Pietro Napoli Signorelli

1789

Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome V

2017
Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni di Pietro Napoli-Signorelli Napoletano, 2ème édition, tomo quinto, In Napoli, Presso Vincenzo Orsino, 1789, 276 p. PDF : Bayerische Staatsbibliothek, München.
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LIBRO VII.
Teatro Francese ne’ secoli XVII e XVIII §

CAPO I.
Stato del Teatro Francese prima della Medea di Pietro Cornelio. §

Lontana dall’arte di ritrarre al vivo e con leggiadria la natura, di rappresentar sagacemente la vita civile, di dar con delicatezza la caccia al vizio e al ridicolo, {p. 4}di toccar il punto vero del sublime e del grandioso, per non picciolo tratto del secolo XVII si mantenne in Francia la scena sul sistema delle favole di Hardy. Tragedie languide e basse, commedie grossolane e buffonesche, tragicommedie informi, oscene, stravaganti, comparivano in prodigiosa copia sino al 1640 su quel teatro che indi a poco dovea risonar de’ nomi illustri di Cornelio, Racine e Moliere.

Mairet, Rotrou, Ryer componevano favole poco vivaci e poco decenti. Il teatro inglese ove l’oscenità trionfa, non ha una scena peggiore di quella di Pamfilo e Nisa della Celiana di Rotrou, e la sua Crisanta rappresenta una deflorazione. Nella stessa Sofonisba Mairet incorse nella taccia di mettere alla vista le troppe dimestichezze degli amanti. Ryer compose una tragedia di Lucrezia senza avvertire a qual segno sia indecente sulle scene simile argomento.

Quanto alle regole sino al 1640 si disputava ancora se dovessero per sempre rigettarsi. Lo stesso Pietro Cornelio nel 1634 nella prefazione alla Vedova diceva di non volere nè totalmente seguirle, nè tutta usare la libertà del teatro francese. Un certo Durval nel 1636 le metteva affatto in ridicolo. Con tutto ciò Lope de Vega morto nel 1635, per aver egli calpestata ogni regola, mostrava di temer la censura non meno dell’Italia che della Francia, la quale {p. 5}nel di lui fiorire avea un teatro tanto sregolato quanto l’alemanno e ’l cinese, e di gran lunga inferiore a quel di Lope per invenzione e per ingegno e per vivacità.

Se vogliamo dunque risalir sino ai primi tentativi drammatici de’ Provenzali, il gusto e la ragione e l’esempio degli antichi e dell’Italia quasi per quattro secoli e mezzo lottarono contro la barbarie per discacciarla dalle scene francesi. Intanto uno scrittore di quelle contrade che volle anni sono filosofar a suo modo sulle nazioni, supponendo il teatro moderno, specialmente quello del suo paese, superiore all’antico, ne attribuisce l’ effetto alla libertà delle donne, e da questa fa discendere la gran varietà de’ caratteri. Passi la supposta totale superiorità del moderno sull’ antico; ma in Francia nella lunga riferita barbarie teatrale perchè nulla giovò la libertà donnesca? perchè non somministrò copia e varietà di caratteri? perchè poi un medesimo principio produsse in diversi paesi diversi effetti, facendo nascere in Italia un teatro ingegnoso e regolare, in Ispagna sregolato e vivace, in Francia basso, languido, stravagante ed osceno? Nè anche vero parmi che il libero conversar delle donne somministri copia di caratteri differenti. Gli uomini quanto più si associano, tanto più s’imitano e si rassomigliano ne’ costumi e nelle maniere.

Prima però che Cornelio si avvedesse delle {p. 6}proprie forze nel genere tragico, e che comprendesse quanto la regolarità contribuisca all’accrescimento dell’istruzione e del diletto col partorir l’illusione, il Trissino servì di modello a Mairet nel comporre la Sofonisba rispettando le tre unità1; ed il popolo nella rappresentanza seguitane nel 1629, ad onta de’ suoi difetti e della debolezza dello stile, ne senti il pregio e l’applaudì. Nè dopo che lo stesso Cornelio ebbe trattato quest’ argomento, il pubblico si dilettò meno della Sofonisba di Mairet2.

Il Venceslao di Rotrou venne appresso alla Sofonisba, e la sorpassò; anzi Voltaire {p. 7}ne comendò la prima scena e quasi tutto l’atto quarto. La sua Antigone vien censurata dagl’ intelligenti per non aver saputo l’autore condurre sino al fine il suo assunto senza indurre verso la metà dell’azione principale una peripezia di un’ altra azione differente. Tristano e Scudery si segnalarono ancora con qualche dramma bene accolto. Ma lo stile che solo sa preservare i componimenti dall’obblio, e il sublime tragico che eleva gli animi e concilia l’attenzione, attendevano un ingegno raro che si andava disviluppando.

CAPO II.
Tragedie di Pietro Cornelio, di Racine e di altri del XVII secolo. §

Pietro Cornelio nato in Roano nel 1606, il quale sin dal 1625 colla sua Melite cominciò a prendere superiorità su i contemporanei, e le cui prime sette commedie, benchè sì difettose, promettevano un ingegno non volgare che giva formandosi, prese in prima a purgar la scena nazionale dalle indecenze, indi ad ammettere la contrastata regolarità, e a cercar la nobiltà nello stile co’ precetti e col proprio esempio. Il primo saggio che fe delle sue forze nel tragico {p. 8}aringo, fu la Medea. Egli amava con predilezione Lucano e Seneca, e nelle di loro opere attinse non meno l’amor del sublime che l’impeto e la foga che il trasportava al pari de’ suoi modelli nell’enfatico e nell’ ampolloso. Il sublime Moi di tal tragedia tirò verso Cornelio gli sguardi della Francia, ed oscurò i drammi tutti de’ contemporanei.

Appresso ad impulso di certo M. Chalons segretario della regina Maria de’ Medici ritirato a Roano, diessi a leggere le commedie spagnuole, e colpito dall’argomento del Cid di Guglielmo di Castro uno de’ mediocri drammatici della Spagna, ne formò una tragedia. Non fu questa la prima nè di Cornelio, perchè la Medea l’avea preceduta, nè del moderno teatro, come afferma l’ab. Andres3, perchè la Sofonisba fu la prima in Francia nel XVII, come in Italia era stata nel XVI secolo. Ben fu però la tragedia del Cid la più fortunata, e quella onde l’autore divenne lo scopo dell’ammirazione e dell’invidia. Tutta l’azione appartiene alla commedia spagnuola, onde principalmente fu tolta la scena nella quale {p. 9}nel tempo stesso implorano dal sovrano Chimene giustizia, ed il padre di Rodrigo pietà; quella di Rodrigo e Chimene, quando parlando questa con Elvira, l’amante ascolta in disparte nascosto; quella del contrasto del dovere di figlia colla passione amorosa in Chimene, e della vendetta dell’ingiuria paterna coll’ amore per Chimene in Rodrigo. Egli è vero che Cornelio trasportando il fatto a Siviglia commise un anacronismo, trovandosi Siviglia al tempo del Cid in potere de’ Mori e non de’ Cristiani (che è il grande errore che esultando insolentemente al solito vi notò il fu Garcia de la Huerta); vero è parimente che Scudery e l’Accademia Francese la censurarono per varj difetti con fondamento, anche per aderire al cardinal de Richelieu che volea deprimerla non avendo potuto farla passar per sua; ma il Cid è uno di que’ felici frutti del genio che s’invidiano e si criticano più facilmente che non s’imitano.

La parte che il lodato cardinale ebbe a qualche componimento scenico, alcuni piani che ne distribuiva a Desmaret, Boisrobert, Colletet ed altri, i soccorsi che ne tiravano tanti letterati, la guerra ch’egli faceva al Cid, ed i beneficj che in compenso versava sull’autore, tutto ciò, dico, contribuì a fomentare e a raffinar il gusto in Francia. Cornelio perseguitato e premiato per le critiche e per le largizioni diede opera {p. 10}con ogni sforzo ad elevarsi sempre più su i drammatici di quel tempo. Egli impose silenzio agl’ invidiosi e a i pedanti con gli Orazj, col Cinna e col Poliuto.

Nel trattare il fatto degli Orazj egli prese migliore scorta, o che ne dovesse a dirittura all’Orazia dell’ Aretino l’argomento, o che lo togliesse dall’imitazione di questa tragedia italiana fattane venticinque anni dopo da Pietro de Laudun Degaliers. L’ artificiosa traccia dell’azione, la vivacità de’ caratteri, la forza delle passioni episodiche, rendono la tragedia degli Orazj di gran lunga superiore al Cid, e vincono anche per questi pregi la lodata Orazia dell’Aretino. Così avesse Cornelio seguito questo modello italiano nel più importante punto, cioè nell’ interessar l’uditorio a favore del vincitore Orazio. Ma egli attese a render più degne di compassione Sabina e Camilla; per la qual cosa, secondo il Calepio, i primi tre atti riescono passionatissimi, e gli ultimi freddi ed inutili. Si vorrebbe ancora ravvisare in que’ primi Romani che dipinge rassomiglianza minore co’ moderni cortigiani Francesi. Non per tanto l’ elevatezza dell’anima del poeta si scorge in diversi tratti. In quel fiero e nobile qu’ il mourut del vecchio Orazio sfolgoreggia il sublime di tutto il suo lume.

E chi oggi ignora i rari pregi del Cinna? Qual ampio campo aprì Cornelio al {p. 11}moderno coturno col grande oggetto politico dell’abdicazione dell’imperio nella scena in cui Augusto chiede su di ciò il parere di que’ medesimi cortigiani che stanno congiurando contro di lui! Nella seduzione di Emilia, nella congiura di Cinna e nel perdono di Augusto, qual saggio ingegnoso misto di grandi passioni private congiunte alla pubblica sorte, in che è posto il carattere della vera tragedia! La nobiltà ed il patetico che respirano le parole di Augusto nell’ abboccamento con Cinna, formeranno sempre l’elogio del gran Cornelio:

Tu t’en souviens, Cinna, tant d’heur, & tant de gloire
Ne peuvent pas si tôt sortir de ta memoire.
Mais ce qu’on ne pourroit jamais s’imaginer,
Cinna, tu t’en souviens, & veux m’assassiner! (Not. I)

Egli è vero che nè tragico timore nè compassione desta il pericolo di un traditore senza scusa qual è Cinna, che al proprio dovere verso un sovrano e un benefattore contrappone la semplice compiacenza per una donna. Nondimeno questo vero effetto della tragedia che in tal favola in niun conto si produce, vien compensato dal nobil perdono di Augusto quanto meno atteso tanto {p. 12}più accetto. Si sono renduti assai memorabili pel pubblico plauso e per le lagrime del gran Condè i versi dell’ultima scena (Nota II):

Je suis maître de moi comme de l’univers,
Je le suis, je veux l’être. O siècles, o memoires,
Conservez à jamais ma derniere victoire . . .
Soyons amis, Cinna, c’est moi qui t’en convie.

Benchè le rappresentanze de’ martiri Cristiani sieno poco atte ad eccitar la tragica compassione, per esser la loro morte un vero trionfo che non ci lascia luogo a dolere, pure il Poliuto col nobile carattere del protagonista e coll’ amore che ha quest’eroe per la sposa Paolina, ch’egli fa servire a i doveri della religione abbracciata, è una tragedia che chiama l’attenzione. Vago in essa è pur anco il colorito degli affetti episodici della virtuosa e sensibile Paolina e dell’appassionato e nobile Severo.

Pregiavasi Cornelio d’aver nel suo Pompeo procurato di far sentire ne’ pensieri e nelle frasi il genio del suo Lucano, e quindi di essersi sollevato più che nelle altre sue favole. Ma gli ornamenti e le figure epiche e liriche, come niuno più ignora, riescono {p. 13}troppo impertinenti nella poesia tragica. I critici giudiziosi riprendono nel Pompeo molte espressioni nella descrizione degli effetti della strage di Farsaglia, e varj concetti affettati del racconto di Acoreo dell’ammazzamento di Pompeo e del presente fatto a Cesare della di lui testa. Pur vi si scorgono alcuni tratti sublimi che non debbono nascondersi alla gioventù. Tale a me sembra l’immagine contenuta in queste parole:

Il s’avance au trèpas
Avec le même front qu’ il donnoit des états.

Patetica e nobile è pur l’apostrofe di Cesare alla vista dell’urna delle ceneri di Pompeo:

Restes d’un demidieu, dont à peine je puis
Egaler le gran nom, tout vainqueur que je suis.

L’altre tragedie reputate degne del gran Cornelio sono il Nicomede, il Sertorio, la Rodoguna. Presentò nella prima la magnanimità nel punto più vistoso. Nel Sertorio si prefisse di mostrare un modello di politica e di perizia militare, e vi si nota più di un tratto nobile, come questo,

{p. 14}
Rome n’est plus dans Rome, elle est toute où je suis,

che forse ebbe presente Metastasio facendo dire a Catone

Son Roma i fidi miei, Roma son io.

Con predilezione amava Cornelio la Rodoguna come la migliore delle sue favole; ed i critici Francesi singolarmente ne pregiarono l’atto quinto. Ma l’eccessiva crudeltà di Cleopatra, che qual altra Medea trucida Seleuco suo figlio e perseguita gli altri, fa fremere lo spettatore ed irrita l’ indignazione.

Poca mercede usarono i Francesi e singolarmente il Voltaire alle altre di lui tragedie. Eraclio, Pertarite, Teodora, Edipo, Berenice, Otone, Sofonisba, Pulcheria, Agesilao, Sancio, Attila, il Vello d’ oro, tutte, mal grado di varie scene eccellenti che vi s’ incontrano, furono reputate mediocri, ed insieme colla Medea caddero nel rappresentarsi, nè i posteri ne ristabilirono il credito4. Cornelio che dopo aver cessato di {p. 15}scrivere pel teatro pur vi era stato indotto un’ altra volta, al fine da buon senno nel 1675 dopo la rappresentazione del Surena, che non fa scorno alla vigorosa vecchiezza di sì gran tragico, rinunziò alla poesia drammatica.

Questo padre e legislatore del teatro francese morto nel 1684 in Parigi merita di studiarsi da chi voglia coltivar la tragica poesia. “Non è così facile (disse di lui con verità M. Racine) trovare un poeta che abbia posseduti tanti talenti, l’arte, la forza, il discernimento, l’ingegno”. “Non sarà mai abbastanza ammirata (aggiugneva) la nobiltà, l’economia negli argomenti, la veemenza nelle passioni, la gravità ne’ sentimenti, la dignità e la prodigiosa varietà ne’ caratteri”. Dotato d’ingegno straordinario e soccorso dalla lettura degli antichi mostrò sulla scena la ragione accompagnata da tutta la pompa e da tutti gli ornamenti de’ quali è capace la lingua francese. In tutti gli oggetti egli spande la propria sensibilità: {p. 16}riscalda ed avviva la stessa politica, come fece specialmente nel Sertorio e nell’Attila: con un tratto di pennello imprime in chi legge o ascolta la più sublime idea. Palissot ebbe ragione di così dire: “Per mezzo degli stessi capi d’opera di Cornelio abbiamo noi imparato a conoscere l’ esagerata mediocrità degli ultimi suoi drammi; e pure i più deboli di essi potrebbero passar per eccellenti oggi che ci troviamo sì bisognosi”. Ingegno raro tutte in se raccolse le più rilevanti doti della poesia tragica, il tenero, il patetico, il terribile, il grande, il sublime. Elevandosi all’ eroismo più eccelso, eleva e tira seco gli animi tutti. Si è già detto ch’ egli è un’ aquila, che si solleva sopra le nubi mirando il sole senza prender cura de’ baleni che si accendono e de’ fulmini che strisciano per l’ atmosfera.

Ma perchè la gioventù non creda che tutto nel di lui stile sia oro puro, vuolsi avvertire ch’egli pur troppo pagò il tributo al mal gusto delle arguzie viziose che dominava sotto il regno di Luigi XIII e nel principio di quello di Luigi XIV. Troppo abbonda di dialoghi romanzeschi, di monologhi ristucchevoli, e di pensieri che oltrepassando i giusti limiti del sublime, cadono nella durezza di certa popolarità ricercata e strana. Per avviso dello stesso suo compatriotto Giambatista Rousseau egli invece di esprimere negli amanti il carattere {p. 17}dell’amore, ha in essi dipinto il proprio, trasformandoli per lo più in avvocati, in sofisti, in declamatori e qualche volta in teologi (Nota III). Ma Voltaire che poche volte si mostrò indulgente verso il gran Cornelio, colse nel segno affermando che “il di lui ingegno tutto ha creato in Francia, dove prima di lui niuno sapeva pensar con forza, ed esprimersi con nobiltà; appartenendo i suoi difetti al secolo in cui fiorì, e le bellezze unicamente al suo ingegno”.

Nel medesimo anno 1666 quando si rappresentò l’Agesilao di Cornelio, comparve sulle scene l’Alessandro di Giovanni Racine nobile e giovane poeta, da cui cominciò una specie di tragedia quasi novella. Nelle tragedie di Cornelio grandeggia la virtù, e l’eroismo vi si tratta con una sublimità che riscuote ammirazione, ma vi si accoppiano certi amori per lo più subalterni che riescono freddi e poco tragici. In quelle di Racine trionfa un amor tenero, semplice, vero, vivace, forse non sempre proprio per la grandezza del coturno, perchè non sempre principale e furioso, ma sempre idoneo a commuovere. Il felice pennello di Racine con grazia e diligenza al vivo e maestrevolmente ritrae la delicatezza delle anime sensibili. La gioventù, e specialmente le donne pieghevoli alla tenerezza, poco intendono, e poco prendono interesse, p. e., {p. 18}nelle vedute politiche d’un tiranno, nell’ambizione d’ un conquistatore, nel patriotismo eroico di un Romano o d’un Greco. Ma subito prestano l’attenzione a ciò che rassomiglia a quel che sentono in se stesse, e vanno agevolmente seguitando il poeta nelle commozioni che disviluppa, e ne favellano con vivacità e conoscimento. Qual giovanetta posta nelle circostanze di Ermione non vi farà le medesime richieste?

Mais as-tu bien, Cléone, observé son visage?
Goûte-t-il des plaisirs tranquilles & parfaits?
N’a-t-il point detourné ses yeux vers le palais?
Dis-moi, ne t’es tu point presentée à sa vüe?
L’ingrat a-t-il rougi lorsqu’il t’a reconnüe? &c.

Tutte le donne possono comprendere senza stento la dolorosa divisione di Tito e Berenice; parrà loro di trovarsi nel caso; al pari di quella tenera regina si sentiranno penetrate da quest’espressioni:

Je n’écoute plus rien, & pour jamais adieu . . .
Pour jamais! . . . Ah Seigneur, songez-vous en vous même
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Combien ce mot cruel est affreux quand on aime?

Siffatte analisi delicate della tenerezza, o se vuol dirsi alla francese, del sentimento, anche senza tanti pregi che adornano le di lui favole, avrebbero bastato a farle riuscire in Francia e nella corte di Luigi XIV che respirava per tutto amoreggiamenti anco in mezzo alle spedizioni militari. Ma Racine al tenero, al seducente accoppiò il merito di una versificazione mirabilmente fluida e armoniosa, correzione, leggiadria, e nobiltà di stile, ed un’ eloquenza sempre uguale, ch’è la divisa dell’ immortalità onde si distinguono i poeti grandi da’ volgari. (Nota IV)

In quel secolo per la Francia fortunatissimo forse la poesia francese pervenne alla possibile venustà per le favole di Racine e per li componimenti di Boileau; ma il drammatico ebbe sopra il legislatore di quel Parnasso il vantaggio del raro dono della grazia, che la natura concede a’ suoi più cari allievi, agli Apelli, ai Raffaelli, ai Correggi, ai Pergolesi, ai Racini, ai Metastasii.

Tralle tragedie di Racine senza dubbio più giudiziosamente combinate, meglio graduate, e più perfette di quelle di P. Cornelio, per avviso de’ più scorti critici, trionfano l’Ifigenia rappresentata nel 1675, {p. 20}in cui con singolar diletto da chi non ignora il tragico tesoro greco si ammirano tante bellezze di Euripide, malgrado dell’ evenimento di Erifile che muore in vece di Ifigenia senza destar pietà, trovando lo spettatore disposto unicamente a compiangere la figliuola d’ Agamennone; l’Atalia uscita nel 1691, ove il poeta s’ innalza e grandeggia imitando alcuna volta il linguaggio de’ profeti; il Britannico rappresentato nel 1670, in cui si eccita il tragico terrore per le crudeltà di un mostro di tirannia nascente in Nerone, e di passaggio s’insegna a’ principi ad astenersi da certi esercizj disdicevoli alla maestà; e la Fedra comparsa sulle scene nel 1677, la quale per tanti pregi contenderebbe a tutte il primato senza il freddo inutile innamoramento d’Ippolito ed Aricia5. In fatti questa galanteria, per {p. 21}dirla alla francese, sconvenevole al carattere d’Ippolito, e fredda a fronte del tragico e disperato amor di Fedra, non si approvò nè da’ contemporanei nè da’ posteri; benchè il dotto e giudizioso M. Le Batteux quasi per gentilezza volle discolparne Racine con {p. 22}dire che lo stesso Euripide posto nelle medesime circostanze del tragico Francese, non l’avrebbe rifiutato. Certo è che anche Luigi Racine disapprovò quegli amori episodici, e disse del padre, che “dovea esser meno compiacente pel di lui secolo, e non introdurre un amor galante in un argomento in cui l’ amor tragico dee regnar solo”. E quest’unico difetto trovava nella Fedra Arnaldo d’Antilly, il quale confessò che senza tale galanteria la Fedra (che fece fuggire dal teatro Parigino il dilicato Huerta) nulla conteneva che non conducesse alla correzione de’ costumi.

Adunque (dirà taluno) bandiremo l’amore dalle tragedie? Io non so per qual gotica stranezza di gusto i critici pedanti rendono problematiche le verità più manifeste. L’amore è una delle più attive passioni umane, e può al pari di ogni altra contribuire ad eccitar la compassione e ’l terrore per correggere e dilettare. E chi può dubitarne? Muovasi un Polifonte per ambizione all’esterminio di qualche famiglia legittimamente sovrana, o apporti un Paride per la cieca sua passione per un’ Elena le fiamme nella sua patria, un ingegno grande saprà usar con arte di entrambe queste furiose passioni per destar le vere commozioni tragiche. Ma se quel Polifonte e quel Paride prendono il linguaggio de’ Celadoni, e si trasformano in pretti signorotti Francesi, diventeranno {p. 23}personaggi comici malinconici, e i loro amori si rigetteranno dal coturno. L’amore (è stato detto mille volte) perchè sia tragico vuol esser forte, impetuoso, disperato, dominante; e se è mediocre ed episodico, qual è quello d’ Ippolito, di Antioco, di Sifare e di Farace presso Racine, di Teseo, di Eraclio e di altri personaggi in Cornelio, della maggior parte de’ personaggi di Quinault, di Filottete in Voltaire, di Porzia e Marzia e Marco e Porzio e Sempronio e Giuba in Addisson, allora un amor simile è semplice galanterìa famigliare da bandirsi dalla vera tragedia. Ippolito innamorato d’Aricia nulla ha di tragico; ma Fedra innamorata d’ Ippolito figliuolo del di lei consorte, perturba ed atterrisce, e commovendo diletta ed ammaestra. Tragica è la situazione di Fedra:

Je sai mes perfidies,
Oenone, & ne suis point de ces femmes hardies,
Qui, goûtant dans le crime une tranquille paix,
Ont sçu se faire un front qui ne rougi jamais?
Je connois mes fureurs, je les rappelle toutes.
Il me semble deja, que ces murs, que es voutes
Vont prendre la parole, & prets à m’ accuser
{p. 24}
Attendent mon epoux, pour le desabuser.
Mourons . . .

E nell’atto IV:

Moi jalouse? & Thésée est celui que j’implore?
Mon epoux est vivant, & moi je brûle encore?
Pour qui? quel est le coeur où prétendent mes voeux?
Chaque mot sur mon front fait dresser mes cheveux.

Funesti eziandio, disperati, tragici sono gli amori di Torrismondo e di Alvida nel Tasso; di Semiramide, di Nino e Dircea nel Manfredi; di Mustafà e Despina nel Bonarelli; di Bibli nella tragedia del Campi.

Al contrario sparisce ogni idea tragica allorchè Cesare presso Cornelio dice d’aver combattuto con Pompeo ne’ campi di Farsaglia per gli begli occhi di madama Cleopatra, espressione degna di un marchesino Francese. Freddo è pure il complimento di Eraclio agli occhi tutti divini di Eudossa, e la protesta ch’egli fa di aspirare al trono unicamente per la sete che ha di farne parte alla sua bella. Nel Sertorio si confonde l’idea del gran capitano e del gran politico, colla poco grave immagine di un vecchio {p. 25}visconte o colonnello Francese innamorato. La Sofonisba di Mairet, anco per testimonio di Saint Evremond, ci nasconde affatto la magnanima figliuola di Asdrubale, manifestando solo una coquette ordinaria. Tomiri che nella Morte di Ciro di Quinault va cercando sul teatro ses tablettes perdute, fu ben meritevole della derisione di Desprèaux. Non si domandi dunque se l’amore possa entrar nelle tragedie come ogni altra eccessiva passione; ma si bene, qual sia l’amore che le degradi, e che indebolisca quasi tutte le tragedie francesi.

Racine nelle sue belle favole non sempre si appressa alla perfezione, benchè sempre sia nobile, elegante, armonioso e saggio. Nulla più lontano dal carattere del vincitor di Dario e dalla tragica gravità quanto il di lui Alessandro che sembra uno degli eroi da romanzo. La Tebaide, per valermi delle parole di Pietro da Calepio, scopre anche la gioventù del poeta. Si vede nella Berenice tutto ad un tempo la delicatezza del suo pennello, e la natural pendenza del suo genio al molle e all’elegiaco. L’Oreste da lui dipinto nell’Andromaca, la cui rappresentanza costò la vita al commediante Montfleury, rimane inferiore alla dipintura fattane dagli antichi. Nel Mitridate la compassione è più per Monima che pel protagonista, il quale poco più del nome ritiene di quell’ irreconciliabil nemico {p. 26}de’ Romani, e si vale di un’ astuzia poco tragica per iscoprir gli affetti di Monima. Mai non si ripeterà abbastanza che la tragedia quando rappresenti un’ azione rinchiusa in una famiglia, benchè reale, senza mostrare un necessario incatenamento degli affetti de’ personaggi coll’ interesse dello stato, e quando singolarmente si aggiri su di amorosi interessi, simil tragedia, dico, rimarrà sempre nella classe delle favole malinconiche poco degne di Melpomene. Così Racine, tuttochè mirabile per tanti pregi, non ci obbliga a fare una piena eccezione alle tragedie francesi, che quasi tutte sono un tessuto d’interessi proprj del socco trattati con tetra gravità. Dupin non a torto conchiudeva così: “Le nostre tragedie le più gravi altro non sono che commedie sollevate”. Dacier fralle altre critiche fatte alle tragedie nazionali, diceva: “Noi abbiamo tragedie, la cui costituzione è sì comica, che, per farne una vera commedia, basterebbe cangiarne i tomi”. E Voltaire diceva ancora: “Non v’ha cosa più insipida, più volgare, più spiacevole del linguaggio amoroso che ha disonorato il teatro francese. Io già non parlo dell’amore energico, furioso, terribile che ben conviene alla vera tragedia; parlo . . . degli amori proprj dell’idilio e della commedia anzichè della tragedia”.

Circa lo stile di esse, senza derogare ai {p. 27}pregi inimitabili di P. Cornelio e di Racine e di altri del corrente secolo, vengono in generale tacciati i tragici francesi, e singolarmente il Cornelio, dal marchese Maffei, dal Muratori, dal Gravina, dal Calepio, di certo lambiccamento di pensieri, di concetti ricercati e tal volta falsi, di tropi profusi e ripetuti sino alla noja, di espressioni affettate, di figure sconvenevoli alla drammatica. A ciò che chiamasi poesia fra’ Greci ed Italiani, trovasi ne’ drammi francesi sostituito certo parlar poetico particolare. I vizj, le virtù ed anche gli attributi accidentali nelle loro favole (nota il Colepio) diventano le persone agenti. L’odio giura, vede, teme; il furore si lascia disarmare; la virtù trema; l’ira chiama; l’ amicizia e la gloria arrossiscono. I segni si usano per le cose, come i troni, le corone, gli scettri, gli allori, le catene. Non v’ha scena in cui non s’incontri tempesta per avversità, abisso per oppressione, fulmine per castigo, sacrificio per sofferenza ecc. Sono, è vero, tali figure ammesse ancora nella poesia de’ Greci e degl’ Italiani; ma da’ drammatici francesi usansi con tal frequenza e di rado variate colla mescolanza di altre formole poetiche non disdicevoli alla scena, che partoriscono noja e rincrescimento.

Simili maniere abbondano anco nelle tragedie del Racine, ma ecco in che egli si distingue da’ tragici volgari. In questi quel {p. 28}perpetuo tessuto di astratti che diventano persone, e la ripetizione de’ medesimi tropi forma l’unico fondo del loro stile; ma Racine le accompagna con altre maniere poetiche calcando da gran poeta le tracce degli antichi tragici che studiava e si proponeva per modelli e per censori6. Non è perciò maraviglia che avesse portato a così alto punto l’espressione, l’eleganza, l’armonia e la vaghezza dello stile ed il patetico. Talvolta gli si notarono alcune trasposizioni inusitate, e certe maniere non sempre limpide, di che giudichino i nazionali. Certo è però che specialmente nell’Alessandro e ne’ Fratelli nemici, si osservano molti concetti ricercati, il dolore espresso con troppo studio, varj contrapposti non proprj della scena, qualche sentimento freddo e qualche immagine superflua. Più rari sono questi difetti nelle altre sue favole, benchè alcuno se ne rinvenga ancora nel Mitridate, nell’ Andromaca e nell’Ifigenia. Nella Fedra più che la soverchia pompa del racconto di Teramene da ognuno osservata, ferisce il gusto e il buon senno il sentire con figure intempestive e con improprj e falsi pensieri, che il cielo guarda {p. 29}con orrore il mostro marino, la terra n’è scossa, l’aria infettata, e le onde che lo condussero alla riva, rinculano spaventate. Ma senza tali nei Racine che studiava sì felicemente il cuore dell’uomo e la poesia originale de’ Greci, Racine che possedeva il rarissimo dono dello stile e della grazia, che avrebbe mai lasciato alla gloria della posterità?

In simil guisa declinando il passato secolo pose in Francia il suo seggio una specie di tragedia inferiore alla greca per energica semplicità, per naturalezza e per apparato, ma certamente da essa diversa per disegno e per ordigni, forse più nobile per li costumi, e fondata su di un principio novello. I Greci che nella poesia ravvisarono l’amore per l’aspetto del piacer de’ sensi, non l’ammisero nella tragedia come non convenevole. I moderni sulla scorta del Petrarca attinsero nella filosofia Platonica una più nobile idea dell’amore, e ne arricchirono la poesia, e quindi così purificato passò alle scene. Il gran tragico francese P. Cornelio non mai se ne valse come oggetto principale; e fu Racine il primo a introdurlo nella tragedia con decenza e delicatezza; e quindi dee dirsi che da lui cominciasse la scena tragica ad avere un carattere tutto suo. Adunque la tragedia greca e la francese in un medesimo genere di poesia presentano due spezie sì differenti, {p. 30}che giudicar dell’una col rapportarla all’altra è veder le cose abbagliate, e quali d’alto mare veggonsi le terre che pajono un groppo di azzurre nuvolette7.

Mentre i due lodati gran tragici fondavano la tragedia nel lor paese ora seguendo i Greci, gl’ Italiani e gli Spagnuoli, or discostandosene, fuvvi ancora qualche altro scrittore che vi si occupò con applauso. Nell’inverno in cui si rappresentò il Cid, comparve la Marianna di Tristano, nella quale declamò con tal vigore il commediante Mondori che vi perdè la vita. Voltaire la rammenta con disprezzo mal grado di essersi continuata a rappresentare per più di cento anni. Ludovico Dolce, come accennammo, servì d’esempio a’ Francesi ed agli Spagnuoli nel portar sulla scena questo argomento.

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Tommaso Cornelio fratello di Pietro minore d’intorno a venticinque anni, compose ancora varie tragedie fortunate. La sua Arianna si rappresentò nel 1672 nel tempo stesso che si recitava il Bajazzette di Racine tragedia di gran lunga superiore alla favola del giovane Cornelio; ma questa fu sommamente applaudita, e si è ripetuta sino a’ nostri tempi, tuttochè soggiaccia al difetto generale di aggirarsi sugl’ intrighi amorosi proprj di una commedia. L’autore spese in comporla quaranta giorni; ma il tempo si consuma nel maneggio della lima sullo stile, ed è quello che manca all’Arianna. Trasse T. Cornelio il suo Conte d’Essex dalla commedia spagnuola del Coello Dar la vida por su Dama; ma rendendola più regolare ne peggiorò il carattere dell’Essex. Il di lui Timocrate (componimento cattivo, carico d’accidenti romanzeschi e poco verisimili, e mal verseggiato) fu dal pubblico tante volte richiesto e tante si ripetè, che i commedianti infastiditi dopo ottanta recite chiesero in grazia di rappresentare altri drammi. Tommaso con più debolezza di stile e con minore ingegno del fratello merita ancor la stima de’ nazionali per essere stato più del fratello gastigato nell’uso delle arguzie viziose, per la scelta degli argomenti, per la vasta letteratura ond’era ornato, e per la purezza con cui parlava la propria lingua. Sotto di Pietro (pronunziò {p. 32}Voltaire) Tommaso al suo tempo era il solo degno di essere il primo, eccettuandone Racine cui niuno de’ contemporanei fu comparabile.

Cirano di Bergerac nato nel Perigord nel 1620 e morto nel 1655 fece una tragedia della morte di Agrippina, e nel personaggio di Sejano diede il primo esempio delle massime ardite usate poscia da’ moderni tragici della Francia con tal frequenza ed intemperanza, che, al dir di M. Palissot, ne sono essi divenuti ridicoli; or che diremo di certi ultimi Italiani che hanno portato al colmo questo difetto?

Filippo Quinault nato in Parigi nel 1634 e morto nel 1688, oltre alle opere musicali e alle commedie, delle quali parleremo appresso, compose otto tragicommedie e quattro tragedie. Tralle prime riscosse particolari applausi Agrippa re d’Alba, ovvero il Falso Tiberino, rappresentata nel 1660 per due mesi continui e rimasta su quelle scene. Piacquero anche Amalasunta e le altre, ad eccezione del Fantôme amoureux tolta dalla commedia spagnuola El Galàn Fantasma, la quale cangiando linguaggio non migliorò di vivacità ne’ colpi di teatro8. {p. 33}Le tragedie sono: la Morte di Ciro uscita nel 1656, in cui si veggono stranamente avviliti i caratteri del gran Ciro, degli Sciti e della loro regina Tomiri, oltre a’ difetti d’arte e di verisimiglianza nelle situazioni e ne’ consigli; Astrato re di Tiro rappresentata per tre mesi nel 1663 e rimasta al teatro malgrado de’ motteggi di Boileau; Bellerofonte tragedia fischiata nel 1665 senza esser peggiore delle altre; e Pausania uscita nel 1666 che ebbe miglior fortuna. Invano si rileverebbe l’effemminatezza dello stile, la mancanza di verità nelle situazioni, l’inverisimiglianza de’ colpi, l’ineguaglianza de’ caratteri, ed altri difetti di queste favole che si ascoltarono per qualche anno e sparvero senza ritorno. Quinault non fu letterato9, non sapeva la storia, non avea studiato il genio e i costumi delle nazioni; non ebbe altra scorta che il proprio ingegno e l’immaginazione. Faceva versi ben torniti, ma non mostrò di esser nato per la poesia tragica. Nelle sue tragedie, come osservò Saint Evremond, si cerca sovente il dolore, e vi si trova solo certa tenerezza per lo più intempestiva che degenera {p. 34}in mollezza. Fu segno a’ morsi satirici di Boileau amico di Racine e degli antichi, e fu lodato da Perrault emulo di Boileau e adulatore de’ moderni. Anche Pradon cattivo scrittore di varie tragedie spesso rappresentate con affluenza di spettatori, prese contro il medesimo satirico Francese la difesa di Quinault.

Duchè ajutante di camera di Luigi XIV ebbe l’onore di comporre alcune tragedie sacre pel teatro della sala di mad. di Maintenon, le quali si recitarono dalla duchessa di Borgogna e dal duca d’Orleans col famoso commediante Baron che le dirigeva. Egli si valse di argomenti tratti dal Testamento Vecchio. Il suo Gionata e l’Assalonne non hanno veruna digressione amorosa che le deturpi, in ciò preferendo con senno l’esempio della sola Atalia di Racine a tutto il teatro tragico francese. Non pertanto Achinoa moglie di Saulle colle due sue figliuole introdotte nel Gionata, e Maaca e Tamar nell’Assalonne, sono persone oziose, inutili a quelle azioni. Viene egli ripreso eziandio per aver nell’Assalonne alterata la storia sacra, facendolo penitente per renderlo atto a muovere la compassione. Ma si loda con ragione l’ elezione ch’egli seppe fare de’ principali personaggi proprj ad eccitar la pietà tragica. Anche l’ab. Gênet compose alcune altre tragedie rappresentate dalla duchessa du Maine colle sue dame.

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Si composero parimente varie sacre tragedie latine. Le più note sono quelle del celebre Dionigi Petavio, di cui s’impresse in Parigi nel 1620 il Sisara, e quattro anni dopo l’Usthazane, ovvero i Martiri Persiani con altre. Nel medesimo anno 1620 uscirono alla luce la Solima e la Santa Felicita di Niccolò Causin. Si pubblicarono nel 1695 anche in Parigi le quattro tragedie di Francesco Le Jay, cioè il Giuseppe riconoscente i fratelli, il Giuseppe venduto, il Giuseppe Prefetto in Egitto, il Daniele.

CAPO III.
Stato della Commedia Francese prima e dopo di Moliere. §

Pietro Cornelio che portò la tragedia alla virilità, lasciò in Francia la commedia quasi nella fanciullezza. Le prime sue sette commedie poco interessanti e difettose, ebbero qualche merito in confronto de’ poeti contemporanei. Il Bugiardo, tratto dalla Verdad sospechosa, e dal Mentiroso en la corte degli Spagnuoli, si rappresentò dopo che avea Cornelio illustrate le scene con gli Orazj, col Cinna e col Poliuto, cioè nel 1641 o 1642. Questa commedia assai piacevole di carattere e d’intrigo, al dir di {p. 36}Voltaire, fu la prima ricchezza del comico teatro francese; ma secondo M. de Fontenelle nella Vita di Cornelio, essa non bastò per istabilirvi la vera commedia. Non era al fine questo dramma che una traduzione in parte corretta, nella quale si cercava il ridicolo negli eventi immaginati con arte anzi che nel cuore umano che ne abbonda. Boisrobert, Scarron, Desmaret, T. Cornelio seguendo l’esempio di Pietro trasportarono, come dicemmo, diverse favole spagnuole al lor teatro, purgandole per lo più dalle principali irregolarità, ma sovente sfigurandole e convertendo in bassezze scurrili le grazie originali10.

Da ciò si vede che dominava allora in Francia la commedia d’intrigo, senza essere arrivata al punto, ove l’avea portata in Italia il cavaliere Giambatista della Porta; ma la dipintura delicata de’ costumi attendeva l’ inimitabile Moliere, cui i posteri diedero e conservano il meritato titolo di padre della commedia francese.

Dopo le guerre civili che durarono sino al 1652 cominciò Giambatista Poquelin detto Moliere a girar colla sua comitiva per le provincie, e nel 1653 rappresentò in {p. 37}Lione, indi in Beziers, in Grenoble, in Roano sino alla state del 1658 con general plauso alcune farse piacevoli benchè irregolari, delle quali rimasero i soli nomi. Le prime sue commedie che tirarono maggiormente l’attenzione del pubblico, furono lo Stordito, ed il Dispetto amoroso. L’una e e l’ altra appartengono al teatro Italiano. I medesimi Francesi non ignorarono, che l’azione ed i principali colpi di teatro della prima si tolsero da una commedia Italiana11. Arlecchino servo balordo si rappresentava in Francia a soggetto da’ commedianti Italiani; e Niccolò Barbieri detto Beltrame nel 1629 diede alla luce per le stampe la sua commedia l’Inavvertito12, la quale servì di modello prima alla commedia di Quinault l’Amante Indiscreto ossia il Padrone Stordito rappresentata nel 1654, indi allo Stordito di Moliere incomparabilmente migliore di quella di Quinault. Abbiamo poi già notato che il Dispetto amoroso fu traduzione degl’ Inganni commedia del Milanese Niccolò Secchi. La storia dunque ci dimostra, che siccome Guillèn de {p. 38}Castro servì di scorta al gran Cornelio nella tragica carriera, così nella comica il gran Moliere ebbe per guida gl’ Italiani; benchè senza tradire l’interesse di queste favole straniere seppe dar loro maestrevolmente un colorito nazionale.

Le Preziose ridicole si rappresentarono prima del 1658 per la prima volta in Beziers con molto applauso. L’intrigo ha una tinta di farsa, ma vi si motteggia graziosamente il mal gusto dello stile romanzesco e affettato, che le donne stesse seguendo la moda prendevano nella conversazione più famigliare. Allorchè poi questa farsa si ripetè in Parigi dove il ridicolo che vi si satireggia, esser dovea più disteso e più notabile, si accolse così favorevolmente che se ne continuarono le rappresentanze per quattro mesi continui, raddoppiandosi sin dalla seconda recita il prezzo ordinario dell’entrata. È ben noto che in una di queste un vecchio rapito dal piacere gridò dalla platea, coraggio, Moliere, questa questa è la buona commedia, voce della natura onde siamo avvertiti che il pubblico polito, se la pedanteria non lo corrompe, sa giudicar dritto de’ componimenti teatrali.

Nell’autunno del medesimo anno venne Moliere co’ suoi nella capitale della Francia. Cominciò le rappresentazioni colla tragedia del Nicomede di P. Cornelio, e con una delle sue farse il Dottore innamorato; ed il {p. 39}modo di rappresentare di questa comitiva piacque alla corte, e Moliere ottenne dal re di stabilirsi in Parigi, e di alternare sul teatro del Picciolo-Borbone colla comitiva Italiana.

La dimora ch’ei fece in corte contribuì all’aumento de’ lumi di Moliere intorno al cuore umano e a’ costumi nazionali, e disviluppò sempre più il suo discernimento e buon gusto, e ne migliorò lo stile. Tutto ciò si conobbe nella recita del Cocu immaginaire scritto più correttamente delle prime favole. Il carattere di questa favola parimente ricavata dagl’ Italiani non è de’ più dilicati, ma per la piacevolezza e per l’interesse che vi si sostiene, si rappresentò quaranta volte.

Fino alla state del 1662 diede Moliere al teatro il Principe geloso, in cui riuscì male come attore e come poeta, la Scuola de’ mariti tratta principalmente dal Boccaccio, la cui riuscita consolò l’autore, e cancellò la svantaggiosa impressione della favola precedente, e gl’ Importuni commedia in cui non si vede altra connessione se non quella che si trova in una galleria di belli ritratti, ma pure si accolse con indulgenza per essere stata composta, studiata e rappresentata in quindici giorni.

Intanto il graziosissimo attore comico conosciuto col nome di Scaramuccia, il quale nel mese di giugno del 1662 prese congedo {p. 40}dal pubblico per venire in Italia, tornò dopo quattro mesi di assenza, ed al suo arrivo i Parigini accorsero con tale affluenza e trasporto ad ascoltarlo, che il teatro di Moliere, mal grado del di lui credito, rimase per tutto il mese di novembre desolato13. Nè vi ritornò il concorso se non con la Scuola delle donne rappresentata in dicembre, che Moliere ricavò da una novelletta delle Notti Facete di Straparola14.

Essendo stata questa piacevole commedia criticata da certi smilzi letterati pieni d’invidia più che di gusto e d’intelligenza, Moliere nel seguente anno se ne vendicò comicamente facendo ridere il pubblico a spese de’ suoi censori, e pubblicò la Critica della Scuola delle donne, in cui dipinse vagamente i ridevoli critici colla grazia comica a lui naturale. Volle indi scagionarsi di un sospetto insorto che poteva nuocergli, cioè che nelle imitazioni ridicole avesse satireggiato alcuni ragguardevoli cortigiani; e se ne giustificò alla presenza del re coll’ {p. 41}Improvvisata di Versailles recitata nell’ottobre del 1663, e poi in Parigi nel seguente mese. Derise in essa gajamente il modo di rappresentare de’ commedianti dell’Hôtel di Borgogna, contraffacendoli, e segnatamente vi pose alla berlina Boursault comico scrittore dozzinale, il quale avea indegnamente ferito Moliere motteggiandolo sulla condotta della moglie col Ritratto del Pittore.

Ma dopochè nel 1664 ebbe egli dato al teatro la Princesse d’ Elide, il Matrimonio a forza intitolato Ballo del re perchè vi danzò Luigi XIV, il Convitato di pietra che scrisse in prosa in cinque atti nel 1665 d’infelice riuscita15, e la farsa dell’Amor {p. 42}Medico in tre atti, produsse nel 1666 il Misantropo che fu il primo capo d’opera della commedia francese.

Tutti i comici antichi e moderni hanno motteggiata e dipinta la civetteria, la maldicenza, l’ingiustizia, la vanità e le altre ridicolezze umane. Ma niuno che io sappia trovò mai il ridicolo di una virtù feroce ed austera. Un carattere virtuoso ma intollerante, che si maraviglia di tutto e tutto condanna: che per non tradire il vero, a costo della politezza e senza necessità, si pregia di dire ad un cavaliere il quale ha la debolezza di voler esser poeta, che i suoi versi son cattivi: che in vece di compatire gli errori umani vuol perdere la rendita di quarantamila lire, per lasciare a’ posteri nel suo processo un testimonio di una sentenza ingiusta; un carattere, dico, siffatto, sebbene amabile e caro a i buoni per la virtù che ne fa il fondo, ha pure il suo ridicolo degno d’esser corretto, ed il genio di Moliere seppe seguirlo alla pesta e riprenderlo comicamente. Non mai Talia si elevò a così alto segno; e poche altre ridicolezze importanti come questa rimangono {p. 43}da esporsi allo scherno scenico. Il carattere di Alceste contrasta egregiamente con quello di Filinto, e dà movimento a tutti gli altri che lo circondano. L’intreccio veramente manca di vivacità, e i colori assai delicati non possono recar pieno diletto a chi è avvezzo alle tinte risentite che diconsi zingaresche. Ad onta della grazia de’ caratteri, della felice arditezza dell’idea, dell’ eleganza e purezza dello stile, questo bel componimento non piacque la prima volta che si rappresentò, e Moliere scaltramente si avvisò di accompagnarlo colla farsa piacevole del Medico a forza, e con tal mezzo il Misantropo si riprodusse e piacque. Una pastorale eroica, un’ altra comica cantata nel medesimo anno 1666, ed il Siciliano commedia-ballo16 rappresentato nel {p. 44}1667, precederono un altro capo d’opera, il famoso Tartuffo. Se ne rappresentarono i tre primi atti sin dal 1664, e se n’era sospesa la rappresentazione. Compiuta, corretta, riveduta, e approvata, sulla permissione verbale ottenutane dal sovrano, Moliere la rimise sul teatro l’ anno 1667. Ma gridarono gl’ ipocriti, e la commedia assai bene accolta dal pubblico fu di bel nuovo proibita. Il re assediava Lilla, e due attori spediti da Moliere gli presentarono un memoriale contro di tal divieto; ma non prima del 1669 si ottenne la permissione autentica di riprodursi il Tartuffo. Come esso fu ben compreso, caddero le macchine dell’impostura, la quale temendo di essere smascherata volea farlo passare per una satira della vera pietà e religione. Mille pregi rendono questo dramma l’ornamento {p. 45}più bello della comica poesia e delle scene francesi. L’interesse che si desidera nel Misantropo, comincia nel Tartuffo a sentirsi sin dalla prima scena della vecchia Pernelle. La vivacità ch’è l’anima delle scene, aumenta per gradi col comparire nell’atto III il personaggio di Tartuffo, e col disinganno di Orgone nel IV.

Nel 1668 comparvero l’Anfitrione e l’Avaro commedie tratte da Plauto e accomodate ottimamente a’ costumi più moderni, e Giorgio Dandino piacevolissima farsa, il cui soggetto non è de’ più innocenti, e che col sale comico scema in parte la riprensione meritata per la leggerezza d’Angelica. Nel 1669 quando tornò sul teatro il Tartuffo, uscì ancora la farsa di M. de Pourceaugnac, in cui un avvocato di provincia viene aggirato da Sbrigani personaggio modellato su i servi della commedia greca ed italiana antica e moderna.

Gli Amanti magnifici altra commediaballo, in cui Moliere raccolse tutti i divertimenti introdotti nella scena, uscì nel 1670. La varietà degli oggetti che appagavano i sensi, fe mirare con indulgenza questo spettacolo, di cui avea suggerito il piano lo stesso Luigi XIV, il quale nel primo tramezzo ballò da Nettuno, e nel sesto da Apollo; ma fu l’ ultima volta che questo monarca che si trovava nel trentesimosecondo anno della sua età, comparve in {p. 46}teatro a ballare scosso da alcuni versi del Brittannico di Racine (Nota V).

La corte nel medesimo anno che applaudì gli Amanti magnifici, fu poco sensibile all’altra commedia-balletto le Bourgeois gentilhomme che valeva assai più. Il solo Luigi XIV ne giudicò in Versailles più favorevolmente de’ suoi cortigiani, il che dimostra il buon gusto di questo monarca e la stima che faceva di Moliere. Parigi meglio della corte sentì la verità della comica dipintura di M. Giordano, in cui si ridicolizza vagamente la comune vanità di parere quel che non si è. Tuttavolta vi si trovano molti colpi di teatro proprj della farsa; benchè gli uomini di gusto non pedantesco sanno bene che per rendere notabili certe utili dipinture conviene adoperar qualche volta un colorito risentito alla maniera del Caravagio.

Nè di grazia nè di arte scarseggia la commedia delle Furberie di Scapino recitata nel 1671, sebbene il sacco in cui si avvolge Scapino, e la scena della galera appartengano a un genere comico più basso. Psiche tragedia-ballo che si era rappresentata nel carnevale del 1670, si ripetè nel 1671. Essa fu notabile pel concorso degli autori che vi lavorarono nel medesimo tempo, per eseguir con prontezza gli ordini reali. Il piano ed i versi del prologo, dell’atto I, e delle due scene prime del II e del III {p. 47}sono di Moliere; il rimanente si verseggiò da Pietro Cornelio, ad eccezione delle parole italiane, e de’ versi francesi da cantarsi scritti da Quinault e posti in musica da Lulli. Moliere, Lulli, Cornelio, Quinault lavorano ad un sol componimento destinato al piacere di Luigi XIV. Bel regno! illustri nomi!

Le Donne Letterate altro capo d’opera venne alla luce nel 1672. Vi si dipigne il falso bell’ ingegno, e la superficiale pedantesca erudizione; ma da un soggetto così arido Moliere seppe trarre partito per la scena comica colla caparbieria di Filaminta preoccupata del merito ideale di Trissottino. Dietro a questa commedia nell’anno stesso venne la farsa della Contessa d’Escarbagnas, una pastorale comica di cui rimasero solo i nomi de’ personaggi, e la commedia-balletto l’Ammalato immaginario recitata nel 1673, ultimo frutto di questo raro ingegno. Alla quarta rappresentazione che se ne fece il dì 17 di febbrajo, morì in sua casa questo principe della commedia francese, essendovi stato trasportato dal teatro moribondo.

Moliere nato nel 1628 con disposizioni naturali alla poesia comica più che alla seria, appena ebbe veduto il teatro di Borgogna che manifestò la sua inclinazione verso la scena. Coltivò i suoi talenti colle lettere studiando per cinque anni nel collegio {p. 48}di Clermont, ed ascoltò le lezioni filosofiche di Pietro Gassendo, onde trasse l’abito di ben ragionare, ed analizzare, che si vede trionfar nella maggior parte delle sue opere. E chi gli negherà il talento filosofico ove ponga mente a quella sagacità, che lo mena ad entrar da maestro nel mecanismo delle umane passioni? Ma la filosofia di Moliere non fu quella che orgogliosa e vana sdegna di piegarsi al calore della passione, o ignora l’arte sagace di mostrar di perdersi in esso per celare i suoi ordigni e le sue forze; non fu quella filosofia che fa pompa del suo compasso, de’ suoi calcoli e dell’ austerità della sua dottrina. La filosofia di Moliere e di ogni uomo che pensa e medita per giovare, è quel fuoco secreto, benefico, necessario che tutto penetra, tutto avviva e tutto purifica per l’altrui ammaestramento. Or questa filosofia da quanti filosofi e matematici d’ostentazione è conosciuta?

Scorrendo per le provincie egli giva studiando l’uomo e la propria nazione. Se imbatteva in qualche personaggio originale degno di ritrarsi sulla scena, non lo perdeva di vista prima d’averlo pienamente studiato (Note VI). In Versailles ebbe agio di osservare i costumi de’ cortigiani e di dipingerli al vivo; essi stessi contribuirono talora colle loro notizie ad arricchire il suo tesoro comico.

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Intorno a’ caratteri diversi delle sue favole è d’avvertirsi che egli da prima accomodò i suoi lavori al gusto dominante per le commedie d’intrigo; ma poichè ebbe acquistato maggior credito, si rivolse da buon senno a ritrovare il ridicolo ne’ costumi correnti. Dipinse a maraviglia i petits-maîtres francesi divenuti ognora più ridicoli col passarne la caricatura nelle altre nazioni. Espose graziosamente alla derisione il pedantismo, l’impostura de’ medici, la ciarlataneria de’ falsi eruditi, l’affettazione delle donne preziose e delle pretese letterate, ed il difetto di una virtù troppo fiera ed intollerante.

Allo studio dell’uomo e della propria nazione Moliere accoppiò quello degli scrittori teatrali, e seppe approfittarsi delle loro invenzioni, non da plagiario meschino, ma da artefice sagace che abbellisce imitando. É incerto che in qualche scena del Borghiggiano Gentiluomo e del Tartuffo avesse avuta la mira alle Nuvole e al Pluto di Aristofane, come pretese Brumoy; benchè qualche remota rassomiglianza si scorga delle nominate favole greche con qualche tratto delle francesi. Ma è certo che sono imitazioni di Plauto l’Anfitrione e l’Avaro, e che i fratelli della Scuola de’ mariti sono modellati sugli Adelfi di Terenzio. Gli accidenti del velo nella medesima favola, e nel Siciliano, il Convitato di pietra, la {p. 50}Principessa d’ Elide, ed una parte della Scuola delle donne, si ricavarono dal teatro spagnuolo. Prese assai più dagl’ Italiani. Dallo Straparola trasse l’argomento ed alcune grazie della medesima Scuola delle donne. Varie scene ed astuzie di Scapino e di Sbrigani si trovano nelle commedie del Porta. Giorgio Dandino deriva da una novella del Boccaccio già dallo stesso Porta trasportata sulla scena. Il Dispetto amoroso è del Secchi. Lo Stordito è il Servo balordo de’ commedianti Italiani, e l’Inavvertito del Barbieri. Il Cornuto immaginario viene dalla favola Italiana intitolata il Ritratto. Il Tartuffo stesso fu preceduto dal Bernagasso degl’ Italiani, come attestò anche il Baile17. Ma si vuol notare che il Bernagasso ed il Tartuffo vennero dopo di due altri componimenti Italiani, ne’ quali si dipinse il carattere di un falso divoto, cioè dalla commedia latina del Vercellese Mercurio Ronzio De falso hypocrita & tristi, e dall’Ipocrito di Pietro Aretino, in cui nulla desidereresti per raffigurarvi il Tartuffo, se l’autore non avesse voluto nella sua favola aggruppare gli eventi che nascono da una somiglianza, e quelli di cinque coppie d’innamorati, le quali cose gl’ impedirono il rilevar {p. 51}tutti i tratti più vivaci di tal fecondo detestabile carattere sempre necessario di essere esposto alla pubblica derisione. Ora se gl’ Italiani ebbero il Bernagasso che rappresentarono anche in Francia, se ebbero eziandio l’Ipocrito del Ronzio e dell’Aretino, non comprendo come l’erudito sig. Palissot potè affermare nelle Memorie Letterarie che il Tartuffo non avea avuto modello in veruna nazione. E se tanti e tanti altri materiali e favole degl’ Italiani imitò o tradusse Moliere con felice riuscita, ebbe torto manifesto Giambatista Rousseau quando scrisse che Moliere nulla dovea agl’ Italiani, a riserba del modo di rappresentare pantomimico di Scaramuccia, e della commedia del Secchi, e del Cornuto immaginario. Da ciò si vede la difficoltà di esser critico e pensatore senza cognizione della storia.

Bisogna però mostrare maggiore ingenuità di codesti eruditi Francesi, e confessare che Moliere abbelliva le altrui invenzioni, accomodandole così acconciamente al suo tempo ed alla sua nazione, che quando non lavorava con fretta, gli originali sparivano sempre a fronte delle sue copie. Niuno al pari di lui possedeva l’arte di scoprire il ridicolo d’ogni oggetto: niuno mosse con più fortuna e destrezza la guerra agl’ impostori: niuno innalzò la poesia comica sino al Misantropo: niuno copiò più al vivo la natura seguendola da per tutto senza lasciarla {p. 52}prima d’ averne raccolti i tratti più rassomiglianti. Di quì venne quella verità di carattere che costituisce il maggior talento di questo grand’uomo, e che lo rende superiore di genio a tutti gli altri comici. La poca felicità notata da’ critici nello scioglimento delle sue favole; qualche passo dato talvolta oltre il verisimile per far ridere; alcuna espressione barbara, forzata, o nuova nella lingua, di che fu ripreso da Fénélon, La Bruyere e Baile; molte composizioni scritte per necessità con troppa fretta; la mancanza di vivacità che pretesero osservarvi alcuni Inglesi che ne copiarono qualche favola alterandola e guastandola a lor modo; tutte queste cose, dico, quando anche gli venissero con ogni giustizia imputate, dimostrerebbero in lui l’ uomo. Ma i sommi suoi pregi sino a quest’ora trovati coll’ esperienza inimitabili, lo manifestano grande a tal segno, che al suo cospetto diventano piccioli tutti i contemporanei e i successori. Si vide allora al maggior Cornelio succedere l’immortal Racine, e all’uno e all’altro qualche tragico del nostro secolo; ma dove è il degno successore di Moliere? Egli è ancor solo.

Mentre egli fioriva altri scrissero ancora farse e commedie; ma noi non ci arresteremo su quelle di Poysson, Montfleury, Boursault, Hauteroche, Champmelè, Vizè, Baron ed altri commedianti, i quali o ne {p. 53}composero in effetto o prestarono il nome a chi non volle comparire. Trarremo solo da questa folla di poca importanza il Pedante burlato piacevole commedia di Cirano di Bergerac, i Visionarj di Desmaret morto nel 1676 commedia in quel tempo stimata inimitabile, benchè non sia che una filza di scene di ritratti immaginarj cattiva e maltessuta, e i Litiganti di Racine imitazione delle Vespe di Aristofane uscita nel 1667, cui credesi di aver in qualche modo contribuito e Despréaux e Furetiere ed altri chiari letterati18.

Dicasi pur anche alcuna cosa delle commedie di Quinault scritte nel fiorir di Moliere. Contando egli nel 1653 il diciottesimo anno di sua età diede al teatro le Rivali favola tessuta alla spagnuola su di una deflorazione, sulla fuga di due donne rivali e sul loro travestimento da uomo, senz’arte, senza regolarità e senza piacevolezza. Nel 1654 produsse l’Amante indiscreto, ovvero il Padrone stordito, tratto, come dicemmo, dagl’ Italiani, commedia assai difettosa per condotta, per economia, e per arte di dipingere, e di molto inferiore all’Inavvertito del Barbieri ed assai più allo {p. 54}Stordito di Moliere. Riconobbero i Francesi nella di lui Commedia senza commedia recitata nel 1655 gran fertilità d’ingegno. Vi si figura che alcuni commedianti per mostrare i loro talenti rappresentino nel secondo atto una pastorale, nel terzo una commedia, nel quarto una tragedia della morte di Clorinda, nel quinto una tragicommedia decorata sull’innamoramento di Armida. La Mère coquette rappresentata con gran concorso nel 1664 è la migliore delle sue commedie, ma troppo lontana dal mettersi in confronto di quelle di Moliere. La dipintura di una Madre che si enuncia per civetta, mal corrisponde alla vera idea di tal carattere. Ella è una donna attempata, che si belletta e vuol passare alle seconde nozze; ma basta ciò per caratterizzarla per coquette? L’autore ebbe principalmente in mira di tesser la sua favola sul disgusto di due amanti procurato per furberia di una serva. Vi si vede, è vero, abbozzato il ritratto di un marchese stordito e impudente, come accennò Voltaire; ma non vi si trova la verità e la vivacità comica ch’ebbe poi tal carattere da Moliere. L’istesso Voltaire avendo riguardo a questa Mère coquette diceva che Moliere non trovò il teatro francese totalmente sfornito di buone commedie; e che quando questa si rappresentò, non avea egli prodotto i suoi capi d’opera. Egli in ciò s’ ingannò, come anche {p. 55}nel credere sì buona cotal favola. Non era uscito nel 1664 il Misantropo, ma le Preziose ridicole, la Scuola delle donne, la Critica di questa e l’Improvvisata di Versailles, ed assai più i tre primi atti del Tartuffo preceduti alla Mère coquette, aveano già enunciato ben degnamente Moliere e la buona commedia.

Tre altri comici rinomati si vogliono nominar con onore dopo Moliere, cioè Regnard, Brueys e Dancourt. Giovanni Francesco Regnard nato in Parigi nel 1674, secondo Voltaire, morì d’anni cinquantadue; ma l’autore del Calendario degli Spettacoli vuole che sia mancato di vivere nel 1710, e Palissot reca la di lui morte seguita nel 1709. Di genio allegro, giocondo e comico meritò, dopo lunghissimo intervallo, di occupare il secondo posto appresso Moliere. Il suo Giocatore si avvicina molto al gusto di quel gran comico. I Menecmi tratta da Plauto vien pregiata dagl’ intelligenti; ed è da notarsi che l’ autore la dedicò a Desprèaux contro di cui poi scrisse una satira, parendogli di non essergli stata dall’Orazio della Francia renduta tutta la giustizia. Il Legatario universale buona commedia d’ intrigo si distingue pel dialogo vivo e naturale. Il Distratto è piacevole per la bizzarria del carattere, ma il colore a me sembra troppo risentito, e vi si ammassano in tanta copia le distrazioni {p. 56}che si rende poco credibile. Il Goldoni introdusse questo carattere in una sua favola, facendolo comparire pochissime volte, come personaggio episodico, e le distrazioni non eccedettero nè in numero nè in istranezze, e la dipintura riuscì dilettevole e verisimile.

Davide Agostino Brueys, benchè morto nel 1723, passò la maggior parte della sua età nel secolo XVII, essendo nato in Aix nel 1640. Da teologo controversista divenne poeta comico non ispregevole, e conservò tra’ Francesi il gusto della vera commedia. Le Grondeur gli acquistò molto credito. Egli convisse con Palaprat per alcun tempo con molta intimità, e da lui fu ajutato nella nominata commedia. Diceva però colla maggior naturalezza del mondo, che il primo atto era tutto suo ed era eccellente, il secondo in cui Palaprat avea inserite alcune scene burlesche, era mediocre, il terzo che tutto apparteneva all’amico, era detestabile. Di lui è pure rimasta al teatro una imitazione dell’Eunuco di Terenzio intitolata il Mutolo. Egli abbellì ancora l’antica farsa dell’Avvocato Patelin19.

Florent Carton Dancourt nato nel 1661 o {p. 57}1662 e morto nel 1725 o 1726, fu un commediante di mediocre abilità, ed uno de’ buoni autori comici. Dialogizza con felicità e piacevolezza, se non che tal volta diventa affettato per voler essere concettoso. Riusciva principalmente nel dipingere le donne intriganti e i cavalieri d’industria, caratteri copiosi nelle nazioni opulente, i quali sanno così ben coprirsi di politezza e di onestà, che merita ogni applauso il delicato comico che sappia smascherarli e denunziarli graziosamente al pubblico. Il Cavaliere alla moda, il Cittadino di qualità, il Giardiniere galante, sono le di lui commedie più pregevoli. Tutte le sue favole vanno impresse in dieci volumetti, ma si stima che alcune sieno state pubblicate da autori anonimi sotto il di lui nome. Verseggiava languidamente, ma scriveva con vivacità in prosa.

Quanto alla Commedia Italiana fu sostenuta, dopo i Comici Gelosi, prima da una comitiva che rimase in Parigi fino al 1662 senza stabilimento fisso, poi da un’ altra più fortunata che alternava colla Compagnia Francese or nel teatro di Borgogna, or nel Picciolo-Borbone or nel Palazzo Reale. Sette anni dopo la morte di Moliere si unirono le due Compagnie Francesi nel Palazzo di Guenègaud, ed il teatro di Borgogna rimase alla sola Compagnia Italiana sino al 1697, quando d’ordine sovrano rimase chiuso. Per lo più essa rappresentava commedie {p. 58}dell’arte ripiene sovente di apparenze e trasformazioni per dar luogo alle facezie e alle balordaggini dell’Arlecchino. Nondimeno il teatro francese conserverà sempre grata memoria di Scaramuccia e della Commedia Italiana dove andava Moliere a studiare l’arte di rappresentar con grazia nelle situazioni ridicole.

CAPO IV.
Teatro Lirico Francese, e suoi progressi per mezzo di Lulli e Quinault. §

Aveano in Francia nel XVI secolo eccitato il gusto musicale i Concerti del poeta Antonio Baif, e più i balletti di Baltassarino seguiti da quelli del Rinuccini del XVII. Di assai cattivo gusto furono in seguito il balletto delle Fate del 1625, in cui, come si è detto, ballò Luigi XIII, e la festa della Finta Pazza mentovata da Renaudot fatta rappresentare nel Picciolo-Borbone nel 1645 dal cardinal Mazzarini. Due anni dopo egli stesso introdusse in corte l’opera Italiana chiamando da Firenze alcuni Cantanti che recitarono alla presenza del re l’Orfeo rappresentata in Venezia colla musica del famoso Zarlino. S’imitò {p. 59}poi la magnificenza dell’opera di Venezia nel 1650 coll’ Andromeda di P. Cornelio. Non fu che una mascherata in forma di balletto la Cassandra di Benserade eseguita nel 1651 in cui ballò Luigi XIV.

Faceva intanto il marchese di Surdeac rappresentare a sue spese nel castello di Neoburgo in Normandia il Toson d’oro; e l’abate Perrin tentava di fare un’ opera francese componendo in cattivi versi una pastorale posta in musica da Cambert cantata la prima volta in Issy nel 1659. L’anno seguente il Mazzarini fe rappresentare nel Louvre l’Ercole amante in italiano che a’ Francesi non piacque. Allora il Perrin vide ravvivarsi le sue speranze di fondare un’ opera francese, e nel 1661 compose l’Arianna ancor più infelicemente verseggiata; ma la morte del Mazzarini deluse tali speranze. Senza scoraggiarsi compose la pastorale Pomona, e l’ applauso che ne riscosse, l’animò a chiedere al sovrano la facoltà di stabilire un’ opera francese, ed ottenutene nel 1669 le lettere patenti si associò con Cambert per la musica e con Surdeac per le decorazioni, e per otto mesi nel 1671 continuò a cantarsi in Parigi l’opera di Pomona. Col pretesto poi di avere anticipato molto danaro Surdeac s’impossessò della cassa, cacciò via il Perrin e si valse del Parigino Gabriello Gilbert che compose le Pene e i Piaceri di Amore rappresentata nel 1672 {p. 60}colla musica di Cambert. Questi furono i deboli principj dell’opera francese, che dopo qualche anno per mezzo del Fiorentino Giambatista Lulli passato in Francia e del Quinault, fu portata nata appena all’eccellenza.

Lulli famoso violinista, maestro di musica e poi segretario del re di cui ebbe in seguito tutto il favore sino alla sua morte, fece tosto sentire la superiorità del suo ingegno e con alcune arie di balletti composti pel re e colla musica posta ad alcuni versi di Quinault nella tragedia balletto di Psychè. Per buona sorte e gloria della scena musicale francese Lulli favorito da madama di Montespan ottenne dal Perrin con una somma considerevole la cessione del privilegio, e nel medesimo anno preso per socio il Vigarani machinista del re diede le Feste di Amore e di Bacco opera composta di molti balletti. Morto Moliere nel 1673 Lulli ottenne la sala del Palazzo Reale, dove nell’aprile di quell’anno stesso comparve la prima opera di Quinault Cadmo ed Ermione. I Francesi ammirandone la versificazione tanto superiore a quella del Perrin, non avrebbero voluto trovarvi la mescolanza del burlesco introdotta nella Pomona.

L’anno seguente si rappresentò Alceste, ovvero il Trionfo di Alcide, in cui le scene di Lica e Stratone si appressano non poco {p. 61}al burlesco. La varietà delle decorazioni in diversi luoghi della terra e dell’inferno unita alla facilità armoniosa dell’espressioni apprestò al genio incomparabile di Lulli tutta l’opportunità di manifestarsi. Egli è vero che un viluppo condotto con tanta libertà riesce assai più facile a tessersi e a snodarsi che un’ opera istorica incatenata al comodo della musica e alle leggi del verisimile; ma il sapere scerre e interessare, come fe molte volte Quinault, nell’opera mitologica che non ha freno, merita distinta lode. I di lui contemporanei notarono nell’Alceste più di un difetto. Al loro intendere il poeta Francese avea guastato l’argomento greco senza approfittarsi del più bello dell’Alceste di Euripide, ed aggiugnendovi episodj che converrebbero ad ogni favola e che non hanno un legame necessario col fatto della moglie d’Admeto.

Nella tragedia di Teseo cantata nel 1675 è teatrale l’ angustia di Egle nella scena quarta dell’atto IV, che per salvar la vita a Teseo promette a Medea di sposare il re e rinunziare all’amore di Teseo; come ancora nella scena quinta è delicato lo sforzo di Egle stessa per apparire infedele e far credere a Teseo che più non l’ami.

Ati recitata nel 1676 dee reputarsi una delle favole più interessanti di Quinault. Vi si trova la solita varietà delle decorazioni mitologiche, ma accompagnata da alquanti {p. 62}colori patetici e vigorosi degni del tempo di Metastasio. Serva prima di esempio la bella scena sesta dell’atto primo di Sangaride ed Ati, di cui diamo la traduzione, pregando i leggitori a compiacersi di consultare l’ originale:

Ati.

Sangaride gentil, de’ giorni tuoi
Il più bel giorno è questo.

Sangar.

A te del pari
Che a me concesso è il vanto
Di apprestar del gran dì sacro a Cibele
Il festivo apparato.

Ati.

È ver, ma a questo
Che dividi con me, l’onor tu accoppj
D’esser d’un gran regnante oggi consorte.
Oh del re rara sorte!
Mai sì vaga e sì lieta io non ti vidi!

Sangar.

Ati però così d’amor nemico
Della sorte del Re non fia geloso.

Ati.

Lieti vivete; i voti miei fur questi,
Così bel nodo i strinsi, i vostri amori
Io secondai . . Ah de’ tuoi dì felici
Questo il più glorioso
Sarà del viver mio l’estremo giorno.

Sangar.

Numi!

Ati.

Il funesto arcano
A te sola confido: ho finto assai:
A chi di vita ormai
Non riman che un momento,
Il simular che giova il suo tormento?
{p. 63}

Sangar.

Io fremo; il mio timor deh rassicura,
Ati, per qual sventura
Morir tu dei?

Ati.

Tu stessa
Condannarmi dovrai,
Morir mi lascerai.

Sangar.

Io? per salvarti
Tutto armerò tutto il poter supremo . .

Ati.

Vano soccorso! a superar me stesso
Mi manca ogni valore:
Per te senza speranza ardo d’amore.

Sangar.

Che? Tu!

Ati.

Pur troppo è ver.

Sangar.

M’ami?

Ati.

T’adoro;
Te ’l dissi già, condannerai tu stessa
Il mio foco il mio ardire,
Mi lascerai morir. Castigo io merto,
Un rival generoso,
Un mio benefattor pur troppo offendo.
Ah ma l’offendo invan, d’amore è degno,
E tu a’ meriti suoi giustizia rendi.
Oimè! questo è dolore!
Confessar che un rival degno è d’amore!
Senza ritegno il mio morir decreta.

Sangar.

Oh Dio!

Ati.

Sospiri? . . . piangi?
La mia fiamma funesta
Forse qualche pietà nel sen ti desta?

Sangar.

Ati, la sorte tua di pianto è degna,
E pur tutta non sai la tua sventura.

Ati.

Ah se ti perdo, ah se a morir son presso
Che mi resta a temer?

Sangar.

Perdere è poco
{p. 64}
L’oggetto del tuo foco:
Ciò che pianger tu dei
È che mi perdi, e l’idol mio tu sei!

Ati.

Io? ciel che ascolto! M’ami tu, mio bene?

Sangar.

T’amo, e lo stato tuo peggior diviene20.

Io convengo co’ Francesi che questa scena sia sì bella e delicata che in tutta l’opera altra non se ne legga che la faccia dimenticare. Ma non mi sembra poi vero che tutto il rimanente cada per ciò, bastando a sostenerlo diverse situazioni. Nell’atto terzo ne mantiene l’interesse la scena in cui Ati divenuto Gran Sacrificatore si dimostra poco sensibile a’ favori della fortuna, e nel sentire che Sangaride piange pel suo imminente imeneo e pensa a palesare il proprio amore, Ati con poche voci mostra lo stato del suo cuore,

Je souhaite, je crains, je veux, je me rèpens.

Delicato nell’atto quarto è il lamento di Sangaride. Ella volle nel precedente atto {p. 65}manifestare a Cibele l’amore che ha per Ati, e questi l’interruppe perchè non si esponesse al furore della dea svelando l’arcano. Ciò ella attribuisce all’infedeltà di Ati, e dice,

Hélas! j’aime un perfide
Qui trahi mon amour;
La Déesse aime Atys; il change en moins d’un jour;
Atys comblé d’honneur n’aime plus Sangaride.

Ati poi dal poter della dea renduto furioso rassomiglia l’Agave degli antichi tragici, e trafigge Sangaride più non conoscendola. La dea crudele gli rende la ragione nel quinto atto, ed egli conosce l’eccesso ove ella l’ha spinto,

Quoi! Sangaride est morte! Atys est son bourreau ecc.

e si uccide alla presenza di lei che pentita si duole di non poter morire, ed Ati allora dice spirando,

Je suis assez vengé, vous m’aimez, & je meurs.

Queste patetiche situazioni tengono svegliato lo spettatore in questa favola, e ne formano {p. 66}la vera bellezza; là dove il lavoro mitologico ne forma una specie di distrazione. Gli zeffiri in gloria, i sogni piacevoli ed i funesti danzanti intorno ad Ati addormentato, le divinità de’ fiumi e delle fontane che ballano e cantano, i voli, la trasformazione di Ati in pino, erano cose buone quando non si conosceva il melodramma Metastasiano; esse potevano occupare tutti gli occhi, ma non tutti i cuori.

Iside è la favola della figlia d’Inaco perseguitata da Giunone, e fatta tormentare dall’Erinni d’ogni maniera. Giove intercede per Io, e giura al fine di non amarla più purchè cessi di patire. Giunone caccia allora la furia nell’inferno, ed Io sotto nome d’Iside diventa immortale. Vi si vede il solito uniforme ammasso di personaggi allegorici, e la trasformazione di Siringa in canna, di Jerace in uccello di rapina, d’ Argo in pavone. Pur vi si osserva una bella scena di Jerace ed Io. L’amante si lamenta della di lei freddezza che gli sembra incostanza, la Ninfa si discolpa dicendo di temere un presagio funesto, e Jerace ripiglia:

Répondez-moi de vous, je vous répons des dieux.
Vous juriez autrefois que cette onde rebelle
Se feroit vers sa source une route nouvelle
{p. 67}
Plutôt qu’ on ne verroit votre coeur dégagé.
Voyez couler ces flots dans cette vaste plaine,
C’est le même penchant qui toujours les entraîne;
Leurs cours ne change point, & vous avez changé &c.

Questa osservazione è tenera e vera e da preferirsi al pensiero ricercato d’ Ovidio Xante retro propera &c. Il monologo e i lamenti di Jerace sono stati meritamente comendati da Marmontel21.

{p. 68}

Nel Fetonte rappresentato nel 1683, nell’Amadigi il cui soggetto fu dato al poeta dallo stesso sovrano nel 1684, e nel Tempio della Pace balletto e nell’Orlando tragedia che si cantarono nel 1685, si ripetono le decorazioni delle altre favole interrotte talvolta da qualche scena interessante.

Ma il capo d’opera del teatro lirico francese si rappresentò nel 1686. L’ Armida tratta dal gran poema di Torquato più felicemente che l’Orlando dal gran poeta Ariosto, fu il melodramma più fortunato di Quinault, in cui egli trionfò come poeta, Lulli come gran maestro di musica, e Rochois come attrice. L’azione si rappresenta ora in Damasco, ora in una campagna con un fiume che forma un’ isola, ora in un deserto oltre l’oceano, o nel palazzo incantato d’Armida. Con Idraotte, Rinaldo, Armida ed altri personaggi reali intervengono gli allegorici l’Odio, la Vendetta, la Rabbia, le Furie, i Demonj, i Piaceri.

Nell’atto I si vede la disposizione dell’animo di Armida contro Rinaldo: l’ applauso ch’ella riscuote per tanti cavalieri cristiani da lei imprigionati: la vendetta che medita contro Rinaldo che gli ha liberati. Nel II Idraotte ed Armida dispongono le loro insidie contro il nemico guerriere. Rinaldo arriva appunto nella campagna ove son tese, ed incantato dalla delizia del luogo si discinge parte dell’arnese. Vaghi ed {p. 69}armoniosi sono i versi che dice:

Plus j’observe ces lieux, & plus je les admire.
Ce fleuve coule lentement,
Et s’éloigne à regret d’un sejour si charmant . . .
Un son harmonieux se mêle aux bruit des eaux;
Les oiseau enchantez se taisent pour l’entendre.

Tutto ciò è detto con leggiadria, ma con poca verità; per un poeta lirico è bello, per un personaggio drammatico è falso. È vero che diletta un fiume che placido e lento irriga i campi, è vero che incanta il mormorio armonioso delle acque: ma non è vero che il fiume con rincrescimento si allontana da quel soggiorno, anzi non è vero che se ne allontana; nè anche è vero che gli augelli tacciono per udire il gorgoglio delle acque. Il drammatico ciò dee sempre mitigare almeno con un sembra. Rinaldo si addormenta e Armida gli si avventa con un dardo ma non ferisce. La sua esitazione è bene espressa; la sua avversione si dissipa; desidera di renderlo suo amante; ordina a’ demonj che la trasportino con Rinaldo au bout de l’univers. Tutto ciò chiama l’attenzione; ma l’atto III è quasi tutto fantastico e miracoloso, e gli osservatori di {p. 70}buona fede confesseranno che il dialogo dell’Odio con Armida è per lo spettatore ciò che è un sogno per chi è sveglio. Se l’apparenza sarà eseguita con qualche grazia, tratterrà l’uditorio senza noja ma senza persuadere nè commuovere: se l’esecuzione sarà debole, si corre rischio di coprir la favola di ridicolo. L’azione già intepidita nel III con gli esseri allegorici, in tutto l’atto IV diviene vieppiù fredda e nojosa per le apparizioni delle donne di Ubaldo e del Danese, ed i Francesi stessi non disconvengono. Nel V si vedono benchè in iscorcio i vaneggiamenti de’ due amanti, la sorpresa di Rinaldo al raffigurare nello scudo incantato la propria mollezza, la sua deliberazione di partire, l’arrivo e gli sforzi d’Armida per trattenerlo, il suo svenimento, la partenza de’ guerrieri, i pianti disperati della maga. Tutto ciò nulla ha di mitologico, ed è quello appunto che commuove ed interessa, e che il Marmontel e chi l’ha seguito in encomiar Quinault, non par che abbiano saputo osservare. A ciò si aggiunga che l’Armida è l’opera meno caricata di machine ed apparenze, e pure riuscì pienamente ad onta dell’atto IV. Sono dunque le machine spettacolo di un momento che non basta ad appagare l’uditorio. É l’ interesse dell’azione, è la verità degli affetti, è la felice combinazione delle situazioni che costituisce la vera bellezza del melodramma.

{p. 71}

Dopo l’Armida Quinault rinunziò al teatro, e Lulli ricorse a Campistron, che fece per lui Aci e Galatea rappresentata pochi mesi dopo, e piacque al sommo. L’istesso poeta indi compose Achille e Polissena; ma Lolli infermossi dopo aver fatta la musica dell’atto primo, e l’apertura, e Colasse compose il rimanente. Lulli morì di tal malatia nel 1687 contando 54 anni di età. Quinault gli sopravvisse un solo anno e cessò di vivere d’anni 53 nel 1688.

Vivendo questi due genj insigni nel tempo stesso, parve l’uno nato alla gloria dell’altro. L’eleganza, le grazie dello stile, la facilità dell’ espressione, l’armonia del verso di Quinault, davano ampio campo agli slanci mirabili dell’ingegno e del gusto del musico: la sagacità, la proprietà, la delicatezza, la forza delle note di Lulli, l’arte ch’egli possedea di concertar le parti di una grande orchestra, svegliavano l’ estro, le immagini, l’eloquenza del poeta. Da una banda la storia ci dimostra che Lulli riconosceva la superiorità di Quinault nel verseggiare e nello scerre e disporre i suoi piani22. Dall’altra banda la stessa storia {p. 72}ci addita che Quinault prima di collegarsi con Lulli avea cento volte corso l’aringo teatrale senza potere schermirsi da’ morsi di Boelò. Lulli all’opposto tutto dovendo a se stesso, tutti a suo favore raccolse i voti de’ Francesi, i quali confessano di doverglisi tutta la delicatezza della musica e la maravigliosa proprietà del canto. Lulli operava colle sue note i medesimi prodigj ancor quando non componeva sulle parole di Quinault, il che ben si vide nel mettere in musica tanto il Bellerofonte del Cornelio nel 1679, quanto l’Aci e Galatea del Campistron applaudita sommamente nel 1687 dopo la stessa Armida. Lulli anche prima di ottenere il privilegio del Perrin avea mostrata la rarità de’ suoi talenti ne’ balletti da lui stesso composti ed in quelli di Moliere. Lulli finalmente serviva di scorta alla poesia di Quinault, avendogli mostrato in qual guisa debba il poeta recidere il superfluo e render semplici e facili i proprj soggetti per accomodarli alla scena musicale. Ecco in fatti ciò che narrasi del modo che tenevano Lulli e Quinault nel formare un’ opera23. Scelto che avea il sovrano uno de’ {p. 73}proposti argomenti, il poeta dava a Lulli la copia del piano eletto, perchè in esso andasse disponendo i balli, le canzonette e i divertimenti. Componeva in seguito Quinault le scene, e le mostrava o all’Accademia o a’ suoi amici Boyer, e Perrault24. Dalle mani de’ letterati passavano a quelle del musico, il quale non le ammetteva se non dopo l’esame ch’egli ne faceva parola per parola25, e talora ne risecava la metà, nè contro del suo decreto si concedeva appellazione. Quinault tornava a scrivere la scena criticata cercando di soddisfare al maestro. Lulli allora metteva tale attenzione alle parole che leggendo più volte la scena recatagli la mandava a memoria, la cantava al cembalo e vi faceva un basso continuo. Egli ne riteneva la cantilena senza errarne una nota e venendo poscia l’Alouette o Colasse gli dettava ciò che avea composto, nè il giorno dopo se ne ricordava. Egli copriva le sue cantilene d’istromenti quando non avea ricevuta scena veruna dal poeta. Così concorrevano entrambi questi rari ingegni a stabilire l’opera in Francia. Ma ci si permetta di aggiugnere che Quinault {p. 74}fu rimpiazzato da alcuni scrittori, i quali composero dopo di lui opere francesi di felice riuscita; ma Lulli ugualmente che Moliere non ebbe un degno successore nel teatro lirico che ne compensasse la mancanza26.

{p. 75}

CAPO V.
Tragedia Francese nel secolo XVIII. §

Decadendo l’arte de’ Sofocli in Italia, e perdendosene le tracce nelle Spagne per l’intemperanza della scuola Lopense, mentre Cornelio e Racine l’ inalzavano in Francia sì presso al punto della perfezione, una folla di loro imitatori seguendogli sempre senza raggiugnergli ne ripetevano i difetti più che le bellezze negli ultimi lustri del secolo XVII e ne’ primi del XVIII. Racine singolarmente che avea scoperto il miglior cammino e prodotto l’Atalia, il capo d’opera della tragedia francese, senza avvilirla colla galanteria, avea cominciata un’ Ifigenia in Tauride, nel cui piano non entravano amori. Ma egli lasciò le occupazioni teatrali prima di depurarle del tutto, e la scena francese dopo di lui si riempì della morale dell’opera di Quinault27. Alcibiade (aggiugne l’istesso scrittore) {p. 76}Amestri, un Agnonide, il feroce Arminio, Amasi, un principe Persiano nell’Atenaide, prendono il tuono effemminato de’ romanzi di madamigella Scudery che dipingeva i borghiggiani di Parigi sotto il nome degli eroi dell’antichità. L’epoca de’ Virgilj, de’ Raffaelli, de’ Tassi, de’ Metastasj, de’ Pergolesi, suole essere seguita da una numerosa oscura prole della nojosa mediocrità. Ma la natura ha bisogno di riposo dopo aver prodotto un ingegno raro.

In tal periodo non per tanto qualche buon talento mostrò d’intendere l’arte della tragedia senza appressarsi a’ gran modelli. Giovanni Campistron nato nel 1656 e morto nel 1723 scrisse diverse tragedie, che non cedono per regolarità a quelle di Racine, esse furono anche bene accolte nella rappresentazione a riserba di Virginia e di Pompea le quali caddero; il suo Andronico ed il Tiridate restarono al teatro. Ma la lettura riposata è la pietra di paragone de’ drammi, ed essi non passano alla posterità quando mancano di stile, di lingua, di buona versificazione, d’interesse; ed in quelli di Campistron si desidera forza, calore, ed eleganza.

Diedero allora qualche passo nella poesia tragica Riouperoux autore di un’ Ipermestra: La Fosse che della Venezia salvata di Otwai formò il suo Manlio Capitolino trasportando agli antichi Romani il fatto recente della {p. 77}congiura di Bedmar contro Venezia, e che compose anche una Polissena tragedia regolare: La Grange Chancel nato nel 1678 e morto nel 1758 che scrisse varie tragedie in istile trascurato e debole con viluppo romanzesco e tralle altre un Amasi rappresentato nel 1701, argomento della Merope trasportato nell’Egitto, in cui anche regna la molle galanteria28.

A questa mollezza universale seminata nelle tragedie francesi volendo rimediare Longepierre compose una Elettra tutta sul gusto della greca tragedia, semplice, senza episodj, senza sfigurarne il tragico soggetto con un freddo intrigo amoroso. Ciò finì di corrompere il tragico teatro francese. Longepierre non lavorava con diligenza i suoi versi, non si elevava per lo stile, non conosceva il teatro francese, e la sua tragedia cadde ed annojò. I Francesi si confermarono nella credenza di esser passata la moda della greca semplicità, attribuendo al gusto di essa l’effetto della debolezza del Longepierre.

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In tale stato trovavasi in Francia il tragico teatro, quando cominciarono a fiorire La Motte, Crebillon e Voltaire, ne’ quali ravvisiamo caratteristiche diverse, merito disuguale e difetti contrarj.

Antonio Houdard La Motte nato nel 1672 e morto nel 1731 era veramente uomo d’ ingegno, erudito, e non indegno di essere ricordato con lode; sebbene al dire di M. Palissot egli volle contraffare Omero, Anacreonte, Virgilio, La Fontaine e Quinault, come la scimia contraffà l’uomo, e sostituì al naturale e al delicato e al grazioso l’arte, il bello-spirito, ed il parlar gergone. Nelle quattro sue tragedie i Macabei, Romolo, Edipo, Inès de Castro, poco felicemente verseggiate e difettose nella lingua29, gl’ imparziali riconoscono merito ed interesse.

Osservasi ne’ Macabei una locuzione corrispondente al soggetto, sublime talora e ricca di nobili sentimenti, e lontana dalla generale affettazione di stile da’ Francesi adottata nelle tragedie. Le passioni son dipinte con vivacità; ma l’azione sembra difettosa. {p. 79}In fatti l’eccidio de’ Macabei che avviene nell’atto primo, eccita tanta commozione che fa comparire languido il rimanente. Salmonea modello certamente di virtù eroica è personaggio ozioso sino all’ atto quinto. La condotta della favola merita riprensione per certi racconti intempestivi, per qualche soliloquio puramente narrativo, e per la poca corrispondenza del tempo della rappresentanza con quello degli evenimenti.

Lo stile del Romolo si risente più della precedente del difetto generale delle tragedie francesi, cioè vi si scorge più copia delle stesse espressioni poetiche solite a praticarsi da’ Francesi e più lontane dalla natura. Non può riprendersi che Romolo venga dipinto come innamorato a differenza de’ suoi soldati che altro non cercano che una donna; ma al conte di Calepio sembra incredibile il di lui amore perchè nato tra’ continui dispregi di Ersilia. Più fondatamente però se ne riprende la maniera di amare. Tante lagrime, tanta sofferenza, tanta angoscia sembrano convenire più ad un innamorato francese del tempo di Artamene, che ad un Romolo eroe, guerriero, fervido, feroce. Non è poi verisimile che Tazio vegga di lontano scintillare i pugnali nel volersi trucidar Romolo, troppo spazio dovendo correre trallo sfoderarsi i ferri ed il trafiggerlo. Ersilia che nell’atto terzo dice da parte di avere scritto il biglietto, manifesta {p. 80}mancanza di arte nel poeta, ed oltre a ciò con poca verisimiglianza e ragione i versi ch’ella profferisce si sentono benissimo dagli spettatori, e non da Romolo.

Nel 1726 La Motte volle produrre un Edipo30 per avventura non contento di quelli del Cornelio e del Voltaire. In effetto egli purga quest’argomento tanto dell’ episodio degli amori di Teseo e Dirce, alieni dall’avventura di Edipo, introdotto con mal consiglio dal padre del teatro francese, quanto di quello non meno eterogeneo della galanteria di Filottete che con rincrescimento si legge nell’Edipo del Voltaire. La Motte provvidamente corregge pur anco la favola greca dell’inverisimile ignoranza di Edipo intorno alle circostanze della morte di Laio. Egli però ne tolse ogni utilità col rendere Edipo pienamente innocente nell’ammazzamento del re di Tebe. Dividendo poi la riconoscenza rende meno maravigliosa la rivoluzione, ed incorre nel difetto del Voltaire. Nè anche si riconosce come vantaggioso alla favola il miglioramento de’ caratteri di Eteocle e Polinice contro l’idea lasciatacene dagli antichi. {p. 81}Qual pro da un cangiamento che mena il poeta a lottare colle opinioni radicate negli animi di chi ascolta, e per conseguenza a rendere poco interessante perchè non credibile la loro generosità verso del padre? Sarebbe lecito introdurre Achille dandogli costumi di Tersite, ovvero Ascanio o Astianatte che combattesse con Diomede o Ajace?

La più applaudita delle sue tragedie fu senza dubbio l’Inès de Castro mai sempre ben accolta dal pubblico; nè è da dubitarsi dell’ asserzione del suo autore che niuna tragedia dopo il Cid siasi rappresentata in Francia con più felice successo, avendosene un testimonio glorioso nell’ approvazione che ne diede M. de Fontenelle nel 1732 quando si volle imprimere, j’en ai jugé comme le public. Non saprei dire se La Motte nel comporla avesse avuto presente qualche modello in tale argomento; so però che oltre al poema di Camoens si maneggiò in Lisbona dal Ferreira, ed in Castiglia dal Bermudez e da Mexia de la Cerda, benchè al cospetto della Inès francese spariscano tutte le altre. Lo stile della Inès generalmente è migliore di quello del Romolo; ma essa non ha nè la versificazione, nè l’eleganza, nè la poesia, nè l’abbondanza, nè la grandezza, nè la delicatezza de’ sentimenti di Racine. Esposta questa tragedia alle critiche talvolta giuste, spesso maligne de’ semidotti {p. 82}e de’ follicularj invidiosi, ha non per tanto sempre trionfato su i teatri per le interessanti situazioni ben prese e ben collocate di sì patetico argomento. Oltre a ciò che suggerì all’autore la nota sventura d’Inès, egli ne ha renduta vie più lagrimevole la morte, facendo che ottenuta da Alfonso compunto la sospirata grazia ella si trovi impensatamente avvelenata. I plagiarj di professione copieranno questo colpo teatrale del veleno che impedisce il frutto dell’impetrata grazia, ma se non sanno preventivamente commuovere con situazioni e quadri vivaci, che cosa in fine essi si troveranno fralle mani? l’arida spoglia di un serpente che rinnovandosi la depone e si allontana. Riconosce il Calepio in questa favola pregi assai superiori alle sue imperfezioni: ma non lascia di notarvi certa mancanza d’unità d’interesse, che La Motte nelle sue prose ostentava. Alfonso ed Inès ne hanno uno particolare non pur diverso ma opposto che solo nel fine si ricongiunge. Contro il tragico artificio (dice ancora) le belle doti di Costanza distraggono alquanto dall’attenzione che debbesi a quelle d’Inès. Riprende altresì di sconvenevolezza ciò che dice la Reina nella scena quarta dell’atto primo, cioè che all’arrivo di Don Pietro in corte i di lui occhi distratti altro non vi cercavano che Inès; sembrandogli ciò poco verisimile in un marito possessore {p. 83}da più anni dell’oggetto amato. Ma quest’ultima censura avrà poco peso per chi rifletta che Don Pietro è un marito per ipotesi del poeta tuttavia fervido amante, il quale gode fra mille pericoli e sospetti il possesso dell’amata, ciò che dee mantener sempre viva la sua fiamma.

M. Crebillon nato in Digione l’anno 1674 e morto in Parigi nel 1762 è il primo tragico Francese che in questo secolo possa degnamente nominarsi dopo P. Cornelio e Racine. La sua maniera si distingue da quella dell’uno e dell’altro. Crebillon non eleva gli animi quanto Cornelio, non gl’ intenerisce quanto Racine; ma gli spaventa con certo terrore tragico assai più vero e con un forte colorito tutto suo. Lontano dalla grandezza del primo non meno che dalla delicatezza ed eleganza armoniosa del secondo, egli non cade però nè nell’enfatico di quello, nè nell’elegiaco di questo. La sua immaginazione piena di forza, di calore e di energia, ma talvolta troppo nera, lo scorge non di rado nell’aspro e nell’inelegante ed in certe costruzioni oscure, per non dirle barbare col Voltaire. Imita spesso i Greci, e se ne appropria molte bellezze; ma le sue favole assai più complicate delle più ravviluppate delle Greche, rendono talora difficile il rinvenirvi l’unità di azione; potrebbero ancora notarvisi varie {p. 84}allegorie, apostrofi, perifrasi poco proprie della scena e della passione. In compenso i suoi caratteri mi sembrano pennelleggiati con molta vivacità. Soprattutto è mirabile e veramente tragico quello di Radamisto nella tragedia che ne porta il nome: il suo Pirro è più grande ancora del Pirro della storia: grande, feroce, malvagio, ambizioso e politico profondo si manifesta maestrevolmente il suo Catilina, benchè non a torto da Federigo II re di Prussia in una lettera scritta a Voltaire nel febbrajo del 1749 venga tutta la tragedia ripresa per trovarvisi sfigurata la repubblica Romana ed il carattere di Catone e di Cicerone: Atreo, Tieste, Farasmane, Palamede sono dipinti con tutto il vigore.

Ciò che nell’Elettra riguarda la vendetta di Agamennone è trattato gravemente e con molta forza: ma quanto impertinenti son poi in tale argomento l’amor di Oreste, e quello di Elettra! Contrario è l’amor di Elettra all’idea del di lei carattere tramandatoci dagli antichi: intempestivo e senza connessione è quello di Oreste per la figliuola di Egisto.

Non per tanto l’Elettra e la Semiramide si reputano dal medesimo re di Prussia tragedie de toute beauté al pari del Radamisto. A noi, oltre a ciò che abbiamo detto dell’Elettra, non sembra la Semiramide una {p. 85}delle migliori tragedie del Crebillon. Belo in essa è un traditore senza discolpa enunciato come virtuoso. Egli, non sapendo se Ninia viva, machina la rovina della propria sorella, cui, mancando il di lei figliuolo, apparterrebbe il trono. Questa Semiramide poi mal rappresenta la maschile attività e il valore attribuito dalla storia alla famosa conquistatrice reina degli Assirj. A vista della manifesta ribellione de’ suoi ella dimostrasi così inetta, che non sa prendere verun partito per la propria salvezza.

Nel Serse si desidera ancora più decoro e più uguaglianza ne’ caratteri. Serse par che avvilisca il padre ed il monarca nell’ adoperarsi in pro di un figlio favorito per sedurre una principessa innamorata dell’altro figlio da lui non amato. Artaserse nella stessa favola è un carattere incerto, e più di uno lo reputerà stolto o maligno nel giudicar suo Fratello. Stolto o maligno parimente (contro l’intenzione dell’autore) sembra lo stesso Consiglio di Persia, che condanna Dario alla morte senza punto sospettare di Artabano, il quale per mille indizj risulta reo dell’ammazzamento di Serse al pari di Dario. Queste osservazioni non debbono gran fatto diminuire la meritata riputazione di ottimo tragico acquistata dal robusto Crebillon, che pure, come accenna il Voltaire, si vide tal volta in procinto di {p. 86}morir di fame31; possono però additarci la difficoltà di giugnere alla perfezione nella tragica poesia. L’ultima sua tragedia fu il Triumvirato che ha varj pregi, ma che si rende singolarmente degna di ammirazione per essere stata scritta trovandosi l’autore in età di anni ottantuno.

L’altro insigne tragico di cui può vantarsi la Francia nel nostro secolo, è il celebre Francesco Maria Arouet di Voltaire, la cui gloria niuno de’ suoi contemporanei sinora ha pareggiata, non che adombrata. Dee a lui il coturno non solo varie favole degne di mentovarsi al pari del Cinna, dell’Atalia e del Radamisto, ma una poetica piena di gusto e di giudizio, talora superiore a molte sue favole stesse, sparsa nelle sue opere multiplici e nell’edizione che fece del teatro di Cornelio. La prima direzione letteraria avuta da’ gesuiti Tournemine, Le Jay e Porée, l’amistà dell’ altro dottissimo gesuita Brumoy gl’ inspirarono l’amore della bella letteratura greca e romana; le opere del Crebillon, e gli applausi che ne riscoteva, gli diedero i primi impulsi ad entrare nella tragica carriera32. Non ancora {p. 87}avea letto l’Edipo di Cornelio33, contando appena nel 1718 anni diciannove della sua età34, quando scrisse e pubblicò il suo Edipo. Il pubblico l’accolse con applauso e si recitò quarantacinque volte di seguito, rappresentando il personaggio di Edipo il giovane Du Frene che poi divenne assai celebre attore, e quello di Giocasta la valorosa attrice Desmarés. Non ci curiamo di ripetere nojosamente o quanto l’autore scrisse in più lettere nel 1719 criticando l’Edipo di Sofocle, quello di Cornelio ed il proprio, o ciò che in una edizione del suo Edipo del 1729 scrisse contro M. de la Motte. Ci basti dire che Voltaire conservò molte bellezze della greca tragedia, che non seppe scansarne alcune durezze nella condotta della favola, e che l’amoroso episodio di Teseo e Dirce da lui stesso riconosciuto per inutile e freddo nell’Edipo del Cornelio, non bastò a fargli evitare l’antica galanteria di Filottete colla vecchia Giocasta.

La Marianna pubblicata nel 1723 ebbe {p. 88}alla prima un successo poco felice. Il famoso Michele Baron già vecchio che sostenne il carattere di Erode, Adriana le Couvreur insigne attrice che rappresentò quello di Marianna, le due persone che compresero tutta l’energia di una vivace rappresentazione naturale, e che insegnarono la prima volta in Francia l’arte di declamare senza la solita istrionica affettazione, non bastarono a farne soffrire sino alla fine la rappresentazione. L’uditorio ravvisò non so che di ridicolo nel veleno presentato a Marianna in una coppa. L’autore nel seguente anno cangiò questo genere di morte in quello con cui il Dolce in Italia fece morir questa reina, e la tragedia si rappresentò quaranta volte. Giambatista Rousseau fece allora anch’egli una Marianna, che fu l’origine della lunga contesa ch’ebbe con lui il Voltaire. La Marianna Volteriana non è senza difetti. Qualche durezza nella condotta dell’azione ci fa vedere in lui un’ arte non ancora perfezionata. La dichiarazione di amore fatta da Varo nella scena quarta dell’atto II con tanta poca grazia e fuor di tempo, cioè mentre la reina è in procinto di tutta abbandonarsi alla di lui fede, fa torto al carattere enunciato dell’uno e dell’altra. Innamora non per tanto ed interessa il magnanimo carattere di Marianna. La quarta scena dell’atto IV tra Erode e Marianna mostra egregiamente il {p. 89}bel contrasto degli affetti di uno sposo pieno di sospetti e di crudeltà ma sensibilissimo ed innamorato, e di una consorte la di cui virtù non si smentisce mai. La nobile e patetica preghiera che gli fa Marianna Prenez soin de mes fils &c., è maestrevolmente espressa. Viva e teatrale è parimente la scena seconda dell’atto V, in cui ella posta nel maggior rischio della sua vita sdegna di seguir Varo che vuol salvarla.

Giunio Bruto rappresentata la prima volta in Parigi nel 1730 fu composta in Londra e dedicata a milord Bolingbrooke. Gl’ Inglesi e gl’ Italiani la tradussero e rappresentarono; ma in Francia non ebbe felice successo sulle scene. L’azione vorrebbe essere meglio accreditata in qualche circostanza e si desidera spazio più verisimile agli eventi. Nella scena terza dell’atto V Bruto manda i Padri Coscritti e Valerio in Senato; ma nel corto intervallo, in cui si recitano quattordici versi, il Senato si è radunato, ha giudicati i ribelli, sono essi andati al supplicio, Tullia si è uccisa, Bruto è stato dichiarato giudice del figliuolo. L’incontro che ne segue sommamente tragico del colpevole Tito con Bruto, compie ogni aspettativa, vedendosi nella quinta scena dipinta egregiamente l’ umiliazione di Tito, e la severità di Bruto combattuta dalla paterna tenerezza. Tito confessa l’istante che l’ha perduto seguito da’ rimorsi vendicatori e {p. 90}cerca la morte, ma prostrato a’ suoi piedi gli domanda un amplesso. Ditemi (aggiugne) ditemi almeno, mio Figlio, Bruto non ti odia; basterà questa parola a rendermi la gloria e la virtù; si dirà che Tito morendo ebbe un vostro sguardo per mezzo de’ suoi rimorsi, che voi l’amavate ancora, che alla tomba egli portò la vostra stima. Questa preghiera lacera il cuore di Bruto. Oh Roma (egli esclama) oh patria! indi lo condanna e l’abbraccia35. Le poetiche di tutti i possibili Marmontel, i discorsi, le lettere, le infelici cartucce critiche meditate da’ pedanti nella loro povertà, non vagliono unite insieme quattro versi di questa scena.

Giva così il Voltaire avvicinandosi al {p. 91}Cornelio, al Racine, al Crebillon, mostrando però ne’ tratti del suo pennello una maniera a se particolare. Non gli manca alle occorrenze nè il sublime del creator del teatro francese, nè la seducente tenerezza del di lui elegante competitore, nè il maschio vigore tragico dell’autor dell’Atreo, e del Radamisto. Ma egli si fa distinguere per l’umanità, pel patetico, per la libertà che regna nelle sue tragedie36. Egli ancora colla dipintura de’ costumi e de’ riti religiosi delle straniere nazioni ha saputo animare e render nuovi i soliti contrasti delle passioni; e questa novità l’ ha preservato quasi sempre (sia ciò detto con pace de’ pedanti che {p. 92}asseriscono il contrario) dalla taccia imputata a’ suoi compatriotti di travestire tutti i personaggi alla francese. In fatti i Tartari e i Cinesi dell’Orfano della Cina, gli Arabi Musulmani e gl’ idolatri del Fanatismo, i Romani del Bruto e del Giulio Cesare, i Greci dell’ Oreste, si distinguono assai bene fra loro e da’ Parigini. Finalmente i suoi difetti medesimi sono diversi da quelli de’ lodati tragici. Non va nell’ampolloso del Cornelio, non nell’elegiaco del Racine, non nell’aspro e inelegante del Crebillon; ma cade nel brillante e nell’epico fuor di proposito.

La Morte di Giulio Cesare in tre atti divisa spogliata di ogni intrigo amoroso e piena di arditezze e di trasporti per la libertà fu composta dopo il 1730 e prima del 1735 quando s’impresse. Shakespear ed il duca di Buckingam in Londra, l’ab. Conti in Venezia, aveano maneggiato il medesimo argomento senza rassomigliarsi, ma ugualmente senza snervarlo con amori, come era avvenuto in Francia nel principio del secolo. Voltaire lo ricondusse alla natural dignità in parte seguendo in parte correggendo Shakespear, ma facendo Bruto ancor più feroce. Inimitabili sono le due scene di Bruto con Cesare cioè la quinta dell’atto II, in cui Cesare gli palesa di esser di lui padre, e la quarta del III, in cui Bruto supplica il padre a lasciar di regnare. Egli ha migliorato anche l’artificio {p. 93}della parlata di Antonio, facendo portare per ultimo colpo il corpo di Cesare in iscena, che il Shakespear con arte minore fa dimorare sempre alla vista del popolo Romano.

Zaira uscita alla luce nel 1732 fu scritta interamente in ventidue giorni, ed in un solo se ne concepì e dispose il piano. É la sola tragedia tenera composta da Voltaire, in cui (egli dice) bisognò accomodarsi a’ costumi correnti e cominciar tardi a parlar di amore. Ma quest’amore troppo sventurato contrasta mirabilmente coll’ onore, colla religione e colla patria in Zaira, e ne costituisce una persona tragica che lacera i cuori sensibili. Per l’oggetto morale che si cerca in ogni favola, sarebbe in questa la correzione delle passioni eccessive per mezzo dell’infelicità che le accompagna. Ma il conte di Calepio critico non volgare oppone non senza apparenza di ragione, che essendo Zaira uccisa appunto quando abbracciando la religione de’ suoi maggiori è disposta a rinunziare alla felicità che attendeva dalle sue nozze, sembra che la di lei morte non possa concepirsi come castigo della sua passione. Intanto questo quadro felice interessa, commuove, ottiene tutto l’effetto che si prefigge la tragedia. Non basterebbe adunque rispondere alla proposta censura, che non sarebbe questa la prima volta che si facciano giuste opposizioni {p. 94}a’ componimenti giustamente applauditi? Nondimeno la lettura riposata della tragedia toglie alla critica tutta la forza. Zaira è disposta a professare la religione Cristiana; ma non ha soggiogata la sua passione, non ha rinunziato ad ogni speranza. Il suo amore persiste in tutto il vigore. Io mi volgo piangendo a Dio (dice Zaira) ma, o Fatima, ben tosto les traits de ce que j’ aime

Se montrent dans mon ame entre le ciel & moi.

Ella non cerca che Orosmane. La medesima passione si manifesta in tutta la sua forza nell’atto V. Chiamata dal fratello col biglietto Zaira cerca ancor pretesti, e Fatima vuole irritarla contro dell’amante. Che mi ha egli fatto? ella ripiglia, e lo giustifica. Ecco intanto il suo disegno: vado ad ubbidire, vado a trovar Nerestano,

Mais dès que de Solyme il aura pu partir,
J’ apprends à mon amant le secret de ma vie.

L’amore dunque in lei non è mai vinto, si oppone con ugual forza alla religione, ed il di lei gastigo può ammaestrare. In fatti lo stato del cuore di Zaira vien dipinto {p. 95}nelle parole di Nerestano e di Fatima nell’ultima scena. Ella offendeva il nostro Dio, dice il primo,

Et ce Dieu la punit d’avoir brûlé pour toi.

Ella (dice Fatima insultando Orosmane) si lusingava che Iddio forse vi avrebbe riuniti: oimè! a questo punto ella ingannava se stessa!

Tu balancois son Dieu dans son coeur allarmé.

Tutto ciò non mostra l’eccesso dell’invincibile sua passione? e contro quest’eccesso non si espone utilmente l’infelice fine di Zaira? Le altre opposizioni di negligenze, di poca verisimiglianza, d’inesattezze fatte a sì bella tragedia in Francia meritano indulgenza per li pregi che vi si ammirano, pel magnanimo carattere di Orosmane, pel sensibile e virtuoso di Zaira, pel nobile e generoso di Nerestano, per la dolce ed umana filosofia che vi serpeggia. Io non conosco un altro dramma francese che più felicemente ne’ tre ultimi atti vada al suo fine senza deviare e progressivamente aumentando l’interesse senza bisogno di veruno episodio {p. 96}e ricco delle sole tragiche situazioni che presenta l’argomento. Ella ha pure il merito di essere stata la prima a mostrare sulle scene francesi i fatti della nazione. Shakespear ha preparata la materia della Zaira colla tragedia di Othello. Un eccesso di amore forma l’azione dell’una e dell’ altra, la gelosia ne costituisce il nodo, ed un equivoco appresta ad entrambe lo scioglimento; Otello s’inganna con un fazzoletto, Orosmane con una lettera; l’uno e l’altro ammazza la sposa e poi si uccide. La Zaira piacque anche in Inghilterra quando vi si rappresentò tradotta da Hille. L’ attrice Ciber di anni diciotto sostenne con mirabile e colà non usitata naturalezza il carattere di Zaira; quello di Orosmane fu rappresentato da un gentiluomo e non da un attore di professione. In Italia tradotta dal conte Gasparo Gozzi si è recitata con applauso. Tradotta dopo il 1772 in Madrid ed in Aranjuez si recitò con universale ammirazione dalla celebre attrice Andaluzza Maria Vermejo.

Riscuoteva da circa due lustri gli applausi concordi della più culta Europa la Merope del marchese Maffei, quando Voltaire s’invogliò di tesserne una francese degna di parteciparne la gloria. Nel 1736 egli l’ avea già composta, ma si trattenne alcuni anni di pubblicarla, o per non farla comparire, mentre si applaudiva l’Amasi di M. La {p. 97}Grange, in cui sotto nomi differenti si trattava il medesimo soggetto, o per attendere che si rallentasse il trasporto che si avea per la Merope del Maffei. Comunque ciò sia egli si valse del migliore della tragedia italiana, ma cercò di accomodarla meglio al gusto francese togliendole l’aria di greca semplicità e naturalezza che vi serbò l’Italiano. Senza dubbio Voltaire ha talvolta sostenuti i caratteri con più dignità: ha dati sentimenti più gravi a’ personaggi: le bellezze de’ passi sono grandi e frequenti in tutta la tragedia: ha preparata benissimo la venuta di Egisto, prevenendo l’uditorio a suo favore: ha giustificato come tratto di politica il pensiero di Polifonte di fortificare la sua usurpazione col matrimonio di Merope: ha variata l’invenzione nell’atto IV e mantenuti in maggior commozione gli affetti, dipingendo Merope in angustia tale che è costretta dal timore a scoprire ella stessa il proprio figlio al tiranno. Ma la sana critica non lascia di desiderare nel bel componimento francese qualche altra perfezione. Voltaire non ha totalmente scansate nè le scene poco interessanti delle persone subalterne, nè i modi narrativi ne’ monologhi, come sono quelli di Narba e d’Ismenia nell’atto III, nè il parlar da parte usato nel calore del maggior pericolo, come fa lo stesso Narba ed altri ancora. Nell’ interessante scena quarta del medesimo atto {p. 98}III di Merope che crede vendicare in Egisto la morte del proprio figlio, sorge alcun dubbio che non lascia l’uditorio persuaso. Tu hai all’infelice mio figlio rapita quest’armatura, dice Merope. Questa? è mia, le dice Egisto. Merope allora tutta commossa meritamente ripiglia: Comment? Que dis-tu? Ed Egisto coll’ ingenuità che lo caratterizza, Je vous jure, le dice,

Par vous, par ce cher fils, par vos divins aïeux,
Que mon père en mes mains mit ce don précieux.

Merope sempre più sconcertata:

Qui? ton père? en Elide? En quel trouble il me jette!
Son nom? Parle: répons.

Se egli avesse detto che suo padre si chiamava Narba, siccome ella sperava di sentire, avrebbe in lui riconosciuto il suo Egisto. Ma egli dice che suo padre si chiama Policlete, e la reina torna a vedere ben lontane le sue speranze; e ciò sarebbe giusto. Ella però senza altro esame si abbandona alle prime furie, lo chiama mostro, perfido, lo fa trascinare presso la tomba di Cresfonte, e va per ferirlo. Ciò è senza ragione. {p. 99}La di lui candidezza che tutto confessa, dee almeno toglierle la sicurezza che esige la vendetta; tanto più che non si tratta solo di trucidare un innocente in vece di un reo, ma il figlio stesso in vece del suo uccisore. Se l’armatura apparteneva all’ucciso, l’ucciso è mio figlio (dir dovea Merope a se stessa): se all’uccisore, io trovo in lui mio figlio. Il nome che non combina, non basta a metterla nello stato di certezza della morte del figlio, potendovi essere diversi possibili, pe’ quali l’armatura può essere, com’ è, di Egisto, e colui che si chiama di lui padre aver preso un nome ignoto alla regina, com’ è in fatti. L’ uditorio dunque non può godere di sì interessante situazione, nè esser commosso quanto nel teatro greco e nella Merope del Maffei, per affrettar col desiderio la venuta del vecchio che impedisca l’ esecrando sacrificio di un figlio per mano della stessa madre che pensa vendicarlo. In tal tragedia non è solo questa madre che ragiona male, ragionando assai peggio Polifonte. Usurpatore scaltrito che col matrimonio di Merope procura di mettere un velo agli occhi de’ popoli, non si smentisce apertamente e si dimostra inetto e stupido nel voler ch’ella passi nel tempio insieme col figlio per costringerla alle abborrite nozze col farla temere per la di lui vita,

{p. 100}
Voila mon fils, Madame, où voila ma victime?

Egisto non ambiguamente ha manifestato il suo odio verso di lui. Barbaro, tiranno, l’ha chiamato nella seconda scena dell’atto IV. Va, gli ha detto quando ha saputo di esser figlio di Merope,

Va je me crois son fils, mes preuves sont ses larmes,
Mes sentimens, mon coeur par la gloire animé,
Mon bras qui t’eût puni, s’il n’était desarmé.

Un carattere così eroico, franco, temerario agli occhi suoi, non dovea far tutto temere al sospettoso Polifonte? Stravagante, e senza utilità pel tiranno mi sembra la seconda scena dell’atto V, in cui egli vien fuori unicamente per dire all’ardito eroe: vieni a piè dell’altare

Me jurer à genoux un hommage éternel.

Egisto risponde da discendente di Alcide: rendimi il ferro, e ti risponderò, e conoscerai

Qui de nous deux, perfide, est l’esclave ou le maître.
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Ma Polifonte dovea dopo ciò persistere nel matto suo disegno? dovea conchiudere: t’aspetto all’altare,

Viens recevoir la mort, où jurer d’obeïr?

Egisto anderà al tempio, ma come? Incatenato, o libero? Non incatenato, altrimente non avrebbe potuto, come indi avviene, avventarsi al tiranno. Ma se libero, Polifonte non dovea temere d’un giovane sì intraprendente che senz’armi ancora l’ha insultato? Incatenato poi o libero non dovea egli temere ancora che la di lui presenza commovesse un popolo così affezionato alla famiglia di Cresfonte? Alcuna di tali riflessioni non isfuggì al dotto Calepio, e e mal grado della di lui parzialità per la Merope Volteriana non potè lasciar di dire che nel miglior punto della passione rimane una fantasima, una chimera. Ciò dovettero vedere eziandio i Parigini allorchè si rappresentò, giacchè sappiamo da una critica che ne uscì subito, che l’atto quinto punto non piacque. Se queste riflessioni imparziali parranno ben fondate, veggano certi eleganti ma ciechi panegiristi de’ drammatici Francesi qual vantaggio essi rechino alle belle arti e alla gioventù coprendo di fiori i loro difetti.

L’epoca della pubblicazione e rappresentazione del Fanatismo o Maometto è dopo {p. 102}il 1740, benchè in una edizione del 1743 si dica composta sin dal 1736 e mandata allora al principe reale poi re di Prussia Federico II. Tanto intorno a tal tragedia disse lo stesso autore nelle sue prose, or parlando al nominato sovrano or sotto il nome di altri più volte sino al 1743; e tanto con varia critica ne favellarono i giornalisti di Francia, e con maestria l’ab. Cesarotti, ed altri eruditi esteri ed Italiani, che certi sedicenti profondi pensatori (i quali non per tanto galleggiano come cortecce di sughero in ogni materia), quando non vogliano ripetere al loro solito senza citare, non saprei che cosa potranno dir su di essa, come millantano, in vantaggio dell’arte drammatica. Noi seguendo il nostro costume quello ne diremo che possa darne la più adeguata idea, non pensando servilmente con gli altrui pensieri, nè vendendogli per nostri quando ci sembrino giusti.

Il Maometto tralle tragedie è quello, che fu tralle commedie il Tartuffo, cioè un capo d’opera ammirato per sentimento dagl’ imparziali, e screditato e proibito per cabala degl’ impostori, per gelosia di mestiere e per naturale malignità de’ follicularj. Voltaire che in simili opere spendeva talora pochi giorni, si occupò a perfezionarlo intorno a sei anni. Egli riuscì a farne un’ opera eccellente da tenere forse il primato tralle sue tragedie, colla copia delle idee {p. 103}nuove ed ardite, colla pompa dello stile, colle immagini nobili e tratte sempre dal soggetto, colle situazioni maravigliose che portano il terrore tragico al più alto punto, coll’ interesse sostenuto che aumenta di scena in iscena, coll’ unione in un gran quadro ottimamente combinata di caratteri robusti animati colla forza del pennello di Polidoro e colla copia spiritosa del Tintoretto. Egli è vero che nella condotta dell’ azione si desidera qualche volta più verisimiglianza: che non sempre apparisce dove passino alcune scene: che l’unità del luogo non vi si osserva: che l’azione procede con certa lentezza nell’atto II: che i personaggi talora entrano in iscena non per necessità ma per comodo del poeta37. Ma molte {p. 104}scene inimitabili invitano i più schivi a leggere ed ascoltare il Maometto. Tali sembrano con ispezialità le seguenti: la quarta dell’atto I di Zopiro ed Omar in cui si disviluppano i caratteri e si prepara egregiamente la venuta di Maometto; la quinta dell’atto II sommamente maestrevole onde riceve le ultime fine pennellate il di lui ritratto, facendo che egli col suo gran nemico deponga la maschera e manifesti i suoi grandi disegni, e lo chiami a parte dell’impero mostrandogli la necessità che non gli permette altro partito; quelle dell’ atto IV di Zopiro con Seide e Palmira e singolarmente la quinta della riconoscenza, la quale se non è nuova, almeno avviene in una situazione ben patetica e non usitata; e finalmente l’interessante terribile scioglimento che rende sempre più detestabile il carattere del ben dipinto impostore.

Ma coloro che vedevano nel Maometto {p. 105}mille difetti mentre i Parigini si affollavano ad ascoltarlo, imputarongli singolarmente che fosse una pericolosa e scandalosa rappresentazione quella di uno scellerato felice e trionfante a spese della virtù disgraziata. Voltaire stesso soddisfece a questa censura, mostrando che la passione amorosa gareggia in Maometto colla sua ambizione, e che la perdita di Palmira ed i rimorsi che in lui si svegliano alla vista del di lei sangue, danno a vedere al popolo lo spettacolo di un uomo potentissimo e non pertanto infelicissimo. Noi osiamo aggiugnere qualche cosa alla stessa di lui difesa. Perchè si cerca che lo scellerato rimanga punito sulla scena? Certamente per ricavarsene un frutto morale da far detestare il vizio ed amar la virtù. Ma l’autore del Maometto si prefigge d’ inspirare tutto l’abborrimento pel fanatismo, il quale abusa della religione e toglie l’orrore a’ più atroci delitti in pregiudizio della virtù. Il frutto morale dunque di questa tragedia è manifesto essere il prevenire gl’ incauti contro l’illusione della superstizione; e per conseguenza la di lei erappresentanza lungi dall’ essere scandalosa pericolosa, diviene istruttiva ed utile alla società.

L’Alzira una delle migliori tragedie del Voltaire composta e rappresentata dopo del Maometto era stata dedicata alla celebre marchesa du Chatelet autrice delle Instituzioni {p. 106}di Fisica secondo la filosofia di Leibnitz, e della traduzione de’ Principj di Newton, la quale terminò di vivere in agosto del 1749. In sì bel contrasto de’ costumi Americani ed Europei l’autore si prefisse il più bel fine a cui siesi elevata la tragedia, cioè mostrare quanto la forza della virtù della religione Cristiana che consiste nel perdonare ed amare l’inimico, sovrasti a tutte le virtù del gentilesimo. Quest’eroismo Cristiano trionfa nel perdono che dà il moribondo Gusmano all’idolatra che l’ha ferito a morte. Questo disegno non può abbastanza lodarsi; ma il conte di Calepio stima che Voltaire non ebbe questo disegno prima di comporla, giacchè ne prese il titolo da Alzira e non da Gusmano. A me però non sembra che il titolo di Alzira cangi la veduta segnalata dall’autore. Alzira è l’ anima e la sorgente dell’azione eroica di Gusmano; Alzira ama vivamente e mette in contrasto ed attività l’amore di Zamoro e di Gusmano; Alzira senza volerlo muove Zamoro a danni del suo rivale; Alzira dà il più vivace colore ed il carattere di sublimità all’eroismo Cristiano di Gusmano, perchè s’ei non l’amasse sì altamente, il concederla al rivale sarebbe un’ azione non molto straordinaria; Alzira dunque porta giustamente il titolo di questa favola.

Sempre ne’ piani delle favole del Voltaire si desidera che ne sieno le circostanze più {p. 107}verisimilmente accreditate, sempre si vorrebbe che l’autore si occultasse meglio ne’ sentimenti de’ personaggi; ma sempre in compenso vi trionfano l’umanità, l’orrore al vizio, l’amore della virtù. Alzira, Zamoro, Gusmano ed Alvaro sono personaggi che non si rassomigliano ne’ costumi, nelle debolezze e nella grandezza d’animo; ma sono ugualmente dipinti colla tragica espressione di Raffaello e col vivace colorito di Tiziano. Quella maravigliosa opposizione di sentimenti che anima le più semplici favole, spicca soprattutto negli affetti di Zamoro e di Alzira. Quel contrasto di gioja e di dolore che passa nell’animo di Alzira al ritorno di Zamoro creduto morto, rende eccellente la scena quarta dell’atto III:

Alz.

O jours! o doux momens d’horreur empoisonnés!
Cher & fatal objet de douleur & de joïe,
Ah Zamore, en quel tems faut il que je te voie.

Zam.

Tu gémis & me vois?

Le Cristiane espressioni piene di nobiltà e grandezza del moribondo Gusmano meriterebbero di essere quì trascritte, ma ci contenteremo di un sol frammento rapportandolo colla bellissima traduzione ancora inedita dell’ elegantissimo P. M. Giuseppe Maria {p. 108}Pagnini. Ravvisa, dice Gusmano a Zamoro

De’ Numi che adoriam la differenza;
I tuoi han comandata a te la strage
E la vendetta, il mio, poichè il tuo braccio
Vibrommi il colpo micidial, m’impone
Ch’io ti compianga e ti perdoni.

Alv.

Ah figlio,
La tua virtude al tuo coraggio è pari.

Alz.

Qual cangiamento, eterno Dio, qual nuovo
Sorprendente linguaggio!

Zam.

E che, vorresti
Forzar me stesso al pentimento?

Gus.

Io voglio
Anche di più: forzar ti vo’ ad amarmi.
Alzira insino ad or non è vissuta
Che sventurata per le mie fierezze,
Pel maritaggio mio. La moribonda
Mia man fralle tue braccia or la ripone,
Vivete senza odiarmi.

La Semiramide rappresentata nel 1748 non ismentisce la forza e la maestà dello stile di Voltaire, e le situazioni tragiche vi si veggono animate dalla pompa della decorazione. Tutta l’azione però è fondata sull’apparizione dell’ombra del re Nino intento a vendicarsi di Semiramide per mano di Ninia suo figliuolo che ignoto a se stesso vive sotto il nome di Arsace. Questa machina {p. 109}prediletta del teatro spagnuolo e dell’inglese, mi sembra nella tragedia francese meno artificiosa38 dell’ombra di Dario ne’ Persi di Eschilo. Il poeta greco la rende interessante per la Persia e per la Grecia; per la Persia coll’ insinuare per bene del pubblico sentimenti di pace al suo successore, e per la Grecia col mettere con bell’ arte le lodi de’ Greci in bocca dello stesso suo nemico. Ma l’ ombra di Nino non ha altro oggetto che la vendetta di un delitto occulto, utile oggetto veramente all’istruzione dello spettatore, ma inferiore a fronte dell’interesse politico della tragedia nazionale di Eschilo. Soffre poi l’ombra di Nino molte e rilevanti opposizioni. In prima un’ ombra che apparisce nel più chiaro giorno alla presenza de’ principi, de’ satrapi, de’ maghi e de’ guerrieri della nazione, riesce così poco credibile al nostro tempo, che lascia un gran vuoto nell’animo dello spettatore e non produce l’effetto tragico. II Manca di certa nota di terribile che simili apparizioni ricevono dalla solitudine e dalle tenebre che l’accreditano presso il volgo, e contribuiscono a far nascere o ad aumentare i rimorsi degli scellerati. III {p. 110}Essa distrugge le speranze de’ penitenti, vale a dire di quasi tutti gli uomini; perchè una vendetta atroce che si avvera dopo tanti pentimenti, scoraggia senza riscatto tutti coloro che hanno perduta l’innocenza; e nell’Olimpia dice acconciamente l’istesso Voltarre,

Hélas! tous les humains ont besoin de clemence . . .
Dieu fit du repentir la vertu des mortels.

IV Che atrocità! Gli dei che vogliono vendicare la morte di Nino, ne ordinano l’espiazione con un parricidio? Il Gran Sacerdote enunciato come santo, intero, virtuoso, anima Ninia a passare il seno di una Madre? Si dice, è vero,

Au sacrificateur on cache la victime,

ma intanto Ninia sa che la Madre è la rea, Nino l’accusa e vuol vendetta, ed invita il figlio alla sua tomba; or questi dee sapere qual sarà la vittima. Ma se Ninia può ignorarlo, non l’ignora il Gran Sacerdote, ed approva il parricidio come un’ azione lodevole e dal cielo desiderata, e dice dopo il fatto

Le ciel est Jatisfait; la vengeance est comblée.
{p. 111}

Che empio Sacerdote! Qual è maggiore scelleraggine, fare avvelenare un marito, o condurre un figlio a trucidare sua Madre? Si dirà che si vuole impedire un incesto; ma Semiramide non conosce Arsace per suo figlio, ed Arsace è virtuoso ed innamorato di un’ altra; or non bastava di far loro sapere l’arcano? Il poeta si è perduto nel suo piano, e dà la più atroce idea della divinità. V Tutte le situazioni tragiche non hanno un solido fondamento. Qual sicurezza ha Ninia del delitto della Madre? La lettera di Nino moribondo a Fradate, non dice altro se non che io muojo avvelenato, e soggiugne ma criminelle epouse senza addurne indizio nè pruova. Lascio poi che manca nelle circostanze dell’azione cert’arte che l’accrediti. Meglio combinata col mausoleo si vorrebbe nella scena sesta dell’atto terzo la sala dell’assemblea nazionale. Soprattutto dovrebbe mostrarsi evidente la necessità che obbliga Semiramide ad entrare nel mausoleo. Non ha ella altri mezzi più certi e più efficaci per liberare il figlio e punire Assur? L’evento tragico che ne segue, per non essere ben fondato, non persuade e non produce tutto l’ effetto. Lo sforzo dell’ingegno consiste nel ben concatenare i pensieri co’ fatti in guisa che gli eventi sembrino fatali, e facciano pensare allo spettatore, che posto egli in quella situazione si appiglierebbe all’ istesso partito {p. 112}e soggiacerebbe a quel medesimo infortunio. Ultimamente Assur dice a Ninia al comparire Semiramide spirante,

Regarde ce tombeau, contemple ton ouvrage;

ma come ha egli saputo ciò che si è passato dentro del mausoleo? come sa egli che la reina muore per mano di Ninia?

Voltaire che avea ricavate le precedenti favole dal Dolce, dal Shakespear, dal Conti, dal Maffei, pensò all’argomento della Semiramide o per la celebre tragedia del Manfredi, o almeno per l’ Astrato di Quinault e per la Semiramide del Metastasio e del Crebillon ch’egli in una epistola a mad. di Pompadur chiamò suo maestro. Quest’ultimo scrittore col Triumvirato, coll’ Elettra, coll’ Atreo apprestò ancora la materia alla di lui Roma salvata, recitata nel 1752, all’Oreste, a’ Pelopidi. Trasse anche Voltaire gli Sciti dall’Arminio indi intitolato i Figli de’ Cheruschi. Venne da una novella spagnuola la sua Zulima, i cui due ultimi atti deludono le speranze che fanno nascere i precedenti. L’Orfano della China rappresentata nel 1755 non è la stessa azione dell’Eroe Cinese del Metastasio, ma a quest’opera si rassomiglia per l’ eroico carattere di Zamti. L’Olimpia in cui trovansi scene interessanti, venne dalla Cassandra di M. La Calprenede.

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Scrisse anche l’autore dell’Erriade i Guebri, Erifile il cui piano gli costò moltissimo senza recargli moltissimo applauso, le Leggi di Minos ove campeggiano le sue vedute filosofiche senza interessare abbastanza sulla scena, Ericia ossia la Vestale, Artemira disapprovata dal medesimo autore, Adelaide ed il Duca di Foix tragedie mediocri di fatti nazionali, e Tancredi, intrigo condotto con poco verisimili reticenze, ed in cui una parola di più scioglierebbe gli equivoci e torrebbe Tancredi di angustia. Poteva essere una cautela, benchè inutile, il tacere che fa Amenaide il nome di Tancredi nel biglietto che la rende colpevole; ma la dichiarazione interrotta dallo svenimento, indi dal ringraziamento che Tancredi non vuole ascoltare, lascia il lettore poco soddisfatto. Argiro troppo poco si sforza di sapere con distinzione l’apparente delitto della figlia; ella mal si difende; i Giudici non mostrano la convizione del delitto. Sono però squarci vigorosi i seguenti. La parlata di Orbassan nella prima scena pieno di nobile indignazione per vedere la Sicilia in preda all’ avarizia, alla ferocia e alla rapacità degli Arabi, de’ Greci, de’ Francesi e de’ Germani, ha certo che di grande:

Grecs, Arabes, Français, Germains, tout nous dévore:
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Et nos champs malheureux par leur fécondité,
Appellent l’avarice & la rapacité
Des brigands du Midi, du Nord & de l’ Aurore.

Nobile e propria de’ tempi della cavalleria è pure il bell’ orgoglio di Amenaide nella scena quinta dell’atto IV, Lui me croire coupable! . . . . Il devoit me connoître &c. Ma sopra ogni altra cosa l’ultima scena è delicatamente toccata co’ più patetici colori nella morte dell’eroe.

L’ab. Sabatier des Castres nel libro de’ Tre Secoli decide che Alzira, Maometto, Merope e Zaira non sono comparabili con Cinna, con gli Orazj, con Poliuto e Rodoguna. Questa decisione magistrale punto non ci trattiene dall’affermare che tralle migliori del Cornelio e del Racine possono senza svantaggio comparire queste cinque Volteriane, Alzira, Maometto, Zaira, la Morte di Cesare, Bruto. Dopo di queste meritano il titolo di buone, Merope, Marianna, Roma salvata, Oreste, Edipo, l’Orfano Cinese, Semiramide, Tancredi, Olimpia. Tutte le altre costituiscono a’ nostri sguardi una terza classe di tragedie meno perfette e vigorose, sebbene vi si veggano varj tratti del suo pennello maestrevole. Noi non abbiamo dissimulati alcuni difetti delle migliori sue favole, affinchè la gioventù non {p. 115}creda di trarre da sì ricca miniera sempre oro puro; ma tralasciamo di spaziarci sulle altre più abbondanti di difetti che di bellezze. Il sagace osservatore manifesta con diletto le bellezze, lasciando alla critica comunale l’enumerazione de’ difetti. Anche i fanciulli sanno notare la mano con sei dita in una figura di Raffaele, ma il tragico del suo pennello, l’espressione inimitabile, la maestosa semplicità, la correzione del disegno, la verità del colorito, la vaghezza del chiaroscuro, non si sentono da chi non conosce l’arte. “Tutti coloro (diceva l’istesso Voltaire) che si vogliono far giudici degli autori, sogliono su di essi scriver volumi; io vorrei piuttosto due pagine sole che ce ne additassero le bellezze”.

Poche altre tragedie di questo secolo sono da riporsi tralle bene accolte in teatro, e pochissime tralle applaudite con giustizia. Voltaire sostenne l’ onore di Melpomene sulla Senna, a dispetto del cicaleccio de’ famelici inpudenti gazettieri pronti a sparger menzogne e tratti maligni sulle opere acclamate di coloro che non sono nel numero de’ loro benefattori. Una folla di bastardi Volteriani scimieschi apportarono su quelle scene la decadenza, ed il gusto inglese ne accelerò la ruina, coprendole di mostruosità, di orrori, di ombre, di sepolcri e di claustrali disperati, che in vece di toccare il cuore spaventano e fanno inorridire.

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La Grange-Chancel nato nel 1678 e morto nel 1758 molte tragedie scrisse in istile trascurato e debole con viluppo romanzesco, ma non si sostenne che l’ Amasi che è l’argomento della Merope. Guymond de la Touche nato nel 1729 e morto nel 1760 compose una Ifigenia in Tauride che rimase al teatro a cagione di alcune situazioni interessanti; ma che perde di credito nella lettura per lo stile duro e scorretto. Il maestro della Poetica Francese M. de Marmontel più volte si provò a calzare il coturno. Nel Dionigi sua prima tragedia, secondo l’espressione di M. Palissot, non tutti ravvisarono in lui la mancanza di gusto, e que’ difetti che gli furono poscia rimproverati, e singolarmente la versificazione dura e ampollosa, le massime sparse a piena mano e senza scelta, le frequenti declamazioni sostituite alla passione. Nel suo Aristomene comparvero tali difetti più manifestamente; Cleopatra si tenne per inferiore alle precedenti, e gli Eraclidi molto più. Così quest’enciclopedista, al contrario di ogni altro scrittore, perdeva coll’ esercizio; e forse disingannato al fine abbandonò un genere a’ suoi talenti inaccessibile. Le Miére Parigino, il quale, secondo Palissot, è a Marmontel quel che Campistron è a Racine, ha prodotto Idomeneo, Tereo, la Vedova del Malabar, Guglielmo Tell, Artaserse, Ipermestra e Barnevel tragedie non {p. 117}meno dure e secche di quello che fu la Pucelle di Chapelain39. M. Saurin cominciò la carriera tragica coll’ Amenofi e con Bianca e Guiscardo, le quali rimasero presto dimenticate, essendo scritte in istile duro, inesatto, prosaico. Nel suo Spartaco verseggiato nella stessa guisa si osserva qualche tratto robusto, benchè vi si trovino tutti i personaggi a Spartaco sacrificati. M. de la Harpe produsse alla prima la tragedia di Warvick che a’ suoi fautori dava grandi speranze; ma l’ istesso Palissot, che all’apparenza mostra esserne uno, conviene che il rimanente delle sue produzioni drammatiche non corrispose a’ voti degli amici. Pharamond, Timoleon, Gustave e Melanie religiosa disperata videro appena la luce e sparvero. Non furono più felici nè Coriolano in cui anche si notano gli accidenti accumulati in un giorno senza verisimiglianza, {p. 118}nè il Filottete pubblicata nel 1786 imitata dalla tragedia di Sofocle quasi rivenendo dalle passate stranezze sulle orme de’ Greci che si vogliono usciti di moda. M. Colardeau morto da non molti anni, il quale a qualche dono naturale non accoppiò nè studio nè travaglio, scrisse due tragedie Astarbé e Calisto, delle quali durano ancora i nomi. M. Savigny ha composto la Morte di Socrate che è piuttosto un panegirico di questo Ateniese che una tragedia. Scrisse anche Irza superiore alle tragedie di Colardeau; ma se ne riprende la versificazione poco armonica, e l’ineguaglianza e la turgidezza dello stile. M. Ducis ha scritti in francese l’Hamlet, Giulietta e Romeo ed il Re Lear del Shakespear. Anche M. Le Tourneur ne ha trascritte alcune poco fedelmente. Alcuni altri si sono rivolti alla Grecia come la Harpe, e M. Rochefort ha fatta un’ Elettra diversa da quella del Crebillon e dall’Oreste del Voltaire, seguendo Sofocle. M. Dupuis ha tradotto il teatro di questo Greco, e M. Prevost quello di Euripide. Lasciamo di parlar punto nè poco di Nadal, le Blanc, Pavin ed altri obbliati dalla nazione stessa.

Qualche favola tragica meno negletta han no pubblicato mad. du Bocage, la Place, la Noue, Poinsinet de Sivry, Pompignan e Piron. Mad. du Bocage produsse le Amazoni che si trova colle di lei opere impresse {p. 119}in Parigi nel 1788. La Place ha tradotto molte favole inglesi, ed ha composto Jeanne d’Angleterre, e Adéle de Ponthieu. La sua Venezia salvata riuscì molto sulle scene e vi rimase. Il commediante La Noue morto nel 1761 scrisse il Maometto II che rimase al teatro, e Voltaire gl’indirizzò un madrigale in occasione del suo Maometto.

Poinsinet nato in Parigi nel 1735 scrittore erudito, che ha tradotti varj poeti Greci e specialmente Aristofane senza averne conservato il calore ed il sale, secondo che affermano i giornalisti di Buglione, diede al teatro la Briseida rappresentata con applauso, nella quale racchiuse il piano dell’Iliade e si valse di qualche ornamento Omerico. Pubblicò poi un Ajace reputata inferiore alla prima. Palissot ne commenda lo studio d’imitare la nobile semplicità del Racine. Il marchese Le Franc de Pompignan nato a Montalbano nel 1709 si esercitò in più di un genere, ed oltre alla traduzione del Prometeo di Eschilo, ha composto una Didone togliendone le situazioni da quella di Metastasio40, ed una Zoraide, {p. 120}che Voltaire pur mette in ridicolo; ma Palissot loda la versificazione di questo scrittore.

Rimane a parlare di un altro tragico Parigino de’ nostri giorni, cioè di M. de Belloy morto nel 1775. Benchè privo egli si dimostri di certe qualità che enunciano l’uomo di gusto e d’ingegno, come altresì di ogni conoscenza dell’eroismo e del patetico vero, di naturalezza ed eleganza di stile e di armonia di versificazione, con tutto ciò il di lui Assedio di Calais e Gabriela di Vergy ebbero una riuscita invidiabile sul teatro, e non se ne scorsero tutti i difetti se non alla lettura. Lo spettatore fu indulgentissimo verso questi argomenti domestici ne’ quali a tutto andare si piaggia la nazione. L’adulatore non manca mai di colpire coll’ adulato di buona fede. Ma perchè egli si arroga la gloria di essere stato il primo a recar sulla scena i fatti nazionali? e tutti i compatriotti perchè gliel’ accordarono? Di grazia che altro rappresentano i Cinesi da tanti secoli? Che rappresentarono i Greci se non gli evenimenti della loro storia? Che i Latini stessi nello Scipione di Ennio, nelle Ottavie di Mecenate e di Seneca? Che gl’ Italiani ne’ Piccinini, negli Ezzelini, negli Ugolini &c.? Che gl’ Inglesi e gli Spagnuoli in quasi tutte le loro favole? Tra’ medesimi Francesi fu egli forse il primo ad aprire questo sentiero? Voltaire non l’avea preceduto colla Zaira, col Tancredi, col {p. 121}Duca di Foix, con Adelaide di Guesclin? Questo prurito di primeggiare in un modo o in un altro, quanti non abbacina! Belloy talmente si appropriò questa gloria che nella prefazione al suo Gastone e Bajardo se ne pavoneggia fino all’estrema noja.

Ma che diremo di quest’altra tragedia parimente di argomento nazionale scritta in istile duro, stentato, e carico di puerilità? Che Belloy avea nelle prime esauriti i suoi tesori, e che non seppe idear quest’altra senza ripetersi? Sarebbe pure il minor male. Egli vi cade in assurdi manifesti, non vi guarda verisimiglianza, vi accumula alla rinfusa eventi pieni d’ incoerenza, tradisce la storia, oltraggia e calunnia le nazioni straniere, e disonora in certo modo la propria colle sue impudenti menzogne. Gli eroi stessi suoi paesani diventano sotto la di lui penna dispregevoli e piccioli. L’Orazio Coclite della Francia, il famoso Bajardo detto il Cavaliere senza paura e senza taccia, sì grande nella storia, nella tragedia apparisce vano, millantatore, meschino. Che relazione hanno poi colla congiura de’ Francesi gli amori non tragici di Gastone e di Bajardo e di Altamoro verso una Bresciana? Influiscono forse all’azione, o servono solo a renderla pesante e ad arrestarne la rapidezza? Chi può veder senza nausea un uffiziale come Bajardo mandare un biglietto di disfida al suo generale sul punto {p. 122}di darsi una battaglia, ed il generale accettarla preferendo un litigio privato alla causa del sovrano? Chi leggerà senza ridere la tagliacantonata del Bajardo del Belloy che vuole impaurire Gastone,

Si vous sçaviez le sort de mon premier rival!

o la graziosa antitesi di Gastone che abbraccia il rivale e sfodera la spada

Embrassez un ami . . . . combattez un rival?

Non si comporta eroicamente Bajardo umiliato chiamando con tanto fasto ed apparecchio i Francesi ad ammirarlo? Egli dice in prosa rimata:

Contemplez de Bajard l’abaissement auguste,
Voyez comme il rempli le devoir noble & juste
Que l’honneur véritable impose à la valeur,
Et comment un Heros se punit d’une erreur.

Che meschinità! Bajardo chiama augusta la propria umiliazione? Bajardo dà a se stesso {p. 123}il titolo di eroe? Si vede che l’anima di Belloy era ben poco eroica, se prestava tali bassezze a’ personaggi che voleva dipingere come eroi. Non è meno inconsideratamente delineato il carattere del Duca di Urbino enunciato come virtuoso, ma che intanto sin dall’atto primo non ignora i tradimenti orditi da Altamoro e Avogaro, e pur gli dissimula, e poi nell’atto quinto, parlandogliene Bajardo, egli falsamente risponde aver lui sempre sdegnato di comprenderne i secreti. É virtù questa falsità? L’autore che aspirava alla gloria di tragico, avea ben false idee dell’eroismo e della virtù. Ma se egli travide nel dipingere gli eroi ed i virtuosi, non si mostrò più abile in far operare due bassi traditori determinati. Essi vogliono proditoriamente dar la morte a Gastone e a Bajardo; ma intanto uomini sì scellerati non sanno prevalersi delle occasioni trovandosi a quelli dappresso e senza testimonj. V’è giudizio in tale condotta? Essi attendono l’esito di una mina, di cui si parla sin dall’atto I, da scoppiare nel V. Infallibile, al lor credere, è la riuscita di questa mina; or perchè non attenderne l’evento sicuro? perchè disporre senza bisogno che uno di essi truciderà Bajardo e l’altro Gastone? Questa mina poi fu veramente una scelleratezza meditata da Avogadro? In niun conto. L’ho tolta (dice Belloy) da altre congiure. {p. 124}Perchè dunque mentisce dicendo di aver presi i fatti dalla storia nazionale? Dica piuttosto di prendergli dal fondo de’ suoi ghiribizzi e dallo spirito di menzogna che lo predomina. Un disertore Francese poi, che piove dal cielo nell’atto V, scopre la congiura; ed a chi s’indirizza? forse a’ generali Francesi? Non già, ma ad Eufemia figlia del principale congiurato. V’ha in ciò punto di senso comune? Che si dirà poi di quella specie di contradanza che fanno nell’atto IV Gastone, Avogaro ed Eufemia? É una situazione maneggiata con gravità tragica o almeno con intelligenza e pratica della scena41?

Noi abbiamo accennato queste poche cose senza curarci dal rimanente deriso dal nominato giornalista, il quale ne additò anche molte espressioni false, gigantesche e puerili. É piacevole p. e. questa di Bajardo ferito che vuol tornare alla pugna e dice a’ soldati, Mort je puis vous guider, morto ancora posso condurvi; e quest’altra, in cui scoppiata la mina si dice di Avogaro e del Disertore morti entrambi nel sotterraneo,

{p. 125}
L’un & l’autre à la fois loin du palais en poudre,
Ont vu leur corps épars emportés par la foudre.

Saprà il Belloy in qual maniera due uomini videro i loro corpi stessi sparsi e trasportati dal fulmine. Rapportiamci dunque sugli altri di lui difetti nè piccioli nè pochi come poeta a ciò che ne dissero i Francesi stessi, e diamo qualche sguardo a’ di lui maligni errori come storico. La sua favola è posta in mezzo a due baluardi istorici, cioè a una prefazione e ad alcune note nel fine. Nell’una e nelle altre egli pretende giustificare le nere calunnie da lui seminate contro del conte Luigi Avogadro di Brescia, del principe d’ Altamura Napoletano, del marchese di Pescara, del pontefice Giulio II e di tutta la nazione Italiana.

Il tragico storico (che non è nè storico nè tragico) denigra la fama dell’ Avogadro formandone un basso traditore e un mezzano della propria figliuola, e con documenti istorici che alla storia contraddicono, pretende avvalorare le sue maligne asserzioni. Avogadro secondo lui è un ribelle. Ma è ciò vero? Avogadro era Bresciano suddito de’ Veneziani, perchè Brescia sin dal 1426 si era data alla repubblica, per le oppressioni che soffriva sotto Filippo Visconti, a cui sempre {p. 126}ricorse invano42. Ne tennero i Veneziani il governo sino al 150943. Luigi XII pretensore del ducato di Milano muove a conquistarlo, riporta la vittoria di Ghiara d’Adda, e Brescia atterrita gli si rende. Vi entrano i Francesi allora incapaci di disciplina e di cattivarsi la benevolenza de’ popoli, abusano del potere, insolentiscono e diventano al solito, come dice il Muratori, gravosi anche agli amici per la loro arroganza e insolenza, massimamente verso le donne, e quasi tutti i cittadini che non potevano più soffrire, al dir del cardinal Bembo, desiderano tornare sotto il dominio della repubblica. Il conte Luigi viene particolarmente oltraggiato nella persona di un figliuolo dal figliuolo di Gambara natogli di una Francese, implora la giustizia de’ nuovi padroni della città, non è ascoltato. I mali pubblici e le private offese fanno che si rivolga alla repubblica e prometta di aprire alle di lei truppe la porta delle Pile. Rientrano i Veneziani in Brescia. Or {p. 127}non si può con fondamento ribattere la taccia di ribelle che gli s’imputa? Furono ribelli gli Spagnuoli che per sette secoli combatterono contro de’ Mori per iscuoterne il giogo? Ma sia pure l’ Avogadro un ribelle, cioè un suddito oppresso che non ha la virtù della tolleranza, e che disperando di ottener giustizia dal nuovo signore, si ricovera sotto la protezione dell’antico. È però la stessa cosa essere in questa forma ribelle, che scellerato, ruffiano della figliuola, traditore di Bajardo e Gastone, e vile, basso, assassino? Questo Avogadro dipinto sì neramente è figlio legittimo di Belloy, non della storia. Le scelleraggini, le infamie, gli assassinamenti, le frodi nacquero dal capo di questo tragico come Minerva da quello di Giove. Nè Avogadro fu un lâche che fuggì quando dovea morir combattendo. Non sono mai fuggiti i Francesi? Non fuggirono con Carlo VIII abbandonando precipitosamente un regno? Non fuggì il Cavaliere senza paura dopo la giornata des Eperons sorpreso dagl’ Inglesi, e poi non si rendè prigioniero? Non fuggirono i Francesi sopraffatti in Brescia e si raccolsero nel castello? Non sempre la ritirata è viltà, lâcheté, mancanza di valore; ed Avogadro diede del suo coraggio non dubbie pruove entrando a viva forza intrepidamente per la porta mentovata. Or è giusto calunniare sul teatro? E’ questo il {p. 128}bell’ esempio da proporsi a’ nazionali per tirar tragedie dalla storia patria?

Non fu Avogadro un traditore, un infame, un assassino, ma semplicemente un nemico de’ Francesi da’ quali tentò liberar la patria oppressa. Adunque la crudeltà che usò con lui Gaston de Foix, sembra inescusabile. Belloy calunniandolo attribuisce ad un immaginario suo tradimento la morte che gli fu data se non per natural crudeltà, almeno per ragion di stato. “Tutto l’esercito (dicesi dell’ esecuzione dell’Avogadro in una Lettera istorica su di Gastone44) chiedeva ad alta voce il supplicio di lui e del figliuolo . . . Invano per fuggir l’ignominiosa morte essi rappresentavano di esser nati sudditi de’ Veneziani . . . Si ascoltò la politica e non la giustizia.” Soprattutto (si aggiugne) veniva compianto il figliuolo, la cui giovanezza, le virtù, il valore ammirato dallo stesso Gastone meritavano sorte migliore. Egli punto non era reo, avendo soltanto seguito la natura e il suo dovere”. Si descrive in seguito con tratti compassionevoli la gara del padre e {p. 129}del figliuolo per morir prima, ed il dolore del popolo intenerito. “A questo spettacolo (dicesi in fine) il duca di Nemours che sentiva commuoversi e credeva necessario il rigore, fe un segno e le due teste caddero a’ piedi suoi. Fu ciò un’ ombra che si mischiò al lustro del trionfo; ma i Francesi non videro che il trionfo”. Se Belloy per natura e per istudio fosse stato disposto alla tragedia, non avrebbe cercato di approfittarsi di questo tratto istorico proprio del coturno narrato da un suo nazionale? Ma Belloy intento a calunniare la nazione Italiana si sdegna contro l’autore delle Vite degli uomini illustri, perchè volle rendere interessanti il traditore Avogadro e suo figlio. Egli poi si accinge a discutere il fatto con esattezza, e l’esattezza consiste in osservare che ciò non si dica dallo storico della vita di Bajardo, dando tutto il peso di una pruova istorica ad un’ argomento negativo. Osserva in seguito che Du-Bos varia dal primo racconto in qualche circostanza dicendo che i due figli di Avogadro furono giustiziati alcuni giorni dopo; ed anche di ciò vuol dubitare il Belloy per questa gran ragione che non sa d’ où il emprunte ce recit. Ma se egli dubitava di quanto ignorava, di che non dovè egli dubitar vivendo! Du-Bos che ignorava molto meno di lui della storia, narrò ciò che si trova dagli {p. 130}storici riferito45.

Volle poi il Belloy dare un complice all’Avogadro, e donde il prese? La storia gli avrebbe suggerito qualche Bresciano, se l’avesse saputa46; ma egli lo scelse tra’ Napolitani. A quale oggetto? Per non lasciare veruna specie di calunnia intentata. E da qual classe di Napolitani il tolse? Dalla più ragguardevole. L’assassino, l’infame, il poltrone Altemoro della tragedia si dice essere il principe d’Altamura Napoletano. Questo personaggio, dice il tragico meschino e lo storico impostore, est de mon invention pour ce qui concerne le rang & les titres. È pur questo un bel modo di comporre tragedie nazionali, valersi di un nome illustre per denigrarlo e per vestirne un figlio infame del capo di Belloy! E che direbbero i suoi compatriotti se si mettesse sulla scena un ladrone infame col nome di qualche principe del {p. 131}real sangue di Francia?47

È in oltre precetto di poetica nelle tragedie nazionali il dir grosse villanie all’imperador Massimiliano, a Ferdinando il Cattolico, al marchese di Pescara? E qual parte ebbe questo Scipione della storia moderna nelle furbesche trame uscite dal capo di Belloy? Di qual diritto poi questo picciolo scarabocchiatore di carta osò nel suo garbuglio tragico trattare il pontefice Giulio II colla maggiore indegnità, come mostro, come carnefice? Essendo amico della Francia avea quel pontefice desiderato che il famoso Bajardo accettasse, come era costume a que’ tempi, il comando delle sue truppe. Sia questo un fatto tres-vrai, come dice il Belloy. Ma ciò è una cosa stessa col dipingere Giulio come subornatore di Bajardo esortandolo a tradire il suo re mentre egli era in arme contro la Francia? E ciò appunto gl’ imputa Belloy, facendo dire dal Duca di Urbino al Bajardo

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on peut sans effroi,
Pour servir Rome & Jule, abbandonner son Roi.

Qual fu poi in sostanza per rapporto a’ Francesi la reità di quel papa in quella guerra? Il proteggere la libertà Italiana. Temè in prima che le potesse nuocere la potenza e l’ambizione de’ Veneziani, e formò contro di loro la formidabil lega; vide poscia quanto più pericolosi nemici di tal libertà fossero i Francesi, e si distaccò da loro. Come principe e come politico chi può rimproverargli l’amore del suo paese?

Ultimamente nella prefazione il Belloy imputa agl’ Italiani generalmente “un raffinamento di perfidia e di crudeltà, che ci fa credere (aggiugne) oggi ancora che la vendetta sia più ingegnosa e più implacabile in Italia che altrove”. Qual impudenza! E chi più del Belloy ingegnoso in immaginar vendette atroci? E non è egli l’autore di Gabriela di Vergy? Non è Francese il suo Fajele ed il più implacabile, il più vendicativo, il più inumano, che vince i Selvaggi e i Cannibali più accaniti e dà a mangiar per vendetta i cuori umani? E chi ha imbrattate le moderne scene francesi di maggiori atrocità? La candeur Française (prosiegue) était toujours trompée, & dédegnait souvent de punir. Il ciel conservi {p. 133}a’ suoi compatriotti codesto candore e la natural generosità; ma la stomachevole vanità di Belloy ci obbliga a dire che i Francesi di que’ tempi non diedero molte pruove di candidezza ed umanità ne’ luoghi dove fecero la guerra e dove dimorarono. Poco disdegnarono di punire nella presa di Brescia48. Poco candidamente si condussero i Francesi nell’isola di Sicilia, e diedero motivo a quel famoso Vespro conseguenza di una lunga tolleranza. Poco umanamente trattarono cogli abitanti di Castellaneto, spogliandoli e tentando le loro donne; e quando quel popolo si diede agli Spagnuoli ed imprigionò que’ Francesi, qual fu l’implacabile vendetta Italiana? Gli tolsero le armi e gli diedero agli Spagnuoli a condizione che gli rimandassero al campo Francese. Ma lasciamo le istorie, le note e le prefazioni del Belloy, e conchiudiamo che delle sue tragedie l’ Assedio di Calais, Gastone e Bajardo, Zemira, Don Pietro il crudele e Gabriela di Vergy già più non rimangono che i nomi, mancando loro la nota del genio, l’armonia della versificazione, la correzione del linguaggio e la forza, la bellezza ed ogni altra dote dello stile.

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CAPO VI.
Tragedia Cittadina e Commedia Lagrimante. §

Sulle tracce segnate dagl’ Inglesi, come vedremo appresso, è cominciata a comparire sulle scene Europee una picciola tragedia che non si eleva agl’ interessi delle intere nazioni e de’ personaggi eroici, ma si spazia entro le famiglie private, ed è chiamata Cittadina. Non è questo un dramma da gareggiar punto colla grande e vera tragedia reale da Platone tenuta per più malagevole della stessa epopea, e fatta per ammaestrare ugualmente i principi e i privati. Ma essa anche può ammettersi in grazia della varietà, e per servire al diletto e all’istruzione della parte più numerosa della società, e a produrre il bel piacere delle lagrime; specialmente quando non si distragga lo spettatore con tratti troppo famigliari ed atti ad alienarlo dall’impressione del dolore e della pietà. I Francesi in questi ultimi tempi hanno avuto varj scrittori di tragedie cittadine ora più ora meno ingegnose e composte più spesso in prosa che in versi.

Franceso Maria d’Arnaud de Baculard {p. 135}nato nel 1709 si è esercitato in simil genere. Il suo Fajele contiene l’ argomento stesso della Gabriela del Belloy, cui il marito dà a mangiare il cuore dell’amante, trattato colle medesime molle ed atto come quella a partorir piuttosto orrore che terrore tragico. Più lugubri, benchè meno sanguinose, sono il Conte di Cominge e l’Eufemia. Nell’uno si rappresentano le avventure del conte divenuto religioso della Trappa che geme tra i cimiterj e le teste de’ morti; nell’altro una religiosa disperata, la quale nel proprio confessore ravvisa l’antico suo amante che vuole obbligarla a seguirlo fuori del convento? Più interessante è il Cominge, più nojosa l’Eufemia. Nell’una e nell’altra favola si tesse una serie di evenimenti romanzeschi che si narrano come preceduti all’azione. Il Merinval è pure un’ azione tragica del medesimo scrittore avvenuta tra persone private, in cui si scorge la medesima energia nella passione e la medesima tinta lugubre e cupa. Un’ altra religiosa disperata che si avvelena per essere stata dal padre astretta a monacarsi, ha dipinta M. de la Harpe nella sua Melania. Manca ancora a’ Francesi l’arte d’inseguire col sale comico e colla sferza del ridicolo questa vanità ed ingordigia de’ capi delle famiglie che astringono le donzelle a seppellirsi per conservare a’ maschi intere le patrie ricchezze. Il Socrate dramma in prosa {p. 136}che Voltaire diede al pubblico nel 1755 come una traduzione di quello di Tompson alunno di Adisson, dee collocarsi nella classe delle tragedie cittadine per la mescolanza del patetico e del famigliare. Senza qualche tratto troppo comico e malizioso ne’ caratteri di Anito, Melito e Drixa, e de’ pedanti Grafio, Como e Bertillo giornalista, sarebbe questo dramma il modello di tale specie di tragedia.

Dalla tragedia cittadina, la quale, ove si preservi da colori comici e si contenti di cedere i primi onori al sublime continuato della tragedia grande, potrebbe tollerarsi anche in un teatro di buon gusto, si discende ad un dramma senza contrasto riprensibile, cioè ad una commedia lagrimante, nella quale s’imbratta con pennellate ridicole un quadro tragico. Sedaine, Falbaire e Mercier hanno coltivato questo genere comicolugubre con singolare felicità, il primo nel Disertore, il secondo nell’Umanità, il terzo nell’Indigente, drammi interessanti, ne’ quali però il gusto non si riposa interamente. Non eccedono la natura gli scherzi comici dell’uffizialetto nel Disertore, ma non si accordano colle situazioni patetiche che vi sono. Commuove nell’Umanità l’angustia ove si vede ridotto un padre di famiglia che esce a rubare per sostentare i suoi, ed è condannato alla morte. Ma una ipotesi troppo rara discopre lo studio {p. 137}dell’ autore di mettere in tali circostanze un uomo virtuoso, che a stento si rinvengono ne’ processi criminali più famosi. Or qual pro dal rappresentare queste atrocità non comuni? L’esperienza ne convince che il patetico per lo più si risveglia con un tratto semplice ma vero ricavato dal fondo del cuore umano; a che dunque caricar le tinte a sì alto segno? Nell’Indigente il sig. Mercier ha confuse le tinte de’ caratteri comici colle tragiche, dando al suo dramma un’ aria di somma tristezza senza bisogno. Spogliandolo dell’affettazione pantomimica e delle azioni scimiesche e della lugubre dettatura del testamento, l’azione e il carattere dell’Indigente prenderebbe il portamento di una delicata tenerezza che meglio si adatterebbe col comico utile disviluppo della favola e col cangiamento di M. de Lys affrettato bellamente dal Notajo. Ma gli altri drammi del Sedaine, il Filosofo senza saperlo, la Scommessa, Maillard o Parigi salvato, non sono stati così applauditi come il Disertore. Le Roi & le Fermier del medesimo autore dee collocarsi in una classe men tetra della commedia piangente. Nè anche gli autori dell’Umanità e dell’Indigente ne hanno composti altri ugualmente riusciti; specialmente il Mercier sembra di aver degenerato nell’Abitante della Guadalupa. In quello che intitolò Natalia rappresentato la prima volta in Parigi nel 1787, {p. 138}si notano molti difetti, benchè non lasci d’interessare.

Altri drammi piangolosi non molto riusciti nel pubblico teatro, e meno nella lettura, per chi non ama la confusione de’ generi, si sono veduti sulle scene francesi. M. Louvais fe rappresentare nel 1773 l’Adone scritto in prosa; l’Orfano Inglese parimente in prosa uscì nel 1769; M. Fenouillot dal 1767 sino al 1771 ha pubblicato il Delinquente onorato in versi, il Fabbricante di Londra in prosa, e il Beverley in versi; M. Dudoyer è autore del Vendicativo in versi.

In alcuni drammi di Diderot, di Beaumarchais e di qualche altro dee riconoscersi una specle di rappresentazione men lamentevole e perciò men difettosa della pretta lagrimante, ma però ben lontana dal pregio della nobile commedia tenera. Nel Padre di famiglia del primo, nell’Eugenia del secondo, nel Figliuol prodigo del Voltaire non si vedono moribondi per mancanza di pane, testamenti, sentenze di morte, esecuzioni di disertori, nè un padre che si getta a rubar sulla pubblica via vicino ad essere impiccato. Le passioni vi sono vive ma meno tragiche e più proprie della commedia nobile, o come dicono i Francesi, du haut comique, sebbene se ne vorrebbero correggere diversi eccessi. Osserviamone qualche particolarità.

Dionigi Diderot filosofo di molto nome {p. 139}morto nel 1787 vide il suo Padre di famiglia nel 1761 rappresentato in Parigi con felice successo ed applaudito eziandio su’ teatri stranieri, principalmente perchè sin dalla prima scena il pubblico s’interessa per Sofia e per Saint-Albin, la cui passione è toccata con ottimi colori. Ecco come quest’innamorato si esprime con naturalezza e calore: Elle pleure, elle soupire, elle songe à s’éloigner, & si elle s’ éloigne, je suis perdu. É ben vago questo pronome elle posto prima di nominar Sofia ad imitazione di Terenzio. Delicato è pure ciò che dice nell’atto II: Si on me la refuse, qu’ on m’apprenne à l’oublier . . . L’oublier? Qui? Elle? Moi? je le pourrois? je le voudrois? que la malediction de mon père s’acomplisse sur moi, si jamais j’en ai la pensée. E allorchè il Commendatore vuole atterrirlo, dicendo che se il Padre l’abbandona, gli rimarranno appena per vivere 1500 lire di entrata, l’innamorato vivacemente ne deduce una conseguenza contraria e non attesa da suo zio: J’ ai quinze cents livres de rente? Ah Sophie, vous n’habiterez plus sous un toit. Vous ne sentirez plus les atteintes de la misère. Sono assai vaghi questi tratti, e lo studioso giovane l’osserverà, l’imiterà, se ne abbellirà alle occorrenze; ma si terrà lontano da’ difetti del dramma. La dipintura del carattere del Padre di famiglia non corrisponde alle accennate bellezze. {p. 140}Egli non sa far altro che piangere a tutte le ore, e filosofar cicalando mentre è tempo di operare: non manca nè di buon cuore nè di tenerezza pe’ figli, ma di prudenza e di attività nelle circostanze scabrose: è ricco ed indipendente, e pure si contenta di rappresentare in sua casa il secondo personaggio dopo del Commendatore suo fratello, che colle sue maniere e stravaganze mette tutto in iscompiglio. L’ invenzione di questa favola appartiene al nostro Goldoni, il quale scrisse in Italia il Padre di famiglia commedia per altro non poco difettosa. Diderot la volle imitare e correggere, e ne snaturò il genere formandone una favola tetra, poco men che lugubre quanto una commedia larmoyante. Tolse egli ancora dal medesimo Goldoni la sostanza del suo Figlio naturale dramma serio privo di ogni carattere comico. Questa favola discende dal Vero Amico dell’Italiano, il quale mal grado di varj difetti vale assai più del Figlio naturale, benchè Diderot nel tempo che se ne valeva volle chiamarlo farsa senza averne veruna caratteristica. Non si vedono nel Figlio naturale se non che situazioni semitragiche prese in prestito altronde ed attaccate al piano del Vero Amico, e vi regna tale affettata nojosa saviezza in tutti i personaggi e specialmente nel Figlio naturale ed in Costanza, che farà sempre sbadigliare sulla scena.

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Il disprezzo che avea Beaumarchais per l’eccellente comico maneggiato da Moliere, congiunto alle minutezze su gli abiti e all’affettata descrizione pantomimica de’ personaggi muti, poco danno indizio di un ingegno investigatore de’ grandi lineamenti della natura e ricco di vero gusto. Nondimeno non parmi che si debba coll’ autore de’ Tre Secoli collocare senza veruna riserba la di lui Eugenia tralle favole viziose e contrarie alla scena di Talia. Confesso che egli dovea meglio contenersi nel recinto prescritto alla commedia nel toccare le passioni tenere: che vi si scorge qualche difetto di verisimiglianza nel piano: che i colpi teatrali di tutto l’atto IV prodotti dalla vendetta meditata da madama Murer, sembrano più proprj di un’ opera musicale eroica che di una commedia. Ma la dilicata Eugenia non merita punto l’oltraggioso disprezzo che ne mostrarono alcuni. L’intreccio, l’ argomento, i caratteri del Barone e di Murer appartengono alla commedia. Gli affetti di Eugenia son dilicati, e sebbene eccedano alquanto passando oltre de’ limiti concessi alla commedia tenera, non hanno però la nota abbastanza furiosa qual si richiede nella tragedia. Il m’avait (dice Eugenia nella 2 scena dell’atto I) caché ces bruits dans la crainte de m’affliger . . . Comme il m’a regardée en repondant! Ah ma tante que je l’aime! Questa delicatezza {p. 142}che pur si rinviene nelle favole Terenziane, non isconviene alla commedia, e nocerebbe alla tragedia. La quinta e l’ottava scena dell’atto III sono belle e teatrali. È patetica ma non terribile la terza scena del IV, ed interessante la deliberazione del Padre di Eugenia, il quale si lusinga di trovare in corte giustizia e pietà. Delicata infine è l’esclamazione di Clarendon, Elle me pardonne, colla quale per trasporto di gioja egli previene le parole di Eugenia già intenerita. Beaumarchais pubblicò anche i Due Amici del medesimo colorito dell’ Eugenia; ma si astenne di chiamarle commedie, contentandosi d’intitolarle rappresentazioni. Fecero lo stesso altri autori di drammi semilugubri. Con miglior consiglio sacrificando qualche espressione, o colpo teatrale troppo tetro senza diminuirne l’interesse, si sarebbero meglio contenuto ne’ giusti confini senza bisogno di nuove voci. Beaumarchais ha composte altre due commedie lontane dalle tinte lugubri delle rappresentazioni, cioè il Barbiere di Siviglia, e la Giornata pazza ovvero il Matrimonio di Figaro. Esse sono tratte da’ costumi spagnuoli ed abbondano di colori teatrali, di piacevolezze e di tratti satirici.

Ad accreditar questo genere che si allontana da’ tristi eccessi del comico larmoyant, ma che per qualche tinta soverchio tetra si diparte dalla buona commedia tenera, ha contribuito {p. 143}ancora il Voltaire con due buone favole malgrado di alcun difetto, cioè col Figliuol Prodigo rappresentato nel 1736, e col Caffè ovvero la Scozzese. Mirabile nella prima è la dipintura de’ costumi. Toccati con maestria e con pennello comico sono i caratteri di Fierenfat, Rondon, la Baronne. Solo qualche riflessione troppo seria di Eufemone il giovane sembra trascendere il confine della commedia. Nel Caffè dipingesi la natura con sagacità. Polly, Friport, Mylady Alton hanno tutta la vaghezza comica. Frelon giornalista basso, venale, impudente, maledico e malfacente, fra’ tratti ridicoli che l’avviliscono ne ha alcuno che muove a sdegno per la troppa malvagità che manifesta senza rimorso. Fabrizio cafettiere di ottimo cuore è copiato dalla Bottega del Caffè del Goldoni. Il carattere della Scozzese è nobile, delicato, interessante. Non v’ha che Monrose il quale pieno de’ suoi spaventi e pericoli porta nella favola la propria tristezza quasi tragica. Voltaire pubblicò di aver tradotto questa favola da una di M. Hume fratello del celebre Hume storico e filosofo Scozzese.

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CAPO VII.
Della vera commedia Francese e dell’Italiana in Francia. §

I.
Commedia Tenera. §

La tragedia grande o domestica si prefigge di eccitare il pianto, ed esclude ogni riso: la commedia ride più e meno e in diversi modi, e non esclude certo pianto. Se voi fate una tela lugubre di persone private che ecciti il terrore, producete la tragedia domestica o cittadina: se a tal favola frammischiate alcuni tratti comici, cadete nella sempre riprensibile alleanza del pianto e del riso della commedia lagrimante che distrugge l’unità dell’interesse contro l’oggetto del poeta: se le comiche dipinture non contrastano con situazioni terribili, ma servono a dar moto a’ dilicati interessi famigliari ed a quel patetico che nasce dalle amorose debolezze combattute dagli eventi, voi spogliate la commedia lagrimante de suoi difetti, e la rendete una lodevole commedia tenera. Adunque quest’ultima specie di commedia presenta tutti i vantaggi della {p. 145}sensibilità posta in tumulto nelle favole lagrimanti, ma ne sfugge gli eccessi lugubri, l’espressioni da coturno, il tuono di disperazione, i gran pericoli. L’amor tenero e delicato, che degrada quasi tutte le tragedie francesi, ha il suo proprio luogo nella commedia tenera, che non conobbe Moliere, ma che conobbero in Grecia ed in Italia Menandro, Apollodoro, Terenzio, il Caro, l’Oddi, il cavalier Porta nel Moro e nella Sorella. Non sono le lagrime che rendono difettose le favole di Sedaine, Mercier, Falbaire e tanti altri, ma il tuono tragico, i gran delitti, i patiboli. La commedia tenera si contenta della sobria piacevolezza che risulta dalla pittura comica de’ costumi, rigettando la tinta risentita del buffonesco; ed ammette le lagrime delicate, guardandosi dal terrore e dalla sublimità tragica. Tutto ciò dimostra i confini delle specie drammatiche, e fa vedere che la commedia lagrimante è l’abuso e la corruzione della nobile e gentile commedia tenera. Guai al pedante folliculario intento a schiccherar deplorabili colpi d’ occhio

Colla veduta corta d’una spanna,

il quale non sapesse distinguere il pennello dell’autore di Pamela o di Nanina da quello di Sedaine o di Mercier.

Gli autori francesi che a me sembra di {p. 146}essersi contenuti alcune volte in questa specie di commedia senza cadere nella lagrimante, sono la Chaussée, madama di Graffigny, Voltaire e Collet.

Nivelle de la Chaussée nato in Parigi nel 1691 e morto nel 1754 ha maneggiato questo genere qualche volta con felicità. Il suo Pregiudizio alla moda ben dimostra che la commedia può avere certe lagrime senza cangiare la propria natura. Un marito che temendo di coprirsi di ridicolo agli occhi de’ pregiudicati suoi amici col mostrarsi innamorato della propria moglie, incorre nell’altro di voler palesare a lei il suo affetto colla segretezza che esige un amor colpevole, e con ciò cagiona le tenere lagrime della consorte, quest’ argomento, dico, è un vago innesto di costumi correnti, di tenerezza e di piacevolezza comica, che manifesta il pregio della commedia tenera. A torto contro di questo genere si sarebbero scagliati Chassiron, Palissot e Sabatier des Castres, confondendolo col larmoyant e colla tragedia cittadina, se la Chaussée avesse con pari felicità proseguito. Ma la di lui Melanida è una specie di romanzo fondato sul cangiamento di un nome, e troppo lontano dall’ essere commedia, benchè vi si trovi qualche situazione interessante. Il suo Amor per amore è sul medesimo gusto alieno dal vero comico, ma più languido ed a parer mio meno pregevole per aver {p. 147}l’ autore in tal favola voluto valersi delle fate e delle trasformazioni.

Francesca di Graffigny nata in Nansi nel 1695 e morta in Parigi nel 1758 diede al pubblico Cenia sotto il titolo di pièce nouvelle, nella quale imitò la Donna di governo di M. la Chaussée senza uguagliare l’ originale. Non mancando d’interesse ed essendo stata rappresentata assai bene nel 1750, mal grado di essere sfornita di veri colori comici, riuscì mirabilmente, e si è anche recitata e tradotta altrove. In seguito l’autrice diede al teatro, la Figlia di Aristide, del medesimo genere, la quale non ebbe ugual successo felice, perchè, dice Palissot, il tempo dell’indulgenza era passato.

La Pamela del Goldoni tratta dal celebre romanzo di Richardson mosse verisimilmente Voltaire a comporre la sua Nanina commedia tenera in tre atti. Essa si rappresentò nel 1748 la prima volta a Versailles; ma secondo il Giornale straniero del 1755 quando si replicò in Parigi, non vi fu accolta troppo favorevolmente. L’azione è più semplice di quella della Pamela: ha di più il merito di essere bene scritta in versi: i costumi vi sono toccati con franchezza, le passioni dipinte delicatamente: lo scioglimento avviene senza la gran rivoluzione della condizione della fanciulla; perchè Nanina al più si trova figliuola di un soldato nato in una onesta famiglia, là dove {p. 148}il padre di Pamela nella commedia Italiana si scopre signore Scozzese. Contuttociò le passioni hanno maggior forza nella Pamela: il contrasto nel cuore di Milord dell’amore e della nobiltà più vivace e teatrale: i costumi Inglesi più atti a tenere svegliata l’attenzione, specialmente col contrasto del cavaliere viaggiatore pieno di leggerezze. In fatti la Pamela non è ancora invecchiata, e la Nanina non parmi che torni spesso sulle scene francesi.

Carlo Collè segretario e lettore del duca d’Orleans nato in Parigi nel 1709 è uno de’ Francesi che hanno ritenuta la giusta idea della comica giovialità, resistendo alla seduzione del cattivo esempio de’ comici lagrimanti. Nel di lui Teatro di Società vi si trovano varie scene eccellenti. Senza soscrivere a tutte le lodi date dal Palissot alla commedia Dupuis & Des Ronais rappresentata nel 1763, possiamo noverarla tralle commedie tenere non infelici. “Benchè desti (dice il nominato critico) talvolta la tenerezza e le lagrime, per la verità de’ caratteri e per la semplicità degli evenimenti, è questa favola ben lontana da que’ drammi così poco degni di stima che vanno sotto il nome di tragedie cittadinesche e di commedie lagrimanti, pel cui cattivo genere il sig. Collé ha non di rado manifestato disprezzo. Questa favola è nel gusto delle commedie di Terenzio. I sentimenti sono veri, {p. 149}i caratteri ben sostenuti, il dialogo è naturale”. Si scorge da questo passo che il Palissot e il Collé compresero la differenza che passa tralla commedia tenera e la lagrimante. La comprese il Voltaire che compose la Nanina e il Figliuol Prodigo, ed affermava che la commedia può appassionarsi, adirarsi, intenerire, purchè non trascuri poi di far ridere la gente onesta. Comprese questa medesima differenza fin anche Chassiron tesoriere di Francia, il più severo, valoroso ed ingegnoso oppugnatore della tragedia cittadina e della commedia piangente. Egli nella sua dissertazione inserita nel tomo III della raccolta della sua Accademia della Roccella conchiude dicendo che “se in una commedia l’ intenerirsi può talvolta giugnere sino alle lagrime, appartiene unicamente alla passione di amore di farle spandere”. Al contrario non la comprese l’autore de’ Tre Secoli della Letteratura Francese, che non ammette altra specie di commedia se non quella di Moliere, la quale è veramente ottima, ma non la sola pregevole, siccome compruovano quelle di Terenzio. Sabatier des Castres pone nella classe riprovata delle commedie dolorose la Caccia di Errico IV del medesimo Collé. E perchè mai? Che vi ha di lugubre? Forse le lagrime liete e gentili che versa Errico a i discorsi naturali e candidi del contadino? Ma passiamo alle commedie piacevoli prodotte in Francia.

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II.
Commedia piacevole. §

Dopo i felici seguaci di Moliere del passato secolo Regnard, Brueys e Dancourt, troviamo tra’ buoni comici ne’ primi lustri del nostro Du Fresny nato nel 1648 e morto nel 1724, il quale dopo aver lavorato per l’antico teatro Italiano di Parigi insieme con Regnard, diede al Francese diciotto buone commedie. Nello Spirito di contraddizione che può passare per una delle migliori, e nella Riconciliazione Normanda ed in qualche altra, il sagace osservatore scorgerà maneggiata con arte certa spezie di ridicolo sfuggito al pennello di Moliere. Palissot mostra dispiacere di non vedersi più sulle scene di Parigi il di lui Falso Sincero, ed il Geloso vergognoso d’esserlo, a cui il prelodato Collé fece alcune felici correzioni49. I versi del Du Fresny (dice l’istesso Palissot) cedono in facilità a quelli di Regnard, ma il di lui stile è più puro. {p. 151}Io veggo nelle sue espressioni certo studio non molto occulto di mostrarsi spiritoso, (Nota VII) ond’è che la sua maniera degenera alcuna volta in affettazione, e fa perdere di vista i personaggi palesando il poeta.

Filippo Nericault Des Touches nato in Tours nel 1680 e morto nel 1754, le cui commedie cominciarono a rappresentarsi nel 1710, possiede arte e giudizio, ed anche spirito comico, benchè non possa sostenere il confronto della piacevolezza di Regnard, non che dello stile e delle grazie di Moliere. Instruttiva è la commedia del Dissipatore e di sicura riuscita, e i caratteri vi sono dipinti assai bene: ma si vorrebbe che la di lui rovina venisse affrettata per altri mezzi, e sempre per le di lui inconsiderate prodigalità, anzi che per un giuoco precipitoso di dubbio evento, che poteva eludere i disegni dell’innamorata divenuta scrocca all’ apparenza. Il Vanaglorioso tradotta in toscano dal Crudeli e lodata con distinzione dal Voltaire è l’altra commedia del Des Touches universalmente approvata; non per tanto forse il Palissot non a torto desiderava che il protagonista avesse un tuono più proprio della gente nobile. Il Filosofo maritato presso il medesimo critico passa per un capo d’opera: ma per meritare il nome di filosofo il quale ha vergogna che si sappia ch’egli sia maritato, non si doveano {p. 152}meglio far contrastare i suoi lumi colla forza del pregiudizio, e dal non saperlo vincere trarne un ridicolo più vivace? L’Irresoluto per mio avviso è un carattere errato, equivocandosi talvolta l’irrisoluzione colla pazzia. Moliere avrebbe forse meglio scelti i lineamenti speciali e proprj dell’ irrisoluzione per rendere quella pittura vera e naturale e chiara e per conseguenza piacevole. Nell’Uomo singolare egli copia dalla propria fantasia, o da qualche originale particolare da non poter riuscire importante pel pubblico che nulla v’impara per correggersi, nè prende diletto di un ridicolo non manifesto. Le stravaganze solo potrebbero produrre qualche diletto, qualora quest’uomo singolare non fosse freddo. Egli scrisse anche l’Agnese, i Nipoti ed altre commedie d’ intrigo, ed il Tamburro notturno che viene da una favola Inglese. In generale Des Touches è uno de’ buoni comici della Francia, e qualche sua favola riesce dilettevole, e molte interessanti; ma la piacevolezza non è il pregio caratteristico di questo commediografo.

Cristofano Bartolommeo Fagan nato in Parigi nel 1702 e morto nel 1755 dotato di facilità e di naturalezza nel genere comico, ma obbligato dalle sue strettezze a scriver troppo, mostra nelle sue favole l’ effetto della precipitazione. Non si dovea stampare tutto ciò ch’egli produsse pel teatro. {p. 153}Bastava solo per sua lode che s’imprimessero: la Pupilla, la Stolidità, l’Appuntamento, l’Inquieto, gli Originali, nelle quali dipinge con naturalezza i costumi.

Piron di cui si è parlato fra gli scrittori tragici, forse dovrà alla Metromania, commedia ingegnosa, piacevole, spiritosa e regolare, la sua riputazione maggiore. Il piano è ideato con pratica e scorgimento: l’azione semplice diletta e interessa: i caratteri vi sono bene espressi e vivaci: i sali spirano urbanità e piacevolezza: lo stile conveniente e spiritoso senza sforzo e senza pregiudizio della naturalezza: la versificazione ha tutta l’armonia che può comportare la natural monotonia del verso Alessandrino. L’argomento consiste in un giovane ben nato che sacrifica la propria fortuna alla smania di poetare. Giudiziosamente viene egli enunciato prima di comparire. La serva domanda notizie distinte di lui ad un servo, che risponde così dipingendolo bellamente:

Oh! c’est ce qui n’est pas facile à peindre. Non.
Car selon la pensée où son esprit se plonge,
Sa face à chaque instant s’élargi où s’ allonge.
Il se neglige trop, où se pare à l’exces:
D’état il n’en a point, ni n’en aura jamais.
{p. 154}
C’est un homme isolé qui vit en volontaire:
Qui n’est bourgeois, abbé, robin, ni militaire:
Qui va, vient, veille, sue, & se tourmentant bien,
Travaille nuit & jour, & jamais ne fait rien.

Tralle scene dell’atto I è graziosa e caratteristica la quarta in cui Dami si trattiene col servo su i proprj amori per una pretesa letterata di provincia ch’egli non conosce se non per le di lei poesie recate nel Mercurio. Egli prevede che da questo matrimonio nasceranno

Des pièces de théâtre & des rares enfans.

Ei già conta almeno tre figliuoli, e destina al primo la poesia comica, al secondo la tragica, all’ultimo la lirica, riserbando per se il pubblicare ogni anno un mezzo poema, e per la moglie un mezzo romanzo; tratti individuali del carattere, che subito danno al ritratto la vera fisonomia. La Dulcinea di questo Don Chisciotte poetico allude all’ avvenimento di M. Maillard poeta Brettone, il quale avendo pubblicate alcune poesie mediocri sotto il nome di Mademoiselle de Malcrais, ne ricevè gli elogj {p. 155}de’ più noti poeti della Francia, e varie dichiarazioni di amore in versi: ma gli elogj e gli amori si convertirono in dispregi tosto che l’autore ebbe l’imprudenza di smascherarsi. Traspare nella scena sesta dell’ atto III la grazia comica di Moliere oggidì perduta totalmente in Francia. L’incontro di Arpagone col figliuolo nell’Avaro si è rinnovatoin certo modo in quello di Balivò con Dami suo nipote, al cui vero stupore creduto effetto dell’arte da essi posta in rappresentare una scena, Francaleu grida attonito:

Comment diable! a merveille! à miracle! courage;
On ne sçauroit joüer mieux que vous de visage.

Sommamente comica ancora è la scena quarta dell’atto IV, nella quale Francaleu, che ha data la sua parola a Balivò di far carcerare il di lui nipote, prega l’istesso Dami di cui si tratta, a prendere sopra di se tale carcerazione. Dami se n’era scusato sulla difficoltà che incontra un poeta a farsi luogo nella corte, dove, al suo dire,

Nous sommes éclipsés par le moindre minois,
Et la, comme autre part, les sens entrainent l’homme,
{p. 156}
Minerve est éconduite, & Venus a la pomme.

Ma intendendo poi che si tratta di lui stesso, finge prenderne l’ impegno, e dice,

Oh! je le servirai, si ce n’est que cela.

Francaleu allora ricusa avendo pensato ad un altro, Dami insiste, e le sue premure riescono piacevoli. Lepida è pure la sesta scena di Lisetta, che scaltramente fa confessare a Dami di esser egli l’autore anonimo di una commedia che poi si sa di essere stata fischiata nella rappresentazione. La settima è ancora più vivace e piena di sale comico. In essa Dorante ingannato dagli abiti di Lisetta la prende per Lucilia, e la rimprovera per averla sorpresa nell’atto che Dami le bacia la mano. Lo scioglimento corrisponde alle grazie di questa commedia eccllente, nella quale colla sferza comica ottimamente si flagella una ridicolezza comune a tutte le nazioni culte di far versi a dispetto della natura, il quale argomento fu infelicemente trattato in Italia dal signor Goldoni nella commedia intitolata i Poeti.

Hanno prodotto in Francia alcune commedie pregevoli, mentre Talia vi cangiava l’abito gentile che un tempo la rendeva vezzosa, i seguenti scrittori: Giovanni Campistron {p. 157}autore della buona commedia il Geloso disingannato rimasta al teatro; le Sage nato a Ruys in Brettagna nel 1677 e morto nel 1747 autore della graziosa commedia di Turcaret, e della piacevole commediola di Crispino rivale del padrone; Giambatista Rousseau nato in Parigi nel 1669 e morto nel 1740, che pubblicò l’Adulatore, ed il Capriccioso, commedie non esenti da difetti, ma pregevoli pe’ caratteri bene espressi.

Gresset d’Amiens autore della graziosa novelletta le Vert-vert, dopo aver dato al teatro Sidney scritto con eleganza ma che non ebbe compiuta riuscita, per esserne il soggetto lontano dal tempo presente e dal costume francese, pubblicò il Méchant buona commedia rappresentata nel 1740 con molto applauso. Vi si dipinge un malvagio pieno di spirito di cui veggonsi nelle società culte molti originali, che sotto di un esteriore polito nascondono il cuore più nero e l’empietà più raffinata. Voltaire nel Pauvre Diable poco bene affetto a Gresset pretende che nelle di lui commedie manchi azione, interesse, piacevolezza e la necessaria dipintura de’ costumi correnti. Convenendo col Voltaire per la mancanza di piacevolezza e in certo modo anche di azione, parmi di non poter negarsi alla commedia del Méchant il merito d’un vivace colorito ne’ caratteri, della buona versificazione e di {p. 158}uno stile salso ed elegante. Ecco il carattere del protagonista preventivamente enunciato da Lisetta a gran tratti:

S’il n’avoit de mauvais que le fiel qu’il distile,
Ce seroit peu de chose, & tous les medisans
Ne nuisent pas beaucoup chez les honnêtes-gens;
Je parle de ce goût de troubler, de détruire,
Du talent de brouiller, & du plaisir de nuire,
Semer l’aigreur, la haine, & la division,
Faire du mal enfin, voila votre Cléon.

Degne di essere singolarmente notate mi sembrano le seguenti scene: la terza dell’atto II piena di pitture naturali del gran mondo di Parigi; la settima dell’abboccamento di Valerio con Cleone; la nona dell’atto III che contiene un giuoco di teatro di Cleone il quale sottovoce ora anima Valerio a farsi credere uno stordito, ora fa notare a Geronte le di lui sciocchezze ed impertinenze; mentre che Valerio adopera tutta la sua industria per riescire a screditar se stesso, e Geronte s’ impazienta, freme, si pente e risolve di rompere ogni trattato. Tralle scene bene scritte dee contarsi la 4 {p. 159}dell’ atto IV, in cui Aristo (personaggio virtuoso copiato dal Cleante del Tartuffo) volendo distaccar Valerio dall’amicizia di Cleone entra a dipingere i malvagi culti che affettano di dare il tuono negli spettacoli, quei che prendono l’aria beffarda e quei che vogliono parer gravi e laconici. Questa scena termina con una osservazione vera e gloriosa per l’umanità. Valerio temendo di comparir singolare per troppa bontà, asserisce che tutti sono malvagi sulla terra; e Aristo distrugge quest’opinione ingiuriosa al genere umano con una notabile risposta, la quale soffriranno di veder quì tradotta certi meschini ingegni non meno di Valerio ridicoli, i quali volendo passar per uomini di mondo escludono ogni probità dalla terra:

Sono tutti malvagi? È ver, son tali
Certi perversi cuor che ognun detesta:
Tale è la calca, è ver, d’uomini falsi,
Di spregevoli donne, di buffoni,
Spiriti bassi, spiriti gelosi,
Senza onestà, senza principj, senza
Costume meritevole di stima;
Gente infingevol che a se stessa rende
Giustizia disprezzandosi a vicenda.
Ma questa detestabile genia
Priva d’onor, di scrupolo e di freno
Ricoprir di ridicolo e di scorno
Procura invan l’altrui bontà di cuore.
{p. 160}
Per dissipar tal nebbia, e mostrar chiaro
Che per natura non è l’uom proclive
Alla malvagità, prender potete
Per giudice e ascoltar come un oracolo
Il popolo raccolto in un teatro.
Quivi quando alcun tratto si dipigne
Di candor, di bontà, dove trionfi,
E del proprio splendor tutta sfavilli
L’umanità benefica e gentile,
Di pura voluttà s’empie ogni cuore,
Quivi s’intende di natura il grido.

L’ultima scena dell’atto IV contiene lo stesso artifizio usato da Elmira nel Tartuffo, benchè la copia venga dall’ originale sorpassata per vivacità e maestria. Lo scioglimento del Méchant avviene senza sforzo per mezzo di una lettera del medesimo Cleone. Dee però notarsi in questa bella dipintura che il malvagio è troppo abbellito dallo spirito che gli presta il poeta per renderlo simile agli originali Francesi e a’ malvagi che brillano nelle società polite. Forse non inutilmente, perchè divenga più comico e più spregevole, poteva sulla malvagità caricarsi la tinta dando a Cleone un poco più di ridicolo e meno di politezza e d’ingegno (Nota VIII). Si è detto che il Méchant contiene eccellenti versi di satira più che di commedia; ma la satira è tanto aliena dalla commedia? Più giustamente s’ imputa all’autore l’aver dato a’ personaggi il {p. 161}proprio spirito in vece di farli porlare giusta i costumi e le condizioni, nel che segnalaronsi Moliere e Machiavelli.

Voltaire, oltre alle riferite commedie tenere, altre ne produsse nel genere puramente comico. In versi alessandrini compose l’Indiscreto dipintura più dilicata del Chiacchierone del Goldoni, ma priva di azione. Scrisse ne’ medesimi versi la Donna ragionevole uscita nel 1758, la quale può dirsi una galleria di bei ritratti; ma v’introdusse M. Duru che poco verisimilmente si trattiene molto tempo sconosciuto nella propria casa. Pubblicò nel 1762 in versi di dieci sillabe ottimi per la commedia il Dritto del Barone interessante pel carattere di Acanta ma tessuta di avventure romanzesche sforzate. La Bacchettona, ovvero la Custoditrice della Cassetta tratta da una favola inglese è parimente scritta in versi di dieci sillabe, e vi si vede ben dipinta una falsa virtuosa contrapposta ad una sua cugina amante de’ piaceri ma ingenua e di buon cuore ed anche ad un uomo candido, il quale giudica bene della prima e male della seconda, ed al fine a stento si disinganna per opera di una fanciulla che si occulta sotto spoglie virili. Voltaire compose anche la Contessa di Gibrì, la Principessa di Navarra commedia balletto &c.

Luigi di Boussy nato nel 1694 e morto nel 1758 compose intorno a trenta commedie {p. 162}fredde per lo più ed inferiori a quelle del suo contemporaneo Des Touches, benchè l’autore abbondasse di talento. “Mancavagli (dice Palissot) la profonda conoscenza del cuore umano, quella del mondo e dell’arte comica . . . Mai non possedè il talento del buon dialogo drammatico fondato nell’imitazione fedele del miglior genere di conversazione”. Delle commedie di Boussy sono rimaste al teatro soltanto le Apparenze ingannevoli (les Dehors trompeurs), il Francese a Londra, il Chiacchierone.

Pietro Marivaux nato in Parigi nel 1688 e morto nel 1765 autore di romanzi e di commedie pare che riuscisse meno de’ contemporanei, benchè fuvvi in Alemagna chi tradusse le sue opere50. Dotato di spirito e d’ingegno mancava di naturalezza nello stile, e gli noceva singolarmente certo parlar gergone a lui proprio.

Antonio Bret nato nel 1717 scrittore della Vita di Ninon l’ Enclos si esercitò pure nel genere comico. La Doppia Stravaganza commedia d’intrigo è rimasta al teatro francese. Tratto poi dall’esempio si rivolse l’autore al genere serioso, e tutto di lui si {p. 163}è dimenticato, fuorchè il Falso Generoso, in cui mostrò di saper maneggiare questo genere difettoso senza cadere ne’ soliti eccessi, benchè la versificazione richiedesse maggior diligenza.

Claudio Errico di Voisenon scrittore ingegnoso che vedeva con pena il teatro francese troppo allontanato dalle tracce di Moliere, compose il Ritorno dell’ombra di Moliere buona commedia recitata con ottima riuscita, indi i Matrimonj uguali, e la Cochetta fissata lodate da’ nazionali. La dipintura di una cochetta esige sagacità per ricavare dal fondo del cuore umano e da’ costumi correnti e dalla conversazione i veri tratti comici che ad esso appartengono, pregi che non mancavano al Voisenon. Anche il commediante la Noue autore del Maometto II riuscì in tal carattere nella sua Cochetta corretta, in cui si trova questo giudizioso avviso a chi crede aver motivo di lagnarsi della leggerezza donnesca,

Le bruit est pour le fat, la plainte pour le sot,
L’honnête-homme trompé s’èloigne & ne dit mot.

Il Parigino Saurin dopo aver prodotte alcune commedie poco riuscite sulla scena, cioè les Rivaux, l’Orpheline leguée e la traduzione del Beverley, scrisse in prosa la {p. 164}piacevole commedietta de’ Costumi correnti applaudita in teatro e nella lettura.

L’Addio del Gusto commedia molto bene accolta dal pubblico appartiene al Parigino Claudio Pietro Patu nato nel 1726 e morto immaturamente nel 1757. Egli tradusse anche alcune farsette del teatro inglese, e le pubblicò in Parigi in due volumetti colla data di Londra del 1756. Non è priva di piacevolezza nè di brio l’Impertinente commediola di Desmahys nato nel 1761. La Madre gelosa commedia di tre atti in versi di M. Barthe dell’accademia di Marsiglia si rappresentò nel 1771 e s’ impresse nell’anno seguente. Vi si disviluppa bellamente il carattere delle madri che vedono con gelosia il merito nascente delle figliuole, e si studiano di tenerle lontane dalla conversazione temendo che ne rimanga la propria gloria ecclissata. L’Inglese a Bordò di M. Favart si compose dopo la penultima guerra de’ Francesi ed Inglesi, e riuscì sulla scena.

Per varj spettacoli scenici lavorò Germano Francesco Saint-Foix scrivendo in prosa alcune picciole farse graziose di un atto notabili per la gentilezza che vi regna. Di questo genere sono le seguenti: l’Oracolo impressa nel 1740, in cui intervengono tre personaggi, cioè una Fata, Alcindoro di lei figlio e Lucinda il cui carattere è un leggiadro tessuto di vezzi: le Grazie rappresentata {p. 165}nel 1744 ed impressa l’anno che seguì, il cui soggetto si trasse dall’ode III di Anacreonte di amore immollato dalla pioggia, e dalla XXX dell’istesso amore annodato con una catena di fiori dalle Muse secondo Anacreonte, o dalle Grazie secondo la vaga cantata del Metastasio recitata in Vienna nel 1735: gli Uomini vivace azione drammatica allegorica rappresentata nel 1753, in cui intervengono Mercurio, Prometeo, la Follia e le Statue animate dal fuoco celeste, le quali formano alcuni pantomimi allusivi a i caratteri e alle passioni degli uomini. Si accenna in questa favoletta che il modo di rendere gli uomini meno colpevoli non è già la sterile uguaglianza de’ beni che gli addormenterebbe, ma l’attività dell’amor proprio che rendendo operose e vivaci le loro passioni, fa nascere tutto il mondo civile, leggi, onori, divisioni di ordini, povertà, ricchezza: de l’indigence (vi si dice) naîtra l’industrie; l’industrie sera la mère des arts, des sciences, du commerce; on batira des villes, dans des villes des superbes palais; la mer se couvrira de vaisseaux &c., le quali sagge idee ebbero luogo in una delle commedie di Aristofane, e furono poi nobilitate colla naturale sua grazia e leggiadria dal Metastasio nell’Astrea placata.

Carlo de Montenoy Palissot nato in Nansì l’anno 1730 autore della Dunciade francese {p. 166}compose due drammi comici. L’avversione al mal gusto letterario gl’ inspirò il nominato poema satirico ad imitazione di quello di Pope; e l’ abborrimento conceputo contro i compatriotti che davano nome di filosofia a’ loro capricciosi sistemi, gli dettò le commedie les Philosophes e l’Homme dangereux. Nella prima rappresentata nel 1760 con amarezza e libertà Aristofanesca motteggiò su i moderni filosofi francesi, servendo al piano delle Letterate di Moliere. L’oggetto fu lodevole, ma non è questa composizione una delle migliori commedie51. Nella seconda impressa e {p. 167}non rappresentata vibrò contro gli stessi le più acerbe punture comiche. Il Valerio di quest’altra è una imitazione del Cleanto del Tartuffo e dell’Aristo del Méchant. Per esse la poesia comica nulla ha guadagnato, benchè l’intenzione morale dell’autore fu di manifestar le conseguenze perniciose delle nuove massime de’ filosofi d’ultima moda, per li quali non v’ha nè legge nè virtù veruna. Serva di saggio l’ironico frammento che ne soggiungo tradotto. Il secolo (dice Dorante filosofo moderno) ha fatti tanti progressi che può oramai ridersi dell’odio e dell’invidia. Valerio risponde:

E chi può dubitarne? E quando mai
Vide la Francia tanti varj ingegni
Opre più vaghe, più puri costumi?
La nobil gioventù fu mai più saggia?
Seppe usar meglio delle sue ricchezze?
Ebbe mai miglior gusto? In altri tempi
Delle belle se mai scelta più degna?
Ma soprattutto delle nostre donne
L’onor sicuro, la non dubbia fede
Con tal ragion si può vantar, che vinto
Dal rispetto, di lor più non favello.
I nostri dotti poi stupido ammiro.
La lor filosofia di quai non sparse
Delizie e fiori il viver de’ mortali!
Grazie alle lor fatiche al fin del peso
De’ vecchi pregiudizj e de’ doveri
Scarchi respiriamo. Abbonda solo
{p. 168}
Di giolivi pedanti ogni adunanza:
Sulle orme lor nelle festive cene
Ragionar sanno ancor gli appaltatori:
Son di decenza esempio i nostri abati:
Di studio e di saviezza i curiali.
Non si può far di più, con voi convengo.
Meraviglioso in tutto è il secol nostro.

M. Dorat noto poeta morto nel 1780 d’anni quarantasei coltivò anche la poesia drammatica per avventura poco propria de’ di lui talenti. Cominciò nel 1760 con Zulica e Teagene tragedie d’infelice evento. Riuscì un poco più col Regolo nel 1773, in cui imitò l’Attilio Regolo del Metastasio, e in ricompensa il censurò; al qual travaglio volendo noi mostrarci grati abbiamo fatto menzione della sua tragedia per conservarne almeno il titolo. Sofferse il pubblico nel 1774 l’Adelaide. Pietro il Grande rappresentata nel 1779 fu mal ricevuta. Lasciò ancora Zoramide altra tragedia non rappresentata. Quanto al genere comico troviamo che nel 1773 imitò il Desden con el Desdèn di Moreto nella sua commedia Fingere per amore titolo infelice che non dà punto idea dell’argomento spagnuolo. Il Celibatario, la Rosalba, i Cavalieri Francesi, lo Sfortunato immaginario per qualche tempo ebbero felice riuscita. L’ultima commedia ch’egli produsse fu Merlino bello spirito, {p. 169}nella quale punse gli autori drammatici suoi avversarj.

Monvel, Imbert, Cailhava ed altri hanno lavorato per la commedia con qualche cura senza farla risorgere. Chabanon tralle sue poesie ha pubblicate due commedie lo Spirito di partito ovvero i Contrasti alla moda, ed il Falso Nobile che non danno molta speranza nell’attual decadenza. Rosalina e Floricour, ovvero i Capricci, commedia di tre atti in versi rappresentata in Parigi nel 1787, manifesta una mano di un giovane che potrebbe andar oltre. La contessa di Genlis ha composti due Teatri, l’uno per l’educazione della gioventù, e l’altro di società, ne’ quali si pregiano la Buona Madre, la Rosiera, le Generose Nemiche, il Magistrato. M. Pieyre colla Scuola de’ Padri in versi di cinque atti recitata in Parigi nel 1787 può animare la gioventù a ricalcare le orme della buona commedia e a ricondurre in Francia il socco festevole di Moliere. Si sono anche ultimamente rappresentate l’Ottimista o l’ Uomo contento di tutto del giovane Collin d’ Harleville; il Matrimonio segreto di tre atti tollerata in grazia de’ buoni attori; la Fisica in un atto imitazione debole delle Letterate di Moliere, in cui una donna d’altro non vuol parlare che di magnetismo, di gas, di elettricità, di palloni volanti; le Riputazioni commedia in versi di cinque atti {p. 170}non migliore imitazione delle Letterate rappresentata in Parigi nel 1788; Moliere in casa di Ninon in prosa di mad. di Gouge impressa nel medesimo anno da’ gazzettieri enunciata col titolo di episodica, in cui intervengono le persone più distinte del secolo di Luigi XIV; la Morte di Moliere in versi e in tre atti che serve solo a rinnovare il dolore della perdita di quell’ingegno raro; la Giovane Sposa in versi ed in tre atti del sig. di Cubieres lodata dal giornalista di Buglione per la morale e pe’ caratteri.

III.
Commedia Italiana in Francia. §

Congedata l’antica compagnia non fuvvi in Francia commedia Italiana per lo spazio di 19 anni, cioè sino al 1716, quando il duca di Orleans regente v’invitò la compagnia di Lelio e Flaminia nomi teatrali presi dal Romano Luigi Riccoboni e dalla sua consorte Agata Calderini (Nota IX). Questi nuovi attori detti prima commedianti di S. A. e poi del re nel 1723 ottennero una pensione di 15000 lire. Rappresentarono ne’ primi anni componimenti italiani stravaganti e buffoneschi per servire all’arlecchino, ed il teatro ben presto rimase spopolato. Ripeterono indi i {p. 171}componimenti francesi de’ loro predecessori; ma non ritornando nel lor teatro il concorso pensarono ad abbandonar Parigi. Il pubblico però benchè non pago delle loro favole compiacevasi della buona condotta, dell’urbanità e del rispetto che essi mostravano per la nazione, e con pena gli vedeva partire. Ciò mosse alcuni Francesi a comporre per essi qualche favola nella propria favella in cui cercarono di unire la ragione e la novità alle grazie dell’arlecchino; e quindi nacque un genere di commedia che partecipava della francese e dell’ italiana istrionica. In tal genere si distinsero tra’ Francesi Autreau, le Grand, Fuselier, Boussy, Marivaux, e singolarmente Saint-Foix, e poi l’attore Favart e l’abate Voisenon, e tra gl’ Italiani della stessa compagnia Domenico Romagnesi, Riccoboni, Flaminia sua moglie e Colato morto nel 1778 che rappresentava da pantalone. Di quest’ultimo si rappresentano ancora il Mostro Marino, gl’ Intrighi d’Arlecchino, i Tre Gemelli Veneziani da me ascoltata nel dicembre del 1777 passando per Mompellier. Tra gli altri valorosi attori di tal compagnia si ammirava il famoso Carlino nella parte d’arlecchino, il quale cominciò a rappresentare nel 1742, e la celebre attrice Carolina da alcuni anni ritirati dal teatro. Nel 1788 si è recitata le Arti e l’ Amicizia commedia in un atto secondo i giornalisti nè naturale {p. 172}nè edificante, benchè condotta con qualche interesse e semplicità.

La maniera di rappresentare di quest’Italiani diè motivo agli scrittori francesi di rimproverare a’ commedianti nazionali l’affettazione e la durezza. “Io preferisco (dicesi nel libro l’Anno 2440) quest’Italiani a’ vostri insipidi commedianti Francesi, perchè questi stranieri rappresentano più naturalmente e perciò con maggior grazia, e perchè servono il pubblico con più attenzione”. Diderot diceva ancora: “I nostri commedianti Italiani rappresentano con più franchezza de’ Francesi . . . Nel loro gestire apparisce certo non so che di originale e di facile che mi diletta, e diletterebbe ognuno se non venisse sfigurato dal loro dialogo insipido e dall’intreccio assurdo”. Da ciò si scorge che la bella natural declamazione del celebre discepolo di Moliere Michele Baron nato nel 1653 e morto nel 1729, e della mirabile attrice Adriana Le Couvreur, sia andata degenerando. In fatti il sig. Eximeno nel suo libro Origine e progressi della Musica afferma che i commedianti (Francesi) pajono energumeni che ad ogni atteggiamento vogliono staccar le braccia dal corpo, ed esprimono un affetto di pena colle contorsioni, con cui potrebbe un ammalato esprimere un dolor colico. Non so se il sig. Eximeno sia stato testimonio oculare di ciò che asserisce; ma ben lo fu il nostro Pier Jacopo {p. 173}Martelli. Ecco come egli ne ragiona con conoscimento nel Dialogo sopra la tragedia antica e moderna nella sessione VI: Osservo ne’ Francesi piuttosto un poeta il quale recita le sue poesie che un attore che esagera le sue passioni, mentre non solamente essi alzano in armonioso tuono le voci ne’ grandi affari, ma ne’ bei passi e nell’enfasi de’ gran sentimenti; di modo che par che non solo essi vogliano rilevare la verità dell’affetto naturalmente imitato, ma anche l’artificio e l’ingegno del tragico. Imperdonabile è veramente tal difetto a un attore, non dovendo egli pensare nè a se stesso, nè al poeta, nè allo spettatore, ma unicamente all’affetto che esprime e al personaggio che imita. Parlano (segue il Martelli) gli attori Francesi a voce bassa borbottando, quando compariscono dal fondo della scena, e declamano più sonoramente quando si accostano al proscenio. Senza tale affettazione, parlando essi secondo che esige la natura del dialogo stesso, le parole profferite con vivacità conveniente giungeranno meno sonore dal fondo della scena, e più spiccate a misura che si avvicini l’attore; l’arte che non sappia combinare il comodo di chi ascolta colla verità dell’espressione, è la madrigna della natura. Si situano (aggiugne) mostrando il profilo all’uditorio, e la voce va in un angolo del teatro. E’ un infelice attore colui che ignora l’ arte di accomodarsi {p. 174}alla convenienza richiesta nel favellar con gli altri, alla decenza teatrale e al comodo dell’uditorio. Riprende in seguito il Martelli nel Bouhour il vizio frequente di voltar le spalle al compagno e nel Quinault di lui imitatore censura il soverchio vibrar delle braccia. Si ride poscia del tormento che danno al povero cappello, e del vestito di ballerino che sogliono dare agli eroi antichi. Ecco Agamennone (ei dice) col cappello e colla parrucca Francese sino al collare, dal collo poscia in giù in giubbone e in brache dintornate da giojelli, ricamate d’oro, ridevole, nè Francese, nè Greco, nè di nazione che si sappia finora scoperta nell’universo. Quando arriviamo alle gambe eccolo divenir Greco in un tratto, ecco applicati alla calzetta di seta i tragici maestosi coturni, di modo che parmi appunto quella figura d’Orazio Humano capiti &c. Non parlano diversamente delle improprietà ed affettazioni degli attori nazionali i Francesi di questo tempo. “L’arte della declamazione (dice uno di essi ironicamente) si è fra noi inalzata a un punto sublime. Una principessa irritata impiega tant’arte per esprimere il proprio furor convulsivo che lo spettatore giugne a temer per l’attrice. Un bel principe le risponde con un atteggiamento geometricamente misurato. Gli abiti, i popoli, le damigelle, le guardie e le machine vi fanno tutta l’ azione”. {p. 175}M. Clement nelle sue osservazioni critiche sul poema della Declamazione teatrale di M. Dorat scrive ancora: “Io avrei coperti di ridicolo i nostri attori ossessi, i quali caricano tutto, e non sanno parlare se non per convulsioni, e fanno patir chi gli ascolta per gli strani loro sforzi di voce e pel dilaceramento del loro petto”. Con tutto ciò la Francia ha avuti valorosi attori, e fra gli uomini si sono segnalati Du Fresne e le Kain morto in Parigi nel 1778, e tralle donne, dopo l’insigne le Couvreur, la Desaine, la Gossin, la Dumenil che tutte superava le compagne ed anche se stessa nella parte di Fedra e di Merope, e la maravigliosa Clairon la quale trionfava singolarmente rappresentando Medea, nella cui figura volle farla dipingere la principessa d’Anhalt. Voltaire l’ha più volte encomiata, e le diresse anche un componimento poetico nel 1761.

Nella commedia italiana cui si trova aggregata l’opera buffa che si cantava nella fiera, sogliono anche rappresentarsi opere italiane de’ nostri più celebri maestri, e pastorali, opere-comiche, commedie-balletti, e parodie in francese, recitate senza canto fuorchè nelle arie, e ne’ cori, finali, e duetti. Azemia è una commedia romanzesca in tre atti con ariette, ma di caratteri naturali che riscosse molto applauso nel 1787. Confessano i Francesi di dovere le prime {p. 176}idee delle vere bellezze musicali nel genere comico alla Serva Padrona dell’immortale maestro Napoletano Pergolese, la quale colà si cantò nel 1753.

I Francesi che somministrarono opere musicali a’ comici Italiani di Parigi, sono stati Favart, Saint-Foix, Boussy, Marivaux, Marmontel, Sedaine e Framary autore di Nannete & Lucas, e dell’Isola deserta traduzione di quella di Metastasio nel 1775 animata dalla musica del celebre nostro Sacchini, ed anche della traduzione dell’Olimpiade pure rappresentata colla musica del medesimo eccellente maestro. Il sig. Mayeur nel corrente anno 1789 ha data una commedia istorica in tre atti con musica intitolata il Barone di Trenck.

CAPO VIII.
Teatro Lirico: Opera Comica: Teatri materiali. §

I.
Opera Eroica. §

L’opera francese fondata dal Lulli e dal Quinault che tira dal fondo dell’immaginazione e dall’allegoria e dalle favole un {p. 177}ammasso di prodigj e stravaganze, nel nostro secolo non ha calcato miglior sentiero. Il palazzo del Sole, la reggia di Plutone, divinità, fate, silfi, incantatori, apparenze, miracoli, trasformazioni, edifizj alzati e distrutti in un istante, anelli che rendono invisibili le persone che pur si vedono, pugnali vibrati nel seno altrui che ammazzano chi li vibra, uomini miracolosi dalla barba turchina, ed altre simili stranezze, sono i tesori del teatro lirico della Francia. Un certo M. de Leyre passato in Italia dimenticossi di quanto facevasi nel proprio paese e scrivea da Parma a Parigi che gl’ incantamenti e le stravaganze dell’arlecchino fra noi alimentavano l’ignoranza e gli errori popolari. Egli non seppe osservare che le arlecchinate delle nostre scene si hanno in conto di prette buffonerie ancor dalle nostre femminucce, nè vi è pericolo che possano dentro le Alpi produrre sì temuto effetto. Al contrario chi avesse l’umore di codesto Francese, ben potrebbe con maggior fondamento dubitare che simile disgrazia avvenisse in Francia per lo stile serio e grave che può accreditare appo gl’ incauti le loro rappresentazioni liriche ripiene delle stesse mostruosità che alimentano l’ ignoranza e gli errori popolari.

Reca in vero stupore che i migliori letterati, i Fontenelle, i Voltaire, i Batteux, i Marmontel, lungi dall’inspirare a’ compatriotti {p. 178}il saggio gusto dell’opera istorica di Stampiglia, Zeno e Metastasio, o si applicarono a comporre essi stessi opere mitologiche, o presero a screditar l’opera istorica per sostener la miracolosa. Fontenelle fu autore di Teti e Peleo, Voltaire di Pandora e di Sansone, Marmontel di varie favole musicali alla francese. Le Batteux52, e lo stesso Marmontel53 dicevano che le rappresentazioni favolose sono la parte divina dell’epopea posta in ispettacolo. Ma i Francesi, facendo un aforismo delle parole del Voltaire54, non dicono che i numi della favola, gli eroi invulnerabili, i mostri, le trasformazioni, e tutti gli abbellimenti convenevoli a’ Greci, a’ Romani e agl’ Italiani del XV e XVI secolo, sono proscritti in Francia fin anco nell’epopea? Perchè dunque con gusto contradittorio ammettono tutto questo nella poesia scenica, in cui parlano gli uomini, e non un poeta che si figura inspirato, ed i prodigj si rendono incredibili perchè smentiti da’ sensi? Se questo sistema al loro credere non può avere la verità richiesta {p. 179}nell’epopea, l’avrà poi sulla scena? Ebbe dunque ragione M. Diderot allorchè declamò contro l’assurdità del teatro lirico francese, e deplorò l’ ingegno di Quinault occupato in un genere cattivo. Egli però non fu solo a suggerire miglior sistema sull’esempio degl’ Italiani. Fortunatamente all’articolo sull’opera fornito nell’Enciclopedia dal Marmontel (il cui ragionamento per mille guise assurdo svilupperemo meglio altrove) se ne trova soggiunto un altro più degno della filosofia, che se ben m’appongo appartiene al celebre filosofo Ginevrino. Vi si dimostra che tosto che la musica apprese a dipingere e a parlare, sparvero gl’ incanti e la mitologia, e le divinità furono scacciate dalla scena quando imparò ad introdurvi gli uomini55.

Scrissero ne’ principj del secolo pel teatro lirico la Mothe, Danchet, Menesson, la {p. 180}Roque, Pellegrin sovente deriso ma lodato pel suo Jeste, Fuselier e Cahusac morto nel 1764 autore di Calliroe, e Bernard che compose le Sorprese dell’amore, e Castore e Polluce una delle migliori opere francesi posta in musica dal famoso Rameau.

Ma il teatro lirico e la scenica poesia pastorale nulla in Francia ha di più vago, di più dilicato, di più interessante per le parole e per la musica del Divin du village di GianGiacomo Rousseau. “In Francia (dice M. Romilly56) non si ha idea di un colorito più fresco, nè di un tono più acconcio di semplicità campestre. Quante e quante volte non si son ripetute queste giolive canzoni, Tant qu’ à mon Colin j’ ai sçu plaire, e Je vai revoir ma charmante maîtresse! Ecco quello che dee piacere in ogni tempo; ecco il linguaggio che giugne al cuore perchè dal cuore parte”. Merita ancora di mentovarsi la novità musicale degna dello spirito singolare di Rousseau provata in Lione felicemente col Pigmalione e ripetuta in Parigi nel 1775 con tutto l’applauso. Per dare un saggio della {p. 181}declamazione teatrale e della melopea de’ Greci, fe recitare quella sua favola senza farne cantar le parole. La musica esprimeva a maraviglia gli affetti del personaggio, ne secondava i pensieri, i movimenti, ne dipingeva la situazione, ma riempiva soltanto gl’ intervalli e le pause della declamazione. Molti pezzi di questa musica furono composti dallo stesso Rousseau, e gli altri da M. Coignet. Il sig. Elmotte ha voluto imitare il Pigmalione colla sua scena lirica le Lagrime di Galatea, la quale benchè lontana dall’originale non lascia tal volta di commuovere.

Quanto a’ maestri di musica, oltre ai nominati, si sono distinti in Francia Campra, Destouches, Mouret, Coignet, Rameau anche musico teorico, e singolarmente il gran Rousseau per le sue composizioni teoriche e pratiche, oltre a i profondi esami che dopo del Sauveur ne fecero i noti matematici d’Alembert e la Grange.

Si distinsero tralle celebri attrici dell’opera mad. Pellisier per l’ arte di rappresentare, e mad. le More per l’eccellenza della voce. Si encomiò tralle ballerine mad. Camargo come inarrivabile saltatrice al pari di ogni uomo, e mad. Sallè bella ed eccellente ballerina seria ammirata anche fuori della Francia, entrambe celebrate nelle opere di Voltaire. Mad. Alard contasi anche tralle famose ballerine, come tra’ ballerini di gran nome {p. 182}Dauberval e Vestris Italiano traspiantato in Parigi. Niuno ignora i meriti di Noverre e per le lettere che scrisse intorno all’arte sua, e pel modo di ballare, e per l’invenzione de’ balli, potendosi contare tra’ primi ristoratori dell’arte pantomimica, per aver rinnovata la muta rappresentazione con gesti e con graziosi passi naturali misurati dalla musica in azioni compiute eroiche e comiche.

II.
Opera Comica. §

Nel 1715 si ripigliò lo spettacolo dell’opera comica avendo alcuni commedianti della fiera ottenuta la permissione dell’accademia di musica di rappresentare certe farse piacevoli in vaudevilles (così chiamandosi una specie di cantilena comune propria de’ Francesi diversa dalle ariette) miste di prosa e accompagnate da’ balletti. Rappresentano ancora le parodie de’ componimenti recitati nella Commedia Francese e nel Teatro Lirico, la qual cosa unita al concorso che ingelosiva gli altri commedianti, fu cagione della proibizione a quelli della fiera di dare tali rappresentazioni. Supplirono essi co’ cartelloni, ne’ quali scriveano in prosa ciò che non si poteva dir colla voce, ma in fine questo spettacolo fu totalmente abolito. {p. 183}Si riprodusse l’opera comica nel 1724 e durò sino al 1745, dopo di che alla fiera non si rappresentarono che pantomimi. M. Monnet ristabilì l’opera a S. Germano nel 1752 con tutte le stravaganze e buffonerie e co’ vaudevilles nazionali cari a’ volgari. M. Le Sage è uno de’ drammatici che ha tirato il maggior concorso colle sue piacevoli farse musicali. Fuselier, Roy, Orneval, Carolet, Vadè, Collè assai felice ne’ drammi in vaudevilles, hanno molto lavorato per l’opera comica. Pannard morto nel 1764 scrisse un gran numero di componimenti in vaudevilles applauditi, di parodie e di opere buffe. L’attore Favart dee contarsi tra’ più fecondi e piacevoli scrittori d’opere buffe. È riuscito singolarmente nel vaudeville, ma scrisse anche parodie e burlette con arie, come sono, il Mondo a rovescio, Bertoldo in città, il Cinese in Francia, il Dottor Sangrado, &c. Ascendono a più di ottanta le di lui favole, ma ne scrisse alcune in compagnia d’altri. La sua Chercheuse d’esprit, dice Palissot, si stima meritamente la più ingegnosa opera buffa francese. La di lui moglie attrice già morta ne compose pure alcune ben ricevute, e fralle altre Bastiano Bastiana nel 1753, gli Ammaliati nel 1757, e Annetta e Lubino nel 1762. Reputo pregio dell’opera abbandonare l’immenso mucchio delle stravaganze di questo spettacolo che eccede in iscempiaggini {p. 184}le più grossolane buffonerie musicali dell’Italia. Basta dire soltanto che in questi ultimi anni le magie, i delirj e le più scurrili stranezze sono cresciute soprammodo nel paese dove nacquero Fedra, Cinna e Zaira. Servano per pruova di ciò il Vello d’oro rappresentata nel 1786 la piggiore delle cattive opere musicali, e quelle rappresentate nel 1787 come l’Alcindoro di Chabannes, il Re Teodoro a Venezia del sig. Moline opera eroicomica che manca di comico e di eroico posta in musica dal celebre nostro Paisello, e Tarare di Beaumarchais stravaganza in cinque atti con prologo che incresce al buon senso, benchè diverta i volgari colle decorazioni spettacolose, e l’Amfitrione in tre atti nato e morto in un giorno nel 1788.

III.
Teatri materiali. §

In Francia si amano universalmente gli spettacoli scenici. Havvi almeno venti case private solo in Parigi dove varie società particolari rappresentano tragedie e commedie e certe favole novelle composte per tali brigate espressamente. Lo spirito di rappresentazione che anima i Francesi, i gran modelli nazionali che riempiono le loro scene, il gusto di cui credonsi tutti con privilegio {p. 185}esclusivo in possesso, tutto ciò non basta ad obbligarli a volgere un solo sguardo alla meschinità de’ loro pubblici teatri. Le sale di tutti gli spettacoli di Parigi (dicono i nazionali) cioè quelle della Compagnia Francese, dell’Italiana e del Teatro Lirico, sono senza magnificenza, strette, prive di ogni gusto, ingrate per le voci, incomode per gli attori e per gli spettatori. Non è vero ciò che diceva Voltaire che solo in Francia prevale l’impertinente costume di fare assistere allo spettacolo la maggior parte dell’uditorio all’erta. Anche in Madrid quei che chiamansi musqueteros ne godono senza sedere. Ma è ben vero però che nè in Ispagna nè in Italia gli spettatori si frammischiano con gli attori sulla scena stessa, come avviene in Francia, lasciando appena dieci passi liberi alle rappresentanze. “Cinna e Atalia, al dir del medesimo Voltaire, doveano rappresentarsi in sì meschini edifizj e con decorazioni così grossolane”? In tal disordine può sperarsi veruna illusione teatrale? Di simili inconvenienti lagnasi pure l’autore del libro intitolato la Mimographe. Nel teatro dell’opera alzato in Parigi nel 1769 co’ disegni di M. Moreau di figura ovale lunga si contano quattro ordini di logge senza divisioni, e nella platea larga 39 piedi e lunga 32 si vede una scalinata dirimpetto alla scena.

Nel palazzo di Versailles si edificò nel {p. 186}1770 da M. Gabriel un teatro di figura semicircolare con una scalinata che gira intorno e con una sola loggia. La corte occupa il parterre e nel mezzo siede il re.

Ampliata Parigi nella parte detta il Baluardo si sono costrutti altri cinque teatrini da fiera, ne’ quali si balla sulla corda e si cantano drammi burleschi. I tre che si fecero prima sono: quello di Nicolet intitolato i Gran ballerini da corda, quello di Audinot detto l’Ambigu comico, e quello de l’ Ecluse nominato Varietà piacevoli. Gli ultimi due sono, l’uno degli Allievi del ballo dell’opera, l’ altro de’ Commedianti fanciulli del Bosco di Bologna.

Nel 1756 si costrusse il teatro di Lione da M. Soufflot, che è il più grande di tutti i teatri francesi. Di figura ovale ha la platea lunga 54 piedi e larga 40; vi sono gradini intorno ed in faccia alla scena, e tre ordini di logge continuate senza veruna divisione di palchi similmente fornite di scalini. Questo edifizio (dicesi nel trattato Del Teatro) è ben provvisto di convenienti accessorj, ed ha la facciata retta a tre ordini di finestre con gran ringhiera nel mezzo e con balaustrata in cima arricchita di statue.

Più picciolo è il teatro di Mompellier benchè regolare e di migliore apparenza al di fuori. E’ costruito a campana lungo 44 piedi e largo trenta. Havvi un portico nella platea, e tre ordini di logge continuate {p. 187}divise a palchetti soltanto da alcuni balaustri che impediscono il passaggio da uno in un altro ma non la vista.

Dicesi che in Bordò da pochi anni siasi cost uito un teatro magnifico sopra tutti gli altri della Francia.

{p. 188}

LIBRO VIII.
Teatri Settentrionali nel XVIII secolo §

CAPO I.
Teatro Inglese. §

I.
Tragedia reale. §

L’Entusiasmo per la libertà, l’orgoglio e la malinconia Brittannica, l’ energia delle passioni e della lingua, ed il gusto pel suicidio influiscono notabilmente nella tragedia inglese, e tanta forza e vivacità le prestano che al di lei confronto sembra che la francese languisca alla guisa di un dilicato color di rosa accanto ad una porpora vivace. E se la regolarità, il buon gusto, la verisimiglianza, l’ interesse e l’unità di disegno, pregi che si ammirano spesso nella francese, si vedessero congiunti alla robustezza e all’attività dell’ inglese oggi che questa ha deposte le antiche buffonerie che ne deturpavano il coturno, sarebbe forse a suo favore decisa la lite della preferenza. Ma gli affetti universali dell’uomo trovandosi variamente in ogni nazione modificati, {p. 189}dovrà la drammatica in quanto al gusto sempre soggettarsi a certe regole relative e particolari dipendenti dal tempo, dal costume e dal clima.

Il celebre Addisson morto d’anni quarantasette nel 1719, il cui senno, ingegno e sapere l’elevarono fra’ suoi alla carica di segretario di stato, e gli diedero nella repubblica letteraria il nome di poeta de’ savj, aprì agl’ Inglesi il sentiero della buona tragedia l’anno 1713 col suo Catone. Non avendo osato il sig. Hullin di tradurla interamente in versi francesi dopo il saggio fattone della prima scena, il sig. Boyer l’anno stesso ne fece in Londra una traduzione in prosa pur francese. I gesuiti di S. Omero la tradussero in latino e la fecero rappresentare da’ loro scolari. Anton Maria Salvini la tradusse dall’originale in toscano idioma, e gli accademici Compatiti di Livorno la recitarono nel carnovale del 1714, e l’anno seguente s’impresse in Firenze, e riscosse gli applausi universali. Nel 1725 nella medesima città si reimpresse coll’ originale accanto nella stamperia di Michele Nestenus.

Piena di energia e di quella maschia eleganza che eleva gli animi singolarmente in quanto appartiene al carattere intrepido e virtuoso di Catone, questa tragedia si rende notabile per la sublimità e la grandezza de’ pensieri e dell’espressioni. Dee parimente, {p. 190}contro l’avviso del sig. Andres57, chiamarsi regolare, se la regolarità dipenda dal giusto riguardo per le regole suggerite dalla verisimiglianza, uno essendone il principal personaggio, uno l’ interesse che in lui si rincentra, una l’azione ch’è la morte di Catone, la quale avviene nel dì che spira la Romana libertà all’entrare in Utica i Cesariani.

Manca non pertanto al Catone più d’un requisito per dirsi l’opera più bella che sia uscita in alcun teatro. Tutto ciò che non è Catone in essa è mediocre; e la sua mediocrità deriva da due sorgenti, cioè da una languida e inutile congiura di due furbi che si esprimono e pensano bassamente, e da un tessuto d’insipidi e freddi amori subalterni di sei personaggi de’ dieci che sono nella favola. Sventuratamente questi difetti ne menano al fine dell’azione senza interesse e con molta lentezza, e ne riempiono tutte le pause.

{p. 191}

Non v’ha scena dell’atto I che non si aggiri su gli amori di Porzio, di Marco, di Giuba, di Marzia, di Lucia, di Sempronio, o sulla congiura tramata da questo scellerato con Siface che gli rassomiglia. L’atto poi termina all’inglese, cioè con una poetica comparazione, compresa nell’ originale in sei versi, di una corrente imbrattata dal fango per le piogge, che poi si affina e per via diviene limpida come specchio,

Riflettendo ogni fior che a riva cresce,
E nuovo ciel nel suo bel sen ne mostra.

Dalla scena quarta dell’atto II, in cui Giuba manifesta a Catone il proprio amore per Marzia, tutto il resto si aggira su i maneggi di Siface e Sempronio pieno dell’idea di conseguir Marzia che desidera bassamente. Di più in mezzo a’ modi famigliari e talvolta indecenti di questi due malvagi frammischiansi impropriamente alcune poetiche immagini con intempestiva sublimità lirica espresse. Tale è quella in cui Catone è paragonato al monte Atlante; tale l’altra con cui termina quest’altro atto distesa in sette versi de i deserti di Numidia che scherzano per l’aria in fieri giri, ravvolgono l’arena, ed il viaggiante (secondo la traduzione del Salvini)

{p. 192}
A se d’intorno l’arido ermo scorge
Levarsi tutto, e dentro al polveroso
Turbin rapito ed affogato muore.

Tre prime scene non brevi dell’atto III si occupano intorno agli amori gelati e fuor di tempo di Marco, Porzio e Lucia; viene poi Sempronio co’ condottieri dell’ammutinamento dissipato dalla presenza di Catone; appresso Siface e Sempronio si trattengono su’ loro disegni e sulla diserzione della cavalleria Numida. E mostrando Sempronio qualche pena di lasciar Marzia, Siface se ne maraviglia; ma l’altro risponde, erri se credi che io l’ami,

Stringere io bramo sol l’altiera donna
E piegar l’inflessibile al mio foco;
Fatto ciò, la rigetto.

Determina di rapirla vestito con gli abiti di Giuba. Bella pensata, dice egli stesso, gran gioja avrò nell’averla tralle braccia

Con beltà accesa e scarmigliate trecce;

ed aggiugne per terminar l’atto una comparazione lirica di Plutone che portava Proserpina all’oscuro dell’inferno,

E torvo sorridendo lieto andava
{p. 193}
Carco del premio suo, nè invidiava
Il firmamento e il suo bel sole a Giove58.

Seguono nell’atto IV gli amori soliti; Sempronio mascherato viene a rapir Marzia, dicendo

La lepre è al covo, l’ho fin quì tracciata;

si batte con Giuba ed è ucciso; Marzia ingannata dagli abiti crede che l’ ucciso sia Giuba, il quale stando da parte dalle sue querele intende di essere amato. Così procede quest’atto sino a una parte della scena quarta, di cui il rimanente contiene un tratto forte e patetico insieme, ed opportuno a disviluppare il carattere veramente Romano di Catone. L’ atto quinto con quest’ultima scena del quarto forma il grande di questa tragedia. Strana cosa è certamente che il saggio Addisson non abbia schivato nè gli abusi della scena tragica francese ed inglese riguardo agli amori, nè i soliloquj narrativi, come {p. 194}è quello di Sempronio nella scena terza dell’atto I, nè la mancanza d’ incatenamento delle scene per non lasciar vuoto il teatro, come avviene più di una volta nel Catone59.

Rilevasi dalle cose esposte che non ebbe torto il giudizioso conte di Calepio in censurar nel Catone le figure troppo poetiche che ne guastano qualche volta la gravità e verità dello stile, la peripezia malamente sospesa con intempestive scene di persone subalterne, i freddi intrighi d’amore, e più altri difetti dell’arte rappresentativa. Non ebbe torto il sig. Andres nel riprenderne la mal intesa cospirazione, gl’ inopportuni, freddi, continui e complicati amori ed alcune espressioni basse. Non ebbe torto il Voltaire che ne disapprovò le scene staccate che lasciano il teatro vuoto, gli amori freddi ed insipidi, una cospirazione inutile &c. Ebbe però torto l’enciclopedista encomiatore del Catone quando volle difendere gli universalmente disapprovati languidi amori; ed ebbe maggiormente torto per la ragione che ne reca, cioè che l’amore di Marzia è degno di una vergine Romana, e che Giuba ama in Marzia la virtù di Catone. In prima è {p. 195}questa una risposta particolare ad una censura generale fatta agli amori subalterni, non di Marzia e Giuba soltanto, ma di sei personaggi. Di poi egli fece una risposta in cui perdè di vista l’oggetto vero della tragedia che è di commuovere col terrore e colla compassione. Ebbe anche torto lo stesso enciclopedista in lodar tanto la risposta di Porzio data a Sempronio nella scena 2 dell’atto I:

Ah Sempronio, vuoi tu parlar d’amore
A Marzia, or che la vita di suo padre
Stà in periglio? Tu puoi carezzar anco
Una Vestale pallida tremante
Che già miri spirar la santa fiamma.

E’ bella e nobile questa immagine di una Vestale e ben collocata in bocca di un Romano. Ma Porzio che parimente ama mentre la vita di suo padre stà in periglio, non reca una ragione che dovea internamente rimproverargli la propria debolezza? E per finirla ebbe pur qualche torto il lodato Andres in affermare che Voltaire la stimava una tragedia scritta da capo a fondo con nobiltà e politezza. Voltaire preferì il personaggio di Catone a quello di Cornelia del Pompeo di Cornelio, e vantò la sublimità, l’energia e l’eleganza del Catone, ma ne rilevò molti difetti, e conchiuse che la barbarie & l’irrégularité du théâtre {p. 196}de Londres ont percé jusque dans la sagesse de Addisson. Del rimanente il merito eminente della grandezza de’ sentimenti e della forza energica dell’espressioni non mai si smentisce in tutti i personaggi; e l’espressioni che mancano di elevatezza e sono piuttosto comiche che tragiche, appartengono unicamente a Siface e Sempronio, personaggi che Addisson ha voluto rendere bassi e disprezzabili d’ogni maniera.

Vediamo intanto ciò che soprammodo nella storia teatrale contribuisce ai progressi del gusto nella gioventù, cioè le bellezze più che i difetti de’ componimenti, che è la parte nobile della critica inaccessibile ai freddi ragionatori privi di cuore.

Se non diciamo come l’enciclopedista che questa tragedia sia un capo d’opera e la più bella che sia comparsa sulle scene, ravvisiamo pure nel Catone dipinto da Addisson quel gran Romano della storia che solo osò contendere colla fortuna e colla potenza di Cesare e prolongare i momenti della spirante libertà di Roma, quell’uomo prode, per valermi dell’espressione di Pope,

  Che lotta col destino
Tralle tempeste e grandemente cade
Misto a ruine di cadente stato.

Nella scena quarta alla forza e destrezza del corpo lodata da Siface ne’ Numidi è vagamente {p. 197}contrapposta l’arte di regnare, di dettar leggi, di render l’uomo all’uomo amico, propria de’ Romani.

L’atto II ha maggiore interesse perchè animato dal carattere di Catone. Sempre giusto senza timore e senza impeto tutto della sua sapienza egli riempie il picciolo suo senato. Non si trasporta con Sempronio, ma non cede con Lucio, e conchiude nobilmente:

Siam sempre a tempo a chieder le catene ..
Perchè un punto anzi tempo cadria Roma?

La scena con Decio legato di Cesare è in quest’atto il trionfo del carattere di Catone. Cesare (dice il legato) vuol essere amico di Catone, proponetene il prezzo e le condizioni. Che licenzj (risponde tosto Catone con magnanimità)

Le legion, la libertà alla Patria
Restituisca, i fatti suoi sommetta
Alla censura pubblica, e sì stiasi
Alla sentenza d’un Roman Senato.
Ch’ei faccia questo, ed è suo amico Cato.

Aggiugne poi che allora per non farlo perire egli stesso monterà su i rostri per ottenergli il perdono. Questa grandezza di pensieri e di espressioni ha meritato l’approvazione del {p. 198}gran Metastasio, che in simil guisa se l’appropriò emulandola nell’ abboccamento di Cesare e Catone:

  Lascia dell’armi
L’usurpato comando: il grado eccelso
Di Dittator deponi: e come reo
Rendi in carcere angusto
Alla Patria ragion de’ tuoi misfatti.
Questi, se pace vuoi, saranno i patti.

Ces.

Ed io dovrei . . . .

Cat.

Di rimaner oppresso
Non dubitar, che allora
Sarò tuo difensore.

Tu solo non basti, gli dice Cesare, ed io potrei

I giorni miei sacrificare invano.

Cat.

Ami tanto la vita, e sei Romano?

La scena quinta dell’atto III, in cui Catone con dignità seda colla sua presenza l’ammutinamento, rende all’azione la gravità che le tolgono le troppe scene di amori tanto più fuor di tempo quanto più si avvicina l’esercito di Cesare, e la ruina di Catone è imminente.

Dopo la languidezza del IV già riferita un improviso nuovo vigore misto di eroico e di compassionevole chiama tutta l’attenzione dal punto che si enuncia la morte {p. 199}di Marco. Marco . . . incomincia Porzio, e Catone l’interrompe: Che ha egli fatto? ha abbandonato il posto? No, dice Porzio, egli si è opposto a’ Numidi ed è caduto da forte. Io son contento (dice Catone) egli ha fatto il suo dovere; Porzio, quando io morrò fa che la di lui urna sia posta accanto alla mia. É condotto in iscena il corpo di Marco, e Catone gli va incontro dicendo, welcome my son, ben venuto mio figlio; ponetelo alla mia vista, lasciate ch’io conti le sue ferite; chi non torrebbe esser questo giovane? Disgrazia grande non poter morire che una volta sola per la patria60! Amici, voi piangete per una perdita privata?

Roma è quella che chiede il nostro pianto.

Roma nutrice di eroi, donna del mondo, Roma non è più! oh libertà! oh virtù! oh patria! Tutto è di Cesare!

  Per lui i votati Decii,
I Fabii cadder, vinser gli Scipioni,
{p. 200}
Anco Pompeo pugnò per Cesar!
  I maggiori
Non lasciar altro a vincer che la patria.

Ecco in qual guisa espresse Metastasio sì gran sentimento nella mutazione del suo Catone:

  Ecco soggiace
Di Cesare all’arbitrio il mondo intero.
Dunque (chi ’l crederia?) per lui sudaro
Gli Scipioni, i Metelli? Ogni Romano
Tanto sangue versò sol per costui?
E l’istesso Pompeo pugnò per lui?
Misera libertà, patria infelice,
Ingratissimo figlio! Altro il valore
Non ti lasciò degli avi
Nella terra già doma
Da soggiogar che il Campidoglio e Roma.

Addisson senza punto indebolire la fermezza del suo eroe sa colle disposizioni da lui date per la salvezza degli amici trarre certo patetico di nuova specie che commuove ed interessa. Egli dice addio agli amici; indi conchiude:

S’appressa il vincitor, di nuovo addio.
Se mai c’incontrerem, c’incontreremo
In più felici climi e in miglior spiaggia
U’ Cesar non fia mai a noi vicino.
{p. 201}

Nell’atto V la prima scena filosofica è un prodotto del dialogo di Platone sull’immortalità dell’anima. Perchè l’alma (dice Catone col libro di Platone alla mano e colla spada sguainata davanti)

Ritirata in se stessa e impaurita
Alla distruzion s’aombra e fugge?
È la divinità che muove dentro;
Il cielo è quel che l’avvenire addita,
E all’uom l’eternitate accenna e mostra.
Eternità! pensier grato e tremendo &c.

Il sonno poi gli aggrava gli occhi, ed egli vuol prima soddisfare a questo bisogno del suo corpo, dicendo,

  Colpa o timore
Sveglino altrui, Caton non gli conosce,
A dormire o morire indifferente.

Catone poichè si è ferito conserva morendo la sua grandezza d’animo non meno che la tenerezza verso gli amici, pe i quali egli cerca se può far qualche cosa negli ultimi momenti. Sul finire gli sopravviene un dubbio sull’avere troppo affrettato, forse per quello che nel medesimo dialogo di Platone s’insegna, cioè che vieta il sommo Imperante di sprigionar lo spirito prima di un suo decreto:

{p. 202}
  Oh numi voi
Che penetrate il cuor dell’uomo, e i suoi
Intimi movimenti ne pesate,
Se fallit’ho, a me non l’imputate.
I migliori erran: buoni siete, e . . . oh! . .

Egli spira qual visse grande e virtuoso prima della libertà. Ed ecco quanto secondo me ha di pregevole la tragedia del Catone61. S’ella non discendeva da tanta altezza sino a Sempronio e Siface, Addisson avrebbe forse nociuto all’arte togliendo a’ posteri ogni speranza di appressarglisi. De’ grand’ingegni giovano ancor le debolezze. Ad Omero che talora dormicchia e mostra l’uomo, dobbiamo i Virgilj ed i Torquati.

L’amor della patria, della virtù e della libertà regna parimente nelle tragedie di Niccolò Rowe encomiatore e scrittore della Vita di Shakespear nato in Devonshire nel 1673 e morto in Londra di anni 45 nel 1728. Regolare nell’economia, felice nel delineare i caratteri, puro nella lingua, nobile ne’ sentimenti, viene questo {p. 203}autore noverato in Inghilterra tra’ migliori tragici, singolarmente per la di lui Suocera ambiziosa, e pel Tamerlano amato con predilezione dal proprio autore.

Il celebre Giorgio Villiers duca di Buckingam fautore de’ poeti inglesi compose due tragedie il Cesare ed il Bruto regolari e non imbrattate da freddi amori. Egli scrisse ancora una commedia applaudita il Rehersal ossia la Ripetizione delle parti in certo modo rassomigliante alle Rane di Aristofane.

Edoardo Young amico e socio ne’ lavori letterarj di Swift, Pope e Richardson; ed autore delle Notti lugubre poesia sepolcrale, scrisse ancora tre tragedie, il Busiri tradotta in Francia da M. la Place e rappresentata con applauso sul teatro di Drury-Lane nel 1719; la Vendetta uscita nel 1721; e i Fratelli che comparve nel 1753 stimata inferiore alla seconda per lo stile, ma meritevole d’indulgenza come frutto di un uomo giunto all’età di anni sessantanove.

Savage figlio sventurato dell’inumana contessa di Macclesfields, la cui memoria eccita il fremito dell’umanità, privo di ogni umano soccorso coltivò fralle miserie la poesia. Di età di 18, o 19 anni si acquistò qualche nome con due commedie, la Donna è un enigma e l’Amor mascherato. Scrisse poi per le taverne e per le strade la tragedia intitolata Tommaso Overbury. Egli nacque dal {p. 204}nominato mostro nel 1698, e per di lei opera morì in prigione nel 1743.

Il famoso Tompson allievo di Addisson nato nel 1700 e morto nel 1748, chiaro pel noto poema delle Quattro stagioni, non acquistò minori applausi colle sue tragedie nelle quali si allontanò ugualmente dal sentiero calcato da Shakespear e dal gusto di Addisson. La Sofonisba, l’Agamennone, l’Alfredo, il Coriolano furono accolte con molto gradimento. Si è replicata per molti anni con applauso Sigismonda e Tancredi tragedia ricavata da una novella del romanzo di GilBlàs, la quale in Francia s’imitò dal Saurin con la sua Bianca e Guiscardo, ed in Italia dal conte Calini colla Zelinda, dal conte Manzoli con Bianca ed Errico e dal sig. Gajone coll’ Arsinoe. Ma la nazione malcontenta di Tompson per altri motivi non volle ascoltare Edoardo ed Eleonora pubblicata nel 1739.

Il sig. Hume della famiglia del celebre David Hume ammiratore de i talenti tragici del suo parente, compose due buone tragedie Agis e Douglas encomiate dagl’ Inglesi.

Dennis nemico di Pope scrisse in buono stile una tragedia regolare intitolata Appio e Virginia argomento che non ha che un solo punto interessante e poco atto a tener sospeso l’ascoltatore per cinque atti. Un’ altra Virginia compose la signora Brooke, di {p. 205}cui favellò nel Giornale straniero la Place nel 1757. In grazia del sesso per altro i giornalisti Inglesi trattarono con indulgenza l’autrice, la quale trasportò anche in inglese il Pastor fido. Non godè del medesimo favore l’autore della tragedia l’Amore e ’l Dovere ed ebbe la mortificazione di vederla rifiutata da’ direttori di ambi i teatri ed accolta con disprezzo poichè fu impressa. Ugual destino toccò all’autore della tragedia di Atelstan. Una efimera guerra critica si appiccò per essa trall’autore ed un censore geloso, cui forse appartiene la parodia di Atelstan intitolata Turncoat, voltacasacca. Turncoat, Atelstan e i loro meschini autori, tutto si è perduto nel nulla.

L’Andromaca di Racine fu tradotta da Philipps di cui Pope motteggiò nella Dunciade. Smith ne tradusse la Fedra, ma vi congiunse ancora l’intrigo del Bajazzette del medesimo tragico francese; ed il più bello si è che Smith si vantava di aver tutta la sua filastrocca tratta dall’Ippolito di Euripide62. Hille tradusse la Zaira con poche alterazioni. Cibber, Hoadley, Farquar e qualche altro hanno composte varie tragedie che si trovano nella collezione de’ {p. 206}quaranta drammi uscita in Londra nel 1762 col titolo di Teatro Inglese.

Si lodano negli ultimi fogli periodici due tragedie quivi pur pubblicate nel 1788, cioè la Sorte di Sparta, ossia i Re Rivali, ed il Reggente. Appartiene la prima alla parente di Gay Mistriss Cowley, e rappresenta la rivalità pel trono di Leonida e Cleombroto, e le angustie della virtuosa Chelonice figlia del primo e moglie dell’altro. Il Reggente del sig. Barthie Graathead rappresentata in Drury-Lane si dice ben condotta e interessante, ma i personaggi subalterni vi parlano in prosa ed i principali in versi, giusta l’ antica usanza de’ tragici Inglesi.

II.
Abbozzo di tragedia Ersa o Coltica. §

Appartiene alla Gran Brettagna, a questo secolo e alla tragedia reale una traduzione di un dramma in lingua Ersa pubblicata verso il 176263. Il titolo è Comala che n’è il principal personaggio. Il fondo dell’azione è appoggiato a una tradizione {p. 207}conosciuta. Comala figliuola del re d’Inistore o dell’isole Orhney amando Fingal figliuolo di Comhal lo segue in abito virile. È ravvisata da Hidallàn seguace di Fingal, il cui amore ella avea disprezzato. Fingal l’avrebbe sposata, se non l’impediva l’invasione di Caracul, che sembra essere Caracalla, il quale nell’anno 211 assalì i Calidonj. Marcia Fingal contro del nemico e lascia Comala in un colle promettendo di rivederla la notte stessa rimanendo in vita. Vince e spedisce Hidallan ad annunziarle il suo ritorno. Il traditore le narra la morte di Fingal. Ella è ridotta dal suo dolore agli estremi. Torna l’amante ed ella spira alla sua presenza. Eccone la traccia.

Dersagrena invita Melilcoma a deporre l’arco e prender l’arpa, essendo terminata la caccia coll’ avanzarsi la notte. Melilcoma mostra temere per la vita di Fingal. Sopravviene Comala che si maraviglia che l’acque del fiume Carun corrano torbide e sanguinose, e fa una preghiera alla luna. Giugne Hidallàn colla falsa notizia. Comala si scioglie in lagrime. Melilcoma dice che ode un suono verso Ardven e che vede certo lume nella valle. “Ah (dice Comala) altri esser non può che il nemico di Comala, il barbaro figlio del re del mondo . . . O spirito di Fingal, vieni e dalla tua nube regola l’arco di Comala sì che il {p. 208}tuo nemico cada come una lepre del deserto . . . Ma che vedo! Fingal viene accompagnato da’ suoi spiriti . . . Ombra diletta, vieni tu a spaventare insieme e a consolare la tua Comala”? Ella fugge dall’amante credendolo estinto. Giungono i Bardi e cantano la vittoria di Fingal; ma il loro canto è interrotto dall’avviso della morte di Comala. Fingal si dispera; Hidallàn confessa il suo tradimento che ne ha cagionata la morte; Fingal lo discaccia; i Bardi cantano le lodi di Comala.

Questo picciolo poema rassomiglia più a un dialogo che a un dramma; ma chi rifletterà al luogo, all’entrate successive de’ personaggi, alla mescolanza del canto alla narrazione, vi troverà azione, spettacolo, patetico e movimento. Tra’ Celti cacciatori chi avrebbe sospettato di trovare una informe idea della poesia scenica, mancante, egli è vero, di un piano, rozza, senz’arte, ma non priva d’interesse? Ciò può sempre più rassodare quel che osservammo fin dal principio di questa istoria, che presto o tardi gli uomini raccolti in grandi o picciole famiglie son tratti ad imitar per diletto più o meno imperfettamente le azioni umane a seconda del grado di coltura in cui si trovano.

{p. 209}

III.
Tragedia Cittadina. §

Scendiamo dalla tragedia reale alla picciola cittadinesca la cui invenzione appartiene agl’ Inglesi, perchè qualche esempio che se n’ ebbe in Italia ne’ passati secoli, rimase obbliato. Giorgio Lillo giojelliere di Londra, il quale morì l’anno 1739, imprese a scrivere più d’una di simili favole tragiche di persone private sommamente atroci, per le quali si è comunicata alle scene francesi ed alemanne la smania di rappresentar le più rare esecrande scelleraggini che fanno onta all’umanità.

L’anno 1735 si rappresentò in Londra la sua Fatal Curiosity, fatale curiosità. L’ab. Arnaud che ne recò un estratto nel tomo VII della Gazzetta letteraria dell’ Europa, “noi (dice) non abbiamo potuto leggerlo senza esserne commossi, non già per quella tenera generosa pietà cara a i cuori più sensibili, ma per certo tristo sentimento doloroso, onde l’anima rimane abbattuta, lacerata, istupidita”. Eccone l’argomento e qualche tratto.

Wilmot e Agnese conjugi per fasto e per negligenza si trovano caduti nell’ultima miseria. Un di loro figliuolo savio ed onesto amante corrisposto di Carlotta bella e virtuosa {p. 210}giovane ma non ricca, per non comunicarle la propria indigenza, abbandona la patria e l’amata colla speranza di migliorare il suo stato nell’Indie, e si sparge poi il romore di esservi morto. I di lui genitori sussistono stentatamente per gli scarsi soccorsi della stessa Carlotta. Wilmot che sino a questo punto non si è imbrattato di alcun delitto, vacilla sotto il peso dell’infortunio, si pente di essere stato onesto senza frutto, e pensa ad ammazzarsi. Questa situazione è dipinta con forza nella prima scena. Avendo disegnato di morire congeda l’affettuoso servo Randal, ed essendo egli vicino a partire Wilmot gli dice: “Addio . . . ti arresta, tu non conosci il mondo, a me costa caro l’averlo conosciuto; pria di separarci debbo darti un consiglio . . . asciugati gli occhi, o Randal; se piangi non potrò parlare. Odi, amico. Vuoi tu sollevarti? vuoi mutar fortuna? lascia i libri, rinunzia alla filosofia, studia gli uomini; questo solo studio ti basterà. Tu da essi imparerai a nascondere i tuoi fini e a prendere la maschera dell’onore e della probità per arrivare al tuo intento a costo di chiunque sarà così sciocco di fidarsi della tua apparente onestà. “Mi consigliate (gli dice il servo) a far quello che voi avreste vergogna di praticare?” Ah questa vergogna appunto (ripiglia Wilmot) mi ha rovinato. Io sono stato corrivo, vorrei che tu fossi più accorto; {p. 211}vorrei che tu trattassi gli uomini come essi meritano, come hanno trattato me, come ti tratteranno, amico . . . Approfittati del mio esempio e ricordati di questa lezione: osserva il mondo e sii malvagio e felice; addio”.

Torna intanto il giovane Wilmot dall’Indie con una cassetta piena di gioje d’inestimabil valore. In abito indiano si presenta a Carlotta che trova tenera e fedele, e la riempie di allegrezza. Intende lo stato de’ genitori, si rallegra pensando che è in sua mano il sollevarli, ma vuol presentarsi loro alla prima come un forestiere raccomandato da Carlotta. È accolto cortesemente, ma parlandosi di un figlio che hanno perduto mostrano essi tanto dolore, che il giovane intenerito temendo di cagionarli una commozione troppo viva col palesarsi in quel momento, si ritira per riposare, consegnando prima alla madre la cassetta con dire che contiene cose preziose. Agnese maravigliata della fiducia di quel forestiere è tentata dalla curiosità ad aprir la cassetta; resiste alquanto, poi l’apre e resta abbacinata allo splendore di tanti diamanti. “Quante ricchezze (ella dice)! Questo tesoro discaccerebbe da questa casa l’orrore che vi regna; ci vendicherebbe del disprezzo ingiurioso e della pietà più ingiuriosa ancora del mondo insolente”. Esita, indi cede alla suggestione della necessità. Wilmot {p. 212}padre viene a dire che il forestiere è addormentato . . .

Wil.

Ma che miri tu? la di lui cassetta! l’hai tu aperta! indegna cosa! se si sapesse . . .

Agn.

E chi lo saprà?

Wil.

Dobbiamo a noi stessi . . .

Agn.

Dobbiamo vivere. Stà bene l’esser delicato a chi non ha pane!

Wil.

Si ha tutto, quando si vive senza taccia, e si ha coraggio per morire.

Agn.

Io non vo morire.

Wil.

Ma quali mezzi hai tu di prolongar la vita?

Agn.

Eccoli. Mira questo tesoro . . .

Wil.

Oh cielo! che dici? vuoi tu provarmi? Ma bada bene; non v’è cosa più mostruosa che in certe circostanze il cuore umano non possa esser tentato ad approvare”.

Agnese dice che essi possono evitare il suicidio detestabile per mezzo di un delitto minore. Ella piange, ella gli rimprovera la vita passata. Wilmot si fa sedurre. Oh Agnese Agnese (le dice)! se vi è inferno, egli è giusto che noi vi siamo tormentati. Egli entra. Agnese lo seguita con gli occhi, ne descrive i movimenti che esprimono i di lui pensieri di pentimento, di tristezza, di furore. Il giovane Wilmot esclama {p. 213}dalla prossima stanza, oh padre, oh padre mio. Agnese atterrita chiama il marito. Arriva Carlotta e intende l’ orribile delitto. Si sentono gridi e gemiti. Agnese comprende d’aver fatto uccidere il proprio figliuolo, e grida forsennata,

“Tutto muoja sopra la terra, perda il sole la sua luce, una notte eterna ingombri la specie umana perchè la nostra storia resti per sempre sepolta nell’obblio.

Wil.

Vane imprecazioni! il sole continuerà a risplendere, e tutto compierà il suo corso, intanto che noi orrore e peso della terra saremo ridotti in polvere. Il nostro delitto, la nostra disperazione passerà di secolo in secolo per insegnare alle razze future, che il cielo irritato sa trovare certe vendette che l’umana mente non può prevedere. Muori prima di me, non mi fido della tua debolezza”.

L’ammazza e poi si ferisce.

Alla lettura di questo dramma orribile si crederebbe che l’autore fosse stato un uomo di una tetra immaginazione e di un carattere feroce. Ma la regola di giudicar dagli scritti del carattere dell’autore non sempre {p. 214}è sicura. Lillo era un uomo onesto, dolce, di costumi semplici, amato e stimato da quanti il conosceano. Prima della Curiosità fatale egli compose George Barnwel o il Mercante di Londra, che rappresenta un personaggio nato con indole non prava che però sedotto da una donna che ama, ruba il padrone, assassina un suo zio e benefattore, ed è impiccato. Quest’argomento è meno orribile del precedente. La gioventù ed una passione eccessiva possono eccitare qualche pietà per un delinquente, là dove nell’altro niuna cosa scema l’orrore di una atrocità abbominevole conceputa a sangue freddo per un motivo vilissimo. Lillo compose ancora un altro dramma, in cui una bella e giovane donna maritata a un uomo ch’ella non ama, e schiava di un malvagio che ama, viene dall’amante indotta ad esser complice dell’assassinamento del marito. L’autore di un Dizionario de’ poeti e de i drammi inglesi osserva che Lillo era felice nella scelta de’ suoi argomenti. Questa scelta per gl’ Inglesi felice tale non sembra agli occhi de’ più giudiziosi Francesi, Italiani e Spagnuoli. Sempre diremo che simili atrocità scelte a bello studio da’ processi criminali più rari o inventati da chi ignora il segreto di commuovere e di chiamar le lagrime sugli occhi con minor quantità di colori oscuri, potrà soltanto piacere in teatro al popolaccio che per aver la {p. 215}fibbra men delicata si diletta dello spettacolo de’ rei che vanno al patibolo. Quanto poi alla morale istruzione, di grazia che mai può imparare da questi esempj un popolo, in cui passeranno molti e molti lustri senza che in esso avvengano misfatti sì atrocemente combinati? Dicesi che Lillo si prefiggeva la correzione de’ costumi, e supponeva che le sue favole potessero prevenire i gran delitti. Egli s’ ingannava sul fine e sull’effetto delle rappresentazioni sceniche. Non tocca al pubblico l’uffizio di un esecutore di giustizia, e le anime atroci non si correggono col teatro. Malheur à la nation (diceva filosoficamente l’ab. Arnaud) qui auroit besoin pour corriger ses moeurs de semblables spectacles.

Una favola seria difettosa per la mescolanza comica è stata pur coltivata in questo secolo come ne’ precedenti. La nominata Miss Cowlei compose l’ Evasione e lo Stratagemma della bella. Mistriss Moore scrisse Percy oltre ad alcuni drammi sacri.

Egli è notabile però che ad onta di tanti ammazzamenti, di tanto sangue e di tanti enormi delitti esposti sul teatro inglese, ogni dramma è preceduto da un prologo rare volte serio, e seguito da un epilogo ordinariamente comico anche dopo i più malinconici argomenti. Sovente avviene che la stessa attrice che sarà morta nella tragedia, venga fuori co’ medesimi abiti a far {p. 216}ridere gli spettatori. Un critico Inglese censura seriamente questo costume degli epiloghi nazionali, pretendendo che per mezzo del ridicolo che li condisce, si distrugga il frutto morale del dramma. Ma perchè ciò? Che connessione ha l’una cosa coll’ altra? La di lui tetra morale quanto tempo dopo la tragica rappresentazione permette che si possa ridere? Passiamo alla commedia.

IV.
Commedia. §

La gloria della commedia Inglese dopo del Wycherley è cresciuta per le favole piacevoli e regolari del sig. Congreve morto d’anni cinquantasette nel 1729. Varie ne compose tutte esatte, ingegnose e piene di caratteri assai di moda in ciò che si dice gran mondo, avendo animati con tinte vivaci e naturali gli uomini ben nati e mal educati, falsi, doppj e furbi in fatti, ma nobili, onesti e virtuosi in parole. Egli compose ancora una favola tragica sommamente applaudita, la Sposa in lutto.

Riccardo Stéele membro del Parlamento e compagno di Addisson nell’opera dello Spettatore Inglese scrisse alcune commedie popolari assai pregiate. Era sua massima che i componimenti teatrali debbano giudicarsi sulla scena e non impressi. Ma quante composizioni {p. 217}posizioni scritte pessimamente, a cagione di qualche situazione interessante, o di un’ attrice accetta al pubblico, o di un partito che mai non manca agl’impostori, riuscite sulla scena sono state schernite alla lettura? La massima di Stéele presa di traverso può favorire i Pradoni in pregiudizio de’ Racini. Quelle distance immense (diceva ottimamente Voltaire) entre un ouvrage souffert au théâtre & un bon ouvrage!

Nel 1733 si è rappresentato in Londra l’Avaro di Moliere ben tradotto da Fielding miglior poeta e più modesto di Shadwel. Il dialogo non è trasportato parola per parola, ma imitato con libertà moderata e abbellito da qualche immagine. Questa commedia con riuscita assai rara in Londra si rappresentò sempre con applauso circa trenta volte.

Edoardo Moore nel 1755 fe recitare nel teatro di Drury-Lane la Figlia ritrovata, che si scioglie per gli rimorsi di una balia, e non lascia d’interessare mal grado di tal disviluppo mille volte usato. Tutto il resto però può dirsi una filza di scene debolmente accozzate più che un’ azione ben combinata. Soprattutto il personaggio di Fadle basso, triviale, poltrone, infame, preferito in casa di una dama a un colonnello che la pretende in moglie, ma che in tanto a guisa di un mascalzone è preso pel collo, scosso, minacciato, cacciato or da questo {p. 218}or da quello, tal personaggio, dico, così spregevole dispiacque al pubblico, il quale obbligò l’autore a toglierne tutto ciò che era episodico. Egli poi nell’impressione lo produsse come l’avea scritto da prima, e con questo lasciò una pruova dell’intelligenza del pubblico, e della propria indocilità ed imperizia.

Miglior pennello comico è certamente quello di Murphy autore della commedia la Maniera di fissarlo rappresentata nel 1761. Egli l’accozzò co’ materiali di due commedie francesi, il Pregiudizio alla moda e la Nuova scuola delle donne, ond’è che l’azione apparisce troppo complicata. Il leggitore si dispone nel tempo stesso agli eventi di Lovemore, di sir Constant e di madama Belmour. Ne risulta non per tanto uno scioglimento non infelice, ma da non compararsi però con altri che con un sol colpo mettono i fatti in tutta la necessaria chiarezza. Il ridicolo di un marito amante della propria moglie senza aver coraggio di manifestarsi, è più rilevato nella favola di Murphy che in quella di La Chaussée. Constant diviene totalmente piacevole allorchè parla con dolcezza alla moglie essendo soli, ed affetta asprezza ed umore al comparir de’ servi. É curiosa la dipintura di coloro che aspirano ad entrare nel Parlamento fatta da Constant nella propria persona. “Che non ho io fatto per voi? dice alla moglie {p. 219}nella seconda scena dell’atto II. “Per darvi gusto non son diventato membro del Parlamento? Per essere eletto non mi son fatto veder per un mese più ubbriaco del mio cocchiere? Per soddisfare la vostra vanità non mi sono esposto a tutte le insolenze di un popolaccio abbominevole? Non metto poi a conto quella maladetta cicalata che mi convenne fare: sa dio come la pronunziai, e come la Camera l’ascoltò! Io non sapeva dove mi avessi la testa. E che diavolo avea io a fare del Parlamento?”

Giorgio Colman traduttore di Terenzio produsse nel 1763 la Moglie gelosa commea dia rappresentata in Drury-Lane e compars per varj anni sulle scene inglesi. Vi è calore, brio, vivacità. Il carattere della Gelosa è vero, naturale e ben colorito. Ben espresso è pure quello di sir Henns rustico occupato sempre de’ suoi cavalli. Graziosa nella prima scena dell’atto II è la genealogia di una giumenta, rilevandovisi il ridicolo dell’eccessiva passione degl’ Inglesi per le razze de’ loro cavalli. L’azione non ha luogo di languire per la moltitudine degli accidenti accumulati l’un sopra l’ altro tratti in parte dal romanzo di Fielding. Si richiedeva però maggior destrezza nel prepararli, affinchè paressero condotti dalla natura e non dal bisogno che ne avea il poeta. Quando l’arte si mostra più della natura, lo spettatore si sovviene dell’autore, {p. 220}lo vede passeggiar tra’ personaggi, riflette alla realità, e l’illusione della fantasia è distrutta.

David Garrick il Roscio Inglese insieme col nominato Colman lavorò al Matrimonio clandestino commedia in cinque atti rappresentata nel 1766 con sommo applauso. É una favola ravviluppata, in cui non si trascura la dipintura de’ caratteri tutti comici, e vi si veggono alcuni colpi teatrali che conducono lo scoprimento di un matrimonio secreto che ne forma il viluppo. A differenza delle commedie francesi, ove trionfa un solo carattere principale, rimanendo gli altri illuminati da una luce riflessa, in questa commedia tutti i personaggi hanno un colorito e un carattere vivace e compariscono a buon lume. Il suo principal merito consiste nella connessione delle scene, in una piacevolezza decente e nell’eleganza dello stile. Colman e Garrick composero varie altre commedie ora uniti ora separatamente. Appartiene al solo Garrick il Servo bugiardo, la cui traduzione intera si trova inserita nel Giornale straniero di M. La Place nel mese di agosto del 1757. È divisa in due atti e scritta con gusto, grazia e forza comica. L’azione si rappresenta or nell’ appartamento di Gayless giovane dissipatore ridotto alle ultime strettezze, ora in quello di Melissa da lui amata, la quale lo crede tuttavia dovizioso. Vi si scorge {p. 221}qualche tratto ricavato dal Dissipatore del Des Touches, specialmente nella prima scena. Le menzogne del servo Sharp ne formano il groppo. I Costumi del mondo grande è un’ altra commedia di Garrick, in cui non si dipinge fuori della natura, ma si vede l’indole licenziosa del teatro Inglese. Un marito offende la fede conjugale d’accordo con una cugina di sua moglie, e questa se ne vendica rendendogliene il cambio con un giovane militare. Garrick figliuolo di un Francese rifugiato in Inghilterra, ebbe per maestri il dottor Johnson e Colson di Rochester, e dopo avere esercitato varie professioni si unì al fine nel 1741 a una compagnia comica, e fece per lo spazio di circa quarant’anni la delizia e l’ornamento delle scene Inglesi, e morì di anni 63 in Londra nel 1779. Egli come attore non ebbe colà chi lo pareggiasse; ebbe bensì chi gareggiò con lui. Cibber altro attore Inglese di non poco grido credeva di non essere a lui inferiore. Ciascun di loro resse un teatro per qualche tempo ed ebbe un partito favorevole. Garrick in fine tirò a se tutti i voti e sopraffece l’ emolo. Cibber tuttochè non mancasse di talento, si vide ridotto ad esser capo di una compagnia subordinata e poco accetta al pubblico che rappresentava componimenti ajutati dalla musica e dal ballo. Egli con due dissertazioni su gli spettacoli, che formano una specie {p. 222}di storia del teatro inglese, si lusingava di poter disingannare il pubblico sulle novità introdotte da Garrick, e sul di lui modo di rappresentare. Egli disacerbava così il proprio rancore, e Garrick seguitava ad essere ammirato ed amato.

Al di lui merito volendo prestar qualche omaggio il sig. Kelly dedicogli una sua commedia la Falsa delicatezza rappresentata nel 1768. Una fredda regolarità per quanto comportano tre intrighi amorosi, un fiacco interesse, alquanti difetti, poche grazie, non poca noja caratterizzano questa favola. Terenzio e Moliere, dirò sempre, si leggono e si encomiano dapertutto, perchè dapertutto oggi s’imitano sì poco? Nel 1781 si è impressa in Londra una commedia rappresentata in Drury-Lane the Disipation, la Prodigalità. Non avendone veduto neppure qualche estratto, non saprei dire quanto ad essa convenga l’aggiunto di nuova con cui si enunciò, non ostante che simile argomento, incominciando da Aristofane e terminando a Des Touches e Garrick, sia stato maneggiato tante volte dagli antichi e da’ moderni.

Si vuole ancora far menzione delle picciole commedie o farse che hanno gl’ Inglesi, nelle quali trionfa per lo più la satira e la mimica buffoneria. Recheremo per esempio quelle di Dodsley, alle quali dava il titolo di novelle o satire drammatiche, {p. 223}dedicandole al Domani essere che non esiste ancora. Una di esse è il Re ed il Mugnajo di Mansfield di cui si fe parola nel tomo precedente. Nella scena nona vi si trova un satirico ritratto della città di Londra che ne dà poco vantaggiosa idea, ma che è il ritratto di più d’una società culta. Il Cieco di Bethnal-Green (titolo che portava un’ altra favola antica del poeta Iohnday del tempo di Giacomo I) è un argomento interessante pel contrapposto de’ caratteri ben espressi. Vi si vede dipinto a neri colori un milordo prepotente ed un quakero ipocrita, i quali cercano di comprare, sedurre e poi rapire una virtuosa fanciulla figlia di un cieco povero in apparenza. La Bottega di Merceria (bijouterie) è tutta satirica. Un merciajo vende satireggiando e moralizzando con grazia. Per esempio egli alle dame e agli zerbini che vengono in bottega, presenta uno specchio, in cui (egli dice) la civettuola può vedere la sua vanità, la bacchettona la sua ipocrisia, non poche femmine più bellezza che modestia, più smancerie che grazie, più spirito che buon senso. Presentando una scattoletta dice che è una rarità, perchè è la più picciola che vi sia in Inghilterra. Un cortiggiano in essa può chiudere tutta la sua sincerità, un curiale tutta la sua probità, un verseggiatore tutto il suo danaro.

E queste sono le tragedie, le commedie {p. 224}e le farse di questo secolo, nelle quali si sono distinti al pari de’ migliori attori diverse attrici. Siccome l’Inghilterra può vantarsi di avere avuto in Garrick il suo Baron, così in Madamigella Cibber ebbe la sua le Couvreur. Appena contava la Cibber diciotto anni della sua età, quando rappresentando la parte di Zaira nella traduzione di Hille fe vedere alla nazione certa sensibilità spogliata da ogni caricatura istrionica ed una declamazione naturale sino a’ suoi dì sconosciuta in quel clima64.

V.
Opera Inglese ed Italiana. §

Non mancò all’entrar del corrente secolo quella specie d’opera Inglese che si chiamava mascherata, anche dopo della Circe di {p. 225}Carlo d’Avenant. La Rosamunda dell’Addisson fu una mascherata forse troppo da’ nazionali applaudita. Il Giudizio di Paride, e la Semele di Congreve portarono parimente il titolo di mascherate. Milord Granville che scrisse sull’ opera musicale, una ne compose egli stesso, prendendo quasi per modello fra quelle di Quinault l’Amadigi di Gaula, e l’ intitolò gl’ Incantatori Brettoni.

Gl’ Inglesi hanno avuta ancora un’ opera buffa nazionale. Il Diavolo a quattro è una burletta musicale di caratteri comici ben combinati. Ma la più celebre in questo genere è quella del sig. Gay rappresentata nel 1728. Il titolo è Beggars’ Opera, cioè l’Opera del Mendico, e non già de’ Pezzenti, come la chiamarono alcuni eruditi Francesi ed il sig. Andres, non trattandosi in essa di pezzenti, ma di ladroni facinorosi; e l’autore non la chiamò del Mendico se non perchè nell’introduzione finse che un poeta mendico l’avesse composta e presentata a’ commedianti. È un componimento di tre atti in prosa con sessantanove ariette da cantarsi. Incredibile è l’effetto che produsse in tutte l’isole Brittanniche. In Londra alla prima si recitò sessantatre volte e si ripigliò nell’ inverno; in Bath, in Bristol, nel paese di Galles, in Iscozia, in Dublin, si rappresentò con insolito esempio or cinquanta, ora quaranta, or trenta volte di seguito. {p. 226}L’attrice che rappresentò la parte di Polly, che si chiamava Miss Fenton, divenne la delizia di Londra; se ne scrisse la vita, se ne lodarono i bei motti, se ne fecero i ritratti, ed in fine sposò pubblicamente il duca di Bulton uno de’ primi signori Inglesi. Il dottor Swift intimo amico di Gay nel suo Gazzettiere non meno che il Pope nella Dunciade e che il Warburton nelle note che fece a questo poema satirico, l’esaltarono come un capo d’opera. É una viva imitazione e un ritratto naturale de’ più scellerati della società, essendone gl’ interlocutori spioni, traditori, ladroni di campagna e di città, bagasce le più impudenti, che abbracciando un loro amante lo disarmano e lo consegnano alla giustizia. Il tutto è sparso copiosamente di oscenità e di una satira ardita sopra tutti i ceti, non risparmiandosi i nobili, le dame, gli avvocati, le persone di corte, e fin anco i ministri di stato, i quali vi son paragonati a i delatori de’ ladri ed alle persone più basse ed esecrabili. “A mirar la nostra professione (dice l’infame Peachum ritratto di Jonathan Wild impiccato in Londra nel 1724) per certo aspetto, si può chiamare disonesta; perchè noi rassomigliamo a’ ministri di stato nel dar coraggio a’ malvagi affinchè tradiscano i loro amici”. Il Mendico che nell’ultima scena torna sul teatro col commediante, gli dice: “nel corso dell’ {p. 227}opera avrete notata la grande rassomiglianza che hanno i grandi co’ plebei; è difficile decidere, se ne’ vizj di moda la gente culta imiti i ladroni di vie pubbliche, ovvero se questi ladroni imitino la gente culta”.

Gay compose poi una continuazione dell’Opera del Mendico che intitolò Polly. Il lord Ciambellano non ne permise la rappresentazione; ma una immensa socrizzione per farsi imprimere lo compensò ampiamente. Andres afferma che Polly è meglio condotta e più interessante. Noi che non abbiamo ancor letta quest’altra opera, non possiamo altro dire, se non che M. Patu traduttore delle opere di Gay e di altri ci fa sapere che Polly è fort inferieure à son premier ouvrage.

Gay nel suo Beggars’ Opera motteggiò l’opera italiana introdotta in Londra sin dal secolo precedente, come dal capo al fondo tutta fuori della natura. La musica italiana (diceva lodandolo Swift) è pochissimo fatta pel nostro clima settentrionale e pel genio della nazione. I motti di Gay, di Swift, di Dennis, fecero bandir dall’Inghilterra la musica italiana, pretendendosi che ne avesse corrotto il gusto, e cagionato nocumento agli spettacoli nazionali. Vi fu poscia richiamata; ma sembra che di tutti gli spettacoli scenici l’opera italiana sia colà la meno frequentata. Si spende nelle voci prodigamente, e ben poco nelle decorazioni {p. 228}e ne’ balli. I drammi, la musica, i cantanti, tutto vi si fa venire dall’Italia. Si concorre a questo spettacolo senza trasporto. Non disgusta la nostra musica, ma le donne specialmente (dicesi nel libro francese intitolato Londres) non possono assistere senza riso a uno spettacolo, in cui un Ati o un Eutropio de’ nostri giorni rappresenta seriamente Artaserse, Adriano, Enea; e quanto più questi cantanti malconci si sforzano di esprimere i loro affetti, tanto più crescono le risa femminili. In quante guise la natura manifesta avversione e disprezzo per una mostruosità che l’oltraggia!

Per accennar qualche cosa della musica stromentale di quel paese, diciamo che sino al regno di Riccardo Cuor di leone era pressocchè selvaggia. Questo principe la coltivò con certa felicità sotto Blondel suo maestro. La regina Elisabetta che amava la melodia e che volle spirare ancora ascoltando un concerto di musica, contribuì agli avanzamenti di sì bell’ arte, prendendone in parte il gusto dall’ Italia dove fioriva. In questo nostro secolo il famoso Tedesco Hendel ha cagionato in Inghilterra la rivoluzione che avea già prodotto in Francia il Fiorentino Lulli. Oggi gl’ Inglesi vantano una musica nazionale discendente dalla tedesca, la quale è figlia dell’italiana. I concerti del Fax-Hall e del Renelag, quelli {p. 229}che si danno nella chiesa di San Paolo, e i particolari di tutta Londra, sono per lo più composizioni Inglesi.

VI.
Teatri materiali. §

Iteatri di Londra non son certamente i meno pregevoli dell’Europa. Quello dell’Opera, Drury-Lane e Coven-Garden, hanno una immagine della scalinata antica nella platea e de’ moderni palchi nelle logge. L’ edificio dell’opera è un parallelogrammo largo circa cinquanta piedi Parigini e lungo trentasette sino all’orchestra. Sono in in esso inscritti undici scalini per la platea, sull’ultimo de’ quali si alza una loggia di pilastri isolati con varie scalinate, e su questa una seconda colle sue scalinate. Sopra i lati della platea attaccati all’ orchestra si elevano quattro ordini di logge, delle quali ciascuna contiene tre palchetti. Presso a questi sono per ogni lato tre colonne isolate di ordine Corintio con tre logge negl’ intercolunnj, de’ quali ognuno ha tre palchetti l’uno sopra l’altro destinati per la famiglia reale. Le ultime di tali colonne formano il proscenio. Dello stesso ordine Corintio sono le due colonne isolate che si veggono nel fondo delle scene. Questo teatro non manca di scale, corridoi e commodi {p. 230}ingressi; ma (dicesi nel trattato del Teatro) tralle varie logge de’ palchetti e e dell’ anfiteatro manca quel necessario ricorso delle linee e quella concatenazione di parti, donde risulta l’unità e l’armonia di tutto l’edificio.

Di gusto e capacità somigliante sono gli altri due teatri. Più armonia si scorge in quello di Coven-Garden, in cui le scalinate si uniscono colle logge, anche colle reali che sono a i due lati dell’orchestra e del proscenio, ed hanno solo due colonne per lato. Non sono perfette porzioni di circoli, ma di poligoni tanto la parte anfiteatrale quanto gli scaglioni della platea. Tutti i teatri di Londra hanno accessorj commodi e nobili; benchè per questa parte trovansi in Europa più teatri che gli uguagliano ed alcuni che gli superano.

Ma niun teatro del mondo ha pareggiati ch’io sappia non che superati i teatri di Londra in una decorazione altrove non più veduta, che dovrebbe accendere di bella invidia ogni nazione. Una società di marina destinata a fornire a’ poveri giovanetti i mezzi di fargli venire a Londra da ogni parte per apprendere il mestiere di marinajo per uso de’ vascelli di guerra, vi fu stabilita verso la metà del secolo. Contribuirono volontariamente i membri di essa a sostenerla, e il sovrano la soccorse con mille lire sterline, e il principe di Galles con {p. 231}quattrocento. Concorsero ad aumentarne il fondo anche gli spettacoli scenici. Gl’ impresarj prestarono gratuitamente la sala, e gli attori lasciarono in di lei beneficio le loro porzioni. In una delle rappresentazioni di Drury-Lane si raccolsero intorno a 271 lire sterline per la società. Per mostrar poi al pubblico il nobil frutto delle di lei cure e del patriotismo che univa gl’ Inglesi a mantenere un’ opera così utile, si schierarono sul teatro 75 giovanetti, de’ quali niuno oltrepassava gli anni 18, e 40 uomini provetti vestiti tutti dalla società. Che vaga pompa! che decorazione invidiabile! Oh chi potesse congiugnerla con gli ornati, le dorature, i cristalli e le superbe illuminazioni in tutti i popoli che hanno mare e vagabondi, e che dovrebbero approfittarsi dell’uno e degli altri per avere un’ armata e un commercio!

CAPO II.
Teatro Alemanno. §

La turgidezza, i frizzi e le metafore stravaganti di Lohenstein, non meno che le bassezze di Cristiano Weisse, andavano sin dal principio del secolo cadendo nel meritato disprezzo. La giustezza e la verità {p. 232}de’ pensieri e la correzione dell’espressioni già campeggiava nelle opere di Wolf, di Canitz, di Breitinger, Neukirck, Haller, Hagedorn, Mosheim, Bodmer, Gottsched. Il solo teatro trovavasi tuttavia sino alla fine del 1730 in preda all’arlecchino, a Giovanni Salciccia, ai GranDrammi politici ed eroici. E a chi debbonsi i primi tentativi per la riforma del teatro Alemanno? Una donna, un’ attrice, la famosa Neuber ebbe il coraggio di pensarla e d’imprenderne l’esecuzione, e coll’ animare Gottsched a travagliarvi, e coll’ innoltrarsi ella stessa nell’sardua impresa, ad onta delle persecuzioni, correndo per la Sassonia e facendo la guerra al mal gusto. Kock abile attore ne secondò coraggiosamente gli sforzi traducendo alcuni componimenti francesi.

Il di lei entusiasmo passò al nominato professore di Lipsia Gottsched pieno della lettura de’ drammi francesi e persuaso della giustezza de’ loro principj. Tradusse dal francese, compose e fe comporre ad altri diversi componimenti da sostituirsi alle antiche buffonerie, i quali dalla compagnia della Neuber si rappresentarono in Lipsia ed in Brunswick. A norma ancora del Catone di Addisson compose il suo Catone moribondo. Zelante osservatore delle regole ne fece una tragedia regolare; freddo, depresso e poco nobile verseggiatore la vestì umilmente. I di lui colleghi conposero Dario, Benisa, il {p. 233}Bello spirito, l’Ippocondrico ed altre tragedie e commedie modellate freddamente alla francese. Gottsched unì a’ suoi tutti questi componimenti, e gli pubblicò in sei volumi. Madama Gottsched conferì ancora a’ di lui disegni col Penteo tragedia e colle commedie il Testamento ed il Matrimonio disuguale scritte con purezza, ma pesanti, sprovvedute di calore e spesso nojose per la lunghezza.

La nazione posta in movimento applaudi al disegno di una riforma, ma se ne disapprovava il mezzo scelto, cioè l’esempio de’ Francesi. “Il nostro gusto e i nostri costumi (osservavasi nelle Lettere sulla moderna letteratura pubblicate dal 1759 sino al 1763) rassomigliano più agl’ Inglesi che a’ Francesi: nelle nostre tragedie amiamo di vedere e pensare più che non si pensa e non si vede nella timida tragedia francese: il grande, il terribile, il malinconico fanno sopra di noi più impressione del tenero e dell’appassionato, e in generale noi preferiamo le cose difficili e complicate a quelle che si veggono con una occhiata”. Simili riflessioni contrapposte a quelle de’ seguaci di Gottsched fecero nascere in Germania due partiti, quello degl’ imitatori di Cornelio e Racine scrupolosi osservatori delle regole, e quello de’ seguaci di Shakespear ed Otwai anche nelle mostruosità. Applaudiva il pubblico or l’uno or l’altro partito, e la sua {p. 234}approvazione data a due gusti contrarj provava contro ambedue che l’un cammino e l’altro corso con genio poteva menare al medesimo scopo. Venne poi chi ne propose un terzo.

Quest’emulazione ha purgato in gran parte il teatro tedesco delle passate stravaganze. L’Alemagna già conta varj drammatici degni di lode. Tale in prima è Giovanni Elia Schlegel benchè morto nel più bello della carriera. Suoi lavori scenici furono cinque tragedie in versi, Arminio, Didone, Canuto re di Danimarca, le Troadi di Seneca e l’Elettra di Euripide, e tre commedie in prosa, il Trionfo delle donne sagge, la Bellezza mutola ed il Misterioso. Spicca tralle prime il Canuto, benchè dicasi che contenga molte belle scene senza formare una bella tragedia; tralle seconde si applaude il Misterioso per la decenza e per la moralità, benchè vi si desideri la piacevolezza comica. La morte gl’ impedì di riuscir quanto poteva. Il re di Danimarca Federigo V l’aveva tirato ne’ suoi dominj, ove Schlegel godeva di una comoda fortuna essendo cattedratico a Soroë.

Giovanni Behermann negoziante di Amburgo morto da non molti anni compose due tragedie ben verseggiate, il Timoleonte, e gli Orazj nella quale imitò Cornelio. Esse hanno un merito competente, e solo i critici vi desiderano più calore e minore {p. 235}sfoggio di massime filosofiche.

Cristiano Gellert nato nell’Alta Sassonia nel 1713 e morto nel 1769 mostrò buon gusto in più opere e diede al teatro alcune commedie pregevoli. Spiccano tra esse la Falsa Divota, la Donna Ammalata, il Biglietto del Lotto, nelle quali si dipingono al naturale i costumi correnti. Nel Biglietto del Lotto è ben colorito il sordido ed avaro Damone, e la vana, invidiosa e ciarliera mad. Orgone. Ma l’azione dovrebbe essere più vivace, il disegno più unito, lo sceneggiamento più connesso, l’entrare e l’uscire de’ personaggi più ragionevole e soprattutto il costume più decente. A questi dì in Italia, in Francia e nelle Spagne fremerebbe lo spettatore a una scena simile alla terza dell’atto III. “Un picciolo ristoro, madama, dice Simone a mad. Orgone, e la bacia. Tristarello, ella risponde, chi vi permette questa libertà? Non temete di ammalarvi abbracciando una inferma”? Ella poi si sente suffocare, ha difficoltà di respirare . . . il seno se le discopre senza accorgersene . . . Simone torna ad abbracciarla dicendo, “che seno di alabastro! che vista”! Peggiore è la seconda scena dell’atto IV. “Madama, dice Simone, è gran tempo che io non vi ho abbracciata. Ah mio caro, ella risponde, sento venire alcuno, ho paura che ci osservino; sentite io men vado fingendo di essere {p. 236}con voi in collera, seguitemi, ma non sì presto perchè non s’insospettiscano”. Se la modestia vi è offesa, l’arte non vi è risparmiata. Lo scioglimento è seguito, si è ricuperato il biglietto, se n’è destinato il guadagno, e mentre lo spettatore attende di essere congedato, comparisce nell’ultima scena un nuovo personaggio, un signor Antonio, un amante di Carolina, e incominciano esami, discussioni, proteste di amore e disinteresse, e tutto così a bell’ agio come si farebbe nel mezzo della favola.

Giovanni Cristiano Krüger nato in Berlino e morto in Amburgo di anni ventotto nel 1750 costretto dalla povertà entrò nella compagnia comica di Schönemann, e lavorò come attore e come poeta. Corse poi per l’Alemagna e conobbe molti letterati. Tradusse le opere di Marivaux e di altri. Le più stimate sue commedie sono i Candidati, il Duca Michele, e lo Sposo Cieco65. Il sig. Bertola, cui per altro si debbono alcune notizie recenti del teatro tedesco, ha detto che quest’ ultima, oltre all’essere stata imitata in Francia, sia pasjata anche fra noi in un’ opera buffa. Ma julle scene napoletane sin dal 1727 (cioè {p. 237}quando Krüger non contava che cinque anni) comparve un dramma intitolato lo Cecato fauzo che è uno sposo che si finge cieco per gelosia66.

Giovanni Federigo barone di Cronegh nato in Anspach poteva forse divenire un tragico eccellente, sì patetico e dilicato si dimostra nelle sue tragedie e nelle Solitudini, ovvero un gran comico per la facilità che ebbe nel dipingere i caratteri e per la grazia che riluce in qualche sua favola; ma cessò di vivere acerbamente nel 1756 in età di 26 anni. Egli amava i buoni drammatici della Francia e dimorando in Venezia acquistò la conoscenza de’ nostri gran poeti. Il suo Codro tragedia regolare e ben colorita prometteva in breve un gran tragico. Olindo e Sofronia non inferiore rimase non perfezionata. Riuscì similmente nel genere comico. Il suo Diffidente non iscarseggia nè di verità nè di piacevolezza. Vi si dipinge un sospettoso allevato in campagna e ad un tratto menato a studiar legge {p. 238}senza l’accompagnamento di altre cognizioni sociali che sogliono ripulirne la zotichezza scolaresca e correggerne lo spirito di sottigliezza e di cautela facile a degenerare in diffidenza67.

Intorno al medesimo tempo fiorì il sig. Brawe mostrando i medesimi talenti teatrali, e morì eziandio negli anni suoi più verdi. Scrisse varie tragedie regolari benchè non sempre naturali nell’espressioni. Il suo Deista riscosse grandi applausi nel proprio paese e tra gli esteri.

Tre autori Tedeschi si sono più distinti nel genere pastorale. Rost, Gessner e Gaërtner. Il primo nato nel 1711 in Lipsia scrisse diverse pastorali in un atto rappresentate per tramezzi nelle tragedie e commedie. Riscossero molti applausi, ma vi si desidera esattezza e decenza. Il delicato Salomone Gessner nato a Zurigo nel 1730 e morto non ha guari, il quale in tante guise ritrasse la bella e semplice natura, volle pur mettere sulla scena le bellezze pastorali ch’egli seppe leggiadramente colorire. Degna di molta lode è la sua pastorale Evandro ed Alcimna tradotta ed imitata in Francia. {p. 239}Cristoforo Gaërtner professore di eloquenza nato in Freiberg compose parimente una pastorale applaudita la Fedeltà al cimento68. Noi ne commendiamo la bella scena di Filli e Mirtillo, in cui la ninfa gli propone di amare un’ altra ch’ella dipinge assai vezzosa, ed egli risponde naturalmente con quel motto pieno di fuoco replicato a tempo, ma non è Dori. Bello è pur l’altro di Dori stessa nella scena decima. Egli dice, Mirtillo infelice, chi ti consolerà? Io, risponde facendosi vedere la sua Dori.

Cristiano Felice Weiss nato nel 1726 nelle sue poesie di più di un genere ha mostrato or la delicatezza di Guido e dell’Albano, or il terribile di Michelangelo, or la piacevolezza di Teniers. Tali idee ci risvegliano le sue Poesie Liriche, le Canzoni dî un’ Amazzone, e le sue favole tragiche e comiche. Egli vedeva ugualmente gli errori tanto di chi contento della regolarità de’ Francesi non sentiva il gelo e la languidezza di una servile imitazione, quanto di chi trasportato dall’entusiasmo di Shakespear senza possederne l’ingegno, ne contraffaceva piuttosto le mostruosità che le bellezze, il {p. 240}patetico, il sublime. Volle dunque tentar di accoppiare al giudizio di Cornelio il colorito e la forza dell’Inglese. Con questo intento compose più tragedie, tralle quali son da distinguersi Edoardo III, Riccardo III, ed Atreo e Tieste. Ma la prima singolarmente ha meritati gli applausi degli stranieri intelligenti per la saviezza del piano, per la felice distribuzione delle scene, per la gradazione dell’interesse, per la forza del nodo, per lo sviluppamento e per l’elevatezza delle idee, per l’unità de’ caratteri, per la rapidità dello stile, pel calore del dialogo69. Quanta energia non ha la virtù in bocca di Edmond! Quanta verità non si scorge nel virtuoso carattere di Edoardo depresso dall’autorità materna! Qual contrasto di doveri, di rimorsi e di fiacchezza in Isabella! Il monologo di lei nella seconda scena dell’atto II n’esprime con vivacità il fatale amore per Mortimero che la predomina e la memoria del re suo sposo che languisce ne’ ferri e del figlio ch’ella tiene lontano dal trono. Ma non piacemi che nell’atto III si ripetano le istanze di Mortimero per la perdita del re e di Edmond e di Lancastro, ed i rimorsi della regina {p. 241}senza gran varietà di concetti. Patetica però è la seconda scena dell’atto IV in cui Lancastro dipinge ad Edoardo il padre che geme nella prigione. Le agitazioni d’Isabella nella terza scena dell’atto V, poichè l’esecrando delitto è compito, sono dipinte con forza. È da osservarsi ancora l’effetto che fa in lei l’ immagine del corpo di Edoardo grondante di sangue. Interessante è pur il di lei dialogo col figlio. Secondo me Weiss è quello che ha portata la tragedia reale in Alemagna al più alto punto.

Egli ha pur tentata la riforma dell’opera comica spogliandola delle buffonerie irragionevoli con alcuni suoi componimenti scritti in prosa frammischiata con versi. Nella sua commedia i Poeti alla moda, ben disegnata e bene scritta e ben tradotta dal Riviere in francese, Weiss si prefisse di correggere col ridicolo due partiti ugualmente stravaganti. L’Alemagna era divisa in due schiere opposte di verseggiatori. L’una a forza di stentati esametri tedeschi, d’iperboli insane, di pensieri enimmatici, di tenebre e di gonfiezze si lusingava di pareggiar Milton e Klopstock: l’altra con versi rimati, radendo il suolo con freddi, snervati e bassi concetti, pretendeva di aver acquistata la dolcezza, la grazia e la semplicità di Gessner. Weiss satireggiò i primi dipingendoli nel carattere del signor Gergone, e ritrasse al vivo i secondi in quello del signor Rima-ricca. {p. 242}Il buon tuono, la piacevolezza, il sale comico campeggia nella sua favola.

Conta l’Alemagna tra’ suoi tragici il celebre ministro Federigo Amadeo Klopstock autore del poema la Messiade nato nel 1732 in Quedlinburgo. Egli ne ha composte quattro, la Morte di Adamo, il Salomone, il Davide, la Battaglia di Arminio. La prima in tre atti ha una bellezza originale. L’autore filosofo retrocedendo sino a’ tempi primitivi ha conseguito di rilevare i sentimenti che doveano occupare il primo uomo nell’imminente termine del suo vivere. E con un fatto sì comune, com’ è la morte naturale di un uomo decrepito, è giunto a destare quel terrore tragico, che con impotente sforzo cercano di eccitare i moderni scrittori di favole romanzesche ed atroci. Uscì in Magdeburgo nel 1764 il Salomone divisa in cinque atti, in cui si rappresentano gli errori e ’l pentimento di Salomone. Tra’ personaggi vi s’introducono Moloch e Chamos falsi numi personificati; ma l’ autore se ne giustifica, considerandoli come demonj che prendono forma umana. L’interesse del Salomone scritto in versi alla foggia antica e non rimati, non è sì vivo come quello dell’Adamo, perchè (come egli stesso bene osserva) le bellezze proprie de’ caratteri e de’ costumi delle nazioni sono meno universali di quelle che si traggono dalla natura umana. Egli nonpertanto con {p. 243}tal arte ne prepara gli eventi e maneggia le passioni che ci commuove ancor col Salomone. L’arte stessa si scerne nel Davide, in cui leggesi una robusta descrizione della peste. La Battaglia di Arminio scritta parte in prosa e parte in versi per cantarsi contiene la sconfitta di Varo ricevuta da’ Germani condotti da Arminio.

Ma se Weiss e Klopstock hanno coltivato con competente felicità la tragedia grande o reale in Alemagna, nella cittadinesca si è sommamente segnalato Amadeo Efraim Lessing imitatore degl’ Inglesi nato nel 1730 in Kamenz. Le sue favole lugubri a noi note sono: Minna de Barnhelm, Filota, Natan, Emilia Gallotti, e Miss Sara Sampson. Tutti i voti si sono riuniti a tener quest’ultima per la migliore delle sue tragedie urbane, essendo scritta con precisione, discernimento e somma intelligenza nel colorire i caratteri e le passioni. Eccone uno squarcio che può dar qualche idea del patetico che vi si maneggia e dello stile. “Io cominciava (dice Sara all’amato suo rapitore Mellefont) a gustar le dolcezze del riposo, quando tutto ad un tratto mi è sembrato di trovarmi in una ripida balza. Voi mi precedevate ed io vi seguiva con passi timidi ed incerti e pareva che mi deste coraggio con qualche sguardo che di tempo in tempo rivolgendovi gittavate sopra {p. 244}di me. Incontinente ascolto una voce che dolcemente mi comanda di arrestarmi. Era la voce di mio padre . . . Misera me! non posso dimenticarlo! Ah se la mia rimembranza è a lui così amara e crudele, s’egli ancora non può obbliarmi . . . Ma no; egli a me più non pensa . . . almeno lo spero . . . lo spero? ah qual consolazione, qual terribil sollievo per Sara! Nell’istante ch’io mi volgo verso dove veniva la voce, il piè mi manca, vacillo, son presso a precipitare nel fondo dell’abisso, ma mi fento trattenere da uno che pareva mi rassomigliasse. Io co’ più vivi ringraziamenti esprimeva la mia gratitudine, quando egli trattosi dal seno un pugnale che teneva nascosto, alza il braccio e l’immerge nel mio petto, dicendomi, io t’ho salvata per perderti”. Questo sogno che adombra la sostanza dell’azione, è un espediente mille volte praticato, non per tanto dispone a quel piacevole dolore che commuove e tocca gli animi sensibili nelle tragedie. Forte, odioso, detestabile è il carattere dell’empia Marwood, e rassomiglia a quello di Milvoud del Barnwelt Inglese; ma perchè lasciarla impunita nel fine? Trovasi in generale ne’ drammi lugubri di Lessing invenzione, forza, patetico e giudiziosa economia dell’azione, e ne incresce che tutti essi fieno così lunghi, e che si disviluppino {p. 245}sì lentamente. Ciò che dispiace ancora a coloro che amano l’urbanità al pari delle lettere, è che egli non meno del francese Belloy attribuisce i più infami tradimenti usciti dal di lui capo, alle famiglie più cospicue Italiane, come la Gonzaga, l’Appiana, l’Orsina, di che ebbe ragione di riprenderlo anche il chiar. Bettinelli. L’ab. Andres il quale non istimandola composizione del Lessing70 ha ripresa l’Emilia Gallotti come piena di bassezze e di assurdità, afferma poi senza esitare che Lessing sorpassò tutti i tragici nazionali. Ma se questo valentuomo rifletterà alla malagevolezza di riuscire in un piano grande che interessi le nazioni più che le famiglie private, ed a quella di essere eloquente in versi e nel genere drammatico senza alterarne la natura, egli attenderà che un autore di buone tragedie urbane riesca del pari nelle reali, cioè nella grand’arte de’ Sofocli e de’ Cornelj, per anteporlo in Alemagna a’ Klopstock ed a’ Weiss.

Lessing ha composte ancora commedie spiritose e delicate nella dipintura de’ costumi. Le più pregiate sono lo Spirito-forte {p. 246}in cinque atti, e gli Ebrei, ed il Tesoro in uno solo. Nella prima ha ben colorita la malvagità de’ dissoluti ridotta a sistema, vizio di moda degno di essere schernito e corretto. Combatte nella seconda il pregiudizio volgare di supporre incapace di virtù morali chi ha la disgrazia di esser privo del vero lume rivelato, ed all’opposto incapace di vizj chiunque nasce ne’ paesi che ne sono rischiarati. La novità del carattere del personaggio principale ha dato a questa favola credito e corso. Il Tesoro a me sembra più interessante, più della precedente propria per la scena, meno della prima prolissa, e in generale più comica. Singolarmente si ammira in essa il tratto di generosità di Filto che vuol perdere per qualche tempo piuttosto la stima in apparenza che mancare di fedeltà all’amico. L’idea poi della scena di Raps e Anselmo è quasi degna del pennello di Moliere.

Giovanni Guglielmo di Gerstenberg nato nel 1737 a Tundern, imitatore della maniera di Ossian nelle sue Poesie di uno Scaldo, ha dato al teatro tedesco l’Ugolino tragedia terribile sul gusto Inglese. Giovanni Brandes ha prodotta l’Olivia tragicommedia in prosa in cinque atti, e la Locanda commedia rattoppata di ritagli della Scozzese e del Beverley. Due tragedie in prosa sul gusto Inglese si coronarono non ha molti anni in Amburgo, cioè i Gemelli di Klinker, {p. 247}e ’l Giulio di Taranto di Leusewitz, nella quale si notano molte bassezze ed assurdità. Il colonnello Ayrenhoff uno de’ letterati dell’Austria ha composte più tragedie e commedie, e tralle prime viene sommamente celebrata dall’ab. Bertola la Cleopatra, la quale però si pretende che non abbia secondato il disegno dell’autore di produrre una tragedia tedesca da paragonarsi con alcuna di Racine, cosa che sembrava tanto difficile al Wieland autore del Mercurio tedesco. Ma il Postzug, cioè il Tiro a quattro commedia del medesimo Ayrenhoff oltremodo felice in cui si dipingono al naturale i costumi e le ridicolezze della nazione, fe dire al re di Prussia Federigo II che i Tedeschi sono più felici nella commedia che nella tragedia. Egli stesso questo coronato capitano, filosofo e poeta volle calzare una volta il comico borz cchino colla sua École du monde commedia scritta in prosa francese in tre atti pubblicata tralle di lui opere postume sotto il nome di M. Satirico, e fatta, com’ egli disse, per recitarsi incognito. L’oggetto morale è di mostrare l’importanza dell’educazione della gioventù; e la satira vi lancia i suoi strali su di coloro che per falsi principj la corrompono. Vi si motteggia contro di un falso analista e metafisico che tiene stipendiato un professore che scrive per lui; ed attribuisce gli errori politici dello stato all’ignoranza dell’ {p. 248}algebra. Di più vi si dipinge un di lui figliuolo che dall’università degli studj ha riportato ignoranza, libertinaggio e rozzezza, e che domandato dal padre, come vanno le monadi? risponde pieno d’imbarazzo, esse sono come sempre furono molto stimate. Ma l’azione, benchè condotta con regolarità, manca d’interesse, di vivacità, di forza comica e di delicatezza. Il barone di Gemmingen ha composto il Padre di famiglia Tedesco, che si trova nella collezione de’ drammi tedeschi tradotti in francese fatta dal Friedel. L’autore si prefisse la più bella azione che possa onorare un buon padre di famiglia per farlo trionfare utilmente sulla scena; cioè l’obbligare, ad onta della propria nobiltà, il figliuolo a mantener la fede ad una fanciulla di condizione inferiore, ch’ egli avea renduta feconda. Giovanni Goete nato nel 1749 in Francfort sul Meno, oltre ad alcune favole comiche in prosa sparse di versi per cantarsi, ha composto una tragedia patriotica che chiamò spettacolo, intitolata Göz di Berlichingen, notabile per la lunghezza equivalendo almeno a quattro tragedie regolari, pel numero degli attori che passano i trenta, e per le assurdità non inferiori a quelle di Shakespear. Non pertanto si accolse in Berlino con trasporto di piacere, e con quegli applausi che nelle società che conservano qualche idea di libertà spirante, tributerà sempre il patriotismo a {p. 249}chi ne insinua e ne fomenta l’amore.

Per ciò che riguarda la musica tedesca, ne sono manifesti i progressi fatti dopo che si sparsero per quelle contrade i capi d’opera della musica italiana. Chi può ignorare la celebrità de’ famosi maestri di musica nazionale vocale, il rinomato Hendel, il chiaro Hass detto il Sassone alunno insigne de’ conservatorj di Napoli, il patetico ed armonico Back, l’impareggiabile Gluck onorato alcuni anni sono di una statua in Parigi71? Quanto a’ poeti melodrammatici tedeschi, mal grado dell’esempio del gran Poeta Cesareo Italiano, essi hanno coltivata l’opera mitologica rifiutata dall’Italia. Federigo Augusto Werthy del ducato di Wirtemberg nato nel 1748 ha composto due opere musicali mitologiche, Orfeo, e Deucalione. Cristoforo Martino Wieland nato nel 1733 in Biberach che avea composto anche Giovanna Grais tragedia, produsse {p. 250}la Rosamunda, la Scelta di Ercole, l’ Aurora, l’Alceste drammi musicali alla francese. Il Brandes, e l’Engel ne hanno composto ancora, e l’Arianna è un monodramma tedesco in cui lavorarono entrambi ad esempio del Pigmalione; ed è anche monodramma la Medea del Gotter. Essi però ridevolmente hanno chiamati monodrammi questi componimenti scritti in prosa, benchè non favelli in essi un solo personaggio; e piacesse al cielo e fosse questa la sola cagione che tiene sino a questo dì tanto lontani questi ed altri freddi monodrammisti dal Pigmalione che cercano di copiare senza ingegno! Ma l’augusta Maria Anna Walburga di Baviera elettrice di Sassonia discordando da’ nazionali coltivò il melodramma istorico di Zeno e di Metastasio, ed ella stessa l’animò colla musica, valendosi anche dell’idioma italiano più del tedesco pieghevole alla melodia tanto nella Talestri opera eroica, quanto nel Trionfo della fedeltà pastorale. Può anche contarsi per una specie di pregio dell’Alemagna l’aver contribuito al risorgimento dell’arte pantomimica con intere favole. Hilverding nativo di Vienna pose in iscena varj balli di azioni compiute, ed ebbe in ciò un abile seguace nel toscano Angiolini.

Un paese sì vasto, sì popolato, sì diviso in varj principati, sì dedito in questo secolo a coltivare la poesia teatrale, dee fuor {p. 251}di dubbio aver teatri materiali per numero e per magnificenza conveniente al lustro di ciascuna città. Essi tutti sono costruiti alla foggia moderna a più ordini di palchetti e con una platea di forma per lo più ovale. Il teatro della corte di Vienna che sin dal passato secolo fu addetto all’opera italiana, dal 1752 cominciò ad ammettere anche la commedia francese. È un edifizio nobile e capace per le decorazioni e per gli balli. Il ridotto del giuoco fatto nel recinto di quest’edifizio comunica col teatro. Le rappresentazioni tedesche si fanno in Vienna in un altro teatro ancor più grande di quello di corte. I teatri dell’opera e della commedia nazionale di Praga superano in grandezza quelli di Vienna, e tutti poi cedono al teatro di Dresda. Meritano di mentovarsi anco i teatri di Monaco e di Amburgo. La sala ossia il teatro dell’opera di Berlino fu fatto costruire dal gran Federigo II, e si reputa il più bello di tutto il settentrione, ed è il solo che può gareggiare in qualche modo con quelli di Torino e di Napoli. Il re quasi appena asceso al trono tra i travagli e le spese della guerra volle dedicare questo monumento al gusto della musica e delle arti, e vi chiamò con molta spesa gli attori musici dall’Italia e la compagnia de’ balli da Parigi. La prima opera che vi si rappresentò nel 1 di dicembre del 1742, fu Cleopatra colla {p. 252}musica di Graun. Una delle opere assai riuscite in Berlino fu l’Ifigenia di cui fa menzione l’Algarotti. In Potsdam eravi un altro teatro dove Federigo ascoltava l’opera buffa italiana.

CAPO III.
Teatro Olandese: Danese: Suedese: Polacco. §

Benchè gli Olandesi nelle antichissime loro assemblee di verseggiatori anche estemporanei, tra’ quali vuolsi che siasi distinto nel passato secolo il poeta Poot, hanno recitate ancora favole sceniche, nondimeno lenti colà saranno sempre i progressi di un’ arte che non si pregia, e che sdegnano di coltivare i buoni talenti. Dopo del loro Vondel, e del Van-del-Does appena si lodano come le migliori favole del paese due tragedie di Rotgans, ed un’ altra della sig. Van-Winter nata Van-Merken autrice vivente del bene applaudito poema in sedici canti intitolato il Germanico.

Tardi ma più felicemente la Danimarca ha cominciato a coltivar la drammatica per le cure del re Federico V benemerito della letteratura e del teatro. Non solo egli invitò ne’ suoi dominj Schlegel e Klopstock ed altri chiari letterati, ma fondò un’ accademia per fomentar la poesia scenica tedesca, {p. 253}facendovi esaminare i drammi presentati e coronando i buoni approvati. Il teatro di Copenaghen, sussistendo tale accademia, diverrà di giorno in giorno più degno della pubblica considerazione. A’ nostri dì si è segnalato tra’ Danesi il barone Holberg con varie commedie che non mancano di merito. Giovanni Ewald morto da non molto ha composto la Morte di Balder ed altre favole che gli fecero onore fra’ suoi. Ma singolarmente dee la Danimarca pregiarsi della sig. Passow nata in Copenaghen e morta nel 1757, la quale era stata celebre attrice del teatro nazionale e poi nel 1753 divenne moglie di un tenente del re che nel 1731 era stato capitano della compagnia dell’Indie. Oltre della traduzione ch’ella fece del Filosofo Inglese e del Don Quixote, e di varie sue poesie, ella compose pel teatro in più di un genere. I Difetti dell’amore pastorale in versi di un atto riscosse applausi da’ suoi e dagli stranieri per un piano ben condotto e ben colorito72. Il suo Amor non previsto, o Cupido filosofo, altra favola in versi pur di un atto fu parimente bene accolta. La Marianna, ovvero la Scelta libera in prosa e in cinque {p. 254}atti si rappresentò dopo la di lei morte con particolari applausi. Quest’ingegnosa poetessa, che può dirsi l’Isabella Andreini de’ Danesi, contribuì anche all’intrapresa e all’esecuzione della prima opera musicale Danese rappresentata a spese di alcuni particolari nel 1757 in Copenaghen colla mira di dimostrare che la lingua patria ben si adatta alla musica.

Incoraggita da’ proprj sovrani la Suezia con più ardore si è nella nostra età dedicata alla poesia scenica, ed ha eretto in Stokolm da non molti anni un teatro non inferiore agli altri dell’Alemagna. La regina Cristina si valse della penna del Messenio per far comporre favole suedesi comiche e tragiche per rappresentarsi da’ cavalieri e dalle dame di corte; ma furono primi tentativi superati in certo modo da Olao Dahlin nato nel 1708, che altre indi ne scrisse meno imperfette. La nazione allora gli diede il nome di padre della poesia suedese per la tragedia di Brunhilde soggetto ricavato dall’antica storia del settentrione73. Il presente re per animar la nazione congedò la compagnia francese, e compose {p. 255}egli stesso la Generosità di Gustavo Adolfo recitata dalle dame e da’ cavalieri di corte sul teatro di Utrichsdahl74. Adlerbeth suo segretario ha secondato con buon successo le reali vedute scrivendo un’ Ifigenia in Aulide tragedia con cori ricavata dagli antichi, e Cora ed Alonso componimento posto in musica dal Nauman, ed altre favole musicali imitate dalle francesi, cioè Procri e Cefalo, Anfione, Nettuno ed Anfitrite. Il conte Gillemborg ha composto il Petimetre commedia, Birger Jarl dramma eroico, e una tragedia intitolata Sune Jarl. Alcune traduzioni di opere musicali francesi ed italiane hanno fatte il Lalin, il Rotmar, il Wellander. Il Flintberg autore di un componimento intitolato il Sole risplende per tutto tradusse l’Orfano della China del Voltaire; Manderstroom, oltre a un’ opera francese intitolata Silvia, ha tradotto in Isvedese l’Ifigenia del Racine e i Due Avari del Falbaire; Ristel la Merope del Voltaire; Folberg la Zaira; Murberg l’Atalia; e finalmente la poetessa Holmstedt ha tradotto il Mercante di Smirne, e la sig. Malmstedt Zemira e Azor, ed il Lucilio del Marmontel.

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In Polonia, oltre alle rappresentazioni musicali italiane eroiche e buffe, si è cominciato da alcuno a migliorare i drammi nazionali. Nel Giornale Enciclopedico di Buglione si reca un estratto dell’Avaro magnifico commedia di un magnate, lodandosene la verità de’ caratteri, il dialogo e lo stile. La Spesa per vanità nel bisogno, ed il Giovane castigato sono due commedie Polacche lodate ne’ giornali. In Varsovia il principe Martino Ludomirski ha fondato un conservatorio per formare una scuola di attori Polacchi.

CAPO IV.
Spettacoli scenici della Russia. §

Il vasto impero Russiano che comprende oggi un paese disteso da occidente in oriente quasi per 2000 leghe, e intorno a 700 da mezzo dì a settentrione; che giugne da levante per diversi punti alle frontiere della China e alla Gran Tartaria, e confina da ponente colla Svezia, col Baltico e colla Polonia, da settentrione col mar Glaciale, e dal mezzogiorno s’inoltra verso il mar Nero minacciando l’Ottomano da Okzacow: quest’impero quasi sino al terminar del passato secolo non molto differiva pe’ costumi selvaggi da’ Samojedi, {p. 257}Morduati e Siberiani che ad esso appartengono. Ignoti quasi interamente al resto dell’Europa i Moscoviti privi di libertà ed immersi in una profonda ignoranza sostenuta particolarmente da un’ antica legge che proibiva ad ognuno l’uscir dal proprio paese sotto pena di morte senza la permissione del patriarca, non aveano idea se non di quello ch’era sotto gli occhi loro, e ignoravano tutte le arti, a riserba di quelle che la sola natura e il bisogno suggerisce.

In tale stato potevano essi conoscere altri spettacoli scenici che quelle prime rozze e informi rappresentazioni chiamate sacre in cui si accoppiava la farsa e la religione? In effetto non ne hanno avute altre sino a questo secolo, e si rappresentavano ne’ monisteri in occasione di qualche festa, concorrendovi tal volta il sovrano con i grandi della corte. Pietro il grande che dal suo famoso viaggio tornò ne’ suoi vastissimi dominj, come dicesi che Osiri entrasse nelle Indie, accompagnato da tutto il corteggio delle muse, chiamar si può il vero fondatore e legislatore della nazione Russa, avendo cambiata la natura stessa de’ suoi stati e i costumi de’ popoli, e introdotto fra loro lo spirito d’industria, ed arti, scienze, collegj, accademie, librerie, stamperie. Ma benchè amasse la poesia e la musica, i suoi piaceri consistettero ne’ balli in maschera e {p. 258}in altre gran feste date alla nazione.

Gli spettacoli teatrali non cominciarono a desiderarsi e a comparire in Pietroburgo se non che sotto il regno dell’imperatrice Anna, essendovisi allora chiamata la prima compagnia comica italiana e un’ opera buffa.

Nel seguente regno dell’imperatrice Elisabetta s’introdusse nella corte una compagnia francese e un’ opera seria italiana. I Russi ad esempio dell’ Alemagna cominciarono a far contribuire al proprio diletto le nazioni più ingegnose, l’Italiana e la Francese, le quali da gran tempo si disputano la preferenza nell’arte di piacere. L’opera buffa e la seria italiana, e la commedia francese si rappresentavano alternativamente tre giorni della settimana.

Dee sotto la medesima sovrana fissarsi ancora il vero nascimento del teatro nazionale. Lasciando le incondite favole di Trediakouski, e le deboli di Lomonosow, possiamo considerare Sumarocow di una famiglia distinta come il primo tragico Moscovita. Egli ha composte dieci o dodici tragedie tratte dalle storie nazionali recitate in Pietroburgo ed in Mosca con molto applauso; ed i compatriotti ne esaltano la versificazione e la regolarità. Levesque ne comenda l’eleganza, ma aggiugne che volendo esser savio come Racine divenne freddo, e privo di moto e di calore. Altri nazionali sul di lui esempio hanno parimente {p. 259}contribuito a fornire di tragedie Russe le native contrade. L’uffiziale Macikow ha composto la tragedia del Falso Demetrio.

Intorno a questo tempo si tradussero le migliori commedie francesi, danesi e tedesche; ma la nazione non approva che tre o quattro commedie originali scritte in quel genere di comico grossolano che si avvicina alla farsa.

Nel presente glorioso regno di Caterina II la nazione ha preso un volo sublime. Le arti, le scienze, un commercio fiorente, una forza marittima, una superiorità d’armi sul possessore di Costantinopoli, la Crimea aggiunta alle Russie, il possesso ricuperato di Oczakow, un codice degno della miglior filosofia e della sovranità più rischiarata, rendono la Russia oggetto dell’ammirazione dell’Europa. Quanto agli spettacoli scenici continuano a fiorire e a rappresentarsi con magnificenza. La Czarina ha fatto di più; ha somministrati i commodi opportuni a varj attori nazionali per viaggiare in Francia e in Inghilterra ad oggetto di perfezionarsi nell’ arte di rappresentare. Pur non sembrami questo solo il mezzo opportuno a conseguir l’intento. Incoraggite i poeti, cercate ogni via perchè si sollevino dalla turba de’ versificatori, ed essi che sono l’anima delle scene, inspireranno il proprio entusiasmo agli attori, e questo spirito farà che essi rappresentino con tanta energia-naturalezza {p. 260}e sensibilità, con quanta durezza, stento e freddezza rappresenteranno copiando unicamente gli attori stranieri. I Baron e le Couvreur non si videro comparir nella Francia prima de’ Racini e de’ Molieri. Non pertanto gli odierni attori Russi vengono encomiati da’ nazionali.

Sin dal 1741 quando nella Russia cominciò l’opera italiana, vi si ammirò un’ orchestra magnifica, vi cantarono le più rinomate cantatrici, e vi furono invitati i più celebri maestri di musica dell’Italia e specialmente di Napoli. Il Veneziano Buranelli fu il primo maestro e direttore di quello spettacolo. Gli succedette il nostro celebre Traetta, e l’uno e l’altro ebbe 3500 rubli di paga. Vi fu in seguito chiamato il chiaro maestro Napoletano Giovanni Paisello oggi al servizio del proprio augusto Sovrano, ed ebbe 4000 rubli di soldo. Il Napoletano Cimarosa trovasi attualmente al servizio di quella corte imperiale. I cori dell’opera sono composti di venti persone in circa, che per lo più vengono dall’Ukrania o Picciola Russia dove si studia molto la musica vocale. Le opere serie si rappresentano in corte circa venti volte l’anno, componendosene una in ogni anno, ma vi si cambiano dieci o dodici volte i balli; là dove nell’opera comica francese che pur vi si rappresenta, bisogna mutare spessissimo i drammi perchè si soffra. L’ab. Coltellini {p. 261}toscano fornì qualche melodramma al teatro Russo, e vi fu applaudita la sua Antigona. I balli sono magnifici. Il tedesco Hilverding vi dimorò sette anni con 3000 rubli di paga; il toscano Angiolini gli succedette, e n’ebbe 4000. In questi ultimi anni il primo ballerino molto applaudito è stato nazionale e chiamavasi Bublikow.

Quanto al teatro materiale del real palazzo di Pietroburgo si costrusse sotto l’imperatrice Elisabetta col disegno e colla direzione del conte Rastrelli Veneziano. Eccone la descrizione che se ne fa nel trattato del Teatro. Il palco scenario è lungo circa 72 piedi parigini, ed il resto del teatro ch’è una specie di ellissi, ha la lunghezza di 103 piedi. Vi sono cinque ordini di logge ciascuna divisa in diciotto palchetti. Il primo ordine è una balaustrata, il secondo ha i palchetti con bocche centrali, il terzo a specchio di toletta, il quarto in piatta banda, il quinto è tutto aperto senza separazione. La loggia imperiale ch’è nella fronte, fu dal Franzese la Motte ornata di quattro colonne che la sostengono, e di un baldacchino che s’innalza per tutto il terzo ordine. La corte gode da questa loggia i balli, e ascolta l’opera in un palco accanto all’orchestra. La scena comunica colla platea per due scalinate laterali che partono dal proscenio.

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CAPO V.
Letteratura e Commedia Turca. §

Declinando dal settentrione e dando uno sguardo a Costantinopoli ad oggetto di lasciar tutto l’ultimo tomo a’ teatri dell’Italia e delle Spagne, termineremo questo libro con un saggio de’ progressi della coltura della Turchia e della commedia che vi si rappresenta.

Un pregiudizio volgare va impiccolendo in noi l’idea della coltura delle nazioni a proporzione della loro lontananza. Ciò che non ci rassomiglia sembraci indegno della nostra stima e incapace di buon senso e di gusto. Questo pregiudizio rinfacciato da Saint-Evremond e da Montesquieu alla nazione Francese trovasi abbarbicato presso tutte le altre ancora senza eccettuarne la Greca e la Romana; e soltanto alcuni pochi osservatori a forza di riflettere e di comparare ne vanno esenti.

Generalmente i Turchi, mal grado della loro comunicazione con alcune corti Europee, che potrebbero darne più giusta idea, sono stimati barbari e rozzi. La storia però ci fa vedere che non sia sì grande la loro rozzezza e barbarie. Questa nazione guerriera che da più di 330 anni occupa il trono {p. 263}imperiale di Costantino, ebbe molti principi illustri ed abili nella pace e nella guerra. Orcano stabilì varj collegj per comodo della gioventù. Amurat I creò e disciplinò la temuta milizia de’ Giannizzeri. Amurat II si segnalò come guerriero e come monarca contro de’ Greci e degli Ungheri: conchiuse una tregua col re di Polonia ch’egli osservò, e che i Cristiani violarono ad onta de’ giuramenti: ed ebbe il cuore sì nobile e superiore al trono, che l’abdicò in favore del figliuolo, nè ripigliò lo scettro se non per assicurarglielo colla disfatta che diede a Ladislao in Bulgaria, e per rinunziarlo la seconda volta. Il di lui figliuolo Maometto II sempre dipinto con nerissimi colori mostrò senza dubbio molta moderazione in permettere che il padre ripigliasse l’impero, e dee contarsi tra’ più grandi conquistatori, e tra’ principi magnanimi e prudenti. Egli possedeva varie lingue, amava le arti e la musica, e coltivava l’astronomia. Compiacevasi anche della pittura, e Gentile Belino pittore Veneziano per alcun tempo dimorò nella sua corte, e se ne tornò carico di doni75. Soprattutto si dilettava della storia, e singolarmente {p. 264}di quella di Augusto e degli altri Cesari, e di Alessandro, di Costantino e di Teodosio che aveano regnato ne’ paesi a lui soggetti, e ne fece fare le traduzioni in lingua Turca76. All’amore della storia debbesi la beneficenza usata da questo principe con uno storico Italiano. Giammaria Angiolello Vicentino compose in lingua italiana e nella turca la storia delle di lui gesta, gliela dedicò, e ne fu largamente rimunerato. Dopo di lui altri principi Ottomani si segnalarono in guerra senza trascurare le arti di pace. Selim I formidabile a’ nemici coltivava in pace felicemente la poesia turchesca. Solimano di lui figliuolo ancor più poderoso e gran conquistatore e legislatore si formò sulla storia che studiava, e soprattutto su i Comentarj di Cesare che fe tradurre in lingua turca. La milizia turca nel secolo XVI era la più disciplinata di tutta l’ Europa. Non si va così in alto senza cognizioni e coltura. É un errore volgare che i Turchi abborriscono d’ogni maniera le lettere e le scienze. Essi studiano l’Arabo e ’l Persiano, come noi il Greco ed il Latino. Quei che attendono alle cose {p. 265}della religione e alla giurisprudenza, studiano i comenti dell’Alcorano, i decreti de’ Gran-Signori, e i Fetfà de’ Mufti, come noi ci occupiamo sulla Bibbia, su i santi Padri e sulle costituzioni de’ nostri legislatori. Sin dal XVI secolo abbondavano ne’ paesi della Turchia Asiatica ed Europea le biblioteche. L’ Olandese Golio ne’ suoi viaggi in Aleppo, nell’Arabia, nella Mesopotamia e in Costantinopoli, trovò molti Turchi cortesi e illuminati, i quali gli permisero di osservare i codici delle loro librerie77. In tutte le moschee considerabili si trovano collegj dove s’insegna a leggere, scrivere e spiegar l’Alcorano, ed anche l’aritmetica, l’astronomia e la poesia, la quale conserva l’indole orientale ripiena d’immagini forti e di metafore ardite. Si trova fra’ Turchi alcun poeta che passa per eccellente. Saadi autore del Gulistan, ovvero dell’imperio delle rose, fin dal secolo XIV è passato in quelle regioni pel principe de’ poeti Turchi e Persiani (Nota X). Ibraim Gran Visir e genero dell’imperadore Acmet III, è stato un poeta che ne’ versi fatti per la sultana che poi fu sua moglie, ha mostrato d’ intendere {p. 266}e sapere esprimere le delicatezze dell’ amore78.

Alle riferite cose da noi scritte sin dal 1777 nella Storia de’ Teatri in un volume giova aggiugnere alcuna notizia più recente sulla fede dell’ab. Giambatista Toderini Veneziano che ha dimorato cinque anni in Costantinopoli, ed ha scritto tre volumi sulla Letteratura Turchesca impressi nel 1787. Egli dimostra che i Turchi hanno libri di rettorica, logica, aritmetica, geometria, algebra, chimica, metafisica Musulmana, medicina, storia naturale, come altresì globi terrestri, quadranti, ottanti, astrolabj, sfere, telescopj, tavole per la trigonometria. Nevi Efendi è un autore turchesco che ha insegnata la fisica come mezzo per giugnere alla cognizione divina, e Lari e Casmir filosofi nazionali l’hanno comentato. Sotto Mustafà III si è stabilita in Costantinopoli un’ accademia di marina chiamata Muhendis Khanè, cioè camera di geometria aperta verso il 1773. Il primo precettore in essa è stato Seit Hassan Choja Algerino perito nella nautica e nelle lingue araba, turca, inglese, francese e italiana, {p. 267}al quale è succeduto Seit Osman Efendi nativo di Costantinopoli abile geometra, che vi gode una pensione di quaranta piastre al mese, oltre a tutto il mantenimento necessario in casa.

Per ciò che propriamente appartiene alla nostra storia teatrale, osserviamo che lo spirito imitatore fecondo da per tutto ha prodotto fra’ Turchi ancora uno spettacolo scenico. Ma la drammatica di questi moderni signori della Grecia troppo è lontana da quella del tempo di Socrate. Differiscono tanto le moderne favole sceniche di Costantinopoli dalle antiche, quanto da Atene il borgo di Setina. Ecco un argomento di una commedia turchesca rappresentata in casa di un ambasciadore di Moscovia79. Un padre parte da Costantinopoli per Aleppo, e raccomanda a un suo figliuolo una schiava Giorgiana di cui egli è innamorato. Nell’assenza del padre se ne invaghisce anche il figliuolo, manifesta la sua passione, ed è ascoltato e corrisposto. Temono gli amanti del ritorno del padre, e pensano a fuggirsi ad Andrinopoli. Sono prevenuti dal di lui arrivo. Una somma tristezza s’impossessa del giovane amante, e cade infermo. Tenero il {p. 268}padre indaga l’origine della sua malinconia, la trova, riflette, compatisce, si vince e cede al figliuolo la bella Giorgiana. L’azione è comica, interessante, capace di viluppo e di scioglimento popolare, dà luogo al maneggio della tenerezza, e nulla ha di romanzesco e stravagante, nè abbisogna del volgare soccorso di machine, magie e trasformazioni. Dura tre anni, cioè a dire incomparabilmente meno, non dico delle favole cinesi, ma delle alemanne, spagnuole e inglesi del passato secolo. Lo stile delle commedie turchesche è sommamente osceno; ma abbiamo osservato che non sono più decenti le commedie di Aristofane, le inglesi, alcune francesi di Hardi ecc., la Celestina, il dottor Carlino ecc. della Spagna, e la Calandra dell’Italia. I commedianti turchi non hanno teatro fisso, ma vanno come i Cinesi rappresentando nelle case ove son chiamati. Per un uditorio di uomini vi sono compagnie di uomini senza veruna donna nelle quali scelgono giovanetti di vago aspetto che rappresentino le parti di donne; e per un’ adunanza femminile vi sono compagnie composte di sole donne, alcune delle quali rappresentano da uomini.

Comuni sono ancora fra’ Turchi le rappresentanze de’ Pupi. In occasione di nozze si passa la giornata della cerimonia ballando, o vedendo rappresentare i pupi. Le notti di quaresima della luna di ramazan si spendono {p. 269}a mangiare, fumare, prender caffè e sorbetti, sonare e vedere le burlette de’ pupi al lume delle lampadi, di che può vedersi il Viaggio al Levante del Tournefort. Si compiacciono parimente i Turchi e i Persiani de’ pantomimi, ne’ quali riescono eccellentemente i Costantinopolitani.

CORREZIONE AL TOMO IV. §

In una Nota alle pag. 171 e 172 parlando de’ musici castrati abbiamo detto che in Madrid vi è un collegio di castratini educati espressamente per cantare nella Real Cappella le divine laudi, la qual cosa è verissima. Abbiamo soggiunto che nella R. Chiesa dell’Incarnazione pur di Madrid allevasi altro simil coro di evirati, e ciò abbisogna di dichiarazione. L’Incarnazione non ha altro simile coro come quello della R. Cappella; ma fra’ Sacerdoti che vi offiziano, allorchè noi dimoravamo in Madrid, se ne trovavano alcuni che non erano uomini interi, per li quali solea piacevoleggiarsi su di essi mentovandosi degli uovi. Un nuovo informo presone da’ savj e candidi amici di Madrid venuto dopo l’impressione del tomo IV, ci obbliga a dare al vero la presente spiegazione, la quale lascia nel pieno suo vigore la riferita Nota. Ciò sia detto in grazia degli apologisti che si attaccano a’ rasoi.

{p. 270}

NOTE DEL FU D. CARLO VESPASIANO. §

Nota I. §

Tutto ciò che contiene questa scena di Augusto e di Cinna trovasi presso Seneca il filosofo lib. I de Clementia cap. 9.

Nota II. §

Il gran Condè nell’età di venti anni trovandosi alla prima rappresentazione del Cinna, versò lagrime a queste parole di Augusto, Je suis maître de moi ecc. Il sig. di Voltaire che racconta questo fatto, soggiugne: c’étaient-là des larmes de héros. Le grand Corneille faisant pleurer le grand Condé d’admiration, est une époque bien celebre dans l’histoire de l’esprit humain.

Nota III. §

Oltre a quanto dicesi dal Conte Pietro di Calepio nel Paragone della Poesia Tragica d’Italia con quella di Francia, ed al Marchese Maffei nel tomo I delle Osservazioni letterarie sulle moltissime locuzioni ricercate, strane, e difettose usate da Corneille e da altri Tragici Francesi, i nazionali stessi hanno confessato che l’arguzia è stata sempre il gusto dominante e ’l tentator tenebroso della nazione Francese. La resurrection des Lettres & des Arts (afferma Mons. di Fénélon) a commencé en Italie, & a passé en France fort tard. La mauvaise subtilité du bel esprit en a retardê le progrés. Un altro dotto autor Francese anche diceva: Sous le regne de Louis XIII, & dans le commencement de celui de Louis XIV le goût des pointes étoit dominant. {p. 271}On prodiguoit l’esprit, on le deplaçoit, on le rendoit ridicule. Corneille a trop payé le tribut à ce goût; Quinault en est infecté. Giambattista Rousseau scrivea a M. Brossette: Corneille a bien fait pis; au lieu d’exprimer dans ses amans le caractère de l’amour, il n’a exprimé que son propre caractère, & n’en a fait le plus souvent que des avocats pour & contre, des sophistes, & quelque fois même des theologiens. Può vedersi anche il giudizio portato da uno scrittore Inglese sulla maggior parte delle tragedie di Pietro Corneille nel Giornale di M. Freron nel mese di giugno 1769.

Nota IV. §

Egli è troppo vero ciò che quì si dice. Nella sceltezza dell’elocuzione e nel grazioso verseggiare consiste quella bellezza che imbalsama e rende immortali i componimenti teatrali. Ce qui me distingue de Pradon, dicea Racine, c’est que je sai écrire. Ed il Sig. di Voltaire giudice competente in tal materia e nella patria lingua e versificazione, afferma: C’est la diction seule qui abaisse M. de Campistron au dessous de M. Racine . . . Il n’y a que la Poësie de style qui fasse la perfection des ouvrages en vers.

Nota V. §

Ecco i versi:

Pour mérite premier, pour vertu singuliere
Il excelle à trainer un char dans la carriere,
A disputer des prix indignes de ses mains,
A se donner lui-même en spectacle aux Romains.

Nota VI. §

Moliere, secondo che riferisce M. d’Arnaud, avea trovato un di quegli uomini originali, i cui tratti sono caricati; si attaccò a quest’uomo, si pose con lui in carrozzino, {p. 272}l’ accompagnò sino a Lione, e non l’abbandonò, finchè non l’ebbe studiato in tutte le gradazioni di ridicolo che componevano questo personaggio.

Nota VII. §

Il ne faut point (ottimamente il Sig. di Voltaire) qu’un personnage de comêdie songe à être spirituel; il faut qu’ il soit plaisant malgré lui & sans croire l’être. C’est la difference qui doit être entre la comedie & le simple dialogue.

Nota VIII. §

Quando si rappresentò per la prima volta la commedia del Malvagio, mi ricorda (scrive colla solita ingenuità l’eloquente filosofo GianGiacomo Rousseau) che non trovavasi che il principal personaggio corrispondesse al titolo. Cleonte non parve che un uomo ordinario; egli era, dicevasi, come tutta l’altra gente. Questo abbominevole scellerato, il cui carattere così ben espresso avrebbe dovuto far fremere sopra loro stessi tutti quelli, che hanno la disgrazia di rassomigliargli, parve un carattere affatto mancato; e le sue nere perfidie passarono per galanterie, imperciocchè tale che tenevasi per molto onesto uomo, vi si ritrovava tratto per tratto.

Nota IX. §

Luigi Riccoboni è stato il Roscio Italiano de’ nostri tempi, amato estimato da Pier Jacopo Martelli, dal Marchese Maffei, dall’Ab. Conti, e da parecchi letterati Francesi che frequentavano la di lui casa. Egli scrisse della commedia e della tragedia con molta erudizione e giudizio. Sua moglie, la sig. Elena Balletti, soprannominata Flaminia, componea molto bene in italiano, intendeva il latino e qualche poco di greco, e sapea a fondo l’arte della poesia drammatica. Tralle altre opere compose alcune {p. 273}commedie, e una dissertazione sulla declamazione teatrale ch’ella egregiamente eseguiva. Mirabilissima in particolare riuscì la di lei azione sempre che rappresentò ne’ nostri teatri la parte di Merope nella tragedia del Maffei. Il compilatore delle opere dell’Ab. Conti in una nota chiama questa valorosa donna Elena Balletti, ma l’ab. Quadrio nel tomo III, parte II, lib. II, dist. 3, cap. 3, la chiama Agata Calderini. Convengono entrambi nel nome comico di Flaminia. Il nostro autore ha quì seguita l’opinione del Quadrio.

Nota X. §

Il Gulistan del poeta Saadi che vivea al tempo del Petrarca, fu tradotto nel secolo scorso in tedesco da Oleario e in latino da Genzio.

{p. 275}
ERRORI. CORREZIONI.
P. 26 v. 23 i tomi i nomi
P. 39 v. 4 comiti comitiva
P. 62 v. 19 i strinsi io strinsi
P. 71 v. 6 Lolli Lulli
P. 93 v. 9 tu balancois tu balançois
P. 103 v. 22 dall’impegno dall’ingegno
P. 121 v. 28 fervono servono
P. 124 v. 17 dal rimanente del rimanente
P. 173 v. 9 cho che
P. 239 v. 19 dî di

Si avverta che dopo la pagina 128 in fine del foglio H dovea seguire nel seguente foglio I il numero 129 e continuare sino al 144; ma per uno de’ soliti errori tipografici si è ripetuta la numerazione delle pagine da 113 sino a 128. Veniam petimusque damusque vicissim.