Pietro Napoli Signorelli

1813

Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome I

2019
Pietro Napoli Signorelli, Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi, tomo I, [3e éd.], Napoli, presso Vincenzo Orsino, 1813, 252 p. PDF : Google.
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[n.p.]

[Epigrafe] §

                      Ardito spira
Chi può senza rossore
Rammentar come visse allor che muore.
Metastasio nel Temistocle.
[n.p.]

[Dedica] §

ULTIME CURE
ultimi tratti della penna
di
PIETRO NAPOLI SIGNORELLI
su i fasti teatrali
gia’ da lui descritti
oggi
in dieci volumi raccolti
e consacrati
alla patria
sempre a se cara
che la vita gli diede
che dopo i suoi viaggi
e le vicende
fremendone
la malvagita’ invano
l’accolse benigna
e che ne accogliera’
con materno sguardo
l’ultimo vale
mdcccxiii
.

[v]

LETTERA dell’autore all’editore. §

Ciò che accennai son già molti anni al l’editor Veneto di questa mia opera che imprese a reimprimere, ripeto ora in parte a voi che ne intraprendete l’ultima mia edizione.

Le storie ragionate che per mano della filosofia si conducono per le varie specie poetiche, e singolarmente teatrali, non sono dettate per appagar soltanto una sterile curiosità: ma racchiudono in se mai sempre una Poetica a ciascuna corrispondente, ed una Scelta de’ più cospicui esempli de’ progressi e delle cadute che vi si fecero in diverse epoche; la qual cosa per lo suo peggio veder non seppe nella mia Storia teatrale certo picciolo autore di un tumultuario Discorso accompagnato ad un Pausania meschina tragedia obbliata ed estinta nel nascere. E siccome tali esempli di errori e di bellezze vanno alla giornata {p. VI}moltiplicandosi, fa mestieri tenere istruita tratto tratto la gioventù de’ continui passi che con felicità o traviamento si danno nelle arti.

Da prima io avea condotta quest’opera sino al 1789 nella prima edizione napoletana in sei volumi in 8; e dopo alcuni anni ne pubblicai nel 1798 un altro di Addizioni. Le mie vicende che poscia mi balzarono in Francia donde dopo la dimora di un anno discesi in Italia di bel nuovo, hanno prodotto nuove osservazioni da me fatte su nuovi materiali raccolti. Per queste mie terze cure l’edizion vostra porterà seco non poche novità nella storia tanto perchè vi s’inserisce quello che nel 1798 (che non passò oltre delle Sicilie per le luttuose vicende di Napoli) quanto per le molte altre cose notate ne’ primi cinque anni del secolo XIX sul Rodano, sulla Senna e nel l’Alta Italia.

Tante cure (si ripeterà dalla malignità) sulla trita materia teatrale? Certamente parrà questa frivola {p. VII}oziosa occupazione a chi si crede nato a grandi imprese nelle scienze e nelle belle arti. Ma che si vuol fare? Non tutti esser ponno sì alti da toccare, com’essi fanno, le sublimi volte del tempio dell’Immortalità; ed havvi, com’io, chi si contenta appena di contemplarne le vicinanze, non osando neppure dì appressarsi alla soglia.

Nelle storie teatrali (dicono altri che reputansi stragrandì) si favella di quando in quando di comedi e di tragedi antichi e moderni, e vi si leggono i nomi di Satiro, di Polo, di Roscio, di Esopo, di Baron, di Garrick, della Andreini, del Pinotti, del Zanarini. Pur troppo è vero, oggetti son questi ben piccioli per la sublimità dì tali censori. V’ha però chi sostiene loro in sul viso esser meglio calcar le tracce di Aristotile e dì Quintiliano, e mentovar dove bene stia que’ sagaci e graziosi attori, i quali seppero sulle scene delle più colte nazioni ritrarre al vivo i ridicoli del loro tempo, che rappresentar nella società {p. VIII}gli originali di que’ medesimi oggetti rìdevoli mascherati da uomini d’alto affare e da filosofi e metafisici senza logica, e da poeti che non intendono nè rima nè ragione, e da pedanti pieni di stomachevole orgoglio e voti di ogni valore.

I veri filosofi, i veri letterati ben sanno la prestanza e l’utilità di un genere di poesia, onde si attende la pubblica educazione, siccome credo di aver dìmostrato nel discorso seguente premesso a questa mia storia. Sanno ben essi di non doversi il Buon Teatro considerar come semplice passatempo, ma sì bene come saggio espediente sugerito dalla filosofia per diffondere, per la via del diletto, la coltura e la virtù e la morale nella società, e per secondar le vedute de’ legislatori; di che mi occupai ne’ miei Elementi di Poesia Drammatica impressi in Milano. Sanno altresì che l’adunarsi in un luogo pubblico, qual è un Teatro, giova potentemente ad obbligar gli spettatori che vi concorrono ad osservarsi {p. IX}reciprocamente, ed a comporsi a certa esteriore politezza di maniere, che i solitarii difficilmente sogliono acquistare. Sanno in oltre che la poesia rappresentativa suppone talento grande, cuor sensibile, e studio moltiplice, requisiti indispensabili al poeta teatrale che agogna al l’importante gloria di pubblico educatore. E sanno finalmente che i migliori delle nazioni antiche e moderne in ogni tempo fecersi un pregio, e forse un dovere di contribuire co’ loro lumi al miglioramento del teatro, e se ne occuparono con proprio piacere e con altrui vantaggio.

Di fatti in Grecia gli uomini più illustri o composero essi stessi pel teatro, o ne promossero lo studio, o servirono di scorta a’ poeti. Platone aspirò alla vittoria Olimpica componendo una tetralogia. Temistocle contribuì a far eseguire con ogni splendidezza gli scenici spettacoli. Eschine competitore in eloquenza di Demostene, Archita capitano, Neottolemo favorito del macedone re Filippo, e {p. X}Aristodemo ambasciadore in Macedonia, furono nel numero de’ rappresentatori. Il sobrio storico e filosofo Plutarco ha conservate alla posterità varie notizie teatrali, ed ha profusi larghi encomj in onore del gran comico Menandro. Roma stessa vantò un Lelio e uno Scipione Affricano come coadjutori di Terenzio, un Cornelio Silla dittatore, il gran Germanico, e Cajo Claudio imperadore scrittori di commedie; Giulio Cesare, Cesare Augusto, Tito Vespasiano, e Mecenate e Vario e Ovidio e Lucano e Stazio e Seneca che coltivarono la tragedia, e Orezio Flacco che si fe ammirare non meno come grande emulo di Pindaro, che come critico incomparabile di teatral poesia.

Nella decadenza poi del Romano Impero i Padri stessi della Chiesa non isdegnarono svolgere gli scritti degli antìchi drammatici ed imitarli. San Gio: Crisostomo con compiacenza leggeva le commedie di Aristofane; {p. XI}San Girolamo quelle di Plauto; il Sinesio ne compose alcune sulle orme di Cratino e di Filemone; Apollinare imitò Euripide e Menandro.

Al risorgimento delle lettere, rinascendo il credito della teatral poesia, la coltivarono uomini gravissimi e decorati. E per rammemorarne alcuni pochi, nelle Spagne vi si dedicarono il cattolico re Filippo IV, e teologi e sacerdoti e magistrati ed uomini di stato, Solis, Calderon, Moreto, Montiano, Cadalso, Gusman duca di Medina Sidonia; nella Germania Klopstock, Federigo II il Grande re di Prussia, e tanti e tanti reputati letterati; in Inghilterra il duca di Bukingam, Adisson segretario di stato, il cavaliere Van-Broug, il capitano Stèele, Sheridan; in Francia Margherita di Navarra compose per la scena, Francesco I ne ispirò il gusto sulle tracce segnate dagl’Italiani; il cardinal Richelieu avrebbe voluto passare per autore del Cid, e promosse la coltura scenica a {p. XII}segno che ne germogliarono i Cornelii e i Racini; il gran cartesiano Fontenelle ne scrisse la storia, e compose alcuni melodrammi; Boileau Desprèaux ne insegnò i precetti seguendo Orazio; il Ginevrino filosofo Gian-Giacomo Rousseau volle pur dare il nome tra’ melodrammatici. L’Italia conta i cardinali Bibiena, Delfino, Pallavicini tra gli scrittori drammatici, e San Carlo Borromeo che di propria mano correggeva le rappresentazioni de’ commedianti; il nobile Bentivoglio, i tre grandi epici Trissino, Ariosto, Torquato Tasso, il bravo istorico e politico sommo Machiavelli, e Salviati e Secchi ed il patrizio veneto Antonio Conti, e il duca Annibale Marchese, e Scipione Maffei, e Bernardino Rota, ed Angelo di Costanzo, e il duca Gaetani di Sermoneta, e cento altri personaggi chiari per nascita e letteratura e per gradi, intenti a promuovere co’ loro lavori gli avanzamenti della teatral poesia.

{p. XIII}E qual filosofo e scrittore di chiara fama non si pregia di corroborare i suoi concetti colla morale e colla politica sparsa negli scritti de’ poeti drammatici? Quale illustre accademia di amena letteratura non ha occupati i proprii valorosi individui ad illustrare e l’erudizione e la ragion poetica che concerne il teatro, ad insinuarne il vero gusto, ad arricchir le rispettive nazioni di tragedie, di pastorali, di commedie? Laonde o bisogna essere stato nutrito nella feccia delle surrtferite deformi maschere, o aver sortito dalla natura madrigna la comprensione di un semplice Tinitiva dell’Orenoco, per non capire l’istruzione, i politici vantaggi e l’innocente piacere di un genere poetico cosi difficile, così nobile, e con tanto ardore e buon successo maneggiato da filosofi grandi, da prelati, da cardinali, da più egregi repubblicani Greci e Latini e di ogni nazione e di ogni tempo.

Occupiamoci adunque io ad aumentare e perfezionare al possibile la mia {p. XIV}storia teatrale, voi a riprodurla di tanto accresciuta col l’accuratezza promessami, senza arrestarci per qualche stridula cicala che

        col nojoso metro
Le valli e i monti assordi e il mare e il cielo.
{p. XV}

A CHI AMA la poesia rappresentativa

Discorso premesso al l’edizione Napoletana in sei volumi. §

Chi può ricusare alle matematiche pure tutta la riconoscenza pel ritrovato del metodo delle flussioni, onde il grande Inglese e il di lui emolo di Lipsia renderono tanto intelligibile il gran libro dell’universo? Chi al l’astronomia contrastare il bel vanto delle maravigliose scoperte di Ticone, di Keplero, del Galilei, del Cassini? Chi negherà che oggi dietro la scorta di tali insigni corifei si penetri con agevolezza incredibile ne’ più riposti arcani della natura, e corransi con sufficiente sicurezza gli immensi spazj de’ cieli? Tutto però esser non debbe calcoloa e telescopio. {p. XVI}Con non meno invidiabil riuscita i grandi uomini che portarono i loro sguardi su tutta la natura, seppero anche discendere alle più minute osservazioni degli esseri che la compongono. Gli animali poco al l’apparenza importanti, i polipi marini, le vipere, le tarantole, le api, gl’insetti, le farfalle, occuparono sovento ingegni sublimi; nè men degni sono de’ più distinti encomii i Redi, i Valisnieri, i Serai, i Buffon, i Rai, i Grew, i Levenoeck, i Reaumur, i Goedart, i Templey, i Bonnet, allorchè spaziano per l’ampiezza del l’universo, che quando minutamente indagano la storia particolare di esseri picciolissimi e talora co’ microscopii stessi appena percettibili.

Se tutti esser dovessero Archimedi, Bernulli, Euleri e La Grange, rimarrebbe nel proprio abisso sepolta la {p. XVII}maggior parte delle maraviglie della natura. E che diverrebbe singolarmente delle belle arti? Raffaello, Correggio, Buonarroti, per una via totalmente aliena dal calcolo infinitesimale, divennero immortali. Omero, Virgilio, Tasso, Ariosto (e con passi ineguali ancor Milton e Camoens) senza valersi delle ali del l’analisi e senza maneggiare l’astrolabio di Urania, siedono nel tempio della gloria esposti al l’ammirazione concorde di tutti i secoli e di tutti i paesi.

L’uomo stesso, opera la più mirabile della mano del Creatore, non vuolsi considerare soltanto come una delle parti figurate e distese nello spazio, o come pianta che vegeti, o animale che senta. Dotato della ragione dono divino della, suprema sapienza, egli è dalla natura formato per la società, alla quale inevitabilmente vien tratto dal bisogno di sussistere agiatamente. Se dunque riscuotono giustamente i pubblici applausi le leggi del moto e del corso de’ pianeti, non ne meritano minori quelle che dirigono le azioni morali degli {p. XVIII}uomini divisi in tante grandi famiglie, le quali debbonsi reciprocamente molti riguardi. Scuoprono talora le scienze esatte alcune verità ingegnose che pur non recano utilità verunaa: a somiglianglianza, come altri pur disse, delle stelle chiamate nebulose, la cui esistenza è per gli ultimi telescopii inglesi ugualmente assicurata che inutile a tramandare al nostro pianeta luce maggiore. E se la geometria, più che per le utili verità che insegna, si rende commedabile per l’attitudine che somministra agl’ingegni tutti per bene e coerentemente ragionare, essa e tutte le {p. XIX}scienze esatte contribuiranno sempre colla loro giustezza a formare grandi legislatori morali e politici tanto per ciò che l’una società debbe all’altra, quanto per quello che debbonsi mutuamente gl’individui di ciascuna: ma esse non saranno mai nè più pregevoli nè più necessarie a conoscersi delle leggi che immediatamente gli uomini governano. V’ha dunque un alto seggio ancora perchi emulando i Montesquieu, i Beccaria, i Gravina e i Filangieri, saprà attendere ad illustrare e perfezionare la preziosa importantissima scienza della legislazione.

Ed in fatti se a conservar la tranquillità di ogni stato bastar potesse il gastigare o prevenire i delitti che lo sconcertano, l’armata sapienza delle leggi è quella che presta alle società l’opportuno soccorso per atterrire o distruggere i colpevoli e per minorar la somma dei delitti, a quali trascorrono gli uomini abbandonati a’ proprii appetiti e alle passioni eccessive. Ma sventuratamente sono i delitti posteriori a’ vizii, {p. XX}e questi menano graduatamente agli eccessi dopo di aver corrotto il costume. Or quale antidoto forniscono le stesse leggi contro questo lento veleno che serpeggia per le nazioni e le infetta? Esse leggi contente di recidere ad ogni bisogno i rami che lussureggiano, non cercano di correggere le radici viziate e le cagioni che le viziano ed affrettano la morte della pianta. Ma il mal costume invecchiato nè anche, al dir di Orazio, colla forca giugne a sterminarsi; ed ossserviamo che da per tutto quasi sempre i costumi col tempo sogliono diventar leggi, e ben di rado le leggi si convertono in costumi. Fa dunque mestieri di un altro ramo della sapienza che sappia correggere i costumi; e non essendo essi altro che abiti contratti per opinioni vere o false, nostre o straniere, a purificare i costumi bisogna raddrizzare le opinionia. La sapienza {p. XXI}adunque precettiva che si occupa a far la guerra agli errori naturali ed a correggere le opinioni per inspirar costumi confacenti al disegno del legislatore, non merita al pari delle altre scienze la pubblica gratitudine? E non ebbero ragione gli antichi, che a questa scienza che migliora l’intendimento e rettifica la stessa volontà, e che Socrate trasse dal cielo, diedero per eccellenza il nome dì filosofia? Dietro adunque a Socrate, a Platone, ad Aristotile, a Cicerone, a Seneca, non meritano lode e rispetto i Muratori, gli Stellini, i Genovesi e simili insigni filosofi morali?

Pure sono mai moltissimi quelli che svolgono i libri de’ filosofi morali? Tutto il popolo abbisogna di essere educato perchè possa concordemente serbar gli statuti prescritti dal pubblico bene; corre perciò tutto il popolo alle biblioteche de’ filosofi? L’educazione domestica è forse una fiaccola chiara a sufficienza e durevole per tutto il cammino della vita? Il mondo ideale che si contempla nelle proprie case e ne’ collegj, {p. XXII}è lo stesso che ci si presenta quando da questi usciamo? Qual discordanza tra l’uno e l’altro! Ciocchè nel mondo esterno si apprende (diceva l’autore dello Spirito delle leggia) sconvolge tutte le idee del mondo immaginato. Pugnano i doveri della religione e delle leggi con molte opinioni adottate dagli uomini, ed in tal contrasto, quando più ci farebbe d’uopo al fianco una Minerva sotto forma di un Mentore, ci troviamo abbandonati a noi stessi, alla nostra scelta, al nostro discorso. E quando pure gl’insegnamenti domestici potessero in ogni occorrenza soccorrerci posti nel gran mondo, quanta parte di essi si apprende nel l’età prima? quanta se ne ritiene? quanta non ne cancellano gli anni e la novità di tante forme esterne? quanta ne rimane al l’uomo per norma delle sue passioni, allorchè crescono coll’età e diventano più robuste e imperiose?

{p. XXIII}Adunque principalmente in tal tempo abbisogniamo di un saggio educatore che alla giornata ci ammonisca e ci mostri passo passo fedelmente il mondo civile e quale egli è in fatti e quale esser dovrebbe. E perchè egli potesse produrre un pieno effetto generale, dovrebbe esser publico, per insegnare a tutti, come da una scuola commune, sotto l’occhio del governo. Vorrebbe sopratutto essere spoglio di ogni aria magistrale che riesce sempre nojosa, ed allettare il popolo che cerca ristoro dopo della fatiga. Ora se v’ha tra lumi somministrati dalla ragione rischiarata (oltre delle scienze esatte e delle leggi e della stessa moral filosofia) un educatore di simili circostanze rivestito, non merita egli al pari delle scientifiche cognizioni gli applausi degli amici dell’uomo?

E chi non ravvisa in un buon teatro siffatto educatore pubblico, saggio, retto, geniale, all’ombra del governo? Chi al pari dì esso accoppia il diletto del passatempo all’utile del l’insegnamento? il dolor della correzione al piacer {p. XXIV}dello spettacolo? Qual genere poetico ha saputo meglio deporre il portamento dottrinale e mascherarsi di piacevolezza? Ben possiamo dire, che a somiglianza de’ numi della mitologia che cinti di umane spoglie viaggiarono e conversarono con gli uomini per arricchirli di sapienza, la poesia drammatica si trasforma negli uomini stessi che prende ad ammaestrare. Può aggiugnersi che essa al pari dello scudo di Ubaldo ci dipigne e rappresenta quali veramente siamo, per avvertirci delle discordanze de’ nostri ritratti dalle bellezze della sapienza e della virtù. La morale è la maestra de’ costumi, e la poesia drammatica è la stessa morale posta in azione: quella si trasmette per l’udito, questa si presenta alla vista: quella sa supporre un rigido precettore che gravemente ammonisce, questa affabile e popolare in aria gaja e gioconda non mostra all’uomo che l’uomo stesso: quella parla nudamente al l’intendimento, questa l’intendimento stesso illustra commovendo gentilmente il cuore: quella {p. XXV}è un farmaco salutevole ma amaro, questa una bevanda vitale insieme e grata al palato. La ragione umana che sugerì sì vaga ed utile morale rappresentativa, quanto vide profondamente nella natura dell’uomo!

Adunque senza tener conto veruno della rigidezza affettata di alcuni sedicenti coltivatori de’ severi studii, i quali sdegnano tutto ciò che non è algebra, nè delle meschine rimostranze di qualche bonzo o fachiro, nè delle insolenze di alcuni immaginarii ministri di non so qual filosofia arcana, e molto meno apprezzando le ciance insidiose smaltite fra i bicchieri delle tavole grandi da certi ridevoli pedantacci che ostentano per unico lor vanto l’essersi procacciati varii diplomi accademici, noi avremo sempre in pregio così amena filosofia in azione, di cui gli additati impostori ignorano il valore e la prestanza. Noi siamo persuasi più dall’esempio di tanti e tanti veri filosofi, e valent’ uomini che ne ragionano {p. XXVI}consommo vantaggioa che dagli schiamazzi delle cicale letterarie che declamano contro di essa senza aver mai saputo che cosa è l’uomo, che società, e che coltura generale delle nazioni. Niuno screditerà mai gli spettacoli teatrali o chi gli coltiva con felicità, se non colui che ne paventa la censura. Dà del bastone sullo specchio chi teme di arrossire della propria deformità. Catone pretese in Roma la censura, e i nobili corrotti formarono un partito per contrastargliela.

Se io abbondassi di ozio e di talenti (posso aggiungere) e fossi più verde, occupar mi vorrei da buon senno in sì utile poesia, e con novelle {p. XXVII}invenzioni vivacemente colorite destar sulle moderne scene quando il riso e quando la compassione. Ma per sì bella impresa oltre di un raro ingegno affinato dal senno e dal gusto, vi bisognerebbe quel lieto nido, quell’esca dolce, quelle aure soavi che bramano i cigni per elevarsi al Parnaso, ed a me di ciò in vece sovrabbondarono lungo tempo solo cure mordaci che me ne respinsero, ed oggi è tempo che i ruscelli io chiuda,

Poichè di bere omai son sazii i prati.

Mi contenterò intanto di narrare più pienamente di quel che altra volta non feci, gli sforzi fatti sino a questi tempi ne’ paesi conosciuti per dipignere sui teatri ora grandi sconcerti ora picciole ridevoli avventure. E giacchè con non isperata benignità accolse il pubblico il saggio che ne diedi l’anno 1777 nella Storia critica de’ teatri in un sol volume in ottavo, ho voluto, in vece di riprodurla quale la prima volta la pubblicai (siccome {p. XXVIII}diverse volte ne venni gentilmente invitato dalla società tipografica di Nizza e da alcuni libraj Veneziani e Napoletani) disonderla ed ampliarla in più volumia. Non è adunque l’opera presente una semplice nuova impressione della mia storia teatrale, ma sì bene un nuovo libro che con nuova sospensione d’animo presento al pubblico. E chi sa se egli accorderà a queste ultime cure il benigno accoglimento che concesse alle primiere?

Contento di aver quì accennato succintamente l’eccellenza e l’utilità della poesia rappresentativa, stimo inutile per chi ha da leggere l’opera il prevenirlo delle moltissime cose che la rendono del tutto nuova. Dirò solo {p. XXIX}quanto allo stile che dopo l’autorevole approvazione dell’elegantissimo scrittore Bettinellia, non avrei osato di partirmi da quella energica facile schiettezza che invita a leggere un libro istorico. Ho cercato anche di conservare la purezza del linguaggio evitando ugualmente la studiata fiorentineria che la dispotica libertà di alterarne l’indole. Quindi vedendo che il Cotta, il Salvini, il Conti, il Maffei, l’Algarotti, il Cesarotti, ed il Bettinelli stesso, non hanno avuto ritegno di adottare le voci analizzare, interessare nel senso che le si dà in Francia, e personificare, benchè non si trovassero registrate nel vocabolario della Crusca, le ho anche io usate senza dar retta a’ rigidi puristi, colla sicurezza di {p. XXX}svegliare le idee che io vò manifestare, e colla probabilità che simili verbi transalpini non tarderanno a ricevere la cittadinanza italiana da chi pensa di aver dritto a torla o a donarla. Egli è vero che io usai ancora nella prima edizione e ritengo in questa, forse senza esempio, il termine tecnico della danza piroettare tratto del francese, che mi fu notato dal medesimo purissimo Bettinelli come vocabolo inusitato fra’ Toscani; ma io il seci senza pentirmene (peccatore ostinato!) perchè quell’istantaneo girare su di un piede che sa il ballerino, è così detto in Francia qui tanto debbe la danza moderna, e s’intende in Italia, dove la cosa è trasportata senza che abbiavi sinora un vocabolo patrio equivalente.

Nè anche ho del tutto bandito il latinismo interloquire che tecnico può dirsi della drammatica, sembrandomi chiaro, intelligibile, sonoro e di bella origine. I Toscani in ogni tempo dissero eloquio, eloquenza, loquela, loquace, loquacità, interlocutori; or {p. XXXI}perchè per acconcia analogia non dirassi anche interloquire ammesso in Lombardia, in Roma, ed in Napoli, se non nella Toscana? Non usò pure il purissimo Bettinellli non pochi latinismi non usitati fra’ Toscani? Nell’Entusiasmo usò impertito: nel poemetto al Benaglio la voce turbinando dandole di più un senso differente dal latino turbinare che equivale all’aguzzare de’ Toscani: nel poema delle Raccolte disse trica, eliconide sostantivo, prosatori ed altri vocaboli che gli furono vigorosamente notati dagli Amici del Friuli e di Venezia come difettosi e ignoti a buoni e a tutta l’Italia ecc.

La parola gergone mi su parimente dal medesimo letterato ripresa, che oggi ancora a me sembra pura italiana. Dessa è mai altro che un aumentativo di gergo che in Toscana favella significa un parlare oscuro di convenzione? Parlar gergone è frase toscana inserita nel vocabolario della Crusca col l’esempio di Franco Sacchetti. Che se {p. XXXII}gergone rassomiglia anche al jargon de’ Francesi, quale in ciò è la mia colpa? Sono forse poche le parole comuni a queste due belle lingue sorelle? Vi ha qualche regola che prescriva che debbono fuggirsi le parole domestiche quando rassomigliano alle stranierea? Dal l’altra parte Saverio Bettinelli gentile sempre e sempre puro scrittore italiano si diede ben poca cura di schivare diversi gallicismib, e talvolta {p. XXXIII}a qualche voce toscana diede il significato francesea, o ne diede uno tutto nuovob, e si valse di voci ch’egli chiama inusitate e stranec. O dunque debbesi moderatamente fare uso della severità de’ puristi’ intorno alle parole di straniera origine, o {p. XXXIV}riceverne e concederne a vicenda il perdono, giacchè

Iliacos intra muros peccatur, et extra.

Passando ad altro ho cercato esaminare con nuova diligenza le favole antiche e moderne, per presentare a’ giovani studiosi con sempre più accurata scelta le drammatiche bellezze da tenersi per esemplari. E giudicando degli autori secondo il mio criterio senza spirito di partito o di sistema, con moderazione insieme e con libertà, ho procurato conservare quella imparzialità che non può dall’onesto scrittore andar disgiuntaa. Io ragiono senza la folle {p. XXXV}pretensione di certuni di proporre il proprio avviso per norma del l’altrui pensare. Io m’ingannero talvolta (e chi non s’inganna!) ma al mio inganno non avrà mai parte il cuore, imperocchè,

{p. XXXVI}
                             non che farmi
Cieco su’ miei stessi capricci, ardisco
Contro de’ vizii miei darmi battaglia,

per valermi del concetto di Pope e delle parole del Gozzi che tradusse il di lui Saggio di Critica.

Ecco quanto io ho fatto in quest’opera per diletto ed istruzione della gioventù che ama la poesia rappresentativa. Avrò colpito nel segno? Deciderà il pubblico illuminato e imparziale. A me basterebbe che le mie vigilie o almeno i principii additati in questi primi fogli intorno al l’utilità e al l’eccellenza della drammatica ottenessero il frutto d’insinuare la necessità che hanno le società colte di preparare agli stranieri un Buon Teatro, che, in vece di essere un seminario di schifezze e di basse buffonerie, presenti una dilettevole polita scuola di educazione.

{p. 1}

LIBRO PRIMO §

CAPO PRIMO.

Origine della Poesia Drammatica. §

Infuse la Provvidenza nel cuore umano un affetto indagatore che mosso dal bisogno o dal comodo o dal piacere dovea condurre l’uomo a formarsi un mondo civile, a investigar le maraviglie e il magistero del naturale, e a tentare d’internarsi ne’ segreti della divinità. Questa natural pendenza e viva brama di sapere, dalla cura e dallo studio d’indagare, chiamossi da’ Latini e poi da noi Curiosità, come quella che dalla stupida inazione {p. 2}dell’ignoranza ci guida al l’attività laboriosa della scienza. Scortato l’uomo da un affetto sì vivace e per indole osservatore non potè non avvedersi di alcuni barlumi e di certe faville mal distinte che nel giro delle cose vanno scappando fuori, e vengono a lui quasi spontaneamente dalla natura presentate. Le vide egli, se ne approfittò, e più oltre spingendo lo sguardo esaminò con maggior diligenza la natura, la quale essendo solita per lo più di corrispondere con una spezie di gratitudine a chi la contempla, si compiacque di premiarne le cure con manifestargli una parte de’ suoi misteri, e con alzare, per così dire, alcun poco quel velo di cui si ammanta. Nacquero da ciò le tante moltiplici osservazioni che col tratto del tempo ridotte a metodo si denominarono Arti.

Or perchè questa spinta industriosa è comune a tutti gli uomini, e la natura da per tutto risponde a colui che ben l’interroga, è chiaro a chi dritto mira, che pochissime sono le arti che {p. 3}da un primo popolo inventore passarono ad altri, ed al l’incontro moltissime quelle che la sola natura, madre e maestra universale, va communicando a’ varii abitatori della terra. In effetto la maggior parte delle arti di prima e seconda necessità, le quali nascono da bisogni comuni, per lo più si acquista senza esempio. Trittolemo e Cerere in Europa, Manco-Capac e Mama-Oela Huaco nel Nuovo Continente, non ostante che gli uni nulla sapessero degli altri, insegnarono a seminar le biade e a raccorle e a valersene per sostentarsi. Scorrendo per diversi climi ben si vedrà che dove la terra non si smuove co’ vomeri di ferro, si lavora co’ legni adusti: dove non si cuce cogli aghi, si adoperano le spine: dove non si taglia col l’acciajo, si usano le selci. Ma la coltivazione per obbligar la terra ad alimentarci, e le arti di accozzare e tagliar lane e cuoja per coprirci, si sono trovate in paesi lontanissimi colla scorta del solo bisogno. E forse che moltissime arti di lusso {p. 4}parimente non s’incontrano in varii luoghi senza esservi state traspiantate? Da sì gran tempo si dipigne, si scolpisce, si canta, si suona, si tesse, si ricama, si edifica da Pekin al Messico, ancorchè i popoli non abbiansi partecipate le loro scoperte. É noto dalla storia che le nazioni in se stesse ristrette esistono e fioriscono, e per molti secoli si guardano dal comunicare insieme, perchè quel timore che raccoglie gli uomini in società regna lungamente, e si conserva presso di esse, e le rende inospitali e inaccessibili, siccome furono per gran tempo gli Ebrei, gli Egizzi, gli Sciti, i Cinesi, i Messicani, i Moscoviti.

Ma una vanità comune a tutte le nazioni culte inspira loro l’ambizione di credersi le più antiche e le maestre del rimanente del genere umano. E un’ altra vanità forse non meno generale conduce i dotti ad attribuire alla propria nazione, o a quella da essi più studiata tutte le arti e invenzioni quà e là disseminate. Dal che è avvenuto {p. 5}che per una forte accensione di fantasia fondata per lo più in una radice etimologicà, in un monumento ambiguo, in un paralogismo erudito, ciascuno ha creduto di vedere prima che altrove nelle antichità predilette Fenicie, Egizie, Greche, o Etrusche, le origini di tante cose che col soccorso della sola natura l’umana ragione disviluppata ha mostrate a tanti popoli.

Finchè si studiò con pedantesca superstizione la sola Grecia, senza volgersi un solo sguardo al rimanente della terra, la storia del teatro Greco si prese per la sorgente di tutti gli altri. Ma fu un inganno che si dissipò tosto che apparve a rischiarar le menti una sapienza più sana, più sobria, più vasta, la quale insegnò con maggior fondamento a rintracciar tale origine nella natura del l’uomo ch’è da per tutto la stessa, e vi produce effetti simili. In Grecia (giusta la luce di tal sapienza) non si vuol cercare se non l’origine del teatro Greco. L’uomo (essa insegna) nasce in tutti i climi {p. 6}irritabile per organizzazione alla presenza delle forme esterne. Da queste, comunque avvenga, passano nella fantasìa le immagini che la rendono istruita del mondo. L’intelletto che in essa si spazia, nel vederle, separarle, combinarle, acquista la conoscenza de’ segni distintivi delle cose. Queste più o meno remotamente hanno un rapporto proporzionato alla sensazione che ne ricevè la macchina nella quale esso signoreggia e discorre, di modo che se l’urto fu piacevole, cioè se scosse con soavità la tela de’ nervi, l’intelletto apprende per bene le forme che la cagionarono: se la scossa fu dolorifica, cioè se con maggiore asprezza esse incresparono quella tela, le contempla come male. L’uomo adunque si avvezza dalla prima età per senso più che per raziocinio a suggir quel dolore e quel male, e ad appetir quel piacere e quel bene. Or che ne segue? che egli ne acquista un abito di rappresentarsene le immagini. Al sovvenirsi di quel bene, per lo piacere che gliene {p. 7}ridondò, cerca di tornarlo a gustare formandosene esattamente l’idoletto, e allora che l’imitazione sembragli corrispondente agli oggetti da prima conceputi, si compiace della rassomiglianza e si rallegra. E perchè non se ne ripeterebbe il diletto? Si rammenta pure, benchè da prima con certo ribrezzo, del male, cioè delle forme che gli apportarono dolore; ma a poco a poco si avvede che tale rimembranza non gli rinnova il dispiacere, e più. non ischiva di rappresentarsele, anzi si accostuma alla dipintura che se ne forma, e della verità del ritratto si compiace ancora; e quindi nasce quel diletto chè si pruova nel ripetere a se stesso o ad altri con tutte le circostanze i già passati disastri. Ora se l’uomo per natura si occupa continuamente a dipingersi le cose che lo circondano, in lui stesso si rinviene il principio di ogni imitazione, che è il perno, su cui volgesi la poesia; per la qual cosa Aristotile nella Poetica chiamava l’uomo animale attissimo ad {p. 8}imitare che impara per rassomiglianza.

Di tutte le imitazioni però la più naturale è quella de’ simili, ed assai vi contribuisce l’uniformità de’ sensi e dell’organizzazione e la vivacità degli oggetti. Cantano gli augelli, latrano i cani, perchè gli organi che servono al l’espulsione della voce facilitano loro l’imitazione di quelli della propria specie, i quali prima di ogni altro si avvezzarono a vedere. l’oggetto di cui l’uomo riceve da’ sensi le prime e le più frequenti notizie, è l’uomo stesso. I bambini tratti dal natural bisogno di nutrirsi si assuefanno alla vista della balia e della madre prima che si avveggano di ogni altra cosa. Fanciulli ci formiamo sugli uomini, e principalmente su quelli che ci sono più dappresso, e quindi diventiamo Don Chisciotti, o damerini, o bacchettoni, o spiriti-forti, secondochè il secolo avrà formati quelli che ne circondano, puntigliosi, effeminati, ipocriti, o filosofi orgogliosi. Veggiamo e facciamo. Perchè ungonsi di grasso i Cafri? perchè {p. 9}i loro padri se ne ungevano. Perchè fumano ancor tenere le fanciulle del l’Andalusia e di Lima? perchè imitano le loro madri. Se furono molli i Sibariti nella loro corruzione, magnifici e ghiottoni i Colofonii, trafficanti i Fenici, ospitali i Lucani, e i Romani superstiziosi: e se sono bellicosi e antropofagi gl’Irochesi, e i Tapui, cerimoniosi i Cinesi, pirati gli Algerini, seguono tutti l’occulta forza del l’esempio domestico che più di ogni altro è loro vicino.

A chi attribuiremo la prima invenzione del l’arte drammatica? Alla maggior parte delle nazioni. Essa s’ingegna di copiar gli uomini che parlano ed operano; è adunque di tutte le invenzioni quella che più naturalmente deriva dalla natura imitatrice del l’uomo; e non è meraviglia, ch’essa germogli e alligni in tante regioni come produzione naturale di ogni terreno.

Per natura la trovarono i Greci, e da veruno non ne presero l’esempio, {p. 10}siccome è chiaro a chi passo passo la vada seguitando dall’informe suo nascere per tutti i gradi de’ suoi avanzamenti. l’ebbero varj antichissimi popoli Italiani, come gli Etrusci e gli Osci, prima della fondazione di Roma, e certamente non la ricavarono da’ Greci che conobbero più tardi. Come poi sarebbe dal l’Attica passata la scenica in Italia, quando varj monumenti istorici ci assicurano, che ancora dopo molte età, per la solita primitiva gelosìa nazionale, neppure tutti i piccioli continenti Italiani si conoscevano tra loro? Il nome (non che altra cosa de’ Greci) il nome del famoso Pitagora, che secondo Ovidio visse a’ tempi di Numa Pompilio, secondo Tito Livio a quelli di Servio Tullio, e secondo Cicerone di Lucio Tarquinio Superbo, non era da Crotone penetrato sino a Roma. I Tarantini quando alla peggio oltraggiarono l’armata Romana che navigava a forza di remi avanti la loro città, non aveano, {p. 11}al dir di Floroa, piena notizia de’ Romani, ignorando anzi fin anche donde venissero, e pure già quegli aveano non picciolo impero in Italia. Possiamo dire che gli stessi Romani, i quali senza contrasto riceverono la Drammatica dagli altri Italiani e da’ Greci, ne trovarono nulladimeno da se stessi i primi semi benchè rozzissimi. Fuori poi dell’Europa si trovano gli spettacoli teatrali da un lato nel l’Oriente fra’ Cinesi fin da’ più remoti tempi, e dall’altro nel l’Occidente fra’ Peruviani ignoti a’ Greci, agli Etrusci, e a tutto il resto del vecchio continente.

L’uomo adunque attivo da per tutto e imitatore osserva gli uomini, si avvezza a copiarli, e passa in seguito a farsene un giuoco. Ecco l’origine de’ giuochi scenici.

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CAPO II.

In quali cose si rassomigli ogni Teatro. §

Una catena d’idee uniformi fece spuntar la poesia rappresentativa in tanti paesi che insieme non comunicavano; ed il concorso di altre simili idee sopravvenute a moltissime società pure senza bisogno di esempio le condusse a produrre alcuni fatti comuni a tutti i teatri.

Come il genere umano diviso in grandi famiglie e società civili ha la sussistenza di esse assicurata coll’unione delle forze particolari, e provveduto al comodo colla fatica, tosto si volge a procacciarsi riposo e passatempi. Manifesta allora lo spirito imitatore, e chiede un teatro. Ma dal l’idea complicata di società non può a ragione acompagnarsi quella di una divinità e {p. 13}di un culto religiosoa (malgrado de’ sofismi e delle sceme induzioni de’ moderni Lucreziani) e tali idee nel l’infanzia delle nazioni agiscono con tanto maggior vigore, quanto minore è la fiducia che allora ha l’uomo nella debolezza del proprio discorso. Quindi è che non sì tosto egli comincia a far prova delle forze del suo ingegno che ne dirige le primizie a quella Prima Cagione da cui sente interiormente di dipendere. Troviamo perciò nella storia anteriore ad ogni profana produzione gli oracoli composti da sacerdoti gentili, le Greche poesie nomiche e {p. 14}ditirambiche ad Apollo e a Bacco, i versi saliari del Lazio, gl’inni Peruviani al Sole, quelle de’ Germani alle loro guerriere divinità, e tanti altri. Pieni adunque i popoli di tali idee religiose molto naturalmente le trasportanò eziandio ne’ loro passatempi, i quali in tal guisa quasi consacrati si cangiano in una specie di rito; ond’è che per primo fatto generale osserviamo che in tanti paesi tutte le prime rappresentazioni furono sacre.

Il nostro intendimento poi, il quale da’ sensi attende le notizie delle cose esteriori, non in un tratto, ma successivamente si arricchisce. Egli si avvezza al facile, cioè ad osservare i particolari e a dipingerseli; e prima di avere acquistata una gran copia d’immagini e di averle in mille guise combinate, non può per una piena induzione sollevarsi agli universali, donde comincia il sillogismo. L’uomo adunque procede per gradi ne’ lavori dell’ingegno, ed è naturalmente prima poeta che filosofo. Perciò s’incontra da per {p. 15}tutto la poesia coltivata prima della filosofia, e l’esercizio del verseggiare anteriore allo scrivere in prosaa. Cominciando dagli Ebrei l’opera letteraria più antica sono i Cantici del loro legislatore Mosè. In versi erano le memorie de’ defunti scolpite nelle colonne Egiziane, ed intorno alle urne lagrimali poste ne’ sepolcri d’Iside e di Osiride vedevansi incise alcune canzoni, come può leggersi nel primo libro della storia di Diodoro Siculo. Tra’ barbari le prime leggi dettaronsi in canzonib. Secondo Ateneo nelle feste {p. 16}degli Ateniesi cantavansi le leggi del nostro Caronda. I Goti feroci popoli antichi della Scandinavia che abitavano nelle coste del Baltico, ebbero le famose poesie Runiche che talora erano ancor rimate, e i loro poeti detti Scaldia, i cui canti chiamaronsi Wyses. I Celti nazione più antica é più potente de’ Goti pregiarono sommamente i loro Bardi. Tra gli antichi Scozzesi ed Irlandesi di origine Celtica siorirono moltissimi cantori appellati parimente Bardi, nel cui ordine sembra che avessero luogo ancor le donne perquello che apparisce dal poema di Ossian intitolati Canti di selma:

            Vedi con esso
I gran figli del canto Ullin canuto,
E Rino il maestoso, e il dolce Alpino
Dal l’armonica voce, e di Minona
{p. 17}
Il soave lamentoa.

Secondo Tacito i Germani non aveano altra storia se non che i canti de’ loro Bardi. Lino, Orfeo, Museo, Esiodo, Omero ecc. Fiorirono in Grecia molto tempo avanti che scrivessero in prosa Cadmo ed Ecateo Milesii e Ferecide Siro maestro di Pitagora. Gli anzinominati versi saliari Latini sono anteriori alla prosa usata la prima volta da Appio Cieco contro Pirro. All’emergere dalla seconda barbarie le moderne nazioni Europee, prima di {p. 18}avere chi potesse dettare uno squarcio di prosa competente, abbondarono di Trovatori Provenzali e di Rimatori Siciliani. I Lapponi, popolo assai materiale e barbaro, fanno versi. Ne fecero in Affrica e in Asia molti Negri ed Indiani senza lettere. Nel Nuovo Mondo i Caraibi, i Brasiliani, gli abitanti della Florida e del Mississipi, gl’Irochesi e gli Uroni compongono canzonia. I Messicani ne insegnavano alcune a’ fanciulli, le quali contenevano le imprese de’ loro eroi e servivano d’istorie. «Strana cosa (diceva il sig. Di Voltaire) che quasi tutte le nazioni abbiano prodotto poeti» prima di altri scrittori.» Non v’ha cosa meno strana di questa. La prosa, colla quale si ragiona {p. 19}ordinatamente, abbisogna di metodo e di principii che non si acquistano prima che l’intendimento si perfezioni. La poesia che dipigne, abbisogna d’immagini che rappresentano le cose, la cui storia dalla prima età si va imprimendo nella fantasià. Oltre a ciò gli scrittori primitivi ambivano di scostarsi dal favellar volgare, e non essendo ancor destri abbastanza per conseguirlo nella sciolta orazione che aveano comune contutti, adoperarono la meccanica de’ versi, i quali subito, e a poco costo allontanansi dal linguaggio naturale. Quindi si scorge perchè tutte le prime composizioni sceniche (come non molto lontane da’ primi passi delle nazioni verso la coltura) si trovino scritte in versi, che è il secondo fatto generale da notarsi ne’ teatri.

Ma quando le società diventano più colte, veggonsi tosto gl’inconvenienti che produce quel mescolarsi un divertimento colle delicate materie religiose. Allora le classi de’ cittadini si vanno aumentando, si assegnano a ciascuna {p. 20}di esse i limiti e le cure corrispondenti; e la religione intatta e rispettata va a sedere in un trono augusto e sublime, donde si vede a’ piedi gli autorevoli capi delle società, non che i poetici scherzevoli capricci. Da tal punto i poeti teatrali tutta rivolgono la curiosità verso gli oggetti non religiosi, notano le grandi rivoluzioni, e gli evenimenti mediocri, ne scuoprono le ingiustizie, le stravaganze, le ridicolezze, ne tentano la correzione, e i teatri fortunatamente si cangiano in tante scuole di sana morale. È questo il terzo fatto osservato in tutti i teatri.

Cresce poi nelle nazioni colla coltura la popolazione, colla popolazione la ricchezza, colla richezza il lusso, e col lusso crescono nuovi bisogni e nuovi mali. Il teatro che vuol considerarsi come uno de’ pubblici educatori, per rimediare a que’ mali sovente eccede, trascorre, inveisce e degenera in malignità, e talvolta avviene che si corrompa col l’esempio del resto della società. Nell’uno e nel l’altro caso viene {p. 21}dalla vigilanza della legge corretto e richiamato al dovere. Ma questo freno che apparentemente avrebbe dovuto inceppare l’attività degl’ingegni, in tutti i teatri che conosciamo bene, ha prodotto avventurosamente un effetto assai diverso. Imperciocchè in cambio di trattenere il volo del l’immaginazione de’ poeti, la legge gli ha costretti ad uscire dal l’uniformità, a spianarsi nuove strade, ed a rendere il teatro più vago, più vario, più delicato. Ed è questo il quarto fatto da notarsi, che noi troveremo avverato in tutti i teatri Europei, e dal l’analogia delle idee ci sentiamo inclinati a conchiudere, che troveremmo eziandio ne’ teatri orientali, e in quello del Perù, se gli storici e i viaggiatori, da’ quali soltanto noi possiamo instruirci sulla legislazione e la poesia di tali regioni, si fossero avvisati di riguardarli nel punto di vista che quì presentiamo.

Or da quanto si è ragionato scende per natural conseguenza, che la poesia rappresentativa non nasce nelle tribù {p. 22}de’ selvaggi, perchè essa richiede maggior complicazione d’idee per saper volgere l’imitazione in satira ed istruzione. In fatti nelle picciole nascenti popolazioni del vecchio e del nuovo continente trovansi sì bene i semi della drammatica, cioè saltazione, canto, versi ma non rappresentazione che meriti di chiamarsi teatrale. Ne segue parimente un’ altra filosofica e sicura conseguenza, cioè che la poesia teatrale prende l’aspetto della coltura di ciascun popolo: se esso non eccede i costumi primitivi e semplici, l’imitazione scenica ne seconderà la materia: se ha costumi barbari, feroci, romanzeschi, il teatro gl’imiterà: e se si giunga all’ultimo raffinamento e alla doppiezza propria de’ popoli culti, nasceranno i Tartuffi de’ Molieri e i Cleoni de’ Gresseta

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CAPO III.

Teatri Orientali. §

I Precedenti fatti principali variamente modificati dalla diversità de’ costumi, de’ tempi e de’ gradi di coltura compongono la storia de’ teatri di tutta la terra. Ma quali sono queste modificazioni? a qual punto di eccellenza essi {p. 24}pervennero? come caddero e dove? quando risorsero? sotto qual cielo acquistarono la forma più perfetta, cioè più dilettevole e più istruttiva? Tutto ciò si deduce agevolmente dalle storie particolari di ogni teatro. Cominciamo dagli Orientali.

Prima che altrove gli spettacoli scenici inventaronsi nel vasto antichissimo imperio della China. Sembra che non interrottamente abbia in essi dominato lo spirito religioso primitivo, da che fino a questi tempi la commedia si considera da alcuni Cinesi come antico rito del patrio culto. In Bantàm che è la capitale dell’isola di Giava, ed è divisa in due grandi parti, delle quali una è abitata da’ Cinesi che le danno il nome, qualunque sacrificio si faccia nelle pubbliche calamità o allegrezze, è costantemente accompagnato da un dramma, il quale si riguarda come rito insieme e festa pubblica. Nel Tunkin si rappresentano ne’ templi azioni teatrali, che formano una parte {p. 25}del culto di que’ popoli verso i loro idolia.

Verun teatro pubblico e fisso non si trova nella China, ma sonovi assai frequenti le rappresentazioni, dovendo formare una parte indispensabile di ogni festa e convito scambievole de’ Mandarinib. Girano perciò continuamente i commedianti Cinesi di casa in casa, innalzano in un attimo i loro teatri portatili, e recitano ne’ cortili o nelle piazze.

Parimente di città in città scorrono nel Giappone alcune compagnie comiche composte quasi interamente di donne schiave di un Archimimo, a conto del quale rappresentano. Donne tali {p. 26}schiave, abjette ed infami si prostituiscono ai nobili Giapponesi, i quali le sprezzano é le incensano, le arricchiscono vive, e soffrono che appena morte vengano strascinate per le vie con una fune al collo, e lasciate insepolte in preda ai cania. Nella stessa abjezione vivono le commedianti della China, avveguachè non manchino ne’ fasti di quella nazione esempli di regnanti, che vinti dai vezzi delle sirene teatrali giunsero al l’eccesso di prenderle per consorti, come fece l’imperadore Kingn che regnò quaranta anni in circa prima del l’era Cristianab.

Ma se la prostituzione, la dissolutezza de’ costumi, e la schiavitù rendono infami i commedianti del l’Oriente, non si lascia di ammirare la loro abilità di rappresentare, e sono in pregio gli attori eccellenti, e sopra tutti si {p. 27}encomiano quei del Tunkinoa. Vedesi ancora comunemente in alcune corti orientali un sovrano rappresentar sulla scena. Nel reame di Firando appartenente al Giappone si è veduto più di una fiata comparire in teatro il re colla real famiglia, e co’ suoi ministri politici e militarib. Ed è tale l’esattezza che si esige nel l’imitazione de’ caratteri, ovvero il timore di avvilirsi rappresentando una parte inferiore, che ciascuno sostiene nella favola il medesimo carattere, che lo distingue nello stato. Il re rappresenta da re, i suoi nipoti o figliuoli da principi, da capitani o consiglieri i veri consiglieri o capitani, da servi i servi. Quindi è che, siasene qualunque la cagione, essi in tal modo avvivano la finzione co’ veri colori del costume, che ne risulta la tanto desiderata incantatrice {p. 28}illusione che tiene sospesi ed attaccati alla favola gli ascoltatori.

I Cinesi non distruggono questa bella imitazione colle maschere sempre nemiche della vera rappresentazione. Essi le usano soltanto ne’ balli come i Francesi, e ne’ travestimenti di ladro. Gl’interlocutori delle favole Cinesi sogliono essere otto o nove; ma i commedianti non sono più di quattro o cinque, e ciascuno di loro rappresenta due o tre parti. Ed affinchè lo spettatore non confonda i varii personaggi che sostiene, lo stesso attore, nel presentarsi in teatro, dice alla bella prima il nome che porta in quella scena. Ecco come si dà a conoscere il protagonista del dramma intitolato Tchao-Chi-Cu-Ell, o sia l’Orfano della famiglia Tchao, tradotto dal p. Prèmare e tratto da una collezione di un centinajo di drammi scritti nella dinastìa di Yuen: «Io sono Tching-poei, mio padre naturale è Tun-gan-cu; io soglio la mattina esercitarmi nelle armi, e la sera nelle lettere; ora {p. 29}vengo dal campo per veder mio padre naturale.»

Non si conosce nella China, nel Tunkino e nel Giappone la divisione Europea delle favole teatrali tragiche e comiche. Si cerca solo di copiare in un dramma le azioni umane col sine d’insinuar la morale, e vi si adopera indistintamente il ridicolo e il terore. I casi più terribili, le riflessioni più sagge, le circostanze più serie, le situazioni più patetiche, rare volte vengono scompagnate da bassezze e motteggi buffoneschi. Ogni favola è divisa in più atti senza numero determinato, e il primo di essi, che equivale a un prologo, chiamasi Sie-Tse, e tutti gli altri Tche.

Quanto alla musica trovasi da tempo remotissimo nella China introdotta, essendo stata inventata da Hoang-ty, e coltivata dallo stesso Fo-hi inventore del Kin dolcissimo stromento di trentasei corde, o, secondo altri, di ventisette. In sì vasto impero essa avea luogo iu tutte le occasioni più {p. 30}sollenni. Se Pitagora co’ suoi discepoli disponeasi alla contemplazione e al l’esercizio colla musiea, anche Chun uno de’ più celebri imperadori Cinesi, che secondo gli storici della nazione regnava intorno a 22771 anni prima del l’era Cristiana, col suono del Kin si accingeva a trattar gli affari del l’impero. E perchè ogni dinastia ebbe una musica particolare, quella di Chun si chiamò Chao-yo e si usava principalmente ne’ sacrifizj, e nella venuta di ambasciadori stranieri. Nel primo e nell’ultimo giorno del l’anno, quando l’imperadore presedeva al l’amministrazione della giustizia, si eseguiva una musiea chiamata Tchoung-hochan-yo, cioè che ispira concordia verace. Nel leggerglisi qualche elogio a lui indirizzato usavasi la musica detta Tao-yng, cesitatrice. Festeggiavasi colla musica più solenne la celebre cerimonia o festa di primavera del lavoro della terra fatto pubblicamente dal l’imperadore. I varii strumenti della coltivazione sostenevansi allora de venti musici, ed {p. 31}altri cinquanta rimanevano in guardia degli stendardi di cinque colori. L’imperadore forma col l’aratro un solco, ed è imitato da’ regoli e mandarini, indi monta in sedia per ritornare al real palazzo, ed allora incomincia la gran musica, la quale poi cessa nè si ripiglia se non giunto che egli sia presso a un grande altare nel l’interiore della reggia, e di bel nuovo assiso che sia nella sala del trono. Oltre a ciò vengono dalla musica accompagnate tutte le cerimonie fatte negli appartamenti delle imperatrici. Eseguivasi da prima in tali luoghi la musica da 24 donne sotto la direzione de’ maestri della campana e del tamburo, ma ne furono dopo alcuni anni escluse, e sottentrarono 48 eunuchi, e benchè passati altri venti anni fossero le donne richiamate, al fine sessanta anni dopo si decise che quivi più non si ammettessero se non che musici eunuchi. Si fanno ancora nella China alcuni concerti di musica, e quando si presenta al l’imperadore un libro novellamente impresso, e quando i {p. 32}mandarini d’armi e di lettere si uniscono per gli esami, e quando il capo de’ discendenti di Confucio ed il generale de’ bonzi vengono alla corte, e quando si costruisce qualche nuovo edifizioa.

Ora se tali cerimonie, solennità e affari venivano quivi dalla musica accompagnati, non doveva essa entrare negli spettacoli teatrali? Non solo ha fatto parte del dramma cinese, ma essendo negli ultimi tempi caduta in disistimab (siasi ciò avvenuto per l’introduzione della musica europea fatta in que’ paesi dal l’imperadore Kamhi per mezzo del portoghese Pereira {p. 33}e del p. Pedrini, siasi per qualunque altra cagione) in appresso appena nella sola scena fu da’ nobili tollerata. Ma in qual modo vi ha luogo? Parte del dramma si recita semplicemente, e parte si canta, e quella parte se ne canta, in cui le passioni si trovano nel maggior calore e trasporto. Si annuncia ad un personaggio la notizia di essere stato condannato a morte? medita egli qualche grande impresa? si sdegna? minaccia? si dispera? Tutte queste passioni vivaci si esprimono cantando, il rimanente si recita senza musica.

Il dramma cinese non si spazia in episodii estrinseci al l’azione, perchè tutti prende a rappresentare i fatti rilevanti di una lunga storia. Passano poche scene, in cui non si uccida alcuno. In tre ore di rappresentazione si espongono gli evenimenti di trent’anni. Più. Comparisce fanciulla, amoreggia e si marita una donna, la quale ha da partorire un bambino, che dopo quattro lustri si enuncia come il {p. 34}protagonista della favola. Mancano dunque i Cinesi di arte e di gusto nel dramma che pur seppero inventare sì di buon’ ora; e con tanto agio non mai appresero a scerre dalla serie degli eventi un’ azione verisimile e grande, atta a produrre l’illusione che sola può trasportare gli ascoltatori in un mondo apparente per insegnar loro a ben condursi nel veroa

{p. 35}L’ultima opera del riputato Guglielmo Robertson sulla Conoscenza che gli antichi ebbero del l’India, ci presenta nel l’Appendice la notizia di un altro dramma orientale scritto intoruo a cento anni prima del l’era Cristiana. S’intitola Sacontala, tradotto da Iones in inglese dalla lingua Sanskrit.

Sacontala è una principessa allevata da un Eremita in un boschetto sacro, la quale dovendo andare a nozze nella corte di un re, prende congedo dall’Eremita chiamato Cano, dalle pastorelle sue compagne, ed anche da un arbuscello, da una gazella e da un caprio. V’intervengono la Pastorella, un Coro di ninfe del bosco, Cano e Sacontala. Le Pastorelle indrizzano la porola alle piante del boschetto, mostrano {p. 36}l’assezione ed il rispetto che ha per esse avuto Sacontala, la quale parte per andare al palazzo dello sposo, e si congeda da Cano. Giova trascrivere uno sqarcio del loro dialogo.

«Sac.

Permettete, o Padre, che io consacri questo mudhacu, i cui fiori rosseggianti fanno comparire questi boschi tutti di fuoco»

«Can.

«O figlia già so il tuo affetto per quest’arbuscello»

«Sac.

O cara pianta, di tutte la più risplendente, ricevi i miei amplessi e dammi i tuoi, piegando le tue braccia, lontana ancora io sarò a te divota. O Padre, abbine cura come faresti di me stessa»

Sacontala continua a camminare, indi ripiglia.

«Sac.

Deh Padre mio, poichè questa cara gazella, che ora pel peso che porta nel ventre, cammina con tanta pena, avrà partorito, ti prego di mandarmene il dolce avviso, e di farmi sapere lo stato di sua salute; nol dimenticare»
{p. 37}

«Can.

No, mia cara, nol dimenticherò»

«Sac.

Ma chi si attacca alle falde della mia veste e mi trattiene?»

«Can.

E il tuo figlio adottivo, il cavriuolo, che feritosi nella bocca colle acute punte del cusa, venne da te curato stropicciandovi l’olio salutare del l’incudi; non vuole abbandonare la sua liberatrice»

«Sac.

Perchè ti affliggi, o caro, alla mia partenza? Io ti allevai allorchè perdesti la madre poco dopo del tuo nascere, il caro padre che mi ha rilevata, prenderà di te cura nella guisa che io ho fatto, poichè ci faremo separati. Torna indietro, noi partiamo»

E qui Sacontala prorompe in un gran pianto.

Convien confessare che questo innocente, semplice, patetico congedo, desti in chi legge una tenera commozione; e pur d’altro non si tratta che di prender commiato da un cavriuolo. Deh perchè certi autori manierati, svenevoli, non apprendono l’arte di {p. 38}commuovere da simili semplici naturali e delicate espressioni?

Conchiudendo questo capo non vo’ tralasciare di riferire che gli Orientali hanno da gran tempo coltivati i balli pantomimici. Alcuni de’ commedianti cinesi si sono addestrati a rappresentar senza parola seguendo il tempo della cadenza musicale. In tale esercizio segnalansi singolarmente le ballerine di Surate nella penisola Guzurate posta fra l’Indo e il Malabar, chiamate da’ Portoghesi bayladeras. Vengono esse allevate in alcuni collegii e destinate a danzare ne’ pagodi ed a servire ai piaceri de’ Brami. Ma varie compagnie di codeste cortigiane consacrate girano per divertire i ricchi Mori e Gentili sotto la direzione di alcune vecchie. Un solo musico di età avanzata, e per lo più il più brutto di tutti gli uonrini, le segue e le accompagna con uno strumento di rame chiamato nell’India Tam. Mentre esse ballano, il brutto musico ripete questa parola con una vivacità continua rinsorzando per gradi la voce {p. 39}e stringendo il tempo del suono in maniera che egli palesa il proprio entusiasmo con visacci e strane convulsioni, e le ballerine muovonsi con una maravigliosa agilità, la quale accoppiata al desiderio di piacere e agli odori de’ quali tutte sono esse sparse e profumate, le fa grondare di sudore e rimanere dopo il ballo pressochè fuori di se. I balletti di tali donne voluttuose abbellite dal vago loro abbigliamento (descritto bellamente dal Raynala e dal l’arte di piacere che posseggono in grado eminente, sono quasi tutti pantomimi amorosi, de’ quali il piano, il disegno, le attitudini, il tempo, il suono, le cadenze, respirano unicamente la voluttà e n’esprimono i piaceri e i trasporti.

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CAPO IV.

Teatro Americano. §

Dalla scarsa popolazione del l’immenso Continente Americano, dalla quasi generale uniformità de’ costumi e delle fattezze e dal gran numero di picciole tribù tuttavia selvagge, che poco più di tre secoli indietro vi trovarono gli Europei, dopo che, seguendo le tracce immortali degli argonauti Italiani Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci, Sebastiano Cabotto e Giovanni Verazzani, l’ebbero riconosciutea: si deduce forse {p. 41}non senza fondamento che quelle terre non da gran tempo sono state popolate. Non crediamo adunque che i {p. 42}pochi monumenti teatrali ritrovativi abbiano preceduto la drammatica del Vechio Mondo; ma per non {p. 43}interrompere la serie de’ teatri Europei, parleremo quì degli spettacoli scenici del l’America.

{p. 44}Prima che ci fossero note le contrade Americane, due sole nazioni erano quivi uscite dallo stato selvaggio, la {p. 45}Messicana e la Peruviana. Fioriva la prima in molte arti di lusso non che di necessità, ma non ebbe della {p. 46}drammatica se non que’ semi che sogliono produrla da per tutto, cioè travestimenti, ballo, musica e versi accompagnati da gesti. Tutto cio contenevano le danze Messicane chiamate Mitotes, nelle quali i nobili e i plebei si trasformavano, e divisi in cori saltavano, cantavano, gesticolavano e beveanoa. La sola Repubblica di Tlascala nemica del l’impero Messicano, {p. 47}e poi stromento della distruzione di esso, e della propria schiavitù, amando la poesia e la danza, seppe usare l’una e l’altra nelle rappresentazioni teatrali; ma non se ne fà più oltre. Le tribù selvagge non soggette a questo impero coltivavano eziandio con predilezione il ballo valendosene in diverse congiunture pubbliche e private. Gli ambasciadori di due diverse tribù solevano incontrarsi ballando. Col ballo s’intimavano le guerre, si placavano gli dei, si celebrava la nascita di un fanciullo, e la morte di un amico. Il ballo usavasi per medicina in certi mali, e si vuole che in questa sola occasione fosse stato osceno e indecente. Tutti i balli americani esprimevano con somma energia qualche azione, e possono giustamente chiamarsi pantomimi. Dilettavansi sommamente que’ popoli del ballo guerriero, che solea rappresentare una spedizione militare. La partenza de’ guerrieri dai loro villaggi (cosi ne parla lo storico {p. 48}Robertsona), la marcia nel paese nemico, le cautele colle quali si accampano, l’accortezza con cui pongono alcuni del loro partito in agguato, la maniera di sorprendere l’avversario, lo strepito e la fierezza della battaglia, lo strappamento del pericranio a quegli che sono uccisi, la presa de’ prigionieri, il ritorno dei conquistatori in trionfo, ed il tormento delle vittime sventurate, sono tutte cose che vi si rappresentano una dopo l’altra. Gli operatori eseguiscono con tale entusiasmo le loro diverse occupazioni, sono cosi bizzarri i loro gesti, il viso, la voce, e così bene accomodati alle loro varie espressioni, che gli Europei durano fatica a credere che sia una scena immaginaria, e non la vedono senza ribrezzo ed orrore.

{p. 49}Ma la nazione Peruviana, senza dubbio la più colta di tutta l’America, oltre all’avere inventata e migliorata l’agricoltura con tante altre arti, seppe qualche cosa di geografia, meccanica ed astronomia, ed ebbe polizia e legislazione eccellente per la natura e per l’indole di que’ popoli, nella quale trionfa una sana morale. Ebbe pure gli Haravec (vocabolo corrispondente ad inventore, trovatore, poeta) ne’ cui versi scorgonsi lampi di poesia; e l’inca Garcilasso ci ha conservato un componimento in cui veggonsi le meteore bellamente personificate e arricchite d’immagini giuste e vivacia. Qual maraviglia adunque che avesse spettacoli teatrali? L’Inca ce ne dà alcune notizie senza entrare a indagarne l’origine, la quale con alcune probabilità può rinvenirsi in una festa solenne che solea celebrarsi in Cusco.

Un annuo sacrifizio e convito {p. 50}pubblico, in cui beveasi fino all’ubbriachezza, e mescolavansi al ballo il canto e i motteggi, condusse i Greci a formarsi i loro spettacoli teatrali. Un annuo sacrifizio e convito pubblico, colle medesime particolarità e accompagnato da strani travestimenti e mascherate ridicolose, troviamo in Cusco. Ora non ne poteva nascere come nella Grecia lo spettacolo teatrale che pure in seguito vi si vede coltivato? Le circostanze che l’accompagnano, rendono probabile la congettura.

La più solenne festa celebrata da’ Peruviani in onor del Sole chiamavasi Raymi e durava nove giorni. V’intervenivano il re, o sia il maggior inca, gl’inchi tutti, i capitani, e i curaci pomposamente armati e inghirlandati. Ognuno dava a conoscere nelle divise la propria origine o prosapia; chi si attaccava al dorso due grandi ale, chi si copriva di un cuojo di drago, chi di una pelle di leonea. Tutti {p. 51}portavano maschere spaventevoli, sonavano flauti e tamburri scordati, e facevano gesti e visacci da forsennatia. Seguiva il sacrifizio, si mangiava la carne delle vittime, beveasi con certo ordine e con brindisi scambievoli, e si danzava cantando, e facendosi da ognuno uso delle proprie insegne, maschere ed invenzioni. È probabile che un rito così strano precedesse gli spettacoli teatrali, ne’ quali veggonsi più ordinate idee. Forse il piacere prodotto in questa festa dal ballo, dal canto e dalle maschere, suggerì il disegno di formare di tali cose un tutto e una imitazione più ragionata. E chi sa che le {p. 52}armi portate da’ curaci in un luogo di pietà, di pace e di allegrezza, sia per pompa sia per cautela, sia per insegnare a’ popoli col l’esempio di vegliar sempre a difesa della religione e della patria, non destassero l’idea di una rappresentazione eroica e marziale? Chi sa che quelle maschere ridicole, le quali dovettero esser simboli satirici delle stravaganze delle passioni smoderate, non si convertissero col tempo in dipinture comiche delle umane ridicolezze? Ci voleva un capitale di filosofia per dar questo passo, e appunto troviamo che le favole drammatiche del Perù furono inventate e coltivate da’ filosofi colà chiamati Amauti. Essi composero due generi di drammi, l’eroico per rappresentar pubbliche imprese, vittorie, trionfi, ed il comico per imitar fatti domestici e pastorali. Tali rappresentazioni eseguivansi nelle sacre festività più solenni (una delle quali era la mentovata Raymi) assistendovi il maggior inca con tutta la corte. Il luogo, il tempo e gli spettatori esigevano {p. 53}decenza e gravità, e gli Amauti vi conservarono questo lodevole carattere senza contaminare con oscenità il divertimento.

Cresce finalmente la probabilità delle congetture sul l’origine degli spettacoli del Perù col riflettere che si eseguivano da’ medesimi curaci, inchi e capitani che si mascheravano nella stessa Raymi. Questi nobili attori, prima e dopo la rappresentazione, occupavano tra’ loro uguali i luoghi corrispondenti alla propria dignità e agl’impieghi: e quei che si distinguevano per la delicatezza e proprietà di rappresentare, ne riportavano ricchi doni e favori particolaria. Non erano adunque gli attori del Perù schiavi abjetti come i Cinesi, bensì persone nobili e decorate come in Grecia. Ma avvegnachè in questo ed in altro si rassomigliassero Greci e Peruviani, non diremo però che questi sieno da quelli discesi, ragionando alla {p. 54}maniera di Laffiteau. Simili idee (ripetiamolo) combinandovisi circostanze simili, si risvegliano naturalmente senza bisogno d’imitazione; come senza questa vi si accozzano le particelle elementari necessarie alla produzione, e vi spuntano e vegetano le piante.

Dopo l’invasione fatta dagli Europei in quelle vaste regioni, che abbracciano forse poco meno della terza parte del globo terrestre, quando essi considerandole come poste nello stato di natura supposero di aver diritto ad occuparle e saccheggiarle senza tener conto della ragione degli indigeni che ne aveano antecedentemente acquistata la proprietà; dopo, dico, l’epoca della desolazione di sì gran parte della terra, le razze Affricane, Americane ed Europee, più o meno nere, bianche ed olivastre, confuse, mescolate, riprodotte con tante alterazioni, vi formano una popolazione assai più scarsa del l’antica distrutta alla giornata da tante cagioni fische e morali, la quale partecipa delle antiche origini nel tempo stesso che se {p. 55}ne allontana. Così le arti, i costumi, le maniere, le imitazioni, e fino il bestiame e i vegetabili sonovi piuttosto forestieri che naturali; nè più reca stupore il vedervi abbarbicato quanto si trova nel l’antico continente. Nella Nuova Spagna non solo trovansi gli spettacoli del l’antica, ma la famosa città del Messico può pregiarsi di aver prodotto nel passato secolo uno de’ migliori commediografi Spagnuoli. Giovanni Ruy de Alarcon di origine spagnuolo ma nato nel Messico, per purezza di lingua, per grazia comica, per abbondanza e per invenzione, merita di preferirsi a moltissimi suoi contemporanei.

La provincia di Chiapa contiene un popolo che forse conserva meno alterata l’indole e la natura americana. D’ingegno, di forze, di statura e d’idioma più che altrove dolce ed elegante, vince tutti gli altri Messicani. Chiapa-de los Indios è la città principale di tal contrada popolata da moltissime famiglie nobili americane, dove si gode {p. 56}una giusta libertà e proprietà, che sono le cagioni onde ne’ popoli fioriscono l’industria e la coltura. In effetto non vi si trascurano le arti di necessità, di comodo e di lusso. Fabbricansi colà per eccellenza quadri e stoffe di penne, antichi lavori messicani non mai più da veruno imitati. Vi si eseguiscono poi con destrezza tutti gli esercizii ginnici spagnuoli, come corse di tori e giuochi di canne; si fanno combattimenti navali sul gran fiume che bagna la città; si formano castelli di legno coperti di tela dipinta, e se ne imprende l’assedio e la difesa; vi si esercita la pittura, la danza, la musica; e vi si trovano teatri.

Quanto a Peruviani, i quali gemono avviliti da più dura schiavitù, hanno de’ loro antichi riti e costumi conservata una viva e cara rimembranza, che solo gli attuali loro padroni potranno a poco a poco cancellare o almeno indebolire, rendendo agl’infelici il giogo meno pesante e più conforme all’umanità. Essi in certi giorni solenni {p. 57}prendono la loro antica foggia di vestirsi e menano per le strade le immagini del sole e della luna. Alcuni di loro sogliono farsi lecito di rappresentare certe feste teatrali e specialmente una tragedia della morte del l’ultimo inca Atahualpa accusato dal l’americano Filippetto divenuto cristiano, e condannato con formalità giudiciarie de Pizarro. Questa rappresentazione commuove siffattamente l’uditorio che prorompe in un dirotto pianto, e talvolta entra in tal furore che non è maraviglia che ne sia talvolta divenuto vittima qualche Spagnuolo.

Ma in Lima celebre capitale del Perù edificata nel 1535 da Francesco Pizarro oggi si vede un teatro lodato per la grandezza e per la magnificenza delle decorazioni, nel quale si rappresentano le commedie Castigliane. Gli attori però sono tutti Americani, e tra essi intorno a cinque o sei lustri indietro (per quel che mi narrò in Madrid un negoziante di Cadice che vi avea passata una parte della vita) {p. 58}spiccava una bella e giovane attrice figliuola di una Peruviana e di un Italiano chiamata Mariquita del Carmen, e conosciuta pel soprannome di Perrachola.

CAP. V.

Tracce di rappresentazioni sceniche in Ulieteia e in altre isole del l’Emisfero australe nel Mar Pacifico. §

Havvi nel mare del Sud alle vicinanze del l’isola degli Otaiti tralle altre un’ isoletta chiamata Ulietea, nella quale si è trovato qualche vestigio di rappresentazione drammatica. Gli abitanti di essa (si riferisce da Cooka)tra varii balli eseguirono una spezie di farsa drammatica mescolata di declamazione e di danza; benchè noi eravamo pochissimo versati nel loro {p. 59} idioma, e perciò incapaci di comprenderne l’argomento. Il giorno seguente alcuno del nostro equipaggio credette di veder rappresentar da essi una specie di dramma diviso in quattro parti. Non possiamo su tal racconto assicurarci di essersi da que’ popoli conosciuta la poesia rappresentativa. La scarsa cognizione della lingua toglieva al l’equipaggio di Cook l’opportunità di distinguere per mezzo delle parole ciò che poteva essere un canto accompagnato dal ballo, da ciò che avrebbe potuto chiamarsi specie di dramma ancorchè informe.

Le danze e le farse che viddero nel l’isola medesima eseguire m. Bancks e il dottor Solander, sono parimente di equivoco carattere. In una di esse vedevansi due classi di attori distinti dal colore degli abiti, l’una di color bruno figurava un padrone co’ suoi servi, l’altra di bianco una comitiva di ladroni. Lasciava il padrone sotto la custodia de’ servi un paniere pieno di provvisioni: i ladri carolando con {p. 60}posizioni diverse aggiravansi per involarlo: i servi si studiavano di costodirlo e salvarlo da’ loro tentativi. Si addormentavano poi i bruni intorno al paniere, ed i bianchi approfittandosi del tempo camminando sulla punta de’ piedi sollevavano leggermente gli addormentati arghi, e toglievano loro il paniere. Svegliavansi i servi, avvedevansi del furto, si disperavano, e terminava l’azione.

Scorgesi certamente in questo giuoco una semplicità regolare di un fatto drammatico; ma esso non passa più innanzi delle danze messicane e de’ balli delle tribù selvagge. Esso non è che un ballo pantomimico accompagnato di quando in quando dal canto. Chi non vi ravvisa una copia esatta di ciò che per introduzione ai loro pas-de-deux i ballerini Europei hanno a sazietà rappresentato sulle nostre scene?

Il re O-Too padrone di tutta l’isola di O-Taiti essendosi recato in Oparre il mentovato capitano Cook nel 1777 nel terzo suo viaggio, volle fargli godere nella propria casa un {p. 61}heevaraa spettacolo pubblico, nel quale le tre sue sorelle rappresentavano bellamente i principali personaggi, seguito da alcune farse che riescirono assai grate al numeroso concorso. In un altro giorno il re per trattenerlo piacevolmente fe rappresentare una specie di commedia, di cui pure furono attrici le tre sue sorelle vestite bizzarramente con abiti nuovi ed elegantia.

Oltre a diversi giuochi ginnici, lotte, pugilati ecc. eseguiti in Wateeoo per onorare e divertire il nomato Inglese, e a’ concerti e alle danze accompagnate tal volta da musica vocale, s’intrecciarono alcune carole da venti ballerine. Formando un circolo intorno a’ musici givano esse cantando alcune ariette tenere, alle quali rispondeva il coro. Accompagnavano la voce con movimenti di mani che portavano vezzosamente verso il volto e il {p. 62}petto, lanciando un piede innanzi, indi ritirandolo con grazia, mentre l’altro piede rimaneva immobile. Fecero due giri sopra se stesse saltando e battendo le mani l’una contro l’altra. Aumentandosi sempre più verso la fine il movimento della musica, le danzatrici spiegarono nelle attitudini una forza e destrezza meravigliosa, che in certe posizioni parvero indecenti, ma che force altro oggetto non aveano che di manifestare la loro agilità estrema. Fuvvi parimente una danza grottesca eseguita da principali personaggi del l’isola, la quale consisteva nel movimento delle loro teste con tal forza, che faceva dubitare agli astanti Inglesi che non avessero a rompersi in collo, battendo intanto le mani e mettendo acutissime guida. Si avanzò poi alla testa degli attori situati in un de’ lati del mezzo cerchio un principal personaggio, e declamò alcune parole alla foggia de’ nostri recitativi con gestire espressivo, che agl’Inglesi parve superiore al l’azione de’ più applauditi {p. 63}attori del nostro paese. Il primo degli attori del l’altro lato corrispose della stessa maniera. Si recitarono parimente alcuni passi, e di poi il semicerchio si avanzò sul teatro, rispondendo in coro le persone di ambo i lati, e finirono cantando e ballando.

Da queste danze e scene recitate in Wateeoo non son dissimili quelle delle isole degli Amici, e le altre degli abitanti delle isole Caroline del Mar Pacifico del Nord.

Nelle isole dette da Cook di Sandwich vi sono eziandio danze pantomimiche accompagnate da musica, le quali si approssimano più a quelle della Nuova-Zelanda che a quelle di O-Taiti o degli Amici. Precede una canzone di movimento lento e grave, alla quale tutte le ballerine prendono parte movendo le gambe e battendosi dolcemente il petto con attitudini graziose rassomiglianti a quelle del l’isole della Società. Si accelera poscia il tempo sino al punto che le ballerine (che sole sigurano in tal genere di danza) non {p. 64}possono più seguirlo, e colei che si dà maggior moto e resiste più, passa per la danzatrice più eccellente. Vuolsi ancora osservaro che i naturali del l’isola di Sandwich hanno una specie di maschera con buchi per gli occhi e pel naso; alla cui parte superiore appongonsi picciole bacchette verdi che da lontano pajono piume ondeggianti, e dal l’inferiore pendono pezzi di stoffa che si prenderebbero per barbe. Coloro che se ne coprono, vanno ridendo e facendo gesti istrionici che indicano esser maschere ridicole. Anche in Nootka gli abitanti in certe straordinarie occorrenze si adornano in una maniera grottesca, e talora copronsi il volto con maschere di legno scolpite, di grandezza eccedente la naturale, e figurano ora la testa e la fronte umana con ciglia, barba e capegli, ed ora teste di uccelli, e specialmente di aquile o di pesci o di quadrupedi. Que’ selvaggi mostrano per tal mostruoso abbigliamento passione particolare.

Vedesi adunque nelle surriferite {p. 65}se e danze di Ulietea e delle altre isole mentovate quello spirito imitatore universale che guida l’uomo a copiare le azioni de’ suoi simili per farsene un trastullo; si notano i primi passi verso una spezie d’imitazione drammatica; si osservano congiunte alla danza le parole ed il canto; ma non si va più oltre. Poesia rappresentativa, favola di giusta grandezza, sviluppo di grandi o mediocri azioni e passioni umane per correzione e diletto, piano ragionato di competente durata, e quanto altro caratterizza l’azione scenica, e la distingue dal semplice ballo, non si trova se non che nelle nazioni già molto inoltrate nella coltura.

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CAPO VI.

Teatro Greco.

Prima epoca sino a Frinico. §

Quante novità forse un dì apporteranno i più communi oggetti che ora ci veggiamo intorno senza prenderne alcuna cura! Da fonti lontani e quasi impercettibili scaturiscono spesso i più notabili evenimenti. Quel chimico che vide la prima accidentale esplosione del nitro, imprigionò Motezuma, strangolò Guatemazin, giustiziò Atabualpa, tradì e condannò l’innocente cazica Anacoana, spopolò tutta l’America. Ma bisogna che un interesse personale determini il primo osservatore a fissarvi lo sguardo: che la sua osservazione per un interesse più generale si communichi a’ circostanti: e che vada così di mano in mano continuando a prender forma, finchè {p. 67}pervenga a costituire un’epoca notabile. Quanti capri avranno rose e guaste tante volte le viti delle montagne dell’Attica senza produrre veruna novità! Ma quell’abitatore d’Icaria, che ne sorprese uno nel suo podere, fu per sicurezza della sua vigna consigliato dal proprio interesse a sacrificarlo a Bacco, e quei paesani che ciò videro, ricordandosi delle proprie vigne per somigliante interesse applaudirono al colpo, si rallegrarono, e saltarono cantando in onor del nume. Quindi nacque una festa, un sacrifizio e un convito rinnovato ogni anno in tempo di vendemmia, nel quale la licenza del tripudio e l’ubbriachezza svegliarono quella satirica derisione scambievole che piacque tanto e che perpetuò la festa. Quel motteggiarsi a vicenda, e quegl’inni sacri cantati ballando formarono a poco a poco un tutto piacevole, che da τρυγη, vendemmia, si chiamò trigodiaa, e fu come il germe che in {p. 68}se conteneva la gran pianta della poesia drammatica, la quale vedremo da quì a poco ingombrar tant’aria, e spandere per tutto verdi e robusti i suoi rami.

Continuando in tal guisa lungo tempo questi Cori pastorali, ed inni Dionisiaci doveano naturalmente partorir sazietà, e svegliare in alcuno un desiderio di rianimargli con qualche novità. Così in fatti avvenne. Vi è chi attribuisce ad Epigene di Sicione il pensamento d’interporvi altri racconti chiamati Episodii per rendere la festa più varia, o per dar tempo a’ saltatori e cantori di prender fiatoa I primi cori contenevano le sole lodi di Bacco, e gli episodii parlavano di tutt’altro. Il popolo se ne avvide, e mormorò della novitàb, ma continuò {p. 69}ad ascoltarli, e la novità parve felice e dilettevole. Questa istoria ci si presenta ad ogni passo nelle opere de’ più veridici scrittori dell’antichità, e punto non ripugna al l’ordinata serie delle umane idee, le quali vanno destandosi a proporzione che si maneggia l’arte, e che la società avanza nella coltura. Chi adunque arzigogolando sdegna di riconoscere da tali principii la tragedia e la commedia Greca, non vuol far altro che dare un’ aria di novità e di apparente importanza ai proprii scritti, e formar la storia della propria fantasia più che del l’arte.

Solevano i riferiti cori ed inni nominarsi indistintamente tragedia e commedia, e chi ne scrisse ebbe il nome talvolta di tragico, talvolta di comico poeta. Apollofane da Suida vien detto, antico poeta comico, e nel l’Antologia tragico. Cefisodoro, Forono, Egesippo, sono chiamati ora tragici ed ora comici. Suida mentova una Medea ed un Tereo argomenti tragici come favole di un tal Cantaro cui dà {p. 70}il nome di poeta comico. Il nomato Epigene vien detto comico dallo stesso Suida, ma da Ateneo si citano l’Eroine e le Baccanti di questo drammatico come favole tragiche.

Corsero intorno a mille anni dal tempo in cui resse Minos lo scettro di Creta, alla venuta di Tespi; ed in tal periodo moltissimi poeti coltivarono in Atene la tragedia spiegando tutto il patrio veleno contro di quel re che dipinsero come ingiusto e crudele, pel tributo da lui imposto agli Ateniesi delle donzelle e de’ giovani da esporsi al Minotauro in vendetta del l’ucciso Androgeo di lui figliuoloa.

Ma il genere tragico sino al l’olimpiade LX, o LXI non si vide ben distinto dal comico. Tespi contemporaneo di Solone provveduto di competente gusto e discernimento gli separò; e perchè si attenne sempre al solo {p. 71}tragico, gli fu attribuita l’invenzione de’ la tragediaa, avvegnacchè altri l’avessero precedutob. I Giovani Sacri, il Forbante, il Penteo sono nomi di alcune favole Tespiane. Appartiene a Tespi questo frammento rapportato e tradotto da Grozioc:

Vides ut alios Jupiter superet deos;
Mendacium illi et risus et fastus procul:
Unus deorum est dulce quem non attigit.

{p. 72}Gli Episodii così purificati da ogni mescolanza comica, nel passare nel l’olimpiade LXVII in mano di Frinico discepolo di Tespi, di parte accessoria del coro divennero corpo principale del dramma, trattarono favole ed affetti, e formarono uno spettacolo sì dilettevole, che meritò di essere introdotto in Atene. Cherilo l’ateniese che fiorì nel l’olimpiade LXIV, avea trovata la maschera ed abolita la feccia, di cui prima tingevansi gli attoria, e {p. 73}Frinico accomodò quest’invenzione anche alle parti di donne.

Se abbiasi riguardo allo stato della drammatica di quel tempo, Frinico merita l’ammirazione de’ posteri. In una tragedia pose alcuni versi cosi pieni di robustezza, di energia e di arte militare, e gli rappresentò con tanto brio che scosse gli spettatori di un modo che nel medesimo teatro fu creato capitano; giudicando assennatamente gli Ateniesi che chi sapeva tanto solidamente favellare delle operazioni belliche, era ben degno di comandare elle squadre per vantaggio della patriaa. Frinico inventò ancora il tetrametro. Le favole che di lui si citano, sono: Pleuronia, gli Egizj, Atteone, Alcestide, Anteo, i Sintoci e le Danaidi. {p. 74}Fu egli figliuolo di Poliframmone o di Minia o di Corocle, secondo Suida, e fu padre di un altro poeta tragico chiamato anche Poliframmone. L’Espugnazione di Mileto, di cui parla Eliano stessoa, appartiene a un altro Frinico figliuolo di Melanta, il quale per tal tragedia fu punito dagli Ateniesi con una multa di mille dramme. Questo Frinico di Melanta fu il poeta che rappresentando la mentovata tragedia preso da non so qual timore, ovvero da orrore naturale, non potè proseguire, ed il popolo lo fe ritirare dalla scenab.

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CAPO VII.

Teatro di Eschilo. §

Epigene, Tespi e Frinico I furono tre uomini di talento particolare, ognuno de’ quali sorpassò il predecessore e diede nuovo lustro alla tragedia. Con qualche passo di più forse l’ultimo di essi l’avrebbe condotta a quel grado di prefezione, in cui le arti, come ben dice Aristotile, si posano ed hanno la loro natura. Eschilo il settatore di Pitagora sopravviene in un punto sì favorevole, corre lo spazio che rimaneva intentato, coglie il frutto delle altrui e delle proprie fatiche, e giugne ad essere il primo meritamente onorato da Aristotile e da Quintiliano col titolo d’ingegno creatore e di padre della tragedia. Come poeta eccellente seppe con arte e facilità maggiore degli antecessori trasportar le favole Omeriche al genere {p. 76}tragico e maneggiarle in istile assai più grave e più nobile. Come direttore intelligente, valendosi del l’opera del l’architetto Agatarco, fece innalzare in Atene un teatro magnifico e assai più acconcio a rappresentare con decenza e sicurezza; là dove Pratina, e altri tragici del suo tempo montavano su tàvolati non solo sforniti di quanto può contribuire al l’illusione, ma così mal costrutti e mal fermi che sovente cedevano al peso e cadevano con pericolo degli attori e degli spettatori meno lontani. Eschilo abbigliò ancora le persone tragiche con vestimenti gravi e maestosi, fece ad esse calzare il coturno, e migliorò l’invenzione della maschera di Cherilo e di Frinico. Volle in oltre egli stesso e comporre la musica de’ suoi drammi, e inventar de’ balli, e prescrivere i gesti e i movimenti del Coro che danzava e cantava negl’intervalli degli atti togliendone la direzione agli antichi maestri ballerini. Secondò parimente molto meglio il pensiero de’ suoi predecessori di {p. 77}scemare il numero degl’individui del Coro musico e ballerino per accrescerne quello degli attori degli episodii, e con questa seconda classe di rappresentatori rendè l’azione vie più viva e variata. Seppe in somma per molti riguardi farsi ammirare ed in se unire i meriti più rari di poeta, di musico, di attore e di direttore. Settanta, o, come altri vuole, novanta o cento tragedie egli compose, delle quali sette appena ce ne rimangeno, e riportò la corona teatrale intorno a trenta volte. Guerriero, capitano, vittorioso nella pugna di Maratona per Atene sì gloriosa, mostra nello stile la grandezza, il brio militare e la fierezza de’ proprii sentimenti. Il suo carattere è robusto, eroico, grande, benchè talvolta turgido, impetuoso, gigantesco, oscuroa. Le tragedie che se ne sono conservate, s’intitolano: Prometeo al {p. 78}Caucaso, le Supplici, i Sette Capi al l’assedio di Tebe, Agamennone, le Coefore, l’Eumenidi, e i Persi. Di queste non meno che delle altre tragedie greche a noi giunte, in grazia della gioventù curiosa, e senza arrogarci l’autorità e l’infallibilità degli oracoli, andremo brevemente esponendo le bellezze principali senza dissimularne qualche difetto.

Traluce nel Prometeo l’elevazione del l’ingegno di Eschilo, e l’energia de’ suoi concetti mista si vede a certa antica ruvidezza che gli concilia rispetto. Intervengono in questa favola numi, ninfe, eroi e personaggi allegorici, come la Forza e la Violenza. Allegorica essa è in fatti in quanto che il poeta si prefigge di pignervi la prepotenza della maggior parte de’ Grandi su gli nomini ancor meritevoli e benefici; la qual cosa era lo scopo de’ Greci poeti, repubblicani, di che fecero pure qualche motto Andrea Dacier e poi Pietro Brumoy. Vulcano per comando di Giove annoda Prometeo al Caucaso con {p. 79}catene indissolubili, per avere involato il fuoco celeste ed animati e ammaestrati gli uomini, indi l’abbandona al suo dolore. Prorompe in compassionevoli querele l’infelice benefattore degli uomini immeritamente punito della sua beneficenza. Io ardisco per saggio recare in italiano il principio di esse per coloro che non amano le latine traduzioni letterali e soffrono di vederne qualche squarcio comunque da me espresso:

O spazii immensi ove ogni cosa nuota,
O voi venti leggeri o fonti o fiumi,
E voi del mare interminabili onde,
O madre o Terra, o Sol che a tutti splendia.
A voi ragiono, s’altri aimè! non m’ode.
Vedete i mali miei; me nume un nume,
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Nuovo signore de’ superni Dei,
E preme e oltraggia e inesorabil danna
A lacci eterni e prigionia spietata.
Soffrò il presente, e la memoria amara
Del par mi attrista del futuro danno.
Deh qual è a tanto duol termin prescritto?
Oimè! che parlo? Oimè! la serie acerba
Di mie sventure antiveder m’è dato
Per tormento maggior! Lunga essa fia,
Eterna fia! e qual prevedo, ahi lasso!
Tutto avverrà; chè non si vince il fato,
E alla necessità nulla contrasta.

Un coro di Ninfe del l’Oceano viene a consolarlo, colle quali Prometeo parlando disacerba il suo dolore, e narra l’innocente ed utile suo delitto. {p. 81}Sopraggiunge il padre Oceano stesso a prestargli un amichevole uffizio, ed in gravi ragionamenti si trattengono sul nuovo regnator de’ numi, ed in tal proposito Oceano gli porge salutari consigli:

Deh te stesso conosci e al tempo servi.
Nuovi costumi un nuovo regno esige.

Prende Prometeo in buon grado le parole del l’amico, e dopo aver seco favellato di altri rigori da Giove usati con Atlante e con Tifeo, Prometeo l’esorta a partire, perchè schivi d’incorrere anch’egli nel l’indignazione del nuovo regnante. Favella poi col coro dei diversi ritrovati e di tante arti insegnate agli uomini, i quali prima, poco differenti da’ tronchi, viveano come le belve rintanati negli antri. L’episodio degli errori della misera Io trasformata in giovenca accresce il terrore di questa favola, e benchè vi sia introdotta senza manifesta necessità o immediato vantaggio del l’azione principale, pure {p. 82}dà luogo a sviluppare sempre più il carattere del benefico infelice protagonista. Ella in tal guisa entra nella scena, secondochè io traduco:

Quai terre? Ove son io? Chi a queste avvinto
Orride rupi ed al rigor del verno
Tal giace esposto o sventurato o reo?
Chi sei? qual tuo delitto o nume avverso
Così ti opprime? In quai contrade errante
Senza speme e consiglio il piè mi trasse?
Ma l’usato furor di nuovo annebbia
La mia ragione, e mi trasporta e punge!
Sento già risonar le note avenea;
{p. 83}
Sorger di nuovo, oimè! veggio dal l’orco
Argo severo, e con orrenda face
In truce aspetto mi minaccia e incalza
Per erme arene, e per solinghe vie!
Dove, misera me! superna forza
Dove mi spinge mai! Giove, e qual colpa
Sì in me punisci, e di terrore ignoto
L’alma riempi, ed a vagar mi sforzi?
Ah per pietà m’incenerisci, e il suolo
S’apra e m’ingoi, o di marini mostri
Esca infelice in mezzo al mar mi scaglia.
Abbastanza vagai, soffersi e vissia.

{p. 84}Dopo cosi bel passo energico, patetico, vigoroso, lo ascolta da Prometeo le sue future avventure, indi presa dal solito estro precipitosamente sen fugge. Mentre Prometeo affretta coi voti la venuta di un successore di Giove, ch’egli crede di prevedere, sopravviene Mercurio a minacciarlo da parte dello stesso Giove di più atroci pene, se non palesa questo nuovo successore. Traspare in Prometeo una grandezza di animo che nelle disgrazie lo rende degno di rispetto. Non si piega ai comandi, non si avvilisce nelle minacce, non ispande nè gemiti nè preghiere per esser liberato, non si approfitta del l’occasione per impetrar grazia e perdono. Gli antichi Greci insegnano ai moderni l’arte d’interessare e piacere senza ampollose accumulate particolarità e romanzesche azioni. È ciò picciol {p. 85}merito? Sì bene pei piccioli e maniera i talenti, come furono i La-Mothe, i Perrault e i Cartaud de la Vilade, de’ quali per altro abbonda ogni nazione. Mercurio dopo di aver pregato invano, spiega tutta la serie de’ nuovi imminenti mali di Prometeo. Tuoni, venti, fulmini, scuotimenti di terra, sepoltura improvvisa nelle viscere de’ monti, aquile divoratrici del di lui cuore, apportano terrore agli spettatori e quando vengono minacciate e quando effettivamente agitano la scena. Prometeo vede balenare e strisciare il fulmine senza abbassar neppur gli occhi. La sua magnanimità sveglia nello spettatore una sublime idea del nobile suo carattere. Egli prevede ancora il rimanente della minacciata sventura nel vederne le prime circostanze avverate, nè cede, nè si ritratta, e solo si lagna invocando la Terra sua madre e l’etere che circonda la luce in testimonio dell’ingiustizia che l’opprime. Non ci fermiamo nelle minute obbiezioni del per altro erudito Robortelli {p. 86}fatte a questa favola che spira per tutto grandezza e nobiltà e un patetico interessante; per esempio, ch’egli è assurda cosa il trovarsi Prometeo in tutta la sua rappresentazione alla vista dell’uditorio, essere gl’interlocutori tutti numi, e cose simili. Noi avremmo buone ragioni onde ribatterle, ma leviamo un po più su il guardo. Osserviamo che Prometeo è un personaggio totalmente buono e benefattore dell’umanità, e che il buono effetto che fè in teatro c’insegna, che sebbene Aristotile ci diede una bellissima pratica osservazione nel prescrivere che il protagonista debba essere di una bontà mediocre mista a debolezze ed errori, non debba però tenersi per legge generale inviolabile, altrimenti ne mormorerà il buon senno che ci porta ad ammirar giustamente il bellissimo carattere di Prometeo, quello di Ajace in Sofocle, ed altri ancora di ottime tragedie moderne.

Nella condotta delle Danaidi supplichevoli si osserva una regolarità così {p. 87}naturale che con tutta la semplicità di azione tiene sospeso il leggitore sino all’atto 3, quando le Danaidi passano dall’asilo alla città, venendo discacciato l’araldo dell’armata egiziana nemica di queste principesse. Quest’araldo si fa lecito di prenderne una per la chioma e la strascina verso i vascelli, la qual cosa esaminata colle idee de’ tempi correnti sembra disdicevole al decoro di persone reali; ma per giudicarne drittamente bisognerebbe risalire col pensiero agli antichissimi costumi de’ tempi eroici, altrimenti ci faremmo giudici di Omero e de’ tragici antichi senza comprendere la materia de’ loro poemi.

La tragedia de’ Sette a Tebe reca diletto ed invita a leggere anche a’ giorni nostri, essendo ripiena di bei tratti, di movimenti militari, di sospensioni meravigliose, fatta in somma per presentare uno spettacolo degno di ogni attenzione. Longino ottimo giudice ne cita un vago frammento dell’atto I, che nella nostra lingua io così traduco:

{p. 88}
Sette Guerrier spietatamente audaci
Stan presso a un’ara di gramaglie cinta
In atto minacciosi e con orrendi
Giuramenti spaventano gli Dei,
Alta giurando insolita vendetta
A Gradivo, a Bellona, alla Paura,
Mentre le mani tingonsi nel sangue
Fumante ancor d’un moribondo toro.

Sommo impeto di vigorosa eloquenza scopresi nel coro del medesimo atto primo, e la dipintura vivace del sacco di una città presa per assalto si legge con gran piacere nell’atto secondo. L’ultimo atto sembra veramente un accessorio superfluo, poichè si è sciolto l’assedio per l’esito funesto del combattimento di Eteocle e Polinice.

La tragedia Agamennone fu coronata, e certamente anche a giudizio de’ posteri intelligenti meritava quest’onore. Il Viperani e lo Scaligero {p. 89}nelle loro Poetiche ne osservano la manifesta inverisimiglianza di vedervisi a un tempo stesso Agamennone ucciso e sepolto. Si può notare eziandio che o la rappresentazione di questa tragedia dee durare alcuni giorni, o, come riflette il Metastasioa, Eschilo non ha creduto obbligata la sua imitazione alle circostanze dell’unità del tempo. La guardia posta sulla cima di una torre a veder se risplenda la fiamma che dee di montagna in montagna da Troja ad Argo prevenire la venuta di Agamennone, scorge appena il fuoco e ne porta la notizia a Clitennestra, che il marito giugne quasi nel medesimo punto. Noi ci contentiamo di osservare che quantunque l’azione sembri languire alquanto ne’ primi atti, pure da essi vien preparato ottimamente l’orribile evento dell’atto quinto, in cui si veggono le passioni condotte al più alto segno. l’esclamazioni di Cassandra tutte {p. 90}piene di enigmi enfatici e d’immagini inimitabili manifestano la robustezza dello stile e la forza dell’ingegno di Eschilo.

La favola intitolata le Coefore, cioè Donne che portano le libazioni (dalla parola χοἠ, libatio) rappresenta la vendetta della morte di Agamennone presa da’ suoi figliuoli, argomento poì trattato anche da’ due gran tragici che vennero appresso. Sin dalla prima scena vi si espone lo stato del l’azione con arte e con garbo tale che l’antichissimo riformatore e padre della tragedia non ebbe bisogno dell’esempio altrui per condurre alla perfezione questa parte sì rilevante del dramma, nella quale tanti moderni fanno pietà, a differenza di Pietro Metastasio e di qualche altro che vi riesce felicemente. L’energia e la forza del Coro dell’atto primo difficilmente può passare senza indebolirsi in altra lingua. La riconoscenza di Elettra e del fratello si fa nel secondo atto per mezzo de’ capelli gettati da Oreste sulla tomba, e delle {p. 91}vestigie impresse nel suolo simili a quelle di Elettra, e di un velo da lei lavorato nella fanciullezza di Oreste. Euripide veramente non a torto nella sua Elettra si burla di simili segni; ed in fatti non si prenderà mai per modello delle agnizioni teatrali questa di Eschilo sfornita di verisimiglianza. Dacier, critico per altro non volgare, la biasima anch’egli, per essere troppo lontana dal cangiamento di stato. Falsa ragione, secondo me; perchè se i segni fossero meno equivoci, basterebbe all’azione principale il passo che si fa di riunire i fratelli e far che si riconoscano al commune disegno di vendicare il padre. Eschilo poi mostra molto giudizio, facendo che Oreste rifletta all’impresa a cui si accinge: che si lagni dell’oracolo di Apollo ond’è minacciato de’ più crudeli supplizj, se lascia invendicato il padre: che s’intenerisca alla di lui rimembranza: che si mostri anche sensibile ai mali de’ popoli sacrificati agli usurpatori del trono. Tutto questo rende in certo modo supportabile il gran {p. 92}parricidio che è per commettersi. Nè di ciò pago lo scorto poeta, in una lunga scena di Elettra col Coro e con Oreste, fa che questi appalesi la repugnanza e l’incertezza che lo tormenta, la quale si va poi dissipando col sovvenirsi delle terribili circonstanze dell’ammazzamento di Agamennone, alle quali fremendo dice che darà la morte a Clitennestra, indi a se stesso. Tali riguardi, sospensioni e cautele erano indispensabili per disporre l’uditorio ad uno spettacolo oltremodo atroce di un figlio che si bagna del sangue di una madre. Segue nell’atto quarto l’uccisione di Egisto; ed il pianto che sparge per lui Clitennestra, serve di cote al furor di Oreste, e lo determina ad ucciderla. Nel quinto atto il poeta manifesta parimente la sua maestria, mostrando benchè in abbozzo l’infelice situazione di Oreste che trasportato da rimorsi va perdendo la ragione.

Oreste medesimo perseguitato dalle Furie indi liberato dalle loro mani per {p. 93}lo favore di Apollo e di Minerva e per la sentenza dell’Areopago, è l’argomento della famosa tragedia del l’Eumenidi. Le Furie rappresentate da cinquanta attori ne formavano il Coro, i quali furono dal poeta in tale spaventevole e mostruosa foggia mascherati, e con sì orribili modi e grida entrarono nella scena, che il popolo si riempì di terrore, ed è fama cha vi morisse qualche fanciullo e più d’una donna incinta si sconciasse. Eschilo in questa favola trasgredì le regole del verisimile, coll’esporre una parte dell’azione nel tempio di Apollo in Delfo, e un’altra in Atene. Si vuol notare nella prima scena la pittura terribile dell’Eumenidi fatta dalla sacerdotessa, l’inno magico infernale pieno del fuoco dell’autore cantato dal Coro dell’atto terzo per aver trovato Oreste, ed il giudizio del di lui delitto fatto nel quinto coll’intervento di Minerva che presiede agli Areopagiti, di Apollo avvocato del reo, e delle Furie accusatrici. Il Coro che negl’intermezzi è {p. 94}cantante, nel giudizio è parlante come ogni altro attore, ed uno solo favella pel resto, la qual cosa si osserva in tutte le tragedie antiche.

Finalmente i Persi tragedia data da Eschilo otto anni dopo la famosa giornata di Salamina sotto l’arconte Menon, è fondata sullà spedizione infelice di Serse contro la Grecia, argomento innanzi a lui trattato da Frinico. La condotta n’è così giudiziosa che il leggitore dal principio alla fine vi prende parte al pari di chi nacque in Grecia; tale essendo l’arte incantatrice degli antichi posseduta da ben pochi moderni, che la più semplice azione viene animata dalle più importanti circostanze con tanta destrezza, che il movimento e l’interesse va crescendo a misura che l’azione si appressa al fine. Per non avere a tale artifizio posto mente il dotto Scaligero ne censuròa la soverchia semplicità, nè le diede {p. 95}altro nome che di semplice narrazione; ed il Nisieli che sì spesso declama contro gli antichi, ne adottò la decisionea. Nè l’uno nè l’altro erudito in leggendola consultò il cuore. Il racconto della perdita della battaglia nell’atto secondo acconciamente interrotto di quando in quando dalle querele del Coro de’ vecchi Persi, forma una delle bellezze di questo dramma. L’atto quarto, in cui comparisce l’Ombra di Dario, è un capo d’opera con tanto senno contrastandovi coll’ambizione di Serse il governo di Dario ch’era divenuto pacifio, la prudenza del vecchio colla vanità del giovane regnante, e con tale delicatezza mettendovisi in bocca di sì gran nemico le lodi della Grecia. La venuta di Serse nel quinto atto aumenta la dolorosa situazione del Consiglio di Persia. Queste bellezze che sfuggono alla pedanteria, non isfuggirono al giudizioso dotto Brumoy. {p. 96}I Persi è tragedia da leggersi attentamente da chi voglia impadronirsi della grand’arte d’interessare, e in conseguenza di commuovere e piacere. Discordi pure da questo avviso chiunque si senta rapire dall’autorità de’ Nisieli e degli Scaligeri, purchè non mi si ascriva a delitto il dipartirmene per seguire l’affetto che m’inspira la lettura di questa favola. Io non mi sono proposto in quest’opera di copiar ciecamente gli altrui giudizj (che sarebbe una infruttuosa improba fatica) ma bensì di communicare co’ miei leggitori l’effetto che in me fanno le antiche e le moderne produzioni drammatiche. Noi siamo persuasi che, dopo di essersi la mente preparata co’ saldi invariabili principii della Ragion Poetica ed avverati con una sana filosofia, con una paziente critica lettura e con una lunga esperienza del teatro, il cuore solo è quello che decide dei drammi e senza ingannarsi ne conosce e addita le bellezze.

Dopo queste succinte notizie delle {p. 97}sette tragedie di Eschilo, non c’incresca di ascoltare ciò che alla solita sua maniera (ch’io chiamo spensierata) ne disse l’avvocato calabrese Saverio Mattei nel Nuovo Sistema d’interpretare i tragici Greci. Esse per lui altre non sono che feste teatrali di ballo serio preparate da alcune patetiche declamazioni. Se il leggitore conosce tali tragedie, non potrà non ridere e non rimaner meravigliato della scrittura del Mattei, in cui tutte le idee naturali veggonsi scompigliate per lo prurito di dir cose nuove che in fine si risolvono in nulla. Se poi non le conosce, sulle di lui parole ne concepirà un giudizio tutto alieno dal vero, e crederà che le patetiche declamazioni in Eschilo preparassero ad un ballo serio, come i propositi di Tancia e Lisinga in Metastasio introducono al ballo cinese. E che vuol dir mai festa teatrale di ballo serio? Le favole del padre della tragedia greca furono, come quelle de’ suoi successori Sofocle ed Euripide, vere azioni {p. 98}drammatiche eroiche accompagnate dalla musica e decorate dal ballo del coro; nè altra differenza può ravvisarsi tra l’uno e gli altri, se non quella che si scorge ne’ caratteri di diversi artefici che lavorano in un medesimo genere, per la quale distinguiamo ne’ pittori eroici Tiziano da Correggio, ne’ poeti melodrammatici Zeno da Metastasio, ne’ tragici moderni Corneille da Racine. Le prosopopeje (come il Mattei chiama le Ninfe, l’Oceano, l’Eumenidi, la Forza ecc.) punto non dimostrano, com’egli crede, che allora la tragedia era una danza animata dall’intervento di questi genj mali e buoni piuttosto che una vera azione drammatica; ma provano solo che Eschilo introdusse ne’ suoi drammi le ninfe, i numi, le ombre, le furie, e diede corpo a varii esseri allegorici, come Sofocle ed Euripide si valsero delle apparizioni di Minerva, di Bacco, di Castore e Polluce, della musa Tersicore, d’Iride, di una Furia, di un’ Ombra, della Morte ecc. Di grazia in {p. 99}che mai essi discordano da Eschilo su questo pnnto?

Eschilo trasportato una volta dal proprio entusiasmo cantò alcuni versi notati di manifesta empietà, cd il governo che vigila per la religione e per li costumi, condannò alla morte l’ardito poeta. Ma Aminia di lui minor fratello, che nella pugna di Salamina avea perduta una mano, alzando il mantello scoperse il braccio monco, intenerì i giudici, ed il colpevole ottenne il perdono.

Per questo rigore usato seco Eschilo si disgustò di Atene sua patria, tanto più quanto cominciarono ad applaudirsi le tragedie del giovane Sofocle. La prima volta che questo nuovo tragico, contando anni ventotto di età, produsse un suo componimento, e trionfò di Eschilo già vecchio, fu nel celebrarsi la solennità del ritrovamento e della traslazione delle ossa di Teseo dall’isola di Sciro in Atene, nella quale Cimone nominò i giudici {p. 100}scegliendone uno di ogni tribùa. Atene dovette all’istituzione di quell’annuo aringo letterario fra gli scrittori tragici, i progressi che ne provennero al genere tragico per l’emulazione che eccitò. La vittoria di Sofocle fu un colpo mortale per un veterano come Eschilo fiero per tanti trionfi da lui riportati, vedendosi vinto dal primo saggio di un soldato novizio. Egli prese il partito di allontanarsi volontariamente da Atene, e si ritirò presso Jerone in Sicilia, ove dopo alquanti anni morì, e secondo Plutarco nella citata vita di Cimone, fu sotterrato presso Gela. Osservisi però che la contesa di questi due gran tragici avvenne negli ultimi anni dell’olimpiade LXXVII, e Jerone morì nel secondo anno dell’olimpiade LXXVIIIb. Adunque Eschilo che secondo i Marmi di Arondel morì nel primo anno dell’olimpiade LXXXI, dovette sopravvivere a {p. 101}Jerone intorno a dodici anni. Vuolsi in oltre che quando Eschilo si ritirò alla corte di Jerone, trovasse questo re occupato in riedisicare l’antica città di Catania rovinata da’ tremuoti cui diede il nome di Etna, e su di essa Eschilo fece un componimento poetico. Ma la nuova edifieazione di tal città, ove Jerone invitò ancora de’ nuovi abitatori, avvenne nell’olimpiade LXXVI. Adunque allora Eschilo non era ancora stato vinto da Sofoclea. La onde converrà dire che egli due volte sia andato in Sicilia, l’una dopo la sua assoluzione in grazia del fratello Aminia, e vi trovò Jerone occupato nella riedificazione di Catania, e l’altra volta dopo la vittoria di Sofocle, quando, dimoratovi qualche anno, seguì la morte di quel re. Si è però detto che Eschilo morisse tre {p. 102}anni dopo la vittoria di Sofocle, il che non può conciliarsi coll’epoca della di lui morte che seguì nell’ultimo anno dell’olimpiade LXXX, o nel primo della LXXXI, essendo egli di anni sessantanovea.

Ma il sommo credito che andava Sofocle acquistando, non nocque gran fatto alla riputazione di Eschilo. Gli Ateniesi diedero pubblici attestati della stima che facevano delle di lui tragedie, avendo decretatob che si rappresentassero anche dopo la di lui morte, onore ad altri non compartito, pel quale potè Aristofane fargli dire nelle Rane, che la sua poesia non era morta con lui. In fatti alcuni tragici che si dedicarono a ritoccarne più d’una, ne riportarono sovente la corona teatrale. Euforione figlio di Eschilo, oltre ad alcune tragedie da lui {p. 103}composte, vinse secondo Suida e Quintiliano quattro volte con alcune favole del padre, alle quali diede novella forma.

CAPO VIII.

Teatro di Sofocle. §

Ma la soverchia semplicità delle favole di Eschilo non sempre animata da quella interessante vivacità che può renderla accetta, qualche reliquia di rozzezza nella decorazione, e la scarsezza di moto, additavano a Sofocle una corona tragica non ancora toccata. E per conseguirla attese a formarsi uno stile grave e sublime e maestoso e spoglio della durezza e gonfiezza del predecessore, e a tirare l’attenzione dell’uditorio più col movimento e colla vivacità e coll’economia naturale della favola che con la magnificenza delle decorazioni. E perchè gli parve necessaria all’esecuzione del suo disegno un’altra specie di attori, volle separar dal Coro una terza classe di cantori e {p. 104}ballerini per aggregarle ai semplici declamatoria. Ed acciocche tutto {p. 105}contribuisse all’illusione indispensabile per disporre gli animi alle commozioni che {p. 106}si vogliono eccitare, fe dipingere la scena, secondochè afferma Aristotile {p. 107}nella Poetica, probabilmente per {p. 108}mettere alla vista il luogo dell’azionea. Ebbe ancora l’accortezza di scerre argomenti adattati al talento e alla disposizione de’ suoi attori, giacchè egli per mancanza di voce non potè rappresentare, come facevano gli altri poeti, i quali per lo più recitavano nelle proprie favole. Sino alle cose più picciole distese Sofocle le sue osservazioni per {p. 109}far risplendere l’abilità di ciascuno; e perchè si vedessero in teatro brillare i piedi de’ ballerini, fe calzar loro certi calzari bianchi. Scrisse centodiciassette o centotrenta ed anche più tragedie, delle quali venti furono coronate; ma non ne sono a noi pervenute che sette, cioè Ajace, le Trachinie, Antigone, Elettra, Edipo re, Filottete, Edipo Coloneo, le quali dovunque fioriscono gli ottimi studii, divengono esemplari de’ più peregrini ingegni. Lo stile di Sofocle è talmente sublime, magnifico e degno della tragedia, che per caratterizzare la maestosa gravità di tal componimento, dopo Virgilio suol darsi al coturno l’aggiunto di Sofocleo. Nella di lui vita che Giovanni Lalamenti tradusse dal greco, dicesi che Sofocle esprime la venustà e la maestà Omerica. Cicerone per dire che taluno meditava qualche cosa sublime, dice, an pangis aliquid Sophocleum? Tale è poi l’aggiustatezza e la verisimilitudine che trionfa ne’ piani delle sue savole, che senza {p. 110}contrasto vien preferito a tutti i tragici per l’economia dell’azione.

Nell’Ajace detto flagellifero dalla sferza colla quale quest’eroe furioso percoteva il bestiame da lui creduto Ulisse e gli altri capi del campo Greco, tra molte bellezze generali e varii pregi della favola e de’ caratteri, si ammirino con ispezialità le tre seguenti bellissime scene: la situazione patetica di Ajace rivenuto dal suo furore col figliuolo Eurisace e colla sua sposa Tecmessa; la pittura naturalissima della disperazione di Ajace che si ammazza; ed il tragico quadro che presenta la troppo tarda venuta di Teucro ed il dolore di Tecmessa e del Coro allo spettacolo di Ajace ucciso. Oh quanto è vaga la natura ritratta da un gran pennello! Ma oh quanto si scarseggia di gran pennelli che sappiano mettere in opera i bei colori della natura agli antichi famigliari! Or perchè mai trascurarono di osservare simili scene ricche di bellezze inimitabili il Robortelli, il Nisieli ed altri nostri critici, per nulla {p. 111}dire de’ transalpini falsi belli-spiriti La-Mothe, d’Argens, Perrault, in vece di perdersi a censurarne ogni minimo neo nello sceneggiamento, e ogni leggera espressione che loro paresse bassa e grossolana, per non avere abbastanza riflettuto alla natura eroica di que’ tempi lontani che i tragici intesero di ritrarre? Il garrire degli eroi tanto da’ critici ripreso, era proprio de’ primi tempi della Greca nazione. I concetti sono figli de’ costumi, e le stesse passioni generali dell’uomo si modificano esteriormente sul genio delle razze e famiglie diverse. Ognuno può osservare nelle aringhe de’ Greci oratori con quali forti ingiurie l’uno contro l’altro essi si scagliassero nel Pritaneo a’ tempi di Filippo, di Alessandro ed anche di Cassandro. Or quello che i Greci profferivano ne’ tempi della loro maggior coltura, nè già nel solo teatro, ma dove gravemente decidevasi del destino della patria, ci dee far risalire sino al tempo eroico di Achille e di Ajace, e guarirci dal pregiudizio di giudicare dal {p. 112}decoro osservato ne’ moderni tempi di quello che convenisse a’ tragici Greci nel copiare Teseo ed Agamennone. Del rimanente nell’Ajace io non vedo nella contesa di Menelao e poi di Agamennone con Teucro e spezialmente in quella di Ulisse, tante villanie obbrobriose quante nel Paragone della Poesia Tragica ne rimprovera a Sofocle il conte Pietro di Calepio critico per altro assai saggio. In tutta la scena di Menelao e di Teucro trovo soltanto che quegli riprende nell’altro la soverchia baldanza, e questi di rimbalzo lo taccia di stoltezza; or dove sono gli obbrobrii esagerati? Più forte è la scena con Agamennone. Questi come re de’ re irritato per la resistenza di Teucro gli rinfaccia l’aver egli, che pur non è che un figlio di una cattiva, σὲ… τόν ὲκ της αιχμαλώτιδος, osato ricalcitrare agli ordini de’ supremi capitani. Lo chiama indi servo e barbaro di stirpe. Teucro mostra di esser nato di Telamone e di una regina, e si meraviglia come a lui {p. 113}favelli a quel modo Agamennone nipote del barbaro e Frigio Pelope, figlio di Atreo famoso per la scellerata cena e di Cressa colta con uno straniero. Dopo ciò arriva Ulisse, e cerca di placare Agamennone; nè in questa ultima scena trovansi punto le villanie decantate. Perchè dunque attribuire agli antichi i difetti che non hanno, oltre a quelli che hanno per essere stati i primi nell’arte? Perchè inventare nuovi errori? Non basta scoprire quelli che son veramente tali? Noi ultimi venuti possiamo dire nelle nostre poesie, barbaro, stolto, insano, vile, tralcio illegittimo di tronco oscuro ec. ec., nè Corneille, Crebillon, Voltaire, Metastasio, Zeno, vengono tacciati (nè debbono esserlo) come villani e plebei, ed il Calepio vuol riprendere severamente queste medesime cose in Sofoclea?

{p. 114}Si rappresenta nelle Trachinie la morte di Ercole avvenuta per lo dono funesto di Dejanira, nella quale con tutta verità e delicatezza si vede delineato il carattere di una moglie tenera e gelosa. Nell’atto quarto Ilo viene a riserire alla madre l’effetto del regalo fatale della veste inviata al padre nell’atto terzo. Ma Ilo l’ha egli stesso veduto nel promontorio Ceneo, ed è venuto a narrarlo in Trachinia. È mai {p. 115}naturale che egli avesse due volte valicato in tempo sì corto uno stretto di sessanta miglia italiane interposte da Ceneo a Trachinia? D’ altronde il giudizioso Sofocle avrebbe esposto agli occhi de’ Greci una inverisimilitudine sì manifesta, se il fatto non fosse sembrato comportabile per qualche circostanza allora nota ed oggi involta nel l’oscurità di tanti secoli, o se avesse creduto far cosa contraria al pensare de’ suoi compatriotti? Sommamente patetico in quest’atto è il silenzio del l’ingannata Dejanira alle accuse del siglio addolorato, silenzio eloquente artifizioso che sempre in Sofocle precede le disperazioni e i suicidii. Nel l’atto quinto trovasi quello squarcio maraviglioso che latinamente con eleganza tuttà sua tradusse Cicerone e che adorna il secondo libro delle Quistioni Tuscolane:

O multa dictu gravia, perpessu aspera etc.

del quale Ovidio nel nono delle Metamorfosi fece una bellissima {p. 116}imitazione. Tragica e degna del gran Sofocle è pure l’ultima scena.

Antigone conosciuta per moltissime traduzioni si aggira sugli onori della sepoltura che erano tanto a cuore del l’antichitàa prestati da Antigone al fratello Polinice mal grado del vigoroso {p. 117}divieto di Creonte. E notabile nel l’atto secondo la scena delle due sorelle Antigone ed Ismene, che disprezzando a competenza la morte accusano se stesse di aver trasgredita la legge. Questo contrasto tenero e generoso imito il gran Torquato nell’episodio di Olindo e Sofronia, e l’immortale Pietro Metastasio lo ravvivò con tutto il patetico di una passione grande e lo rendette più interessante nel Demofoonte, quando Timante e Dircea si disputano a gara la reità principale della seduzione nel vietato imeneo. Antigone n’è sepolta viva, Emone figliuolo del re che ama questa principessa, si ammazza, ed Furidice di lui madre che ne intende il racconto, istupidita dal dolore parte senza parlare, e si uccide come Dejanira. Questa patetica tragedia rappresentata con sommo applauso ben trentadue volte, fe decorare l’autore colla prefettura di Samo. Dove si conosce il pregio del l’arte, si premiano i talenti. In Groenlandia rimarrebbero inonorati e confusi tralla plebe, se vi capitassero, gli {p. 118}Archimedi, i Borrelli, i Galilei, i Newtona.

L’Elettra contiene lo stesso argomento delle Coefore di Eschilo maneggiato con esattezza maggiore. L’intermezzo, ossia canto del Coro del l’atto secondo, è congiunto alle querele di Elettra. La riconoscenza molto tenera fassì con più verisimilitudine di quello che avviene nelle tragedia del predecessore, per mezzo di un anello di Agamennone. Il dolore di Elettra in tutta l’azione si trova espresso a meraviglia, ed il di lei carattere ottimamente scolpito spicca con ispezialità nella scena con Crisotemi sua sorella. La moderazione di questa serve d’artifizioso contrasto col trasporto di Elettra. La scena di Elettra che piange Oreste tenendo l’urna delle di lui ceneri, si rappresentò una volta da Polo che sostenevane la parte, con tal vivacità e verità, secondo {p. 119}Aulo Gellio, che trasse dal l’uditor o copiose lagrime. Tutto concorre a rendere questa tragedia eccellente; un’ azione grande, terribile, patetica, ben condotta, unita, che tende con verisimiglianza al suo fine: caratteri veri e degnamente sostenuti, e senza distrazione di altre circostanze meno interessanti: passioni forti proprie del grande oggetto: locuzione sublime in tutte le sue parti. Con tutti questi pregi parrà forse, nè senza fondamento, troppo orribil cosa a’ moderni quel vedere due figli tramare ed eseguire l’ammazzamento di una madre tuttochè colpevole. Chi oggi non fremerebbe alle parole di Elettra che incoragisce Oreste a ferise, a replicare i colpi, παισον διπλῆν? La fatalità, l’oracolo discolpava il poeta presso i Greci; ma avrebbe Sofocle indebolito il terrore tragico, se avesse rilevato meglio il contrasto delle voci della natura colla necessità di obedire ad Apollo, che dovea fuor di dubbio in tal caso lacerare il cuore di Oreste? Eschilo nello stesso argomento gliene {p. 120}avea ben dato un bel l’esempio. Potrebbe osservarsi ancora che Sofocle rimane pure ad Eschilo inferiore, allorchè diminuisce l’attenzione del l’uditorio col far seguire la morte di Clitennestra prima di quella di Egisto, sembrando che se ne renda meno importante e men doloroso lo scioglimento.

L’Edipo re, o tiranno, come dice l’originalea, è la disperazione di tutti i tragici ed il modello principale di tutte l’età. Nulla di più tragico ha partorito la Grecia. Tutta la stupidità o il capriccio di certi pregiudicati incurabili moderni appena basta per ingannar se stessi sul merito di questo capo d’opera, e per supporre la tragedia ancora avvolta nelle fasce infantili nel tempo che si producevano simili componimenti che nulla hanno di mediocre. Torresti tu (diceva col solito {p. 121}discernimento Longinoa) diesser piuttosto Bacchilide che Pindaro, e nella tragediaJone Chio che Sofocle?… É chi sarà quegli che avendo fior di senno, messe tutte insieme le opere di Jone, al solo dramma del l’Edipo ardisca contrapporle? Certo niunob. Si apre sì bel componimento con uno spettacolo curioso e compassionevole. Vedesi in una gran piazza il real palagio di Edipo: alla porta di esso si osserva un altare, innanzi al quale si prostra un coro di vecchi e di fanciulli: si rileva dalle parole che in lontananza {p. 122}dovea vedersi il popolo afflitto radunato intorno ai due tempi di Pallade e al l’altare di Apollo. Nè ciò era troppo ne’ teatri Greci, la cui grandezza non può ravvisarsi in niuno de’ moderni, benchè alquanti assai vasti se ne contino. Dopo un contrasto di Edipo e Creonte, Giocasta nel l’atto terzo cercando di consolare il consorte con iscreditare le predizioni racconta come andò a voto un’ oracolo di Apollo, il quale presagiva che un di lei figlio dovea essere l’uccisore del padre; imperciocchè essendo stato il bambino esposto sul monte Citero, il padre cadde per altra mano, avendolo ucciso alcuni ladroni in un trivio. Questo trivio ricordato e descritto con esattezza presta al l’azione un calore e un movimento inaspettato rammentando al re la morte da lui data a un vecchio in un luogo simile, e a misura che vansi i fatti rischiarando la favola diviene interessante. Vuolsi osservare come qui Giocasta si studia di torre ogni credito agli oracoli; e nel l’atto quarto Edipo al l’udir che Polibo {p. 123}suo creduto padre è morto in Corinto ne deduce per conseguenza l’inutilità di consultare l’oracolo di Apollo. Ma frattanto nel rimanente della tragedia si dimostra appunto la falsità del raziocinio di que’ due spiriti-forti, e si accreditano col fatto le divine risposte, stabilendosi l’infallibilità di Apollo e l’insuperabile forza del fato, quella forza che è il gran perno su cui si aggira il tragico teatro Greco. Che riconoscenza poi mirabilmente condotta per tutte le circostanze nel l’atto quarto, e di qual veramente tragica catastrofe produttrice! Aristotile quel gran conoscitore n’era incantato con troppa ragione. Giocasta cui le parole del messaggiero non lasciano più dubbio alcuno del l’essere di Edipo, in se stessa riconcentrata e piena del proprio dolore dovette apparire agli spettatori Ateniesi intelligenti e sensibili un oggetto sommamente compassionevole. Ella giusta la maniera di Sofocle esprime col silenzio l’intensità della sua pena ed il funesto disegno che indi a poco eseguisce. E quì si vede {p. 124}il patetico eloquente silenzio partorir tutto l’effetto teatrale invano cercato dai declamatori e ragionatori moderni. Edipo sicuro di essere egli quel figlio colpevole additato dal l’oracolo, chiude con passione ed energia tutte le sue sventure in queste brevi querele:

Terribile destino, ecco una volta
Tutti svelati i tuoi decreti! Io nato
Son di cui non dovea: ho un letto offeso
Cui d’innalzar anco un pensier fugace
Era scelleratezza: il giorno ho tolto
A chi mi diè la vita. O Sol fia questa
L’ultima volta che i tuoi raggi io miria

{p. 125}Ma quanto è tragico e spaventevole nel l’atto quinto il racconto della morte di Giocasta e del l’acciecamento di Edipo! Che spettacolo Edipo accecato! In quest’atto si trova il bel passo ammirato e citato da Longino che il Giustiniani ha così tradotto nella sua vivace elegante versione del l’Edipo:

O nozze, o nozze
Voi me quì generaste, e generate
Poscia, o sceleratezza! ritornaste
Nel ventre de la madre il seme istesso
{p. 126}
Concependo di lui parti nefandi.
Fratelli, padre e figli produceste
D’ un sangue istesso, e d’un istesso ventre
E nuore e mogli e madri, in un mischiando
Tutto ciò che più turpe e più nefando
Tra’ mortali si stima.

In questi versi si vede egregiamente espresso quell’ἀίμʹ εμφύλιον, sanguinem cognatum, che il dottissimo Brumoy desiderava nella per altro elegante traduzione di questo passo fatta da Niccolò Boileau. Lacera finalmente tutti i cuori che non ignorano la potenza della sensibilità, la preghiera di Edipo ridotto in sì misero stato per abbracciar le figliuole, e quando brancolando va loro incontro chiamandosi ora di loro fratello ora padre,

Figlie, ove sete, o figlie?
Stendete pur le braccia al l’infelice
Vostro… fratello. Non fuggite, o care,
{p. 127}
Queste man che dagli occhi a vostro padre
Trasser la luce,

e quando le abbraccia, e non sa separarsene; tutte situazioni appassionate ottimamente dipinte. Il Coro conchiude la tragedia colla sentenza di Solone. Tutti i Cori del l’Edipo esprimono al vivo la sublimità dello stile di Sofocle, e si veggono mirabilmente accomodati alle particolarità del l’azione, nella qual cosa Sofocle riescì più di ogni altro tragico, Qualche altro frammento di quello del l’atto primo della versione elegante del lodato Giustiniani mostrerà alla gioventù studiosa l’arte di Sofocle ne’ canti de’ cori. Invocato Giove, Minerva, Diana ed Apollo, si passa alla descrizione de’ mali di Tebe in tal guisa:

Giace dal morbo afflitto il popol tutto,
Ne so donde io m’impetri
O soccorso o consiglio,
Già de li frutti suoi ricca e cortese
{p. 128}
La terra or nulla rende,
Nè resister possendo
Cadon da morte oppresse
Le femmine dolenti
Ne l’angosce del parto,
Come spessa d’augel veloce torma
Fende l’aria volando.
Tal da li corpi un sopra l’altro estinti
In largo e folto stuolo,
Più che il foco leggere
Fuggon l’alme di Stige ai tristi liti.
Ma l’infinita turba abbandonata
Da la pietade altrui
A cruda morte giunta,
Priva de l’altrui pianto,
Sopra il nudo terren giace insepolta
E le tenere spose
E le madri canute
L’una de l’altra a canto
Piangon supplici e meste i lorò mali ec.

Non poteva Sofocle esser da miglior {p. 129}penna trasportato in italiano. Simili traduzioni animate, fedeli, armoniose de’ nostri cinquecentisti fanno vedere quanto essi intendevano oltre il vano suono delle parole, e come ben sapevano recare con eleganza lo spirito poetico nella natia favella. Non so adunque come il calabro avvocato Mattei affermi nella mentovata dissertazione (alla pagina 210) che i nostri antichi traevano da quelle miniere (de’ tragici Greci)solo il piombo, e lasciavano l’oro. E ne sono sempre più maravigliato in leggendo poco dopo (nella pagina 218) che dalla Greca tragedia aveano i Francesi e gl’Italiani con felice successo preso ed unito insieme tutto il bello. Di grazia, sig. Mattei, intendiamoci bene, gl’Italiani hanno da’ Greci preso con felice successo tutto il bello, o hanno tratto dalle loro miniere tutto il piombo e lasciato l’oro?

Egli è un altro capo d’opera del l’antichità Filottete, le cui saette fatali conducono in Lenno Ulisse e {p. 130}Neottolemo, perchè richiedevansi indispensabilmente alla caduta di Troja. Filottete è il più compiuto esemplare della inimitabile semplicità della tragedia antica, e della costante regolarità ed aggiustatezza di Sofocle nel l’economia del l’azione. Tutto in tal favola è grande e sino al fine sostenuto da un interesse ben condotto; tutto tende con energia al suo scopo. Dipinto a maraviglia è il carattere di Neottolemo. I moderni non vedrebbero con piacere sulle scene Filottete zoppicante e disteso nel l’atto II colle convulsioni: ma egli si mostrava in questo stato senza sconcezza sul teatro della dotta Atene. E ciò ne dimostra che certo sublime idropico e romanzesco, e che io chiamo di convenzione teatrale, perderebbe affatto il credito anche sulle moderne scene a fronte delle patetiche situazioni naturali, purchè vi fossero introdotte con garbo da un ingegno sagace che sapesse renderle, sulle vestigia di Sofocle, tragiche e grandi. Può {p. 131}osservarsi in questa favola che i Cori del primo e del terzo atto sembrano più parlanti del secondo, il che trovandosi ancora in altre può valer di pruova che non sempre terminavano gli atti con un canto corale e sommamente lontano dalla declamazione del rimanente. Il coro del quarto è accoppiato ai lamenti di Filottete, i quali pajono una spezie di recitativo moderno obbligato, o vogliam dire accompagnato dagli stromenti. La prima scena del l’atto quinto è molto vivace pel vago contrasto della virtù di Neottolemo colla politica di Ulisse. Piacemi che il soprallodato conte Pietro da Calepio osservi che sia figura lirica l’apostrofe di Filottete al proprio arco ed al fragore del mare che sentiva stando nel l’antro di Lenno. Ma sì lieve neo, se vogliasi tale, non meritava di esser tanto esagerato in una tragedia che gli presenteva molte bellezze da esercitare il gusto e l’erudizione di chiunque e da ammaestrare la gioventù. La tragedia termina per macchina col l’apparizione di Ercole, pel cui {p. 132}comando Filottete accompagna Neottolemo a Trojaa.

L’Edipo Coloneo, o sia a Colona patria di Sofocle, contiene la venuta di Edipo cieco in Atene, fuggendo la persecuzione di Creonte re di Tebe. Egli si ritira colle figlie nel tempio delle Venerabili Dive, cioè delle Furie, la cui memoria di tanto orrore colmava i Greci, che non ardivano quasi mai mentovarle col loro vero nome, e per antifrasi le appellavano Eumenidi, cioè benevole, benigne da εὑμενέώ, benevolus sum. Il coro istruisce Edipo delle cerimonie praticate ne’ sacrifizii che facevansi al l’Eumenidi, affinchè questo forestiere e le di lui figlie rifuggite al loro tempio non incorressero in qualche errore nel venerarle. Or perchè quest’opportuno episodio parve tanto fuor di luogo e ozioso a Pietro da Calepio? Edipo avendo implorata {p. 133}la protezione di Teseo, secondo l’oracolo, va a morire in un luogo a tutti ignoto. Fra questa tragedia e le Supplici di Eschilo scorgesi qualche conformità riguardo al piano. Sofocle decrepito poco prima di morire fu da Jofante suo figliuolo chiamato in giudizio e accusato di fatuità; ed il poeta, per convincere i giudici della falsità del l’accusa, presentò e lesse loro l’Edipo Coloneo da lui scritto in età tanto avanzata; ed essendone stato ammirato rimase egli assoluto, e l’accusatore stesso dichiarato insanoa. Questo gran tragico, secondo Luciano nel catalogo de’ Macrobii, morì strangolato con un grano di uva di anni novantacinque. Egli fu decorato, come si è detto, colla prefettura di Samo e col l’onorevole grado di Arconte della Repubblica. Militò pure da capitano in compagnia di Pericle nella guerra che fecero gli Ateniesi contro quelli di Samo nel terzo o quarto anno del l’olimpiade LXXXIV.

{p. 134}

CAPO IX.

Teatro di Euripide. §

Era Sofocle già vecchio, quando Euripide lasciata la palestra degli Atleti, tutto si dedicò alla poesia tragica, e di anni diciotto osò metter fuori la prima sua tragedia. Ardua impresa per sì pochi anni gareggiare colla rinomanza di un Sofocle. Pure quali ostacoli non vince l’attività, l’ingegno e lo studio? Egli vi si accinse con alacrità e coraggio, vi si accinse con tutti i soccorsi onde i frutti poetici si stagionano per l’immortalità, avendo appresa da Prodico l’eloquenza, e da Anassagora le scienze fisiche, e vi si accinse con quella indefessa attenzione indispensabile per disviluppar l’ingegno e rintracciar le vere bellezze di ogni genere. Egli per natura malinconico ed avverso alla mollezza cercò negli orrori e nel silenzio di una caverna nel l’isola {p. 135}di Salaminaa tutto l’agio per insinuarsi negli avvolgimenti segreti del cuore umano, e per istudiare a dipignere al vivo le passioni. Con tali mezzi pervenne a saper meglio di ogni altro l’arte di parlare al cuore, e di rapire gli animi maneggiando un patetico sommamente dilicato nè più usato sulle scene Ateniesi, per cui Aristotile davagli il titolo di Τραγικωτατος, tragico in supremo grado. Certo il suo stile si distingue da quello de’ predecessori per l’arte mirabile di animare col più vivace colorito tutti gli affetti e quelli spezialmente che appartengono alla compassione. Euripide (dice Longino) è veramente assai industrioso in esprimere tragicamente il furore e l’amore, nelle quali passiani riesce felicissimo. La frequenza e la gravità delle sentenze, e una ricchezza filosofica ne caratterizzano lo stile; di modo che i Greci l’appellavano filosofo tragico, e davano alla sua filosofia l’aggiunto di {p. 136}coturnata. Si appressa, secondo Quintiliano, al genere oratorio con tale riuscita che a niuno de’ più eloquenti rimane inferiore. É perciò che non meno Demostene che Cicerone, grandissimi oratori del l’antichità, col l’esercitarsi nello studio delle tragedie di Euripide, pervennero al colmo nel l’arte loro; per la qual cosa Gian Vincenzo Gravina nella Ragion Poetica chiama le tragedie di Euripide vera scuola di eloquenza. Egli è non per tanto per questa medesima ragione che si allontana talvolta dal vero dialogo drammatico. Gli s’imputa altresì, nè senza fondamento, da Aristotile nella Poetica, un poco di negligenza nel condurre e disporre le sue favole; ciocchè pruova ch’egli poneva più cura a ritrarre la natura che a consigliarsi col l’arte. Secondo alcuni egli scrisse settantacinque tragedie; ma contando le diciannove intere che ne rimangono e i frammenti di molte altre raccolti nella bella edizione del Barnes, si può con altri asserire con più ragione che ne {p. 137}componesse fino a novantadue, otto delle quali erano favole satiriche. Gli Ateniesi le accolsero sempre con avidità ed applauso, e la posterità più sagace le ha successivamente ammirate; ma nel certame drammatico cinque sole di esse riportarono la corona, e nelle altre egli soggiacque alla sventura de’ valentuomini per lo più posposti a’ competitori ignoranti ma raggiratori. Tale era Senocle (figlio del tragico Carcino anteriore ad Euripide) che più di una volta venne a lui preferito da’ giudici, al dir di Eliano, sciocchi o subornati.

Le tragedie che ne abbiamo intere sono: Elettra, Oreste, Ifigenia in Aulide, Ifigenia in Tauri, Elena, Alcestide, Ippolito coronato, Ecuba, Andromaca, le Trojane, Reso, Medea, le Fenisse, le Supplici, gli Eraclidi, Ercole furioso, Jone, le Baccanti, il Ciclope. Per mettere con chiarezza sotto gli occhi quanto stimava necessario per intelligenza della favolà, egli fece uso del prologo, là dove Sofocle con miglior consiglio senza {p. 138}prologo esponeva a meraviglia lo stato del l’azione.

Nel l’Elettra appunto per l’introduzione rimane Euripide a Sofocle inferiore. Egli nella riconoscenza di Oreste e della sorella perderebbe anche al confronto di Eschito per cagione della vivacità che in questo è maggiore; ma quella immaginata da Euripide la supera in verisimiglianza, avvenendo con molta proprietà per mezzo del l’ajo di Oreste e per una cicatrice che questi avea sulla fronte sin dalla fanciullezza. Sofocle però vince in tal riconoscenza e l’uno e l’altro per l’effetto che produce in teatro; perocchè Oreste creduto morto che si trova inaspettatamente vivo, apporta la rivoluzione della fortuna di Elettra, e la fa passare da un sommo dolore ad una somma gioja. Il carattere di Elettra da Euripide vedesi dipinto molto più feroce e veemente che dagli altri due tragici. Elettra si prende da se stessa la cura di uccidere la madre, e manifesta l’artifizio con cui pensa di trarla nella rete, {p. 139}disegno e fierezza atroce in una figlia, che nè anche è mitigato dalle savie prevenzioni che osservammo in Eschilo. Maqual è mai l’artifizio di Elettra? Chiamar Clitennestra nella propria casa perchè l’assista nel finto parto imminente. Era però verisimile che una madre la quale lasciavala perire nel l’indigenza, volesse appunto in quella occasione ripigliare la materna tenerezza? Tuttavolta il poeta fa che Clitennestra vada per tal menzogna a trovar la figliuola; ma quando? quando già era stato da Oreste ucciso Egisto in un solenne sacrifizio. Un fatto di tanta importanza avvenuto pubblicamente poteva ignorarsi con verisimilitudine dalla regina? Malgrado però di simili negligenze, che noi schiettamente rileviamo, ma senza il fiele de’ nemici del l’antichità, la tragedia di Euripide ci sembra piena di moto e di calore; i costumi vi si veggono vivacemente coloriti, e le passioni vi sono espresse con grande energia.

L’Oreste, una delle di lui tragedie coronate, seguita la materia del l’ {p. 140}Elettra. Egli non solo è perseguitato dalle Furie vendicatrici, ma è vicino ad esser punito per l’uccisione della madre. Si legge nel l’atto primo un breve dialogo di Elena e di Elettra sua nipote, le quali si motteggiano in una maniera poco conveniente al tragico decoro. Nel terzo si dipinge l’Assemblea Argiva, la quale par che alluda al l’Areopago di Atene, e vi si satireggiano di passaggio alcuni oratori contemporanei del poeta, circostanza per noi perduta ma importante per chi allora ascoltava. Vi si osservano da per tutto tratti assai popolari, quasi comici, e lontani di molto dal gusto moderno. Ma la scena di Elettra con Oreste nel l’atto quarto sommamente tenera merita di essere ammirata come degna di sì gran tragico. Vaga parimente è l’amichevole contesa di Pilade e di Oreste.

Ifigenia in Aulide è uno degli argomenti da Euripide maneggiati con forza e bellezza particolare. Vi trionfa per ogni parte la meravigliosa sua maestria nel trattar gli affetti che destano {p. 141}compassione. Chi ha giudizio gusto e sensibilità noterà il dilicato contrasto che fanno nel l’atto terzo le innocenti naturali domande d’Ifigenia, e le risposte equivoche e patetiche di Agamennone, la di lei sincera gioja nel l’abbracciare il padre, ed il profondo dolore di costui nascosto sotto l’esteriore serenità e allegrezza forzataa. Voglionsi appunto osservar negli antichi questi bei tratti per ravvisarne l’alto ingegno e la maestria, e non già le macchiette d’irregolarità e qualche accidentale espressione poco pensata. È questo il fuoco elettrico rinchiuso nelle loro opere, il quale non iscintilla perchi non lo cura o non sa l’arte di farlo {p. 142}scappar fuori. Lo compiango coloro che ne giudicano con questo entimema: le nostre principesse non fanno così, dunque gli antichi offendono il decoro. l’azione di questa tragedia acquista dal principio del l’atto quarto gran calore e movimento per l’avviso dato dallo schiavo a Clitennestra e ad Achille. Vigorosa è qui la declamazione della regina, ed il discorso d’Ifigenia tenero e patetico è sostenuto da un vivo continuo interesse, benchè cominci con una specie di rettorico esordio, augurandosi ella l’eloquenza di Orfeo e l’arte ond’egli seppe costringere i sassi a seguitarlo. Lodovico Dolce ha mitigato in parte quel cominciamento: ma la sua versione, benchè per più riguardi degna di lode, riesce quasi sempre languida e snervata, perchè al traduttore mancava molto del calore che riscaldava l’immaginazione del tragico Greco. Se Agamennone dovea piegarsi e cangiar consiglio, per questo bellissimo discerso il dovea, nel quale la figliuola gli mette innanzi le più tenere {p. 143}memorie. Eccone una parte adombrata comunque siesi dalla seguente mia traduzione, che gli studiosi s’ingegneranno confrontare coll’originale:

Poichè altro non poss’io, vedi il mio pianto,
Vedimi a’ piedi tuoi. Deh padre amato
Non far che acerba senza colpa io pera.
Dolce è la vita, i rai del dì son dolci.
Guardami, caro padre, io quella sono,
Che a profferir di padre il dolce nome
Primiera appresi, quella a cui tu prima
Figlia dicesti; guardami, son io.
Me nel tuo grembo pria d’ogni altro assisa
Scherzar vedesti, e a me dicesti allora:
Deh quando fia che a nobile consorte
E di me degno e di fortuna amico
{p. 144}
Ti vegga unita trarre i dì felici?
No, caro padre (io ti dicea pendendo
Da le tue guance ch’oggi ancora io tocco)
Non fia mai ver che in vecchia età ti lasci.
No, no, teco io vivrò: tu mi nutristi,
Io curerò di te finchè avrò fiato,
Oimè! de’ nostri detti io mi sovvengo,
Tu l’obbliasti, e vuoi ch’estinta io cada?

Segue ella sempre con egual vigore a pregare il padre, ricercandogli in mille guise le vie del cuore; ma nulla ottiene. Alfine Agamennone benchè addolorato risolutamente le dice, κάν θέλω, κάν μη θέλω, voglia io o non voglia, non per Menelao, ma per la Grecia tutta son costretto a sacrificarti. Partito il re, l’espressione d’Ifigenia è degna di notarsi. La madre ha detto, ah figlia, ah madre sventurata per cagione della tua morte; ed ella ripiglia, la {p. 145}medesima misura di versi conviene allo stato mio, ovvero, come traduce il p. Carmeli,

Ahi sventurata anch’io,
Poichè lo stesso carme
Per la sciagura d’ambe
A noi convien.

Soggiugne a ciò l’erudito Brumoy: l’autore dee mai mostrarsi inteso di parlare in versi? Ma l’espressione greca è figurata, e ve ne ha delle simili altrove. Euripide stesso dice nel l’Ecuba, incomincio il canto delle baccanti, cioè prorompo in querele da forsennata. Non debbesi adunque l’espressione d’Ifigenia tradurre letteralmente per la stessa misura di versi, ma sì bene per Io medesimo lamento, come ben fece il Dolce,

Madre, misera madre.
Poscia che questa voce.
Di misero e infelice
Ad ambedue conviene.

Nuovo movimento acquista l’azione nella scena delle donne con Achille, ed il patetico delle preghiere di {p. 146}Clitennestra, e la pietà che ne mostra quel l’eroe, si converte in ammirazione per lo cangiamento d’Ifigenia. Ella durando il loro dialogo dovette mostrarsi sospesa e agitata da varii pensieri sulle conseguenze della difesa che di lei vuol prendere Achille. Una muta rappresentazione sommamente eloquente non veduta da’ semplici gramatici, e da freddi traduttori o critici, a’ quali fa uopo che sieno materialmente siffatte cose accennate in note marginali, dovette allora far comparire nel volto d’Ifigenia la riflessione del pubblico interesse, che a lei sopravvenne e si contrappose al primo terror della morte. Or questo salva il poeta dalla pedantesca censura del l’ineguaglianza di carattere d’Ifigenia, la quale alla prima piange e prega per sottrarsi alla morte, e poi si offre vittima volontaria del pubblico bene per acquistare, giusta la traduzione del Dolce,

Ne’ secoli futuri onore e gloria.

Un’ altra apparente opposizione sogliono fare i poco esperti al carattere {p. 147}di Achille, per essersi prima mostrato tutto fervoroso a difenderla, e per soffrirne poi pacificamente il sacrifizio senza nulla tentare in di lei prò. Achille avea promesso di salvarla dalla violenza; ma quando ella si offre di buon grado alla morte, secondo i principii della religione pagana, non gli era lecito più di liberarnela senza esser sacrilego, e quindi desiste dalla promessa difesa. Segue a ciò una scena assai patetica, in cui Ifigenia rassegnata a morire prende congedo dalla madre che le và rammentando i suoi più cari. Finalmente con somma perizia de’ moti del cuore umano questo grande ingegno mostra l’immenso dolore del padre più eloquente di quello che avrebbero fatto i moderni declamatori teatrali. Il Dolce così l’espresse:

Poichè fu l’innocente al loco giunta,
Dove i Greci facean larga corona
Al nostro re, come venir la vide,
Benchè fuori di tempo e troppo tardi,
{p. 148}
Da paterna pietà gelossi il sangue,
E la pallida faccia addietro volse,
Indi col manto si coperse il volto.

Timante quel Greco pittore tanto vantato da Cicerone trasportò nel suo famoso quadro questa felice situazione. Volle ancora il celebre Racine conservarla nella sua Ifigenia. Ma egli rappresenta un’ armata divisa in due partiti pronti ad azzuffarsi, uno de’ quali è retto dal l’iracondo Achille. Ora in tal congiontura la situazione dì Agamennone che si copre il volto, è perduta, e parer debbe men bella e men propria. Essa ci fa vedere un Generale pieno del suo privato dolore, che si ricorda di esser padre e s’ indebolisce in sì pericolosa occasione. Sembra anche una contraddizione del di lui carattere, perchè da per tutto si è dimostrato più ambizioso che tenero, e per ritenere il comando ed il titolo di re de’ re era condisceso a sacrificar la figliuola. Si osservi come in varie scene e ne’ cori Euripide si vale di una misura di {p. 149}versi più corta come più idonea ad esprimere il dolore; e Lodovico Dolce ha seguitato in ciò l’originale, come pur ha fatto il p. Carmeli. Non è improbabile che gli atti di questa tragedia sieno sei, e che il quinto termini dopo la tenera scena del l’ultimo addio della madre e d’Ifigenia, colle parole che questa dice alle fanciulle perchè cantino in onore di Diana nella sua disgrazia. Non si vede però allora eseguito questo canto, e pare che vi manchi il coro. In tal caso l’atto sesto comincerebbe dalla nuova uscita d’Ifigenia Ἆγετε με, conducetemi; o pure terminerebbe il quinto col coro Ἰώ Ἰώ ιδεστε, ahi! ahi! vedete, ed il sesto conterebbe il racconto che fa il Nunzio a Clitennestra e la venuta d’Agamennone che lo conferma. Il Carmeli conservando la divisione in cinque atti non solo racchiude nel quinto soverchie cose, ma lascia pochissimi versi cantati dal coro fral l’incamminarsi d’Ifigenia al sacrifizio e la venuta del Nunzio che racconta l’avventura già seguita, per la {p. 150}quale manca il tempo che dovea correre verisimilmente per tante cose narratea.

Ifigenia in Tauride rappresenta la riconoscenza di Oreste colla sorella sul punto di esser da lei come sacerdotessa sacrificato, e la fuga che eseguiscono secoloro menandone la statua di Diana Taurica. È da notarsi in tal tragedia la tenera scena di amicizia tra Pilade ed Oreste, colla quale termina l’atto terzo senza Coro. Maneggiata poi con gran delicatezza e giudizio è la bellissima riconoscenza per mezzo della lettera che Ifigenia pensa di mandare in Grecia ad Oreste. Fra quante agnizioni si sono esposte sulla scena, questa ad Aristotile parve una delle {p. 151}eccellenti, ed a noi parimente pare la più verisimile, la più vivace e la più acconcia a chiamare l’attenzione del l’uditorio, e a tenerlo sospeso. Osserviamo in questa favola che dopo la scena d’Ifigenia e Toante, il Coro canta solo nella scena quarta del l’atto quinto, Celebriamo le lodi di Febo e di Diana. Or non sarebbe questo il finale di un atto? Allora potrebbe la tragedia dividersi in quattro atti così: il primo composto del primo e del secondo della prima divisione terminerebbe col canto del Coro, O rupi Cianee che congiungete i mari; il secondo conterrebbe il terzo, ed il quarto terminando col Coro che incomincia, Tenero augelletto che errando vai; il terzo terminerebbe col Coro sopraccennato della quarta scena del l’atto quinto; ed il quarto comincerebbe dalla scena quinta. Ma la divisione degli atti non mi sembra la cosa più essenziale per conoscere l’eccellenza degli antichi tragici. E che importa che una situazione ben dipinta si collochi più in uno che {p. 152}in altro atto, purchè sia ben preparata, e se ne comprenda tutta l’arte e la vaghezza? Egli è vero che il traduttor de’ Salmi il degno autor delle Probole, il sig. Mattei stima tal divisione così importante che al suo dire niuno Europeo ha capito ancora che cosa sieno le tragedie greche, perchè niuno, a suo credere, le ha ancora ben divise. Ma questo enfatico cicaleccio oggi fa poca fortuna, e suol compararsi alle precauzioni che prendevano i sacerdoti gentili per accreditare i loro responsi e venderli per oracoli celesti.

Nella tragedia intitolata Elena si tratta di Elena virtuosa in Egitto, secondo ciò che nel secondo libro delle sue istorie ne racconta Erodoto. Vi si maneggia la fuga di Menelao con quest’ Elena ingannando astutamente Teoclimene che n’era innamorato. Per la disposizione sembra questo dramma gettato nella stampa del l’Ifigenia in Tauride; ma a mio giudizio cede a questa assai in patetico, in moto, in nobiltà e in interesse.

{p. 153}Nel l’Alcestide che si offre vittima volontaria alla morte in cambio di Admeto suo marito, desidererei che gli stupidi biasimatori degli antichi leggessero attentamente l’atto secondo per impararvi a dipignere la natura con forza e vivacità. Alcestide moribonda, e poi senza vita, i suoi figli, il marito, il Coro, formano un quadro così compassionevole che farà cader la penna dalla mano a chi oggi voglia esercitarsi nella poesia tragica. Il contrasto però di Admeto col padre, e i rimproveri ch’egli fa a quel povero vecchio, cui non è bastato l’animo di morire in vece del figlio, potevano forse tollerarsi presso i Greci; ma fra noi sembreranno sempre ingiusti, inurbani, e in niun modo tragici. Non per tanto si dee riflettere che Euripide era un gran maestro, nè avrà egli presentato a’ suoi compatriotti una cosa che potesse contradire ai loro costumi e alle passioni dominanti di que’ tempi. Certo è che la ripugnanza di morir per un altro, che mostra l’istesso padre di Admeto, fa {p. 154}trionfare sempre più l’amor conjugale di Alcestide.

Ippolito coronato produsse al poeta la corona tragica sotto l’Arconte Epamenone nel terzo anno della guerra del Peloponneso, avendo Euripide trentacinque anni. Contiene la morte d’Ippolito per la falsa accusa di Fedra sua madrigna ed amante. S’ inganna però chi crede che si dicesse coronato (Στεφανηφορος) dalla corona riportata dal poeta. Altre favole conseguirono la corona teatrale ne’ giuochi Olimpici o in Atene, e niuna si vede che ne avesse tratto il nome di coronata. Ippolito dopo il prologo viene in teatro con una corona in testa che indi offerisce a Diana, e per questa corona che egli porta, ricevè quel l’aggiunto; della stessa maniera che l’Ajace di Sofocle s’intitolò Μαστιγοφορος per la sferza ch’egli portava in iscena. Nel l’atto primo partito Ippolito resta solo il Coro e si trattiene sullo stato di Fedra; or non potrebbe esser questa la fine di un atto? Ma vi è attaccata anche la scena {p. 155}di Fedra la quale naturalmente par congiunta colla prima del l’atto secondo. Quella felice distrazione di Fedra egregiamente dipinta da Giovanni Racine, Dieu que ne puis-je assise, è una bellezza originale di Euripide. Fedra in mezzo alle donne del Coro, assistita dalla nutrice, piena della propria passione, distratta, fuori di se, secondo la mia versione, favella in Euripide in tal guisa:

Fedra

Ah perchè non poss’io spegner la sete
Nel l’onda pura di solingo rio?
Perchè sul verde prato al rezzo assisa
I miei mali ingannar non mi è concesso?

Nutrice

Che mai ragioni, o mia Regina? Ah pensa
Chi t’ascolta, ove sei. Scopron que’ detti
Le tempeste del cuore,
Della mente i delirj.
{p. 156}

Fedra

Al monte al monte.
Seguiam la traccia de’ fugaci cervi.
Giova aizzare il cacciatore alano
Col grido eccitator. Tessalo dardo
Brandir, lanciar ver la tremante preda.

Nutrice

Deh ritorna in te stessa: in quai ti perdi
Vani pensieri! Oimè, cacce, foreste,
Ombre, ruscelli… A queste torri appresso
Limpidi fonti non vi sono e piante?

Fedra

Dive di Linna, a presedere elette
A l’esercizio de’ corsieri ardenti,
Deh perchè non poss’io con questa mano
Generoso destrier domare al corso?

Nutrice

Ma, Principessa, ancor vaneggi? I cervi
Ora inseguivi per le alpestri rupi,
{p. 157}
Or domi al piano un corridore? Un dio

Fedra

Misera me! Che parlo? Ove son io?
La ragion m’abbandona, è vero! Un nume
Avverso e crudo me la toglie! Ah sono
Pur sventurata! Ti avvicina, amica,
Ricomponi i miei veli onde mi avvolga.
Di me stessa ho rossor; coprimi, dico,
Nascondi agli occhi altrui questo che il volto
M’inonda e bagna involontario pianto.
Sento che avvampo di vergogna. O cruda
E pur cara follia! L’error mi piace,
La ragion mi contrista. Ah cedi al fato,
Cedi, meschina, al tuo delirio, e mori.

{p. 158}La scena del l’atto secondo, in cui Fedra manifesta alla Nutrice la cagione del suo male, fu ancora trasportata quasi interamente dal Racine nella sua tragedia, a riserba di uno squarcio molto delicato, in cui Fedra risponde alle istanze della Nutrice:

Ah prevenirmi perchè mai non puoi?
Perchè non dir tu stessa
Ciò che forza è scoprire?

Per altro l’illustre tragico francese score più rapido e con maggior nerbo, nè si ferma come fa Euripide a far dire da Fedra alla Nutrice, sai tu che mai sia una certa cosa che si chiama amore? e giudiziosamente si appiglia subito a quelle parole, conosci tu il figlio del l’Amazone? Anche la scena di Teseo ed Ippolito del l’atto quarto è stata dal Racine copiata maestrevolmente; ma la greca riesce più tragica e importante per lo spettacolo di Fedra morta. Racine in somma si è approfittato da grande ingegno ch’egli era, della tragedia greca; ma avendo preso {p. 159}un cammino alquanto differente, ne ha dovuto perdere non poche bellezze, come il dolore di Teseo per la morte di Fedra, e la tragica scena d’Ippolito moribondo. Il racconto della di lui morte è vagamente ornato ma con sobrietà e naturalezza nel Greco, e soverchio pomposo e poetico nel tragico Francese. Osserva il lodato Brumoy che al l’incontro del mostro il poeta Greco pieno del terrore che ne presero i cavalli, non presta ad Ippolito altro pensiero se non se quello di governarli. Seneca gli diede maggior coraggio facendolo disporre ad assalire il mostro. Racine passa più oltre, e fa che arrivi a lanciare un dardo che lo ferisce. Nel che (soggiugne quel l’erudito)si scorge il progresso della mente umana che tende sempre alla perfezione. Lo ardisco dissentire dal di lui avviso. Ognuno de’ tre potrebbe trovare qualche partigiano che ne approvi l’immagine che rappresenta; ma il Greco a me sembra assai più internato nella verità del l’orribil caso. E questo ne {p. 160}addita lo spirito de’ Greci ognora intento a copiare con esattezza la natura e lo spirito de’ moderni propenso a spingerla oltre, a manierarla, a preferire al vero lo specioso. Questo confronto degli autori antichi e moderni in un medesimo argomento è il vero modo di pesarne il merito rispettivo, e di studiare nel tempo stesso l’arte drammatica con fondamento. In simil guisa si rileva l’artificio usato da diversi scrittori nel maneggiare le passioni, materia essenziale della poesia drammatica che non varia per tempo nè per luogo. Il tacciar quelli o questi per le maniere, per un decoro locale, variabile e incostante, al pari della moda (siccome fanno certi critici moderni) è un far la guerra agli accidenti e sfuggire la sostanza della contesa, è un volere allucinar volontariamente se stessi e chi loro crede. Di grazia quando anche accorderemo a Udeno Nisieli, a Pietro da Calepio e ad ogni altro che Ippolito trafitto dalla sventura che soffre immeritamente, sia trascorso in una {p. 161}espressione che sente alcun poco d’irreligione verso gli dei, che cosa avremo appreso de’ pregi inimitabili di questa bella tragedia? I giovani non ne sapranno se non che un neo forse in parte scusabile per la veemenza della passione che rare volte lascia al l’uomo tutto l’uso della sua ragione. E forse da queste critiche esagerate su i difetti più che su i pregi degli antichi proviene la moderna non curanza delle favole greche, e l’idolatria per le romanzesche degli ultimi tempi.

Con altro disegno leggeva i Greci il saggio Racine, e ne ritrasse il vantaggio di rendersi superiore a tanti e tanti tragici. Con altra ammirazione e imparzialità giudicano de’ Greci i veri dotti e i critici profondi. Rechiamo l’eccellente parallelo fatto dal l’ab. Le Batteux del l’Ippolito di Euripide e della Fedra del Racine. Egli osserva in generale che la tragedia francese è più complicata, più involta in vicende, in intrecci, in episodii, che la greca. Essa ha più parti, e queste hanno {p. 162}bisogno di maggior arte per conciliarsi insieme, e quindi riesce più difficile il formarne un tutto naturale. Vi entra maggior numero di passioni, alcune delle quali punto non sono tragiche. L’anima di chi si trattiene negli spettacoli moderni è così sovente sollevata dall’ammirazione e dal l’entusiasmo che abbattuta dal terrore e dalla pietà; sente in somma la sua forza mentre indi a poco si accorge della sua debolezza. Non è così della tragedia greca, la quale sembra odiare tutto ciò che può distrarre dal dolore. Dessa è perfettamente semplice. Una sola azione incominciata dal punto che può interessare si estende dal principio al fine, si avanza, s’imbarazza, scoppia finalmente, diremo così, pel fermento di certe cagioni interne, dalle quali gli effetti si disviluppano con diverse scosse sino alla catastrofe. Bellissima graduazione! Essa addita alla gioventù l’arte vera di tessere un dramma, che consiste in porre sotto gli occhi un’ azione che vada sempre crescendo per gradi, {p. 163}finchè per necessità scoppi con vigore; e non già in ordinare una catena di elegie e declamazioni; perchè queste in vece di avvivare le passioni per renderle atte a commuovere, seguendone il trasporto progressivo, le fanno divenir pesanti e fuor di proposito loquaci; e quindi stancando la mente senza mai parlare al cuore, diminuiscono l’interesse, ed in conseguenza l’attenzione di chi ascolta. «Tutto (prosegue Le Batteux) vi si trova disposto come nella natura. Non dee lo spettatore affaticarsi, non esercitare il suo ingegno. Il dolore nella natura si abbandona a se stesso e non ha più forza; e lo stesso dee seguire nelle opere del l’arte emule di quelle della natura.» Entra poscia l’erudito autore nel confronto delle due eccellenti tragedie. Rende egli i dovuti encomii alla Fedra, ma conviene ancora che l’azione del l’Ippolito sia una ed unica, e che tutto vi avvenga con maggiore verisimiglianza «Racine congiunge al l’azione principale l’azione episodica {p. 164}d’Ippolito e di Aricia che comprende più di quattrocento versi.» «Due amori, due confidenze, due dichiarazioni d’amore l’una accanto al l’altra.» «Nel l’Ippolito non si ragiona della morte di Teseo.» «Questa morte non è in verun modo preparata nella Fedra, nè produce altro effetto che d’incoraggire la regina a dichiarare ad Ippolito il suo incestuoso amore.» «Più decenza in Euripide che in Racine. «Fedra appresso il Greco confessa il suo amore non come una passione ma come un delitto; ed il secreto è svelato ad Ippolito dalla Nutrice non ostante il divieto di Fedra.» «Presso il Francese la stessa Fedra confessa una passione sì vergognosa, la confessa innauzi a tutti gli spettatori, sposa del padre al figliuolo, e nel primo istante che si crede morto il marito.» «Euripide ha saputo conservare il pudore del poeta e degli attori. «In Racine l’interesse dominante si divide tra Fedra, Ippolito e Teseo: in Euripide è tutto per Ippolito dal principio al fine.» «Tutto è lagrime in Euripide: {p. 165}lagrime di Fedra, lagrime d’Ippolito, lagrime di Teseo, lagrime del Coro e della Nutrice; tutto spira dolore e tristezza, tutto è veramente tragico.» «Il dramma di Racine è una serie di quadri grandi di amore: amor timido chegeme, amore ardito e determinato; amor furioso che calunnia, amor geloso che spira sangue e vendetta, amor tenero che vuol perdonare, amor disperato che si vendica sopra se stesso; ecco la tragedia di Racine «Altrettanti quadri si trovano nel l’Ippolito; ma quanto più sostenuti, quanto più austeri! I caratteri quanto non sono più virtuosi e più nobili nella tragedia greca!»  «Niun tratto, niun movimento, niun dialogo che raffreddi la pietà degli spettatori.».  «Giovane, ornato di nobili costumi, sofferente nella calunnia senza accusare il calunniatore, rispettoso e tenero col padre benchè ingiusto, Ippolito non lascia un sol momento di agitare e tirare a se tutti i cuori sensibili.»  «Fedra in Racine per varie ingiustizie e violenze intepidisce la {p. 166}compassione, ed il poeta con arte somma si affanna per coprirne e discolparne i difetti.» «Teseo attrae a se tutto l’interesse dell’atto terzo.» «L’amore d’Ippolito per Aricia vietato dal padre quanto non toglie al carattere del giovane eroe, virtuoso sempre, sempre degno di compassione in Euripide, debole qualche volta, qualche volta ozioso nel poeta Francese!» Termina Le Batteux questo giudizioso eccellente parallelo con attribuire alle nazioni il diverso carattere del l’uno e del l’altro poeta. «L’amico di Socrate non sarebbe stato mai cosi mal accorto di presentare ai vincitori di Maratone e di Salamina un Ippolito amoroso ed avido d’intrighi.» «Il poeta Francese ha dovuto lusingare la debole delicatezza della sua nazione; ed Euripide nelle stesse circostanze non si sarebbe altrimente comportato, ed avrebbe avuta la stessa indulgenza per un popolo che dovea essere il suo giudice.»

Questo esame degno della dottrina, del discernimento e del gusto {p. 167}del l’autore riputato delle Belle arti ridotte a un principio, compensa solo tutte le fanfaluche affastellate lungo la Senna contro gli antichi dal Perrault, La-Mothe, Terrasson, e dal marchese d’Argens, il quale colla solita sua superficialità e baldanza asseriva che i poeti tragici francesi tanto sovrastano agli antichi, quanto la Repubblica Romana del tempo di Giulio Cesare superava in potenza quella che era sotto il consolato di Papirio Cursore. Aggiugniamo qualche sentenza sparsa nel Saggio sul Gusto di Cartaud de la Vilade, affinchè il leggitore, dopo avere ammirato nel surriferito bel parallelo un prezioso monumento del buon gusto e del giudizio degli ottimi critici della Senna, possa divertirsi con un piacevole contrasto del gusto vero col fantastico, di una scelta crudizione colla leggerezza, e del dotto Le Batteux col bello-spirito La Vilade. Questo moderno derisore degli antichi si mostra nauseato di quel l’Ippolito che Euripide ci dipinse, sembrandogli un Cavaliere fort peu galant; e per {p. 168}maggior trastullo di chi ciò legge, dice (pag. 48) colla solita sua sicura lettura e martellata erudizione, che questa tragedia è di Sofocle. Avventuratamente però per Ippolito La Vilade non ragiona con più fondamento e dottrina sul l’Achille del l’Ifigenia, supponendolo un innamorato, e trovando nella di lui passione un accento soprammodo grossolano. Si consolino intanto questi Greci Principi, c con essi Omero tacciato di non aver saputo descrivere i giardini di Alcinoo secondo il gusto di quelli di Versailles, perchè questo formidabile Gradasso non tratta con maggior gentilezza il resto de’ Greci, de’ Latini, degl’Italiani, degli Spagnuoli e degl’Inglesi. Per lui Erodoto narra da uomo ubbriaco; Tucidide è pieno di difetti essenziali e di racconti fuor di proposito, senza piano e senza verisimilitudine nelle aringhe; Polibio non è uno storico, ma bensì una specie di parlatore che fa riflessioni sulla storia; gli Oratori Greci, senza eccettuarne {p. 169}Demostene, sono spogliati di ogni savia economia necessaria a condurre gli animi allo scopo prefisso; Pindaro è un poeta volgare e senza entusiasmo; Pitagora ed Archimede fanciulli in matematica incantati per la novità ad ogni picciolissimo oggetto. Questo Saggio che ben può chiamarsi del mal gusto, e del l’imperizia di Cartaud si accompagni colle sessanta pagine del Cavaliere di Saint-Mars sopra la letteratura degli antichi. Per quest’originale de’ Marchesini della scena francese le ode di Orazio Flacco sono più oscure della notte, cattive, insoffribili, le di lui satire e l’arte poetica un ammasso di nojosità, mostruosità e disordini. Egli ammirava la pazienza de’ Romani nel l’ascoltare Cicerone chiacchiarone che non la finisce mai; essi doveano (aggiugne) aver la testa d’une furieuse trempe per resistere a un torrente di loquacità che nulla dice… Ma è dunque una fatalità che gli antichi e chi li ammira, abbiano ad esser {p. 170}perseguitati dai più ridicoli e dai più sciocchi delle moderne nazioni!a

Varii argomenti ha somministrato ad Euripide la Guerra Trojana e gli eventi che ne dipendono. Oltre alle Ifigenie ed Elena, egli scrisse Ecuba, Andromaca, le Trojane e Reso che ci sono pervenute intere, e Palamede, Filottete, i Trojani, delle quali rimangono pochissimi frammenti.

L’Ecuba si aggira sulla morte di Polissena e sulla vendetta del l’assassinamento di Polidoro. Parmi in essa singolarmente eccellente la scena di Ulisse con Ecuba e Polissena nel l’atto primo, dove coloro che intendono ed amano le dipinture naturali, si sentiranno scoppiare il cuore per la pietà. Nel patetico racconto della morte di Polissena nel l’atto secondo si {p. 171}ammirano varii tratti pittoreschi e tragici, come il nobile contegno di Polissena, che non vuole esser toccata nel l’attendere il colpo; il coraggio che mostra nel lacerar la veste ed esporre il petto nudo alle ferite,

Ella poichè si vide in libertate
Volgendo gli occhi in certo atto pietoso,
Che alcun non fu che i suoi tenesse asciutti,
La sottil vesta con le bianche mani
Squarciò dal petto insino al l’ombilico,
E il suo candido seno mostrò fuori;

e finalmente il nobile atto di cadere con decenza dopo il colpo così espresso dal Dolce, cui appartengono anche i versi precedenti:

Cadd’ ella e nel cader mirabilmente
Serbò degna onestà di real donna.

Le riflessioni morali di Ecuba su i buoni e i cattivi, sul l’educazione e la {p. 172}nascita, dopo tale funesto racconto, sembrano per altro intempestive. Serpeggia per tutto il dramma una forza tragica terribile; ma nel l’atto terzo si tratta della morte di Polidoro, per la quale l’azione è manifestamente doppia, benchè tutta si rapporti ad Ecuba. Nella scena in cui le si enuncia la morte di Polidoro, osserva Pietro Brumoy che vi sono sparse alcune strofette, alle quali forse si congiungeva una musica più patetica. Le comprese il Dolce, e seguì l’originale, traducendole in versi più piccioli; la qual cosa, con pace del calabrese Mattei, fa vedere che gl’interpreti de’ tragici Greci compresero il loro artificio per ciò che la musica riguarda. Egli stesso non fece di più nel tradurre questa medesima scena in maniera, com’egli dice, diversa dalla Salviniana. Non saprei però dissimulare che il Terzetto preteso vi si è formato a piacere nella guisa che potrebbe formarsi, volendosi, anche nelle tragedie Inglesi o Russe, non che nelle Greche. Tale terzetto poi sì capricciosó, {p. 173}secondo me, rallenta l’impeto della passione espressa con veemenza dopo le parole καταρχομαι νὸμων Βακκειον, incipio numeros Bacchicos, o, come traduce Erasmo, cantionem Maenadum ingredior, e dal Mattei amplificate con poca precisione. Egli dice:

            Son io? vaneggio?
Qual furor mi trasporta? È cruda furia
Questa che il cor, la mente, infiamma, accende,
Lacera e squarcia? Io fuor di me già sono,
Comincio a delirar.

Dopo ciò mi sembrano ben freddi i versi, da’ quali comincia il terzetto,

Dunque è ver? o questo è inganno?

A un furore da baccante che trasporta Ecuba fuori di se, far succedere un dubbio sul fatto? Ma questo dubbio corrisponde al senso ed alla lettera del l’originale? Ecuba con tutta sicurezza del suo infortunio e con enfasi afferma che vede una strage inopinata, {p. 174}incredibile, tutta nuova. Or perchè cambiar questo pensiero in peggio? Non crederei che il signor Saverio peritissimo nella greca lingua, e nel modo d’interpretarla, si fosse fatto ingannare dalla voce απιστα, quasi che Ecuba non credesse vero quel che avea sotto gli occhi. Sa egli bene che questa voce qui manifesta l’enorme, atroce, stupenda serie di disgrazie che l’opprime. Osserviamo in oltre che ne’ Greci i cantici per l’ordinario non hanno luogo se non conosciuta perfettamente la sventura. Ma in questo squarcio che si è voluto convertire in un terzetto moderno si va cercando ancora l’autor della morte di Polidoro. Ecco come traduce il citato Erasmo poco allontanandosi dagli altri interpreti:

            Quo jaces
Fato? peremit te quis?

Fam.

Me latet; at hunc in littore offendi maris.

Hec.

Ejectum ab undis, an trucidatum manu?

Fam.

In littus arenosum
{p. 175}
Marinus illum fluctus aestu ejecerat.

Hec.

Hei mihi ec.

Tutto ciò nel l’originale è parlante, e (secondochè oggidì si maneggia in teatro la musica, e si maneggerà finchè il sistema non ne divenga più vero) sarebbe anche ora contrario al l’economia musicale il chiudere simili particolarità in un duetto o terzetto serio, perchè essi, a giudizio del celebre Gluck, abbisognano di passioni forti per dar motivo al l’espressione della musica. I cori di questa tragedia sono tratti dal soggetto e pieni di passione non meno che di bellezze poetiche. Veggasi quello del l’atto primo, in cui le schiave Trojane sollecite del loro destino vanno immaginando in qual parte toccherà loro in sorte di essere trasportatea. {p. 176}Quello del l’atto terzo mi sembra il più patetico, ed il Dolce ne ha fatto una troppo libera imitazione. A noi piacque di tradurlo ancora; ed affinchè i giovani avessero una competente idea de’ Cori di Euripide, c’ingegnammo di ritenere un poco più le immagini e lo spirito del l’originale senza violentare il genio’ della nostra lingua:

Patria (ahi duol che n’anchide!) Ilio superbo,
Or più non fia che a le nemiche genti
Inaccessibil rocca Asia ti appelli,
Che già di Greche squadre un nuvol denso
{p. 177}
Ti copre e cinge, e desolata e doma
E vinta giaci, e de le altere torri
Già la corona in cenere conversa
Nereggiano de’ muri i sassi informi
D’orride strisce di fuligin tinti.
Ahi più non ti vedrò! Mai più le vaghe
Tue spaziose vie,
Non calcherà il mio piè! Memorie amare!
Avea mezzo il cammin la notte scorso,
Quando fin posto a le solenni danze
E a’ lieti canti un placido sopore
Aggrava le pupille. Inerme ingombra
Già il mio consorte le sicure piume
Nè a’ liti intorno pei Trojani campi
Sorgon le Argive tende. Io che raccolte
Le sparse trecce e in vago giro avvinte
{p. 178}
Entro bende notturne, il mar mirando,
Al geniale talamo mi appresso,
Arme arme, ascolto in marzial tumulto
Per la Frigia città gridar repente:
Cessate, o Greci? Ah se veder v’è caro
Le native contrade, ite, abbattete,
Cada il forte Ilione… Il dolce letto
Lascio allor sbigottita in lieve avvolta
Semplice gonna: di Diana al l’ara
Mi prostro e piango, oh vani prieghi e pianti!
Tratta per l’onde io son, misera! e veggio
Trucidato il consorte, acceso il cielo
Di funeste faville, Ilio distrutto,
E le vele nemiche ai patrii liti
Pronte a tornar, e da l’Iliaco suolo
A svellermi per sempre! Il duol m’oppresse,
{p. 179}
Caddi abbattuta, mille volte e mille
Elena detestando e il suo rattore,
E le adultere nozze, e di un avverso
Genio persecutor l’odio potente,
Che l’avito terren m’invidia e fura.
Deh la femmina rea sempre raminga
Erri in balia de’ minacciosi flutti,
Nè i patrii tetti a riveder mai giunga!

L’Andromaca di Euripide non contiene l’azione del l’Andromaca di Racine, perchè questa è la vedova di Ettore che teme per la vita di Astianatte, e nella tragedia Greca è la stessa Andromaca, ma già moglie di Pirro, che teme per la vita di Molosso avuto da questo secondo matrimonio. Oggi desta più compassione il nobile dolore di Andromaca vedova di Ettore, che la semplicità del l’azione di Andromaca moglie di Pirro. È notabile nella tragedia di Euripide il carattere di Ermione {p. 180}renduto poi senza dubbio dal Racine più delicato, e diventato ognor più vero, attivo e vigoroso nel l’ambiziosa Vitellia del Metastasio. Non sono più tollerabili sulle nostre scene le ingiurie scambievoli di Andromaca ed Ermione presso Euripide. Osservisi ancora che nel l’atto quarto Ermione ed Oreste fuggono da Ftia per andare a Delfo ad uccider Pirro, e nel quinto si narra in Ftia questa uccisione già avvenuta in sì poco tempo, e vien portato il cadavere di Pirro, la qual cosa sembra sconcezza che offende ogni verisimilitudine.

Nella tragedia intitolata le Trojane si tratta la morte di Astianatte insieme col destino delle prigioniere fatte in Troja. Le profezie di Cassandra nel l’atto secondo, e l’addio che ella dà alla madre e alla patria, sono degne di osservarsi, e rassomigliano in parte a quelle di Eschilo nel l’Agamennone. Squarcia poi i cuori ancor meno sensibili il dolore di Andromaca nel l’atto terzo al vedersi strappar dalle braccia Astianatte. Ma le traduzioni non giungono a {p. 181}darne a conoscere tutto il patetico, e molto meno questa nostra che si ristrigne a un solo passo spogliato della situazione della scena:

Figlio, viscere mie, da queste braccia
Ti svelgono i crudeli. Ah tu morrai,
E di tuo padre il nome,
Che tanti ne salvò, ti fia funesto.
A che sei tu d’Ettore figlio, io sposa?
Per dominar sul l’Asia
Non per morir tra’ barbari sì tosto
Credei produrti, o figlio….
Oh dio! Tu piangi?
Prevedi il tuo destin. Perchè mai stringi
L’imbelle madre tua e ti raccogli
Nel seno mio, quale augellin rifugge
Sotto l’ali materne? Ahi non è questo
Più un asilo per te. Mori già Ettorre,
Nè dal l’avello, per serbarti in vita,
{p. 182}Fia che risorga. Di sostegno privo,
In man del crudo inesorabil Greco
Chi piò rapirti al precipizio orrendo?
Ahi dolce oggetto de’ timor materni,
A ciò ti porsi il seno e del mio sangue
Io ti nutrii?.. Vieni, ben mio, ricevi
Gli ultimi amplessi, i tuoi sospiri estremi
Fa ch’io raccolga… Oh barbari, spietati,
Inumani, tiranni e che vi fece
Un misero fanciullo? Il furor vostro
A disarmar non giunge
Quella tenera età, quel l’innocenza?
Oh al vinto e al vincitor fatale ognora
Elena, furia a’ Greci e a’ Frigii infesta.

Reso è una tragedia senza prologo, e {p. 183}senza que’ tratti patetici proprii di Euripide; ma in contracambio ha molta arte nel dialogo e aggiustatezza nella distribuzione del l’azione, particolar pregio di Sofocle, per la qual cosa pretende alcuno che ad esso, e non ad Euripide, appartenga; benchè altri, come Samuele Petito, la tolga ad ambedue, attribuendola a un tragico del loro tempo chiamato Aristarco; e Scaligero ne faccia autore un altro ancor più anticoa. Non à però il parere men sicuro quello del Barnes e del Carmeli che la stimano di Euripide, se si attenda tanto al l’antico consentimento di moltissimi critici che sempre l’annoverarono tralle di lui tragedie, quanto alle molte {p. 184}espressioni del Reso famigliari a questo tragico. N’ è l’argomento lo stratagemma di Ulisse che con Diomede ammazza questo re di Grecia nel campo Trojano. Nel l’atto quarto comparisce Minerva ad Ulisse e a Diomede, la quale vedendo sopraggiugnere Paride, per salvarli fa che il Duce Trojano travegga, e la prenda per Venere, mentre i suoi favoriti non lasciano di ravvisarla per Minerva. Tali cose allora convenivano ai principii e alle opinioni de’ Greci, nè parevano assurde e stravaganti. Lo scioglimento avviene per macchina (come in gran parte delle tragedie antiche) per mezzo della Musa Tersicore madre di Reso, la quale apparisce in aria sopra di un carro, tenendo il di lui cadavere sanguinoso sulle braccia.

Medea è una delle più terribili tragedie del l’antichità, donde trassero la materia tante altre che ne portano il titolo. Contiene l’atroce vendetta presa da Medea contro Giasone, Creonte e la di lui figliuola. Degno {p. 185}singolarmente dì osservarsi è lo squarcio del l’atto quarto, dove Medea intenerita co’ suoi figliuolini li abbraccia e li rimanda, gli compiange e gli destina alla morte, ascolta i moti della natura e la tenerezza di madre, e sente risvegliare i suoi furori alla rimembranza del l’infedeltà di Giasone. Il racconto della morte della nuova sposa di Giasone e di Creonte padre di lei è terribile. I figli che cercano scampar dalla madre che barbaramente l’inseguisce e li riconduce dentro e li trucida, formano un movimento teatrale sommamente tragico. Quello che mai non piacerà in questa favola, è il personaggio di Egeo introdottovi senza veruna ragione per preparare un asilo a Medea della cui salvezza lo spettatore è ben poco sollecito dopo l’orrenda esecuzione della spietata sua vendetta. Ma il poeta diligentissimo in ogni incontro in dar risalto a tutte le remote tradizioni e antichità patrie, non ha voluto omettere il ricetto che trovò Medea presso Egeo. Notisi però che la vendetta da lei presa contro {p. 186}Giasone ne’ proprii figli avuti da lui, non è istorica ma immaginata dal poeta. Medea lungi dal l’ammazzare quegl’innocenti nell’accingersi alla fuga, li depositò in Corinto in un tempio supponendolo asilo inviolabile. Ma i Corintii che odiavano quella straniera, li uccisero, siccome narrano Parmenisco, Didimo e Creofilo presso lo Scoliaste di Euripide sulla Medea. E per ischivar l’infamìa che ad essi ne ridondava, si avvisarono probabilmente di guadagnar qualche poeta per attribuirne l’assassinamento alla stessa madre. Carcino poeta anteriore ad Euripide introdusse Medea che si discolpava di tale imputazionea. Ma Carcino non ebbe credito tale da distruggere una tradizione istorica sostituendovi una sua invenzione; e perciò non sembra inverisimile che i Corintii avessero ricorso ad Euripide poeta esimio il quale, sia per dare, a cagione {p. 187}del l’idio naturale che avea contro del sesso donnesco, un carattere odiosissimo a una donna, sia per essersi fatto corrompere con cinque talenti, come asserisce il nominato Parmenisco, compose la sua tragedia facendo rea la madre stessa del l’uccisione di que’ fanciulli, e la menzogna per l’eccellenza del poeta passò alla posterità come storia. Certo è che Elianoa afferma esser fama anche ai suoi tempi (fiorendo egli dopo Adriano) che i Corintii solevano offerire quasi in perpetuo tributo alle ombre di que’ pargoletti certi sacrfizii espiatorii.

Le Fenisse (altra tragedia coronata di Euripide) contiene la morte di Eteocle e Polinice figli di Edipo e Giocasta avvenuta nell’assedio di Tebe. Lodovico Dolce che ne fece una libera imitazione, ne tolse il prologo, e fe che Giocasta narrasse a un servo tutti gli evenimenti passati di Edipo. E perchè narrare al servo ciò che era {p. 188}pubblico e noto a ogni Tebano? Scarsezza d’arte. Havvi poi in Euripide una scena fra un vecchio ed Antigone che da un luogo elevato osservano l’armata Argiva, e ne vanno descrivendo i capi, che è una imitazione felice di un passo del III libro del l’Iliade pure dal Tasso trasportato nella Gerusalemme. Il Dolce non si curò di questa bellezza, e la sua scena rimane sterile. Nè anche l’ebbe in pregio il signor di Calepio, cui sembrò inverisimile che Antigone stando sulle mura di Tebe assediata potesse vedere e distinguere i personaggi del campo Argivo e le loro armature. È da credersi che prima di avventurar questa censura quel dotto Critico si sarà assicurato della distanza del campo e del l’altezza delle mura, per convincere di inverisimiglianza Omero, Euripide e Torquato. La scena vigorosa di Giocasta co’ figli è degna di particolar riflessione per la maestrevole dipintura de’ due fratelli ugualmente fieri ed accaniti nel l’odio reciproco, ma di carattere diversi, e per lo dolore della {p. 189}madre che s’interpone e cerca di contenerli e disarmarli.

Le Supplici si aggirano sule conseguenze del l’assedio di Tebe, e sulla sepoltura negata da’ Tebani ai Capi Argivi, là dove le Supplici di Eschilo parlano delle Danaidi. Pur queste due tragedie hanno tra loro qualche relazione nella condotta. Lo spettacolo della prima scena delle Supplici di Euripide dovea produrre un pieno effetto. Etra madre di Teseo sta col l’offerta in mano a piè del l’altare in mezzo a’ Sacerdoti: il tempio è pieno di donne che portano rami di olivo: Adrasto red’ Argo resta nel vestibolo colla testa velata circondato da’ figliuolini delle Argive in atto supplichevole. Oltre a molti altri tratti patetici, vi si trovano varie allusioni alle Greche antichità e tradizioni, la qual cosa, come altrove accennammo, di rado si trascurò dai Greci tragici per mostrare l’antichità remota delle loro leggi ed origini e de’ loro costumi a gloria della nazione.. Nel l’atto II però Teseo risolve di {p. 190}portar la guerra a Tebe, ed appena incominciato l’atto III la guerra è fatta, e Teseo torna vincitore. È ciò avvenuto per miracolo? Vi è corso un tempo verisimile? Può censurarsi come difetto di verisimiglianza osservato anche nell’Andromaca.

Ercole furioso sino al l’atto III tratta della giusta vendetta presa da Ercole contro il tiranno Lico oppressore degli Eraclidi: negli ultimi due atti cambia di oggetto, ed una Furia chiamata da Iride viene a turbare la ragione di Ercole a segno che questi di propria mano saetta i figliuoli. Nulla di più tragico, di più vivacemente dipinto di questa deplorabile strage, in cui eccitano ugual compassione il saettatore e i saettati.

Euristeo fatal nemico di Ercole ne perseguitò la posterità, minacciando guerra a chiunque osasse ricoverarne i figliuoli. Iolao nipote di quell’eroe e la vecchia Alcmena di lui madre insieme co’ piccioli figliuoli cacciati di città in città fuggono in Atene all’ara della {p. 191}Misericordia sotto il governo di Demofonte e Acamantea. Copreo araldo di Euristeo viene a domandarli, Demofonte ricusa di concederli, e si accende aspra guerra tra gli Ateniesi e gli Argivi, per cagione degli Eraclidi, cioè de’ figliuoli di Ercole, onde prende il titolo questa tragedia. L’erudito Udeno Nisieli ossia Benedetto Fioretti ne’ suoi Proginnasmi intento tratto tratto a mettere in vista i più lievi difetti degli antichi, ed ora ad ingrandirli ora ad immaginarseli, in tal guisa parla di questo dramma: Negli Eraclidi l’ambasciador di Euristeo si parte da Atene protestata la guerra a {p. 192}Demofonte, ritorna a Micene, si congrega l’oste e viensi contra Atene; fassi la guerra, nascene la vittoria, con altri successi da riempiere storie più che da formare una tragedia. La favola cominciata e condotta in simil guisa subito sveglierà ne’ leggitori l’idea di un dramma Cinese o Inglese o Spagnuolo, che comprenda più azioni seguite in molti anni. E pure la tragedia degli Eraclidi ne contiene una sola, cioè la vittoria riportata sopra Euristeo a favor degli Eraclidi, e ristretta dentro un discreto periodo di tempo. Ecco quello che vi si legge. Gli Argivi armati alla rovina degli Eraclidi, stando a’ confini di Atene mandano un araldo a richiederli a Demofonte, e nel caso di negativa ad intimargli la guerra. L’araldo Copreo per eseguirne l’ordine viene in Atene, e la tragedia principia colla sua ambasciata, colla quale nulla ottenendo, protesta la guerra e ritorna, non già a Micene, come affermò il Fioretti, ma ad Alcatoe, dove trovasi Euristeo alla testa di un esercito {p. 193}congregato prima d’incominciare il dramma, e non già che si congrega dopo il ritorno di Copreo, come pur disse il censore. L’esercito muove da Alcatoe città de’ Megaresi posta fra Atene e Corinto, siccome accennò l’araldo stesso: Mi aspettano le migliaja di guerrieri comandati da Euristeo medesimo (μυριοι δε με μενουσιν ασπιστῆσις Ευριστευς τʹ αναξ αὐτός στρατηγον) negli ultimi confini d’Alcatoe (Αλκαθοε δʹ ἐπʹ εσχὰτοις). Non sono dunque tante le azioni in poco tempo accumulate, quante non so per quale utilità, volle numerarne il critico Fiorentino. Una bella aringa di Iolao per determinar gli Ateniesi a proteggere gli Eraclidi, leggesi nell’auto I. L’oracolo che comanda un sacrifizio di una vergine illustre, perchè gli Ateniesi possano trionfar degli Argivi, apporta una rivoluzione interessante, facendo ricadere gli Eraclidi in una penosissima incertezza, non essendo nè onesto nè sperabile che qualche illustre Ateniese s’induca in favore di persone straniere a versare il sangue di una propria {p. 194}figlia. Ode nel l’atto II questo nuovo sconcerto la vergine Macaria figliuola di Ercole, e piena di eroismo e di pietà verso i fratelli si offre vittima volontaria. Interessante e tenero n’è l’ultimo congedo ch’ella prende da essi e da Iolao. Nel l’auto III un messo riferisce la venuta d’Illo figlio di Ercole con un esercito a favore de’ congiunti. Se ne rallegra Alcmena; ma e da notarsi che verun motto ella non fa sul destino di Macaria degna di tutto il suo dolore, e per esser figliuola del proprio figliuolo, e per l’eroica azione della vergine in pro di tutta la famiglia. Nel l’atto IV riceve la notizia della vittoria d’Illo e di Iolao e degli Ateniesi, avvelenata però da quella della fanciulla immolata, ma Alcmena neppure si mostra in alcun modo sensibile alla morte di Macaria. Si racconta ancora il miracolo di Iolao ringiovenito che ha imprigionato Euristeo, bene alieno dalle nostre idee; ma gli Ateniesi udivano siffatti prodigii in teatro senza restarne ma ravigliati, per tal modo era la {p. 195}religione congiunta allo spettacolo. Nel l’atto V Euristeo prigioniero usa ogni viltà per ottener la vita; ma Alcmena inesorabile, contro il parere degli Ateniesi stessi, lo manda a morire. In questa tragedia ancora Euripide nulla omette che possa ridondare in onore di Atene sua patria. Sul medesimo soggetto degli Eraclidi, espresso mirabilmente da Panfilo celebre pittore maestro di Apelle, compose anche una tragedia lodata il poeta Cherefonte.

Ione, nato di Apollo e di Creusa figlia di Eretteo Re di Atene, fondatore della Ionia, è l’eroe della tragedia così intitolata. Questo Ione a se stesso ignoto e alla madre, che dipoi si congiunse in matrimonio con Suto, è allevato in Delfo tra’ ministri del tempio. Dopo il prologo fatto da Mercurio, mentre Ione attende alla cura delle cose sacre, il Coro composto di donne Ateniesi va osservando curiosamente e con molta naturalezza il vestibolo. Ione si appressa a queste straniere e fa loro {p. 196}osservare i quadri e i bassi rilievi, diciferandone le storie:

Ion.

Vedete quì il figlio di Giove che colla dorata falce ammazza l’idra di Lerna.

Cor.

Ben lo vedo.

Ion.

E quest’altro che gli è appresso e porta una fiaccola accesa?

Cor.

Chi è mai egli? Sembra una figura che si suole rappresentare ne’ nostri ricami.

Ion.

È Iola scudiere di Ercole Vedete quest’altra figura su di un cavallo alato in atto di ferire quel mostro di tre corpi ec.

Così è condotta tutta la scena. Virgilio in simil guisa descrive Enea che osserva le dipinture del tempio di Cartagine; ma Virgilio le anima colla passione e col l’interesse del l’eroe Trojano, perchè esse tutte rappresentano la distruzione di Troja. L’immortale Metastasio, fino discernitore delle bellezze degli antichi, si vale di questa scena di Euripide nel l’Achille in Sciro, ma {p. 197}sulle tracce di Virgilio rende le immagini utili al l’azione alludendo vivacemente alla situazione di Achille ozioso in quella reggia. Notabile nel medesimo atto I è la scena di Creusa e Ione che non si conoscono. Il ragionamento di Ione a Suto nel l’atto II è ben vago e naturale, e dal Racine è stato imitato nel l’Atalia e dal Metastasio nel Gioas. Così non v’ ha bellezza in Euripide che questi due grandi maestri della poesia rappresentativa eroica non abbiano saputo incastrare ne’ loro componimenti. l’altra scena di Ione e Creusa che termina l’atto IV e che dovrebbe essere la prima del V, è una di quelle che meritano maggiore attenzione. Interessa ancora per la vivacità il riconoscimento che avviene nel V; ma le domande di Ione intorno al suo nascere mettono in angustia la madre, ed il poeta è costretto a far discendere Minerva per giustificarla. Questa tragedia è assai teatrale, benchè non lasci di abbondar d’incoerenze e difetti. La situazione di una madre e di un figlio {p. 198}che non conoscendosi per errore si tramano la morte, è molto vaga, e Metastasio ha saputo approfittarsene nel Ciro riconosciuto, dandole nuovo interesse e forse più patetica energia.

L’argomento delle Baccanti è l’avventura di Penteo fatto in pezzi dalla madre e dalle di lei sorelle descritta da Ovidio nel III delle Metamorfosi, e forse trattata anche da Stazio nella sua tragedia Agave. Nel componimento di Euripide si osserva un carattere differente dalle altre sue tragedie. Questa si avvicina allo spettacolo satirico, e alle antiche tragedie che trattavano soltanto di Bacco. Havvi nel l’atto IV una scena totalmente comica trall’infelice Penteo già fuor di senno vestito come una baccante, e Bacco che gli va rassettando la veste e l’acconciatura. Molti tratti allusivi agli effetti del vino si veggono ne’ cori e nel rito delle Orgie di Bacco. È terribile il racconto del l’ammazzamento del disgraziato re preso per un cinghiale. Assai tragica è la scena in cui Agave riviene dal suo {p. 199}furore e riconosce nella pretesa fiera il figliuolo dilaniato.

Il Ciclope è un dramma satirico, ed il solo che di simil genere a noi sia pervenuto; ma di esso favelleremo nel trattar de’ Satiri.

Della Danae, del Cresfonte, dell’Auge, della Menalippe, del Meleagro, dell’Alcmena, del Telefo, della Penelope, dell’Archelao, e di molte altre tragedie di Euripide, sono a noi pervenuti appena alquanti frammenti, i quali talvolta a stento bastano per conoscerne il soggetto. Famosa tralle tragedie perdute fu la sua Andromeda per la strana malattia degli Abderiti avvenuta a’ tempi di Lisimaco. Era questa una febbre che di ordinario durava sette giorni, e riscaldava di modo l’immaginazione degl’infermi che diventavano rappresentatori. In tal periodo essi non cessavano di recitar versi tragici, e specialmente quelli del l’Andromeda come se si trovassero sul teatro. Vedevansi per le strade questi deplorabili {p. 200}attori pallidi e sparuti andar follemente declamando. Durò quel l’epidemico delirio finchè non sopravvenne l’inverno. Luciano nell’opuscolo intitolato In qual modo debba comporsi l’istoria, così ne racconta l’origine. Archelao buon commediante rappresentò in Abdera l’Andromeda in una state sommamente calda, e non pochi spettatori uscirono dal teatro febbricitanti. Ora avendo essi l’immaginazione piena della mentovata tragedia, altro non vedevano se non Perseo, Andromeda, Medusa, e ne recitavano i versi, imitando il modo di rappresentare del l’attore Archelao. Il morbo fu contagioso, e potè contribuirvi tanto la vivacità e l’energia di quel l’attore quanto l’azione del Sole e la natural debolezza delle teste Abderite. In fatti quella città marittima della Tracia era popolata di gente stupida e grossolana per testimonianza di Cicerone, Giovenale e Marziale, sebbene di tempo in tempo non avesse mancato di produrre diversi uomini illustri, quali senza dubbio furono {p. 201}Protagora, Democrito, Anassagora, Ecateo storico, Niceneto poeta ed altri mentovati da Stefano Bizantino alla voce Άβδηρα e da Pietro Bayle nel Dizionario Critico.

L’autore di tante belle tragedie, filosofo sì grande, conoscitore sì savio del cuore umano, e ragionatore così eloquente, dimorando in Macedonia per compiacere al re Archelao amatore delle lettere e di chi le coltivava, dopo di aver secolui cenato, nel ritornarsene a casa venne assalito e lacerato da mastini scatenatigli contro da Arideo Macedone e da Crateva Tessalo maligni invidiosi vesseggiatori che l’odiavano meno per la gloria poetica di cui era egli in possesso che pel favore onde il regnante l’onorava. Morì Euripide delle ferite nel l’olimpiade XCIIIa. Archelao sentì tale intenso dolore della sua perdita, che al riferir di Solino, {p. 202}volle recidersi i capegli, ed ordinò che in di lui onore s’inalzasse un magnifico avello nella città di Pelia. I Macedoni gloriavansi per tal modo di possederne le ossa, che unanimi negarono determinatamente di concederle agli ambasciadori di Atene che le chiedevano per seppellirle nella patria terraa; per la qual cosa gli Ateniesi, altro non potendo, gli eressero secondo Pausania un cenotafio lungo la via che conduceva da Atene al Pireo. Sofocle che ad Euripide sopravvisse, avea mentre vivea quel suo grand’ emulo, composto contro di lui qualche epigramma; ma poichè fu morto senti un dolore sì vivo e sì vero, che non meno per ciò si rendè meritevole degli applausi della posterità che per aver prodotto l’Edipo ed il Filottete. l’onorò col suo pianto, ed impose a’ suoi attori di presentarsi sulla scena senza corone, senza ornamenti ed in abiti lugubri. Con {p. 203}questi due rari ingegni finì la gloria della poesia tragica de’ Greci.

Discordarono gli antichi nel dar la preferenza ad uno de’ tre lodati gran tragici, Eschilo, Sofocle, ed Euripide. Aristofane nelle Rane, ed il filosofo Menedemo presso Diogene Laerzio antepongono Eschilo agli altri due. Socrate amico di Euripide sembra averlo preferito a tutti, giacchè ben di rado o non mai vedevasi in teatro, se non quando Euripide vi esponeva qualche nuova tragedia, e l’amava e per la bontà e bellezza de’ versi e per la filosofia onde gli nobilitava. Quintiliano nel libro X c. i posponeva Eschilo di lunga mano agli altri due, e fra questi affermava non potersi di leggieri decidere qual di essi fosse meglio riescito ne’ due differenti sentieri che corsero. Plutarco tuttavolta presso Stanley nelle Note ad Eschilo senza preferirne veruno sostiene che ciascuno de’ tre possedeva alcun pregio particolare, nel quale non venne dagli altri superato.

Prima di passar oltre mi si {p. 204}permetta qui un’ osservazione su di ciò che di questi grandi ingegni della Grecia hanno pensato sino agli ultimi tempi i loro posteri. Le nazioni moderne a misura che si sono innoltrate nella coltura hanno ravvisato nelle produzioni di questi tre gran tragici l’epoca del maggior lustro della tragedia. Si avverta però che ciò dicendo non si stima che i moderni abbiano a disperare di potere in verun tempo produrre tragedie da soffrir delle indicate della Grecia il confronto senza svantaggio. Imperocchè siamo noi di avviso che l’arte non avrà mai occasione di lagnarsi della poca fecondità della natura, celandosi in ogni genere specie varie ugualmente degne di trattarsi benchè dissimili. Dando a que’ sommi Greci l’onor dovuto, credo che voglia intendersi che la tragedia greca fondata sul sistema della fatalità appoggiata alla religione, fu da que’ tragici maravigliosi condotta al l’apice della perfezione; giudizio che senza degradare gli antichi conserva a’ moderni il dritto di aspirare a pareggiarli ed a gire più oltre ancora. {p. 205}Trattanto il sig. Casthilon moderno scrittore francese in un libro, nel quale si propose d’investigare le cagioni fisiche e morali della diversità del genio delle nazioni, oltre di ostentare certo barbaro disprezzo per le lingue, le lettere e le maniere aliene dalle francesi, asseri magistralmente che nelle mani di Sofocle e di Euripide la tragedia était à son berceau. Ma le ragioni che ne adduce mostrano di non essersi egli curato molto di provvedersi di lumi sufficienti per distinguere la tragedia maneggiata da’ Greci dalle specie di essa adottate da i loro posteri. La tragedia antica appoggiata al fatalismo non è stata in forma diversa trattata da’ buoni moderni, ma solo ne hanno per lo più escluso il Coro stabile. Le più belle tragedie dell’immortale Giovanni Racine sono l’Ifigenia e la Fedra; e pure si riconoscono per geniali traduzioni quasi in tutto, o almeno per imitazioni di quelle di Euripide di cui pur si desiderano fin anco da’ suoi nazionali alcune bellezze tralasciate. Quando poi i {p. 206}moderni partendo da altri principii e accomodandosi al gusto ed ai costumi correnti fanno uso di nuovi ordigni per cattarsi l’attenzione de’ contemporanei, essi meritano tutta la Iode. Conveniamo adunque che sono anch’essi ben riesciti: conveniamo ancora che qualche volta hanno uguagliati gli antichi nel colorire egregiamente le passioni, e che spessissimo gli hanno superati nel l’esporre, nel preparare i caratteri, nel legar le scene, nell’introdurre e far partire con giusta ragione i personaggi: conveniamo in somma del merito degli antichi e de’ moderni nel proprio genere. Ma lasciamo oramai le puerili questioni che sui soggetti geniali facevansi un secolo indietro posponendo ai moderni gli antichi. Di grazia a ragionar dritto chi ardirà sentenziare su i generi stessi senza aver ragione di tempi, di luoghi e di costumi? Chi oserà preferire il moderno sistema al l’antico senza avere in testa un guazzabuglio di fosche idee? Il fatto compruova che da più migliaja di anni nella culta Europa veggonsi {p. 207}sulle scene, si rìpetono, si ammirano incessantemente Edipo, Filottete, Ippolito, Ifigenia ed altri pregevoli componimenti greci. Quando il fatto deponesse con pari asseveranza in prò delle tragedie moderne: quando potesse dimostrarsi che pari evento felice avrebbero esse sortito sulle scene di Atene; pur dovremmo esser cauti nel pronunziare sulla preferenza. E decideremo ora? O savio Usbeck avrai tu in Francia parlato invano?

CAPO X.

Ultima Epoca della Tragedia Greca. §

Fra più insigni coltivatori della tragica poesia greca conteremmo un altro pellegrino ingegno atto ad arricchirla di nuove meraviglie, se continuato avesse ad esercitarvisi il divino Platone. Egli secondo Eliano prima di tutto dedicarsi alla filosofia scrisse tre tragedie e une favola satiresca, per {p. 208}concorrere con una tetralogia nel certame tragicoa. Non pertanto delle di lui tragedie si racconta, che Socrate dopo averle ascoltate gl’insinuò di bruciarle, dicendo: Questo Platone ha bisogno del l’opera tua, o Vulcano.

Prima di consacrarsi totalmente al l’eloquenza oratoria il celebre Isocrate pure si provò nella poesia tragica. Il retore Melito nemico di Socrate coltivò parimente la tragedia. L’oratore Teodette, il quale con Teopompo e Naucrite concorse nel certame panegirico instituito da Artemisia in onor di Mausolo, compose fralle altre una tragedia bene applaudita intitolata Mausolo, la quale a tempi di Aulo Gellio ancora si leggeva.

Altri tragici di nome fiorirono altresì o poco innanzi o intorno al tempo stesso de’ tre prelodati corifei. Si segnalarono in tal carriera in Atene Platina, due Carcini, un altro {p. 209}Euripide cui Snida attribuisce dieci favole, con due delle quali riportò la tragica corona. Fuvvi parimente un di lui nipote del l’istesso nome che si esercitò in tal carriera. Ad un Alceo tragico si attribuisce la favola Cœlum, se è vero che sia stata tragedia, come la chiama Macrobio che ne rapporta tre versia. Giulio Polluce parla della favola Endimione, ma non si sa a quale di questi due ultimi Euripidi appartenga. Contemporaneo del l’insigne tragico di Salamina fu tra gli altri Senocle, il quale ne’ Giuochi Olimpici superò Euripide colle tragedie Edipo, Licaone, Bacchide e col dramma satirico Atamante. Intorno al medesimo tempo vissero Euforione, e Bione ed Agatone scrittore tragico e comico, onorato del l’amicizia di Platone. Che che di lui motteggi Aristofane nelle Tesmoforie, è certo che Aristotile nella Poetica celebra la tragedia di {p. 210}Agatone intitolata Αιθος, il Fiore, nella quale i nomi e le cose erano tutte inventate dal poeta, e non già tratte dalla storia o dalle favolea.

Eraclide Pontico, di cui Laerzio ha descritta la vita, coltivò le muse; ed Aristosseno afferma che avea Pontico composto alcune tragedie che volle pubblicare sotto il nome di Tespi. Dicesi che era uno scrittore capriccioso che talvolta attribuiva ad altri le proprie produzioni, e talvolta si appropriava le altrui, cioè quelle di Omero di Esiodo, della qual cosa viene da Camaleone incolpato. Acheo Siracusano anche poeta tragico compose dieci tragedie, tralle quali l’Etone dramma satirico, dal quale si vuole che Euripide tirasse il concetto del proprio verso,

Saturis Venus adest, non iis quos premit fames.

{p. 211}Empedocle celebre Pitagorico Agrigentino e poeta fisico rinomato, scrisse ventiquattro tragediea. Dionisio il maggiore tiranno siracusano compose varie favole tragiche che niuno volle con lui tener per buone. Il celebre Dione cognato de i due Dionisii coltivò pure la poesia tragica. Mamerco tiranno di Catania più di una volta contendendo co’ poeti della Grecia orientale riportò qualche tragica coronab.

A’ tempi di Tolomeo Filadelfo spiccarono nella poesia tragica sette scrittori celebrati sotto lo specioso titolo di Plejade diversa in parte da un’ altra Plejade mentovata da Isacco Tzeze composta di poeti di varii generi. Secondo Efestione la Plejade Tragica si componeva di Omero il giovane figlio di Mira poetessa Bizantina, di {p. 212}Sositeo, di Alessandro, Anantiade, Sosifane, Filisco e Licofrone. quest’ultimo è il più noto per l’erudito quanto oscuro poema di Cassandra, e per le varie tragedie, delle quali se ne trovano venti rammentate da Suida. Tra esse nominansi due Edipi, Andromeda, Iceta, Ippolito, Cassandride, Penteo, Pelopida, Telegono. Mori questo poeta trafitto da un colpo di freccia, siccome appare da versi di Ovidio in Ibin,

Utque cothurnatum periisse Locophrona narrant,
Haereat in fibris missa sagitta tuisa.

Il celebre Callimaco Cirenese autore degl’inni ed epigrammi e di altri pregevoli lavori poetici, dee contarsi ben anche tra coloro che si distinsero nella poesia rappresentativa e specialmente nella tragica sotto Tolomeo Filadelfo {p. 213}fino al l’Evergete che cominciò a regnare l’anno secondo del l’olimpiade CXXVII. Suida tralle poesie di Callimaco rammemora drammi satirici, tragedie e commedie. Debbesi al medesimo poeta la cura di descrivere i poeti drammatici cronologicamente sin dal loro principio. Nuova rinomanza ha questo poeta acquistata a’ giorni nostri per l’elegante versione fatta delle sue poesie dal chiarissimo Giuseppe Maria Pagnini Escarmelitano che oggi ha ripigliato l’antico nome di Luc’Antonio e presiede al l’Accademia Imperiale in Pisa. La di lui eccellente edizione col testo si esegui nel 1792 in Parma con i caratteri del riputato Giambattista. Bodoni.

Declinando l’età e la sorte delle città Greche, non solo da quelle regioni mai più non uscirono Euripidi o Sofocli o Eschili, ma per una specie di fatalità gli scritti de’ più rinomati drammatici di quelle contrade piene di gusto e d’ingegno furono consegnate alle fiamme. Ecco come ne favellò {p. 214}presso l’Alcionio Giovanni Medici essendo cardinale: Sovviemmi di avere nella mia fanciullezza udito da Demetrio Calcondila peritissimo delle Greche cose, che i Preti Greci ebbero sventuratamente tanto di credito e tale autorità presso i Cesari Bizantini che per di loro favore ebbero la libertà di bruciar la maggior parte degli antichi poeti, e specialmente quelli che parlavano di amori; alla qual disgrazia soggiacquero le favole di Menandro, Difilo, Apollodoro, Filemone, Alesside. Per la qual cosa fu mestieri per istruire la gioventù in difetto de’ mentovati e di altri sostituire i poemi di san Gregorio Nazianzeno, i quali comechè utilissimi fossero per infiammare i cristiani ad un più fervoroso culto della religione, erano però ben lontani dal l’ispirar l’atticismo e l’eleganza ed il gusto della Greca favella.

Nel quarto secolo si compose la nota tragedia sacra intitolata Cristo paziente, la quale per più secoli si {p. 215}attribui al prelodato san Gregorio, e ne’ tempi più a noi vicini ad Apollinare seniore Alessandrino, scrittori che principalmente fiorirono sotto Giuliano Apostata. Questo Apollinare oltre alla nominata tragedia espose sulle scene altri fatti del Vecchio Testamento imitando Euripide, e scrisse ancora commedie sulle tracce delle favole di Menandroa.

Si corruppe finalmente la Greca lingua, e se più tardi in que’ paesi si scrisse alcuna favola drammatica, fu dettata nel Greco moderno. Leone Allacei nella Diatriba de Georgiis presso la Bliblioteca Greca di Alberto Fabrizio mentova Giorgio Cortazio Cretese, il quale nel corrotto greco idioma scrisse in verso una tragedia intitolata Erofila elegante per quanto comporta l’odierno linguaggio delle Grecia serva, e l’unica che abbia meritato ne’ bassi tempi di esser letta e pregiata

Fine del tomo I.

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[Errata] §


ERRORI CORREZIONI
Pag. X lin. 15 Orezio Orazio
XVIII 22 un effet en effet
15 19 le Batteux le Batteux
37 16 faremo saremo
81 14 Promoteo Prometeo
120 lin. ult. imperto impero
125 19 Ti miro. Ti miro
131 14 coila colla
122 3 delle Danaidi delle Danaidi
Supplici delle Supplici