Pietro Napoli Signorelli

1798

Addizioni alla Storia critica de’ teatri antichi et moderni

2017
Pietro Napoli Signorelli, Addizioni alla Storia critica de’ teatri antichi e moderni di Pietro Napoli Signorelli, segretario perpetuo della R. A. delle Scienze e Belle Lettere di Napoli, Napoli, Presso Michele Migliaccio, 1798, [6]-344-[6] p. PDF: Internet Archive
Ont participé à cette édition électronique : Eric Thiébaud (Stylage sémantique), Anne-Laure Huet (édition TEI) et Wordpro (Numérisation et encodage TEI).
{p. II}

ECCELLENTISSIMO SIGNORE §

Una mammola un moncherino presentato con garbo e semplicità da un fanciulletto si accoglie di buon grado e con lieto viso da un Signore magnanimo e gentile più che dalla mano di un facoltoso un tributo di perle di Comorino, di diamanti di Golconda, di metalli del Potosi. Vuolsi che un villanello, non potendo altramente dar segno di sua divozione al gran Serse, fatta coppa delle proprie mani, gli porse dell’acqua pura, ed il Re Persiano l’accolse con quella umanità che accompagna sempre la vera grandezza. I Nobili veraci si appagano più della candidezza e del buon animo del donatore, che del valor del dono. Seguendo io l’esempio di quel fanciulletto e di quel villanello, proffersi all’E. V., in un picciol volume di Addizioni alla mia Storia de’ Teatri, acqua pura e {p. III}pochi efimeri del campo; e Voi, Signore, non isdegnaste l’umile e tenue omaggio. Di fatti che cosa è mai questo mio povero presente agli occhi dell’Autor preclaro del poema de i Doveri dell’Uomo, delle auree traduzioni de’ Greci Bucolici e di Anacreonte, e delle Pescagioni? Che è ciò innanzi all’Annalista della Sicilia? al Critico insigne trionfatore del Papebrochio? all’Antiquario di prima fila qual si manifesta in varj argomenti, e singolarmente nel favellar del Teatro Siracusano, in cui toccògli la sorte di ravvisare prima di ogni altro la greca iscrizione marmorea della Regina Filistide? al gran Letterato universalmente applaudito, non che da’ viaggiatori stranieri più illuminati Winkelman, Reithesel, Swinbourg, dal chiar. P. Pagnini, dall’Allegranza, dal Zaccaria, dal Principe di Biscari, dal Sinesio, dal gran Torremuzza e da altri celebri Italiani? Appena può aversi in conto di un villesco cestello di frondi che spargonsi al passaggio di un Principe. E che diverrà poi, se si consideri che questo Personaggio illustre congiugne all’amor sommo di ogni profonda dottrina, {p. IV}alla celebritá delle sue opere, la nobiltà più distinta ne’ fasti della Sicilia? Nobilità che (quando ancora risalir non si voglia, come si potrebbe, all’epoca di Lotario Imperadore) risulse in Pisa, si distinse in Roma, ed a niuna cede di generosità in Napoli, e che meritò dovunque i più onorifici sublimi gradi militari, politici ed ecclesiastici, come, oltre del Pirro, dell’Inveges, dell’Aprile, compruovano l’illustre Marchese Emmanuele di Villabianca, e l’ornatissimo Canonico e Parroco Logoteta? Allora, non che vile il dono, parrà temerario il donatore, che osa trattenere un tanto Uomo con somiglianti minutezze. Ma s’io sono reo, mi raccolgo e riparo all’ombra della vostra grandezza stessa che ammetteste benignamente l’offerta; ed un ardir felice passa e si tollera più agevolmente in grazia del buon successo. Mi discolpi eziandio l’unico intento che mi mosse, di appalesar per le stampe quanto io mi pregi della preziosa padronanza onde mi onorate da più anni, e quanto io ammiri le rare doti dell’animo vostro, la vostra dottrina e l’erudizione somma prima {p. V}ancora che venga alla luce la Coltura delle Sicilie nel Regno di Ferdinando iv da me delineato appena in tre volumi vicini ad imprimersi, nella quale, o Signore, come Poeta, come Filologo, come Erudito di ogni maniera figurate vantaggiosamente ed ornate il mio patriotico racconto dell’Epoca Fernandiana. Accogliete intanto il munuscolo che degnaste accettare, e serbate all’autore il vanto ed il bene di appellarsi costantemente

 

Di V. E.

Eccellen. Sig. D. Cesare Gaetani Conte della Torre de’ Marchesi di Sortino

(Siracusa)

 

 

Divotissimo Obbligatissimo Servo
Pietro Napoli-Signorelli.
{p. VI}

L’EDITORE A CHI LEGGE §

Dopo che il noto autore della Storia Critica de Teatri antichi e moderni l’ebbe pubblicata in Napoli in sei volumi dal 1787 al 1790, malgrado delle sue gravi cure e fatighe non mai perdè di mira il suo argomento, ed andò raccogliendo non solo ciò che potesse vie più illustrare la storia e l’erudizione teatrale antica e moderna già descritta, ma quanto rimaneva a narrarsi comparso posteriormente sulle scene Europee o per le stampe nel corso degli ultimi sette anni. Il conte Alessandro Pepoli che n’ebbe contezza, chiese da Venezia all’autore suo amico questi ultimi notamenti per inserirli nella nomata Storia de’ Teatri in una nuova edizione; e l’autor cortese gli rimise quelli de’ primi due tomi della patria edizione. Il Pepoli fece imprimere una parte di essi ne’ due suoi tometti che abbracciano il tomo primo e parte del secondo dell’edizione dell’autore, e pur mancanti dell’erudite Note del fu Carlo Vespasiano. Ma tanti anni indugiò poi a proseguirla in Venezia, che prevenuto dalla morte nel 1796 la lasciò imperfetta, e l’autore cessò di rimettere colà il rimanente. Nacque da ciò il mio pensiere di pubblicare in Napoli con tali notamenti un volume settimo in continuazione de’ sei dell’edizione napolitana, e l’autore si compiacque, annuendo al mio disegno, {p. VII}accordarmi il manoscritto domandato di tutte le addizioni che oggi chiudonsi in questo volume. Egli le ha divise in due Parti. La I comprende la Lettera indirizzata al veneto editore, le Aggiunte già rimesse al Pepoli pe’ due primi tomi, le altre posteriormente unitevi, e quelle per gli altri tre tomi sino al quinto inclusivamente. Contiene la Parte II le Addizioni copiose fatte pel sesto volume e quanto serve a condurre la storia sino alla fine del 1797. Ed ecco ciò che per le mie stampe produco alla luce, implorando dalla garbatezza di chi ama le fatighe felici del sig. Napoli-Signorelli, di sapermi buon grado di simile cura, per cui chi possiede la Storia de’ Teatri impressa in Napoli, se ne assicura il compimento senza bisogno di comprare anche quella di Venezia, quando pur quivi si pensasse a conchiuderla approfittandosi di queste Addizioni.

{p. 1}

LETTERA DELL’AUTORE ALL’EDITOR VENETO §

Alfine voi imprendete a riprodurre costà la mia storia teatrale antica e moderna? La gentil maniera meco tenuta in richiedermene l’assenso, mi astringe a concorrere alla riuscita della vostra intrapresa. Le storie ragionate che per mano della filosofia si conducono per le varie specie poetiche e singolarmente teatrali, non son dettate per appagar soltanto una sterile curiosità: ma racchiudono in se mai sempre una Poetica a ciascuna di esse corrispondente, ed una Scelta de’ più cospicui esempj sì delle cadute che dei progessi che vi si fecero in diverse epoche. E siccome questi esempj di errori e di bellezze vanno alla giornata moltiplicandosi, fa uopo tratto tratto (per fortificar co’ veri principj dell’arte e col gusto più fine e più sicuro gli animi giovanili facili ad essere illusi e sedotti da cattivi modelli) tenerli instruiti de’ continui passi che con felicità o troviamento si danno nelle rispettive {p. 2}carriere. Io condussi la Storia de’ Teatri sino a’ tempi prossimi al punto dell’edizione napoletana in sei volumi cominciata nel 1787, e compiuta nel terminar del 1789. Gli altri anni indi trascorsi ci apprestano nuovi materiali, e le posteriori mie osservazioni su ciò che narrai intorno all’epoche precedenti, mi suggeriscono nuovi, e, se io dritto estimo, non inutili miglioramenti, che vi rimetterò come vi accingerete a pubblicarne di mano in mano i sei volumi che lo compongono, trattando in guisa il vostro affare, che meglio far non mi saprei, se fosse unicamente mio.

Egli è vero che a certi uomini grandi del secolo cadente, di se stessi pieni così che ne riboccano per ogni verso, questa, com’ essi dicono, trita materia teatrale parrà frivola e puerile occupazione da non meritar tante cure, anzi da mirarsi con una specie di compassione da chi si crede nato a recondite elevate imprese nelle scienze e nelle lettere. Ma che si vuol fare? Non tutti esser ponno sì alti da toccar col capo le sublimi volte del tempio dell’immortalità; ed havvi chi si contenta appena di contemplarne le vicinanze, non che di appressarsi alla soglia. Di grazia può qualunque siesi {p. 3}fregiarsi dell’augusto alloro de’ principi della letteratura, i quali per altro ripetendo per lo più sino all’ultima noja i più divulgati rancidumi producono libri bipalmari di superficie e digitali di profondità? Possono pretender tutti a quel sublime seggio ove siede fastoso qualche grecista ardito, il quale per cianciar su di alcun marmo spezzato e supplirlo a suo modo, mostra di vedervi quel che mai non vi si scolpì, ed inalza de’ torracchioni dappresso alle Nefelococcigie Aristofanesche?

Vero è altresì che nelle storie teatrali si suole di quando in quando favellar di comedi antichi e moderni, cioè de’ Satiri, de’ Roscj, de’ Baron, de’ Garrick, degli Scaramucci e de’ Don-Fastidj, bassi oggetti da’ quali difficile e schifiltoso rifugge chiunque presume di tener gran posto contando se stesso tra’ personaggi stragrandi che danno lustro e nome al secolo XVIII. Non di meno v’ha chi sostiene loro in sul viso esser meglio calcar le tracce di Aristotile, di Plutarco, di Tullio, di Quintiliano, e mentovar dove stia bene que’ graziosi sagaci attori, i quali seppero sulle più culte scene ritrarre al vivo i ridicoli del loro tempo, che accreditarsi nelle società come originali di que’ {p. 4}medesimi ridicoli mascherati da uomini di alto affare, come filosofi senza logica, come pedanti pieni di stomachevole orgoglio e voti di ogni valore e dottrina, e come pigmei in somma, la cui pelle distesa a forza di puro vento per via di replicati argomenti si gonfia e gli fa per qualche istante parer gigantoni.

Io però non chiudo in seno un cuore così pavido e pusillanime, che si atterisca de’ maligni aliti che sfumano da simili fungose escrescenze della letteratura. Nè per cicalar che facciansi quelle imbellettate invide maschere del merito, io mi ritrarrò dall’impiegar sulla mia storia teatrale le terze cure. Ben sanno i veri filosofi, i degni letterati del secolo da me con alacrità di animo altrove rammentati tra’ grandi ornamenti de’ nostri dì, la prestanza e l’utilità di un genere di poesia, da cui, se v’ha mezzo efficace per diffondere nel popolo una vantaggiosa pubblica educazione, debbe questa principalmente da buon senno ottenersi; siccome m’ingegnai d’indicar nel breve ragionamento che premisi alla mia storia, dirigendolo a chi ama la poesia rappresentativa. Sanno essi pur troppo di non doversi il buon teatro considerar come semplice passatempo, ma come industre espediente {p. 5}suggerito dalla filosofia per seminar nelle società dilettando, la coltura, la virtù, la morale, e per secondar le provvide vedute de’ legislatori. Sanno altresì che l’adunarsi in un luogo pubblico, qual è un teatro, giova potentemente perchè gli spettatori si osservino reciprocamente e si compongano a certa esteriore pulitezza che i solitarj non mai son per acquistare. Sanno in oltre che la poesia rappresentativa suppone talento grande e studio multiplice, troppa sapienza abbisognando a quel poeta che agogna al bel vanto di pubblico educatore. Sanno in fine che i migliori delle nazioni antiche e moderne in ogni tempo fecersi un pregio e forse un dovere di contribuire co’ loro lumi al miglioramento del teatro, e se ne occuparono con proprio piacere e con altrui vantaggio. In Grecia p. e. niuno ignora omai che gli uomini più illustri o scrissero essi medesimi pel teatro, o ne promossero lo studio, o servirono di scorta a’ drammatici. Platone aspirò alla vittoria Olimpica con una tetralogia: Temistocle attese a far riuscire con ogni splendidezza gli spettacoli scenici: Eschine il competitore di Demostene, Archia capitano, Neottolemo favorito del re Filippo, e Aristodemo ambasciadore {p. 6}in Macedonia, furono essi stessi rappresentatori: il sobrio filosofo Plutarco ha conservate varie memorie teatrali, ed ha profuso i più alti encomj sul gran comico Menandro. Roma stessa vantò un Lelio e uno Scipione Affricano come coadjutori di Terenzio: un Cornelio Silla dittatore, il gran Germanico, Cajo Claudio imperadore, furono scrittori di commedie: un Giulio Cesare, un Cesare Augusto, un Tito Vespasiano coltivarono la tragedia, non che un Mecenate, un Varo, un Ovidio, un Seneca, e uno Stazio: Orazio Flacco si fece ammirare da’ contemporanei e da’ posteri come critico inimitabile di teatral poesia. Nella decadenza del Romano Impero i padri stessi della Chiesa non isdegnarono svolgere gli scritti degli antichi drammatici e d’imitarli: san Giovanni Crisostomo leggeva con compiacenza le commedie di Aristofane, san Girolamo quelle di Plauto: il Sinesio ne compose alcune sulle orme di Cratino e di Filemone: Apollinare imitò ora Euripide ora Menandro. Al risorgimento delle lettere rinascendo il credito della teatral poesia, la coltivarono gli uomini più gravi e decorati. E per mentovarne alcuni pochi, nelle Spagne vi si dedicarono sacerdoti, {p. 7}teologi, magistrati, uomini di stato, Solis, Calderon, Montiano, Cadalso, Gusmano duca di Medina Sidonia: in Danimarca Klopstock: in Inghilterra il duca di Buckingam, il nobile Dryden, Milton l’epico della Gran-Brettagna, Adisson ministro di stato, il cavalier Van-Broug, il capitano Stèele: nella Francia Margherita di Navarra compose per la scena; Francesco I cercò d’inspirarne a’ suoi popoli il gusto sulle tracce dell’Italia; il cardinal Richelieu avrebbe voluto passare per potea teatrale, e ne promosse la coltura, onde germogliarono i Cornelii e i Racini; il celebre cartesiano Fontenelle ne scrisse la storia; Boileau Despréaux ne insegnò i precetti seguendo Orazio; il Ginevrino filosofo Gian Giacomo Rousseau volle dare il nome tra’ pregevoli drammatici. L’Italia conta i cardinali Bibiena, Delfino, Pallavicino, i nobili Bentivoglio, Ariosto, Tasso, Machiavelli, Salviati, Secco, Conti, Maffei, Rota, Costanzo, il Gaetano duca di Sermoneta, Ann bale Marchese, il conte Panzuti, e cento altri magnati, militari di distinzione, vescovi e gran magistrati intenti a promuovere gli avanzamenti della teatral poesia. E qual filosofo o altro scrittor di chiara fama non si pregia {p. 8}di corroborare i suoi concetti colla morale e colla politica sparsa ne’ gran poeti drammatici? Quale illustre accademia di amena letteratura non ha occupati i suoi valorosi individui ad illustrare o l’erudizione o la ragion poetica che concerne il teatro, ad insinuarne il vero gusto, ad arricchir le rispettive nazioni di tragedie, di commedie, e di pastorali? Adunque o bisogna essere stato nutrito nella feccia delle surriferite maschere, o aver sortito dalla natura matrigna la comprensione di un vero Tinitiva dell’Orenoco, per non ravvisare l’istruzione, i politici vantaggi e l’innocente piacere che ci appresta la poesia teatrale, e per tenere in conto di studio triviale quello che spendesi in descrivere l’origine, i progressi, le vicende, il buon gusto di un genere poetico così utile, così difficile, e con ardor sommo e con felice successo trattato da’ filosofi di grido, da nobili di primo ordine, da vescovi, da cardinali, da santi padri, da re, da imperadori. Non è però da maravigliarsene punto. Non v’ha nemico più temuto dagl’impostori letterarj, politici e morali, quanto un buon teatro; per la qual cosa essi adopreranno sempre gli ultimi loro sforzi per avvilirne l’occupazione, temendo {p. 9}di esser su di esso scherniti, suo principal oggetto essendo il separar l’oro dall’alchimia, la maschera dalla realità, i veri utili scrittori da que’ larghi promettitori eterni di opere che non si producono, i quali sono gl’insetti divoratori della messe che dovrebbe alimentar la povertà meritevole, la modesta filosofia, la virtù infelice che dà riputazione fin anco a’ paesi corrotti, la quale mentre riscuote un apparente rispetto, vien lasciata languire nell’indigenza.

Io adunque di bel nuovo mi occuperò della mia storia teatrale, e voi coll’accuratezza promessa stampatela colle aggiunte che vi trasmetto, e con gl’indicati miglioramenti or nell’espressioni or nelle cose, e nulla temete, perchè ad un bisogno non mancherà chi levi la mano per istrappar dal viso degl’impostori le speciose larve onde imbacuccati e camuffati si lusingano di rimanere ignoti. Addio.

{p. 11}

PARTE I §

TOMO I. LIBRO I §

ADDIZIONE I*
Verseggiare anteriore alla prosa. §

Ciò ne suggerisce un giusto raziocinio sostenuto dalle antichissime tradizioni e dalla storia, che che ne abbiano pensato in contrario Ludovico Castelvetro nella Poetica, Le Batteux e l’autore dell’articolo Prose nel Dizionario dell’Enciclopedia.

{p. 12}

ADDIZIONE II*
Canzoni ne’ sepolcri d’Iside e di Osiride. §

In versi erano le memorie dei defunti scolpite nelle colonne Egiziane; ed intorno alle urne lagrimali poste ne’ sepolcri d’Iside e di Osiride vedevansi incise alcune canzoni, come può leggersi in Diodoro Siculo nel libro 1.

ADDIZIONE III**
Per le leggi de’ Barbari in versi. §

Aristotile nel 1 de’ Politici. Può anche vedersi su di ciò l’opera di Goguet de l’origine des loix, tom. 1, part. 1, lib. 1.

{p. 13}

ADDIZIONE IV*
Brasiliani verseggiatori. §

I Brasiliani, gli abitanti della Florida e del Mississipi.

ADDIZIONE V**
Sacontala dramma Orientale. §

L’Ultima opera del celebre Guglielmo Robertson perduto da non molto, sulla conoscenza che gli antichi ebbero dell’India, ci presenta nell’Appendice la notizia di un altro dramma orientale scritto intorno a cento anni prima dell’era Cristiana. S’intitola Sacontala tradotto dalla lingua Sanskrit in inglese dal Sig. Jones.

Sacontala è una principessa allevata da un {p. 14}eremita in un sacro boschetto, la quale, dovendo andare a nozze alla corte di un gran re, prende congedo dall’eremita chiamato Cano, dalle pecorelle sue compagne, ed anche da un albuscello, da una gazella e da un caprio. V’intervengono le pastorelle, un coro di ninfe del bosco, Cano eremita e Sacontala.

Le pastorelle indirizzano la parola alle piante del boschetto, mostrano l’affezione ed il rispetto che ha per esse avuto Sacontala, la quale parte per andare al palazzo dello sposo. Le ninfe del bosco l’accompagnano con augurj di felicità. Sacontala intenerita esce dal bosco, e si congeda dall’eremita Cano. Giova trascrivere uno squarcio del loro dialogo:

“Sacon.

Permettete, o padre, che io consacri questo madhacu, i cui fiori rosseggianti fanno comparire questi boschi tutti di foco.”

“Can.

O Figlia, già so il tuo affetto per quest’albuscello.”

“Sacon.

O cara pianta di tutte la più risplendente ricevi i miei amplessi, e dammi i tuoi piegando le tue braccia, lontana ancora io sarò a te divota. O Padre, abbine cura come faresti di me stessa.”

{p. 15}

Sacontala continua a caminare, indi ripiglia:

“Sacon.

Deh Padre mio, poichè questa cara gazella, che ora pel peso che porta nel ventre, camina con tanta pena, avrà partorito, ti prego di mandarmene il dolce avviso e di farmi sapere lo stato di sua salute. Nol dimenticare.”

“Can.

No, mia cara, nol dimenticherò.”

Sacontala si ferma, e dice:

“Sacon.

Ma chi si attacca alla falde della mia veste, e mi trattiene?”

“Can.

E’ il tuo figlio adottivo, il cavriuolo, che feritosi in bocca colle acute punte del cusa, venne da te curato stropicciandovi l’olio salutare dell’incudi; non vuole abbandonare la sua benefattrice”.

“Sacon.

Perchè ti affliggi, o caro, alla mia partenza? Io ti allevai allorchè perdesti la madre, poco dopo del tuo nascere. Il caro padre che mi ha rilevata, prenderà di te cura nella guisa che io ho fatto, poichè ci saremo separati. Torna indietro, noi partiamo”.

E qui Sacontala prorompe in un pianto dirotto.

Convien confessare che questo innocente, semplice, patetico congedo, desti in chi legge {p. 16}una tenera commozione; e pur si tratta di un congedo da un cavriuolo! Deh perchè certi autori manierati e svenevoli non apprendono l’arte di commuovere in simili semplici naturali e delicate espressioni?

ADDIZIONE VI*
Rappresentazioni in Ulietea ed altre Isole. §

Il re O-Too padrone di tutta l’isola di O. Taïti essendosi portato in Oparre il sopranomato capitano Cook nel 1777 nel terzo suo viaggio, volle fargli godere nella propria casa un Heevaraa spettacolo pubblico, nel quale le tre sue sorelle rappresentavano bellamente i principali personaggi, seguito da alcune farse che riuscirono di maggior diletto al numeroso concorso. In un altro giorno il re per trattenerlo {p. 17}piacevolmente fè rappresentare una specie di commedia, di cui furon pure le attici le tre sue sorelle vestite bizzarramente con abiti nuovi ed eleganti1.

Oltre a diversi giuochi ginnici, come lotte, pugilati &c. eseguiti in Wateeoo per onorare e divertire il nomato Inglese, ed a’ concerti e alle danze accompagnate da musica stromentale e talvolta anche vocale, s’intrecciarono alcune carole di venti ballerine. Formando esse un circolo intorno a’ musici givano cantando alcune arie molto tenere, alle quali rispondeva il coro. Esse accompagnavano la voce co’ movimenti delle mani che portavano vezzosamente verso il volto, ed al petto, slanciando nel tempo stesso un piede innanzi e ritirandolo indi a poco a poco con grazia e restando l’altro piede immobile. Fecero esse due giri sopra se stesse saltando e battendo le mani l’una contra l’altra. Il movimento della musica aumentando sempre più verso la fine, le danzatrici spiegarono nelle loro attitudini una forza e destrezza {p. 18}maravigliosa, che in certe posizioni parvero indecenti, ma che forse non aveano altro oggetto che di manifestare la loro agilità estrema. Fuvvi parimente una danza grottesca eseguita da’ principali personaggi dell’isola, la quale singolarmente consisteva nel movimento delle loro teste con tal forza che faceva dubitare agli astanti Inglesi che non avessero a rompersi il collo, battendo intanto le mani e mettendo acutissime grida. Si avanzò poi alla testa degli attori situati in uno de’ lati del mezzo cerchio un personaggio principale, e declamò alcune parole alla maniera de’ nostri recitativi accompagnandole con gestire assai espressivo, il quale agl’Inglesi parve superiore a’ più applauditi attori del proprio paese. Il primo degli attori dell’altro lato corrispose della stessa maniera. Si recitarono parimente alcuni passi, e di poi il semicerchio si avanzò sul teatro, rispondendo in coro le persone di ambo i lati, e terminarono cantando e ballando.

Da queste danze e scene recitate di Wateeoo non sono dissimili quelle delle isole degli Amici e le altre degli abitanti delle isole Caroline del Mar Pacifico del Nort.

Nelle isole dette da Cook di Sandwich vi {p. 19}sono eziandio danze pantomimiche accompagnate da musica, le quali si approssimano più a quelle della Nuova-Zelanda che a quelle di O. Taiti o degli Amici. Precede una canzone di movimento lento e grave, alla quale tutte le ballerine prendono parte movendo le gambe e battendosi dolcemente il petto con attitudini graziose rassomiglianti a quelle delle isole della Società. Si accelera poscia il tempo sino al punto che le ballerine (che sole figurano in tal genere di danza) non possono più seguirlo, e colei che si dà maggior moto e resiste più, passa per la danzatrice più eccellente. Vuolsi ancora osservare che i naturali delle isole di Sandwich hanno una specie di maschera con buchi per gli occhi e pel naso, alla cui parte superiore appongonsi picciole bacchette verdi che da lontano pajono piume ondeggianti, e dall’inferiore pendono pezzi di stoffa che si prenderebbero per una barba. Coloro che se ne coprono, vanno ridendo e facendo gesti istrionici, che indicano di esser maschera ridicola. Anche in Nootka gli abitanti in certe straordinarie occorrenze si adornano in una maniera grottesca, e talora copronsi il volto con maschere di legno scolpite, le quali sono di grandezza {p. 20}eccedente la naturale, e figurano ora la festa o la fronte umana con ciglia, barba, e capegli, ed ora teste di uccelli, e specialmente di aquile, o di pesci, o di quadrupedi. Que’ selvaggi mostrano per tale mostruoso abbigliamento una passione particolare.

Si vede adunque nelle surriferite farse e danze di Ulietea, e delle altre isole nominate quello spirito imitatore &c.

ADDIZIONE VII*
Carattere di Prometeo in Eschilo. §

Prometeo dopo averlo ascoltato vede balenare e strisciare il fulmine senza abbassare nè pur gli occhi. La sua magnanimità sveglia nello spettatore una sublime idea del nobil suo carattere. Egli prevede ancora il rimanente della minacciata sventura &c.

{p. 21}

ADDIZIONE VIII*
Scena in Tralles dipinta da Apatario. §

Vitruvio nel libro vii, c. 5 fa menzione dell’antico pittore teatrale Apatario, il quale dipinse acconciamente la scena nel teatro di Tralles. Ciò che di lui si dice, indica l’intelligenza degli antichi nella prospettiva, mentre la veduta dipinta in quella scena compariva bella insieme e naturale a cagione delle diverse tinte che davano risalto a tutte le parti dell’architettura in essa espresse.

ADDIZIONE IX**
Detto di Eteocle nelle Fenisse. §

Ad Eteocle appartiene il famoso detto che Giulio Cesare soleva avere in bocca, e per cui {p. 22}si risolse a regnar sopra della sua patria. Cicerone (de Officiis lib. iii) così lo tradusse:

Nam si violandum est jus, regnandi caussa
Violandum est: aliis rebus pietatem colas.

ADDIZIONE X*
Callimaco anche poeta drammatico. §

Il celebre Callimaco Cirenese autore degl’Inni ed Epigrammi e di altri pregiati lavori, dee contarsi tra coloro che fiorirono nella poesia rappresentativa, e specialmente nella tragica sotto Tolommeo Filadelfo sino all’Evergete, che cominciò a regnare l’anno secondo dell’Olimpiade CXXVII. Suida rammemora tralle poesie di Callimaco drammi satirici, tragedie e commedie. Al medesimo poeta si dee la cura di descrivere i poeti drammatici secondo l’ordine de’ tempi sin dal loro principio1.

{p. 23}

ADDIZIONE XI*
Traduzioni di alcuni frammenti del comico Alesside. §

Ciò rilevasi da’ frammenti che se ne sono conservati, de’ quali stimiamo quì addurne alcuni. Nelle Cene di Ateneo leggesi un bel passo di Alesside in cui si esprime il lusso de’ Sibariti, de’ Siciliani e de’ Tarentini nelle tavole. Eccolo secondochè l’abbiamo noi tradotto:

Piè innanzi piè senza pensar m’inoltro,
E giungo a caso, ove dell’acqua i servi
Recavan per le mani. Altri la mensa
Imbandir, non di cacio nè di ulive,
E non di piane putenti scudelle
Colme di trivial spregevol cibo.
Nobile, ampio recar, splendido piatto
Che profumando gìa l’aria d’intorno
Di grati odori, e a’ commensali intanto
{p. 24}
L’ore indicava e le stagioni e gli anni;
Poichè di tutto il ciel mezzo esprimeva
Il globo con quanti astri vi risplendono.
Là i pesci scintillavano e i capretti,
E scorreva fra lor lo scorpione,
Manifestando l’asinel lucente.
Bello fu allor veder tutte rivolte
Le mani a saccheggiar tali e tanti astri.

E’ notabile in questo frammento la splendidezza dell’apparecchio, la delicatezza e l’abbondanza de cibi. Si dà una sontuosa immagine di un piatto descritto come una mettà del globo celeste colle sue costellazioni. Vi si ammirano quelle che anche in terra sono pesci, animali e volatili; lo scorpione p. e. esprime la costellazione ed il pesce scorpione; l’asinello non solo fa sovvenire di quello trasformato in cielo, ma del pesce chiamato ονον o dell’uccello detto οιωνον.

Giova riferire l’altro passo citato da Ateneo nella favola Mandragorizomena, ossia lo Stupido per l’uso della soporifera pianta mandragora, che si addusse nella nostra opera delle Sicilie. Ecco in qual guisa vi si deridono le contraddizioni degli umani desiderj secondo la nostra traduzione:

{p. 25}
Strana oltremodo a voi la razza umana
Forse non sembra, che di opposti voti
Solo si pasce? I forestieri acclama,
E i patriotti poi sprezza e i congiunti:
Fasto e ricchezza in povertate ostenta:
Con scarsa mano, o con maligno oggetto,
Spinto da vanità, non da virtute,
Grazie l’uom versa e doni. In quanto al cibo
Nel medesimo dì bianchi i brodetti
Indi neri gli vuol: se l’acqua è fredda,
Tempesta e grida, e poi vuol ber gelato,
E che apprestin la neve a’ servi impone.
Il vin raspante d’acidetto gusto
Co’ primi labbri ei delibar disdegna,
Poi mattamente barbare bevande,
Acetose, fumose, agre, putenti,
Birra, cervogia, e ponce, e rac tracanna. 1
Ab non senza ragion dissero i saggi,
Bello è non esser nato, o tosto almeno
Uscir d’impacci e abbandonar la vita.
{p. 26}

Ci si permetta aggiungere da noi recato in italiano l’altro frammento rapportato da Sozione Alessandrino, che pure trovasi in Ateneo della favola Ασωτιδασκαλος, ossia Magister luxuriae, che può equivalere in certo modo all’Homme dangereux del Palissot, o al Mechant del Gresset:

Non lasci tu di rompermi la testa
Col nominar sì spesso Odeo, Liceo,
Congressi di Termopile, e cotali
Filosofiche ciance, ove di bello
Nulla si scerne e d’increscevol molto?
Beviam, torniamo a bere, e insin che lice
Senza noja viviam: d’inutil cure
Non si opprima la mente. Ah non vi è cosa
Più del ventre gioconda. Ei sol ci è padre,
Ei madre, ei tutto. La virtù, il dovere,
Eccelsi gradi, ambascerie, comandi
Di eserciti, vocaboli pomposi,
Vanità, fasto, nulla han di reale,
E dopo un velocissimo romore
Passano, al par de’ sogni, in sen del nulla.
L’ora fatal sopravverrà bentosto;
E t’avvedrai che, del mangiare e bere
Tranne il diletto, nulla al fin rimane.
Cimon, Pericle, Codro oggi son polve.
{p. 27}

ADDIZIONE XII*
Passo di Filemone seniore tradotto. §

Noi recammo nell’opera delle Sicilie uno squarcio del comico Filemone il maggiore tratto dalla commedia del Soldato da noi tradotto, e quì fia bene riferirlo, perchè non s’abbia a rintracciare altrove. Appartiene a un cuoco che si applaude del proprio mestiere e della delicatezza usata in arrostire un pesce:

Vivo ancora parea benchè arrostito.
Non si può concepir con qual misura
Gli sottoposi il foco! E che ne avvenne?
Che, come, se rapisce un buon boccone
Correndo in giro cerca la gallina
Dove sicura il becchi, e intanto celere
La segue un’ altra, ed essa più si affretta,
Non altramente chi si avvenne il primo
Nella delizia del prezioso pesce
{p. 28}
Ghiotto saltella col bel tondo stretto,
E fugge intorno e ’l van seguendo gli altri.

ADDIZIONE XIII*
Frammento di Filemone giuniore tradotto. §

Non increscerà vedere anche di Filemone il minore un curioso frammento rimastoci della sua commedia il Mercatante tradotto da Grozio in latino, e da noi volgarizzato:

A. Questa legge fra noi regna in Corinto.
Se alcun veggiam che prodigo banchetti,
Gozzovigli alla grande, interroghiamo
Tosto chi sia, che ordisca, di che entratæ
Ei si mantenga. Se avvien che fornito
Sia di mezzi da spender senza modo,
Lasciam che a suo piacer tripudj e spenda.
Se poi troviam, che oltre il poter profonda,
Ben tosto gli si vieta; e se al divieto
{p. 29}
Non obedisca, gli s’impon la multa.
Chè se nulla ei possegga, e così splendida
Vita pur meni, incontanente al boja
E’ consegnato, e posto alla tortura.
B. Alla tortura? A. Senza dubbio. E parti
Che a quel modo colui senza delitti
Viver potrebbe? Intendimi tu bene?
Egli o di notte ruba, o fa la vita
De’ vagabondi, o di cotal genìa
Complice è certo, o giuntatore, o vende
L’opera sua per attestare il falso.

ADDIZIONE XIV*
Sul Teatro Siracusano ed altri. §

Singolarmente pregevoli si reputano i ruderi esistenti nel teatro di Siracusa chiamato massimo da Cicerone contro Verre, cui a giudizio di Diodoro Siculo cedeva anche il teatro di Agira {p. 30}sua patria che egli appellò il più bello della Sicilia1. Leandro Alberti vide nel sito ove era Acradina e Tica alcuni pochi rottami di questo superbo teatro tagliato nel sasso2. Il dottissimo conte della Torre Gaetani ne distingue con più esattezza le parti che ne sopravvanzano, ed il sito. Vedevasi (dice quest’insigne letterato3) situato in parte eminente, donde si scoprivano le città di Napoli, Ortigia ed Acradina bassa, i due porti, i fiumi, i fonti, i laghi, le campagne adjacenti; ed era lavorato ed incavato nel macigno naturale. Di figura semicircolare arriva il suo diametro a quaranta canne Siciliane; e si scorge dagli avanzi chiaramente che era diviso in tre ordini tagliati da otto cunei equidistanti. Nè della scena, nè delle colonne e de’ fregi che l’adornavano, rimane verun vestigio.

{p. 31}

Merita tralle reliquie di questo teatro particolare attenzione il più basso scalino della gradinata di mezzo. Vi si erano osservate queste lettere greche ... ΚΛΕΟΣ .. ΡΑΤ ... ΦΡΟΝ, logore e guaste, e perciò non mai si curarono. Riuscì al prelodato conte Cesare Gaetani nel 1756 di scoprire nella parte opposta in faccia al levante quest’altre lettere belle ed intere, ΒΑΣΙΛΙΣΣΑΣ ΦΙΛΙΣΤΙΔΟΣ (Reginae Philistidis) che non improbabilmente potrebbe credersi una regina che dominò in Siracusa, e forse a suo tempo si eresse il teatro1. L’esistenza di al regina de’ Siracusani si compruova con un gran numero di medaglie registrate nell’edizioni della Sicilia Numismatica fatta dall’Agostino, dal Majer, dall’Avercampio. Il co: Gaetani molte ne ha vedute di argento, e solo alcuna di rame. Il Torremuzza (nelle Medaglie antiche {p. 32}di Sicilia del 1781) altre ne reca tutte di argento, che rappresentano Filistide in varie età, giovanetta, matura, vicino alla vecchiezza, e vecchia affatto e rugosa.

Oltre de’ teatri di Siracusa e di Agira, abbiamo con qualche particolarità rammentato altrove* quelli di Palermo, di Agrigento, di Catania, di Messina, di Segesta, di Taormina.

Similmente degni sono di ricordarsi i teatri di Taranto, di Crotone, di Reggio e di altre città della Magna Grecia. E soprattutti memorabili sono gli antichi teatri di Capua, di Nola, di Pozzuoli, di Minturno, di Pesto, di Pompei, di Erculano e di Napoli. Si è fatto pur menzione nell’opera medesima e nella seconda parte del Supplimento del teatro di Venosa, secondo l’Antonini, sacro ad Imeneo, di quelio de’ Marsi in Alba Fucense, e di quelli di Baja e di Alife e di Sessa.

Vuolsi dagli eruditi Lancianesi che in Ansano, oggi Lanciano, si eresse un teatro su di {p. 33}un colle all’occidente in un trivio non lontano dal Tempio di Apollo, che poi verso il 1227 si convertì in una chiesa dedicata a Maria Vergine sotto il titolo dell’Assunta. Essi ci attestano che in una orazione di mons. Sebastiano Rinaldi, e nelle opere inedite di Giacomo Fella e di Pietro Polidoro se ne fa sicura menzione, aggiungendo che anche nel secolo XVI n’esisterono varj rottami. Tralle ruine di un tempio dedicato, come si crede a Bacco, il medesimo Polidoro assicura di aver trovata la seguente iscrizione:

Q. Aurelius Mitranus C.F.P.N.
Porticum restituit Gradus fecit,

la qual lapida verisimilmente appartenne ad Ansano1.

[Errata] §

In fine delle riferite Aggiunte al Tomo I libro I uopo è soggiungere i seguenti errori corsi nella prima edizione napoletana colle correzioni.


ERRORI CORREZIONI

Pag. ix, lin. 6. colui che non paventa

colui che ne paventa

Pag. x. lin. 12. comprese in cinque volumi oltre di un’ appendice

comprese in sei volumi

 

Pag. xvi lin. 3. per non eccedere i cinque volumi

 

 

per non eccedere i sei volumi

{p. 34}

TOMO II. LIBRO II §

ADDIZIONE I*
Fabbriche Etrusche in Pesto. §

Debbonsi soprattutto mentovare tralle antiche fabbriche Etrusche in parte tuttavia esistenti quelle che ammiransi nelle ruine dell’antica {p. 35}Posidonia o Pesto nel regno di Napoli. Tali sono i rottami delle sue Mura formate di grandi pietre squadrate, levigate e connesse all’usanza de’ Toscani imitati poi da’ Romani. Tali i due Tempj, de’ quali il primo semplice, grave, e solido contiene sei colonne in facciata, ed altrettante dalla parte opposta, e si allontana dalla maniera dorica greca, e dall’ordine toscano de’ tempi posteriori, ed il secondo tempio più picciolo, che dinota di essere stato da’ Toscani eretto posteriormente, quando già essi sapevano congiungere colla solidità il gusto di ornare. Tali finalmente sono le reliquie de’ Portici, di un Atrio, e l’Anfiteatro1.

{p. 36}

ADDIZIONE II*
Plastica degli Etruschi. §

Si attribuisce eziandio agli Etruschi l’arte della plastica, o modellatrice. Clemente Alessandrino (Strom. lib. I.) dice φασὶ Τουσκανους την πλαςικήν επινοῆσαι. Vero è che in Plinio si vede che altri l’attribuisce a’ Greci, che da Corinto vennero in Italia con Demarato padre di Tarquinio Prisco. Ma, secondochè bene osserva il Maffei nel Ragionamento degl’Itali primitivi, a chi venne con Demarato si attribuisce altresì in parte la pittura, e pure, per osservazione dello stesso Plinio, era essa già perfezionata in Italia molto innanzi, come abbiam veduto.

{p. 37}

ADDIZIONE III*
Puttini: Incisori di gemme dell’Etruria. §

Di questo Puttino Etrusco trovato nell’agro Tarquiniense ed illustrato da mons. Passeri, favella parimente l’ab. Gio: Cristofano Amaduzzi nella seconda sua edizione dell’Alfabeto Etrusco premesso al tomo III Pictur. Etrusc. in vasculis dello stesso Passeri.

Di un altro Putto Etrusco che vuolsi trovato fin dall’anno 1587 vicino al Lago Trasimene, e poi rubato dal museo del conte Graziani perugino, e ricuperato dopo molti anni, favellarono il p. Ciatti nella Perugia Etrusca, mons. Fontanini, il senator Filippo Buonarroti, ed il proposto Anton Francesco Gori.

Conviene quì parimente notare che non mancarono all’Etruria alcuni insigni incisori di gemme. Da piú periti antiquarj vengono con particolarità rammentati e tenuti per Etruschi {p. 38}Admone, cui si attribuisce l’Ercole hibace, una delle più preziose gemme Etrusche, ed Apollodoto, di cui si ammira una gemma colla testa di Minerva incisa a punta di diamante, ed un’ altra rappresentante Otriade del museo Cortonese. Se ne veggano i comentarj dell’ab. Bracci, de’ quali leggesi un buono estratto nel Nuovo Giornale Modanese de’ Letterati d’Italia.

ADDIZIONE IV*
Ciò che affermò l’ab. Denina di Gneo Nevio. §

Strano sembrami che il sig. Carlo Denina nella Parte I del Discorso sulla Letteratura abbia senza appoggio asserito che Gneo Nevio venne dalla Magna Grecia come Andronico. Che Gneo appartenne alla Campania, è cosa troppo trita; nè questo paese in tempo veruno fece {p. 39}parte della Magna Grecia. Anzi Plauto, nella sua commedia Miles gloriosus at. 2, sc. 2, fa che Palestrione greco personaggio lo chiami poeta barbaro, cioè non greco, ma latino, la qual cosa non avrebbe potuto dire senza sconcio, se Nevio nato fosse nella Magna Grecia. Il comico stesso nella commedia Capteivei mostra più chiaramente che i Greci chiamavano barbari gl’Italiani. Il parasito Ergasilo giura per le città di Preneste, di Sora, di Segni e di Frusinone, ed Egione ripiglia,

Quid tu per barbaricas urbes juras?

Noto è pur troppo che barbaro di sua origine significò straniero, quale si considerava da’ Greci chi nasceva fuor della Grecia, e da’ Romani chi alla lor nazione non apparteneva. Così Diodoro nel libro XIV dicendo che i Cartaginesi trassero ajuti da’ barbari d’Italia, volle distinguerli da’ Greci Italiani. Così Dionigi Alicarnasseo nel libro I adoperò tal parola in senso di straniero nel voler dare a’ Romani origine greca, e non barbara. Adunque Nevio non ebbe la patria greca ma barbara, cioè straniera. Aulo Gellio nel rimproverare a Nevio il {p. 40}fastoso epitafio che egli compose per se stesso, dice che i suoi bei versi mostravano tutta la nativa alterigia Campana, cioè del proprio paese. E’ inutile accumulare argomenti ed autorità su ciò che finora niuno ha posto in dubbio. Pur ne piace rammemorare un tondo medaglione di marmo posseduto da Tommaso Manso nostro antiquario morto nel 1650, di cui favella il suo contemporaneo Niccolò Toppi nella Biblioteca Napoletana. Da una parte si vedea la figura di Nevio animata coll’iscrizione Nevius Poeta Cap.; eravi dall’altra un lupo che teneva sotto un agnello con un bastone nel mezzo. Il signor Denina par che abbia scritte le ultime sue cose in fretta, fermandosi sul primo pensiere senza esaminarlo, come può comprovarsi con varie osservazioni sull’indicato Discorso, e sul Proseguimento delle Rivoluzioni d’Italia.

{p. 41}

ADDIZIONE V*
Citazione per L. Ambivio Turpione. §

Di questo valoroso attore vedi ciò che ne dice Cicerone, che visse a’ suoi tempi, nel dialogo de Senectute, e l’autore de Caussis corruptae eloquentiae.

ADDIZIONE VI**
Asserzione del sig. Denina su i tragici Latini. §

Da quanto dicesi de’ lodati tragici latini così di quest’epoca, come della precedente, sembra che la lingua latina, appunto come accennò Orazio, si prestasse felicemente al genio tragico,

{p. 42}
Et spirat tragicum satis, & feliciter audet.

Ennio, la cui Medea esule fe dire a Cicerone (de Finibus) non potervi essere alcuno così nemico del nome Romano che ardisca sprezzar questa tragedia: Pacuvio che colle sue tragedie procacciossi rinomanza di dotto conservata anche a’ tempi di Augusto1: Accio tanto encomiato pel suo Atreo che meritò il nome di sublime per detto di Orazio, e di Quintiliano; che Acrone non esitò di anteporre ad Euripide; che fu in fine da Columella collocato accanto a Virgilio, riconoscendo in entrambi i poeti più grandi del Lazio: tali tragici, dico, esaltati da’ migliori scrittori di Roma, debbono convincerci che la maestà dell’idioma latino, l’eroismo proprio de’ Romani, lo spirito di sublimità che gli elevava sin da’ principii dell’arte, gli facesse assai più riescir nella tragedia che nella commedia. Di fatti, oltre alle nominate tragedie a noi non pervenute, ebbero i Romani eziandio in pregio la Medea di {p. 43}Ovidio, il Prometeo e l’Ottavia di Mecenate, il Tieste attribuito a Quinto Vario, a Virgilio, ed a Cassio Severo, tragedia da Quintiliano reputata degna di compararsi colle migliori de’ Greci, in oltre quelle di Curiazio Materno altamente comendate dall’autor del dialogo della corruzione dell’eloquenza, e di Pomponio Secondo stimate per l’erudizione e per l’eleganza, la Medea di Lucano, l’Agave di Stazio sì bene ascoltata in Roma ed encomiata dal satirico Giovenale, tutte queste buone tragedie danno a noi diritto di affermare che un genere di poesia maneggiato da’ migliori poeti latini, dovè trovare in quella nazione ordigni opportuni per elevarsi, ed in copia maggiore che non ne trovò la poesia comica.

Ora tutto ciò si oppone perfettamente all’idea che della latina tragedia aveasi formato il sig. Carlo Denina, il quale (parte I del Discorso della Letteratura, art. 26) asserì che in Roma si stava peggio ancora nella tragedia che nella commedia. Quintiliano però, il quale ingenuamente confessava che i Latini zoppicavano nella commedia, non mai affermò altrettanto della tragedia. Anzi sostenne esservene state alcune da mettersi degnamente in confronto delle {p. 44}migliori de’ Greci. Cicerone, Tacito, Plinie anche evidentemente discordano dall’avviso del piemontese Denina. Laonde siamo noi inclinati a prestar tutta la fede a que’ Latini che ebbero sotto gli occhi le tragedie romane da essi esaltate, e che sapevano quel che si dicessero, ed assai poco crederemo al sig. Denina che con tutta la posterità non ne ha veduta nè anche una. Nè debbe egli fondarsi punto nè poco nella mancanza di originalità desiderata nelle lodate tragedie latine; perchè nè Eschilo, nè Sofocle, nè Euripide potrebbero contarsi per originali secondo la regola del Denina, sapendosi che gli argomenti delle loro favole si trassero quasi tutti da Omero e da’ tragici più antichi. Molto meno dee egli appoggiarsi nell’abbondanza de’ difetti de’ tragici latini e nella scarsezza di sublimità; perchè dalle ultime favole moderne risalendo sino ai cori di Bacco in Icaria, non so quante tragedie potrebbero ostentarsi come perfette, grandiloquenti e prive di ogni taccia. L’uomo d’ingegno e di gusto purgato condona di buon grado i difetti, ove le bellezze di ogni tempo e di ogni clima sovrabbondino.

{p. 45}

ADDIZIONE VII*
Rottami di Rimini. §

Veggonsi in Rimini alcuni rottami di mattoni, ne’ quali altri riconosce un teatro, altri un anfiteatro. Ma per avviso venutomene dal fu dotto amico ab. Gio: Cristofano Amaduzzi, m’indussi a credere che non fusse nè l’uno nè l’altro. Quel pregevole ufficioso letterato mi avvertì che le reliquie indicate sono opera de’ bassi tempi; e ciò si rileva dal lavoro troppo minuto nelle cornici di alcune basi di colonne colà rimaste. Quindi esse sono state piuttosto credute portici, ne’ quali introducevansi le mercanzie in città dall’antico porto, che ora è in secco, del cui molo sussistono le ruine ora chiamate Muraccio o il Terrazzo dell’Ausa fiume che bagna la città dalla parte di oriente.

{p. 46}

ADDIZIONE VIII*
Sulla commedia Querolus. §

Presso Roberto Stefano si ha la commedia pubblicata in Parigi nel 1564 da Pietro Daniele con questo titolo: Querolus antiqua comoedia nunquam antehac edita, quae in vetusto codice ms Plauti Aulularia inscribitur, nunc primum a Petro Daniele Aurelio luce donata, & notis illustrata. L’orleanese Pietro Daniele approfittandosi del saccheggio dell’abadia di san Benedetto sulla Loira fatto dagli Ugonotti, s’impossessò di varj manoscritti che eranvi, molti comprandone a vil prezzo, e fra essi trovò tal commedia, che il Vossio chiama dramma prosaico1. Fu poscia reimpressa da Cummelino colle note del primo autore, del Rittersusio {p. 47}e del Grutero. Ebbe pur luogo nella bella edizione di Plauto di Filippo Pareo uscita nel 1619. Se ne ignora l’autore. Il dottissimo Fabricio ci dice: Marci Accii minime est, quoniam author ipse in prologo hanc fabulam investigatam Plauti per vestigia profitetur1. Ne sarebbe mai stato autore qualche Greco? Svegliano tal dubbio le parole del passo, che soggiugneremo, sic nostra loquitur Graecia.

Variamente congetturarono i letterati sull’epoca in cui si scrisse. Taluno la credette della fine del secolo VI, benchè lo stile sia di un gusto differente. Il padre Rivet2 fa risalire il Querolus almeno al cominciamento del V secolo fondandosi sulla dedicatoria fatta a Rutilio. L’opinione di chi lo fissa all’imperio di Teodosio, è la più comune; ed il lodato Pietro Daniele l’avea abbracciata come semplice congettura, nè disconvennero Taubman, ed altri. Goujet nel suo primo supplimento al Moreri pone tal componimento sotto Teodosio II. {p. 48}Uno squarcio però di esso merita riflessione, e par che lo faccia ascendere sino alla fine del primo secolo, mentovandovisi i Gaulesi della Loira, i quali scrivevano su gli ossi le sentenze di morte pronunziate sotto le quercie: Habeo (vi si dice) quod exoptas; vade, ad Ligerim vivito. Quid tum? Illic jure gentium vivunt homines: ibi nullum est praestigium: ibi sententiae capitales de robore proferuntur, & scribuntur in ossibus: illic etiam rustici perorant, & privati judicant: ibi totum licet si dives fueris, patus appellaberis; sic nostra loquitur Graecia. Questo costume satireggiato nel dramma, ci mena al tempo, in cui i Gaudesi aveano il diritto di vita e di morte, e la giustizia si amministrava da’ paesani rustici senza appellazione. Non era adunque colà ancora introdotta la Romana Giurisprudenza, della quale non pertanto trovansi monumenti ne’ testamenti di san Remigio, di Chadoin di Bertramo, e di Ermentruda. Sappiamo poi che i Druidi furono proscritti da Tiberio e da Claudio; e m. Schoepflin1 sostiene che sotto {p. 49}Claudio i Druidi rifugiaronsi al di là del Reno. Ora se nella commedia si motteggiano quelle sentenze rusticane capitali date sotto le quercie come tuttavia esistenti, pare che il Querolus dovè comporsi prima del discacciamento de’ Druidi, e non già sotto Teodosio II, quando i Romani aveano introdotta nella Francia settentrionale la loro giurisprudenza, ed erano già state abolite quelle sentenze di morte scritte su gli ossi.

[Errata] §

Si aggiungono le seguenti correzioni degli errori corsi nel tomo II dell’edizione napoletana.


ERRORI CORREZIONI
pag. 66, lin. 7

Tu fra que’ dieci

 

Te fra que’ dieci

pag. 84, linea penultima ed ultima

con felicità la secondano, sono copiate al naturale da lo pre

 

con felicità la secondano, sono copiate al naturale dalle procedure

pag. 113, lin. 19

sempre io t’ami

 

sempre io ti amai

pag. 190, lin. 1

Tum verò pavidâ sonipes

 

Tum verò pavidâ sonipedes

pag. 236, lin. 20

a un cenno del popolo doveano snudarsi

 

a un cenno del popolo, nel tempo de’ Giuochi Florali, doveaao snudarsi

{p. 50}

TOMO III. LIBRO III §

ADDIZIONE I*
Pastorali de’ Provenzali. §

Si parla eziandio di alcune pastorali de’ Provenzali, che altro pure non furono se non che piccioli dialoghi, ne’ quali confabulava il poeta e qualche pastorella. Tale fu quella di Paulet e della sua pastorella, i quali entrano a parlare de gli affari politici, e delle vedute de’ gabinetti dell’Europa, e la pastorella specialmente {p. 51}favella dell’infante don Pietro d’Aragona e di Odoardo d’Inghilterra. Tale fu pure il dialogo di Gherardo Richier con una pastorella, la quale, benchè da lui trovata a caso, si mostra intesa degli amori di lui colla sua Bel-de-port1.

ADDIZIONE II*
Correzione del Tiraboschi sulle sacre rappresentazioni del secolo XIII. §

Con nostro singolare compiacimento abbiamo notato in seguito, che il fu degno nostro amico, ornamento ed istorico della letteratura Italiana, il cav. Tiraboschi, nelle sue Aggiunte al tomo IV pag. 343 siesi mostrato egli stesso propenso a reputar drammatiche ed animate con parole le rappresentazioni sacre del secolo XIII {p. 52}della Compagnia del Gonfalone ed altre simili. E perchè l’autorità che ne reca, riduce all’evidenza il nostro avviso, ne trascriv amo le parole. “A provarlo (egli dice) si posson recare alcuni bei monumenti tratti dagli Statuti della Compagnia de’ Battuti di Trevigi eretta nel 1261, e pubblicati dal più volte lodato sig. conte canonico Avogadro (Memorie del b. Errico P. 1) perciocchè in essi si legge che i canonici di quella chiesa doveano dare in anno quolibet dicte Schole duos Clericos sufficientes pro Maria & Angelo, & bene instructos ad canendum in festo fiendo more solito in die Annunciationis”; e i Castaldi della scuola eran tenuti providere dictis Clericis qui fuerint pro Maria & Angelo de indumentis sibi emendis per dictos Castaldiones; “e nelle parti della medesima scuola si legge, cantores . . . habeant soldos X pro quolibet . . in die Annunciationis B.M.V., cum fiet representatio.”

Varie rappresentazioni simili di questo regno di Napoli potremmo anche addurne in prova, se di più ne abbisognasse il nostro avviso. Diciamo non di meno di passaggio che in Lanciano una tragica sacra rappresentazione si è eseguita da tempo immemorabile la sera del Venerdì {p. 53}Santo del Mortorio di Gesù Cristo dopo una solenne e pomposa processione, che usciva dalla chiesa di San Filippo Neri, a spese de’ confratelli della Compagnia della Morte. Tal notturna processione e recita è durata sino al 1740, quando fu proibita.

ADDIZIONE III*
Osservazione del sig. Andres sul Mussato. §

E Pure se il sig. ab. Andres, nel dire che nelle tragedie del Mussato vide Padova i primi saggi di tragedia, voleva pienamente far trionfare la verità e la buona fede, dovea alla parola Padova sostituire quest’altra, l’Europa; giacchè a’ que’ di in niun altro paese Europeo videsi una tragedia simile a quelle di Albertin Mussato.

{p. 54}

ADDIZIONE IV*
Patria di Niccolò da Correggio. §

Essendo nato in Ferrara l’anno 1450, ove erasi recata Beatrice d’Este sua madre.

ADDIZIONE V**
Sull’autore del I atto della Celestina. §

V’Ha chi pone in dubbio, che il Cotta fosse l’autore del I atto della Celestina. Alcuno l’attribuisce a Giovanni de Mena. Lo stesso Ferdinando de Roxas che la terminò, dice nel prologo di non sapere del Cotta o del Mena chi avesse composto quell’atto I.

{p. 55}

LIBRO IV §

ADDIZIONE I*
Coro del Ciclope del Martirano. §

Non increscerà che quì si trascriva il coro dell’atto I del Ciclope del Martirano da noi tradotto, perchè non abbia a cercarsi altrove:

Itene al fonte, o capre, ite agli ascosi
Folti recessi de le ombrose selve.
Alto già il sol saetta, e secca i fiori.
Deh qual nume m’invidia i freschi spechi,
E il verde prato del fiorito Pindo?
Lungo un ruscello, o in valle opaca assiso,
Cinto le tempia di frondosi rami
D’alta quercia o di pino, io giacerei.
Mira di qual caligine il fumoso
Etna l’aere riempie, e il dì ne invola:
Quai sassi avventa . . . Ove fuggite? O insane
{p. 56}
Bestie, forse del tutto è spento il giorno?
Ancora? . . . Ite pel lido . . . oh maledette:
Precipitose per scoscese balze
Cadranno in mare! . . Cisseta, sei pure
Nato di docil padre e da le mamme
Di generosa capra al fin pendesti:
Perchè gli stolti impauriti armenti
Degenere non segui, e lasci il prato,
E in tondere ti perdi irsuti dumi?
Oh come, o ninfe, per le minacciose
Fiamme rosseggia il mare! ..... E questo pazzo
Gregge va pure errando! E chi potrebbe
Travalicar si paludoso campo?
Ancora? ancor? .... Chè sí che un piè gli spezzo
Con questo ciotto. Io spargo al mar le voci
Vedi l’onde, Cimeta, ecco gli scogli . . .
No? per dio ti avvedrai, s’io dormo, o selci
Mancano in queste rupi . . . Ove il cornuto.
Irco s’è rintanato? E’ stato sempre
Suo vezzo antico il gir lontan dal gregge.
Caparbio! in ver non sei da te diverso.
Il favor del padron gonfio ti rende;
Perchè ti liscia, ti vezzeggia, e pettina,
Perchè di propria man ti lava al fonte.
Ma via, se punto hai di pudor, discendi,
Mostrati al fin: te seguirà l’armento.
{p. 57}
Alte son quì l’erbette, un’ aura grata
Agita, lievemente susurrando,
I fronzuti arbuscei: d’alto discende
Spicciando l’acqua, e un roco mormorio
Lascia al passar da un sassolino a l’altro.
Ma quai latrati ascolto? su, Melampo,
Mastini, al monte . . . oimè! lupo proterve
Insanguina la bocca in qualche capra,
E la rapisce . . . Ahi! me l’empio Ciclope
Divorerà di poi, o in mezzo a l’onde
Mi scaglierà da la più eccelsa balza.
Deh qual parca crudel noi sventurati
Di sì spietato mostro a l’ira espone?
O Bacco, o dolce nume, ove ti aggiri?
In qual valle satollo il fianco adagi
Lasso dal carolare? Il tuo corteggio
Certo obbliasti, e già dal cuor ti cadde,
Se del crudo al furor tal l’abbandoni,
Se soffri che di pelli ricoperto,
Scalzo le piante, guardian di capre,
Prema de l’Etna le taglienti selci.
{p. 58}

ADDIZIONE II*
Traduzione del lamento di Elettra del Martirano. §

La trascriveremo per non rimandare il leggitore ad un’ altra nostra opera:

Urna diletta e cara, ahi! scarse troppo
Reliquie, amate ceneri d’Oreste;
Tal, germano, a me riedi, e tal ti veggio?
Tolto a le insidie del paterno tetto
Per me tu fosti, e vigoroso e forte
Fuor ti mandai, polve or quì torni ed ombra!
Chè non moristi allor pria ch’al materno
Minaccevol sembiante io t’involassi,
Comune almen col genitor l’avello
Avuto avresti; or dal mio grembo lungi,
Lungi dal patrio suol, misero, cadi!
Nè lice a me da la squarciata spoglia
Tergere il sangue, od ungerla, o l’errante
Ombra invocare a’ freddi marmi intorno,
E l’onda nera de le stigie rive
{p. 59}
Varchi non pianto! Oh mal vegliate notti,
Oh cure vane! Io ti educai più pronta,
Gelosa più di chi suggesti il latte;
Non che germana, io ti fui balia e madre.
Or sì bei nomi un giorno sol m’invola!
Tu tramontasti qual del mare in grembo
Cade nel verno astro propizio, e tutto
In tetro orrore, in atri nembi involvi.
Perduto il padre, ora in te perdo il giorno.
Tu cadi, e lieve pondo in vase angusto
Di te rimane, e al mio dolore insulta
L’empio nemico, e gongola di gioja
La madre, ah non mai madre! al fin sicura,
Nè più ti teme. Ah vindice io sperai
Che venir tu dovessi: un nume avverso
Di te mi rende un’ ombra, un sogno, un nulla.
O stelle infauste! O dolce Oreste, accogli
Ne l’urna tua la desolata Elettra,
Già volta in nulla, che a te vien, che agogna
Teco abitar tra l’ombre lievi e nude.
{p. 60}

ADDIZIONE III*
Giudizj sulle commedie del Machiavelli. §

Apparisce dalla censura del sig. Andres sulle commedie del Machiavelli di aver voluto egli parlare (stò per dire) di una provincia che non avea visitata. Più grazioso ancora è il giudizio che delle medesime commedie volle dare il sig. Bettinelli “Ben è curioso (egli dice) il legger le lodi date da molti a queste commedie, come se fosser l’ottime del teatro italiano, essendo in vero lor primo merito lo stil fiorentino colle più licenziose e triviali profanazioni del costume onesto”. Curioso sentimento, non profferito però dal tripode delfico. Non hanno dunque le commedie del Machiavelli altro merito che lo stil fiorentino? E perchè mille o duemila altre commedie col medesimo merito dello stil fiorentino fanno sbadigliare, {p. 61}o giacciono sepolte sotto la polvere delle biblioteche? Ma di grazia incresce al censore l’oscenità? E perchè egli parlando della rappresentazione che fecesi in Roma della Calandra del cardinal da Bibiena (assai più licenziosa della Mandragola) dice quasi scusandola, che “i papi, i cardinali e i prelati non si facevano scrupolo d’assistere a quelle licenziosità di gusto antico, perchè consecrate quasi da’ Greci e da’ Latini”? Il profano Machiavelli non poteva entrare a parte di questa medesima indulgenza? E lasciando da banda l’oscenità comune ad entrambe, pensa egli mai che il merito della Calandra sorpassasse quello della Mandragola? Oh di quanto s’ingannerebbe, se ciò pensasse! L’arte, la condotta e la forza comica dell’azione, l’energia e la vivacità del colorito de’ caratteri tratti bellamente dal vero, una grata sospensione, una piacevolezza non fredda, non insipida, non istentata, ma spiritosa, naturale, salsa, obbligano gl’imparziali a distinguere le commedie del Machiavelli dalle intere biblioteche teatrali, ed a collocarle tralle ottime del teatro italiano di quel secolo. Lo stesso sig. ab. Bettinelli, per rendergli giustizia, ciò non dee ignorare; ma egli {p. 62}può noverarsi tra certi eruditi, i quali censurano tal volta più per singolarizzarsi allontanandosi dall’avviso comune, che per intimo senso e per amor del vero e del bello che gli determini ne’ loro giudizj letterarj.

ADDIZIONE IV*
Asserzione del sig. Denina su i drammi de’ Commedianti. §

L’Ab. Carlo Denina (Discorso della letter. part. 1, art. 26) afferma che dalla schiera de’ commedianti sogliono per l’ordinario uscir fuori i migliori poeti drammatici; la qual cosa a me sembra che non vedasi verificata in verun paese. Lasciamo stare i Greci, de’ quali non avrà egli certamente preteso parlare, perchè tra questi non vi fu schiera di commedianti, nella quale non entrassero gli stessi poeti, confondendosi gli uni negli altri nel libero popolo {p. 63}ateniese, quando gli autori non mancavano, come Sofocle, di voce e di abilità per rappresentare. Nè anche si verifica la sua asserzione ne’ Latini. Si ha memoria per ventura che i comedi e i tragedi, Roscio, Esopo, Ambivione &c. avessero sulla scena latina prodotte commedie e tragedie eccellenti, superando nelle prime Cecilio, Lucilio, Nevio, Plauto, Afranio, Terenzio, e nelle seconde Cesare, Ennio, Pacuvio, Accio, Varo, Mecenate, Tito Vespasiano, Germanico, Ovidio, Stazio, Seneca? Quanto a’ moderni molto più lontana dal vero parrà la sua proposizione. Quale commediante in Francia (ove se n’eccettui il solo La Nue che compose il Maometto II) ha composte tragedie stimabili? quale che possa porsi in confronto de’ due Corneille, del Racine, del Piron, del Crebillon, del Voltaire? Per le commedie non vi fu tra tanti e tanti commedianti che ne composero eccellenti, se non che il celebre Moliere che colse palme nella scena comica, ed il Dancourt assai debole attore, che pur dee contarsi tra’ buoni autori; là dove contansi fuori di quella classe tanti degni autori di prima nota, come il Des Touches, il Regnard, il DuFreny, il Saint-Foi, il Piron, il Gresset, e cento altri. {p. 64}Qual commediante nelle Spagne (senza eccettuarne Lope de Rueda che fu il Livio Andronico di quelle contrade) si è talmente accreditato che contar si possa tra’ migliori autori al pari del Vega, del Calderon, del Moreto, del Solis, del Roxas &c.? Nella Gran Brettagna si ammirano i due pregevoli autori Shakespear e Otwai che si distinsero pur come attori; ma le loro tragedie e commedie piene di bellezze ugualmente che di mostruosità debbono forse reputarsi migliori di quelle del Dryden, dell’Adisson, del Congreve, di Stèele, di Van Broug, di Wycherley? Garrich che fu l’Esopo dell’Inghilterra come attore, può per li suoi drammi gareggiare co’ nominati? Certo è poi che fra gl’Italiani la decisione del Denina, che sì franco decreta in tutto quel suo discorso, è molto più manifestamente lontana dalla verità. La storia che abbiamo tessuta degli autori tragici e comici del XVI, e de i due seguenti, dimostra l’immenso spazio che separa Ariosto, Bentivoglio, Machiavelli, Bibiena, Trissino, Rucellai, Tasso, Manfredi, Torelli, Bonarelli, Dottori, Caro, Oddi, Porta, Ambra, Secchi ed altri molti, dal Calmo, dal Ruzzante, dal capitan Coccodrillo, dal Lombardo, dallo Scala, {p. 65}i quali o non mai osarono porre il piede ne’ penetrali sacri a Melpomene, o vi entrarono strisciando pel suolo come l’Andreini, e nella stessa commedia consultarono più la pratica scenica e i sali istrionici, che l’arte di Talia ed i passi dati da Menandro e da Terenzio, contenti del volgare onore di appressarsi alle farse e alle Atellane.

ADDIZIONE V*
Imposture nelle edizioni de’ libri. §

Due edizioni così vicine inducono a sospettare che le dedicatorie fossero state due, ed una sola l’edizione. A’ nostri dì abbiamo noi pur veduto più di un esempio di simili giuochetti, nè solo in cose letterarie dilettevoli, ma in libri dida scalici e serii. Non vedemmo una parte delle copie impresse di un primo tomo {p. 66}di giurisprudenza feudale dedicata ad un personaggio che dimorava in Palermo, ed un’ altra parte di esse copie indirizzata ad un altro in Napoli? Non si è altra volta procurato di dare ad intendere al pubblico, col cambiare il solo frontispizio di un libro, di essersene multiplicate l’edizioni?

[Errata] §

Si aggiungono gli errori tipografici del tomo III colle correzioni.


ERRORI

 

CORREZIONI

pag. 54 Menestrier

 

Menetrier, e così sempre si corregga

pag. 209 fia

 

sia

Occorrendo di reimprimersi questo tomo III si supprima l’avviso segnato nelle pagine 310, 311, e 312, dovendosi ne’ luoghi notati inserire le Addizioni surrisetite.

{p. 67}

TOMO IV. LIBRO V §

ADDIZIONE I*
Analisi dell’Hamlet di Shakespear. §

Non ci addosseremo mai la fatiga per noi singolarmente ardua troppo di presentar partitamente analisi compiute de i drammi di questo maraviglioso Inglese, ben persuasi della difficoltà che incontrano, non che altri, non pochi Inglesi medesimi in bene afferrarne lo spirito e l’energia dello stile e la grandezza de’ pensieri. Sceglieremo non per tanto tralle poche nominate l’Amlet, per esporne la tessitura e le principali bellezze, senza omettere qualche scena {p. 68}che ci sembri disdicevole alla gravità tragica.

Atto I. Alcuni soldati che fanno la guardia avanti del real palazzo del re di Danimarca, si trattengono sull’apparizione di una fantasima spaventevole. Esce un Morto, in cui essi ravvisano le sembianze del defunto re Amlet vestito di armi, il quale nel voler parlare al cantar del gallo sparisce.

La scena si cangia nell’interiore della regia. Il re attuale e la regina madre del giovine principe Amlet trattano di alcuni affari del regno; indi il re accorda a Laerte la licenza di tornare in Francia. Cade appresso il discorso sulla profonda tristezza di Amlet, cui danno consigli ed insinuazioni perchè si sforzi di sollevarsi. Amlet restato solo riflette fra se alla criminosa precipitazione di sua madre che apdena passato un mese dalla morte del re suo marito che tanto l’amava, si è congiunta in matrimonio col fratello del re, che ora ne occupa il trono. Sopravvengono Orazio e Marcello due de’ soldati che videro l’ombra del trapassato re. Dice Amlet che sempre l’ha presente; Orazio che egli l’ha veduto effettivamente la scorsa notte, e ne racconta l’apparizione. Amlet dopo varie domande risolve {p. 69}di recarsi nel luogo dove apparve.

Sala della casa del vecchio Polonio. Laerte prende congedo da sua sorella Ofelia e da Polonio suo padre, vecchio cicalone che con molte parole scagliando massime ad ogni tratto, lo spinge ad imbarcarsi. Polonio sul medesimo stile prosegue colla figlia in proposito del principe Amlet che l’ama, versando copiosamente regole e sentenze morali in tuono famigliare, e le impone di più non parlargli.

Torna la scena del muro della regia, dove giugne Amlet accompagnato da i due soldati. Si ode strepito d’istromenti musicali dalla reggia, perchè il re stà in tavola banchettando e bevendo. Amlet in tal proposito moralizza a lungo. Appare il Morto. Amlet gli domanda, se sia Amlet suo padre, e perchè dal sepolcro torni a vedere i raggi della luna? Il Morto gli accenna di seguirlo ed Amlet gli va appresso. Giungono in parte più remota.

“Aml.

Dove vuoi tu portarmi? parla; già io non passo più oltre.

“Mort.

Mirami.

“Aml.

Ti miro.

“Mort.

E’ già quasi giunta l’ora di dovermi restituire alle tormentose fiamme.

{p. 70}

“Aml.

Anima infelice!

“Mort.

Non compatirmi: ascolta soltanto attentamente ciò che son per rivelarti.

“Aml.

Parla: ti prometto ogni attenzione.

“Mort.

Ascoltato che mi avrai, promettimi vendetta.

“Aml.

Perchè?

“Mort.

Io sono l’anima di tuo padre destinata per certo tempo a vagar di notte, e condannata al fuoco durante il giorno, affinchè le fiamme purifichino le colpe che commisi nel mondo . . . . . Se mai sentisti tenerezza per tuo padre . . .

“Aml.

Oh Dio!

“Mort.

Vendica la sua morte; vendica un omicidio crudele e atroce.

“Aml.

Omicidio?

“Mort.

Sì, omicidio spietato, il più ingiusto e il più fraudolento . . . . .”

Il Morto racconta, come suo fratello innamorato della moglie e del regno suo, lo fece avvelenare mentre dormiva nel giardino versandogli nell’orecchio certo velenoso licore sì contrario al sangue dell’uomo, che a guisa di mercurio s’insinua, penetra tutte le vene, gela il sangue, e ammazza prontamente. Così restò {p. 71}morto Amlet, ed il regno e la sposa fu occupato dall’incestuoso e tiranno fratello. Soggiugne:

“Mort.

Orribile malvagità! orribile! Deh se ascolti la voce della natura, non voler soffrire, che il talamo reale di Danimarca sia il letto dell’infamia e dell’incesto. Avverti però di qualunque modo tu ti accinga all’impresa a non macchiar l’anima con un delitto incrudelendo contro tua madre. Lascia che la punisca il cielo; lascia che quelle punte acute che tiene fitte nel petto, la feriscano e la tormentino. Addio, addio, ricordati di me.”

Amlet con espressioni ed invocazioni di ogni maniera mostra l’orrore onde è preso, indi dice:

“Aml.

Ricordarmi di te? Sì, alma infelice; scancellerò dalla mia fantasia ogni altra idea ed impressione, eccetto il tuo comando; sì, lo giuro.”

Vengono i soldati, Amlet fa che giurino di non palesare a veruno l’apparenza di quella notte . . . Parte con essi dicendo fra se: “La natura è sconcertata . . . . iniquità esecrabile! . . . oh non fossi nato mai a doverla punire!”

{p. 72}

Atto II. Polonio in sua casa spedisce un messo al figlio in Parigi con tante ammonizioni mischiate d’inezie e minutezze, che dimostra la dipintura di un vecchio che cinguetta in tuono famigliare, basso talvolta, e proprio della scena comica. Viene sua figlia Ofelia, e gli narra la novità di Amlet divenuto folle.

Nella Reggia il re e la regina con cortigiani trattano della mutazione di Amlet impazzito. Arriva Polonio, il quale gravemente ragiona sulla di lui follia, dicendo: Vostro figlio è pazzo, e tale lo chiamo perchè (a ben riflettere) altra cosa non è la follia se non che uno è interamente matto. E’ questa la ragione Plautina, quelli sono cattivi i quali non sono buoni. Viene Amlet leggendo; Polonio gli domanda come stia; bene, risponde Amlet; mi conoscete? (replica Polonio), ed Amlet, perfettamente; tu sei il pescivendolo. E prosegue dicendo cose che sembrano totalmente fuori di ragione, benchè vi si osservi certo metodo e molta acutezza. Nel medesimo tenore parla con Guildenstern e Rosencrantz, i quali d’ordine reale gli parlano per leggere nell’interno del suo cuore. Il discorso passa in seguito su i commedianti da esso incontrati per via, che compongono la compagnia {p. 73}tragica di Elsingor. Essi in fatti sopraggiungono. Amlet parla ad alcuni di essi con famigliarità; vuol poi sentir declamare una scena sulla morte di Priamo. Egli stesso prima ne declama con forza ed energia alcuni versi; indi ordina all’attore di proseguire, come eseguisce. Domani, gli dice poi, rappresenterete la Morte di Gonzago, cui io aggiugnerò alquanti versi; e gli fa partire. Amlet resta riflettendo al potere della rappresentazione, per cui un attore a suo grado dirige gli affetti, trasforma il volto, piagne, affievolisce la voce, e si compone ad esprimere la passione per commuovere. “Or che farebbe (soggiugne) se avesse i medesimi motivi di dolore che io tengo? E pure io disgraziato rimango stupido e muto a mirare i miei torti? . . . Altro adunque io non so fare che piagnere? . . . Ma no: udii dire che assistendo talvolta alla rappresentazione di una favola alcune persone molto colpevoli, sono state così vivamente ferite per l’illusione del teatro, che alla presenza di tutti hanno manifestati i loro delitti; perchè la colpa, benchè priva di lingua, sempre si manifesta quando men si attende. Io farò che quegli attori rappresentino avanti di mio {p. 74}zio qualche scena che rassomigli alla morte di mio padre. Così lo trafiggerò nella parte più sensibile del cuore; osserverò i suoi sguardi, se cangia di calore, se palpita; so quello che dovrò far io. L’apparizione che mi si presentò, potrebbe essere opera di spirito infernale cui non è difficile il trasformarsi; chi sa, se essendo sì poderoso su di una perturbata fantasia, avesse voluto valersi della mia debolezza e malinconia, per ingannarmi, e machinar la mia ruina . . .! Io acquisterò prove più solide, e la rappresentazione ordita sarà il lacciuolo per sorprendere e avviluppare la coscienza del re”.

Atto III. Reggia. Il re desideroso di leggere nell’interno del nipote si tiene in disparte per intendere ciò che dica Amlet ad Ofelia. Egli viene dicendo fra se: “Esistere, o non esistere: questa è la questione. Qual è più degna impresa dell’animo, tollerare i colpi penetranti dell’avversa fortuna, ovvero opporsi fortemente a questo torrente di calamità? Morire è dormire. Non altro? . . .” Prosegue lungamente su tal punto. Al fine si abbocca con Ofelia, ma il loro dialogo delude le speranze del re nascosto, il quale ne deduce che non {p. 75}è già amore che cagiona i di lui trascorsi e con chiude così: “Qualche idea egli tiene nell’animo che fomenta la sua tristezza, la quale può produrre alcun male”. Egli pensa evitarlo facendolo partir subito per Inghilterra. Condiscendendo però alla proposta di Polonio, acconsente che prima Amlet parli con la regina dopo la rappresentazione, per tentare di trargli dal seno il suo secreto. Polonio si esibisce ad ascoltar occulto quanto diranno.

Sala. Amlet dà varj avvertimenti a’ commedianti per ben rappresentare; indi uscendo Orazio, di cui egli si fida, gl’ingiunge, che mentre si rappresenta la scena da lui aggiunta, tenga egli l’occhio attento su di suo zio; l’esamini con ogni cura; dice che egli farà lo stesso; uniranno poi le loro osservazioni per giudicare ciò che indicherà il di lui esteriore.

Viene il re, la regina ed altri. Si suona una marcia danese. Amlet ripiglia la finzione della follia. Si dà principio alla rappresentazione muta a suono di trombette.

Gli attori che sostengono le parti del re e della regina del dramma, si abbracciano affettuosamente; la regina s’inginocchia con gran {p. 76}rispetto; il re la fa alzare, e piega la testa sul petto della sposa, indi si pone a giacere in un letto di fiori, e si addormenta; la regina si ritira. Un altro attore si avvicina al re, gli toglie la corona, la bacia, versa nel di lui udito un licore avvelenato, e parte. Torna la regina, e trovato morto il marito manifesta un gran dolore; s’uccisore con altri due ritirano il cadavere. L’assassino fa premure affettuose alla regina, ella resiste un poco, al fine ne ammette l’amore. Ciò vedendo Ofelia dice ad Amlet, che è questo?

“Aml.

Questo è un assassinamento.

“Ofel.

Al parere adunque questa scena muta contiene l’argomento del dramma”.

Si finge nella prima scena che il re e la regina esprimano i loro affetti. Il re mostra timore, che se egli venisse a morire, ella ne prenderebbe un altro. Io! risponde la regina,

Io! . . Che al tuo fato io sopravviva e d’altri
Sposa io diventi? E creder puoi capace
Di tradimento tal la tua diletta?
No: chi un altro ne impalma, il primo uccise.

A questo punto il re Danese commosso e colpito dice ad Amlet:

“Re.

Ti sei bene informato dell’azione di {p. 77}questo dramma? Tiene alcuna cosa di mal esempio?

“Aml.

Non signore, che mal esempio? tutto è una finzione, un veleno ma finto; oibò! che mal esempio?

“Re.

Che titolo porta questa favola?

“Aml. La Trappola.

E’ un titolo metaforico. Il Duca si chiama Gonzago, e la sua consorte Battista”.

Viene un commediante ad avvelenare quel che dorme, ed Amlet dice: “Vedete? Ora l’avvelena nel giardino, per usurpargli lo stato . . . Tosto vedrete che la sposa s’innamora dell’uccisore”. A ciò il re si alza; tutto resta sospeso; egli parte. Ahi! Orazio, dice Amlet; quanto disse lo spirito è troppo certo! Polonio lo chiama per parte della regina; egli manda tutti via, e parte.

Sala del palazzo. Il re ordina a Rosencranta e a Guildenstern di partire per Inghilterra portando secoloro Amlet. Si pone indi ad orare; riflette ai suoi eccessi, fida nella misericordia divina, senza però pensare a risarcire i danni e a discendere dal trono. Arriva Amlet, l’osserva, va per ferirlo; pensa poi che se l’ammazza mentre stà orando, gli assicura la gloria {p. 78}eterna. No, dice; l’ucciderò quando gozzovigli, giuochi, bestemmi, e dorma ubbriaco, affinche l’anima sua rimanga nera e maladetta come l’inferno che dee accoglierlo. Va dalla madre.

Appartamento della regina. Ella parla con Polonio, il quale vedendo venire Amlet, si ritira per ascoltare.

“Aml.

Che mi comandate, o Madre?

“Reg.

Amlet, troppo hai tu offeso tuo Padre.

“Aml.

Voi, Madre, troppo avete offeso il mio.

“Reg.

Tu rispondi con troppa libertà.

“Aml.

E voi mi domandate con troppa perversità.

“Reg.

Che vuol dir ciò, Amlet?

“Aml.

E che vuol dir ciò, Madre?

“Reg.

Ti dimentichi di chi son io?

“Aml.

No, per Dio, che non mi dimentico che siete la regina congiunta in matrimonio col fratello del vostro primo marito; e al ciel piacesse che così non fosse. Ah! sete mia Madre.

“Reg.

E bene, io ti porrò alla presenza di chi ti faccia parlare con più senno.

“Aml.

Venite, sedete; di quì non si parte, {p. 79}non vi moverete, prima che vi ponga innanzi uno specchio, in cui ravvisiate il più occulto della vostra coscienza.

“Reg.

Oimè! Che pensi di fare? Vuoi tu ammazzarmi? . . . . Chi mi ajuta, Cieli! . . .

“Pol.

Ajuto chiede! . . . oh! . . .”

Amlet si accorge di essere inteso, pensa che sia il re che stia ascoltando, finge che sia un topo, e lo ferisce; Polonio grida, son morto. Amlet torna alla madre, l’obbliga ad ascoltarlo; le rimprovera l’assassinamento del padre, ed il di lei matrimonio col regicida. La regina confusa, compunta, abbattuta, confessa il suo torto, e lo prega a più non dire. Esce il Morto veduto da Amlet, e non dalla regina.

“Aml.

Oh spiriti celestiali, difendetemi, copritemi colle ali vostre! Che vuoi, ombra veneranda?

“Reg.

Oh Dio! egli è fuor di se!

“Aml.

Vieni forse a riprendere la negligenza di tuo figlio, che indebolito dalla compassione e dalla tardanza obblia l’importante esecuzione del tuo terribil precetto? Parla.

“Mort.

Non obbliarla: vengo a riaccendere il tuo ardore quasi estinto.”

Ordina poi che parli alla madre piena di sp avento.

{p. 80}

“Aml.

A che pensate, o Madre?

“Reg.

Oimè! A che pensi tu che così dirigi i tuoi sguardi dove non v’è cosa alcuna . . . A chi miri?

“Aml.

A lui, a lui; vedetelo . . . . qual pallida luce esce da lui! Ahi di me! la sua presenza e il suo dolore basterebbe a commuovere le stesse pietre. Ahi! non mirarmi così; quest’aspetto contristato può distruggere i miei disegni crudeli, e far correr lagrime in vece del sangue che domandi.

“Reg.

A chi dici tu queste cose?

“Aml.

Nulla vedete in quel canto?

“Reg.

Nulla, e pur vedo tutto quello che vi è.

“Aml.

Nè anche ascoltaste nulla?

“Reg.

Nulla fuor di quello che noi stiamo parlando.

“Aml.

Mirate lì, lì . . . lo vedete? . . . ora si allontana . . .

“Reg.

Chi mai?

“Aml.

Mio Padre, mio Padre co’ suoi medesimi arnesi . . . vedete . . . ora va via.”

La madre stima tutto ciò illusione pura della disordinata fantasia del figlio. Amlet la disinganna mostrando tutta la sensatezza, e la commuove. {p. 81}Le dà poscia sani consigli per separarla a poco a poco dal colpevole suo nuovo sposo . . . Di poi ripigliandosi le dice, che anzi nol faccia; ed ironicamente le insinua di tosto recarsi a lui, di porsi nel suo letto, e fralle sue braccia di scoprirgli che la pazzia di Amlet è finta, e che tutto è un artificio. La regina l’assicura che di ciò ella non è capace.

Atto IV. Intende il re l’uccisione di Polonio, e risolve senz’altro di mandare Amlet in Inghilterra per sicurezza comune. Il re fa venire Amlet alla sua presenza, e gl’impone che si accinga subito a partir per Inghilterra. Ordina che si porti il cadavere di Polonio alla Cappella. Orazio fa sapere alla regina che Ofelia è divenuta pazza. Ella stessa viene cantando, e dà indizii che la morte del padre ha cagionato lo sconcerto della ragione di lei; ma ad ogni domanda che le si fa risponde con un’ arietta musicale, e poi parte.

Pieno il re di timori e di sospetti per le mormorazioni del popolo, accenna che è venuto di Francia il fratello di Ofelia; si occulta. Si ode strepito grande. Un Cavaliero chiama la guardia, e avvisa al re che fugga, perchè il volgo va seguendo Laerte furibondo, {p. 82}e l’acclama re. Vengono infrante le porte. Entra Laerte pieno di furore con disegno di vendicare la morte di suo padre, che ha cagionata anche la follia di Ofelia. Il re gli parla, assicurandolo di non aver egli avuta colpa veruna nella morte di Polonio. Lo prega ad ascoltarlo da parte, protestando che se lo trovasse colpevole, gli cederebbe di buon grado il regno; ma se conoscerà la sua innocenza, si uniranno insieme cercando entrambi ogni più opportuno sollievo al suo dolore. Partono.

Esce Orazio, cui due marinai presentano alcune lettere. Orazio legge; è una lettera di Amlet che dice:

“Orazio, come avrai letta questa lettera, dirigerai gli uomini che te la recano, al re, pel quale ho dato loro un altro plico. Dopo due giorni di navigazione fummo inseguiti da un pirata assai bene armato. Il nostro legno poco veloce ci obbligò a porre tutta la nostra speranza nel valore; gettaronsi i rampiconi; io prima di tutti saltai nell’imbarcazione nemica, la quale nel tempo stesso si dispiccò dalla nostra, ed io rimasi solo e prigioniero. Essi mi hanno trattato con moderazione come ladri compassionevoli, {p. 83}ed io gli ho ben compensati. Tu fa in modo, che il re riceva le carte che gli mando, indi vieni a vedermi con tanta diligenza come se fuggissi dalla morte. Saprai arcani che ti renderanno attonito. Gli stessi che ti hanno consegnata la lettera, ti condurranno da me. Guildenstern, e Rosencrantz hanno seguito il lor camino verso Inghilterra; molto debbo dirti su di essi. Addio; tuo sempre Amlet”. Orazio parte co’ marinai per eseguire i di lui comandi.

Il re ha raccontata a Laerte la verità dell’accaduto; gli dice poi di non aver potuto vendicare ancora il sangue del di lui padre nell’uccisore Amlet, sì per l’amore che gli tiene la madre, come per l’affezione del popolo. L’esorta a fidarsi di lui.

Un messo reca lettere del principe pel re e per la madre. Il re leggendo intende che Amlet è tornato nudo e solo, e che verrà domani. Palesa poi a Laerte un espediente che gli è sovvenuto per disfarsi di Amlet. Sul supposto che verisimilmente egli ricuserebbe d’imprendere un nuovo viaggio, per farlo morire in guisa che la sua morte sembri casuale alla madre stessa, propone che godendo Laerte gran {p. 84}fama di destrezza nel maneggiar la spada, ed essendo Amlet pieno di opinione di se stesso per la perizia della scherma, il re pensa di fargli susurrare all’udito di tal sorte il valore di Laerte, che si darà luogo ad una scommessa, altri tenendo la parte di Laerte, altri del principe. Preventivamente si prepareranno alcuni fioretti colla punta scoperta, che sarà avvelenata, e Laerte destramente ne prenderà uno per se; così potrà ferirlo, e la sua morte si attribuirà al solo caso. Aggiugne il re che per assicurare il colpo, farà anche ammanire una tazza pur con veleno, affinchè se venisse a fallire il fioretto, Amlet stanco ed affaticato chiedendo da bere resti per la tazza ucciso. La regina viene a dire che Ofelia tratta dalla sua follia si è affogata nel fiume vicino, la qual cosa vie più accende la furia di Laerte.

Atto V. Cimiterio. Aprono l’atto due becchini parlando di Ofelia che si ha da sotterrare in terra sacra, dicendo l’uno che ciò stà ben disposto dal giudice, l’altro che stà mal disposto, perchè ella si è ammazzata da se coll’affogarsi: scena comica bassa. Cade il loro discorso sulla nobilità di coloro che maneggiano la zappa, come becchini, zappatori &c., i {p. 85}quali esercitano la professione di Adamo.

Esce Amlet con Orazio. Un becchino zappa e canta. Amlet osserva l’insensibilità di colui, che nell’aprire una sepoltura stà cantando, Il becchino getta al suolo una testa di un morto; Amlet riflette che quella potrebbe appartenere a qualche uomo di stato, che vivendo pretese ingannare il cielo stesso; ovvero a qualche cortigiano infingevole; o anche a qualche cavaliero che es altar soleva il cavallo di un altro, perchè intendeva di chiederglielo in prestito &c. Dopo simili osservazioni va a parlare a’ becchini, e la conversazione riesce lunga e comica per le loro risposte, e morale per le riflessioni di Amlet.

Viene il re e la regina, ed il corpo di Ofelia accompagnato da’ sacerdoti &c. Si copre di terra il corpo. Laerte attacca briga con Amlet. Partono tutti, restando Amlet ed Orazio. Il principe racconta che mentre dormivano Rosencrantz e Guildenstern egli entrò leggermente, e s’impossessò delle loro carte, tornò nel suo camerino, aprì i dispacci, e scoprì il tradimento che gli faceva il re, dando ordine preciso di ammazzarlo per assicurar la tranquillità della Danimarca e dell’Inghilterra. Ne mostra {p. 86}l’ordine ad Orazio. Aggiugne che egli scrisse in nome del re di Danimarca a quel d’Inghilterra di far per quiete comune morire immediatamente i due messaggi; e suggellò la carta col sigillo del padre che seco avea, sul quale erasi formato quello che usa il presente re. Fatto ciò, chiuso di nuovo il plico, lo ripose nel luogo stesso, senza che siasene osservato il cambio. Al dì seguente avvenne il combattimento navale già additato nella lettera scritta ad Orazio. Un cortigiano adulatore viene a manifestare la scommessa fatta dal re a favore di Amlet di sei cavalli barbari contro sei spade francesi co’ pugnali corrispondenti. Il re scommette, che in dodici assalti Laerte darà ad Amlet solo tre colpi, e Laerte s’impegna a dargliene nove. Amlet accetta l’impegno, e ordina che si rechino in quella sala i fioretti. Altro messo del re vuol sapere, se Amlet intenda assaltar subito con Laerte. Amlet risponde che se quell’ora è comoda al re, egli è pronto. Amlet confessa ad Orazio di sentir qualche cosa nel suo cuore che l’affanna. Orazio vorrebbe dissuaderlo dall’impresa. Amlet dice, che egli si ride di tali presagj; pur nella “morte (aggiugne) di un uccellino interviene {p. 87}una provvidenza irresistibile; se è giunta l’ora mi, bisogna attenderla . . . . tutto consiste in trovarsi prevenuto allorchè giunga; se l’uomo al terminar di sua vita ignora sempre ciò che potrebbe avvenire dapoi, che importa che la perda presto o tardi? sappia morire.”

Viene il re e la regina con tutta la corte. Il re presenta Laerte ad Amlet, il quale gentilmente gli cerca perdono, discolpando il passato col disordine della sua ragione. Laerte ed Amlet prendono ciascuno il suo fioretto, e si dispongono all’assalto. Il re ordina che si copra la mensa di bicchieri colmi di vino. Se Amlet dà la prima o la seconda stoccata o nel terzo assalto colpisce l’avversario, ordina che si scarichi tutta l’artiglieria. Il re berà alla salute di Amlet buttando nel bicchiere una onice più preziosa di quella che hanno usato i quattro ultimi sovrani Danesi. Incomincia l’assalto. Amlet dà la prima stoccata a Laerte; il re bee, e vuole che egli beva ancora: Amlet vuol prima fare il secondo assalto, e dà un altro colpo a Laerte. La regina vuol bere alla salute del figlio; il re cerca impedirlo; ella si ostina, e bee; il re si contrista . . . Tornano {p. 88}i combattenti all’assalto; si colpiscono entrambi, e restano feriti. La regina va mancando. Il re vuol far credere che al vedere il sangue sia svenuta; ma ella grida: no, no, la bevanda, la bevanda . . . Amlet, sono avvelenata . . . . Amlet ordina che si chiudano le porte, e che si trovi il traditore: Laerte morendo dice che il traditore è presente. “Tu sei morto, Amlet, non ti resta che mezz’ora di vita; la punta del ferro che tieni in mano è avvelenata, e . . ., mi ha morto; io ne avea una simile, e tu sei morto; tua madre ha bevuto la morte in quel vino . . . non posso più . . . il re . . . il re è il malvagio autore di tante stragi”.

“Aml. Questa punta è avvelenata? E bene faccia il suo effetto . . . Trafigge il re. . .” Amlet muore. Termina la tragedia coll’arrivo di Fortimbras il quale dice che paleserà tutto tosto che saranno esposti alla pubblica veduta que’ cadaveri, aggiugnendo l’ultima disposizione di Amlet in favore del Principe di Norvegia.

Ognuno vede la popolarità di questa favola originata dalla varietà degli accidenti, ed alcune interessanti situazioni tragiche che vi sono come la scena dell’ombra con Amlet nell’atto {p. 89}I, e l’altra di Amlet colla madre nell’atto II. Ognuno ne vede altresì la irregolarità, ed il disprezzo delle sagge regole del verisimile, Ma i dotti non meno Inglesi che stranieri convengono tutti del difettoso e del mirabile del dramma, delle bassezze e de’ gran tratti che vi si notano. Basti per tutti il sentimento di Voltaire intorno al merito dell’autor dell’Amlet il più degno di giudicarne. Shakespear (egli disse) non ha presso gl’Inglesi altro titolo che quel di divino. Pure le sue tragedie sono altrettanti mostri. Quanto può immaginarsi di assurdo, di stravagante, di mostruoso, tutto si trova in esse. Sulle prime io non sapeva intendere, come gl’Inglesi potessero ammirare un autore così stravagante; ma in progresso mi accorsi che aveano ragione . . . . Essi al par di me vedevano i falli grossolani del loro autor favorito, ma sentivano meglio di me le sue bellezze, tanto più singolari per esser lampi che brillavano in una oscurissima notte. Tale è il privilegio del genio; egli corre senza guida, senz’arte, senza regola, per incognite strade; si smarrisce alle volte, ma lascia dietro di se tutto ciò che non è se non esattezza e ragione”.

{p. 90}

Abbiamo osservato nel parlar de’ drammatici Italiani l’esattezza di tanti industriosi scrittori intenti a far risorgere l’arte teatrale de’ Greci. Osserviamo ora in Shakespear la mancanza di erudizione, di emuli, e di modelli supplita dall’ingegno che lo scorgeva a riflettere sull’uomo, e studiare i movimenti del proprio cuore, e ritrarre le passioni dal vero. Egli non conobbe l’arte, e copiò vigorosamente la natura. Che tragico incomparabile non diverrebbe chi sapesse ben congiungere l’uno e l’altro studio!

Ma questo gran tragico studiando la natura mancò di giudizio nell’imitare ciò che nelle società si riprenderebbe. Non è inverisimile* &c.

{p. 91}

ADDIZIONE II*
Su i piccioli critici Spagnuoli. §

Sull’esperienza del passato (io lo prevedo) non imiteranno la nostra ingenuità, come non l’hanno imitata finora, gli apologisti Spagnuoli; e se mai s’intalenteranno, scossi al fine dalla mia storia teatrale, di compilarne anch’essi una particolare del proprio teatro, che prima non ebbero in verun conto, essi del Signorelli non saranno menzione, se non per declamar contro di lui allorchè non dice a lor modo. Il meno impudente la spoglierà, la prenderà per iscorta, e mostrerà poi di averla appena veduta citata. Gl’insolenti la citeranno per criticarne qualche data o nome scambiato, o errore di ortografia nelle parole castigliane; ed allora mettendo en casa el buen dia per accreditarsi di amigos del pais, inveiranno contro di lui con personalità {p. 92}villane immaginate e con motti presi dalla feccia de’ quartieri di Lavapies, de las Maravillas, e de San Lorenzo sulle orme del poetastro Ramòn La-Cruz e del petulante ludimagistro La Huerta.

ADDIZIONE III*
Sulla Celestina. §

La qual notizia rilevasi dall’edizione fattasene in Valenza nel 1529.

ADDIZIONE IV**
Altre commedie del Naarro. §

Non minori assurdità e incoerenze si rinvengono nella Tinellaria, oltre di trovarvisi l’indicata mescolanza di linguaggi, altri parlando {p. 93}in italiano, altri in francese, altri in portoghese. L’Imenea potrebbe dirsi delle otto la meno spropositata, ma essa in altro non consiste che in una languida filza di scene insipide e mal cucite, nelle quali si ripetono varie situazioni, si ritraggono i caratteri senza niuna verità, e l’azione si scioglie, non perchè trovisi giunta al segno di svilupparsi per necessità, ma perchè il poeta ha stimato arbitrariamente di conchiudere, facendo che quel marchese, il quale senza ragione si opponeva al matrimonio di Febea sua sorella con Imeneo che l’ama, senza ragione ancora poi vi consenta, tuttochè mutata non sia o la situazione, o lo stato, o le circostanze de’ personaggi. La Giacinta per consenso pur de’ nazionali preoccupati è un dialogo insulso, che a Naarro piacque di chiamar commedia. Simili osservazioni ci apprestano le altre commedie della Propaladia; ma non vogliamo abusare della pazienza de’ leggitori.

{p. 94}

LIBRO VI §

ADDIZIONE I*
Sullo stile del Caraccio. §

Chi non voglia arrogarsi una magistrale autorità che infastidisce in vece di persuadere, convien che dimostri ciò che asserisce. E per dimostrare la sublimità e la sobrietà dello stile del Caraccio, basta inviare i leggitori al di lui poema l’Impero vendicato, e al Corradino stesso. Intanto per chi ne volesse un saggio recheremo quì un passo della scena quarta del I atto in cui l’autore rileva i terrori notturni della Regina, calcando le tracce di Alvida nel Torrismondo del gran Torquato. Ella dice:

Lassa che appena i languidi occhi al sonno
Chiudere io vò, che immagini funeste
Mi rappresenta il sonno, e larve orrende
{p. 95}
Mi rompono il riposo e la quiete.
Spesso veder mi sembra un ampio mare
Da venti scosso e in esso errar dispersi
Arbori e gabbie di spezzate navi,
E de la gente udir le strida e i pianti
Che percuotono i legni, o ingoian l’onde.
E del figlio talor la voce io sento
In un profondo baratro caduto
Da se medesmo, ed io con tanta fretta
Spingo le incaute mani a dargli aita
Che il ricopro di sassi e di ruine.
Talor veggio catene e ceppi e scuri
E di funeste carceri le mura
Grondan tutte di sangue.

Vediamone ancora un altro frammento della scena terza del III, in cui Corradino avendo saputa la deliberazione di Carlo di farlo morire, dice a Federigo:

Solo mi duol che a l’infelice Madre
Venuta insin da la Suevia a Pisa
Per me suo desiato unico figlio
Converrà trista e sola or far ritorno.
Ma pregherò (se trai nemici i prieghi
Loco aver pon) che così tronco almeno
Il cadavere mio le si conceda,
Sovra di cui sfogar l’acerba doglia
{p. 96}
La sventurata possa e consolarsi
Almen co’ funerali ultimi ufficj . . .
E prego te se quinci avrai l’uscita
Libera, come spero e come credo
(Che in te non han d’incrudelir cagione)
Che vogli de l’afflitta illustre donna
Aver cura e pietate e quella parte
Che manca in me d’ufficioso figlio
Con suo vantaggio amicamente adempi
Si ch’ella paga al fin di quelle doti,
Che maggiori in te splendono e più belle
In una pari età, se stessa inganni
E in te credendo aver trovato il figlio,
De la perdita mia non senta danno.

Così scrivea il Caraccio, mentre gran parte dell’Europa, e singolarmente l’Italia, adulterato il gusto e lo stile teneva dietro alle stranezze di Lope de Vega e di Giambatista Marini e di Daniele Gasparo di Lohenstein. Per tal motivo il Caraccio col cardinal Delfino e con pochi altri sobrii scrittori, si considerarono da un Gravina, da un Crescimbeni e da altri gran letterati, come i primi ristoratori del buon gusto in Italia. Non avremmo noi quì ripetuto questo giudizio tanto vantaggioso al Caraccio, se un regnicolo pochi anni fa non avesse {p. 97}voluto asserire in una prefazione che lo stile di lui si risente dell’infelicità del suo tempo. Di grazia indicano veruna infelicità del seicento i passi allegati? ne indica tutta la tragedia? Ma il leggitore sarà curioso di sapere, su qual fondamento colui ciò affermato avesse. Ecco l’unica prova che ne ostentò con enfasi innanzi ad un componimento, in cui saccheggiò meschinamente il Caraccio; sono i due versi seguenti detti da un Messo nella scena prima del IV atto:

O superbia superba, o de le menti
Gonfia di vento idropisia mortale.

E null’altro (dirà il lettore)? Null’altro. Ma è questo forse un pensier falso? una metafora stravagante? una pazza iperbole? un’ antitesi puerile? Niente di ciò, come ognun vede. I Latini di miglior nota si valsero di simil pensiero in proposito dell’avarizia. L’emulator di Pindaro, seguendo il satirico Lucilio, l’usò nell’ode 2 del libro II,

Crescit indulgens sibi dirus hydrops,
Nec sitim pellit.

Gl’Italiani l’adoperarono ancora. Benedetto Menzini maestro di poetica e di gusto nella satira V disse l’avara idropisia. Ora il leggitor {p. 98}saggio sa ben distinguere un ornamento, che può essere straniero forse alla poesia scenica, da un concettuzzo falso e proprio della corruzione del secolo XVII. Sa egli però che di tali ornamenti non sempre proprj della scena molti se ne hanno non solo nel Caraccio, ma in altri celebri Italiani del XVI e in cento Francesi, e nell’istesso P. Corneille ed in Giovanni Racine.

ADDIZIONE II*
Su i preti smaschiati di Madrid. §

Nella Real Chiesa dell’Incarnazione pur di Madrid tra’ sacerdoti che vi uffiziano, trovansene quasi sempre non pochi smaschiati.

{p. 99}

ADDIZIONE III*
Nuovo teatro di Milano. §

El’altro poi assai più splendido, vasto, e bene architettato fattovi in seguito costruire per comando dell’imperadore Giuseppe II.

ADDIZIONE IV**
Sull’espulsione de’ Mori dalle Spagne. §

Che non riparò i mali dell’espulsione di un immenso popolo di Mori Spagnuoli.

{p. 100}

ADDIZIONE V*
Convitato di pietra del Zamora. §

In Ispagna si è continuato a mostrar su quelle scene fino a tanto che Antonio de Zamora non vi espose la sua commedia sul medesimo argomento trattato con minori assurdità. In Italia si tradusse quella del frate dal Perrucci siciliano.

ADDIZIONE VI**
Omissioni degli apologisti Spagnuoli. §

E Lasciando gl’innumerabili insetti del Parnasso Spagnuolo che professano di tutto ignorare, il sig. Andres le ha mai contate fralle buone della loro nazione, egli che trionfa colla Celestina alla mano? Huerta, inurbano Gongorista, che solo stava bene in Orano, le ha {p. 101}mai poste in vista? Si confrontino le loro scritture.

ADDIZIONE VII*
Esame delle tragedie del Virues. §

La gran Semiramis a buona ragione non dee reputarsi una tragedia divisa in tre atti o giornate, ma una rappresentazione de’ fatti di questa regina in tre favole separate. Nella prima giornata trattasi dell’incontro di Nino con Semiramide moglie di Mennone, cui il re propone di cedergliela; egli ricusa; il re gliela toglie per forza; e Mennone s’impicca. Dalla prima alla seconda giornata passano sedici anni, e l’azione consiste nell’esser Nino avvelenato, nel chiudersi tralle Vestali per ordine di Semiramide is figliuolo Ninia avuto da Nino, e nel coronarsi re Semiramide che per la somiglianza {p. 102}è creduta Ninia suo figliuolo. Corrono altri sei anni dalla seconda alla terza giornata, in cui si tratta della dichiarazione che fa Semiramide di esser donna, della cessione dello scettro a Ninia dichiarandosene innamorata, e della morte che ne riceve.

La cruel Cassandra contiene molti fatti e molti ammazzamenti, ed è la più spropositata delle favole del Virues. Ad eccezione di uno o due personaggi che poco figurano nella multiplicità delle azioni di tal componimento, tutti gli altri sono perversi e scellerati. Vi muojono otto interlocutori, e nello scioglimento veggonsi sulla scena cinque cadaveri; tal che lepidamente un erudito Spagnuolo soleva dire, che in vece di una tragica azione sembrava rappresentazione di una peste. Tutto in essa è sconcerto, stranezze, puerilità; nè lo stile nè la versificazione rendono tanti spropositi tollerabili.

Atila furioso non cede alle altre nelle scempiaggini e tutte le vince in atrocità. Vi muojono intorno a cinquantasei persone oltre di una galera bruciata con tutta la gente che vi è imbarcata. La furia di Attila non disapprovata dal Montiano, è poi la cosa più sciocca e ridicola {p. 103}del dramma, sembrando che Attila dovrebbe dipingersi furioso, se non come Oreste pieno di rimorsi, almeno come dominato dall’ira in estremo grado, ma non già ridicolo ed impetuoso come un pazzo.

La infeliz Marcela non è solo una specie di novella, come diceva il medesimo Montiano, ma un tessuto ci scene sconnesse, improprie, talvolta buffonesche, talvolta atroci. I personaggi per lo più sono inutili ed episodici; le inconseguenze continue; lo stile ineguale ora plebeo e della feccia del volgo, ora fuor di proposito elevato, sempre sconvenevole e lontano dalla tragica gravità, la versificazione dove pomposa, dove triviale. L’autore volle in Marcella rappresentare l’Isabella dell’Ariosto amata da Zerbino. Ed appunto nella prima parte del la favola del Virues accade a Marcella l’avventura d’Isabella che condotta da tre seguaci del suo amante resta in potere di uno di essi preso di cieco amore per lei, che allontanato con un pretesto il più forte degli altri due, ferisce l’altro. Alarico mentre Marcella dorme, manda Ismenio per procurare un cocchio, e ferisce Tersillo che ricusa di secondarlo. Marcella tenta la fuga, Alarico la trattiene, {p. 104}ma accorsi alle grida di lei alcuni banditi, Alarico fugge. Formio capo della masnada consegna Marcella a Felina, come Isabella nell’Ariosto è data in custodia alla vecchia Gabrina. Manca poi al Virues la guida del poeta ferrarese, e si avvolge nel resto in avventure mal accozzate, in bassezze e indecenze.

Elisa Dido non rappresenta questa regina amante di Enea come cantò Virgilio. La favola del Virues si aggira sul matrimonio che Jarba vuol contrarre con Didone. Ella, tuttochè piena della memoria di Sicheo, promette nella prima scena di unirsi all’Affricano. Alcuni capitani suoi vassalli che aspirano alle sue nozze, per turbare il trattato assaltano il campo de’ Mori e rimangono uccisi. L’ambasciadore moro torna a Didone, ed a nome di Jarba le presenta una spada, una corona ed un anello. Didone presso a conchiudere il suo matrimonio con Jarba torna col pensiero a Sicheo; ma pure per suo comando Jarba è introdotto in città. Questo re che non si è veduto ne’ primi quattro atti, comparisce nel V, ed il Coro apre la stanza ove dimorava Didone, e si vede questa regina trafitta dalla spada di Jarba, che ha la corona a’ piedi ed una lettera {p. 105}in mano. Jarba (che sembra venuto unicamente a leggere quel foglio, e a disporre l’esequie di Didone) comprende dalla lettera che la regina per mantenere eterna fede a Sicheo ha scelta la morte. Impone dunque, altro non potendo, a’ Cartaginesi di adorarla come una divinità, e la tragedia finisce. Tutti i cinque atti sono ripieni d’inutili, inverisimili e freddi amori de’ capitani di Dido, e di un racconto de’ suoi andati casi impertinentemente cominciato nel I atto, narrato a spezzoni ne’ seguenti, interrotto quattro volte, e compiuto nel quinto. Il Montiano affermava che in questa favola si rispettano le regole, ma per regole intende solo le unità di tempo e di luogo. Il Lampillas che senza nulla intendere di poesia, volle parlar della drammatica, stimò questa Dido una tragedia perfetta. Compete questa osservazione ad una favola, di cui tre atti almeno sono inutili, e dove Didone, senza apparire la necessità che l’astringe a promettersi a Jarba, è posta nel caso di darsi la morte per non isposarlo? Ciò è tanto più sconvenevole, quanto più Jarba, che viene in iscena sì tardi, si dimostra lontano dalla fierezza, dotato di un cuor nobile, compassionevole e {p. 106}religioso. Si dirà perfetta una tragedia, in cui Seleuco, Carchedonio, Pirro e Ismeria, personaggi totalmente oziosi, la colmano sino alla noja di declamazioni e di racconti gratuiti e seccanti? E’ argomento di perfezione, che mentre i personaggi subalterni cicalano a dismisura, Elisa, figura principale del quadro, in cinque atti recita appena 170 versi, e Jarba non men necessario all’azione è riserbato solo per lo scioglimento con sotterrar Didone? Piano così assurdo verseggiato in istile tanto lontano dalla gravità e dalla correzione, a chi poteva parer tragedia perfetta se non all’ab. Lampillas?

[Errata] §


ERRORI

 

CORREZIONI pel tomo IV.

pag. 89, lin. 2 Ayqueja

 

Ay que ya

pag. ivi lin. 7 Hallaros ha huerfanitos

 

Hallaros ha horfanitos

pag. 285, lin. 1 del corrente anno 1789

 

dell’anno 2789
{p. 107}

TOMO V. LIBRO VII §

ADDIZIONE I*
Composizioni del Mairet: meschinità del teatro
francese. §

Giovanni Mairet nato in Besanzone nel gennajo del 1604, e quivi morto nel gennajo del 1686, studiando i tragici italiani, dotato d’ingegno e di sagacità, si attenne alle regole precritte dal verisimile quasi in tutto ciò che compose. Lasciando di favellare delle sue prime tragicommedie la Criseide, la Silvia, e la Silvanira, ossia la Morta viva, egli sulle tracce del Trissino produsse la sua Sofonisba; e benchè nell’imitarlo variasse la condotta della propria favola, osservò non per tanto le tre {p. 108}unità1; ed il popolo nella rappresentanza seguitane nel 1629, ad onta de’ difetti che vi notò, e della debolezza dello stile, ne sentì il pregio, e l’applaudì. Nè dopo che lo stesso Pietro Cornelio ebbe trattato quest’argomento, il pubblico si dilettò meno della Sofonisba del Mairet2. Avvenne in fatti, che mentre rappresentavasi quella del Cornelio, molti spettatori correvano alla tragedia del Mairet, e dopo lo spazio di trent’anni in cui si andò tratto ripetendo sul teatro francese, si manteneva ancora. Scorgesi il giudizio del Mairet nelle alterazioni fatte alla storia di quella regina, facendo morir Siface in battaglia, per evitar che si vedesse Sofonisba con due mariti vivi, ed aggiungendo, per destar compassione, alla morte di Sofonisba quella di Massinissa, che secondo la storia visse sino all’estrema vecchiezza. Tralle situazioni notate come inimitabili dal generoso ingenuo P. Cornelio nella {p. 109}tragedia del Mairet, egli novera il contrasto di Scipione con Massinissa, e la disperazione di questo principe. Contuttociò lo stile del Mairet rimane assai inferiore alla sublimità di quello del Cornelio, e l’impudicizia che Siface rimprovera alla moglie, e gli artifizj ch’ella adopera per ingannarlo, offendono la decenza e la gravità tragica. Mairet compose altre due tragedie non molto inferiori alla Sofonisba, le quali si rappresentarono nel 1630, cioè la Cleopatra favola ben condotta, ed il Grande ed ultimo Solimano regolare, ed interessante, in cui l’autore afferma di essersi prefisso di vestire alla francese il Solimano del conte Prospero Bonarelli1.

{p. 110}

ADDIZIONE II*
Versi pregevoli di P. Corneille. §

Chi non sente a un tempo stesso elevarsi e commuoversi a ciò che dice Orazio al cognato Albe vous a nommè, je ne vous connois plus? Qual diletto poi, e qual maraviglia non si prova alla risposta di Curiazio,

Je vous connois encore, & c’est ce qui me tue!
{p. 111}

ADDIZIONE III*
Osservazioni sul Cinna. §

Incomparabili sono certamente questi versi, che disviluppano i sublimi sentimenti di un anima grande. Incresce non per tanto che a conseguire un pieno effetto in tutti i tempi, si oppongano le due seguenti osservazioni. L’una è che da Augusto vien Cinna troppo avvilito con dirgli: “tu faresti pietà anche a chi invidia la tua fortuna,

Si je t’abbandonnois à ton peu de merite;

per la qual cosa non ebbe torto quel maresciallo de la Feuillade, che ciò udendo esclamò; oimè! tu mi guasti il soïons amis, Cinna, potendosi bene un uomo clemente indurre a perdonare una persona spreggevole, ma non già a divenire amico di chi manca di merito e di virtù. L’altra osservazione è che l’ozioso personaggio dell’imperatrice Livia nuoce molto in questa tragedia coll’esortare Augusto ad esser clemente, perchè gli toglie il merito di quel glorioso perdono.

{p. 112}

ADDIZIONE IV*
Sul Nicomede. §

Quantunque il Nicomede non iscarseggi di difetti, nè sia argomento che si elevi alla grandezza e al terror tragico sì pel viluppo che per la qualità de’ caratteri di Prusia, di Arsinoe e di Flaminio; pure il cuor grande di Nicomede innamora, e porta la magnanimità a un punto assai luminoso.

ADDIZIONE V**
Pratica di Giovanni Racine. §

Racine nato in Fertè-Milon nel dicembre del 1639 e morto in Parigi nell’aprile del 1699, lasciò tralle sue carte il piano del primo atto di una Ifigenia in Tauride, dal quale {p. 113}apparisce che questo gran tragico moderno, prima di mettere in versi qualche favola, formatone il piano, la scriveva in prosa; e poichè ne avea disposte tutte le scene, diceva di aver fatta la tragedia, tuttochè non ne avesse composto verso veruno; ed egli avea ragione. Quindi veniva la facilità mirabile che avea nel verseggiare (facilità ignorata dall’imperito cianciatore Vicente Huerta il quale in un suo scartafaccio con impudenza indicibile asserì che Racine lavorava stentatamente) e la ragione fu indicata da Orazio,

Verbaque provisam rem non invita sequentur. Senza dubbio Racine apprese tal pratica da Menandro, il quale (come abbiamo osservato nel tomo I di questa istoria) non cominciava a comporre i versi delle sue favole prima di averne disposto tutto il piano.

{p. 114}

ADDIZIONE VI*
Marianne di Tristano Eremita. §

Tristano Eremita nato nel 1601 e morto nel 1635, mentre nell’inverno del 1636 si rappresentava il Cid1, produsse la sua Marianne, {p. 115}nella quale rappresentando la parte di Erode il commediante Mondori declamò con tal vigore ed energia, che offeso nel petto si rendette inabile a più comparire in teatro, ed indi a non molto finì di vivere. Mirabile fu il successo di questa Marianne, essendosi sostenuta a fronte del Cid per tante rappresentazioni con estremo piacer del pubblico, che la vide, senza stancarsene, riprodursi di tempo in tempo per lo spazio di quasi cento anni, come osserva il Fontenelle. Il sig. di Voltaire la rammenta con disprezzo, nè senza ragione, se si riguardi allo stile generalmente basso e sparso d’inezie, di pensieri falsi e di ornamenti stranieri alla poesia scenica. Ma il carattere di Erode dipinto con bastante forza e verità, e alcune situazioni che interessano, e l’intrepidezza di Marianne condotta {p. 116}a morire, mostrano che Tristano meritò in certo modo gli applausi che riscosse da’ Francesi di quel tempo.

ADDIZIONE VII*
Sulla Morte di Solone. §

Si crede che appartenga a questo secolo la Morte di Solone, tragedia di cui s’ignora l’autore non mentovata dagli scrittori drammatici di quel tempo, e non rappresentata mai nè in francese nè in italiano. Può veramente accordarsi a’ compilatori francesi della Picciola Biblioteca de’ Teatri, che vi si veggano sparsi quà e là alcuni versi felici, e alquante bellezze. Ma essi debbono con noi convenire che vi si scorge principalmente un tuono continuato di fredda elegia e di galanteria, per cui spariscono i tratti importanti di libertà che tutta ingombra l’anima di Solone. Le scene per lo più lunghe, oziose, e quasi sempre fredde di {p. 117}quattro donne che v’intervengono, spargono per tutto, e specialmente ne’ primi tre atti, un languore mortale. A un tratto poi nel quarto si enuncia la morte di Pisistrato, di cui non cercano di accertarsi nè gli amici nè i nemici; così che poco dopo Solone avvisa che Pisistrato combatte ancora, e la libertà soccombe; anzi Pisistrato stesso viene fuori, altro male non avendo che un braccio fasciato. Nell’atto V Licurgo esce per far sapere alle donne del dramma che il senato è condisceso all’inalzamento di Pisistrato al trono, e che Solone nell’opporsi a i soldati di lui è stato ferito mortalmente. Dopo alcune scene galanti ed elegiache, come le indicate degli altri atti, comparisce nell’ultima Solone moribondo, il quale si mette a declamare lungamente con tutta l’inverisimiglianza per uno che stà spirando, e racconta con troppe parole, che Policrita non è sua figlia, e che si chiama Cleorante. In tutto il dramma egli ha usato un artificio e una reticenza poco tragica su i natali di Cleorante ad oggetto di valersene per impedire con autorità di padre che Pisistrato suo amante opprimesse la patria. Ora morendo che scopo ha egli di scoprire il cambio fatto? Soltanto di {p. 118}far noto, che il suo sangue non si mescolerà con quello dell’oppressore d’Atene. Sembra dunque che l’eroe legislatore diventi nullo nella tragedia, e che non vi si veda la sua virtù posta in azione sino a che non ne diviene la vittima. Il personaggio che chiama più l’attenzione è Pisistrato combattuto dall’amore e dall’ambizione, che vuole il regno, e non vuol perdere Policrita. L’altro personaggio che interessa è la stessa Policrita appassionata amante di Pisistrato e della libertà, e che seconda le mire di Solone a costo del proprio amore. Solone altro non fa che ondeggiare sperando nelle varie fazioni, e promettendo la pretesa figliuola a colui che contribuisca a distruggere il partito oppressore: opporsi alla fortuna di Pisistrato contro il volere del popolo e del senato ateniese: e svelare l’inutile arcano. Tutto potrebbe condonarsi, se nel dramma poi dominasse minor noja, freddezza, e languore.

{p. 119}

ADDIZIONE VIII*
Sul Dispetto amoroso del Moliere. §

La commedia del milanese Niccolò Secchi fornì al Moliere, come abbiamo notato, quella del Dispetto amoroso; ma la commedia italiana termina assai meglio della francese, il cui quinto atto mal congegnato raffredda tutta la favola. Dall’altra parte nella commedia del Secchi non vedesi vestigio della bella scena del Dispetto di Lucilla ed Erasto, in cui essi lacerano vicende volmente le lettere che conservano, rendono i doni, rompono ogni corrispondenza, e finiscono con andarsene uniti. Il Riccoboni però ci assicura che Moliere nel Dispetto imitò anche un’ altra commedia italiana intitolata gli Sdegni amorosi, e questo titolo ben può indicare che da tal commedia trasse probabilmente la riferita scena. Comunque sia la storia ci dimostra che siccome Guillèn de Castro &c.

{p. 120}

ADDIZIONE IX*
Scaramuccia Eremita. §

Si osservi che una favola italiana anonima fredda e scandalosa intitolata Scaramuccia eremita, si recitava in Parigi, mentre vi si proibiva il Tartufo. In essa un eremita vestito da frate monta di notte per una scala sulla finestra di una donna maritata, e vi ricomparisce dicendo, questo è per mortificar la carne. Un simile eremita che monta per una vite su di una finestra di una donna, ha dipinto nel secolo decimottavo anche il napoletano Pietro Trinchera nella sua Tavernola abbentorata.

{p. 121}

ADDIZIONE X*
Sul Tartufo di Moliere. §

Ne convengono col Baile (Diz. Crit. art. Poquelin. Nota I.) Leris nel Dizionario de’ Teatri di Parigi, e l’ab. Dubos mentovato dal sig. Bret nella sua edizione delle Opere di Moliere. Diceva Dubos che si ricordava d’aver letto, che Moliere doveva al teatro italiano il suo Tartufo. Vedasi anche il Riccoboni nelle Osservazioni sulle commedie e sul gusto di Moliere. Il sig, Bret però si oppone all’avviso de’ riferiti scrittori.

{p. 122}

ADDIZIONE XI**
Tragici dopo Campistron. §

Diedero allora qualche passo nella poesia tragica La Fosse, Riouperoux, e La Grange-Chancel. Antonio La Fosse detto d’Aubigny nato in Parigi nel 1653 e morto a’ 2 di novembre del 1708 corse la carriera tragica poichè Campistron avea rinunziato al teatro. La Fosse ne ravvivò il languore, e pieno com’era della lettura degli antichi Greci e Latini fe rappresentare ed imprimere nel 1696 Polissena sua prima tragedia applaudita e ripetuta, e non per tanto censurata con poco fondamento, contando anni quarantatre di sua età. Nel suo Teseo manifestò ugual sublimità ne’ pensieri, vivacità ne’ caratteri, nobiltà e purezza nello stile, {p. 123}armonia nella versificazione, benchè la lavorasse con fatiga, e giudizio nello scioglimento. Nel suo Manlio Capitolino formato sulla Venezia salvata di Otwai, col trasportare agli antichi Romani il fatto recente della congiura di Bedmar contro Venezia, diede un saggio più vigoroso, più deciso de’ tragici suoi talenti, e svegliò nel pubblico e ne’ posteri viva brama, che egli avesse potuto o calzar più per tempo il coturno, o prolongar più la vita.

Riouperoux compose Ipermestra tragedia regolare sul fatto delle Danaidi.

La Grange-Chancel nato nel 1678 e morto nel 1758 scrisse varie tragedie in istile per altro debole e trascurato e con viluppo romanzesco. Nel suo Amasi regna una molle galanteria sconvenevole all’argomento della Merope da lui appropriata a’ personaggi della storia di Egitto. Si recitò nel 1701.

{p. 124}

ADDIZIONE XII*
Ifigenia in Tauride. §

Intanto Guymond de la Touche nato nel 1729 in Châteu-Roux nel Berri, e morto nel 1760 in Parigi compose una Ifigenia in Tauride, nella quale immaginò a suo modo lo scioglimento. Essa fu molto bene accolta in teatro, e vi rimase a cagione di varie situazioni interessanti, e singolarmente per l’atto III in cui si maneggiano con energia le contese di Pilade ed Oreste, e pel IV in cui segue la riconoscenza di Oreste ed Ifigenia. Non ostante l’autor giovane non ancora avea acquistata l’arte di pulir lo stile e di tornir meglio i suoi versi; ond’è che nella lettura che se ne fece, gli si notò la durezza della versificazione e la scorrezione dello stile. Da prima, a quel che ci dicono i {p. 125}suoi nazionali, avea egli dato un figlio a Toante, facendolo innamorato d’Ifigenia; ma il sig. Collè di gusto migliore gli avvertì che tali amori raffreddavano tutto il resto in argomento sì tragico. La Touche sentì la giustezza della critica, ed in otto giorni soppresse quel personaggio ozioso, e quell’amor freddo.

Il maestro della Poetica francese &c.

ADDIZIONE XIII*
Gustavo del Piron: Zuma del Le Feuvre. §

Alessio Piron nato in Digione nel 1689 e morto in Parigi nel gennajo del 1755, fralle altre specie drammatiche, coltivò la tragica poesia, e diede al teatro francese il Callistene nel 1730, tragedia di semplice viluppo, che punto non riuscì sulle scene, e non vi tornò a {p. 126}comparire; il Gustavo Wasa più complicata nel 1733, che ebbe venti rappresentazioni successive, ed è rimasto al teatro ripetendosi sempre con ugual successo; ed il Fernando Cortes rappresentata nel 1744 senza applauso. Il credito dunque di uno de’ tragici francesi degno di rammemorarsi con onore vennegli dal Gustavo censurato da varj critici di non molto conto, e difeso dal proprio autore con forza e con buono evento. Tra’ pregi che si notano in questa tragedia, è la nobiltà e la virtù che regna in quasi tutti i personaggi non eccettuandosene che il tiranno Cristierno col suo confidente. Ogni atto presenta un punto importante dell’azione; le situazioni sono patetiche senza languidezza e senza esagerazione; lo stile è appassionato, naturale, e molte volte energico; gli accidenti dall’intervallo dell’atto quarto per tutto il quinto sembrano troppo accumulati riguardo al tempo della rappresentazione, ma a giustificarne la verisimiglianza non mancano esempj nella storia, e molto meno dee contrastarsi al poeta la facoltà di fingerne, purchè ne faccia risultare il diletto dell’uditorio, ed il trionfo della virtù, come appunto avviene nel Gustavo.

{p. 127}

Intorno al 1777 o 1798 si produsse con applauso sulle scene francesi Zuma tragedia del sig. Le Fevre, la quale vi si è veduta ricomparire sempre con egual diletto, e vi si è rappresentata di nuovo nel 1793. E’ una dipintura de’ costumi selvaggi e spagnuoli in contrasto. La rassomiglianza che in certo modo ha con l’Alzira, non ha nociuto al buon successo di Zuma. Le situazioni patetiche che vi regnano, l’interesse che produce, la pompa dello spettacolo e dello stile (che però talvolta eccede, e cade nell’enfatico) ed il personaggio di Zuma rappresentato in quell’anno con molta energia da madamigella Rancourt, tutto ciò fa sì che questa tragedia non lascia di ripetersi ancor ne’ tempi correnti.

ADDIZIONE XIV*
Beverlei del Saurin. §

Bernardo Giuseppe Saurin parigino nato nel {p. 128}maggio del 1706 e morto nel novembre del 1781, oltre delle riferite tragedie tradusse in gran parte dall’inglese il Beverlei di Odoardo Moore, che altri attribuisce a Lillo, altri a Tompson. Poche cose vi alterò il Saurin ne’ primi quattro atti, contento soltanto di toglierne le irregolarità. Ne cangiò lo scioglimento aggiungendovi il fanciullo Tomi figlio del giocatore, che occupa la maggior parte dell’atto quinto. Piacquero universalmente i primi quattro atti, e con ispecialità il quarto. Mirabile effetto partorì il quinto su gli animi degli spettatori; ma a molti parve che l’orrore giugnesse a lacerare oltremodo il cuore, che dal compiangere uno sventurato è costretto a passare ad inorridire al furioso attentato di Beverlei che in considerare a quale stato di miseria ha egli ridotto il figlio, per liberarnelo, se gli avventa con un pugnale. Questo fanciullo non appartiene all’originale, che si recitò la prima volta in Londra nel 1753. L’ab. Prevôt lo tradusse in francese intitolandolo le Joueur che si stampò in Parigi nel 1762.

Il Socrate &c.

{p. 129}

ADDIZIONE XV*
Su i drammi piangolosi. §

Il Disertore, l’Umanità, l’Indigente sono drammi fuor di dubbio interessanti, ne’ quali però il gusto non si riposa interamente. Non eccedono &c.**.

Sedaine, Falbaire, Mercier hanno coltivato questo genere comicolugubre con particolar riuscita. La fortuna gli ha abbandonati in molti loro drammi. Il Filosofo senza saperlo, la Scommessa, Maillar, o Parigi salvato del Sedaine, non sono stati applauditi dal pubblico francese. Il Mercier sembra di aver degenerato nell’Abitante della Guadalupa. In quello &c.

{p. 130}

ADDIZIONE XVI*
Drammi di Beaumarchais. §

Esse sono il Barbiere di Siviglia, che oltre dell’applauso ottenuto in Francia si è replicata traducendosi con egual successo in Italia e nelle Spagne; e la stravagante Giornata pazza, ovvero il Matrimonio di Figaro, rappresentata nel 1784, la quale dopo settantacinque rappresentazioni successive fu proibita dall’arcivescovo di Parigi. Sono tratte &c.

ADDIZIONE XVII**
Commedie del Piron. §

Il prelodato sig. Piron meritamente collocato fra gli scrittori tragici calzò anche il socco festivo {p. 131}di Talia. Compose in prima i Figliuoli ingrati commedia, che poi intitolò la Scuola de’ Padri, nel 1728, che non ebbe quel felice successo, che prometteva il suo felice ingegno atto sommamente a rilevare il ridicolo de’ costumi correnti. Produsse in seguito l’Amante misterioso, che cadde affatto, ed appena potè il poeta consolarsi coll’applauso che nel medesimo teatro ottenne per la sua pastorale le Corse di Tempe. Ma alla sua Metromania commedia ingegnosa, piacevole, spiritosa, e regolare, che appena rappresentata nel 1738 con invidiabile applauso si noverò per una delle migliori del teatro francese, dovrà il Piron la sua riputazione maggiore in questo genere. Il piano &c.

ADDIZIONE XVIII*
Commedie del Gresset. §

Glambatista Luigi Gresset nato in Amiens nel 1709 e quivi morto a’ 16 di giugno del {p. 132}1777, l’autore della graziosa novelletta le Vert vert, e della tragedia di Odoardo III, diede al teatro anche il Sidney scritto con eleganza, che non riuscì per esserne il soggetto lontano dal tempo presente e dal costume francese. Pubblicò la commedia del Mèchant rappresentata nel 1740 con moltissimo applauso. Scriste poi altre due commedie inedite perdute, o dall’autore stesso soppresse, cioè il Secreto della commedia da lui letta a’ suoi amici, ed il Mondo com’ é, di cui solo si conosce il titolo. Nel Mechant che è il suo capo d’opera teatrale, si dipinse un malvagio &c.

ADDIZIONE XIX**
Commedie del Marivaux. §

Voltaire diceva di lui che conosceva tutte le vie del cuore, fuorchè la via reale, o maestra. {p. 133}Una delle più stimate commedie di Pietro Marivaux è quella intitolata le False Confidenze lavorata sul medesimo conio delle altre sue favole, nelle quali si trova sempre una sorpresa dell’amore. Vi si scopre al solito spirito e finezza soverchia nella condotta della favola. Questa commedia si è di nuovo rappresentata in Parigi nel 1793.

ADDIZIONE XX*
Commedie piacevoli del Saurin. §

Il sig. Saurin che si è esercitato in diverse specie della poesia scenica, che riuscì competentemente con Spartaco e più con Beverlei, compose anche alcune commedie. I Rivali e l’Orfanella lasciata in legato non riscossero applauso. Il Matrimonio di Giulia non si recitò, {p. 134}perchè i commedianti la ricusarono forse più per capriccio o per piccioli interessi a noi ignoti che per debolezza del componimento, o per mancanza di piacevolezza. L’Aaglomano ritratto ben espresso si ricevè con plauso. Singolarmente i Costumi correnti (Moeurs du tems) picciola commedia in prosa piacque, e riscosse glî encomii del Voltaire.

ADDIZIONE XXI**
Vestiti teatrali correnti in Francia. §

Conviene all’imparzialità di uno storico l’avvertire, che la ridevole stravaganza degli abiti teatrali eroici derisa meritamente dal celebre Martelli, e osservata da altri in Francia sino a quindici anni fa in circa, vuolsi (se non s’ingannò chi vide Parigi nel 1787, e e nel 1792, e mel riferì con asseveranza) che oggi sia interamente bandita da quelle scene. {p. 135}Si è, dicesi, tale improprietà di vestiti corretta, ed i personaggi vi si abbigliano con la naturalezza e la decenza richiesta negli argomenti e ne’ costumi descritti nelle favole che si rappresentano.

ADDIZIONE XXII*
Opera istorica e mitologica in Francia. §

Ciò appunto avvenne in Italia sin dal passato secolo, e non molto dopo le opere del Rinuccini vi si coltivò l’opera eroica istorica riserbandosi la mitologica soltanto per alcune feste teatrali che alluder doveano alla nascita o ad altre occorrenze di gran personaggi, e di principi, ai quali sconciamente e con niuna verisimiglianza sarebbesi disceso col rappresentarvisi gli eroi dell’antichità; là dove con certa apparenza di proprietà poteva parlarsene in un argomento {p. 136}mitologico non soggetto a regolarità ed a verisimiglianza. In Francia nel XVII secolo ed in questo che cade hanno continuato a comparire i drammi di Quinault, e l’ultima recita dell’Armida colla musica di Lulli seguì nel dicembre del 1764 col solito applauso e concorso; nè per essersi poi posta in musica dal cav. Gluck e rappresentata a’ 23 di settembre del 1777 si è veduta con minor diletto; e con tal musica novella continua a rappresentarsi ogni mese.

Non per tanto dal racconto fattone in quest’articolo apparisce a quali stravaganze siesi abbandonato il teatro lirico francese, mal grado dell’ottimo effetto che hanno prodotto le traduzioni e le imitazioni di qualche opera del Metastasio colà recitata colla musica de’ nostri ultimi celebri maestri. Nè questo nè il buon senno di uno scrittore francese ha punto giovato a richiamar su quelle scene l’opera eroica all’imitazione degli uomini da quella de’ demoni e delle furie ballerine. Io parlo del sig. Bailli de Rollet poeta stimabile di drammi musicali de’ nostri giorni. Egli seppe adattare alla musica nel 1772 l’Ifigenia di Racine, e l’inviò al cav. Gluck che trovavasi in Vienna. Gluck {p. 137}postala in musica venne a Parigi per farla eseguire, e comparve sulla scena nell’aprile del 1774 con assai felice successo. Rollet seguì il piano di Racine, e ne abbreviò soltanto l’azione, togliendone l’episodio di Erifile, e mettendo alla vista dell’uditorio lo scioglimento. “Senza il soccorso delle macchine (dicesi nel Mercurio del maggio di quell’anno) senza l’intervento degli dei si è rappresentato uno spettacolo brillante e maestoso”. Pare che i Francesi non tarderanno a ridursi sotto il vessillo della verità e del senno prendendo ad imitar gli uomini ancor nella scena musicale; ed intanto alcuni Italiani, caporione de’ quali si era dichiarato il fu Ranieri di Calsabigi, che sedusse anche il conte Pepoli, incapaci di riescir nell’opera di Zeno, e di Metastasio, si sono ingegnati, senza effetto per altro, di alienarne la propria nazione predicando coll’esempio, e colle parole a favore delle furie danzatrici.

{p. 138}

ADDIZIONE XXIII*
Spettatori rimossi dal palco scenico. §

Vero è però che in questi ultimi tempi sento essersi riparato all’inconveniente di mischiarsi sulla scena gli spettatori agli attori. Vero è pur anco che il teatro della commedia francese ha ricevuti pochi anni fa notabili miglioramenti. Vi si veggono eziandio i ritratti dipinti de’ più celebri drammatici della nazione; e nel Foyer architettato con magnificenza vi sono collocati i mezzi busti di marmo di Rotrou, de’ due Cornelli, di Racine, di Moliere, di Regnard, Des Touches, Du Fresni, Dancourt, Piron, Crebillon &c., ed al piè della scalinata si è alzata la statua intera marmorea di Voltaire.

Nel teatro dell’Opera &c.

{p. 139}

ADDIZIONE XXIV**
Teatro di Bordeaux. §

In Bordeaux il dì 7 di aprile del 1780 si aprì una nuova sala di spettacoli assai magnifica, e vi si rappresentò Atalia con i cori preceduta da un prologo allusivo all’apertura del teatro. E’ un edificio isolato che rappresenta un parallelogrammo circondato da portici, la cui facciata di 200 piedi consiste in un maestoso colonnato d’ordine corintio con peristilo, le cui colonne hanno tre piedi di diametro, e su di esso corre una balaustrata con piedistalli con figure analoghe alla destinazione del luogo. Le facciate laterali e la posteriore son decorate col medesimo ordine di architettura, ma in pilastri con una galleria in arcate su tutta la lunghezza. La facciata dell’entrata è sulla piazza di 50 tesi di lunghezza sopra 24 di larghezza. Sotto il peristilo si veggono cinque porte {p. 140}che introducono a un vastissimo vestibolo ornato da sedici colonne doriche, il cui fondo ripete le cinque arcate dell’entrata che sono ad esse opposte, e formano altrettanti portici aperti. Tre di questi nel mezzo comunicano alla principale scalinata, e i due estremi terminano alla platea (parterre) ed al paradiso da un lato, e dall’altro alla scalinata che mena al terzo ordine delle logge, ossiano palchetti. La porta di entrata è riccamente adorna. Due cariatidi grandi rappresentano Talia e Melpomene, e quando si costruì quest’edificio eranvi al di sopra le armi del re con una iscrizione. La sala ha dodici colonne d’ordine composito che nella loro altezza comprendono due ordini di logge. I primi palchi seguono il piano circolare della sala composta di tre scaglioni in anfiteatro con una balaustrata. Il secondo e terzo ordine di palchi sono negl’intercolunnii. Havvi oltreaciò tre scalinate in anfiteatro, cioè una in fondo che guarda il teatro, e le altre due da’ due lati della sala, il cui fondo è di marmo bianco venato.

{p. 141}

LIBRO VIII §

ADDIZIONE I*
Gustavo del Brooke. §

Errico Brooke diede alla scena inglese una tragedia di Gustavo Wasa, ossia il Liheratore del suo paese, la quale dal sign. Duclairon autore di una tragedia di Cromwel si tradusse felicemente in prosa francese, e fu impressa in Parigi nel 1766. L’argomento del Gustavo inglese non si aggira come quello di Piron intorno all’amore, ma tutto riguarda la libertà, per la quale ha solo combattuto Gustavo. L’azione è ben condotta e trattata con energia, e i caratteri si sostengono con nobiltà e si esprimono con forza.

{p. 142}

ADDIZIONE II**
L’attrice Siddons. §

Oggi trionfa sulle scene inglesi mad. Siddons eccellente attrice, alla quale tributano gl’Inglesi tutti gli elogj, per la verità, l’espressione, e l’energia, che, al loro dire, ella possiede eminentemente.

ADDIZIONE III*
Teatro di Drury-Lane. §

Il teatro di Drury Lane soffrì anni sono un incendio che lo distrusse, e si tratta di riedificarlo.

{p. 143}

[Errata] §


ERRORI E

 

CORREZIONI al tomo V.

pag. 53 lin. 5 i Visionarj

 

il Cortigiano solitario di Mairet, i Visionarj

pag. 62 lin. 19 nodo i strinsi

 

nodo io strinsi

pag. 71 lin. 6 sulla scena Ericia ossia la Vestale

 

sulla scena Artemira

 

pag. 118 lin. 5 morto da non molti anni

 

morto da molti anni

 

pag. 171 lin. 19 Domenico Romagnesi

 

Domenico, Romagnesi

 

pag. 204 Il sig. Hume della famiglia del celebre David Hume ammiratore de i talenti tragici del suo parente, compose &c.

 

Il sig. Home (non Hume congiunto dell’Istorico) che tuttavia vive, come mi assicura il mio degno amico Giuseppe Cooper Walcker di Dublino, compose &c.

pag. 254 lin. 15 il presente re

 

il defunto re Gustavo

pag. 260 lin. 21 Cimarosa trovasi attualmente al servizio

 

Cimarosa già rimpatriato servì in seguito quella Coete imperiale

{p. 144}

PARTE II §

TOMO VI
LIBRO IX §

ADDIZIONE I*
Versificazione della Lucrezia del Moratin. §

La sua versificazione è una specie di Selva (come chiamasi in Ispagna) entrandovi assonanti, consonanti e versi sciolti ad arbitrio del poeta. Nè anche si rappresentò. Lotta in essa &c.

ADDIZIONE II**
Ibañez comica abile. §

Maria Ignazia Ibañez già prima donna ne’ teatri di Madrid, morta alcuni mesi dopo, {p. 145}rappresentò non senza energia tanto la parte di Ormesinda, quanto quella della Contessa nel Sancio Garcia.

ADDIZIONE III*
Pel giudizio dell’Andres sulla Numancia. §

Di grazia lesse egli mai cotal Numancia? Non è possibile.

ADDIZIONE IV**
Una dell’espressioni false dell’Huerta. §

Ma quel Vulcano della gentilità, per dir fuoco, conviene ad un Ebreo? Quel sudor d’argento poi de’ Pirenei &c.

{p. 146}

ADDIZIONE V*
Non curanza del sig. Andres. §

Tanti giudizj mal fondati e tanti fatti erroneamente esposti, non che nell’altrui, nella stessa letteratura spagnuola, mostrano ad evidenza di essersi il lodato sig. Andres poco curato di leggere gli scrittori nazionali, de’ quali volle prendere la difesa. Senza ciò, come conciliare i talenti di questo letterato colle sentenze insuffistenti che pronunzia?

ADDIZIONE VI**
Chi fosse Tirso Ymareta. §

Tirso Ymareta sembra anagramma di Tomàs Yriarte già uffiziale ed archivario della R. Segreteria {p. 147}di S. M., Ma se quest’autore ricusò di riconoscere per sua tal commedia, non è convenevole attribuirgliela, benchè gli appartenga; tanto più che si è nominato in altre due favole migliori, delle quali dovrà farsi parola.

ADDIZIONE VII*
Los Menestrales, e las Bodas de Camacho neglette dagli Apologisti. §

Los Menestrales (gli Artigiani) commedia di cinque atti in versi endecasillabi con assonante di don Candido Maria de Trigueros si rappresentò e s’impresse in Madrid nel 1784 in occasione della pace conchiusa coll’Inghilterra e della nascita de’ due reali gemelli Carlo e Filippo. Lodevole fu il disegno dell’autore {p. 148}di esporre sulla scena alla pubblica derisione la ridicola vanità degli artigiani, i quali abbandonando il proprio mestiere sorgente della loro opulenza, sacrificano tutto per parer nobili, altri coprendosi di ridicolo, altri cadendo nelle ultime bassezze o in delitti. Trigueros osserva in questa favola le regole delle unità, si attiene scrupolosamente alla pratica moderna di non mai lasciar vota la scena, e si vale di una locuzione propria della mediocrità de’ personaggi imitati. Vi si spargono quà e là acconciamente varie invettive contro de’ pregiudizj e delle gotiche opinioni de’ nobili che per puntigli ereditati dalla barbarie conculcano la virtù e la giustizia. Un villano p. e. con un asino carico di paglia urta e spinge al suolo un nobile imaginario, e un altro impostore, che ha preso il titolo di barone, essendo ciabattino di origine e di mestiere, dice con disdegno, no merece mil muertes? y el honor? Ma don Giovanni personaggio sensato lo riprende:

No hay mas que dar mil muertes? . . . .
Dar la muerte por un capricho solo
à un hombre! al que es mi hermano! me extremezco.
Quando llegarà el dia alegre y santo
que olvidemos que huvo en toscos tiempos
{p. 149}
estos nombres odiosos y crueles
de pundonor, venganza, punto y duelo?

La giovane Rufina carattere freddo ma di buona morale nella scena II del II vorrebbe che Cortines suo padre (sarto di mestiere che si adira se altri se ne sovvenga, e vuol passar per nobile) venisse richiamato alla ragione col mostrarglisi per qualche via gl’inconvenienti della sua vanità; ma come buona figliuola teme che tal disinganno accader possa con danno o dispiacere del padre. Quindi nella scena seguente comandandole Giusto che cosa mai pensi di ciò che si va disponendo, ella con tenerezza risponde,

. . . . . . que à mi padre
me manda obedecer el santo cielo:
si tu remedio encuentras, sin que tenga
pesar Cortines, me daràs contento.
Pero vè que es mi padre.

Contuttociò la favola procede con lentezza e languore, e si disviluppa sforzatamente usandosi ne’ primi atti di varie reticenze senza vedersene il motivo, per ridurre tutto allo scioglimento: i caratteri abbisognano di più naturalezza ed energia, specialmente quelli di Rafa e di Pitanzos: scarseggia di sali e di lepidezze {p. 150}urbane, e di partiti veramente piacevoli: ed è ben lontano da quella forza comica che chiama l’attenzione, rapisce e persuade con diletto. Non per tanto qualche apologista nazionale di questi ultimi anni ha mai fatto menzione di tal commedia regolare? essi al solito ne parleranno poi senza saperne grado a veruno, uscite che saranno alla luce queste Addizioni, onde ne riceveranno la notizia ed il giudizio.

Nè anche Andres, nè Huerta, nè Lampillas esageratori sur parole del merito comico delle favole di Naharro e della Celestina mostruosi parti drammatici che mal conobbero, hanno procurato d’informarsi, se in mezzo alle stravaganze anche a’ nostri dì esposte sulle scene spagnuole siesi recitata una commedia pastorale in cinque atti con cori e con prologo eziandio composta ed impressa in Madrid l’anno stesso 1784 per la nascita riferita de’ reali gemelli e per la pace da don Juan Melendez Valdès. Ecco come il preteso antispagnuolo Napoli-Signorelli a proprie spese avendosene fatto rimettere, come della precedente, un esemplare da Madrid, ne dà contezza in Italia, e provvede così all’indolenza degli apologisti sempre ingrati {p. 151}e declamatori. Il Valdès ha posta in azione la novella di Basilio e Chiteria leggiadramente descritta dal celebre Cervantes nella Parte II del Don Quixote, e l’ha ingenuamente citato, dandole il titolo las Bodas de Camacho (le Nozze di Camaccio). Lo stile sobrio per la verità de’ sentimenti e dell’espressioni, ricco e copioso d’immagini e di maniere poetiche ammesse nel drammatico pastorale, appassionato ne’ punti principali della favola; la versificazione armoniosa di endecasillabi e settenarj alternati e rimati ad arbitrio; i caratteri di Basilio, Chiteria, Petronilla, Don-Chisciotte &c. ben sostenuti; la passione espressa con vivacità e naturalezza; lo scioglimento felicemente condotto sulle tracce dell’autor della Novella, l’azione che in ciascun atto dà sempre un passo verso la fine: tutto ciò raccomanda a’ contemporanei imparziali questo componimento, e l’avvicina alle buone pastorali italiane. Quanto dice Basilio e Chiteria meriterebbe di trascriversi. In un monologo pieno di un patetico che giugne al cuore, dice la pastorella nella scena prima del II:

Ay! esta misma vega
Testigo fue de nuestro amor, testigo
{p. 152}
De mil hablas suaves,
De mil tiernas promesas, y mil juegos,
Que eran un tiempo gloria,
Y ahora son dolor en la memoria.
Aqui dulce cantaba,
Allì alegre reia,
Aqui con su guirnalda me ceñia,
Y alli me la quitaba!
Ay triste! el valle dura,
Y acabò mi ventura!

Nella terza scena del III, in cui si parlano la prima volta dopo la lor divisione Basilio e Chiteria, la tenerezza disgraziata aumenta a maraviglia l’interesse, commuove, e ricerca l’intimo dell’animo di chi legge o ascolta. Cresce nel IV il movimento pel festivo e lauto apparecchio delle nozze, e per la protezione che Basilio implora da Don Chisciotte, raccontandogli il vero della propria disperazione misto col finto soccorso del Mago e del presagio di lui, che dispone lo scioglimento condotto con verisimilitudine e con espressioni confacenti allo stato di Basilio ed al concertato disegno.

Tutte le altre &c.

{p. 153}

ADDIZIONE VIII*
Commedie di don Leandro de Moratin. §

Avventuratamente possiamo in sì fangosa inondazione di pessime commedie contarne cinque di miglior gusto composte pochi anni fa in Madrid; e del racconto che son per farne, potranno ad un bisogno prevalersi al solito gli apologisti nazionali senza citar l’Italiano che gli prevenne.

Tre di esse appartengono a don Leandro de Moratin di Madrid figliuolo del prelodato don Nicolàs da cui ha ereditato l’indole poetica, la grazia dello stile, la purezza del linguaggio, e la dolcezza della versificazione. S’intitolano I el Viejo y la Niña (il Vecchio e la Fanciulla), II la Mogigata, che tra noi meglio s’intitolerebbe la Bacchettona, trattandosi di una giovane {p. 154}che dà ad intendere di volersi chiudere in un chiostro austero, e III la Comedia Nueva. Le due prime in tre atti ed in versi erano composte sin dal 1786; ma la prima s’impresse nel 1790, e si rappresentò con piena approvazione nel teatro detto del Principe, dopo aver sofferte mille contrarietà de’ poetastri La-Cruz ed altri, e de’ commedianti spesso inesperti e sempre caparbii. La seconda non si è rappresentata nè impressa, ma è a me ben nota per averne ottenuta una copia rimessami da Madrid dal gentile autore. La terza in due atti ed in prosa comparve nel medesimo teatro a’7 del febbrajo del 1792.

Un perverso tutore &c.*

incontrarono i soliti ostacoli de’ commedianti.

Io converrei &c.**

Ma perchè rifiutarono per tanto tempo la prima? {p. 155}Ciò che in Italia &c.*

Ma l’ingegnoso autore dopo avere nel 1789 data la caccia a’ poetastri con un piacevole opuscolo dettato dal buongusto intitolato la Derrota de los Pedantes (la sconfitta de’ Pedanti) in cui gli spaventa, gli dipinge, gli schernisce, gli confonde, e gli caccia in fuga con piacer del pubblico che gli riconosce, compose la nominata Comedia Nueva, ove espone una fedel dipintura, a quel che si dice nel prologo, dello stato attuale del teatro spagnuolo. Una parte (vi si aggiugne) assai numerosa della nazione mira con dolore la decadenza del nostro teatro, e desidera che si dissipino gli ostacoli che ne impediscono il miglioramento. Si ay no obstante (si conchiude) una clase de gentes, à quienes la falta de principios, la indolencia, el interes, y otras pequeñas pasiones hacen obstinadas en el error, contra ellas se dirige la censura.

{p. 156}

Il soggetto di tal commediola è un povero giovane chiamato don Eleuterio carico di famiglia, il quale facendo cattivi versi imprende la carriera teatrale per sovvenire a’ suoi bisogni. Ha una sorella nubile destinata in moglie a don Ermogene pedantaccio arrogante non men povero di lui. Nè l’uno nè l’altro è nel caso di effettuare tali nozze non avendo danari pel bisognevole. Il poetastro attende l’esito di una commedia che ha data al teatro, e col prezzo di essa promessogli nel caso che la commedia piaccia al pubblico, e col fruttato dell’impressione, si lusinga di ammobigliare la casa per la sorella, pagare i debiti dello sposo, e sostentar la propria famiglia. La commedia è fischiata, e non se ne vendono le copie impresse, il poeta perde il prezzo convenuto, e si dispera, il perfido pedante si ritira impudentemente; e senza il caritatevole soccorso di un ricco uomo dabbene impietosito, la famiglia del tapino poeta sarebbe perita nell’indigenza. La locuzione è propria e naturale, l’azione semplice condotta felicemente, lo scioglimento fa onore all’umanità. Sento che il pubblico di Madrid la vide con particolare diletto, {p. 157}e l’applaudì1.

L’autore delle altre due commedie fu Don Tommaso Yriarte &c.

{p. 158}

ADDIZIONE IX*
Tramezzi disusati in Madrid. §

Molte volte negli ultimi anni della mia dimora in Madrid si lasciavano gli entremeses, e seguiva all’atto la sola tonadilla; oggi dicesi che si sono tralasciati affatto.

ADDIZIONE X**
Teatri di Madrid mentovati dal Roxas. §

Se ne trova però fatta menzione in una delle commedie di Francesco Roxas scrittore comico del passato secolo da noi già mentovato in quest’opera.

{p. 159}

ADDIZIONE XI*
Teatro di Lisbona del 1793. §

Sussistono i teatri di Cadice e di Lisbona; e sento anche che in quest’ultima città nel 1793 siesi costruito un nuovo teatro aperto alle rappresentazioni dopo lo sgravamento di S. A. la Principessa del Brasile seguito nel mese di maggio. La platea è di forma ellittica. L’architetto è stato Giuseppe Costa portughese, il quale, come affermano i nazionali, studiò molti anni in Italia.

{p. 160}

[Errata] §

Errori corretti nell’ortografia ed altro del nono libro nel tomo VI.


ERRORI

 

CORREZIONI

pag. 26 lin. 6 i al hermano

 

y al hermano

pag. 27 lin. 7 i su espada

 

y su espada

pag. 37 lin. 3 e 12 recebidas

 

recibidas

pag. 43 lin. 25 Tiemble

 

Temple

pag. 47 lin. 2 Tiemble

 

Temble

pag. 95 lin. 7 Traidores

 

Traydores

pag. 97 lin. 7 ed ultima passiones

 

pasiones

pag. 99 lin. 9 traidor y es hoi

 

traydor y es hoy

pag. 85 lin. 12 le lodate commedie inedite

 

le lodate commedie

pag. 160, lin. 25. ripigliate sin dal 1786

 

ripigliate sin dal 1787

{p. 161}

LIBRO X ed ultimo §

ADDIZIONE I*
Traduzioni di alcune tragedie Francesi. §

L’Edizione Pepoliana della Biblioteca teatrale francese in ventisette tomi compiuta ha presentato all’Italia varie buone traduzioni di tragedie francesi. Il dottor Mattia Butturini ha tradotta la Sofonisba del Mairet: l’ab. Giuseppe Compagnoni la Marianne del Tristan: l’ab. Agostino Paradisi il Poliutto di P. Cornelio: il marchese Albergati Capacelli felicemente la Fedra del Racine: i prelodati Paradisi e Albergati l’Idomeneo del Crebillon: il sig. Pagani-Cesa Atreo e Tieste del medesimo: il poeta italiano del secolo cadente Carlo Innocenzio Frugoni ottimamente, ancor quando si allontana dal {p. 162}concetto dell’originale, il Radamisto del medesimo: l’ab. Placido Bordoni bellamente l’Ifigenia in Aulide del Racine e l’Orazio di P. Cornelio: il p. d. Bonifacio Collina l’Atalia del Racine: il sig. Pietro Buratti l’Ester del medesimo: l’ab. Gregorio Redi l’Andromaca del medesimo: il sig. Giuseppe Greatti il Cid di P. Cornelio: il co: Federigo Casali il di lui Cinna: il sign. Angelo Anelli il Nicomede dello stesso: l’ab. Angelo Dalmistro la di lui Rodoguna: l’avvocato Luigi Bramieri il suo Pompeo: il nobil uomo Francesco Gritti con garbo il Gustavo Wasa del Piron: il sig. Vincenzo Comarchi la Polissena del La Fosse: il nobil uomo Francesco Baldi eccellentemente l’Ifigenia in Tauride di Guymond de la Touche: il co: Alessandro Pepoli la Zaira del Voltaire: il co. ab. Matteo Franzola l’Alzira dello stesso: l’ab. Melchiorre Cesarotti la Semiramide, la Morte di Cesare, il Fanatismo del medesimo tragico.

{p. 163}

ADDIZIONE II*
Nuovo teatro tragico del co: Pepoli: tragedie inedite dell’ab. Bordoni: altre di regnicoli e di altri. §

Dopo le surriferite tragedie l’autore ha voluto presentare all’Italia un nuovo suo teatro tragico meglio congegnato, che esige nuove e più vantaggiose osservazioni. Nel darne conto non abbiamo stimato di supprimere ciò che già si è di sopra riferito sulle prime sue tragiche fatighe, perchè secondo me ciò darebbe indizio o di una inutile e non dovuta ritrattazione de’ giudizj profferiti o di un totale disprezzo delle precedenti tragedie del conte, nelle quali scorgonsi certamente varj lampi d’ingegno. Ora dunque esporremo ciò che egli non ben contento de’ primi saggi e conscio delle nuove forze acquistate col crescer degli anni, avendo sentito, {p. 164}come ingenuamente egli stesso si esprime, la necessità di meglio scrivere, va pubblicando in caratteri bodoniani.

Prese in prima per mano l’Adelinda, e adattandola al nuovo suo sistema ebbe il piacere che si rappresentasse con molto applauso nell’agosto del 1789 in Torino. La diede indi alla luce per la stamperia parmense nel 1791 preceduta da una lettera del fu Ranieri di Calsabigi. Lo stile sobrio e naturale, sublime ove l’azione l’esiga, appassionato nel conflitto degli affetti, semplice quando la disposizione della favola richieda apparecchio e non elevatezza, fa risaltare il contrasto de’ caratteri, e corrisponde a i passi dell’azione che con calore si accelera verso lo scioglimento, in cui scoppia l’evento funesto della morte di Romeo e di Adelinda. Essendo il perno intorno a cui volgesi questa tragedia il combattimento in Romeo degli affetti di padre e di sposo, non a torto vorrebbesi nella prima scena del II atto che si vedesser meglio le interne battaglie de’ suoi teneri affetti coll’amore della libertà e della patria. L’autore fa che Romeo sia in un dubbio politico, non parendogli Gualtieri tiranno perchè era stato legittimamente eletto. Ma {p. 165}questo dubbio dovea tra’ congiurati verisimilmente esaminarsi di lunga mano, e fissarsi la sicura tirannia di lui per base della congiura. Le incertezze di Romeo dovrebbero prender l’origine nelle sue private passioni che urtano co’ doveri di cittadino. Non per tanto l’autore non ha negletto questo punto importante; Romeo spinto dalle patriotiche espressioni di Uberto, dice:

       Perchè, gran Dio,
Quale Uberto non son? Perchè rendesti
Un cittadin genero, amante, e sposo?

Uber.

Per renderti di me più grande ancora.

Rom.

Adelinda, Adelinda!

E poichè Uberto l’obbliga a leggere il foglio di Gismonda, il rapido dialogo ben esprime l’interna agitazione di Romeo:

Uber.

Giura.

Rom.

Intesi, oh cimento! oh sposa! oh figlio!

Uber.

Dunque?

Rom.

Ma . . .

Uber.

Non risolvi?

Rom.

Oh angoscia! Giuro.

E’ questa la materia propria di tal situazione. Nullo però a me sembra il dubbio promosso dal Calsabigi sulla generosità dell’appassionata {p. 166}Adelinda nell’implorar il perdono in prò della sua rivale. Imperocchè l’energia del suo carattere che non mai si smentisce, le sue furie gelose sommamente attive, che cagionano il mortal pericolo del marito, la fortezza con cui si uccide, giustificano abbastanza l’elevatezza della sua anima per giugnere a procurar quel perdono. Il mostrarsi sempre più degna di amore all’oggetto amato con atti di rara virtù, suole allettar gli animi nobili e sensibili, ed ispirare eroismo. Anche la scena ottava nell’atto IV parve al Calsabigi stesso manchevole al confronto di Giaffiero e Pietro nella tragedia di Otwai, Venezia salvata. Veramente la ben lunga scena della tragedia inglese in mezzo ad alcune nojosità presenta varie bellezze che avrebbero potuto entrare nella scena di Uberto e Romeo. Ma a mirar dritto la brevità e la rapidezza di questa meglio conviene alle circostanze di esser l’atto in sul finire, di trovarsi Uberto così malconcio da’ tormenti, e del moto della favola che corre al fine; ora una scena diffusa calcata su quella dell’inglese, come la voleva il Calsabigi, potrebbe snervare in quel punto l’azione. Ecco come l’autore se ne disbriga, e come Uberto mostra la sua {p. 167}indignazione avendo udito che Romeo ha palesati i congiurati:

Uber.

    Lasciami. Degno
No, più non sei di questa mano. Io seppi
I tormenti affrontar: debole donna
Gismonda, l’amor mio, la mia delizia
Giunge a imitar la mia fortezza: in quelli
Soffrì: tacemmo. Inferocì schernitæ
La tirannica rabbia. Ambi ci trasse
Quasi all’ultimo scempio. In quale aspetto
Io sia, tu scorgi; in pié mi reggo appena.
Comprendere dal mio quel di Gismonda
Peggiore assai, facil sarà. Ti vince
Una donna in fermezza, anima vile.
Ella tra’ ferri, le tenaglie, il foco,
Tu sol fra imbelli assalti, e ancora illeso.

Rom.

Ma d’ogni strazio più crudel non credi
D’una moglie, d’un figlio? . . .

Uber.

Il più crudele
Per me fora il rimorso. Ah! di vederti
M’è grave ormai: serba i tuoi doni ad altri;
Ne arrossirei: lieto a’ miei ferri io torno.

Rom.

Ah Romeo, che ti resta? . . Infamia e amore.

I passi poi che a me pajono più notabili in tal componimento, sono i seguenti. La scena sesta del III tra Gualtieri e Romeo si rende {p. 168}pregevole sì per la parlata di Romeo, che candidamente esprime i sentimenti del suo cuore agitato e i disegni senza paventar del tiranno, come per la fermezza in rigettar le premure del suocero per sapere i congiurati.

Gual.

Scoprir non vuoi? . .

Rom.

No.

Gual.

Di morire in vece?..

Rom.

Eleggo.

Gual.

Nè il terror d’aspri tormenti,
Agonie della morte . . .

Rom.

Ah che di quelli
E’ più barbaro assai l’amor di padre,
Di consorte l’amor; questi pavento.

Gual.

Risolvi.

Rom.

Udisti.

Gual.

E ben?

Rom.

Silenzio e morte.

La quarta del IV tra Adelinda e Romeo si ammira per la rivoluzione che cagiona nell’animo di Adelinda senza veruno sforzo l’assicurarsi che Romeo non ama Gismonda. Adelinda tuttochè piena di gelosia e di amore estremo pel marito, che forma la tinta imperiosa del suo carattere, vuol salvarlo ad ogni modo; e credendo che non la salvezza della moltitudine {p. 169}de’ ribelli, ma quella di Gismonda indicata senza nominarla, potrebbe muovere il marito, gliela promette compagna nell’esiglio. Romeo risolutamente rigetta l’offerta.

Adel.

Che dici? Tu potrai? . . .

Rom.

Posso smentirti.

Adel.

Oh ciel!) Più non intendo . . .

Rom.

Io se dovessi
Alcun salvare . . .

Adel.

Salveresti . . .

Rom.

Uberto.

Adel.

Ah qual luce . . .!

Rom.

Ben tarda.

Adel.

E i tuoi segreti
Seco? . . .

Rom.

Innocenti.

Adel.

E quelle notti?...

Rom.

In essi.

Adel.

L’amor? . . .

Rom.

Tu sola il mio.

Adel.

Quel di colei?...

Rom.

Uberto.

Adel.

E il padre? . . .

Rom.

Finge.

Adel.

E il foglio?

Rom.

Inganna.
{p. 170}

Adel.

Oh Dio, se fosse ver..! ma i chiari sensi
D’impazienza, di speme? . . .

Rom.

In alta impresa.

Adel.

Di patria?

Rom.

Sol di patria.

Adel.

E giuri?

Rom.

E giuro.

Adel.

Ahi non resisto più, vieni al mio seno.

Adelinda disingannata e piena di gioja crede che Romeo voglia palesare i congiurati a prezzo della salvezza sua e di Uberto. Ma la virtù e la costanza di lui la fa cadere nel più profondo abbattimento, al considerare, che ella, lui fedele, non se ne può disgiungere, e che egli fermo nel proposito di tacere rimane esposto a tutta l’indignazione del padre. Le tenere insinuazioni di Romeo, perchè ella si disponga a soffrir con costanza la loro divisione, e i fervidi scongiuri di Adelinda che gli si prostra per ottener che ceda, danno a questa scena molta vivacità; la quale all’arrivo di Erardo loro figlio aumenta a segno, che Romeo intenerito più non resiste, e palesa quanto gli chiede.

L’ottava scena del IV già mentovata de’ rimproveri di Uberto e de’ rimorsi di Romeo {p. 171}chiude egregiamente l’atto. L’ultimo atto con una rapidezza giudiziosa, colla determinazione di Adelinda di correr la sorte del marito, co i consigli di Armanno a Gualtieri di appigliarsi alla clemenza, coll’incertezza del tiranno, che per non perder la figlia quasi è disposto a concedere la grazia, prepara alla compassionevole catastrofe. Romeo si è ferito a morte alla vista de’ congiurati giustiziati; Adelinda scapigliata ne reca la notizia dolorosa empiendo la regia di lamenti. Romeo moribondo abbraccia il figlio e la sposa e spira. Adelinda difperata si rimprovera di averlo con una cieca gelosia condotto a quel punto, riflette di non poter vivere senza Romeo e senza rinfacciarne al padre la perdita, e si uccide. E non si conterà quest’altra tragedia tralle buone dell’Italia?

La seconda tragedia del Pepoli quasi del tutto rifusa nell’economia della favola e nello stile, è Carlo e Isabella rappresentata in Bologna nel 1791, indi uscita per le stampe bodoniane l’anno 1792. Vi si premette una lettera del dotto Melchiorre Cesarotti del 1791, il quale si occupa con varie riflessioni a giustificarne lo scioglimento finale, ed il genere di morte degli {p. 172}amanti sotto le ruine del loro carcere. Questo argomento ben maneggiato dal conte Alfieri alla sua foggia, e tentato da altri anche in Francia1, spinse il conte Pepoli a ritoccare la sua che avea prodotta in Napoli e in Venezia. I miglioramenti sono notabili; il titolo stesso è ora più conveniente all’azione; la traccia procede meglio; vi si conservano bene i caratteri; gli affetti di Carlo e Isabella vi sono ottimamente espressi. Per lo scioglimento, che che ne abbia detto il Cesarotti, non tutti sono del suo avviso; non solo pel genere {p. 173}di morte, ma perchè non dee parer bene in teatro che la punizione de’ due amanti resti giustificata insieme colla gelosia del re dalla loro colpa, e che muojano abbracciati Isabella moglie di Filippo e Carlo figlio del marito d’Isabella.

La terza tragedia del nuovo teatro tragico del Pepoli è l’Agamennone, la quale per compiacenza dell’autore che me la rimise, lessi inedita nel 1791, e si è poi impressa in Venezia nel 1794 con una mia lettera preliminare su di essa e sulle altre antiche e moderne tragedie intorno ad Agamennone, pervenute a mia notizia. Non ripeterò quanto allora osservai su questa del conte Pepoli. Dirò solo che (oltre dell’azione ben congegnata conforme al nuovo sistema assai migliorato, e dello stile nobile e vigoroso per quanto comporta il genere, e nulla stentato, duro, o contorto) merita di notarsi che di tutte le Clitennestre da me lette, questa del lodato autore sembrami la più conveniente al grande evento tramandatoci dall’antichità sull’ammazzamento di Agamennone. Non son molto contento, a dir vero, che alcun moderno abbia voluto rendere interessante e in certo modo partecipe della {p. 174}pubblica compassione un’ empia adultera che di propria mano trucida un gran re suo marito ed obblia i suoi figli per assicurarsi il trono insieme col drudo. Il terror tragico dee prodursi per questo assassinamento ad oggetto di purgar le passioni smoderate di chi ascolta, e di rendere detestabili gli atroci delitti di sì malvagia donna. La compassione dee tutta eccitarsi pel gran marito che pieno di sincera tenerezza per la moglie arriva nella sua reggia, e proditoriamente per mano della rea consorte cade sul letto maritale. E questo appunto si prefisse il Pepoli. Agamennone è un personaggio veramente tragico che chiama l’attenzione e la pietà verso di se, e Clitennestra è una femmina atroce, perversa, perfida, la quale avendo nutrito un odio inveterato contro di lui da che Ifigenia fu sacrificata in Aulide, l’accoglie, e l’immola al suo furor vendicativo.

Prima di chiudere la classe de’ nostri moderni tragici, per dar certo riposo all’ammirazione di chi legge, e per riserbarla agli ultimi due buoni scrittori de’ quali rimane a dire, mentoveremo alcune tragedie latine di questo secolo, indi altre italiane rimaste inedite, ed alcune altre che i proprj autori hanno voluto imprimere.

{p. 175}

Di fatti non si vogliono dimenticare le tragedie latine composte nel presente secolo per lo più da’ gesuiti. Marcantonio Ducci fece imprimere in Roma nel 1707 l’Ermenegildo; Giovanni Lascari nel 1709 Stanislao Koska; monsignor Gian Lorenzo Lucchesini di Lucca Maurizio Imperadore e Artavasdo oltre di altre due tragedie italiane. Sei ne produsse in Roma il dotto Carpani nel 1745. Giovanni Spinelli di Napoli de’ principi di San Giorgio compose un Epaminonda verso il 1746, e lo tradusse e stampò anche in italiano. Benemerito al pari de’ prelodati della drammatica poesia latina fu il celebre Francesco Maria Lorenzini nato in Roma dal fiorentino Sebastiano Lorenzini e da Orsola Maria Neri bolognese. Egli che insegnò col suo esempio l’arte di congiungere felicemente nella poesia italiana la forza e l’evidenza dell’Alighieri alla vaghezza e leggiadria del Petrarca, scrisse in latino alcuni melodrammi tragici elegantissimi. La sua Jaele s’impresse nel 1701, Atalia 1703, Sedecia e la Madre de’ Macabei nel 1704, Tamar vendicata nel 1706, S. Maria Maddalena de Pazzis in latino ed in italiano nel 1707, e Bersabea nel 1708, e trasportò ancora in latino i melodrammi {p. 176}del cardinale Ottoboni. Il chiar. Fabroni che ne scrisse la vita, di tali componimenti afferma, satis eleganter ea scripta fuisse, neque aliam laudem praeter hanc elegantiae ex iis quaesisse Lorenzinium. La stessa cosa è a dirsi de’ prenominati, ne’ quali invano si desidererebbe vivacità d’azione, energia di caratteri, perturbazione tragica, ed interesse. Il Lorenzini nella famosa discordia dell’Arcadia Romana attese ad addestrare alcuni giovani a rappresentar in latino le commedie di Plauto, e di Terenzio, che si ascoltarono con indicibile applauso, e con un numerosissimo concorso di persone di ogni ceto, perchè que’ giovani attori erano stati da lui così bene ammaestrati, che anche coloro che non aveano famigliarità con quell’idioma, intendevano ottimamente l’espressioni del poeta.

Sappiamo di non essersi più impresse nè Giovanna d’Arco del sig. Francesco Zacchiroli stimabile scrittore commendata dal chiar. marchese Albergati Capacelli, nè il Corradino composto da circa diciotto anni dal cavaliere Gaspare Mollo fecondo improvvisatore. Sappiamo ancora che su gli ultimi mesi del 1796 si stava occupando della tragica poesia un culto nobil {p. 177}uomo di Lecce il barone Francesco Bernardino Cicala. Egli tiene sotto la lima quattro tragedie, la Zelide, l’Ermione, l’Erode, e l’Eretteo; per indi renderle pubbliche coll’impressione, ma di questo giovane autore attivissimo parleremo nella Coltura delle Sicilie nel Regno di Ferdinando IV.

Sopra tutte le tragedie inedite che io conosco, è desiderabile che vengano alla luce quelle che è andato componendo il molte volte meritamente applaudito ab. Placido Bordoni veneziano. La sua nota erudizione, lo studio che ha fatto del cuore umano, la sua sensibilità, il buon gusto, l’eleganza della sua penna tanto esercitata, le raccomandano al pubblico, e fanno desiderare che si producano. Il breve viaggio fatto in Napoli da questo celebre letterato nel giugno del 1796, mi partorì insperatamente col piacere di riveder dopo tanti anni l’antico amico quello di udirgli leggere tali tragedie, e di ottenerne copia. Il pubblico italiano mi saprà qualche grado che io gliene avanzi alcuna notizia.

L’autor filosofo ha saputo rintracciar nuovi argomenti per la scena tragica ne’ bassi tempi e dove meno se ne attenderebbero. L’istituzione {p. 178}dell’Ordine militare della Mercede per la redenzione degli schiavi dalle mani degl’infedeli, gli ha suggerito per la prima tragedia intitolata Ormesinda un’ azione che risale all’anno 1244. Dallo storico Mariana si sa che Martos castello in Andalusia fu difeso verso il 1239 da una eroina spagnuola colle sue donne essendosene imprudentemente allontanata la guarnigione per una sortita. Dal Vargas nella cronaca di quell’Ordine militare, dal Barbosa, dal Caramuele, dall’Heliot, dal Wion si sa ancora che i Cavalieri ad esso ascritti non solo si destinavano al riscatto degli schiavi colle ricchezze, ma non ricusavano ad un bisogno di rimanere essi stessi schiavi, quando non potessero altrimenti eseguir l’opera del redimerne. Si sa eziandio che i professi facevano pure voti di povertà, castità ed obedienza. Con tali fondamenti e con verisimili eventi vien condotta Ormesinda difenditrice della fortezza di Martos prigioniera in Fez dal re Albumasar che le salvò la vita e ne restò innamorato e ne ambisce con un amor rispettoso, oltre l’uso della sua nazione, la mano, e le offre il suo scettro. Osta al suo amore la fede e la tenerezza che Ormesinda serba a Consalvo già destinatole sposo {p. 179}da suo padre. Questo sposo credendola morta precipitata dal castello di Martos si fa cavaliere della Mercede, e vi diviene professo. Arriva con Alfonso padre di Ormesinda in Fez per riscattare gli schiavi. Alfonso vi trova Ormesinda viva, teme che veduta da Consalvo possa egli vacillare ad onta del suo voto, e tenta di evitar l’incontro dei due, ma non vi riesce. Intanto il generoso Albumasar dona e non vende gli schiavi domandati insieme con Ormesinda, e solo chiede in compenso di sapere il nome di colui che le fu destinato sposo. Alfonso l’assicura che è per lei perduto, e morto, ma Albumasar lo trova vivo. Questa menzogna apparente, e qualche altra variazione rende a lui sospetti que’ cavalieri, e gli fa incatenare, rivocando la grazia degli altri schiavi. Nascono da tali vicende alcune patetiche situazioni, ed esercitano singolarmente la virtù di Ormesinda, che implora per essi la pietà del Sovrano. Intanto alcuni nemici Affricani assalgono la sede di Albumasar, che va a combattergli; in procinto di restare ucciso è salvato da un guerriero ignoto; ne cerca contezza, e trova che dee la propria vita alla grata e virtuosa Ormesinda, la quale gli è condotta {p. 180}innanzi mortalmente ferita.

Ciò che vuolsi principalmente notare in tal componimento, è che non vi è personaggio alcuno che non sia buono, o non adempia i proprj doveri, e la differenza che vi si scorge è la graduazione della virtù, la quale in Alfonso è rigida e religiosa, nobile mista di tenerezza in Consalvo, e in Albumasare e più ancora in Ormesinda giugne all’eroismo.

Le seguenti scene mi sembrano le più teatrali. I la quarta del II di Alfonso che trova viva la figlia, e le fa sapere che più non può esser suo Consalvo, perchè tra essi

     Voto solenne
Inviolabil voto alza e distende
Un muro insuperabile ed immenso,

e le impone di fuggirlo. II la quinta del III dell’incontro di Ormesinda con Consalvo, in cui veggonsi i teneri palpiti e la virtù di lei, e l’amor di Consalvo; e sopravvenendo nella sesta Alfonso che gli riprende, e vuole che Consalvo si allontani, alternando rimproveri, preghiere e comandi, diviene vie più interessante. III la scena seconda del IV, in cui Consalvo malgrado del divieto di Alfonso, si presenta ad Albumasar, il quale si maraviglia {p. 181}di Alfonso, che vuol lasciare in Affrica Ormesinda per un arcano che non vuol rivelare, e di Consalvo, che vuol rimaner prigione, finchè l’altro non abbia condotti via gli schiavi. Egli stanco di soffrire ordina che s’incatenino. Arriva Ormesinda che prega perchè sieno liberati, e vuole ella stessa rimaner prigioniera: Albumasar minaccia tutti, e impone che si chiudano in carcere. Ormesinda altro non potendo palesa che Alfonso è suo pae che l’altro è il suo sfortunato amante. Albumasar irritato per le reticenze de i due, e commosso dalle di lei preghiere, rimane sospeso. IV la terza del V, in cui Albumasar intende che chi gli ha salvata la vita è Ormesinda, ed ammira i prodigii che opera in petto de’ Cristiani la Religione. V l’ultima in cui Ormesinda tira a se tutto l’interesse e la compassione. Se ne vegga lo squarcio seguente per saggio dello stile e del patetico che serpeggia in questa favola:

Orm.

Padre amato, ti lascio . . . ed or che il cielo
Pietoso a’ miei lunghi sospir concesse
A me di rivederti ed abbracciarti,
L’acerbità del mio destino obblio . . .
{p. 182}
Se un dì la patria rivedrai, ch’io stessa
Più non vedrò, senza rossor potrai
De la tua figlia rammentarti, e forse
Non fia l’ultimo fregio a le tue glorie
Qual viss’ ella fra i ceppi, e qual morio . . .
Oh tu del mio destin compagna amata,
Rimanti in pace . . . tue virtù coroni
La sorte amica, e i giorni tuoi men foschi
Risplendano che i miei . . . . Tu poi, Consalvo,
Che il ciel m’avea già destinato sposo,
E mi ritolse . . . a tue promesse, a i voti
Conservati fedel . . . siegui il cammino
De la fe, de la gloria . . . ama in mio padre
La figlia estinta, e più che i nostri amori
Miseri e sfortunati, un dì le nostre
Virtù possano trarre altrui dagli occhi
Lagrime di pietade e meraviglia . . . .
Sento ch’io vengo meno . . . ah caro padre . . .
Ah Consalvo . . . deciso è il mio destino . . .
Dividerci convien . . . Di tua virtude
Mi fido, Albumasar . . deh tu consola
Tanti infelici ed innocenti . . . io moro.

L’altra inedita tragedia del sig. Bordoni s’intitola i Templarj, e si aggira sulla distruzione di essi seguita in Ispagna. L’opinione degli uomini lascia sospeso il giudizio sull’innocenza o {p. 183}reità di quell’Ordine militare e religioso istituito l’anno 1118; giacchè da una parte vennero que’ prodi cavalieri dopo due secoli di glorie condannati in Parigi da Filippo il bello ed in Roma da Clemente V, ed in Vienna dal Concilio generale del 1312, e dall’altra parte reputati innocenti e sterminati solo per la rapacità del nomato re di Francia che aspirava alle loro immense ricchezze, dai Concilii di Ravenna, di Salamanca, e di Magonza del 1310, e di Tarragona del 1312, come ancora da S. Antonino arcivescovo di Firenze, dal Villani, dal Le Mire, dal Purtler ed altri. L’autore si vale della loro lagrimevole strage di strato e fondamento per la sua favola ricca di quadri tragici e di patetiche situazioni alzata su di grandi passioni che urtansi con doveri grandi.

Anagilda figlia di Ramiro maestro de’ Templarj ama Enrico di Abarca che d’ordine sovrano dovè allontanarsi per guerreggiare in Affrica. Ma Ramiro padre di lei assediato in Morviedro, il quale ha ricevuti potenti soccorsi da Fernando di Ricla, lo destina sposo della figlia; ed ella che vede in Fernando un grande appoggio del suo partito e un valoroso e virtuoso {p. 184}cavaliere, sacrifica la propria tenerezza, e l’accetta. Enrico come ambasciadore viene a far le sue proposte di concordia che sono rigettate; indi terminata l’ambasciata in sensi amichevoli manifesta a Ramiro l’amore che ha per sua figlia, ed egli mostra rincrescimento di non esser più in tempo di gradire i suoi sentimenti. Ode in quel punto che Fernando è prigioniero, si agita, si volge ad Enrico, che promette di salvarlo, e parte. Fernando è liberato; Ramiro ne reca la notizia ad Anagilda, aggiugnendo doversi la sua salvezza alla magnanimità di Enrico di Abarca. Enrico in Morviedro? Enrico vicino ad Anagilda già sposa di un altro? Qual colpo! qual fulmine per lei! Fernando che sorviene, racconta in qual guisa fu liberato, e con sua maraviglia trova Anagilda immersa nel più gran dolore. Torna Enrico che ha saputo esser Ramiro il padre di Anagilda, e trovarsi ella stessa in Morviedro, e facendo premure per parlarle, intende di essere già congiunta in matrimonio con un altro. La vede venire e col maggior dolore le rimprovera la rotta fede. Giugne Fernando da lui liberato, e sente esserne egli il possessore. Questa serie di scene patetiche rende l’atto III {p. 185}pieno di moto e di azione. L’assalto generale dato alla città toglie ogni difesa e speranza ai Templarj, e gli assalitori appressano le scale alle mura. Enrico vincitore viene a salvare Anagilda, ella ripugna di seguirlo, egli s’affanna per liberarla dal pericolo imminente, e si getta a’ suoi piedi. Arriva il generale Rodrigo che di ciò lo rimprovera; e la sua venuta mostra l’esterminio seguito delle reliquie de’ Templarj. Rodrigo vuol condurre Anagilda al campo. Fernando colla spada sguainata vuole impedirlo, e nel dirizzarsi a Rodrigo lo riconosce per suo padre; si confonde, si umilia, pugnando nel suo cuore il rispetto di figlio con l’amor di marito; questa situazione corona l’atto IV. Arde Sagunto: caduti sono tutti i Cavalieri Templarj sotto le spade Aragonesi. Enrico rappresenta al generale il pericolo di suo figlio insieme con la sposa; vuol liberarli; Rodrigo si commuove, l’affretta; Enrico corre fralle fiamme; ma torna colla funesta notizia di esser l’uno e l’altra mortalmente feriti. Sono condotti presso a morire; spirano dandosi la mano; e questo quadro lagrimevole conchiude la tragedia.

Fra tanti passi eccellenti è ben difficile scerne {p. 186}alcuni pochi senza far torto al rimanente; pur ne indicheremo alquanti. Notabile nell’atto II è la scena terza di Enrico che come ambasciadore rileva i delitti apposti a i Templarj, e di Ramiro che mostra la falsità delle imputazioni, e la loro innocenza e virtù con un’ aringa degna della sublimità che si scorge nelle scene politiche di P. Cornelio. Nel III rendonsi pregevoli la seconda e terza, nella quale Anagilda intende che Enrico è in Morviedro, ed ha liberato Fernando: la sesta in cui Enrico vuol vedere Anagilda, e Ramiro lo dissuade: e la settima, dove Anagilda palesa al suo amante di essere già sposa di un altro, che non isdegnerebbe riconoscer per sua l’istesso Racine. Nel IV degna singolarmente di osservarsi è la quinta scena, quando Enrico viene a salvare Anagilda, ed ella ricusa di seguirlo. Vieni meco, Anagilda, le dice Enrico:

Ana.

    Io teco? io sola?
Io figlia di Ramiro, e di Fernando
Sposa con te venir, con te, che sei
L’amante d’Anagilda, ed il nemico
Di Ramiro e Fernando? Ogni soccorso
Che m’offra il braccio tuo per me diventæ
Onta o martir. Su queste mura il padre
{p. 187}
Pugna e lo sposo mio; da queste mura
Se non fuggo col padre, e con lo sposo,
Quì restar voglio, e si confonda insieme
Il lor sangue col mio. Ricuso, Enrico,
L’offerte tue, la tua pietà.

Enr.

Vuoi dunque
Perir, ed io deggio soffrirlo?

Ana.

Invano
T’opponi a’ miei disegni.

Enr.

E chi ti sforza
Ad esser teco sì crudel?

Ana.

Virtude.

Enr.

Ma la tua vita?

Ana.

Io non la curo.

Enr.

Oh Dio!
E se perisci intanto, a chi fia grata
Sì rigida virtude?

Ana.

Ad Anagilda.

Anche la settima del medesimo atto è singolare per la riconoscenza di Fernando del proprio genitore in Rodrigo, mentre per disendere Anagilda gli va incontro con la spada sguainata. Una bellezza Omerica si nota nella sesta scena del V, in cui Enrico descrivendo con verità di colori la strage de’ Cavalieri fa senza sforzo un quadro vivace e patetico di Ramiro {p. 188}moribondo sostenuto da Fernando ed Anagilda. Chiude egregiamente la tragedia la scena ultima, in cui spira Anagilda e Fernando:

Ana.

Già sento . . . che la vista, oh Dio . . . mi manca.
Ahi che pena . . . che orror . . . vedermi al fine
Dentro il campo nemico e tra coloro,
Che han dato morte al padre mio . . . se qualche
Conforto trova questo cuor . . . è solo
Nel morirti vicino, o mio Fernando . . .
O difensor dell’innocenza . . . o vero
Sostegno de’ Templarj! Il cielo, Enrico,
Le tue virtù coroni ed a te renda
La dovuta mercede:

Enr.

Ah sventurata!
Ah misera Anagilda!

Ana.

Ombra paterna . . .
Ti vedo e ascolto . . . tu mi chiami . . . e voi
Già m’affrettate di seguirvi, o chiare
Magnanim’ ombre de’ Templari . . . io vengo . .
Vengo . e con me viene Fernando ancora . . .
Da quel globo di luce, ove tu splendi,
Stendimi la tua destra . . . amato padre . . .
Stendila pure al tuo Fernando . . . ah sposo,
Io manco . . . io moro.

Fer.

Io pur ti seguo, o sposa . . .
Ma dove sei? . . più non ti veggio . . . ah dammi . . .
{p. 189}
Anagilda la mano . . . ecco la mia . . .

Tragedie impresse che io non ho veduto ancora, sono le seguenti: il Cerauno, che, secondo il conte Pepoli, imita un po troppo la celebre Olimpia col semplice cambiamento de’ nomi; l’Agrippina che l’istesso illustre letterato chiama lirica e feroce: Don Carlo che sento essere stato impresso in questi ultimi anni dall’illustre sig. principe di Caposele Lagnì suo autore.

La Merope poi dell’insigne marchese Maffei dal medico Sarconi deplorabilmente e con pessimo consiglio ridotta in prosa, era impressa sin dal 1772; il Teodosio il Grande del medesimo autore pubblicato nel 1773, era un infelice componimento scenico scritto in affettata prosa mista a frequenti involontarj versi; dramma che rassembra una musicale opera informe per la moltiplicità delle azioni di tre eserciti; di due armate navali, di combattimenti decisivi seguiti in mare e in terra, e di altre azioni che passano in luoghi differenti &c. &c.

Colla falsa data di Londra nel 1790 comparve in Napoli Corradino tragedia senza nome di autore. Se si attenda ai tratti pungenti, che vi si spargono insipidamente contro di Roma e del pontefice, sembra questa produzione di {p. 190}qualche meschino filosofastro alla moda bramoso di lasciare svaporar la sua decisa rabbia ed avversione verso di quella corte. Se riflettasi allo stile, alla versificazione, alla maniera di colorire priva di quella felicità di pennello onde si ritrae al vivo la natura, il componimento pare uscito da penna indigesta, giovanile, e poco esercitata. L’azione è notissima, la morte di Corradino su di un palco colla formalità di un processo accelerata e comandata da Carlo I di Angiò per torsi davanti un perpetuo competitore al trono di Napoli. Vi s’introduce Roberto di Bari atroce e basso personaggio venduto alle mire di Roma, il quale con somma impudenza e con niuno artificio manifesta se stesso e i velenosi suoi disegni. Beatrice moglie di Carlo, carattere insipido, che sedendo sul trono napoletano, al sentire che la misera madre di Corradino armata di lagrime e di ricchezze viene a riscattare il figliuolo, ingombra di sospetti mal fondati paventa di perdere il regno, quasi che l’infelice si appressasse alla testa di un esercito, ed affretta con insidie l’eccidio del prigioniero. Ella dice (scena 3 del II atto):

Dunque indarno sperai che alle superbe
{p. 191}
Germane un dì pari sedessi anch’io?

ma perchè dice di avere sperato invano? non è ella già regina?

       Ah pera
Tutto con me, prima che a tal ridotta
Di novo io sia condizion privata.

Reputavasi ella dunque di condizione privata regnando nella Provenza ed in altri stati di Francia con Carlo fratello del santo re Luigi? Ignorava che nata com’ era di real sangue e dominando nella Provenza, la sua condizione era pur di sovrana, e tutto quello che conseguì col regno di Napoli fu un dominio assai più vasto ed il titolo di regina? Il Carlo poi della tragedia è ben lontano dall’Angioino della storia. Non comparisce nè prode, nè magnanimo, nè ambizioso con certa decenza e nobiltà, ma soltanto avido usurpatore infingevole con bassezza, che scende alla viltà delle insidie. Vestito delle picciole e guaste idee dell’autore egli mostra di conoscer male l’importanza del carattere e dell’uffizio di re nell’asserire (scena sesta del I),

Buon re non dee esaminar le leggi,
Ma sol cieco eseguirle.

Questa massima non è punto evidente. Al suo {p. 192}dire dunque, se le leggi per le circostanze de’ popoli esigono cambiamenti o moderazioni, altro non è permesso al buon re che ciecamente eseguirle, dovesse anche soffrirne lo stato? Il buon re perde dunque ogni diritto di provvido legislatore? Spietato poi fuor di misura e basso si dimostra questo Carlo della tragedia, allorchè nell’incaminarsi Corradino, ingannato dall’equivoche sue parole, per seder seco sul trono, egli lo respinge, dicendogli (scena 5 del V) con tutta la grazia e la maestà tragica,

Trono più degno, qual a re sì prode
Conviensi omai, gentil sicario appresti.

Rare volte il coturno è piombato in simili sconcezze. Sicario è posto in vece di carnefice? E l’aggiunto di gentile, anco per irrisione, stà bene a un sicario o a un carnefice, ed in bocca di un re, e in una tragedia? Non avvilisce e degrada la regia potestà, la bassezza, l’impertinenza, l’inutilità ancora, e l’atrocità nel tempo stesso di tale scempio sarcasmo? Il sogno narrato da Corradino (scena 2. del II) quanto poco si confà col suo valor maschile e coll’aspetto della vicina morte che l’attende. E che produce quel sogno? qual nuovo movimento ne risulta all’azione? quale accrescimento al {p. 193}tragico? Si vorrebbe oltre a ciò la favola meglio organizzata, più tendente al fine, meno carica di freddi riposi episodici che la rallentano. Si vede talvolta il teatro lasciato voto, come nell’atto V, partendo Margherita nella scena terza, e venendo poi nella quarta Beatrice. Mancano nello stile quei tratti vivi e potenti che chiamansi colori dell’opera; il dialogo non ha naturalezza, i versi hanno del prosaico, la locuzione manca di purezza e di proprietà1. Ciò che unicamente può lodarvisi è l’esservi introdotta la Madre di Corradino, ed il colpo di scena dell’incontro inaspettato di lei col figliuolo, che potrebbe far {p. 194}qualche effetto in teatro, se questa tragedia potesse rappresentarsi senza scandolo del pubblico. E se meno scempia fosse, meriterebbe lode l’autore per essere sinora stato il primo e l’ultimo che abbia schivato l’avvilire e imporcare il fine lagrimevole di quel giovane principe con uno svenevolissimo intrigo d’amore.

Non ci curammo nell’imprimere il sesto volume di questa istoria di parlare delle tre tragedie stampate di un regnicolo di Brienza, sapendo che l’autore si occupava in ammonticare alcune sue riflessioni sul teatro accresciute successivamente con cartucce, letterine, ed analisi; e nostro intendimento fu allora di attendere l’impressione di simili cose, per ammirar poscia tutto ad un tratto e le sue teorie drammatiche e le sue tragedie, e di confrontare quanto in lui stesso si accordasse il tragico pratico ed il precettore. Ma non essendosi mai in tanti anni date alla luce le promesse o meditate riflessioni, stimiamo ora di non defraudare i nostri leggitori delle notizie delle tre sue tragedie, e sebbene ne tesseremo analisi non saranno quelle che distesi nel 1795, ma più succinte, così consigliati dal cangiamento indi avvenuto nello stato dell’autore.

{p. 195}

Egli incominciò la sua tragica carriera con gli Esuli Tebani impressa senza data verso il 1780 (insieme con una sua orazione latina ad Orlow) che non comparve sulle scene. Facciasi ragione al vero, nè la versificazione prosaica, negletta, dilombata, nè lo stile basso, snervato, privo di colori e di affetti, nè la sceneggiatura sconnessa senza incatenamento, e senza motivarsi l’entrare e l’uscire de’ personaggi, nè la favola spoglia d’interesse, di compassione e di terror tragico, nè la lingua scorretta e barbara, ci presenta in questa prima tragedia un componimento tollerabile se non lodevole. Ma avendo l’autore fatto ogni sforzo per abolirne la memoria, si è conformato all’avviso del pubblico, e a noi basta di averla mentovata. Passiamo al Gerbino, ed al Corradino ch’egli accarezzò e riconobbe per sue.

Gerbino si pubblicò nel 1787, e si recitò tre sere da’ comici Lombardi nel teatro de’ Fiorentini in Napoli. Il soggetto è tutto finto; e solo il nome di Gerbino nipote del re Guglielmo di Sicilia, e l’intrigo amoroso di lui con la figlia del re di Tunisi condotta alle nozze del re di Granata, è tolto dalla novella quarta della giornata quarta del Decamerone di {p. 196}Giovanni Boccaccio. Tolse anche l’autore dagli Straccioni del Caro lo scambio della Giulietta con una schiava coperta delle sue vesti e trucidata sul cassaro della nave, e l’appiccò al fatto della sua Tunisina che precede la rappresentazione. Il di più è un romanzo rattoppato di ritagli del Corradino del Caraccio, della Inès del sig. La Mothe e di altri. Eccone una succinta analisi1.

Atto I. Apresi la tragedia con una scena di confidenza sugli evenimenti passati fatta da Erbele a Zelinda in quel momento, benchè dimorino sempre insieme. E perchè non gliene parlò prima? perchè il pianto altra volta l’interruppe. Racconta Erbele di essere stata mandata dal re suo padre al re di Granata, e la confidente va tratto tratto interrompendola dicendo, che seguì d’appresso? (e dir voleva che seguì di poi). Gerbino suo amante venne a combattere i legni che la conducevano, e gli distrusse; ma i Granatini trasserla a forza sul {p. 197}palischermo a Granata, intanto che altri di loro trucidano una donna coperta del suo manto reale sugli occhi di Gerbino che lei credendola lanciossi in mare. Ma Erbele che ciò riferisce, come il seppe? come il vide? un udii, un seppi poteva soddisfare gli ascoltatori. Parte Erbele, e l’autore perchè non rimanga la scena vota, fa trattener Zelinda senza perchè, finchè da Ormusse non gli si dica di partire.

Viene Gerbino incatenato fralle guardie reali, e di tutto egli favella alla loro presenza, sicuro forse che essi o non sentiranno, o non parleranno di ciò che si dice. Egli per farsi conoscere agli spettatori nomina se stesso, appunto come si fa ne’ drammi cinesi. Si lagna indi che vedrà Erbele nelle braccia del rivale; ma come ciò teme, se la vide uccidere sulla nave? e se in seguito seppe che era viva, perchè non farne motto? A che poi Filinto dice che essi furono presi da un corsaro? Non è ciò noto a Gerbino? Egli sul gusto lirico de’ secentisti, dice, come potrò

Scacciar dal sen la deitâ suprema
Che tempio ed ara nel mio cor possiede,
Che vi riceve l’idolatro incenso.

Fa poscia una indiscreta confessione a Filinto, {p. 198}la quale non è solo superflua, dovendo già esserne l’amico informato, ma denigra per sempre il carattere di Erbele palesandosene le colpevoli debolezze.

Erbele accolse i miei sospiri, e pari
Ardor accese l’alma sua gentile,
Ed al mio amor ben largo premio ottonni
In quella notte (oh sempre cara notte
Che non cancellerà dall’alma mia
O tempo o sorte) in cui l’audace amore
Mi sospinse a montar l’eccelse mura
Del Serraglio real, a cui d’intorno
Veglia l’orror di morte e lo spavento.
Dolci memorie in fero duol converse!
Deh quali oggetti il mio pensier dipinge!
O voi d’Erbele aurati e lieti tetti,
Ove il tremante piè tacito posi!
O momento fatal quando m’accolse
Tralle sue braccia, e al bianco petto strinse.

La virtù quì fa poco contrasto alla passione, ed Erbele con tutto l’agio accoglie fralle sue braccia un amante ad onta del padre che l’ha destinata ad un altro.

Viene Osmida e dice (forse alla guardia) conduci i prigionieri, che pur gli stanno innanzi. Sapendo che son di Sicilia, domanda se son {p. 199}del perfido Gerbin compagni; e perchè il chiama perfido egli che ignora il congresso notturno de’ due amanti in Tunisi? Oziosa domanda, perchè essi non si direbbero mai compagni di uno che egli abborrisce. Non è meno oziosa l’altra domanda, se sia vero che Gerbino morì in mare, perchè o nulla ne sa chi non era con lui, o nulla ne dirà chi fosse compagno di Gerbino. Passa ad asserire il soldano che egli renderà schiavi quanti Siciliani potrà; minaccia inutile, perchè mandando egli, secondo il costume saracinesco, i suoi legni in corso, è chiaro che ami di far delle prede su i Siciliani, e su altri Cristiani. Tutta la scena è un puro cicalamento. Non è dissimile la seguente di Erbele ed Osmida ancor più lunga. Osmida le rimprovera la memoria che ancor serba di Gerbino estioto. Non ci volea altro per isnodarle la lingua. Ella gli ricorda che fu costretta dal padre alle nozze di lui, ma che ella conserverà sempre il suo ardore, perchè.

Non mai si estingue in nobil cor la face
Che amore accese, e la virtù nutrio.

Passi che una face di amore non mal si estingue; ma ostentar virtù dopo quel notturno illecito abbracciamento, dopo di avere stretto {p. 200}al suo bianco seno un amante, baciatolo, e concesso al foco di lui ben largo premio, è una ipocrisia inescusabile.

Atto II. Nulla passa nell’intervallo de’ due atti; l’azione trovasi nel punto in cui stava. Comparisce un certo Germondo, personaggio affatto estrinseco alla favola, ma che sebbene si enuncii come eroe, Normanno, e Cristiano, ha servito in guerra il re moro, nel cui regno dimora ritirato in campagna. A che viene? Ad implorare che i due prigionieri si tengano senza catene sulla loro parola; e perchè ciò? perchè Gerbino possa introdursi nella reggia. Il re condiscende, e di più a scelta di Germondo, che ciò non richiede, concede ad uno di essi la libertà. Dopo di ciò sarebbe partito il re con Germondo, ma per non lasciar vota la scena, attende che esca Erbele, e poi parte. Ella è venuta fuori per attendere Zelinda, che pur sarebbe andata nel di lei appartamento. Viene questa confidente a darle notizia de’ due prigionieri, ed Erbele al sentire ciò che narra di Gerbino, dice

Questa è l’età di che fiorìa Gerbino.

Entra Gerbino, erbele sviene, Zelinda dice:

Ripiglia il tuo valore: Al re nascondi
{p. 201}
L’arcan fatale. Io veglierò frattanto
Per darle in tempo, se verrà l’avviso,
Mentre che il freno a’ dolci affetti scioglie.

Darle a chi si riferisce? ad Erbele o a Gerbino? Non ad Erbele, perchè Zelinda avrebbe detto darti, non a Gerbino, perchè non è femmina. Verrà par che si rapporti al re, scioglie a Gerbino. Ecco la prima espressione di Gerbino:

E m’è concesso d’esalar di nuovo
Sulla tua mano il cor sciolto in sospiri.

Di nuovo? si può dunque più di una volta esalare il core, e non morire? Ma come si esala il core in sospiri? Una falsità iperbolica del seicento a prima giunta. Erbele vuol sapere come siesi Gerbino salvato dal mare; ma se ciò è a lei venuto in mente, come Gerbino non domanda, come ella fosse scampata dalle mani de’ barbari che sotto i suoi occhi l’aveano ferita? Direi ahe il poeta si sovvenne del caso di Gerbino, e si dimenticò di quello di Erbele. Passa Gerbino a domandare,

All’ara infausta innanzi hai tu la fede
A me promessa, al crudo re giurata?

Ed Erbele,

     Non mi legò finora
All’odioso nodo il sacro rito.
{p. 202}

Ma innanzi a qual ara, e con qual sacro rito si contraggono i matrimonj de’ Musulmani, presso i quali le nozze sono meri contratti civili? Erra poi Gerbino nel dire che il suo ferro si tinse nel sangue

Del Tunesin sugli occhi tuoi trafitto,

giacchè dicesi nella scena I del I che Gerbino assaltò de’ Granatin la flotta, e non già de’ Tunisini. O dunque menti Erbele nel I, o mentisce Gerbino nel II. Dice Erbele nella stessa scena,

E’ l’innocenza, è la virtù delitto,
Se la punisci, o ciel.

Ma patisce ella forse coll’amante, a cagione dell’innocenza, o almeno della virtù? Al contrario il loro amore è illecito e colpevole. Questa virtù che ella ostenta è l’amore; è la virtù degli eroi de’ romanzi, i quali virtuosamente rapiscono le donzelle, che diconsi eroine mentre si lasciano rapire. Così in fatti l’intende Erbele, che dopo i riferiti abboccamenti notturni, in cui sacrificò l’onor proprio alla passione, si offende perchè Gerbino dubita di lei, e dice con nobil disdegno,

Dammi la morte, e l’onor mio rispetta.

Viene Filinto e si attacca tra lui e Gerbino {p. 203}una gara di generosità, perchè Filinto vuol che l’amico parta libero per la grazia ottenuta da Germondo, ed egli vuol restar prigioniero. E’ imitazione di quella di Oreste e Pilade del Rucellai, e di Corradino e Federigo del Caraccio; ma non produce un pari effetto; perchè i pericoli di Oreste e di Federigo sono evidentemente mortali; là dove Filinto non rimane esposto alla pena sicura di morte. Di più al partir libero Gerbino in forza della grazia regia, ha speranza di esser anch’egli liberato per qualche modo. Ma Gerbino sovvenendosi di Guglielmo suo avo, per voler fuor di luogo imitar l’espressione di Oreste, esclama

     Ah sconsolato vecchio
Questo non aspettavi amaro colpo!

Ma qual colpo, se egli ritorna libero alla reggia Siciliana?

Atto III. Erbele ha già inteso che Gerbino è partito ed è in salvo, ma vuol che Zelinda le ridica gli ultimi suoi detti, gli ultimi sguardi. Dimmi Zelinda,

Il caro amico nel partir che disse?
Che mai t’impose? profferì il mio nome?

E quì l’autore pensò ad imitare le domande di Ermione nell’Andromaca del Racine. Ma Ermione {p. 204}in procinto di perdere Pirro, ha ben ragione di volere indagare per tali picciole cose, se a lei pensi tuttavia; là dove Erbele ha recenti pruove della fede di Gerbino; quindi è che le premure di Ermione svegliano l’attenzione, e quelle d’Erbele fanno svenire; e tanto più che Ermione domanda per la prima volta, ed Erbele ha sentito più volte il racconto di Zelinda, che dice,

Più fiate il labro mio gli estremi detti
A te narrò,

dove se vuolsi pronunziare italianamente, si fa un verso di dodici sillabe dovendosi dire fi-a-te, e non fia-te1. Contro il costume de’ Musulmani Zelinda non solo senza velo si dimena per la reggia, ma va anche fin sulla soglia per esser vicina a Gerbino a segno di vederne gli sguardi, ed udirne i sospiri e le parole dette da lui che si volgeva alle alte mura.

{p. 205}

Nella scena 2 Osmida furibondo esce dicendo alle guardie

O vivo, o l’empia testa a me recate,

e torna dentro; ma perchè non ordinar ciò dentro? perchè il poeta volea far ciò sentire ad Erbele. Anche Ormusse esce a dare un ordine, e si ritira, poi esce di nuovo, e ne dà un altro. Ma perchè tanto scompiglio? Perchè certo nunzio che esce in campo quasi al tocco di verga magica, ha scoperta la falsa morte di Gerbino, ed il re dubita che possa essere il prigioniero che è partito. Ipotesi e supposizioni senza risparmio, per condurre, non una situazione tragica, ma una momentanea sorpresa. Osmida torna fuori di nuovo, e minaccia Erbele veramente senza veruna ragione; pure ella non adducendo discolpa, posta in aria di Megara moglie di Ercole, parla per aforismi sul gusto di Seneca, e prendendo in prestanza l’espressioni di Ezio vincitore di Attila, risponde:

Chi visse ignoto a se, negletto altrui,
Morte paventa.

Ma quali gesta (dirà l’ascoltatore) lascia di se dopo morta Erbele, eccetto l’aver preso di notte un uomo fralle sue braccia, e profanata {p. 206}la reggia paterna? Aggiugne:

     L’onor chi serba,
Morir non teme.

L’ha serbato ella?

Viene nella scena 5 Germondo a scusarsi col re di non aver saputo i nomi de’ prigionieri, e giura

Per questo crine che imbiancò sull’elmo; espressione che letta e udita in teatro produsse varj motteggi per quel crine, che imbiancò sopra dell’elmo, e che obbligò l’autore a rimediare l’inavvertenza con un cartesino.

Ormusse esorta il re a trarre il vero dal prigioniero a forza di tormenti,

Del facondo martir la certa prova
Della tua mente ogni dubbiar dilegui.

Dare il parlare alla corda, è soverchia arditezza fecentista, ma dirla faconda, è un eccedere sopra ogni stranezza.

Atto IV. Liete nuove reca Zelinda; Gerbino è sicuro. Ella, per relazione di un soldato fuggito alla strage, racconta ad Erbele la battaglia che egsi ha avuta con due schiere di soldati a piedi, ed a cavallo. Comincia, è vero, in tuono famigliare ed alla sua condizione ed al suo sesso corrispondente, ma poi quella mora {p. 207}si affibbia la giornea de’ pedanti, e sfoggia in figure rettoriche, e manifesta l’autore. Fra i quaranta versi del suo racconto, havvene ventiquattro, ne’ quali si descrive la pugna satta da Gerbino, e vi s’inseriscono l’un dopo l’altro tre paragoni, uno di leone famelico che rabbioso infierisce nel gregge (ch’è l’impastus ceu plena leo per ovilia turbans dell’epico latino) il secondo di uno scoglio che sostiene l’onde,

Quando de’ venti un fiero turbo mesce
Gli alti campi del cielo, e il mar sconvolge,

l’ultimo peggiore degli altri per le circostanze soverchie al caso, di un silenzio ed orrore,

Qual regna in valle solitaria cinta
D’antiche tombe in taciturna notte.

Oltre poi degli eruditi paragoni la Mora descrive il rapido e certo ferir di Gerbino imitando un altro grande epi o,

Cento colpi ribatte in un momento,
Nè colpo schiva, che non dia percossa,
Nè dà risposta, che non dia ferita,
Nè porta altrui ferita senza morte1.
{p. 208}

Viene Gerbino tralle guardie, il quale essendo lasciato dal loro capitano per darne avviso al re, ha la libertà di amoreggiare a sua posta. Erbele lo chiama Gerbino senza curarsi delle guardie, che per ipotesi del poeta non debbono udir nulla, ed intende come dopo di aver rotte le schiere di cavalleria e di fanteria gli s’infranse il ferro e rimase prigioniero. Giugne anche Filinto pur tra guardie, e nel loro terzetto si nomina Gerbino senza riserba, e senza dissimulare il dolore che può farlo palese. Nè in questa scena il virtuoso Gerbino lascia di dire che l’estremo suo

Fiato accorrà quella leggiadra bocca
In cui rimase l’alma mia nel primo
Bacio felice.

Filinto propone di volersi far credere Gerbino, {p. 209}come Federigo del Caraccio volle passar per Corradino. Ma Filinto sa forse che il re ignora tuttavia qual d’essi due sia Gerbino? sa che quando Gerbino fosse un altro, il re lascerebbe impunito chi gli ha trucidate due schiere di soldati? Ecco come ad ogni passo s’incontra un precipizio, quando si copiano senza destrezza le altrui invenzioni.

Nella scena 5 esce Osmida che dice a Gerbino

Il fuggitivo piè non ti sottrasse
All’ira mia.

O ch’io m’inganno, o il Granatino è uno smemorato o un bugiardo. Non ha egli concesso a Germondo uno de’ due prigionieri libero? Or perchè, se Gerbino è partito, gli rimprovera la fuga? perchè Ormusse confessa lo stesso? perchè Gerbino non si difende con dire che partendo ha usato del real dono? Osmida poi non potendo sapere chi de’ due sia Gerbino, dice

     Voglio che il vero

Dall’uno e l’altro il fier tormento esprima. Per nulla dire di quel dall’uno e l’altro, non ben si vede come il tormento possa esprimere; al più può obbligare a palesare, ad esprimere. Tralle violenze del carattere di Osmida è da {p. 210}porsi il comando che dà, che Gerbino condotto al patibolo

Sugli occhi dell’indegna paghi il fio.

Erbele non è rea di nuovo errore, non è complice nella fuga o nelle prodezze di Gerbino, e pure il Moro la condanna all’infamia di assistere all’esecuzione della sentenza del colpevole:

Atto V. Ormusse narra ad Osmida che Gerbino è stato tratto al luogo del supplizio, e che Erbele

De le sue dame in mezzo al folto cerchio
Seguia di morte la funesta pompa;

benchè paja che le sultane de’ Musulmani non dovessero alla maniera delle principesse Europee avere un corteggio di dame in vece delle schiave usate nelle corti moresche.

Sul punto dell’esecuzione della sentenza ecco il solito Germondo che giugne per domandar grazia per lui al re. Gli espone come egli col suo decreto va in Gerbino a schiantar il germe della famiglia de’ re Normanni di Sicilia, come se ad un re moro non amico, ed offeso, debba ciò importare nè punto nè poco. Nel far poi premure per la grazia per chi può rimanere ucciso al momento, si ferma in una osservazione intempestiva,

{p. 211}
Felice è quel che alla Sicilia impera,
Se ben conosce la soggetta terra.

Inutili non meno delle proposte ragioni politiche sembrano le altre che egli ricava dall’amore de’ due amanti, che debbono sempre più irritare il furor geloso di Osmida. A noi sembra che più acconciamente si sarebbe egli appigliato al partito di destare nel re uno spirito di generosità spingendolo a concedere un nobil perdono che lo farebbe amare ed ammirare; ma questo colore appunto è sfuggito a Germondo. Contuttociò, malgrado delle deboli ragioni di quel vecchio, Osmida si determina a liberar Gerbino dalla morte. Come però si accordi l’Osmida di quest’atto con quello de’ precedenti; come si guardi la convenevolezza del costume in un tiranno abituato alla crudeltà colla sua repentina non preparata mutazione; come convenga al tiranno Granatino quel vederlo, per una parlata poco concludente di un cristiano, divenire in un tratto eroe, magnanimo, impaziente dell’esito al pari di Seleuco del Varano e di Tito del Metastasio, nel dubbio che non arrivi in tempo il divieto dell’esecuzione: lo pensi e ne giudichi il leggitore imparziale. Osmida resta a trattener lo spettatore {p. 212}con un monologo di trentasei versi, in cui non solo mostrasi bramoso di gloria e geloso di esercitar la clemenza, virtù sino a quel punto a lui ignota, ma diviene anche precettore di grandezza d’animo. Germondo gli ha chiesta la vita di Gerbino, ed egli con la vita vuol dargli di più la libertà ed Erbele, ed essere il pronubo delle loro nozze. Gerbino è liberato, Osmida gli cede Erbele, ma Erbele si è avvelenata. Quest’ultimo colpo dopo la grazia appartiene alla Inès de Castro del sig. La Mothe. Osmida resta privo della sperata gloria, e Gerbino si uccide.

Così termina il Gerbino, in cui si pongono a contribuzione il Boccaccio, il Caro, il Caraccio, il Ruccellai, il Metastasio, e La Mothe. Risulta da quanto se n’è notato di non esser questa tragedia differente dagli Esuli Tebani, giacchè vi si desidera il decoro del costume più corrispondente alle maniere de’ Mori, l’economia dell’azione meglio organizzata, la locuzione più pura e più propria, lo stile più eguale, e meno infettato di lirici colori e di concetti secentisti, i caratteri più costanti, gli affetti meno svenevoli, le situazioni più convenienti al genere, e soprattutto più rispetto, {p. 213}ed onestà, giacchè vi si fa passare per virtù l’incontinenza e la violazione di una casa reale.

Corradino terza tragedia del medesimo autore non rappresentata si stampò in Napoli colla data di dicembre 1789, benchè si pubblicasse più tardi. Vi si premette un discorso al Lettore, in cui l’autore esalta i pregi del suo componimento e aringa diffusamente contro del Corradino del Caraccio; ed in esso conviene trattenerci alquanto.

Vi si dice alla bella prima, che la tragedia è un’ azione pubblica, grande, interessante, e nazionale. Che pregio sia della tragedia l’esser nazionale, s’intende, e si è mille volte detto e ripetuto; ma che per essenza debba esser tale per chiamarsi tragedia, nè s’intende, nè si accorda. Ad esserne questo un requisito essenziale, ne seguirebbe, che per noi moderni non sieno tragedie quelle che ci rimangono del teatro greco, non potendosi avere in conto di nazionali nè da noi, nè dagli Spagnuoli, nè da’ Francesi, nè dalle altre nazioni settentrionali. Con simil norma non riconosceremmo per tragedie le moderne che vertono su’ fatti orientali o americani o affricani. Il Maometto, il Solimano, il Radamisto, il Bajazzette, {p. 214}la Semiramide, l’Orfano della Cina &c. passar non debbono per tragedie fra noi, giacchè non sono nazionali pe’ nostri paesi. Non saranno poi tragedie pe’ Francesi, Inglesi, Spagnuoli, e Alemanni quelle che parlassero di Ugolino, di Giovanna I, del Piccinino &c. Non saranno per noi tragedie la Zaira, il Tancredi &c., Carlo I d’Inghilterra, Carlo figlio di Filippo II di Spagna &c. Dicesi anche in tal discorso che i Greci ciò dimostrarono con esempi e con precetti, e nè anche questo a me sembra vero. Trovasi forse prescritto che la tragedia debba essenzialmente esser nazionale nella Poetica di Aristotile, o nel suo comentatore Eustazio, o in Teofrasto, o in Demetrio Falereo? Nè anche può dedursi tal regola dagli esempj greci, perchè sebbene la maggior parte di quelle a noi pervenute contengano argomenti greci, e perciò ad essi nazionali, chi sosterrebbe che tali sempre fussero tutte le altre che a noi non giunsero? Certo è che alcune delle rimasteci esprimono fatti di popoli stranieri. Il Prometeo al Caucaso p. e. è nazionale a’ Greci? Reso, Frisso, Medea stessa, benchè vi s’introducano alcuni Greci, non per tanto i protagonisti sono stranieri, o straniere ne sono le azioni. Lascio {p. 215}poi la memoria e qualche titolo restatoci di antiche tragedie, che indicano azioni straniere, come i Persi e gli Egizj di Frinico, il Fiore di Agatone &c.

Per non fermarci ad ogni motto di tal discorso, omettiamo diverse cose che vi si affermano discordi dalla verità, cioè che il Gerbino si accolse benignamente in teatro, e che essa sia la prima tragedia dell’autore; altre ne omettiamo avventurate contro la storia e la buona critica, cioè che il Racine ed il Metastasio non hanno introdotto nelle loro favole che amori freddi ed episodici; e che lo stile delle antiche tragedie italiane, cioè di quelle del XVI secolo, manchi di armonia.

Ci fermeremo in ciò che si dice dell’argomento del Corradino. I si maraviglia l’autore, che i Francesi non l’abbiano trattato, e si applaudisce della propria scelta, quasi che fosse stato il primo a recarlo in iscena, quando è noto che il Caraccio se ne valse sin dal cader del passato secolo, che il sig. Mollo son quindici anni in circa che ne scrisse un’ altra tragedia, e che l’anonimo surriferito ne ha pubblicata una terza.

Il Prende l’autore a censurare quella del {p. 216}Caraccio dichiarandola imperfettissima. Egli chiama episodico il freddo amore di Clarice e Corradino, imbecille il re Carlo, la tragedia ripiena di lunghi soliloquii e di scene inutili che non addita, e di espressioni che si risentono dell’infelicità del secolo XVII, che abbiam veduto di non esser punto vero.

III Prevede l’opposizione che gli si farà per avere deturpato il fatto di Corradino con amori nulla interessanti. Confessa in prima che senza amori sarebbe stato più tragico; e perchè dunque ha voluto farlo men tragico? Egli se ne scusa con queste parole: ma come senza episodj riempiere il vuoto (così) di cinque atti, e presentare al pubblico lo spettacolo di due ore? Se così è, perchè si maraviglia che i Francesi non abbiano trattato un argomento incapace di riescire di giusta grandezza in teatro senza frammischiarvi episodii estrinseci e amori impertinenti? Piace che egli confessi di non aver saputo trattare quest’argomento senza amori e senza episodj da riempiere il voto di cinque atti e trattenere il pubblico per due ore. Ma perchè non imparar prima quest’arte da Sofocle, da Eschilo, da Euripide, o almeno tra’ moderni dall’Alfieri, dal Maffei, dal Granelli, dal Pindemonte?

{p. 217}

IV Sostiene in fine che l’amore che egli ha introdotto nel suo Corradino, non è quel freddo episodico maneggiato dal Racine, dal Metastasio, dal Caraccio, ma bene dominante e tragico ammesso da’ gran maestri nella scena. Ma questo è recare in pruova ciò che è in questione. Intanto egli poco innanzi ha confessato che questo amore (che ora vuol chiamare dominante) è episodico, che rende men tragico il suo argomento, e che l’ha introdotto per riempiere il vuoto de’ cinque atti. Noi però perchè il pubblico possa decidere se gli amori introdotti nella sua favola abbiano le condizioni che gli costituiscano dominanti e degni della tragedia, prima di esporne una breve analisi, ne accenneremo il piano.

L’atto I rappresenta che Corradino col Duca di Austria prigionieri di Carlo I d’Angiò sono ammessi nella reggia e lasciati liberi senza esser conosciuti per altri che per due guerrieri, e che il re dà loro interamente la libertà sulla speranza di allettar Corradino a fidarsi di lui.

Il II dimostra che Corradino amante favorito di Geldippe figlia di Carlo viene a dirle che egli dee partire; che ella chiede dilazione di un giorno; che Carlo non vedendolo partire {p. 218}si maraviglia dell’indugio, e ne sospetta.

Nel III si vede Corradino di notte che viene a prendere congedo dall’innamorata e si scopre per Corradino: il re con altri due viene nella medesima stanza, vede non veduto, ma non sente quel che dicono, e facendosi avanti, Corradino parte. Carlo sospetta, minaccia, ordina alla figlia che chiami il guerriere, e gli parli mentre egli ascolta da parte, ma le previene che se l’avverte di ciò, lo farà uccidere. Con tale artificio scopre il loro secreto, comanda la morte di lui, e Geldippe manifesta che è Corradioo.

L’atto IV presenta un ambasciadore della madre di Corradino, che per la di lui libertà fa proposte di pace che son rigettate: un legato del papa che insinua a Carlo di non lasciar vivo il suo nemico: Corradino che va alla morte: il popolo che si solleva.

Nel V Corradino è decapitato, Carlo fa venire il cadavere nella reggia per mostrarlo alla figlia, che si uccide.

Questa sola esposizione succinta manifesta che Carlo fa uccidere Corradino per assicurarsi il regno, e che gli amori della figlia con lui non sono essenziali alla morte a cui egli è condannato: {p. 219}che lungi di aumentarsi il tragico naturale del fatto istorico per tali amori, ne viene offuscato, e la favola diventa un’ azione comunale di un principe che si occulta per amore, e che scoperto è ucciso dal padre dell’amata: che i primi tre atti nulla o ben poco contengono che convenga allo svevo Corradino erede del reame di Napoli, e che sotto altri nomi niuno indizio darebbe di quella storia patria. Presi adunque que’ tre atti come parte del satto di Corradino appena formano un episodio tutto alieno dalla morte di lui per ragion di stato, e ben lontano dal presentarci alcuna situazione tragica; or come chiamar questo un amor dominante nel senso che riceve dagl’intelligenti? Vediamone le particolarità.

Atto I. Nella prima scena il Duca di Austria fa menzione con Corradino di cose a lui ben note, per darle ad intendere all’uditorio, cioè della sconfitta ricevuta, della loro prigionia, dell’esser tenuti per privati, e di essersi di tutto passato avviso alla madre di Corradino. Egli rimprovera a Corradino la dimenticanza della vendetta e del regno, e gli dice che miri l’ombre di Federigo II e di Manfredi che vanno per quella reggia invendicate. Aggiugne,

{p. 220}
Del tuo periglio nè pensier di regno
Più ti siede sul cor ligio d’amore,

il che vorrebbe dire che più non gli siede sul core nè pensiero del suo periglio, nè pensiero di regno. Dice di poi,

      Vide il tiranno
Te del sangue de’ suoi tinte le schiere
Cacciar in fuga.

Ma qui dee dire

Te del sangue de’ suoi tinto le schiere
Cacciar in fuga,

altrimente si distinguono come due cose diverse le schiere di Carlo da’ soldati di Carlo. Corradino a’ detti del Duca promette di ricordarsi del regno, eludendo però il fine dell’esortazione del cugino che era di rimuoverlo dall’amore di Geldippe.

Vi è il prigioniero Tancredi (nome preso da Corradino) dice Amelia nella scena 2, e Geldippe risponde il cor mel disse. Parlando a Corradino gli dice

      La regia culla
Al tuo valor negò l’iniqua sorte,

complimento poco delicato; tanto più che ella non l’ha veduto da due giorni, e nel dirgli alla prima che è un privato, può indicar certa {p. 221}esitanza o disposizione a mutarsi. Corradino però non vi bada, e le dice, il sole è sorto due volte dall’alto Vesevo, ed io non ho potuto rivedere l’amato sole de’ tuoi begli occhi. Geldippe si discolpa con dire che ha dovuto schivar di vederlo, perchè vi era baciamano in corte e gala grande, quasichè in altri giorni una reggia rimanga solitaria. Il lettore vedrà se tale introcuzione e tal discolpa annunziano un amor dominante lontano dal freddo episodico amore che questo meschino autore osa riprendere insolentemente nel Racine, nel Caraccio, e nel Metastasio. Almeno, domanda Corradino tragicamente, fosti presente col pensiero al tuo Tancredi, come io rimiro presente ognor l’angelico tuo viso? e Geldippe con amorosi accenti non meno tragici narra in ventisei versi che a lui pensava, e che si ricordava quando il padre la condusse con la corte

Di Posilipo in su le amene spiagge,
E voi due prigionier volle ben anche1;
{p. 222}

E quì Geldippe descrive poeticamente la cadente luce del sole tra verdi allori, e i colori che lucean negli opposti dilettosi monti. Allora, soggiugne,

La mia virtù col mio tranquillo stato
Portasti teco. Allor fu tratto il dardo
Del sangue del mio cor fatto vermiglio.

In somma se l’amor di Geldippe non è furioso e disperato quale nella tragedia si richiede, è almeno espresso col linguaggio della poesia lirica che sì poco conviene a un tragico dramma. Quindi Corradino esclama

      Voi, del Ciel potenze,
Non pareggiate il mio giojoso stato.

Terza scena. Carlo dice

Quì venga Ermini e i prigionier ben anche1; indi a Tancredi,

      Vieni Tancredi.

Cor.

Signor che brami?

Car.

Vanne e quì ritorna.

Vieni, vanne, ritorna, scena importante e niente inutile, come quelle che l’autore rimprovera al Caraccio.

{p. 223}

Nella scena 4 impazienti sono Carlo ed Ermini per parte di papa Clemente, che Corradino tuttavia si celi alle loro diligenze. Ermini afferma che finchè egli sia libero, la Romana Sede ognor vacillerà. La Romana Sede vacillerà per la libertà di Corradino vinto, ramingo, privo di forze? ella che crollò il gran potere di Federigo II, che a tanti stati aviti accoppiava le forze dell’impero? Il legato Ermini mal sostiene la dignità della sua corte. Dice egli poi a Carlo che Corradino sicuramente anderà errando

O nel tuo regno o nel romano stato,

o (poteva aggiugnere) nel resto dell’Europa. Quai dialoghi! Ma lasciandogli simili inezie, e l’idra del ribelle ardire, osserviamo seriamente, che se conviene talvolta a un ministro di altra corte inspirar ne’ principi i sentimenti del proprio sovrano, non mai si permetterà che se ne mostri alcuno in teatro, il quale insinui delitti grandi, atrocità, e disprezzo per la religione. Nerone, Ezzelino, un corsaro nè anche soffrirebbe che gli si dicesse sul viso ciò che l’empio Ermini dice a Carlo:

Versa il sangue che vuoi. Pietà nasconda
L’insidioso ferro, e al tuo vantaggio
{p. 224}
Servendo, fingi di servire al Cielo.
Santamente crudel fia che rassemhri
Divota ognora l’omicida destra.

Codesto ribaldo Ermini non solo non guarda il decoro conveniente a un monarca, ma degrada la corte che rappresenta, esortando a una spietata ipocrisia, e a burlarsi del Cielo sfacciatamente. Ecco poi con quale scelerata e falsa massima l’infame con detestabile insidioso esempio conchiude,

L’arti son queste di fondar gl’imperi.

E che direbbe di peggio un Bulenger, o l’autore del Sistema della Natura? Carlo dice nella scena 5:

     Per me non voglio il crine
Cinger del serto altrui, che son del mio
Stato contento. E cederei del regno
A lui lo scettro, se l’omaggio ei presti
Di Pietro al successor.

Lasciando stare la menzogna impudente contraria al fatto, e l’ipocrita finzione, e notiamo solo che la gramatica vuol che si dica, cederò il regno, se l’omaggio ei presterà al papa, ovvero, cederei, se egli prestasse, o cedo se egli presta.

Atto II. Dopo un cicaleccio inutile sul passato {p. 225}di Geldippe con la confidente Amelia, Corradino viene mesto e confuso per dir che dee partire, e Geldippe l’incoraggisce a parlare con le seguenti scempie ed insipide ragioni:

     Un sacrificio in vero
Il nostro sesso fa, quando palesa
L’ascosa fiamma. Ma il pudor già vinto
Di noi soavi amabili tiranne 1
Come vi piace ognor fate governo.
Questa vita, e quest’alma è tua. Disponi
Arbitro ognor di me, del mio destino.

Io non vò entrare a decidere, se ad una virtuosa principessa convengano queste espressioni onde l’amante può animarsi a tutto intraprendere. Dico solo che tanto cicaleccio precedente il congedo che Corradino viene a prendere, è superfluo, famigliare e comico anzi che tragico. Egli le dice che il re gl’impone di partire dandogli la libertà. Perfido (ripiglia Geldippe) mi hai sedotta, mi hai fatto confessar che ti amo, per lasciarmi e per vantarti del {p. 226}tuo trionfo infame e dello schernito amore di real donzilla, che si è donata tutta in tuo potere; tali querele possono offuscare il carattere di Geldippe, e parer triviali e tutt’altre che di passione tragica e dominante, qual si è p. e. quella della Fedra di Racine, della Zaira di Voltaire, di Alvida nel Torrismondo del Tasso, della Semiramide del Manfredi &c. Al rimprovero di lei Corradino le ripete in dieci versi ciò che avea detto in uno e mezzo, e Geldippe rimane persuasa, e dimanda la dilazione di un giorno. Ma questo breve indugio diviene sospetto al re. Partiremo domani (gli dice il duca d’Austria) perchè cammin non lungo in sì poche ore del cadente giorno avremmo fatto; ed il re gli dice,

Andate pur, ci rivedrem domani.

Un re che ha trattenuti lungo tempo i finti Ubaldo e Tancredi liberi presso di se, gli ha introdotti nella reggia stessa gli ha ammessi alla sua tavola, ha permesso che Tancredi cavalcasse accanto alla principessa, come maravigliarsi che si trattengano altre poche ore dove son trattati amichevolmente? come sospettare che possano essere traditori e ministri infami della vendetta di crudel nemico? Ci voleva nuova {p. 227}cagione, più forti indizj per dubitar di tanto, per dir di Corradino

Di tradigion pensier certo l’arresta.

Lo spettatore vuol vedere le sorgenti delle azioni e de’ raziocinj per essere illuso. Una poi delle più insipide ed inutili scene di quest’atto è la sesta, in cui il ribaldo e basso Ermini legato pontificio improvvisamente affetta amistà grande per Corradino dal suo sovrano esecrato, e cerca con arte scempia e spregevole leggere ne’ pensieri di lui. Un legato fuori della scena che fosse così grossolano e puerile ne’ suoi raggiri, si manifesterebbe più atto alla zappa che a’ maneggi di stato.

Atto III. Scena I di notte. Corradino viene a veder per l’ultima volta Geldippe, si scopre per Corradino, e Geldippe sviene. Ma in quale circostanza indispensabile egli si trova per dire all’amante quello che non ha stimato di dirle prima, che egli è Corradino? Per disporla a questa lontananza, e far che attenda con fiducia, non bastava palesarsi per principe reale degno della mano di lei? Stando Geldippe svenuta vengono in quella stanza senza essere intesi nè veduti Carlo, Ermini e Roberto. A un cenno di Geldippe parte Tancredi, e {p. 228}neppur vede que’ tre personaggi, caminando forse con gli occhi bassi. Carlo si fa avanti, e domanda alla figlia donde nata sia tal dimestichezza di Tancredi con lei. Ella risponde che quel guerriere la vide in corte, e prese in costume di salutarla. Ella anzi dovea rispondere al Padre: ricordatevi che sinora gli avete permesso di parlarmi, di cavalcare a me dappresso in vostra presenza, di esser nostro commensale. Ella nulla di ciò gli risponde, e Carlo le dice, vanne e torna, dovendoti parlare. Ermini dice che senza dubbio si amano, e Carlo che egli laverà la macchia coll’indegno sangue, e fa porre in aguato le guardie pronte a ferire, e perchè l’azione resta come sospesa, per attendere Geldippe, si trattiene seco stesso pensando che non è bastante vendetta la morte di quel vile, e desidera, imitando i raffinamenti de’ pensieri dell’Edipo di Seneca, che torni l’estinto in vita, per dargli novella morte. Viene Geldippe nella scena 4, cui Carlo impone che venendo Tancredi gli parli senza avvertirlo di nulla, mentre egli starà ascoltando inosservato, e se ella mai con parole o con cenni lo rende accorto di lui che ascolta, lo sarà subito uccidere. Il pubblico è omai ristucco {p. 229}di veder mille volte replicato questo rancido colpo di scena appena tollerato nel Mitridate del Racine, e nell’Ipermestra del Metastasio in grazia de’ loro gran nomi e della destrezza usata in prepararlo. Arriva Corradino, e sì chiaramente parla del suo amore, che Geldippe riesce infelicemente nel tentare di scambiarne il sentimento. Carlo non potendola più soffrire si fa avanti, ed ordina che si ammazzi il reo. Un grandinar di colpi, dice,

Piombi sul capo suo, piombi sul petto,

e Geldippe grida

Empj fermate, Corradino è questi,

e i soldati obedendo lei e non il re, si fermano. Ma spera ella con palesarne la vera condizione di salvarlo? Se per Carlo era egli reo di morte come Tancredi, lo sarà meno come Corradino? Se fu imprudente Corradino in iscoprirsi a lei senza necessità, più inconsiderata è Geldippe che ne raddoppia il rischio con informarne il padre. Ma quasi tutto ciò fosse poco, Corradino insulta Carlo aspramente parlandogli come superiore,

Togli al tuo crine l’usurpato serto,
Scendi dal trono, e al suo signor lo rendi.

Il pubblico forza è che veda nel Corradino di {p. 230}questa tragedia minorato l’effetto tragico del Corradino della storia. Imperciocchè il Corradino della storia è degno di ogni compassione come legittimo sovrano scevro di colpa non solo privato del trono, ma condannato a morte come reo da chi gliel toglie: là dove il Corradino di questa tragedia è reo effettivamente, perchè amoreggia colla figlia del re, e perchè insulta con alterigia il padre, onde nasce che la compassione è per lui men viva. Ed ecco il bell’effetto dell’imporcare con amori un fatto che nudamente narrato tira le lagrime della posterità.

Atto IV. Incomincia con una scena inutile del duca con Geldippe, perchè nulla vi si accenna, che non debba ripetersi, come avviene, nella seguente. Nella seconda adunque Iroldo ambasciadore della madre di Corradino dice che viene a trattar di pace e del riscatto di Corradino. Ma Geldippe per dar motivo ad un racconto che arresta l’azione in vece di farla progredire, vuol sapere (notisi la curiosità di un’ amante in procinto di vedere a Corradino troncato il capo!) che cosa gli disse la madre nel partire ch’egli fece; ed Iroldo ne descrive il dolore, e ne ripete le parole quasi ad altro non fusse venuto, o ciò importasse all’azione. {p. 231}L’autore tolse in prestanza il patetico delle parole di Andromaca nelle Trojane di Euripide, non riflettendo che se ne scemava il pregio per la diversità delle circostanze del picciolo Astianatte e del guerriero Corradino; così il buono Iroldo commette un plagio senza frutto. Andromaca madre e regina infelice commuove, perchè ella stessa sotto gli occhi dello spettatore ed in faccia al figlio che timido ed imbelle si accoglie nelle braccia di lei, esprime il dolor materno. Iroldo soldato alemanno narra le parole di una madre lontana tanto dal figlio. Andromaca in Euripide squarcia di pietà i cuori, perchè lo spettatore stà vedendo che il figliuolino le viene da’ Greci strappato dal seno, stà ascoltando questa madre che dice (ci si permetta di accennarlo colla nostra traduzione recata nel tomo primo)

“Figlio, viscere mie, da queste braccia
Ti svellono i crudeli:”

ma Iroldo pone in bocca di Elisabetta una bugia con dire,

Misero figlio, dal materno seno
Deh chi mai ti strappò, misero figlio,

e ciò benchè niuno Ulisse, niun Calcante abbia tolto Corradino dal seno materno, essendo anzi col consenso di lei venuto in Italia con {p. 232}un esercito alla conquista del regno. Andromaca sciogliendosi in lagrime dice a ragione:

“Per dominar sull’Asia,
Non per morir tra’ barbari sì presto
Credei produrti, o figlio . . .
Ahi dolce oggetto de’ timor materni,
A ciò ti porsi il seno, e del mio sangue
Io ti nutrii?”

ma Iroldo ciò copiando fa dire ad Elisabetta, se non un’ altra bugia, un sentimento che soffre eccezioni,

O dolce oggetto de’ materni affanni
Ti ho posto al mondo per regnar sull’ampie
Rive d’Italia, non per far vermiglio
Quel suolo dove il tron t’era serbato;

perchè sebbene Corradino avea diritto al regno, Manfredi però figlio di Federigo II n’era già padrone quando Elisabetta pose al mondo Corradino, nè Corrado stesso gliel contese. Andromaca nella greca tragedia vien trattenuta dal figliuolino, sicchè con sentimento sommamente patetico e con tutta sobrietà espresso, gli dice,

     “Perchè mai stringi
L’imbelle madre tua, e ti raccogli
Nel seno mio, quale augellin rifugge
{p. 233}
Sotto l’ali materne?”

Iroldo però innamorato di quell’augellino ha voluto incastrarlo nel suo racconto ozioso, tuttochè vero non sia che Corradino sia fuggito in braccio alla madre,

Come augellin che il cacciator crudele
Da sotto l’ali della madre, dove
Palpitante fuggì, svelse ed uccise,

nelle quali parole si espongono circostanze assai diverse da quelle di Corradino, oltre di peggiorarsi il concetto di Euripide, perchè il greco tragico usa di quella similitudine detta di volo in tre parole, e l’italiano, sul gusto di quelle di Seneca sconvenevoli al dramma, ne riempie tre versi. Ma il più curioso di questa scena episodica rubata senza vantaggio si è che Iroldo studiasi di muovere la pietà, quando al contrario il disegno del duca nel presentarlo a Geldippe è stato di animarla con liete speranze della vicina pace, e forse delle sue nozze. E’ poi da osservarsi che il duca d’Austria sino alla scena 3 è tuttavia in libertà, ma si sente poi condannato e decapitato senza essersi inteso arrestato.

Carlo nella scena 4 siede sul trono. Iroldo propone i tesori di Elisabetta per riscatto del {p. 234}figlio, e Carlo gli rifiuta dicendo che il destino di Corradino dipende dalla decisione del suo Consiglio. Iroldo che non può ignorare che il diritto di Carlo sul regno nasce tutto dall’invito del pontefice, risponde con poco senno

     Corradin rebelle?
Alla tiara la real corona
Chi mai sommise? Il successor di Piero
Qual dritto vanta mai su i regni altrui?

E con ciò lavora contro l’oggetto della sua ambasciata, non essendo questo il camino di ottener la libertà di Corradino. Carlo giustifica i diritti della tiara colle antiche investiture, Iroldo rivendica quelli della corona. Ma un ambasciadore più saggio e più sedele alle premure di una madre che teme per la vita del figlio, avrebbe schivato di suscitar le gelosie di Carlo, restrignendosi a trattar l’ammenda che offre Elisabetta di cedere, per la libertà del figlio, le ragioni degli Suevi al trono di Napoli, ed a proporre l’unione di Geldippe e Corradino. Iroldo tradisce per ignoranza il disegno dell’afflitta madre, e propone le nozze e l’ammenda dopo di avere empiuto di sospetti il re.

Sciolta l’udienza viene Geldippe ad implorar {p. 235}dal padre la libertà di Corradino, e Carlo gliene dà speranza contro ogni suggerimenti del suo interesse. Chiamati indi i suoi consiglieri Ermini il legato e Roberto, loro manifesta le proposte dell’alemanno oratore, ed Ermini lo consiglia a rigettarle ripetendo l’empio suo intercalare, il sacro ferro al petto indegno santamente crudel spingi, e Carlo costantemente imbecille subito cangia e risolve che mora. Geldippe che intende la risoluzione del padre, e che Corradino è condotto al palco, freme, minaccia, inveisce contro del padre. Sente poi che la città sollevata è in armi, e spinge Amelia a recarsi sulla piazza del Mercato per saper ciò che accade; e forse a que’ tempi era questo l’uffizio delle dame di corte.

Atto V. Si apre con un soliloquio di Geldippe che si figura di vedere uno spettro. Iroldo viene a dire che le guardie reali sono state disperse dal popolo, e che Corradino è vicino ad esser liberato. Vicino? e non l’ha veduto egli sciolto? no, perchè ha voluto prima recarne a Geldippe la novella; quest’ambasciadore opera in tutto con saviezza uguale. Ma la dama Amelia che è stata nella piazza presente al tumulto, narra che Corradino è stato decapitato. {p. 236}Ella al pari di Zelinda del Gerbino ornando il suo racconto con tinte rettoriche narra l’esecuzione della sentenza. Geldippe apostrofa al carnefice che non disarmi il fero braccio che sostenga in alto il ferro, che lo faccia cadere sul capo di lei. Vuol poi sapere da Amelia l’estreme parole del suo diletto. Amelia che malgrado della zuffa de’ cavalieri col popolo e della calca, e del decoro conveniente al suo sesso, è stata presso al palco, le ha tutte raccolte, e le ripete prima quel che Corradino disse al duca, che si chiude in nove versi appresso in altri sette quel che profferì sulla sua Geldippe, e termina ripetendo in sei versi quel che disse apostrofando i principi Aragonesi e gettando il guanto nella piazza. Carlo poi viene a riprendere la figlia, e le mostra i due cadaveri che ha fatto trasportare nelle regie stanze con istrana cura e contro la storia, e Geldippe toglie a un soldato il pugnale, e si uccide.

Noi non vogliamo epilogare le sconcezze del piano e dell’esecuzione di questa tragedia, troppo manifesti essendone gli amori freddi e svenevoli che offendono il tragico di tale argomento, {p. 237}i concettuzzi lirici, le scene inutili, le ripetizioni, l’imbecillità di Carlo, l’oziosità di Roberto, le smemoraggini dell’autore sul personaggio del Duca d’Austria condannato e decapitato senza dirsi preso, la malvagità scandalosa di Ermini, le insipide narrazioni di Amelia, le sconcezze del personaggio d’Iroldo &c. . Solo ci restringiamo ad animar la gioventù a prender per mano quest’argomento, ed a renderli il patetico naturale senza lo scambio che vi fa entrare il Caraccio, senza la malignità e la debolezza dell’anonimo, senza gli amori che lo sconciano enormemente nella tragedia dell’autore del Gerbino. Per riescirvi altro non occorre che cercar di obbliare tutte queste tessiture fantastiche, e rileggere la semplice storia. Il patetico naturale che ne ritrarrà, render dovrallo superiore a tutte queste dipinture fattizie*.

Il sig. ab. Vincenzo Monti ha finora composte {p. 238}due tragedie &c.*.

Dieci se ne pubblicarono dall’impressore Graziosi &c.**.

ADDIZIONE III***
Le nove ultime tragedie dell’Alfieri. §

L’elevarsi sopra la turba de’ volgari scrittori, e confondere i freddi parodisti e i meschini follicularj, sarebbe stato trionfo comunale pel merito del conte Alfieri, se non si fusse ancora più appalesato degno di figurare tra’ nostri migliori tragici, e di venire al confronto de’ {p. 239}buoni Francesi. Egli nell’edizione di Parigi del 1788 non solo ha riprodotte le dieci tragedie surriferite con opportune rettificazioni circa lo stile, ma ve ne ha aggiunte altre nove inedite ricche di novelli pregi. Esse sono: Maria Stuarda, la Congiura de’ Pazzi, Don Garzia, Saul, Agide, Sofonisba, Bruto primo, Mirra, Bruto secondo. Vi si scorge in generale miglioramento notabile nello stile divenuto più naturale senza perder di grandezza, nella versificazione più scorrevole senza allontanarsi dal suo genere, nella lingua tersa ed elegante senza sacrificar la grazia nativa per lo studio di esser cruschevole, nell’economia più giudiziosa, per l’entrar de’ personaggi in iscena meglio motivato, pe’ monologhi men frequenti, pel numero de’ personaggi accresciuto che rende l’azione più verisimile senza la nojosità de’ confidenti. Se ne vegga alcuna particolarità su ciascuna di esse.

Maria Stuarda. Conviene lo stile alla tragedia, nè vi si osservano durezze e trasposizioni stentate e fiorentinità rincrescevoli: l’economia più saggia manifesta l’esperienza dell’autore: l’azione non si arresta in oziosi episodj: i caratteri sono al vivo espressi con maestria. {p. 240}Tutto però vi operano Ormondo e Botuello intriganti e scellerati, e nulla quasi i personaggi principali. Arrigo principe inetto che non sa distinguere nè la verità in bocca della regina, nè la menzogna negli altri, varia sentenza ad ogni spinta, e muore senza tirare a se l’interesse della favola. Maria poco attiva ancora diventa scherno delle insidie di Botuello, e riscuote qualche pietà senza partorire il giusto effetto tragico. Il ministro protestante Lamorre ha i distintivi de’ falsi divoti che insinuano guerre e stragi predicando pace e tolleranza, e nell’atto quinto comparisce profeta veridico degli eventi di Maria. Se pronunziasse enfaticamente presagj generali per atterrir la regina e per lavorar in pro della sua setta, ciò a lui ben converrebbe. Ma adombrando con circostanze individuali i futuri casi di Maria, come ciò avviene senza una superna ispirazione? Quindi è che lo stesso sagace autore ha pronunziato su questa sua tragedia, che i personaggi principali son deboli e nulli, che il tutto riesca languido e freddo, e che per ciò la reputa la più cattiva di quante ne ha fatte, o fosse per farne, e la sola che egli non vorrebbe forse aver fatta.

{p. 241}

La Congiura de’ Pazzi. Ha l’elocuzione elegante, aperta, energica e conveniente al genere, e i personaggi cresciuti al numero di sei la preservano dalla necessità della frequenza de’ monologhi, e dalla noja di veder alternar sempre sulla scena quattro soli personaggi. La veemenza del carattere di Raimondo diffonde per l’azione tutta un estremo vigore. Bianca dolce, tenera, buona madre, buona moglie, contrasta ottimamente colle violenti intraprese di Raimondo, il quale ama lei, ama i figli, ma congiura contro i fratelli di lei che tiranneggiano la patria. L’avversione contro di Roma traluce, nè foscamente, nella scena 4 dell’atto IV da i detti di Lorenzo. Il V riesce vivace trasportandosi felicemente la finale azione alla presenza dello spettatore. Ottima è la scena di Bianca insospettita e di Raimondo impaziente di trovarsi al tempio, ed agitato per la tenerezza che ha per lei, e pe’ figli. La sua venuta col pugnale insanguinato alla mano, essendo egli stesso mortalmente ferito, cagiona in Bianca in prima timore pe’ fratelli, indi dolore pel marito. Questa tragedia di personaggi troppo moderni di picciolo stato non regge al confronto di quelle ove intervengono {p. 242}Romani, Greci, o Barbari antichi grandi nella pubblica opinione, i quali opprimano o difendano la libertà. Contuttociò l’autore ne eleva al possibile l’azione, e Raimondo diventa personaggio importante e grande. La delicatezza del gusto dell’autore gli fa ravvisare per attivi solo il terzo e il quinto atto, e certa inazione ne’ due primi e nel quarto, benchè ne’ primi due si prepari, e nel quarto ben si sostenga l’interesse relativo de’ personaggi. L’amor dell’arte lo rende rigido censore di se stesso e meritevole anche per ciò di particolar lode.

Don Garzia. Presenta i medesimi pregi delle ultime tragedie dell’autore: stil nobile e tragico, lumi filosofici sparsi senza l’affettazione e il portamento di massime ed aforismi, affetti posti a buon lume, elocuzione scelta senza durezze ed ornamenti superflui, azione che corre rapida al fine senza riposi oziosi. In Cosimo si delinea al vivo un tiranno dedito al sangue: in Diego un giovane principe virtuoso e sincero: in Eleonora, personaggio subalterno e poco tragico, un’affettuosa madre parziale per Garzia, nel quale si ritrae un principe candido alieno dagl’infingimenti: in Pietro un pessimo, {p. 243}cupo, ambizioso, malvagio calunniatore, dissimulato, privo di ogni virtù e di affetti di fratello, e di figlio. Sventuratamente egli è il solo fabbro dell’infelicità e dell’atroce delitto di Garzia uccilore, per la perfidia di lui, dell’innocente Diego, ed è il solo che rimane nella tragedia impunito, la quale perciò potrebbe dirsi il trionfo della malvagità. Ed in vero un’ azione indegna, aliena assai da’ sentimenti di Garzia enunciato per buono, mi sembra quel liberare da un imminente pericolo mortale (fosse anche sicuro) la sua Giulia, per mezzo di un assassinamento del padre di lei a tradigione. No, non mai mi parrà atta a svegliar pietà una scelleragine, in cui l’ottimo precipita ad un tratto nel più vile, abominevole, esecrando misfatto. Nel leggerla preso non fui da quel tragico terrore che vuolsi eccitare nella tragedia, ma si bene da orrore, da raccapriccio, da rincrescimento. Di grazia Garzia potrà meritamente riscuotere compassione, poichè si è determinato a così esecrabile esecuzione, per cui trafigge per equivoco un buon fratello, volendo pero assassinare deliberatamente il padre innocente della sua amata?

Saul. La tenera figlia e sposa Micol, il {p. 244}giusto e prode David, il buon amico di lui Gionata, lo zelante Achimelech, Abner invido nemico di David, e sopra tutti l’agitato Saul da’ rimorsi, dall’invidia, e dalle proprie furie, talmente nella semplicità dell’azione, nella giudiziosa traccia e nel ben condotto disviluppo, e tutto ciò animato da stil sobrio e maschio, talmente, dico, tengon viva e sveglia l’attenzione del pubblico, che parmi potersi contar questa tralle buone tragedie del lodato autore. Tutte le parlate di David mi sembrano eccellenti, e producono grande effetto in Saul, per cui tace in lui l’interna invidia, e ne restano sospese le penose smanie. La quarta scena dell’atto I dell’incontro di David con Micol è tralle più appassionate. Bella è la terza del II, in cui dopo le insidiose insinuazioni di Abner a Saul contro di David, questi inopinatamente presentandosi manifesta candidezza e grandezza d’animo. Nella terza del III esprimonsi acconciamente le notturne agitazioni di Micol nell’assenza di David. Nella quarta i canti di David ora enfatici ora soavi con diversità corrispondente di metri per calmar le furie di Saul, dilettano nella lettura, e più diletteranno, se si rappresentino bene. Contrastano {p. 245}nella quarta del IV l’energiche profezie di Achimelech coll’empietà pronunziate da Saul contro de’ Sacerdoti. Bellissima è la patetica divisione di David da Micol nella prima del V, nè men pregevole è l’appassionato monologo di Micol nella seguente. L’aumento delle furie di Saul, la sconfitta degl’Israeliti enunciata da Abner colla morte de’ figli di Saul producono il funesto trasporto di lui, pel quale infierisce contro se stesso:

      Ecco già gli urli
Dell’insolente vincitor, sul ciglio
Già lor fiaccole ardenti balenarmi
Veggo, e le spade a mille . . . Empia Filiste,
Me troverai, ma almen da me quì . . . . morto.

Agide dedicata con curiosa lettera a Carlo I d’Inghilterra nel 1786, ha pregi degni del genere. Robusto, appassionato, sublime n’è lo stile. Il piano mirabilmente semplice compete all’eroico carattere dello Spartano re Agide. Le due virtuose donne Agesistrata madre e Agiziade moglie di Agide hanno distintivi eroici proprj della loro nazione, Ansare nemico di Agide, subalterno dell’ingrato vendicativo re Leonida, vela col manto del pubblico spartano l’odio privato, e lo studio di affrettar {p. 246}l’estrema ruina di Agide per timor di perdere le ricchezze col rimettersi le leggi di Licurgo. Ne addito come parti singolarmente pregevoli le scene seguenti. I nell’atto II la seconda, in cui Agide esorta la moglie a soffrir la di lui morte, ed allevar da Spartani i figli:

Non assetato di vendetta io moro,
Ma di virtù spartana, ancorchè tarda.
Purch’ella un dì da’ figli miei rinasca,
Ne sarà paga l’ombra mia.

Agiz.

Mi squarci
Il cor . . . oimè! . . . Perchè di morte?. . .

Ag.

O donna,
Spartana sei, d’Agide moglie; il pianto
Raffrena. Il sangue mio giovar può a Sparta,
Non il mio pianto a te. . .

Il nell’atto III la seconda, in cui segue l’abboccamento d’Agide con Leonida. La sua franchezza eroica, che tutti palesa i proprj nobili sensi patriotici, e le insidiose mire del suo collega nel regno, disviluppano a maraviglia l’eroismo spartano che lo riempie. In seggio, ei dice,

Riponi or tu, non le mie, no, ma l’alte,
Libere, maschie, sacrosante leggi
Del gran Licurgo: povertà sbandisci
{p. 247}
In un coll’oro, ella dell’oro è figlia:
Del tuo ti spoglia: i cittadin pareggia:
Te fa Spartano, e in un Spartani crea:
Ciò far voll’io, tu ’l compi, e a me ne involi
La gloria eterna.

III nel IV la scena terza del giudizio di Agide. Egli distrugge le altrui imputazioni con evidenze, tutta discopre l’anima sua spartana, e colla sicurezza di morire torna al suo carcere. IV nell’atto V la prima che è un monologo di Agide, in cui si vede a un tempo la fermezza dell’eroe, e la sensibilità di figlio, di marito e di padre. V la quarta di lui con Agiziade, in cui si disviluppano i suoi teneri sensi che non iscemano l’amor dominante della patria. Bella separazione è la seguente!

Agia.

Parlar non posso ... Io di lasciarti ...

Ag.

Un fido
Consiglio avrai nella mia degna madre,
S’ella pur resta! Or via, lasciami, vanne:
Moglie, regina, madre, cittadina,
Spartana sei: tuoi dover tutti adempi.

Agiz.

Per sempre? Oh ciel! ...

Ag.

Deh cessa ...

Agiz.

Il piè tremante
Mal mi regge.
{p. 248}

Ag.

Deh vieni, uscita appenæ
Troverai scorta e appoggio.

Agiz.

Oimè! si schiude
La ferrea porta . . .

Ag.

Guardie, a voi la figlia
Del vostro re consegno.

Agiz.

Agide . . . Ah crudi!
Lasciar nol voglio ...Agide ... addio ...

VI la quinta, in cui all’additata tenera divisione della moglie succede la venuta dell’eroica Agesistrata. Ella gli reca in dono un ferro onde liberarsi dal poter del tiranno; Agide ne gioisce:

Ag.

Oh gioja . . or dammi . . .

Age.

Scegli,
Due ferri son, quel che tu lasci é il mio.

Ag.

Oh cielo! . . . E vuoi . . . . . .

Age.

In te (pur troppo!)
Sparta or si estingue ... Ed alla patria, al figlio
Sopravviver vorrà Spartana madre?
Figlio, abbracciami.

Ag.

Oh madre, anco m’avanzi
Nell’altezza de’ sensi ... Or dammi, e prendi
L’ultimo amplesso.

La conchiusione del tutto corrisponde robustamente a sì belle parti. Leonida ed Ansare vengono {p. 249}per fare uccidere Agide. I soldati, ad onta del comando di Leonida, rimangono immobili. Agide gli dice, che egli stesso lo trarrà d’impaccio; raccomanda a lui la figlia, e si ferisce. Ansare si maraviglia che avesse un ferro; Agesistrata ripiglia, due ne recai, e s’uccide.

Leon.

Di maraviglia e di terror son pieno!
Che dirà Sparta?

Ans.

I corpi lor si denno
Alla plehe sottrarre . . .

Leon.

Ah mai sottrarli
Mai non potrem dagli occhi nostri ...Oh Dio!

Sofonisba. Non può negarsi all’Alfieri il vanto di tragico egregio al veder trattato con superiorità quest’argomento da molti abili Francesi maneggiato con poca fortuna. Ha questa tragedia, come le prime impresse, quattro personaggi. Spicca tra essi il carattere di Sofonisba. Siface non è men generoso per amore di quello che si dimostra la consorte per fuggir la propria vergogna. Massinissa ama fervidamente, nè scarseggia di grandezza, benchè trascorra a qualche proposito poco misurato. Scipione però grande per se stesso, quì non fa vedere che la sua amicizia per Massinissa in {p. 250}salvarlo, scusarlo, compatirlo, e diviene il personaggio meno importante dell’azione. Ben sel vide il valoroso autore, e candidamente affermò, che egli la raffredda ogni volta che se ne impaccia.

Bruto primo è dedicata al generale Washington, e v’intervengono sei personaggi, oltre del Popolo Romano che anche parla. Dopo varie buone tragedie italiane e francesi di Giunio Bruto, il conte Alfieri ha maneggiato quest’argomento senza amori, e con nuovo interesse ed energia. Lo spettatore vede sotto gli occhi suoi nascere la potestà popolare in Roma., e prendere il romano eroismo un maraviglioso incremento scosso il giogo de’ Tarquinj. La parlata di Bruto nell’atto I e la vista del corpo trafitto di Lucrezia infiamma l’indignazione del Popolo, che decreta l’espulsione de’ tiranni, e nomina i primi consoli. L’esame del delitto de’ figli di Bruto nell’atto IV, i quali veggonsi come rei in mezzo a’ littori, disviluppa egregiamente il carattere di Bruto che obblia d’esser padre, e si rammenta sol della patria. Il pentimento de’ figli più inconsiderati che colpevoli di tradimento, lacera il cuore di si gran padre sensibile al pari di ogni altro {p. 251}ove non si tratti della patria. Oh figli, ei dice,

Deh per or basti. Il vostro egregio e vero
Pentimento sublime a brani a brani
Lo cuor mi squarcia . . . . .
A far rinascer Roma
L’ultimo sangue or necessario è il mio.
Purch’io liberi Roma, a voi nè un solo
Giorno, o miei figli, io sopravviver giuro.
Ch’io per l’ultima volta al sen vi stringa,
Amati figli . . . ancora il posso . . . Il pianto
Dir più omai non mi lascia...Addio, miei figli.

Tutto l’atto V che consiste in due non brevi scene contiene l’esposizione della congiura al Popolo, e la venuta de’ rei alla sua presenza. Nel dispiegarsi il delitto di Tito e Tiberio il Popolo cade quasi ad eccettuarli dalla punizione degli altri. Ma Bruto con eminente costanza aringa mostrando l’ingiustizia che si commetterebbe salvando solo que’ due; e i suoi sentimenti sono degni del primo de’ Romani liberi. Conchiude:

E’ necessario un memorando esempio
Crudel ma giusto. Ite, o littori, e avvinti
Sieno i rei tutti alle colonne, e cada
La mannaja sovr’essi . . . .
L’orrido stato
{p. 252}
Mirate or voi del padre . . . Ma già in alto
Stan le taglienti scuri ... oh ciel! partirmi
Già sento il cor ... Farmi del manto è forza
Agli occhi un velo . . .
Eterna
Libera sorge or da quel sangue Roma.

Collat.

Oh sovraumana forza!

Valer.

Il padre, il die
Di Roma è Bruto.

Popolo.

E’ il dio di Roma ...

Br.

Io sono
L’uom più infelice che sia nato mai.

Mirra dedicata alla contessa Luisa Stolberg d’Albania con un sonetto. Non avverrà mai più che si vegga un amor più criminoso maneggiato con maggior decenza e destrezza. Mirra si rende degna di tutta la compassione, e pure è macchiata del più abominevole ardore che trovisi dall’antichità favoleggiato. Il più rigido filosofo non prescriverebbe rimedj più attivi di quelli che a se Mirra stessa impone per seppellire nel fondo più cupo del cuore la sua passione fatale e per trionfarne. A costo di morir languendo ella tace, ella sceglie uno sposo amabile che l’adora, ella impetra di abbandonare i suoi come celebrate siensi le {p. 253}nozze, ella è vinta dagl’interni tumulti, è soperchiata, e fa svaporare l’intenso suo do lore, cagiona senza volerlo la morte dell’appassionato Perèo suo sposo, ed incorre nello sdegno di Ciniro suo padre. Al fine chiamata viene alla sua presenza colla più tormentosa ripugnanza. Tutte le vie tenta Ciniro per astringerla a parlare; dolcezza, minacce, insinuazioni; intravede che ella ama, ed ella lo confessa col più angoscioso stento. Dubita Ciniro che sia oscura ed ignobile la sua fiamma, ed ella nega:

      Ah non é vile . . . è iniqua
La fiamma mia, nè mai . . .

Cin.

Che parli? iniqua?
Ove primiero il genitor tuo stesso
Non la condanna, ella non fia: la svela.

Mir.

Raccapricciar d’orror vedresti il padre,
Se la sapesse . . . Ciniro . . .

Cin.

Che ascolto!

Mir.

Che dico? ahi lassa! non so quel ch’io dica . .
Non provo amor ... Non creder, no . . . Deh lascia,
Te ne scongiuro pur l’ultima volta,
Lasciami il piè ritrarre.

Ciniro al fin le dice che i suoi modi le hanno tolto l’amor del padre.

{p. 254}

Mir.

       Oh dura,
Fera, orribil minaccia! . . Or al mio estremo
Sospir che già s’appressa ... alle tante altre
Furie mie l’odio crudo aggiugnerassi
Del genitor? . . . Da te morire io lungi?
Oh madre mia felice! almen concesso
A lei sarà . . . di morire . . . al tuo fianco.

Cin.

Che vuoi tu dirmi? ... Oh qual terribil lampo
Da questi accenti! . . . Empia tu forse . .

Mir.

Oh cielo!
Che diss’io mai? Me misera! . . Ove sono?
Ove mi ascondo? Ove morir? Ma il brando
Tuo mi varrà.

Si trafigge con la spada del padre. Ciniro resta abbattuto dall’orrore, dall’ira, dalla pietà; non sa nè appressarsi a lei per le ree sue fiamme, nè abbandonar la figlia che spira. Arriva Cecri, ode che Mirra giace svenata di propria mano, vuole appressarsi, Ciniro l’impedisce:

Cin.

       Più figlia
Non c’è costei. D’infame orrendo amore
Ardeva ella per . . . Ciniro.

Cec.

Che ascolto!
Oh delitto!

Cin.

Deh vieni: andiam, ten priego,
A morir d’onta e di dolore altrove.
{p. 255}

Cec.

Empia . . . Oh mia figlia! . . .

Cin.

Ah vieni.

Cec.

Ahi sventurata!

E’ condotta via a forza da Ciniro.

Mir.

       Quando io . . . tel chiesi . . .
Darmi . . . allora, Euriclea, dovevi il ferro,
Io moriva ... innocente ... empia ... ora ... muojo.

Tutto in essa è patetico, tragico, ed in ottimo e puro stile espresso1. Non ci voleva che l’Alfieri sagace investigatore del cuore umano a trattar quest’argomento scabroso e detestabile colla più dilicata decenza. Questa è forse, o ch’io m’inganno, la tragedia che meglio scopre i rari suoi talenti tragici.

Bruto secondo indirizzata bizzarramente al Popolo Italiano futuro, in cui confabulano, oltre del Popolo, sei personaggi, Bruto, Cesare, Antonio, Cicerone, Cassio, Cimbro. Grandeggia l’Alfieri dove tratta di libertà. V’ introduce i più grandi uomini de’ Romani del tempo di Cesare segnalandoli co’ distintivi del {p. 256}lor carettere tramandatoci dalla storia. Cesare è grande ed ambizioso, nè offusca col suo splendore il carattere dell’intrepido Marco Bruto, come si nota nel Marco Bruto, tragedia per altro pur pregevole di Antonio Conti. L’Alfieri pone in azione lo stesso contrasto adoperato dal Voltaire di Bruto libero cittadino Romano con Bruto figliuolo di Cesare; ma oso dire che in alcun tratto se ne prevale con qualche superiorità. Qual cosa v’ha di più grande della 2 scena del III tra Cesare e Bruto? Il parlar veramente romano astringe Cesare a dire:

       Io vorrei solo al mondo
Esser Bruto, s’io Cesare non fossi.

Bru.

Ambo esser puoi, molto aggiugnendo a Bruto,
Nulla togliendo a Cesare, ten vengo
A far l’invito io stesso. In te stà solo
L’esser grande davvero: oltre ogni sommo
Prisco Romano, esser tu il puoi: fia il mezzo
Semplice molto: osa adoprarlo: io primo
Te ne scongiuro . . . .
Ardisci, ardisci, il laccio infame scuoti,
Che ti fa nullo a’ tuoi stessi occhi, e avvinte
Ti tiene schiavo, più che altrui non tieni.
A esser Cesare impara oggi da Bruto.

Ma che lasciare e che scerre de’ forti tratti {p. 257}della maschia eloquenza di Bruto? Tutto a me sembra degno della gravità del coturno. Cesare indi gli svela l’arcano che egli è suo figlio, e la scena nel nuovo oggetto prende vigor nuovo per la natural tenerezza che in entrambi traluce, nulla togliendo al carattere ed al proposito di ciascuno. Oh colpo inaspettato e fero! grida Bruto scorso il biglietto di Servilia,

Io di Cesare figlio?

Ces.

Ah, sì, tu il sei.
Deh fra mie braccia vieni.

Bru.

Oh Padre . . . oh Roma!
Oh natura! . . . oh dover! . . .

Ma dopo qualche espressione ripiglia,

       La vita
Dammi due volte: io schiavo, esser nol posso,
Tiranno, esser nol voglio. O Bruto è figlio
Di libero uom, libero anch’egli, in Roma
Libera: o Bruto esser non vuole. Io sono
Presto a versar tutto per Roma il sangue,
E in un per te, dove un Roman tu sii,
Vero di Bruto Padre ... Oh gioja! ... Io veggo
Sul tuo ciglio spuntare un nobil pianto.
Rotto è del cor l’ambizioso smalto,
Padre or tu sei.

Ma dicendo Cesare

{p. 258}
Troppo il servir di Roma è ormai maturo.

Bruto esclama,

       Oh parole!
Oh di corrotto animo servo infami
Sensi! A me no, non fosti, nè sei padre ....

Ces.

Oh figlio!

Bru.

Cedi, o Cesare ...

Ces.

Ingrato! ... snaturato! ...
Che far vuoi dunque?

Bru.

O salvar Roma io voglio,
O perir di tua mano.

Si separano fermi l’uno di secondare la propria ambizione, l’altro di rendere a Roma la libertà. Bruto nell’atto V prende la parola in Senato, e dice che Cesare vi è venuto per mostrare che sa trionfar di se stesso, e per far certo il Senato che saranno ristabilite le leggi. Cesare col dar ordini in tuono di signore disapprova i detti di Bruto, e risolve l’impresa de’ Parti. Allora Bruto dà il segno, e i congiurati si avventano a Cesare e l’uccidono. Compiesi la tragedia coll’aringa di Bruto al Popolo, il quale da prima s’irrita alla vista di Cesare trafitto, indi ascolta Bruto con attenzione, e finalmente detesta il tiranno e corre a difendere la propria libertà. L’Alfieri termina {p. 259}la tragedia colla parlata di Bruto che persuade il Popolo; nè a lui era lecito di far comparire Antonio, il quale, presentando al Popolo stesso il cadavere di Cesare, lo svolge, l’inflamma, e lo spinge a perseguitarne gli uccisori. Ciò ben convenne al Voltaire che volle rappresentare la Morte di Cesare, e sarebbe disconvenuto all’Alfieri che si prefisse di dipignere l’eroismo di Bruto che fa rinascere la repubblica.

L’illustre autore nell’edizione parigina chiude la collezione de’ suoi tragici lavori colla licenza che prende dal pubblico con una terzi na:

Senno m’impon ch’io qui (se il pur calzai)
Dal piè mi scinga l’italo coturno,
E giuri a me di nol più assumer mai.

Ponendo noi pur fine al ragionarne aggiugniamo, per chi amasse di udirlo, il nostro avviso qualunque siesi sul merito di ciascuna sua tragedia nella guisa che si presenta a’ nostri sguardi. Esse possono contarsi tralle migliori del secolo; e con quelle del Varano, del Maffei, del Granelli, con alcune delle ultime del Pepoli, coll’Aristodemo del Monti (mal grado delle eccezioni che vi s’incontrano) formano il più ricco corredo tragico che possano gl’Italiani additare {p. 260}agli stranieri. Che se a chi legge piacesse ancora d’intendere la differenza che in quelle dell’Alfieri a me par di vedere, saprà che io tengo per eccellenti coll’ordine seguente Mirra, Bruto primo, Bruto secondo, Merope, Timoleone, Agide: per buone in secondo luogo rapportato alle nominate Agamennone, Polinice, Virginia, Oreste, Saul, Sofonisba: per buone con varj nei che io credo di osservarvi, Filippo, Antigone, la Congiura de’ Pazzi, Ottavia: in ultimo luogo per tollerabili soltanto, in grazia di alcune bellezze che pur vi si notano, Don Garzia, Rosmunda, Maria Stuarda1.

{p. 261}

ADDIZIONE IV*
Versione dell’Epidico, e di alcune Commedie Francesi. §

Abbiamo ancora una bella versione inedita dell’Epidico fatta dal più volte lodato sign. ab. Bordoni rimessami cortesemente dall’autore nel 1796. Si rende essa notabile per una fedeltà signorile che fa conoscere talmente le grazie latine di Plauto nelle maniere italiane, che pajono originali. Si farebbe torto al rimanente col recarne alcuni squarci; pure altro quì non potendosi trascriveremo una parte solo della vaga scena seconda dell’atto II, in cui avendo inteso da parte Epidico il disegno de’ vecchi Apecide e Perifane, e la spina della sonatrice che punge il cuore di quest’ultimo, perchè amata dal figliuolo, fabbrica sul punto la sua macchina, e bellamente la colorisce per ismungerne la borsa. S’introduce con avvisare che {p. 262}quelli che andarono alla guerra di Tebe, ritornano alle loro case. Chi può (gli dice Apecide) aver tutte queste notizie? Io (risponde) che ho vedute tutte le strade piene di soldati; ed aggiugne:

“Epid.

Quanti prigionieri poi non ho io veduti! Quanti ragazzi! quante ragazze! Chi ne avea due, chi tre, alcuni fino a cinque. Che concorso, che folla di gente! I padri vanno ad incontrare i loro figliuoli che vengono dall’esercito.

“Peri.

L’impresa non potea andar meglio.

“Epid.

Non vi dico niente delle cortigiane: tutte quelle che vi sono in Atene, vedevansi uscite dalle loro case azzimate e linde andar incontro a’ loro amanti, nulla obbliando per accappiarli; e ciò che mi diè più nell’occhio si fu, che quasi fosser tante pescatrici, avean tutte delle reti sotto le loro vesti. Arrivando al porto, vedo tosto quella cara sonatrice, che stavasene aspettando, e che avea seco altre quattro virtuose sue pari.

“Peri.

Chi è costei?

“Epid.

Quella che da tanto tempo è amata da vostro figliuolo, per la quale è quasi divenuto {p. 263}pazzo, e per la quale è sul punto di rovinare la sua riputazione, il suo stato, ed il vostro. Questa gioja dunque stavalo aspettando al molo.

“Peri.

Ah strega maledetta!

“Epid.

Se l’aveste veduta! che vestito! che pompa! come magnifica, galante, ed aggiustata all’ultima moda!

“Peri.

Dinne, dinne com’ era dessa vestita. Era in abito succinto, o con gran falbalà, o avea forse il cortile, giacchè v’è l’uso di dar in oggi ai vestiti de’ nomi stravaganti?

“Epid.

Sì, sì; ma il cortile addosso?

“Peri.

Forse ti maravigli che all’abito che esse portano, diano il nome di cortile, quasichè non ne veggiamo tutto il giorno che hanno indosso il prezzo di un podere intero? Il male si è, che i nostri Zerbinotti, che profondono a braccia quadre per le loro signorine, quando si tratta poi di pagar le gravezze, dicono che non sono in istato di metter fuori un quattrino. Ma ci pensino essi. Chi potrebbe poi tener a mente la lista de’ nomi ch’esse inventano ogni anno pe’ loro vestiti? L’ermisino, la saja, il linon {p. 264}trasparente, la musolina ricamata, la camicia d’amore, l’abito color d’oro o ranciato, la gonnella, il gonnellino, il velo da testa, il manto alla reale, quello alla forestiera, l’abito verde mar, il cangiante, il bianco di cera, quello a color del mele. In somma, per vedere sin dove giunga il loro delirio, hanno tolto il nome sino ai cani.

“Epid.

In qual maniera?

“Peri.

Chiamano col nome di Laconici certi loro vestiti. Queste continue mode, queste eterne novità obbligano gli uomini alla fine a vendere i loro effetti per contentar le loro belle” ec.

Vogliono altresì rammemorarsi varie buone versioni dal francese inserite nella Biblioteca teatrale della stamperia Pepoliana. Sono: del prelodato sig. Bordoni la Metromania del Piron, il Bugiardo del Cornelio, i Litiganti del Racine, il Malvagio del Gresset; del sig. Francesco Apostoli la Madre Civetta del Quinault; del sig. Luigi Roverelli l’Amante imprudente del medesimo; di Antonio Simon Sografi il Tartufo del Moliere; di Francesco Tortosa l’Avaro del medesimo; di Elisabetta Caminer Turra l’Ammalato imaginario del medesimo; dell’ {p. 265}ab. Giuseppe Compagnoni il Dispetto amoroso del medesimo; dello stesso sig. Compagnoni l’Anfitrione del medesimo; dell’ab. Giacomo Bartoluzzi il Circolo, ovvero la Serata alla moda del Poinsinet; dell’ab. Giacomo Faini la Contessa d’Escarbagnas del Moliere; dell’ab. Carlo Pezzi l’Amor Medico del medesimo; di Girolamo Zanetti Giorgio Dandino del medesimo; del nominato ab. Pezzi il Signor di Porcognacco del medesimo; di Gaetano Faini le Furberie di Scapino del medesimo; del sig. Stefano Dada gli Originali del Fagan.

ADDIZIONE V*
Epoca della morte del Goldoni. §

Egli godeva di una pensione che gli fu tolta nella grande rivoluzione della Francia; e {p. 266}sebbene gli venne poscia ridonata, ne godè molto poco, essendo morto a’ 9 di febbrajo del 1793.

ADDIZIONE VI*
La Tirannia domestica in versi, e la Commedia nuova in prosa del Signorelli: altre commedie degli ultimi anni. §

Scrisse in seguito l’autore un’ altra commedia in due atti in versi intitolata la Critica della Faustina di un genere diverso da quello della commedia premiata, che pensava a produrre fra’ suoi Opuscoli Varj; ma non ha poscia più curato di pubblicarla. Nel 1781 compose un altra commedia tenera parimente in versi ed in cinque atti intitolata la Tirannia domestica, ovvero la Rachele. In essa volle mostrare come potevasi satireggiare comicamente l’abuso de’ {p. 267}nobili e de’ ricchi che gli emulano, i quali costringono le loro donzelle a chiudersi ne’ chiostri per non recare scapito alle sostanze della famiglia destinate a passare a’ primogeniti; la qual cosa con mal consiglio e con poco frutto intrapresero in Francia gli autori della Melania e dell’Eufemia tragiche e lugubri rappresentazioni senza fortuna e senza merito. Rimase la Tirannia domestica inedita sino al 1793, quando si è pubblicata nel terzo volumetto de’ nominati suoi Opuscoli1. Oltre {p. 268}a questa ha prodotta l’autore in due atti in prosa la Commedia Nuova traduzione dal castigliano di quella già riferita del prelodato sign. de Moratin. Il Signorelli segue l’originale, usando solamente di qualche libertà {p. 269}nel dipignere i caratteri di Donna Rosina e Don Ermogene. Trovasi tal commedia impressa nel quarto tometto de’ riferiti Opuscoli pubblicato nel 1795.

Camillo Federici piemontese esgesuita, commediante {p. 270}infelice a cagione (dicesi) della sua figura, volendo riparar coll’ingegno ai torti che da questa gli venivano, prese a scrivere commedie per l’ottima compagnia lombarda di Giuseppe Pelandi, delle quali il pubblico rivede {p. 271}la maggior parte in iscena con piacere. Vanno in sei tomi nell’edizione prima di Torino del 1793 e 1794, e si sono impresse anche in Firenze nel 1794. Non pare che il maggior trionfo dell’autore provenga dalla piacevolezza {p. 272}e dalla forza comica. Conduce però spesso varie situazioni interessanti opportunamente, colorisce bene i caratteri, rileva con vigore la culta bricconeria e insinua la morale e la virtù. Le sue favole sono tutte scritte in prosa, ad eccezione di alcuna, come lo Schiavo, ossia il Ritorno dalla Soria scritta in versi sciolti e chiamata commedia non essendo tale in {p. 273}conto alcuno. Havvene delle lagrimanti sulle tracce delle inglesi e francesi. Tale è certamente in prima il Cappello parlante, ossia l’Elvira di Vitrì, in cui misti a situazioni lugubri e tragiche leggonsi motteggi comici; 2 tale il Ciabattino consolatore de’ disperati, la quale prende il titolo da un personaggio episodico, ed ha caratteri comici insieme con varj eccessi di disperazione che oltrepassano i confini della commedia, e presenta in Carlo Sundler un ritratto di quel padre che nella favola francese dell’Umanità si trasporta ad assalire un uomo di notte in una piazza pubblica per procacciar soccorso alla propria famiglia; tale 3 il Giudice del proprio delitto fatto per niun conto comico; tale 4 Totila o i Visigoti, in cui si osserva ancora con rincrescimento una deflorazione violenta. Alcuna tralle commedie del Federici dee riconoscersi per totalmente tragica, come lo Schiavo già nominata, in cui si trovano varj intoppi nella traccia, ne’ caratteri, e ne’ disegni. Ve ne sono varie ripiene di apparenze alla spagnuola, come il Tempo e la Ragione, che si dice allegoria comica, e v’intervengono esseri allegorici, Incostanza, Astrea, Capriccio, Ragione, Tempo, Scrutinio Segretario del Tempo, Errore, {p. 274}e vi si vede or la reggia di Astrea or della Fortuna, ora una Spezieria del Tempo, ora una officina dell’Errore, ora il gabinetto della Verità; nè di apparenze ed allegorie è men ricca la favola detta il Dervis, o Savio di Babilonia, ove si presentano Genj, Ninfe, la Disperazione, una Principessa che prende le spoglie della Gratitudine, e si vede la selva de’ Magi, e in un grande specchio compariscono gli eventi che accadono altrove a’ personaggi lontani. Non ne mancano di romanzesche, e tetre, ma però istruttive. Tali sono 1 la Vedova di prima notte, nella quale è singolarmente pregevole, e chiama l’attenzione, l’abboccamento della scena sesta dell’atto quarto tralla donna e un suo antico amante, che giugne e la trova maritata con un altro, il quale si scopre fratello di lei, cosicchè la disposizione della donna di non unirsi col marito trovasi fortunatamente di avere impedito un incestuoso congiungimento: 2 l’Uomo migliorato da’ rimorsi favola corrispondente al disegno dell’autore, interessando il carattere del Brigadiere Senval colla sua beneficenza e col ravvedimento che consola gli spettatori: 3 la Disgrazia prova gli amici, in cui si trova la dipintura {p. 275}di un ottimo Ministro che esperimenta tutte le umiliazioni da’ malvagi che lo credono disgraziato: 4 l’Udienza, ove si dimostra il vantaggio che reca al Sovrano ed a’ popoli la benignità de’ Principi che ascoltano di presenza le suppliche de’ vassalli; mostrandovisi un Ministro tiranno ed empio che occupa la gioventù del Principe in dissipazioni e piaceri, ed intanto egli opprime 1 popoli con atrocità ed ingiustizie enormi; ma il buon Principe d’ottima indole al vedere lo spettacolo di un indigente meritevole si scuote, risolve di ascoltare di faccia a faccia i vassalli, e con l’Udienza stabilita scopre gli sconcerti dello stato e le malvagità del suo Ministro che vien punito: 5 il Tempo fa giustizia a tutti, commedia di due antichi abbandoni, e di riconoscimenti, e vi si dipinge un libertino che si colma di delitti per le donne, e che in procinto di eseguire un ratto riconosce l’abbandonata sua amante e suo figlio e si ravvede. Piacevoli commedie di carattere sono poi le seguenti: 1 i Pregiudizj de’ paesi piccioli, in cui si dimostra la ridicola picciolezza de’ paesi provinciali pieni di nuovi nobili divenuti tali per danaro di plebei che erano, i quali ricusano di ammettere {p. 276}ne’ loro casini un Uffiziale che non è meno che l’Imperadore: 2 i Falsi Galantuomini, in cui anche un sovrano va incognito, e scuopre le bricconerie di molti birbanti che prendono il nome di galantuomini, e le ingiustizie ed oppressioni di un Presidente che riduce all’ultimo esterminio un innocente colla speranza di acquistarne la moglie: 3 l’Avvertimento alle Maritate, dipintura di un giovane ingannato da un Don Geronimo che lo aliena da una buona Moglie, l’avvolge in dissipazioni, in debiti, in prodigalità, gli presta con esorbitanti usure sotto l’altrui nome, e lo riduce all’orlo del precipizio; ai quali sconcerti ripara la Moglie colla propria saviezza e colla sua dote: 4 l’Avviso ai Maritati, ossia la Correzione delle Mogli capricciose, nella quale una Dama vana, indocile, ritrosa, inobediente vien trasformata in umile, rassegnata, e modesta negli abiti, e nelle maniere da un ricco Uffiziale che la sposa, l’allontana da tutto ciò che prima a lei piaceva, e mostrando con forza un apparente rigore alla bella prima, la guarisce; solo in tal favola si mira come ozioso il personaggio del conte Ippolito che si enuncia come suo marito, e si fa credere morto, {p. 277}e nulla poi produce per l’argomento: 5 Non contar gli anni a una Donna si aggira sul risentimento di una giovane innamorata, il cui amante ha avuta l’imprudenza di contraddirla allorchè ella si faceva di anni ventidue, e di sostenere che ne contava ben ventisette; i parenti si adoprano per calmarla, ma prendendo l’amante a lor consiglio una freddezza ed indifferenza apparente, ella ne smania, vuol ricondurlo al suo amore, e finge di essersi avvelenata, ma scoperta la sua macchina n’è derisa, e calmata al fine sposa il suo amante: 6 la Fanatica per ambizione di quattro atti rappresenta una figliuola di un negoziante ricchissimo, la quale presa da matta vanità e da superbia intollerabile, disprezza quelli che aspirano alle nozze di lei, dice a tutti sul viso i lor difetti, e se ne concilia l’odio; uno di essi la tratta con pari alterigia ed insolenza, la rimprovera alla sua volta e la mortifica; ne vien poi procurato il cangiamento con un fallimento apparente del padre e con un abbandono e un’ alienazione di tutti quelli che la bramavano quando era ricca: 7 il Matrimonio in maschera è un capriccio di una Signora che s’intalenta di sperimentare, se un Cavaliere che ella ama, saprebbe ravvisarla {p. 278}e distinguerla a viso nudo in una festa di ballo, non avendogli mai parlato senza maschera; a forza di tali ipotesi condotte con certe non molto verisimili circostanze ella si assicura che l’ama, si smaschera, e lo sposa: 8 la Cambiale di matrimonio, ossia la Semplicità che non è delle più vivaci e graziose, rappresenta l’avarizia di un negoziante Inglese Europeo, e la semplicità di un Inglese Americano; l’Europeo accetta la commissione di trovare all’Americano una sposa, e pensa di darle sua figlia, la quale è già prevenuta di un onesto giovane; l’Americano zotico e selvaggio nelle maniere, ma semplice e benefico, al vedere le ripugnanze della sposa e all’intenderne la sorgente, risolve di fornire al giovane amato colle proprie ricchezze i mezzi di soddisfare l’avarizia del Padre che ricusava di dargliela per non esser ricco; ma uno zio del giovane più ricco dell’Americano gli dona il suo, e tutto si calma. Questo novello scrittore drammatico prosegue ad arricchire le scene italiane con profitto considerevole delle compagnie comiche.

Il conte Alessandro Savioli ha prodotto in Trento nel 1793 il Pregiudizio della Nobiltà {p. 279}commedia in tre atti mentovata nel giornale della Letteratura Italiana di Mantova nella Parte I del tomo II. Il conte Tommasini Soardi Veronese ha composte varie commedie in prosa ed in versi raccolte in quattro tomi avute in pregio dagl’intelligenti, e singolarmente quelle scritte in prosa. Nè queste nè quella del Savioli sono state da me lette per render loro come converrebbe la dovuta giustizia.

L’autore delle tragedie surriferite gli Esuli Tebani, Gerbino, e Corradino, volle scrivere anche una commedia intitolata l’Emilia in cinque atti ed in versi recitata da’ commedianti Lombardi nel teatro de’ Fiorentini di Napoli, che fu sollennemente fischiata. S’impresse indi nel 1792 pel Raimondi coll’epigrafe di due passi di Terenzio, i quali col testimonio dell’autore ne comprovano la caduta mortale. L’impressione giustificò il giudizio del pubblico che la derise. Essa è in fatti una prosa mal misurata in lingua non assolutamente italiana, o napoletana, o forense, o scolastica, ma tutto ciò rimestandosi ne risulta la locuzione dell’Emilia. Lo stil dimesso e triviale si eleva facendo camino con salti or lirici, or tragici, or secentisti; l’azione è nulla, e priva di ogni {p. 280}interesse, l’economia mal disposta, i caratteri falsi o inetti, lo scioglimento addotto puramente a volontà dello scrittore1.

Terminiamo il racconto de’ nostri poeti comici ecc.

ADDIZIONE VII*
Fisedia del co: Pepoli §

Piacque al fecondo conte Pepoli di produrre nel 1796 in Venezia sul teatro, e per le stampe un nuovo componimento intitolato Ladislao in quattro atti. Non è nè tragedia, nè commedia, e porta il nuovo titolo di fisedia, cioè canto della natura ristretta agli uomini. L’azione di questo dramma di lieto fine presentato dall’autore come un nuovo genere passa in Buda, sul Danubio e nelle montagne del Crapac nello spazio di più di due mesi. V’intervengono {p. 281}due re, una regina che tratta l’armi, una principessa innamorata di un vassallo, un militare che ama la figlia del suo re, una pastorella che amoreggia e scherza e motteggia, un veterano bevitor di vino interdettogli dall’innamorata, un astrologo sciocco, avaro e furbo. Vi si parla in prosa e in versi in ogni stile da’ medesimi personaggi. Varj colpi teatrali ed alcune situazioni che interessano, hanno contribuito a cattare applauso a questo dramma in uno de’ teatri di Venezia. Singolarmente debbono lodarsene le scene quinta, sesta e nona dell’atto III, terza e sesta colla conchiusione del IV. Non sono così persuaso bene di alcune cose del II. Passi che Rodolfo tornato dal Crapac in Buda, in trenta giorni non ha colta nella reggia l’opportunità di abboccarsi colla regina Adelarda, per dirle che Ladislao suo marito vive. Sorge però in me singolarmente qualche dubbio per gli eventi che in esso accaggiono. Sofia nella scena settima senza prenderne consiglio dall’amante si presenta, e si fa conoscere ad Adelarda sua madre; Rodolfo subito propone per prima impresa di salvar l’una e l’altra. Ma perchè renderla doppiamente ardua e pericolosa per la necessità di salvarne {p. 282}due? Perchè Sofia che non osservata è venuta ed ha in quel punto parlato alla regina, non esce dalla reggia, lasciando a Rodolfo la sola cura di salvar la madre che è piena di coraggio virile? Perchè esporre una tenera fanciulla al pericolo di un precipizio per via scoscesa e per una scala in tempo di notte, quando poteva uscir di giorno, com’ era venuta, dalla porta? Ciò è fatto perchè salvata Adelarda, lo spettatore vegga Sofia rimasta in potere di Otogar e nel pericolo stesso della madre. Non parmi poi di vedere un nuovo genere nel Ladislao; e se in vece di dividerlo in atti, si distingua alla spagnuola in giornate, si ravviserà in esso una pretta commedia del Vega o del Calderòn ec.; ovvero in dodicimila commedie spagnuole, ed in altrettante inglesi, alemanne e francesi ancora del tempo di Hardy, Monchretien e Jodelle, si riconosceranno altrettante fisedie. Il Ladislao occupa due mesi, o poco più di rappresentazione, per osservar la legge II della Fisedia: e molte commedie del Solis del Roxas, del Moreto, non eccedono pel tempo quale i tre e quale i dieci giorni. Il Ladislao conforme alla III legge non distende la libertà del luogo contro la verisimiglianza, benchè l’azione segua {p. 283}or nella reggia di Buda, or sul Danubio, ora in varj siti dei monti del Crapac lontani dalla capitale dell’Ungheria più giorni di camino: e l’azione di qualche commedia del Roxas non oltrepassa poche miglia di distanza accadendo in tre luoghi differenti. Il Ladislao giusta la legge V bandisce tutto quello che suol farsi avvenire per macchina: ed in più migliaja di commedie spagnuole di spada e cappa ed eroiche ancora, punto non ha luogo macchina di veruna sorte. Nel Ladislao il Pepoli si serve della prosa e del verso a norma delle circostanze e della natura, giusta la legge VI: e tutte le favole inglesi di Shakespear, Otwai, Dryden ecc. osservano la medesima legge. L’autor del Ladislao mesce liberamente l’interesse ed il ridicolo colla preponderanza del primo per la legge VIII: e tutte le favole inglesi, spagnuole ed anche francesi prima del XVII secolo, servano la stessa regola. Nel Ladislao non si estende il ridicolo all’oscenità per la legge X: ma l’oscenità se è stata talvolta usata nelle commedie da alcuni autori, non è stata mai nè lodata nè prescritta per la stessa commedia bassa, ma detestata dovunque trovisi. Il Ladislao per la legge XIV termina lietamente: e tutte le favole spagnuole e tante inglesi ed alemanne {p. 284}sono di lieto fine, e per questa parte ancora sono fisedie. Ciò m’induce a credere che una fisedia è un nome nuovo, e non un nuovo genere ma vecchio oltremodo ed oltremodo e meritamente riprovato.

ADDIZIONE VIII*
Teatro di san Ferdinando in Napoli. §

Il migliore dei descritti teatri napoletani è quello che si costrusse nel sito detto Pontenuovo terminato nel 1791 intitolato san Ferdinando. L’ingegnere napoletano Camillo Leonti ne fu l’architetto, Domenico Chelli toscano il dipintore. La figura della platea è ellittica, ha palmi quaranta di larghezza nel maggior diametro, quarantadue di lunghezza, e quarantatrè e mezzo di altezza dal pavimento alla finta volta; la scena che in faccia agli spettatori ha un orologio, di lunghezza è palmi {p. 285}ventisette. Vi sono cinque file di palchetti, delle quali ciascuna ne contiene tredici di otto palmi di altezza ognuno. Ha inoltre una facciata regolare e senza tritumi, un atrio con due stanzini laterali, e comodi corridoi. Se l’oggetto d’un teatro, musicale specialmente, è che ben si vegga da ogni parte, e che le voci e l’armonia si diffondano nettamente, questo teatro è uno de’ pregevoli che se ne sono costruiti. Ad ottenere un continuato concorso altro non manca al teatro di san Ferdinando se non che fosse collocato men lontano dagli altri teatri e dal centro della città e dalle vicinanze della Reggia.

ADDIZIONE IX*
Altre opere buffe in Napoli. §

Altre opere del Federico sono le seguenti: la Rosaura del 1736 colla musica di Domenico {p. 286}Sarri: Da un disordine nasce un ordine del 1737 colla musica di Vincenzo Ciampi: l’Alidoro del 1730 colla musica di Leonardo Leo: l’Alessandro del 1742 colla musica del medesimo Leo: la Lionora del medesimo anno colla musica del Ciampi nelle parti serie e di Niccolò Logroscino nelle buffe. Commedie pur furono benchè di bellezza minore le opere di Pietro Trinchera autore della Vennegna cantata colla musica di Gaetano Latilla nel teatro della Lava, e dell’Abate Collarone cantata nel medesimo teatro colla musica di Domenico Fischetti, che poi dal medesimo autore si rifece per cantarsi in quello de’ Fiorentini nel 1754 col titolo le Chiajese Cantarine colla medesima musica del Fischetti, ma con alcune mutazioni fattevi dal Logroscino. Scrisse il Trinchera molte altre opere buffe, e singolarmente la Tavernola abbentorata ecc.

{p. 287}

ADDIZIONE X*
La Pietra simpatica del Lorenzi. §

Dopo molti anni di silenzio il medesimo sig. Lorenzi ha data al teatro de’ Fiorentini l’anno 1795 la Pietra simpatica colla musica di Silvestro di Palma. In questa piacevole farsa in due atti si motteggiano i filosofi falsi naturalisti e vulcanici. Vi si rilevano comicamente le ridicolezze di coloro che vogliono dare ad intendere di studiare per dieci o dodici anni la natura de’ ragni e de’ gatti. Vi si proverbia la filosofica credulità di chi sostiene che nuvoloni gravidi di sassi vulcanici cadono poi giù lontanissimi da’ paesi dove si generano. Con una pretesa pietra simpatica, detta altrimenti cornea, si conchiude un matrimonio conteso dal naturalista zio della giovane destinata ad un ridicolo suo discepolo, il quale è preso a sassate, {p. 288}che gli si fanno credere cadute dal cielo. Per farne comprendere lo spirito e la piacevolezza, ne adduco qualche squarcio. Una finta dama oltramontana che si millanta studiosa de’ vulcani, si presenta al naturalista Mario, il quale l’invita a vedere la sua casa:

Macar.

Vedrà gatti in famiglia,
Serpenti in società, ragni in amore,
Studj profondi e varj
Di noi naturalisti
Che siam della natura i segretarj.

Errighet.

Ma voi da questi studj
Che ricavate poi?

Macar.

Molto, Ma dama.
Primieramente apprendo
Il linguaggio de’ gatti,
Per poi darne alle stampe
Un dizionario a comodo
Delli studiosi. Ne’ serpenti poi
Noto il talento, come
Nel darli da mangiar, dalle stantive
Distinguon le uova fresche.

Errigh.

E ne’ ragni?

Macar.

Rifletto,
Che per essi potrebbe
Fiorire un altro ramo di commercio.

Errigh.

Da’ ragni?

Macar.

Certo: ed ecco il come: di esse
{p. 289}
Moltiplicando per le case il numero,
E raccogliendo poi li ragnateli,
Cardarli, e poi filati
Farne vaghi lavori:
E in tante balle poi mandarli fuori.

Un altro squarcio è dell’ultima scena dell’atto I. I congiurati contro i due sciocchi naturalisti a favore degli amanti, fanno piovere una tempesta di sassi sulle spalle di Don Sossio destinato sposo della nipote di Don Macario suo maestro. I letterati stimando che tali pietre sieno cadute dalle nuvole, vogliono sapere la sostanza di esse; Sossio obbliando il dolore risponde,

Soss.

Io parlando con creanza
L’ho per pietre piritose . . .

Corrad.

Oh che porco!

Soss.

Mi perdoni:
Piritose concrezioni
Son . . . cioè . . . mi spiego . .

Macar.

Taci.
Cachelonie le cred’io . . .

Corrad.

Peggio peggio.

Macar.

Padron mio,
Cachelonie son chiamate,
Perchè intorno al fiume Cach
Nel paese de’ Calmuchi
Son trovate . . . E vengon quà.
{p. 290}

Errigh. & Corrad.

Cachelonie! ah ah ah.

Corrad.

Questi son mattoni cotti.

Errig.

Son vulcanici prodotti.

Si risolve di farsene l’analisi. E mentre si recano i reattivi, i carboni ec., vengono dal giardino i servi dicendo spaventati che non solo tutti i gatti sono fuggiti pel giardino, ma che i serpenti ancora rotta la rete che gli chiu. dea sono scappati, e tutti fuggono atterriti. La musica piena di armonia, di verità e di novità si accordò colla grazia comica esagerata e propria della farsa, e la riuscita su piena e si recitò per moltissime sere con gran concorso, e nel 1796 si è ripetuta col medesimo diletto e con frequenza di ascoltatori.

{p. 291}

ADDIZIONE XI*
Altri melodrammi istorici. §

Non è mancato qualche altro melodramma istorico in Italia, come il Pirro del toscano sig. Gamerra, il Creso del sig. Pagliuca napoletano, ed il Socrate dell’esgesuita Antonino Galfo attualmente vivente in Modica sua patria. Il primo si cantò nel real teatro di san Carlo in Napoli, e piacque; il secondo sento che non ebbe simil destino; il terzo non si è mai rappresentato. Trovasi il Socrate impresso in Roma nel 1790 nel tomo quarto del suo Saggio poetico. Disse nella prefazione l’autore di non averlo chiamato dramma per musica, ma componimento drammatico, non avendolo composto per andar sulle scene; ed in fatti egli si allontana da tutto ciò che determina gl’impresarj alla scelta dei drammi. Il Metastasio in {p. 292}una lettera che gli scrisse, n’encomia lo stile come robusto e lusinghiero, la ricchezza de’ pensieri, la vivacità delle immagini, la solida dottrina sparsa nelle numerose massime morali, i lampi poetici delle comparazioni. E certamente si riconosce nel suo stile forza e dolcezza; le immagini abbondano e forse oltre il bisogno in qualche situazione; le moralità copiose non disconvengono al filosofo rappresentato e alla di lui famiglia. Quasi tutte l’arie contengono studiate comparazioni sulle tracce di qualche splendido difetto del Poeta Cesareo. Quelle di passione non oltrepassano le sette, altrettante sono le parlanti, e ben quindici di comparazioni, fralle quali una ve n’ha fin del Cavallo Trojano che entra in Troja col manto della pietà. Che che sia di ciò si ravvisa in lui uno de’ migliori imitatori dello stil Metastasiano, che però si preserva dalla languidezza e trivialità della maggior parte di chi si lusinga di seguir Metastasio quando si abbandona alla propria mediocrità. Il Galfo si dimostra vigoroso, vario, abbondante e facondo nel dire. L’economia e la traccia dell’azione forse richiedevano più artifizio ed incatenamento, e situazioni più tragiche in siffatto argomento. {p. 293}Non vi si desiderano scene interessanti, e tale è singolarmente la 12 dell’atto II. Compose ancora l’autore non poche cantate, che ora introducono a parlare Alcina e Ruggiero, ora Armida e Rinaldo, or Mentore e Telemaco. Vi campeggia la copia delle immagini, la scelta delle maniere, l’armonia della versificazione. Lo stile è fiorito e talvolta lussureggia, ma la varietà delle idee, e l’eloquenza poetica lo rende pregevole.

L’erudito conte della Torre Cesare Gaetani nato nel 1718 nell’età di anni 78 in cui si trova non ha tuttavia tolto congedo dalle muse sceniche. Nel 1794 pubblico in Siracusa le Nozze di Ruth cantata nel Duomo di quella città nell’anniversario di santa Lucia. Pel medesimo oggetto compose il Giudizio di Salomone nel 1795, nel quale veggonsi con maestria scolpiti i caratteri di Giosaba madre falsa del bambino conteso e di Bersabea madre vera, che chiama l’attenzione in ogni occorrenza co’ palpiti materni nell’attendere e nel sentire la strana decisione. In una lettera del sig. conte scrittami a’ 26 di ottobre del 1796 condiscendendo cortesemente alla mia richiesta mi rimise una nota degli altri suoi Oratorii e di altre produzioni {p. 294}sceniche. Esse sono: il Trionfo di Giuditta, Mosè bambino al fiume, il Sacrificio di Jefte, l’Eccidio di Sisara, la Luce degli occhi, la Scala di Giacobbe, il Viaggio di Tobia, Aretusa ed Alfeo ed altre per la ricorrenza del santo Natale.

Antonio di Gennaro già Duca di Belforte morto nel gennajo del 1792 lasciò tralle altre sue poesie alcuni componimenti drammatici da cantarsi verseggiati con eleganza e con armonia. Oltre di varie cantate assai vaghe trovasi in prima nel volume terzo dell’edizione nitida, in cui non si desidera che un poco più di correzione, fattasene nel 1796, un Oratorio per musica nella liquefazione del sangue di san Gennaro nel maggio del 1765, in cui intervengono Onnipotenza, Religione e Partenope, e vi si mentovano acconciamente le calamità che afflissero la nostra città e buona parte del regno nel 1764. Vi si legge poi la Primavera componimento drammatico scritto pel solito omaggio di fiori e di frutta presentato a’ Sovrani nel primo di maggio del 1775; si ammira in esso il più bell’elogio fatto dalla Primavera personificata ai pregi naturali del sito e del clima di Partenope e delle ubertose campagne che {p. 295}soggiacciono al Vesuvio cagione della squisitezza de’ prodotti e della salubrità delle acque e dell’aria. Havvi altresì due favole boscherecce musicali, l’Isola incantata, e l’Amor vendicato, delle quali s’ignora l’epoca. E’ però noto che la prima si scrisse e si pose in musica a privato trattenimento di una brillante compagnia di dame napoletane che dettavano allora leggi al gusto e alle maniere. Vi s’introducono quattro ninfe caeciatrici vivi ritratti di quelle dame, e gli evenimenti ideati adombrano il vero col velo misterioso della poesia. L’Isola incantata che seduce le ninfe, e la pianta che al cadere rompe l’incanto, discendono dall’isola e dal ponte varcato da Rinaldo del Tasso, e dalla pianta recisa nella selva incantata. Si osservino le istantanee mutazioni cagionate dal troncarsi la pianta fatale, che servirà anche per saggio dello stile:

Ma che! . . . s’oscura il giorno! . . .
S’addensano nel ciel nubi improvvise! . . .
Fischian orridi i venti! . . . impetuosa
La grandine si scaglia . . . il suol si scuote . .
Dalle radici immote
Par che l’orbe vacilli! e par che avvampi
L’isola tutta allo strisciar de’ lampi! . . .
{p. 296}

L’altra favola boschereccia si aggira sulla vendetta presa da Cupido di Apollo rendendo schiva e severa a’ suoi prieghi Dafne figlia di Peneo. L’autore ingentilisce la favola rendendola di lieto fine con mostrar Dafne restituita alla vita, ed Apollo placato e sol contento di cingersi la fronte e la cetra dell’immortale alloro che svelse dall’amata pianta. Lo stil drammatico del Gennaro è quello, a mio credere, signorile, che nè serve al metastasiano nè si eleva oltre la naturalezza e la proprietà del genere, che nulla ha di snervato e prosaico, e nulla acquista di stento e di durezza per affettare eleganza.

{p. 297}

ADDIZIONE XII*
Morte d’Ercole del Pepoli: tragedie in musica del Calsabigi. §

Non tutti però i pochi partigiani dichiarati dell’opera mitologica costantemente a questa si attennero. Due di essi per avventura i più infervorati a sostenerla, hanno pur voluto coltivar l’opera istorica, il conte Alessandro Pepoli di cui mi si avvisa la morte inopinata seguita in Firenze nel dicembre del 1796, e il consigliere imperiale Ranieri de’ Calsabigi morto nel luglio del 1795.

Fece il primo imprimere in Venezia nel 1790 la Morte di Ercole melodramma istorico in cui abbandonato il rancido presidio delle furie danzatrici, e delle trasformazioni a vista, si spiega la pompa delle decorazioni naturali che abbelliscono lo spettacolo. Havvi balli analoghi {p. 298}sacri e festivi, pantomimi di soldati e prigionieri introdotti ne’ varj passi dell’azione, un’ entrata trionfale di Ercole, un ecclissi repentino che cangia in palpiti la festa e l’allegria, e accresce moto e vivacità all’azione, sacrificj decorati, l’apparenza del rogo ardente sull’Oeta. Singolarmente dee notarvisi il decoro conservato ne’ caratteri di Ercole e Dejanira, il patetico delle situazioni, e la convenienza dello stile alla scena. Non vi si veggono sparsi in copia gli ornamenti lirici, l’interesse de’ principali personaggi non vien distratto o raffreddato da que’ meschini amori subalterni delle tragedie francesi e de’ melodrammi eroici italiani, che noi non perdoniamo nè anche al Metastasio.

Ranieri de Calsabigi ha prodotto non ha molto due melodrammi istorici col titolo di tragedie in musica, Elfrida ed Elvira, la prima rappresentata nel real teatro di Napoli l’anno 1793, l’altra nel 1794. Essendosi questo letterato mostrato in ogni incontro avverso affatto al sistema metastasiano, ed alcune volte con qualche fondamento, non fia senza vantaggio della gioventù l’esame de’ passi dati dal Calsabigi tanto allorchè giugne al suo fine, quanto allorchè lo veggiamo o in procinto di traviare o smarrito.

{p. 299}

La storia d’Inghilterra de’ bassi tempi somministrò all’autore il soggetto della prima. Edgar succeduto a Edwy udì celebrare dalla fama l’estrema bellezza di Elfrida (Elfthryth) figlia del ricco conte di Devon, e pensando di averla in moglie nel caso che tal fosse quale si decantava, spedì Athelwold suo favorito al padre di lei. Preso però il messo dalla bellezza singolare di Elfrida, riferì al re che era di un volto comunale e poco degna per le maniere delle reali nozze. Il re se ne svogliò, e permise al favorito di ottenerla per se stesso. Celebrate le nozze, Athelwold lasciò la sposa in provincia, perchè nè la vedesse nè altro ne udisse il re deluso. La fama e l’invidia bentosto diedero al re indizio della perfidia di Athelwold; ma dissimulando obbligò il favorito ad accompagnarlo, volendo fare una visita alla sposa. Athelwold sconcertato stimò di palesare alla moglie il proprio inganno, e la pregò di presentarsi al re con poco garbo e inornata, e dissimulare al possibile le proprie grazie e i pregi naturali. Elfrida al contrario o per voglia natural di piacere, o per disdegno nato nel suo cuore contro dello sposo, si presentò al re con tutta la pompa de’ proprj vezzi, a {p. 300}segno che rimastone il re sorpreso venne in tal furore per l’inganno scoperto, che in una partita di caccia pugnalò di sua mano il favorito, e sposò Elfrida. Questo è il fatto tramandatoci dagli storici Inglesi. Il sagace autore, come conviensi a’ poeti che non ignorano il proprio uffizio, ha migliorato e abbellito quest’argomento ne’ caratteri d’Elfrida facendola innamorata di suo marito, e di Edgar dandogli spiriti di generosità che contrastano colla sua passione. Vediamo la traccia, e qualche particolarità di questo dramma colla imparzialità che ci guida.

Atto I. Elfrida impaziente per l’assenza del marito si trattiene a parlar con Evelina sua confidente, e il dialogo è proprio e naturale. Pure se valessero le censure esagerate fatte dal Bettinelli allo stile metastasiano ripreso talvolta come inelegante e spesso come prosaico, potrebbe dirsi altrettanto dello stile del Calsabigi, e si potrebbero addurre molti squarci che scrivendosi senza dividerne i versi, parrebbero prosa e non iscelta.

Sopravviene Orgando in abito di cacciatore; Elfrida vede il padre, nol ravvisa, e s’inselva; egli le va incontro:

Org.

Nobil donna . . .

Elfr.

Straniero . . .
{p. 301}
(Oh importuno) che vuoi?

Org.

Di, non è quello
Il romito castello
Del felice Adelvolto? . . . Amico io sono
Del signore di queste
Remote solitudini, e confido . . .

Ed in tutto ciò la figlia non riconosce il padre, perchè va vestito da cacciatote. Un vestito trasforma a tal segno la voce, il volto, l’andamento di un padre agli occhi d’una figlia? Ciò è ben duro e fuori del verisimile. Evelina lascia Elfrida col padre, e dopo cinque versi ritorna; ma perchè parte? perchè ritorna? Lo spettatore esige sempre il motivo dell’entrare e dell’uscire de’ personaggi. Forse Evelina parte per ispiare, se giunga Adelvolto, e torna per dire, che giugne, la qual cosa con pace d’Evelina non è punto vera, nè poi si sa che cosa voglia da ciò ricavare in vantaggio di Elfrida. Orgando ed Elfrida si abbracciano, e co’ rispettivi confidenti cantano un quartetto, poco veramente vantaggioso per la musica, perchè gli affetti non sono punto riscaldati al giusto segno, dicendo appena Elfrida,

     in quest’amplesso
Perchè così adombrato . . .
Severo sei con me? . . .
{p. 302}

ed Orgando,

Nella mia figlia io trovo
Un non so qual timore.

dal che pare che nascer non potessero le tetre espressioni de’ confidenti,

Minaccia il ciel turbato,
S’ammanta a nero il giorno,
Mormora il tuono intorno.

Si vede che il poeta vorrebbe in grazia della musica elevare il tuono del quartetto che non può esser se non parlante. Questo pezzo concertato; come suol chiamarsi, abbraccia 34 versi, e conchiude cosi:

Org.

Torni d’Elfrida al core . . .

Elfr.

Torni del Padre al core . . .

Evel.

Torni nel nostro core . . .

Osm.

Torni d’un Padre al core . . .

a 4

La calma che perdè.

Quattro personaggi che interrompono il proprio sentimento o per volontà o per inciviltà reciproca, che attendono ciascuno alla sua volta il parlar dell’altro a metà, che conchiudono in coro con un sol verso comune venuto in mente a tutti, rassembra quello appunto che si riprende in certe scene finali degli spagnuoli del passato secolo. Si dirà che altri ancora l’ha fatto: {p. 303}ma si domanda, se con ragione e proprietà? Si dirà che la musica anche oggi astringa la poesia a tradir se stessa e la verità: ma dunque nel sistema musicale presente vi son pure ostacoli all’imitazione del vero, ad onta di tanti censori severi del Zeno, e del Metastasio? Lascino dunque codesti censori che non sanno far meglio, di riprendere chi tanto e tanto ha meritato.

Viene Adelvolto nella scena quarta e s’incontra con Elfrida, e prima che nel recitativo si snervi la passione, dopo cinque soli versi acconciamente spezzati a vicenda, esprimono bene i loro affetti in un duetto.

Buona sembra ancora la scena sesta, in cui Elfrida rassicura Adelvolto riguardo al padre; e quando poi lo vede agitato per la venuta del re, stupisce, e lo rincora; Ti perdo, Elfrida, dice Adelvolto; ed ella: Come! minacci me con quel funesto presagio tuo più che te stesso . . . Non ti smarrire, son tua, voglio esser tua... Non so morire? Anche acconcia alle circostanze di Elfrida è l’aria

Di furor per me si accenda,
Arda il volto de’ tiranni ec.

col la quale si conchiude l’atto primo.

{p. 304}

Atto II. Il re palesa ad Adelvolto di voler passar seco nel delizioso suo giardino alquanti dì, e veder la sposa. Orgando che sin dalla scena 7 del I, al dir di Evelina, ito era ad ossequiare il re, giugne un poco tardi nella 2 scena di quest’atto, e il re l’invita alla sua mensa colla figlia. Adelvolto si allontana per andare a prevenire Elfrida; ma dopo soli otto versi recitati dal re che poi parte, egli ritorna senza perchè nel medesimo luogo, prima di parlare colla sposa. Ma il poeta volea trarre partito dall’incontro loro alla presenza dello spettatore senza mutar la scena. Essi dunque si veggono nella scena quarta, che interessa ed è appassionata, malgrado di un terzetto che vi si legge alla prima, il quale colle sentenze e ripetizioni della musica serve anzi a stancar Elfrida e lo spettatore per le troppe esitazioni del marito. Ciò che la rende importante è il segreto che a lei palesa dell’inganno fatto al re, il quale pone l’uditorio in attenzione sospeso per intendere la deliberazione che prenderà Elfrida.

Segue altra mutazione di scena nella quinta scena, in cui il re si trattiene, come ha pur fatto nella prima, a far riflessioni di antiquario, dicendo, che quivi probabilmente le regine {p. 305}vissero un tempo remote. Elfrida dando voci di dentro e contrastando col padre vien fuori con impeto dopo di aver chiamate in soccorso (poderoso al certo!) contro del padre Evelina e le compagne nella guisa che fan no le ninfe fuggendo da’ satiri. La bellezza d’Elfrida incanta il re, il quale ordina che si chiami Adelvolto, che già veniva da se, e gli rimprovera il tradimento; egli chiede la morte. Orgando lo sfida a duello che viene accettato da Adelvolto con disegno di morire per le sue mani; Elfrida affannata prega il re perchè non permetta la pugna; egli duro risponde, questa è la legge. Quartetto finale, in cui Elfrida prega tutti l’un dopo l’altro, e nulla ottiene. Forse in alcune espressioni si desidererà più precisione, e meno generali idee.

Atto III. Anfiteatro boscareccio. Siede il re col suo seguito. Vengono i combattenti. Orgando dice ad Adelvolto: se il cielo abborre i rei e ne fa vendetta, io lascerò nel tuo scempio un tremendo

Della giustizia sua celebre esempio;

dove quel celebre è pura borra, che riempie il verso, è ozioso, e minore del tremendo. Adelvolto risponde che si difenderà sol per onore {p. 306}di Orgando. Il re dice,

Non più si dia della battaglia il segno,

verso del Metastasio, nella Semiramide, Olà si dia della battaglia il segno. E’ vero che le parole che lo compongono appartengono a tutti; ma così infilzate son del nominato poeta picciolo tanto e spregevole agli occhi del gran Calsabigi.

Sopravviene nella scena 2 Elfrida con armato seguito alla barriera, e protesta contro l’ingiustizia della pugna. Eggardo dice, questa è la legge, ed ordina che le s’impedisca il passo. Elfrida che finora ha mostrato affetto e virtù, ma non già prodezza di guerriera, divenuta un’ amazzone, impone al suo seguito che spezzi la barriera, e si avanza sino alla loggia dove sta il re, seguita poi da chi? da’ vassalli forse del marito; ma questi vassalli esser altri non possono che villani del ritiro campestre di Adelvolto; Or pare verisimile che dovessero osar tanto in faccia al re circondato da’ soldati, da cavalieri ec. ribellandosi manifestamente? E tanto ardisci! le dice il re; ed impone alle guardie, le quali non han saputo resistere all’attentato della barriera, di circondare i combattenti. Ma che pro? Elfrida è già sulla carriera {p. 307}delle Camille; chiama barbaro il suo sovrano, urta, dissipa le guardie, si scaglia verso Adelvolto, e li strappa di mano la spada. Poteva giunta a tal segno l’azione restare oziosa e sospesa? E pure così avviene. Elfrida dee esigere dal re, dal padre e dalle guardie tutto l’agio per cantare un’ aria di diciotto versi, la quale, benchè troppo verbosa e lontana dalla vibratezza e dal nerbo che Metastasio con tanta gloria ha usato, non ha sentimenti sconvenevoli ad Elfrida, ad eccezione di arrestar la rapidità che qui si richiedeva, e di far rimanere il re e tutti come ascoltatori oziosi in un’ accademia di musica. In fine Elfrida approfittandosi del letargo universale conduce via fieramente il marito ad onta del padre e del re. Adelvolto è condannato all’esiglio. Egli però rapito dalla sua sposa si è ritirato alle sue stanze, quasi potesse rimanere ozioso al punto, in cui stanno le cose. L’azione naturalmente richiedeva che Elfrida dopo il suo attentato avesse atteso senza dimora a ritirarsi altrove con lui, non già che si trattenesse nelle sue stanze. Ciò che non ha fatto per iscelta, è obbligata a proporlo pel comando del re che esilia il marito. Ella vuol seguirlo. E se, dice Adelvolto, ne impedisce il {p. 308}re ed Orgando? Ella magnanimamente risponde,

     Schernir possiamo
Il Padre, il Re . . . per sempre
Essere inseparabili . . . Rimira . . .
Rifletti . . . . Quest’acciaro
E’ mio ... tuo se lo vuoi ... Ti basta il core
D’impugnarlo e imitarmi? Ah questo solo
Dalle sciagure estreme
Liberarci potrà . . . Morremo insieme.

Ciò mi pare patetico e nobile. In vece però di dirsi, che un marmo istesso in un eterno amplesso gli chiuderà, ed in vece di quell’urna sola che confonderà le loro ceneri, espressioni fredde, consuete e poco energiche, questa scena poteva forse produrre un duetto più appassionato e più utile alla musica. Poteva p. e. esprimersi con calore il pensiero che dee occupare Adelvolto di aver egli formata l’infelicità d’Elfrida: poteva ella corrispondere riflettendo di aver ella coll’infausta sua beltà ridotto a quel punto l’amante. Ciò avrebbe senza dubbio somministrato alla musica un oggetto più capace di vere espressioni, in cambio di quell’eterno amplesso nel marmo e di quell’urna che vale la stessa cosa esangue.

Resta Elfrida, e viene il re, cui ella dice {p. 309}che seguirà lo sposo. Eggardo risponde che nol permetterà Orgando e le offre il trono e la mano. Si sdegna Elfrida, e non a torto, al sentirsi proposto da un re, il quale sempre ha in bocca, questa è la legge, che ella diventi sposa di due mariti. Viene il padre nella scena settima, e la riprende del volere accompagnare Adelvolto. Fermiamci qui. Orgando come il sa egli? Ella ha manifestato il suo disegno al marito nella scena 5; è venuto il re che è presente, ed ella se n’è con lui spiegato nella scena 6: or chi l’ha detto ad Orgando che arriva nella 7 scena? Il poeta che ’l sapeva. Il re contristato rimprovera Elfrida, e dopo un’ aria di 18 versi di concetti a lui convenienti, ma un pò verbosa nè senza ripetizioni di pensieri, parte. Nella scena 8 la stessa premura di Orgando, la stessa resistenza di Elfrida, che produce un duetto. Ma il Padre? dice Orgando:

Elfr.

. . . . Oh Dio! s’io l’amo,
Se più di me l’amai,
Sa il ciel, lo sa il mio core,
Padre, e il tuo cor lo sa.

Anche quì l’autore ha onorato un pensiero del Metastasio col trascriverlo dall’Artaserse:

{p. 310}
“Se fedele a te son io,
Se mi struggo a’ tuoi bei lumi,
Sallo amor, lo sanno i numi,
Il mio core, il tuo lo sa.”

Chi poi riprende lo stil Metastasiano nel dramma come prosaico e inelegante, nel tempo stesso che si dichiara ammiratore del Calsabigi, osservi il seguente passo di Elfrida, e dica se prosa simile trovisi in Metastasio: Soltanto mi sgomento, Padre, che un giorno avrai del barbaro mio stato pietà, rimorso e orror. L’espressioni di Elfrida ad Adelvolto sono giuste e appassionate. Nel voler partire arriva Eggardo che ne impedisce la fuga, indi Orgando che torna a rimproverare alla figlia il poco amore che ha per lui, e vuol separarla dal marito, la cui nullità in tale occasione reca rincrescimento. Elfrida con uno stile minaccia di svenarsi. In questo luogo si trova un pezzo di musica concertato, in cui Adelvolto risponde appena da parte che è smarrito l’imbelle suo cor, e qualche altra cosa simile, ed Osmondo, e Siveno personaggi ugualmente nulli (che nol dicendo il poeta possiam credere di esser venuti fuori col seguito d’Eggardo) articolano la sola parola tremo. Eggardo in grazia di Elfrida accorda {p. 311}che resti Adelvolto, ma lo sottomette al giudizio de’ Pari, che ben sa Elfrida che sia giudizio di sangue. Adelvolto condotto via dice fra se (quasi andasse a chiudersi alla Trappa) addio mondo, addio consorte, non respiro che morte. Con ciò il poeta vuol fare intravedere il disegno ch’egli ha di morire. Or non era bene di prepararsi un poco più tal determinazione, dando maggiore energia al suo carattere? Ne rimane atterrita Elfrida, si lascia cadere a’ piedi di Eggardo, e il vivace suo pregare ottiene la grazia e il perdono al marito. Hai vinto, le dice il re, e con nobil sentimento contrario al primo suo scandaloso pensiere di sposare la moglie di un altro che ancor vive, aggiugne:

     Superbo
Son io d’averti amato, e più che t’amo,
Più apprezzo me: di te non ero indegno;
Tel prova il mio perdono. In quante pene,
Quante amarezze ha involto
Quel crudele...

Siven.

Ah signor, morì Adelvolto.

Non mi spiace che in una breve strofetta da cantarsi si accenni che Adelvolto avea un pugnale ascoso, che gridò, Elfrida, se l’immerse nel seno, e spirò; imperocchè colla musica si {p. 312}fugge la noja di una narrazione finale; che ne’ moderni teatri musicali non suole ascoltarsi. Elfrida vuol ferirsi, Orgando la trattiene, ella tramortisce.

Ciò che in tale dramma trovo di più lodevole, si è che non vi sono freddi episodici amori di personaggi subalterni, non arie di concetti, e di comparazioni liriche, non persone scellerate che precipitano gli eroi nell’infelicità. L’azione va al suo fine, malgrado di alcune scene di ripetizioni appena in qualche circostanza variate. Vi trionfa il carattere di Elfrida nobile, appassionato, eroico. Adelvolto è una figura di tinte sfumate e smorte; pure esige morendo qualche compassione, d’altro in fine non essendo reo che di superchiería fatta al re per troppo amore. Il disviluppo segue acconciamente con que’ pochi versi che dal canto possono ricevere espressione e calore.

Si vede impresso nel fine del dramma un estratto di una lettera che l’autore attribuisce al signore d’Herbert, cui è dedicato. Egli lo loda, e vi trova (par che parli l’autore stesso) più estro, più calore che in qualunque altro scritto all’età dell’autore da due altri celeberrimi poeti defonti pochi anni scorsi, cioè a dire {p. 313}dal Zeno e dal Metastasio. Con pace però del signor d’Herbert non vi sarà neppure un Bettinelli nè un Vannetti che applaudirono al vivente Calsabigi1 disprezzator del Metastasio, i quali non confesserebbero ad un bisogno, per non far torto a se stessi, l’immensa visibile distanza dell’Elfrida dal Temistocle, dall’Olimpiade, dalla Zenobia, dall’Achille in Sciro, dal Catone, dal Ciro, dal Regolo, dalla Clemenza di Tito ec.; come ancora dal Lucio Papirio, dal Cajo Fabricio, dal Mitridate, dall’Andromaca, dalla Merope, dalla Nitocri e da altri. La Catastrofe dell’Elfrida è nova, dice pure d’Herbert, naturale, preparata, e condotta non si può meglio. Passi che la stimi preparata e condotta acconciamente, sebbene sia troppo dire che non si può meglio. Ma come passargli che questa catastrofe sia nova? L’invenzione di troavrsi eseguita la morte del reo dopo la grazia ottenuta, è bene invecchiata per l’uso fattone {p. 314}più volte. Nè il Calsabigi dovea ignorare che tal catastrofe fu introdotta in teatro colla Inès de Castro del signor La Mothe; che fu ripetuta nell’Agnese del sig. Colomes; che più? che fin anco il Pagano l’ha impiastricciata pochi anni fa nel suo Gerbino. Or come era nova l’anno 1793 nell’Elfrida?

Elvira altra tragedia per musica del lodato autore seguì l’Elfrida, e si recitò nel carnevale del 1794, benchè fusse composta nel 1793. Il pubblico disapprovò questo dramma per ragioni diverse da quelle dell’autore che se ne dichiara malcontento, ed afferma nell’edizione fattane a proprie spese, che la sua opera fu pregiudicata nella condotta e nell’interesse, e trascurata nell’apparecchio, abbellimento e decorazione convenevole alla scena. Convien dunque a tale edizione attenersi, che, al dir dell’autore, la presenta qual si compose; ma osserveremo in note le variazioni che vi si fecero nel rappresentarsi.

Si aggira su gli eventi de’ bassi tempi, quando i Mori dominavano parte della Spagna, ed eravi certa promiscuità e connessione di affari, costumi e interessi fralle popolazioni spagnuole ed arabe. In Granata per ipotesi della favola {p. 315}domina Odorico prepotente colla sua fazione spagnuola, di cui fa parte Ricimero scelto da Odorico per consorte di Elvira sua figlia bellissima, e piena di maschio valore, trattando l’armi alla maniera delle Marfise. La fazione opposta inclina agli Arabi, ed è spalleggiata dalle milizie di Adallano principe moro, cui Elvira ha segretamente data fede di sposa. Intervengono nel dramma quattro personaggi e tre confidenti.

Atto I. Notte avanzata. Elvira colla confidente Selinda attende Atellano suo occulto amante. Prega la notte a coprir ben di tenebre il cielo, affinchè non esca sì sollecita l’aurora col rosato suo colore, l’augellin non saluti il nuovo dì, l’argentea luna non la importuni col suo candido chiarore. I drammi musicali prima del Zeno e del Metastasio usarono sovente siffatte espressioni liriche. Se però nell’ultimo gran poeta si riprendono alcune vaghe ariette di comparazioni, e qualche tratto lirico come disdicevoli alla verítà richiesta nel linguaggio drammatico, si accorderanno simili frasi al Calsabigi, il quale ad esclusione de’ passati poeti, crede di darci per la musica tragedie vere?

Nella scena 2 viene Osmida secondo confidente, {p. 316}il quale è sì necessario in tutta la favola, che dopo di questa scena sparisce, e solo interviene muto nella decima che è seguita dal finale, ed in esso altro non dice, che, vuoi guerra, e guerra avrai; nel secondo non si vede affatto; nel terzo segue Adallano, e non parla mai, se non che al finir del dramma profferisce in compagnia di Selinda gli ultimi tre versi del finale. Or valeva ciò la pena di moltiplicar i personaggi con un Osmida inutile che parla in una sola scena? Egli è stato mandato avanti da Adallano per esplorar tutto nel giardino. Elvira mostra impazienza amorosa; ma una scena sì lunga di lei coll’esploratore Osmida invita poco lo spettatore all’attenzione, bramando egli l’incontro degli amanti. Di più verte siffatta scena su fatti tutti noti ai due confidenti; a che dunque rivangarli? per informar l’uditorio del passato con tale scarsezza d’arte. Ma ecco arriva finalmente nella terza scena affrettato Adallano, cui il chiaror della luna ha finora impedito di venire. Gli amanti diriggono i loro voti alla notte,

Prolunga, o notte amica, il mio contento,

e si allontanano e perdonsi nel boschetto, mentre i confidenti seguitano a porgere alla stessa {p. 317}notte divote preghiere. Tutte tinte tragiche! chi nol vede? Lo spettatore però che delle volte suole esser curioso investigatore di quanto fanno o non fanno in iscena i personaggi, fa mille giudizj sull’inselvarsi de’ due ardenti amanti, involandosi agli occhi degli stessi confidenti (quando l’eroine stesse de’ romanzi della Scudery non sogliono parlare a’ loro amanti senza chiamar presso di loro le confidenti) e di mala voglia vedesi tenuto a bada da’ personaggi subalterni, i quali continuano ad orare nel giardino. Nojosità spiacevoli! Tornano gli amanti a lasciarsi vedere e ascoltare. Benedicono il giorno che si videro. Elvira dice, ne’ fati è scritto il nostro amor; e Adallano,

     A eterni
Caratteri di stelle
Segnata fu l’union nostra.

Che roba! dirò valendomi della gentile esclamazione del medesimo Calsabigi in disprezzo del Metastasio. Lasciam da parte che ciò dee parer prosa a chi la riconosce a simili segni nel poeta Romano; lasciam pure che lo stil tragico schiva simili leziosaggini: come però al cader del secolo decimottavo menar buona al poeta Livornese quell’unione segnata a caratteri di stelle, contrabbando {p. 318}da secentista? Non anderemmo mai avanti a voler cercare gravità tragica in queste prime scene, tutto essendovi imbrattato da maniere liriche da pastorale. Questi amoreggiamenti sono interrotti da un all’armi, di cui poi non si dà più ragione veruna. Non per tanto gli amanti seguitano a far proteste scambievoli di fedeltà, e ad invocare i genj benefici del cielo in compagnia de’ confidenti; di maniera che queste prime scene potrebbero appellarsi preghiere notturne, e matutine.

Partito Adallano viene nella scena 4 Ricimero, e vuol sapere perchè sia colà notturna e ascosa, e se altri sia con lei. Elvira dispettosamente dice partendo,

    Non mi seguir . . . Festeggia
Nelle ricerche tue, sogna, vaneggia;

quel festeggia nelle ricerche sembra un poco strano, quel sogna, vaneggia, è un poco forte, ma può passarsi a una guerriera, che lui non ama; certo è però che nulla di ciò è tragico e grave. Ricimero resta lagnandosi dell’odio di lei con Almonte terzo confidente del dramma, e parte seco, e nium altro rimane in iscena. Ma aggiorna e segue mutazione di scena, e l’istesso Ricimero che parlava nel giardino, {p. 319}si trova in discorso inoltrato con Odorico ne’ suoi appartamenti. Se non vogliano contarsi tra’ personaggi anche i falegnami che eseguiscono la mutazione, bisognerà dire che quì la scena rimanga impropriamente vota, ovvero che Ricimero nel tempo stesso si trovi nel giardino, e nella stanza di Odorico, rinnovando il miracolo della presenza fisica in due luoghi di Apollonio Tianeo1. Essi parlano di ciò che è accaduto a Ricimero nel giardino. Un suono d’armi, egli dice, di guerra un grido mi trassero nel boschetto. Odorico l’esorta ad allettar Elvira in vece di disgustarla; e questo dilicato amante, o che tale vuol mostrarsi, {p. 320}risponde a guisa di creditore che ripeta il suo, ma quanto ho da soffrir? Viene Almonte a presentare a Odorico un foglio sospetto, che dice di aver trovato in terra. E’ un foglio amoroso di carattere di Elvira. Odorico la fa chiamare, e le rinfaccia il foglio come da lei scritto. Elvira innocente nega di esser suo colla franchezza della verità che basterebbe a dissipare ogni dubbio nel padre, purchè egli non avesse sinistro concetto della propria figlia e non la credesse raffinata nella furberia. Ma in iscena suol valere un altro modo di ragionare, e corre il costume di tenersi per reo il personaggio fraudolentemente incolpato, e di non sospettarsi de’ veri furbi, mal grado degl’indizj che veggonsi contro di essi da ogni banda. Senza di simile abuso o licenza poetica quanti drammi caderebbero come mal tessuti? Ed ecco che con tal diploma Odorico rimprovera la figlia qual rea convinta di alto tradimento (ed è poco un bigliettino tenero creduto di lei?), e si affanna benchè invano di richiamarla al rimorso, al pentimento, al ribrezzo ed al rossor, conchiudendo,

Tu non hai del tuo delitte
Nè vergogna, nè pudor,
{p. 321}

dove bastava dire, non hai vergogna del tuo delitto, per evitare lo sconcio di dire non hai pudor del delitto; si dice pudor di virtù, di virginità ec., e rossore, onta della colpa. A quest’aria sì bene espressa e fondata si appicca una coda di rimproveri, onde ardiscono insultarla ancora Ricimero ed Almonte. Terzetto, in cui crucciata Elvira ingiuria que’ due malvagi a buon dato, e poi con impeto li discaccia inseguendoli; e ciò vorrà dire, che se essi non son presti a farsi indietro, ella tragicamente gli discaccerà a urtoni, a spinte, a calci ad un bisogno, nè ciò sarebbe senza esempio di autori tragici, avendo anche la Cleopatra di Jodelle preso pe’ capegli un suo vassallo seguitandolo a calci per la scena. Buon per essi che Odorico senza perchè torna in tempo, ed Elvira si ritira con modestia. Tutto ciò che canta Odorico ed Elvira si vuol leggere nel dramma per ammirarsene l’eleganza, la forza e la precisione Calsabigiana. Partito il padre ella dice piangendo, vedete . . . mirate (che debbono essere due azioni distinte) godete . . . esultate, non vi turbate? non vi avvilite? e torna come prima a discacciarli con impeto, e minacciante, benchè senz’armi, se pur non pensi ad imitar {p. 322}Cleopatra. Rimasta padrona della campagna si trattiene a cantar quattro versicoli, per dar tempo ad Almonte di fuggire, di passare alla sala delle udienze, di veder Adallano che viene a parlar solennemente a Odorico, e di recargliene l’avviso.

Adallano nella scena 10 viene a proporre l’unione degli Spagnuoli e de’ Mori in Granata, e per se le nozze di Elvira. Odorico risponde di aver di lei già disposto. Adallano chiede che Elvira disponga di se stessa. Sfida Ricimero, e canta un’ aria imitata da un’ altra del Metastasio. Scitalce dice nella Semiramide,

“Se in campo armato
 “Vuoi cimentarmi,
 “Vieni, che il fato
 “Fra l’ire e l’armi
 “La gran contesa
 “Deciderà.”

Adallano nell’Elvira dice,

Se generoso
Vuoi contrastarmi
D’Elvira il core,
Meno orgoglioso
Fra l’ire e l’armi
Il mio valore
Ti renderà.
{p. 323}

Comendiamo l’imitazione del Calsabigi; questa è la maniera di formarsi lo stile, seguir le vestigia de’ grandi, ma adorarle nel tempo stesso nel calcarle, in vece di mordere il piede che le stampa. Calsabigi però nella seconda parte dell’aria perde la sua scorta, e cade in una specie di freddura:

E se la sorte
Nella contesa
Questa vittoria
M’involerà,
Dell’alta impresa
Almen la gloria
M’illustrerà.

Adallano in tutt’altro Moro orgoglioso e fiero qui diviene assai modesto, decantando come alta impresa quella di porsi a fronte di Ricimero, il quale non gode veruna rinomanza onde la sola gloria di attaccarlo abbia ad illustrare il vinto. Nel resto ciarla e ripetizioni.

Atto II. Odorico volendo leggere nel cuor di Elvira con maniere di padre le dice che vorrebbe che ella prendesse marito senza obbligarla a scerre o Ricimero o Adallano, che pur la domanda:

. . . . Or con te stessa
{p. 324}
T’avvisa . . . ti consiglia . . .
Fra lor decidi . . . a qual tu vuoi, t’appliglia.

Elvira si maraviglia di ciò che ascolta, entra in qualche dubbio, e pur dovrebbe fidarsene, e si tien ferma in celare il suo cuore. Odorico dunque prende il carattere di falso e di finto nel largo partito che le propone. Quando poi egli dice,

    Così comprendo
Che a Ricimero ti stringe
Consuetudine, affetto,

più grossolanamente s’infinge, sapendo quanto ella l’abborrisca. Alle nuove inchieste ella in fin cade e mostra inclinarsi ad Adallano, e allora il padre vestendosi di austerità dice impallidendo e infiammandosi di rossore

Scegli Adallan! . . . Lo preferisci!
Tu! figlia d’Odorico?

L’ingenua Elvira con tutta ragione stupisce dell’astuzia comica del padre, e apertamente ricusa Ricimero; e alle minacce di Odorico, se non con gravità da coturno, almeno non a torto, gli dice,

Padre, un bel core hai per Elvira in seno!

Qui segue un duetto del padre e della figlia. {p. 325}Havvi poi subito una cavatina di Elvira1. Viene Selinda, con cui Elvira si lagna del passato senza che si faccia un picciol passo per l’azione. Ciarla dunque, e scena inutile.

Nella quarta scena viene Adallano a proporle di fuggir seco. Ripiego eroico! Elvira ricusa. Segue un duettino di espressioni generali che lor convengono, ma che non hanno se non remoto attaccamento col soggetto della scena. Veggasi poi quanto naturali sieno gli avvolgimenti di concetti che si capiscono solo all’ultimo verso; veggasi se verisimilmente due persone s’incontrino a dire ed a sospendere i loro sentimenti nella guisa esposta in tal duettino:

Elv.

No, mai non frangerà
Sdegno, non crudeltà,
Non odio, non furor . . .
{p. 326}

ma ella non può conchiudere, perchè convien che attenda il parlar di Adallano pronto ad interromperla con poca civiltà,

Adal.

No, mai non spezzerà
Celeste altra beltà,
D’un trono lo splendor . . .

qui conchiudono a due,

Le mie di un puro amor
Care ritorte.

Questi nienti di pura galanteria riempiono tutta la tragedia del Calsabigi.

Odorico nella 5 scena dalle sue logge si accinge all’armi. Commette la custodia delle mura a Ricimero; ma prima, senza nuovo motivo che affretti la sua deliberazione, vuol che si congiunga con Elvira, di cui non ignora le ripugnanze. Ad ogni modo egli in quelle circostanze perde il tempo ad incaricare a Ricimero (e che importa che gli abbia prescritta la custodia delle mura?) di recarne il suo comando ad Elvira. Quest’Odorico non mostra molta saviezza nelle sue disposizioni; e queste nozze così a buon tempo assrettate hanno l’aria, anzi la maschera (e nulla più di maschera) di quelle di Marzia con Arbace nel Catone. Ma qual distanza infinita trall’importanza {p. 327}del motivo che spinge Catone a richiederle, ed il puro capriccio che muove Odorico! Ricimero mostrasi assai contento della deliberazione di lui, e se ne dichiara con Elvira, che lo discaccia co’ soliti rimproveri. Sembra talvolta che l’azione in questo dramma retroceda in vece di gire innanzi, o che avanzi a passi di testudine1.

Scena 7 Sera. Odorico fralle ruine di un antico Circo. Era egli andato nella scena quinta ad animar le sue squadre, degna cura d’un generale; or come di sera in quel luogo co’ suoi domestici? A che vi è ito egli? Più; {p. 328}quando lo spettatore aspetta notizie dello stato delle armi, gli sente dire alla bella prima,

Ed ancora ostinata al mio volere
Non si arrende la figlia?

E nol prevedeva? Vengono Almonte e Ricimero ad annunziare che non si trova Elvira, aggiugnendo giusta le solite loro note critiche, che forse è fuggita con Adallano. Correte . . . andate . . . venite . . . di quà di là, grida Odorico. Non so però se lo spettatore avvezzo alle furbesche trame comiche di que’ due vili personaggi, presti loro, o non presti fede, e se possa commuoversi col padre. Si sente altro suono di guerra dal bosco; e nè pur di questo farà caso chi ascolta, perchè non mai simili all’armi hanno indicata cosa alcuna importante.

Prima di passar oltre si osservi che nella scena 4 facendo Adallano premura perchè fuggisse seco, ella ricusò di assentire, e solo profferì che Elvira sarebbe di Adallano, se il padre si facesse tiranno, Tal caso di tirannia, a dritto dire, non è seguito, perchè Odorico altro a Ricimero non disse nella quinta scena, se non che la voleva sposa di lui, e che gliene recasse il comando. Ricimero nella scena sesta {p. 329}ciò disse ad Elvira, aggiugnendo di suo che il padre minacciava, ed egli come compiangendola soggiunse,

A qual crudel sorte
Ti espone l’orrore
Che mostri per me!

Questa prevenzione fattale in generale è minor cosa delle minacce e de’ rimproveri uditi altra volta dal padre stesso. Ma sia pur ciò una vera tirannia, udendolo da un traditore a lei noto, dovea indurla a dubitarne. Ora di qual positiva tirannia può ella lagnarsi e addurla come certa in sua giustificazione? Una figlia d’alti natali, zelante del proprio decoro, sino a quel punto innocente o non d’altro colpevole che di una inclinazione tenera così comune alle donzelle, si determina per nulla ad una criminosa fuga? All’altra. L’ultimo verso profferito da Elvira, peggior non v’è, precede la scena 7, in cui Odorico oziosamente si va dondolando fra macchie e cespugli di negletto bosco, e recita dieci soli versi interrotti dall’avviso della fuga di Elvira. Questi dieci versi han dato a lei tempo per vestirsi di tutte armi, per ingannare la vigilanza de’ soldati, per fuggire ad Adallano, e per istruirlo dell’occorso. {p. 330}Non so se per tali operazioni basti il tempo che s’impiega in profferir quaranta parole.

Dopo il suono di guerra dal bosco viene un Guerriero sconosciuto tutto coperto, il quale dice ad Almonte e a Ricimero, fermate. Chi sei? gli è domandato. Io non venni, risponde, a dire il mio nome, son cavalier vi basti:

Voi malvagi accusasti
Ed offendesti Elvira.

E’ questa veramente una discordanza; voi due malvagi plurale non accorda con accusasti e offendesti singolare. E’ vero che è un idiotismo fiorentino il dire a una persona sola voi dovevi, voi leggesti, voi offendesti: ma i Fiorentini u ano tale idiotismo ancor quando si parla di più persone? Chi sa; l’autore era toscano; fidiamci di lui. Usano poi quel basso lor modo volgare in bella prosa? L’userebbero in una elegante e grave tragedia? E questo era il disprezzatore di Metastasio, cui tanto applaudiva il Vannetti e il Bettinelli.

Il cavaliere sconosciuto sfida que’ due, i quali bravamente si ritirano alla parte opposta. Giugne Odorico sempre pronto in lor difesa con soldati; ed allora il vil Ricimero vedendosi sicuro {p. 331}minaccia e trasoneggia sul gusto di capitano Spavento e Fracasso della commedia istrionica moderna. Per punto cavalleresco egli dice di non accettar la disfida d’un ignoto. Conoscimi dunque, dice il cavaliero, sono Adallano. . . . Che ne risulta? Un quartetto: scioglimento tragico ed eroico in sì pericolosa contesa! Rimproveri scambievoli, sopercheria degli Spagnuoli, arrivo de’ Mori alla chiamata di Adallano, il quale da poco esperto generale si fa circondare. Ricimero vuol ferirlo; ma eccoti un altro Guerriero sconosciuto, che ne ribatte il colpo, e gli fa cader la spada, e gli si avventa. E’ la stessa Elvira. Odorico la trattiene e la riconosce. Rimproveri di lui, difcolpe di Elvira, che si dichiara moglie di Adallano. Torna dunque a lui, dice il padre in una cavatina in tre, e la discaccia. Viene Almonte nella scena 12 con fretta, e dice che morì Adallano. Ma Almonte è un noto impostore; sarà vera la notizia? ciò non si esamina punto. Smanie e semisvenimenti di Elvira. Quartetto, in cui per riempitivo entrano Ricimero ed Almonte, i quali dicono,

Quale di nere tenebre
Sole offuscato e torbido
Si va inoltrando in ciel!
{p. 332}

pronostico puro di campagna, perchè essendo sera nel nostro emisfero, non si vede in Granata il sole nè offuscato nè chiaro; la rassomiglianza dunque e l’espressione mal si adatta. E’ poi una vera povertà quel non saper mai altrimenti spiegarsi lo scompiglio de’ personaggi in ogni incontro, se non con tempesta oscura, con manto nero del giorno, col cielo annerito per essere il sole apparso di notte offuscato. Del resto essendo questa una delle consuete imposture di Almonte e Ricimero, come si vedrà, il lor terrore è una pura ipocrisia. Odorico dice nel quartetto,

Le bianche chiome avvolgere
Mi sento in fronte,

maniera che non bene esprime il diriguere comae di Virgilio. L’orrore secondo l’uso de’ buoni Toscani fa arricciare o rizzare i capegli; ma l’avvolgere, parlandosi di capegli, meglio si riserba ad esprimersi una studiata coltura di essi,

Che in mille dolci nodi gli avvolgea.

E quando pur tal voce potesse indicare l’arricciarsi de’ capegli per l’orrore, sempre è miglior vocabolo l’arricciarsi specialmente in poesia perchè particolareggia i là dove l’avvolgere, {p. 333}azione più indeterminata, rende vaga e generale l’idea.

Atto III. Neri veli intorno ad Elvira, neri panni intorno al letto, altri neri panni svolazzanti che pendono a festoni dalla volta, lampada unica che dà debol lume, lugubre sinfonia. Tutto questo apparato si è fatto nell’intervallo degli atti, e va ottimamente. Ma si è usata la più necessaria diligenza per un amante, cioè assicurarsi della funesta notizia annunziata da un manifesto impostore? No; altrimenti si sarebbe trovato vivo Adallano, e perduta la spesa di un apparato funereo. Passiamo oltre. Elvira co’ capegli sciolti distesa sul letto piangente

Sustinet in vidua tristia signa domo.

Parla ad uno spettro sanguinoso, scena nuova, ma passi ancora. Ella dice,

Spettro che pallido
E sanguinoso,
Prendi l’effigie
Del morto sposo,
Parlami . . . accennami,
Che vuoi da me?
La tua di lagrime
Bagnata Elvira
{p. 334}
Di sangue a tingersi
Anch’essa aspira,
Per esser simile
Morendo a te.

Se ad altro ella non aspira che ad imbrattarsi di sangue, non è la cosa più polita, ma in fine non è la più funesta del mondo. Ella vuol dire che si accinge a versare il proprio sangue, e a seguir lo sposo; ma per ciò la nostra lingua fornisce modi più veri, più individuali, per meglio e non equivocamente particolareggiare le immagini giusta l’uffizio della vera poesia. Ma perchè poi aspira a tingersi di sangue? affinchè morendo rassomigli lo spettro; capriccio curioso! Questa illusione della sua fantasia è ben lunga, occupando tutta la scena; e non finirebbe mai, se non passasse ad un pensiero eterogeneo che la fa discendere dall’immaginazione alla realità del basso mondo. Ella dice: Tu non ci sei (nel mondo), e va bene ciò; ma che luogo può avere in tali suoi pensieri quel che si legge ne’ seguenti sette versi?

  Io non somiglio a tanti
Vili, perfidi, altieri
Mortali abominevoli. Non sono
Fra quell’iniqui, che una dolce calma
{p. 335}
Godono fra’ delitti; ed han saputo
Formarsi un volto, un core,
Che non sente pietà, non ha rossore;

Queste idee potevano con verisimiglianza sopravvenire ad Elvira tutta occupata di uno spettro che rappresenta l’ucciso marito? Hanno esse nulla che si affà colla morte di Adallano, col dolore di Elvira?1.

Ricimero lasciandosi cadere a’ suoi piedi, le dà avviso che il padre ferito, ma lievemente, da uno strale tutto a lei perdona, tutto obblia, e la vuol con se negli estremi suoi giorni. Incresce ad Elvira che di ciò sia egli il messaggero. Ricimero affettando un dolore da disperato vuol morire per le mani di lei. Morire (risponde bene Elvira) non sai tu stesso? {p. 336}Selinda viene ad esortarla a prendere altri consigli. Giugne Odorico sostenuto da due domestici con un braccio involto di fascia. Sembra che il poeta sia in dubbio del suo disegno. Da una parte vorrebbe dalla ferita di Odorico trarre partito e commuovere Elvira per determinarla a sopravvivere a suo riguardo alla perdita di Adallano; quindi fa che comparisca ferito sostenuto da due, tutto intento a intenerirla:

  I miei raccogli
Moribondi respiri . . .
  Io morirò fra poco.

Dall’altra parte dà egli tal ferita quasi come un semplice falasso. Comunque sia, benchè colle parole la chiami lieve ferita, e col fatto la dimostri grave, non reggendosi il ferito senza il sostegno di due persone: Elvira se ne intenerisce, e gettandoglisi a’ piedi, per tutti, gli dice, Elvira è morta, vivrà per te ec. In questa scena dice Odorico che in rammentare il caro nome di Elvira il suo sangue si ribrezza. Due cose: I ribrezzare o ribrezzarsi non si trova in veruno autore toscano di nobili e dilicate prose o di versi, come si trova ribrezzo e aver ribrezzo; se si dica volgarmente oggidi, {p. 337}sel saprà qualche patrocinatore delle poesie del Calsabigi, e vedrà se possa ammettersi in componimento grave. Il Odorico s’intenerisce oltre modo colla figlia; ora un ribrezzo o riprezzo del sangue crederei che possa indicare piuttosto orrore che tenerezza. O dunque il ribrezzarsi del Calsabigi è voce inusitata e di nuovo conio, o male usata. La parlata di Elvira conchiude:

Ah qual contrasto avrò
Di vivere e morir
Misera! da soffrir
Vegliante in sen.

La lontananza dell’avrò divisa dal da soffrir per cosa musicale, mostra lo stento del poeta, e cagiona equivoco e sospensione, non potendosene raccapezzare il senso, se non si conchiude. Il sentimento poi è tutto spiegato ne’ tre primi versi, e quell’infelice vegliante in sen ci stà, come suol dirsi, a pigione; benchè comprendo che l’autore avrebbe voluto aggiugnero che quel contrasto sarà per affliggerla continuamente1.

{p. 338}

Odesi risonar nuovo tumultuoso e strano clamore, ed eccoti Adallano bello e sano e vivo che seco conduce Almonte incatenato. Tutti stupiscono. Egli rassicura la sposa, e mostra a Odorico Almonte reo di quel foglio fatale e dell’avere ad arte forse annunziata la di lui morte. Aggiugne ancora che Ricimero è morto, e che forse anche Almonte lo svenò per {p. 339}occultare le sue frodi; accusa senza verisimiglianza, perchè Almonte tutto ha fatto per servir Ricimero, e l’ammazzarlo sarebbe stato un delitto inutile anzi a se nocevole. Adallano è bene ascoltato da Odorico nell’implorare il suo consenso perchè Elvira gli diventi moglie. Ed il buon vecchio mentendo un poco {p. 340}gli dice, che del primo suo rifiuto fu causa un cieco errore, e ne chiede scusa, e dice ad Elvira che sia Adallano suo consorte, e di lui figlio, illustre figlio, e degno di me, di te, degli avi miei. Ma in verità Adallano a ciò sorridendo un tal poco poteva dire, che Odorico a lui stesso (sc. 10 del I) avea negato il suo assenso con asprezza, indignazione e disprezzo. Ed Elvira altresì al sentir ora chiamar da suo padre Adallano figlio e degno di lui e degli avi, poteva facendo ecco al sogghigno del marito, dir sottovoce al padre che si ricordasse d’averlo chiamato barbaro, e che per tale scelta a lei disse (sc. 2 del II)

Degli avi obbliasti
L’onore geloso.

Sarà ciò dipigner gli uomini quali sono ineguali, incoerenti ne’ principj, e che ravvisano una stessa cosa in aspetti differenti secondo chè gli aggira

L’odio, l’amor, la cupidigia e l’ira;

ma non quali, per salvarne il decoro e l’uguaglianza, si prescrive che fingansi in teatro. Il dramma termina con questi armonici concenti a tre voci,

{p. 341}
Più chiaro il sole già ci apparì,
Più puro il sole gia ci apparì,
Più bello il sole già ci apparì.

e quel bel già ci, già ci, già ci in coro colle repliche musicali avrà partorito un grazioso effetto.

A quanto ne abbiam divisato e al più che per fuggir noja omettiamo, si scorge che all’Elfrida cede di gran lunga l’Elvira, la quale difficilmente si conterà mai tralle favole musicali mediocri. Il piano è assai mal congegnato; l’economia ad ogni passo difettosa; i caratteri di Ricimero ed Almonte neri, vili, inetti e comici; quello di Odorico ineguale, un poco finto fin anco nel volersi mostrar tenero; Elvira e Adallano innamorati da commedia o al più da pastorale, presi di un affetto che nulla ha di convenevole per una tragedia, non animati da veruno eroismo che gli elevi. Ripetizioni di pensieri, di situazioni, un intrigo di affetti mediocri, espressioni liriche a sovvallo, scarsezza di precisione nello stile molle e smaccato, scioperatezza negli aggiunti, verbosità specialmente ne’ pezzi musicali, niuna moralità, non rilevandovisi nè amor di patria, nè magnanimità, nè virtù combattuta dall’affetto e vincitrice da servir di scuola {p. 342}e di consolazione al pubblico, al contrario esponendovisi un cattivo esempio di una fuga da commedia triviale consigliata, eseguita e premiata con tutto il buon successo: tutto ciò non mai farà che l’Elvira si rivegga sulle scene, mal grado della musica del sig. Paisello, la quale piacque al Calsabigi e dispiacque al pubblico per certa continuata uniformità di tinte e di tuono lugubre, che dall’andamento di tutto il dramma si trafuse nelle note di quel valoroso maestro. Ciò che maggiormente sottomette l’autore all’occhiuta critica per la mediocrità de’ fatti e delle passioni nulla eroiche e nulla tragiche, e per la leziosaggine de’ sentimenti, si è la smania di chiamar tragedie le sue opere, portando seco questo rigido titolo troppi e troppo severi doveri, i quali non si affanno co’ drammi istorici del Calsabigi disprezzatore inesorabile del Metastasio e perciò magistralmente applaudito dal fu cavalier Vannetti, che è da credere di non aver conosciuto veruno dei drammi mitologici e istorici di lui. Bisogna dire che dopo del Zeno e del Metastasio onore delle scene armoniche dell’Italia i cui luminosi difetti non che le sovrane virtù, nel corso presso che di un secolo si hanno attirata {p. 343}l’attenzione e la maraviglia dell’Europa; dopo, dico, di questi due grand’ingegni dovrà per lungo tempo stentarsi a veder sorgere un autore ingegnoso, pieno di gusto e di giudizio1 ch’è si raro, il quale riesca nell’opera istorica.

Passiamo a dir qualche cosa della danza è della musica. E’ la danza ec.

ADDIZIONE ultima*
Confronto di alcuni tragici Italiani e Francesi. §

Se il Varano, il Conti, il Marchese, il Martelli, il Granelli non vanno del pari coi Crebillon {p. 344}e i Voltaire, essi si appressano di molto ai La Fosse, ai Piron, e talora lasciangli indietro, e l’Alfieri singolarmente che coltivò la tragedia con maggiore intensità di studio e di predilezione, qualche volta non teme il paragone dello stesso Voltaire. Ognuno di essi poi col Monti, col Pindemonte, col Pepoli in alcuna delle ultime sue tragedie, sovrasta di gran lunga ai Belloy, ai Dorat, ai Colardeau, ai Le Miere, ai Marmontel. Se il Goldoni ec.

[Errata] §

Correggansi gli errori seguenti corsi nel tomo VI.


ERRORI

 

CORREZIONI

pag. 126, lin. 21 autrice della Zaffira

 

autrici di Zaffira

pag. 248 si tolgano le prime sino a Ponte nuovo.

 

 

tre linee da e tuttocchè

pag. 249, lin. 11 della nota morto lo scorso anno

 

morto nel 1789

pag. 294, lin. 9 fondata da Withefield forse ancora vivente.

 

fondata da Withefield.

 

{p. 349}

ERRORI CORSI NELLA STAMPA §

A lode dell’Editore bisogna dire esser pochissimi gli errori corsi in tal volume e tali che il leggitore cortese ne vede subito la correzione. Così senza indicarne la pagina accenniamo le seguenti parole cambiate: Attici per attrici, al regina per tal regina, vicino alla per vicina alla, adpena per appena, Rosenoranta per Rosentrantz, precritte per prescritte, Radoguna per Rodoguna, ottonni per ottenni, erbele per Erbele, Corradioo per Corradino, suggerimenti per suggerimento, Sofonisda per Sofonisba troavrsi per trovarsi.

Contiamo tra gli errori l’essersi omessa la seguente nota (1) nella pagina 275, lin. 15, dopo le parole, e colla sua dote:

(1) Questa favola del Federici è copiata dalla novella del sig. Marmontel La femme comme il y en a peu:. Duranson è Don Geronimo della commedia, Mèlidor è il marito ingannato e guasto dall’usurajo trasformato in amico, ed Acelie è la savia consorte; e le convenzioni maneggiate con accorgimento, e la donna di piacere persuasa prudentemente la quale dà le armi per iscoprire vie più il nero carattere di Don Geronimo; e lo scioglimento, e la carica tolta al traviato e passata dal provvido Ministro ad un di lui tenero figliuolo, tutto appartiene al Francese, di cui per altro non si sono trasfuse nella commedia le grazie e le morali vedute. Non è nuovo che si rechino acconciamente sul teatro i bei racconti di altri; ma s’incorre nella taccia di un plagio nel dissimularlo. Anche la Fanatica per ambizione del medesimo autore, di cui si parla nella pagina 277, prende l’argomento e lo scioglimento di un finto fallimento di altra novella del medesimo Francese, l’Ecole des Peres; l’innamorato però che finge disprezzarla e riprenderne i difetti, mostrando un’apparente estrema freddezza, è tolto dal Desden con el Desden di Agostin Moreto.

{p. 350}

[Privilegio] §

Die 18. Aprilis 1798. Neap. &c.

Viso Regali Rescripto S. R. M. sub die 12. currentis mensis & anni, ac Relatione Reverentiss. D. Cajetani Carcani de commissione Reverendi Regii Cappellani Majoris, ordine præfatæ Realis Majestatis,

Regalis Camera S. Claræ providet, decernit, atque mandat, quod imprimatur cum inserta forma præsentis supplicis libelli, ac approbationis dicti Revisoris. Verum non publicetur, nisi per ipsum Revisorem, facta iterum Revisione affirmetur quod concordat servata forma Regalium ordinum, ac etiam in publicatione servetur Regia Pragmatica. Hoc suum &c.

 

TARGIANI

              PECCHENEDA

V. F. R. C.

 

Izzo Cancelliere

 

Reg. fol. 29.

 

                                                        Linguiti

 

Illustris Marchio MAZZOCCHI P.S.C., & ceteri Aularum Præfecti tempore sub. impediti.