 596.

Andromeda, liberata da Perseo, 361.

Anfiarao, indovino ; sue sventure, 506, 662.

Anfione, abile sonatore, 74, 481.

Anfitrione, 74, 364.

Anfitrite, moglie di Nettuno, 188.

{p. 397}Anteo (gigante). Suoi misfatti e suo fine, 386.

Anteros, amore vizioso, 173.

Anticlea, madre d’Ulisse, 568.

Antifate, 573 (nota).

Antigone, esempio di pietà filiale, 503.

Antiope, madre di Zeto, regina delle Amazzoni, 74, 432. — Moglie di Lico e madre d’Anfione, 481.

Antipatro, 670.

Anubi, divinità Egiziana, 705.

Api, bue adorato dagli Egiziani, 703.

Apollo. Sua nascita, 96 ; — uccide il serpente Pitone, 99 ; — morte di Esculapio suo figlio, 100 ; — suo esilio dal cielo, 101 ; — è adorato dai pastori, 102 ; — fabbrica con Nettuno le mura della città di Troja, 106 ; — si vendica della mala fede di Laomedonte, ivi ; — fine del suo esilio, 110 ; — suoi figli, 111 ; — suoi oracoli, 122 ; — sua disfida con Marsia, 125 ; — punisce il re Mida, 126 ; — metamorfosi da esso operate, 130-133 ; — come vien rappresentato, 135, 136.

Aquario, segno dello Zodiaco, 687.

Aracne o Aragne. Sua metamorfosi, 265.

Arcade, figlio della ninfa Calisto, 75, 140.

Archemoro, 673.

Archidamante, padre di Licisia, 670.

Archiloco, guerriero, figlio di Nestore, 555.

Areopago, celebre tribunale d’Atene, 261 (nota).

Aretusa, insegna a Cerere la dimora di Proserpina, 58 ; — Ninfa trasformata in fonte, 323.

Argo, architetto ; custode di Io, 89, 452.

Argo, vascello costruito dagli Argonauti, 452.

Argonauti, 452.

Ariauna. Aiuta Teseo ad escire dal laberinto di Creta, 417 ; — sposa-Bacco, 418.

Ariete, segno dello Zodiaco, 677.

Arimane, divinità dei Persiani, 715.

Arione, celebre cantore e sonatore ; suo pericolo, 478, e seg.

Aristeo, figlio d’Apollo ; sue avventure, 474, 475 ec.

Armonia, moglie di Cadmo, 489.

{p. 398}Aronta, indovino, 660 (nota).

Arpie, figliuole di Nettuno, 191.

Arpocrate, dio del silenzio, 336.

Artemisia, moglie di Mausolo, 135, 177 (nota).

Ascalafo, figliuolo dell’Acheronte, trasformato in gufo, 56, 256.

Ascanio, figlio d’Enea, 609, 616.

Asclepiadi, 293.

Asopo, regina d’Egina, perseguitata da Giunone, 92.

Astianatte, figlio di Ettore, 595.

Astrea, o la Giustizia, figlia di Temi, 339.

Atalanta, moglie d’Ippomene, 640 e seg.

Atalanta, moglie di Meleagro, 627.

Atamante, re di Tebe, 449.

Atea, divinità allegorica, 335.

Atene, città greca ; origine del suo nome, 264.

Atenea o Minerva, 263.

Atenee, feste in onor di Minerva, 269.

Atenodoro, celebre scultore, 607.

Ati, sacerdote di Cibele, 49 ; — sua metamorfosi, 50.

Atlante, re in Affrica, e possessore del giardino delle Esperidi, 359, 382.

Atreo, figliuolo di Pelope, e fratello di Tieste, 514-515.

Atropo, una delle Parche, 235.

Atteone, cangiato in cervo, 138.

Augia, punito da Ercole, 380.

Aulide, 529.

Aurora, moglie di Titone, 112 ; — suoi figli, 113 ; — moglie di Cefalo, 116 ; — come é rappresentata, 117.

Austro, vento di mezzogiorno, 652, 656.

Autonoe, figlia di Cadmo, e moglie d’Aristeo, 477.

Averno, lago, 215.

B §

Baccanali, feste in onor di Bacco, 153.

Baccanti, sacerdotesse di Bacco, 153-155.

Bacco. Sua nascita, 146 ; — sua educazione, 149 ; — suoi {p. 399}viaggi, 151 ; — sposa Arianna, 152 ; — feste in ono[ILLISIBLE]uo, 153 ; — gastigo di Penteo, 155 ; — e delle Mineidi, 156 ; — com’è rappresentato, 157 ; — sacrifizj in onor suo, 158 : — supposizioni degli antiquarj intorno a questo Nume, e diversi nomi che egli ebbe, 159.

Balder, 743.

Batto, trasformato in pietra di paragone, 167.

Bauci, moglie di Filemone, 621 e seg.

Bécubo. Soccorre Cerere, 57.

Belidi, figlie di Danao, 252.

Bellero, fratello di Bellerofonte, 461.

Bellerofonte. Sue avventure, ivi.

Bellona, Dea della guerra, 287.

Bellonarj, sacerdoti di Bellona, 288.

Belo, padre di Danao, 252.

Belo, re di Tiro, e padre di Didone, 611.

Belo, divinità dei Babilonesi, 711.

Berecinzia, nome di Cibele, 40.

Berenice. Sua chioma trasformata in stella, 184.

Beroe, nutrice di Semele, 147.

Biante, filosofo, 122.

Bilancia, segno dello Zodiaco, 683.

Bitone, fratello di Cleobi : esempio di pietà filiale, 624.

Borea, vento del Nord, 651-654.

Brama, divinità indiana, 717.

Briareo, gigante, 69.

Briseide, prigioniera d’Achille, 539.

Bronte, Ciclope, 272.

Busiride, sue crudeltà e suo gastigo, 378.

C §

Cabiri, Dei originarj dell’Egitto, 58 (nota).

Caco. Sue colpe, e suo gastigo, 385.

Cadmo, fratello d’Europa, 482 ; — sue avventure 484 e seg. — sua metamorfosi, 490.

Caduceo, verga di Mercurio, 161, 162.

{p. 400}Ca[ILLISIBLE], figlio di Borea, 654.

Calcante, indovino, 664.

Caldei, sacerdoti dei Babilonesi, 712.

Calidone, bosco, 414.

Calisso. Sue avventure con Ulisse, 577, 578.

Calisto, ninfa, madre di Arcade, 75 ; — sue sventure, 140.

Calliope, una delle nove Muse, 274, e seg.

Calliroe, madre di Gerione, 379.

Calpe, monte nell’ Europa, 390.

Calunnia, divinità allegorica, 345 2°.

Campi Elisi, dimora dei buoni dopo morte, 216.

Campo di Marte, palestra dei Romani, 259 (nota).

Cancro, segno dello Zodiaco, 680.

Canente, figlia di Giano e madre di Fauno, 300.

Caos, 22.

Capaneo, uno degli Eroi della guerra di Tebe, 506.

Capricorno, segno dello Zodiaco, 686.

Cariddi. Sua metamorfosi, 203.

Caronte, nòcchiero dell’Inferno, 225.

Cassandra, indovina ; sue sventure, 604.

Cassiopea, madre di Andromeda, 361.

Castalia, ninfa trasformata in fonte, 123.

Castore, fratello di Polluce ; sua nascita, 441 ; — onorato come Dio marino, 443 ; — sue avventure, 444 ; — suo fine, 445.

Cecrope, re d’Atene, 76.

Cefalo, secondo marito dell’Aurora ; sue sventure, 116.

Cefeo, padre di Andromaca, 361.

Cefiso, 321.

Ceice, 206.

Celeno, Arpia, 191.

Celeo, re d’Eleusi, 54.

Celo, Cielo o Urano. Sua moglie, 23 ; — suoi figli, 26.

Cencreo, re di Salamina, 229.

Centauri, mostri, 429, 430.

Ceo, uno dei Titani, padre di Latona, 96.

Cerbero, mostro a custodia dell’Inferno, 226.

Cercione, masnadiero ; suo gastigo, 413.

{p. 401}Cerere, sua nascita, 51 ; — suoi figli, 52 ; — ratto del[ILLISIBLE]ua figlia Proserpina, 53 ; — percorre la terra in cerca della figliuola, 54 ; — trasforma i contadini in rane, 55 ; — trasforma Ascalafo in gufo, 56 ; — converte Stellio in tarantola, 57 ; — ritrova Proserpina, 58 ; — come è rappresentata, 59 ; — sue feste, 60 ; — sacrificj istituiti in onor suo 61 ; — gastiga Erisittone, 62.

Cerimonie funebri dei Greci e dei Romani, 689 e seg.

Chilone, filosofo, 122.

Chimera, mostro, 358, 465, 466.

Chirone, celebre Centauro, 100, 430, 536.

Ciane, Ninfa che s’oppose al ratto di Proserpina, 53.

Cibele. Sua nascita, 26 ; — sue nozze, 40 ; — suoi differenti nomi, 40-42 ; — come vien rappresentata, 44 ; — sue feste, 47 ; — suoi sacerdoti, 48 ; sacrifizi istituiti in onor di Cibele, 49 ; — trasforma Ati in pino, 50.

Ciclopi, compagni di Vulcano, 272.

Cicno, cangiato in cigno, 120.

Cidippe, 624.

Cignale di Calidone, 414.

Cigno, 120, 134, 472.

Cimone, 440.

Cimotoe, 316.

Cinto di Venere, 182.

Ciparisso. Sua metamorfosi, 132.

Cipria, Cipride, Ciprigna, nomi di Venere, 180.

Cipro, isola di Venere, 179, 180.

Circe, celebre nella magia, 575.

Cirene, Ninfa, 474, 475.

Ciro, 668.

Citera, isola, 179, 180.

Citerea, nome di Venere, 180.

Cleobi, esempio di pietà filiale, 624, 625.

Cleobulo, filosofo, 122.

Climene, figlia dell’Oceano, 118, 316.

Clinopatro, 670.

Clio, una delle nove Muse, 274, e seg.

Clitennestra, moglie di Agamennone, 532.

{p. 402}[ILLISIBLE]ia. Sua metamorfosi, 130.

Cloride, moglie di Nereo, 553.

Cloto, una delle Parche, 235.

Cocalo, 423.

Cocito, fiume dell’Inferno, 219.

Colchide, 448.

Colosso di Rodi, 135.

Como, Dio della gioia e dei banchetti, 285, 286.

Conso, soprannome di Nettuno, 212.

Corcira, isola, 578.

Coribanti, sacerdoti di Cibele, 48 ; — allevano Giove, 29.

Corno dell’ abbondanza, 77.

Coronide, Ninfa, 133.

Cortina o Tripode d’Apollo, 122.

Costellazioni, 676 e seg.

Creonte, 503, 509.

Crepuscolo, 239.

Creso, 668.

Creta, isola, 228.

Creusa, moglie di Enea, 608, 609.

Crisa, madre di Flegia, 247.

Crisaorso, padre di Gerione, 358, 379.

Criseide, prigioniera di Agamennone, figlia di Criseo, 539.

Criseo, sacerdote d’Apollo, ivi.

Cumana (sibilla), 667.

Cupac, 744.

Cupido, o Amore, figlio di Venere, 172, 173.

Cureti, abitanti di Creta, sacerdoti di Cibele, 29, 48.

D §

Dafne, Ninfa ; sua metamorfosi, 103.

Danae, madre di Perseo, 353.

Danaidi, figlie di Danao, 252.

Danao, re d’Argo, ivi.

Dardano, 517.

Dattili, abitanti del monte Ida, 48.

Dauno, 552.

{p. 403}Dedalo, inventore del Laberinto ; sue sventure, 421 ; — sua abilità, 422 ; — sua morte, 423.

Deianira, amata da Ercole, 393 ; — Nesso tenta rapirla, 394 ; — cagione della morte di Ercole, 395-398.

Deidamia, figlia di Licomede, 537.

Deifobe (sibilla), 665.

Deioneo, 248.

Delfino, 188, 480, 688.

Delfo, città, 122.

Delo, isola, 97.

Demofila, nome della sibilla Cumea, 665.

Destino, 21-23 ; — come rappresentato, 24.

Deucalione, ripopola la terra, 647 e seg.

Dia, 248.

Diagora, 670.

Diana. Sua nascita ; 137 ; — suoi diversi nomi, 138 ; — protegge Endimione, 139 ; — punisce Calisto, 140 ; — punisce Niobe, 141 ; — adorata come Dea dei cacciatori, 142 ; — suo tempio in Efeso, 143 ; — sacrifizj e culto di questa Dea, 144 ; — come è rappresentata, 145.

Didone, regina di Cartagine ; sue sventure, 610-612.

Diespiter, nome di Giove, 79.

Dindimena, nome di Cibele, 40.

Diomede, uno dei capitani dell’armata Greca, 550 ; — sue gesta, 551 ; — sua metamorfosi, 552.

Diomede, re di Tracia ; sue crudeltà e sua fine, 377.

Dionea, Ninfa dell’Oceano, 170.

Dionigi, 670.

Diria, fontana, 486.

Discordia, divinità allegorica, 343 ; — fa nascere lo scompiglio nell’Olimpo, 598.

Divinità favolose degl’Indiani, Egiziani, ec., 695-742.

Dodona, foresta sacra a Giove, 82.

Dolore, divinità allegorica, 345 3°.

Dori, figlia dell’Oceano e di Teti, 193.

Driadi, Ninfe dei boschi, 319.

Driope, Ninfa, 62.

Druidi, sacerdoti dei Galli, 736

{p. 404}

E §

Eaco, Suo regno ripopolato dalle formiche, 92, 229 ; — giudice dell’Inferno, 231.

Ebe, coppiera dell’Olimpo, 87.

Ecate, nome di Diana, 138, 144, 234 2°.

Ecatombe, o sacrifizio di cento Bovi, 144.

Echidna, madre, o secondo altri, sorella della Chimera, 358, 466.

Eco, Ninfa ; sue sventure, 321.

Ecuba, moglie di Priamo, 589, 597.

Edipo. Sua nascita, 491 ; — sua infanzia, 492, 493 ; — consulta l’oracolo, 494 ; — sue sventure, 495 ; — spiega l’enimma proposto dalla Sfinge, 449 ; — è proclamato re di Tebe, 500 ; — sua fine, 503, 504.

Efeso, città e tempio, 143.

Egeo, re d’Atene, 402 ; — riconosce Teseo suo figlio, 406 ; — sua morte, 426.

Egeria, Ninfa consigliera di Numa, 324.

Egiale, 552.

Egialea, 697.

Egida di Minerva, 267.

Egina, 229.

Egisto, figlio di Tieste, 516.

Egitto, fratello di Danao, 252.

Elena, sacerdotessa di Diana ; rapita da Teseo, 433 ; — liberata dai fratelli, 434 ; — divien moglie di Menelao, e gli vien rapita da Paride, 528, 601 ; — è resa a Menelao dopo la caduta di Troja, 531.

Eleno, fratello di Ettore, 596.

Elettra, sorella d’Oreste, 527.

Eleusi, città, 60.

Eleusine, feste in onor di Cerere, ivi.

Eliadi, sorelle di Fetonte, 120.

Elicona, monte sacro ad Apollo, 123

Elisi (campi), 216.

Elle, sorella di Frisso, 449.

{p. 405}Emone, figlio di Creonte re di Tebe, 510.

Encelado, gigante, 69.

Endimione, pastore protetto da Diana, 139.

Enea, figlio d’Anchise e di Venere, 608 ; — fuggendo da Troja perde Creusa sua moglie, 609 ; — suoi amori con Didone, 610 ; — suo stabilimento in Italia, 614.

Enomao, re d’Elide, 511 ; — avventure della sua figlia Ippodamia, 512, 513.

Enone, Ninfa amata da Paride, 603.

Enosigeo, soprannome di Nettuno, 212.

Enotria, Italia, 610.

Eolo, Dio dei venti, 199.

Eoo, cavallo del Sole, 110.

Epafo, figlio di Giove e di Io, 90.

Epidauro, patria d’Esculapio, 291.

Epigoni, primogeniti dei sette capitani sotto le mura di Tebe, 510 (nota).

Epimede, 461.

Epimenide, filosofo 658 2°.

Epimeteo, sposa Pandora, 73.

Eraclidi, discendenti di Ercole, 368.

Erato, una delle nove Muse, 274, e seg.

Ercole. Sua nascita. 364 ; — odio di Giunone contro di lui, 365 ; — come si placasse, 366 ; — sua educazione, 367 ; — suoi figli, 368 ; — le dodici fatiche d’Ercole, 369 e seg. ; — percorre l’universo, 384 ; — punisce Caco, 385 ; — soffoca Anteo, 386 ; — punisce la temerità dei Pimmei, 387 ; — combatte e vince la Morte, 388 ; — libera Prometeo, 389 ; — separa due monti, 390 ; — è di nuovo in odio a Giunone, 391 ; — suoi amori, 392, 393 ; — uccide il centauro Nesso, 394 ; — sua morte, 395-398 ; — sposa Ebe in cielo, 399 ; — nomi diversi con cui vien chiamato, 400 ; — come è rappresentato, 401.

Erebo, fiume dell’ Inferno, 223.

Eretteo, re d’Atene, 116, 654.

Eridano, fiume d’Italia, 119.

Erifile, moglie d’Anfiarao, 662.

Erinni, V. Furie.

{p. 406}Erisittone, sue avventure, 62.

Eritrea, 665.

Erittonio, 517.

Ermeto, nome di Mercurio, 168.

Ermione, figlia di Marte, 256.

Ero e Leandro, 646 2°.

Erofila. Vedi Demofila.

Eros, amor virtuoso, 173.

Erostrato, arde il tempio di Diana in Efeso, 143.

Erse, sorella d’Aglauro, 167.

Esculapio, Dio della medicina, 289 ; — fulminato da Giove, 290 ; — suo culto, 291 ; — come vien rappresentato, 292 ; — suoi figli, 293.

Esiodo, 480.

Esione, figlia di Laomedonte ; 108 ; — sposa Telamone, 109, 229, 518 ; — è chiesta da Paride, 601.

Eso, divinità gallica, 730.

Esone, padre di Giasono, 448.

Esperia, Italia, 610.

Esperidi (le tre sorelle). Ercole uccide il mostro che custodiva l’ingresso del loro giardino, 382.

Espero. Vedi Vespero.

Età (le) dell’Oro ; — dell’ Argento ; — del Rame ; — del Ferro, 34.

Eteocle, figlio di Edipo, usurpa il trono al fratello ec., 505 ; — guerra di Tebe, 506 ; — morte d’Eteocle, 508.

Etone, cavallo del Sole, 110.

Etra, madre di Teseo, 402.

Ettore, eroe trojano, figlio di Priamo, 591-596.

Eufrosine, una delle tre Grazie, 175.

Eumenidi, nome delle Furie, 232.

Eumolpo, Jerofante, o sommo sacerdote di Cerere, 60 (nota).

Eunomia, figlia d’Astrea, 337.

Euriale, una delle Gorgoni, 357.

Euridice, moglie d’Orfeo ; sue avventure nell’inferno, e sua morte, 470.

Euristeo, fratello d’Ercole, 364.

Euriteo, 396.

{p. 407}Eurito, 367.

Euro, vento di Levante, 652-655.

Europa, madre di Minosse e di Radamanto, 74 ; — suo ratto, 483.

Euterpe, una delle nove Muse, 274 e seg.

Eveno, fiume, 393.

F §

Falanto, generale spartano, salvato da un delfino, 480.

Falaride, tiranno ; suo gastigo, 408 e 409.

Fama, divinità allegorica, 340.

Fantaso, uno dei Sogni, 241 e 242.

Faone, 177 (nota).

Fatiche d’Ercole, 369 e seg.

Fato, 21.

Fatua o Fatuella, 300.

Fauna, moglie di Fauno, 300.

Fauni, discendenti di Fauno, 301.

Fauno, divinità campestre, 300.

Favola (divisione della), 2.

Febea, nome di Diana, 138.

Febo, nome d’Apollo, 110.

Fedeltà, divinità allegorica, 351 3°.

Fedra, moglie di Teseo, 435 ; — calunnia Ippolito, 436 ; — suo gastigo, 438.

Fenice, animale favoloso, 158.

Fenris, 743.

Fereo, 388.

Feretrio, soprannome di Giove, 79.

Feronia, Dea dei frutti nascenti, 312.

Fetonte, sua vanagloria e suo gastigo, 118.

Fialte, gigante, 69.

Filemone, marito di Bauci, 621 e seg.

Filomela, sue sventure, 644 e seg.

Filonoe, figlia di Jobate, e moglie di Bellerofonte, 467.

Filottete, uno degli eroi dell’armata greca, 546.

Fineo, trasformato in pietra, 362.

{p. 408}Fiumi, figli dell’Oceano e di Teti, 194.

Flegetonte, fiume dell’Inferno, 220.

Flegia, punito nel Tartaro, 247.

Flegone, cavallo del Sole, 110.

Flora, Dea dei fiori, 312.

Fobetore, uno de’ Sogni, 241.

Foco, figlio d’Eaco, 229.

Forba, pastore del re di Corinto, 492.

Forco, deità marina, 204.

Fortuna, divinità allegorica, 332.

Forza, divinità allegorica, 346.

Freya, 743.

Frisso, figlio di Atamante, 449 e 450.

Funerali, 689 e seg.

Furie, divinità infernali, 232, 234.

G §

Galatea, figlia di Nereo, 273.

Galli, sacerdoti di Cibele, 48.

Ganimede, coppiere di Giove, 87.

Gemelli, segno dello Zodiaco, 679.

Genio, 329, 331.

Genj, nell’idolatria scandinava, 743.

Gerione, mostro, 358, 379.

Giacinto, sua metamorfosi, 104.

Giano, re del Lazio, 32 ; — protetto da Saturno, 33 ; — suo regno chiamato Età dell’oro, 34 ; — suo culto, 35 ; — come era rappresentato, 36 ; — invocato il primo nei sacrifizj, 37.

Giapeto, celebre fra i Titani, 30.

Giasone, padre di Pluto, 52.

Giasone, figlio di Esone. Sua nascita, 448 ; — intraprende la conquista del Vello d’oro, 449 e seg. ; — sua morte, 460.

Gigauti, 65-69.

Giocasta, moglie di Edipo, 491.

Giove. Sua nascita, 28 ; — sposa Giunone, 64 ; — suoi figli, 146, 160, 170, 228-230, 270, 274 ; — guerra coi Titani, {p. 409}65-69 ; — gastiga Prometeo, 70, 71 ; — sue metamorfosi, 74, 75 ; — gastiga Licaone, 78 ; — suoi differenti nomi, 79 ; — suo culto, 81 ; — come è rappresentato, 83 ; — pluralità di Giovi, 84.

Giunone. Sua nascita, 85 ; — suoi figli, 86 ; — sua indole, 88 ; — sua persecuzione contro Io, 89-90 ; — contro Europa e i figli di Cadmo, 91 ; contro Asopo, 92 ; — contro Latona, 97 ; — sua messaggera, 93 ; — come vien rappresentata, 94 ; — suo culto, 95 ; — abbandonata da Giove, 96.

Giuochi pubblici, 669, 670.

— Olimpici, 671.

— Pitii, 672.

— Nemei, 673.

— Istmici, 674.

— Floreali, 312.

— dei Romani, 675.

— Descrizione dei giuochi dei Greci, 675 2°, 675 3°.

Glauca, 229, 457.

Glauco, diventa uno degli Dei marini, 201.

Gna, 743.

Gorgoni, mostri, 357.

Gradivo, 259, nota.

Grazie (le tre), figlie di Venere, 175.

Guerra di Troja, 517 ; — causa di tal guerra, 518.

Gusto cattivo (il), 277.

H §

Hela, 743.

Huecas, 744.

I §

Iadi, stelle, 149.

Iarba, re affricano, 611.

Ibla, monte in Sicilia, 477.

Icaro, figlio di Dedalo, 422.

Icelo, uno dei sogni, 240.

{p. 410}Ida, fulminato da Giove, 445.

Idalia. Vedi Cipro.

Idolatria, sua origine, 12-15.

Idomeneo, re di Creta, 558, 559.

Idra di Lerna, 371.

Ierofante, o sommo sacerdote, 60 (nota).

Ifianasse, figlia di Preto ; gastigo della sua vanità, 92.

Ifigenia, figlia di Agamennone, 527, 529.

Ifinoe, figlia di Preto ; gastigo della sua vanità, 92.

Ila, rapito dalle Ninfe, 654.

Ilio, figlio di Laomedonte, 106.

Ilioneo, 610.

Ilo, 517.

Imene, figlio di Venere, 174.

Inaco, re d’Argo, 89.

Incas, 744.

Indovini, 659.

Inferno, 215, 217.

Ino, moglie di Atamante, 449.

Invidia, divinità allegorica, 342.

Io, sue avventure, 89-90.

Iobate, re di Licia, 463.

Iole, 396.

Ipermestra, una delle Danaidi, 252.

Ippio, soprannome di Nettuno, 212.

Ippocrate, 293.

Ippocrene, fonte sacro ad Apollo, 123.

Ippodamia, moglie di Pelope, 511.

Ippodromio, 212.

Ippolita, regina delle Amazzoni fatta prigioniera da Ercole, 375 ; — sposa Teseo, 432.

Ippolito, figlio di Teseo, 432, 436 ; — sua morte, 437 ; — è resuscitato da Esculapio, 438.

Ippomedonte, uno degli Eroi della guerra di Tebe, 506.

Ippomene, sposa Atalanta, 640-642.

Ipponoo, primo nome di Bellerofonte, 461.

Iride, messaggera di Giunone, 93.

Iside, divinità egiziana, 696.

{p. 411}Ismene, sorella d’Antigone, 510.

Issione, suo supplizio, 248.

Iti, figlio di Tereo, 637.

K §

Kici-Manitu, 744.

L §

Laberinto, 419 ; — quali erano i più celebri, 420.

Lachesi, una delle Parche, 235.

Ladone, padre di Siringa, 299.

Laerte, padre d’Ulisse, 568.

Laio, padre d’Edipo, re di Tebe, 491.

Lamia, 665.

Laocoonte, figliuolo di Priamo, 605 ; — suo tragico fine, 606, 607.

Laodamia, moglie di Protesilao, 557.

Laomedonte, re di Troja, 106, 107, 187, 517.

Lapiti, popoli, 429.

Lari, Dei domestici, 325.

Latino, re del Lazio, 614.

Latona, perseguitata dal serpente Pitoue, 97 ; — partorisce Apollo e Diana, ivi.

Lavinia, figlia di Latino, 614.

Lavoro, divinità allegorica, 347 2°.

Leandro ed Ero, 646 2°.

Learco, 449.

Leda, 74, 441.

Lenno : isola, 270.

Leone, segno dello Zodiaco, 681.

Leone della foresta Nemea, 370.

Lesbo, isola, 478 e nota.

Lestrigoni, popoli barbari, 574.

Lete, fiume dell’ Inferno, 224.

Leucade (salto di), 177.

Leucosia, Sirena, 196.

{p. 412}Leucotoe. Sua metamorfosi, 131.

Libertà, divinità allegorica, 341 2°.

Libica (sibilla), 665.

Lica, ucciso da Ercole, 397.

Licaone. Sua istoria, 78.

Licisia, 670.

Lico, padre di Anfione, 481.

Licomede, re di Sciro, 439, 537.

Linceo, marito d’Ipermestra, 252 ; — uccide Castore, 445.

Linco, cangiato in lince, 54.

Lino, poeta, inventore dei versi lirici, 121.

Liriope, 321.

Lisia, Sirena, 196.

Lisippa, figlia di Preto ; gastigo della sua vanità, 92.

Loke, 743.

Lucifero, Dio del mattino, 239.

Lucina o Illitia, 83, 95.

Luna, nome di Diana, 138.

Lupercali, feste in onor di Giunone, 95 ; — in onor di Pane, 296.

Luperci, sacerdoti del Dio Pane, 296.

M §

Macaone, figlio di Esculapio, 293.

Magi, sacerdoti dei Persiani, 714.

Maja, Ninfa, madre di Mercurio, 160.

Manco-Capac, 744.

Mani, ombre dei morti, 243.

Manto, profetessa, figlia di Tiresia, 660.

Marsia. Sue avventure, 125.

Marte, Dio della guerra : sua nascita, 255 ; — suoi figli, 256 ; — ferito da Diomede, 257 ; — come vien rappresentato, 258 ; — suo culto, 259 ; — suoi sacerdoti, 260 ; — pluralità di Marti, 261.

Mausolo e Mausoleo, 135.

Medea. Sue avventure, 454-458 ; — sua malvagità contro Teseo, 406.

{p. 413}Medo, figlio di Medea, 459.

Medusa, una delle Gorgoni, 357.

Megapento, figlio di Preto, 363.

Megara, moglie d’Ercole, 391.

Megera, una delle Furie, 232.

Melampo, 92.

Melanconia, divinità allegorica, 345 4°.

Meleagro. Sua nascita, 626 ; — sua morte, 628.

Melia, madre di Cadmo, 482.

Melicerta, figliuola di Ino, 449.

Melissa, Ninfa Oreade, ritrovatrice del miele, 319.

Melpomene, una delle nove Muse, 275.

Meneceo, muore per la salvezza della patria, 507.

Menelao. Sue avventure, 528, 530, 531.

Menezio, padre di Patroclo, 592.

Mennone. Sua nascita, 113 ; — sue avventure, 114 ; — sua statua, 115.

Mercurio. Suoi ufficj, 160 ; — considerato come Dio dell’eloquenza, 163 ; — come Dio del commercio, 164 ; — come protettore dei ladri, 165, 166 ; — trasforma Batto in pietra di paragone, 167 ; — varj nomi che egli ebbe, 168 ; — pluralità di Mercuri, 169.

Metempsicosi, 162.

Metra. Sue trasformazioni, 62.

Micene, città fabbricata da Perseo, 363.

Mida, punito da Apollo, 126 ; — sue orecchie, 168 ; — privilegio accordatogli da Bacco, 128, 129, 459.

Milone, atleta, 670 ; — sue avventure e sua morte, ivi.

Mineo, re di Tebe, 156.

Mineidi. Loro metamorfosi, 156.

Minerva. Sua nascita, 262 ; — quando chiamata Pallade, 263 ; — dà il nome ad Atene, 264 ; — cangia Aragne in ragno, 265 ; — come vien rappresentata, 266 ; — sua egida, 267 ; — dove era principalmente adorata, 269.

Minosse I re di Creta, e poi giudice dell’ Inferno, 228.

Minosse II re di Creta, 415-423.

Minotauro, mostro, 414.

Mirmidoni, abitanti d’Egina, 92.

{p. 414}Mirtillo, figliuolo di Mercurio, 513.

Misteri d’Eleusi, 60.

Mitologia. Sua definizione e sua etimologia, 1.

Mitra, divinità dei Persiani, 713.

Mnemosine, madre delle nove Muse, 75, 274.

Momo, Dio della maldicenza, 282 ; — cacciato dal cielo, 283 ; — come è rappresentato, 284.

Mopso, indovino, 664.

Morfeo, figlio del Sonno, 240, 241.

Morte, divinità inesorabile, 242.

Muse (le nove), sorelle d’Apollo, 274 ; — a cosa presiedono, 275 ; — come rappresentate, 277 ; — perchè presero le ali, 278.

N §

Naiadi, Ninfe delle acque, 317.

Napee, Ninfe campestri, 319.

Narciso. Sue avventure, 321, 322.

Nauplio, vendica la morte di Palamede suo figlio, 585.

Nausica, figlia d’Alcinoo, 578.

Necessità, divinità allegorica, 24, 332 2°.

Neleo, padre di Nestore, 553.

Nemea, foresta, 370.

Nemesi, divinità allegorica, 333, 334.

Nereidi, Ninfe marine, 316.

Nereo, figlio dell’Oceano e di Teti, 193.

Nesso, uno dei Centauri, 394.

Nestore, eroe greco all’assedio di Troja, 553-555.

Néttare, bevanda degli Dei, 222.

Nettuno. Sua nascita, 185 ; — suo impero, 186 ; — suo esilio dal cielo, 187 ; — gastiga Laomedonte, ivi ; — sposa Anfitrite, 188 ; — suoi figli, 189-191, 201-204 ; — come vien rappresentato, 207 ; — suo carro, 208 ; — suo tridente, 209 ; — suo culto, 210-212.

Nicea, Ninfa, 304.

Nicostrato, poeta, 177, nota.

Ninfe, 313.

{p. 415}Ninfe delle Acque, 314 e seg. — della Terra, 318 e seg.

Niobe, figlia di Tantalo, 629 ; — sue sventure e sua metamorfosi, 631-633.

Nord, 743.

Nisa, nutrice di Bacco, 149.

Notte, Dea delle tenebre, 238.

Numa, re di Roma, 324.

O §

Oblio, fiume, 240.

Occasione, divinità allegorica, 332.

Oceano, Dio marino, 192.

Ocipeta, una delle Arpie, 191.

Odino, divinità scandinava, 739.

Odisseo. Vedi Ulisse.

Oeneo, re di Calidonia, 626.

Ogigia, isola, 577.

Olimpia, tempio, 81. — città, 671.

Olimpiadi, ivi.

Olimpo, 20.

Onfale, regina di Lidia, 392.

Opertum, tempio ove si celebravano le feste in onor di Cibele, 47.

Ops, nome di Cibele, 41.

Oracoli, 667 e nota.

Oracoli d’Apollo, 122.

Orcamo o Orcano, re di Persia, 131.

Ore (le), destinate all’educazione di Venere, 171.

Oreadi, Ninfe dei monti, 319.

Oreste, figlio di Agamennone, 527 ; — sue sventure, 533-535 ; — ai Giuochi olimpici, 675, 3°.

Orfeo, poeta, 469 ; — scende nell’inferno a ripigliare Euridice ; 470 ; — suo tragico fine, 471.

Orgie, 153.

Orione. Sue avventure, 618-620.

{p. 416}Orizia, moglie di Borea, 654.

Oro, figlio d’Osiride, 701.

Oromaze, divinità persiana, 715.

Osiride, divinità egiziana, 696.

Ospitale, soprannome di Giove, 79.

P §

Pace, divinità allegorica, 347.

Pafo, vedi Cipro.

Palamede, eroe greco alla guerra di Troja, 583.

Pale, Dea dei pastori, 310.

Pallade, nome di Minerva, 263.

Palladio, reliquia dei Trojani, 570.

Panatence, feste annue in onor di Minerva, 269.

Pandione, re d’Atene, 634.

Pandora. Sua origine, 72 ; — dono che le fece Giove, 73 ; — sposa Epimeteo, ivi.

Pane, Dio dei pastori, 294 ; — suo simulacro, 295 ; — sue feste e suoi sacerdoti, 296 ; — considerato qual simbolo dell’universo, ossia il gran Tutto, 297 ; — origine del cosi detto timor panico, 298 ; inventore della siringa o zampogna, 299.

Panope, 316.

Parche, divinità infernali, 24, 235.

Paride. Sua nascita, 597 ; — giudizio della bellezza, 600 ; — rapisce Elena, 601 ; — combatte con Menelao, 602 : — è ucciso con una freccia d’Ercole, 603.

Parnaso, monte sacro alle Muse, 123.

Partenope, sirena, 196.

Partenopeo, uno dei capitani della guerra di Tebe, 506.

Pasciacamac, 744.

Pasifae, moglie di Minosse II re di Creta, 415.

Patroclo, eroe greco, amico d’Achille, 539, 540.

Pattolo, fiume, 129.

Peana, inno ad Apollo, 134.

Pegaso o Pegaseo, cavallo alato, 124 ; — sua nascita, 358.

Peleo, marito di Teti, 229, 320, 344, 536.

{p. 417}Pelia, zio di Giasone, 448.

Pelope, figlio di Tantalo, 250, 511 ; — sue avventure, 512, 513 ; — suoi figli, 514.

Pelopidi, discendenti di Atreo, 368.

Penati, Dei domestici, 325-328.

Penelope, moglie di Ulisse, 579-581.

Peneo, fiume, 103.

Penia, Dea della povertà, 173.

Penteo. Suo deplorabile fine, 155.

Periandro, filosofo, 122 ; — re di Corinto, 478.

Peribea, figlia d’Alcitoo, 229.

Perifa, cangiato in aquila, 76.

Perifeto, ucciso da Teseo, 412.

Perillo. Gastigo della sua scelleratezza, 409.

Peristeria, Ninfa trasformata in colomba, 183.

Permesso, fiume sacro alle Muse, 123.

Perseo. Sua nascita, 353 ; — uccide le Gorgoni, 355-357 ; — cangia Atlante in montagna, e coglie i pomi del giardino delle Esperidi, 359 ; — libera Andromeda, 361 ; — combatte Fineo, 362 ; — ristabilisce Acrisio sul trono, 363 ; — gli toglie la vita, e fonda Micene, 363.

Pesci, segno dello Zodiaco, 688.

Pico, padre di Faino, 300.

Pieridi, cangiate in piche, 278.

Piga, regina dei Pimmei, 92.

Pigmalione, fratello di Didone, 611.

Pigmalione, celebre scultore, 639.

Pilade, amico d’Oreste, 533.

Pimmei, popolo di nani, 387.

Pindaro, 670.

Pindo, monte sacro ad Apollo, 123.

Piragmone, Ciclope, 272.

Piramo. Suo amore per Tisbe, 644 ; — sua fine, 645.

Pireneo. Oltraggia le Muse, 278.

Piritoo, re dei Lapiti, 429 ; — sfida Teseo, 431 ; — sue avventure, 432, 433 ; — ucciso dal cane Cerbero, 434.

Piroo, cavallo del Sole, 110.

Pirra, moglie di Deucalione, 647.

{p. 418}Pirro, figlio d’Achille, 543 ; — vendica la morte di suo padre, 544 ; — suo fine, 545.

Pitia. Vedi Pitonessa.

Pito, Dea della persuasione, 181.

Pitone, serpente favoloso, 97-99.

Pitonessa, sacerdotessa d’Apollo, 99, 122.

Pittaco, filosofo, 122.

Pitteo, re del Peloponneso, 402.

Plisteno, 526.

Pluto, Dio delle ricchezze, 254.

Plutone, Dio dell’Inferno : sua nascita, 213 ; — rapisce Proserpina, 214 ; — come vien rappresentato, 253.

Podaliro, figlio di Esculapio, 293.

Polidamante, 670.

Polidetto, re di Serifa, 354.

Polidoro, celebre scultore, 607.

Polidoro, figlio di Priamo, 589.

Polifemo, gigante, 273 ; — tenta far perire Ulisse e i suoi compagni, 572.

Polinestore, re di Tracia, 589.

Polinice, fratello d’Eteocle, 505 ; — arma la Grecia contro il fratello, 506 ; — sua morte, 508.

Polinnia, una delle nove Muse, 275.

Polissena, figlia di Priamo, 541.

Polluce. Sua nascita, 441, — sua celebrità, 442 ; — onorato come Dio marino, 443 ; — sue avventure, 444 ; — sua line, 445.

Pomona, moglie di Vertunno, e Dea dei giardini, 311.

Poro, Dio dell’abbondanza, 173.

Preto, re d’Argo, 462.

Priamo, re di Troja, 587 ; — ucciso da Pirro, 588.

Priapo, Dio dei giardini, 307.

Procri. Sua morte, 116.

Procuste, masnadiero, 411.

Progne, sorella di Filomela, 634 ; — sua vendetta, 637 ; — cangiata in rondinella, 638.

Prometeo. Sua audacia punita, 70, 71 ; — è liberato da Ercole, 71, 389.

{p. 419}Proserpina. Sua nascita, 52 ; — rapita da Plutone, 53 ; — divien moglie di questo Dio, 58.

Proteo, Dio marino, 195.

Protesilao. Sua morte generosa, 556.

Psiche, moglie di Amore, 178.

Q §

Querculane, Ninfe. Vedi Amadriadi.

Quiete, divinità allegorica, 347 4°.

Quirino, 259 (nota).

R §

Radamanto, giudice dell’Inferno, 230 ; — istruisce Ercole, 367.

Rea, nome di Cibele, 42.

Rea-Silvia, sacerdotessa di Giunone, 256.

Remo, figlio di Marte, 256.

Reso, re di Tracia, 570 3°.

Romolo, figlio di Marte, 256.

S §

Saffo poetessa, 173, 177 (nota).

Sagittario, segno dello Zodiaco, 685.

Salii, sacerdoti di Marte, 260.

Salmoneo. Suo orgoglio punito, 246.

Sangaride, ninfa amata da Ati, 50.

Satiri, divinità campestri, 304.

Saturnali, feste in onor di Saturno, 38.

Saturno. Sua nascita, 26 ; — suo impero, 27 ; — sua moglie, 28 ; — suoi figli, ivi ; — è combattuto e fatto prigione da. Titano, 30 ; — sue avventure con Giove, 30, 31 ; — si rifugia in Italia, 32 ; — ricompensa Giano, 33 ; — suo regno in Italia, detto Età dell’oro, 34 ; — feste in onor suo, 38 ; — come vien rappresentato, 39.

Scheneo, re di Sciro, 640.

Scilla. Sua metamorfosi, 202.

{p. 420}Scioun, 744.

Sciro, assassino, 410.

Scorpione, segno dello Zodiaco, 684.

Scurrilità, 77.

Semele, madre di Bacco, 75 ; — vittima della gelosia di Giunone, 147-148.

Senocrate, 670.

Serapide, divinità Egiziana, 705. Vedi Osiride.

Sette Savi (i) della Grecia, 722.

Sette meraviglie (le) del Mondo, 135.

Sfinge, mostro, 497.

Sibille, 665 ; — le più celebri, 667.

Sibillini (libri), 666.

Sicheo, marito di Didone, 611.

Sileno, balio di Bacco, 149, 150.

Silenzio. Vedi Arpocrate.

Silvano, divinità campestre, 302.

Simoenta, fiume, 520.

Sinnide. Vedi Cercione.

Sinone, 606.

Sirene, divinità marittime, 196 ; — loro perfidi artifizj, 197 ; — tentano di sedurre Ulisse ed i suoi compagni, 198.

Siringa. Sua metamorfosi, 299.

Sisifo. Suo delitto e suo gastigo, 245.

Siva, divinità indiana, 721.

Sogni, figli del Sonno, 241.

Sole. Vedi Apollo.

Solone, filosofo, 122.

Sonno, divinità allegorica, 240.

Speranza, divinità allegorica, 349.

Spio, una delle Nereidi, 316.

Stagioni, 688 2°.

Statore, soprannome di Giove, 79.

Stelle o Stellio, convertito in tarantola da Cerere, 57.

Steno, una delle Gorgoni, 357.

Stenobea, moglie di Preto re d’Argo, 462.

Sterculio, figlio di Fauno, 300.

Sterope, Ciclope, 272.

{p. 421}Stige, fiume dell’ Inferno, 221.

Strofio, re della Focide, 533.

Suada. Vedi Pito.

T §

Talete, filosofo, 122.

Talia, una delle tre Grazie, 175.

Talia, una delle nove Muse, 275.

Tantalo. Oltraggia gli Dei, 250 ; — suo gastigo, 251.

Taranete, divinità gallica, 732.

Tartaro. Vedi Inferno.

Taumante, 93.

Tauride, 529.

Tauro o Toro, segno dello Zodiaco, 678.

Teagene, 670.

Tegirio re in Tracia, 60, nota 1.

Telamone, padre d’Ajace, 229, 561.

Telefo, figlio d’Ercole, 570 4°.

Telegono, figlio d’ Ulisse, 582.

Telemaco, figlio d’ Ulisse, 480, 469.

Tellus, nome di Cibele, 41.

Temi, Dea della giustizia, 337.

Tempo, divinità allegorica. Vedi Saturno, 27

Tenaro. Vedi Tartaro.

Tereo. Sue avventure, 635.

Termine, divinità campestre, 308.

Termodonte, fiume, 432.

Terpandro, 478 (nota).

Terra, 25, 26.

Tersandro, 510 (nota).

Tersicore, una delle nove Muse, 275.

Teseo. Sua nascita, 402, 403 ; — sua infanzia, 404 ; — sue gesta nell’Attica, 405 ; — riconosciuto da suo padre, 406 ; — uccide Falaride, 408 ; — Sciro, 410 ; — Procuste, 411 ; — Perifato, 412 ; — Cercione, 413 ; — combatte e uccide diversi mostri e il Minotauro ; 414-417 ; — combatte[ILLISIBLE] Centauri, 429 ; — vince le Amazzoni, 432 ; — [ILLISIBLE] {p. 422}prigioniero all’inferno, 434 ; — sposa Fedra, 435 ; — abbandona il figlio alla vendetta di Nettuno, 437 ; — morte di Teseo, 439.

Tesifone. V. Tisifone.

Tesmoforie, feste in onor di Cerere, 60.

Testio, re dell’ Etolia, 74.

Teti, Dea del Mare, 192, 193.

Teti, madre d’ Achille, 320.

Teucro, figlio di Telamone e d’ Esione, 229.

Teutatète, divinità gallica, 727.

Tideo, eroe greco, 506.

Tieste, figlio di Pelope, 515.

Tifone, fratello d’Osiride, 698.

Tifone o Tifeo, gigante, 69.

Tindaridi, soprannome di Castore e Polluce, 441.

Tindaro, re di Sparta, ivi.

Tiresia, indovino, 660, 661.

Tisbe, amante di Piramo, 644.

Tisifone, una delle Furie, 232.

Titani, discendenti di Titano ; loro guerra contro Giove : e loro disfatta, 65-69.

Titano. Sua nascita, 26 ; — cede l’impero a Saturno, 27 ; — gli dichiara la guerra, 30.

Titea o la Terra. Vedi Vesta, 26.

Titone, marito dell’Aurora, 112.

Tizio. Suo delitto e suo gastigo, 249.

Toossa, una delle figlie di Forco, 204.

Trasibulo, 670.

Tridente di Nettuno, 209.

Tripode della Sibilla di Delfo, 122.

Tritoni, figli di Nettuno, 190.

Trittolemo. Impara l’agricoltura da Cerere, 54.

Trofonio, oracolo di Giove o d’Apollo, 81 e nota.

Troja. Sua fondazione, 517 ; — sua distruzione, 523.

Troilo, 521 5°.

Troo, 517.

Tros, re di Troja, 87.

Turno re dei Rutuli, 614.

{p. 423}

U §

Ulisse, re d’ Itaca, 568 ; — sua finta follia, 569 ; — sue gesta all’assedio di Troja, 570 ; — scampa da Polifemo, 573 ; — tempesta che distrugge gran parte della sua flotta, 574 ; — si libera dagli incantesimi di Circe, 575 ; — sua discesa all’Inferno, 576 ; — sua dimora nell’isola di Calisso e presso Alcinoo re dei Feaci, 578 ; — suo ritorno a Itaca, 579 ; — come egli punisce i Proci, 580-581 ; — sua morte, 582.

Urania, una delle nove Muse, 275.

Urano, vedi Celo.

V §

Valhalla, 743.

Vaso di Pandora, 73.

Vello d’Oro, 449.

Venere. Sua nascita, 170 ; — sposa Vulcano, 171 ; — suoi figli 172 ; — Cupido, 173 ; — Imene, 174 ; — le tre Grazie, 175 ; — Enea, 176 ; — protegge Adone, 177 ; — punisce Psiche, 178 ; — luoghi ov’era adorata, 179 ; — suoi diversi nomi, 180 ; — come rappresentata, 181 ; — giudizio della bellezza, 600.

Venti, 651, 652.

Vergine, segno dello Zodiaco, 682.

Verità, divinità allegorica, 350.

Vertunno, Dio delle stagioni, 311.

Vespero, Dio della sera, 239.

Vesta o la Terra, moglie di Celo, 43.

Vesta o Cibele, moglie di Saturno, 44.

Vesta, figlia di Saturno, 45.

Vestali, sacerdotesse di Vesta, 46.

Via Lattea, 366.

Vialis, soprannome di Mercurio, 168.

Vigilanza, divinità allegorica, 347 3°.

Virtù, divinità allegorica, 351.

{p. 424}Visnù, divinità indiana, 722 e seg.

Vittoria, divinità allegorica, 348.

Vitzliputzli, 744.

Vulcano, Dio del fuoco, 270 ; — sposa Venere, 271 ; — ha per compagni i Ciclopi, 272.

W §

Walchirie, 743.

X §

Xanto, fiume, 520.

Xenus, soprannome di Giove, 79.

Y §

Yduna, 743.

Z §

Zeffiro, vento di Ponente, 104, 652, 657.

Zete, figlio di Borea, 654.

Zeto, figlio d’Antiope e di Giove, 74.

Zodiaco. Spiegazione dei segni che lo compongono, 676 e seg.

Zoroastro, legislatore dei Persiani, 714.

FINE.