Pietro Napoli Signorelli

1813

Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome III

2019
Pietro Napoli Signorelli, Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi, tomo III, [3e éd.], Napoli, presso Vincenzo Orsino, 1813, 318 p. PDF: Google.
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{p. 2}

[Epigrafe] §

                     Ardito spira
Chi può senza rossore
Rammentar come visse allor che muore,
Metastasio nel Temistocle.
{p. 3}

STORIA DE’ TEATRI

LIBRO SECONDO §

CAPO PRIMO.

Antichità Etrusche fondamento dell Romane. §

Ogni riconoscenza ed applauso esigono dalla grata posterità le utili fatiche del Muratori, del Maffei, del Gori, del Guarnacci, del Passeri, dell’Accademia di Cortona ed anche del Dempstero, i quali sparsero da non gran tempo non picciola luce sulle antichità Etrusche. Essi le vendicarono in parte delle ingiurie del tempo che di tenebre le avvolse, e ci rapì ancora la Istoria degli Etruschi che no aveva in greco distesa in venti libri l’imperador Claudio. Meritava al certo le cure di sì valorosi antiquarii una nazione che aveva dominato in Italia prima de’ Romani e de’ Galli, che {p. 4}fiori prima della stessa Greciaa, è che colla lingua, co’ suoì riti ed arti ed usanze tanto contribuì al l’origine ed alla coltura dell’antica Roma.

Se voglia riguardarsi al suo dominio, l’Etruria di molto estendevasi oltre della Toscana presente; perciocchè i Tirreni secondo Polibiob, abitavano in tutte la terre poste tra l’Apennino e il mare Adriatico, e possedevano i Campi Flegrei che erano tra Capua e Nola. Capua stessa, anticamente chiamata Volturno, al dir di Livio, fu città Etruscac Lo stesso Istorico ci fa sapere che gli Etruschi possedettero la massima parte dell’Italia e colle colonie si sparsero {p. 5}ancora per le Alpi, e tennero il paese de’ Grisoni anticamente chiamato Rhaetiaa

Se si attenda al grado di coltura a’ cui pervenne, essa inventò e sece ne’ dilatati suoi dominii fiorir tante arti di commodo e di lusso. Testimoni indubitati della perizia di tali popoli nell’architettura abbiamo non solo l’invenzione e il nome di un ordine diverso da quelli che ci tramandò la Grecia, ma le reliquie degli antichi edificii che in parte esistono ancora ne’ paesi Toscani. Sebbene dello stupendo capriccioso Labirinto di Porsena, monumento sepolcrale fabbricato nell’antichissima città di Chiusi, giunse all’età di Plinio soltanto la memoriab; pure non pochi altri antichi rottami ci rimangono che manifestano la loro esperienza nel costruire. Nel luogo {p. 6}selvoso, ove era Populonia una delle dodeci principali città dell’Etruria, appajono molte vestigia di sì famosa città, e specialmente una porzione di un grande ansiteatro, che si congettura essere stato tutto di marmi: tralla Torre di san Vincenzo ed il promontorio dove era la nomata Populonia, veggonsi le reliquie di un altro anfiteatro, presso al quale giaceva un gran pezzo di marmo con lettere Etrusche: di un altro osservansi i rottami èfralle antichità della città di Volterraa Tralle antiche fabbriche Etrusche tuttavia esistenti vogliono ricordarsi quelle che ammiransi nelle rovine dell’antica Posidonia o Pesto nel Regno di Napoli. Tali sono i rottami delle sue Mura formate di grandi pietre squadrate levigate e connesse all’usanza de’ Toscani imitati poscia da’ Romani. Tali i due Tempii, de’ quali il primo {p. 7}semplice, grave, solido contiene sei colonne, ed altrettante dalla parte opposta, e si allontana dalla maniera Dorica Greca e dall’ordine Toscano de’ tempi posteriori; ed il secondo più picciolo che dinota essere stato da’ Toscani eretto posteriormente, quando già essi appreso aveano a congiungere alla solidità il gusto di ornare. Tali finalmente sono le reliquie de’ Portici, di un Atrio, e l’Anfiteatroa.

Del magistero degli Etruschi nel dipingere oltre a’ Vasi colorití, de’ quali savella il Masseib ed altri posteriormente scoperti, ci accerta il lodato C. Plinioc, affermando che quando in Grecia cominciava la pittura a dirozzarsi, cioè a tempo di Romolo, non avendo il Greco pittore Butarco dipinto prima dell’olimpiade XVIII, in {p. 8}Italia già quest’arte incantatrice era perfetta, e le pitture di Ardea, di Lanuvio e di Cere erano più antiche di Roma fondata, secondo la cronologia del Petavio, nella VI olimpiadea:

Agli Etruschi si attribuisce eziandio l’arte della Plastica, o modellatrice. Clemente Alessandrinob dice, φασὶ Τουσκανους την Πλας ῖκὴν επινοῆσαι. Vero è che in Plinio si osserva che altri l’attribuisce a’ Greci, i quali da Corinto vennero in Italia con Demarato padre di Tarquinio Prisco. Ma secondochè ben riflette il Maffei nel Ragionamento degl’Itali primitivi, a quei, che vennero con Demarato si riferisce altresì in parte la pittura, e pure, per quel che osserva lo stesso Plinio, era essa già perfezionata in Italia molto prima.

{p. 9}S’incideva parimente e si scolpiva per ogni dove in Etruria, giacchè tante tavole di bronzo e di marmo intagliate e tante statue ed altri marmi e bronzi scolpiti se ne rinvengono sparsi per l’Italia. Ammiravasi in Populonia la famosa statua di Giove fatta tutta di una vite che si conservò lungamente senza veruna macchiaa. Mostrasi in Volterra una statua marmorea di Marte e molte urne di alabastro con grande artificio istoriate, nelle quali veggonsi incisi caratteri Etruschi, come ancora una statua di donna vestita con un fanciullino fasciato nelle braccia. Fecesi da uno scultore Toscano in Roma la statua di Giove Capitolino sotto Tarquinio Prisco. Disotterransi tratto tratto diversi monumenti da’ migliori antiquarii stimati Etruschi. Tale si giudicò il puttino di bronzo che monsignor Carrara presentò al pontefice Clemente XIV, da {p. 10}cui fu collocato nel Museo Vaticano. L’Auditore Giambattista Passeri nel 1771 l’illustrò con una dissertazione latinaa. Di un altro putto Etrusco che vuolsi trovato sin dall’anno 1587 vicino al Lago Trasimene e poi rubato dal Museo del Conte Graziani Perugino e ricuperato dopo molti anni, favellarono il p. Ciatti nella Perugia Etrusca, mons. Fontanimi, il senator Filippo Buonarroti ed il proposto Anton Francesco Gori.

Convien quì parimente notare che non mancarono nell’Etruria alcuni insigni incisori di gemme. Da più periti antiquarii vengono con particolarità rammentati e tenuti per Etruschi Admone, cui si attribuisce l’Ercole bibace, {p. 11}una delle più prezìose gemme Etrusche, ed Apollodoto, di cui si ammira una gemma colla testa di Minerva incisa a punta di diamante, ed un’ altra rappresentante Otriade del Museo dell’ab. Braccia.

In pruova poi di essersi nell’Etruria coltivata la poesia, il tempo ci ha conservate alcune tavole di bronzo, nelle quali leggonsi incisi alcuni inni sacri. Sappiamo altresi che aveva spettacoli teatrali, oltre ai dialoghi satirici Fescennini. E per le cose sceniche troviamo mentovate le tragedie e la ludicra degli Etruschi; e ci si dice che le donne ancora rappresentavano ne’ loro teatrib. Etrusco, secondo Livio, è il vocabolo hister da’ Romani convertito in histrio ed usato in vece di ludio per l’attore scenico, nel qual {p. 12}senso si è continuato ad usare in varie lingue volgari Europee. Volunnio, secondo Varrone, scrisse alcune tragedie in lingua Etrusca. Che sieno però state composte prima che l’Etruria fosse soggiogata da’ Romani, siccome pretenderebbe dare a credere Dempsteroa, è cosa incerta, nè apparisce dal passo di Varrone. Ed il chiarissimo Tiraboschi saviamente oppone, che anche sotto il dominio Romano potevano gli Etruschi poetare nella loro lingua patria. Di fatti ognun sa che i Romani stessi studiavano le lettere Etrusche; e secondo Dionigi Alicarnasseo il Greco Demarato fece non meno nelle Greche che nell’Etrusche lettere ammaestrare i figliuoli.

Roma certamente si formò sopra la nazione Etrusca. Giusta l’usanza religiosa che questa teneva, Roma nascente volle descrivere il circuito delle proprie mura per mezzo di un solco {p. 13}fatto coll’aratro tirato da un toro ed una vaccaa. Ad imitazione degli Etruschi aggiunse Romolo il pomerio alla sua cittàb. Si prese da essic la pretesta che i Romani portavano sino ai quindici anni, e la trabea ornamento reale e la toga e i fasci consolari e le trombe militari e la sedia curule de grandi magistratid. Feste, arte aruspicina, regolamenti politici, giuochi gladiatorii, baccanali, istrioni, tutto tolse Roma dall’Etruria. Ma tutto ne imitò di mano in mano a misura che andava prendendo forma. Gli {p. 14}spettacoli destinati al ristoro della società dopo la fatica, furono un bisogno conosciuto dalla nuova città più tardi di quello di assicurare contro gli attentati domestici e stranieri la propria sussistenza per mezzo della religione, della polizia e delle armi, Perciò quando l’Etruria sfoggiava contante arti e con voluttuosi spettacoli, e quando la Grecia produceva copiosamente filosofi poeti e oratori insigni e risplendeva pe’ suoi teatri, Roma innalzava il Campidoglio, edificava templi, strade, aquidotti, prendeva dall’aratro i dittatori, agguerriva la gioventù; batteva i Fidenati e i Vei, scacciava i Galli, trionfava de’ Sanniti, preparava i materiali per fabbricar le catene all’Etruria, alla Grecia, e ad una gran parte del nostro emisfero.

CAPO II.

Prima Epoca del Teatro Latino. §

I.

Semi primitive della scena in Roma. §

L’unico spettacolo Circense frequentato per lungo tempo in Roma erano le feste Consuali istituite da Romolo dopo il ratto delle Sabine. Manel Conselato di C. Sulpizio Petico e di C. Licinio Stolone, nel primo anno della CIV olimpiade e nel 389 della sua fondazione, Roma afflitta da crudelissima peste, sospesa ogni cura bellica, per liberarsi da sì fiero nemico domestico, contro di cui ogni umano argomento riusciva inefficace, pretese placare lo sdegno celeste con un nuovo rito religioso e compose alcuni inni. Questo sacro poetico omaggio passò poscia in costumanza, e la {p. 16}gioventù che lo cantava, incominciò a poco a poco ad animarlo scherzevole con atteggiamenti rozzi e scomposti, e lo convertì in ricreazionea. Ecco la sacra informe materia teatralo che nasce (per ciò che nel primo volume divisammo) in ogni terreno, senza che se ne prenda da altri popoli l’esempio, nella quale per lungo tempo rimangono antiqui vestigia ruris. Essa rassomigliava ai primi inni ditirambici e ai cori rustici de’ Greci, e pose in voga i diverbii Fescennini, i quali insieme co’ modi Saturnii per centoventi anni in circa da’ Romani si coltivaronob. Ma siffatti motteggi per la soverchia acrimonia e maldicenza personale abbisognarono col tempo di correzione, e furono dalla legge ridotti al solo oggetto d’istruire e {p. 17}dilettare. Orazio stesso ce ne trasmise la storiaa:

                Quin etiam lex
Poenaque lata malo quae nollet carmine quemquam
Describi. Vertere modum formidine fustis
Ad bene dicendum delectandumque redacti.

E la legge quì accennata era quella descritta nella settima tavola de’ Decemviri: Si quis pipulo centasit, carmenve condisit quod infamiam faxit, flagitiumve alteri, fuste ferito.

In Grecia però la rozza satirica materia de’ cori villeschi, senza esempio di altro popolo, avea prodotta la poesia scenica; ma tra’ Romani sì l’accennata sacra poesia gesticolata che i rozzi diverbii Fescennini ebbero bisogno dell’esempio degli Etruschi perchè essi passassero a conoscere e ad esercitar l’arte ludicra. Si pensò pertanto verso l’anno 391 di {p. 18}Roma ad invitare un attore scenico dell’Etruria il quale per la sua nuova graziosa e dilettevole agilità (all’usanza de’ Cureti e de’ Lidii, da’ quali traevano l’origine gli Etruschi) riuscì ad essi molto grato, Ma confusa poscia quest’arte stessa con gl’inconditi e quasi estemporanei surriferiti versi Saturnii e Fescennini, prima di partorire la poesia drammatica, diede l’origine alla Satira tutta Romanaa, nella quale, non già come prima alla rinfusa e rusticamente si motteggiava, ma con un canto regolare, e con un’azione assai più congrua e compostab.

Con tali passi lentamente preparavasi {p. 19}in Roma la strada alla poesia scenica, la quale nè anche doveva coltivarsi senza gl’impulsi e gli esempli or degli Osci, or della Magna Grecia, or della Grecia trasmarina.

II.

Osci colle proprie Atellane in Roma. §

Uno spettacolo appartenente con proprietà maggiore alla poesia rappresentativa recarono a Roma dalla Campania gli Osci, i quali vi furono chiamati a rappresentare le proprie favole mimiche celebri per la loro speciale piacevolezza. Esse nomaronsi Atellane, perchè fiorivano principalmente in Atella città Osca posta allora due miglia distante dalla presente Aversa nel Regno di Napoli. Con quale applauso vi fossero accolte e con quanti privilegii onorate, vedasi da’ fatti seguenti.

In prima esse continuarono a rappresentarsi in Roma nella patria lingua {p. 20}Osca ancora nel fiorir della Latina favella e sino all’età di Augusto, quando scriveva il grave geografo Strabonea. E si coltivarono con singolar diletto, perchè ignorando i primi Atellani la lingua latina si valevano della propria con molta graziab; al che allude il noto verso di una favola di Titinio citato da Pompeo Festoc. E che aì Romani non riescisse malagevole il gustare delle grazie di quella lingua, può dedursi da ciò che scrive Tito Livio del Console L. Volunnio, il quale {p. 21}militando contro i Sanniti che anche la parlavano, spedì alle vicinanze del fiume Volturno alcune sue spie pratiche del parlar Osco per esplorar gli andamenti del nemicoa. In secondo luogo stabilito questo spettacolo Campauo in Roma la gioventù Romana volle sottentrare a rappresentarlo dopo gli attori nativi di Atella, e se ne riserbò il diritto privativo ad esclusione degl’Istrioni di professione, i quali erano schiavi e perciò mirati con disprezzo e reputati infami. Appresso a ciò gli attori Atellani non perdevano il nome ed il diritto di cittadini Romani, non erano rimossi dalla propria Tribù, non si escludevano dagli stipendii militarib. E finalmente essi ottennero il nome di veri attori personati, non perchè soli usassero la maschera, ma {p. 22}perchè soli ebbero il privilegio di non mai deporla sulla scena, la dove gl’altri istrioni, commettendo qualche fallo di rappresentazione, ad un cenno del popolo dovevano smascherarsi e soffrirne a volto nudo le fischiatea

Ma per qual pregio particolare vennero in simil guisa privilegiate e conservate ancora dopo che la scena latina ammise drammi migliori? Perchè, secondo il nostro avviso e del Casaubonb, gli arguti copiosi sali e le vivaci piacevolezze che le condivano, non erano da oscenità veruna contaminate, ma talmente dalla naturale gravità Italica temperate, al dir di Valerio Massimoc, che non recarono taccia {p. 23}veruna a chi le rappresentava. Si è pèrò preteso da taluni troppo leggermente che esse fossero sin dalla loro origine basse non solo e buffonesche ma oscene ancora. Pure da quale classico scrittore ciò si ricava? Non da Livio, non da Strabone, non da Valerio Massimo che ne favellano. Le favole Atellane (disse il gesuita Francese Pierre Cantel nelle sue illustrazioni all’epitome di quest’ultimo scrittore latino creduta opera di certo Giulio Paride dal Vossio e di un Gianuario Nepoziano da altri) Oscene per origine furono corrette e temperate dalla Romana severità, cangiando l’Italica di Valerio in Romana, quasi che fossero sinonimi, o quasi che i nostri Osci fossero fuori dell’Italia. Dovea egli però sapere che da prima la denominazione d’Italia propriamente designava il paese che tennero gli Osci, gli Ausoni e gli Enotriia, e che {p. 24}più tardi poi sotto nome d’Italia s’intese tutto ciò che Apennin parte e il mar circonda e l’Alpe, ed in conseguenza il Lazio con Roma. Sicchè l’Italica severità di Valerio si riferisce agli Osci festivi, si, ma non osceni da principio. Gli Osci (dice pure lo stesso Cantel) dall’usar che facevano parole turpi ed oscene sortirono il nome di Osci. Ma donde costui l’apprese? Osceno significò per avventura impudico, turpe, licenziose nella lingua Osca, o nella Sabina o nell’Etrusca o nella Messapia ed altre antiche lingue dell’Italia? E se osceno è vocabolo Romano, come può stare che esso desse la denominazione agli Osci nazione più antica di Roma? Ma che giuochetto vizioso è poi questa sentenza del Cantel? Le parole impudiche dagli Osci si dissero oscenea, {p. 25}e gli Osci presero il proprio nome dall’oscenitàa. L’una cosa non distrugge l’altra? Ma che Osci non poterono prendere il proprio nome dalla parola osceno, chiaro apparisce ancora agli occhi degli eruditi che ragionano, dal sapersi che tali popoli da prima chiamaronsi Opici (parola che si allontana di molto da osceno) ovvero dalla voce οφις secondo alcuni, o da un accorciamento di Etiopici secondo altri; e che in appresso i Romani pronunziando male il vocabolo Opici lo corruppero in Opsci, in Obsci, e finalmente in Oscib.

Incorse in varri errori il riputato {p. 26}Vincenzio de Muro in una sua memoria sulle Favole Atellane inserita nel I volume degli Atti della Società Pontaniana da noi rilevati moderatamente nel tomo VIII della seconda edizione napoletana delle Vicende della Coltura delle Due Siciliea. Senza altro qui aggiugnere basterà accennare che egli I toglie agli Osci l’originalità di tali favole da tutti gli antichi loro accordata, 2 che le crede la stessa cosa che il dramma Satirico delle Greche Tetralogie, equivocandosi su di un passo di Diomede e di un altro di Vettorino, 3 che le raffigura nel Ciclope di Euripide sol perchè in questo intervengono i Satiri, 4 che stimò che le commedie Satiriche di L. Silla fossero Atellane, perchè chiamaronsi così non ricordandosi della Commedia Antica de’ Greci, 5 che colle sue congetture fa supporre che le Atellane non sono indigene de’ nostri paesi, ma che {p. 27}gli Osci le presero da’ Fenici, perché questi le portarono a’ Greci ed agli Etruschi, donde vennero nella Campania. Ma di simili passaggi arreca documento veruno? È un volo d’immaginazione. Se questo è tutto ciò che egli pensò aggiungere a quanto ne disse chi prima di lui parlò di teatri, ben poteva risparmiarsi la pena che si diede di distruggere ciò che ne scrissero gli antichi, e di edificare su di un fondo arenoso.

Fuor di ogni dubbio i privilegii dati agli attori ingenui Atellanarii riguardarono la falsa giocondità delle loro favole da principio esenti da ogni oscenità, e la corruzione di esse fu posteriore e contemporanea agli eccessi degli altri attori, e da ripetersi verisimilmente dal l’imitazione contagiosa de’ mimi Greci già ricevuti nella scena Romana. Tacito ci fa sapere che Tiberio dopo varie inutili lagnanze de’ Pretori, si determinò a riferire in Senato l’immodestia degl’Istrioni, i quali alimentavano le sedizioni in {p. 28}pubblico e le dissolutezze e le turpitudini in privato, essendo anche lo spettacolo Osco caro un tempo alla plebe a tal colpevole indecenza trascorso, che bisognava reprimerlo col l’autorità de’ Padri, ed allora gl’Istrioni cacciati vennero dall’Italiaa.

III.

Primi scrittori scenici Latini. §

Roma guerriera, ordinato lo stato della repubblica in libero popolare per la legge Petelia sin dal 419 della sua fondazione, aveva successivamente {p. 29}disteso il proprio dominio oltre del Lazio, vinti i Sabini e i Lucani, trionfato più volte de’ Sanniti (vendicando l’onta delle Forche Caudine, cui soggiacquero per essersi fatti rinchiudere in un luogo di cui dopo tante produzioni e riproduzioni bramasi tuttavia sapere il vero sito) e cacciato Pirro dall’Italia. Non avea guerreggiato ancora co’ Greci orientali, ma sin dall’anno 487 le obedivano le provincie Italogreche del Regno di Napoli conosciute sotto il nome di Magna Grecia. Mancava alla gloria di Roma vincitrice quella coltura dell’ingegno che dalle nazioni allontana la barbarie e ingentilisce i costumi; e toccò a questa prima vinta Grecia il vanto di erudirla e abbellirla colle lettere. I primi suoi maestri retori e poeti furono Semigreci, cioè Greci delle Calabrie, perchè i primi che v’introdussero l’amore della letteratura e la conoscenza della greca erudizione, furono Livio Andronico e Quinto Ennio, i {p. 30}quali da Suetonio vengono chiamati entrambi Semigrecia.

Contava Roma circa 514 anni dalla sua fondazione e presso a centoventiquattro dalla venuta degl’istrioni Etruschi, quando nel consolato di C. Claudio Centone figliuolo di Appio Cieco, e di M. Sempronio Tuditano (cinquantadue anni in circa dopo la morte di Menandro) comincio a fiorire secondo i Fasti Capitolini Livio Andronico. Egli fu liberto di M. Livio Salinatore, di cui ammaestrava i figliuoli, e Greco di nazione. Ma che non nascesse nella Grecia d’oltremare, può dedursi dall’osservare che Salinatore, di cui egli era schiavo, non militò se non contro gl’Italiani e i Cartaginesi; e che appartenesse ai Greci delle Calabrie, si argomenta con molta probabilità dall’essere stata questa la Grecia vinta in guerra e soggiogata da’ Romani pochi lustri prima che {p. 31}Andronico fosse condotto schiavo in Roma. Nè dubbiamente l’indica il citato Suetonio, si perchè se nato egli fosse nella vera Grecia, impropriamente l’avrebbe lo storico chiamato Semigreco, sì perchè così lo nominò, come abbiam detto, insieme con Ennio, il quale senza controversia nacque tra’ Greci del Regno di Napoli. Esercitava Andronico l’uffizio di gramatico, e coltivava più di un genere poetico, avendo l’anno 546 composto un inno che per placare i numi si cantò solennemente da ventisette verginelle. Acquistò maggior fama per la poesia drammatica, non solo per avere secondo Donato composte e recitate tragedie e commedie seguendo i Greci ma per essere stato il primo a volgere gli animi degli spettatori dalle satire alle favole teatralia, per la cui rappresentazione gli fu assegnato il {p. 32}portico del tempio di Pallade. La novità dello spettacolo lo rendè molto accetto, essendone egli medesimo l’attore. E non saziandosi il popolo di udirne talora ripetere i più bei pezzi, un di avvenne che fatto roco impetrò la permissione di far cantare per lui al suono della tibia un suo servo, a se riserbando di animar tacitamente le parole col gesto e coll’atteggiamentoa. Piacque al popolo ancor quest’altra novità, e ne nacque l’usanza di dividere la declamazione dall’azione, usanza che non so per qual singolarità di gusto serbossi poscia costantemente nel teatro latino. Ne’ Frammenti degli antichi tragici latini raccolti, dopo le cure degli Stefani e del Delrio, con diligenza maggiore dallo Screverio e publicati in Lione nel 1720, trovansi nominate le seguenti favole di Andronico: Achille, Adone, Ajace, Andromeda, Antiopa, i Centauri, il Cavallo {p. 33}Trojano, Egisto, Elena, Ermione, Inone, Laodamia o Protesilaodamia, Tereo, Teucro. Cicerone afferma che le favole Liviane non meritavano di leggersi la seconda voltaa, ed Orazio le pregiava ancor meno. Questo è il destino di coloro che inventano o precedono ogni altro in qualche impresa, essi insegnano a’ posteri ad inoltrarsi sulle loro tracce per esserne in seguito censurati. Andronico però mostrò certamente molto ingegno e gusto non volgare pel tempo in cui fiorì, avendo trovato i Romani sforniti quasi di ogni letteratura, e quasi senza veruna poesia rappresentativa. Egli sopravvisse al 546, ma s’ignora l’anno della sua morte.

Cinque o sei anni dopo che Livio ebbe introdotta la poesia teatrale in Roma, cioè verso l’anno 519, Gneo Nevio poeta nato nella Campania vi fe udire i suoi drammi tragici e {p. 34}comicia. Si sono conservati i titoli {p. 35}di undici sue tragedie; Alcestide, il cavallo Trojano, Danae, Duloreste, Egisto, Esione, Ettore, le Fenisse, Ifigenia, Licurgo, {p. 36}Protesilaodamia. Francesco Patrizio conta sino a venti favole di Nevio che tutte trasportò dalle Greche, e tra esse nomina Trifalo. Quelle che intitolò Alimoniae Remi et Romuli potrebbe credersi azione tragica. Le commedie da lui composte furongli fatali. Traducendo e imitando i Greci ne trasse lo spirito satirico della commedia antica. Ma la costituzione della Romana Repubblica non soffriva la licenza della democrazia Ateniese. Il popolo Romano anche dopo la legge del Dittatore Publilio Cilone esercitava la somma potestà or ne’ Comizii Tributi or ne’ Centuriati or per bocca dell’intero Senato. In siffatto governo molti erano i capi nobili della Repubblica ognora potenti e degni di rispetto, e un privato censore non impunemente poteva arrogarsi il diritto di riprenderli. Nevio nonpertanto pieno della lettura de’ Greci e della loro mordacità ardì satireggiare Metello ed altri illustri Romani, e fu imprigionato per ordine de’ Triumviri. Per implorar {p. 37}grazia e per emendare l’errore commesso, scrisse in carcere altre due commedie in istile più saggio intitolate Ariolo e Leonte, e ricuperò a stento la libertà col favore de’ Tribuni della Plebea. Niuno degli antichi a lui contese il pregio di scrivere in Latino con somma purezza, e Cicerone propone Nevio e Plauto come eccellenti modelli di pura latinità. Nevio stesso conosceva il proprio merito, e ne volle lasciare a’ posteri la memoria nel bello epitafio che per se compose, in cui misto alla nobiltà e all’eleganza scorgesi l’orgoglio e la vanitàb. Lo stesso Virgilio lo studiò e ne imitò diverse frasi e invenzionic. {p. 38}Ennio con certa invida rivalità ne suor Annali volle motteggiar Nevio come poco elegante ne’ libri della prima guerra Punica, ne’ quali fece usò de versi Saturnii. Ma Cicerone osserva che Ennio, benchè miglior poeta di Nevio, scrivendo delle cose Romane tralasciò la guerra che Nevio aveva cantato quasi schivando il paragone. «Tu stesso ne prendesti (dice poscia ad Ennio volgendosi) molte cose, se vuoi confessarlo, o le rubasti, se pretendi dissimularloa Nevio adunque non solo fu uno de’ primi poeti drammatici, ma il primo epico de Romani. Quanto alla comica poesia egli anche sotto gl’Imperadori della famiglia Flavia fu creduto degno di esser nominato dopo Cecilio e Plauto, e preferito a Terenziob. Nevio {p. 39}aveva militato nella prima guerra Punica, par quel che da lui stesso ricavo Varronea; e la di lui morte avvenne nel Consolato di Publio Sempronio Tuditano e di Marco Cornelio Cetego, cioè l’anno di Roma 549, benchè Varrone stesso citato da Tullio ne prolonghi ancor più la vita. Secondo Eusebio egli mori in Utica nell’olimpiade CXLIV (che cade nell’anno nominato 549) cacciato da’ Nobili Romani che morder soleva nelle sue favole.

Contemporaneo di Andronico e di Nevio fu Quinto Ennio poeta di essi più chiaro per sangue, per valore, per illustri amicizie e per lettere. Questo scrittore, che a’ suoi tempi recò grande ornamento alla città di Roma, e di anni settanta mori nel 584, l’anno 514 quando cominciò a comparire Andronico sul teatro latino, nacque in Rudia nella Japigia secondo Plinio e {p. 40}Silio Italico e Pomponio Mela. Ennio affermava di esser egli nato ne’ monti Calabresi; ed Ovidio anche lo dice Calabris in montibus ortus. Ma vi fu una Rudia presso Lecce, ed un’altra presso Taranto; ed alcuni autori trovano gli additati monti nelle vicinanze di Taranto, ed altri in quelle di Leccea Ennio vantava la discendenza dal re Messapo, come accennò Silio Italico.

{p. 41}
Ennius antiqua Messapi ab origine regis;

e dedicatosi alle armi fu Centurione e accompagnò in diverse spedizioni Scipione Affricano il maggiore. Secondo Cornelio Nipote, Catone trasse Ennio dalla Sardegna, e il di lui acquisto si stimò da’ Romani tanto pregevole, quanto qualsivoglia amplissimum Sardiniensem triumphum. Ennio istruì la gioventù nella buona letteratura, interpretando i migliori autori Grecia, e possedendo perfettamente le tre lingue Osca, Greca e Latina, ond’è che soleva dirsi che aveva tre cuori, potè, come fece, arricchir quest’ultima col soccorso delle altre. Egli trovò in Roma che dopo la comparsa di Andronico e l’introduzione de’ drammi simili a’ Greci, si erano ad essi cominciate a soggiugnere le farsette satiresche recitate dagli Atellani col nome di Epodi che poi rimase al teatro, {p. 42}che i moderni hanno ritenuti nomandoli all’italiana tramezzi, alla spagnuola saynetes e fin de fiesta ed entremeses, e alla francese petites pièces. Ennio stimo che anche fuori del teatro potessero piacere al popolo que’ poemi mordaci pieni di sale e di piacevolezze istruttive; e quindi si provò a comporre i primi Sermoni latini simili agli Oraziani; e ad essi diede il nome di Satire; se non che sull’esempio de’ Greci e dello stesso Omero mescolo insieme diversi metri, esametri jambici trimetri tetrametri trocaicia

Aureo è quel frammento Enniano, in cui un’altra specie di versi adoperando, con eleganza superiore a quell’età, deride gli auguri, gli astrolaghi, gli opinatori Isiaci e gl’interpreti di sogni, aggiugnendo con somma venustà:

{p. 43}
Non enim sunt ii aut scientia aut arte divini,
Sed superstitiosi vates, impudentesque harioli,
Aut inertes, aut insani, aut quibus egestas imperat:
Qui sui quaestus caussa fictas suscitant sententias,
Qui sibi semitam non sapiunt, alteri monstrant viam,
Quibus divitias pollicentur, ab iis drachmam petunt.

Debbe inoltre da lui riconoscersi il primo poema epico latino in versi esametri in istile per quel tempo elegante; perchè Nevio che l’aveva preceduto colla narrazione della prima guerra Punica, aveva adoperati i versi saturnii. E quante gemme avesse tratte da i di lui poemi l’impareggiabile Virgilio per lo più trascritte da verbo a verbo, può ricavarsi dal VI libro de’ Saturnali di Macrobio. Ond’ è che i posteri sempre sospireranno coll’erudito Scaligero la perdità delle opere Enniane degnissime degli encomii di Lucrezio Caro {p. 44}e di Vitruvio Pollionea. Quanto alla poesia rappresentativa si è conservata la memoria di tre sue commedie Amphithraso, Ambracia, Pancratiastes, per le quali nel giudizio di Volcazio Sedigito ebbe luogo tra’ Latini Comici più pregevoli, benchè fusse posposto, non che a Nevio e a Terenzio; a Turp lio e a Lucio stesso, e solo in grazia dell’antichità collocato nel decimo luogo:

Decimum addo antiquitatis causa Ennium.

Le sue tragedie sono: Achille, Achille di Aristarco, Ajace, Alemena, Alessandro o Alessandra, Andromaca, Atamanta, Cresfonte, Duloreste, Eretteo, Ecuba, li Eumenedi, Fenice, Ilione, Ifigenia, i Litri di Ercole, Medea Esule, Medo, Menalippe, Telamone, Telefo, Tieste; tutte o tradotte o imitate dalle {p. 45}tragedie Greche, e Scipione originale di argomento Romano. I frammenti che se ne conservanoa, ci fanno desiderare che il tempo avesse distrutta l’Ottavia attribuita a Seneca, purchè ci fosse pervenuta la nomata tragedia di Ennio detta Scipione. Avremmo dato di buon grado il Tieste di Seneca, che conosciamo, per quello di Ennio composto nel settantesimo anno della sua età, cioè in quello in cui fini di vivere. La sua Medea Esule forse non temerebbe il confronto di quella di Seneca che pure è la migliore di questo Cordovese; giacchè {p. 46}Cicerone dicevaa: E qual mai sarà tanto, per dir cosi, nemico del nome Romano, che ardisca sprézzare e rigettare la Medea di Ennio? Forse il giudizio che Ennio altrove manifesta, potrebbe indurci a credere che nell’Ecuba schivata avesse la duplicità dell’azione di quella di Euripide e delle Troadi di Seneca. Certamente il poeta Leccese non tradusse letteralmente la greca tragedia. Per vederne la guisa possono confrontarsi gli squarci che soggiungo. Nella tragedia di Euripide, Ecuba in tal guisa si lamenta nell’atto I:

Τις αμυνει; ποια γεννα,
Ποια δε πολις,

cioè Chi mi difende? qual gente? qual città? Ennio non copia, ma imita ed amplifica così il sentimento:

                         Quid petam
Praesidii? quod exequar? quo nunc aut exilio, aut fuga
{p. 47}
Freta sim? arce et urbe sum orba. Quò accedam? quò applicem?
Cui nec patriae arae domi stant: fractae et dejectae jacent:
Fana flamma deflagrata, tosti alti stant parietes.

In Euripide Ecuba nel persuadere ad Ulisse d’intercedere per Polissena profferisce questa sentenza.

Λὸγος γαρ ἐκ τʹ αδοξοὺτω ίων,
Χακ τὼν δοκουντων, ἀυτὸς ου ταυτον τε σθενει,

cioè, Non ha la medesima forza il medesimo discorso pronunziato da persone oscure che da illustri. Ennio imita questo pensiero, ma ne toglie con senno l’aria di massima:

Haec tu, etsi perversè dicas, facile Achivos flexeris,
Namque opulenti cum loquntur pariter atque ignobiles.
Eadem dicta, eademque oratio aequa non aeque valet.

Questo insigne poeta de’ suoi tempi che fu l’amico di Scipione Affricano il maggiore, e di Scipione Nasica e di {p. 48}altri riputati Cavalieri Romani, contemporaneo di Andronico, di Nevio e di Plauto, sopravvisse a tutti, e morto fu onorato con una statua marmorea postagli nel sarcofago gentilizio degli Scipioni, giusta la testimonianza di Ovidio,

Ennius emeruit, Calabris in montibus ortus,
Contiguus poni, Scipio magne, tibi.

Cicerone ci ha conservato il di lui epitafio:

Aspicite, o civeis, senis Ennii imagini formam.
        Heic vestrum panxit maxima facta patrum.
Nemo me lacrumis decoret, neque funera fletu
        Faxit. Cur? Volito vivu’ per ora virum.
{p. 49}

IV.

Teatro di Plauto. §

Il gastigo di Nevio contenne la mordacità de’ Comici suoi contemporanei, e tutta ne rivolse l’energia alla piacevolezza. Marco Accio Plauto nativo di Sarsina nell’Umbria mancato essendo Consoli L. Porcio Licinio e P. Claudio l’anno 569, quindici anni prima della morte di Ennio, mostra in diversi tratti vigorosi sparsi nelle sue commedie che era dotato d’ingegno al pari di Aristofane, ma non passò oltre i confini di una prudente moderazione. Lasciata adunque la satira personale attese unicamente a far ridere imitando la maniera, i sali e le lepidezze del Siciliano Epicarmo, disegno che manifesto in varii luoghi e specialmente nel prologo del suo Pseudolo:

Ubi lepos, joci, risus, vinum, ebrietas decent,
{p. 50}
Gratia, decor, hilaritas, atque delectatio,
Qui quaerit alia his, malum videtur quaerere.

Non meno degli altri Latini si arricchì Plauto colle invenzioni delle greche favole, ma per evitare la satira de’ particolari, non altronde le tolse che dalla commedia Nuova, come si scorge da molte sue commedie. Essendo esse nelle mani di tutti, non esigono minute analisi, e basterà per Ila gioventù che se ne osservino alcune particolarità più degne di notarsi.

Anfitrione. Se non è questa una favola tessuta alla foggia della greca Ilarodia, non saprei scerne altra tralle Latine che più le si avvicini. Rintone inventore (come si è detto nel tomo precedente) di quel genere di drammi, compose appunto un Anfitrione, ed Archippo Comico ne scrisse un altro, come afferma Ateneo. Da loro frammenti non si ravvisa la via che essi tennero in costruire i loro Anfitrioni; ma è verisimile che come Plauto {p. 51}nel suo essi vi trattassero comicamente l’avventura di Giove con Alcmena, dipartendosi dal sentiero tragico probabilmente battuto da Euripide nella sua favola perduta intitolata Alcmena. Plauto nel prologo fa dire a Mercurio che la sua favola è una tragedia. Ma prevedendo la meraviglia del popolo promette di convertirla in commedia senza alterarne i versi. Riflettendo poi che dovevano favellare da una parte principi e numi, personaggi non proprii per la commedia, e dall’altra alcuni servi comici non convenienti alla tragedia, dice che la renderà una favola mista chiamata tragicommedia. Scherza egli in tal guisa sull’indole della propria favola che non ignorava di essere una vera commedia, come è da credere che fossero pur le Rintoniche. Dalla somiglianza di Sosia e di Anfitrione presa da Mercurio e da Giove derivano tutte le grazie comiche tante volte ripetute nella moderne scene negli argomenti di somiglianza. Da tal commedia Plautina si trasse in prima in {p. 52}Italia la novella di Gieta e Birria attribuita al Boccaccio, ma scritta da Giovanni Acquetini che fiori col Burchiello nel 1480, come dimostra l’Argelatia. Indi altri Italiani cominciando da Pandolfo Collenuccio tradussero questa favola e cento volte ne imitarono l’artifizio e i comici colori sotto altri nomi. Oltramonti il celebre poeta Portoghese Luigi Camoens nel suo Anfitrione conservò molte bellezze del latino originale. Il Francese Rotrou contemporaneo di Pietro Corneille trattò lo stesso argomento nella commedia detta i Sosii. Sopra ogni altro il noto Moliere colse il fiore di tutte le bellezze Plautine nel suo Anfitrione molte altre aggiungendovene. Mercurio nel prologo di Plauto accenna che per servire al Tonante la notte si è {p. 53}prolongata, e nella prima scena s’indrizza cosi alla notte stessa:

Perge, nox, ut occoepisti, gere Patri morem meo:
Optume optumo optumam operam das, datam pulchre locas.

E Moliere prese quindi l’idea di far nel suo prologo un dialogo tra Mercurio e la Notte. Il nume la prega a compiacersi di ritardare la venuta del giorno, e la Notte risponde:

Voila sans doute un bel emploi
Que le grand Jupiter m’apprête.

Mercurio ripiglia che siffatte cose possono riputarsi viltà tralle persone volgari, ma che tra’ grandi non si guarda cosi sottile:

Lorsque dans un haut rang on a l’heur de paroitre,
Tout ce qu’on fait est toujours bel et bon.

Al che la Notte con maliziosa sommessione risponde: «Su tali materie, mio Signor Mercurio, voi siete di me più esperto, e perciò mi rimetto alla vostra perspicacia. Bel bello (replica {p. 54}Mercurio) Madama la Notte, che di voi stessa corre voce che sapete in tanti climi diversi essere la fida conservatrice di mille dilettosi intrighi; ed io credo che in tal materia fra noi due si giostri con armi uguali.» Moliere accrebbe la piacevolezza di tale argomento col dare a Sosia per moglie Cleantis che è il personaggio di Tessala introdotto da Plauto, e coll’immaginare che essa al pari di Alcmena sua padrona ammetta in casa come proprio marito un altro Sosia. Piace oggi questa graziosa ripetizione de’ colori comici impiegati nell’azione de’ personaggi principali; e Moliere stesso se ne valse felicemente nel Dispetto amoroso, e la praticarono alcuni Italiani del Cinquecento e i Comici detti dell’Arte, ed anche nel teatro Spagnuolo del passato secolo il Grazioso ripete coll’innamorate le parole dette da’ padroni, facendone per lo più una parodia. Ma agli antichi, e specialmente a Plauto forse ciò sarebbe sembrato una spezie di povertà. Ogni popolo ha un {p. 55}gusto particolare, ed è stravagante il pretendere che il proprio gusto abbia ad essere norma a tutti gli altri! Comprendo che la pratica del teatro dimostra non esser priva di grazia tale ripetizione, e singolarmente quando si colorisce con vivacità, e si varia in alcuna parte, come usò Moliere. Ma non ardirei per questo di asserire con soverchia franchezza (come seguendo Bayle fassi da alcuni i quali sogliono mirar gli oggetti da un lato solo) che in ciò il Francese superò il suo modello. Dicasi la stessa cosa dello scioglimento usato dall’uno e dall’altro Comico. Il Latino secondochè ben conveniva in un teatro ripieno di superstiziosi adoratori di Giove, fa che questo padre degli Dei preceduto dallo strepito de’ tuoni comparisca nel teologion, o pulpito de’ numi, manifesti l’accaduto, e comandi ad Anfitrione di rappacificarsi colla moglie, e che costui piegando la fronte al decreto soggiunga:

{p. 56}
Faciam ita ut jubes…
Ibo ad uxorem intro.

Ma il Francese ora che tali divinità sono appunto divenute comiche larve, accomodando l’azione a’ tempi moderni, fa che Sosia con molta piacevolezza tronchi il complimento di congratulazione di Naucrate,

Le grand Dieu Jupiter nous fait beaucoup d’honneur;
Mais enfin coupons aux discours.
Sur telles affaires toujours
Le meilleur est de ne rien dire.

Egli è vero che non senza ragione Madama Dacier imputa a Plauto lo studio di filosofare con qualche affettazione; ma in questa favola sparge alcuna massima filosofica senza gonfiezza, e come si farebbe in una conversazione. Cosi nel prologo,

… Injusta ab justis impetrare non decet:
Justa autem ab injustis petere, insipientia ’st.

E poco dopo,

Virtute ambire aportet, non favitoribus.
{p. 57}
Sat habet favitorum semper qui rectè facit.

E nell’atto II, scena 2,

… Ita quoique comparatum
Est in actate hominum,
Ita Diis placitum, voluptati ut moeror comes consequatur.

Si osservi finalmente in qual maniera Anfitrione adirato nella scena 3 dell’atto IV sollevi il tuono del dire, e minacci udendo che Alcmena è in procinto d’infantare,

Numquam aedepol me inultus istic ludificabit, quisquis est etc.

A nostra istruzione Orazio aveva già detto,

Interdum tamen et vocem comoedia tollit,
Iratusque Chremes tumido delitigat ore.

Ma che pro? I pedanti loschi vorrebbero ridurre questo poema a quattro riboboli del popolaccio, e l’immaginazione della gioventù a un limitato numero di picciole idee. Ma essa che è la speranza delle belle arti, rompa {p. 58}oramai que’ ceppi pedanteschi, e si avvezzi a studiare la natura, a consultare il proprio cuore, a ritrarre la società, a ridere sul viso degli orgogliosi pedagoghi, ascoltando i consigli del buon gusto. Il Mureto, Io Scaligero, il Castelvetro, l’Einsio, hanno osservato che Plauto pecca in questa favola contro la verisimiglianza facendo che Alcmena nel tempo solo della rappresentazione, cioè in una notte e un giorno resti incinta e partorisca. Non per tanto l’Anfitrione, come testifica Giambatista Pio nel suo comento, per consenso dei dotti, si reputa la migliore delle commedie Plautine per la forza, la proprietà e la salsa facondia che regna nell’elocuzione, e per la sontuosa abbondanza dello stile veramente latino.

L’Asinaria. Onagos chiamavasi la favola del Greco Demofilo dalla voce όνος, asino, la quale Plauto imitò e nomino Asinaria. Demeneto padre troppo indulgente compassiona il figliuolo Argirippo innamorato di Filenia {p. 59}meretrice e bisognoso di denaro, senza che egli possa sovvenirlo, perchè le proprie entrate si maneggiano dalla moglie e da un servo a lei addetto chiamato Saurea. Ricorre a Libano suo servo assai trincato.

«Io (gli dice) amo mio figlio e voglio esserne amato. Così pensò mio padre, così mi educò, nè si vergognò a mio riguardo d’ingannare un ruffiano, e vestito da marinajo menarmi la donna che io amava. Mio figliuolo ha bisogno di venti mine richiestegli dalla madre di Filenia. Mia moglie rigida e spilorcia non gliene darà un picciolo, io non ne ho, perchè del mio non dispongo, e perchè

Argentum accepi, dote imperium vendidi.

«Or dunque, Libano amato, ricorro a te, trova queste venti mine, usa del tuo ingegno, ingannami, aggirami; inganna mia moglie ed il fattore Saurea; fà di tutto, purchè mio figlio abbia questo danajo, mi chiamerò di ogni cosa contento.»

Egli {p. 60}sprona in tal guisa un cavallo sboccato. Di buon grado il servo pregato dal proprio padrone si presta a quello che per naturale inclinazione farebbe. Intanto un Mercatante che ha comprato da Demeneto alcuni asini, ne manda il prezzo all’atriense Saurea, benchè conosca lo stesso Demeneto. Adunque col consenso di costui il denaro è consegnato a un altro servo additatogli come fosse Saurea. Lo riceve poi Argirippo, il quale con questa chiave riapre quell’uscio che gli era stato chiuso in sul viso. Si destina la cena, alla quale vuole intervenire lo stesso Demeneto. Viene pero essa disturbata, perchè un altro amante di Filenia rimasto escluso si vendica con avvisar di tutto la moglie di Demeneto. Non senza ragione Plauto dice nel breve prologo,

Inest lepos, ludusque in hac comoedia.
Ridicola res est.

In fatti per eccitare il riso vi si sacrifica in più di un luogo il verisimile {p. 61}ed il decoro. Un servo che prima di consegnare il danajo sospirato all’innamorato l’astringe a portarlo sulle spalle in una pubblica strada: un vecchio che cena colla bagascia del figliuolo, e si fa da lei abbracciare e baciare alla presenza del figliuolo stesso, son cose immaginate per muovere il riso per qualunque via. Favole sono queste di cattivo esempio. In qual moderno teatro si soffrirebbe senza bisbigliare lo spettacolo di un padre mentecatto che seconda a tal segno le debolezze di un figliuolo? In ciò mai abbastanza i moderni non si allontaneranno dagli antichi. Havvi non pertanto in questa favola molta vivacità comica. I caratteri della ruffiana, della meretrice e de’ servi sono dipinti con franchezza. L’ingordigia delle madri ruffiane delle figliuole, cui per una legge imperatoria si dispose che si tagliasse il naso, come anche il costume delle donne prostitute, le quali combattono sovente coll’amore e colla necessità di guadagnare; sono nella {p. 62}3 scena dell’atto I e nella 1 del III delineate eccellentemente, Con pratica e maestria si ritraggono le arti della civetteria nella I scena dell’atto IV:

Neque illaec ulli suo pede pedem homini premat:
Cum surgat, atque in lectum inscendat proximum,
Neque cum descendat, inde det cuique manum:
Spectandum ne cui anulum det, neque rogeta.

Se si trattasse poi di un amore in qualche modo renduto meno illecito, {p. 63}meriterebbe tutta la lode il tratto patetico della separazione di Argirippo e Filenia nella 3 scena dell’atto III. Del rimanente la commedia è piena di bassezze triviali e di scherzi soverchio istrionici, e talvolta indecenti, i quali piacquero assai nel tempo della Repubblica, e si riprovarono nell’età del buongusto quando viveva. Orazio e Mecenate, ed a torto nel passato secolo se ne dichiarò protettore l’erudito Benedetto Fiorettia

Casina. Greca ancora è questa favola appartenente al comicissimo Difilo, e s’intitolava Clerumenoe, e forse piuttosto Cleronemoe da κληρος, sors, sortitio, e νεμω, tribuo. Plauto la nominò Sortientes. Due servi aspirano alle nozze di una serva loro compagna chiamata Casina. L’amano a competenza il vecchio padrone ed il di lui {p. 64}figliuolo, e ciascuno di loro pel proprio intento favorisce uno de’ servi. La moglie del vecchio che ha educata la fanciulla, conoscendo la malizia del marito, ne manda fuori il figliuolo, e prende la protezione del servo da lui favorito. Per troncare ogni contrasto, convengono di commetterne alla sorte il giudizio, e pongonsi nell’urna i nomi de’ due pretensori, e se n’estrae quella del servo protetto dal vecchio. Restano scornati quelli del contrario partito, e si preparano le nozze. Ma per rendere vano l’accordo, e per deludere il vecchio insieme col Villano fortunato, la moglie fa vestire con gli abiti di Casina il servo Calino rivale escluso, il quale fingendo la sposina ritrosa è menato alla casa destinata al ricevimento, e rimasto prima col rustico marito, indi col vecchio commarito, come dice Plauto, gli respinge a pugni e a calci, e gli caccia in fuga. L’azione termina con iscoprirsi Casina ingenua e cittadina Ateniese che à destinata per consorte al figliuolo del {p. 65}vecchio. Ma ciò si accenna appena con due soli versi dalla Caterva degli attori che congeda l’uditorio:

Haec Casina hujus reperietur filia esse a proxumo.
Eaque nubet Euthynico nostro herili filio.

La favola appartiene alla commedia bassa, ed è piena di piacevolezze popolari. Essa ba prodotto un incredibil numero d’intrighi e di colpi teatrali usati da moderni spezialmente nel XVI e XVII secolo. Niccolò Machiavelli ripetè finalmente nella sua Clizia gran parte dell’azione della Casina, e ne imito diverse espressioni, e quelle singolarmente della 5 scena dell’atto II:

Inimica est tua uxor mihi, inimicus filius ecc.

Difilo in questa favola non si dimostra indegno del soprannome acquistato in Grecia. Plauto ne compose la sua Casina sommamente applaudita la prima volta che si rappresentò, e per quanto si dice nel prologo recitato {p. 66}allorchè si ripetè, superò tutte le altre favole:

Haec cum primum acta est, vicit omnes fabulas.

La Corda (in latino Rudens) è pure una favola greca del medesimo Difilo, dalla quale parimente derivarono varie commedie moderne. Tra primi che l’imitarono in Italia fu Lodovico Dolce nella sua commedia detta il Ruffiano. Non so se Difilo avesse intitolata la sua favola προτονος che significa rudens, non avendone. Plauto conservato il nome greco, nè altrove ricordandomi di averlo letto tralle favole di quel Comico citate dagli antichi. Eccone l’argomento. Un Ruffiano vende una fanciulla a Pleusidippe giovinetto preso del di lei amore, e ne riceve la caparra, promettendo di menargliela nel tempio di Venere, ma colla speranza di farne un doppio guadagno, senza curarsi del contratto, s’imbarca per la Sicilia. Una tempesta fracassa la nave, separa il Ruffiano dalla sua donna, e privo di tutto lo respinge {p. 67}alla spiaggia. Palestra con la compagna si ricovera nel tempio di Venere lungo il mare. Vi giugne anche il Ruffiano, le vede e vuol menarle via a forza; ma sono difese dal servo di Pleusidippo e dal vecchio Demone che abita in quei contorni. Vi accorre l’istesso Pleusidippo, e chiama in giudizio il Ruffiano. Intanto un pescatore raccoglie nelle sue reti un involto appartenente al Ruffiano, che contiene molte ricchezze e una cestina con gli ornamenti infantili della fanciulla Palestra e varii altri contrassegni per gli quali un dì potesse conoscere i proprii parenti. Queste cose pervenute nelle mani di Demone fanno ch’ei riconosca Palestra per la perduta sua figliuola. Il Ruffiano ricupera le sue robe, il pescatore la libertà con un buon regalo, e Pleusidippo ottiene per consorte la bella Palestra. Arturo che impietosito della fanciulla e crucciato contro del Ruffiano spergiuro ha svegliata la procella, forma il prologo della favola Plautina, nel quale {p. 68}scagliansi diversi tratti satirici contra gli spergiuri, i litiganti di mala fede e i falsi testimoni. Con molta grazia nella seconda scena dell’atto IV negli arzigogoli del pescatore Grippo si fa un ritratto di coloro che da picciole speranze sollevati si promettono grandezze impossibili e fantastichea.

{p. 69}Il Mercatante Filemone il giovane compose una commedia intitolata Εμπορος, mercator, e Plauto l’imitò ritenendone il titolo. Notasi nel prologo di questa favola una novità simile a quella che abbiamo osservata in alcune di Aristofane, cioè l’illusione distrutta dal medesimo poeta. Aristofane in qualche coro ragiona a lungo delle proprie favole e delle altrui, cose che niuna relazione hanno coll’azione rappresentata. Plauto introduce Carino che è il protagonista a parlar nel tempo stesso e come prologo e come personaggio che interviene nell’azione:

Duas res simul nunc agere decretum est mihi,
Et argumentum, et meos amores eloquar.

{p. 70}Qui la verità combatte colla finzione, in vece di prestarsi, come converrebbe, l’una e l’altra concordemente alle mire del poeta. Scorgesi da qualche commedia moderna l’effetto di simili esempi degli antichi. Gl’Intronati di Siena ed alquanti altri Italiani introdussero attori che parlano coll’uditorio, mostrando di sapere di essere ascoltati. Gli Spagnuoli nelle commedie del XVI secolo che nel seguente continuarono a rappresentarsi, fanno che il loro Grazioso quasi sempre narri al popolo ascoltatore i disegni del poeta. Moliere stesso nell’Avaro introduce Arpagone che s’indrizza agli spettatori. Gli abusi o le licenze però non mai partoriscono prescrizione contro i principii della ragion poetica. Ma veggasi l’argomento del Mercatante. Carino applicatosi alla mercatura per consiglio del padre, ne’ suoi viaggi s’iunamora di una serva di un suo ospite e la riscatta. Rimpatria, scende dalla nave lasciandovi la fanciulla, e và in busca de’ suoi. Intanto per un’altra via arriva alla nave il padre {p. 71}che a prima vista rimane preso di Pasicompsa l’amata di Carino. Chiede a un servo chi ella sia, gli è dato a credere essere una schiava comperata dal figliuolo per servire alla madre. Il vecchio si abbocca col figliuolo, gli parla della schiava, dicegli non esser propria per faticare nella loro casa, ma volerla egli comperare a conto di un amico che glie l’ha chiesta. Ripugna invano Carino, e Pasicompsa è comperata a nome di Lisimaco, nella cui casa è condotta. La moglie di Lisimaco che era in villa arriva in sua casa in tal punto, e trovatavi la giovane non senza apparente fondamento sospetta ch’esser possa qualche- intrigo del marito e strepita contro di lui. Carino perduta Pasicompsa, nè sapendo ovo esser possa, disperato pensa di prendere volontario esiglio da Ateno. Eutico suo amico figliuolo di Lisimaco lo raggiugne, lo consola, intercede per lui presso il padre, e ne ottiene che gli ceda Pasicompsa. Notabilo, a mio avviso in questa commedia scritta con vivacità e piacevolezza, è singolarmente {p. 72}la 3 scena dell’atto II per la graziosa competenza di Carino e del padre offerendo all’incanto nella compera di Pasicompsa. Nella I dell’atto III è un equivoco pieno d’arte e di sale comico quello di Pasicompsa nel supporre che Lisimaco le favelli del suo Carino, mentre quegli intende parlar del vecchio per cui l’ha comperata. Patetico è poi il congedo che Carino prende dalla patria nella I scena dell’atto V. I gramatici e i critici de’ secoli precedenti hanno eruditamente rilevate negli antichi le veneri del linguaggio e dello stile e le regole di Aristotile osservate o neglette, lasciando ai posteri più filosofi e di miglior gusto quasi intatta la più utile investigazione de’ loro drammi, cioè quella de’ tratti più vivaci, de’ vaghi colori scenici, dell’arte di maneggiar con verità i costumi.

Il Trinummo. Questa è un’ altra favola di Filemone intitolata in greco Θεσαυρος, e da Plauto detta Trinummus forse meno felicemente da tre nummi pagati per incidenza a un sicofanta. {p. 73}Il prologo vien formato dalla Lussuria e dall’Inopia di lei figliuola, la quale dalla madre è mandata ad abitare in casa del giovine Lesbonico, dopo che per le sue prodigalità ha dissipato quanto aveva. Egli ha venduta fin anche la casa, in cui Carmide suo padre avea nascosto un tesoro senza di lui saputa. Callicle vecchio onorato, cui Carmide partendo raccomando i figliuoli, gli rivelò il segreto del tesoro, affinchè questo insieme colla casa non andasse in altrui potere, prende il partito di comperarla egli stesso. Intanto Lisitele giovane ricco e ben costumato vorrebbe per moglie la sorella di Lesbonico senza dote; ma questi reputando cosa disdicevole per un uomo della sua condizione dargliela indotata, vuole assegnarle un picciolo podere che gli è restato. Ripugna Lisitele per non ispogliarlo dell’unica cosa che può sostentarlo, temendo che ridotto alla mendicità non pensi indi a sparir dalla città per disperazione. Callicle intesa questa nobil gara, procura rimediarvi, e dar {p. 74}la dote alla fanciulla senza palesare il segreto del tesoro. E a consiglio di un suo amico finge due lettere mandate da Carmide, una a lui stesso, e l’altra al figliuolo accompagnata da mille filippi per la dote della sorella. Un sicofanta prezzolato con tre nummi, onde prende il titolo la commedia, si addossa il carico di recar queste lettere. E volendo questo furbo eseguire il concertato, alla prima imbatte nello stesso Carmide padre di Lesbonico che rimpatria, e ne risulta una scena sommamente piacevole imitata poscia soventi fiate da’ drammatici Italiani del cinquecento. Alla venuta del padre si sospende la vendita della casa, e si conchiudono le nozze di Lisitele colla sorella di Lesbonico, e di Lesbonico colla figliuola dell’onorato amico Callicle. Questa favola tutta decente e nobile e condotta con regolarità e piacevolezza, dimostra, che se Filemone inventava sempre con simil garbo, accoppiando alla ben disposta tela lo stile, certamente con molta ragione venne tante volte in Grecia {p. 75}coronato. Notando al nostro solito le scene più belle, ottima fralle altre ci sembra la 2 dell’atto I di Callicle e Megaronide. Questi riprende l’amico come uomo poco onesto ed ingordo per essersi approfittato della disgrazia di Lesbonico comperando la di lui casa, e dandogli, secondo la di lui espressione, la spada in mano perchè si togliesse la vita. Si giustifica il buon vecchio, e mostra la malignità mal fondata di chi va spargendo tali voci senza essere delle cose appieno informato. Persuaso Megaronide dell’onoratezza del l’amico dal di lui racconto, non può darsi pace al riflettere alla malignità di coloro che vanno seminando novelle e giudicando sinistramente delle altrui azioni. E rimasto solo esclama in simil guisa, secondochè io traduco:

Veracemente non si dà più matta
Nè più stolida gente e più mendace,
Nè più vana cicala, nè più pronta,
A vender come storie i proprii sogni,
E spergiurando accreditar le fole,
{p. 76}
Di codesti oziosi bigherai
Che passano la vita affastellando
Novelle, rattopandole a lor modo,
Ripetendole ognor con nuove giunte.
Ned io mi traggo fuor di tal genia
Che da’ lor detti inzampognar mi feci.
O che gente! o che forche! o che linguacce!
O che sfacciati! Quanto in città passa,
Tutto fingon saper, ma nulla sanno.
Ciò che pensa ciascun, ciò che domani
O da quì a un mese ha da pensar, ben sanno.
Ciò che all’orecchio il Re da solo a sola
Susurra alla Regina, essi pur sanno.
Lodino a torto o a dritto, i panni addosso
Taglino a questo e a quello, il falso e il vero
Non gli trattien, purchè quanto alla bocca
{p. 77}Lor si presenta, possan dir che sanno.
Tutto il mondo volea che il mio vicino
Fosse d’Atene anzi di vita indegno,
Per aver sovvertito e messo al fondo
Il giovane Lesbonico. Io credendo
A tali maldicenti novellieri
Venni a rimprovverar l’onesto amico.
Oh se qualor si leva un romor falso,
D’una in un’altra lingua rimontando
Si venisse a indagar da chi mai nacque,
E gastigato il novellier ne fosse.
Saria certo minor la maldicenza,
E i malvagi ciarloni assai più pochi,
Che sanno sempre quel che mai non sanno.

Il Penulo. In greco s’intitolo Καρκηδονιος, Cartaginese, e Plauto non ci ha conservato il nome dell’autore. Consiste l’argomento in un Cartaginese che {p. 78}va in cerca di un nipote e di due sue figliuole perdute dall’infanzia, trovate poi fortunatamente in Calidonia. I primi quattro atti si aggirano intorno agli amori di Agorastocle per la prima delle sue cugine a lui ignote, e di Antemonide soldato per la seconda. Nel V comparisce il Cartaginese Annone recitando sedici versi punici. Essi presso a poco contengono il sentimento degli undici seguenti versi latini, ne’ quali ringrazia gli Dei per essere arrivato salvo in quella città ove pensa far diligenza per sapere delle figliuole e del nipote per mezzo di Agorastocle già adottato da un suo ospite chiamato Antidamante. Chi ha molto agio potrà consultare un gran numero di dotti comentatori, i quali seriamente si sono applicati a interpretare que’ pochi versi scritti in una lingua morta e ignorata, e della quale non rimangono libri che accrescano le umane cognizioni; che sembrami il saggio fine dello studio delle lingue. Qual frutto si è ricavato dalle loro fatiche? Ciascuno {p. 79}volle in tali versi rinvenire il linguaggio da se coltivato. Giuseppe Scaligeroa considerò questa scena poco lontana dalla purità dell’ebraismo; e Filippo Pareo la scrisse in lettere ebraiche nella sua edizione di Plauto. Giorgio Errico Safuniob la riferisce al dialotto Arameo. Giovanni Errico Majoc vuol provare non essere essa differente dall’idioma Maltese, nel quale secondo lui la lingua punica si è conservata. La curiosità troverà da pascolarsi in quanto, oltre a’ nominati, dissero per illustrar questa scena il Salmasio, il Reinesio, il Petit, il Bochart, il Clerico, il Seldeno, il Casaubon, il Kirker, ed altri letterati di simil notad. Chi poi volesse durare una {p. 80}fatica più leggiera, si metta ad arzigogolare con gli etimologisti ghiribizzosi, i quali, a guisa dell’iride o del colla delle colombe cangiando colore ad ogni movimento, dalla semplice somiglianza di una o due lettere sanno trovare in ogni parola il linguaggio Cinese, Etiopico, Pehlvi, Zend, Malaico, Persiano, Copto. Un uomo che avesse sì strano gusto, copiando alla peggio gli scarsi Dizionarii di tali lingue antipodiche, avrà l’immaginario diletto di lusingarsi di abbattere tutte le verità istoriche e tutte le nozioni del senso commune; e chi l’ascolterà avra quello di ridersi di lui. Noi intanto lasciando ad uomini siffatti i versi punici di Plauto per confrontarli colle sillabe di tutti i linguaggi a noi e ad essi medesimi sconosciuti, e adorando senza seguirle le orme di cotali venditori di fole, con maggior senno è vantaggio osserveremo che nella seconda scena del medesimo V atto il servo Milfione che appena sa qualche parola punica, va a parlare al {p. 81}Cartaginese, ma appunto per 10 poco che sa del di lui idioma, ne interpreta le risposte alla maniera degli etimologisti imperiti e di Arlecchino; per la qual cosa Annone gli parla nella lingua del paese, e viene a sapere che vive in Agorastocle il perduto suo nipote. Questa scoperta anima Milfione a tentare, per mezzo di tale zio, l’acquisto dell’innamorata del suo padrone, la quale trovasi in potere di un ruffiano. Propone perciò al Cartaginese che voglia prestarsi a fingere di conoscere le due sorelle del suo paese per due sue figliuole perdute. A ciò Annone prende un’aria di tristezza, e dice che furono in fatti a lui rubate due figlie insieme colla loro balia. Bravissimo (ripiglia allegro Milfione)! tu fingi a meraviglia bene; il principio non può esser migliore. Pin che io non vorrei (replica Annone). Ottimamente (Milfione prosiègue): O astutissimo, trincato, scaltrito Cartaginese! Che volto! che lagrime! che malinconia! Evviva. Tu superi me stesso {p. 82}che sono l’architetto di questa frode. Questo comico colore sempre piacevolissimo tante volte imitato da Francesi e Spagnuoli, trovasi felicemente adoperato prima forse di ogni altro da Giovanni Boccaccio nella Novella del porco rubato a Calandrino, e da Giambattista della Porta in più di una commedia, e specialmente nell’Astrologo.

Il Persiano. Si tratta in questa favola dell’astuzia di un servo che agira un ruffiano. Eccone la condotta.

Atto I. Tossilo servo fra se ragionando conchiude che la costanza di un amante povero supera le più gloriose fatiche di Alcide; perchè affrontar leoni, idre, cinghiali, uccelli Stinfalici ed Antei, non sono così dure imprese come è quella di combattere con amore. Trovasi egli in tal caso, e cerea danajo per soddisfare alla sua passione, ma non ottiene altro in risposta che un non ne ho. Vede Sagaristione altro servo, e gli va incontro. Dopo i saluti, questi gli domanda, che si fa? Si vive, risponde Tossilo; {p. 83}Contento (dice l’altro)? Assai (Tossilo)se il moi pensier riesce. Sagaristione osserva che l’amico è pallido e sparuto. Tossilo gli confessa di essere innamorato. Che mi dì tu, quegli risponde; è qui venuta la moda che i poveri servi amoreggino? Questo è il mio destino, risponde Tossilo. L’invita poscia a viver seco durante l’assenza del suo padrone; promettendo trattarlo con ogni lautezza. Afferma non aver egli altra cura che lo crucia, se non quella di riscattare dalle mani di un Ruffiano una bella schiava che egli ama. Mancangli a tal uopo seicento nummi, e prega Sagaristione a volerglieli prestare per tre o quattro giorni. Stupisce costui a tal domanda:

Mentecatto, osi a me con tal franchezza
Domandar sì gran summa! A me seicento
Nummi! a me! Se mi vendo intero intero,
Sa Dio se raccorrò quanto tu chiedi.
{p. 84}
Tu vuoi che chi di sete stà morendo,
Cavi acqua dalla pomice.

Chiedi almeno, dice Tossilo, ad altri questo danaro. Sagaristione promette, e si separano. Sopravviene il parassito Saturione, e nel volere entrare in casa di Tossilo, per vedere se vi è rimasto dal dì passato qualche cosa da ingollare, vede che la porta si apre e si trattiene. Torna fuori Tossilo, che ha pensato con un’ astuzia di fare che lo stesso padrone della sua bella sborsi il danajo per pagarne il riscatto. Si avvede del parassito, di cui abbisogna per l’esecuzione, e per adescarlo finge di non averlo veduto, e di ordinare a’ servi un banchetto per un amico che attende. Saturione con giubilo comprende esser lui l’amico atteso, e gli va incontro chiamandolo suo Giove terrestre. Tu giungi, Tossilo gli dice,bene a tempo, caro Saturione. Menti, amico, egli risponde, che io non vengo miga Saturione, ma Esurione. Questi sali si passano a’ simili {p. 85}interlocutori e alla bassa commedia; ma fuori della scena riescono freddi, nè in teatro si ammettono in un genere comico più elevato. Oggidi per iscreditarsi un uomo tra persone ben nate, basterebbe che proferisse alcuna di queste inezie che i Francesi chiamano turlupinades. Tossilo gli dice ch’egli mangerà, purchè si ricordi di ciò che jeri gli disse. Mi ricordo, si, risponde, che non vuoi che la murena e il congrio si riscaldino. Non di questo ( l’altro)ma de’ seicento nummi che dovevi prestarmi. Mi ricordo anzi (Saturione)che tu me ne pregasti, e che io non ebbi che darti. Un parassito con danajo è indegno di portarne il nome. Egli esser dee puro cinico di setta; pochi mobili a lui bastano: un vaso, una stregghia, un orinale, un pajo di zoccoli, un pallio e un picciolo borsotto da guardare alcuna coserella per divertirsi mentre stà in casa; questo è quanto può possedere un buon parassito. Orsù (dicegli in fine {p. 86}Tossilo)da te altro non voglio che la tua figliuola… La mia figliuola? (Interrompe Saturione)No, per Dio, che finora a quell’uscio non ha fiutato verun cane. No, no dice Tossilo; io la vo’ per altro. Ella e vaga e vezzosa, e tu non sei conosciuto dal ruffiano Dordalo. Certo che no (Saturione); vuoi tu che io sia conosciuto da altri che da chi mi dà da mangiare? Or dunque (ripiglia Tossilo)tu puoi darmi il danajo che io cerco, permettendomi di vendere la tua figliuola. E Saturione.Tu vendere la mia figliuola? Anzi non io (Tossilo dice); ma qualche altro che possa fingersi forestiere; cosa non difficile, non essendo scorsi che sei mesi dalla venuta del Ruffiano da Megara in questa città. Saturione si rattrista al vedere andare in fummo il banchetto, se dee dipendere da questo intrigo. Tossilo conchiude che egli rimarrà digiuno, se non vende la figliuola. Vendi dunque me ancora, purche tu mi {p. 87}venda satollo, replica Saturione. Tossilo allora così gli dice. Vanne dunque in casa, previeni la giovane, istruiscila di quanto dee dire, di chi si abbia a chiamar figliuola, da chi debba favoleggiare di essere stata rapita, in qual guisa figurarsi nata non lungi da Atene, come piangere al ricordarsi della patria e de’ parenti. Oh taci pure (ripiglia l’altro); ella è tre volte più astuta di quello che tu brami. E Tossilo:Ottimamente. Prendi anche un vestito per mascherar colui che dee fingersi forestiere e vendere tua figlia. Alla stessa foggia vesti ancor lei. Ma (Saturione)donde prenderemo tali vesti e fregi? Prendetele (Tossilo)dal Guardaroba del Coro; gli Edili le hanno già apparecchiate. Ora qui mentovando il Corago e gli Edili si fanno sparire i personaggi della favola, e venire innanzi gl’istrioni e le persone che assistono al l’esecuzione dello spettacolo, siccome accennammo nel parlar di Aristofane. Gli antichi da una {p. 88}banda dipingevano al naturale per ottenere la bramata illusione, e dall’altra la distruggevano alle volte con qualche espressione. I moderni con senno gli emuleranno nel primo disegno senza fermarsi molto sulle loro picciole macchie, seguendo l’avviso Oraziano. Tossilo aggiugne che come il ruffiano avrà sborsato il danajo per prezzo della finta schiava, Saturione si farà innanzi dandosi a conoscere come di lei padre, e la si ripiglierà.

Atto II. Lenniselene per la sua fante Sofoclidisca manda un biglietto a Tossilo suo amante, e questi con un altro spedisce a lei Pegnio, incaricandogli di affrettarsi in modo, che possa trovarsi in casa quando egli pensi che sia ancora da Lenniselene. Pegnio risponde, ti obedirò, e torna in casa. Dove vai? dice Tossilo; e Pegnio: in casa, per trovarmici mentre tu pensi che io sia da Lenniselene; motto, ovvero, giusta la lingua de’ Comici dell’arte, lazzo e botta adottata in seguito da Pulcinelli ed Arlecchini {p. 89}Parte Tossilo. Ma che fa intanto Sofoclidisca? Ella è fuori: non vede Tossilo a cui è spedita? Direi di no, perchè i teatri antichi potevano rappresentare in una medesima veduta più luoghi di tal modo che un personaggio posto a favellare in una banda della scena poteva essere coperto e non veduto da chi agiva in un’altra fino a che non venisse avanti nel pulpito. S’incontrano poi i due messagi Sofoclidisca e Pegnio; e la loro scena è vivace e propria di tali persone, cioè di una fante di un ruffiano e di un ragazzaccio monello. È però lunga, inutile alla condotta, e contraria al comando di chi gl’invia; ma in ciò vien dipinto il costume e l’indole de’ servi, i quali sogliono volentieri trascurare il loro dovereper voglia di cicalare. Entrano nelle case rispettive dove sono stati mandati. Viene fuori Sagaristione allegro per avere avuto del danaro dal proprio padrone per mercare un pajo di buoi e pensa valersene per prestarlo a Tossilo. Vede Pegnio che esce {p. 90}dalla casa del ruffiano, e vorrebbe domandargli di Tossilo, ma colui risponde colla solita sua insolenza e parte. Esce Tossilo dicendo alla fante che consoli la padrona, essendo già disposto e pronto il modo di liberarla. Sagaristione con uno scherzo basso e servile gli mostra un tumore nel collo formato colla borsa del danaro, dicendo di essere una vomica. Tossilo allegro lo ringrazia; e promette di renderglielo fra pochi momenti, sperando di cavarlo dal medesimo ruffiano. L’introduce in sua casa perchè pensa che avrà bisogno della di lui opera.

Atto III. Viene Saturione colla Vergine sua figliuola abbigliata all’orientale. Le rammenta a che viene, e come sarà venduta. La Vergine con saviezza e modestia procura di rimuoverlo da tal disegno in simil guisa, secondo la mia versione:

Ver.

Di grazia, padre mio, benchè sì spesso
Corri alle mense altrui, per la tua gola
{p. 91}
Vendi forse tua figlia?

Sat.

Oh buon! Vorresti
Che per lo re Filippo ovver per Attalo
Vendessi il mio?

Ver.

M’hai tu per figlia o serva?

Sat.

Per tutto quello io t’ho che alla mia pancia
Tornerà conto. Io su di te comando,
Tu non già su di me s’io penso giusto.

Ver.

Egli è così, tutto il comando è tuo.
Pur benchè poveretti, è meglio, o padre,
Viver con poco e conservar l’onore:
Che se alla povertà l’infamia accoppi,
Persa è la fede, e povertà più grave
Diventa, o padre.

Sat.

Sei seccante, o figlia;
Anzi odiosa.

Ver.

No, nol son, nè credo
D’esserla, o padre, se in età si verde.
{p. 92}
Ben dritto penso. Narreran la cosa
Di tua figlia a svantaggio i tuoi nemici,
Non attendendo al ver, bensi alla voce.

Sat.

Narrino a posta loro, ed in malora
Vadano pur; fo caso io de’ nemici?
Tanto gli stimo quanto un desco voto.

Ver.

Padre, l’infamia non si estingue mai.
E quando il pensi men, t’esce sul viso.

Ver.

Nol temo, no; ma che si finga, spiacemi.

Sat.

Temi tu ch’io ti venda da buon senno?

Ver.

Nol temo, no; che si finga, spiacemi.

Sat.

Ti spiaccia pur, sarà quel che vogl’io.

Ver.

Sarà?

Sat.

Sarà; che cianci?

Ver.

A ciò sol pensa.
Quando un padron di bastonar lo schiavo
Minaccia e sbuffa, benchè poi nol faccia,
{p. 93}
Se il braccio e in alto, se il bastone è presso
A cader su di lui, s’ei già si spoglia,
on palpita il meschino in quell’istante?
Cosi tem’io quel che accader non debbe.

Ma ella si affanna in vano. Saturione si ricorda solo delle cene di Tossilo, e vuol compiere l’ordita trama. La figliuola altro non potendo si accomoda a bene eseguire i comandi paterni, ed entrano in casa di Tossilo. Dordalo risoluto vuole andar da Tossilo o perchè gli dia il pattuito prezzo dalla sua schiava, o per disporne a suo modo sciogliendosi dal contratto; ma si ferma al sentire le strepito che fa la di lui porta nell’aprirsi. Esce Tossilo baldanzosamente, e vedendo Dordalo, con disprezzo ed alterigia gli dice che prenda pure il danaro aspettato con tanta diffidenza. Con pari insolenza rispondegli Dordalo. Rimangono di accordo che il raffiano giuridicamente dichiarerà libera {p. 94}Lenniselene, e poi per la porta dell’orto la menerà in casa di Tossilo.

Atto IV. Tossilo contento del bene ordito inganno chiama Sagaristione perchè conduca fuori la Vergine, e porti seco le lettere ch’egli ha finto di aver ricevute da Persia dal proprio padrone. Lo fa trattenere in disparte avvertendogli di comparire poichè avrà egli parlato a Dordalo. Viene questi a dire a Tossilo di avere già manomessa la fanciulla e menatala nella di lui casa. Tossilo in segno di sapergliene grado e di averlo per amico gli dà a leggere le finte lettere, ove si accenna di una Vergine Araba fuggitiva da vendersi, e mostrando desiderio di apportargli utile gliene propone la compera. Dordalo, dopo di avere alquanto esitato, cerca di vederla insieme col forestiere che l’ha condotta. La vede, e secondo l’usanza di chi vuol comperare per poco, l’approva a mezza bocca. Tossilo gl’insinua di udirla un poco prima di parlar del contratto, per ben conoscerne le maniere ed il pensare. La scena in {p. 95}cui esce Sagaristione favellando colla fanciulla, mentrecchè gli altri due stanno ad ascoltare, e nella quale si effettua la vendita, è piena d’arte, di grazie, di latine veneri e di buon senso. Ne tradurremo qualche frammento:

Sag.

Or che dici di Atene? Non ti pare
Splendida e vaga?

Ver.

Io la città sol vidi,
Gli usi e gli abitator poco conobbi.

Tos.

O che savio principio!

Dor.

Da un sol motto
La saviezza di lei non si discerne.

Sag.

Come di mura essa è munita e forte!

Ver.

Se cittadini avrà ben constumati,
A meraviglia fia munita e forte.
Se andrà perfidia fuor de’ suoi confini,
E il peculato, l’avarizia e poi
L’invidia, l’ambizion, la maldicenza,
Ed in settimo luogo lo spergiuro!

Tos.

Avanti.
{p. 96}

Ver.

La pigrizia nell’ottavo,
Prepotenza nel nono, e dietro ad essa
Ogni malvagità. Se da tal peste
Non si ripurghi, a conservarla io penso,
Ch’è poco ancor di cento doppii un muro.

Tos.

Che ne dici?

Dor.

Che vuoi?

Tos.

Te fra que’ dieci
Compagni ella ha contato, e quindi in bando
Andar dovrai.

Dor.

Perchè?

Tos.

Come spergiuro.

È ammirato quanto ella dice, e se ne tratta la vendita. Tossilo per accreditare l’inganno con finto zelo suggerisce a Dordalo che nulla conchiuda prima di aver domandato alla fanciulla quel che conviene; indi di soppiatto avverte la Vergine a pensare alle risposte. Ella scaltramente soddisfa ad ogni domanda con parole di doppio senso che ingannano il ruffiano e danno piacere {p. 97}allo spettatore che ne comprende il vero significato. Questo artificio riesce mirabilmente in ogni specie di commedia, ed è la più ingegnosa fonte del ridicolo, sempre che i sentimenti equivoci sieno naturali, e non già tirati al proposito con gli argani. Serva di esempio quest’altro squarcio che io cosi traduco:

Tos.

Questi, o figliuolo, è un uom dabbene.

Ver.

Il credo.

Tos.

Presso di lui non servirai gran tempo.

Ver.

Cosi lo spero, se i parenti miei
Faranno il lor dover.

Dor.

Non dei stupire,
Se della patria tua, se de’ parenti
Noi ti chiediam ragion.

Ver.

Stupir? perchè?
Non permetto il destin che mi fa serva,
Che del mio mal meravigliar mi debba.

Tos.

Deh non piangere.
{p. 98}

Ver.

Oh Dio!

Tos.

(Sia maledetta!
Che trincata e che scaltra! ha senno: oh quanto
Aggiustato risponde!)

Dor.

Il nome tuo

Tos.

Ora temo che sbagli)

Ver.

Al mio paese
Lucrida era chiamata.

Tos.

O nome insigne,
O nome prezioso! Ed a comprarla
Indugi ancor? (Temei di qualche intoppo;
Ma saltò il fosso a meraviglia).

Dor.

Io spero
Che se ti compro, Lucrida sarai
Ancor per la mia casa.

Tos.

Un mezzo mese,
Dordalo, non cred’ io ch’abbia a servirti.

Dor.

Lo faccia il cielo.

Tos.

E perchè il faccia, adoprati.
(Tutto finor va bene).

Dor.

Ove nascesti?

Ver.

Per quello che mi disse un dì mia madre,
{p. 99}
In cucina in un canto a man sinistra.

Ella in somma sfugge con destrezza di mentire rispondendo indirettamente, nè mai viene a nominar la patria, o sia perchè non voglia mentire manifestamente, ovvero sia perchè intenda il poeta mostrare ch’ella siesene dimenticato, e si salvi con dire che la sua patria è la città dove ora serve, e cose simili. Dordalo invogliato conchiude il contratto col finto Persiano, contandogli sessanta mine pattuite. Gli domanda poi del di lui nome, ed egli chiudendo nel nome tutta la serie della frode, mi chiamo, gli dice,

Vaniloquidorus Virginisvendonides
Nugidololoquides argentiexterebronides
Tedigniloquides nummorum expalponides,
Quod semel arripides, nunquam postea eripides;

il che graziosamente s’imitò da Giambattista della Porta, nella cui Trappolaria il servo risponde: mi chiamo {p. 100}Nulla credimi Tuttigabali Ororubali Donnatoglili. Partito Sagaristione e Tossilo, esce Saturione padre della finta schiava, e la prende per mano. Ella lo saluta col nome di padre. Dordalo rimane attonito all’udirsi chiamare in giudizio dopo di essere stato inzampognato.

Atto V. Trionfa Tossilo colla sua Lenniselene e coll’amico Sagaristione, e dispone un magnifico banchetto, non solo per tripudiare con gli amici e coll’amata, ma per fare arrabbiare vie più lo scontento ruffiano. Viene Dordalo lagnandosi del maledetto Persiano, e Tossilo l’invita alla lore mensa, e deridendolo e maltrattandolo danno fine alla commedia. Rimane qualche dubbio sul luogo della scena. I primi atti si passano in istrada; ma quel bagordo dove segue? Metastasioa non istima che si {p. 101}celebrasse in istrada, e suppone che siesi cambiata la scena. Figurandosi però cambiata il luogo in una stanza propria per una tavola, come può seguire la venuta del ruffiano da’ commensali schernito? O bisogna immaginare un teatro alla maniera di quelli veduti in Napoli in tempo di Domenico Barone marchese di Liveri, ne’ quali senza cambiar la scena vedevansi azioni fatte nell’interiore di una casa ancor dalla strada, ovvero supporre che il servo baldanzoso Tossilo, per far disperar Dordalo, avesse disposta la mensa avanti la porta della propria casa per farsi veder da lui, come in fatti avviene. Or nell’uno e nell’altro supposto si conserverebbe l’unità del luogo senza mutazione di scena.

Pseudolo. Vedesi in questa favola un altro ruffiano aggirato e truffato, e tanto più graziosamente, quanto che n’è prima avvertito da un vecchio, il quale per una scommessa fatta con Pseudolo suo servo, è interessato a rendere il ruffiano attento perchè non vi rimanga {p. 102}rimanga col danno e colla beffa perdendo certa sua schiava. In genere di trappole servili è questa una delle più ingegnose e piacevoli di quante se ne sono esposte nella scena. Cicerone nel suo Catone ci fa sapere che Plauto stesso oltremodo se ne compiaceva. Tra’ vantaggi che ci presenta l’esame delle opere degli antichi, contasi quello nulla nojoso di rinvenire la sorgente delle moderne. Il più volte lodato Cavaliere della Porta prese ad imitare questa favola Plautina nella poc’anzi mentovata Trappolaria; ma ne nobilitò l’argomento e ne rendette più interessanti i caratteri, oltre all’avere alla trappola accresciuto movimento e vivacità con una promessa fatta dal servo per sovrappiù di avvisare il ruffiano nel tempo stesso che l’ingannava; la qual cosa eseguisce con graziosissimi colori comici, de’ quali gode sommamente lo spettatore inteso dell’ingegnosa astuzia. Notabile nella commedia di Plauto è la sfacciataggine del ruffiano che con {p. 103}alacrità confessa tutte le sue malvagità. Callidoro gli dice, perjuravisti, sceleste, ed egli risponde con prava tranquillità:

At argentum intro condidi.
Ego scelestus nunc argentum promere possum domo.
Tu qui pius es, istoc genere gnatus, nummum non habes.

Questa è la solita risposta de’ furfanti che deridono i buoni e si animano a continuare nelle loro infamie. Il poeta acconciamente la mette in vista per insegnare a detestarla, e per rendere più accetta al popolo la beffa che ne riceve poscia quell’indegno che la tiene in bocca e nel cuore. Si osservi che in questa favola ancora Pseudolo distrugge l’illusione col volgersi nella fine dell’atto I agli spettatori:

Suspicio est mihi nunc vos suspicarier,
Me iccirco haec tanta facinora promittere,
Qui vos oblectem, hanc fabulam dum transigam ecc.

{p. 104}Parimente nella 4 scena dell’atto Il nega di narrare l’accaduto agli altri attori, perchè non l’ignorano gli spettatori, per li quali si rappresenta:

… horum causa haec agitur spectatorum fabula,
Hi sciunt, qui hic affuerunt, vobis post narravero.

Il savio leggitore nota ciò e passa senza fermarsi a trarne ridevoli conseguenze contro gli antichi. Egli non può ignorare che da essi non vuolsi apprendere il modo di sceneggiare che varia secondo i tempi e le nazioni, ma la sempre costantemente mirabile semplicità artifiziosa dell’azione, ma l’arte in tutti i tempi inarrivabile di dipignere i caratteri, i costumi, le passioni, ma la felicità di motteggiare e di mettere nel vero punto di vista le umane ridicolezze. Per tali cose la favola Pseudolo fu da Gellio chiamata festivissima ed ammirata dai moderni più sagaci interpreti, tra’ quali si distinse Federigo Taumanno. {p. 105}Giovanni Dousa l’intitola ocellus fabularum Plautia

Curculione. Dal nome di un Parassito che inganna un soldato millantatore, prende il titolo questa favola. Egli ruba al vantatore un anello, pel cui mezzo acquista una vergine venduta da un ruffiano e la reca in potere di Fedromo di lei innammorato corrisposto. Per quell’anello medesimo che ha servito all’inganno, la vergine viene riconosciuta per sorella del Soldato. Se v’ha favola di Plauto, in cui a ragione cada l’osservazione di Madama Dacier delle sentenze filosofiche affettate, è la presente. Notabile in essa è il personaggio del Corago introdotto nell’atto IV, il quale teme di perdere le vesti date in affitto a Curculione. Lo spirito di verità che rende i componimenti rappresentati interessanti, non regnava molto in Roma al tempo della Repubblica prima di Terenzio.

{p. 106}Aulularia. Somministra il titolo a questa favola un vaso o pentola ripiena d’oro d’intorno a quattro libbre di peso trovata dal vecchio Euclione, il quale avvezzo alla miseria da tanti anni non sa far uso di quel danajo, e di bel nuovo lo seppellisce. Il di lui carattere con somma maestria e con cento grazie dipinto da Plauto è stato mille volte copiato in Italia, in Ispagna, in Francia ed in Inghilterra, e lo scioglimento di tal favola in molte comedie moderne si è ripetuto. Sebbene l’Aulularia non ci sia pervenuta intera, pur si tradusse nel secolo XV da Paride Ceresara, per quel che apparisce da una lettera di Lodovico Eletto Mantovano de’ 22 di giugno del 1501a. L’ufficio del prologo si fa dal Lare famigliare della casa di Euclione uno de’ penati custodi delle case degli {p. 107}antichi. Varie sentenze e bene applicata e lontane dall’affettazione possono notarvisi. Tali a me sembrano p. e. nella scena seconda dell’atto II le seguenti:

… Si animus est aequus tibi, satis habes qui bene vitam colas.
Altera manu fert lapidem, panem ostendit altera;

come ancora ciò che risponde Megadoro all’avaro Euclione, il quale dice di non aver modo di dotar la figliuola:

………………………………… Ne duis:
Dummodo morata recte veniat, dotata est satis.

Cosi parimente ne giudico l’anzi lodato Dousaa: Nam praeter dictionis genus vere Romanum, tota aethica est, et ad pudicos (unum alterumve locunt exceptes modo) honestosque mores facta videri potest. Perciò non ignobili Critici la preferiscono a tutte le altre. Tutte le {p. 108}commedie Plautine (diceva il grande ammiratore di Plauto Udeno Nisielia) sono altrettante muse, ma l’Aulularia risiede in cima senza fallo come Dea di tutte quante le altre. Si vuole intanto osservare che Euclione nel fine dell’atto III dice di volere andare a nascondere il suo tesoro nel tempio della Fede, e nella seconda scena dell’atto IV egli comparisce nel luogo dove ha detto di volere andare. O dunque bisogna dire col celebre Metastasio che i luoghi di tal favola sien due; o secondo noi concepire un teatro composto di più spartimenti iu guisa che vi sieno segnati più luoghi richiesti per eseguire l’azione alla Liveriana. Antonio Codro Urceo Bolognese sotto Sigismondo e Federigo III Imperadori suppli a questa favola alcuni versi, e l’illustrarono altri più recenti comentatori come Gioacchino Camerario, Giorgio Reimanno, {p. 109}Leibschütz, Stefano Riccio, Maurizio Sidelioa.

Cistellaria. Denominasi questa favola da un cestino con gli ornamenti infantili di una bambina esposta, ond’ella è ciconosciuta da’ genitori. Delineati a meraviglia vi si scorgono i caratteri di una meretrice, di due ruffiane di costumi differenti, della fanciulla esposta, la quale è fortemente innamorata di un giovine che l’ama ancora. Questo valoroso Comico non ha bisogno di perdersi in episodii. Corre allo scioglimento, e talvolta accenna soltanto quello che mena alla catastrofe; e pure in cosi fatta semplicità di argomento e di condotta versa in tal copia le facezie e i vezzi che l’erudito Dousa ne rimaneva attonito. Ma tale per lo più è l’indole e l’ingegno fecondissimo di Plauto. Si osserva nella Cistellaria una novità che altrove rarissime volte si rinviene. Il prologo {p. 110}fatto dal Dio Ausilio non si premette all’azione, ma vi s’inserisce e si colloca nella terza scena dell’atto I. Con Plautina felicità veggonsi nella scena di Alcesimarco che è la prima dell’atto II dipinte vivamente le contraddizioni, le pene e gli amareggiati diletti dell’amore.

I Menecmi. Di questa commedia, che dalla compiuta somiglianza di due gemelli Siracusani prende le grazie, le scene equivoche, il groppo e lo scioglimento, non credo che sievi nazione moderna che non abbia traduzioni o almeno imitazioni. Nel XV secolo si rappresentò in volgare nella Corte di Ferrara. Gl’Istrioni la perpetuarono sulle scene recitando le loro commedie dell’arte, e l’intitolarono i Simili di Plauto. Tralascio poi di tutte distintamente riferire le imitazioni che se ne fecero ne’ precedenti secoli in Italia co’ titoli de’ Gemelli, delle Gemelle, della Somiglianza ecc. Nel XVII secolo la tradusse in {p. 111}Francia il faceto m. Regnard. Il teatro spagnuolo conta eziandio un gran numero di favole di somiglianza, el Parecido en la Corte, el Parecido de Tunes ecc.; ma queste per altro prendono sovente un portamento tragico, e di molto si discostano dal comico artificio latino. Ozioso adunque sarebbe il trattenersi lungamente a favellare di si nota favola, la cui varietà e lapidezza invita a replicarne la letturaa.

Mostellaria. Nell’assenza del padre un giovine di morigerato diviene dissoluto, spende trenta mine a liberare dalla servitù l’innamorata, dissipa, profonde, e si carica di debiti. Arriva il padre in une de’ giorni che egli in compagnia di donne ed amici stà gozzovigliando. Un servo autore de’ di lui disordini appena ha tempo da {p. 112}far menar dentro un commensale ubbriaco, e chiudere la casa. Incontrasi di poi col vecchio e gli dà ad intendere esser la casa posseduta da fantasimi e mostri, perchè sessant’anni fa vi fu spogliato e ammazzato un forestiere da colui che vendè la casa al vecchio padrone. Questa mensogna creduta dal vecccio è quasi distrutta nel nascere dall’arrivo di un creditore; ma il servo per giustificare il debito finge che il figliuolo abbia comperata la casa di un altro vecchio vicino. E perchè Teuropide (padre del giovine) s’invoglia di veder quest’altra casa, il servo a forza di bugie ne ottiene la permissione dal padrone di quella, senza che nè l’uno nè l’altro vecchio nulla penetri della fola. Si osservi che nell’andare a vederla il padrone della casa va via, e Teuropide dice al proprio servo, sequere hac igitur, e questi risponde equidem haud usquam a pedibus abscedam tuis, e vanno ad osservare l’interiore della casa, ed il teatro rimane voto nel {p. 113}tempo che si spende a vedere il gineceo o appartamento delle donne ed il lunghissimo portico. Il primo verso della scena seguente, quid tibi visum est hoc mercimonii, che subito succede alle parole, equidem haud usquam a pedibus abscedam tuis, dimostra o che la scena, come dicemmo, sia rimasta vota nel tempo che si consuma a vedere l’interiore della casa, o che vi manchino forse de’ versi detti da Simo prima di partire, o che il poeta abbia contato sull’indulgenza dello spettatore. Lo scioglimento avviene per l’arrivo del servo di uno de’ commensali, il quale scuopre a Teuropide la verità dello stato della sua famiglia. Il servo colpevole si rifugge all’ara, e un amico si frappone, e intercede per lui e pel figliuolo. Nel moderno teatro francese si trasportò questa favola, ed ebbe per titolo le Retour imprevû. È stato osservato da Metastasio il bisogno che essa ha di mutazioni di luoghi per {p. 114}rappresentarsia; ove non si sappia costruire una scena alla maniera di Liveri.

Il Soldato millantatore. Αλαζων, jactator, fu chiamata in greco la favola che Plauto intitolò Miles gloriosus; ed è il servo Palestrione che ciò manifesta nella 1 scena dell’atto II, adoperata in vece di prologo, che per la seconda volta troviamo da Plauto posto in bocca di uno degl’interlocutori, e collocato nel mezzo dell’azione. Contiene una beffa fatta a quel vanaglorioso da un servo per torgli di mano una fanciulla amata da un giovane Ateniese. Questi alla chiamata del servo viene espressamente in Efeso a tale oggetto; e si valgono della casa {p. 115}di un vecchio contigua a quella del Soldato, aprendo un muro comune, per la cui apertura passa la donna a vedere l’amante. Il servo che la custodisce, la vede nella vicina casa abbracciata coll’Ateniese. Per rimediare a siffatto disordine Palestrione le insinua di fingersi sorella sua gemella venuta da poco tempo coll’amante in Efeso. Il muro aperto colla via occulta facilita la doppia apparenza. Finalmente lo stesso servo alletta il Soldato colla speranza di possedere un’altra donnache gli si dà ad intendere di essere una matrona onorata moglie di un vecchio e spasimata amante del Soldato. Lusingato il vantatore da questo nuovo acquisto, per non ricevere disturbo dall’amica che ha in casa, risolve di lasciarla partire colla pretesa sorella e colla madre che già si dice imbarcata. Appena l’innamorato vestito da marinajo l’ha menata via, che il Soldato pieno di speranza e di amore per l’ideata matrona entra nella vicina casa, corre pericolo di esser {p. 116}castrato, e n’è discacciato a colpi di bastone, affettando il vecchio il carattere di marito onorato e geloso. Questa favola si vuol collocare tralle più piacevoli di Plauto per lo sale grazioso che la condisce, e per la vivace dipintura del vano carattere di Pirgopolinice.

Le Bacchidi sorelle. Il prologo col principio della prima scena affermò il Lascari di averlo trovato in Messina, e da alcuni si attribuisce a Francesco Petrarcaa Dipingonsi in tal commedia i costumi meretricii di due sorelle cosi chiamate. Esse adescano due giovani amici Pistoclero e Mnesiloco. Crisalo servo per favorite l’intento del padrone Mnesiloco, con varie astuzie tira il danajo necessario dal di lui padre Nicobulo. Scopre costui le bugie di Crisalo, ne freme, ed unitosi col padre di Pistoclero, coll’animo di vendicarsene vuole entrare in casa delle {p. 117}meretrici. Compariscono le sorelle sulla porta, ed alla prima gli dileggiano; pensano poscia di accarezzarli per dissiparne lo sdegno, e riescono nell’intento. I vecchi cadono nelle debolezze che riprendevano ne’ figliuoli. Il parlare allo spettatore, il chiamare alla memoria la persona dell’attore nel più bello del dramma, è cosa comune nelle favole di Plauto. È degno di osservarsi che nella scena 2 dell’atto II Pistoclero racconta al servo l’amore che Bacchide ha per Mnesiloco, e Crisalo annojato non ne vuol sentir parlare. T’incresce adunque (dice Pistoclero)di sentire la buona ventura del tuo padrone? Non è il padrone che m’incresce (risponde Crisalo)ma è l’attore che m’infastidisce e mi ammazza. Epidico,non dico altro, la favola prediletta a me cara al pari di me stesso, mi diviene ristucchevole, quando rappresenta Pollione. Questo Pollione dovea essere un attore poco applaudito, o poco accetto a Plauto.

{p. 118}Epidico. Questa è la favola mentovata nelle Bacchidi. Epidico è un servo che in vece di riscattare una figliuola naturale del vecchio Perifane suo padrone, compra una donna che suona e canta sull’arpa (fidicina) per secondare un amoroso capriccio del giovane Stratippocle. Oltre a ciò per procurargli quaranta mine che dee a un usurajo per aver comprata un’altra donna fa si che lo stesso Perifane compri un’altra cantatrice, che per altro è libera, dandogli speranza che non mancherebbe di esser ricomprata da un soldato che l’ama. Ma il soldato ricusa di ricomprarla accorgendosi di non esser quella ch’egli desidera. Dall’altra parte Perifane che tiene in casa come sua figlia la sonatrice comprata da Epidico, colla venuta di una donna da cui egli l’ebbe, conosce di non esser tale. Per tanti inganni fulmina il vecchio contro Epidico. Ma per buona ventura di costui si scopre che l’ultima fanciulla comperata da Stratippocle era veramente la di lei sorella naturale, ed Epidico {p. 119}per tal felice evento ne ottiene, non che il perdono, la libertà. Contasi questa favola tralle Plautine più ben disposte e verseggiate; e merito la predilezione dello stesso famoso autore per la traccia dell’azione, per la copia de’ vezzi e per la continuata eleganzaa

Stico. Il Servo che presta il nome a questa commedia, è un personaggio episodico che per niun modo influisce nell’azione principale. Questa consiste nella costanza dimostrata da due matrone in amare i loro mariti bisognosi, i quali da tre anni partirono dalla patria cercando di migliorar col commercio il proprio stato. Il padre di queste giovani indarno tenta di persuaderle ad abbandonare la casa de’ mariti; e la loro fermezza è premiata col ritorno di essi già divenuti ricchi. Sembra che a Plauto non bastasse tale argomento per una intera commedia, e che avesse {p. 120}voluto supplirvi colla languida e in niun conto interessante aggiunta della cena di Stico colla serva Stefania.

Il Truculento, o dir si voglia il Burbero. Poco più del personaggio di Stico appartiene all’azione principale del Truculento il duro e salvatico servo onde prende il titolo. Riesce non pertanto istruttiva e interessante per la natural dipintura di una meretrice annunziata con pennellata maestrevole nel prologo in tal guisa:

La giovane che alberga in quella casa
Fronesia è detta, e tutti in se raccoglie
Della moda e del secolo i costumi.
Ella non cerca mai quel ch’altri porse,
Ma cerca e toglie quel ch’egli pur serba.

Questa scaltra civetta, ovvero arpia, pela a un tempo stesso tre merlotti, uno della villa, uno della città e un altro che viene da’ paesi esteri. A quest’ultimo da lei trattato in altro tempo {p. 121}ancora dà ad intendere di aver di lui partorito un bambino, per trarne regali e per richiamarlo all’antica amistà. Le arti meretricie che adopera variamente coi tre innamorati in compagnie delle sue fantesche, le quali felicemente la secondano, son copiate al naturale dalle procedure di simili femmine che trafficano i loro vezzi. Lo scioglimento avviene colla riconoscenza del bambino supposto preso da una giovane amata da Dinarco uno degli amatori di Fronesia. Questo Dinarco riconvenuto dal padre della genitrice è costretto a sposarla. Per le felici dipinture de’ caratteri, per la condotta e per lo stile, è questa commedia noverata tralle buone, e fu molto cara al poeta.

I Prigioni. Tralle antiche commedia rispettate dal tempo, la favola più decente e pudica è questa che Plauto intitolò Capteivei. Egione ha due figliuoli, uno che di anni quattro gli fu rubato da uno schiavo e venduto a uno straniero, e un altro già grande fatto prigioniero da’ nemici. Per avere l’opportunità {p. 122}di riscattare o permutare l’ultimo figliuolo prigione, si mette a mercatantare di schiavi. Compera tra questi un giovane chiamato Filocrate e un di lui servo per nome Tindaro, i quali però per ogni evento dispongono di cangiar nome e stato, facendosi il servo credere padrone col nome di Filocrate, ed il padrone rappresentando la figura di servo col nome di Tindaro. Per ventura il figliuolo di Egione trovasi per l’appunto cattivo nella città di Elide patria di Filocrate. Disegna dunque il vecchio di proporre a’ nemici la permuta del proprio figlio per Filocrate; e per trattarla concede al creduto Tindaro l’andare in Elide, stimandosi abbastanza sicuro avendo in mano al suo credere un pegno importante nella persona di Filocrate. Così rimane col nome del padrone il generoso servo Tindaro esposto all’indignazione di Egione, come si scopra l’inganno. Ciò di fatto avviene. Un altro prigioniero compatriotto di Filocrate, tratto dal desiderio di veder l’amico, va a parlare al {p. 123}creduto Filocrate, lo ravvisa pel servo Tindaro, e scopre l’inganno ad Egione, che vedendosi aggirato condanna Tindaro a cavar pietre. Torna intanto Filocrate col figliuolo di Egione già liberato, e l’opportuno suo ritorno rende il virtuoso Tindaro libero dalla collera di Egione. Osserva questo vecchio con attenzione uno schiavo venuto in compagnia di Filocrate, e lo riconosce per lo stesso malvagio schiavo che rubò e vendè l’altro suo figlio di quattro anni, e nel ricercarsi le particolarità del ratto e della vendita, trovasi che il servo Tindaro è l’altro figlio di Egione. L’unità di tempo non si osserva in questa favola. Filocrate in fine dell’atto II parte dal luogo della scena che è Calidone di Etolia: va in Elide: tratta quivi il cambio degli schiavi: si sa nell’atto IV che è tornato: nel V comparisce egli stesso, avendo corso nello spazio di poco più di un atto oltre a dugento miglia. I Latini assai meno rigorosi de’ moderni accordarono a’ loro poeti comici più ampii i {p. 124}confini della verisimiglianza. Convengono i più sagaci critici in tener questa favola per una delle più eccellenti di Plauto. Dousa n’era incantato. Gioacchino Camerario dice nel prologo: Inter Plautinas omnes haec et argumento et expositione optima est, et elegantissima. Ipse etiam Poeta hano commendat ut pudice scriptam, multaeque bonae sententiae in hac insunt, et eximiae fidei exemplum servi erga herilem filium. Essa è tutta onesta e piena di motteggi innocenti e graziosi; e le stesse trappole servili tendono a un oggetto nobile e lodevole. Il poeta l’avea prevenuto nel prologo: « Non troverete (egli dice) in questa favola nè versi laidi, nè ruffiani spergiuri, nè perfide meretrici, nè soldati millantatori » E nel congedo ripete lo stesso: O spettatori (dice il coro degli attori col nome di grex) questa favola è composta per chi ama le dipinture de’ costumi pudici. Non vi sono debolezze, amori, parti supposti, danari truffati, e bagasce liberate da qualche giovane di {p. 125}nascosto del padre. Di siffatte commedie, nelle quali i buoni diventano migliori, se ne inventano ben poche da i poeti di oggidì. I pedanti orgogliosi i quali appresero l’antica letteratura soltanto nelle scuole fanciullesche, e vogliono indi giudicarne canuti dalle idee elementari che ivi ne ricevettero; imparino dall’argomento di questa commedia, che gli antichi Comici molte altre invenzioni avranno immaginate assai diverse da quelle che leggiamo nelle reliquie de’ loro scritti a noi pervenute, e cessino dal dettar pettoruti in tuono di oracolo aforismi generali che contraddicono dell’imitazione dell’immensa natura, circoscrivono angustamente la poesia comica, ristringendola ai soli raggiri servili, ad intrighi meretricii e ad una elocuzione bassa e triviale. l pedanti senza filosofia sono i selvaggi dell’orbe lettarario: altro non ostentano che spalle nude, armi di legno e presunzione senza modo.

Parmi di avere succintamente dimostrato qual sia Plauto nelle venti {p. 126}commedie che di lui ci rimangono. Osservatore non sempre esatto delle regole dell’illusione teatrale, è non per tanto sempre vago, semplice, ingegnoso, piacevole e faceto, versando a piena mano ad ogni passo sali e lepidezze capaci di fecondar largamente l’immaginazione di chi voglìa coltivare un genere di commedia inferiore alla nobile. Contesero gli antichi intorno al numero delle commedie che Plauto scrisse. Altri con Servio gliene attribuiscono ventuna, altri quaranta, altri cento, altri centotrenta. Secondo Varrone e Festo Pompeo, presso alcuni passarono per commedie di Plauto anche le seguenti: Artemone, Frivolaria, Fagone, Cestrione e Astraba. Auto Gellio col filosofo Favorino riconosce per favole Plautine la Beozia che si ascriveva ad Aquilio, la Nervolaria, e Fretum. Ma essi sondano il loro giudizio nel trovarsi in queste alquanti versi non indegni della penna di Plauto; argomento, a mio avviso, poco sicuro, ove tutto il rimanente non corrisponda. {p. 127}Spesso avviene che un numero limitato di versi non infelici scappi fuori dal fangoso talento del più meschino improvvisatore. Fin da’ tempi di Varrone mal si distinsero le commedie genuine di Plauto, la qual cosa lo mosse a comporre un opuscolo per isceverarle. Certo Plauzio, secondo lui, antico poeta comico, scrisse diverse commedie le quali dal di lui nome doveano chiamarsi Plauziane, e talvolta passarono per Plautine attribuendosi a Marco Accio Plauto. Il lodato Varrone soltanto ventuna a Plauto ne assegna, e vucle che le commedie intitolate Gemini, Leones, Condalium, Anus, Bis compressa, Baeotia, Ἀγριχος, Commorientes, appartengano a Marco Acuticoa Certo è però che Plauto {p. 128}miglior poeta che mercatante caduto in miseria e postosi a lavorare con un mugnajo, compose tre altre commedie, due delle quali s’intitolarono Saturio e Addictus, non avendoci Aulo Gellio conservato il nome della terza. Ora queste tre aggiugnendosi alle venti che ne abbiamo, passerebbero il numero di ventuna da Varrone riconosciute per Plautine. Certo Lelio al dir di Gellio, uomo eruditissimo affermava che venticinque veramente erano le commedie da Plauto composte e che altre appartenevano ad altri più antichi comici, e furono da lui ritoccate nel ripetersene le rappresentazioni. È nato l’epitafio che Plauto compose a se stesso, in cui dimostra la perdita che nella sua morte era per fare la commedia:

Postquam est morte captus Plautus,
Commoedia luget, Scena est deserta.
Deinde risus, ludus, jocusque, et numeri
Innumeri simul omnes collachrymarunt.
{p. 129}

CAPO III.

Teatro Latino intorno alla seconda Guerra Punica. §

Nè presti furono nè grandi i progressi del Teatro Latino. Roma dedita alle armi favoriva poco le arti che potevano ammollire il valore, e trascurò la drammatica. Benchè non molto amandola ne tollerasse lo spettacolo, non permise però che vi si mettessero sedilia Davansi da prima nel Foro i giuochi scenici ornandone lo spazio con statue e pitture prese dalla Grecia o dagli amici in prestanza, perchè non vi erano teatrib Nell’anno di Roma 558 il Senato tuttavia assisteva allo spettacolo misto e confuso tra il {p. 130}popolo. Nel 599 essendo Consoli M. Valerio Messala e C. Cassio Longino, vollero costruire nella città un teatro, ma il Console P. Cornelio Scipione Nasica vietò che si terminasse, e fece vendere all’incanto tutti i materiali a tale oggetto da essi accumulatiaCresciuta poi la potenza Romana, le ricchezze apportatrici di ozio e di riposo rendettero più necessarie le arti di pace. Allora gli spettacoli scenici si riguardarono più favorevolmente, e si cerco l’agio degli spettatori col difenderli dal Sole colle tende, si assegnò al Senato un luogo distinto dalla plebe, e si rimunerarono e protessero i poeti teatrali.

{p. 131}

I.

Tragici di quest’epoca. §

Quando l’onore le alimenta, le arti prendono il volo, e si elevano sino all’altezza che può comportare un clima. Ciò avvenne al teatro Latino, intorno alla seconda guerra Punica, allorchè la lingua trovavasi nel colmo dello splendore. Piena come è di gravità e maestà, servi felicemente coloro che impresero con coraggio a coltivar la tragica poesia. Galzarono allora con particolar lode il coturno Marco Pacuvio, Lucio Accio ovvero Azzio, Cajo Tizio, e secondo alcuni anche il satirico di Sessa Cajo Lucilio.

Marco Pacuvio nato in Brindisi secondo Plinio da una sorella del prelodato Quinto Ennio, per concorde attestato de’ Latini scrittori conservò la riputazione acquistata di dotto anche nell’età di {p. 132}Augustoa Marziale motteggia sull’uso ch’ei faceva delle parole antiche; ma Varrone il più dotto de’ Romani e giudice più di Marziale competente in fatto di lingua latina, ne esalta l’ubertà della locuzione, nè si atterrisce de i di lui arcaismi. Cicerone tolse da lui l’esempio di un ottimo tragicob; e nel dialogo dell’Amicizia rammenta gli encomii dati a una di lui tragedia ove introdusse Pilade ed Oreste. Dalla Medea di Pacuvio e da qualche altra sua favola non isdegnò Virgilio di trarre alcun versoc. Quintiliano lo commenta per la degnità e pel decoro de’ personaggi, per la forza dell’espressione e per la gravità de’ pensieri. Si riconobbe in lui qualche rozzezza nello stile; ma ai suoi di non si fecero vorsi più colti. Nella {p. 133}raccolta de’ Frammenti degli antichi Tragici Latini fatta dallo Scriverio colle note del Vossio si nominano le seguenti tragedie di Pacuvio: Anchise, Antiope, Atalanta, Crise, Duloreste, Ermione, Finide, il Giudizio delle armi, Ilione, Medea, Medo, Niptra, Paolo, Peribea, Pseudone, Tantalo, Teucro, Tieste. Vi si leggono altri di lui frammenti di favole incerte; ma non quello del sagacissimo imitatore degli antichi poeti Antonio Moreto che fu da lui stesso compostoa. Pacuvio al pari di Ennio coltivò anche la poesia satirica prima di Lucilio, benchè non ne rimangano frammenti. Fu altresi pittore non ignobile, e dagli antichi si trova commentata la pittura che fece pel tempio di Ercole {p. 134}nel Foro Boarioa. Egli mori quasi nonagenario in Taranto, come attesta san Girolamo nel Chronico di Eusebiob. Si è conservato l’epitafio che Pacuvio fece a se stesso come sommamente puro, e degno della sua elegantissima gravità, oltre al pregio della verecondia che manca a quello di Nevio e di Plautoc:

Adolescens, tametsi properas, hoc te saxum rogat,
Ut se ad picias: deinde quod scriptum est legas.
Hic sunt Poetae Pacuvii Marci sita
Ossa. Hoc volebam, nescius ne esses: vale.

Mentre ritirato in Taranto Pacuvio menava traquillamente gli ultimi {p. 135}suoi giorni, capitovvi Lucio Azzio altro famoso tragico che passava in Asia. Pacuvio l’aveva conosciuto in Roma, perchè essendo egli di ottant’anni avea data una sua favola ai medesimi Edili, a’ quali Azzio ne aveva presentata un’altra non contandone più che trentaa. Azzio almeno cinquant’anni più giovine di Pacuvio, secondo la Cronica Eusebiana, avea avuto il padre schiavo in Roma. Nell’andare in Asia non mancò di visitare il vecchio tragico che cortesemente l’albergo per molti giorni. Trattenendosi un dì di cose teatrali Pacuvio mostrò desiderio di ascoltar l’Atreo di Azzio, e fu compiaciuto. Grande e sublime ne parve lo stile al vecchio tragico, benché alquanto duro ed acerbo. Lo veggo anch’io, ripigliò il giovine, nè me ne incresce; i pomi duri ed acerbi stagionandosi diventano dolci; quelli che da principio nascono teneri e quasi {p. 136}vizzi, crescendo, in vece di maturare imputridiscono. Così sono gl’ingegni: bisogna che si lasci al tempo l’agio di ridurli a una maturità perfettaa. Niuno degli antichi tragici Latini giunse a superar la fama e il merito di Azzio. Era talmente rispettato, che per avere ardito un istrione soltanto nominarlo in teatro, ne fu severamente castigato. Decimo Bruto che nel 615 fu console e nel 623 trionfò per molte vittorie riportate in Ispagna, fu l’amico ed il protettore di Lucio Azzio. Volle egli de’ di lui versi che sommamente pregiava, ornar l’ingresso de’ tempj e de’ monumenti che delle spoglie nemiche fece costruireb. Lo stesso Azzio conosceva la propria superiorità su i contemporanei, e la sosteneva con dignità, se Valerio Massimo di questo poeta favella nel {p. 137}libro III, c. 7. Venendo (egli narra) nel consiglio de’ poeti Giulio Cesare personaggio decorato nella repubblica non meno che di lettere adorno, Azzio non mai si levò in piedi, non giù per non curanza della di lui maestà, ma perchè a lui sovrastava ne’ communi studii letterarii, gareggiandosi colà co’ libri non colle immagini degli antenatia. Gli antichi certamente di Azzio favellarono tutti con sommo onore. Cicerone l’esalta molte volte, e solo nel I delle Leggi parla con disprezzo di un poeta nominato Accio, dove per avventura intende di qualche altro. L’elevazione, la grandezza, la forza formano il carattere dello stile di questo Tragico. Orazio distinse {p. 138}Pacuvio per la dottrina, Azzio per la sublimità:

                        aufert
Pacuvius docti famam senis, Accius alti.

Quintiliano riconosce nell’uno e nell’altro due chiarissimi scrittori di tragedie. La nitidezza però (aggiugne) e l’ultima mano nel limare i loro parti sembra di esser loro mancata nè tanto per propria colpa, quanto pel tempo in cui fiorirono. Da coloro che vogliono parere eruditi si attribuisce ad Azzio maggior forza, a Pacuvio maggior dottrinaa. Acrone interprete di Orazio passò più oltre, e antepose Accio allo stesso Euripide. Columella nomina come i più grandi poeti Latini Accio e Virgilio. Le tragedie di Accio sono: Clitennestra, Andromaca, Filottete, Andromeda, Atreo, Meleagro, la Tebaide, le Troadi, Tereo, la Medea. A quest’ultima {p. 139}appartengono i versi citati da Ciceronea, ne’ quali si descrive la meraviglia di un pastore, che non avendo, mai veduto un vascello, scoperse dall alto di una montagna quello che portava gli argonauti, siccome apparisce da’Frammenti de’ Tragici Latini. Oltre a questi argomenti che Accio trasse da’ Greci, compose una tragedia interamente Romana intitolata Bruto. Paolo Manuzio pretende che questa fesse rappresentata celebrandosi i giuochi Apollinari, a’ quali presedè il fratello di Marco Antonio in vece di Bruto che si era allontanato da Romab. Ma Pietro Bayle colla II e IV epistola del XVI libro di Cicerone ad Attico dimostra che la tragedia di Azzio allora rappresentata fu Tereo; e aggiugne essersi ciò ignorato da tutti gli altri commentatori, perchè Maturanzio credeva che vi fosse stato {p. 140}rappresentato Atreo, e Beroaldo e Hagendorphin Bruto. Ma la poesia scenica guadagna cosa alcuna in discutere siffatte cose gravemente e lungamente? Altro vantaggio non se ne ricava se non che il generale che sempre diletta, di porre alla vista per quanto si può senza errori un fatto istorico. Delle tragedie di Azzio fanno menzione Nonnio Marcello, Varrone, Aulo Gellio e Macrobio. Il Vossio trattando de’Poeti Latini afferma che Azzio scrisse ancora qualche commedia, e ne cita due le Nozze c il Mercatante.

Cajo Tizio Cavaliere Romane oratore e poeta tragico visse intorno all’anno di Roma 590. Erano, dice Ciceronea, così piene di esempli, di arguzie e di piacevolezze le sue aringhe, che sembravano quasi scritte in istile Attico, benchè ignorasse il Greco. Ma queste arguzie che ei volle {p. 141}trasportare con molta acutezza nelle tragedie, nocevano alla gravità del coturno. Tizio fu contemporaneo di Lucio, ed aringo al popolo a favore della legge proposta dal Console Fannio contra i festini. Macrobio ne ha conservato un frammento, nel quale rigorosamente dipingonsi gli eccessi dell’ubbriachezza de’ giudici Romania.

Di un altro nobile oratore sa menzione Cicerone nel medesimo dialogo del Bruto, il quale sorpassò nell’eloquenza i predecessori e i contemporanei. Fu questi Cajo Giulio figlio di Lucio e contemporaneo di Publio Cetego. Non era la veemenza il carattere del suo aringare, ma bensì l’urbanità, la grazia e la dolcezza. Egli scrisse alcune tragedie del medesimo gusto: grazia somma di stile privo di forza.

{p. 142}Attilio che fiori verso il comincia del settimo secolo di Roma, scrisse pel teatro tragedie e commedie. La sua tragedia Electra non si reputò del tutto immeritevole di esser letta da Cicerone medesimo che lo chiama poeta durissimoa. Ma egli prevalse nel genere comico, e Volcazio Sedigito l’anteponeva a Terenzio.

Uno de’ rinomati poeti di quest’epoca fu Cajo Lucilio Cavaliere Romano, avolo materno di Pompeo Magno, o bisavolo per parte di Lucilia di lui madre, o secondo Antonio Agostinob, di lui prozio materno, essendo stata la madre di Pompeo figlia di un fratello di Lucilio. Egli nacque nella città di Suessa degli Auruncic posta {p. 143}nella Campagna di la dal Liria, nel primo anno dell’olimpiade CLVIII secondo Eusebio, e morì in Napoli nel secondo anno dell’olimpiade CLXIX, che cade nell’anno di Roma 651. Osserva però Pietro Bayle che Lucilio mentova la legge Licinia stabilita l’anno 656; dunque egli visse cinque o sei anni di più. Egli militò nella guerra di Numanzia sotto Publio Scipione Numantinob. Secondo Francesco Patrizio nella Poetica Lucilio compose epodi, inni, tragedie, ed una commedia intitolata Nummularia, di cui pur si conserva qualche frammento. Ma celebre singolarmente si rendè per trenta libri di Satire, nelle quali, allontanandosi da Ennio e da Pacuvio, usò l’esametro senza mescolanza di altri versi nel medesimo componimento, benchè altre ne avesse scritte in versi ora {p. 144}giambici ora trocaici. Morse egli senza verun riguardo Rutilio, Lupo, Carbone, L. Turbolo ed altri Romani, e punse e motteggiò eziandio i poeti drammatici del suo tempo. Verso l’età di Quintiliano ebbe Lucilio molti ammiratori, quali, non che a tutti i satirici, ad ogni altro poeta lo preferivanoa. Orazio intanto affermava scorrere la di lui poesia limacciosa e mista di varie cose degne di sopprimersib. Non convengo con quei suoi lodatori, diceva Quintiliano, ma discordo ancora da Orazio, perchè scorgo in Lucilio una maravigliosa erudizione, una libertà intrepida, acerbità vivace e copia di sale. I frammenti {p. 145}Luciliani si raccolsero dagli Stefani, e dal Dousa furono illustrati con alcuni scolii è impressi in Lione nel 1597. Bayle però avverte che oltre alla diligenza del Dousa essi avevano bisogno di essere rischiarati da qualche altro dotto commentatore.

II.

Comici del medesimo periodo. §

Fiorirono intanto nel genere comico oltre al poc’anzi nomato Attilio, Quinto Trabea del quale Nonnio Marcello cita la commedia intitolata Ergastulum, Turpilio, di cui Varrone pregia assai la commedia detta i Fugitivi, C. Licinio Imbrice collocato dal Sedigito dopo di Nevio, cioè nel quarto luogo, e Luscio che presso lo stesso critico occupa il nono essendo preferito a Quinto Ennio. Ma oltre a questi e a Titinio, Aquilio, Ostilio, Pomponio e Dorsenno, de’ quali si {p. 146}conserva alcun frammento, la poesia comica Latina si gloriava di un Cecilio, di un Terenzio e di un Afranio.

Cecilio il quale dalla condizione di servo, come afferma Aulo Gellio, acquistò il cognome di Stazio che presso i Romani antichi era nome di schiavo, per consenso di tutti gli antichi fu acclamato come il primo e il più eccellente di tutti i comici Latini per la felicità della scelta e per l’ottima disposizione degli argomenti. Ciò rende ben rincrescevole la perdita delle favole da lui composte. Nato però e allevato fuori dell’Italia nella regione Gallica inseri sovente ne’ suoi drammi voci non latine, e per tal mescolanza fu da Cicerone chiamato malus latinitatis authora Tullio stesso nel libro de Senectute cità i di lui Sinefebi, e Aulo Gellio la commedia intitolata Plotium, favole di Menandro da {p. 147}Cecilio imitate. Egli è vero che Gellio, come dicemmo, pruova che egli fosse inferiore al suo modello, ma l’essere stato concordemente preferito, non che a Nevio e ad altri comici, a Plauto ed a Terenzio, ad onta della sua poco pura latinità; ci sveglia de’ di lui talenti ben vantaggiosa idea. Due suoi versi dal medesimo Gellio recati potrebbero dar motivo a’ fisici di rinnovare l’antica ricerca se il parto, senza essere abortivo, possa anticipare ovvero differire l’uscita dal seno materno oltre a i soliti nove mesi. Menandro nella commedia detta Plozio o Monilea affermò che il parto {p. 148}perfetto viene dopo il decimo mese, la qual cosa ripete Plauto nella Cistellaria. Cecilio nella sua Plotium penso diversamente:

Insoletne mulier decimo mense parere?
Pol nono, etiam septimo, atque octavoa.

{p. 149}Cecilio molto amico di Ennio godette una riputazione sì grande e sì bene stabilita, che quando Terenzio presentò agli Edili l’Andria, gli s’impose di leggerla prima a Cecilio. Si dice ancora che il novello autore male in arnese arrivò in tempo che Cecilio giaceva per cenare, e sul principio si fece sedere in una panca accanto al letto; ma dopo alquanti versi maravigliato Cecilio e dall’eleganza e proprietà dello stile rapito, l’invitò a cenar con lui, e dopo la cena si prosegui l’intiera lettura della commedia {p. 150}consomma continuata ammirazione del vecchio poeta. Questo abboccamento di Cecilio e Terenzio viene riferito da Elio Donato o da Suetonio autore della Vita di Terenzio. Dall’altra parte secondo la Cronaca Eusebiana Cecilio morì un anno dopo di Ennio, cioè l’anno di Roma 585, e la commedia dell’Andria fu rappresentata ne’ Ludi Megalesi l’anno 587, essendo Consoli M. Claudio Marcello e C. Sulpizio Gallo. Adunque non poteva essere stata letta prima a Cecilio già morto da un anno e più ancora. Il celebre Tiraboschia con prudente ambiguità propone che quanto narrasi avvenuto con Cecilio debba intendersi di qualche altro rinomato poela che allora vivesse. Non pertanto lo scrittore della vita di Terenzio a chiare note parla di Cecilio e non di altri. L’abate Arnaud eccellente letterato francese nella {p. 151}Gazzetta Letteraria di Europe nel mese di Luglio del 1765 ricorre a un Edile nomato Acilio, al quale pretende che Terenzio andasse a leggere l’Andria, e non a Cecilio; insinuando che il passo di Donato o Suetonio sia guasto e vi si debba leggere Acilio per Cecilio. Ma le parole del biografo son queste: Andriam cum Ædilibus daret jussus ante Caecilio recitare, nelle quali sono ben distinti e gli Edili, a’ quali la commedia si presentò e il poeta a cui per ordine di essi Edili si lesse. Che se Cecilio si converte in Acilio, il quale era nel numero di quegli Edili, si attribuisce al precitato biografo un modo di esprimersi alquanto fosco e poco felice, facendogli dire, cum Ædilibus, jussus ante Acilio recitare, non apparendovi la relazione che dovrebbe naturalmente vedervisi della persona di Acilio col numero degli Edili. Oltre a ciò tutto il racconto e della non curanza di prima avuta del nuovo poeta, a cagione dell’abito, da colui che stava cenando, e {p. 152}dell’attenzione che in lui cagionarono i primi versi, e della giustizia subito renduta al merito, e dell’ammettersi il giovane poeta a cenare confidentemente, e dell’ammirazione colla quale dopo la cena fu ascoltata la commedia, tutto ciò, dico, sembra meglio adattarsi a un veterano conoscitore di poesia comica di pari condizione col novello scrittore, che ad un Edile di classe assai più elevata. Finalmente noi sappiamo per un prologo dello stesso Terenzio che a’ suoi tempi destinavasi dal magistrato un poeta di nome per ascoltare i drammi prima di rappresentarsi; ed in fatti egli dovè leggere al poeta Luscio la migliore delle sue commedie; ma non parmi che gli Edili si assumessero mai la carica di giudici letterarii delle poesie teatrali, carica che in appresso, come diremo, si vide addossata a cinque censori. Ora tutto questo c’induce a rifiutare la correzione dell’erudito abate Arnaud adottata pure da m. Millet, ed a credere che Cecilio ben due volte nominato {p. 153}nel passo del biografo fosse stato l’ascoltatore dell’Andria. E se quando mancano le storiche testimonianze, lecito fia congetturare, seguendo l’ordine naturale delle cose, piuttosto che cangiare il poeta revisore o sostituirgli un Edile, potrebbe dirsi che l’Andria per ordine degli Edili fosse stata anticipatamente letta al poeta Cecilio, e che questi, dopo averla approvata, si morisse, prima che nel 587 si rappresentasse. È per avventura improbabile che passassero varii mesi ed anche un anno dal pensare e disporre lo spettacolo che solea farsi con tanta spesa, all’esecuzione di esso, e che intanto Cecilio si morisse? È improbabile che il giovane Cartaginese senza credito avesse bisogno di raccomandarsi a più d’uno prima di venire a capo del suo intento?a.

{p. 154}

III.

Teatro di Terenzio. §

Quindi si scorge quale alta impressione facessero nell’animo di Cecilio pochi soli versi di Terenzio. Ma poteva mancar d’incantare un dotto e consumato conoscitore quella venustà di stile che indi rapi dalla scena gli animi tutti de’ più volgari spettatori? quell’eleganza che dopo tanti secoli conserva la medesima imperiosa forza su i posteri più remoti? quella proprietà e purezza di locuzione approvata e imitata, non che da altri, da un Tullio {p. 155}e da un Orazio? quello stile che fluido corre

Liquidus, puroque simillimus amnia,

che tutta l’anima ci riempie delle sue grazie si che ci fa dimenticare, come diceva Michele di Montaigneb, delle bellezze della favola? quell’arte, quel giudizio, quelle sentenze tratte dalla più profonda filosofia e rendute proprie del teatro comico? quella prodigiosa maniera di rendersi originale traducendo ed imitando? quella vezzosa urbanità nel motteggiare? quella delicatezza e matronal decenza che trionfa nelle dipinture che fa de’ costumi? Le sei commedie che ne abbiamo leggonsi da fanciulli (o da quei che sono tali a dispetto degli anni) con una specie d’indifferenza propria di quell’età: dagli uomini maturi con istupore e diletto: e con entusiasmo da’ vecchi istruiti {p. 156}che conservano le tracce del gusto. I letterati più accreditati, gli Erasmi, gli Scaligeri, gli Einsii, terminano la vita con Terenzio alla mano. Sembra inutile dar pieni estratti delle sue commedie per essere troppo note, e temerità tradurne alcuni squarci per la difficoltà di conservarne le bellezze. Non pertanto faremo su di esse alcune riflessioni passeggerea.

{p. 157}L’Andria. Fu questa la prima sua commedia rappresentata nell’additato anno di Roma 587 dalla compagnia comica di L. Ambivio Turpione e di Attilio Prenestino colla musica di un certo Flacco figlio di Claudio o di lui liberto, come vuole Madame Dacier, benchè non apparisca donde l’abbia ricavato. Menandro scrisse su di un medesimo argomento due commedie, l’una intitolata Andria dall’isola di Andro, l’altra Perinthia da Perinto città della Tracia. Terenzio si prevalse di entrambe nell’accozzar la sua favola, e ritenne il titolo della prima. L’argomento si aggira intorno agli amori della fanciulla Gliceria venuta da Andro {p. 158} e del giovine Panfilo disturbati per le nozze che Simone padre di costui gli prepara con una figlia di Cremete, prima per finzione, indi da buon senno. Lo scioglimento avviene col conoscersi Gliceria per un’altra figlia del medesimo Cremete chiamata Pasibola. I giovani studiosi debbono ammirare nella prima scena dell’atto I il modo di raccontare con grazia, eleganza, precisione, e, quel che monta più, con passione:

                                 Funus interim
Procedit: sequimur: ad sepulchrum venimus:
In ignem posita est: fletur. Interea haec soror,
Quam dixi, ad flammam accessit imprudentius
Satis cum periculo. Ibi tum exanimatus Pamphilus
Bene dissimulatum amorem et celatum indicat.
Accurrit, mediam mulierem amplictiture,
Mea Glycerium, inquit, quid agis? cur te is perditum?
{p. 159}
Tum illa, ut consuetum facile amorem cerneres,
Rejecit se in eum flens quam familiariter.

Tutto è qui animato dall’affetto, tutte le parole sono scelte e naturali, senza affettazione, senza superfluità. Osservisi ancora con quanta grazia e verità nell’atto stesso incontrandosi Panfilo colla serva Miside, le dice, quid agit? senza esprimere il nome di Gliceria; e di qual altra cercherebbe Panfilo con premura? Sommamente patetica ivi ancora è la preghiera di Criside moribonda narrata da Panfilo, che io ardisco di tradurre in simil guisa:

Mis.

Merita, io questo so, la poverina,
Panfilo, che di lei tu ti sovvenga.

Pan.

Che io di lei mi sovvenga? Ah in mezzo al cuore
Impresse io porto le preghiere estreme
Che per Gliceria Criside mi porse.
Presso a morir mi chiama, io m’avvicino,
{p. 160}
Voi gite, noi restiamo, ella mi dice
Panfilo, amato Panfilo, tu vedi
La beltà di costei, la giovinezza,
E non ignori che a guardar l’onore,
A conservar la roba entrambe sono
Armi assai frali. Deh per questa destra,
Per l’indole gentil, per quel bel cuore,
Per la tua fe, per questa istessa, Panfilo,
Derelitta fanciulla, io ti scongiuro;
Deh non l’abbandonar, se qual fratello
Sempre io ti amai, s’ella te solo apprezza,
Per te respira, a’ cenni tuoi s’acqueta,
Prendila, a te la dò, tu a lei sarai
Amico, protettor, marito, e padre.
{p. 161}
Si a me l’affida, e spira. Io l’accettai,
Io serberò la fede.

Bella e ingegnosa è parimente la scena quinta dell’atto IV, nella quale Miside dopo avere esposto il bambino sulla porta di Simone per consiglio di Davo, è sorpresa da Cremete, e non sa come contenersi nelle risposte non vedendo più Davo. Ma l’astuto finge di sopraggiungere, e maravigliarsi del fanciullo, e colle sue pressanti richieste aumenta l’imbarazzo di Miside. Ella vorrebbe riconvenirlo sottovoce: ma Davo all’incontro vuol che risponda apertamente confessando la verità. Ognuno vede quanto sale contenga questo comico artificio. Ella gli dice avoce bassa, non tute ipse… Ma Davo con alta voce e con volto che esclude ogni sospetto d’intelligenza, l’interrompe dicendo, concede ad dexteram. E perchè? Per quel ch’io ne penso, per farla avvicinare a Cremete, affinchè nulla egli perda di quanto ella dica. Ma l’annotatore Farnabio interpre {p. 162}all’opposte, che Dave a lei parli sommessamente, e la faccia nassare a destra per allontanarla da Cremete che si trova alla sinistra. Non si accorse quel l’erudito ch’egli distruggeva il disegno del poeta. Più volte e Plauto e Terenzio hanno in una scena usato questo colore di dire alcuna cosa a voce alta, ed altra con voce bassa, e furtivamente. Ma in questa Terenzio lavora con maggior delicatezza. Egli vuole che Miside senza veruna prevenzione manifesti in presenza di Cremete la verità del parto, affinchè ciò scoprendosi vada in fummo il contratto nuziale. Il fargliene Davo qualche motto sottovoce scemerebbe il pregio del ritrovato, e la grazia della scena. Davo nella precedente alla prima si accinge a scoprire a Miside la trama. Move ocius te, ut quid agam, porro intelligas, di poi vede venir Cremete e cancia consiglio, Repudio consilium quod primum intenderam… tu ut subservias orationi, utcumque opu’ sit verbis, vide. Miside rimanendo nell’ {p. 163}incertezza gli dice, Ego quid agas, nihil intelligo. Ma perchè mai Davo si appiglia al partito di esporre la serva senza prevenirla? Perchè pensa con ragione che costretta a rispondere quel che il caso esige, la verità senza il belletto dell’arte più vivace si presenterà agli occhi di Cremete. E così avviene. Il vecchio ne rimane sì persuaso, che pensa di rompere il contratto, e a tal fine va in traccia del padre di Panfilo. Partito Cremete, Davo in segno di allegrezza vuole accarezzar Miside, che sdegnata lo ributta, dicendo, non mi toccare, furfante. Davo per giustificarsi le dice:

Hic socer est, alio pacto haud poterat fieri,
Ut sciret haec quae volumus.

Ma replica Miside, perchè non avvisarmene, hem praediceres, e Davo ripiglia egregiamente,

Paullum interesse censes, ex animo omnia,
Ut fert natura, facias, an de industria?

{p. 164}Ecco il bellissimo pensiero del Poeta di far parlar la natura, ed accennarle qualche cosa di soppiatto, come pretendeva Farnabio, avrebbe ripugnalo a sì bel disegno. Alcuni critici hanno ancor detto che questa favola conteneva due azioni, una degli amori di Pamfilo, l’altra di quelli di Carino. Strana critica: perchè da un’ azione seguono due matrimonii, si dirà che sia doppia? Se si rappresentasse il ratto delle Sabine, sarebbero tante le azioni quanti i matrimonii che produrrebbe? L’azione dell’Andria è quest’una, l’esito felice degli amori di Gliceria collo scoprirsi cittadina Ateniese, e figliuola di Cremete; e se quindi nasce ancora la prosperità di Carino, questo non è narrare o rappresentare un’ altra azione, ma sì bene accennar della vera e sola azione della favola una fortunata natural conseguenza. Fece di sì vaga commedia una libera imitazione in prosa il Capuano Marco Mondo, l’ultimo de’ Segretarii della Città di Napoli che illustrarono la loro carica colla dottrina {p. 165}e colle lettere, giacchè quelli che lo seguirono mancarono di simil corredo. Egli fe imprimerla verso il 1704 da Giuseppe Sellitto, con altri poetici componimenti, col titolo le Nozze. La divise in tre atti, diede a’ personaggi nomi e costumi moderni, e trasportò l’azione a’ tempi correnti, e alla città di Livornoa

{p. 166}La Suocera. Questa commedia di, Apollodoro prende il titolo di Ἐκυρα, socrus secondo Donato, dalla {p. 167}gran parte che hanno le suocere nell’azione. Apparentemente l’umore di Sostrata suocera di Filomena sembra aver dato motivo alla discordia e alla separazione. Ma non è così. Filomena che aveva avuta la sventura di essere una notte violentata da un giovane sconosciuto, va alle nozze di Pamfilo già incinta di due mesi, colla speranza di attribuir poscia al marito la gonfiezza del suo ventre. Sventuratamente Pamfilo distratto negli amori di Bacchide, punto non le si appressa, comecchè pel di lei bel costume prenda ad amarla; indi per impossessarsi di una eredità parte dalla patria, e dimora lontano dalla moglie sino al giorno in cui Filomena partorisce. Si avvicina il parto, e Filomena col pretesto di stare inferma abbandona la casa del marito, torna alla paterna, e nè anche vuole ammettere la visita della buona ed innocente suocera. Torna Pamfilo tutto acceso dell’amor della moglie nel punto che questa partorisce, nè di lui al suo credere. Mirrina madre di Filomena gli {p. 168}narra la disgrazia accaduta alla figlia prima di maritarsi, e lo prega a tacere il caso, quando non voglia ritener la moglie. Pamfilo si obbliga al silenzio, ma ricusa di ripigliarla; e per non esservi astretto dal padre si vale del pretesto della madre che non è d’accordo colla moglie. Al l’incontro il padre di Filomena crede che l’amore di Bacchide tenga Pamfilo avvolto negli antichi lacci, e il renda avverso al contratto nodo conjugale. Se ne querela con Lachete padre di Pamfilo, il quale ne va a far romore con Bacchide. Costei co’ più solenni giuramenti si giustifica, e Lachete le insinua di persuaderne le donne. Ella che non è delle piggiori del suo mestiere, condiscende. Visita le donne portando in dito un anello a lei donato da Pamfilo. Questo anello aveva egli tolto a una fanciulla una notte che la sforzò senza conoscerla; e questa fanciulla è per l’appunto la stessa Filomena. Pamfilo adunque è il padre del nato fanciullo. Le donne riconoscono l’anello, e Pamfilo {p. 169}venuto in chiaro del successo con estremo piacere ripiglia la moglie. Si osservi che il Poeta nell’atto V fa che Bacchide entri in casa di Mirrina, e narri ed ascolti più cose, e ne avvenga la felice riconoscenza del l’anello, e che indi n’esca; ma intanto si sono recitati soli dodici versi, ne’ quali dee supporsi trascorso il tempo richiesto al congresso di Bacchide in quella casa.

Le bellezze di questa favola si presentano in folla, e noi ne accenneremo alcuna colla speranza di eccitar la gioventù a leggere gli antichi con maggior riflessione, se vogliono ritrarre dalla drammatica quel diletto che ben di rado si prova nella lettura delle moderne favole. Mirabile nella 2 scena dell’atto I è il ritratto della buona moglie che giugne a cancellare dal cuore di un marito l’amor di una cortigiana:

    Atque ea res multo maxume
Disjunxit illum ab illa, postquam et ipse se,
Et illam et hanc, quae domi erat, cognovit satis.
{p. 170}
Ad exemplum ambarum mores earum aestimans.
Haec, ita ut liberali esse ingenio decet,
Pudens, modesta, incomoda atque injurias
Viri omneis ferre, et tegere contumelias.
Hic animus partim uxoris misericordia
Devictus, partim victus hujus injuriis,
Paulatim elapsu’ st Bacchidi, atque huic transtulit
Amorem, postquam par ingenium nactus est.

L’atto III riesce sommamente interessante e dilettevole. Pamfilo mesto nella I scena per la discordia della madre e della moglie, riflette alla sua miseria:

Matrem ex ea re me aut uxorem in culpa inventurum arbitror:
Quae cum ita esse invenero, quid restat, nisi porro ut fiam miser?
Nam matris ferre injurias me, Parmeno, pietas jubet.
{p. 171}
Tum uxori obnoxius sum: ita olim suo me ingenio pertulit
Tot meas injurias, quae nunquam in ullo patefecit loco.

Mentre Parmenone si studia di consolarlo, ecco sentesi in casa della moglie un mormorio, un movimento, un andare avanti e indietro, onde essi pongonsi in curiosità e apprensione. Si avvicinano per ascoltare, odono alcun clamore; Mirrina esorta la figliuola, a tacere, tace, obsecro, mea gnata. Questa è la voce di Mirrina, dice Pamfilo; nullus sum… perii. Parmenone diee di avere udito, Philumenam pavitare nescio quid. Egli ha frainteso; le donne dovevano aver detto paritare. Paventa bene Pamfilo di qualche grande sciagura, e corre su dalla moglie. Nella seconda scena la buona Sostrata vorrebbe andar di nuovo a visitar la nuora inferma. Parmenone ne la distoglie, e le dà notizia del ritorno di Pamfilo. Esce egli dalla casa della moglie pieno di tristezza; e al veder la madre si sforza di {p. 172}dissimular la sua pena, benchè i segni ne scappino fuori ad onta della sua industria. Il loro dialogo non può essere più vago. Se ne ammiri l’eleganza, la verità, il patetico:

Sost.

                    O mi gnate.

Pam.

Mea mater, salve.

Sost.

Gaudeo venisse salvum; salvan’
Philumena est?

Pam.

Meliuscula est.

Sost.

Utinam istuc Dii faxint.
Quid igitur lacrumas? aut quid es tam tristis?

Pam.

Recte mater.

Sost.

Quid fuit tumulti? dic mihi an dolor repente invasit?

Pam.

Ita factum est.

Sost.

Quid morbi est?

Pam.

Febris.

Sost.

Quotidiana?

Pam.

Ita ajunt.
I, sodes, intro; consequar jam te, mater mea.

Sost.

Fiat.

Così tormentato dalle innocenti richieste materne rimanendo solo riflette con libertà sul l’avventura della moglie e sul proprio stato. Egli si trova di lei {p. 173}innamorato, e pensa intanto che non può palesare il vero, per la parola datane a Mirrina. Tale angustia è ben maneggiata in questa 3 scena, e l’espressioni sono tutte dettate dalla passione che vi domina. Egli ripete a se stesso il fatto animandolo colle più patetiche immagini. Entra improviso; le serve si rallegrano alla prima, indi si turbano, si scompigliano. Comprende da qual morbo la moglie sia oppressa, e piangendo vuol tornare indietro. Lo segue Mirrina sciolta in lacrime, gli si butta a piedi, e palesa la disgrazia. Tutte le circostanze di questa scena presentano quadri vivacissimi, pieni di affetto, e non già semplici parole, o concettuzzi mendicati, o tratti di spirito leccati. Egli in fine che ha promesso di tacere, cosi conchiude:

Pollicitus sum, et servare in eo certum est, quod dixi, fidem:
Nam de reducenda, id vero neutiquam honestum esse arbitror.
Nec faciam: etsi amor me graviter, consuetudoque ejus tenet.
{p. 174}
Lacrumo, quae posthac futura est vita, cum in mentem venit,
Solitudoque. O fortuna, ut nunquam perpetuo es bona!

Del pari interessante è la scena 5 di Pamfilo col padre e col suocero, nella quale egli si trova in angustia per voler serbare la fede a Mirrina, e per addurre alcuna onesta ragione di ricusar la moglie. Degna è pure di notarsi la 2 scena dell’atto IV di Pamfilo con Sostrata. La madre il prega perchè ripigli in casa la moglie, proponendo di ritirarsi ella in campagna. La proposta di una madre sì buona aumenta il dolore del figlio. Lo stato di Pamfilio va poi piggiorando a momenti. Fidippo ha saputo che Filomena ha partorito, e nella 4 scena viene a dire a Pamfilo, che se vuole rompere il contratto, il faccia pure, purchè si prenda il bambino. Lachete si rallegra del nipotino che gli è nato. Pamfilo sempre più si attrista, che se prima di esser nato il bambino poteva esitare intorno a riprendersi la {p. 175}moglie, e nel caso di riprenderla poteva esporre il bambino, e seppellire nell’obblio l’accaduto, oggi però che è palese che ella abbia partorito, non dee riceverla, o nel riceverla dee riconoscere per suo un bambino che di lui non nacque:

Etsi jamdudum fuerat ambiguum hoc mihi,
Nunc non est, cum eam consequitur alienus puer.

Ma dall’altra parte che cosa risponderà egli a Lachete, che fa premura che accetti il bambino? Con qual pretesto il rifiuterà? Questo nuovo aumento al di lui dolore egregiamente si maneggia in questa scena. Lachete ascrive la di lui ritrosia agli antichi amori, Pamfilo replica, Dabo jusjurandum, nihil esse istorum, tibi. E Lachete adirato ripiglia:

Reduc uxorem, aut quamobrem non opus sit, cedo.

Pam.

Non est nunc tempus.

Lac.

Puerum accipias: nam is quidem
In culpa non est: post de matre videro,

Pam.

Omnibus modis miser sum, nec, quid agam, scio.

{p. 176}Questa bella favola ha un patetico proprio della commedia nobile. Vi si piange, ma un pianto conveniente alle domestiche discordie delle famiglie cittadinesche, e non già quel pianto corrispondente agli atroci delitti o inventati da una fantasia alterata per disonorare l’umanità o ricevuti da’ più famosi e rari processi criminali secondo la pratica degli ultimi strani drammi Inglesi, Francesi e Alemanni. Debbe nell’Ecira ravvisarsi un ottimo modello della commedia, tenera, la quale richiede un poeta di cuore assai sensibile e delicato; genere che presso gli accennati oltramontani è degenerato in una non plausibile e ben difettosa commedia larmoyante. Può sì vaga favola Terenziana tenersi per una delle più interessanti del l’antichità, ed anche dirsi potrebbe la prima e la migliore, se vi si trovasse moto e vivacità maggiore, cosi felicemente n’è scelto il punto onde incomincia l’azione, e sì maestrevolmente vi si maneggiano le passioni. Non ha garbugli, {p. 177}non furberie servili, non buffonerie; ma ciò appunto manifesta che in tutt’altro può consistere la vera piacevolezza scenica. I personaggi sono tutti buoni; non di quella bontà immaginaria delle scuole morali, nè dell’eroica che ha luogo nelle tragedie, ma di quella civile bontà, che ci allontana dalle colpe senza preservarci dalle debolezze. Essa fu rappresentata più volte in Roma. La prima volta essendo Edili Curuli Sesto Giulio Cesare e Cn. Cornelio Dolabella, e per quel che dicesi nel prologo che ora la precede, il popolo impaziente per lo spettacolo de’ ballerini da corda e de pugili, non si curò di vederla o di comprenderla. Alluse Orazio all’evento dell’Ecira, quando attribui all’ardore che inspiravano simili spettacoli, lo scoraggimento de’ poeti:

                     media inter carmina poscunt
Aut ursum aut pugiles, his nam plebecula gaudet.

La seconda volta si rappresentò anche imperfettamente ne’ giuochi funebri di {p. 178}L. Emilio Paolo, essendo Consoli Cn. Octavio e T. Manlio, e neppur piacque, o per meglio dire neppure si ascolto, perchè recitato appena l’atto primo che fu hene accolto, si levò un romore, che davansi i giuochi gladiatorii, ed ecco che il popolo abbandona il teatro e si affolla a prender luogo nell’anfiteatro. La terza volta si rappresentò, essendo Edili Q. Fulvio e L. Marzio, dal famoso istrione L. Ambivio Turpione, il quale tolse sopra di se il carico di recitare il prologo per raccomandarla al popoloa. L’istrione accreditato, colle parole dell’incomparabile autore, nel bellissimo prologo mette in vista gli antichi suoi meriti; e siccome per opera sua alcune favole di Cecilio alla prima rigettate si riprodussero e con meglio conoscersi {p. 179}riceverono migliore accoglimento; così si lusinga che abbia in questa di Terenzio a rinnovarsi il passato esempio, fidando nella benignità e nel silenzio degli ascoltatori. Piacque questa terza volta, e ciò avvenne nell’anno di Roma 588, e si replicò poi nel 589.

Il Tormentatore di se stesso. Non cambio Terenzio il titolo di Heautontimorumenos a questa commedia di Menandro trasportandola interamente nell’idioma latino. Ma come dice di averla fatta doppia di semplice ch’essa era?

Duplex quae ex argumento facta est simplici.

Giulio Scaligero dice che il poeta la chiamò doppia, perchè una mettà se ne rappresentò la sera, e scorsa la notte ne’ giuochi si terminò all’apparir dell’albaa. Passi che una commedia di giusta mole siesi recitata in Roma in due giorni, cioè la sera dell’uno i primi due atti, e il rimanente {p. 180}all’albeggiar dell’altro, cosa, per quanto si sa, mai più non avvenuta, e di cui non potrà rendersi veruna adeguata ragione, siccome è stato anche da altri avvertitoa Ma questa cosa potrebbe fare che un poeta assennato chiamasse doppia una favola di argomento semplice? Tommaso Farnabio rigettando l’opinione di Scaligero giudica che il poeta dica di averla fatta doppia, perchè nella commedia di Menandro essendo uno il vecchio, uno il figliuolo, una la giovane, uno il servo, Terenzio raddoppiò nella sua tutti questi personaggi, introducendo due vecchi, due figliuoli ec. Ma un comico di tanto valore e sì amico della proprietà delle voci, avrebbe senza sconcezza chiamata doppia una favola per averne raddoppiati i personaggi? E qual grazia {p. 181}avvebbe prodotto questo inutile raddoppiamento? Provisi poi chiunque ad eseguirlo in qualche favola, e vedrà di quali freddi oziosi personaggi riempirà la scena. Scorge da ciò ognuno, non essere stata più felice l’interpretazione del Farnabio. Secondo me Terenzio, nel servirsi del semplice argomento greco, v’inserì al suo solito la traccia di un’ altra azione forse di sua invenzione, per fare la favola più ravviluppata, accomodandosi al piacere del popolo, cui già increscevano gli spettacoli troppo semplici, come suole avvenire allorchè il buon gusto comincia a vacillare. E quindi con tutta ragione la chiamò doppia, perchè in fatti doppia la favola ne divenne. L’argomento greco consisteva negli amori di Clinia per Antifila, nello scoprimento della vera condizione di questa fanciulla, e nel carattere del vecchio Menedemo che si punisce della severità usata col figliuolo; mettendosi come un povero contadino a lavorar la terra colle proprie mani. Terenzio a questo {p. 182}aggiunse gli amori di Clitifone con Bacchide, e l’artifizio del servo nel cavar danaro dalle mani del vecchio Cremete. Si vede che questi sono due argomenti del poeta connessi con molta arte i quali formano una commedia ravviluppata e doppia, che sarebbe semplice senza il secondo. A qualche preteso veterano del Parnaso incresceranno simili osservazioni forse opposte a quanto egli avra pensato delle opere teatrali; e quindi di se sicuro magistralmente, senza consultare l’urbanità, affermerà di non averle io ben lette e bene intese. Ma chi sa (dicasi ciò con buona pace di certe pretese divinità dell’orbe letterario) che il male non consista, anzicchè ne miei giudizii, in quel che da tanti anni pose nelle loro teste salde radici? Chi sa che a tali campioni emeriti di Elicona non debbano riferirsi le parole di Petronio Arbitro, quod quisque perperam discit, in senectute confiteri non vult?

Questa favola è scritta con particolare eleganza e purezza di lingua, e se {p. 183}ne vanta lo stesso autore nel prologo. Ma i Critici vi desidereranno le famose unità di tempo e di luogo. Si offende quella di tempo, perchè l’atto I con qualche scena del II esige il giorno, viene poi la notte nella quale si celebrano le Feste Dionisie, e nell’atto III fa giorno. Un periodo però di 24 ore o poco più potrebbe contenere l’azione che vi si dipigne. Nuoce all’unità del luogo la comparsa di Menedemo che zappa, la qual cosa suppone un campo; e la necessità di una strada pubblica con varie case che richiede il rimanente della commediaa. Ma questa opposizione non avrebbe luogo in chi sapesse concepire un teatro alla maniera di Domenico Barone marchese di Liveri.

Possono in tal commedia notarsi diverse bellezze; ma ci contenteremo soltanto di fermarci in alcuna cosa {p. 184}della 3 scena dell’atto II, la quale contiene venustà di più di un genere. Clinia attende la sua Antifila che egli lasciò povera con una sola fante. Vengono i servi che sono iti a prenderla, e dicono fra loro di aver lasciato indietro le donne con tutta la folla delle serve che la precedono e la seguono, e cariche di oro e di vesti di valore inestimabile. Antifila con oro e vesti e calca di fantesche! Quali palpiti a tal novella per un innamorato che è stato assente! Egli esclama: vae misero mihi quanta de spe decidi! Ma è questo un equivoco condotto artificiosamente dal poeta, che all’apparenza giustifica le querele di Clinia. Siro però non soffre ch’egli più lungamente si attristi per un falso sospetto. Antifila è la stessa che era prima; ed eccone l’elegantissimo racconto che rasserena l’amante. Spiega in esso il poeta tutta la maestria nel dipignere i costumi, e c’insegna l’arte di sviluppare i caratteri:

Ubi ventum ad aedes est, Dromo pultat fores:
{p. 185}
Anus quaedam prodit, haec ubi aperuit ostium,
Continuo hic se confert intro, ego consequor:
Anus foris obdit pessulum, ad lanam redit.
Hic sciri potuit, aut nusquam alibi, Clinia,
Quo studio vitam suam te absente exegerit:
Ubi de improviso est interventum mulieri.
Nam ea res dedit tum existimandi copiam
Quotidianae vitae consuetudinem,
Quae cujusque ingenium ut sit, declarat maxume.
Texentem telam studiose ipsam offendimus,
Mediocriter vestitam veste lugubri,
Ejus anuis causa, opinor, quae erat mortua;
Sine auro tum ornatam, ita uti quae ornantur sibi,
Nulla mala re esse expolitam muliebri.
{p. 186}
Capillus passus, prolixus, circum caput
Rejectus negligenter; pax!a.

{p. 187}Si rappresento la prima volta questa favola dal soprallodato L. Ambivio Turpione e da L. Attilio Prenestino, essendo Edili L. Cornelio Lentulo e L. Valerio Flacco colla musica di Flacco figlio o liberto di Claudio. Dipoi si replicò cambiandovisi le tibie; e finalmente sotto il consolato di M. Giuvenzio e T. Sempronio si recitò la terza volta nell’anno di Roma 591.

Il Formione. Apollodoro cui appartiene questa favola, scrisse una commedia intitolata Epidicazomenos, e un’altra detta Epidicazomene dal nome della fanciulla di cui in essa si tratta. Il Formione deriva da quest’ultima; e Donato, il più utile forse di tutti i commentatori antichi e moderni delle commedie Terenziane, osserva che l’autore Latino errò nel dire che la sua nasceva dall’Epidicazomenos, {p. 188}avendo dovuto dire dall’Epidicazomene. Formione è il nome di un parassito che maneggia il più importante dell’azione. Egli dà ad Antifone il consiglio di farsi citare in giudizio come se fosse prossimo parente della fanciulla Fannia rimasa povera, ad oggetto di essere in virtù di una legge astretto a sposarla; ed egli difende la pretesa parentela altercando con Demifone padre di Antifone. Finge poi di accordarsi a prender Fannia egli stesso per moglie, per uccellare il vecchio e per trarne trenta mine ovvero trecento scudi da dare a Fannia per liberare dalle mani del ruffiano la sua diletta sonatrice di cetera. Egli anche sapendo il secreto di Cremete che in Lenno sposò un’altra moglie, essendo già marito di Nausistrata, e divenne padre di Fannia, fa tremare questo vecchio, e al fine scopre il tutto alla stessa Nausistrata; onde avviene che Antifone rimane sposo della sua Fannia riconosciuta dal zio per figlia.

È questa una delle commedie {p. 189}Terenziano possimamente divisa nel l’edizioni di Einsio e di Farnabio. L’atto l a patto veruno non può terminare colla scena 4, e col verso Succenturiatus si quis deficiet. Ph. Age. Per comprenderlo basta saperne l’azione. Geta annunzia a Fedria e ad Antifone il ritorno di Demifone. Antifone lo vede egli stesso da lontano nella piazza, e si ritira non avendo coraggio di presentarglisi. Rimane Geta e Fedria, ed il servo dice, io mi occulto in questo luogo per soccorrere a tempo, e spinge Fedria ad incontrare il vecchio. Geta dunque rimane in iscena ma nascoto, e Fedria sotto gli occhi dello spettatore attende l’arrivo di Demifone suo zio. Or come può qui terminar l’atto? Come la dissonanza musica non risoluta, finchè non cada in tono, sembra un errore nemico dell’armonia, così l’azione quì disposta non soffre sospensione, ed è forza che si risolva; e la venuta di Demifone è la risoluzione della scena. Ed avendo Fedria e Geta con Demifone conchiuso che si {p. 190}chiami Antifone e Formione, que’ due partono per eseguirlo, e Demifone s’incamina verso la sua casa Deos penates salutatum. Quì sì che termina l’azione incominciata, e può essere acconciamente la fine dell’atto. I codici della Vaticana giustificano questa osservazione, e contraddicono alla divisione delle edizioni comunali. Altro inconveniente nasce ancora dal collocarsi per prima dell’atto II la scena che incomincia, Itane tandem uxorem duxit Antipho injussu meo? Geta va in traccia di Formione, Demifone parte dopo aver recitati quattro soli versi, e Geta ha eseguito già l’incarico, ha trovato Formione, e gli ha narrato l’accaduto. Ma se l’atto II incomincerà dalla scena di Formione con Geta, tutto procederà con ogni verisimiglianza, lo spazio che corre da un atto all’altro darà luogo alla ricerca di Formione fatta da Geta, e al racconto del fatto. Tutta volta nel dividersi in tal guisa pare che non regga il rimanente, nè possa terminar l’atto II colla scena {p. 191}4, e col verso, Sed eccum ipsum video in tempore huc se recipere, inconveniente nè anche sfuggito ne’ codici della Vaticana. Che se Geta cercando Antifone il vede venire sì opportunamente, e l’attende, come mai può quì terminar l’atto II, e cominciare il III Enim vero Antipho? E che hanno fatto frattanto Geta e Antifone che si è enunciato? Hanno dormito mentre i Ludii o altri pantomimi saltavano? Converrà dunque congiungere le tre scene che ora fermano l’atto III con quelle del II, le quali non permettono veruno interrompimento. Ma ciò facendo sparirà l’atto II, ed il Formione sarà composto di quattro soli atti. Quanto a me io non vi troverei veruno sconcerto; ma i Latini furono più scrupolosi de’ Greci, come apparisce dal noto verso di Orazio,

Neve minor quinto, neu sit productior actu
Fabula,

e allora leverebbonsi a romore i spedanti tutti. Madama Dacier comprese {p. 192}la difficoltà, e per evitare che gli atti diventassèro quattro, e per lasciare il teatro voto ragionevolmente nella fine dell’atto, pensò di sopprimere il verso sed eccum ipsum. Così scioglie il nodo alla foggia marziale di Alessandro Havvene un’altra più giusta che consiste in ben dividere gli atti senza mutilar la favola. Ed a me sembra potersi ciò fare in due sole maniere ragionevoli. Ecco la prima.

Atto I, incominci col verso Amicus summus meus ecc., e termini con questo, Puer, heus, nemon’ huc prodit? Cape, da haec Dorcio.

Atto II, incominci da Adeon’ rem rediisse, ut qui mihi ecc., e termini, Ut ne imparatus sim, si adveniat Phormio.

Atto III, incominci Itane patris ais conspectum veritus, e termini Ph. Qua via istuc facies? Get. Dicam in itinere; modo te hinc amove.

Atto IV, incominci Dem. Quid qua profectus causa, e termini {p. 193}Dem. Rogabo. Ch. Ubi illas ego nunc reperire possim, cogito.

Atto V. Quid agam ecc.

L’altra divisione che regge ugualmente, e lascia i giusti intervalli all’azione senza veruna violenza, è questa:

Atto I, incominci Amicus summus, e termini Ut ne imparatus sim, si adveniat Phormio.

Atto II, incominci Itane patris ais conspectum veritus, e termini Qua via istuc facies? Get. Dicam in itinere, modo te hinc amove.

Atto III, incominci Quid qua profectus causa? e termini Rogabo. Gh. Ubi illas ego nunc reperire possim, cogito.

Atto IV, incominci Sos. Quid agam? quem amicum inveniam, e termini De. At tu intro abi. Ch. Heus ne filii nostri quidem hoc resciscant, volo.

Atto V Laetus sum ut ut meae res se se habent.

Questa divisione è stata avvertita ancora dall’autore delle Note alla {p. 194}mentovata edizione di Terenzio fatta in Roma nel 1767a.

Molti passi assai vaghi possono notarsi in tal commedia. Leggiadra è la descrizione della bellezza senza artificii nella persona di Fannia nella scena 2 dell’atto I; ed è preceduta da un patetico racconto fatto con ammirabile naturalezza, In quo haec discebat ludo, ex adverso ei loco ecc., che quì riferiremo con’ gli eleganti versi del lodato Fortiguerra:

Si stava dirimpetto a questa scuola
Ove andava ella, certa barberia,
Ivi lei solevamo quasi sempre
Aspettar, mentre sen tornava a casa.
Ora quivi sedendo, ecco ad un tratto
Che in noi si abbatte un giovan che piangeva.
Abbiam di ciò stupore, e lui preghiamo
{p. 195}
A dirci la cagione: Egli non mai
Mi è paruto, come or, misero e grave
Peso la povertade; ho visto adesso
In questo vicinato una donzella
Misera, che facea tristo lamento
Per la sua madre morta, che giaceva
Ad essa dirimpetto, e niuno amico
Aveva, o conoscente, o di suo sangue,
Che desse mano al funerale, in fuora
Di una sol vecchierella: io mi sentii
Muovere a compassione. Avea la stessa
Fanciulla il volto bello a maraviglia.
Ma che più dico? Eravam noi già tutti
Commossi, quando subito Antifone
Comincia: vogliam noi colà portarci
{p. 196}
Per lei vedere? Un altro: andiamci pure,
E tu ne mena adesso. Andiam, torniamo,
Veggiamo. La fanciulla è bella molto.
E tanto bella più tu la diresti,
Quanto nulla ha che sua bellezza aiti.
Scarmigliati i capelli, i piedi nudi,
Incolta, rozza, e col pianto sul viso,
Vestita malamente: alla per fine,
Se in essa il fior della beltà non era,
Avrian tai cose ogni bellezza estinta.

Bella è la 4 scena dell’atto I, in cui Geta e Fedria cercano di animare Antifone abbattuto dalla venuta del padre. Non sum apud me, e Geta:

… atqui opus est nunc cum maxume, ut sis, Antipho.
Nam si senserit te timidum pater esse, arbitrabitur
Commeruisse culpam.

{p. 197}E perchè, per quanto gli si dice, egli rimane sempre più costernato, que’ duo fingono di voler partire e lasciarlo; alla qual cosa Antifone si scuote, s’incoraggia, e si sforza di far buon viso. Le parole non ricevono soccorso da veruna prosa marginale (pretesa dal fu Saverio Mattei) che ne dichiari l’azione, e pure essa chiarissimamento si comprende; il che convince d’ignoranza qualche mal istruito pedante, che stimò essere state le antiche tragedie e commedie mutilate da’ gramatici di quella ideata prosa marginale che dinotava le azioni de’ personaggi. E chi di grazia ha rivelato a colui si bel secreto, che gli autori nel pubblicar le loro favole le colmavano di noterelle, come fanno oggidì molti moderni? Gli autori Greci, ed alcuni de’ Latini no erano per lo più gli attori, nè abbisognavano di tali soccorsi marginali. Esei di più erano persuasi, che un poeta dovesse talmente nel dramma manifestare i proprii concetti, che facesse comprendere, di quale azione {p. 198}dovesse animarla e abbellirla il rappresentatore. Quelli che leggono con intelligenza e riflessione, non ne abbisognano; e sono le desiderate noterelle del pari inutili per le teste leggere di taluni che leggono pettinandosi o amoreggiando. Osservinsi le parole che seguono:

Quid si assimulo? satin’ est?

Get.

Garris.

Ant.

Voltum contemplamini, hem
Satine sic est?

Get.

Non.

Ant.

Quid si sic?

Get.

Sat est.
Hem istuc serva.

È chiaro che Antifone avrà accompagnato l’azione e il volto ad ogni espressione, cangiandosi sempre per soddisfare al servo. E che avrebbero espresso quì alcune meschine note marginali? Senza dubbio foscamente avrebbero accennato quel che con più vantaggio si lascia all’abilità dell’attore, e al discernimento di chi legge. Questa scena è tanto più vaga, quanto le cose umili {p. 199}sembrano meno capaci di grazia e bellezza. Per buona ventura nel fermarmi la state del 1779 in Parma vidi manoscritta la versione italiana del Formione fatta dall’elegantissimo traduttor di Teocrito, Mosco e Bione, il chiarissimo p. m. Giuseppe Maria Pagnini Pistojese già Carmelitano professore di eloquenza in quella universitàa, il quale si compiacque di permettermi di fregiare la mia nuova Storia de’ Teatri con qualche frammento della sua versione, e del suo nome sì caro alle Muse Italiane. Egli me ne trasmise in Madrid qualche scena. L’anno 1784 poi, mentre io già mi trovava in Napoli, si rappresentò nel Collegio ducale de’ Nobili da’ giovani studiosi della nomata università, e dalla stamperia Reale si pubblicò col testo di Terenzio corredato di un nuovo prologo {p. 200}latino del medesimo eccellente traduttore. Ecco intanto la versione della scena indicata:

Geta.

Geta, per te è finita se non trovi
Qualche pronto ripiego. Ora mi veggo
Cento trappole intorno all’improviso,
Ne so come schivarle, o come uscirne!
La nostra furberia non può più a lungo,
Tenersi ascosa.

Ant.

Oh come è mai turbato!

Get.

Ne mi resta a pensar più che un momento.
Il padron m’è a ridosso.

Ant.

Che ha costui?

Get.

Quando il saprà, come farò a calmare
Il suo furor? Se parlo, si riscalda;
Se taccio, imbestialisce; se mi scolpo,
E un gettar voci al vento. Oh me tapino!
{p. 201}
Per me ho paura, e’ il povero Antifone
Mi strazia il cuor; mi fa pietà; per lui
Sono in travaglio. In grazia sua non svigno.
Se non fusse per lui, l’avrei sbrigata.
Avrei ben provveduto a’ casi miei.
L’ira del vecchio mi daria di barba.
Avrei fatto fardello, e preso il trotto.

Ant.

Qual fuga o latrocinio in testa ordisce
Costui?

Get.

Ma dove treverè Antifone?
Per quale strada mi farò a cercarlo?

Fed.

V’ha nominato.

Ant.

Ah sì, che me l’aspetto
Di sentirmi annunziar qualche gran male.

Fed.

Siete impazzito?

Get.

Orsù torniamo a casa.
Ei vi stà per lo più.

Fed.

Chiamiamlo indietro.
{p. 202}

Ant.

Fermati lì.

Get.

Poffare, un grande impero,
Sia chi vuol.

Ant.

Geta?

Get.

È quel cui cerco appunto.

Ant.

Di per pietà che nuove porti, e sbrigati,
Se puoi, ’n una parola.

Get.

V’ubbidisco.

Ant.

Su parla

Get.

È al porto.

Ant.

Il mio?

Get.

Ci avete colto.

Ant.

Son morto.

Fed.

Eh via.

Ant.

Che dovrò far?

Fed.

Che dici?

Get.

Ho veduto suo padre, vostro zio.

Ant.

Qual riparo porrò quì su due piedi
Alla rovina mia? S’io sono astretto
A dovermi da te, Fannia, staccare,
Non so che far della mia vita.

Get.

O via,
Antifon, s’è così, vie più dovete
Star bene all’erta. La fortuna ai forti
Ajuto dà.

Ant.

Non sono in me.

Get.

Bisogna
{p. 203}
Or più che mai che siate in voi. Se il padre
S’avvedrà che voi siate spaurito,
Farà giudizio, che voi siate in frodo.

Fed.

È ver.

Ant.

Non so cambiarmi.

Get.

E se doveste
Qualche altra cosa far più faticosa?

Ant.

Non posso questa, men potrei far quella.

Get.

Questa e nulla è tutt’un. Fedria, è finita.
Perchè gettiamo il tempo? Io voglio andarmene.

Fed.

Anch’io.

Ant.

Per poco in grazia. E s’io mostrassi
Questo sussiego? È assai?

Get.

Ciance.

Ant.

Guardatemi
In volto. Ehi, così basta?

Get.

No.

Ant.

E così?

Get.

Quasi quasi

Ant.

E così?

Get.

Così va bene.
Tenete. su le carte, e rimbeccate
Ogni suo detto, ogni purola, ond’ egli
{p. 204}
Incollorito colle sue bravate
Non v’abbia a sopraffar.

Ant.

Capisco.

Get.

A forza
La Legge, la Sentenza v’obbligò.
Avete inteso? Ma chi è quel vecchio,
Che veggo là nel fondo della piazza?

Ant.

È desso? Non ho cuor di rimanere.

Get.

Ehi, che fate, Antifon? Quì quì restate.

Ant.

Il mio debol conosco, e il mal ch’ho fatto.
Raccomando a voi Fannia e la mia vita ecc.

Artificiosa finalmente è la scena di Geta e Formione, ascoltando da parte Demifone, che nelle communi edizioni è la 3 dell’atto II, e nella lodata edizione del p. Pagnini è la seconda del medesimo atto, ed incomincia, En unquam cuiquam contumeliosius. Eccone la di lui traduzione:

Dem.

Avete inteso mai che altr’ uomo al monde
{p. 205}
Abbia sofferto un più villano oltraggio?
Ajutatemi in grazia.

Get.

È forte in collera.

Fon.

Bada a te: zitto. Io leverogli il ruzzo.
Poter del mondo! E Demifon sostiene,
Che questa Fannia non è sua parente?
Sostiene che costei non gli è parente?

Get.

Sì certo.

Dem.

A quel ch’io penso, ecco quel furbo.
Venite meco.

For.

Ed ei non sa chi fosse
Il genitor della fanciulla?

Get.

No.

For.

Egli non sa chi fu Stilfon?

Get.

No certo.

For.

Perchè è rimasta povera e mendica.
Non si vuol più conoscere suo padre;
Di lei non si fa conto. Osserva un poco.
Quel che fa l’avarizia.

Get.

Se tu ardisci
{p. 206}
D’avarizia tacciare il mio padrone,
Ti darò ben risposta.

Dem.

Oh che sfrontato!
Ei fin s’innoltra a querelarsi il primo.

For.

Io già non ho motivo di lagnarmi
Del giovin, se contezza non ne aveva;
Perchè quel poveretto già attempato,
Guadagnandosi il vitto colle braccia,
Per lo più se ne stava alla campagna,
Ore egli aveva preso un poderetto
Di mio padre in affitto. E quel buon vecchio
A me più e più volte ha raccontato,
Che questo suo parente a lui voltate
Avea le spalle. E che buon uomo! Io certo
A miei giorni il miglior non ho veduto.
{p. 207}

Get.

Vedi bel paragon di te e di lui.

For.

Che ti venga la rabbia. E s’io per tale
Tenuto non l’avessi, espor vorreimi
Con questa vostra casa a nimicizie
Sì fiere per sua figlia, che in un modo
Tanto villano tuo padron disprezza?

Get.

E continui ancora, a lingua fracida
A strapazzare il mio padrone assente?

For.

Ben gli stà.

Get.

Vuoi chetarti, galeotto?

Dem.

Geta.

Get.

Furfante, storcileggi.

Dem.

Geta.

For.

Rispondi.

Get.

Chi mi chiama? Oh!…

Dem.

Bada a te.

Get.

Costui non ha fatto altro in vostra assenza
Che affibbiarvi tutt’oggidelle ingiurie
Da voi non meritate, a lui dovute.
{p. 208}

Dem.

Finiamla. In prima vi domando in grazia,
Quel giovine, se pur non v’è d’incomodo,
Che mi diate risposta, e mi spieghiate
Chi è quel vostro amico, e in qual maniera
Si dichiarava d’essermi parente.

For.

Lo cercate da me, come se a voi
Non fosse noto.

Dem.

Noto a me?

For.

Di certo.

Dem.

Io vi dico di no. Voi, che volete
Che mi sia noto, fate che mi torni
Alla memoria.

For.

Eh via. Com’è possibile
Che quel vostro cugin non conosceste?

Dem.

Voi mi fate crepar. Ditemi il nome.

For.

Il nome? Volentier…

Dem.

Perchè nol dite?

For.

Oh me tapino! M’è sfuggito il nome!
{p. 209}

Dem.

E così?

For.

Geta, il nome suggeriscimi,
Se ti sovviene, che abbiam detto or ora)
Eh eh, non lo vo’ dir. Voi vi volete
Pigliar gioco di me, come se voi
Nol sapeste.

Dem.

Io pigliarmi di voi gioco?

Get.

Stilfone.

For.

Alfin, che importa a me? Stilfone.

Dem.

Chi?

For.

Stilfone, vi dico, era a voi noto.

Dem.

Nè io costui giammai conobbi, e alcuno
Parente di tal nome io mai non ebbi.

For.

Possibile? Oh vergogna! Ah s’egli avesse
Lasciato mai qualche migliar di scudi.

Dem.

Che ti colga il malanno.

For.

Allor saresti
Primo a dir su a memoria il vostro stipite,
{p. 210}
Facendovi dal nonno e dal bisnonno.

Fu questa commedia rappresentata, essendo Edili L. Postumio Albino e L. Cornelio Merola, dalla compagnia comica di L. Ambivio Turpione e L. Attilio Prenestino colla musica di Flacco. La quarta volta si recitò nel consolato di Gn. Fannio Strabone e M. Valerio Messala l’anno di Roma 593. Il poeta memore della disgrazia dell’Ecira implora nel prologo il silenzio degli spettatori, dicendo:

Ne simili utamur fortuna atque usi sumus,
Cum per tumultum noster Grex motus loco est,
Quem actoris virtus nobis restituit locum,
Bonitasque vestra adjutans atque aequanimitas.

Potrebbe aggiugnersi che la quinta volta fu nella stessa Roma nel secolo XIII dell’era Cristiana fatta rappresentare da nobili attori per ordine del Cardinale Ippolito da Este il giovine, e vi {p. 211}premise il prologo il celebre Antonio Mureto. La sesta volta sarebbe questa che si è rappresentata in Parma da’ giovani studenti di quel l’Università l’anno 1784. Non vo privare i nostri leggitori del nuovo prologo appostovi dal p. Pagnini:

Ætate nostra pol nihil frequentius
Ubique locorum, quam qui faciant comicam
Extra theatra. Nonne in hemycyclis,
In officinis, in tabernis, in foro,
In aedibus potentium, ac, si diis placet,
Ipsis in aulis principum quamplurimi
Suis relictis non suas partes agunt,
Ut sapientes, ut nobiles, ut divites,
Ut docti appareant incautis, non sine
Rei qua privatae incommodo qua publicae?
Nec ipsi turpiora officia despuunt,
Notos, ignotos fallere, assentarier
Supremis, imis, plenos fidei perdere,
Supponere acta, scripta, sycophantias
{p. 212}
Moliri, ac si quid hisce est impudentius,
Modo id sua cum re sit. Heu scelus! heu nefas!
At nemo jure crimini aut probro duit
Huic nostro adolescentum ingenuorum coetui
Sine pretio prodire ornatu scenico,
Moresque vitae deteriores fingere,
Non ut cuiquam incommodet, sed ut simul
Spectatorum delectet animos et juvet,
Terentiana agetur ergo fabula,
Cui Phormio nomen ecc.

L’Eunuco. Questa commedia che Terenzio trasse da Menandro, fu dagli Edili comprata al prezzo esorbitante di ottomila nummi, cui verun’ altra mai non pervenne e si rappresentò dalla solita compagnia di Turpione ed Attilio colla musica di Flacco. La seconda volta si recitò nel consolato di M. Valerio Messala e Gn. Fannio Strabone l’anno di Roma 593. {p. 213}Nonpertanto dalla Dacier e dal Fabro si vuole che non si fosse rappresentata la seconda volta nel suddetto consolato, ma bensì due volte in un medesimo giorno, cosi interpretando essi quell’acta II. Convengo in non credere improbabile che sì bella commedia per tal modo a’ Romani piacesse che in un medesimo giorno ripeter se ne volessero il diletto, come suole avvenire all’udirsi qualche aria eccellente ne’ teatri musicali moderni. Ma la nota romana II è molto frequente nelle iscrizioni, Consul II, Consul  III, Pontifex  VII, e s’interpreta la seconda volta, la terza, la settima volta; or perchè solo in questa favola vuolsi che significhi bis, puntellandola consupplirvi la parola die? Bis acta est, dice lo scrittore della di lui vita; e perchè ciò direbbe (argomenta il Fabro) se non s’intendesse nel medesimo giorno? L’Eunuco si sarà rappresentata diverse volte; e perchè far menzione di due sole? Potrebbe però rispondersi in prima, che siesi {p. 214}rappresentata due volte in poco spazio di tempo (non già in un giorno, cosa che sarebbe stata avvenimento ben raro in Roma e tale che richiesto avrebbe un racconto speciale) senza poi tenersi più ragione di altre ripetizioni, la qual cosa sarà avvenuta altresì ad altre commedie di Cecilio, di Plauto ecc. E tale breve spazio di tempo non potrebbe ristringersi all’anno del riferito consolato, non essendovi maggior verisimiglianza nell’interpretazione del Fabro II die che in questa  II anno. L’analogia poi esige che s’interpreti la seconda volta, e non già due volte. Nel Tormentatore di se stesso si dice acta III nel consolato di Sempronio e Giuvenzio, e si spiega la terza volta, e non tre volte in un giorno; nel Formione dicesi facta IV sotto Fannio e Valerio, e s’interpreta la quarta volta, e non quattro volte in un giorno; nell’Ecira troviamo relata  III, e s’intende la terza volta, tanto più che in vece di recitarsi trevolte in un giorno, la prima e la {p. 215}seconda rappresentazione non potè compiersi, e perchè si terminasse, vi bisognò la preghiera dell’accreditato Turpione. Or perchè mai solo l’acta  II dell’Eunuco ha da ricevere l’insolita spiegazione di due volte in un di?

Che che sia però di questo, dobbiamo osservare che Terenzio in tutte le sue favole, e con ispecialità in questa, si scaglia contro il poeta Luscio Lavinio suo detrattore. Egli ne riprende due commedie tratte dalla Fantasima e dal Tesoro di Menandro; e ci racconta come dopo che gli Edili ebbero comperata la commedia dell’Eunuco, Luscio si adoperò per modo che ottenne la facoltà di esaminarla (inspiciendi) e che si cominciò a recitare, forse dallo stesso Terenzio, in presenza del magistrato. Allora l’invidioso maledico Luscio chiamò Terenzio ladro e plagiario, gridando ridicolamente, come pur fassi a’ nostri di, quando altro non si sa dire che la sua sostanza è tutta tolta dal Colace, favola scritta da Nevio e da Plauto. {p. 216}Terenzio nel prologo si discolpa, negando di aver mai saputo che Nevio e Plauto l’avessero posta in iscena; ma confessa ancora colla ingenuità che accompagna sempre gli uomini che non iscarseggiano di merito, che dal Colace di Menandro egli ha tratto i personaggi del parassito e del soldato.

L’azione dell’Eunuco consiste in un dono fatto da un suo amante a Taide di una fanciulla ch’ella sa esser cittadina Ateniese, e in un altro dono, fattole da un altro suo innammorato, di un Eunuco, in vece di cui vi è menato un vivace giovanetto preso repentinamente della bellezza di quella fanciulla, la quale di poi gli diviene moglie. La favola è condotta con buona economia e con ispecial grazia e vaghezza. Ma sopra ogni altra cosa le pitture degl’innamorati Fedria e Cherea sono così vere e leggiadre, che diventano una tacita satira di quasi tutti gl’innamorati scenici moderni, i quali o sogliono essere sofistici e ghiribizzosi metafisici, come nelle commedie {p. 217}spagnuole, o manierati belli-spiriti, come nelle francesi, o fantastici trovatori di ardite metafore, di studiati epigrammi e di strani rettorici pensamenti, come nelle italiane, specialmente di una gran parte del  XVII secolo. Si sgomenta ogni scrittor di buon gusto nel voler prestare i concetti a un innamorato rammentandosi di Fedria sulla soglia di Taide. Quattro versi che danno principio a questa favola, sono la disperazione degli scrittori teatrali intelligenti. Trascriverei di buon grado l’intera prima scena originale; ma per compiacere qualche volta a chi si conforma più volentieri all’uso francese di addurre delle lingue morte i frammenti tradotti in volgar lingua, ne recherò una mia versione qualunque essa siesi, sempre inculcando di leggersi i versi stessi di Terenzio:

Fed.

Che farò dunque? Non vi andrò? Nemmeno
Or che di suo volere a se mi chiama?
O mi armerò piuttosto di costanza
{p. 218}
Per non soffrir mai più d’esser trastullo
Di femminacce Lusinghiere e false?
Mi scacciò… mi rappella…
Tornerò ? … No, per Dio, no, se venisse
A mani giunte a domandar mercede.

Par.

Purchè il possa tu far, non v’ha di questa
Nè più gloriosa, nè più forte impresa:
Ma pensa ben, che se cominei e cessi
A mezza strada, se da lei lontano
E senza esser chiamato, e nel più forte
Del cruccio, da te stesso ti presenti
Alla sua soglia, e l’amor tuo palesi,
E quanto in odio a lei, te stesso abberri,
Tu sei perduto. Si aviedrà che schiavo,
{p. 219}
Che in lacci sei, che ti dibatti invano,
E del suo fasto diverrai lo scherno.
Pensaci ben, padrone, or che vi è tempo.
Ciò che in se non ha modo nè consiglio,
Guidar colla prudenza invan presumi.
Queste vicende e questi vizii tutti
Accompagnan l’amor: sospetti, ingiurie,
Inimicizie e tregue, e guerre e paci.
Tu se tai cose instabili conferma
Norma regger vorrai, sarà lo stesso
Che volere impazzir colla ragione.
E quel che irato or nel tuo cuor rivolgi:
Io lei? che quel..? che me..? che non..? Vedrai..
Oh pria morrò; saprà qual uom mi sia.
Tutto questo apparecchio di disdegno
{p. 220}
In fede mia ammorzerà repente
Solo una insidiosa lagrimuccia
Che dopo lungo strofinarsi d’occhi,
In essi a stento imbambolar vedrai.
E tu anzi reo di meritato sdegno
Ti chiamerai, chiedendo in grazia ancora
Un supplicio che lavi ogni tua colpa.

Fed.

Ribalda, indegna! Or sì conosco bene
La sua nequizia e la miseria mia,
E me ne incresce, e di amor muojo, e il veggo,
E il sò, ne mi trattengo, e ad occhi aperti
Corro a morir, nè so che farmi debba.

Par.

Non sai che far? La libertà perduta
Al minor prezzo che possibil fia
Cerca di riscattar; e se non puoi
Con poco, abbi l’intento ancor con molto,
{p. 221}
E con quanto possiedi, e ti consola.

Fed.

Così tu pensi?

Par.

E così far tu devi,
Se saggio sei, nè rendere maggiori
I mali e le molestie dell’amore,
E alla meglio soffrir quelle che ha seco.
Ma la tempesta de’ poderi nostri
Ecco fuori sen vien, che i dolci frutti
Che noi coglier dobbiam, via se ne porta.

Della bellissima scena seconda di Taide con Fedria e Parmenone potrebbero addursi varii squarci pregevoli; ma basti il seguente che sempre più può ammaestrare gli scrittori teatrali ad esprimere col vero linguaggio il pensare d’un innamorato. Addio, mia bella Taide (dice Fedria) sino a che passino questi due giorni. Addio, mio caro Fedria; vuoi tu da me qualche altra cosa? Ed egli :

……… Egone quid velim?
{p. 222}
Cum milite isto praesens, absens ut sies:
Dies, noctesque me ames, me desideres,
Me somnies, me expectes, de me cogites,
Me speres, me te oblectes, mecum tota sis.
Meus fac sis postremo animus, quando ego sum tuus.

I quali pensieri ha così felicemente espressi il Fortiguerra:

……… Quel che vogl’io?
Vo’ che presente a codesto soldato
Tu stia come lontana: e notte e giorno
Me ami, me desii, me sogni, e aspetti,
A me pensi, in me speri, e in me ti allegri;
In somma che di me tutta tu sii,
Quando io son tutto tuo.

Grande, forte, difficile ad esser raffrenata o a soggiogarsi è la passione di Fedria; ma infocata, vivida, impetuosa è quella del giovinetto Cherea. {p. 223}Che maestrevole varietà nel maneggiare un medesimo affetto! Odasi in qual maniera egli favelli nel volgare idioma per mezzo del medesimo Fortiguerra, e dalla bellezza della copia si argomenti la vivacità del colorito originale, e si confrontino:

Son morto: mi è sparita la fanciulla:
Ed io che fino a quì le tenni d’occhio,
Più non la vedo. E dove or cercherolla?
Ove rintraccerolla? E a qual persona
Domanderonne? E qual terrò camino?
Non sollo. Ma quest’unica speranza
Mi resta, che dovunque ella si sia,
Non potrà lungo tempo star celata.
O bellissimo volto! In questo punto.
Cancello dal mio cuor tutte le donne,
Che mi fan noja i visi del paese.

Leggansi in quest’altro passo tradotto {p. 224}dalla medesima mano le di lui esprescioni dopo essere stato in casa di Taide, donde esce pieno di giubilo e dolcezza:

Evvi alcun quì dappresso? Non vi è alcuno.
Evvi alcun che mi seguiti? Nessuno.
Or dunque potrò io liberamente
Tutta sfogar l’interna mia allegrezza.
O Giove, adesso è il tempo certamente
Che soffro in pace, se mi fai morire,
Acciochè a lungo andare alcuno affanno
Non contamini questo mio piacere.
Ma vorrei pure abbattermi in taluno
Che curioso mi venisse appresso,
E mi animazzasse con cento domande,
Dove io vada? dende esca? e che pretenda?
Perchè tanta allegrezza e tanto brio?
Da chi preso abbia questo vestimento?
{p. 225}
Se stò in cervello, o se sono impazzito?

Non ne rechiamo queste poche bellezze se non per eccitare gli studiosi giovani alla lettura ragionata delle commedie di Terenzio, nella quale si abbatteranno in moltissime altre che lasciansi alla loro diligenza, abbondandone questa bella favola forse la migliore delle latine. Non vediamo però su qual fondamento ragionevole abbia l’autore delle Note della sopranominata edizione Romana di Terenzio del 1767 voluto opporsi alla solita divisione degli atti dell’Eunuco. A suo credere l’atto I non dee terminare colle parole di Taide, Concedam hinc intro, atque expectabo dum venit. Dice quell’erudito: Probari qui potest eorum sententia, qui finem huic actui imponunt (quod coeteroquin in omnibus fere Terentii comoediarum editionibus fieri animadverti) quum adhuc Phaedria et Parmeno scenam occupent. Suppone l’annotatore che Fedria e Parmenone, mentre Taide favella, stiano {p. 226}ancora in iscena; e quando quella n’è partita, proseguono il discorso tenuto dell’ancella e dell’eunuco da condursi nella di lei casa. Ma l’azione parmi che avvenga diversamente da quello che egli pensa. Fedria parte dal proscenio dopo il verso, Meus fac sis postremo animus, quando ego sum tuus, e con Parmenone entra nella propria casa per accingersi al picciolo viaggio che vuol fare in villa per passarvi il biduo penoso. Taide rimane affliggendosi di non esser creduta da Fedria ch’ella ama di buon senno; accenna di volere col dono della fanciulla che attende dal soldato, rendersi benevolo il di lei fratello; entra in sua casa; e così termina benissimo l’atto I. Nel II esce Fedria con Parmenone, e come a tutti gli uomini avviene, e specialmente agl’innamorati, in procinto di andar via ripete al servo che eseguisca i suoi ordini intorno al menare l’ancella, e l’eunuco a Taide. In tale azione così condotta, e distribuita nulla havvi d’irregolare onde abbiasi a rifiutare la {p. 227}comune divisione. L’unico motivo che ebbe l’annotatore di censurarla, è che Fedria parla della medesima cosa accennata da Taide. Ma sarebbe strano che in due parole la ripetesse nel momento di partire? Lascio poi da parte che la divisione da quel letterato proposta senza verun bisogno, mi sembri sproporzionata nelle parti, perchè egli vorrebbe che i due primi atti ne formassero un solo, ed il II delle solite edizioni si dividesse in due ben piccioli.

Gli Adelfi. Non so come mai i gramatici che da varii passi degli antichi raccolsero le notizie appartenenti alla vita di Terenzio, abbiano francamente asserito che questa favola fosse, tratta da una di Menandro. Niun critico, per quanto io sappia, ha considerato che Terenzio stesso a chiarissime note ha detto di doverla al comicissimo Difilo, e intitolarsi in greco Synapothnescontes, che i comentatori interpretarono devoti, consecrati a correre la stessa sorte col loro sovrano. Ci dice in oltre che Plauto dalla {p. 228}favola di Difilo trasse la sua intitolata Commorientes; ma che avendo in essa lasciata intatta l’avventura del giovane che tolse a viva forza una meretrice a un ruffiano, egli ha voluto approfittarsi di questa parte non toccata, per tessere questa sua commedia. L’intitolo Adelphi per avervi introdotti due bellissimi caratteri di due fratelli di umore e di costumi opposti, i quali formano un piacevolissimo contrasto comico. Mizione e Demea sono gli originali di moltissime copie moderne di caratteri che graziosamente si combattono sulle scene. Mizione senza moglie, senza figli, pieno di comodi e di ricchezze, urbano, indulgente, piacevole, benefico: Demea ammogliato, con due figliuoli, pieno di cure, laborioso, severo, burbero, tenace. Quegli sempre tranquillo e lieto, questi sempre agitato e colerico. Mizione per sollevare alquanto il fratello adolta Eschino il primo de’ di lui figliuoli, e con una educazione dolce e indulgente, sebbene gli dà la {p. 229}facilità di soddisfare a’ suoi capricci giovanili, almeno l’incamina al l’ingenuità, e farselo amico. Demea rigido e molesto coll’educazione aspra, zotica e nojosa data a Ctesifone, senza correggerne i vizii della giovanezza, l’obbliga a ricorrere alla dissimulazione e all’ipocrisia, e da se lo aliena. Demea ignorando le passioni, il modo di pensare e la vita del figlio da lui educato, lo erede dedito interamente alle cose rusticali e lontano dalle solite debolezze giovanili, e si occupa solo nel pensiero della vita menata da Eschino, e ne censura e riprende suo fratello Mizione. Egli ha saputo che Eschino ha violentata la casa di un ruffiano, l’ha bastonato e gli ha tolto una meretrice. Ma egli ignora che questa donna è l’amata da Ctesifone, cui Eschino ha preteso favorire col torla al ruffiano. Crede egli che Ctesifone sia in villa, mentre si trova con la donna con Eschino in casa di Mizione. Ognuno vede qual fonte di piacevolezze contenga il carattere di questo vecchio {p. 230}severo che s’immagina di essere abbastanza vigilante, e di sapere gli sconcerti di sua casa prima di ogni altro; quando egli è il solo che n’è sempre all’oscuro:

Primus sentio mala nostra, primus rescisco omnia,
Primus porrò obnuncio. Ægrè solus, si quid fit, fero.

Egli sel crede, e n’è deriso da Siro:

Rideo hunc, primum ait se scire, is solus nescit omnia.

Ne’ casi di Panfila fatta madre da Eschino gli avviene lo stesso. Tardi n’è istruito da Egione e più tardi ancora e fuor di tempo, ne viene a schiamazzare col fratello allorchè tutto è quieto, e si sono conchiuse le nozze di Eschino e Panfila. Eccita parimente il riso quando accorgendosi che l’indulgenza di Mizione lo rende a tutti caro ed accetto, pensa d’imitarlo, benchè a spese del fratello; e sforzando il proprio naturale lo consiglia ad usare varie liberalità ed a congiungersi in matrimonio con Sostrata. Tralle {p. 231}bellezze più degne di notarsi in questa commedia si vogliono collocare le ottime regole di educazione che si ricavano dalla prima scena, le quali usate colla dovuta moderazione incaminerebbero i giovani alla sincerità e alla candidezza, là dove l’educazione rigida e indiscreta gli scorge all’ipocrisia e alla doppiezza. Dice Mizione:

……… Quae fert adolescentia,
Ea ne me celet, consuefeci filium;
Nam qui mentiri, aut fallere insuevit patrem, aut
Audebit, tanto magis audebit caeteros.
Pudore et liberalitate liberos
Retinere satius esse credo, quam metu.

Demea mio fratello (soggiugne Mizione) oltre al dovere è duro e severo:

Et errat longe, mea quidem sententia,
Qui imperium credat gravius esse aut stabilius,
Vi quod fit, quam illud quod amicitia adjungitur.
{p. 232}
Mea sic est ratio, et sic animum induco meum;
Malo coactus qui suum officium facit,
Dum id rescitum iri credit, tantisper cavet,
Si sperat fore clam, rursum ad ingenium redit.
Ille quem beneficio adjungas, ex animo facit,
Studet par referre, praesens absensque idem erit.
Hoc patrium est, potius censuescere filium,
Sua sponte recte facere, quam alieno metu.
Hoc pater ac dominus interest, hoc qui nequit,
Fateatur se nescire imperare liberis.

Io son di avviso che questi aurei versi ben ponderati risparmierebbero a molti la fatica di accumular volumi sull’educazione domestica.

Per ciò che riguarda la comica piacevolezza merita di osservarsi la scena 3 dell’atto III di Demea con Siro. {p. 233}Applaudesi il vecchio della propria maniera di pensare, e censura quella del fratello, coll’occasione del trascorso di Eschino; ed il servo con graziosa ironia loda la di lui saviezza, il prudente antivedere, le massime assennate. Il vecchio entrato a far l’elogio di se stesso non la finisce mai, ed il servo fa una parodia delle di lui sentenze applicandole alla sua cucina. Veggasi questo passo nella versione del Fortiguerra:

Dem.

Oh in questo ci stò tutto, e non mai lascio
Passargliene veruna, e in guisa tale
A bene oprar l’avvezzo. Finalmente
Gli comando, che come in uno specchio
Egli contempli di ciascun la vita,
E quindi apprenda dalle azioni altrui
A farsi esempio e regola a se stesso.
Questo, dico, è da farsi.

Sir.

Bene al certo.
{p. 234}

Dem.

Quest’altro è da fuggirsi.

Sir.

Con giudizio.

Dem.

Questo degno è di lode.

Sir.

Util consiglio.

Dem.

Questo di biasmo.

Sir.

Insegnamento raro.

Dem.

Ma per meglio spiegarmi.

Sir.

Non ho tempo
Or di ascoltarti, che mi son comprati
Quei pesci a gusto mio, e a me si aspetta
Lo stare attento, onde non vadan male;
Che tanto a noi si ascriverebbe a colpa
Una tal negligenza, quanto a voi
Quelle cose non far che avete detto.
Però nel modo stesso a’ miei conservi
Che al figlio tu comandi, io pur comando.
Questo è troppo salato: arsiccio troppo
È questo e lavato han poco quest’altro;
{p. 235}
Quello è squisito, raro: un’ altra volta
Che tu lo debba cuocer, ti rammenta
Di non mutare intingoli; ed a tutti,
Per quanto sò, dò regole, e precetti.
Infin comando lor che fissin gli occhi
Nelle stoviglie, come in uno specchio,
E mostro lor come hansi a contenere.

Siro stesso nella 2 scena dell’atto IV, per allontanarlo da quelle vicinanze e dalla casa del fratello dove si trova Ctesifone, lo manda a cercar Mizione altrove insegnandogli un camino lungo e intralciato, sì che non n’esca in tutto il giorno. Ciò è stato imitato da qualche commediografo Italiano, e specialmente dal Porta. Nella 5 scena del medesimo atto IV è notabile la riprensione moderata e savia che fa ad Eschino il buon Mizione, e che recheremo {p. 236}parimente colle parole del più volte lodato elegante traduttore:

                   Or dimmi un poco
In qual città ti credi tu di stare?
Facesti oltraggio ad una verginella,
Cui di toccar nessun diritto avevi.
Già questa ella è gran colpa,
Ma pure umana, e che commiser molti,
E delle volte ancor quei che fur buoni.
Ma perchè, dimmi, dopo fatto il male
Tu non pensasti a dargli alcun rimedio?
Forse da te cercasti a provvederci?
O già che ti prendea di me vergogna,
Ne da te stesso mel volesti dire,
Di alcun cercasti acciochè mel dicesse?
E in mezzo a queste tue tante incertezze
Eccoti dieci mesi già passati!
{p. 237}
Così te stesso e quella sventurata
Hai rovinato, ed anche il tuo figliuolo,
Per quel che ti appartiene. Ti credevi,
Che a te, dormendo colla pancia all’aria,
Dovessero gli Dei porgere aita?
E menarti la sposa insino al letto?
Non ti vorrei nel resto delle cose
Negligente, conforme fosti in questa.
Ma stammi allegro; avrai costei per moglie.

Non è da omettersi la grazia della escandescenza di Demea, e l’epilogo delle disgrazie e de’ delirii della sua famiglia che egli fa nella scena ultima del medesimo atto IV coll’impeto consueto del suo carattere:

                   O Jupiter!
Hancine vitam? hoscine mores? hanc dementiam?
Uxor sine dote veniet: intus psaltria est:
{p. 238}
Domu’ sumptuosà, adolescens luxi perditus:
Senex delirans: ipsa si cupiat Salus
Servare, prorsus non potest hanc familiam.

L’ultima favola fu questa che Terenzio espose sulle scene Romane. Ciò avvenne, secondo l’epigrafe apposta alle comuni edizioni, ne’ giuochi funebri di L. Emilio Paolo fatti da Q. Fabio Massimo e P. Cornelio Affricano sotto il consolato di L. Anicio Gallo e. M. Cornelio Cetego l’anno di Roma 593, secondo il Fabro de aetate Terentii, essendo rappresentata dalla compagnia di Attilio Prenestino e da Minuzio Protimo colla musica di Flacco. Anche questa commedia fu nel nativo linguaggio recitata nell’Italia moderna nel secolo XVI, allorchè si recò a Ferrara il pontefice Paolo III da i più nobili attori della corte del duca Ercole II, cioè da’ medesimi di lui figliuoli.

Questo Comico elegantissimo si vuole nato in Cartagine circa l’anno di Roma {p. 239}560 nove anni prima della morte di Plauto. Fenestella afferma esser egli nato e morto tra’ il fornire della seconda guerra Punica e l’incominciar della terza, cioè al terminar del sesto secolo. Dunque dopo non molto della recita degli Adelfi morì Terenzio, o per meglio dire, sparì, nè altro se ne seppe dal consolato di Cn. Cornelio Dolabella e M. Fulvio Nobiliore in poi, che cade nell’anno 594. Vuolsi che di anni trentaquattro in circa s’imbarcasse per la Grecia e per l’Asia. Alcuno asserisce ch’ei morisse povero in Stinfalo di Arcadia, altri ch’egli naufragasse di ritorno dalla Grecia, e perissero con lui cento e otto commedie greche da lui tradotte. Ma chi leggerà attentamente le sei da lui con tanta eleganza e delicatezza composte in Roma, crederà con somma difficoltà che avesse potuto scriver commedie a centinaja senza supporre che vivuto fosse sino all’ultima vecchiaja fra’ Greci, è che avesse trascurato di tornare in Roma, dove le sue fatiche erano così {p. 240}bene premiate ed onorate, ed a qual altro oggetto avrebbe egli recate nella latina lingua tante greche ricchezze?

Afranio compose pel teatro comico dopo Terenzio, ma cercò d’imitarlo, e il tenne per incomparabile, siccome attestò nella sua commedia intitolata Compitalia,

Terentio similem non dices quempiam.

Egli studiossi ancora d’imitar l’oratore e tragico soprallodato Cajo Tizio; e Cicerone che ce ne istruisce, esalta l’ingegno, l’argutezza e l’eleganza di Afranioa. Anche Quintilianob lo commenda assai senza lasciar però di riprenderlo per l’oscenità degli amori da lui recati in iscena. Suetonio mentova una di lui commedia togata detta l’Incendio, nella quale, quando si ripetè ne’ Giuochi Massimi celebrati da Nerone, quest’imperadore {p. 241}permise per magnificenza che gli attori saccheggiassero la suppellettile della casa che ardeva. Orazio ne dice che appo i Romani Afranio si considerava come il Comico che più si avvicinava a Menandro,

Dicitur Afrani toga convenisse Menandro.

Senza dubbio lo studio che posero tali scrittori, e singolarmente Nevio, Plauto, Cecilio, Terenzio ed Afranio, in imitare i Greci, portò in Roma l’arte comica a certo lustro notabile. Ma forse per non avere essi ad altra gloria aspirato che a quella di traduttori ingegnosi, si rimasero indietro mostrando nell’ordinar le cose tolte a’ Greci una immaginazione più testo temperata e giudiziosa che originale ed atta ad inventare. Quindi è che Quintiliano ingenuamente confessava esser la commedia la parte più debole de’ Romania; e Giulio Cesare nel l’urbana censura {p. 242}fatta a Terenzio riconosceva in lui Menandro ma dimezzato; e Aulo Gellioa nel paragonar Cecilio con Menandro, Posidio, Apollodoro ed Alesside, vedeva ad occhi le latine favole al confronto de’ greci originali onde traevansi, indebolirsi e scemar di pregio.

IV.

Splendidezza della scena Latina, e Censori teatrali. §

MA già era cessata in gran parte la disistima in cui i Romani tennero per lungo tempo i poeti teatrali, secondochè affermò Ciceroneb. I grandi personaggi della Repubblica già pregiavansi di esser detti amici di un Terenzio tuttochè straniero e servo. Già la scena spiegava tutto il lusso, il fasto e la {p. 243}magnificenza conveniente a un popolo arrichito delle spoglie di tanto mondo. Cajo Pulcro l’abbellì colla varietà de’ colori; Cajo Antonio la coprì tutta di argento, Pretejo di oro, Catulo di avorio; i Luculli la renderono versatile; Pompeo il grande, cui si attribuisce il primo teatro stabile fabbricato in Roma, colla frescura delle acque che fecevi serpeggiare, vi temperò gli ardori estivi; e Marco Scauro v’introdusse una sontuosità straordinaria ne’ vestiti e nelle decorazioni, e fe costruire il suo magnifico teatro ricco di marmi e di cristalli, e pomposamente ornato di trecentosessanta colonne, il quale era capace di più di ottantamila spettatoria. Finalmente non istimarono i bellicosi Romani sconvenevole alla lor grandezza stabilire una deputazione di cinque Censori destinati a rivedere i {p. 244}drammi da rappresentarsi, per contenere i poeti ne’ limiti dovuti. Senza l’approvazione di alcuno di essi non compariva sulla scena componimento veruno. I loro congressi facevansi nel tempio di Apollo e delle Muse, ove i poeti recavansi a recitar le loro favole. Spurio, Mecio o Mezio Tarpa era il più assiduo e diligente de’ cinque Censori. Cicerone parla di lui nella prima epistola del VII libro delle Famigliari, ed Orazio ne fa menzione nella satira X del I libro:

                        haec ego ludo,
Quae nec in aede sonent certantia, judice Tarpaa.
{p. 245}

CAPO IV.

Ultima epoca della Drammatica nel finir della Repubblica, e sotto i primi Imperadori. §

I.

Drammatici illustri di quest’epoca. §

NEI rimanente della Repubblica e sotto i primi Imperadori applicaronsi alla poesia rappresentativa, non che i liberti e gli stranieri eruditi, i più cospicui personaggi di Roma. Lasciando da banda il romore che correva nella città, che nelle commedie di Terenzio avessero avuto parte Lelio e Scipione, ci fa sapere Plutarco che il Dittatore L. Cornelio Silla compose varie commedie satirichea. Il fondatore dell’ {p. 246}Impero Romano Giulio Cesare scrisse una tragedia intitolata Edipo, oltre ad alcune altre chiamate Giulie, delle quali il di lui successore proibì di poi la pubblicazione. Sotto Augusto, il quale pure intraprese a scrivere un Ajace, Aristio Fusco compose commedie togate: un altro Cajo Tizio (diverso dall’oratore soprannomato) secondo Orazio fu buon poeta lirico, e scrisse ancora tragedie: Ovidio fece una Medea, della quale abbiamo un frammento in Quintiliano: e il famoso Mecenate, oltre a varii poemi, scrisse alcune tragedie, delle quali da Seneca si mentova il Prometeo, e da Prisciano l’Ottavia. Tutto perì quel che produsse questo celebre favorito di Augusto, a riserba di qualche verso, come questo,

Nec tumulum curo, sepelit natura relictos.

{p. 247}Sotto il medesimo Augusto fu composta l’eccellente tragedia intitolata Tieste tanto esaltata nel dialogo intorno agli Oratori attribuito a Tacito, la quale, a giudizio di Quintiliano, poteva degnamente compararsi colle migliori tragedie greche, e pure (già l’accennammo) egli riconobbe sinceramente la debolezza de’ Comici Latini al confronto de’ Greci. Questo Tieste comunemente stimavasi produzione di Quinto Varo o Vario, che con Tucca e Plozio fu deputato da Augusto alla correzione dell’Eneide. Ma Elio Donato e Servio credettero che il Tieste fosse atato scritto da Virgilio e dato alla moglie di Vario, la quale coltivava le lettere, e che di poi da costui si fosse come propria pubblicata, V’è chi sospettò che fosse opera di Cassio Severo Parmigiano, del quale parla Orazio nell’Epistola ad Albio Tibulloa. {p. 248}Chiaro sotto il medesimo Augusto fu Cajo Asinio Pollione pe’ talenti tragici e per altri meriti letterarii, per la presa di Salona in Dalmazia, per l’onor del trionfo e pel consolato, e celebrato da i due maggiori ingegni onde si vanti la poesia latina, Virgilio ed Orazio. Se di tragedie intenda favellare quest’ultimo nell’ode che a lui indirizzaa, Pollione ebbe anche il merito di uscire da soliti argomenti tratti da Omero e dalle favole Greche, ed esporre con nobile intrepidezza sul teatro di Roma la civile querela di Cesare e Pompeo, ed il giogo imposto dal vincitore a tutta la terra, fuorchè al gran cuore di Catone,

Et cuncta terrarum subacta
Praeter atrocem animum Catonisb.

{p. 249}Parve però lo stile di Pollione così duro e secco, come quello di Pacuvio e di Accio, all’autore del dialogo De Causis corruptae Eloquentiaea. Germanico figliuolo di Druso e di Antonia minore, insigne capitano, vero eroe ancor dopo estinta la Repubblica, e che colla posterità non ebbe altro demerito se non di aver prodotto Cajo Caligola; fu parimente orator grande e poeta esimio, e tralle altre sue fatiche letterarie compose alcune commedie grecheb. Mamerco Scauro sotto Tiberio scrisse pure una tragedia la quale cagionò la morte dell’autore, senzachè gli giovasse l’amicizia di Sejano, essendo stato accusato occultamente da Macrone di averla scritta {p. 250}espressamente per mordere la condotta dell’imperadorea. Per quel che narra Suetonio l’imperador Claudio fe recitare nel certame Napolitano una sua commedia greca per onorare il soprallodato suo fratello Germanico. Troviamo indi nel precitato autore del dialogo sulla corruzio ne del l’Eloquenza, sommamente esaltate le tragedie Medea, Tieste, Catone, Domizio del celebre poeta e giureconsulto Curiazio Materno. Oltre al nominato autore di quel dialogo, Tacito più di una volta negli Annali fa menzione di Pomponio Secondo, di cui Plinio il naturalista avea composta la vita. Le tragedie di questo Pomponio (dal marchese Maffei nella sua Verona illustrata tenuto per Veronese) furono sopra ogni altra pregiate per l’erudizione e per l’eleganza, benchè i vecchi l’accusavano di non essere abbastanza tragicob. Plinio il {p. 251}giovinea racconta di questo Pomponio amico di Seneca che allor quando alcuno amico esortavalo a far qualche cambiamento nelle sue tragedie da lui non giudicato opportuno, soleva provocare al giudizio del popolo ed alla di lui sentenza rapportarsene. In fatti nel consenso del popolo (non della plebe) consiste il vero giudizio quanto a’ caratteri, a’ costumi, alla condotta delle favole; e solo per mio avviso prevaler debbe il giudizio de’ conoscitori e scrittori trattandosi di stile e di lingua. Era per ciò che il signor di Voltaire ben diceva: il n’y a que les connoisseurs, qui fixent à la longue le merite des ouvrages. Il nomato Plinio il giovine, che, come egli stesso ci attestab, nell’età di quattordici anni scrisse in greca favella una tragedia, rammenta con grandi encomii le commedie togate di Virgilio Romano degne a suo dire {p. 252}re di aver luogo fra quelle di Plauto e di Terenziona. Un’altra Medea prese anche a scrivere Marco Anneo Lucano che lasciò imperfetta. Della tanto applaudita Agave di Stazio ci ha conservata la memoria Giovenale, come altresì dell’Atreo di Rubreno Lappa. Persio ci parla di alcuni suoi contemporanei che composero una tragedia d’Issipile, e che essi stessi montarono in pulpito per recitarla.

Da quanto riferito abbiamo de’ Tragici Latini di quest’epoca, e della precedente, non parmi che negar si possa che la lingua latina si prestasse felicemente al genio tragico, come accennò Orazio,

Et spirat tragicum satis, et feliciter audet.

In fatti Ennio (non c’incresca ripetere alcune delle cose già dette) diede a Roma una Medea esule, che fe dire a Cicerone (de Finibus) non potervi essere {p. 253}alcuno così del nome Romano nemico che ardisca sprezzar quella tragedia. Pacuvio colle sue tragedie procacciossi rinomanza di dotto, e la si conservò anco a’ tempi di Augusto, secondo l’istesso Cicerone dove parla dell’ottimo genere degli Oratori. Accio produsse Atreo che gli acquistò, per detto di Orazio e di Quintiliano, nome di sublime; e da Acrone non si esitò di anteporre Accio ad Euripide, e da Columella si collocò accanto a Virgilio riconoscendo nell’uno e nell’altro i due più grandi poeti del Lazio. Tali Tragici debbono convincerci che la maestà dell’idioma Latino, l’eroismo proprio de’ petti Romani, lo spirito di sublimità che gli elevava fin da’ primi tempi dell’arte, gli facesse assai più riescire nella tragedia che nella commedia. Ed in seguito i Romani ebbero in gran pregio la Medea di Ovidio, il Prometeo e l’Ottavia di Mecenate, il Tieste che altri attribuisce a Quinto Vario, altri a Virgilio, altri a Cassio Severo, e da Quintiliano riputato degno di {p. 254}compararsi colle migliori tragedie greche. Aggiungansi a ciò le nominate tragedie di Curiazio Materno esaltate dall’autore del dialogo sulla corruzione del l’Eloquenza; quelle di Pomponio Secondo distinte per l’erudizione e per l’eleganza; la Medea di Lucano; l’Agave di Stazio sì bene accolta in Roma, ed encomiata dal satirico Giovenale. Tante ricchezze tragiche a noi non pervenute che abbiamo stimato di ripetere, danno alla posterità diritto di affermare, che un genere di poesia maneggiato da migliori poeti Latini dovette trovare nell’idioma latino ordigni proprii per elevarsi, ed in copia maggiore che non ne rinvenne la poesia comica.

Ora tutto ciò si oppone perfettamente all’idea che della latina tragedia formata si avea Carlo Denina, il qualea asseri che in Roma si stava peggio {p. 255}ancora nella tragedia che nella commedia. Denina sente dun que all’opposto dell’avviso di Quintiliano; imperocchè egli che ingenuamente confessava che i Latini (malgrado di posseder Nevii, Cecilii, Plauti, Terenzii ed Afranii) zoppicavano nella commedia, non mai affermò altrettanto della tragedia; anzi sostenne nettamente esservi state alcune tragedie latine degne di venire in confronto colle migliori de’ Greci. Cicerone, Tacito, Plinio anche evidentemente discordano dal sentir del riputato Piemontese signor Denina. Laonde noi incliniamo a prestar tutta la fede a que’ Latini scrittori che ebbero sotto gli occhi le tragedie romane da essi esaltate, a que’ Latini che sapevano bene quel che si dicessero sulla propria lingua e poesia; ed assai peco in concorrenza (non ci s’imputi a colpa) crederemo al lodato Denina che con tutta la posterità non ha veduta nè anche una delle tragedie latine. Nè debbe egli fondarsi nè poco nè punto nella mancanza di originalità desiderata {p. 256}nelle tragedie latine; perchè se tal mancanza derogasse al merito de’ Tragici Latini, nè Eschilo nè Sofocle nè Euripide potrebbero ammirarsi come grandi, giacchè originali neppur dirsi debbono, secondo la regola del Denina, niuno ignorando che gli argomenti di que’ grandi tragici Greci tutti si trassero da Omero, da Esiodo e da’ Tragici che gli precedettero. Molto meno debbe egli appoggiarsi nell’abbondanza de’ difetti de’ Tragici Latini e nella, scarsezza di sublimità; perchè se dalle ultime favole moderne si risalga sino ai Cori di Bacco prodotti in Icaria, dir non sapremmo quante tragedie ostentar si potrebbero come perfette, grandiloquenti ed’ esenti di ogni taccia. L’uomo d’ingegno e di gusto purgato condona di buon grado i difetti, ove le bellezze di ogni tempo e di ogni clima soprabbondino.

{p. 257}

II.

Tragedie attribuite a Seneca. §

DI tante produzioni drammatiche scritte a un di presso sotto i primi Imperadori da personaggi ragguardevoli, non sono a noi pervenute se non le dieci tragedie attribuite a Seneca, le quali (che ne dica Martin del Rio e qualche altro) appartengono fuor di dubbio almeno a quattro scrittori, se la differenza del gusto e dello stile può servirci di scorta a conoscerne l’autore. Danno i Critici più sagacia a Lucio Anneo Seneca il filosofo la Medea, l’Ippolito e la Troade: a Marco Anneo Seneca il tragico l’Edipo, l’Ercole furioso, l’Agamennone, il {p. 258}Tieste, e v’ha chi vi unisce anche l’Ercole Eteo: a qualche sofista imitatore di Marco la Tebaide, benchè Giusto Lipsio vorrebbe riferir questa al felice secolo di Augusto: e ad alcun novizio declamatore l’Ottavia.

Se vogliansi queste tragedie paragonare in generale colle greche, si troveranno assai inferiori; scorgendosi in tutte poco o molto la gonfiezza e lo spirito di declamazione sostituito alla vera sublimità e alla passione. Ma si tradirebbe la verità, se si trascurasse, come d’ordinario avviene, di rilevarsene colla severità d’imparziale storico critico non poche bellezze che in esse si discernono. Cercheremo d’investigarle.

La Medea. Se v’ha tralle tragedie latine conservate alcuna che sostenga il confronto delle greche, è questa Medea. L’autore manifesta di avere abbastanza conosciuto il carattere del sublime tragico e sentenzioso. Il piano semplice è lavorato sulla greca di Euripide; ma in alcune parti è alterato, {p. 259}e talvolta con miglioramento. Tutto va senza intoppi al suo scopo, tutto è animato dalla passione, ed havvi pochi passi ne’ quali possa dirsi di aver più parte la mente che il cuore. Il soliloquio di Medea che forma l’atto I, e serve d’introduzione, è vigoroso. Invocati gli dei che presiedono alle nozze funeste, come furono le sue, e il caos e le furie (che può risentirsi alcun poco della declamazione senza riserba imputata a Seneca) si determina a una vendetta orrenda. In parole altiere, e quali dall’acuto critico Boileau si concedono allo sdegno e all’indignazionea, dà ad intendere i delitti e la strage che va meditando:

Quodcumque vidit Phasis aut Pontus nefas,
Videbit Isthmos. Effera, ignota, horrida,
{p. 260}
Tremenda caelo pariter ac terris mala
Mens intus agitat; vulnera, et caedem, et regum
Funus per artus. Levia memoravi nimis:
Haec virgo feci; gravior exsurgat dolor.
Majora jam me scelera post partus decent.

Nell’epitalamio cantato dal Coro per le nozze di Giasone con Creusa, vedesi, il progresso dell’azione; e Medea dice nel cominciar l’atto II:

Occidimus! aures pepulit hymenaeus meas.
Hoc facere Jason potuit?

Cresce il suo furore; numera i passati delitti da lei commessi per amore, e soggiugne:

               nullum scelus
Irata feci.

Sommamente energica è la risposta che dà alla Nutrice che le rappresenta di trovarsi priva di ogni soccorso. Ecco le parole di entrambe:

{p. 261}

Nut.

Abiere Colchi, Conjugis nulla est fides,
Nihilque superest opibus tantis tibi.

Med.

Medea superest.

Questa sublime risposta è seguita da un dialogo enfatico e rapido:

Nut.

Rex est timendus.

Med.

Rex meus fuerat pater.

Nut.

Non metuis arma?

Med.

Sint licet terra edita.

Nut.

Moriere.

Med.

Cupio.

Nut

Profuge.

Med.

Poenituit fugae.
Medea fugiam?

Nut.

Mater es.

Med.

Cui sim, vides.

Nella scena con Creonte si scorge l’artificio medesimo della tragedia greca; ma in questa latina è da notarsi che Medea in mezzo alle preghiere serba certo nobile contegno che tira l’attenzione. Di più l’interesse in questa par maggiore, perchè Seneca ingegnosamente suppone esser Giasone astretto a sposar Creusa per evitar la morte, {p. 262}perchè Acasto figliuolo di Pelia minaccia di saccheggiar Corinto, se Creonte non rende i colpevoli al castigo che gli attende. Or Giasone provvede alla sua salvezza promettendo di sposar la figlia di Creonte, e Medea rimane sola la vittima dello stato; per la qual cosa obbligata ad abbandonar tosto Corinto ottiene a stento la dilazione di un solo giorno. Nell’atto III è piena di bellezza la scena dell’incontro di Giasone e Medea. Vi si mostra alla prima meno odiosa l’infedeltà di Giasone ed in certo modo scusabile, trovandosi egli nella dura necessità di morire insieme coi figliuoli, o di tradir Medea:

                  Si vellem fidem
Praestare meritis conjugis, letho fuit
Caput offerendum: si mori nolimus, fide
Misero carendum est. Non timor vincit virum,
Sed trepida pietas…
Nati patrem vicere.

{p. 263}L’indignazione, l’impeto, l’orgoglio, tutta in somma ad ogni tratto Medea si manifesta. Avvedutasi di Giasone gli va incontro con questa amara ironia:

Fugimus, Jason, fugimus: hoc non est novum:

Ma dove andrà?

Phasim et Colchos petam,
Patriumque regnum?

e ciò è tratto dalla Medea di Euripide. Giasone le domanda:

Objicere crimen quod potes tandem mihi?

ed ella, Quodcumque feci, risponde con enfasi, disdegno e calore. La stessa sublimità spicca nella risposta data all’altra di lui domanda:

Tes.

Quid facere possim, eloquere.

Med.

Pro me vel scelus.

Si scusa lo sposo infedele col timore de’ due re Creonte ed Acasto, hinc rex et illinc, e Medea minaccevole gli ricorda quanto sia più da temersi la sola Medea:

Est et his major metus, Medea.

{p. 264}Alta extimesco sceptra, soggiugne Giasone, e Medea rinfacciandogli le di lui ambiziose mire replica, ne cupias vide. Giasone vuol troncare il discorso, ed ella freme, invoca Giove, ne implora i fulmini sopra qualunque di loro due. Tenta egli infine di moderarne le furie ad ogni costo, insinuandole di chiedere qualche conforto, al che ella domanda i figliuoli per condurli seco. Ma il padre risolutamente si oppone, manifestando la somma tenerezza che ha per essi:

    Spiritu citius queam
Carere, membris, luce.

Come? tanto trasporto? Sic gnatos amat (dice Medea maravigliata)? Bene est; tenetur; vulneri patuit locus. Questa bellezza, questa giudiziosa catena di pensieri, questa origine dell’ultimo grande delitto di Medea così scortamente disviluppata, è pure sfuggita ad Euripide. Ma le studiate bellezze poetiche profuse nell’atto IV, allorchè la nutrice novera i veleni raccolti, e gl’incantesimi di soverchio {p. 265}particolareggiati con descrizioni mitologiche e geografiche, appartengono a tutt’altro genere che al drammatico; benchè, a quel che io ne giudico, l’azione onde venivano accompagnati, deveva forse produrre nella scena Romana un vago effetto. Bella in Euripide è la narrazione dell’incendio e della morte di Creonte e della figliuola, che serve a far trionfare Medea per la ben riuscita vendetta. Ma forse non men bellamente Seneca se ne disbriga in quattro o sei versi, scorrendo più rapidamente alla tremenda strage de’ figliuoli per trafigere nella più tenera parte il cuor del padre. La Nutrice atterrita esorta Medea a fuggirsi. Egon’ut recedam? risponde ella colla solita energia e ferocia. Si profugissem prius, ad hoc redirem. E si accende, e si dà moto per eseguire ciò che le rimane a fare. Fas omne cedat.. Quidquid admissum est adhuc, pietas vocetur… Prolusit dolor per ista noster… Nescio quid ferox decrevit animus intus… Ex pellice utinam {p. 266}liberos hostis meus aliquot haberet! Quidquid in illo tuum est, Creusa peperit. Tratti grandi e gravemente espressi, che manifestano la serie de’ pensieri che la conducono al gran misfatto. È parimente maneggiata con vigore l’esitazione ed il contrasto di Medea madre con Medea consorte oltraggiata:

             Liberi quondam mei,
Vos pro paternis sceleribus poenas date…
Cor pepulit horror, membra torpescunt gelu,
Pectusque tremuit; ira discessit loco,
Materque tota, Conjuge expulsa, redit.
Egon’ut meorum liberum ac prolis meae
Fundam cruorem?
       Quod scelus miseri luent?
Scelus est Jason genitor, et majus scelus
Medea mater. Occidant: non sunt mei.
{p. 267}
       Pereant: mei sunt.

Ucciso un figlio giugne Giasone e porge a Medea lo spietato piacere di trucidar l’altro sotto gli occhi del padre:

       Deerat hoc unum mihi,
Spectator ipse: nihil adhuc factum reor,
Quidquid sine isto fecimus sceleris, periit.

Nuovo interesse, nuova situazione estremamente tragica, quadro fuor di modo orribile. Un figlio svenato, una madre in atto di trapassare il cuore all’altro, un padre trafitto dallo spettacolo del primo e spaventato dall’irrevocabil morte imminente dell’altro. Egli prega, piagne, smania, vuol morire in vece del figlio, e la madre disumenata insultandolo risponde:

Hac qua recusas, qua doles ferrum exigam.
In matre si quod pignus etiamnum latet,
Scrutabor ense viscera, et ferro extraham.

Che idee! che terribili pennellate! {p. 268}Esse risvegliano il fremito dell’umanità, e giustificano il gusto di chi detestando il fatto ne ammira la dipintura. Non aveva torto Orazio allorchè del latino linguaggio affermava, che spirat tragicum satis, et feliciter audet.

Da alcuni questa Medea latina è anteposta alla greca. Noi non osiamo giudicare del patetico che in entrambe si trova espresso con tanta verità che giugne al cuore. Ma la condotta della latina sembra più rapida e più regolare, e vi si eccita il terrore contratti cosi forti e vivaci che farebbero nobile comparsa in qualunque tragedia di Eschilo e di Euripidea. Notava il signor di Voltaire in tal tragedia come un principal difetto, che non produce interesse, al suo dire, in pro di {p. 269}veruna persona. Medee (diceva)est une mechante femme qui se venge d’un malhonnete homme. La manière dont Corneille a traitè ce sujet, nous revolte aujourd’hui, celle d’Euripide et de Seneque nous revolterait encor davantage. Affermava ancora che essa presso i Romani non ebbe felice incontro. Se quest’ultima notizia è vera (di che non mi si è presentato sinora verun documento) non debbe essere avvenuto perchè Medea è malvagia e Giasone perfido e senza onestà. Medea tuttochè feroce alla prima ha dritto di lagnarsi dell’indegna incostanza di Giasone, ed allora ha per se tutto l’interesse ed i voti dell’uditorio; Medea indi eccede nel vendicarsi arrivando alla più inaudita spietatezza, e n’è detestata, e fa inorridire lo spettatore, che deplora un padre trafitto e punito con tale eccesso. L’una situazione e l’altra deriva con naturalezza dalle loro ben dipinte grandi passioni che perturbano ed interessano alternativamente per l’uno e per l’altro {p. 270}personaggio, ed attaccano chi ascolta all’azione intera. Queste riflessioni menano a conchiudere l’opposto di ciò che sostenne Voltaire. Doppiamente apparisce poco giusta l’osservazione dell’illustre autore francese, se si considera che quest’atroce argomento, che per suo avviso non produce interesse per veruno, si è conservato per tanti secoli, e nelle nazioni più colte ha eccitato l’entusiasmo di tanti Tragici. La Grecia ammirò la Medea di Euripide. Cicerone e Quintiliano ed altri Romani intelligenti non rimasero nauseati nè dalla Medea di Ennio, nè da quella di Ovidio, nè dalle due di Pacuvio e di Azzio, nè probabilmente da questa di Seneca. Stile e grandi affetti comprendono il gran secreto della scena tragica; e se l’argomento di Medea non esclude le passioni grandi, o Seneca le ha rilevate con uno stile vigoroso ed energico, onde viene l’umore che prende Voltaire per una favola tanto dagli antichi, e da’ moderni maneggiata e ripetuta?

La stessa mano della Medea sembraci {p. 271}che abbia colorito l’Ippolito, benché lo stile ne sia più ornato, e talvolta più del bisogno verboso, specialmente nell’atto I. Molte ciarle in assai bei versi contiene la scena d’Ippolito colla Nutrice dell’atto II, dove poeticamente espongonsi le lodi della vita semplica rusticale, e vi si ammirano varie belle imitazioni di alcuni passi di Esiodo e di Ovidio; ma simili cose sono meno tragiche di quel che si brama. Il solo squarcio che convenga direttamente all’argomento, si racchiude ne’ sei ultimi versi del ragionamento d’Ippolito, Sed dux malorum foemina; e quel che veramente caratterizza questo personaggio, è la risposta data con impeto e vivacità a ciò che dice la Nutrice:

Nut.

Cur omnium fit culpa paucorum scelus?

Ip.

Detestor omnes, horreo, fugio, execror;
Sit ratio, sit natura, sit dirus furor,
Odisse placuit.

{p. 272}Eccellente è la scena della dichiarazione di amore fatta da Fedra ad Ippolito; ed il signor Racine che l’ha presso che interamente trascritta nella sua Fedra, ne ha renduta meno vivace l’introduzione. L’autor latino mostra lo stato compassionevole della regina, e la fa cadere tramortita nelle braccia d’Ippolito. Rinvenuta esita ancora, non sa risolversi a parlare; al fine si fa coraggio per le parole d’Ippolito, Committe curas auribus, mater, meis. Questo nome di madre che pure la molesta, le somministra l’introduzione:

Matris superbum est nomen, et nimium potens;
Nostros humilius nomen affectus decet;
Me vel sororem, Hyppolite, vel famulam voca,
Famulamque potius.
Mandata recipe sceptra; me famulam accipe;
Te imperia regere, me decet jussa exequi;
Muliebre non est regna tutari patris.
{p. 273}
Tu qui juventae flore primaevo viges,
Cives paterno fortis imperio reges,
Sinu receptam, supplicem, ac servam tege.
Miserere viduae.

Questa offerta dello scettro fatta da Fedra con tanto garbo, ha servito a Racine per formarne una scena intera. Ippolito col promettere semplicemente di proteggerla,

Et te tuebor, esse ne viduam putes,
Ac tibi parentis ipse supplebo locum,

avviva le speranze di Fedra, e l’anima a palesarsi amante. Ippolito o per farla ravvedere, o perchè ancora non ben l’intenda, le dice, Amore nempe Thesei casto furis? Si, ella risponde incapace già di ritirarsi, di Teseo ma giovanetto:

                  Thesei vultus amo,
Illos priores quos tulit quondam puer;
……… genitor in te totus…
Tibi mutor uni……………………
{p. 274}
Miserere amantis.

Bellissima è l’indignazione d’Ippolito:

Magne regnator Deum;
Tam lentus audis scelera……
In me tona, me fige……………
Sum nocens, merui mori,
Placui novercae.

Commosse a questo segno le passioni, la scena prende maggior movimento e vigore. Non è meno vivace l’atto III in cui Fedra accusa della propria colpa l’innocente Ippolito, e Teseo in di lui danno invoca il soccorso di Nettuno obbligato a compiere l’ultimo di lui desiderio. L’atto IV tratto interamente da Euripide contiene il magnifico elegante racconto del mostro marino e della disgraziata morte d’Ippolito. Vivace è la dipintura de’ cavalli inalberati:

Tum vero pavida sonipedes mente exciti
Imperia solvunt, seque luctantur jugo
Eripere, rectique in pedes jactant onus.

{p. 275}L’evento funesto chiama le lagrime sugli occhi di Teseo:

Occidere volui noxium (dice), amissum fleo.
Malorum maximum hunc cumulum reor,
Si abominanda casus optata efficit.

Nut.

Et si odia servas, cur madent fletu genae?

Th.

Quod interimi, non quod amisi, fleo.

Versi eccellenti, pensieri tragici, giusti, disviluppati ottimamente, a tempo e con passione. Il dolore, i rimorsi, le furie della madrigna, la funesta sua risoluzione di seguire Ippolito, tutto è con forza espresso.

Con tutto ciò le bellozze dell’Ippolito greco sorpassano di gran lunga quelle dell’Ippolito latino, che per altro per le additate maestrevoli pennellate merita non poca lode, ed ha molto contribuito ad arricchire la Fedra del gran tragico Francese, {p. 276}secondochè il lodato Brumoy con ingenuit à parimente confessaa Si è finora detto e ripetuto sino all’estrema noja: Seneca è gonfio, monotono, affettato; abusa delle sentenze e delle antitesi; declama; il suo stile sente di scuola. Ma è poi vero che alterò sempre la verità della natura nell’imitare le greche tragedie, e che corruppe, come altri disse, quel vin greco sì sano sì grato colla sua mordente acquavite? Seneca spessissime volte per troppa voglia di farsi ammirare cade in una manifesta affettazione; ma Seneca ha molte bellezze degne di notarsi; e se non vince o non uguaglia sempre i Greci, talora ai medesimi soggetti di Euripide {p. 277}presta maestà e vigorea Seneca dunque non sempre è affettato declamatore e secco filosofo, e doveasi dagl’intelligenti (se volevano dar prova di non copiarsi alla cieca l’un l’altro) sceverar dal grano la paglia, ciò chè rare volte si è praticato. Non si vuol decidere per sistema anticipatamente adottato, ma per esame ben ragionato. Se i giovani leggeranno le opere teatrali in simil guisa, ravviseranno molte bellezze degli antichi e mostreranno a pruova di saper ben leggere e ben intendere, e daranno a’ critici di sistema occasione di rilegger canuti gli autori dal loro tripode mimico approvati o condannati negli anni loro più verdi. Questa è la sola maniera di bene ed utilmente favellar di quello di cui tante volte si è scritto.

Accompagna degnamente le due {p. 278}tragedie descritte la Troade, la qualo abbraccia parte dell’Ecuba e parte delle Trojane di Euripide, aggirandosi sulla divisione delle schiave Trojane tra’ vincitori, sul sacrifizio di Polissena all’ombra di Achille, e sulla morte di Astianatte. Sublime n’è lo stile, molto vaghi ne sono i versi, nè vi si scorge copia di antitesi e di sentenze affettate che la deturpino; per le quali cose il celebre Marc’ Antonio Muretoa diceva: Ex omnibus Senecae tragoediis plurimum mihi semper placuerunt Troades.

Querelasi Ecuba nobilmente de’ mali della patria e della propria famiglia nell’atto I, malgrado di quel falso pensiero, Priamus flamma indiget ardente Troja. Tutti i cori delle tragedie latine, ancorchè ben verseggiati, cedono di assai a quelli delle greche per artifizio, interesse e passione, che che ne dicesse nel secolo XVI il {p. 279}celebre gramatico Bartolommeo Riccioa.

Questo primo coro pero della Troade accoppiato ai lamenti di Ecuba rassomiglia ad alcuni delle tragedie greche, e dovè riescire assai commodo alla musica per gli oggetti diversi che le appresta. Nell’atto II la vivace contesa di Pirro e Agamennone presenta i caratteri del vecchio re e del giovano eroe coloriti con brio. Singolarmente il discorso di Agamennone, Juvenile vitium est regere non posse impetum, è grave, nobile, sobrio e pieno di bellezza:

……… magna momento obrui
Vincendo didici.
Tu me superbum, Priame, tu timidum facis.
{p. 280}
            Exactum satis
Poenarum, et ultra, est. Regiaut virgo occidat,
Non patiar. In me culpa cunctorum redit…
Qui non vetat peccare, cum posit, jubet.

Ma l’originale bellezza dell’eccellente atto III gareggia colle più teatrali patetiche situazioni del greco coturno. Astianatte rinserrato nella tomba di Ettore e scoperto dall’astuto Ulisse, le materne agitazioni e preghiere, l’inflessibilità del Greco, tutto in somma produce un movimento che tira l’attenzione universale, e lacera tutti i cuori sensibili. Il sogno di Andromaca è primieramente descritto con immagini patetiche e senza superfluità liriche:

… Subitò nostros Hector ante oculos stetit,
Non qualis ultro bella in Argivos ferens,
Sed fessus ac dejectus, et fletu gravis.
Depelle somnos, inquit, et natum eripe,
{p. 281}
O fida conjux. Lateat: baec una est salus.
Omitte fletus. Troja quod cecidit, gemis?
Utinam jaceret tota!

La visione del consorte apporta con molta naturalezza la comparazione del padre col figlio somministrata da Virgilio, sic oculos, sic ille manus, sic ora ferebat:

…………………………… Hos vultus meus
Habebat Hector, talis incessu fuit,
Habituque talis; sic tulit fortes manus ecc.

Cerca poi Andromaca un luogo per sottrarlo alle inchieste, e si determina al sepolcro del padre:

……… Optime credam patri.
Sudor per artus frigidus totos cadit.
Omen tremisco misera feralis loci…..
Succede tumulo, nate; quid retro fugis?
……… Agnosco indolem,
Pudet timere. Spiritus magnos fuge.
{p. 282}
Animosque veteres: sume quos casus dedit.
En intuere turba quae simus super,
Tumulus, puer, captiva.

Chiuso il fanciullo sopravviene Ulisse a chiederlo, Ubi natus est? Ed Andromaca ripiglia:

Ubi Hector? ubi cuncti Phryges?
Ubi Priamus? Unum quaeris, ego quaero omnia.

Finge poi di cedere forzata a confessare che Astianatte è morto, e con equivoco giuramento conferma che luce caret, inter extinctos jacet. Crede per un istante Ulisse, indi dubita, e dice a se medesimo: richiama le tue usate frodi e tutto te stesso, o Ulisse,

Scrutare matrem. Moeret, illacrymat, gemit;
Et huc et illuc anxios gressus refert,
Missasque voces aure sollicita excipit.

Gran verità! gran naturalezza! gran conoscenza de’ caratteri delle passioni! In questa scena veramente teatrale, {p. 283}nouv’ha mordente acquavite che corrompa il vin greco e sano apprestato dalla natura. Indi con molta avvedutezza lo scaltro Itacese conchiude: magis haec timet, quam moeret. E perchè totalmente scoppi la tenerezza materna, cerca atterrirla:

Tibi gratulandum est, misera, quod nato cares,
Quem mors manebat saeva, praecipitem datum
È turre, lapsis sola quae muris manet;

alla qual cosa Andromaca sbigottisce:

Reliquit animus, membra quatiuntur, labant,
Torpetque vinctus frigido sanguis gelu.

Dice allora Ulisse che l’osserva attentamente:

En tremuit: hac hac parte quaerenda est mihi.
Matrem timor detexit. Iterabo metum.

Comanda a’ seguaci che si cerchi Astianatte per tutto; indi finge che siasi {p. 284}trovato e preso alle spalle di Andromaca:

Bene est; tenetur. Perge, festina, attrahe.
Quid respicis, trepidasque?

Porta l’ultimo colpo all’infelice madre il pensiero che sopravviene ad Ulisse di spargere al mare almeno le ceneri di Ettore abbattendo la di lui tomba, quando non si possa avere il di lui figlio per ucciderlo. Che farà la misera madre? Parlando palesa il figlio, e tacendo, senza salvarlo, soffre che si profanino e dispergano le amate reliquie del gran consorte. Vinta dunque dall’astuto volgesi alle preghiere, confessando di esser vivo Astianatte: miserere matris, ella dice; ed Ulisse, exhibe natum, et roga. Ogni passo di questa scena è un prezioso quadro della natura colorita maestrevolmente. Il fanciullo tratto dalla tomba da’ seguaci di Ulisse grida, miserere, mater, e la desolata madre,

Quid meos retines sinus,
Manusque matris? cassa praesidia occupas;

{p. 285}immagine vaghissima presa da Euripide. La comparazione però da questo tragico Greco fatta e chiusa in un verso dell’augellino che si ricovera sotto le ali della madre, è assai più delicata e bella di quella di Seneca quì usata e distesa in quattro versi e mezzo, del giovenco che impaurito dal ruggito del lione si appressa alla madre. Cresce l’interesse e il lutto nell’atto IV, vedendosi condotta con inganno Polissena al sacrificio, e annunziandosi alle prigioniere quali padroni sieno loro caduti in sorte. Si narra nell’atto V l’intrepida morte di Polissena e il precipizio di Astianatte. A questo terribile racconto però Andromaca si ricorda delle crudeltà esercitate in Colco, degli Sciti erranti, degl’Ircani, degli altari di Busiride, de’ cavalli di Diomede; ma, oimè? l’uomo di buon gusto e discernimento quì vede il poeta, quando aspettava di vedere quella medesima madre trafitta e sì al vivo scolpita nell’atto III. Trovansi di questa tragedia varie espressioni bellamente imitate da {p. 286}Metastasio. Seneca dice nel l’atto II: Si manes habent curas priores, nec perit flammis amor, ed il Poeta Cesareo nel Catone,

S’è ver ch’oltre la tomba amin gli estinti.

Seneca nell’atto III: Levia perpessac sumus, si flenda patimur, e Metastasio nell’Artaserse,

Picciolo è il duol, quando permette il pianto.

Seneca nell’atto IV: Perge thalamos appara, quid tedis opus est, quidve solemni face? Quid igne? thalamis Troja praelucet novis, ed il nostro drammatico nella Didone,

Va pure, affretta il piede,
Che al talamo reale ardon le tede.

L’autore dell’Edipo latino sia per istile sia per condotta di azione, dimostra essere diverso da quello delle tre precedenti tragedie. Sofocle ha somministrata la materia di questa; ma la traccia della favola va piggiorando a misura che si scosta dal l’originale. {p. 287}L’apertura dello spettacolo, in vece di essere com’è in Sofocle una decorazione teatrale e un quadro compassionevole, quì si converte in una cicalata, in una declamazione di Edipo su i mali della peste ripetuti dal coro nell’atto I. Sofocle con saggia economia svolge gradatamente i fatti passati, per apportar con garbo quel felice scioglimento che egli diede alla sua favola; là dove Seneca accenna variè circostanze senzachè l’azione avanzi, ovvero se ne accrosca l’interesse. Quel trivio con tanto senno riserbato da Sofocle per la bellissima scena di Giocasta con Edipo, viene da Seneca fatto accennare scioperatamente da Creonte nella prima scena dell’atto II, senza che Edipo mostri di ricordarsi che egli in simil luogo ammazzò ancora un uomo. Tiresia che nella favola greca viene alla presenza del re chiamato per ben due volte per ricordo di Creonte, nella latina si presenta spontaneamente senza esser la di lui venuta preparata o attesa; sebbeno al volgo Romano superstizioso sarà {p. 288}riuscito grato e popolare lo spettacolo dell’auspicio. Ma ciò nè anche bastando all’augure, alia, dice,tentanda est via

Ipse evocandus noctis aeternae plagis
Emissus Erebo ut caedis auctorem indicet.

E con ciò si prepara per l’atto III un lunghissimo racconto dell’evocazione delle ombre e di Lajo. La scena di Edipo e Giocasta in Sofocle tira l’attenzione di chi legge, mentre quanto Giocasta adduce per dissipare il timore del re, tutto sventuratamente serve per aumentarli e per accendere vie più in lui la curiosità di abboccarsi col pastore. All’opposto in Seneca nell’atto IV e magrissima e pressochè sfornita di passione. Lo scioglimento poi con arte somma maneggiato nella tragedia greca, quì si precipita, non avendo saputo il tragico latino mettere a profitto quelle patetiche situazioni che nello svilupparsi la favola stessa naturalmente appresterebbe. Le disperate riflessioni, i tratti terribili e compassionevoli sugeriti a {p. 289}Sofocle dalla situazione deplorabile e dall’acciecamento di Edipo, trovansi presso Seneca sommersi in una piena di studiate e stravaganti locuzioni. Secondo il Messo che lo riferisce, mai Edipo non fu più sofistico ragionatore che sul punto di volersi ammazzare. Moreris? hoc patri sat est. Quid deinde matri? quid male in lucem editis gnatis? quid… flebili patriae dabis? Solvenda non est illa quaeleges ratas natura in uno vertit Oedipode, novos commenta partus. È questo forse il linguaggio de’ rimorsi e di un dolor disperato? Egli vuol morire e vivere di bel nuovo e tornare a morire e rinascer sempre,

Iterum vivere, atque iterum mori
Liceat, renasci semper.

Non vuol esser tra’ morti, nè dimorar tra’ vivi,

……… quaeratur via,
Quâ nec sepultis mixtus, et vivis tamen
Exemptus erres.
Fodiantur oculi.

{p. 290}Ed in fatti gli occhi condannati a seguir le lagrime, impazienti appena si contengono nelle occhiaje, e finalmente

              suam intenti manum
Ultro insequuntur: vulneri occurrunt suo.

Se gli svelle dalle radici, e la mano non è sazia di lacerare fin anche le loro sedi, e temendo (dove giunge il delirio del poeta!) che vi abbia a rimaner qualche luce,

           … attollit caput
Cavisque lustrans orbibus coeli plagas,
Noctem experitur.

Ecco a quali vaneggiamenti conduce nel genere drammatico la frenesia del dir cose non volgari. Egli è però da confessarsi che pur si trova in tal tragedia qualche imitazione fatta di Sofocle non infelicemente, e vi si veggono sparsi quà e là molti bei versi ed alcuni squarci pregevoli. Tale può parere quello dell’atto IV, quando l’orrore s’impossessa di Edipo già noto a se stesso:

{p. 291}
Dehisce tellus, tuque umbrarum potens
In tartara ima rector ecc.

Meno riprensibile, declamatorio e ampolloso dello stile dell’Edipo riferito e dell’Ercole Eteo che or ora ossorveremo, sembrami lo stile del l’Agamennone. Non è molto infelicemente espressa nell’atto II la situazione di Clitennestra presso a rivedere il marito,

Quocumque me ira, quò dolor, quò spes feret,
Huc ire pergam. Fluctibus dedam ratem.
Ubi animus errat, optimum est casum sequi.

Questo pensiero pose Metastasio in bocca a Massimo nell’Ezio così:

Il commettersi al caso
Nell’estremo periglio
È il consiglio miglior d’ogni consiglio.

E lo stesso nostro celebre Melodrammatico ne trasse un’altra sentenza detta pure da Clitennestra:

Remeemus illuc unde non decuit prius
{p. 292}
Abire: sic nunc casta repetatur fides;
Nam sera nunquam est ad bonos mores via.
Quem poenitet peccasse, pene est innocens.

Di ciò così Fulvia si vale nell’Ezio:

Non è mai troppo tardi onde si rieda
Per le vie di virtù. Torna innocente
Chi detesta l’error,

Magnifica nell’atto II è la dipintura della tempesta che scompiglia e dissipa l’armata greca; e ciò che la rende più lodevole si è che cade in un luogo, in cui senza nuocere all’azione prepara la venuta di Agamennone. Tragicamente e con nobiltà si esprime Cassandra:

Vicere nostra jam metus omnes mala.
Equidem nos ulla coelites placo prece.
Nec si velint saevire, quo noceant, habent.
{p. 293}
Fortuna vires ipsa consumpsit suas.
Quae patria restat? quis pater? quae jam soror etc.

I di lei furori fatidici sono pieni dell’entusiasmo che la trasporta:

Timete, reges, moneo, furtivum genus.
Agrestis ille alumnus evertet domum.
Quid ista vecors tela foeminea manu
Districta praefert?…
Quid me vocatis sospitem solam e meis
Umbrae meorum? Te sequor, totâ pater,
Trojâ sepulte: frater, auxilium Phrygum etc.

La prima scena dell’atto IV benchè breve presenta un rapido vivace dialogo di Agamennone lieto di vedersi nella patria e di Cassandra che predice la prossima morte di lui senza esser creduta. I caratteri sono quali esser debbono, e le passioni non sono tradite {p. 294}dall’affettazione, benchè non mostrino di essere animate da que’ medesimi colori della natura che nella Troade e nella Medea enunciano la mano esperta di un valente pittore. Ciò abbiamo voluto con ingenuità rilevare, sebbene il piano di questa favola non parmi disposto col giudizio che si richiede per tener lo spettatore attento e sospeso; e bisognerebbe che le scene vi fossero con più artificio concatenate. Soprattutto nell’atto V si scopre la poca destrezza e pratica di teatro che avea l’autor latino; e sempre più si desidera il bellissimo veramente tragico atto V del coronato Agamennone di Eschilo.

Il Tieste è una delle più terribili tragedie per l’atrocità dell’azione. Ma l’autore latino che d’altro non va in traccia che di declamare, prende a tale oggetto i punti principali dell’argomento l’un dopo l’altro, senza tesserne un viluppo verisimile insieme ed artificioso, come fa Sofocle, che con siffatta industria sin dalle prime scene si {p. 295}concilia l’altrui attenzione; come anche senza imitar la delicatezza di Euripide che nulla trascura per ben dipignere gl’interni movimenti del cuore umano, e riuscire in tal guisa a commuovere, perturbare e disporre gli animi agli orribili evenimenti. Uno studio continuo di mostrare ingegno ad ogni parola fa sì che l’autore si affanni per fuggire l’espressioni vere e naturali, e per correr dietro a certo sublime talvolta falso, spesso affettato, sempre nojoso per chi si avvede della fatica durata dall’autore a portar la testa alta e a sostenersi sulle punte de’ piedi. Gli squarci più tragici vengono bruttati dal furore di presentar sempre pensieri maravigliosi. La strage de’ nipoti da Atreo atrocemente eseguita, è ben narrata ne’ seguenti versi:

          … O nullo scelus
Credibile aevo, quodque posteritas neget!
Erepta vivis exta pectoribus tremunt,
{p. 296}
Spirantque venae, corque adhuc pavidum salit.
At ille fibras tractat, ac fata inspicit,
Et adhuc calentes viscerum venas notat.
Postquam hostiae placuere, securus vacat
Jam fratris epulis.

Ma tal maniera naturale di esprimersi è straniera all’autore di questa tragedia, il cui vero carattere torna a comparire nelle seguenti false espressioni dal verso 768 al 775: il fuoco arde di mala voglia, le fiamme piangono, il fummo stesso esce malinconico, e si piega in vece di ascendere direttamente. Avvegnachè alcune sentenze sieno ottime e non affettate, pure per la maggior parte hanno l’aria di aforismi o di responsi di oracolo. Poetiche sono molte comparazioni ma sembrano assai improprie nel genere rappresentativo, quando sono lunghe e troppo circostanziate. Tale è quella di Atreo nell’atto III: Sic cum feras {p. 297}vestigat, et longo sagax Loro tenetur Umber etc. allungata per ben sette versi; e l’altra dell’atto IV contenuta in cinque: Jejuna sylvis qualis in Gangeticis etc.; ed anche un’altra del medesimo atto, nè molto da questa lontana spiegata in altrettanti versi: Sylva jubatus qualis Armeniâ leo etc.. Può non pertanto osservarsi in essa più di uno squarcio in cui la locuzione è sobria. Tale è questo dell’atto II:

Per regna trepidus exul erravit mea.
Pars nulla nostri tuta ab insidiis vacat.
Corrupta conjux, imperii quassa est fides,
Domus aegra, dubius sanguis: est certi nihil,
Nisi frater hostis.

Bella è pure la sentenza dell’atto III:

Habere regna casus est, virtus dare;

ciocchè Metastasio imitò così nell’Ezio;

        … Se non possiedi,
Tu doni i regni, e il possederli è caso,
{p. 298}
        Il donarli è virtù.

Tratto dal vero è parimente ciò che dice Tieste al figliuolo Plistene nell’atto IV:

Occurret Argos, populus occurret frequens,
Sed nempe et Atreus…
Nihil timendum video, sed timeo tamen.
Placet ire, pigris membra sub genibus labant,
Alioque, quam quò nitor, abductus feror.

Degno è pur di leggersi quanto aggiugne Tieste un tempo scellerato, ma che nella tragedia si enuncia pentito e corretto dalle sventure, e bramoso della vita privata. Le riflessioni filosofiche di lui sono ricavate con molta cura da varie epistole di Seneca. L’elegante descrizione del Bosco sacro e del Larario di Atreo spira magnificenza, e dispone all’orrendo sacrificio de’ figliuoli di Tieste. A taluno parrà soverchio lunga: ma se in qualche occorrenza è permesso al poeta drammatico di adornare ed esser pomposo, egli è in {p. 299}simile congiuntura, in cui l’orrore del luogo ben dipinto contribuisce a destare l’orrore del misfatto. Sublime è anche la risposta di Tieste nell’atto V allorchè Atreo insulta al di lui dolore:

Atr.

… Gnatos ecquid agnoscis tuos?

Th.

Agnosco fratrem.

L’argomento dell’Ercole furioso è lo stesso di quello di Euripide, ma la condotta dell’azione è cangiata. Nel greco è più manifesta la duplicità della favola, e nel latino i due oggetti, l’ammazzamento di Lico e il delirio di Ercole colle conseguenze, sembrano più connessi a cagione del prologo di Giunone che forma l’atto I. Ma poi la tragedia greca trionfa per la vivacità dell’azione e pel vero colorito degli affetti, là dove la latina al paragone par dilombata e senza anima, e le passioni vi si veggono maneggiate più ad ostentare erudizione in una scuola di declamazione rettorica che a ritrarre al vivo il cuore umano e presentarne agli uomini la dipintura in un teatro. II {p. 300}discorso di Megara nell’atto II fa desiderare il patetico che si ammira nella tragedia di Euripide, quando tutta la famiglia di Ercole spogliata del regno rifugge all’ara di Giove per evitar la morte. Il carattere di Megara si allontan dal gusto greco, e prende l’aspetto di certo eroismo più proprio de’ costumi Romani, il quale a poco a poco si è stabilito ne’ teatri moderni e no forma il sublime:

Patrem abstulisti, regna, germanos, larem
Patrium. Quid ultra est? una res superest mihi,
Odium tui;

la qual cosa vedesi da Metastasio emulata,

        … Sola mi avanza
(E il miglior mi restò) la mia costanza.

Cogere, le dice il tiranno, ed ella:

… Cogi qui potest, nescit mori.

Ly.

Effare, thalamis quod novis potius parem
Regale munus?

Meg.

Aut tuam mortem, aut meam.

{p. 301}Venuto Ercole il poeta fa che egli intenda lo stato del regno e voli a trucidare il tiranno; ma intanto che la sua famiglia dovrebbe mostrarsi sollecita dell’esito dell’impresa, Anfitrione si diverte ad ascoltar da Teseo l’avvenimento di Cerbero tratto fuori dall’inferno, e a domandare, se in quelle regioni si trovino terre feraci di vino e di frumento. Per altro tale racconto contiene più d’una bellezza, che a miglior tempo si farebbe ammirare. Tale è la nobile descrizione del Giove infernale:

        … Dira majestas Deo,
Frons torva, fratrum quae tamen speciem gerat,
Sed fulminantis. Magna pars regni trucis
Est ipse dominus, cujus aspectum timet
Quidquid timetur.

Tale è pure la pittoresca immagine di Cerbero smarrito al vedersi esposto alla luce:

   … Vidit ut clarum aethera,
Et pura nitidi spatia conspexit poli,
{p. 302}
Oborta nox est, lumina in terram dedit,
Compressit oculos, et diem invisum expulit,
Aciemque retro flexit, atque omni petiit
Cervice terram, tum sub Herculeâ caput
Abscondit umbrâ.

Meritevoli di particolar lode sono eziandio le preghiere di Ercole nell’atto IV. Anfitrione gl’insinua d’implorar da Giove il termine delle sue fatiche. Ed egli risponde, che farà de’ voti di Giove e di se più degni, cioè che il cielo, l’etere e la terra serbino concordi il luogo che ottennero nell’uscir dal caos: che gli astri non sieno turbati nel loro corso: che il mondo goda una perenne pace: che tutto il ferro s’impieghi negl’innocenti lavori villeschi e mai non si converta in armi; voti nobili e proprii di un cuor magnanimo. Non è da omettersi la bella espressione di Giunone nell’atto I:

      … Monstra jam desunt mihi;
{p. 303}
Minorque labor est Herculi jussa exequi,
Quam mihi jubere;

che è una vaga imitazione di ciò che Ovidio con eleganza fe dire all’istesso Ercole nel IX delle Metamorfosi:

      … Defessa jubendo
Saeva Jovis conjux, ego sum indefessus agendo.

Trovansi in tal tragedia altre sentenze ancora non meritevoli di riprensione:

Ars prima regni est posse te invidiam pati,

che Metastasio inserì nell’Ezio:

La prima arte del regno
È il soffrir l’odio altrui;

e quest’altra,

Pacem reduci velle victori expedit,
Victo necesse est,

pur da Metastasio nell’Adriano imitata,

   …… Alfin la pace
È necessaria al vinto,
Utile al vincitor.

La Tebaide che non ci è pervenuta intera, contiene lo stesso argomento de’ Sette Capi a Tebe di Eschilo, e {p. 304}delle Fenisse di Euripide: ma questa Tebaide latina cede di molto alle due favole greche per istile e per condotta. Nel lunghissimo atto primo, benchè pur tronco, presenta una verbosa declamazione di Edipo colla figliuola di circa trecento versi, de’ quali più di 275 esprimono la disperazione e la dolorosa rimembranza delle sventure di Edipo, e si aggirano in tutt’altro che nell’argomento della Tebaide; di maniera che sembra piuttosto prepararsi l’azione dell’Edipo ramingo in Colono trattata da Sofocle, che la guerra de’ figliuoli di lui. Ciò vuolsi dai poeti fuggire con somma cura; perchè lo spettatore che ha motivo d’ingannarsi sul di loro disegno, se ne vendica col disprezzo. Nel frammento dell’atto II Edipo comparisce un mentecatto, perchè pregato a interporre la sua autorità fra i due fratelli, egli al contrario fulmina contro di loro varie maledizioni. Non satis est adhuc civile bellum, frater in fratrem ruat; nec hoc sat est etc… Ma perchè mai? qual motivo aveva Edipo di {p. 305}abbandonarli al loro furore? I Greci con più senno fecero derivare la di lui avversione e le maledizioni dal disprezzo e dall’ingratitudine de’ figliuoli verso di lui, come può vedersi nell’Edipo Coloneo. Nell’altro frammento dell’atto III si vede il falso gusto dell’autore che non sa internarsi nel l’interesse de’ personaggi. Alla notizia della battaglia imminente Antigone prega la madre ad affrettarsi per impedirla: Scelus in propinquo est; occupa, mater, preces. Ed in fatti, come indi dice il messo, ella è accinta a precipitarsi in mezzo alle squadre, come fende l’aria veloce partico strale, come va una nave spinta da vento furioso, o come dal cielo cade una stella. Gran velocità! Ma pure avanti di correre in tal guisa ella è arrestata dall’urgente necessità, di che mai? di declamar sette versi per desiderare un turbine che la trasporti per aria, l’ali di una sfinge, o di un uccellaccio Stinfalide capaci di ecclissare il sole, o di un’ arpia. Ad onta però di tutto ciò che {p. 306}salta agli occhi, Giuseppe Scaligero serivendo a Claudio Salmasio chiamava questa tragedia princeps omnium Senecae, Martino del Rio la stimava latinior et melior quam caeterae, e Giusto Lipsio la riferiva all’aureo secolo di Augusto. Ma le sottigliezze, l’espressioni ampollose, i lampi d’ingegno ricercati con istudio, l’oricalco posto in opera in vece dell’oro di quella felice età, enunciano anzi l’indole del secolo in cui si corruppe e si perdè ogni eloquenza, e si prese per entusiasmo vigoroso la foga di un energumeno. Dall’altra parte non solo non è, come diceva il dotto Brumoy, la più stravagante di tutte (perchè quale più stravagante dell’Ercole Eteo che lo stesso critico attribuiva a colui che scrisse l’Agamennone?) ma possono in essa senza oltraggio del buon senno ammirarsi varii tratti veramente sublimi, e certa vivacità di colorito nelle passioni che difficilmente si rinviene altrove. Rechiamone qualche esempio. Dice la tenera Antigone al padre:

{p. 307}
Pars summa patris optimi e regno mea est
Pater ipse…
… Prohibeas, genitor, licet,
Regam abnuentem; dirigam invitum gradum.
In plana tendis? vado. Praerupta expetis?
Non obsto, sed praecedo. Quo vis utere
Duce me: duobus omnis eligitur via.
Perire sine me non potes, mecum potes.

Le mostruose nozze con Giocasta sono bene espresse dal medesimo Edipo:

Avi gener, patrisque rivalis sui,
Frater suorum liberum, et fratrum parens.
Uno avia partu liberos peperit viro,
Ac sibi nepotes.

Ciò è stato nobilmente imitato da Metastasio nel Demofoonte, e forse migliorato per la facilità maggiore di rinvenirvi i rapporti de’ gradi di parentela:

{p. 308}
…..Le chiome in fronte
Mi sento sollevar; Suocero e padre
M’è dunque il re! figlio, e nipote Olinto!
Dircea moglie e germana! Ah qual funesta
Confusion di opposti nomi è questa!

Antigone,

Quem genitor, fugis?

dice al padre agitato, il quale risponde,

Me fugio, fugio conscium scelerum omnium
Pectus, manumque hanc fugio, hoc coelum, et Deos,

che pur dal medesimo drammatico Romano, e forse con più energia, si trova espresso nel nominato dramma:

Dem.

Ma da chi fuggi?

Tim.

Io fuggo
Dagli uomini, da numi,
Da voi tutti e da me.

Vi è moto, affetto, robustezza senza veruna stravaganza in quest’altro squarcio:

Ant.

Perge, o parens…
Compesce tela, fratribus ferrum excute.
{p. 309}

Joc.

Ibo, ibo, et armis obvium exponam caput.
Stabo inter arma etc.

Pregevole è pure quest’altro della medesima Giocasta:

… Misera, quem amplectar prius?
In utramque partem ducor affectu pari.
Hic abfuit. Sed pacta si fratrum valent,
Nunc alter aberit. Ergo non unquam duos,
Nisi sic videbo?

La nobile semplicità delle Trachinie di Sofocle non si rinviene nel piano e nella condotta dell’Ercole Eteo latino che ne deriva. L’atto primo ci mostra Ercole che si trattiene a ciarlare nel promontorio Ceneo in Eubea, ed il rimanente poi si rappresenta in Trachinia. Uno spirito declamatorio senza freno ne contamina i punti più tragici che si ammirano nella tragedia greca. Il Plautino Pirgopolinice che con un pugno spezza una coscia a un {p. 310}elefante, è un’ ombra a fronte di Alcide, il quale dice a Giove che si rincori, secure regna, mentre il suo braccio ha già fracassato quanto Giove avrebbe dovuto fulminare. Egli domanda in premio il cielo, cioè l’immortalità, poichè già la terra.

Timet concipere, nec monstra invenit.
Ferae negantur. Hercules monstri loco
Jam coepit esse.

Che se poi non avesse finora fatto abbastanza per meritarlo, egli farà di più, congiungerà Peloro all’Italia, caciando in fuga i mari che si frappongono, muterà tutto l’orbe, darà nuovo corso all’Istro e al Tanai ecc. Il carattere di Dejanira sì bello e naturale presso Sofocle, diviene grossolano nella tragedia latina, e stanca il leggitore nel l’atto II con mille discorsi che per far senno dovevano omettersi. Quanto poi eloquente è il silenzio di lei nella greca, allorchè ha risoluto di andarsi ad uccidere, tanto disadatte {p. 311}sono a commuovere le antitesi, le sentenze affettate, le riflessioni e la nojosa declamazione della Dejanira del tragico latinoa. Non per tanto in questo lunghissimo componimento di circa duemila versi, fra tanti concetti affettati e strani, trovansene alcuni giusti, bene espressi e spogliati di ogni gonfiezza. Tali sono,

Nunquam est ille miser, cui facile est mori.
Felices sequeris mors, miseros fugis,

che Metastasio imitò nell’Artaserse:

Perchè tarda è mai la morte,
Quando è termine al martir?
A chi vive in lieta sorte
È sollecito il morir!

{p. 312}Seneca dice ancora in questa tragedia:

Oh si pateant pectora ditum,
Quando intus sublimis agit
Fortuna metus!

E Metastasio sviluppando l’istesso concetto,

Se a ciascun l’interno affanno
Si vedesse in fronte scritto,
Quanti mai che invidia fanno,
Desterebbero pietà.

Notinsi pure i seguenti pensieri con sobrietà espressi:

… Tot feras vici horridas,
Reges, tyrannos; non tamen vultus meos
In astra torsi. Semper haec nobis manus
Votum spopondit. Nulla propter me sacro
Micuere coelo fulmina. Hic aliquid dies
Optare jussit. Primus audierit preces,
Idemque summus. Unicum fulmen peto.

Ed ancor questo è notabile e nobile:

Effare……
{p. 313}
… Vultu quonam tulerit Alcides necem?

Ph.

Quo nemo vitam.

Seneca dà lieto fine a questa favola facendo comparire Ercole deificato a consolare e rallegrare Alcmena sua madre.

La snervata Ottavia sembra produzione di un rettorico novizio che mai non conobbe teatro, nè si curò di osservare l’artificio de’ Greci poeti. Gherardo Vossio la crede opera di Floro, e Giuseppe Scaligero sospetta che sia parto di Sceva Memore. Principia la prima scena con una declamazione o elegia generale di Ottavia, la quale esce e si ritira senza perchè. Le succede una Nutrice che si querela delle vicissitudini delle reggie. Ottavia senza cagione ancora comparisce di nuovo a lamentarsi della fortuna. La Nutrice ne ascolta la voce e facendo un’ apostofo alla propria vecchiaja (cessas thalamis inferre gradum, tarda senectus) le va incontro, e cominciano le nenie a due. Apre l’atto II Seneca che purviene non si sa perchè, e si mette a {p. 314}moralizzare sulle diverse età del mondo, ravvisando in quella, in cui egli vive, i vizii di ciascheduna,

Collecta vitia per tot aetates diu
In nos redundant.

Ma ciò serve punto a fare avanzar l’azione? Al contrario; fin quì essa nè anche può dirsi incominciata. Sopraggiugne Nerone. Insorge una disputa generica tra il discepolo e il maestro; sostiene ciascuno la propria tesi con caparbieria scolastica; lancia l’una e l’altra parte un nembo di sentenze proposte e risposte a maniera di massime; e dopo una lunghissima tiritera di più di cento versi, si manifesta l’intento di Nerone di ripudiare Ottavia e sposar Poppea, che è la meschina azione della tragedia, sulla quale si favella appena in poco più di trenta versi. Ma diceva benissimo Boileau,

Le sujet n’est jamais assez tôt expliquè.

Scappa dall’inferno nell’atto III l’ombra di Agrippina per precedere le nozze di Poppea colla fiaccola accesa in {p. 315}Acheronte, declama a sua posta, indi accortasi forse ella stessa della sua nojosa cicalata, si determina a partire,

Quid tegere cesso tartaro vultus meos?

Chiude l’atto Ottavia rimandata alla casa paterna, ed il Coro la compiange. Nell’atto IV un’ altra Nutrice accompagna Poppea, intende i di lei timori cagionati da un sogno funesto, e sembra che vadano a cominciare una nuova favola. Il Coro loda la bellezza di Poppea, e un Messo enuncia il tumulto del popolo pel ripudio di Ottavia. Narrasi nel V che il tumulto è sedato. Nerone comanda che Ottavia sia relegata nell’isola Pandataria del golfo di Gaeta, che nel dialetto napoletano dicesi Vientotene; e in fatti ella viene fuori condotta da’ soldati per imbarcarsi. Che languidezza, che gelo, che noja! Qual differenza enorme tralla sublime terribile Medea, e questi dialoghi scolareschi senz’arte, senza interesse, senza moto, senza contrasti, senza tragiche situazioni!

{p. 316}Tale per mio avviso è Seneca, o per meglio dire ciascuno autore delle dieci tragedie latine che sotto il di lui nome ci sono rimastea. Non so se in {p. 317}questo giudizio i leggitori sereni troveranno parzialità, ingiustizia o difetto di lettura o d’intelligenza. So però che il Critico illuminato che ve ne scorgesse, dovrebbe avvertirne il pubblico con buone ragioni esposte con urbanità e moderazione, e non già con decisioni magistrali enfaticamente profferite in qualche prefazione destinata dall’autore ad esaltar se stesso ed abbassar altrui con oracoli che muovono a riso, perchè in essi sempre trovasi il mistero e di rado il gusto o la verità o la giustizia.

Fine del Tomo III

{p. 332}

[Errata] §


ERRORI CORRIZIONI
Pag. 20 lin. 4 e si coltivarono e si ascoltarono e coltivarono
25 lin. 3 Osci gli Osci
31 lin. 4 nalla nella
98 lin. 3 Il nome Il nome tuo? tuo
205 lin. 3 Fon. For.
209 lin. penult.
Allor saresti Allor sareste
232 lin. 7 censuescere consuefacere
267 lin. 15 disumenata disumanata