Pietro Napoli Signorelli

1813

Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome IV

2019
Pietro Napoli Signorelli, Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi, tomo IV, [3e éd.], Napoli, presso Vincenzo Orsino, 1813, 227 p. PDF: Google.
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[Epigrafe] §

                     Ardito spira
Chi può senza rossore
Rammentar come visse allor che muore,
Metastasio nel Temistocle.
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STORIA DE’ TEATRI.

CONTINUAZIONE del Teatro Latino e del Libro II §

CAPO V §

I.

Diverse specie di favole sceniche latine. §

Ebbe il teatro Latino due specie di tragedie, drammi Italici, diverse commedie, mimi e pantomimi. Le tragedie erano o palliate che imitavano i costumi de’ Greci, a’ quali appartenevasi il pallio, o pretestate, che dipingevano i costumi de’ Romani i quali usayano la pretesta. Di quest’ultima specie erano: la tragedia di Ennio intitolata Scipione, il Bruto di Azzio, l’Ottavia di Mecenate, e l’Ottavia che si è voluta attribuire a Seneca ec.

Le favole Italiche, delle quali parla Donato nella prefazione alle commedie {p. 4}di Terenzio, erano azioni giocose di personaggi pretestati, le quali dovevano rassomigliare alla greche Ilarodie.

La commedia latina si copiò dalla Nuova de’ Greci, e non ebbe coro di sorte alcuna. La caterva introdotta nella Cistellaria di Plauto, e il grex che trovasi nell’Asinaria, ne’ Cattivi, nella Casina, nell’Epidico e nelle Bacchidi del medesimo, altro non sono che il corpo o coro intero degli attori, il quale con pochissimi versi nella fine prende commiato dall’uditorioa. Terenzio neppure di tal gregge fece uso; ond’è che nè anche da ciò derivare il farfallone di certo Francese, il quale, come narra Madama Dacier, lodava i cori delle commedie di Terenzio.

Se si attenda all’attività dell’azione, {p. 5}la commedia latina divideasi in motoria e stataria; se si miri alla natura de’ costumi imitati, essa era palliata, ossia greca, o togata, ossia romana; e quest’ultima dividevasi in togata propriamente detta, in tabernaria, ed in Atellana. La togata propria era seria, e corrisponderebbe alla moderna commedia nobile, e talvolta giugneva ad essere pretestata, a cagione de’ personaggi cospicui che soleva ammettere, ed anche trabeata, così detta dall’antica trabea reale degli auguri e de’ re. Questo genere di commedia togata trabeata parve nuovo a’ tempi di Augusto; e su inventato da Cajo Melisso da Spoleto, il quale nato ingenuo ma esposto per la discordia de’ suoi genitori, fu poscia donato per gramatico a Mecenate, per la cui opera insinuatosi presso Augusto fu preposto a rassettare le biblioteche nel Portico di Ottaviaa. La tabernaria {p. 6}frammischiava l’eccellenza alla bassezza, e prendeva il nome da taberna, luogo frequentato da persone di ogni ceto. L’Atellana era una commedia bassa, sì, ma piacevole, lontana alla prima da ogni oscenità e licenza scurrile (siccome nel secondo capo del presente libro abbiamo osservato) indi contaminata dall’esempio de’ mimi. Essa per quel che ricavammo da Strabone, si recitò lungo tempo da attori privilegiati che godevano della Romana cittadinanza, e nella lingua nativa del paese degli Osci donde venne; ma dopo alcun tempo verisimilmente se ne continuo lo spettacolo anche nel commune linguaggio latino, giacchè troviamo diversi scrittori Atellanarii latini. Tra questi si distinse Lucio Pomponio Bolognese, il quale fiorì nel tempo che Tullio prese la toga virile. Nonnio, Prisciano, Carisio, Festo e Macrobio, hanno conservati i nomi di moltissime sue favole. Tali sono: gli Adelfi, Agamennone supposto, l’Aruspice, l’Asinaria, l’Atreo, il Citarista, i Campani, la Cena, {p. 7}il Collegio, la Conca, l’Ergastolo, i Galli transalpini, le Calende Marzie, il Lare famigliare, il Medico Pansa, o la Sposa di Pappo, le Nozze, il Zio, la Filosofia, i Pittori, i Pescatori, la Porcaria, il Rustico, la Satira, i Sinefebi, Verre ammalato, Macco esule, i due Macchi, Pitone Gorgonio, ed altre moltea. Di quest’ultima favola parlando Scaligero intorno a Varrone, dice: Pomponio poeta Atellanario intitolò certo esodiob Pitone Gorgonio, il quale, a mio credere, altro non era che il Manduco, perchè il nome di Pitone è posto per incutere terrore, e Gorgonio equivale a Manduco, dipingendosi i Gorgoni con gran denti. {p. 8}Manduco era un personaggio ridicolo coperto di una maschera di grandi guance con certi dentacci che si movevano e facevano molto strepito, ond’è che i ragazzi se ne spaventavanoa. Questo personaggio era menato intorno ne’ giuochi con altre maschere spaventevoli e ridicole, principalmente nel rappresentarsi le Atellane. Altre figure ridicole introducevano i poeti Atellanarii nelle persone del Macco e del Buccone, delle quali favellasi in un passo di L. Apulejo da Giusto Lipsio interpretato scrivendo a Niccolò Briardob. Erano esse figure sceniche e notabili per la sordidezza, goffagine e satuità. Il dotto Anton Francesco Gori riconosce il Macco degli antichi in una figura trovata nel Monte Esquilino e conservata nel Museo di Alessandro {p. 9}Capponi. Essa avea due gran gobbe nel petto e nelle spalle, coprivasi di ampie braghe insino a’ piedi, portava in testa una berretta aguzza, e una maschera in volto alterata da un gran naso. Stimava il lodato valoroso antiquario che la voce Maccus appartenesse alla lingua osca, la qual cosa non sembra improbabile; ma è pur certo che la greca voce μακκαειν, delirare, e L’altra μακκοαω, far l’indiano, usata da Aristosane ne’ Cavalieri, corrispondono alla goffaggine e alla stolidità del Macco degli Atellanarii.

II.

Quali attori in Roma si reputassero infami. §

In proposito degli attori delle Atellane vuolsi osservare che tra’ privilegii loro accordati era quello di escludere dalla rappresentazione de’ loro esodii o farse giocose gli altri istrioni, i quali per lo più erano schiavi, e in generale {p. 10}pochissimo considerati fuori della scena. Non era dunque L’esercizio del rappresentare quello che disonorava gli attori in Roma, ma si bene la loro condizione di servi accoppiata alla vita dissoluta che menavano; là dove gli Atellani liberi e morigerati sino a certo tempo, godevano della stima della società e delle prerogative di cittadini. Egli è però da avvertirsi che anche gli altri istrioni, allorchè viveano onestamente e segnalavansi per L’eccellenza del loro mestiere, si onoravano e si ammiravano. Notissima è la stima particolare che Cicerone avea del tragedo Esopo e del dotto Roscio, come appare dalle Lettere di lui. Il medesimo Oratore, secondo Macrobio, riprese il popolo Romano in una orazione per avere una volta schiamazzato rappresentando Roscioa. E lo stesso Macrobio ci assicura che dal Dittatore L. Cornelio Silla venne Roscio onorato col {p. 11}l’anello d’oro, cioè fu ascritto all’ordine equestre. In fatti la disistima che ebbesi poscia per le persone di teatro in Roma, non pare che cadesse su i tragedi e i comedi, ma su gli attori mimici de’ quali parleremo appressoa. Senza ciò che dovremmo pensare di Augusto, il quale, non già per pena fulminata contro di loro, ma per grandezza, secondo me, espose alcuni cavalieri e matrone Romane a rappresentare in teatrob? Fu questo poi vietato con un Senatoconsulto; ma sembra che il divieto fosse andato indi in {p. 12}disuso, trovandosi appresso trasgredito. Domizio avo di Nerone, chiaro poi per gli onori trionfali, sotto Augusto fè rappresentare una farsa mimica in pubblico da matrone e cavalieri in vece de’ soliti attoria. Pisone il quale fu in procinto di essere acclamato imperadore e sostituito a Nerone, se la congiura di tanti illustri Romani non si fosse scoperta, soleva esercitarsi a rappresentar tragedieb. Nerone stesso ne’ Giuochi Massimi prese dall’ordine Senatorio ed Equestre varie persone di entrambi i sessi, e le fe rappresentarec. L’eroe, il filosofo Trasea Peto, nel quale, al dir di Tacito, volle Nerone estinguere la virtù stessa, in Padova sua patria cantò vestito da tragedo ne’ Giuochi Cestici istituiti dal Trojano Antenored.

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III.

Mimi. §

I Mimi de’ Latini furono picciole farse buffonesche usate da prima per tramezzi che poscia formarono uno spettacolo a parte, avendo acquistato molto credito per l’eccellenza di alcuni poeti che ne scrissero, e molta vaga per la buffoneria che gli animava, e per la sfacciataggine delle mime.

A tempo di Giulio Cesare fiorirono due celebri scrittori di favole mimiche, Decimo Laberio cavaliere Romano, e Publio Siro schiavo e poi liberto. Laberio per suo esercizio e diletto compose moltissimi mimi che si rappresentavano, e forse da lui stesso ancora privatamente. La qual cosa per avventura non ignorando Giulio Cesare volle che negli spettacoli dati per lo suo trionfo Laberio stesso comparisse in teatro (siccome avea già obbligati i due principi reali dell’Asia e {p. 14}della Bitinia a danzare in pubblico la pirrica) promettendogli cinquecentomila sezterzii, cioè intorno a quattordicimila ducati napolitani. Più di questa offerta valse forse a persuader Laberio ad avvilirsi in simil guisa la potenza di Cesare che invitando comandava. Obedi, ma se ne vendicò in un prologo, di cui ecco una parte:

Necessitas, cujus cursus transversi impetum
Voluerunt multi effugere, pauci potuerunt,
Quò me detrusit pene extremis sensibus?
Quem nulla ambitio, nulla unquam largitic,
Nullus timor, vis nulla, nulla autoritas
Movere potuit in juventa de statu,
Ecce in senecta ut facilè labefecit loco
Viri excellentis mente clemente edita
Submissa placide blandiloquens oratio.
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Etenim ipsi dii negare cui nil potuerunt,
Hominem me denegare quis posset pati?
Ego bis tricenis annis actis sine nota
Eques Romanus lare egressus meo
Domum revertar mimus. Nimirum hac die
Uno plus vixi mihi quam vivendum fuit.

Nella stessa favola poi sparse altri tratti di satira che andavano a colpire il Dittatore. Col vestito di uno schiavo che era bastonato, gridava fuggendo,

Porrò, Quirites, libertatem perdimus;

Ed aggiunse appresso,

Necesse est multos timeat, quem multi timent;

al qual motto si rivolse il popol tutto a mirar Cesarea. Ma quantunque {p. 16}sentisse questi le punture, mantenne la parola quanto al premio, e gli diede anche l’anello quasi in segno di ristabilirlo nella dignità equestre, dalla quale pareva Laberio per capriccio di lui decaduto. Andò questo mimo cavaliere dopo la rappresentazione a prender luogo tra gli altri della sua classe, e si abbattè in Cicerone, il quale mostrandosi imbarazzato diceva non potergliene dar molto a cagione della gran folla che vi era, alludendo al gran numero di senatori e cavalieri creati da Cesare. Ma Laberio che non cedeva all’Arpinate nel motteggiare, rispose che non si meravigliava che stimasse di stare a disagio in un solo sedile chi era solito di occuparne due in un tempo, satireggiando in tal guisa la doppiezza ed incostanza dell’Oratore. Orazioa riprende i mimi di Laberio come poco eleganti; e veramente egli si arrogava una gran libertà {p. 17}d’inventar parole nuove, siccome leggesi in Aulo Gellio. Scaligero però stima ingiusta la censura di Orazioa; quasi che egli da’ frammenti soli che ne rimangono, potesse giudicar più drittamente di un Orazio che ne conobbe i componimenti interi. Di varie farse di Laberio fanno menzione gli antichi, e specialmente il nomato Gelliob: Theophinus, Fullonica, Staminarii, Restis, Compitalia, Cacomemnon, Nacca, Saturnalia, Necromantia, Scriptura, Alexandra, nel qual mimo diffinisce il giuramento,

Quid est jusjurandum? emplastrum aeris alieni.

In un altro suo mimo intitolato Rector inserì i seguenti versi sull’acciecamento di Democrito da un vecchio avaro applicato a’ proprii casi:

Democritus Abderites physicus philosophus clypeum
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Constituit contra exortum Hyperionis, oculos
Effodere ut posset splendore aereo, ita radiis
Solis aciem effodit luminis, malis bene
Esse ne videret civibus! Sic ego
Fulgentis splendore pecuniae volo
Elucificare exitum aetatis meae,
Ne in re bona videam esse nequam filium.

Publio Siro così denominato dalla Siria ove nacque, fu schiavo in Roma, ma ottenuta la libertà andò rappresentando i suoi mimi per l’Italia. Tornato indi a Roma ne’ giuochi di Cesare riportò vittoria di tutti gli attori e poeti e di Laberio stesso. Cesare offeso dall’arroganza e maldicenza di costui, abbracciò volentieri l’occasione di mortificarlo, dichiarandosi pubblicamente a favore de’ mimi rappresentati da Publio. Di questo liberto sono a noi pervenute alcune centinaja di versi, i quali contengono eccellenti sentenze e insegnamenti per la vita civile, e {p. 19}l’eleganza che vi si ammira ci rende molesta la perdita delle intere sue favolette. In sentimento di Cassio Severoa i detti sentenziosi di Publio reputavansi superiori a qualunque comico e tragico greco e latino. Aulo Gellio ce ne ha conservati moltissimi versi. Fra quelli che più volte se ne raccolsero e si stamparono, ne sceglieremo per saggio alcuni pochi che ci sembrano degni di riferirsi con ispezialità per la nitidezza, l’eleganza, e le verità che esprimono:

Ad poenitendum properat, citò qui judicat.
Amici vitia si feras, facis tua.
Bis vincit qui se vincit in victoria.
Citò ignominia fit superbi gloria.
Felix improbitas, optimorum est calamitas.
Heredis fletus sub persona risus est.
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Fortuna vitrea est, tunc cum splendet, frangitur.
Ignoscito saepe alteri, nunquam tibi etc.

Altri non divulgati trovansene in fine di un codice del Capitolo Veronese, alcuni de’ quali sono riferiti dal marchese Maffei nel suo trattatino de’ Teatri:

Vincere est honestum, opprimere acerbum, sed pulchrum ignoscere.
Poenae satis est, qui laesit, cum supplex venit.
Etiam sine lege poena est conscientia.
Sat est disertus, pro quo veritas loquitur.

Dopo i mentovati si distinsero tra’ mimografi Lentulo, di cui favellano san Girolamo e Tertulliano; Gn. Mazio da Gellio appellato dottissimo; e Lucio Crassizio di famiglia Tarantino. Costui ebbe il cognome di Paside che poi si trasformò in Panza, ed attese da prima agli studii teatrali, e compose {p. 21}alcuni mimi. In Ismirne acquistò rinomanza con un dotto commentario, ed in Roma insegnò le belle lettere a molti nobili e specialmente a Giulio Antonio figliuolo del Triumviro. Fu stimato al pari del famoso Verrio Flacco precettore de’ nipoti di Augusto. Terminò il suo corso dandosi alla filosofia dietro la scorta del filosofo Quinto Settimo.

I mimi prodotti da tali scrittori erano ingegnosi, morali e piacevoli, nè si scostavano moltissimo dalla commedia. Ma la buffoneria e l’oscenità a poco a poco corruppe queste picciole farse, specialmente come vi s’introdussero le donne. Dicemmo nel teatro Greco che nelle commedie e tragedie non rappresentavano donne, ed in Roma avvenne lo stesso. L’istrione Rutilio rappresentava le parti di Antiopa ed altre donne. Nerone stesso, secondo Suetonio, colla maschera finta a somiglianza delle femmine che egli amava, cantando rappresentò Canace che {p. 22}partorivaa. Non così nelle mimiche rappresentazioni, nelle quali, per condire di oscenità la buffoneria, s’introdussero le donne. Allora fu che de’ mimi degenerati si disse da Ovidio, imitantes turpia mimi, e che Diomede diffinì la mimica, factorum turpium cum lascivia imitatio. Da quel tempo s’introdussero ne’ fasti scenici mentovati i nomi delle mime Origine e Arbuscula, delle quali favella Orazio ne’ Sermoni, e di Citeride mima favorita di Marcantonio, e di Lucilia mima che visse sino a cento anni nominata da Plinio. Della sfacciataggine di simili mime sono pieni gli scrittori. Mima e meretrice diventarono sinomini. Sul {p. 23}medesimo teatro, non che nelle case, campeggiava la loro impudenza. A un cenno del popolo nel tempo de’ Giuochi Florali dovevano snudarsi e fare spettacolo del proprio corpo. Ma in tal caso dir non saprei, se maggiore sfacciataggine mostrassero queste schiave in eseguirlo, o il popolo in comandarlo. Assisteva Marco Porcio Catone a’ Giuochi Florali fatti dall’Edile Messio l’anno di Roma DCXCVIII, ed il popolo si vergognò di chiedere che le mime deponessero le vesti, rispettando la presenza di quel virtuoso cittadino; ma egli avvertitone da Favonio suo amico uscì dal teatro, ed il popolo contento l’accompagnò con plausi strepitosi, e richiamò sulla scena quell’antico costumea. Da simili {p. 24}impudicizie mimiche provenne il discredito del teatro presso i Padri della Chiesa. Quindi Tertulliano chiamò il {p. 25}teatro concistorium impudicitiae; san Basilio communem et publicam lasciviae officinam, e san Gregorio Nazianzeno scholam foeditatis. Minuzio Felice nel terzo secolo dell’era Cristiana de’ Mimi dice in fine del suo Ottavio: In scenis etiam non minor furor, turpitudo prolixior, nunc enim mimus vel exponit adulteria vel monstrat, nunc enervis histrio amorem dum fingit, infligit. Un’ secolo dopo {p. 26}il prelodato Lattanzio Firmiano disse ancora: Quid de mimis loquar corruptelarum praeferentibus disciplinam, qui docent adulteria, dum fingunt, et simulatis erudiunt ad vera?

IV.

Pantomimi. §

I Pantomimi coltivati in Roma poterono derivare dalla tacita gesticolazione di Livio Andronico o dalle antiche danze Orientali e Greche surriferite, nè se ne può ragionevolmente attribuire la prima invenzione a Batillo e Pilade famosi istrioni ballerini del tempo di Augusto. Al più questi diedero all’antica arte pantomimica un gusto più moderno. C. Giulio Batillo di Alessandria dalla prisca danza comica formò l’Italica, la quale per la troppa oscenità diede motivo ai tratti satirici di Giovenale nella citata satira sesta. P. Elio Pilade di Cilicia spiccò ne’ balli tragici, e secondo Suida ed {p. 27}Ateneo compose anche un libro in tal materia. Egli ebbe un discepolo chiamato Ila, il quale rappresentando co’ gesti una tragedia, nel voler esprimere queste parole, il grande Agamennone, sollevò la persona. Pilade lo disapprovò, affermando che il gesto di lui esprimeva alto, e non grande. Volle allora il popolo che sottentrasse il maestro a rappresentar la stessa cosa, ed egli obedì, e giunto a quelle parole si compose in atto grave colla mano alla fronte in guisa di uomo che medita cose grandi, e caratterizzò più acconciamente la persona di Agamenonea. Altre delicatezze di Pilade e del discepolo Ila nel rappresentare vengono accennate dal citato Macrobio. Di qualche altro seguace o imitatore di Pilade dovè parlare Manilio dicendo:

Omnis fortunae vultum per membra relucet.
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……………………… cogetque videre
Praesentem Trojam, Priamumque ante ora cadentem;
Quodque aget, id credes stupefactus imagine veri.

Il nominato Ila però sommamente licenzioso ad istanza del Pretore fu da Augusto nella propria casa fatto pubblicamente bastonarea. Da Batillo e Pilade si formarono le due famose scuole o partiti chiamati i Batilli e i Piladi, i quali scambievolmente si disprezzavano e facevansi ogni male. Batillo favorito da Mecenate giunse a far bandire da Roma e dall’Italia il suo emulo Pilade, benchè Suetonio ci dica esser costui stato esiliato, per avere dalla scena mostrato a dito uno degli spettatori che lo beffeggiava. Ebbe egli poi tanti protettori che fu richiamato. Questi partiti produssero sanguinose fazioni nella città dominatrice del mondo. Nerone che se ne compiaceva, {p. 29}assisteva talora ascoso in teatro per goderne, e al vedere attaccata la mischia soleva anch’egli gettar pietre contro i partigiani della fazione contraria; e una volta ruppe il capo a un Pretorea. E in quale altra guerra avrebbe fatte le sue prodezze un imperadore che si gloriava di esser contato tra’ musici ed istrioni? Finì in Roma ogni gloria della poesia drammatica, allorchè cominciò a regnarvi la moda delle buffonerie e delle oscenità de’ mimi e de’ pantomimi, spettacoli più atti a trattenere un popolo che andava degenerando.

Ma le nostre querele e quelle di tanti scrittori contro de’ pantomimi, cadono sulla loro arte o sulla scostumatezza? L’arte al fine altro non è che una vivace rappresentazione che unita acconciamente alla poesia drammatica serve ad animarla. Ora se gli attori pantomimi giunsero a rappresentare con tal verità e delicatezza che non soccorsi {p. 30} dall’elocuzione tutta sapevano esprimere una favola scenica, come si può senza nota di leggerezza asserire, che l’arte pantomimica à la honte de la raison humaine fit les delices des Grecs et des Romains, secondochè declamò m. Casthillon? I talenti possono mai far vergogna alla ragione, sempre che i costumi sieno puri? La tragedia di Medea espressa mirabilmente per gesti da Mnestere, poteva recar vergogna alla ragione perchè le matrone Romane innamoravansi di tali istrioni ballerini, o perchè essi prendevano dominio su gl’imperadori e influivano negli affari del governo? Ma gli errori di quell’oltramontano su i pantomimi ed altre particolarità teatrali e non teatrali non sono nè piccioli nè pochi. Chi mai, se non costui, senza pruova veruna, confondendo fatti ed idee e passando di un salto leggero sulle terribili vicende dell’Europa, che, per così dire, la fusero e rimpastarono di nuovo, chi, dico, avrebbe francamente scritto che le fazioni per gli pantomimi perpetuaronsi {p. 31}perpetuaronsi per mille e dugento anni sino a produrre (che cosa mai?) i partiti de’ Guelfi e de’ Ghibellini? È vero che in Roma ed in Costantinopoli arsero le fazioni de’ Verdi e de’ Turchini nel circo e ne’ teatri; ma è vero ancora che i pantomimi influirono negl’interessi e nell’origine degli odii de’ Guelfi e de’ Ghibellini quanto v’influì la discordìa de’ Tebani Eteocle e Polinice.

CAPO VI.

Teatro Materiale. §

Roma prima del tempo di Pompeo ebbe teatri magnifici che per qualche occorrenza si eressero di legno, e si disfecero. Tutto ciò che osservammo nella costruzione del teatro Greco, videsi ne’ teatri Romani innalzati estemporaneamante. Vitruvio ci fa sapere che in essi soltanto desideravansi que’ vasi di rame che rendevano la voce più sonora, e che questi non istimaronsi necessarii, perchè i tavolati a un di presse {p. 32}so facevano l’effetto medesimo de’ vasi. Incredibile era la loro sontuosità. L’immaginazione de’ romanzieri la più fertile non avrebbe potuto ideare un teatro più magnifico di quello di Emilio Scauro quando fu creato edile. Ornavano la scena trecentosessanta colonne divise in tre ordini, nel primo de’ quali esse erano di marmo di trentotto piedi di altezza, nel secondo di cristallo, nel terzo di legno dorato. Tremila statue di bronzo vedevansi collocate fralle colonne. Tali e tanti erano i fregi e i quadri, e così pompose le decorazioni, che essendosi così preziosi materiali bruciati per malignità degli schiavi di lui in una casa di campagna che avea in Tuscolo, ne montò la perdita a cento milioni di sesterzi in circa, cioè intorno a due milioni e ottocentomila ducati napoletani. Qual principe moderno ha mai profuso in un teatro momentaneo il valore che perdè allora quell’Edile?

Il primo che pensò a costruirne uno stabile di pietra, fu Pompeo, e l’eseguì {p. 33}nel suo secondo consolato che esercitò insieme con M. Licinio Crasso l’anno di Roma 699 secondo Plinio e Plutarco; e i lodatori degli andati tempi e costumi suoi coetanei ne’ l censurarono. Il disegno si tolse dal greco teatro di Mitilene; ma si concepì assai più splendido, pieno di commodi e di delizie, e capace di circa quarantamila personea. Nella stessa regione del Circo Flaminio, ove s’innalzò questo teatro Pompeano, se ne vedevano tre altri, cioè il teatro nominato Lapideo, quello detto di Cornelio Balbo, e l’altro eretto da Augusto sotto il nome di Marcello, il quale era il più picciolo di tutti, non potendo contenere che ventiduemila {p. 34}spettatoria. Nè anche in questi teatri stabili Romani si collocarono i vasi di rame o bronzo soprannomati, per quel che osserva il più volte lodato architetto Vitruvio. Tali vasi però si trovavano ne’ teatri d’Italia, e specialmente delle città di greca origine, come Napoli, Taranto ed altre del nostro regno. Nè tutte gli avevano del mentovato metallo, perchè nelle picciole città bastò agli architetti di porvigli di creta, e per esservi artificiosamente collocati vi produssero il medesimo ottimo effettob.

In pochissime altre cose differivano da’ teatri Greci i Romani. Il pulpito Romano era più spazioso del Greco, perchè in Roma ogni spezie di attori operava nel-pulpito, ed all’opposto i {p. 35}Greci, come dicemmo, si valevano dell’orchestra per una specie di attori, cioè pe’ musici e danzatori. In oltre il pulpito Romano non dovea passare l’altezza di cinque piedi, perchè collocato più alto avrebbe incomodato i più ragguardevoli spettatori, i quali sedevano nell’orchestra che ad esso pulpito era immediata.

L’ordine di sedere agli spettacoli Romani era il seguente. Vedevasi nell’orchestra il podio, in cui si collocava una specie di cattedra o trono per l’imperadore, quando vi assisteva, oltre alle sedie curuli de’ magistrati. I senatori occupavano immediatamente alcuni scaglioni superiori della stessa orchestra. Seguivano poscia i quattordici gradini destinati ai cavalieri. Più sopra sedeva la plebe, e gli scaglioni da essa occupati chiamavansi popolari. Tutta adunque la scalinata dividevasi in tre spartimenti, basso, mezzano e superiore, detti da’ Latini ima, media e summa cavea, delle quali parti l’ima occupavasi da’ senatori e {p. 36}cavalieri, e la media e la summa dal rimanente del popolo. La media però era più decente della summa, perchè in questa sedevano le persone più vili e mal vestite. Forse allontanandoci da questa divisione di Giusto Lipsio, non incorreremo in errore, se col dottissimo nostro Mazzocchi divideremo tutta la scalinata in orchestra e in un luogo popolare, e suddivideremo questo in equestre e popolare. Cosi l’ima cavea apparterrà a’ senatori, la parte media più vicina all’orchestra a’ cavalieri, e la più lontana insieme colla summa a’ plebei. Gli ambasciadori stranieri aveano luogo nel più basso spartimento co’ senatori; benchè poscia Augusto al vedere che mandavansi spesso per ambasciadori i figliuoli de’ liberti, negò loro il luogo nell’orchestra. Oltre a ciò pose Augusto nel sedere un ordine diverso dall’antico. I Militari si collocarono in un sito o cuneo separato: in un altro i pretestati co’ loro pedagoghi: in un altro anche a parte i mariti plebei: alle donne, che prima {p. 37}solevano intervenire alla rinfusa, impose che soltanto dall’alto ed in sito segregato, potessero vedere. Le Vestali occuparono un luogo distinto dirimpetto al seggio del Pretorea. Tra esse volle Augusto che si collocasse la sedia di Augusta allorchè veniva in teatrob. I luoghi più elevati riserbaronsi alla plebaglia più sordida ed abjettac.

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CAPO VII.

Copia di Teatri per l’Impero: magnificenza e profusione eccessiva negli spettacoli sceneci. §

Ci si prepara l’increscevole aspetto di un gran voto della storia teatrale. Esso seguì nel lungo periodo interposto dalla corruzione della poesia drammatica sino alla perdita della lingua latina avvenuta principalmente per l’incursione delle barbare nazioni nell’Impero Romano.

Non è già che sotto gl’imperadori de’ tre primi secoli della nostra era cessato fosse il gusto degli spettacoli scenici in Roma ed altrove. I teatri stabili sussistevano nella regione del Circo Flaminio, e alle occorrenze gl’imperadori ne rifacevano quel che dal tempo e dagli accidenti veniva distrutto. Napoli, Capua, Ercolano, Pompei, Nola, Pozzuoli, Siracusa, {p. 39}Catania ed altre città del regno di Napoli e della Sicilia, videro i loro teatri per quel periodo assai frequentati. Di moltissimi altri teatri rimangonci anche oggi gli avanzi nel rimanente dell’Italia. Oltre a quello di Padova, di Pesaro, dell’altro presso il lago di Bolsena rammentato nell’iscrizione pubblicata dal Muratori, di quelli della Toscana accennati dal Borghini, di quello di Anzio, di cui favella il p. Giuseppe Rocco Volpi, e del teatro di Brescia mentovato nelle Memorie Bresciane del Rossi, de’ quali tutti fece menzione il chiarissimo Girolamo Tiraboschia: havvene non pochi altri che in parte ancora esistono e frequentavansi sotto gl’imperadori de’ primi secoli. Torello Saraina Veronese rammenta il teatro della sua patriab, oltre all’anfiteatro superbissimo che ancor si {p. 40}ammira e si conserva col nome d’Arena. Vestigii di teatro veggonsi nel Piceno dove era Alia rovinata dal Goto Alarico, della quale a’ tempi di Procopio rimanevano appena poche reliquie. Nell’Umbria veggonsi in Eugubio alcuni rottami di un teatro, che ebbe le mura reticolatea. Spoleto ancora, secondo il Biondo e il Sabellico, ebbe un teatro rovinato da’ Goti insieme colla città dopo la morte di Teodorico. Veggonsi in Rimini alcuni rottami di mattoni, ne’ quali altri riconosce un teatro, altri un anfiteatro. Ma per avviso venutomene dal riputato professore della Sapienza in Roma Giovanni Cristofano Amaduzzi mio dotto amico, m’indussi a credere che nè l’uno fosse nè l’altro. Le reliquie indicate per suo parere sono opera de’ bassi tempi, come si rileva dal lavoro troppo minuto di alquante basi di colonne colà rimaste. Credonsi percio piuttosto portici dove {p. 41}introducevansi mercatanzie in città dall’antico porto, che ora è in secco; e sussistono ancora le ruine del suo molo chiamate Muraccio o il Terrazzo dell’Ausa fiume che bagna la città dalla parte di oriente. Oltre Terracina ancora, seguitando la Via Appia, nel luogo dove fu Longola città descritta da Dionigi Alicarnasseo e da Livio, vedesi un teatro quadrato appresso il monistero di s. Angelo sul monte, del quale dice il nomato Alberti descrivendo la Campagna di Roma, benchè io abbia veduto molti teatri et anfiteatri…. non però non ho mai veduto il simile a questo. Ma l’istesso Alberti chiama teatro anche l’edificio che in Fidene rovinando schiacciò intorno a ventimila spettatori, stando Tiberio in Capri. Suetonio però da lui citato lo chiama espressamente anfiteatro: Apud Fidenas supra XX hominum millia gladiatorio munere amphitheatri ruina perieranta..

{p. 42}Esistevano intanto in Grecia i già mentovati teatri di Corinto, di Tebe, di Atene, di Delo, di Sparta ecc. Bizanzio ebbe pure un gran teatro, il quale col resto della città su rovinato dalle truppe di Severoa. Antiochia ne avea un altro, e i di lui istrioni furono cagione della trascuraggine e della fatal ruina di Macrinob. In Tebe di Egitto vuolsi che fosse un teatro, e che di là avesse Pilade tratte alcune novità che introdusse nell’arte pantomimica. Erode Ascalonita ne edificò uno assai grandioso in Gerusalemme.

Prima che nella Palestina dominassero i Greci e i Romani, non si trova mentovato verun teatro Ebreo. Fu solo sotto il dominio di tali nazioni che fiorì colà qualche poeta drammatico della nazione Ebrea. Tale fu un Ezechiele citato da autori anteriori all’era {p. 43}Cristianaa. Egli compose una tragedia dell’Uscita degli Ebrei dall’Egitto intitolata Εξαγωγη. Questo Ezechiele veniva appellato il Poeta delle Storie Giudaiche; e i frammenti del di lui dramma si trovano inseriti nella collezione de’ Tragici Greci ed in quella de’ Poeti Cristiani. Ciò che ce ne rimane consiste in una introduzione fatta da Mosè, e in un dialogo pieno di dignità fra questo legislatore e capo degli Ebrei e la Divinità nel roveto ardente, e finalmente in un racconto fatto da un Messo della fuga di quel popolo e dell’evento del Mar Rosso. Vero è che gli antichi poeti Ebrei Davide, Salomone, Asaf, Eman ed altri, si crede che scrivessero pure componimenti drammatici, e per tale senza contrasto è considerata la Cantica di Salomone. Ma che simili poesie pervenissero ad essere spettacolo {p. 44}decorato per fare illusione e dilettare la moltitudine non apparisce. L’antichissima festa de’ Tabernacoli, in cui gli Ebrei divisi in cori cantavano inni al Creatore, tenendo in mano folti rami di palma, di cedro o di altro, conteneva alcuna parte di que’ semi che altrove diedero l’origine alla poesia drammatica; ma pur non si vede che tra gli Ebrei l’avessero prodotta. Essa si rimase sempre una festa sacra, nè mai divenne spettacolo teatrale, come altrove ad altre feste accadde.

Oltre delle regioni Europee già nominate, nel rimanente dove giunsero le vincitrici armi di Roma, trovansi pure teatri. Vedevansi eretti in quella parte dell’Inghilterra, in cui si piantarono colonie Romane. Tacito fa menzione della colonia de’ Veterani di Camaloduno, dove era un tempio dell’imperador Claudio, e un teatro, il quale, fra gli altri prodigii osservati nella rìbellione de’ Trinobanti governando Paulino Suetonio i Brittanni, s’intese {p. 45}risonare di gemiti ed urlamentia.

Nella Spagna solevano alle occasioni alzarsi alcuni teatri di legno. Cosi fece in Cadice il Pretore Balbo, il quale essendosi straricchito con inaudite estorsioni, rapine e ingiustizie, fe costruirvi un teatro con quattordici ordini di scalini per l’ordine equestre; e per potersi millantare di essere la scimia di Giulio Cesare, nell’ultimo giorno de’ giuochi donò l’anello d’oro all’istrione Erennio Gallo, e lo fe sedere tra’ cavalierib. Oltre a ciò si osservano tuttavia in Murviedro le rovine del teatro Saguntino, essendo questa città eretta nel regno di Valenza sulle ceneri dell’antica Sagunto. Era questo teatro capace di circa novemila persone, secondo il calcolo fattone dal dotto Decano di Alicante don Manuel Martì. {p. 46}tanto amico del nostro Gio: Vincenzo Gravina, nella lettera scrittane a monsignor Zondadaria. Alluse a questo teatro e ad altre antichità di Murviedro il poeta Leonardo Argensola quando scrisse:

Con marmoles de nobles inscripciones
(Teatro un tiempo y Aras) en Sagunto
Fabrican oy tabernas y mesonesb.

Alcuni moderni autori Spagnuoli fanno menzione di altre rovine teatrali che {p. 47}si trovano nella loro penisola. Presso il luogo che oggi occupa Senetil de las Botegas, dove fu l’antico Acinippo della Celtica mentovato da Plinio, trovansi tuttavia esistenti le tre porte della scenaa. Una lega distante da Calpe, venendosi da Algezira, si osservano i vestigii di un teatro e di un anfiteatro con altre rovine dell’antica città di Tarteso (differente da Cadice che pure portò questo nome) detta da’ Greci Carteia. Tralle antichità di Merida, dove Augusto pochi anni prima dell’era Cristiana mandò una colonia di Legionarii, vedesi tuttavia quasi intera quella parte del teatro che si appartiene all’uditorio, non essendovi rimasto verun vestigio della scenab.

{p. 48}Osserviamo in oltre che non solo dapertutto i popoli vollero aver teatri, ma che mai non furono più sontuosi e frequenti i giuochi scenici quanto ne’ primi secoli dell’Impero. Gl’Istrioni musici, ballerini e declamatori moltiplicaronsi oltremodo. Fin dal regno di Tiberio componevano un corpo sì numeroso, e riceveano pagne sì esorbitanti, che egli videsi obbligato a rimediarvi col minorarne la mercedea. Nè conseguì per questo di scemarne il numero, anzi a tal segno esso crebbe, che di sole ballerine forestiere, secondo Ammiano Marcellinob, contaronsi in Roma più di tremila, le quali coi loro cori e con altrettanti maestri furono privilegiate ed eccettuate da un bando di sgombero dalla città intimato per timore di carestia a tutti i filosofi, retori ed altri letterati stranieri. Era Tiberio uno de’ principi più avversi allo {p. 49}spettacolo teatrale. Egli punì come reo di maestà lesa un poeta che in una tragedia avea inserite alcune parole ingiuriose contro il re Agamennone. Assai di rado egli fecesi vedere nel teatro dopo che una volta a richiesta del popolo videsi astretto a manomettere il comedo chiamato Accioa. Avea promesso di riedificare il teatro di Pompeo bruciato casualmente, non essendovi nella famiglia del gran competitore di Giulio Cesare alcuno che potesse a suo tempo sostenerne la spesa. Ma Tiberio non mantenne la parola, e dopo molti anni fecene appena rifare la scena, che pure lasciò imperfetta, come afferma Suetonio, o almeno ne trascurò la dedicazione, come racconta Tacitob. Intanto però la gente da teatro avea di giorno in giorno acquistato tal predominio sopra i Romani, che i personaggi più illustri, e {p. 50}le matrone più nobili facevano a gara nell’arricchirla, nel trattarla con somma famigliarità, e nell’amarla follemente. Giulio Messala negò il proprio patrimonio a’ parenti, e ne divise le spoglie tra gl’istrioni. Diede a una mima la tunica di sua madre, a un mimo la lacerna del padre, a un tragedo il pallio dorato di color di porpora di sua nonna, e ad un coraulo un altro pallio in cui era ricamato il proprio nome e quello della mogliea. Peggio era avvenuto in tempo di Augusto, che dovè castigare col bando da Roma, dopo di averlo fatto menare scopando per tre teatri, Stefanione togatario, il quale giunse all’impudenza di farsi servire alla tavola da una matrona Romana in abito servileb. Il medesimo Augusto però ebbe sì caro il pantomimo Batillo, che lo creò edituo del suo tempio eretto nel proprio {p. 51}palazzo, siccome apparisce dall’iscrizione scolpita nel di lui sarcofago recata dal Fabretto e dal Ficoroni. Sotto gli altri imperadori degeneri questi eccessi passarono a delirii. Cajo Caligola non avea ritegno di baciare in pubblico l’eccellente pantomimo tragico M. Lepido Mnestere, e quando egli ballava, se sventuratamente qualche spettatore facesse il più picciolo strepito, se ’l faceva recare innanzi e di propria mano lo flagellavaa. Si sa per quali infami vie ottenne il favore di questo medesimo imperadore un altro famoso attore tragico chiamato Apelle, che giunse ad essere noverato tra’ suoi consiglieri. Ma i Caligoli sono come le fiere addimesticate, che non mai si spogliano di tutta la nativa ferità, e quando meno si attende, la riprendono. Trovavasi un dì Caligola presso ad una statua di Giove col suo Apelle, e gli venne il capriccio di {p. 52}domandargli, qual de’ due fra Giove e lui gli sembrasse più maestoso. E perchè Apelle indugiò alcun poco a rispondere, lo fece battere aspramente, insultando frattanto al di lui dolore, con dire che nel tuono lamentevole ancora spiccava la dolcezza della di lui vocea. Vitellio resse l’imperio quasi sempre a voglia degl’istrionib. Eliogabalo distribuì le maggiori dignità a’ pubblici ballerini; molti di essi furono da lui destinati procuratori delle provincie; ne collocò uno nell’ordine de’ cavalieri; un altro nel senatorio; ed uno che da giovine avea rappresentato nella stessa città di Roma, fu da lui creato prefetto dell’esercitoc.

Queste furono le vicende teatrali nell’Impero Romano dopo la Grecia. Se {p. 53}non tutta l’eccellenza drammatica rinacque nel Lazio, una gran parte in Italia ne risorse.

Ma gli Etruschi ed i Campani aveano favole sceniche senza potersi dire di averle tratte da’ Greci. Tali popoli Italiani ne infusero l’amore in quella gente che Romolo avea raccolta intorno ai sette colli. I Semigreci della Magna Grecia Livio Andronico, Ennio, Pacuvio ed anche Nevio Campano, insegnarono loro ad amar le lettere e a coltivar la poesia drammatica. Plauto calcando le orme di Epicarmo, e non di Aristofane, ed imitando a un tempo Difilo, Filemone, Demofilo rallegra co’ suoi sali un popolo guerriero. Dopo Cecilio il cartaginese Terenzio seguito da Afranio, indossando felicemente le spoglie preziose di Menandro e degli Apollodori, mal grado delle gloriose vestigia impresse in Roma del festivissimo Plauto, introduce in Roma la bella commedia, la quale non che a’ filosofi e letterati, piacque ai migliori della repubblica, ai Furii, agli Scipioni, ai {p. 54}Lelii. Ennio, Accio, e Pacuvio vi riconducono con decoro e gravità la greca tragedia, e spianano il sentiero al Tieste di Vario, all’Ottavia di Mecenate, alla Medea di Ovidio, all’Ippolito e alla Medea e alla Troade di Seneca e all’Agave di Stazio. La grandezza eroica campeggia nel loro stile con carattere particolare, meno attaccato alla naturalezza greca, e più confacente alla maestà Romana. Il perno però su cui volgesi la tragedia Romana, è lo stesso della Greca, cioè il fatalismo, se tralle conosciute se ne eccettui la Medea, che regge per la sola combinazione delle passioni, nè mette capo nella catena di un destino inesorabile.

Ma i Mimi e i Pantomimi trionfano del socco e del coturno sotto gl’imperadori, i quali, non che flagellare i togatarii e gli atellanarii, solevano punir coll’ultimo supplicio i tragici che non rispettavano la memoria de’ re della stessa mitologia o della più remota antichità, come Agamennone. {p. 55}Abbandonato il teatro ai Pitauli e Corauli, ai Mnesteri, ai Paridi, ai Batilli e ai Piladi, più non ammise la commedia Terenziana che parve fredda, insipida, indifferente ad un popolo snervato e corrotto, che sotto Eliogabalo si compiaceva de’ mimici stupri e adulterii, non che finti e imitati, rappresentati al vivo sulle scene profanate. Cosi la vera drammatica senza perfezionarsi nel Lazio fu distrutta dalle depravazioni mimiche, ed il teatro divenne lo scopo delle invettive de’ Cirilli, de’ Basilii, degli Agostini e de’ Lattanzii.

Giacque colla mole dell’istesso Impero sotto i barbari del settentrione, ogni coltura, e sparvero le arti involte in un caliginoso nembo almeno di dieci secoli di barbarie. A cui toccò la gloria di dissiparlo? Dove risorsero le arti, la drammatica, la coltura?

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LIBRO III §

CAPO I

Vuoto della Storia Teatrale nell’età mezzana. §

Chiamo vuoto della storia teatrale la decadenza della poesia drammatica e la mancanza degli scrittori.

I.

Onde provenisse la decadenza della drammatica. §

Non ostante il numero e la magnificenza de’ teatri e gli onori e le ricchezze prostituite agl’istrioni, vuolsi raffigurare ne’ tempi di mezzo il voto della storia teatrale, quando la drammatica più non contò scrittore veruno Greco o Latino che meritasse di passare a’ posteri. Appena in Roma ripetevansi le antiche produzioni, ed il popolo trovava insipido ogni altro {p. 57}spettacolo scenico, fuorchè i pantomimi e i mimi che occuparono interamente le scene.

Potrebbe quì domandarsi, perchè mai in Roma, dove la poesia si elevò sino al punto di partorire Orazii e Virgilii, non potesse, specialmente sotto gl’imperadori, sorgere un Sofocle e un Menandro? Manifesta a me ne sembra la ragione. Sotto la repubblica surse un Accio, un Cecilio, un Plauto, un Afranio, un Terenzio, i qùali se non uguagliarono i Menandri e i Sofocli, passarono innanzi a molti tragici e comici della stessa Grecia; e questi principii avrebbero accelerata la perfezione della poesia rappresentativa. Ma la repubblica sotto gl’imperadori se non si estinse totalmente, cangiò almeno di aspetto, ed i costumi si alterarono enormemente. I Romani da eroi che erano e superiori a’ principi stranieri, come credevansi, divennero de’ proprii signori bassissimi cortigiani. La libertà cedette all’adulazione, l’indipendenza e l’orgoglio al timore, e il dispotismo {p. 58}senza freno o moderazione atterrì i poeti drammatici, e ne intepidì e raffreddò il genio. Agamennone Greco maltrattato in una tragedia Romana divenne un delitto di stato. In quale monarchia moderata si è mai più ciò veduto? Alcuni versi inseriti in un’altra, e dalla malignità naturale degli adulatori interpretati contro del principe, cagionarono la morte del poeta. Uno scrittore di favole Atellane per un verso ambiguo fu da Caligola fatto bruciar vivo in mezzo dell’anfiteatro. E chi poteva amare e coltivare una poesia che menava alla morte e all’infamia del supplizio per l’apparenza di un delittoa? Abbiamo già {p. 59}osservato che la legge ora dirige ora aguzza gl’ingegni, e l’arte si perfeziona. Ciò però s’intende, quando la legge guidata dalla saviezza gastiga i delitti manifesti, non già quando un’arbitraria indomita passione gli crea, ed infierisce contro l’innocenza, e punisce ne’ deboli i proprii sogni e vaneggiamenti. Il veleno è un {p. 60}antidoto, ma dà la morte se intempestivo si adopri, o se la dose ecceda il bisogno. Non è adunque meraviglia che anche in tempi luminosi la drammatica contati avesse così pochi coltivatori. Vero è che Plinio ascrive a lode di Trajano che il popolo stesso abborriva sotto di lui l’effeminatezza de’ pantomimi. Vero è ancora che, per quanto Sparziano ne racconta, l’imperadore Adriano ne’ suoi conviti amava di far rappresentare commedie, tragedie e atellane. Ma le cagioni distruggitrici della drammatica sussistevano, e i costumi e gli studii aveano già preso nuovo cammino.

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II.

In quali secoli quasi del tutto mancarono gli scrittori scenici. §

IN tempo di Antonino Pio troviamo da Capitolino mentovato solamente Marco Marullo attore e scrittore di favole mimiche, il quale ebbe l’ardire di satireggiare i principali personaggi della città senza eccettuarne lo stesso imperadore. Marco Aurelio di lui figliuolo adottivo e successore diceva che le commedie de’ suoi tempi altro non erano che mimi. In fatti sotto gli Antonini non troviamo mentovati con applauso se non Q. Trebellione pantomimo insigne della città di Telese due volte coronatoa, e L. Acilio della {p. 62}Tribù Pontina archimimo che fu decorato dalla città di Boville del decurionato, come si ricava dall’iscrizione recata dal Grutero nella pagina 1089, numero 6. Sino alla divisione del Romano Impero, per quanto io so, non si trova nominato veruno scrittore drammatico.

E come trovarne dalla morte di Teodosio I sino allo stabilimento de’ Longobardi in Italia, periodo il più deplorabile per l’umanità a cagione del concorso di tante calamità, di guerre, d’incendii, di penurie, di contagii che all’inondazione de’ barbari desolarono l’Europa? Ausonio ha conservata memoria di certo Assio Paolo retore che fioriva verso la fine del IV secolo e coltivava più di un genere poetico oltre della storia. Ausonio gl’indirizza sette delle sue Epistole. Nella X invitandolo in campagna gli dice che venga con tutti gli scritti suoi,

Dactylicos, elegos, choriambum carmen, epodos,
Socci et cothurni musicam
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Carpentis impone tuis, nam tota supellex
Vatum piorum chartacea est.

Nella XIV poi l’invita a venire alla leggiera:

Attamen ut citius venias, leviusque vehare,
Historiam, Mimos, Carmina lingue domi.

Ed era forse una specie di mimo il componimento di questo Paolo intitolato Delirus mentovato nella lettera XI che è in prosa: Ergo nisi Delirus tuus in re tenui non tenuiter elaboratus, opuscula mea, quae promi studueras, retardasset etc.a.

{p. 64}Presso Roberto Stefano si ha la commedia pubblicata in Parigi nel 1564 da Pietro Daniele con questo titolo: Querolus antiqua comoedia nunquam antehac edita, quae in vetusto codice ms Plauti Aulularia inscribitur, nunc primum a Petro Daniele Aurelio luce donata et notis illustrata. L’orleanese Pietro Daniele approfittandosi del saccheggio dell’Abadia di san Benedetto sulla Loira fatto dagli Ugonotti, s’impossessò di varii manoscritti che vi erano, molti comprandone a vil prezzo; e fra essi trovò questa commedia, che il Vossio chiama dramma prosaicoa. Fu essa poi reimpressa da Cummelino colle note del primo autore e del Rittersusio e del Grutero. Ebbe pur luogo nella bella {p. 65}edizione di Filippo Pareo uscita nel 1619. Se ne ignora l’autore. Il dotto Fabricio ci dice: Marci Accii minimè est, quoniam author ipse in prologo hanc fabulam investigatam Plauti per vestigia profitetura. Ne sarebbe mai stato autore qualche Greco? Svegliano simil dubbio le parole del passo che aggiungo, sic nostra loquitur Grecia. Variamente congetturano i letterati sull’epoca in cui si scrisse. Taluno la credette della fine del secolo VI, benchè lo stile sia di un gusto differente. Il p. Rivetb fa risalire il Querolus almeno al cominciamento del V secolo fondandosi sulla dedicatoria fatta a Rutilio. L’opinione di chi lo fissa all’imperio di Teodosio è la più comune; ed il lodato Pietro Daniele l’avea abbracciata come semplice congettura, nè disconvennero il Taubman e qualche altro. Goujet nel suo primo supplimento al {p. 66}Moreri pone tal commedia sotto Teodosio II. Uno squarcio di essa però merita riflessione, e pare che la faccia ascendere sino alla fine del I secolo, mentovandovisi i Gaulesi della Loira, i quali scrivevano su gli ossi le sentenze di morte pronunziate sotto le querce: Habeo (vi si dice) quod exoptas; vade, ad Ligerim vivito. Quid tum? Illic jure gentium vivunt homines: ibi nullum est praestigium; ibi sententiae capitales de robore proferunt, et scribuntur in ossibus: illic etiam rustici perorant, et privati judicant: ibi totum licet si dives fueris, patus appellaberis, sic nostra loquitur Graecia. Questo costume motteggiato nel dramma ci mena al tempo in cui i Gaulesi aveano diritto di vita e di morte, e la giustizia si amministrava da paesani rustici senza appellazione. Non era dunque colà ancora introdotta la Romana giurisprudenza, della quale non pertanto trovansi monumenti ne’ testamenti di san Remigio, di Chadoin, di Bertramo e di Ermentruda. {p. 67}Sappiamo poi che i Druidi furono proscritti da Tiberio e da Claudio; e m. Schoepfina sostiene che sotto Claudio i Druidi rifugiaronsi al di là del Reno. Ora se nella Commedia si motteggiarono quelle sentenze rusticane capitali date sotto le querce come tuttavia esistenti, pare che il Querolus dovette comporsi prima del discacciamento de’ Druidi, e non già sotto Teodosio II, quando i Romani aveano introdotto nella Francia settentrionale la propria giurisprudenza, ed erano già state abolite le sentenze di morte dettate da’ rustici e scritte su gli ossi.

Ma queste rarissime ed oscure fatiche che mai potevano influire in tempi sì tristi a vantaggio della poesia rappresentativa?

Non ci somministra veruno scrittore il rimanente del secolo VI, quando i popoli cominciarono a respirare alquanto. Troviamo bensì in esso i {p. 68}giuochi e i disordini teatrali. In Oriente Giustiniano imperadore e legislatore famoso chiamò a parte del suo letto e dell’alloro imperiale la mima Teodora. In Italia il Goto re Teodorico fe rialzare le terme di Verona, e riparare in Roma il teatro che minacciava ruinaa, ed in Pavia fe costruire un anfiteatro e nuove terme. Sotto Atalarico frequenti furono gli spettacoli scenici in Italia, e vi si profusero ricchezze grandi per diletto e ristoro del popolob. La Sicilia fin dal IV secolo ebbe in costume d’inviare a Roma gli artefici di scena che produceva, essendovi spesso chiamatic. Ma niun monumento di quel tempo ne presente scrittori drammatici.

{p. 69}Non ne troviamo nel VII, VIII e IX secolo, ne’ quali sparì dal cospetto degli uomini pressochè interamente ogni vestigio di politica, di giurisprudenza, di arti e di letteratura Romana, e s’introdussero nuovi governi, nuove leggi, nuovi costumi, nuove vesti, nuovi nomi di uomini e di paesi e nuove lingue, cangiamenti meravigliosi che non poterono accadere senza l’esterminio quasi totale degli antichi abitatori. In Francia appena si ripeterono le sconcezze mimiche nel barlume che vi fe rilucere Carlo Magnoa.

Non empiono questo gran voto nè le musiche e i balli e i travestimenti usati da’ Cherici nelle feste solenni dal VII sino al X secolo, nelle quali con istrana mescolanza di pagane reliquie e di cerimonie Cristiane danzando {p. 70}esponevano le favole delle divinità gentilia; nè gl’ignorati o negletti sei dialoghi di Roswita monaca di Gandersheim intitolati Commedie, che appartengono al X secolob. Sono esse composte in un latino barbaro, e ripiene di apparizioni ed incoerenze. La prima di esse è divisa in due parti, o atti, e s’intitola Gallicano, che è un generale di Costantino pagano, il quale {p. 71}va a combattere contro gli Sciti, n’è vinto, è ricondotto contro di essi da un angelo, vince, si battezza, e fa voto di castità; e nella seconda parte non regna più l’imperadore Costantino, ma Giuliano, da cui Gallicano viene esiliato, e riporta la corona del martirio. Le altre cinque commedie di un atto solo s’intitolano Dulcizio, Callimaco, Abramo eremita, Pafnuzio, la Fede Speranza e Carità. Ciò che reca maggior meraviglia in tali dialoghi è che l’autrice amava gli antichi, e traduceva Terenzio. I medesimi capi d’opera dell’antichità si lessero quasi dapertutto, ma non riprodussero dapertutto il loro gusto.

Oltre a’ riferiti dialoghi, o commedie in tutto il secolo X e nell’XI e XII, sebbene comparvero alcune incondite poesie nelle nuove lingue, non ve ne furono a patto veruno teatrali. Egli è però evidente che non mancarono totalmente gli scenici spettacoli, benchè altre feste s’introdussero. Lasciando stare i travestimenti de’ Cherici, e {p. 72}le loro danze nella festa del Natale id Cristo e nell’Epifania, che, per testimonianza di Teodoro Balsamone, duravano tuttavia nel XII secoloa; e i cantambanchi e buffoni che intervennero nelle famose nozze di Bonifacio marchese di Toscana con Beatrice di Lorena nel 1037b; alquanti anni prima di terminare il secolo XII troviamo nella storia del Basso Impero mentovate persone di teatro. L’usurpatore Andronico (colui che al contrario di Tito diceva di aver perduto il giorno, in cui non gli era riuscito di fare strangolare o almeno accecare qualche personaggio illustre) uccisore fraudolento di Alessio Comneno, costretto da Isacco Comneno a fuggire, s’imbarcò in un picciol legno colla moglie {p. 73}e con una mima che egli amavaa.

Si pretende anche trasportare a questo medesimo secolo un informe abbozzo di dramma latino intitolato Ludus Pascalis de adventu et interitu Antichristi, composto e forse rappresentato nella Germania, nel quale intervengono il Papa, l’Imperadore, i Sovrani di Francia, della Grecia, di Babilonia, l’Anticristo, L’Eresia, L’Ipocrisia, la Sinagoga, il Gentilesimo. Così pensa il p. Bernardo Pez che lo diede alla luceb. Ma più tardi che egli non istima, uscirono nella Germania drammi simiglianti al riferito, come vedremo ne’ seguenti volumi, e per fissare l’epoca di questa rappresentazione Pascale al secolo XII, bisognerebbe o averne monumenti storici sicuri, o {p. 74}addurne congetture convincenti, esaminando i costumi che vi si dipingono, e le dottrine ed opinioni, le quali potrebbero menarne a rinvenire il nascimento di questa farsa. Certo è però che il primo io non sono a dubitarne; e il dotto Scipione Maffeia, più cose, dice,alquanto difficultano il crederlo (del secolo XII)e tanto più se ciò si fosse arguito dal solo carattere del codice, che è congettura molto fallace.

Don Blas de Nasarre letterato spagnuolo in una sua dissertazione publicata nel 1749, faceva sperare monumenti drammatici nella letteratura Araba ricavati dalla Biblioteca dell’Escorialeb. Fu illusione del suo {p. 75}desiderio. Tra gli Arabi non si trova se non quello che ebbero tutte le nazioni anche rozze, cíoè musica, balli, travestimenti adoperati ne’ loro giuochi di canne, quadriglie e tornei. Furono anche versificatori; ma per lo più (almeno per quel che apparisce da i libri dell’Escoriale) si limitavano a’ componimenti di non moltissimi versi, ne’ quali facevano pompa di acrostichi, antitesi e giuchetti sulle parole, sembrando che i loro talenti non si fossero avvezzati a soffrire il peso di un poema grande e seguito come il drammatico. Certamente nel Saggio della Poesia Araba del signor Casiri inserito nella Biblioteca Arabico-Ispana, da cui Nasarre si prometteva tali monumenti, si dice nettamente che gli Arabi non conobbero gli spettacoli teatralia. E sebbene l’istesso lodato {p. 76}Casiri aggiunga che parlerebbe a suo luogo di una o due commedie Arabe, tuttavolta scartabellando la mentovata Biblioteca io non trovai un solo componimento drammatico, non dico de’ secoli de’ quali ora si favella, ma nè anche de’ seguenti sino all’intera espulsione de’ Mori dalle Spagne. Altro non vi si legge se non che qualche dialogo ma non teatrale, appartenente al secolo XIV e XV. Il primo del 746 dell’Egira scritto parte in versi e parte in prosa, è di Mohamad Ben Mohamad Albalisi, nel quale trattengonsi a darsi viceudevolmente il giambo cinquantuno artefici. L’altro dell’anno 845 dell’Egira è di un Anonimo, e s’intitola Comoedia Blateronis, in cui da diversi interlocutori si tratta di tre cose differenti: nella prima parte parlasi della vendita di un cavallo, nella seconda delle furberie di alcuni vagabondi, nella terza di certi innammorati. S’ingannò adunque Nasarre, e seco trasse Velazquez che gli credè buonamente. Costui nel libretto delle {p. 77}Origini della Poesia Castigliana asserisce primamente, che i Romani portarono in Ispagna i giuochi scenici, senza curarsi di addurne qualche pruova, siccome per altro avrebbe potuo, facendo parola di quanto noi abbiamo non ha guari riferito, cioè de’ giuochi teatrali dati in Cadice da Balbo, del teatro Saguntino e delle rovie teatrali di Acinippo, di Tarteso e di Merida. Egli si contentò solo di porompere in invettive generali fuori di tempo contra Filostrato, perchè ella Vita di Apollonio affermò, che la Betica in tempo di Nerone neppur conosceva gli spettacoli scenici. Soggiugne poi che i Goti non permisero che la poesia drammatica allignasse in Ispagna, e conchiude, che gli Arabi (i quali, come si è dimostrato, no l’aveano) ve la portarono, adottando senza esame l’opinione del Nasarre, la cui solidità si è già osservata.

Da quanto abbiamo in questo capo ragionato, si deduce che il principio del vuoto della storia teatrale si trova {p. 78}a’ tenpi de’ Tiberii, de’ Caligoli e degli altri imperiosi despoti, i quali fecero ammutolire i poeti, spaventandoli con diffidenze e crudeltà, e furono cagione che i teatri risonassero unicamente di buffonerie e laidezze, per le quali ci bisogna più impudenza che ingegno. Sorse poscia il Cristianesimo, e col divenire la religione dell’Imperio, intimò la guerra a qualsivoglia superstizione della gentilità, e conseguentemente ai teatri consecrati alle divinità pagane. E non trovandovi nè anche salva la decenza e la morale, perchè le buone tragedie e commedie aveano ceduto alle leggerezze e agli adulterii delle mimiche rappresentazioni, gli zelanti Cristiani concepirono del teatro le più sozze idee, e scagliarono le più amare invettive contro gli spettacoli e gli attori scenici, sotto la qual denominazione compresero soltanto gl’infami mimi e pantomimi, e le impudentissime mime, cantatrici e ballerine. E quale orrore non doveano destare ne’ Padri Cristiani, ne’ Cirilli, ne’ Crisostomi, ne’ {p. 79}Basilii, ne’ Cipriani, ne’ Lattanzii, negli Agostini, quelle detestabili rappresentazioni di nefandi stupri, che Marsiglia gentile, ma non corrotta, escluse dalle sue scenea? E come avrebbero mirato senza indignazione gli adulterii mimici, che, secondo Lampridio, non bastò ad Eliogabalo di vedere fintamente rappresentati, ma ordinò che s’imitassero sulla scena al naturaleb? Così ci avvezzammo a detestare indistintamente i teatri, e per fuggirne gli abusi ci privammo ancor de’ vantaggi: a somiglianza di quegl’impazienti matti coltivatori, i quali in vece di potare e recidere i rami lussureggianti, che fanno ombra inutile e perniciosa, danno al tronco e alle radici degli alberi, e privansi per sempre de’ loro frutti.

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CAPO II.

Ritorno delle rappresentazioni teatrali dopo nate le lingue moderne. §

L’orrore e la desolazione che alla venuta de’ barbari settentrionali si distese per le provincie del Romano Impero, nè le sole furono nè le più fatali conseguenze di quel rapido incendio di guerra che le sconvolse. Col tempo si riparano le rovine, gli edifizii si rialzano, si ripopolano i paesi, quando il nuovo signore lascia intatti i costumi, e molto non altera la natura o la costituzione del governo. Egli stesso in tal caso parrà in certo modo conquistato dal popolo vinto; la qual cosa avvenne in fatti agli ultimi Tartari conquistatori della China, i quali ritenendo la polizia, la legislazione e i costumi del paese, diventarono i primi Cinesi. Ma i figli degli antichi Tartari che inondarono le provincie del {p. 81}Romano Impero sotto i nomi di Goti, Unni, Eruli, Gepidi, Vandali e Longobardi, con istabilir nelle conquiste una nuova forma di governo assai peggiore dell’antica, ci tolsero i patrii costumi ed il linguaggio, e ci coprirono di tutta la loro barbarie. Ed oh quanto tardi il tempo col soccorso di molte favorevoli circostanze giugne a distruggere gli effetti perniciosi di sì luttuose vicende! Alzò sulle nostre ruine il suo trono il governo feudale, tremenda polizia sino a quel punto a noi ignota e per propria natura poco propizia all’ordine e alla pubblica tranquillità. Usciti que’ conquistatori da paesi, ove regnava l’indipendenza, ove í primori riconoscendo un capo della nazione conservavano una gran parte de’ loro diritti, stabilirono fra noi un governo fatto per dividere in vece di unire. Le regioni conquistate formarono un corpo di varie picciole signorie col nome di feudi, le quali appena in tempo di guerra si congiungevano per bisogno, e nulla pace nulla fra loro convenivano {p. 82}e poco si attenevano al tuttoa.

L’Italia, la Spagna, l’Inghilterra empieronsi di piccioli tiranni gelosi degli acquisti e sempre pronti a guerreggiare sotto di un capo contro gli stranieri, o ad avere in conto di stranieri ora i compagni ora lo stesso sovrano per difendere i proprii diritti. Quindi il continuo sospetto che alimentava la discordia delle parti: quindi vennero quelle fortezze e castella opposte ad ogni nemico domestico o straniero, delle quali e nella Spagna e nel regno di Napoli ed altrove scorgonsi tuttavia in {p. 83}piedi su ripide balze grosse reliquie: quindi tante guerre intestine e tanti diritti di Leudi e Antrustioni, di Fedeli o Comiti e Gastaldi, di Ricoshombres e Infanzones: quindi i guidrigil o tasse degli uomini, per le quali un uomo ucciso valutavasi tal volta al vilissimo prezzo di venti soldi: quindi le misere condizioni di tanti vassalli angarii, parangarii, schiavi prediali, censili, terziarii, fiscalini ed altre specie di servi ed aldionia.

Ora quando trovansi gli uomini in una mutua guerra, quando poca è la sicurezza personale e presso che nulla la libertà, quando gli spiriti gemono agitati dal timore e depressi dall’avvilimento, come mai coltivar le scienze e le arti, polire i costumi e le maniere, e richiamare il gusto? Spazia allora senza ritegni una cieca e {p. 84}stupida ignoranza, e tutto è rozzezza, oscurità e squallore. Era tale presso a poco l’aspetto dell’intera Europa sino all’undecimo secolo.

In mezzo a tanta barbarie pur non manco in alcune regioni qualche solitario allievo della sapienza, il quale appressandosi al solio di Carlo Magno potè co’ suoi consigli eccitarlo alla magnanima impresa d’ingentilire e illuminare i popoli. Essendo in età di anni trenta calato questo gran principe in Italia nel 773 sfornito de’ rudimenti gramaticali della lingua latina; conobbe in Pavia il diacono Pietro da Pisa, ed esser volle suo discepolo. Dopo sette anni in circa apprese dall’inglese Alcuino la rettorica, la dialettica, l’aritmetica, l’astronomia; e così iniziato ne’ misteri del sapere concepì il bel disegno di spargere la coltura ne’ suoi vasti dominii, che oltre la Francia stendevansi in gran parte dell’Italia, e della Germania, e della Spagna. Il primo che in Francia tenne scuola nel di lui palagio, fu lo {p. 85}stesso lodato Pietro Pisano. Altri maestri di canto, di gramatica, di aritmetica, e di tutte le sette arti liberali, vi chiamò dall’Italia ad insegnare, mosso probabilmente da Paolo Diacono e da Paolino II di Aquileja, due uomini de’ più dotti del suo tempo. In simil guisa pervenne questo sovrano ad inspirar ne’ suoi sudditi l’amore delle scienzea. Alfredo {p. 86}intanto attese a rischiarare la Gran Battaglia. Ma questo barlume passeggiero {p. 87}sparso per le provincie oltramontane sparì sotto i successori dell’uno e dell’altro principe, e si ricadde nell’oscurità primiera. Dimenticate le leggi scritte, il dritto Romano, i capitolari, sursero da per tutto le costumanzea. La giudicatura cadde nelle {p. 88}mani di uomini senza lettere, i quali {p. 89}non di rado venivano dalle parti {p. 90}astretti a provar coll’armi la propria {p. 91}integrità e la giustizia della sentenza {p. 92}profferita, per la qual cosa in essi {p. 93}richiede vasi più forza di corpo che di {p. 94}mente. La maggior parte degli {p. 95}ecclesiastici intendeva a stento il Breviario. {p. 96}Presso i Francesi ed i Germani era ben {p. 97}rara cosa il sapere scrivere sino al XIII {p. 98}e XIV secolo; gli atti si attestavano con testimoni, ed appena sotto Carlo VII in Francia nel 1454, si raccolsero in iscritto le costumanze francesi. L’arte di scrivere era del pari ignorata presso gli Spagnuoli. La lingua {p. 99}Latina non solo si obbliò generalmente, ma degenerò ne’ pochi scrittori imbarbariti, e contrastando con cento idiomi oltramontani si convertì in certi nuovi parlari gergoni, i quali presero un carattere nazionale e distinto in Italia, in Francia, e nelle Spagne.

Chi avrebbe mai allora indovinato che in queste nuove lingue doveva col tempo rifiorire la più sfoggiata eloquenza Ateniese e Romana? che tutte le Muse doveano abbellirle di tutte le loro grazie? E pure il corso naturale delle nazioni apportò rivoluzione sì vaga e sì mirabile. Per un flusso e riflusso costante avverato da’ fatti corrono le nazioni dalla barbarie alla coltura, indi da questa a quella, giunta che sia l’una e l’altra al grado estremo. L’estrema barbarie produce inopia, e questa col divenir per forza industriosa reca successivamente ricchezza e coltura. L’estrema coltura degenera in lusso eccessivo, il quale diventa padre della mollezza e poltroneria; ed allora trascuransi le arti, {p. 100} si deprava il gusto, e si rientra nella barbariea.

L’Italia governata da’ pontefici Romani e in gran parte dagl’imperadori Greci, per consenso degli stessi Oltramontani, prima di ogni altro popolo emerse dalle ombre. Eravisi meglio conservato l’uso della scrittura ed i semi dell’industriab. Venezia, Genova, Pisa, Amalfi ed altre città Italiane furono senza contratto le prime a vedere il cammino di arricchire per mezzo del commercio. In questi paesi (dice Robertson nell’introduzione alla Storia di Carlo V) i più coltivati e civilizzati di tutta l’Europa, scendevano i crocesignati prima di {p. 101}passare in Asia, e vi lasciavano immense somme pel trasporto verso Terra Santaa. Le guerre d’Asia poi, la presa di Costantinopoli fatta da’ Latini, il passar che fecero le più fertili Isole dell’Arcipelago con una gran parte del Peloponneso sotto il dominio de’ Veneziani, de’ Genovesi e di altri Italiani, produssero lo stabilimento del commercio in Italia come nella sua più nobil sede. Quindi è che il celebre Ottone vescovo di Frisinga zio dell’imperadore Federigo I Barbarossa nel ritratto che dopo la mettà del XII secolo fece dell’Italiab, fralle altre cose attesta che le città Italiane de’ suoi tempi erano senza dubbio più ricche di quelle di oltramonti. La medesima sorgente di ricchezza, il commercio, ridestò fra noi il sopito natural desiderio dilibertà, sotto i cui {p. 102}soli auspici escono gl’ingegni dalla stupidezza e dall’inazione. Al commercio fiorente si dovettero i mezzi di scuotere il giogo de’ signori, e di stabilire un governo libero ed eguale, che agli abitanti assicurasse la proprietà de’ beni, accrescesse la popolazione e incoraggisse le arti. Uno spirito generoso d’indipendenza e di libertà fermentava nel cuor dell’Italia con tal vigore, che prima di terminare l’ultima crociata tutte le città considerabili avevano dagl’imperadori comperati o ottenuti tanti privilegii che si potevano chiamar liberea.

Qual meraviglioso insolito spettacolo non fu allora agli Oltramontani l’Italia florida e coraggiosa che osava la prima assalire e battere l’orribil mostro del governo feodale! La Francia vicina (dice il prelodato Storico {p. 103}Inglese) prima di ogni altra regione verso il VII secolo approfittossi del bell’esempio, il quale di mano in mano si comunicò all’Alemagna, indi alla Spagna, all’Inghilterra e alla Scozia. Così dietro le ardite tracce dell’Italia libera videsi quel terribil mostro in tanti luoghi perseguitato e mortalmente ferito. Così venne a indebolirsi l’indipendenza de’ baroni, le corone accrebbero la propria prerogativa, ed il popolo spezzate gran parte delle sue catene diede allo stato cittadini utili e industriosi. Ed ecco che intorno a questo tempo cominciarono i talenti a mettersi in movimento, e fiorirono in copia i versificatori volgari Provenzali, Piccardi, Siciliani e Toscani. Lusingossi l’apologista Lampillas di partecipar delle glorie Italiane di quel tempo col seminar dubbii pedanteschi sulla nascita di qualche scrittore e col procurare di appropriarlo alla sua nazione presupponendo scambi di sillabe ne’ codici adulterati. Non si curino gl’Italiani di segnalarsi in queste {p. 104}ridevoli picciole guerre di lettere posposte, le quali sprezzate risolvonsi in nulla. Basti alla moderna Italia il pregio singolare, non efimero, non equivoco, non mendicato con sofismi, reticenze ed artificii Lampigliani, nè con invettive e declamazioni di omiciattoli sedicenti filosofi, nè con villanie e tagliacantonate, ma certo, veduto e confessato da classici scrittori transalpini, cioè quello di avere insegnato alle nazioni ad esser libere.

Rinate colla libertà le opere dell’ingegno svegliossi lo spirito imitatore e rappresentativo. Fece il commercio stabilir le fiere, nelle quali ad oggetto di chiamarvi e trattenervi il concorso s’introdussero le danze e i divertimenti ludrici. Il Clero cui importava che i popoli non venissero distratti dalla divozione, alla prima proscrisse siffatti spettacoli, indi cangiando condotta e seguendo lo stile delle precedenti età, quando ad onta de’ divieti si videro introdotti nelle Chiese, ne ripigliò egli stesso l’usanza, {p. 105}esercitando L’arte istrionica, e mascherandosi e cantando favole profane nel Santuarioa Teodoro Balsamone autore del XII secolo sul Canone 62 del Concilio Trullano che proibisce agli uomini il prender vesti femminili, e coprirsi con maschere, osserva che a suo tempo ancora nel Natale di Cristo, e nell’Epifania i chierici si mascheravano in chiesa. Mediante però la legge del pontefice Innocenzo III riportata nel citato capitolo del Decretale, si conseguì finalmente nel principio del XIII secolo che si abolisse simile contaminazione de’ templi. Restovvi tuttavia la musica, e l’uso di celebrarvi con una specie di rappresentazione certe feste bizzarre, le quali oltramonti ebbero più il carattere di follia che di giuoco. Era nota bile nella cattedrale {p. 106}di Roano il dì di Natale la festa asinaria, nella quale compariva Balaam su di un’asina, e varii profeti che aveano predetta la venuta del Messia, e Virgilio, e la Sibilla Eritrea, e Nabucdonosorre, e i tre fanciulli nella fornacea Correva il popolo volentieri alla festa de’ pazzi che si celebrava dal Natale all’Epifania in molte chiese greche, e latine. In Costantinopoli l’introdusse verso il X secolo il patriarca Teofilattob: si celebrava in Francia in Dijon, in Autun, in Sens, in Viviers: in Inghilterra anche verso il 1530 trovavasi nella chiesa di Yorck un inventario, in cui si parlava della mitra e dell’anello del Vescovo de’ Pazzic Non {p. 107}riusciva men cara a’ popoli di quel tempo la festa degl’Innocenti che era un tralcio di quella de’ Pazzi, e si {p. 108}celebrava nel dì de’ Santi Innocentia

Posero in oltre i monaci di mano in mano in dialogo le Vite de’ Santi, come quella di Santa Caterina recitata nel convento di san Dionigi. Altri simili dialoghi senza numero in Francia, in Alemagna, in Italia e nelle Spagne, recitaronsi nelle chiese o ne’ {p. 109}cimiteri, dove passava il popolo dopo la predica.

Ma sino al principio del XIII secolo fra tante poesie nella Piccardìa, nella Provenza, nella Sicilia e nella Toscana, non si rinviene cosa veruna appartente al teatro. Si favella di tragedie e commedie di Anselmo Faìdits nella poco esatta e favolosa storia de’ Poeti Provenzali del Nostradamusa, ma quell’Anselmo fiorì nel XIII secolo essendo morto nel 1220. Non ostante poi il titolo di tragedie e commedie, le di lui favole altro esser non doveano che meri monologhi o diverbii per lo più satirici senza azione, posti {p. 110}in musica da lui stesso, e cantati insieme colla moglie che egli menava seco iu cambio de’ ministrieri e de’ Giullari. L’Heregia dels Preyres è il titolo rimastoci di uno de’ dialoghi del Faidits, che si vuole che fosse una commedia da lui recitata in Italia stando al servizio del marchese Bonifacio da Monferrato.

Si parla eziandio di alcune pastorali de’ Provenzali che erano piccioli dialoghi ne’ quali confabulava il poeta e qualche pastorella. Tale fu quella di Paulet e della sua pastorella, i quali entrarono a parlare degli affari politici e delle vedute de’ gabinetti dell’Europa, e la pastorella specialmente favella dell’infante don Pietro di Aragona e di Odoardo d’Inghilterra. Simile fu il dialogo di Gherardo Richier con una pastorella, la quale benchè da lui trovata a caso, si mostra informata degli amori di lui colla sua Bel-deporta

{p. 111}Comprendesi nella denominazione di Poeti Provenzali più di una specie di mestiere. Dividevansi in Troubadores, cioè Trovatori detti dal trovar prontamente le rime e dall’inventar favole e narrarle in versi; in Canteres, o Cantori che aggiungevano il canto ai versi de’ Trovatori; e in Giullares, ovvero Giullari o Giucolieri, che equivalevano a’ Giocolieri o buffoni, i quali nelle pubbliche piazze, nelle fiere, e nelle feste o conviti che solevano dare le persone doviziose, intertenevano gli astanti con varie buffonerie accompagnate dal suono di qualche stromento ed anche dal ballo. Generalmente si dissero in latino barbaro Ministelli, che poscia si chiamarono in italiano da Giovanni Villani Ministrieri e da Matteo Villani Minestrieri, derivando dalla voce provenzale Mnestrels. Fiorirono principalmente i Trovatori verso la mettà del secolo XII nella Provenza, Linguadocca, Guascona, Gujenna, nel Limosino, nel Poitù, nell’Alvernia, in somma in tutta la parte di Francia {p. 112}che si diceva Gallia Gotica, o Meridionale, o Provenzale. Furono detti Trovatori quelle persone decorate ed ingenue che coltivarono la Gaja Scienza, cioè la poesia tutta a que tempi rivolta a sviluppar concetti amorosi che comprendeva la scienza d’amore; e per lo più tali trovadori erano Cavalieri, Principi, Vescovi, Canonici, Claustrali, e donne distinte per nobiltà, talento e pregi naturali. Essi tennero nella città di Aix capitale della Provenza e in Avignone la famosa Corte o Parlamento d’Amore, e poscia in Tolosa l’Accademia de’ Giuochi Florali, ove ognuno sceglievasi un’ Amica e la stabiliva sovrana dominatrice delle sue azioni e de’ suoi pensieri, e ne portava la divisa, ed a lei dedicava tutti i frutti poetici della propria fantasia, o le propensioni ed il pendio del proprio cuore. E chi volesse andar più oltre troverebbe in tali esercizii ed in simili amiche i semi di tutte le Nici, Clori, Lidie, Iri immaginarie e Dulcinee del Toboso e di ogni paese {p. 113}Europeo. Non può ragionevolmente rigettarsi l’opinione di chi afferma che tali poeti degl’infimi tempi e de’ mezzani non avessero preso l’esempio da essi conosciuto per sola tradizione da primi antichissimi Cantori e Rapsodi della Grecia, e posteriormente dagli Scaldi della Scandinavia e da’ Bardi poeti Celti della Gallia, della Scozia, dell’Irlanda e del paese di Galles nella Gran Brettagna. De’ quali verseggiatori famosi favellarono egregiamente lo Scozzese sig. Blair nella dissertazione intorno ai poemi del Celto Ossian, ed il valoroso nostro amico il sig. Cooper Walker nelle Memorie de’ Bardi Irlandesi. Furono questi i successori de’ Greci poeti, come Tirteo, che nelle battaglie accendevano e sostenevano co’ loro canti l’ardor marziale de’ guerrieri, battendo con entusiasmo l’arpa e cantando acconciamente alla circostanza. Inglesi, Scozzesi, Sassoni e Danesi ebbero’ simili cantori, che sommamente si tennero in pregio. In quanta stima essi fossero si rileva da’ fatti seguenti. {p. 114}Alfredo gran re d’Inghilterra in un tempo di barbarie, cioè nell’878, volendo spiare la situazione dell’armata Danese che avea fatta irruzione nel suo reame, si presentò al campo Danese. E benchè fosse conosciuto per istraniere, fu introdotto alla presenza del re, e cantò molti versi, e poscia esaminato il campo formò un piano di assalto, col quale tagliò a pezzi il nemico esercito. Sessanta anni dopo, cioè nel X secolo, Anlaff re di Danimarca collo stesso travestimento volle osservare il campo di Atelstan re d’Inghilterra, ma lo stratagemma riuscÌ infruttuosoa. Eduardo I d’Inghilterra era talmente persuaso della potente influenza de’ ministrieri sull’animo de’ combattenti, che avendo fatta la conquista del paese di {p. 115} Galles, per assicurarsela per dirlo colle parole del celebre storico filosofoDavide Hume) per una politica barbara ma non assurda, radunati in un luogo tutti i Bardi del paese, ordinò che si uccidesseroa. Ma sotto il regno di Riccardo II verso la fine del secolo XIV trovansi i ministrieri decaduti, nè altro essi erano che cantori volgari poco pregiati; anzi a tal segno degenerarono che verso la fine del secolo XVI fu pubblicata una legge, per cui i menestrels erranti si considerarono nella classe de’ mendici, de’ vagabondi, delle persone senza mestiereb

Tornando al secolo XIII osserviamo che in Alemagna fiorivano i Minnesoenger, ovvero Cantori d’Amore, nelle cui poesie tuttavia esistenti non si rinviene pezzo veruno teatrale. Si {p. 116}mentovano nelle Spagne i versi cantati da’ pellegrini che visitavano in Galizia il sepolcro dell’apostolo san Giacomo, da’ quali seppe don Blàs de Nasarre rintracciar la famosa origine delle Orazioni de’ ciechi. Fiorì però in tali paesi a quel tempo il monaco Gonsalo Berceo forse il più antico Spagnuolo che poetò in lingua castigliana. Non-dimeno ne’ suoi componimenti non se ne trova alcuno che al teatro si appartenga.

L’Italia che già contava varii non ispregevoli poeti, come Guitton di Arezzo che perfezionò il Sonetto invenzione degl’Italiani, Dante da Majano, l’abate Napoli, Cino da Pistoja, Guido Cavalcanti, Brunetto Latini, ed il migliore di tutti Dante Alighieri: pare che sia l’unica nazione che ci presenti qualche teatral monumento del secolo XIII. Nel 1230 si celebrò in Piacenza nel borgo e nella piazza di s. Antonino un giuoco, che nella Cronaca Piacentinaa cosî seccamente si enuncia: {p. 117}Fuit Ludus Imperatoris, et Papiensium, et Regiensium, et Patriarchae. Apparentemente fu questo un ludrico spettacolo, in cui s’introdusse Federigo II co’ suoi aderenti i Pavesi, i Reggiani, ed il Patriarcaa. Ma sulle riferite parole non può assicurarsi che fosse rappresentazione animata dalle parole. Apostolo Zeno chiaro per erudizione, probità ed accuratezza, ricavò da varie cronache, che in Padova nel Prato della Valle fecesi una rappresentazione spirituale nel dì di Pasqua di Risurrezione del 1243 o 1244b. Pretese il Bumaldi che Fabrizio da Bologna nel 1250 componesse volgari tragedie, ma ciò affermò, perchè nel libro di Dante della Volgare Eloquenza Fabrizio è chiamato poeta di stile {p. 118}tragico, la qual cosa, come ognun sa, in Dante significa stile sublime, nè indica che fosse autore di tragediea. Quel che però non ammette dubbio veruno, è che in Roma nel 1264 fu istituita la Compagnia del Gonfalone, che per oggetto principale si prefisse il rappresentare i Misteri della Passione di Gesù Cristo, siccome per lungo tempo continuò ad eseguire nella settimana santab. Un’altra rapresentazione {p. 119}de’ Misteri della Passione di Cristo trovasi fatta dal Clero con molto applauso nel Friuli l’anno 1298 nel dì di Pentecostea.

Il dottissimo Storico della Letteratura Italiana argomenta giustamente sopra varie feste per mezzo degli strioni e buffoni eseguite nel sccolo XIII rammentate dal Muratorib, asserendo non potersi mettere in conto di teatrali. Vuole altresì con fondamento che il nominarsi versi recitati pe’ teatri non sempre additi un’azione drammatica. Passa inoltre a dubitare che le accennate rappresentazioni di Padova, del Friuli, della Compagnia del Gonfalone, siano state eseguite con dialogo, stimandole semplici apparenze mute figurate dal Clero in tempo di Pasqua e {p. 120}di Pentecoste. Veramente noi che reputiamo drammatiche, ed espresse con parole quest’ultime, non possiamo recarne nè squarcio che il dimostri nè testimonio sincrono che espressamente l’affermi. Tutta volta la parola ludus usata da’ cronisti par che favorisca più il nostro avviso che il dubbio del celebre Storico. Forse non si direbbe con ogni proprietà ludus un mistero espresso con un gruppo di figure; nè perchè in vece di quelle statue si mettessero degli uomini, tal rappresentazione diventerebbe un giuoco. Ma ciò tralasciando, la Compagnia del Gonfalone istituita nel XIII secolo per rappresentare i Misteri, ne’ tempi più a noi vicini ciò fece con parole a tenere del suo istituto. Nel XV secolo rappresentava pubblicamente nel Coliseo di Roma la Passione; e le parole del dramma si composero dal Vescovo di s. Leo Giuliano Dati fiorentino che fiorì circa il 1445, e per gran parte del XVI seguitò esso a rappresentarsi nella stessa guisa, siccome attesta {p. 121}Andrea Fulvioa. Verisimilmente ciò che continuò a farsi nel XV e XVI, praticossi nel XIV, e venne dal XIII quando surse la Compagnia. Che se le parole vi si fossero introdotte non già dal XIII come a noi sembra, ma dal XV, in cui si compose indubitatamente il dramma del Dati, nell’imprimersi che si fece nel declinar del secolo XVI il libro degli Statuti della Compagnia, non avrebbe in essi dovuto esprimersi questa varietà essenziale, cioè, che le rappresentazioni da mute che si furono nel XIII, passarono poscia ad animarsi con parole? Appresso. Il Ludus Pascalis de adventu et interitu Antichristi recato dal Muratorib, e poi dal Tiraboschic, e da me nel tomo precedente, fu senza contrasto azione drammatica atta a recitarsi. {p. 122}Qualche altra ne accenneremo appresso dell’Alemagna. Vedrassi nel seguente capo che in Francia sin dal tempo di Filippo il Bello vi fu una festa simile con canti e parole. Alcuni squarci di simili Misteri fatti in Napoli nel tempo degli Angioini recammo nel III volume delle Vicende della Coltura delle Sicilie. Or perchè quelli del XIII secolo debbono soltanto essersi rappresentati mutamente? Forse perchè niuno se n’è conservatoa? Ma per essere periti tanti drammi greci e latini potrà negarsi che si composero e si recitarono nella Grecia e nel Lazio, e che rassomigliarono a quelli che ci rimangono? Egli è vero che in Francia, nelle Fiandre ed altrove furonvi alcuni {p. 123}Misteri rappresentati alla muta per le strade; ma gli scrittori che ne parlano, dicono espressamente che si esposero solo alle vista; or quando poi tal circostanza non si specifica, sembra ragionevole il credere che allora si parli di rappresentazioni cantate e recitate. Per altro non può negarsi quel che osserva il medesimo Tiraboschi, cioè che siffatti Misteri, ed i versi cantati su’ teatri dagl’istrioni e giocolieri a que’ tempi, non meritino rigorosamente nome di vere azioni teatrali. Con tutto ciò debbono entrare nella storia drammatica come primi saggi che ricondussero a poco a poco in Europa la poesia scenica. I Cori Dionisiaci in Grecia non erano vere azioni teatrali, nè tal fu la ludrica degli Etruschi introdotta in Roma; ma di quelli e di questa si conservano le memorie da quanti imprendono a favellare dell’origine e del progresso della poesia teatrale greca e latina; essendo come le povere scaturgini de’ gran fiumi, che con {p. 124}ogni diligenza e con diletto curiosamente si ritraccianoa.

{p. 125}

CAPO III.

La Poesia Drammatica ad imitazione della forma ricevuta dagli antichi rinasce in Italia nel secolo XIV. §

Mentrechè risorgeva dentro le Alpi la lingua latina col l’ammirarsene i {p. 126}preziosi codici scappati alla barbarie, nasceva da’ rottami greci, latini, orientali e settentrionali la lingua italiana, la quale per mezzo di Dante che è stato nella moderna Italia quello che furono Omero in Grecia ed Ennio nel Lazio, giva sublimandosi e perfezionandosi, e conscia delle proprie forze cercava ognora nuovo campo per esercitarle. Era questo il grato frutto della libertà, e de’ governi moderati che ritornarono in Europa per mezzo degli stessi Italiani. E ciò fra noi venne a produrre nel XIV secolo poesie teatrali latine ad esempio delle antiche, le quali precedettero quelle che nel XV si scrissero in volgare.

I teatri d’Italia risonarono di versi. latini cantati sin dal secolo precedente. Albertino Mussato Padovano, nato nel 1261, e morto nel 1330, ci fa sapere che già nel 1300 scriveansi comunemente tra noi in versi volgari (cioè facili ad esser compresi da’ volgari, benchè latini) le imprese de’ re, e si {p. 127}cantavano ne’ teatria. In una cronaca manoscritta di autore anonimo che può credersi compilata nel XII secolo da cronache anteriori, si descrive l’antico teatro della città di Milano, e di esso si dice: super quo histriones cantabant, sicut modo cantantur de Rolando et Oliverio, finito cantu bufoni et mimi in citharis pulsabant, et decenti motu corporis se volvebantb.

Se però verso l’anno 1300 erano comuni in Italia tali divertimenti ne’ teatri di qualunque specie si fossero, non dee dirsi che essi cominciassero nel 1304 allorchè nella Toscana fecesi la festa, in cui s’imitava l’inferno co’ demoni e dannati che gridavanoc. Il {p. 128}Crescimbeni giudicò tal rappresentazione di argomento profano; ma noi accordandoci di buon grado col cavaliere Tiraboschi, lungi dal crederla cosa teatrale sacra o profana, la reputiamo semplice spettacolo popolare senza verun dialogoa. Nel Friuli ancora nello stesso anno 1304 si rappresentarono dal Clero e dal Capitolo la Creazione di Adamo ed Eva, l’Annunziazione, ed il Parto di Maria Vergineb.

Ma dobbiamo al prelodato Mussato, promotore dell’erudizione e dello studio della lingua latina, l’aver richiamata in Europa la drammatica giusta la forma degli antichi. Egli compose due tragedie latine, cioè l’Achilleis {p. 129}detta così da Achille che n’era il personaggio principale, e l’Eccerinis, in cui introdusse il famoso Ezzelino da Romano tiranno di Padova. Quest’ultima piacque talmente a’ suoi compatriotti, che ne fu solennemente coronato della laurea poeticaa. I curiosi {p. 130}delle prime orme delle arti ne vedranno volentieri un succinto estratto.

Atto I. Adeleita madre di Ezzelino e di Alberico palesa a’ figli di esser essi nati dal demonìo, e nell’accingersi a scoprire questo gran secreto perde i sensi, indi rivenuta racconta l’avventura. Ezzelino le ha domandato, qualis is adulter, mater? Ella così lo descrive:

Haud tauro minor Hirsuta aduncis cornibus cervix riget,
Setis coronant hispidis illum jubae,
{p. 131}
Sanguinea binis orbibus manat lues,
Ignemque nares flatibus crebris vomunt.
Favilla patulis auribus surgens salit
Ab ore spirans. Os quoque eructat levem
Flammam, perennis lambit et barbam focus etc,

Di tale origine soprannaturale rallegrasi col fratello Ezzelino, indi si rivolge a fare una preghiera al padre novellamente scoperto. Leggonsi però prima cinque versi narrativi, cioè detti dal poeta, e non da qualche attore, per li quali l’azione si vede trasportata ad un luogo diverso:

Sic fatus imâ parte recessit domus
Petens latebras, luce et exclusa caput
Tellure pronum sternit in faciem cadens:
Tunditque solidam dentibus frendens humum,
Patremque saevâ voce Luciferum ciet.

{p. 132}L’atto termina col coro che si dimostra timido e dolente per li pubblici disastri.

Atto II. Un Messo racconta le disgrazie della patria e la prosperità di Ezzelino, il quale con insidie e crudeltà già regna in Verona ed in Padova. Tutto ciò si finge avvenuto nell’intervallo degli atti, ed è affare di non pochi giorni. Il coro deplora la publica miseria, ed implora la vendetta celeste contro lo spietato oppressore.

Atto III. Parlano i due fratelli de’ dominii acquistati e di quello a cui aspirano. Ziramonte enuncia la morte di Monaldo, piacevole novella pel tiranno. Ma un Messo il conturba coll’avviso di essersi presa Padova da’ fuorusciti entrativi col favore de’ Veneziani, de’ Ferraresi e del Legato del Papa. I suoi commilitoni l’esortano a marciar subito contro di loro:

Invade trepidos, tolle pendentes moras….
Fortuna vires ausibus nostris dabit.

Il coro chiude l’atto raccontando in {p. 133}pochi versi tutta la spedizione di Ezzelino contra Padova, il suo ritorno in Verona e la barbara vendetta da lui presa contro de’ prigionieri. Ma qual tempo è corso dal consiglio di marciare al racconto del coro? E come ha egli saputo ciò che è passato fuor di Verona? Le irregolarità sono manifeste, ancor quando voglia supporvisi qualche lacuna.

Atto IV. Narransi brevemente da un Messo gli eventi della guerra fatta in Lombardia a tempo di Ezzelino, ed al fine la morte di lui. Con un’ ode saffica il coro chiude l’atto, dando grazie al cielo per la morte del tiranno e per la ricuperata pace.

Atto V. Si racconta la strage della famiglia di Ezzelino, e la morte di Alberico. Qual fu il di lui fine, domanda il coro; ed il Messo così lo racconta:

Tum plura stantem tela certatim virum
Petiere, pressit unus in dextrum latus
{p. 134}
Gladium, sinistrâ parte qui fixus patet.
Per utrumque vulnus largus effluxit cruor.
Effulminat spatulis alius ense tenus,
Cervice caesâ murmurat labens caput,
Stetitque titubans truncus ad casum diu,
Donec minutim membra dispersit frequens
Vulgus per avidos illa distribuens canes.

Il coro moralizzando conchiude:

Petit illecebras virtus supernas,
Crimen tenebras expetit imas.
Dum licet ergo moniti stabilem
                      Discite legem.

Si vede non esser questo un componimento senza difetti. L’azione non è una; il tempo basterebbe per un lungo poema epico; ed il protagonista Ezzelino pare che abbia un compagno in Alberico. Lo stile è facile; gli eventi dipingonsi con evidenza, benchè vi si {p. 135}desideri maggiore eleganza e purezza, ed oggi più, leggendosi molto scorretto. Ma vi si trovano le passioni ritratte con robustezza, e un interesse nazionale ravviva tutte le parti del dramma. Non è in somma una tragedia lavorata da un discepolo di Sofocle; ma se si riguardi ai tempi, alla barbarie e allo stato delle lettere nel rimanente dell’Europa, recherà meraviglia e diletto. In certi paesi a’ nostri giorni ancora contansene pochissime di questa più regolari. Per mezzo adunque del Mussato ebbe l’Italia sin da’ primi lustri del XIV secolo tragedie fatte ad imitazione degli antichi.

Reca diletto il poter vantare un Petrarca tra’ primi coltivatori della drammatica, benchè non ci sia rimasta la sua Filologia commedia da lui scritta in assai tenera età ch’egli volle involare agli occhi de’ posteria. Delle {p. 136}altre due composizioni drammatiche registrate in un codice della Laurenziana, che a lui si attribuiscono, non è da favellare. Lasciando da parte il non rinvenirsi di esse indizio veruno nelle di lui opere, i critici più accurati sospettano fortemente che esse sieno opere supposte al Petrarca, come fece prima di ogni altro l’abate Mehus, il quale recò un saggio dello stile di esse molto lontano da quello del Petrarcaa. Furono esse però scritte nel XIV secolo, e si aggirano l’una sulle vicende di Medea, l’altra sull’espugnazione di Cesena fatta dal Cardinale Albornoz nel 1357, la quale viene puittosto attribuita al dotto amico del Petrarca Coluccio Salutato eloquente segretario di tre pontefici morto in Firenze sua patria l’anno 1406. {p. 137}Troviamo ancora nell’opere del Petrarca mentovato onoratamente un erudito attore de’ suoi giorni chiamato Tommaso Bambasio da Ferrara, della cui amicizia gloriavasi il principe de’ Lirici Italiani, come il principe degli Oratori Latini di quella di Roscio, a cui lo comparava per la dottrina e per l’eccellenza nel rappresentarea. Basta questo racconto de’ pregi del Bambasio a provare la frequenza delle rappresentazioni sceniche di quel secolo. Se non avesse questo Ferrarese dati in Italia continui saggi della sua eccellenza in tale esercizio, l’avrebbe il Petrarca paragonato a Roscio? E che mai avrebbe egli rappresentato? Forse i muti misteri, o le buffonerie de’ cantimbanchi? Ma con simili cose avrebbe meritati e gli elogii che sogliono darsi a’ dotti artefici e l’amicizia di un Petrarca? Dovettero dunque in quell’età esservi favole sceniche in copia maggiore di {p. 138}quello che oggi possa riferirsi.

Conservasi nell’Ambrosiana di Milanoa in un codice a penna una commedia di Pier Paolo Vergerio il vecchio, uno degli accreditati filosofi, giureconsulti, oratori ed istorici del suo tempo, nato in Capo d’Istria circa il 1349 e morto nel 1431 in Ungheria presso l’imperador Sigismondo. La scrisse nella sua età giovanile, e l’intitolo Paulus comoedia ad juvenum mores corrigendos.

Giovanni Manzini della Motta, nato nella Lunigiana, scrisse verso la fine del secolo alcune lettere latine, ed in una parla di una sua tragedia sulle sventure di Antonio della Scala signore di Verona, e ne reca egli medesimo (dice il celebre Tiraboschi) alcuni versi che non ci fanno desiderar molto il rimanente. Non per tanto egli è degno di lode, si per essere stato uno de’ {p. 139}primi a tentar questo guado, si per avere dopo del Mussato preso a trattare un argomento nazionale veramente tragico.

Luigi Riccoboni nella storia del teatro Italiano vorrebbe riferire alla fine di questo secolo la Floriana commedia scritta in terzarima mista ad altre maniere di versi, stampata nel 1523; ma non apparisce su qual fondamento l’asserisca. Il marchese Scipione Maffei nell’Esame dell’Eloquenza Italiana del Fontanini afferma che nella seconda edizione della Floriana del 1526 vien chiamata commedia antica, e cosi leggesi nella Drammaturgia dell’Allacci; ma ciò non basta per farla risalire sino al secolo XIV.

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CAPO IV.

Memorie drammatiche d’oltramonti nel medesimo secolo XIV. §

Mentre l’Italia già aveva Ezzelino e l’Achilleide tragedie, e la Filologia ed il Paolo commedie; al di là delle Alpi i soli Provenzali scrissero componimenti rassomiglianti ai teatrali, benchè lontani assai in qualunque modo dall’imitar gli antichi. Non trovavasi tra’ Provenzali nè un Mussato nè un Petrarca, nè un Vergerio, nè un Salutato. Essi ignoravano, dice m. de Fontenelle, che hanno esistiti al mondo Greci e Latini. I loro pezzi chiamati drammatici nudi di azione, erano anzi dialoghi che drammi, dicesi nell’introduzione alla Biblioteca Poetica Francese. Batista Parasols Limosino morto nel 1383 compose cinque dialoghi chiamati tragedie contro Giovanna I contessa di Provenza e regina di {p. 141}Napoli ancor vivente. Luca de Grimaud Genovese satireggiò ne’ suoi drammi o dialoghi che scrisse in volgar provenzale, il pontefice Bonifacio VIII.

Non entro io quì di proposito ad esaminare se i Provenzali abbiano a dirsi piuttosto Spagnuoli che Francesi, perchè i conti di Barcellona dominarono alcuni anni in Provenza, e perchè la lingua catalana e la provenzale si rassomigliarono molto. Dico solo di passagio quanto alla prima parte, che siccome i Napoletani, i Toscani, i Parmigiani, i Milanesi, i Corsi, per essere sottoposti al dominio spagnuolo, alemanno e francese, non si chiamarono mai spagnuoli, Alemanni, o Francesi; così i conti di Barcellona non faranno che i Provenzali chiaminsi spagnuoli. Quanto alla seconda parte io credo che nell’origine degl’informi dialetti moderni, e specialmente nel fermento del X e XI secolo, fuvvi per necessità molta somiglianza ne’ parlari, più sensibili tralle provincie confinanti {p. 142}che tralle lontane. Ma come dedurre da ciò che la lingua provenzale derivi dalla catalana? L’amor del dialetto nativo fe dire all’abate Lampillasa che sin dal nono secolo i conti di Barcellona introdussero in quella provincia di Francia, in cui dominarono col titolo di duchi di Septimania, il loro nativo idioma; e crede ciò provato a meraviglia coll’epitafio del conte Bernardo avvelenato nell’anno 844. Questo epitafio prova bene la somiglianza della lingua catalana colla provenzale; ma in niun conto può provare che la catalana fu da’ conti di Barcellona introdotta in Provenza. Laonde noi quì distingueremo sempre i Provenzali dagli Spagnuoli; tanto più che ci sembra ingiusta e sconvenevol cosa il distendere il giudizio del Fontenelle, intorno all’ignoranza de’ Trovatori Provenzali, anche alle provincie Spagnuole.

Parlando adunque delle regioni che {p. 143}portano incontrastabilmente il nome onorevole di spagnuole, noi troviamo nella Catalogna prima in Barcellona, indi in Tortosa l’accademia della Gaya Ciencia, e parimenti tra gli Aragonesi alcuni poeti degni di mentovarsi. Vi troviamo ancora i Giullari, e nel 1328, celebrandosi la festa per la coronazione del re di Aragona, i Giullari Ramaset e Novellet cantarono molti versi composti dal re. Tuttavolta insino a questo giorno con molta diligenza (anche dopo le ciance apologetiche e le bravate e i lampi e i tuoni strepitosi ed innocui de’ Lampillas, dell’Arteaga, de’ Garcia de la Huerta, ed altri simili trasoni, sofisti e declamatori) a me non è riuscito raccorre nè dalla storia nè da’ romanzi apologetici stessi cosa veruna teatrale di questo secolo, siccome nè anche riuscì al dotto bibliotecario don Blàs de Nasarre nè all’abate Andres.

Si avvicinano bensì alle teatrali alcune farse sacre de’ primi anni di questo secolo che si trovano mentovate nella {p. 144}storia di Francia, ma che si sono ignorate dall’anonimo Francese, che nel 1780 cominciò a pubblicare in Lione una collezione del Teatro Francese. Quando il re Filippo detto il Bello morto nel 1314 armò cavalieri i suoi figliuoli, trovasi in una antica cronacaa che si diede una festa, in cui si vide la persona di N. S. mangiar de’ pomi ridendo con sua Madre, dire de’ paternostri cogli apostoli, e risuscitare e giudicare i morti: vi si udirono i beati cantare in paradiso in compagnia di circa novanta angeli, e i dannati piangere in un inferno nero e puzzolente in mezzo a più di cento diavoli che ridevano del loro supplizio: vi si vide ancora una volpe prima semplice clerico, indi di mano in mano vescovo, arcivescovo e papa, sempre cibandosi di polli e pulcini. Per questi passi si venne in {p. 145}Francia ad introdurre l’uso di rappresentare i Misteri che nel 1380 si stabilì sul teatro per mezzo del Canto Reale. Esso consisteva in versi in lode della Vergine e de’ Santi, cantati a competenza da varii branchi di pellegrini venuti da’ Santuariia. Fermavansi da principio a cantar nelle piazze, facendo come uno steccato co’ loro bordoni, ed appresso montarono sudi un rustico palco in una casa comprata espressamente da alcuni per trarre profitto dalla folla che concorreva a tal nuovo devoto divertimento.

Trovansi pure in questo secolo i Misteri teatrali in Inghilterra, dove fiorivano due poeti Giovanni Gover e Gualfrido Chaucer di lui migliore. N’erano attori gli ecclesiastici e scolari, i quali andavano talmente altieri dell’usanza privativa di rappresentarli, {p. 146}che non soffrivano che altri se ne ingerisse. Gli studenti di san Paolo nel 1378 presentarono una supplica a Riccardo II, affinchè vietasse a certi ignoranti di rappresentar le storie del Vecchio Testamento in pregiudizio del Cleroa.

Senza contrasto dal principio del secolo XIV furono in Alemagna alcune rappresentazioni sacre. Varie cronache addotte dal Menkeniob recano che Federigo margravio di Misnia, e langravio di Turingia assistette a una rappresentazione delle dieci Vergini del Vangelo eseguita pubblicamente in un giuoco piacevole da’ preti della città di Eisenach nel 1322 quindici giorni {p. 147}dopo Pasqua destinata al pubblico divertimentoa.

CAPO V.

La Drammatica nel secolo XV fa ulteriori progressi in Italia. §

Due ben differenti aspetti all’apparenza contraddittorii presentano agli osservatori quelle Nazioni che si renderono chiare per le cose operate o patite nella pace e nella guerra. Mirate dal punto che discopre i loro progressi nelle scienze e nelle arti, sembra che un’ aurea pace abbia fornito tutto l’agio a’ filosofi, ed agli artisti tranquilli pergir tant’oltre. Viste poi dal punto che tutte manifesta le politiche e militari turbolenze che l’agitarono, si temerà pel destino delle arti e delle scienze. {p. 148}Ma simili dubbii e timori, giusti nelle distruttrici inondazioni de’ barbari, ben di rado si avverano nelle guerre de’ popoli culti, nelle quali la nazione che soffre, fida nel sovrano che vigila pel tutto, e conta ne’ casi avversi sulla moderazione del vincitore; ond’è che gli artisti e i letterati non intermettono i proprii lavori.

Arse l’Italia nel XV secolo di un alto incendio di guerra in più luoghi; ma le contese de’ Pisani co’ Fiorentini, de’ Veneziani co’ duchi di Milano, degli Angioini cogli Aragonesi, non impedirono l’avanzamento degli studii e delle arti, nè il favore e la munificenza di tanti principi e ministri verso i coltivatori di esse. Quindi è che dedicaronsi quasi generalmente gli uomini di lettere ad apprendere profondamente le due più famose lingue de’ dotti, ed anche a disotterrar nelle lontane regioni i Codici Greci e Latini, ed a moltiplicarne le copie, a correggerli, a confrontarli, ed interpretarli. Si raccolsero da per tutto diplomi, {p. 149}medaglie, camei, statue, iscrizioni ecc. Stabilironsi accademie, università, cattedre novelle, biblioteche pubbliche e stamperie. Si promosse lo studio della filosofia di Platone. Risorse l’epopea. Si coltivò l’una e l’altra eloquenza ed ogni genere di erudizione, specialmente per le cure del famoso segretario e consigliere de’ re Aragonesi Napoletani Giovanni Pontano, e del precettore di Leone X Agnolo Ambrogini detto il Poliziano, e del regnicolo Giulio Pomponio Leto.

Chi non sa che nel XV secolo foriero dell’aureo seguente divenne l’Italia l’emporio del sapere, chi nella propria casa non vide spuntare altrettanta luce, stenterà a crederea che dentro delle Alpi gli studii teatrali nelle mani di molti cospicui letterati fossero divenuti comuni e maneggiati con arte maggiore. Ebbero intanto gl’Italiani in {p. 150}tal periodo I farse per lo più italiane sacre e profane, 2 drammi regolari latini, e 3 componimenti eruditi dettati in volgare idioma.

Quanto alle farse non cessarono in Roma le rappresentazioni de’ Misteri, ma si fecero con maggior sontuosità. Scritta in volgare fu la rappresentazione di Gesù Cristo, a cui lavorarono il fiorentino Giuliano Dati vescovo di san Leo, il Romano Bernardo di Mastro Antonio e Mariano Particappa, e s’impresse in Milano per Valerio e Girolamo di Meda fratelli, e si ristampò in Venezia l’anno 1568 per Domenico de’ Franceschia. Altre ne scrisse anche in volgare Feo Belcari, di cui l’Isacco composta in ottava rima fu la prima volta recitata in Firenze nel 1449b. {p. 151}Posteriore alle nominate ma appartenente al medesimo secolo XV fu la Conversione di S. Maria Maddalena di Jacopo Alamanni divisa in cinque atti. La Conversione di S. Paolo si rappresentò in Roma verso il 1380 d’ordine del cardinal Riario. In Firenze sotto Lorenzo Medici si rappresentò il dramma San Lorenzo e Paolo nel 1488 da’ figliuoli di Francesco Cibò nipote d’Innocenzo VIII e di Maddalena figliuola di Lorenzo, di che può vedersi il suo biografo Roscoe presso Cooper-Walker nell’Introduzione alla sua opera su la Tragedia Italiana. Si vogliono al medesimo secolo riferire le sette farse spirituali inedite recitate in Napoli da me descritte nelle Vicende della Coltura della Siciliea; come ancora le favole drammatiche allegoriche recitate da’ Fiorentini nel 1442 nell’ingresso trionfale di {p. 152}Alfonso I di Aragona in Napoli; e i Misteri della Passione ivi fatti rappresentare nella Chiesa di santa Chiara con magnifiche decorazioni dal medesimo re nella settimana santa l’anno 1452, in cui venne in questa città Federigo III imperadore; ed anche le farse buffonesche inedite di Antonio Caracziolo rappresentate per lo più alla presenza di Ferdinando I; e finalmente li Gliuommere nel dialetto napoletano di Jacobo Sannazzaro, e la farsa toscana del medesimo illustre poeta della presa di Granata rappresentata in quella reggia in presenza di Alfonso duca di Calabria nel 1489a. In questo secolo ancora, e propriamente nel 1489b, {p. 153}da Bergonzo Botta gentiluomo Tortonese si diede in Tortona quella tanto magnifica festa nelle nozze d’Isabella di Aragona figlia di Alfonso duca di Calabria con Giovanni Galeazzo Maria Sforza duca di Milano, nella quale, per quanto vedesi presso il Corio ed altri, la poesia, la musica, la meccanica e la danza spiegarono tutte le loro pompea.

Passando poi a componimenti veramente scenici composti in tal secolo da non volgari ingegni, troviamo una {p. 154}tragedia di Gregorio Corraro patrizio veneto morto nel 1464 composta in versi latini nel l’età di soli anni diciotto, intitolata Progne, alla quale fanno plauso, secondo Lilio Gregorio Giraldi, moltissimi eruditi del XVI secolo, e nel nostro col Marchese Scipione Maffei altri letterati ragguardevoli. Si produsse la prima volta in Venezia nel 1558, ed il Domenichi la tradusse in italiano, spacciandola come cosa propria.

Un’altra tragedia latina sulla Passione di Cristo compose in questo secolo Berardino Campagna dedicata dall’autore al pontefice Sisto IV, della quale fa menzione il lodato Maffei nella Verona illustrata.

Altra tragedia latina in versi giambici dedicata al duca di Ferrara Borso da Este compose Laudivio cavaliere Gerosolimitano nativo di Vezzano nella Lunigianaa, il quale appartenne {p. 155}alla famiglia Zacchia e fu ascritto all’Accademia del Panormita, benchè dal Pontano poco pregiato. Si agira sulle vicende del famoso condottiere conte Jacopo Piccinino arrestato improvvisamente nel 1464, e poi l’anno seguente ucciso per ordine di Ferdinando redi Napoli. Vidi il Codice Estense di tal tragedia in Modena nel fermarmivi per alcune ore nel 1779, ma non avendo l’agio necessario per leggerla interamente, degnò l’umanissimo cavaliere amico trasmettermene un breve {p. 156}estratto e qualche verso. Eccone il titolo: De captivitate Ducis Jacobi tragoedia. Contiene cinque atti senza divisione di scene, e solo in margine si segnano i personaggi che parlano, e qualche volta s’indica l’argomento della scena. Nell’atto I leggesi in margine Rex Borsius loquitur; ed in fatti seco stesso egli parla a lungo delle prodezze del Piccinino; indi sopragiunge un sacerdote che narra varii funesti prodigii, e dopo aver molto l’uno e l’altro cianciato termina l’atto con un coro. Trattasi nel II atto de’ mali apparsi dopo la pace fatta, e gl’interlocutori sono un augure, il coro ed un messo che nulla dice di più degli altri. Nel III la scena passa da Ferrara a Napoli, ed in esso un ambasciadore del Piccinino al re Fernando dà avviso della venuta del generale, ed il re promette accoglierlo onorevolmente. Termina quest’atto col coro che canta le lodi di Drusiana moglie del Piccinino. Il IV atto è il più bizzarro. Il re alterca col carnefice esaminando se {p. 157}debba uccidersi il Piccinino tosto che fidando nel trattato venga in suo potere. Il carnefice insinua che si uccida, e la di lui eloquenza prevale. Si vede poscia il Piccinino nella prigione. Il carnefice viene ad intimargli l’ordine della di lui morte:

Dux Jac.

En jam satelles adest, meque petit.

Satel.

Dux, martis auctor potens, bellis inclyte,
Piget, dicam, piget: tibi fero necem:
Sic rex jubet, jam colla tende gladiis.

Il duce si sottopone alla condanna ed è ucciso; dopo di che dice il carnefice:

Quam graviter diram constans tulit necem.
Indolui huic tam duram sortem accidere.
Sed redeo ad regem; jam perfectum est scelus.

L’atto termina col coro che in compagnia di Drusiana compiange la prigionia del Piccinino. Nel V atto {p. 158}la scena torna a Ferrara. Un messo racconta al duca Borso la sventura del duce, e la tragedia termina con un coro. È un componimento languido e difettoso, nè la condotta, nè lo stile invita a desiderarsene l’impressione; ma pure è tragedia, ed ha il pregio di essere una delle prime di argomento tratto della storia moderna nazionale.

Giovanni Sulpizio da Veroli, il quale sotto il pontificato d’Innocenzo VIII teneva scuola dì belle lettere in Roma, vi fece rappresentare un’altra tragedia. Secondo ciò che ne scrive lo stesso Sulpizio nella dedicatoria delle sue Note sopra Vitruvio al cardinal Raffaello Riario nipote di Sisto IV, essa fu la prima veduta in Roma dopo molti secoli. Pietro Bayle, citando il p.Menestrier, afferma che questa tragedia fu cantata come un’ opera musicale di oggidì, fondandosi sulle parole del medesimo Sulpizio: Tragoediam quam nos agere et cantare primi hoc aevo docuimus. A me sembra però che il Menestrier ed il Bayle facciano {p. 159}significar troppo a quell’agere et cantare. Potrebbero, è vero, tali voci indicare che la tragedia tutta si fosse cantata, a somiglianza delle moderne opere in musica dal principio sino al fine. Ma potrebbero forse avere altri due significati, in ciascuno de’ quali sparisce ogni idea di opera. Perchè in prima non potrebbero esprimere rappresentare e declamare? Cantare dicesi pur da’ Latini e da noi il recitar versi, per quella specie di canto con cui si declamano; ed ogni poeta dice de’ suoi versi, io canto. Perchè poi non potrebbe dirsi che Sulpizio avesse voluto dinotar coll’agere il rappresentar nudamente la tragedia, e col cantare il cantarne con vera musica ciò che và cantato, cioè i cori, la qual cosa direbbesi acconciamente e con latina proprietà agere et cantare tragoediam, senza convertirla in melodramma moderno? Sopra simili fondamenti i due citati autori, seguiti pochi anni fa dal riputato cavaliere Antonio Planelli mio amico, veggono l’opera in musica dovunque cantaronsi {p. 160}versi, cioè ne’ canti de’ pellegrini di Parigi, nelle sacre cantate delle chiese, nelle cantilene riferite di Albertin Mussato. E potevasene allungar la lista co’ versi cantati da’ Mori prima delle giostre, con i cori Messicani, colle musiche Peruviane, co’ rustici canti de’ selvaggi, e con che no? Ma i moderni alla voce opera aggiungono una idea complicata e talmente circostanziata che la diversificano, non che dalle cose accennate, dagli stessi pezzi drammatici de’ Greci e de’ Latini, a’ quali pur si avvicina. Aggiungasi che dicendo Sulpizio di aver dopo molti secoli fatta rappresentare in Roma una tragedia, ci fa retrocedere col pensiero almeno sino a’ Latini, nè possiamo altrimenti concepir la tragedia di cui fa motto, se non come quella degli antichi. Ciò che solo con certezza si deduce dalle di lui parole, si è, che quel componimento fu una tragedia. Che poi questa si cantasse tutta, come pretese il Menestrier, ovvero se ne cantassero i soli cori, come noi stimiamo, ambedue {p. 161}queste opinioni sono arbitrarie, ed hanno bisogno di nuova luce istorica.

Verso la fine del secolo, cioè nel 1492 Carlo Verardo da Cesena nato nel 1440 e morto nel 1500, che fu arcidiacono nella sua patria e cameriere e segretario de’ Brevi di Paolo II, di Sisto IV, d’Innocenzo VIII e di Alessandro VI, compose due drammi fatti rappresentare in Roma solennemente dal mentovato cardinal Riario. Parla del Verardo e del suo Fernandus servatus Apostolo Zeno nelle Dissertazione Vossiane; ma non pare che avesse conosciuto la prima edizione in quarto fatta de i di lui drammi in Roma per Magistrum Eucharium Silber, alias Franck nel 1493 a’ 7 di maggioa Vi si trova impresso il Fernandus servatus, la Historia Betica, e una ballata in fine colle note {p. 162}musicali. Il piano del Fernando fu dal Verardo ideato in occasione dell’attentato di un traditore contro la vita del re che per miracolo di san Giacomo sanò dalla ferita; ma fu disteso in versi esametri da Marcellino suo nipote. Carlo dedicò il componimento all’arcivescovo di Toledo e primate delle Spagne Pietro Mendoza, e l’intitolò tragicommedia. Dicesi nella dedicatoria che fu ascoltata con sommo applauso dal pontefice e da’ cardinali e prelati. Nell’azione che non ha divisione di atti, intervengono Plutone, Aletto, Tisifone, Megera, Ruffo (che è il traditore) la Regina, una Nutrice, san Giacomo, il Re, il cardinal Mendoza, il Coro. Nel parlar che fa Plutone della religione di Cristo e di Maometto frammischia i nomi e i fatti di Piritoo, Castore, Oreste ed Ercole. Questa incongrua mescolanza è compensata dall’unità dell’azione condotta regolarmente nel giusto tempo con gravità e con facilità, e non senza nitidezza di locuzione se non con proprietà ed eleganza {p. 163}Virgiliana. Adduco per saggio la dipintura che fa Mendoza del traditore Ruffo dopo aver commesso l’attentato:

Respondet tanquam penitus ratione careret;
Nec dubium ratione caret, prenditque catenas
Mordicus, et populo spectanti triste minatur.
Res monstrosa quidem. Capiti stant lumina tetra,
Terribilis facies premitur pallore nefando,
Intuiturque solum semper non lumine recto:
Lingua venena gerit: livent rubigine dentes:
Deformis macies apparet corpore toto:
Nusquam risus adest: suspiria semper abundant:
Horrendumque caput redimitur crinibus atris:
Inficit aspectu quicquid conspexit acerbo.

L’altro componimento intitolato {p. 164}Historia Baetica rappresenta l’evenimento dell’espugnazione di Granata, ed è scritto in prosa, eccetto l’argomento ed il prologo che sono in versi giambici. Si fece pure rappresentare dal cardinal Riario nel suo palazzo in un teatro erettovi espressamente, e si ascoltò con grande applauso. Dicesi nel prologo:

Requirat autem nullus hic comoediae
Leges ut observentur, aut tragoediae;
Agenda nempe est historia, non fabula.

Ed in fatti par che l’autore si proponesse di narrare in un dialogo continuato l’azione esposta nell’argomento. In fine di questa composizione si trova scritto: Acta ludis Romanis, Innocentio VIII in solio Petri sedente, anno a Nat. Salvatoris mccccxcii, undecimo Kalendas Maii.

Leonardo Bruni che da Arezzo sua patria portò il nome di Aretino, nato nel 1369, e morto nel 1444, avea {p. 165}composta una commedia intitolata Polixena stampata più volte in Lipsia nel principio del secolo XVI. Leon Batista Alberti nato, secondo il Manni e il Lami nel 1398, e secondo il Bocchi nel 1400, e secondo che con maggior probabilità congettura il Tiraboschi nel 1414, scrisse in prosa latina nell’età di venti anni una commedia intitolata Philodoxeos, creduta per due lustri opera di un antico scrittore, perchè ha non poco dello stile degli antichi comici, e mostra lo studio fatto dall’Alberti della latina favella. E benchè poi giunto l’autore all’età di trenta anni l’avesse ritoccata e divolgata col suo nome, dedicandola al marchese di Ferrara Leonello da Este, non pertanto Aldo Manuzio il giovane volle pubblicarla nel 1588 sotto il nome di Lepido comico poeta antico. Alberto da Eyb ne inserì molti squarci nella Margarita Poetica, ma chiamò l’autore Carlo Aretino. Nella medesima opera dell’Eyb si mentova un’altra commedia latina di quel tempo di {p. 166}Marcello Ronzio vercellese intitolata de falso Hypocrita et tristi, adducendone molti passi. Ugolino Pisani parmigianoa compose alcune commedie latine, per le quali da Angelo Decembrio vien chiamato valoroso imitatore dello stile plautinob Una ne presentò al nominato Leonello succeduto al padre nel 1441, nella quale confabulavano le massarizie di cucina, secondo il medesimo Decembrio. Un’ altra in prosa intitolata Philogeniac trovasi ms nella R. Biblioteca di Parigi e nella Vaticanad, e nell’Estense benchè senza nome dell’autoree {p. 167}Quella che ne vidi io nella Biblioteca di Parma s’intitola Ephigeniaa Secco Polentone, ossia da Polenta, cancelliere della Repubblica Padovana, chiamato dagli scrittori di que’ tempi Sico o Xicus Polentonus, cui i Padovani aggiungono il cognome di Ricci, compose anche in latino verso la metà del secolo una commedia in prosa intitolata Lusus ebriorum, la quale serbasi ms fra’ codici di Giacomo Soranzo.

Ma non composero gl’Italiani altro che farse e componimenti latini in questo secolo? Non ne scrissero alcuno in volgare, che loro assicuri l’anteriorità anche per questa via? Ve ne furono almeno dodici recitati e {p. 168}stampati, che quì recheremo, sebbene per esperienza io sia certo, che neppure un solo vogliano vederne i Lampigliani, tra’ quali con rincrescimento sembraci, che si debba noverare il riputato esgesuita Andres.

Appunto dal nominato Lusus ebriorum venne la più antica commedia volgare che abbiasi alle stampe. Modesto Polentone ne fè una traduzione Italiana, intitolandola Catinia da Catinio protagonista della favola, e pubblicolla in Trento nel 1472.a

Venne poi l’Orfeo del Poliziano, nel quale dee riconoscersi la prima pastorale tragica fra noi composta in volgare con qualche idea di regolare azione. L’autore non oltrepassava l’anno diciottesimo di sua età, quando lo scrisse in tempo di due giorni (com’egli accenna in una lettera a Carlo canale)intra continui tumulti a {p. 169}requisizione del reverendissimo cardinale Mantuano Francesco Gonzaga, in occasione che questi da Bologna ove risedea Legato, portossi a Mantova sua patria, ove era Vescovo nel 1472, come col Bettinelli asserisce il lodato padre Affò, o almeno prima del 1483, nel quale anno morì il Cardinale, come osserva Girolamo Tiraboschi. Il Bibliotecario di Parma nel 1776 fe pubblicarlo in Venezia, così intitolandolo: L’Orfeo tragedia di Messer Angiolo Poliziano tratta per la prima volta da due vetusti codici, ed alla sua integrità, e perfezione ridotta ed illustrata. Precede un argomento rinchiuso in due ottave. Ciascuno de’ cinque atti, ne’ quali è diviso, porta un titolo particolare. Chiamossi il primo Pastorale, il secondo Ninfale, il terzo Eroico, il quarto Negromantico, il quinto Baccanale.

Contiene il primo un’ecloga amorosa di Aristeo, che poi va in traccia della ninfa Euridice. Nel secondo egli la trova, e le corre dietro, ed indi a {p. 170}poco una Driade piangendo annunzia alle compagne la morte di Euridice, e vedendosi venir da lungi Orfeo la Driade manda altre ninfe a coprir di fiori l’estinta, ed ella ne reca a lui l’amara novella. Nel terzo esce Orfeo ignaro della sua sventura cantando un tetrastico latino ad Ercole, che incomincia, Musa, triumphales titulos et gesta canamus, e s’interrompe all’arrivo della Driade, da cui ode la morte dell’amata Euridice punta da morso velenoso di un serpente. Istupidito dal dolore parte Orfeo senza far motto alla maniera di Sofocle, rimanendo in iscena il satiro Mnesillo; indi ritorna piangendo la consorte, e risolve di calar giù nell’inferno,

A provar se laggiù mercè s’impetra. Trattasi nel quarto atto di ciò che avvenne ad Orfeo nell’inferno. Ma quì si chiederà come debba concepirsi la scena, passando tutta l’azione in due luoghi. Giudica il prelodato Affò essersi dovuta in Mantova formar la scena ad imitazione delle antiche, che {p. 171}figuravano a un tempo stesso più luoghi, e mostrar da un lato la via che faceva Orfeo nell’avvicinarsi alla reggia di Plutone, e dall’altro l’inferno stesso. Ma tale scena bipartita converrebbe all’atto IV, e non al rimanente. I sospiri di Aristeo, i lamenti delle Driadi, il pianto di Orfeo, cose che passano negli atti precedenti, e l’ammazzamento del poeta amante eseguito nel V dalle Baccanti, esiggono un’apparenza diversa da quella dell’atto IV. Dovè dunque cangiarsi la scena nella guisa che oggi avviene ne’ drammi musicali, servendo all’azione. La scena dell’atto I dovea rappresentare una campagna a piè di un monte con una fonte, presso di cui era Aristeo:

… appresso a questa fonte
Non son venuti in questa mane armenti,
Ma ben sentii mugghiar là dietro al monte.

Ed in tale scena potevano passare anche il II e III atto parlandovisi del medesimo monte. Rappresentò forse il {p. 172}IV il dilettevole orrore della dipintura di tante pene infernali sospese al cantar di Orfeo (siccome l’espresse il Poliziano seguendo Virgilio), e la reggia di Pluto, e la strada tenuta da Orfeo. Nel V potè tornare la mutazione de’ primi tre atti, accennandovisi eziandio il monte, questo monte gira intorno, ovvero cangiarsi il teatro in una foresta su questo monte destinata dalle Baccanti alla celebrazione de’ loro riti. Che se di tutte queste cose volesse idearsi una scena stabile, non riuscirebbe difficile compartirvele; ma allora sorgerebbe un dubbio inevitabile, cioè, come mai ninfe e pastori scorrendo per ogni banda non si sono avveduti della via che mena all’inferno, e delle apparenze dell’atto IV? Lascio poi stare il poco artificio di tener sotto gli occhi dello spettatore per tutta la rappresentazione la più vistosa decorazione della reggia di Pluto, mentre altrove espongonsi cose assai meno vivaci. Adunque la scena nell’Orfeo fuor di dubbio cangiossi, servendo {p. 173}anche allo spirito di magnificenza del secolo XV, in cui amavansi all’estremo (e ben l’accenna l’erudito annotatore) le maravigliose rappresentazioni, e le macchine sorprendenti. In quest’atto Orfeo implora il ritorno di Euridice tra’ vivi, Proserpina intercede per lui, e Plutone gliela concede a condizione, che non abbia a volgersi indietro per mirarla in tutta la via infernale. Sembra che dopo ciò dovesse chiudersi la porta ferrata della reggia. Orfeo tutto giojoso seguito da Euridice profferisce il seguente tetrastico latino:

Ite triumphales circum mea tempora lauri:
    Vicimus; Euridice reddita vita mihi est.
Haec mea praecipue victoria digna corona.
    Credimus, an lateri juncta puella meo?

L’ultimo pentametro indica la curiosità di Orfeo, che contro il divieto si volge a mirar la moglie, e la perde di nuovo per sempre. Euridice sentendosi {p. 174}tirar indietro, stende invano le braccia al marito, ed è tratta di nuovo nel regno della morte. Il Poliziano calcando anche quì l’orme di Virgilio così la fa parlare:

Aimè! che troppo amore
Ci ha disfatti ambidua!
Ecco che ti son tolta a gran furore,
E non son or più tua.
Ben tendo a te le braccia, ma non vale,
Che indietro son tirata. Orfeo mio, vale.

Orfeo vuol tornare per ridomandarla, ma vien respinto da Tisifone. Nel V atto Orfeo vaneggiando per lo dolore risolve di non mai più innammorarsi di donna veruna; ed era questo un sentimento naturale per la disperazione in cui si trovava. Ma doveva il Poliziano farlo passare ad abborrir le donne che non avevano a lui mancato, e a detestarle con certe espressioni convenienti unicamente agli Orlandi traditi da qualche Angelica? Doveva mettergli in bocca que’ versi che mostrano {p. 175}l’autor del dramma proclive al più detestabile sfogo della lascivia? Questi sono errori dell’età giovenile, o di quegli ingegni vivaci che troppo a se fidando mettono giù i loro parti senza scelta e con precipitanza a somiglianza de’ verseggiatori estemporanei impazienti di lima. Ma questo difetto e qualche altro che possa notarsi in questo dramma, faranno si che ne venga a perdere la natura drammatica? faranno che possa cancellarsi dal numero delle poesie sceniche volgari del secolo XV? faranno che l’eseguita sig. Andres abbia a cadere a porlo in confronto colla Celestina spagnuola pretta novella in dialogo, la quale non fu mai azione drammatica, non mai si rappresentò, non è fatta per rappresentarsi, non si era nel XV secolo ancora composta, perchè il primo di lei autore Cotta non ne compose se non che un atto solo de’ ventuno ch’ n’ebbe poi nel secolo XVI? Conchiudiamo sull’Orfeo. I sentimenti del cantore ingiuriosi al sesso femminile muovono a {p. 176}sdegno le Menadi furibonde che ne risolvono ed eseguiscono la morte, e con una canzonetta ditirambica termina la favola. Vuolsi in essa notare ancora che molte cose dovettero cantarvisi, specialmente alcuni pezzi delle scene di Orfeo, e le canzoni de’ Cori.

Due altre azioni teatrali volgari leggonsi nelle rime del Notturno poeta napoletano appartenente a questo periodo. S’intitola la prima Tragedia del maximo et dannoso errore in che è avviluppato il fragil et volubil sexo femineo, la quale nella Drammaturgia dell’Allacci s’intitola Errore femineo. In questa pretesa tragedia si trovano alcune scene comiche. Il metro è vario, contenendo arbitrariamente ottave e terze rime ed alcune strofe anacreontiche con un intercalare cantato da quattro musici. Su tali strofe osserviamo di passaggio che il pensiero di adoperare ne’ drammi le arie, cioè le stanze anacreontiche che oggi formano il più musicale dell’opera Italiana, non ci venne miga dal Cicognini, il {p. 177}quale verso la metà del secolo XVII le frammischiò al recitativo nel suo Giasone. Ciò credemmo da prima il cavaliere Antonio Planelli seguito poscia dal Tiraboschi, ed io nella Storia de’ Teatri che produssi in un solo volume nel 1777. Volendo io però nel terzo volume della Coltura delle Sicilie pubblicato nel 1784, a cagione delle strofe del Notturno, confessare spontaneamente di essermi ingannato, avvenne che un modernissimo gazzettiere de’ nostri paesi pretese che in sua coscienza io riposassi sulla prima asserzione del Planelli. Ma io che penso di avere una coscienza un pò più delicata de’ gazzettieri di queste contrade, le dico che si astenga di trarre il capo fuori del suo telonio e di frammischiarsi in ciò che ignora, e stia ad ascoltare chi sa più in là delle gazzette. Ripeto quì dunque che le ariette del Notturno interruppero il recitativo del dramma, nè ciò fecero ne’ soli cori, ma nel corso dell’atto; ed aggiungo che ciò accadde verso la fine del XV, cioè {p. 178}a dire un secolo e mezzo prima del Cicognini. Anche lo spagnuolo Stefano Arteaga volle rilevar l’additato avviso del Planelli, del Tiraboschi e del Signorellia, ed addusse l’aria dell’Euridice del Rinuccini

Nel puro ardor della più bella stella.

Egli però ciò scrisse nel 1785, ed io gli avea tolto il travaglio intempestivo di correggermene; giacchè un anno prima, cioè nel 1784, quando usci il citato volume III delle mie Vicende delle coltura delle Sicilie, me ne accusai e corressi senza bisogno dell’opera altrui. Lascio poi che le stanze allegate del Notturno hanno la prerogativa di aver preceduto di tutto un secolo anche quell’aria del Rinuccini posta in musica dal Peri.

La seconda azione scenica del {p. 179}Notturno è detta commedia nuova nell’edizione milanese, ed in alcune veneziane Gaudio d’amore. Il carattere di essa è nel basso comico, seguendo la condizione de’ personaggi antichi servi ruffiani parassiti meretrici. Ma tempo è di accennare alcuni altri passi teatrali dati in altre città italiane, e singolarmente in Roma ed in Ferrara.

In Milano il duca Ludovico Sforza fe aprire in questo secolo un magnifico teatro, di cui si parla in un epigramma di Lancino Cortia In Firenze il celebre traduttore di Tito Livio, Giacomo Nardi, secondo il Fontanini, al più tardi produsse nel 1494 la sua commedia composta in vario metro intitolata l’Amicizia. In Roma senza verun dubbio uno de’ principali autori del risorgimento della drammatica fu il rinomato calabrese Pomponio Leto. Per quanto leggesi nella Vita {p. 180}di lui composta da Marcantonio Sabellico, cominciò il Leto a farvi recitare ne’ cortili de’ prelati più illustri le commedie di Terenzio e di Plauto ed anche di qualche moderno, insegnando egli stesso ad alcuni civili giovanetti il modo di rappresentarle. A tempo di Paolo Cortes, per quanto egli stesso racconta, fecesi anche sul colle Quirinale la recita dell’Asinaria. Nel Diario di Jacopo Volterrano pubblicato dal Muratoria si parla di un dramma intorno alla vita di Costantino rappresentato a’ cardinali nel carnovale del 1484, nel quale sostenne il personaggio di Costantino un Genovese che da quel tempo sino alla morte fu sempre chiamato l’Imperadore.

Con maggior magnificenza ancora cominciarono nel 1486 a rappresentarsi in Ferrara feste e spettacoli teatrali sotto la direzione dell’infelice Ercole Strozzi figlio di Tito Vespasiano {p. 181}ferraresea; e niuno vi ebbe (dice Girolamo Tiraboschi)che nella pompa di tali spettacoli andasse tant’oltre quanto Ercole I duca di Ferrara principe veramente magnifico al pari di qualunque più possente sovrano. A’ venticinque di gennajo del mentovato anno, secondo l’antico diario ferrarese, questo splendido duca fe rappresentare in un gran teatro di legno innalzato nel cortile del suo palazzo la commedia de’ Menecmi di Plauto, alla cui traduzione egli stesso avea posto manob. A’ ventuno poi del medesimo mese del seguente anno vi si rappresentò la favola di Cefalo divisa in cinque atti e scritta in ottava rima dall’illustre guerriero e letterato Niccolò da Correggio (che non so perchè vien {p. 182}detto da Saverio Bettinelli Reggiano, essendo nato in Ferrara l’anno 1450, ove erasi recata Beatrice da Este sua madre); ed indi a’ ventisei dello stesso mese l’Anfitrione tradotto in terzarima da Pandolfo Collenuccio da Pesaro, il quale a richiesta parimente di Ercole I compose la sua commedia, o a dir meglio, azione sacra intitolata Joseph impressa poi in Venezia nel 1543 corretta da Gennaro Gisanelli. Sotto il medesimo duca e pel di lui teatro Antonio da Pistoja della famiglia Camelli secondo il Baruffaldi e secondo altri della Vinci, compose alcuni drammi, e specialmente la Panfila tragedia in terzarima in cinque atti stampata in Venezia nel 1508a. Pietro Domizio scrisse un’altra tragedia pel medesimo teatro che dovette rappresentarsi nel 1494b. Per uso {p. 183}dello stesso teatro furono tradotte anche in terzarima da Girolamo Berardo ferrarese la Casina e la Mostellaria stampate in Venezìa. Il famoso Matteo Maria Bojardo conte di Scandiano, ad istanza del medesimo duca, compose in terzarima e in cinque atti il Timone commedia tratta dal dialogo così chiamato di Luciano, la quale trovasi impressa la prima volta senza data, ma certamente si scrisse prima del 1494, anno in cui seguì la morte dell’autore, e se ne fece nel 1500 una seconda edizionea.

Non ci curiamo di riferire a questo secolo le due commedie italiane di Giovanni di Fiore da Fabbriano, e l’altra di Ferdinando di Silva cremonese {p. 184}intitolata l’Amante Fedele rappresentata nelle nozze di Bianca Maria Visconti col conte Francesco Sforzaa. A noi basti l’aver mostrato ad evidenza con altri non ambigui monumenti ciò che incresce ai Lampigliani, che l’Italia può vantarsi di aver coltivata la drammatica ad imitazione degli antichi con quella felicità che altri le invidia. Aggiugneremo con pace dell’esgesuita stimabile sig. Andres, che essa parimente prevenne le altre nazioni Europee in produrre i primi indubitati pezzi teatrali in lingua volgare (giacchè è piaciuto a questo letterato, altro non potendo, ricorrere a questo asilo) nè solo coll’Orfeo, ma con altri drammi eziandio, verità che vedrebbero con tutta l’Europa gli apologisti di ogni nazione, purchè gettassero via i vetri colorati di Plutarco. E chi allora metterebbe più in confronto una ventunesima parte di {p. 185}una novella in dialogo come la Celestina (che ebbe nel secolo vegnente per altra mano il componimento e mai non si rappresentò nè per rappresentare si scrisse) a tanti per propria natura veri drammi Italiani rappresentati con plauso e per tali riconosciuti, cioè alla Catinia, al Cefalo, al Gaudio d’amore, alla Panfila, ai Menecmi, all’Anfitrione, alla Casina, alla Mostellaria, all’Amicizia, al Timone? Ma passiamo subito a vedere lo stato della drammatica per tutto il XV secolo fra gli Oltramontani.

{p. 186}

CAPO VI.

La Drammatica oltre le Alpi nel XV secolo non oltrepassa le Farse e i Misteri. §

Mentre sulle orme degli antichi giva risorgendo in Italia la poesia rappresentativa in latino e in italiano, l’ombra che n’ebbero i Provenzali si estinse e svanì totalmente, ed in Parigi rozza ed informe si restrinse a’ sacri misteri ed alle farse. Avea quivi preso forma di dramma il Canto Reale, rappresentandosi la Passione di Cristo nel borgo di san Mauro. Chi riflette alla vittoriosa forza della religione sugli animi umani, non istupirà dell’universale accettazione che ebbe sì importante argomento in tutta l’Europa Cristiana. In Francia tirò una prodigiosa folla di spettatori. Ma perchè difficilmente possono le cose sacre presentarsi ne’ pubblici teatri senza {p. 187}inconvenienti e senza certa profanazione, convenne al Prevosto di Parigi proibir tali rappresentazioni. Gli attori che ne traevano profitto, implorarono il favore della Corte prendendo il titolo di Fratelli della Passione, e nel 1402 ne ottennero da Carlo VI l’approvazione. Posero allora il teatro nell’ospedale della Trinità, rappresentandovi per tutto il secolo varie farse della Passione e diversi misteri del vecchio e del nuovo testamento. Uno di questi drammi della Passione scritto circa la mettà del secolo si crede composizione di Giovanni Michele vescovo di Angers morto in concetto di santo. Conteneva la vita di Cristo dalla predicazione del Precursore sino alla Risurrezzione, e consisteva in una filza di scene indipendenti l’una dall’altra, senza divisione di atti, e si recitava in più giorni. V’intervenivano il Padre Eterno, Gesù Cristo, Lucifero, la Maddalena e i di lei innammorati. Vi si vedeva Satana zoppicando per le bastonate ricevute da Lucifero per aver tentato Gesù-Cristo {p. 188}senza effetto. La figlia della Cananea spiritata vi profferiva parole soverchio libere. L’anima di Giuda non potendo uscire per la bocca che avea baciato il divino Maestro, si figurava che scappasse fuori del ventre insieme colle interiora. Gesù-Cristo sulle spalle di Satana volava sul pinacolo ec. Tali rappresentazioni si adornavano con decorazioni curiose, e se ne cantavano gli squarci più rilevanti, come le parole del Padre Eterno.

Sotto la denominazione di Misteri vengono parimente le Vite de’ Santi poste sul teatro francese in questo secolo. Nominasi da’ collettori de’ pezzi teatrali francesi la Vita e i Miracoli di S. Andrea, la Vita di S. Lorenzo, la Pazienza di Giobbe. S’impresse in Grenoble la Vita di S. Cristofano composizione del maestro Chevalet, il quale conseguì il titolo di sovrano maestro in siffatti drammi. Narrasi in essa la conversione del gigante Reprobo chiamato poi Cristofano, il quale serve a varii re, perchè {p. 189}gli crede potenti, indi al diavolo da lui stimato di essi più potente; ma vedendo che si spaventa di una croce ed udendone dall’istesso diavolo la cagione, ne abbandona il servizio, e va in traccia di colui che l’aveva vinto. Nel tragittar che fa, per consiglio di un’ eremita, i viandanti da una sponda all’altra di un fiume, porta sopra le spalle un bambino, il cui peso crescendo a dismisura in mezzo all’acqua, si avvede della propria debolezza, e ne stupisce. Il bambino che era Gesù-Cristo gli si mostra circondato da’ raggi della propria gloria, e vola fralle nuvole. Reprobo riceve il battesimo. Termina il dramma col di lui martirio, e colla conversione del re di Licia, il quale per miracolo è ferito in un occhio da una saetta che dal petto di Cristofano ritorna verso di lui, e per miracolo ancora ricupera la vista giusta la predizione del martire gigante. Il mistero del Re che ha da venire, l’Incarnazione e la Nascita, sono altre farse spirituali di quel {p. 190}tempo, nelle quali solevano intervenire or cento or settanta or cinquanta personaggi.

Sotto Carlo VI morto nel 1422 furonvi in Francia, oltre a’ Fratelli della Passione, varie altre compagnie di rappresentatori. Gli Spensierati (les Enfans sans souci) che aveano un capo chiamato il Principe degli sciocchi, mettevano sul teatro avventure bizzarre e ridicole. I Clerici de la Bazoche, che cominciarono con alcune farse dette Moralità, proseguirono rappresentando mere buffonerie. I Cornards di Normandia sotto un capo chiamato l’Abate de’ Cornards che portava la mitra ed il pastorale, rappresentavano farse satiriche e insolenti. Tali spettacoli francesi del XV secolo erano scuole di superstizione, indecenza e rozzezzaa. Colà non si capiva ancora, che nella {p. 191}drammatica eranvi modelli antichi da imitarsi con profitto. Nè anche si erano i Francesi disfatti de’ misteri muti. Quando Carlo VII entro in Parigi l’anno 1436, vi fu ricevuto come in trionfo, e dalla porta di san Dionigi sino alla chiesa di Nostra Signora trovò tutte le strade piene di palchi con simili rappresentazioni. La prima che incontrò fu la mascherata de’ sette peccati mortali combattuti dalle tre virtù teologali e dalle quattro virtù cardinali.

Nella penisola di Spagna il popolo trattenevasi colle buffonerie de’ giullari degenerati in meri cantimbanchi e ciarlatori. Nelle chiese recitavansi farse sulle vite de’ santi così piene di scurrilità che sulla fine del secolo ne furono escluse per un canone del Concilio Toledano tenuto nel 1473. Per dar giusta ed istorica idea dello stato della drammatica del XV secolo in Ispagna, ho voluto rileggere con somma pazienza quanto ne scrissero di passaggio o di proposito i critici e gli storici della nazione. Ho voluto pormi {p. 192}sotto gli occhi il prologo di Miguèl Cervantes, la dissertazione del bibliotecario don Blàs de’ Nasarre, i discorsi del Montiano, e del mio amico Don Nicolàs de Moratin, il tomo VI del Parnaso Espanol del Sedano: non ho voluto trascurar di rivedere nè gl’infedeli sofistici Saggi apologetici di Saverio Lampillas, nè le maligne rodomontate e cannonate senza palla di Vincenzo Garcia de la Huerta, nè i rapidi quadri di ogni letteratura del gesuita sig. Andres. Dopo questa nuova cura nulla ho trovato di più di quello che altra volta ne accennai, cioè dei due componimenti quasi teatrali di don Errico di Aragona marchese di Villena e di Giovanni La Encina. Era il primo di essi una serenata o favola allegorica, nella quale favellava la giustizia, la pace, la verità e la misericordia, la quale secondo il cronista Gonzalo Garcia di Santa Maria citato anche dal Nasarre, si rappresentò alla presenza del sovrano in Saragoza. Fu il secondo una festa fatta {p. 193}rappresentare dal conte de Ureñas nella propria casa ospiziando il re Ferdinando che passava a Castiglia per isposare la regina Isabellaa, e non già in occasione delle nozze de’ Cattolici re, come asserì il Lampillas. Questo medesimo apologista (su di cui si fondò il più volte lodato Andres suo confratello) di tale festa teatrale dell’Encina ne fece diversi componimenti drammatici sacri e profani del XV secolo, convertendo al solito la storia in romanzob. {p. 194}Il più volte mentovato signor Andres osa collocare in questo secolo ancora, e mettere in confronto dell’Orfeo vero dramma compiuto e rappresentato, la Celestina, dialogo, come confessa lo stesso Nasarre, lunghissimo e incapace di rappresentarsi, di cui il primo autore Rodrigo Cotta appena scrisse un atto solo de’ ventuno che n’ebbe nel seguente secolo per altra manoa. Lo spirito di apologia nemico della verità e del merito straniero imbratta in più di un luogo varie belle opere.

{p. 195}In Alemagna erano a que’ tempi assai usitati i giuochi di carnovale, dialoghi che la gioventù mascherata giva nel carnovale recitando per le case. Essi piacquero oltremodo pe’ colpi satirici che vi si lanciavano con lepidezza, e se ne composero non pochi. I più antichi che siensi conservati, si scrissero verso la mettà del secolo da Giovanni Rosenblut in Norimberga. Se ne contano sei così intitolati: 1 Giuoco di carnovale, 2 i Sette Padroni, 3 il Turco, nel quale il Soldano viene a Norimberga per pacificare i Cristiani, a cui un legato del Pontefice partecipa di aver commissione di caricarlo ben bene di villanie, 4 il Villano ed il Capro, il 5 tratta di tre persone che si sono salvate in una casa, ed il 6 contiene una dipintura della vita di due persone maritate. Oltre a questi giuochi cominciarono gli Alemani verso la fine del secolo a volgere gli sguardi alcun poco agli antichi e tradussero Terenzio. Si conserva nel Collegio di Zwickau un estratto di due {p. 196}commedie Terenziane de stinate a rappresentarsi dagli scolari. Nel 1486 s’impresse in Ulm una traduzione dell’Eunuco, e nel 1499 quella di tutte le commedie del comico Latino.

Nelle Fiandre troviamo a stento quella rappresentazione muta che soleva praticarsi ne’ dì festivi nelle chiese e ne’ pubblici ingressi de’ sovrani nelle città. Allorchè Carlo ultimo duca di Borgogna entrò in Lilla nel 1468, i Fiaminghi rappresentarono per mistero senza parole il Giudizio di Paride. Tre femmine nude erano le tre Dive: una ben robusta, pingue e di statura gigantesca figurava Giunone; Venere era dì una magrezza straordinaria; e Pallade si rappresentava da una nana, gobba e panciutaa.

Continuarono in Inghilterra i Misteri e le Farse, come può vedersi dal Dizionario di Chambers.

{p. 197}Tale è la storia teatrale dal risorgimento delle lettere sino alla fine del secolo XV. Chiaramente da essa si ravvisa che dentro delle Alpi, dove appresero gli altri popoli a vendicarsi in libertà, e propriamente in Piacenza, in Padova, in Roma, colle rappresentazioni de’ Misteri rinacque l’informe spettacolo scenico sacro: che quivi ancora, e non altrove, nel XIV secolo se ne tentò il risorgimento seguendo la forma degli antichi coll’Ezzelino e coll’Achilleide tragedie del Mussato, e colle commedie della Filologia del Petrarca e del Paolo del Vergerio: che nel XV, il secolo dell’erudizione, continuarono a scriversi tragedie dal Corraro, dal Laudivio, dal Sulpizio, dal Verardo, e commedie dal Bruni, dall’Alberti, dal Pisani e dal Polentone, ed in volgare assicurarono alle italiche contrade il vanto di non essere state da veruno prevenute nel dettar drammi volgari, la Catinia, l’Orfeo, il Gaudio di amore, l’Amicizia, molte traduzioni di Plauto, il Giuseppe, {p. 198}la Panfila, il Timone: finalmente che gl’Italiani nel XIV e XV secolo nel rinnovarsi il piacere della tragedia non si valsero degli argomenti tragici della Grecia, eccetto che nella Progne, ma trassero dalle moderne storie i più terribili fatti nazionali, e dipinsero la morte del Piccinino, le avventure del signor di Verona, la tirannide di Ezzelino, la ferita del re Alfonso, la presa di Granata, l’espugnazione di Cesena.

Che se l’esser primo nelle arti reca qualche gloria, e questa non può negarsi all’Italia per la serie de’ fatti narrati e finora non contraddetti da pruove istoriche, sarà il ridirlo delitto per lo storico, oltraggio pel rimanente dell’Europa? Dovea egli perciò meritare di esser lo scopo delle villanie del superficialissimo pedante Vicente Garcia de la Huerta seminate col carro in un Prologo da premettersi ad una immaginaria collezione di componimenti spagnuoli, che non aveva ancor fatta, e che non poteva mai far bene per {p. 199}mancanza di gusto, di materiali e di principii? Ci si presenterà nel proseguimento della nostra storia la gloria drammatica delle altre nazioni in qualche periodo talmente luminosa, che la stessa Italia ne rimarrà quasi offuscata, ed allora nel riferirla ci faremo un pregio non solo di tributare al merito straniero le dovute lodi, ma d’impiegar la nostra diligenza in rintracciar quel bello che sembra sovente esser fuggito agli stessi panegiristi e declamatori nazionali. In attendendo non attribuisca a’ pregiudizii italiani ciò che qui si è narrato, nè se ne offenda qualche appassionato straniero. Il vero mal si nasconde, ed il saggio non se ne offende. L’affettar dovizia nella nudità, l’affastellar sofisticherìe ed ironie impertinenti, l’inorpellar o non confessar la storia, il dissimular la forza dell’altrui ragionamento, l’andar accumulando contro l’Italia quanto di maligno altra volta ne ha seminato l’invidia, ed il sopprimer poi quanto se ne disse in vantaggio, l’esaltare i nomi de Lampillas, Huerta, Sherlock, {p. 200}Archenheltz, Kotzbue pel solo merito di aver maltrattato l’Italia; tutto ciò, dico, che costituisce la tremenda batteria degli apologisti antitaliani, piacerà a pochi entusiasti, i quali per un mal inteso patriotismo si lusingano di potersi accreditare per amici zelanti del proprio paese mostrandosi nemici del vero. Ma di grazia che cosa guadagnano i declamatori di mestiere nell’applauso fugace di un branco di compatriotti che vivono di relazioni, quando della di loro sottile eloquenza, della dialettica cavillosa, della maldigerita erudizione e della maschera filosofica, avveggonsi tosto gli nomini migliori della culta Europa?

Fine del Tomo IV.

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AL LETTOR CORTESE

L’EDITORE. §

Terminando in questo volume la storia teatrale del XV secolo, non ha stimato l’autore, per renderlo proporzionato ai precedenti, accrescerlo di due o tre altri fogli soli co’ primi tratti della storia del XVI destinata al V volume. Per compiere però il IV che or vi presenta, m’ingiunge di unirvi in fine un Discorso che egli recitò a più centinaja di ascoltatori in Milano nel Liceo di Brera per prolusione alla Cattedra di Poesia Rappresentativa che vi occupò alcuni anni; il qual Discorso impresso per cura dell’autore nel dì che fu pronunziato, fu dopo tre giorni per ordine del Governo fatto reimprimere a’ 4 di Pratile nell’anno IX.

Spera con ciò e di rendere questo volume a un di presso di giusta mole, {p. 202}e di soddisfare ad un tempo alle gentili richieste di alcuni compatriotti e di qualche imparziale straniero. State sano.

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PROLUSIONE ALLE LEZIONI DI POESIA RAPPRESENTATIVA DEL PROFESSORE PIETRO NAPOLI-SIGNORELLI. §

La Gloria di colui che tutto muove, che riempie lo spazio immenso di Soli infiniti, intorno a’ quali altrettanti sistemi d’astri erranti con eterne invariabili leggi percorrono le loro orbite; è quella stessa che in sì picciol globo, com’è la nostra Terra, spiegò la sua potenza e si diffuse tanto nell’interna struttura organizzandone gli elementi, le fibre e gli strati, e rinserrando nell’ampio suo seno arcane sorgenti di fonti, di fiumi, di gemme, {p. 204}di metalli, di sali, di solfi, di piriti, quanto nell’aspetto esteriore di un maestoso disordine di rottami, i quali, agli occhi del profano, sembrano ruine, e pur sono armonici risultati di artificio creatore.

Questa Prima Cagione del tutto che abbellì la superficie del nostro pianeta col vago variamente colorito ammanto di tutto il regno vegetabile, la popolò d’innumerabili esseri animati, quali d’ingenti forze dotati come i leoni, quali in mille guise proficui come tanti armenti, pesci e volatili, quali di vaghe e care spoglie abbigliati, come le martore, gli armellini, le zebre e le americane tigri, quali per dolci concenti commendabili come usignuoli, canarii, uccelli-mosche e colibrì, quali notabili per sagace istinto come le api, i destrieri, i cani, le scimie, gli elefanti, ed i castori operai insieme ed architetti de’ loro borghi.

In tanta varietà del regno animale scorgesi l’Uomo, essere spoglio d’ogni natural difesa, sprovveduto di scaglie, {p. 205}di squame, di cuojo, d’irsuta pelle e di crostaceo tegumento, non armato di branche, di artigli, di zanne, di becco, di corna, di proboscide, nudo di più me da librarsi in alto e scansar gli urti e le offese.

Fermando gli squardi su quest’essere debole e meschino, gettato nello stato primitivo anteriore alle società famigliari, non che alle civili, ravviseremo in esso le pietre di Deucalione e d’Anfione, le piante animate e le fiere ammansite dalla lira d’Orfeo, gli armati surti da’ solchi di Cadmo, e le dure roveri di Virgilio: e lo vedremo in seguito progenitore di spietati ladroni, di Procrusti, di Licaoni, di Litiersi, di Cacchi, di Gerioni, di Antifati cannibali, d’immani Polifemi e di Patagoni cresciuti innanzi senno nelle proprie immondezze.

Provvida nonpertanto la Natura lo fornì di tali secreti efficaci espedienti, che nella propria essenza e nelle circostanze della sua esistenza egli rinvenne i mezzi d’escire dallo stato ferino e {p. 206}selvaggio e di respingere e tener lontano ogni assalitore. Quindi lo veggiamo forte e potente per affrontare, distruggere o soggiogar gli animali e sagace per conservare e proteggere le famiglie e per raccorle in villaggi elementi di città d’imperi e di nazioni grandi. Lo veggiamo agiato non solo e fornito di quanto bisogna alla sua sussistenza, ma disdegnoso de’ primi cibi non compri, dell’erbe su cui giaceasi ne’ tugurj, delle lanose pelli onde copriva la sua nudità, passare alle delizie più ricercate della gola, alle soffici oziose piume, alla delicatezza delle sete, de’ veli, de’ bissi, alla pompa degli aironi, degli ori, delle perle, dei diamanti di Golconda, in somma al fasto Persiano e Mogollo, e alla mollezza Sibaritica e Tarentina. Ma veggiamo ancora che egli, deposta ogni ferocia, ogni baldanza, ogni vanità ed effemminatezza, perviene alla rettitudine degli Aristidi e de’ Fabrici, alla probità de’ Socrati, de’ Senocrati, e de’ Catoni, alla meditazione de’ Platoni, {p. 207}degli Anassagori, degli Archimedi. E fatto di mano in mano ognora di se maggiore veggiamo ch’egli osa non solo di elevarsi fisicamente entro esile e leggier globo areostatico per le vie de’ venti co’ Mongolfieri e co’ Lunardi, ma che travalica calcolando oltre la terrestre atmosfera, spazia per l’immensità dell’universo, spia e rinviene co’ Galilei, con gli Ugenj, co’ Ticoni, con gli Erschel nuovi pianeti, ravvisa e distingue altre stelle un tempo confuse e impercettibili nel chiarore della detta Via Lattea, rivela de’ corpi celesti i volumi, le densità, le velocità, le distanze, le leggi, misura e previene il ritorno se l’immense ellissi delle comete; in una parola osserva e legge ne’ cieli co’ Cassini, co’ Manfredi, coi La-Lande, coi Toaldi e con gli Oriani, e si solleva quasi al di sopra della sua natura coi. Newton, coi Leibnitz, coi Kepleri, con gli Euleri, coi La-Grange, coi Mascheroni, e coi Fontana. L’uomo adunque già sì debole, sì goffo, sì misero, seppe trovare nelle {p. 208}proprie forze fisiche e intellettuali quanto fecegli mestiere a penetrar nell’arcano magistero del Mondo naturale ed a crearsi egli stesso tutto il Mondo civile.

E di quali mezzi l’Uomo si valse per imprese così grandi? e quali ordigni lo spinsero tant’oltre? 1 Fisica costituzione agile e flessibile, 2 Mente curiosa calcolatrice, 3 Bisogni che lo stringeano; più nettamente, Corpo attivo, Ragione investigatrice, Bisogni eccitativi.

Ora sfolgorando la specie umana di tanta e sì luminosa coltura, sembrava che l’Uomo, dopo di avere per gl’indicati mezzi trovate tante arti di necessità, di comodo e di lusso, dovesse riposar tranquillamente sulle raccolte palme. Ma lo spirito indagatore irrequieto che lo predomina, scorrendo rapido e curioso per tanti oggetti sensibili che lo circondano, fa germogliare in lui con incredibile fecondità nuovi desiderj, gli presenta nuovi bisogni da soddisfare, e gliene addita le guise.

{p. 209}La necessità gli avea insegnato a costruirsi delle case, e la ragione speculatrice, e che era giunta a formarsi giuste idee del bello e del gusto, gl’inspirò la brama di nobilitarle coll’eleganza e colla simmetria, ed il bisogno divenne lusso; e nacque da ciò la bell’arte esercitata dagli Agatarchi e da’ Numisii, insegnata da’ Vitruvii, da’ Trissini, da’ Palladii e vie più perfezionata da’ Buonarroti.

Il piacere che deriva dalla presenza delle persone care, rendè sensibile ad una fanciulla l’imminente dipartita del suo vago: e per voglia di conservarne i tratti andò contornando sulla parete il profilo del di lui volto che vi si distingueva in forza dell’opposta luce; e l’uomo approfittandosi del caso giunse ad inventare l’altra bell’arte di dare alla superficie piana l’apparente rilievo di corpo, per la quale corse all’immortalità Apelle, Timante, Parrasio e Zeusi, e Raffaele d’Urbino, Correggio, Tiziano, ed Annibale Caracci. Voleasi senza l’illusione seducente d’ {p. 210}ombre e di lumi ritrarre l’effigie de’ corpi ed imitar la natura con materie solide onde renderne al tatto sensibili le parti; e con ferri acconci all’uopo diessi l’uomo a scheggiar maestrevolmente legni, marmi e metalli, onde surse l’altra bell’arte per cui oggi pur vivono e vivranno i Fidii, i Mironi, i Lisippi, emulati più tardi con tanta gloria dal Fansaga, dal Corradini e dal Canova.

L’uomo avea bisogno di comunicar co’ suoi simili i proprj concetti per mezzo delle lingue, e senza presidio alcuno di tinte e di altre materie reali, e corse col pensiero a un artificio più ingegnoso, e inventò la grande arte di svolger la serie delle proprie idee colle sole parole ma in sì fatta guisa e con tale aggiustatezza ed eleganza connesse, che giugnesse a dominar su gli animi ed a commuoverne o racchettarne gli affetti; ed è questa l’arte imperiosa, onde tuonava Demostene nella Grecia, Tullio nel Lazio, e Parini nella Cisalpina. Avea l’uomo pastore intento {p. 211}alla custodia del suo gregge il bisogno di occuparsi tutto solo e talora di conversar co’ suoi simili per ozio e per diletto; ed egli s’industriò d’incatenar le parole con certa misura e certa legge, e ne nacquero i versi. I quali nel pronunciarsi con certa cantilena e con espressivo atteggiamento diedero la vita anche alla pronunziazione, che è la prima musica della natura, e poi alla musica stessa artificiale; da che l’uomo solingo posto in mezzo alla silenziosa amenità della campagna sentesi sensibilmente invitato e rapito a mandar fuori di se i versi e a modular la propria voce per incantar dolcemente i sensi di chi l’ascolta; prendendone l’esempio dal concorde suono del grato mormorar de’ ruscelli, del susurrar dell’aure leggiere, del frascheggiar de’ teneri frondosi virgulti, e del lieve aleggiare e del gorgheggiar soave de’ canori augelletti.

Ma que’ versi profferiti o cantati altro alla fin fine non sono se non suono vano di parole incatenate e {p. 212}misurate, che sin dall’infanzia delle società si coltivarono anche da’ materiali Lapponi, da’ Negri, Indiani, Messicani, Irochesi, Caraibi ed Uroni. L’uomo però inoltrato nella coltura tendente sempre mai irresistibilmente alla perfezione de’ proprj ritrovati, mal poteva limitarsi a quella semplice studiata filza di parole esprimenti rozze idee pastorizie, comunali, famigliari. La Grecia che dal picciolo recinto del suo angusto territorio seppe dettar leggi d’umanità, di coltura e di dottrina a’ popoli più remoti, trafficando e rendendo altrui con usura i semi delle arti e delle scienze ricevute da Egizj, Caldei e Fenici, e da essa accresciute di numero, di estensione e d’intensità; la Grecia, dico, bisognosa di una bell’arte più confacente al dilicato e fine suo gusto, poteva arrestarsi all’invenzione de’ nudi versi? Essa v’infuse un’anima, un’energia, un calore, un fuoco sovrumano, che rapisce, che scuote, che agita, che aggira, che violenta, che strappa dall’intimo de’ cuori un {p. 213}profluvio di elettriche scintille per indi versarvi con utile e diletto la virtù e la sapienza. Essa inventò l’alma Poesia, la più sublime, la più prodigiosa, la più incantatrice delle belle arti che dal gran Padre Omero e da Esiodo si trasmise ai Pindari, agli Alcei, ai Stesicori, ai Callimachi, agli Anacreonti, e che passò nel Lazio ai Maroni, agli Orazii, agli Ovidii, ai Catulli, e quindi nella moderna Italia ai Danti, ai Petrarchi, agli Ariosti, ai Torquati ed ai Monti.

Quest’arte celeste questo sforzo portentoso dell’umano ingegno, impaziente d’ogni confine porta la contemplazione per tutta la natura, e facendo tesoro degli oggetti verì gli ordina nella fantasia, gli colora, gli adorna, gl’illeggiadrisce, e trasportando con viva imitazione l’evidenza del vero nella bellezza del finto, ne congegna l’armoniosa catena di vive immagini che mulcendo l’udito penetra negli arcani avvolgimenti del cuore umano, ed ammaestra dilettando. Con questo divino {p. 214}lavoro i primi savii Lino, Museo, Orfeo trassero gli uomini dagli spechi solinghi alle città, gli additarono un Ente supremo autore del tutto, gli appresero a venerarlo, ad amarlo e temerlo, ed ammantarono l’antica teologia con poetiche spoglie. E dell’esempio approfittandosi i legislatori, i Carondi, i Zaleuci, colle medesime spoglie dettarono le loro leggi. Con tale abbigliamento le memorie degli eroi e le grandi imprese si conservarono nelle loro colonne dagli Egiziani, e fra Germani, Celti, Goti, e Peruviani; nè ricusarono queste care spoglie i filosofi, gli Empedocli, i Teognidi, gli Arati, i Lucrezii nell’insegnar le fisiche, l’astronomia, e la filosofia de’ costumi. E così le antiche nazioni da prima altro savio non ebbero che il solo Poeta, il quale era nel tempo stesso teologo, istorico, legislatore, fisico, astronomo, e filosofo morale.

Chi avrebbe mai a que’ tempi potuto immaginare che l’uomo non contento delle omeriche ricchezze {p. 215}inventerebbe in seguito qualche genere poetico più utile e più dilettevole alle società? Chi detto avrebbe che le favole e le grandiose immagini del gran Cieco di Smirne fecondando la greca immaginazione, darebbero nascimento ad una poesia più universale, più artificiosa e più coltivata dovunque fiorisce la coltura? E pure ciò appunto avvenne. Le poesie nomiche indirizzate ad Apollo, gl’inni ditirambici fatti per Bacco, le persone che sì sovente Omero introduce a favellare in sua vece, e la curiosità sempre attiva ed investigatrice dell’umana mente; tutte queste cose, dico, cospirarono col greco talento favoleggiator fecondo, espressivo, energico, ed al festevole motteggiar proclive, e da esse la grand’arte pullulò, con cui l’uomo prese a dipigner se stesso facendo i suoi simili alternativamente confabulare.

È questa l’arte drammatica, i cui semi primitivi rinvengonsi in ogni clima barbaro o colto, quell’arte che mette in azione la morale, e che, {p. 216}come lo scandaglio e la stella polare a’ naviganti, è la fida scorta e la retta norma che ci scorge ad iscoprire il grado di coltura ove giunte sieno le nazioni. Imperocchè trovansi, egli è vero, dal Volga al Nilo, e dal giallo fiume Cinese all’Orenoco, i semi di sì bell’arte, cioè imitazione, versi, musica, saltazione, travestimenti, e spettacolo: non mancano (è vero ancora) i Tespi, i Cherili, i Pratini, i Carcini, non che nella Grecia e nell’Etruria e nell’antica Sicilia, ne’ Giavani, ne’ Cinesi, ne’ Giapponesi, ne’ Tunchinesi, ne’ Messicani e ne’ Tlascalteti. Ma non si trovano se non tra’ Greci, Eschili che danno forma, metodo, energia e magniloquenzia alla Tragedia; Sofocli che col proprio nome caratterizzano la gravità e sublimità del coturno; Euripidi che s’internano ne’ cuori, e vi scoprono le ascose molle de’ gran delitti, e vi studiano le sorgenti della compassione e del terrore per purgarlo delle passioni eccessive ed infondervi la virtù e la giustizia. {p. 217}Trovansi sì bene ne’ barbari climi fra g l’Indiani, fra gli Arabi, fra gli Otaiti, in Ulietea, in Ciapa, nel Messico, i buffoni imbrattati di feccia il volto e in varie guise stranamente mascherati, per eccitar certo goffo grossolano riso ne’ volgari. Ma nella Grecia soltanto brillano luminosamente gli Aristofani che con allegoriche imitazioni presentando i più frivoli oggetti, le rane, le vespe, gli uccelli, le nuvole, saettano con acuti motteggi la bruttezza de’ prepotenti e cacciangli in fuga, versando nelle loro favole un tesoro di sana politica, di pura morale e di dilicata poesia. Colà la natura e l’arte produssero gli Alessidi che, abbandonate le dipinture degl’individui, seppero pungere costumi, e vizj generali e far la guerra agli abusi de’ ceti interi, e delle scuole Pitagoriche. Colà solo spiccano gli Apollodori, i Difili, i Filemoni, e Menandro la delizia de’ filosofi, ed il modello inarrivabile de’ Cecilii e de’ Terenzii.

{p. 218}E quì chieder potrebbesi in prima, onde avvenga che la poesia drammatica si trovi diffusa e accettata quasi dapertutto; e poi, perchè mai tanto più essa inoltrisi verso la perfezione, quanto più cresce nelle nazioni la coltura? L’una e l’altra cosa, s’io dritto estimo, è ben chiara. Essa si conosce e si spande per tutto, perchè deriva immediatamente dalla natura del l’uomo, il quale avvezzo ad osservare quei della sua specie, attissimo ad imitarli, e disposto a riprendere in altri le ridicolezze e gli eccessi, da’ quali si chi de lontano, gode della somiglianza de’ ritratti che se ne forma, e si compiace di farsene un giuoco. Fiorisce poi la poesia drammatica e si perfeziona nelle nazioni più colte e fiorenti, perchè per giugnere all’eccellenza bisogna che il poeta intenda perfettamente i diritti e i doveri dell’uomo e del cittadino, che sappia studiarne i costumi e vederne e rilevarne le sconcezze, e che possegga l’arte di ritrarle al naturale per ottenerne la correzione, {p. 219}presentando agl’infermi, come cantò Lucrezio e Tasso, un nappo d’amara ma salutar pozione, asperso negli orli di dolci soavi licori, onde ingannati bevano e ricevano vita e salute. Ora tutto ciò non potendo conseguirsi senza la chiaroveggente filosofia, è manifesto che la prestanza della poesia teatrale non può sperarsi prima che la nazione non si trovi incamminata alla coltura, da che alla luce della filosofia possono inseguirsi alla pesta i tanto complicati vizj dell’uomo colto e del lusso, i quali sì ben nascondonsi sotto ingannevoli apparenze, ed apprestano al poeta drammatico copiosa materia multiforme e delicata che sfugge al tatto che non è troppo fino.

Non debbe dunque recarci stupore che la Grecia sì dotta maestra, ed apportatrice di luce, tanta cura riponesse a far fiorire il suo teatro: che i filosofi più celebri si occupassero, o, come Epicarmo, a comporre favole sceniche, o, come Aristotile, a dettarne i precetti: che i grandi allievi de’ {p. 220}Pitagori, come Eschillo, degli Anassagori, come Euripide, de’ Teofrasti, come Menandro, vi contendessero per lo corone drammatiche: che Socrate volesse in pubblico mostrarsi l’amico e l’ammiratore del gran tragico di Salamina: che la Grecia intera si pregiasse d’intervenire solennemente ne’ Certami Olimpici, d’intendere i suoi poeti drammatici, e decidere del loro merito. Comprese quella nazione pensatrice e di gusto sì fine, che la Scenica Poesia portata all’eccellenza è la scuola de’ costumi; che niun genere meglio e più rapidamente si comunica agli stranieri e meglio contribuisca alla gloria nazionale; che i poeti epici e lirici trattengono i pochi e i dotti, ma che i drammatici son fatti per tutti; che il legislatore può adoperarli per le proprie vedute; che la sapienza morale non disviluppa con successo felice i suoi precetti, se non quando è messa in azione sulla scena. In fatti essa gl’insinua per l’udito, la drammatica gli presenta alla vista: essa ammonisce {p. 221}gravità, questa giocondamente nasconde il precettore e manifesta l’uomo che favella all’uomo in aria affabile e popolare: la morale tende a convincere l’intendimento, la drammatica illustra l’intendimento stesso cominciando dal commuovere il cuore: ha quella per angusto campo una scuola, questa un ampio teatro, dove assiste tutta la nazione, dove s’insegna in pubblico e sotto gli occhi del Governo, s’insegna nell’atto stesso che si offre allo spettatore un piacevole ristoro dopo i diurni domestici lavori. La ragione umana che inventò e perfezionò in Grecia un’arte sì bella, sì utile e sì necessaria alla gloria e all’educazione de’ popoli, quanto vide profondamente nella natura dell’uomo!

Cisalpini fortunati e degni di esser tali, voi siete nelle più favorevoli circostanze. Liberi al pari de’ Greci, di essi al pari agognar potrete a far che abbarbichino nel vostro ferace suolo e mettano salde e profonde radici le belle arti che alla foggia delle Grazie {p. 222}tengonsi per mano e si sostengono a vicenda. L’eloquenza e la poesia, singolarmente drammatica, possono, è ben vero, secondochè la storia dimostra, allignare in ogni governo, purchè non sia corrotto; ma esse, come nel proprio elemento vivono, verdeggiano, fioriscono e fruttificano più che altrove nelle Repubbliche. Il vostro Governo composto de’ vostri migliori Concittadini volge tutte le sue mire a rendervi felici e tranquilli e scienziati e grandi artisti; secondatelo. Esso v’incoraggia e vi appresta i mezzi più opportuni perchè tocchiate l’apice della coltura d’ogni maniera. Occupato seriamente della pubblica istruzione, e ben persuaso dell’utilità, importanza ed eccellenza della Poesia Rappresentativa, ve ne apre quì una cattedra particolare che manca altrove. Voi avete altresì un Teatro Patriotico protetto e secondato dal medesimo saggio Governo, pregio anche peculiare della vostra città, che pur si desidera nel resto dell’Italia. In esso la più colta gioventù Cisalpina d’ {p. 223}entrambi i sessi concorre con alacrità di cuore ed aspira al bel vanto di pareggiar gli antichi Eschini e Satiri, gli Esopi e i Roscii, e di emulare i moderni Baron, Le Kain, e le Couvreur e le Clairon. Nobil disegno, gara generosa! Ma per riescirvi parvi che bastar possa il confinarsi al mestiero subalterno di ripetere incessantemente e tradurre i componimenti oltramontani? che basti il rappresentar per tradizione incerta, alterata e malfida senza studiar con giusti principi la bella e la vera declamazione? Il Teatro così coltivato mancherà sempre di spontaneità e di energia originale. È il poeta, è l’autore che col suo fuoco ispira l’anima nella sua favola; è quest’anima questo fuoco che dee passare agli attori e rendergli grandi ed originali; è Moliere che forma i Baron; è Voltaire che produce le Clairon. In Grecia tutti gli autori erano gli attori delle proprie favole. Cleone perseguitato negli Equiti fu contraffatto e rappresentato dal medesimo Aristofane; se non {p. 224}rappresentò Sofocle, ne fu cagione il difetto della sua voce. In Italia ne’ precedenti secoli fiorirono più Accademie, come quelle de’ Rozzi e degl’Intronati, consacrate singolarmente a comporre e rappresentar componimenti drammatici; e l’Omero Ferrarese solea recitare nella Corte Estense i prologhi delle sue commedie e diriggerne le rappresentazioni; nè vo’ parlar del Ruzzante, del Lombardi, del Riccoboni e d’Isabella Andreini, tutti scrittori ed attori di mestiere. Sul Tamigi attori erano ed autori Shakespear, Otwai, e Garrick, i quali vivono ancora tuttochè coperti dalla terra. In Francia, dove tanto si studia e fiorisce la declamazione, gli attori per la maggior parte sono autori essi stessi, come già furono Moliere, la Place, Dancourt, Baron, e come oggi sono Piccard, Duval, la Molè e tanti altri.

Adunque uniamo le nostre forze, sosteniamoci scambievolmente, e cerchiamo di far nascere nel Parnasso Cisalpino autori tragici e comici di prima {p. 225}fila ed attori esimii pieni di brio, di grazia, d’anima e d’intelligenza. Io colla mia debolezza mediterò, ridurrò a metodo le osservazioni della poesia teatrale e della pronunciazione; Voi mi animerete col l’assiduità ed attenzione, ed eseguirete a suo tempo componendo e rappresentando con mira di sorpassare le mie speranze ed i miei voti, e di erudirvi ne’ greci esemplari, per corrispondere coll’evento felice alle paterne provvide cure de’ grandi Cittadini che vi governano. Voi studierete eziandio il florido Teatro Francese: esso è ricco de’ capi d’opera di Corneille, Racine e Voltaire, di Moliere e di Regnard (benchè oggi sien seguiti ben da lontano e senza probabilità d’esser raggiunti); esso è vicino alla perfezione nella declamazione specialmente comica in forza delle doti inarrivabili della celebre Contat e del valoroso Molè. Vi serva di cote per aguzzare il vostro fervido ingegno, e per isciorne a nobil volo i vanni con favole originali, frangendo i lacci {p. 226}servili delle smunte, spa ute, fredde e macre traduzioni. Non siete Italiani? Ignorate che l’Italia in più felici giorni ammaestrò gli oltramontani nelle scienze e nelle belle arti? Ignorate che ne’ tempi bassi, quando essi gemevano solto il ferreo giogo del più umiliante dispotismo, essa diede loro fin anche il grand’ esempio di vendicarsi in libertà? Non avranno seguaci fra Cisalpini i Maffei, i Martelli, i Manfredi, i Varani e gli Alfieri, nè gli Ariosti, i Machiavelli, i Bentivogli e i Goldoni? Vi contenterete del solo preclaro autore dell’Aristodemo e del Cajo Gracco? Svegliatevi, accendetevi di nobile invidia, ed obbligate all’ammirazione i vostri concittadini, gli esteri e la posterità.

[n.p.]

[Errata] §


ERRORI CORREZIONI
Pag. 5 lin. 15 togatatr abeata togata trabrata beata
9 lin. pen. farfe farse
11 lin pen. regolati regolari
13 8 vaga voga
72 1 id di
ivi 15 accecate accecare
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160 20 Betica Baetica
177 17 le dico gli dico
185 3 componimento compimento
198 9 Verosa Verona