Luigi Rasi

1897

I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia

2019
Luigi Rasi, I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia, volume I, parte 1 Firenze, Fratello Bocca, 1897, 2 vol. in-8. PDF : Google (US).
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[n.p.] Questa mia opera• dei comici italiani • voglio consacrata • al nome di mia moglie • TERESA SORMANI • che da quindici anni • collaboratrice fedele e costante • leva in alto il mio spirito • confortandomi nel lavoro • sostenendomi nelle lotte • gli ostacoli rimovendo o attenuando • con intelligenza rara di donna • con amore di sposa profondo • incomparabile.

nel dì del suo nome

[A] §

[n.p.]

I COMICI ITALIANI §

[n.p.]

Adami Patrizia. Moglie di un comico Adami, prima, poi del famoso Lolli, nacque a Roma nel 1635, e si recò a Parigi nella Compagnia italiana col giovane Biancolelli, con Eularia e Ottavio nel 1660 come servetta sotto il nome di Diamantina, che l’aveva già fatta celebre a Roma. Ella era graziosa oltre ogni dire, se bene più tosto piccola e brunettina ; recitava con molto brio e con molta naturalezza, ed ecclissò al suo apparire in Francia la Diamantina, che l’aveva preceduta nella Compagnia, e che aveva recitato dal 1653 al 1660 nel teatro del Petit-Bourbon, al fianco dei celebri Fiorilli e Romagnesi. Patrizia Adami, naturalizzata francese in un con suo marito nel giugno del 1683 (V. il Campardon che riporta l’atto di naturalizzazione — Les Comédiens du Roi de la Troupe italienne. Paris, 1880), abbandonò il teatro lo stesso anno, all’esordire di Caterina Biancolelli detta Colombina, e morì a Parigi, rue des Prouvaires, il 5 settembre 1693.

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Dal mese di novembre 1660 in poi, i comici italiani e la Compagnia di Molière, demolita per ordine del Re la sala del Petit-Bourbon, recitarono al Palais-Royal.

« Dans la même année (1667) — dice il D’Origny Annales du Théâtre italien, Paris, 1788) — il a été représenté un assez grand nombre de pièces. La double Jalousie (Canevas italien) est gaie, mais très-peu morale. On force Octave et Arlequin d’épouser Eularia et Diamantine ; et à peine sont ils mariés, que Cinthio et Trivelin enlevent leurs épouses. »

Per dare un’idea di questo scenario, il primo della serie Biancolelli tradotta dal Gueullette e pubblicata dai fratelli Parfait, (Histoire de l’ancien Théâtre italien, etc. Paris, Rozet, 1767) e più specialmente per quel che concerne il personaggio di Diamantina, trascrivo i seguenti brani :

…. Eularia e Diamantina aprono la porta del giardino ; Ottavio si ritira da un lato per discorrere ad Eularia ; e Arlecchino, imitando il suo esempio, va dall’altro con la servetta. Questa conversazione è assai bruscamente interrotta dall’arrivo del Capitano e di Pantalone, che obbligan di punto in bianco Ottavio a sposare Eularia. Arlecchino è più restio a dar la mano a Diamantina. …. Ma alla fine, costrettovi da Pantalone e dal Capitano, acconsente, esclamando : « ho dunque preso moglie per il servizio del pubblico ! » …. Arlecchino batte alla porta di Diamantina, la quale, trovatolo finalmente dopo inutili ricerche, lo getta a terra, e messasi la di lui testa fra le gambe, si dà a schiaffeggiarlo. Al terzo atto Cintio e Trivelino che appaiono i favoriti rivali delle due donne, son pronti a partire per la Fiandra ; Eularia riceve i complimenti di Cintio, ed esce seguita da lui ; e Diamantina risponde assai affabilmente alle molte carezze fattele da Trivelino. Allora Arlecchino, vedendoli uscire insieme, soffocato dall’ira, esclama :

« Ohimè !… Eccomi adunque arruolato nell’infinita confraternita dei b….. !!!!… » E cala il sipario.

Il personaggio della Diamantina è quello vero e proprio della servetta, amante o moglie quasi sempre di Arlecchino, astuta, chiacchierina, birichina ; e che mutò nome col mutar delle attrici, doventando Colombina colla Biancolelli, Ricciolina coll’Antonazzoni, Franceschina colla Roncagli, Corallina colla Veronese, ecc. ecc.

Adami (?) Beatrice. Faceva parte della Compagnia comica a Parigi nel 1653 con Tiberio Fiorilli, Scaramuccia, e Mario Romagnesi, Orazio ; e recitava le servette sotto il nome di Diamantina.

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Ci è noto il suo valore artistico per questi versi del Loret pubblicati nella sua Muse historique del 16 agosto 1653 :

Une troupe de gens comiques,
venus des climats italiques,
dimanche dernier, tout de bon,
firent dans le Petit-Bourbon,
l’ouverture de leur théâtre,
par un sujet assez folâtre,
où l’archiplaisant Trivelin, (Domenico Locatelli)
qui n’a pas le nez aquilin,
fit et dit tout plein de folies
qui semblèrent assez jolies.
Au rapport de certains témoins,
Scaramouche n’en fit pas moins.
Mais pour enchanter les oreilles,
Pâmer, pleurer, faire mer veilles,
Mademoiselle Béatrix
Emporta ce jour-là le prix.

Alessandro Ademollo pubblica ne’suoi Teatri di Roma nel secolo decimosettimo (Roma, Pasqualucci, 1888, pag. 137) un documento curioso concernente l’Adami, dal quale apprendiamo lei essere stata non mademoiselle, ma la moglie di Trappolino, che l’Ademollo non è alieno dal ritenere per G. B. Fiorillo, del quale fa bella menzione Bartolommeo Cavalieri nella sua Scena Illustrata. Il Fiorillo però, dice Francesco Bartoli (Notizie istoriche de’Comici italiani. Padova, Conzatti, 1783, p. 222), fioriva intorno al 1630 : e l’Adami si recò, pare, in Francia nel 1653, se bene l’Ademollo affermi (ivi) come vi si recasse nel 1639. Ma nella Compagnia recatasi in Francia nel 1639, mezzo cantante, mezzo improvvisatrice, chiamata da Luigi XIII, non figurava la Beatrice Adami. Il Sand che a pagina 52 della sua introduzione a Masques et bouffons (Paris, 1860), parlando della Compagnia del 1653, dice : « vi troviamo attori che eran già venuti in Francia più volte, come Fiorilli, Locatelli, Brigida Bianchi, » avrebbe certo fatto alcuna menzione di quell’Adami già tanto celebre.

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Ma ecco, senz’altro, il documento :

Serm. signor mio osserv.

Essendo stato jer l’altro, nel viaggio che faceva di qui a Ferrara, rapita la Beatrice comica moglie di Trappolino dal Conte Bonaparte Ghislieri, e presentendo che possa facilmente incamminarsi verso codesta volta ove coll’appoggio del fratello che è attual servitore di V. A. possa incamminarsi in altri Stati, ricorro all’umanità di V. A. supplicandola che per far grazia a me in ordine alla buona giustizia e per fare anche benefizio ai medesimi Ghislieri, si compiaccia comandare che sia subito ricuperata la donna e posta in luogo sicuro per reconsegnarla a suo marito.

Servo devot.
E. Cardinale Sacchetti.

La lettera è del Cardinal legato di Bologna al Granduca di Toscana.

A me, a dire il vero, non è riuscito di raccapezzarmi in questo nome di Adami, che trovo nel Sand, senz’altre indicazioni, seguito poi dall’Ademollo (op. cit.) e dal Bartoli Adolfo (Scenarj inediti della Commedia dell’arte, Firenze, 1880). Il Loret non parla che di Béatrix, e la lettera del Cardinal legato non nomina che la Beatrice. Forse il Sand ha fatto confusione di nomi, rappresentando essa la parte di Diamantina, come quella che le succedette più tardi e che si chiamò realmente Patrizia Adami ? Non so. Il Bartoli Francesco (op. cit.) ha anche una Beatrice senza cognome di sorta, « che si produceva — dice — sulle scene di Verona intorno al 1663. Recitava con somma abilità una commedia intitolata : La Pazzia ; talchè Andrea Baruzzi volle onorare i suoi meriti col seguente sonetto tolto alle rime di lui, stampate in Verona per il Rossi l’anno 1675 :

Beato esser credea col suo bel volto,
e poi mi diede un infernal dolore,
poichè con finti vezzi a me rivolto,
da dovero il crudel m’impiagò il core.
Diedi fede al tuo riso, e il pensier stolto
si riscaldò nel simulato ardore :
e quando a imitar Venere t’hai tolto,
per figlio avesti il mio verace amore.
{p. 7}Io venni ad osservar la tua Pazzia
sulla scena baccante, e con tormento
non seppi mai veder la mia follia.
Ebbi un cieco per guida, e a passo lento,
con timor conduceami alla tua via,
per non aver altr’oro allor che al mento. »

Oh ! oh !… Brutto e sfacciato anzichè no !… Questa Pazzia sarà stata, immagino, la solita Pazzia d’Isabella dello Scala (V.) scritta per l’Andreini (V.), doventata poi Pazzia di Lavinia per l’Antonazzoni (V.). Comunque sia, benchè fra questa Beatrice e l’altra non corrano che dieci anni, è da supporre, oserei dire è certo, che si tratti di due distinte persone, non combaciando troppo fra loro codesta parte drammatica di pazza col carattere spigliato e birichino della Diamantina (V. G. B. Fiorillo). Apprendiamo da Corrado Ricci (I Teatri di Bologna nei secoli XVII e XVIII, pag. 49. Bologna, 1888) come dal 9 ottobre 1695 sino al 5 gennaio del 1696 recitassero a Bologna i comici del Serenissimo di Mantova, per le donne dei quali successero allora de’pettegolezzi.

Ecco il brano ch’egli riporta dalle memorie mss. del Ghiselli :

È da sapersi che due sere prima che questi istrioni terminassero le loro comedie furono gettati sul Teatro sonetti in biasimo della Beatrice, una delle recitanti, dalli Cavalieri parziali dell’ Eularia altra comica. In vendetta di che l’altra sera furono gettate in gran numero altre carte credute sonetti, ma invece ci erano caricature con mostazzi e motti in disprezzo di detta Eularia. Di ciò ne corse querela e furono carcerate tre persone per informar la curia, ma si rilasciarono per non pigliar impegni con li Cavalieri, e con li Principi ehe proteggevano dette donne.

Ecco dunque una terza Beatrice, ignota, che aveva il potere di dividersi il campo degli adoratori colla Eularia, altra ignota sin qui ; poichè, così la Cortese-Biancolelli, come la Coris, le due rinomate Eularie del teatro italiano, avrebber toccato nel’ 96 la sessantina.

Addario Francesco. Fu tra gli attori che recitarono nel Carnevale del 1744 al S. Carlo di Napoli, La Contessa, {p. 8}commedia del Barone Liveri ; vi fece il Napoletano ; e napoletano lo troviamo nel Gianfecondo di esso Liveri. A lui e a Francesco Mundo era assegnato il maggior sussidio mensuale di dieci ducati. Secondo la nota del Liveri, pubblicata dal Di Giacomo (Cronaca del Teatro S. Carlino — Napoli, 1891), il nome di Addario sarebbe mutato in quello di Addamo. Sul’ 52, recitò anche nell’Alberico sempre del Liveri.

Adeline-Colombe (V. Rombocoli-Riggieri Maria Maddalena).

Afflisio (D’) Matteo. Lo troviamo fra i Cavalieri napoletani che l’ultimo sabato di Carnovale del 1629 recitarono la commedia di Alfonso Torello I figli ritrovati (Napoli, presso Egidio Longo, 1629). A lui fu affidato il prologo e uno dei servi, in compagnia di Geronimo Pescara. La commedia fu recitata a spese del Vicerè, con « superbissimo apparato, » e per dare un’idea del soggetto di essa, ecco le ultime parole del prologo :

Prendete, o miei compagni, e vigore et ardire da così lieto augurio, discacciate dal petto ogni timore c’havete di comparire in iscena, chè il nostro eccelso Duca darà spirito alle voci, animo ai cori ; e voi, Dame pietose, l’ascoltar non v’affligga già i lamenti di padri sconsolati di tre dispersi figli, che, fra poche hore, li vedrete lieti coi figli ritrovati ; e voi, giovani amanti, non inasprischino le vostre piaghe l’udir i mesti accenti e gli ardenti sospiri d’amanti disprezzati ; ma prendete speranza d’esser un di felici, col vedergli fra poco contenti, e riamati, e fra la pietà e il dolore vi trattenghino lieti le bravure d’un capitano, l’astutie d’un Ragazzotto, gl’intrichi di due servi, l’innamoramenti di tre vecchi, e le facetie di un Napoletano.

Del D’Afflisio, non comico di professione, avrei dovuto tacermi ; ma ho voluto per questo solo fare eccezione, poichè il suo nome potrebbe far supporre esser lui della famiglia di Elisabetta D’Afflisio, che (V. Fr. Bartoli, op. cit.) dal Padre Alessandro, di cui non ho trovato traccia, aveva appreso l’arte del recitare.

Afflisio (D’) Moreri Elisabetta, detta comunemente La Passalacqua. Figlia di Alessandro d’Afflisio, diventò, sotto la sua direzione (Fr. Bartoli, op. cit.), comica valorosa così nelle {p. 9}commedie scritte, come in quelle all’improvviso. Fu anche danzatrice, musicista e schermitrice pregiata, secondo lo stesso Bartoli ; sebbene dalle memorie del Goldoni si rilevi come al proposito della rappresentazione dell’Assemblea letteraria, la sua voce fosse falsa, la sua maniera monotona, e la sua fisionomia smorfiosa. Quando dalla Compagnia Grimani uscì la vedova Casanova (V.), perdita considerevole per la Compagnia, la Passalacqua prese il suo posto, accettando anche di supplire nelle parti di cameriera. Visto che dal Goldoni poteva dipendere la sua maggiore o minor fortuna artistica, si diede a circondarlo di vezzi e di moine, mostrandoglisi gelosa ogniqualvolta le se ne offerisse l’occasione. E Goldoni fu preso all’amo, e divenne il suo amante…. (in accomandita col Vitalba) (V.) ; e scrisse per lei un intermezzo. Tutta questa scena d’amori, di gelosie, di perdoni, di abbandoni, descritta colla solita meravigliosa ingenuità dal Goldoni, volli tradurre quasi letteralmente in versi martelliani per la spigliatezza, che è nel 1° libro di monologhi. Delle corbellature della Passalacqua e del Vitalba, omai fatte pubbliche, Goldoni si vendicò aspramente nel Convitato di Pietra, mettendovi un pastore e una pastorella, che — son parole di Goldoni — assieme con D. Giovanni dovevano far riconoscere la Passalacqua, Goldoni e Vitalba, e mostrar sulla scena la mala condotta della prima, la buona fede del secondo e la scelleratezza del terzo. La Passalacqua, riconosciutasi nel personaggio, andò a lagnarsene dal Direttore e dal Grimani, invocando modificazioni, ma inutilmente : o rappresentar la parte come stava, o andarsene : e lei, furba, sbigottita dall’alternativa, si mostrò rassegnata, e accettò la parte, e la eseguì — dice Goldoni — a perfezione. Il che non impedì che al primo rimpasto della Compagnia, ella, con gran piacere del Goldoni, fosse licenziata. Nel 1744, trovandosi a Venezia nel Teatro di S. Luca, al servizio dei fratelli Vendramini, recitò con molto plauso la parte di protagonista nella tragedia di Vitturi veneziano : Berenice, Regina d’Armenia. Da Venezia passò a Modena nella primavera del medesimo anno ; e da Modena nel regno di {p. 10}Napoli, in Sicilia e altrove. Benedetto Croce (I teatri di Napoli. Napoli, Pierro, 1891, pag. 422) riporta l’elenco della Compagnia dei comici lombardi, che nel giugno del’47 Domenico Giannelli, il quale faceva i titoli delle recite del Costantini, offriva al Re ; e mette prima donna l’Elisabetta Passalacqua, e terza l’Elisabetta D’Afflisio, mentre è accertato non essere la Passalacqua fuorchè il soprannome di Elisabetta D’Afflisio. A Palermo, nel Teatro di S. Cecilia, cadde nell’eseguire un volo. Un ragguardevole personaggio le offrì allora di chiudersi iu un ritiro ; ma ella non volle abbandonare le scene. Tornata in Lombardia, dopo di avere recitato vari anni con poca fortuna, avanzando ella in età, e in lei scemando il valore, non trovò più chi la scritturasse, e dovè ritirarsi al Finale di Modena, ove morì poverissima nel’60 circa. Molto probabilmente era sua ava quella Elisabetta D’Afflisio che recitava a Venezia nel 1644 le parti di servetta e di contadina sotto il nome di Bettina (V. Sand, op. cit.) e suo nipote un Bartolommeo D’Afflisio che troviamo per le parti di padre nell’elenco della Compagnia diretta da Francesco Menichelli, della quale faceva parte il noto arlecchino Fortunati, l’anno 1795-96. È nello stesso elenco una Giuseppa Dafilisi, errore forse di stampa e forse moglie o figlia di Bartolommeo.

Il solerte Conte Paglicci-Brozzi mi comunica con l’usata gentilezza il seguente documento, tratto dall’Archivio di Stato di Milano (Spettacoli pubblici — Teatri Comuni — Parma) :

Elisabetta da Flisio (sic) detta la Passalacqua, supplica accordarli il teatro di Parma colla graziosa condizione accordata a Bartolo Ganascetti e Crosa (sic) Compagni.

S. E. fa rimettere al Direttore Camerale di Parma l’annesso memoriale di Elisabetta da Flisio detta la Passalacqua e lo fa rendere ad un tempo inteso di aver accordato a favore della compagnia di detta Donna il teatro della suddetta città per il prossimo Carnevale, giusta il supplicato affinchè il mentovato Direttore dia le corrispondenti disposizioni.

Aglebert Augusto.Primo amoroso nel 1829 della drammatica Compagnia Bergamaschi, e generico dignitoso e tiranno, a vicenda con Giuseppe Nolis, nel 1832, della Compagnia {p. 11}tragico-drammatica diretta da Giovanni Ghirlanda. Annunziò la recita a suo beneficio, il 2 giugno 1832, al Teatro del Giglio di Lucca, nella quale si rappresentò Il Gran Los-Rios Assassino delle Alpi, con Pasquale spaventato dai Masnadieri (Pasquale era Giuseppe Guagni) e nella quale egli sosteneva la parte del protagonista, con un programma reboante (degno dell’attore capocomico), di cui ecco una parte :

Per le anime d’altissimo sentire non riescirà stravagante il fatto che si espone di quest’uomo, il quale profugo dalle terre native per un fallo d’amore, dalla malvagità attribuito ad altissimo delitto, a rifugiarsi costretto si vide nelle Alpi, ed a condurre una riprovevole vita in odio di tutta la terra e fulminato dalla celeste maledizione. L’indole diversa dell’uomo cangia gli effetti delle passioni. Los-Rios di cuore corrotto e fiero, per amor capace si rendeva ad ogni delitto. Un sospetto di tradimento a lui imputato, lo trascinò di colpa in colpa, per cui si abbandonò nel vortice della perdizione. Eccolo assassino, ed eccolo con la marca in fronte, ed il suggello dei reprobi. Già la tromba propagatrice delle umane vicende gli dà il nome di terribile, e le opere sue singolari di beneficare i poveri, e perseguire i scellerati, sono ammirate da tutti ; ma ciò non basta a toglierli la taccia di scellerato che gli empi suoi delitti hanno scolpita a caratteri di sangue nel libro eterno delle Leggi.

Questo veridico quadro, porgendo allo sguardo dello scrittore un non so che di truce, venne dal medesimo con provetta arte episodiato di ridicoli caratteri, che nulla pregiudicano all’interesse dell’azione, e mantengono sempre vivace la scena. Ciò fu anche in vista che gli animi giornalmente da gravi cure oppressi, richiedono nei serali divertimenti una dolce ricreazione.

Anche allora ??? — Il dramma era nuovo per Lucca, e fece fiasco. La beneficiata fruttò 20 scudi, non sappiamo se netti pel beneficato, o se d’introito lordo.

L’Aglebert fu anche autore drammatico, e la sua commedia Di male in peggio fu rappresentata il 1843 dalla Reale Compagnia Sarda. Di lui dice Costetti (La Compagnia Reale Sarda. Milano, 1893) che, non ostante la esoticità del nome, è stato un valoroso e ardente patriotta bolognese.

Agocchi Giovan Paolo, o Gioanpaulo dalli Agochij, detto Dottor Gratiano Scarpazon : così egli si sottoscrive in una lettera indirizzata da Roma al Duca di Mantova il dì 13 di novembre 1593, nella quale egli racconta come, perseguitato da un parente, fosse stato, senz’essere esaminato, due anni in prigione, poi lasciato in libertà, per la qual cosa si raccomanda al Duca di mandargli, o fargli avere qualche soccorso di {p. 12}danaro, acciò possa partire da Roma e fermarsi alcun po’a Bologna sua patria, per poi, di là, recarsi a Mantova a spasso a S. A. S. e star alegramte questo carneval. L’Agocchi, attore pregiato, fu per alcuni giorni, nel 1603, a Monaco di Baviera : e tanto vi piacque che dovendo capitare colà il Duca di Lorena, vi fu nell’agosto da Vincenzo Gonzaga rimandato per espresso desiderio del Duca Massimiliano. « Fu mandato col dono anche di Meloni, persichi, et aranci ; e venne rimandato ai 5 novembre, per essersi il Duca di Lorena trattenuto a Monaco presso il genero più che non si credeva. » (A. D’Ancona, Origini del Teatro italiano. Torino, Loescher, 1891). Per tutto quel che concerne la maschera del Dottore, vedi Bianchi (De) Ludovico.

Dai Costumi di varie Nazioni di Pietro Bertelli.

Ajudi Amilcare. Fu brillante, ma non brillò mai di luce propria. Imitava il Giardini, altro brillante, originale forse, ma non troppo corretto, che ricercava gli effetti nella varietà delle voci, di cui, dicesi, egli aveva uno scatolino. L’originale non {p. 13}dava dunque troppa garanzia per la copia : nulla meno non mancarono all’Ajudi onori di pubblico, ed encomi di giornalisti. Recitando a Firenze nel Carnevale del 1854 in Compagnia Feoli, lo Scaramuccia disse di lui : « Ajudi è un artista che haveramente diritto di cittadinanza nella famiglia dei brillanti alla quale appartiene. Noi vorremmo che egli sapesse liberarsi da una certa cantilena, nella quale cade qualche volta sul terminar dei periodi. »

Passò nel 1856 nella Compagnia Stacchini e nel ’57-’58 in quella Trivelli. Fu marito di Carolina Caracciolo (V.), artista di pregi non comuni, dalla quale ebbe una figliuola, la Pierina, incantevole attrice, più nota sotto il nome di Giagnoni (V.).

Albani Antonia. Nacque a Brescia nel 1730 circa. Fu prima attrice discreta in varie Compagnie. A Cagliari ne diresse una di prosa e musica ; e il 2 agosto del 1774 pubblicò per le stampe di quella R. Tipografia, e dedicò alle Dame e ai Cavalieri cagliaritani, Le contese domestiche, intermezzi musicali. Fu poi prima attrice dei comici lombardi ai Fiorentini di Napoli nel 1776. Vedova nel 1782, recitava nel Napoletano. L’Albani fu moglie di un certo Panazzi, ballerino, dal quale ebbe un figliuolo, Francesco, discreto brighella, e famoso violinista.

Albergati Ercole, detto Zafarano, bolognese, e al servizio del Marchese di Mantova, fu molto pregiato come inventore e costruttore di meccanismi scenici, e fu nel 1487 « adoperato da Giovanni Bentivoglio nelle feste per le nozze del figliuol suo Annibale con Lucrezia d’Este, a costruire archi e trionfi, etc. etc. » Ludovico Gonzaga, vescovo eletto di Mantova, zio del Marchese, e quanto lui appassionatissimo pel teatro, desiderando nel 1488 celebrare il Corpus Domini con una rappresentazione, si rivolgeva il 28 maggio a Cristoforo Arrivabene per avere Zaffarano, il quale, anche se non voleva lui « fare demonstratione sive representation veruna nel corpo di Christo, doveva almeno rinvenire ale, cavigliare, barbe, diademe et lo ferro che tene Christo in alto, più le parole, qual dicono li angeli et propheti et si {p. 14}pur non potesse servirne delle robe, saltem ne favorisca delle parole ; » e in una prima festa drammatica data nel 1501, nel suo reggimento di Gazzuolo, si valse dell’Albergati per gli addobbi teatrali. Nell’aprile del 1500, lo troviam di nuovo a Bologna presso il Bentivoglio, il quale scriveva che « la sua fama si fa immortale per tutta Italia. »

Forse l’Albergati recitò la prima volta nell’Orfeo del Poliziano l’anno 1490, nel palazzo del Marchese Francesco in Marmirolo (A. D’Ancona, op. cit.). « Girolamo Stanga — dice il Bertolotti (Musici alla Corte dei Gonzaga in Mantova dal secolo XV al XVIII — Milano, Ricordi s. a.) — sul finire di ottobre 1490, scriveva al Marchese Francesco le difficoltà per la ripetizione a Marmirolo dell’ Orfeo, accennando Filippo Lapacino e Zafrano, che dovevano prendervi parte, oltre al Citaredo Atalante che si attendeva da Firenze. » E più giù : « Sotto il soprannome di Zafarano s’intende Ercole Albergati bolognese, che da oltre l’anno 1484 era già presso i Gonzaga e nel 1495 il Marchese gli donava terreni nel vicariato di Borgoforte, dono accresciutogli nel 1498. » Nè egli solo era al servizio del Marchese di Mantova, ma tutta la famiglia sua, che prendeva parte con lui alle rappresentazioni, come si rileva da un passo della lettera che Johannes De Gonzaga (sic) scrive il 25 gennaio 1495 a Isabella d’Este, sorella di Alfonso I e moglie di F. Gonzaga, illustrissima et eccellentissima Madonna sua patrona osservandissima, per darle ragguaglio di una rappresentazione allegorica di Serafino dell’Aquila, nella quale prese parte egli stesso, cantando alcune terzine, assai lascivamente vestito, como a la Voluttà si convene, con il Leuto in brazzo. Ma ecco il passo :

Cussì finita questa Representazione (che, considerata la brevità del tempo, fu assai bella) Zafarano nostro introe in sala, con un’altra Representazione, per lui e di sua famiglia composta tutta, perchè nel triunfale curro de la Pudicicia aveva quattro figlioli, due maschi e due femine, essendo la sua figliola maggiore ne la summità del curro collocata, tra due unicorni. Qual, condutta a la presenzia de li convivanti, recitoe alcuni versi latini, con bona audagia, gran modestia et ottima pronunzia, subjungendo, poi, alcune rime vulgare, tutte in laude etc. etc. (F. Torraca, Il Teatro Italiano dei secoli XIII, XIV e XV. Firenze, Sansoni, 1885).

Alberghetti Alessandro (V. Gnochis).

{p. 15}

Alberghini — Angelica. Divido questi due nomi, perchè non è ancora accertato trattarsi di una sola persona. Da una lettera di Drusiano Martinelli (V.), capocomico e attore non comune, fratello di Tristano, il celebre arlecchino (V.), indirizzata al Duca di Mantova per offerirgli in carnevale la propria Compagnia, e sottoscritta Drusiano Martinelli, marito di M.ª Angelica, il D’Ancona (op. cit.) crede di poter rilevare esser questa l’Angelica Alberigi o Alberghini, che nello stesso tempo circa (15 gennaio 1583) scriveva da Bologna al Duca : « Essendo desiderosa la nostra Compagnia far comedie questo carnevale in Mantova, la suplicamo resti servita di far che solo la nostra possa recitare comedie, poichè habbiamo da Filippo musico di S. A. havute lettere che dobbiamo andare, e perchè se ne vuol venire un’altra non uguale a questa in far comedie, però suplico S. A. mi favorisca che non venghi altro che la nostra…. » Accertato questo, rimarrebbe pur anche accertata la fama dell’Alberghini, se il marito, a entrar nelle grazie delle LL. AA. Impresarie, soleva sottoscriversi marito…. dell’Angelica.

Le attrici giunte specialmente a certo grado di rinomanza, solean talvolta esser chiamate col nome di battesimo (la dotta Vicenza, l’Isabella etc. etc.), e tal’altra con quello teatrale ; e questo di Angelica fu anche nome teatrale, come vediamo nell’elenco della Compagnia di Lelio (Luigi Riccoboni) chiamata da Filippo d’Orléans nel 1716, nella quale le parti di Angelica furon sostenute dalla Foulquier, soprannominata Catinon. Comunque sia, l’Angelica nostra era la colonna della Compagnia dei Comici Uniti, quando nel 1580 si unì a Bergamo per qualche giorno con quella dei Gelosi ; nella quale occasione Cristoforo Corbelli dettò il seguente

MADRIALE

Non più col foco de i sospir sperate,
nè con quello d’amore,
voi, cui tutt’arde in strano incendio il core,
far, ch’Angelica un poco
senta ne le sue fiamme il vostro foco :
{p. 16}che, com’aspide chiude
sordo agl’incanti le sue orecchie crude.
Così cruda costei
perchè foco d’amor non entri in lei,
facendo forza al Cielo,
Unita si è, quasi per schermo, al Gelo.

(V. A. D’Ancona, op. cit. M. Sand, id.).

Passò poi l’Alberghini ne’Comici Confidenti : chè sotto ’l nome appunto di Angelica Alberghina, Comica Confidente fu commendata da Jeronimo Cassone fra le sue rime impresse nella Raccolta di Genova del 1591. (V. Quadrio, Della Storia e della Ragione di ogni Poesia, Vol. III, P. II. Milano, mdccxliv).

Albergina Lodovico, comico veneziano, segnato nel movimento della popolazione mantovana per gli anni 1590, 1591 e 1592, fra coloro che giugnevano il 12 settembre (1590) in casa di Cesare Gonzaga. (V. Bertolotti, op. cit.).

Alberti Daniele. Nacque a Genova da onesta famiglia borghese. Alla venuta degli austriaci, dopo il famoso blocco di quella città, nel 1799, dovette (era impiegato al Comune) fuggire con molti altri compromessi in faccende politiche. Filodrammatico valentissimo, pensò con altri suoi compagni di formare una compagnia comica che fu detta : Compagnia ligure. La fortuna gli sorrise, e per molti anni gli fu larga di applausi e di vistosi guadagni. Acconciate le cose di Genova col ritorno dei francesi, dopo la battaglia di Marengo, i parenti e gli amici gli scrissero che, ritornando in patria, avrebbe riavuto il suo impiego ; ed egli rispose ringraziandoli, non convenendogli di rinunziare ad una bellissima paga, per riprendere il suo meschino stipendio : e ritornò in patria dopo 27 anni di carriera drammatica. Qualche anno dopo, la Compagnia ligure si sciolse, ed egli accettò una scrittura colla Compagnia Negrini, stabile in Napoli al Teatro Nuovo, dove era direttore il celebre Zanon, e nella quale stette tre anni. Stabilitasi poi la Corte borbonica {p. 17}a Palermo, la Compagnia Negrini che n’era stipendiata, la seguì ; e l’Alberti vi rimase tre anni, sempre applaudito nelle parti di mezzo carattere, oggi brillante.

Per la morte della brava prima donna, signora Negrini, la Compagnia si sciolse, e l’Alberti tornò in Lombardia, scritturandosi nella Compagnia comica di Gaetano Bazzi, una delle più accreditate d’Italia, che divenne poi la reale Compagnia Sarda.

Primo caratterista e capocomico in società con Angelo Rosa, recitava al Teatro D’Angennes di Torino il carnevale 1819-20. Lo troviamo poi nel 1832 al Teatro Re di Milano, nella Compagnia Goldoni, di cui era capo F. A. Bon.

« Quando egli può — dice un giornale del tempo — e vuolsi cacciare con impegno nelle produzioni, sa farle degnamente risaltare. » (V. Corriere delle Dame).

Daniele Alberti era uomo di bell’aspetto e di nobile portamento. Vecchio, sfinito, passò poi ai Fiorentini di Napoli, ove fu, si può dir, compatito. Ecco come il figlio Adamo ne’suoi Quarant’anni di Storia del Teatro de’Fiorentini (Napoli, 1878, pag. 66) ci racconta la cosa.

Nella quaresima del 1838 si fecero alcuni cambiamenti nel personale artistico della Compagnia drammatica. Il caratterista Miutti che poco piaceva al pubblico si licenziò, e venne in sua vece scritturato Daniele Alberti mio padre, valentissimo artista, che aveva più volte contrastata la palma al Pertica e al Vestri. Però egli era molto vecchio e malaticcio.

………………………..

Mio padre esordi con una commedia tradotta dall’inglese intitolata I novelli sposi e i loro parenti. La commedia piacque bastantemente ; e mio padre che rappresentava la parte di un uomo flemmatico, diverti l’uditorio e fu anche applaudito ; ma, lo ripeto, egli era malaticcio ; e, benchè si vedesse in lui l’avanzo di un grande artista, io mi accorsi che non era più in caso di sostenere un posto principale al Teatro de’Fiorentini, e fin d’allora pensai di farlo ritirar dal teatro e procurargli una vita tranquilla in famiglia. Egli aveva molto faticato, ed aveva diritto ad un onesto riposo….

Alberti Adamo. Secondogenito di Daniele Alberti, nacque a Cremona nel maggio del 1809, mentre suo padre seguiva la Compagnia di Gaetano Bazzi, che si recava a Milano. Fin da giovinetto mostrò inclinazione grandissima all’arte, non solo come attore, ma come autore ; e una volta che il maestro gli {p. 18}strappò di mano e lacerò una sua commediola, egli, furibondo, gli scaraventò in faccia il calamaio. Scacciato immediatamente di scuola, e narrato il fatto a F. A. Bon, cominciò a essere da lui protetto ; tanto che fu accolto nella Compagnia con due lire austriache al giorno, nella quale esordì a Parma col semplice annunzio : « Signor Conte, la carrozza è pronta : » annunzio che egli, ad attenuare la triste figura che avrebbe fatta d’innanzi a’compagni, allargò nel modo seguente : « Signor Conte, sapendo che Ella doveva andare in città per disbrigare molte faccende importanti, mi sono dato tutta la premura per fare approntare la carrozza ; e quando Ella comanda, è prontissima ed a sua disposizione. » Codesto vizio dell’andare a soggetto non lo lasciò più. A Milano si rappresentava una commedia tradotta dal francese, Il ritratto del Duca. Si trattava, in una scena, di riconoscere se un ritratto era quello del sovrano ; ed egli : « è lui, è lui. E chi non lo riconoscerebbe a quell’aria di bontà e di dabbenaggine ? » L’aggiunta di questa parola gli procacciò un’ovazione (il regnante allora era Francesco II) e tre o quattro giorni di {p. 19}prigione. Passò poi di città in città e di trionfo, e in poco tempo fu acclamato come uno dei più vigorosi e più spontanei comici. L’Alberti è ormai più noto a noi come conduttore e direttore della famosa Compagnia dei Fiorentini di Napoli, nella quale egli scritturò pe’l corso di quarant’anni i più rinomati artisti d’Italia. Per quanto concerne l’artista, togliamo le seguenti parole dal giornale La Moda :

…. Attore ammirabile per un porgere che sembra tutto dono di natura a chi non sa che tale divien l’arte, quando è giunta alla sua perfezione. Chè tal è il porgere di Adamo Alberti, quale gl’Italiani (non parlo di quelli che si tagliano i pensieri alla francese) han sempre voluto che sia : quale la benigna natura glie lo ha largito, dotandolo di una voce scorrevolissima e sonora, d’un volto grazioso ed espressivo, d’un gesto pronto e vivace, d’un movimento libero e securo ; quale glie lo han raccomandato a prova nel suo tirocinio teatrale i due suoi maestri, cioè il proprio genitore, comico distinto a que’tempi, ed il celebre Francesco Augusto Bon, autore ed attore reputatissimo ; e quale finalmente più conveniva allo stile di Goldoni, su le cui commedie si è per dir così modellato sin dalla età sua prima. Così, definita che avremo l’indole di questo suo porgere, ne parrà di aver fatto tutto quello che da noi si può meglio in limiti si angusti.

Ancora :

Non ha lo Alberti elemento, se questo non è comico del tutto. E quali sono mai le sue parti nella commedia ? Le più facili in apparenza, quali reputansi comunemente quelle in cui il ridicolo è una conseguenza d’inflessione, di stordimento, di goffaggine, di spensieratezza, d’imprudenza, di affettazione, di smorfiosa galanteria, di pusillanime irresoluzione, di avventata spavalderia, etc. etc. ; quelle in somma che ritraggono i tanto diversi sconcerti e difetti naturali od abituali di testa, coi quali possono considerarsi o no congiunte le buone e fin le grandi qualità di cuore. Or per queste parti bisogna avere un genio particolare cosi a scriverle come a rappresentarle. Avviene di esse, quel che de’felici grotteschi della pittura : basta conoscer il disegno per delineare un volto regolare ; ma per fare una caricatura perfetta, bisogna esser Grandville.

Passato per più vicende amorose, dalla Pieri alla Colomberti, e viceversa, sposò finalmente la prima, la Lucrezia Pieri, giovine se non più bella, più saggia veramente della Colomberti, e attrice valentissima ; la quale, invecchiando la Tessari, diventò l’idolo del pubblico. Adamo Alberti è morto in Napoli vecchissimo e miserabile. Io l’ho sentito negli ultimi anni della sua impresa ai Fiorentini, in quella Compagnia, nella quale faceva le sue prime armi Andrea Maggi al fianco di Don Michele Bozzo ; e si poteva benissimo da quegli splendidi resti arguire di quale inesauribile vena di comicità fosse dotato ne’più begli anni della begli anni della {p. 20}sua vita artistica. Divenuto amico intrinseco, dalla giovinezza, di F. A. Bon, potè coltivar con amore la sua passione dello scrivere ; e abbiamo di lui commedie e drammi, di cui mettiamo qui i titoli : Il matrimonio occulto, La fidanzata dell’ottimista, La famiglia degli usurai, Fra gli amanti il più scaltro, Rubare ai ladri, Studio dal vero, L’esecuzione militare, Paola Desinof.

Il Bonazzi, comico e scrittore valentissimo, dice di lui fuggevolmente : « il vivace, ed anche troppo vivace Adamo Alberti, famoso per la parte di Ludretto. »

Alberti-Monti Giulietta, sorella del precedente. Cominciò bambina a recitare nella Compagnia di suo padre, e figurava nell’elenco tra le parti ingenue, assieme a Giovannina Rosa e a Valeriano Pedretti. Sposò nel 1833 in Milano, mentre la Compagnia Bon recitava al Teatro Re, l’artista Pietro Monti. Si presentò ai Fiorentini di Napoli per la prima volta nella commedia di Bon, Niente di male, la sera di Pasqua del 1835 (19 aprile), {p. 21}in sostituzione della Barberis, vecchia attrice che si ritirava dal teatro per sua volontà, e non lasciava piacevoli rimembranze, e vi fu applauditissima. Ecco che ne scrive la citata Moda :

La prima volta che io udissi (sic) questa italiana attrice, fu in una commedia in versi del Goldoni. Mentre mi si martellava da per tutto l’orecchio coi venerandi Martelliani, ella sola me ne nascondeva ìnteramente la monotona cadenza. Naturalezza, dunque intelligenza ; intelligenza, dunque naturalezza ; queste cose vanno sempre insieme. E la Giulietta non le mostrava solo nella pronunzia, ma nell’incesso, nel piglio, ed in tutt’i movimenti della persona. Un riso caustico, un guardo ironico, un accento risentito anche nel rispetto, un dispettoso silenzio, una loquacità non affettata, la malizia, la civetteria, la curiosità, l’albagia, e la fedeltà delle cameriere, e dell’amore più il puntiglio che il sentimento, più l’epigramma che l’espansione, il passaggio più rapido e più spontaneo dalla indifferenza sardonica alla collera, ed una gradazione mirabile tra il sospetto e la minaccia ; ecco le forme sotto le quali abbiam veduto finora brillarla, ed ecco ciò che la rende degna della lode che qui con ingenua ammirazione le rendiamo.

E conclude :

Nella Giulietta Monti ha la scena comica una delle attrici difficili a rinvenirsi, massime in questo tempo, in cui lo strafare, l’inverisimile, ed il violento, sono divenuti gl’idoli della massima parte degli autori, degli attori, e dell’udienza.

Alberti Severo, Orazio, Enrico, Domenico. Fratelli dei precedenti e generici di poco conto.

Il primo fu anche secondo caratterista in Compagnia Lollio e Boldrini per gli anni 1856-57-58-59. Garibaldino in Sicilia, fu arrestato dalle guardie borboniche, che gli trovarono un rapporto politico in uno stivale. Liberato poi, e cambiato il governo, egli potè, col mezzo di attestati di Superiori, ottenere una pensione.

Il secondo, generico a vicenda con Innocente De Cesari nella Compagnia di suo padre, morì giovanissimo.

Enrico sposò la figlia dell’attore Casali, e dopo pochi anni morì.

Domenico sosteneva le parti di secondo amoroso nella Compagnia di suo padre a vicenda con Vincenzo Monti. Nel carnevale 1832-33 lo troviamo generico della Compagnia Pisenti e Solmi, insieme a sua moglie, Amalia Appelli, artista di pochissimo conto, e che recitò poi qualche volta anche ai {p. 22}Fiorentini di Napoli con Adamo Alberti e Pietro Monti, quando il marito fu accettato come sorvegliante alla porta di quel teatro in Compagnia Prepiani, Tessari, Visetti.

Domenico Alberti era alto della persona, e robustissimo ; non sapeva che significar volesse malattia…. e soleva dire spesso, che ove gli si presentasse il male, si sarebbe ucciso, per evitare ogni ombra di sofferenza : e tenne la parola. Cominciata appena la tisi senile, si precipitò dal balcone interno di casa, in Napoli, e morì.

Alborghetti Pietro. Nacque a Venezia verso il 1675, e si recò a Parigi nel 1716 colla Compagnia italiana formata per ordine del Duca d’Orléans, Reggente, e condotta da Luigi Andrea Riccoboni, detto Lelio. Egli fu, secondo un contemporaneo, eccellente artista ; recitava ordinariamente nelle commedie italiane le parti di nobile veneziano, e sotto la maschera di Pantalone era impareggiabile. Morì a Parigi il 4 gennaio 1731, dopo una lunga malattia, lasciando di sè la più bella ricordanza e come artista e come uomo. I comici chiusero in segno di lutto il teatro il 4 e il 5 di gennaio. D’indole severa, trattava un poco duramente la moglie Vincenza Gallini-Berttoï ; e giunto all’ultim’ora, uno de’suoi colleghi gli richiamò alla mente i suoi torti, che riconobbe tosto ; e volle, a emendazione quasi di essi, nominar lui legatario universale, a patto ch’egli ne usasse convenientemente colla moglie. Il collega rifiutò l’incarico e lo pregò di darlo in sua vece a Tommasino, altro collega, del quale era ben nota la probità, e il quale in fatti dopo aver avuto l’assentimento di un fratello dell’Alborghetti all’intiera esecuzione del testamento, pare l’acconciasse nel miglior modo con la vedova che molto ebbe a lodarsi di lui, e che poi andò a seconde nozze con un comico italiano, Francesco Materazzi, detto il Dottore. Pietro Alborghetti fu sepolto a Sant’Eustacchio, sua parrocchia. (Cfr. Campardon, op. cit.)

Per tutto quanto concerne la maschera del Pantalone, V. Pasquati Giulio da Padova.

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Aliprandi Luigi. Nacque nel 1817 a Mantova, ove il padre Giambattista, commerciante, aveva una fabbrica di cuojo. Dilettante nel’35 della Compagnia di Giuseppe Cammarano, sosteneva la parte di amoroso nelle Cantatrici villane al S. Ferdinando di Napoli, quando due attori del S. Carlino, Tremori e Sant’ Elia, presenti alla recita, notati in lui non pochi pregi di espressione, di pronunzia, di dizione, lo fecero scritturare dal loro impresario, Silvio Maria Luzi, in qualità di amoroso toscano. Dopo due anni di riconferma, il Luzi, uomo di mente e di cuore, lasciò libera al giovane Aliprandi la via dell’arte, parendogli che avrebbe potuto percorrerla rapidamente e trionfalmente. Egli si unì dapprima con alcuni artisti, rimasti a spasso a fin d’anno, tra’quali la vedova del vecchio Fabbrichesi ; e andò a Foggia, ove la Compagnia si trattenne un intiero anno, invece dei quattro mesi pei quali era stata scritturata. Egli camminava, camminava franco e fiducioso nell’avvenire. Il suo nome {p. 24}cominciò a esser proferito con molta lode, tanto che da Foggia, per intercessione specialmente del Principe di Ruffano, passò di sbalzo amoroso ai Fiorentini di Napoli, in sostituzione di Stefano Riolo, al fianco di Prepiani, della Tessari e di Visetti. Esordì colla vecchia commedia di Federici : Una lezione di esperienza alla gioventù, e la riuscita fu ottima. Sostituì poi il celebre Visetti, ed ebbe campo di emergere in ogni genere di componimenti. Restò con quella impresa due anni, terminata la quale, subentrarono Pietro Monti, Adamo Alberti, e lo stesso Prepiani, coi quali rimase, sempre applaudito, fino al’51. Sposata la Giuseppina Zuanetti, prima attrice della stessa Compagnia, passò con lei nella Compagnia lombarda condotta da Alamanno Morelli, e diretta da F. A. Bon. Dopo tre anni, in società con Carlo Zammarini, diresse e condusse la Compagnia, essendosene ritirato il Morelli per recarsi a dirigere la Filodrammatica di Milano : poi si scritturò con la moglie prima attrice nella Compagnia triestina, condotta e diretta da Luigi Bellotti Bon. Morta la moglie, egli sotto il colpo di tanta sciagura si ritirò in Milano, ove stette alcun tempo in riposo. Tornò poi all’arte in Compagnia Gattinelli, in cui (nel Teatro Goldoni di Firenze, e nel’ 700’ 72) rappresentò per ben quattordici sere il Giovanni da Procida con tal successo, che non lo chiamavan più se non con quel nome. Recatosi poi a Napoli per assistere il fratello infermo, vi restò fino al’91 come maestro di recitazione ; di là si recò a Firenze, ove è tuttavia in ottima salute.

Luigi Aliprandi fu artista forte, dotato di rara intelligenza, di voce simpatica, sonora, potente. La squisita cortesia e la soavità dell’indole sua, che traspaiono in ogni parola, in ogni atto, posson far credere non ingiusta la osservazione che troviamo stampata nel’57…, su certe abituali inflessioni troppo melliflue ed ingenue, generate forse dall’eccessivo studio d’esser vero e d’evitare il convenzionale.

Aliprandi-Zuanetti Giuseppina. Moglie del precedente, figlia di Antonio e Maddalena Zuanetti, artisti drammatici, fu {p. 25}artista bella, colta, di ottimi costumi, e più specialmente brava per le parti di delicato affetto, come, ad esempio, la Margherita nei Racconti della Regina di Navarra. A Parma vollero la Rosmunda di Alfieri. Ella tentò di schermirsi, non credendo, nè alcuno lo credeva in compagnia, di poter colle sue tenui corde arrivare a tanto : ma con inaudita sorpresa trascinò il pubblico all’entusiasmo, riducendo la parte a’suoi mezzi con sapere profondo e con fine discernimento d’arte. Fu la prima amorosa della Compagnia di Romualdo Mascherpa con la Ristori prima attrice ; poi per lungo tempo la prima attrice della Compagnia Lombarda diretta da suo marito, ed ebbe da ogni pubblico applausi e fiori, da ogni giornale parole d’encomio. La Gazzetta Ufficiale di Verona (luglio 1857) dice che « la Zuanetti ha il privilegio forse esclusivo (?) di dominare l’uditorio in modo sovrano. Voce, sguardo, accento, reticenze, tutto è potenza in lei per iscuotere gli spettatori, far loro provare i vari affetti ch’essa ci mette a nudo colla magia di un ineffabile sentimento, farli palpitare, commuovere, piangere, fremere, entusiasmarli infine. Vi hanno degli istanti in cui l’artista scompare, e resta la donna inspirata, che cogliendo la natura sul fatto, ne simula sì al vero il contrasto delle passioni, da operare un prodigio, da sollevarsi ad altezza tale, dove non lice ad altra. La Zuanetti dove è grande, è più grande di tutte…. »

Ebbe onore di rime, tra le quali un sonetto di Pirro Missirini (Milano 1863) ; e morì di parto, secondo alcuni, per esaurimento di forze in seguito a salassi, secondo altri.

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Aliprandi Zuanetti-Alberti Giovannina. Figlia dei precedenti. Deve al Teatro de’ Fiorentini la maggior sua fortuna artistica. Fu per alcun tempo applauditissima prima attrice di quella Compagnia negli ultimi anni del capocomicato di Adamo Alberti (del quale sposò poi un figliuolo), al fianco del Majeroni, del Bozzo, del Maggi, amoroso allora e già forte promessa dell’arte. Fu prima attrice di spalla, direm così, colla Duse, in Compagnia di Cesare Rossi, poi seconda donna in quella della stessa Duse, poi seconda donna e madre in quella di Pasta, al fianco della Tina Di Lorenzo. Fu l’Aliprandi attrice di molto merito, senza alcun dubbio, nonostante una recitazione alquanto accentuata, acquistata forse in quell’ambiente napoletano di attori e di repertorio, che ricordava nelle parti serie, con una certa gonfiezza della dizione non discompagnata certo da una palese abbondanza di intelligenza, le grandezzate del tradizionale Capitano Spagnuolo trapiantato a Napoli e vissuto per tanto tempo nelle nostre vecchie compagnie di prosa. Quando la recitazione precipitosa e vera di Eleonora Duse non era ancora entrata nel gusto di tutti, vi fu qualche pubblico, non è a negarsi, che ebbe predilezioni per la plastica antica dell’Aliprandi. Oggi ella è prima attrice madre, e tuttavia applaudita, nella Compagnia di G. Emanuel.

Aliprandi Giovanni. Figlio di Medoro, attore modesto e onesto, che, dopo essere stato secondo amoroso e generico della Compagnia Botteghini-Vedova, fu anche in società con Pasquale Tranquilli, capocomico : (era prima attrice della Compagnia l’Anna Tessero, e stenterello Gio. Gualberto Maggi). Giovanni, artista di pregi non comuni, recitò nella prima giovinezza come amoroso prima, poi come primo attore giovane in Compagnie primarie quali del Mascherpa, del Domeniconi, Robotti-Vestri, Cesare Dondini, avendo così la fortuna di recitare al fianco dei grandi artisti che fiorivano a quel tempo. Fu dal 1860 in poi conduttore di Compagnie pregiate, di second’ordine allora, ma che sarebbero, ohimè, di primo oggi, nè solo pel valore degli {p. 27}artisti che le componevano, ma pel decoro nell’allestimento scenico, per l’armonia nelle voci, pel buon costume nel…. retroscena. Giovanni Aliprandi fu primo a dar nome al cognato Ettore Dominici, rappresentando con ottima riuscita le sue commedie Un passo falso, La legge del cuore, La Dote, La Moda, Una società anonima. Di questa ho ancora un ricordo ben chiaro ; e sento ancora quei lunghi discorsi che egli faceva risaltare con una dizione precipitosa, corretta e precisa….

Di un’attrice Aliprandi, cremonese, sua ava, non mi fu dato trovar notizie.

Aliprandi-Dominici Alfonsina. Moglie del precedente. Nata a Perugia dall’avvocato Francesco Dominici e dalla marchesa Emilia Bourbon Del Monte, fu da rovesci di fortuna, morto il padre, trascinata nell’arte dopo alcune buone prove fatte in un teatrino domestico. Esordì al Teatro Re di Milano, come prima attrice giovine, nel 1854, all’età di 17 anni, in Compagnia Robotti-Vestri, della quale era primo attor giovine l’Aliprandi, che divenne poi suo marito. Nel ’57 entrò con lui in Compagnia di Cesare Dondini nella quale erano Tommaso Salvini, Clementina Cazzola, Lorenzo Piccinini, Achille ed Ettore Dondini, ecc. Recatasi a Parigi, sostenne a fianco di Salvini le parti di Zaira, Desdemona, Elettra, Micol, ecc. ; poi, fatta il marito Compagnia, ne divenne la prima attrice.

Aliprandi-Pieri Emilia. Figlia dei precedenti e moglie di Vittorio Pieri. Nata a Torino, recitò coi genitori parti di bambina, poi fu lasciata per la sua istruzione a Trieste presso una famiglia di amici. Ne fu tolta ancor giovinetta, e in una permanenza di sei mesi a Firenze recitò per la prima volta nella Società Antologica, diretta da Giacomo Frascani ; quella recita segnò il primo suo passo nell’arte, poichè da allora continuò sempre a recitare co’Suoi, allargando a poco a poco il suo ruolo, e con esso procacciando a sè incoraggiamenti e lodi. Il giurì drammatico di Milano le conferì il premiò di primo grado {p. 28}e con ragione ; poichè l’Emilia era tra le giovani una delle più forti promesse. Nel 1882 sposò l’attore brillante Vittorio Pieri, e nell’ 83, abbandonati per la prima volta i Suoi, andò col marito nella Compagnia drammatica di Alamanno Morelli, nella quale esordì come prima attrice. Nell’ ’84-’85-’86 venne al marito la malaugurata idea di condurre una Compagnia, della quale ella fu la prima attrice. Continuò nell’ 87-’88 nella Compagnia in società con Cesare Vitaliani e Angelo Vestri ; fu poi scritturata assieme al marito nella Compagnia di Ernesto Rossi, e finalmente in quella diretta da Virginia Marini. L’Emilia, anzi l’Emilietta Aliprandi, come la chiamano ancora con vezzo gli amici, non fu in alcun modo, mai, quel che si chiama un’attrice fortunata. Si direbbe anzi che il genio cattivo si fosse divertito a perseguitarla, non foss’altro per isfogare in qualche modo l’invidia destatagli dalla infinita bontà ond’ella è ornata. Fu attrice correttissima, semplice, studiosa ; di nessuno spolvero, ma simpatica sempre.

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Allori Francesco detto Valerio, e Francesca detta Ortensia. In nessuno, ch’io mi sappia, nè antico scrittore, nè moderno, si trova citato il nome di questi comici. Il Bertolotti soltanto (op. cit.), a pag. 113, dopo di avere accennato a concessioni di famigliarità e passaporti e patenti a vari comici e cantanti dal 1680 al 1684, scrive : « anche prima vi sono lettere di Francesca Allori, detta Ortensia, comica. »

Il Sand (op. cit.), dopo avere detto semplicemente che il ruolo di Ortensia era quello di servetta, come l’Olivetta, la Nespola, la Francischina, ecc., dice, al proposito di Valerio (I, pag. 331) :

Nel 1660, essendo la Compagnia italiana definitivamente stabilita a Parigi, il Cardinale fece venir d’Italia un primo innamorato, il quale colmasse il vuoto lasciato dal valente Marco (?) Romagnesi, detto Orazio. L’attore in parola aveva il nome di teatro, Valerio, e copri quel ruolo sino al 1667.

E i fratelli Parfait (op. cit., pag. 55) sotto il nome di Valerio, scrivono :

Questo attore che non ci è noto se non col suo nome di teatro, parve aver succeduto a N…. Romagnesi (Orazio). Lo si vede prender parte nella nona comparsa del Ballet des Muses, rappresentato il 2 dicembre 1666, e in qualche commedia. A ogni modo abbiamo ogni buona ragione di credere che Valerio lasciasse il teatro nel 1667, sostituito dal secondo amoroso Andrea Zanotti bolognese, del quale prese il posto Marco Antonio Romagnesi, esordiente alla Commedia italiana.

Ma ormai è accertato (cfr. Jal, Dictionnaire critique de Biographie et d’Histoire, Paris, 1872 ; e Campardon, op. cit.), che il Valerio sconosciuto al Sand e ai Parfait era il modenese Giacinto Bendinelli o Bendinely, come si trova scritto nel suo atto di matrimonio colla Poulain ; o Bandinelli, come egli nel medesimo atto si sottoscrive.

Dell’Allori dunque, che pel suo ufficio non poteva esser da vero attore mediocre, nulla.

Di lui e della Francesca posseggo due lettere autografe che riproduco ridotte di un quarto, nelle quali sono, come il lettore vedrà, notizie di non poco interesse. La prima è diretta al Molto Ill.mo Sig. Stefano Modanese a Ferrara, e la seconda, quella dell’Ortensia, non ha indirizzo.

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A queste due tengon dietro le sei non meno interessanti, che debbo alla squisitezza del cav. Stefano Davari, direttore dell’Archivio storico Gonzaga di Mantova, dalle quali si vede chiaro come l’Allori fosse non solo attore, ma anche autore e direttore della Compagnia, per ragione forse della Francesca, l’Ortensia, che in una lettera del Truffaldino, Carlo Palma, è chiamata buona comica, e indicata al Ministro del Duca di Mantova, per giudicare dei meriti di un capitano da scritturarsi, certo Federico Beretta.

L’Ortensia era, senza dubbio, la moglie dell’Allori, giacchè per la putta sempre ricordata si vede chiaro doversi intendere la figliuola Settimia, maritata, della quale è cenno nella lettera di lui riprodotta autograficamente. È strano però che il marito saluti il ministro in nome della putta, senza mai accennare alla moglie, che per di più era la Prima Donna della Compagnia.

Non è cosa tanto facile rintracciare le sue lettere annunciate dal Bertolotti, essendo stata la notizia buttata là senza indicazioni di sorta.

A queste lettere mancano gl’ indirizzi ; ma sono dirette ai Ministri del Duca di Mantova.

Molto Ill.re Sig.r mio Sig.r Col.mo

Dimani faciamo l’ultima comedia qui in Padova e la settimana ventura mi porterò a Vicenza con tutta la compagnia, havendo già l’Ill.mo S.r Conte Marcho Negri ottenuto da quelli Ecc.mi Rettori la licenza et il Teatro ; porto a V. S. Ill.ma l’avviso, qui si sta in pace ne vi è tra di noi pure una parola, resta solo la cità un poco disgustata perchè il Dottore non ha voluto far la sua pazzia. Questo gli lo scrivo confidentemente ; lui dice che non l’ha fatta per dubio di non si amalare per una sua indispositione, intanto havendo io posto fin un opera nova per render più diligenti questi compagni a impararla, suplico V. S. Ill.ma a portarmi il comando d’ordine di S. A. S. che deva portar a Mantua almanco due o tre opere nove che cosi si impararano più presto. V. S. Ill.ma se lo ricordi perchè mi preme assai venire a Mantova con qnalche cosa di novo, non ho che agiungere e con la mia putta riverentiss.º me l’inchino.

Il guadagno di Padua è stato di tre mila lire settecento a parte.

Di V. S. Ill.
Dev.mo et Obl.mo Ser.re
Francesco Allori detto Valerio.
{p. 33}M.to Ill.re Sig.r mio Col.mo

Al ultima di V. S. Ill.ma risposi prima si finisse il Carnevale, e perchè in quella mi accennò che S. A. S. non voleva che la compagnia andasse a Napoli, et che le piazze dove si dovrà recitare il venturo ano sono già state destinate dall’A. S., sono a suplicarla a darmene qualche motivo, aciò sappia come regolarmi, perchè dovendo io portarmi a Bologna, fra pochi giorni, caso che si havesse d’andare a Padova o per lo Stato veneto, come mi giova di credere, lascierei parte della mia robba qui in Venetia. Qui sono finite le recite con bonissimo guadagno et aplauso universale, et quello che più importa con bonissima concordia fra di noi, et se pure vi è stata qualche cosa, ho procurato con la mia flemma di superar tutto, aciò che S. A. S. et V. S. Ill.ma habiano richiami, et perchè potrebbe essere che alcuno havesse qualche pretensione irragionevole li rendo motivo a ciò sappia come contenersi, et in particolare nell’interesse della borsa a non vi metter la mano, e sopra a tutto a tenerci lontano da Milano, perchè quella cità è la ruina de comici. E perchè forsi qualcheduno de comici pensa di fare il padrone, a questo dico che non voglio riconoscere altro padrone che il Ser.mo S.r Duca e V. S. Ill.ma, et quelle cose che si espettano a me come primo moroso non intendo che alcuno mi metta il piede avanti, non ho che agiungere e riverentiss.º me l’inchino a sieme con la mia putta.

Di V. S. Ill.ma
Hum.mo Devot.mo et Obbl.mo Ser.re
Fran.coAllori detto Valerio.
Ill.mo S.re mio Col.mo

Il Sig.r Federico Beretta detto il Capitano, che l’Ill.mo Sig.r conte Residente fece obligare in scrittura al servitio del S.mo padrone per la nostra compagnia, si ritrova di presente in Venetia, et desidera sapere quello ha da esser di lui, mi ha pregato che io ne dia parte a V. S. Ill.ma, et io lo faccio volontieri per servire S. A. S., et perchè la nostra compagnia ne ha bisogno, et il Sig.r Truff.no in particolare per la sua parte et per i travestimenti spagnoli ne è oltre modo desideroso che sia in compagnia, perchè il figlio di pantalone per queste parti non è bono, et poi ha tanto poca fortuna da per tutto che la compagnia patisce pur assai. Sup.co dunque V. S. Ill.ma a darmi qualche risposta in questo particolare aciò possa consolarlo questo Giovane, et non havendo che sogiungere, riverentis.º me l’inchino con la mia putta.

Di V. S. Ill.ma
Devot.mo et Obl.mo Ser.re
Fran.coAllori detto Valerio.
Ill.mo S.r mio S.re e pad.ne Col.mo

Il Sig.r Capitan Beretta sarà da me impiegato in quello conoscerò profitevole per il bon servitio di S. A. S. et della compagnia, io partirò presto per Bologna colà starò atendendo i comandi di V. S. Ill.ma, et a quelli sarò sempre riverentissimo, in tanto sono suplicarla a suplicare in mio nome il S.mo Padrone di una lettera di raccomandatione al S.r Card.le legato di Bologna per una mia lite. Il S.r Truff.no doppo haver quasi perso il cervello dietro alli suoi inbrogli partirà per questa volta, dal quale intenderà più a lungo li interessi della compagnia, et io a lui mi riporto, spera dalla benignità di S. A. S. di restar allevato, dice che sempre a V. S. Ill. conserverà l’obligatione, e riverent.mo me l’inchino con la mia putta.

Di V. S. Ill.ma
Devot.mo et Obbl.mo Ser.re
FranAllori detto Valerio.
{p. 34}Ill.mo S.r mio S.re e Pa.ne col.mo

Starò qui in Venetia sin venerdì pross.º venturo per sapere dove deve la compagnia deve principiare, et a qual parte deve incaminarsi, come nella sua mi accenna, giacchè la mia putta sta assai bene et è in stato di potersi mettere in viaggio, la prego dunque a portarmene l’avviso aciò possa parteciparlo ad Oratio e pantalone che qui si ritrovano, et doppo partirmi subito per bologna, dove per miei interessi mi converrà trattenere al mancho otto giorni, non ho che agiungere se non supplicarla di novo per lettera di Ferrara per la Gabella, et augurando insieme con la mia putta a V. S. Ill. felicis.e le feste della S.ma Pasqua, devot.mo me le inchino.

Di V. S. Ill.ma
Devot.mo et Oblig.mo Servitore
Fran.coAllori detto Valerio.
Ill.mo S.r mio S.re e Pad.ne Col.mo

Ricevo la cortesiss.ª sua con l’anessa per la Gabella di Ferrara, rendo a V. S. Ill.ma infinitiss.e gratie. Le piazze destinate da S. A. S. alla nostra compagnia, Brescia è bona e vi anderemo volentieri, Vicenza non fa per noi, essendoci noi stati tre anni in fila, et vi ci siamo morti di fame, tutta quando doppo Brescia non si potrà haver altra piazza ne procuraremo una noi medemi. La verità di quanto li scrivo li sarà autenticata dal S.r Truff.no, circa poi che dice il S.r Carlo di non poter più recitar, io mi rimetto all’Autorità et comandi del S.mo padrone e di V. S. Ill., so bene che se potessi ancor io dire non voglio più recitare, con sodisfatione di S. A. S., et che mi fusse concesso mi sarebbe oltre modo caro, non soggiungo altro perchè scrivo a chi molto intende. Parto per Bologna lunedi pross.º venturo, colà starò attendendo i suoi pregiatiss.i comandi, et non havendo che soggiungere, a sieme con la mia putta riverentis.º me l’inchino.

Di V. S. Ill.
Hum.mo Devot.mo et Oblig.mo Ser.re
Francesco Allori detto Valerio.

Chi fosse il Dottore citato dall’Allori, che con iscusa pare di malattia non voleva recitare in una fatica particolare, non so dire. Il Dottore vivente a quell’epoca e a noi noto sin qui era il Lolli ; ma egli, recatosi a Parigi nel 1653 per assumere nella Compagnia italiana la maschera di Dottor Baloardo, tornò in Italia, non so in che anno (nel’58 era certamente a Roma, come si vede ai nomi di Lolli e Bandinelli) per poi restituirsi una seconda volta a Parigi, ove e precisamente nel ’70, fece rappresentare una comedia intitolata Il Gentiluomo campagnuolo, ovvero Gli stravizzi di Arlecchino.

Forse nel ’74 fu ancora in Italia, e andò una terza volta a Parigi, dove si trovava il 21 dic. ’78, testimonio a un battesimo, e dove fattosi naturalizzar francese il giugno ’83, morì nel 1702 ?

{p. 35}

Noto incidentalmente che a Roma nel 1658 era con lui nel distretto della Parrocchia di S. Pietro, anche Carlo Palma, il Truffaldino menzionato nelle lettere dell’Allori.

Nè di codesta Pazzìa mi resta a dire alcun che di preciso. La pazzìa del Dottore era un Caval di battaglia dell’attore, come quella d’Isabella di F. Scala, o di Pantalone d’Incerto Autore. (V. Allacci, Drammaturgia). Due son le Pazzìe del Dottore a me note : quelle sotto il titolo anche di Invidia in Corte, d’Incerto Autore (il Dottore si chiama Scatolone, ed è primo Consigliero del Re di Siviglia) ; e quelle sotto il titolo di Nuove pazzìe del Dottore, di Simon Tomadoni, stampate a Venezia nel mdclxxxix da Domenico Lovisa. (V. Bianchi (De) Ludovico).

Almirante Pasquale. Figlio di Pasquale Almirante e di Gaetana Caputo, agiati negozianti di stoffe a Napoli, a sette porte, nacquo il 1799 in un sotterraneo, mentre bombardavano Capua. Egli era discendente dei duchi di Celsa piccola e del Marchese Forcella, ed esistono ancora presso il figlio Antonio, capocomico da venticinque anni, lettere colla data del 1849 del Vescovo di Caltagirone, Monsignor Benedetto Dente, con l’indirizzo : A S. E. Cav. Pasquale Almirante dei Duchi di Celsa piccola, e altre colla data del 1850 del Conte Adonnino di Licata collo stesso indirizzo. Capitano della guardia nazionale nel ’48, dovè, privo di risorse, dopo la restaurazione borbonica, darsi all’arte del comico, nella quale fece discrete prove. Sposò Elisabetta Quintavalle figlia di comici, da cui ebbe molti figli ; l’Antonio, già detto, Michele che, sebben giovanissimo, lasciò nel ’60 la casa paterna per correre nelle schiere di Garibaldi, Pietro impiegato, molte figlie, spose tutte a comici, e Nunzio attore brillante di pregi non comuni. Pasquale Almirante, noto per la sue ottime qualità d’onest’uomo, morì compianto da tutti a Sant’Angelo di Sicilia nel 1863.

Altavilla Pasquale. Attore napoletano popolarissimo. Rappresentava le parti di servo sciocco, al S. Carlino, nel 1835, {p. 36}ove era ancora nel 1847, al fianco di Salvatore Petito e di Serafina Zampa. Poco dopo, di attore egli si era, come il Cammarano e lo Schiano, mutato in autore. La sua prima commedia scrisse nel 1834 : ma come autore, pare avesse davvero un nome assai maggiore del merito. Traeva le sue commedie dalla cronaca giornaliera, attorno alla quale egli ricamava favole intricatissime, chiassone, quasi direi acrobatiche, a cui faceva il pubblico le più matte risate. Ma quei successi rumorosi che avevano stabilita la fama dell’autore non dovevano nè potevano essere di troppa durata, poichè letterariamente le sue commedie valevan poco o punto…. A lui non importava de’ posteri : egli voleva campare onoratamente la sua numerosa famiglia, e togliere momentaneamente il suo pubblico dalla musoneria ; e vi riuscì compiutamente. Come attore, invece, egli avrebbe diritto ad uno studio accurato che ne rivelasse le alte doti. Egli era il vero artista del momento : spigliato, arguto, di vena inesauribile. La Moda del ’48, dando il resoconto della riapertura del S. Carlino, colla Compagnia rifatta, impresario Silvio Maria Luzzi, chiama l’Altavilla « attore valentissimo nelle parti di carattere, che con le sue grazie, con i suoi epigrammi ci muove al riso e fa dimenticarci della tristezza di che è circondata la vita. » Passò poi, sempre col Luzzi, nel ’64 alla Fenice, e di qui al Nuovo. Nel ’72, richiamato un giorno da un’inquilina del piano superiore mentre scendeva le scale, si volse a risponderle : ma, sciaguratamente, messo un piede in fallo, cadde, e morì in capo a tre o quattro giorni per commozione addominale e cerebrale. (Cfr. S. Di Giacomo, op. cit.).

{p. 37}

Alvarotto Marco Aurelio. Rappresentava nella Compagnia di Angelo Beolco detto il Ruzzante (prima metà del secolo xvi) le parti di Menato, contadino arguto, francone, che snocciola parolaccie come gli vengon dal cuore, senza metterci su nè sale nè pepe. A Ruzzante che torna dal campo, dice : « Vagnìu adesso adesso de campo : si vu stò amalò ? o in preson ? Haì una mala ciera, compare ! A parì un de’sti traditoròn. Perdonéme, compare, à hè vezù cento apicché, che n’ha sì mala ciera con haì vu. A no dighe, compare, intendì vu ? che abbiè mala ciera de omo, intendì vu ? Mò que a sì spelatò marzo al fumo. Cancaro à ghe, n’aì bu ’na stretta da can. » A Ruzzante che nell’Anconitana, dopo aver cantato gli dice : « Caro frello, cantane un’altra ; e nu dà cantémola in quattro, mi solo a cantare ben pre dù, ecc. ecc. » risponde : « al sangue de cancaro, la sarà ben bella, chi poèsse fare, que na vacca tirésse per dù, e un pan fesse per quattro ! » Ma notevole è la schietta semplicità del monologo con cui egli apre la Moschetta, e in cui si lamenta con sè stesso, per essersi innamorato come mai non avrebbe dovuto della comare : « Putana mo del viver, mo a son pur desgratiò, a crego ch’a foesse inzenderò, quando Satanasso se pettenava la coa : a dir ch’ a n’ habbi me arposo, ne quieto, pi tromento, pi rabiore, pi rosegore, pi cancari, c’haesse me Christian del roesso mondo ; mo l’è pur an vera, Menato, cancar’ è ch’ a l’ è vera, ma a dire an la verité, a no m’ he gnian da lumentare lome de mè, perquè a no me diea mè inamorare in tuna mia comare con hè fatto, ne cercar de far becco un me compare : che maletto sea l’amore, e chi l’ ha impolò, e so pare, e so mare, e la puttana on l’ è vegnù ancuò. Me gh’ hal mo tirò a Pacca, e si hè lago buò, vacche, cavalle, piegore, puorci, e scroe, con tutto, per venir on ve mo ? Drio na femena ; a far que po’ ? Gniente. Ch’ a no farè gniente !… Poh, oh…. »

A Messer Alvarotto è indirizzata la lettera del Ruzzante, colla quale si chiude il volume delle sue opere, e nella quale è descritta una visione in lingua rustica, piena di allegorie e di argute osservazioni. (Tutte le opere delfamosissimo Ruzante, ecc. Vicenza, Greco, 1584).

{p. 38}

Amadei Lodovico. Nella lettera dedicatoria al molto magnifico ed onorando signor Gio. Giacomo Giuliani, in data 23 gennaio 1606, che sta in fronte alla Donna costante, commedia di Raffaello Borghini, l’Amadei dice : facendo io ora ristampare la commedia chiamata la Donna costante, essendo questo uno de’frutti della mia professione, ecc. ecc. È questa la sola notizia che abbiamo dell’Amadei comico. …. ?

Amatis Giovanna. Cominciò nel 1760 a recitare con favore le parti di serva. Il Bartoli (op. cit.) la dice capace di sostenere con buona riuscita qualsivoglia altra parte o comica o tragica, per la sua abilità in ognigenere universale (sic). Dopo essere stata al S. Angelo di Venezia un solo anno, si scritturò con varie Compagnie nomadi, recandosi poi in Sicilia, dove ebbe a lottar colla…. sorte, e dove…. al tempo in cui il Bartoli dettava le sue notizie dei comici, cioè al 1780 circa, viveva ancora recitando.

Ammonio Giovanni. Abruzzese e frate dell’ordine dei Crocicchieri, è citato dal Sansovino fra i più antichi comici di Venezia. Scrisse la commedia Stefanio, recitata nel convento degli Eremitani a S. Stefano. Nel 1516 diventò organista della cappella di S. Marco, e con Antonio Molino detto Burchiella, comico, istituì un’ accademia di musica.

Amorevoli (Degli) Battista. (V. Battista da Treviso).

Amoroso Teresa. (V. Angelo [D’] Francesco).

Amurat Agnese. Più cantatrice che comica, era scritturata per gl’ Intermezzi, a vicenda colla Zanetta Casanova, nella Compagnia di Giuseppe Imer che recitava nell’Arena di Verona il 1734. Se ne servì il Goldoni per far eseguire una sua canzone musicata da Francesco Brusa, quando non era ancora moglie dell’armeno Amurat. « L’Agnese – dice Goldoni – cra la {p. 39}cantante di moda per le serenate, e colla bellezza della sua voce, e la chiarezza dell’espressione, fece gustare la musica e applaudir le cabalette. » La troviamo poi nel ’35 fra gli attori che rappresentarono l’operetta comica in tre atti del Goldoni stesso, musicata da Giacomo Maccari, romano, La fondazione di Venezia (V. Mémoires de M. Goldoni, colle note di Ermanno von Loehner, Cap. xxv, xxxiv, xxxvii. Venezia, Visentini, 1883).

Quasi tutte le attrici, sino alla metà del secolo diciottesimo, sapevano intuonare un’arietta, e accompagnarsela con qualche strumento, come quasi tutte le cantanti sapean mettere assieme e dire con garbo una scena di commedia. L’Astrodi (V.) esordì con un duetto, e l’Astori (V.) s’era fatta celebre cantando una canzonetta italiana con accompagnamento di trombe. Tutte le compagnie drammatiche primarie avevan poi questo ruolo speciale di cantatrice, che consisteva anzi tutto nel dover cantare gl’intermezzi dell’opera e le canzoncine finali o couplets. Una delle migliori cantarine è stata senza dubbio la Danneret Elisabetta, detta Babet la chanteuse, moglie, o vicemoglie, del celebre Gherardi (V.).

La Cantarina.

(Dalle Marchere e Buffoni di Maurizio Sand).

Ancatoni Diego. Dai registri di forestieri abitanti in Roma nell’anno 1658, e ripartiti secondo le rispettive parocchie, il Bertolotti cita fra gli altri, nella parocchia di S. Stefano, questo Ancatoni, spagnuolo, comico di S. A., che sosteneva le parti di capitano, sotto nome di Sangue e Fuoco.

{p. 40}

Andò Flavio, palermitano. La sua carriera fu rapidissima e brillante ; e molto egli deve senza dubbio alla signora sua, la Celeste De Paladini, la quale, capocomica e attrice di molto merito, slanciatolo di punto in bianco nel campo dell’arte, non gli lasciò il tempo di compier gli anni del noviziato, i più scabrosi della vita artistica, ai quali sono soggetti i principianti. Di portamento elegante, di maniere correttissime, pieno di sentimento e di slancio, studioso e modesto, diventò in brev’ora uno de’ migliori primi attori giovani. Fu al fianco di Eleonora Duse lungo tempo, come primo attore, per passare poi capocomico, qual’è tuttavia, in società con Claudio Leigheb, il rinomato brillante. « Quando — traduco liberamente dalla Escena di Barcellona — un’attrice del merito e della fama di Eleonora Duse si presenta a un gran pubblico nuovo, non gli lascia nemmeno il tempo di osservare gli artisti che la circondano : essa assorbe tutto l’interesse. È sufficiente che quelli che la secondano abbiano un merito relativo, per non recare una stonatura nell’insieme, per fare che il pubblico si trovi soddisfatto, quasi senza avvedersene, senza entrar menomamente in particolari. Bene : Flavio Andò ha saputo, direm così, staccarsi dalla cornice, e formar quadro esso stesso : egli ha saputo brillare di luce propria. Gli ammiratori di Eleonora Duse si sono accorti che al suo fianco era un artista che non doveva essere confuso tra la folla. E l’attenzione e l’interesse destati, la stima e gli applausi procacciatisi furono unanimi dovunque. »

Flavio Andò fu, si può dire, il compagno di gloria della grande artista. Il lungo periodo della loro unione aveva afforzata, fissata ormai un’omogeneità di tinte, una armonia di toni, una geniale spontaneità, un tale affratellamento insomma nella concezione ed espressione delle varie scene, che non si acquista, {p. 41}pur troppo, se non coll’esercizio congiunto a un forte spirito di assimilazione. — Sotto questo rispetto, la separazione artistica di Eleonora Duse e di Flavio Andò non può essere stata che di nocumento all’arte.

Andò-De-Paladini Celestina. (V. Paladini [De]).

Andolfati Bartolommeo, vicentino, fu amoroso della Compagnia di Francesco Berti, e vi fu riconfermato quando essa passò sotto la direzione di Pietro Rossi. Si scritturò poi con la moglie in quella di Girolamo Medebach, poi ancora in altre Compagnie nomadi. Ebbe molte figlie e un unico maschio : Pietro. Recitò nelle commedie all’improvviso e scritte, e verso il 1780 mise la maschera di Pantalone. Morta la moglie, trovò modo di allevar convenientemente, col soccorso di un suo fratello prete, le cinque figlie rimastegli. La maggiore, la Francesca, e la minore, la Gaetana, recitarono nel 1780 col padre a Corfù. Di questa il Bartoli dava nelle sue notizie speranza di ottima riuscita, unendo essa una perizia singolare a una rara bellezza. Nè s’ ingannò : la promettente Gaetana Andolfati divenne la celebre Gaetana Goldoni.

Andolfati Teresa, moglie del precedente, sostenne con plauso le parti di prima attrice nella Compagnia di Pietro Rossi. Per istigazione più specialmente di suo marito, preferì scritturarsi come seconda donna in quella migliore di Gerolamo Medebach, che agiva sei mesi dell’anno al Teatro di S. Gio. Grisostomo di Venezia, e nella quale stette parecchi anni. Morì di parto a Parma in età di anni 39, nel 1768.

Andolfati Pietro, milanese, e figlio de’ precedenti, studiò da avvocato per desiderio dello zio prete, citato più su, ma poi volle seguire la professione de’ suoi genitori. Fu un buon amoroso, e recitò applauditissimo nella Compagnia di Pietro Rossi e in quella di Giovanni Roffi di Firenze, dove con molto onore {p. 42}recitava ancora tra l’ 80 e l’ 81. Colà restò poi come direttore del R. Teatro di Via del Cocomero (oggi Niccolini). Scrisse tragedie e commedie, altre ne tradusse dal francese e dallo spagnuolo ; altre ancora, del Goldoni, ridusse malauguratamente in prosa dall’originale in versi. Il signor De Bastide indirizzò all’Andolfati, mentre dirigeva il Cocomero, una lettera, nella quale si discutevan queste tre leggi per un direttor di teatro : « 1. Bisogna guardarsi d’ offendere il gusto del pubblico. — 2. Bisogna sforzarsi di perfezionarlo. — 3. Bisogna aver paura che il gusto languisca. » A lui rispose l’Andolfati con lettera pubblicata per le stampe nel 1792, nella quale sono le stesse lagnanze, le stesse ragioni di oggidì : cita il caso frequente di commedie magnificate dagli attori e alla rappresentazione cadute per non più rialzarsi ; rimette in ballo la questione delle repliche, e raffronta, al solito, la Francia coll’Italia, annoverando i vantaggi di quella e le condizioni poco liete di questa ; e infine gli dà con molta sottigliezza una stoccata non lieve con le seguenti parole che riproduco testualmente :

« Voi mi avete gentilmente prescelto per esporre con la mia compagnia qualche vostra produzione, che sarà certamente conforme alle rispettabili leggi, che vi compiaceste accennarmi : tutta l’ attività de’ miei attori, qualunque ella si sia, verrà impiegata per l’ esecuzione la più scrupolosa, avvalorata dall’ istruttiva vostra comunicativa ; desidero che corrisponda l’esito alle vostre ed alle mie brame : — a voi, per non aver saputo offendere il gusto del pubblico — per prender maggior vigore a perfezionarlo — e acciò non si tema che egli languisca — a me, per aver potuto sotto la vostra scorta contribuire a sì desiderabili conseguenze. »

Si recò a Milano per dirigervi l’Accademia filodrammatica, e vi ebbe, come istruttore, moltissimi onori : il ritratto che presentiamo a’ nostri lettori fu disegnato dal vero, in quell’epoca, dal Locatelli. Dall’amore dell’arte militante fu ricondotto vecchissimo sul teatro, e morì in miseria, dice il Regli (op. cit.), nella Compagnia drammatica di suo figlio Giovanni. « Nel 1788 — scrive Benedetto Croce ne’ suoi Teatri di Napoli {p. 43}(Ivi, Pierro, 1891) — venne una nuova compagnia di comici lombardi, capo Giuseppe Grassi veneto, che già era stato a Napoli. Ne facevano parte gli uomini : Pietro e Giovanni Andolfati, ecc. ecc., e le donne : Gaetana ed Angiolina Andolfati, ecc. ecc. » Dall’elenco si capisce come Pietro fosse il primo attore e la Gaetana la prima attrice. Nulla sappiamo dell’Angiola. Il Bartoli non cita che due sorelle Andolfati, comiche : la Francesca e la Gaetana. In altro elenco, che riproduciamo in fine, troviamo oltre all’Anna, la moglie, che è innanzi alla Gaetana, anche una Antonia Andolfati, della quale non ho potuto trovare alcun cenno, e che non so bene se essere una sorella o una figlia di Pietro. In detto elenco figura il padre Bartolommeo come Pantalone. Quanto all’anno 1788 segnato dal Croce, qualcosa rimane a verificare, {p. 44}poichè l’Andolfati stesso nella citata lettera in risposta al signor De Bastide colla data del ’92, dice : « …. ciò intanto, di cui accerto il mio rispettabilissimo pubblico fiorentino che da dodici anni pazientemente mi soffre, si è, che più mi sta a cuore la di lui cara grazia, che qualunque oggetto di vanità, e d’ interesse. » Come dunque c’entra il 1788 di Napoli, se l’Andolfati nell’ 80 andò a Firenze, ove trovavasi ancora nel ’92 ?…

Nelle prefazioni alle sue rappresentazioni teatrali stampate a Firenze nel ’91 e dedicate all’Illustrissima Accademia del R. Teatro degl’ Infuocati, egli accenna all’ indole sua piuttosto viva :…. facile alle commozioni di ogni specie, ma più soddisfatto del pianto che del riso…. piuttosto iracondo e sprezzante contro chi non pensasse a suo modo…. Parlando del Calderaio di S. Germano, commedia spagnuola di Zavara e Zamora da lui tradotta, egli dice : « Questa commedia ha sortito un esito felicissimo ; e fu appunto questo esito che indusse un vivace talento a carpirla a memoria, e darla contemporaneamente ad altra Compagnia, per il che fui da una incauta violenza di temperamento, che arrossendo condanno, trasportato a…. un denso velo sopra il passato. »

Gli dedicò il comico Bartoli per la sua tragica rappresentazione Le glorie della Religione di Malta il seguente sonetto :

Se de’ Maltesi Eroi su finte scene
le gesta vittoriose esprimi e mostri,
or ben vegg’io che ne’ tuoi dotti inchiostri
evvi quanta in piacer arte conviene.
E come l’ottomano ardir si affrene
da Enrico e l’empia rabbia di que’ mostri
fai scorger chiaro, e come il sangue inostri
le navi, l’onde e le gloriose arene.
Pietro, son queste del tuo ingegno l’opre.
Ci fai parer il finto e vivo e vero,
quando di legni il mar tutto si copre.
Però sia encomio tuo giusto e sincero :
l’arte che tutto fa nulla si scopre
nel dir, negli atti, e nel valor guerriero.
{p. 45}

L’ Elisabetta Caminer Turra, la nota traduttrice teatrale, ne fa l’elogio nel Giornale Enciclopedico (Vicenza, gennaio [e non febbraio, come cita il Bartoli] 1780. Tomo I, Num. 7, pag. 97-102) a proposito della suddetta tragedia, e occupandosi dell’attore sol di sfuggita. Essa prelude al suo articolo con queste parole : « il giovane attore che compose questa rappresentazione merita i nostri elogi e gl’ incoraggiamenti del Pubblico, il quale avvezzo ad applaudire a’ suoi non ordinarj talenti nell’ arte del declamare, potrà, s’ egli non si stanca d’ impiegarli eziandio nello scrivere, dovergli dei drammi, pei quali anche il Teatro italiano conti un autore fra’ suoi attori. » E dopo avere esaminata e magnificata l’opera, trascrivendone un brano, riportato poi a sua volta dal Bartoli stesso nelle sue Notizie de’ Comici italiani, conclude : « noi non possiamo se non consigliar questo giovane autore a proseguire la carriera dello scrivere, in cui può avanzarsi cotanto per avventura, quanto non ha fra Comici italiani e difficilmente può avere chi lo superi nel sostenere le Parti più ardue ed interessanti, e nel produrre quell’ illusione impegnante ch’è la sola prova della perfezione. »

Ecco l’elenco su citato :


SIGNORE SIGNORI
Anna Andolf ati Pietro Andolfati
Gaetana Andolfati Luigi Delbono
Antonia Andolfati Giovanni Delbono
Maddalena Nencini Gaetano Michelangeli
Rosa Foggi, da Serva Giovanni Ceccherini
Lorenzo Pani
Giulio Baroni
Filippo Nencini, caratterista

MASCHERE

Bartolommeo Andolfati, Pantalone

Giorgio Frilli, Dottore

Gaspare Mattaliani, Arlecchino, e subalterni

{p. 46}

A questo elenco, ne farò succedere uno del 1820, il quale mostra chiaramente il progredire che fece l’arte nel non lungo periodo di circa trent’ anni :


DONNE UOMINI
Andolfati Natalina Andolfatti Pietro
Garofoli Giuseppa Andolfatti Giovanni
Pollina Margherita Garofoli Luigi
Cappelletti Laura Cavicchi Giovanni
Cavicchi Carlotta Carraro, Giovanni
Bonsembiante Bianca Bonuzzi, Francesco
Maldotti Adelaide Bonsembiante Giovanni
Maldotti Marietta Maldotti Ermenegildo
Lensi Anna Cappelletti Gaetano
Astolfi Marianna Astolfi Giuseppe
Coccetti Antonio
Maldotti Eugenio
Andolfatti Luigi
Nastri Leopoldo
Astolfi Tommaso, suggeritore
Tommaselli Luigi, macchinista

La Compagnia recitava a Bologna all’Arena del Sole, di giorno, e al Teatro del Corso, di sera ; e aveva cibo conveniente ai due palati. Là, ad esempio, Dibattimento e condanna di Giovanni Stella e compagni, emanata dal Tribunale residente in Padova, di ignoto autore, Il Corvo del Gozzi, Gustavo Wasa, ecc. ecc. ; qua Le Nozze di Figaro, il Vanaglorioso, il Tartuffo, ecc. ecc.

Ed ora, come curiosità teatrale e rarità bibliografica, presento al pubblico il prologo e V addio recitati (probabilmente dall’Anna Andolfati, moglie di Pietro e prima attrice allora della Compagnia) alla presenza delle LL. AA. RR. nel Teatro della Real Villa del Poggio a Cajano, in occasione delle rappresentanze fattevi nell’autunno 1791.

PROLOGO

Per goder frà le selve almo ristoro,
Scender sovente dall’Olimpo i Numi
Vide già la felice Età dell’ Oro.
{p. 47}Allor di puri e placidi costumi
L’ Uomo informosse, e dolcemente il mèle
Stillâr le querce, e corser latte i fiumi.
Ignote voci fur pianti e querele,
Come alle vaghe Pastorelle ignoti
Di traditrice i nomi e di crudele.
Formava il cuore, ed accoglieva i voti
Lo schietto cuor, che allora il labbro avea
Interprete fedel de’ proprj moti.
Ma, dei Numi al partir, l’età più rea
Successe, e fe men delle Selve amanti
Le Ninfe, e incerto il lor pensier volgea.
Allor seguendo i più fallaci incanti,
Lasciò, sedotto, il Pastorel l’Armento,
Sperando alla Città ricchezze e vanti.
E pur ora frà Voi ben cento e cento
Saran, cui forse la Cittade appare
Unica sede dell’ uman contento.
Oh beate Campagne ! oh Selve care !
Ecco, schiudonsi a voi, sù finte scene.
Della ricca Città le sorti avare.
Venga il Pastore a rimirar quai pene
Il Cittadino petto in se racchiude,
Col van desio d’immaginario bene !
Venga la Ninfa a contemplar le crude
Di Cittadino amor vicende amare,
E il timor cieco e le speranze nude !
Venite ; e (di follie si varie, e rare
All’aspetto impensato) alto gridate
Oh beate Campagne ! Oh Selve care !
Lieti ne’ patrj boschi indi restate,
Ove porge virtude al cuor ristoro,
Ove scender di nuovo oggi mirate
I Numi a ricondur l’Età dell’Oro.

{p. 48}ADDIO

Ecco (misera me !) quel di che rea
Sorte prepara a ogni contento umano,
Quel di che tanto il mio desir lontano,
E si vicino il mio timor facea.
Dell’età pastorale al dolce incanto
Questo di si fatal toglier ne debbe !
Addio Ninfe, Pastori. E chi potrebbe
Frenar, nel dirvi Addio, sul ciglio il pianto ?
Qui puri vezzi e candida innocenza,
Qui del Mondo primier gli aurei costumi,
Qui l’alme ne rapia dei sommi Numi,
Sotto spoglia mortal, l’alta presenza.
Qui le follie della Cittade e il fasto
Potè meglio ritrarre Arte gradita :
Tanto pregio ne accrebbe il bel contrasto
Di questa Pastoral tranquilla vita !
Dei plausi vostri al lusinghiero vanto,
Fatto di sè maggior, tant’ oltre crebbe,
Qui, di Noi forse alcuno. E chi potrebbe
Frenar, nel dirvi Addio, sul ciglio il pianto ?
Oh, almen, calma porgesse al cuore afflitto
Di riederne la speme a questo lido,
Come lieta rivola al caro nido
La Rondinella dall’antico Egitto !
Oh, dato almen fosse co’ voti il giorno
Affrettar che ne renda a voi dinante !
Potria la cara idea di un bel ritorno
Questo ricompensar crudele istante.
Ma, Oh Dio ! Chi sa se viva e cara tanto
Brama di Noi quivi sperar si debbe !
E, in dubbio si funesto, e chi potrebbe
Frenar, nel dirvi Addio, sul ciglio il pianto ?
{p. 49}Ninfe, Pastori, Addio. Fiorisca lieta
A voi d’intorno eterna Primavera,
Piovan su voi, dalla superna sfera,
Fausti gli influssi del maggior Pianeta.
Quando avverrà che sotto umano velo
Qualche Nume talor fra voi si assida,
Del più dolce seren diffuso rida
Sulle amene Campagne il puro Cielo.
Qui la Partenopea vivace Fronda,
Che alta ventura al Tosco Giglio unio,
Goda placida sempre aura seconda,
E il Giglio eccelso…. Ah ch’Io mi perdo ! Addio.
Addio Ninfe, Pastori. A voi soltanto
Il timido mio dir volger si debbe,
Ed ai Numi non già. Sembrar potrebbe
Forse ardito coi Numi ancora il pianto.

Andolfati Giovanni e Natalina. Dotato di prestante figura, d’ ingegno eletto, di bella voce, Giovanni Andolfati, figlio del precedente, diventò in poco tempo amoroso e primo uomo de’ migliori. Sposata la Natalina…. (?), giovine ed egregia prima donna, potè farsi conduttore di una Compagnia ornata di ottimi elementi ; ma i non pochi e meritati guadagni che gli venivano dall’arte, gli eran tolti rapidamente dal vizio del giuoco nel quale s’era buttato a capo fitto. Troppo lungo sarebbe il narrare le penose vicende della sua vita artistica, e i patimenti continui da lui procacciati alla povera moglie, la quale anche nell’arte omai non trovava più che fuggevoli ebbrezze. Gli applausi che ella riscuoteva nella Moglie saggia, nella Vedova spiritosa, nelle Tre Zelinde, nella Pamela nubile del Goldoni ; nell’ Ottavia, nell’ Antigone dell’Alfieri ; nel Galeotto Manfredi (Matilde) del Monti, non valevano a rimbaldanzire quel povero corpo e quella povera anima estenuati dalla miseria e dall’ angoscia. Natalina Andolfati morì di tisi a soli trentacinque anni dopo di aver sostenuto il ruolo di madre nobile, il 1827, nella Compagnia comica condotta da Carolina {p. 50}Internari e diretta da Francesco Paladini, col marito Padre e tiranno. Giovanni Andolfati, specialmente come tiranno, ebbe grido di valoroso. Ecco, a titolo di curiosità, un saggio del suo repertorio :


Agnese Fitz Henry Fitz Henry
Il sospetto funesto Don Flavio
Il gran giudizio di Carlo Magno Carlo Magno
Spartaco alle mura di Roma Crasso
Polinice Eteocle
Rosmunda L’Esarca
I due sergenti Incognito
Bianca e Fernando Carlo V
Eloisa della Vallière Condè
Le due regine di Siria Oropaste

Quest’ultima rappresentò a Lucca il 26 maggio del’ 27 per sua beneficiata, invitando il pubblico colle parole seguenti : « L attore che osa porgere il presente invito, ha cercato nel tragico grandioso spettacolo, Le due Regine di Siria, e nel giocosissimo comico, Uno vale per dieci, di riunire ciò che può appagare l’occhio, interessare il cuore e rallegrare lo spirito. L’esperimentata clemenza dell’ illustre pubblico lucchese si degni accogliere il rispettoso tributo, ed onorar l’umile offerente con qualche tratto della di lui valida protezione. »

In detta sera una figliuola dell’Andolfati, l’Annetta, che non figurava nell’elenco a cagione della poca età, sostenne, nell’ Uno vale per dieci, quattro caratteri assai bene, e piacque.

Metto qui ora una notizia tratta dall’Archivio di Stato di Milano (Ministero degli affari esteri — Cartella 149) e gentilmente comunicatami dall’egregio Conte Dott. Paglicci-Brozzi.

Regno d’ Italia — Milano, 27 aprile 1808. — Il Prefetto di po lizia del Dipartimento dell’Olona, al Cons. Bossi, Commissario Straordinario di S. M. presso il governo generale dei dipartimenti dell’ ex-Piemonte — Torino.

Signore,

Eccitato da me il Sig. Capocomico Andolfati a render conto da chi abbia avuto le teatrali produzioni, delle quali fa cenno il pregiato di lei foglio, 7 corrente, N.° 375 ; depose di avere acquistata l’opera « Il piano di fortificazione, » da certo Sig. Tofoloni di Verona, {p. 51}di professione comico, e l’altra intitolata « Un quadro di filosofia » dal Sig. Carlo Cattaneo Fiorentino parimente comico. Fu in seguito l’Andolfati reso da me edotto che tali opere essendo proprietà dei respettivi autori e che avendo questi concesso ad altre compagnie la privativa di rappresentarle non poteva egli farne uso senza ledere i diritti altrui, per cui gli autori medesimi reclamavano un compenso equitativo. Ma egli adducendo d’ignorare una tal privativa e dichiarando, che dal momento che egli acquistò le sunnominate produzioni da altri comici, doveva necessariamente supporre, che fossero le medesime di piena loro proprietà, mi fece protesta di non credersi obbligato ad alcun compenso. Ho in seguito saputo, che i comici Sig.i Tofoloni e Cattaneo trovansi attualmente a Piacenza facendo parte della Compagnia Andolfati, che si è pure colà trasferita. Ella potrà, Sig. Cons.re Commissario, quando lo creda, rivolgersi alle Autorità di quel paese per interessarle nella ulteriore trattativa di questo affare……………………

…………………………

Luini.

Giovanni Andolfati figlio di Pietro Andolfati Direttore dell’Accademia Filodrammatica di Milano, dopo aver fatto cattivi affari nel teatro Comunale Milanese (Scala) nell’estate del 1808, domanda al Vicerè un sussidio pecuniario per passare nell’autunno a Trieste, colla sua compagnia. La domanda venne respinta.

Troviamo ancora l’Andolfati nel 1834 in Compagnia di Nicola Medoni ; dopo il quale anno, probabilmente, morì in Piacenza prostrato dai rimorsi e dalla fame.

Andrà Giuseppina, torinese (citata da Giacinta Pezzana in un suo recente opuscolo, tra le alunne di Carolina Malfatti), sosteneva con garbo le parti di amorosa nella Compagnia di Adamo Alberti ai Fiorentini di Napoli, l’anno 1850-51. Morì all’ esordir quasi nella vita artistica.

Andrea Maestro. Fu comico a Parigi al servizio di Francesco I. Per l’ingresso della regina Eleonora a Parigi nel 1530, ebbe ordine dal Governatore della città di fare e comporre des farces et moralitez les plus exquises. Da un documento estratto dai Registri del Municipio, in data 12 dicembre 1530, e pubblicato da Emilio Picot nel suo opuscolo « Pierre Gringoire et les Comédiens italiens » (Paris, Morgaud et Fatout, 1878) sappiamo che Maestro Giovanni di Pont-Alaix (Jean de Lespine de Pontalletz dit « Songecreux, » come dice una nota del 1538, a proposito di somme largite dal Re a lui e a quelli della sua {p. 52}banda) in quella stessa occasione aveva consentito a riconoscere Maestro Andrea per capo e direttore.

Andreani Giovacchino, capocomico. Recitava la sua Compagnia nel 1836 al Teatro Nota di Lucca. Dalle annotazioni del raccoglitore lucchese, non pare fosse composta di troppo buoni elementi. Accanto ai nomi di Elisabetta Greco, la prima donna, è la parola cattiva ; cattivi appaiono anche Francesco Valentini e Giovanni Benati ; passabile il generico nobile Candido Checchi, e scellerato il primo amoroso Tommaso Paoli. La sera del 25 maggio 1836, dopo la recita Il Cavalier di spirito, vi fu il regalo di un orologio, vinto dal 1° estratto. Tutti coloro che avean preso un biglietto, vi concorsero, e l’esecuzione (sic) ebbe luogo alla presenza e sotto l’immediata ed assoluta sorveglianza di agenti del Buon Governo. L’abbuonamento per 10 recite fu di lire 2.10, e figuravan tra quelle Il Bugiardo, Il Cavalier di spirito, La contraddizione e puntiglio.

A questo aggiungi altri artisti della stessa famiglia : Rosa, Vincenzo e l’Adelaide, già prima attrice assoluta, e prima attrice di spalla oggi al fianco di Pia Marchi-Maggi, col marito Brignone, il brillante della Compagnia.

Andreazzo…….. (?), fu attore di grido per le parti del Dottore. Se lo disputavano nel 1590 il Duca di Mantova e l’Ill.mo Cardinale Montalto (Alessandro Peretti Damasceni, nipote di Sisto V, e Vice Cancelliere di S. Chiesa). L’ Andreazzo si era scritturato colla Compagnia della Diana Ponti che doveva recarsi a Roma al servizio di esso Cardinale ; ma poi offertigli denari a piacer suo per conto del Duca dal Conte Ulisse Bentivogli di Bologna, promise che avrebbe trovato modo di sciogliersi dalla Compagnia. Ma il modo veramente non trovò, e la stessa Diana aveva spedito a posta al S.mo di Mantova per dimandar favore che detto Graziano andasse con loro a Roma. Alla quale istanza non fu risposto ; e però l’ Andreazzo se ne {p. 53}andò a Roma, promettendo al Bentivogli che, ove S. A. mostrasse ancora desiderio di averlo, vi andrebbe. Ma il Bentivogli non diè troppo peso alle promesse dell’ Andreazzo, e chiuse la sua lettera al Donati, in cui dava relazione delle trattative per la scrittura dell’ Andreazzo, con queste parole : « Sappia bene V. S. che questo è un bordello d’ innamoramenti di p…… con questi furfanti ; e questo è quanto mi occorre per hora. »

Andreini Francesco. Piuttostochè dal Bartoli, trascrivo letteralmente parte delle notizie dell’ Andreini dall’opera magistrale di Alessandro D’Ancona, che quelle del Bartoli restrinse e tradusse in lingua umana.

« L’ Andreini pistoiese, nato circa il 1548, fu dapprima soldato : militò nelle galee toscane, e preso da’ turchi, stette ott’anni schiavo. Fuggì, e tornato in Italia, si diede alla professione di comico, probabilmente unendosi a’ Gelosi, dapprima facendo le parti d’innamorato, poi creando quella di soldato superbo e vantatore, col nome di Capitan Spavento della Val d’Inferno. Si provò anche con lode agli altri personaggi del Dottor Siciliano, del negromante Falsirone e perfino del pastore Corinto. Capo della Compagnia comica che andò in Francia nel 1600, e fu acclamatissima dal Re e sua famiglia e da tutta la Corte, restò oltr’Alpi fino alla morte della moglie ; dopo questo triste caso, che lo privava di una consorte bella e fedele e di una inarrivabile compagna nel giuoco scenico, abbandonò il teatro e si ridusse a Venezia. Pubblicò nell’anno 1607 le Bravure del Capitan Spavento, nell’ 11 le due favole boschereccie, l’Ingannata Proserpina e l’Alterezza di Narciso ; l’anno dopo, i Ragionamenti fantastici posti in forma di dialoghi rappresentativi ; nel’ 16 raccolse le Lettere e i Frammenti di scritture della moglie, e nel’ 18 mise fuori la seconda parte delle Bravure. Così il suo pensiero era quasi costantemente volto al teatro, al quale avviava il figlio Giambattista. Morì in Mantova a’ 20 agosto del 1624. » Fin qui il D’Ancona.

{p. 54}

Enrico Bevilacqua ha testè pubblicato un accuratissimo studio su Gio. Battista Andreini e la Compagnia de’ Fedeli (Giornale storico della letteratura italiana, vol. XXIII). Venendo egli a parlare dei genitori di lui, mette in rilievo alcune parole colle quali un Don Gio. Maria Pietro Belli, dedica a Bartolomeo Dal Calice la Maddalena, poemetto in tre canti e in ottava rima di esso Gio. Battista, di cui era tenerissimo amico. La notizia, inavvertita finora, si trova nell’edizione di Venezia (Giac. Ant. Somasco, 1610), mentre i più forse, come me, hanno veduto quella illustrata del mdcxxviii, stampata a Praga da Sigismondo Leva, e dall’ Andreini dedicata all’illustrissimo, eccellentissimo et reverendissimo Principe il S. Cardinal de Harrach, Arcivescovo di Praga. Ecco le parole del Belli riportate dal Bevilacqua :

« L’uno (Francesco Andreini) è de’ Cerrachi di Pistoja, hora detti dal Gallo : nella qual casata vive il molto illustre Signor Cavaliere Gallo, e l’Eccell.° Signor Dottore suo fratello ; et l’altra (Isabella) è de’ Canali da Venetia, già figlia del Signor Paolo Canali ; sì come l’autore, in conformità del vero, un giorno a pieno farà intendere, e la cagione perchè fin ad hora si sieno chiamati degli Andreini…. »

Ma poi nessuno scritto dell’Andreini, ch’io mi sappia, è comparso a questo proposito, nè dalli archivi pistoiese e fiorentino mi fu dato rintracciar notizie di sorta sulle nominate famiglie Cerrachi e Dal Gallo. Il Bevilacqua molto saviamente suppone che la cagione di tal mutamento di nome fosse tutta nel non aver voluto palesare quello vero della famiglia, per un pregiudizio, non interamente scomparso nemmeno oggi…. Andreini sarebbe dunque semplicemente un nome di guerra, come quello famoso di Molière, assunto, per la stessa ragione, dal giovane tappezziere Poquelin (V. Soleirol, Molière et sa Troupe, Paris, 1858).

« Egli — aggiunge il Bevilacqua in una nota al citato studio, pag. 88, 4 — pubblicò ancora Alcune Rime, fra quelle di diversi altri, In morte di Camilla Rocha Nobili, comica {p. 55}confidente, detta Lelia (Venezia, Ambrogio Dei, 1613) ; due Sonetti ed un Madrigale, premessi fra versi d’ altri autori, al Mincio ubbidiente di suo figlio G. B. ; infine qualche altro sonetto o breve componimento inserito qua e là in iscritti altrui. Fra i nojosi prologhi di Domenico Bruni (V.) s’ attribuisce a Francesco Andreini il nojosissimo prologo di un ragazzo. »

[http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-01_1897_img015.jpg]

Veramente il Bruni (Fatiche comiche di Domenico Bruni detto Fulvio, Comico di Madama Serenissima, Principessa di {p. 56}Piemonte) dice che il signor Francesco Andreini marito della famosissima Isabella gli fece imparare un Prologo, ecc. ecc. ; non sappiam dunque perchè lo si debba attribuire alla penna dell’Andreini. Ad ogni modo, a me non pare, come al Bevilacqua, tenuto conto anche dell’età del recitante (il Bruni aveva quattordici anni) così noioso. Lo pubblico nella sua integrità per alcune frasi di non poco interesse nella storia intima, dirò così, dell’arte drammatica.

prologo da ragazzo

Io anderò, poi che voi tutti quanti uniti insieme me lo imponete, ma se da principio ero avvisato di questa straordinaria fatica, affè, affè che non mi ci coglievi.

Venga il canchero a questa professione e a chi ne fu lo inventore ! Quando mi accomodai con costoro, mi credevo di provare una vita felice : ma la ritrovo appunto una vita da zingari, quali non hanno mai luogo fermo, nè stabile. Oggi qua, domani là ; quando per terra, quando per mare : e quel ch’ è peggio, sempre vivendo su l’osteria, dove per lo più si paga bene, e stassi male. Poteva pur mio padre mettermi a qualche altro mestiero, nel qual credo che avrei fatto miglior profitto, e senza tanto travaglio, poichè chi ha arte ha parte in questo mondo, soleva dire Farfanicchio mio compagno. Pazienza ! Io ci sono entrato ; e basta in questa professione romperci un pajo di scarpe, per non se ne levar mai più. Ma poi che questo mi deve avvenire, io voglio aver questo avvertimento di esser sempre nelle compagnie migliori e più onorate ; perchè, oltre lo imparar da quelle, non avrò timore di essere biasimato come molti, nè per ignorante, nè persona infame. Ed ho speranza, come incomincio a far la barba, di recitar la parte dello innamorato, ornandomi di bellissimi vestiti, concetti e grazia. Faccia da Franceschina, da Pantalone, da Graziano, da Francatrippe, o da Zanni chi vuole ; io per me voglio far la parte del gentiluomo per essere sempre tenuto tale !… Ma…. infelice me, che mentre ho ragionato con voi, signori, mi sono dimenticato il Prologo che questi miei padroni m’avevano imposto che facessi ! Però, state attenti. Nobilissimi signori ; Platone nel suo Convivio…. non fu Platone…. Ah, si, me ne ricordo : Aristotile nella sua Politica…. non fu manco Aristotile !… Venga il canchero a questi autori cosi grandi e fantastici ! M’ hanno di maniera avviluppato il cervello che non mi ricordo più nè di Prologo, nè di altro. Voi, signori, per questa sera farete senza prologo, che la comedia non sarà men bella. — Addio.

Fin d’allora dunque si malediva alla vitaccia zingaresca e stentata dell’arte ; e anche allora, una volta messo il piede sulle tavole del palcoscenico, non si sapeva più come levarsene.

Di questi tempi, il signor Domenico Lanza pubblicò per le nozze Solerti-Saggini (Pinerolo, Tipografia Sociale, 1889) un capitolo inedito del nostro Francesco, tratto dalla Biblioteca nazionale di Torino, e segnato nel catalogo pasiniano col numero cxlii (Codex CXLII, chartaceus, constans foliis II, sœculi XVII).

[n.p.]
[n.p.]

Eccone il titolo : Il felicissimo arrivo del Serenissimo Don Vittorio Prencipe di Savoja insieme col Serenissimo Don Filiberto suo fratello nella famosa città di Torino, descritto in verso sdruciolo da Francesco Andreini, comico Geloso detto il Capitano Spavento.

Il Capitano Spavento da Valle Inferna.

Il capitolo è preceduto da una lettera dedicatoria al detto Serenissimo Prencipe, che non è davvero il migliore esempio di stile epistolare, e consta di 265 versi sdruccioli mediocrissimi per concetto, per forma, per…. tutto. Basti l’introduzione a dar l’idea del resto.

Quel giorno così lieto e si festevole, giorno sacrato al sempre biondo Apolline nel quale i figli del gran pastor Carolo tornando lieti dal gran lito Hiberico entraro dentro del lor patrio Hospitio : hoggi qui canto, in ripa al chiaro Eridano. Tu musa, ai grandi amica alma Calliope, prestami il tuo favore, acciò che i ritimi, habbiano qual che forza in questo genere. Ed ecco ch’ io mi movo, e do principio a l’alta impresa in questi bassi sdrucioli.

Già convocati havëa l’Archimàndrita Carlo pastor,………………………………..

Come l’Andreini restasse addolorato per la morte d’Isabella, sappiamo dalle varie prefazioni alle opere sue. Basterà che si trascrivan qui le parole con cui Corinto Pastore si volge alla defunta sua Fillide, nel discorso preliminare alle Bravure del Capitano Spavento (Venetia, appresso Vincenzo Somasco, m. dc. xxiiii).

O fortuna inconstante, o corso variabile, o speranze di vetro, o sorte nemica a’ miei desiderj : qual cuore di durissima selce, saldo alle più dure lagrime non verserà per gli occhi duo vivi fonti d’amarissimo pianto ? Qual duro marmo avvezzo nel rigor del più gelato verno, dal continuo percuotere delle mie cadenti lagrime non resterà cavato ? E quale ircana tigre, colma d’ira e di fellonia, non diventerà pietosa a’ miei lamenti ? Fillide, anima cara, e {p. 58}consorte mia carissima, mentre che tu vivevi, erano per me i giorni chiari e sereni ; mille e mille amabili pensieri m’ ingombravano la mente, la fortuna dolce e propizia a’ miei voti, e il cielo arrideva a’ miei contenti : ma ora che tu sei rinchiusa dentro a freddo sasso, avendo teco rinchiuse le virtù tutte, e le bell’opere, s’è talmente cangiato il mio destino, ch’altro non mi rimane, che la memoria d’averle vedute e amate.

Ecco i due epitaffi che egli dettò per Isabella sua : il primo scolpito in bronzo sul sepolcro di lei in Lione, il secondo stampato nella nuova edizione delle di lei rime.

D. O. M.

Isabella Andreina Patavina mulier magna virtute praedita. Honestatis ornamentum, maritalisque pudicitiae decus, ore facunda, mente fecunda, religiosa, pia, musis amica, et artis scenicae caput, hic resurrectionem espectat.

Ob abortum obiit 4 Idus Iunii 1604 annum agens 42.

Franciscus Andreinus conjux moestissimus posuit.

D. O. M.

Carissima Uxor, Isabella dulcissima, Franciscus tuus hoc tibi condere monumentum curavit, si caret gemmis, non caret lachrymis. Mecum fletu amarissimo Lugdunenses omnes ingemuerunt. Quiescat corpus in Tumulo, et anima quiescat in Deo.

Anno Sal. 1604. Die 10 Junij.

Francesco Andreini, oltre all’essere stato comico valoroso, fu anche letterato di pregi non comuni. Il Falsirone rappresentava parlando – scrive egli stesso nel XIV ragionamento delle Bravure – diverse lingue, « come la francese, la spagnuola, la schiava, la greca, e la turchesca. » La recitazione di Corinto alternava con la musica, « suonando varii e diversi stromenti da fiato, composti di molti flauti, cantandovi sopra versi boscarecci e sdruccioli ad imitatione del Sannazaro, detto Atio Sincero pastor Napolitano. » – Parlando alla sua boscareccia zampogna, nel discorso citato, dice : « rimanti per sempre appesa a questa verde et onorata pianta, e teco rimangano per sempre appesi {p. 59}a questi verdi e onorati tronchi tutti gli altri miei pastorali strumenti solo inuertiti a gloria e onor della mia cara Fillide. »

Quando a Vincenzo figlio del Duca di Mantova piacque di formare una sola ottima Compagnia di tre non compiutamente buone, ebbe in mente l’Andreini come direttore, il quale non accettò le proposte del Principe, perchè legato a’Gelosi, ed in particolare ad Alvise Michiele, padrone della stantia di Venetia. Il D’Ancona (op. cit.), che al proposito dell’Andreini, parlando in una nota (vol. II, pag. 468, 3) di registri di spese teatrali in Linz, prodotti da Giov. Meissner (Die englischen Komödianten zur zeit Shakespeares in Osterreich. Wien, 1884) da cui resulta che : il 16 dicembre 1568 « Franncischco Ysabella Camediannte » ricevette venti Talleri, dice : « ma qui è lecito credere che di due persone si sia fatta una, e che si tratti de’ conjugi Andreini ; » e forse perchè, essendovi altre spese pagate a Giovanni Tabarrino e a Flaminio, si volle dedurne, e a Carlo Trautmann stesso (Italienische Schauspieler am bayrischen Hofe. München, 1887), non parve improbabile, che si potesse trattare dei Gelosi. Ma mi si permetta di non accettare la deduzione. Lascio il Tabarrino, o Taborino che sia : egli era nel 1570 alla Corte di Vienna. Lascio il Flaminio (Scala), che, divenuto capo de’ Gelosi nel 1574, poteva fors’anco avere appartenuto a que’ primi Gelosi, di cui fu parte la famosa Lidia da Bagnacavallo. Ma pei coniugi Andreini ? Come avrebbe potuto Francesco recitare a Linz nel 1568, se, nato nel 1548, fu dapprima soldato, e a venti anni, cioè nel 1568, fu preso dal Turco, rimanendo schiavo per otto anni, cioè fino al 1576 ? E l’Isabella, nata il ’62, non avrebbe avuto allora sei anni ?

Il Francisco Ysabella di Linz non poteva dunque riguardare gli Andreini, per quanto strana possa parere la coincidenza di quei nomi, di cui, se disgiunti dagli Andreini, non abbiam, per quel tempo, altre notizie.

Quanto al tipo del Capitano Spavento, pel quale più specialmente Francesco Andreini è divenuto celebre, basti dare un’occhiata al primo ragionamento delle sue bravure per {p. 60}farsene un’idea. Quest’uomo che si fa annunziare : Capitano Spavento da Valle inferna, sopranominato il diabolico, Principedell’ordine equestre, Termigisto, cioè grandissimo bravatore, grandissimo feritore e grandissimo uccisore, domatore e dominator del l’Universo, figlio del terremoto e della saetta, parente della morte e amico strettissimo del gran diavolo dell’inferno ; quest’uomo che udito, quando era ancora nel ventre della madre, il desiderio del padre di avere un maschio, nasce femmina per pietà del mondo ch’egli avrebbe distrutto, se nato maschio ; che per intimar guerra all’esercito nemico, carica di sè stesso un cannone, e novo projettile, armato di scudo e di stocco, arriva con orribil fragore nel campo, e uccide duecento o trecento soldati ; che mangia la minestra di perle orientali dentro una scodella di finissimo corallo col cucchiajo di carbonchio ardente ; che divora in due bocconi una balena arrostita sulla graticola, che beve in un sorso, brindando agli ospiti, tutta l’acqua del fiume Giordano ; que st’uomo, che non contento di un sol nome spaventoso, si fa anche chiamare Ariararche, o principe della milizia, Diacatolicon, o capitano universale, Capitano Melampigo, o capitano cul nero, Capitan Leucopigo, o capitano cul bianco, è fratello carnale dei Spezzaferri, Matamoros, Fracassa, Terremoti, Rinoceronti, Coccodrilli, Scaramuccia, Spacca, Cardoni, parlando dei più noti ; e dei Spezzamonti, Bonbardoni, Grilli, Mala Gamba, Bellavita, Babei, Taglia Cantoni, a noi tramandati in effigie, che oserei chiamare di esattezza storica molto {p. 61}problematica, dal bulino incomparabile di Giacomo Callot ne’suoi Balli di Sfessania, divenuti omai pressochè introvabili, e ch’io riproduco dall’originale. Ho detto « esattezza storica problematica ; » e corroboro questo mio avviso colla osservazione non superficiale sulle creazioni infinite e, oserei dire, gaiamente indiavolate, del grande artista : si direbbe quasi che i tipi della Commedia italiana fossero la base di tutta l’opera sua. Nei Balli di Sfessania la caratteristica dei personaggi è di esser lunghi, secchi, allampanati, dinoccolati ; nella grottesca collezione de’gobbi la caratteristica è di rincontro quella di esser nani, pingui : tolta questa caratteristica, il tipo è lo stesso, avente per nota dominante la maschera dal naso aguzzo e le due enormi penne sul cappello o berretta. Date queste variazioni del tipo, noi troviam capitani pressochè dappertutto ; dalla Fiera della Madonna dell’Impruneta alle Tentazioni di S. Antonio : e oltre ai capitani, troviam Lavinie e Lucie e Pantaloni e Mattaccini d’ogni specie nelle stupende incisioni della Guerra d’Amore, Festa del Serenissimo Gran Duca di Toscana fatta l’anno 1615. Comunque sia, accettiamoli questi tipi come rappresentanti della Commedia italiana nell’intenzione del Callot, al quale dobbiamo di alcuni di essi non solamente il costume, ma fin anco la conoscenza.

II Capitano.

(Fac-simile di un disegno a penna di Iac. Callot).

Di tutti i capitani spagnuoli è primo Capitan Cardone, che Michelangiolo Buonarroti il giovine così descrive nella Fiera :

…. Vedete
quel capitan Cardon stare interato,
scagliar le gambe e quei mostacchi neri
spietato arroncigliarsi
{p. 62}simulando fierezza e crudeltade ;
e granciti i pendagli
colla sinistra, star pronto per porse
la destra a trar la spada
a fender monti e penetrar nel centro,
tagliar le corna a Pluto e per la coda
preso ed entrato poi quasi in savore
della palude Stige,
vivo e crudo ingojarselo. Codardo
poi più d’un birro. Ecco ch’e’passa e spira
bravura, e pauroso par che stia
sull’ali per fuggir : vera espressione
d’un poltron vantator valamedios ….

Troviamo anche il Capitan Cardoni, amante sdolcinato d’Isabella, prender parte nell’ Anfiparnaso, Comedia harmonica d’ Horatio Vecchi da Modena (1597). Quanto al maramao (parodia di Maramaldo) della vignetta, ne abbiam traccia nel Balduino del Corneille, tradotto dall’abate Gerolamo Gigli, di cui ecco un brano singolare, già riportato dallo Scherillo nella sua Commedia dell’Arte (Torino, Loescher, 1884).

Chi è la ? Metti mano. Prendi. Ah sei morto ! È una colonna ; buon per te che non eri un Colonnello. Cospettone ! Giuro per la bassetta sinistra di Marte, che questa notte invidiosa fa sempre delle sue al Capitan Maramao. M’ha fatto gettar via una stoccata, che percotendo di rimbalzo nel turbante del Gran Soffi, gli avrebbe buttata la testa nelle tempia del Gran Mogol, e le tempia del Gran Mogol nel mostaccio al Re del Giapone, con lasciare quel Monarca fino alla quarta generazione uomo di poca memoria, ecc. (Bologna, Longhi, senz’ anno, Scena VIII.

Io poi non credo che tutti questi capitani sieno, come altri vorrebbe, una continuazione, o meglio, un ammodernamento del celebre Pirgopolinice, il miles gloriosus di Plauto. Essi sono figli legittimi, o piuttosto variazioni più o meno accentate di un tipo, figlio legittimo del suo tempo e del suo ambiente, dovute alla fantasia e alla perizia de’varj attori che ne assunsero la maschera. Il più delle volte, a dir vero, la differenza non è che nel nome, o nella lingua ; tutto sta a chi le spara più grosse. C’ è la solita spacconata, la solita spavalderia, a cui fa sempre contrapposto una paura birbona. Le caratteristiche del dominante soldato spagnuolo arrogante, rapace, violento, fanfarone, {p. 63}ammazzasette e storpiaquattordici, s’impadronirono, per dir così, dell’ambiente napoletano, tanto da lasciarvene traccia luminosa più tardi. Così, i capitani deposero gli spadoni arrugginiti, afferrarono un nodoso bastone, e si raccolsero tutti in un tipo, chiamato Guappo. Ma se dalle scene è sparito il Capitano, è restato lo spagnuolo. La maschera chiassona, urlona, cha atterra un reggimento di soldati con un semplice guarda voi !, ha ceduto il campo al gentiluomo, inguantato, levigato, compassato, che offre a tutti e non dà ad alcuno, che spara bombe colossali colla maggior calma e serietà del mondo (vedi Fernanda, Odette, Inquilini del signor Blondeau, ecc. ecc.). Una riproduzione quasi esatta, adattata all’ambiente moderno, ce l’ha data e forse inconsciamente il Novelli nell’americano delle Vacanze matrimoniali ; un amenissimo tipo che vuole ammazzar tutti, che sbraita per cento, e alla menoma parola proferita in tuono più alto del solito, si ritrae sbigottito dietro le seggiole e i tavolini.

Nè la lista dei Capitani si fermò certo a quella nominata più sopra. Gli Zanni, cantambanchi, ciarlatani, comici volanti, direm così, se pure al nome di comici ebber diritto, avevan il loro Capitano. Ho trovato anche una canzoncina in dialetto veneziano de’ primi del ’600 (sono 8 pagine in 8° piccolo, compreso il frontespizio. L’opuscolo è il 47° della Miscellanea, Tab. I, N. III, 268, della Biblioteca dell’ Università di Bologna), intitolata : Povertà – d’un giovine – cadutoui per segui – tar la sua signora. Canzonetta nuova nella qual – s’itende come la lascia, & – l’abandona – DISPESATA DAL CAPITAN SPATEGA. – In Bologn. per gli Er. del Cocchi co. lic. de Super.). Così, la maschera del Capitano, generata a Napoli dal soldato spagnuolo, trapiantandosi con altro nome in altre regioni, ne assumeva senza dubbio anche il dialetto. Oltre a questa del Capitano Spantega, seguita da due ottave siciliane, ho trovato altre due canzoncine, riguardanti la nostra maschera, rarissime e interessantissime, che tolgo, come l’altra, dalla Miscellanea, N. III, dell’Università di Bologna, portanti la prima il N.° 21, la seconda il N.° 55, e che qui riproduco :

{p. 64}

I

CONTRASTO – di bravvra – fra il capitano – delvvio e zan badil – con due Canzoni alla Bergamasca – opera molto dilettevole, e da ridere.

In Ferrara, & in Bologna, Per il Benacci, 1613 – con licenza de’ Superiori.

(Si omettono le due canzoni alla Bergamasca, che non concernono menomamente la maschera del Capitano).

Ottaue da Capitano

Marte quando nacque io, gridò due volte
contra di Gioue tutto furibondo,
con dir, che le sue glorie gli era tolte
se vn più brauo di lui nasceua al mondo,
e che del Cielo hauria le ruote tolte,
e gettato l’harebbe nel profondo.
Rispose Gioue con faccia sincera,
Marte tu sei nel Ciel, lui Marte in terra.

Badile

Quando nasì mi tolsi la speranza
da questà fama a do sort de zent.
A quei, che tend’ogn’ hor a empis la panza,
e quei che de dormi n’è mai content.
Tost se legren vedend cres l’usanza
de bè, mangià, e be menà ol dent,
e subit nat per hauìa ol budel
Mangiè quater Castrù con vn Vedel.

{p. 65}Capitano

Dè, perchè non è viuo Ettor Trojano,
Achille, e Annibal Cartaginese,
Con quel, ch’ acquistò il nome d’Africano
Alessandro, che tutto il mondo prese,
e Pompeo con Cesare Romano,
e che meco venissero a contese,
che io gli vorrìa con questo pugno solo
tutti sbalzar da l’uno e l’altro Polo.

Badile

De’ perchè non è viu’ ades Tripò,
Zan Petta, Tabari, e Zan Fritada,
e quel valent me parent menestrò
fra i mangiador ol prim dela Valada,
Panza de Pegora, panza de Castrò,
insiem con Polenta e Zan Colada,
che me dò vant, si bè ihaves bon dent
i voreù mangià in Leuant, chigà in Ponent.

Capitano

Son quel sì grand valente capitano,
che nacqui sol di rabbia e di furore,
e al mondo non fu mai huomo inhumano,
che quanto a me habbia messo terrore ;
nè tampoco l’esercito Romano
ha fatto in guerra mai tanto rumore,
quanto che questo mio tagliente brando,
che gambe teste e braccie vo tagliando.

Badile

Mi so quel si famos Badil,
Gloria e splendor de Voltolina,
che mang’, e beu’ ogn’hor di nott’ e dì,
e sol a tend a fam fort la schina,
mi vag a betolà co i nos fachì,
doue se mangia formai e poina,
e quand’ ho fam, per satià ol ventrò,
mang’un Vedel, e un Porch’in vn bocò.

{p. 66}Sonetto del Capitano

Se Serse e Ciro hoggi fossero al mondo,
che tanto ardir mostraro pel passato,
che ’l nome suo temuto in ogni lato
era oue il Sole gira a tondo a tondo,
Alessandro e Annibale furibondo,
con Cesare e Scipione accompagnato,
che nel suo cuor mai timor ci è albergato,
se fosser viui li trarrei al fondo.
E se insieme con lor fosse Pompeo,
fra i Greci Achille, & il suo figlio Pirro,
ancor di Troja Ettòr quel Semideo.
Non ti pensar che col veloce giro
di sta mia spada mi fesser Trofeo,
ma tutti ucciderei con un sospiro.

Risposta di Badile

Deh perchè ades non è viu’ Agramant,
Re Carol, Orland, e Rinald so Cosi,
Rugier, Feraù, e Serpenti,
Grandoni, insiem con Aquilant.
Mandricard, Re d’Alger e Sacripant,
Guido Selvaz, e Astolf Paladì,
Grifo, Brunel, Oliuer, e Zerbì,
Anzelica, Marfisa, e Bradamant.
E che tug costor fus tramudat
in lasagn, in polenta, in maccarò,
col formai, col botter, accomodag.
All’hora sì faref gros i boccò,
e al desch starif semper sentat,
fina che jaues tug in dol ventrò.

II

le – STVPENDE – forze, e bravvre – del capitano – spezza capo, – et spvta saette, – Cosa onesta, & ridicolosa – Data in luce per Antonio Par – di da Lucca.

Stam pata in Padoua, Et ristampata in – Bologna, presso gli Her. di Gio. – Rossi 1606 – Con licenza de’ Superiori.

Son quel gran Spezza Capo alto e superbo,
a la cui forza ogn’altra forza cede.
Spezzo, rompo, fracasso, frango, snerbo,
chiunque auanti di me riuolge il piede.
Vo fra le selue, e col mio viso acerbo
d’Orsi e Leoni faccio horribil prede,
e quando ho fame, per satiar i denti
trangugio Draghi, Vipere, e Serpenti.
Faccio alle nube spesso oltraggio & onte,
e con vn sguardo fo sparire il sole,
e con vn calcio getto in aria un monte :
il mondo trema al suon di mie parole ;
ben mille volte ho a Cerber rotto il fronte,
e posto in fuga le tartaree scuole.
Ovunque giro, ovunque movo il passo
faccio fuggir Plutone e Satanasso.
Tanto potere e tanta forza tengo,
ch’auanti a me non è nessun, che possa
resistere ; e ben spesso a pugna vengo
con Orsi e Draghi ; e fo la terra rossa
{p. 68}del sangue loro, e a mensa mi trattengo
con basilischi e Tigri, e in una scossa
getto a terra le torri, e vo sì a dentro,
che fo tremar l’abisso e tutto il centro.
Qual è di me più brauo e più famoso,
che sol di Colobrine al mondo viuo,
getto le piante a terra, e non riposo,
ma discorrendo vado in ogni riuo ;
sbrano Centauri, e faccio sanguinoso
il pian di Lotofaghi, e doue arrivo
hanno rispetto i monti a i miei furori ;
le donne, i Cauallier, l’arme, e gl’amori.
Ho pratica di tigri, e ogni serpente ;
e di pugnar con Mostri ogn’ hor son uago ;
e al calcar del mio piè gemer si sente
il terren solo, & a un’ Istropofago
spiccai dal busto il capo, e arditamente
con questa infilza-cori uccisi un Drago.
Fugga ogn’ vn dunque sua infelice sorte,
che a centinara il giorno io do la morte.
Di Spezza Capo il nome mi fu posto,
perchè di capi sono il gran flagello ;
i basilischi uccido e mangio arrosto ;
nè nuoce al petto mio tosco o napello ;
faccio crollare i monti, e a me discosto
stanno le fiere, e quando ch’io fauello
cadon gl’vccelli giù da le lor fronde,
e al fiero aspetto mio Febo s’ asconde.
Sol con un chricco trito ogni gran monte,
e resta l’huom per me più che smarrito ;
io son colui che d’un Rinoceronte
nacqui, e di Lestrigon mi fo convito ;
son cugin di Plutone e di Caronte,
e chi mi guarda si può dir spedito,
che con vn sol stranuto (o meraviglia)
spingo vna Nave più di mille miglia.
{p. 69}Chi udì mai più sì gran fracassamento,
e proue alte e tremende che facc’io ?
Io strangolo Elefanti, e saccio il vento
tornare indietro con il valor mio ;
bisogno mai non ho d’or nè d’argento,
con questa infilza-cori ho che desio,
basta che sol io dica, ferma loco,
che ho tutto quel che voglio e non è poco.
State discosto dal mio fiero aspetto,
che dalla bocca getto fiamma e foco,
e tengo Mongibel dentro del petto,
che ovunque vado tutto il mondo infoco ;
chi a me s’accosterà vedrà l’effetto,
che in cener manderollo col mio foco ;
nè con altro combatto che col fiato,
col quale abbruggio il mondo in ogni lato.
Trema ogn’uno per me, sospira e lagna,
e col mio nome fo tremare il centro :
ovunque io vado spazzo la campagna
de’ Mostri, e cadon le città dov’entro ;
alla mia forza valorosa e magna,
cedono i fier Ciclopi ; e tengo dentro
dal petto un arsenal pien d’Alabarde,
di Spade, Ronche, Picche, e di Bombarde.
Non vi accostate, o miseri mortali,
che da la bocca mia sputo saette,
e le parole mie son tutte strali,
con quali al mondo spavento si mette ;
fuggon da me le fiere e gli animali,
l’aria ne langue, e van le nube strette
insieme, ch’ han timor molto e non poco,
di non restar consunte al mio gran foco.
Trema, si crolla, s’ange, e si tormenta
il Mondo tutto al mover le mie piante,
da me fuggon le belve e si spaventa
il fier Leone, il Drago, e l’Elefante ;
{p. 70}geme la Terra e forte si sgomenta,
cadono i monti e seccansi le piante,
fa il Mar tempesta, e mena gran fortuna,
e per non mi veder fugge la Luna.
Io ho tanta forza in questo picciol dito,
che crollar fo le Torri e i campanili,
atterro alti edifizi e adeguo a lito
i più superbi tetti, e rendo humili
i più tremendi Mostri, e al mio convito
tengo fieri giganti, a me simili,
nè polli a la mia mensa, o cappon grassi,
voglio, ma pasto mio son marmi e sassi.
E più, pascomi ancor di tigri e lupi,
questo è per me quel delicato pasto.
E fra grotte tremende e gran dirupi,
a caccia vado e con tutti contrasto ;
e fuor d’atre spelonche, e statui cupi
tiro i serpenti, & il lor dosso attasto
con la mia claua, che ogni forza attera,
che d’Ercole fu già, mentre viv’era.
Udite, udite, questa è una gran possa,
pian, pian finisco il mio combattimento ;
Caucaso, Tauro, Atlante, Olimpo, & Ossa,
sentendomi parlar prendon spavento :
e al mover del mio piè si move, e scossa
il globo tutto, & al fuggir non lento
Marte si mostra, e per i miei furori
non v’è più donne, Cavalier, nè amori.
Il più bravo di me mai fu trovato
e basta sol ch’io guardi per traverso ;
e da quest’e da quel signor chiamato
son per mia fama in tutto l’Universo ;
mando io in dui pezzi un cavallier’armato,
Esso, e il cavallo è in poluere converso.
Dieci elefanti, con un pugno solo,
come la fama mia ne gira a volo.
{p. 71}E che terror più grande e che spavento
al Mondo, e che flagel fia de’ viventi,
che ovunque vado apporto tal tormento,
che spirar non ardiscon manco i venti ;
mangio bombarde, schioppi, e mi contento
bever di draghi il sangue e di serpenti.
Con un martel di fabbro, io son sicuro
frangere e fracassare un uovo duro.
Ma che occorre a brauar se il mio valore
da un polo all’altro si dilata e stende,
che con un grido sol pongo terrore
al Mondo tutto, e un mio sospiro accende
l’aria, e d’intorno, ove il mio gran furore
le Nubi passa, e sopra il Cielo ascende ;
E se il mio nume giunge in quella parte,
si cacan nelle braghe Ercole e Marte.

CONTRASTO ALLA NAPOLITANA

ridicoloso

Capitano

Le brauure de sto Campione,
in tutte atti & attione,
quanno piglia la spada in mano
pare un Ettore Trojano.

{p. 72}Zanni

Questo re de li poltroni
in tutte atti & attioni,
quando piglia la spada in mano
fa le proue di Martano.

Capitano

Se sapissi questa mano,
quanti morti per il piano
spadaccini haue mannato,
resteresti spauentato.

Zanni

Io so ben che n’hai mazzati
de’pedocchi in quantitati,
se ben fai il Mandricardo,
non è il ver, che sei un bugiardo.

Capitano

L’altro giorno con un sguardo
fei stupire uno lombardo,
che ammazzai trenta spagnoli
tutti armati de pistoli.

Zanni

Questo brauo a li spagnoli
li rubbò li ferajoli.
E in Madrili per tal segno
li fu rotto addosso un legno.

Capitano

Chi de honore è tanto degno ?
per ogni Cittade, o Regno
mi ven nanti ogni Signore
a cavallo a farmi honore.

Zanni

L’altro giorno a sto Signore
li fu fatto un grand’ honore,
per rubbare no castrato,
per la terra fu frustato.
il fine.
{p. 73}

A queste si aggiungono le due operette : Bravre Tremende – del Capitano – Belerofonte – Scarabombardone da Roc – ca di Ferro – Tratenimento piaceuole in – Dialogo – Di Giulio Cesare Croce (Bologna, Cocchi, 1629) ; e Capitoli, – e pvblicatione del faustoso, e trionfante sposalicio dell’inuitto ca – pitano Marchione Pettola – Bravo Napolitano. Con quattor deci ottaue botta, e rispo – sta, sopra la Morte di Zerbino – Poste in luce per Antonio Merula Siciliano(Bologna, Per il Benacci s. a.). Dopo il nome dell’autore sono le iniziali G. C. C., e Olindo Guerrini (La Vita e le opere di Giulio Cesare Croce, Bologna, Zanichelli, 1879) non sa dir preciso se a un Merula davvero appartenga o al Croce (V. Saggio bibliografico). Io credo che non solo per questa, ma per altre simili operette sia difficile precisare il nome dell’autore. Accadeva per il Croce tra noi, quel che accadeva in Francia per il Bruscambillo (V. Gian Farina), sotto il cui nome, divenuto omai tipico, tante barzellette non sue furon pubblicate. All’articolo Bianchi (De), il Dottore de’ Gelosi, noi vedremo come uno scrittarello dato per cosa del Croce, appartenga realmente al Bianchi stesso. Comunque sia, le due operette in discorso (sono come le altre nella Bibl. Univ. di Bologna, segnate coi N.i 96, e 19) hanno importanza non lieve per la nostra maschera ; la prima specialmente, in cui il carattere ne è determinato dal seguente sonetto a’ Lettori :

Queste non son legende fauolose
Di Grilo, del Gonella o di Morgante,
Fatte per compiacer il volgo errante,
O tratener le genti curiose,
Ma l’imprese tremende e spauentose
D’vn nuouo Capaneo d’vn nuouo Atlante,
Qual non stima Gradasso o Sacripante,
Nè chi nel mar l’alte colonne pose.
Qui mandritti, rouersi, e stramazzoni,
Mangiar bombarde, sputar stocchi e spade,
Tagliar pilastri, e franger torrioni,
{p. 74}Vdrete tanta stragge, e crudeltade,
Da far impaurir Orsi e Leoni,
Non che fanciulli, o done per le strade.
Ben è la veritade,
Che costui che col guardo il mondo aterra,
Brau’a credenza, e mai non fu a la guerra.

L’operetta scritta in settenarj accoppiati ha 733 versi, di cui il primo sciolto ; ed è il solito dialogo del Capitano col servo (Frisetto), rappresentati nel frontespizio da una sgorbiatura che vorrebb’essere una incisione in legno ; dialogo di cui dà il sunto lo stesso Croce in un avviso Agli nobillissimi Lettori, in data 1° gennaio  1596.

… Non ho voluto mancare quest’anno di non entrare in campo con questa mia operetta piena di piacevolezze, facendo comparire in Scena un taglia cantone e spezza cadenazzo, il quale frappando, si vanta con un suo ragazzo scaltrito, e trincato, di hauer fatto prove fuori dell’uso humano. Ma mentre il detto taglia, spezza, urta, abbatte, e fracassa il mondo con le chiacchare, esso Ragazzo lo burla, uccella, beffa, e lo deride ; anzi fingendo farli buone le sue ragione, vien a scoprire tutte le sue vigliaccherie………………

Un terzo opuscolo del Croce che non mi fu dato vedere, è il 22° del Saggio bibliografico citato, del quale ecco la descrizione : Bravate, razzate – et arcibulate – dell’ Arcibravo Smedola vossi, sforma piatti, sbrana Le – oni, sbudella Tigre & ancidatore de gli Huomini – muorti. Chillo che frange li monti e spacca lo monno – per lo mezzo & insomma l’arci – bravura, terrore e tremore della Tier – ra e dell’ Inferno – Con la capricciosa e ben compita Livrea del detto – Smedola vosi. Opera bizzarrissima e nova – di Giulio Cesare Croce. In Bologna per gli Eredi del Cochi, 1628. Quattro carte in formato piccolo. Contengono prima – dice il Guerrini – le bravate di questo Smidolla ossa in 14 ottave, nelle quali, con qualche parola napoletana, sono narrate prodezze e vittorie inverosimili sopra draghi, chimere, ecc. ecc. « Dal che appare come fra queste dello Smidolla ossa e le ottave pubblicate (pag. 76) del Capitano Spezza capo e Sputa saette sien grandi punti di contatto. »

(Quanto agli attori che rappresentarono i varj Capitani, {p. 75}vedi De Fornaris, Fiorillo, Gavarini, Bianchi, Mangani, Boniti, Fiorilli, Benozzi, ecc. ecc.).

Parte importantissima ha un Capitan Basilisco spagnuolo, negli Amorosi Inganni di Vincenzo Belando detto Cataldo Siciliano (Parigi, David Gilio, m. dc. xi) il quale del Suo Capitano e del Nostro dice nel proemio al Benigno lettore :

Non macherò anco d’auertirti, che l’anno passato son state poste in luce le Brauure, o Rodomontate del Signor Francesco Andreini comico geloso, detto il Capitan Spavento da Vall’Inferna, marito della non mai abbastanza lodata Signora Isabella Comica Gelosa & Academica intenta, morta a Lione quattr’anni sono, vero honore della Comica eloquenza, mia singularissima & antica Padrona. Ho letto infine tutte le sue Brauure, e trouo, che in qualche luogo io m’ho apposto, ma con vn altra testura, come tu potrai vedere nell’opera sua ch’a mala pena gionta in Francia, gli hanno dato di becco, e tradottala in lingua francese, cioè francese e italiana ; ma non più che sei ragionamenti. (Le Capitan, par un Commedien de la Troupe Jalouse « Francesco Andreini » trad. par Jacques de Fontenes. Paris, Ant. Robinot, 1633, in 8°, fig. vel.).

Il Capitan Basilisco parla spagnuolo, come il Capitan Coccodrillo…. Eccone l’entrata, che dà subito l’intonazione del tipo.

Quando yo pienso a mi terribilissima estrema terribilidad de tal manera me espanto, que no puedo caber en mi mismo, yo creo que veyntidos mil maestros deguarismo no podrian contar en tres anos los hombres que maté con esta mi espada Durindana ó castiga Locos…. etc.

Importantissimo è il Capitano Fracasso che troviamo nel Beffa, Comedia del Signor Nicolò Secchi (Parma, Viotti, 1584). Bel tipo di ciarlatano, salvator della patria, amico dei Principi.

{p. 76}

Ah Dio, gran cosa, che dovunque io vo, como i Principi mi danno di naso una volta, non ponno più far senza di me : il Duca di Ferrara vecchio (buona memoria !) e’mi par anco di sentirlo : Capitano Fracasso di quà ; Capitano Fracasso di là, non gli poteva nascer fastidio, che subito non lo sputasse in seno a me : dormiva, fa tuo conto, sotto l’ombra mia.

Ogni tanto gli bisogna sentirsi accarezzar l’orecchio delle sue lodi : e si volge a’ parassiti scritturati ad hoc. Oh essi sanno il lor mestiere alla perfezione ; essi conoscono l’umor del padrone, lo strisciano, l’incensano, lo magnificano, mentre bevono e mangiano a sazietà.

Dove sei tu, Scovino ?

Qui presso ad un huomo intrepido, bellicoso, e formidabile, terrore degli eserciti, spavento de nemici, folgore della guerra, che Marte fa cacar nelle braghe, e pisciar sotto Bellona.

E dopo che Scovino e Tempesta gli han noverate varie sue imprese straordinarie a lui sconosciute, egli dice :

Cap. E quell’altra fazione, ch’io voglio dire ?

Scov. Ah, ah, me ne ricordo, e fu vero, e vi fui presente. Cancaro ! La fu brava !

Cap. Che cosa ! ? Qual vuoi tu dire ?

Scov. Quello che volete voi.

Cap. Non so quello che tu vogli dire.

Scov. Manco io, mi è uscito di mente, ricordatevene voi.

Temp. Me ne ricordo io : in Sofonia ducento, cinquecento in Alemagna, sotto Dura, cento cinquanta in Ongheria ammazzaste in quindici dì.

Scov. Questa volevo dir io.

Cap. Quanta somma d’huomini è questa ?

Scov. Sette mille, e ducento, e decinove.

Cap. Bisogna a ponto che sian tanti : tu hai fatto giusto il conto : cancaro, tu hai buona memoria.

Scov. La pancia me la sveglia.

Cap. Mentre tu sarai si osservante de’ miei fatti preclari, sarai sempre de’primi alla mia tavola.

E Tempesta allora per non esser da meno del suo collega e crescer sempre più nelle grazie del Signor Suo, esclama :

Temp. Potta di me, che pazzie si fanno in quella prima gioventù ! E’ fu un tempo che il Capitano ed io non ci mettevamo le scarpe d’altro che di barbe strappate a questo, e a quell’altro bravo ; i matterazzi e cuscini non si facevano d’altro in casa nostra.

Cap. Quante volte hai tu veduto, Tempesta, maggior fasci di barbe svelte in casa mia, che di fieno il verno ?

Temp. Non vi dico ? Non si dormiva su altro…………………………………..

{p. 77}

A questo del Secchi fa riscontro il bravo (Spavento) del Parabosco nel Pellegrino, ove sono le medesime fanfaronate e più volte le medesime parole :

…. oh io ti giuro
che il letto dove io dormo è fatto tutto
de’ peli de la barba di coloro
c’ hanno avuto tal’ hor la mia disgratia.

Nel Servo fedele, Commedia nuova per Tiberio Lunardi, bolognese (Venezia, Altobello Salicato, 1597, in 8°) il bravo si chiama Tagliavento, ed è la solita rifrittura dello spaccone che sbraita per dieci, e ne busca per venti, a cui si contrappone il solito servo, Trema, gran capitano anche lui,… in cucina.

Degno di maggior nota è il Capitan Frangimonte, nella « Regina Statista d’Inghilterra, et il Conte di Esex, Vita, successi, e morte, di Nicolò Biancolelli (V.) » annunziato nella scena sesta dell’atto primo col nome di Capitan Scarabombar done. Fuorchè nel primo discorso di detta scena, che ha il peccato d’origine, questo Frangimonte, Capitano della Guardia, diviene un semplice mortale, millantatore, fanfarone talvolta con Picariglio il servo del Conte, ma semplice e ossequioso sempre con la Regina. Su questa tragedia, per l’interesse e situazioni drammatiche a grande effetto pregevolissima, avrò da tornare al nome di Biancolelli.

{p. 78}

Nello Spedale, comedia del signor Conte Prospero Bonarelli Della Rovere (Macerata, Grisei, m. dc. xxxxvi) il bravo si chiama Termodonte ; del quale trovo assai notevole l’entrata in compagnia di Sandron suo parassito, a cui narra l’origin sua.

ATTO II

SCENA PRIMA

Termodonte, Capitano. Sandron, Parasito

Chi credi tu, o Sandron, che fusse colui che uccise lo spaventoso serpente di Lerna, il Leon Nemeo, l’arcadico Cignale, e che strascinò fuor dell’inferno al dispetto del grandissimo Diavolo, l’arrabbiato Cerbero ? Chi scornò il superbo Acheloo, chi fra le proprie braccia fece crepar quel gigantonaccio di Anteo, e chi finalmente diè fine al resto di quelle dodici famosissime imprese, delle quali son piene l’istorie e le favole ? A dirtelo, io fui quello. Chi pensi tu che fosse quell’altro che diè la vittoria a’Greci contro i Trojani, ammazzando di sua propria mano quasi tutti i figliuoli di Priamo, & in particolare il sforzatissimo Ettorre ? Sono stato io. Chi t’imagini tu che sia stato quell’altro, che domò gl’infuocati Tori di Colco ? Io pure fui quello. E colui che liberò dalle ingorde fauci della smisurata Balena la bella Andromeda ? Quell’anco io fui. E ne’tempi meno antichi, dimmi, chi ti dài tu a credere che fusse colui, che in quel famoso duello ammazzò di sua mano il superbo Agramante e il fier Gradasso ? Sono stato io. Si come quell’altro finalmente chiamato il fatal guerriero, per cui fu tolto il giogo indegno a Gerusalemme ; e così va tu discorrendo di mano in mano, che troverai che io sono stato non solo Ercole, Achille, Giasone, Perseo, Orlando, e Rinaldo, ma qualunque altro più famoso e bravo non sol soldato, ma Capitano che sia mai stato, sia, o sarà al mondo. E tutto questo in virtù dell’ opinione di quel filosofo, che tiene che l’anime vadino passando da un corpo nell’altro, laonde l’istessa anima, che informò prima Ercole, e poi gli altri suddetti, è passata finalmente in questo mio corpo, e però coloro ed io siamo gl’istessi, anzi con la medema dottrina io ti potrei giurare di tenermi nel corpo non solo l’anima di quei bravacci, ma quella ancora del più forte Leone, della più spietata Tigre, dell’Orso più arrabbiato, e del più fiero Drago, che nodrissero giammai le selvose montagne dell’Asia, o le arenose campagne della Libia.

Per quanto concerne le prime apparizioni del Capitano in sulla scena, non è male dare uno sguardo alla Farsa satyra morale di Venturino Venturini di Pesaro (prima del 1521), della quale Lorenzo Stoppato pubblica un sunto nel Capitolo V de’suoi saggi — La Commedia popolare in Italia (Padova, 1887). Il bravo (Spampana) così entra in iscena dimostrandosi in parole e in gesti brauissimo brauo.

Credete a me che haueste gran sapere
Voi Dei, che ue ponesti tanto ad alto ;
perchè non ho la forza col uolere.
{p. 79}Ch’io salirei la suso al primo salto,
e ui farei con questa spada in mano
tutti qui traboccare al terren smalto.

E va continuando in questo tenore per tredici terzine.

Altro tipo di Capitano è il Giangurgolo calabrese, il quale fonda il suo carattere più specialmente sulla voracità. Ceduta la Sicilia a Vittorio Amedeo di Savoja, i gentiluomini spagnoleggianti si ridussero a Reggio di Calabria : spagnoleggianti per partito, spagnoleggianti per costume ; chè, affamati e {p. 80}stangati com’ erano, tutti guardavan d’alto in basso, infilando spacconate una più grossa dell’altra. Giangurgolo, Giovanni il goloso, (?) ne era la caricatura. I maccheroni ordina a carrate, il pane a barrocciate, il vino a botti. Solo, si batte contro le pareti con inaudito coraggio ; pauroso all’eccesso, schiva le donne, se bene ad esse attratto, perchè non vorrebbe sotto qualche sottana si celasse un uomo. Principe siciliano vorace, libertino, millantatore, non serba l’incognito che dinanzi agli sbirri : e si capisce. La caratteristica della maschera di Giangurgolo è il naso di cartone enorme : il vestito è, nell’insieme, di nobile spagnuolo col cappello acuminato che ricorda quello del pulcinella. La maschera riprodotta qui dietro è la stessa, incisa dal Joulain, che il Riccoboni pubblica nella sua opera (Histoire du Théâtre Italien. Parigi, 1727, in 8°).

Non sempre, come accadde di molte maschere, il Giangurgolo fu capitano. Col mutar degli attori, se ne mutò anche l’indole sulla scena. Fra gli Scenarj inediti della Commedia dell’arte pubblicati da A. Bartoli, ve n’ha alcuni (I quattro paggi, I tappeti, ovvero Colafronio geloso) ne’quali Giangurgolo è uomo di Corte e oste ; intraprendente, astuto, compiacente. Qualche volta, pur restando sempre calabrese, muta anche il nome. Nella commedia del Dottor Pietro Piperno (Disperarsi per la speranza, overo La perfida Fida. Napoli, Mollo, 1688) la maschera di Giangurgolo ha assunto il nome di Morello e il carattere di un servo sciocco e pauroso. Ho detto : la maschera di Giangurgolo, perchè, evidentemente, così dall’ incisione che è qui nel frontispizio, dove si vede Morello collo stesso naso e collo stesso cappello, caratteristiche del capitano calabrese, come dalla commedia stessa, nella quale egli è chiamato semplicemente Calabrese, e per beffa bello naso, e nella quale dopo aver detto a un certo punto a Taccone : lassa mi dunari sta littra, si sente da lui rispondere : tu puro puorte lettere ? E scusame, Culabria mia…. ; evidentemente, dico, vediamo non trattarsi d’altro che del Giangurgolo, o meglio del calabrese, di cui Giangurgolo non era che un lato.

{p. 81}

Tutti traducono Giangurgolo : Giovanni gurgolo, o goloso. Nel Trionfo di Scappino di Zan Muzzina (V. Bartolommeo Bocchini), è fra gli Zanni un Zan Gurgola, da cui forse è venuto erroneamente il nome di Giangurgolo, come da Zan Ganassa si volle fare da alcuni Giovanni Ganassa (V.). Al proposito delle trasformazioni accennate più sopra, noi troviamo nel Perrucci (Arte rappresentativa) queste precise parole : « quando poi il Calabrese a cui dàssi nome di Gian Gurgolo passa alla parte di Padre, si servirà delle regole de’ Vecchi, osservando di quelli i costumi. »

{p. 82}

Ecco il saluto Calabrese alla Donna con bravura, che trascrivo dal citato libretto assai raro del Perrucci, nella traduzione italiana ch’egli stesso ne dà.

Ben habbia quando ti vidi ; coteste treccie son ligami d’oro, funi, e cordelle, ch’hanno cinto d’intorno l’ Ercole della Magna Grecia. Quegli occhi, che vibrano saette hanno pertuggiato, succhiato, bucato, perforato il cuore al cuore di tutti i cuori miei ; la bocca è un Fialone, ove fanno nido le Grazie ; e Amore fatto ape vola al Ozimo, o Basilico di frondi grandi per suggere il miele dall’alma del fiore di Zumpano (Casale di Cosenza), le tue narici son pezzi d’artiglieria, che sbarando, e colpendo in questo petto fanno un dirupo della Casa matta della Bravura del Mondo. In somma cotesta bellezza è lo specchio d’Archimede, che accende un incendio nelle viscere del più gran Capitano degli Eserciti. Dunque giacchè mi prendesti come Pettirosso, Beccafico, o Monedula al trabocchetto, non mi far desiare, liquefare, e andare in succhio. Brami cinque o sei città di quelle che pose Platone nel concavo della luna ? Vuoi il grembiale di Giunone ? La Spada di lama della Lupa di Marte ? La falce di Saturno, lo Scudo di Pallade ? I cavalli saltanti del sole ? Che faccia boldoni del Sangue di Venere ? Brami il Colascione che fece d’una tartaruga Mercurio ? Apri la bocca, che se ben vorresti il Pitale di Giove fatto di Stelle, e l’orinale d’un pezzo di luce te lo porterò ; e con un passo disteso, ascendo al cielo, pongo sossopra il firmamento, e fo saltare a calci in culo gli Arieti, i Tori, i Leoni, gli Scorpioni, i Gemini, le Orse, gli Asini, e tutte le Bestialitadi delle stelle.

A complemento dello studio sulla maschera del Capitano, V. anche Adolfo Bartoli (op. cit.) che nella sua dotta introduzione a pag. liii, liv, lv riferisce i vari nomi de’ Bravi nelle varie commedie, e a pag. clxix, clxx i nomi dei Comici che più si acquistaron fama nella rappresentazione di alcuni di quei tipi.

Quanto l’ Andreini studiasse attorno al Capitano Spavento, sappiamo dal discorso preliminare alle sue Bravure.

Gentilissimi lettori, mentre ch’ io vissi nella famosa Compagnia dei comici gelosi (il cui grido non vedrà mai l’ultima notte) mi compiacqui di rappresentar nelle commedie la parte del milite superbo, ambizioso e vantatore, facendomi chiamare il Capitano Spavento da Vall’ Inferna. E talmente mi compiacqui in essa, ch’io lasciai di recitare la parte mia principale, la quale era quella dell’innamorato. E perch’ io bramava di preservarmi, e di non dicadere da quel grido che acquistato m’avea in quei tempi famosi, mi diedi con molto studio allo studio della parte del sopranominato Capitano solo per renderla, più che per me si poteva, ricca e adorna.

Per mostrare quello ch’era, o che avrebbe dovuto essere il Capitano, mi piace riportar qui le parole di Pier Maria {p. 83}Cecchini, altro comico valoroso di quel tempo : e così man mano andrò facendo citando a ogni suo luogo quelle altre parole concernenti altri tipi di commedia ; parole che dànno più che mai l’idea di quel che fosse a que’ tempi la scena italiana.

Capitano

Questa iperbolica parte par che suoni meglio nella Spagnuola, che nell’Italiana lingua, come quella a cui vediamo esser più proprij, & più domestici gl’ impossibili. Hora vien questo personaggio si nell’uno, come nell’altro Idioma esercitato con tante le sconcertate maniere, che il purgarlo da i superflui sarebbe al certo un ridurlo poco meno che senza lingua. Che uno di questi tali dichi, che la Regina di N. muora per lui, questo puol derivare da una pazza opinione fondata su la benignità di uno sguardo ricevuto forsi anche a caso da quella Maestà. Ch’egli si vanti di generalissimo in Fiandra, questo si è veduto in altri a’ quali per ischerzo sono state {p. 84}appresentate Patenti false. Ma ch’egli ha il Coliseo di Roma per Pallone, & la torre de gl’Asineli da Bologna per bracciale, & che se ne vadi trastulando per solazzo, ò questo non si può udire senza tenerlo per pazzo, & s’ è tale perchè poi darli tua figlia, ò tua sorella per moglie ?

Piace, & è di molto diletto questa nobilissima parte quando vien però leggiadramente trattata da personaggio habile di vita, gratioso di gesto, intonante di voce, vestito bizzaro, e tutto composto di strauaganze, il quale poi si eserciti in parole, benche di lor natura impossibili, tuttauia credibili da chi abbandona la mente nel vasto delle glorie come sarebbe il dire :

« Quando che il Turco seppe il mio arriuo al Campo sotto Buda, non osò mai di uscir dalle tende entro le quali non si teneua meno sicuro sin tanto, ch’egli non seppe ch’io haueua lasciato la mia spada in Vienna per farli un fodro della pelle di Suliman Sultan.

« La stragge ch’io feci dell’inimico, risserba per segnalata memoria un gran monte d’ossa, che l’Olimpo al par di quello perde il nome, & quasi pare una spatiosa pianura.

« Non è pur anche cessato il corso del sangue, ch’ io mandai per tributo al Danubio l’anno che quasi distrussi la setta maometana con quel brando, ch’io cinsi poi a Carlo quinto, quando che Trionfante entrò in Tunisi. »

Queste sono tutte cose da non credersi, ma si ben à da comportar, che le credino quelli, che sono auuezzi andar il transito per la mente a questi ridicolosi fantasmi, i quali non sono totalmente improprij a chi esercita la natura nell’ impossibilità dell’ imprese.

Io ho udito in Pariggi stando a mensa con alcuni (non so s’ io dica strauaganti, o bestiali humori) auuezzi però alle più rabbiose guerre di Europa : Io con tanti cavalli, in tanti giorni, mi darebbe l’animo di prender il Castel di Milano, & poi passarne per Italia, debellare, distruggere, fare, dire ; & perchè uno de’suoi camerata manco furioso li disse ciò non poter essere, costui saltò di tauola, & con un senso rabbioso disse : hor hora ve lo vo a far vedere ; & così veloce partì, che se non mi fosse stato detto, ch’ egli era andato a dormire io gli voleuo raccomandar certe cose, ch’io ho in Ferrara : orsù, vno di quest’ huomini si può rappresentare, su le scene, & lasciar per gli hospitali quelli, che con un salto vanno all’ Impirio a cena con Giove.

Sarebbe facil’il ridur questa parte sotto la benignità dei miei auuisi, ma mi rende alquanto di dubio la frequenza dell’uso di tanti, che l’hanno rappresentata lontana dal mio parere, onde ridotto in natura il costume parebbe loro fuori del naturale ogn’altro modo, & fuori del buon camino ogn’ altro sentiero, che calcassero, & tenessero.

{p. 85}

Potrà servir adunque a chi volesse dar principio (caso però che il parer d’altri non li piacesse più del mio).

(Frutti delle moderne comedie et avisi a chi le recita di Piermaria Cecchini nobile ferrarese trà comici detto Fritellino etc. etc. — Padova, appresso Guaresco Guareschi al Pozzo dipinto, 1628, in 4°).

Aveva ragione davvero il Cecchini, come pare a prima vista ? Si atteggiava davvero a Riformatore ? Eran proprio queste grandi differenze fra le iperboli da lui condannate, e quelle da lui difese ? Del Matamoros (Fiorillo) per esempio, il quale « per farc il Capitano Spagnuolo – egli dice nello stesso libretto – non ha hauuto chi lo auanzi, & forse pochi che lo agguaglino ? » Chi dovrebbe andare all’ ospedale ? Colui che con un salto va all’Empireo a cena con Giove, o colui che

…. non con gli occhi sol, ma ancor co ’l fiato
il ciel spaventa, & ogni stella errante,
e se contro gli vien nemico stuolo,
lo fa col soffio gir per l’aria a volo ?
(Vedi Silvio Fiorillo).

E il capitano qui ripreso era Gerolamo Garavini, il Capitano Rinoceronte, che rappresentava il suo personaggio (dice Fr. Bartoli) con armigero impeto, imprimendo timore, e vantando bravure oltre l’umano credere troppo fantastiche, e piene d’iperboli ? O prendeva argomento dalla pubblicazione del suo libretto, per isfogare contro l’autore delle brauure, morto quattr’anni innanzi, padre e suocero innocente, l’odio contro Lelio e Florinda (Giambattista e Virginia Andreini), i quali, come vedremo, furono del Cecchini e della moglie Orsola il vero, continuato tormento ?

Quanto alla Comica Compagnia dei Gelosi, della quale Francesco era capo, ecco quel ch’egli stesso ne scrive :

…. questi tali comici uniti insieme si nominavano i Comici Gelosi, quali havevano un Giano con due faccie per impresa, con un motto che diceva Virtù, fama ed honor {p. 86}ne fèr gelosi. Trappola mio, di quelle compagnie non se ne trovano più, e ciò sia detto con pace di quelle, che hoggidi vivono, e se pur se ne trovano, sono compagnie, che hanno solamente tre o quattro parti buone, e l’altre sono di pochissimo valore, e non corrispondono alle principali come facevano tutte le parti di quella famosa compagnia, le quali erano tutte singolari : insomma ella fu tale che pose termine alla drammatica arte, oltre del quale non può varcare niuna moderna compagnia di comici.

Di essa Compagnia facevano parte :

UOMINI


Andreini Francesco Capitano Spavento
Lodovico da Bologna Dottor Graziano
Giulio Pasquati da Padova Pantalone
Simone da Bologna Zanne
Gabriele da Bologna Francatrippe
Orazio, Padovano Innamorato
Adriano Valerini da Verona Id.
Girolamo Salimbeni da Fiorenza Zanobio da Piombino

DONNE


Isabella Andreini, Padovana Prima donna
Prudentia, Veronese Seconda donna
Silvia Roncagli, Bergamasca Franceschina

Per dare un vero saggio dello stile poetico dell’Andreini, non essendomi stato possibile di vedere alcuna delle sue pastorali, pubblicherò anch’io il sonetto in lode di Flaminio Scala, (V.) stampato col discorso ai cortesi lettori, in fronte al Teatro delle Favole rappresentative (Venezia, Pulciani, 1611, in 4°) di quel celebre comico, e che è qualcosa meglio di quel malaugurato Capitolo al Principe di Savoja.

Giacean sepolte in un profondo oblio
le Muse, quando tu, Flavio gentile,
le richiamasti, e con leggiadro stile
principio desti al nobil tuo desìo.
Per te godon le scene il lor natio
onore ; e già sen vola a Battro a Tile
glorïoso il tuo nome, e l’empia e vile
invidia paga il doloroso fio.
{p. 87}Godi dunque felice un tanto onore,
che’l mondo in premio de le tue fatiche
lieto ti porge, e ne ringrazia il cielo ;
quindi avverrà che ognor le muse amiche
avrai, e colmo d’amoroso zelo
a le scene darai gloria e splendore.

Nota. – Quanto al ritratto dell’Andreini riprodotto a colori da un acquarello di F. Francini e inciso da A. Fiedler della Casa Deekelmann della Chaux de Fonds, ecco quel che ne dice F. Bartoli : Bernardino Poccetti, celebre Pittore, nel dipingere ch’egli faceva parte del Chiostro della SS. Annunsiata in Firense, volle in una di quelle lunette introdurvi il ritratto di Francesco Andreini, protestandosi di farsi più famoso per l’imagine sola di lui, che per le tante altre, che colà in si gran copia egregiamente aveva dipinte. Non era difficile rintracciarlo colla scorta del ritratto di lui, fatto dal vero dal Tumermann (pag. 55) a quello della lunetta (pag. 83) somigliantissimo. Al ritratto dell’Andreini, s’aggiunge, per l’identità di esso, lo stemma Andreiniano che è al basso della lunetta, fra i due segni II dell’iscrizione, di cui ecco i colori : gialli i monti, turchino il fondo superiore e rosso l’ inferiore ; le spade bianche. Il medesimo stemma è nella cornice del ritratto di Gio. Battista dipinto dal Procaccini. Il soggetto trattato nella lunetta è il seguente :

Il Beato Sostegno uno de’ sette fondatori al secolo chiamato Gherardino I Sostegni dal Beato Filippo lasciato suo general vicario nella Francia vien raccomandato in sieme con la religione di già sparsavisi per opera del I Beato Manetto a Filippo Re in Parigi l’anno M CC LXIX.

Per quante ricerche io abbia fatte in istorie e biografie e carteggi di artisti, in istorie d’ arte, e illustrazioni degli affreschi fiorentini, non mi fu dato rintracciar le parole del Poccetti (il suo vero nome fu Barbatelli) alle quali forse altre se ne sarebbero aggiunte a dichiarazione dell’altro ritratto, il giovane che è di fronte a Francesco, che io, per la perfetta somiglianza, benchè di età diverse, con quello del Procaccini, ritengo essere indubbiamente del figliuolo Giovan Battista.

Andreini Isabella. Figlia di Paolo Canali, (?) veneziano, nata a Padova nel 1562 e a buoni studi educata, divenne sposa nel 1578 di Francesco Andreini. Non abbiamo notizia alcuna della sua vita prima delle nozze : è certo però che appena sposa, ella, a sedici anni, entrò di punto in bianco nella riforma della Compagnia de’Gelosi, venuta a Firenze di Francia, in qualità di prima donna innamorata, diventando in poco tempo la più celebre attrice d’Italia. La Compagnia era quella stessa della quale parla il marito Francesco (V.) « tale che pose termine alla drammatica arte, oltre del quale non può varcare niuna {p. 88}moderna compagnia di comici. » Della recitazione d’allora possiamo farci un’idea, leggendo il dialogo del De Somi, che è alla fine di quest’articolo : comunque sia, a me non par punto esagerata, come parve all’Adolfo Bartoli (op. cit.), quella fama dalla quale fu celebrata in questa medaglia che le conjarono in Lione, specialmente se ci facciamo a ripensare gli altissimi onori ch’ella ebbe di ritratti, di rime, di famigliarità di sovrani. Fu – dice Nicolò Barbieri nel Capo VII della sua Supplica (Venezia, Ginammi, 1634) – nella famosa Accademia dei Signori Intenti accettata e laurcata (ebbe il nome di Accesa), e ad una gara poetica, alla quale prendevan parte le celebrità del tempo, in casa Aldobrandini, riuscì prima dopo Torquato Tasso ; e fu coronata d’alloro in effigie tra ’l Tasso e ’l Petrarca (V. F. Bartoli).

Il Garzoni (Piazza Universale, Venezia, Somasco, m.d.xcv, pag. 737) dice di lei : « La gratiosa Isabella, decoro delle scene, ornamento de’ theatri, spettacolo superbo non meno di virtù che di bellezza, ha illustrato ancora lei questa professione, in modo, che mentre il mondo durerà, mentre staranno i secoli, mentre hauranno vita gli ordini e i tempi, ogni voce, ogni lingua, ogni grido, risuonerà il celebre nome d’Isabella. »

Il marito di lei nel Ragionamento IV delle Bravure dice : « Se la signora Isabella, bella di nome, bella di corpo, e bellissima {p. 89}d’animo, non si risolveva di ricompensar la mia fede, ecc. ecc. » e più sotto : « restando adunque, voglio darne avviso alla mia Regina, alla mia Imperatrice, et alla Monarchessa delle donne belle e virtuose ; scriverolle una bellissima lettera ; e perchè la signora Isabella è donna strasordinaria, voglio ancora scriverle una lettera strasordinaria. »

E nel Ragionamento XXVIII egli fa dire a Trappola : « Padrone, la vostra amata donna si può dir viva e non morta, se viva è colei che gloriosa rimane al mondo per mezzo della virtù. »

Nel diario manoscritto inedito di F. Settimanni nel R. Archivio di Stato di Firenze, trovo, per gentile comunicazione di G. Baccini, la notizia, già accennata dal D’Ancona, che il « 13 maggio 1589 » fu recitato la Pazzia, commedia d’Isabella commediante, dai Comici Gelosi, favorita dal Granduca, {p. 90}Granduchessa (Francesco I de’ Medici e Bianca Cappello), con tutti li Principi e Personaggi e co’ medesimi intermedi che erano stati alla Zingara della Vittoria. La qual Commedia fu recitata con tanta meraviglia, in particolare dal valore ed eloquenza d’Isabella, che ognuno di lei restò stupefatto.

Gl’ Intermedi adoperati per la Zingara furon gli stessi della Pellegrina del Bargagli.

Io non credo, come parve ad altri, che la Zingara e la Pazzia fosser commedie dovute alla penna e alla fantasia dell’Isabella e della Vittoria : dicendo il Settimanni che fu recitato la Pazzia commedia d’Isabella commediante, e più giù, co’ medesimi intermedi che erano stati alla Zingara della Vittoria, certo egli volle alludere, piuttosto che a commedie scritte dalle attrici, a commedie che erano di esse il caval di battaglia.

Quanto alla Zingara, vedi al nome di Piissimi Vittoria ; quanto alla Pazzia, è per me fuor di dubbio trattarsi della Pazzia d’Isabella, il noto Scenario di Flaminio Scala, direttore della Compagnia de’ Gelosi. Scenario, a dir vero, il quale non mi dà l’idea di quel che potè essere la Isabella, valente, ed eloquente, che, proprio al momento della Pazzia, nell’atto terzo,

si pone in mezo di Burat. e di Franc. dicendo voler loro dire cose di grandissima importanza. Essi si fermano ad ascoltare, et ella comincia a dire : « Io mi ricordo l’anno non me lo ricordo, che un Arpicordo pose d’accordo una Pavaniglia Spagnola con una gagliarda di Santin da Parma, per la qual cosa poi, le lasagne, i maccheroni, e la polenta si uestirono a bruno, non potendo comportare, che la gatta fusa fusse amica delle belle fanciulle d’Algieri : pure come piacque al Califfo d’Egitto fu concluso, che domattina sarete tutti duo messi in berlina. » Seguitando poi di dire cose simili da pazza, essi la vogliono pigliare, & ella se ne fugge per strada, & essi la seguono.

Ancora :

Isabella da pazza dice al Capit. di conoscerlo, lo saluta, e dice d’hauerlo veduto fra le 48 imagini celesti, che ballaua il canario con la luna vestita di verde, & altre cose tutte allo sproposito, poi col suo bastone, bastona il Capit. & Arlecchino, quali fuggonc, & ella dietro seguitandoli.

E più giù :

Isabella arriva pian piano, e si pone in mezo a Pantal. & a Gratiano, dicendo che stieno cheti, e che non facciano romore, perchè Gioue vuol stranutare e Saturno vuol tirar {p. 91}vna cor…. ; poi seguitando altri spropositi domanda loro se haurebbono veduto Oratio solo contro Toscana tutta.

Ma chi sa, data questa base di pazzia, a quali spropositi letterari, storici, mitologici e a quali stranezze di espressione e di gesto e di voce si sarà lasciata l’attrice. Vero è che la Pazzia piacque tanto al pubblico e agli attori, che restò poi nel patrimonio delle Compagnie drammatiche, mutando semplicemente di nome, a seconda dell’ attrice che la rappresentava. Così la Pazzia d’Isabella diventò più tardi la Pazzia di Lavinia coll’Antonazzoni che, a Firenze specialmente, rinnovò gli entusiasmi destati dall’Andreini.

I maggiori poeti d’Italia facean tutti a gara in celebrar questo tipo singolare di donna, che al raro sapere sembrò congiungere una rara virtù, con versi di ogni maniera. Trascelgo quelli che toccan più da vicino l’attrice.

DI TORQUATO TASSO

Quando v’ordiva il prezioso velo
l’alma natura, e le mortali spoglie,
il bel cogliea, si come fior si coglie,
togliendo gemme in terra e lumi in cielo.
E spargea fresche rose in vivo gelo,
che l’aura e ’l sol mai non disperde o scioglie,
e quanti odori l’Oriente accoglie.
E perchè non v’asconda invidia o zelo,
Ella, che fece il bel sembiante in prima,
poscia il nome formò che i vostri onori
porti e rimbombi e sol bellezza esprima.
Felici l’alme e fortunati i cori,
ove con lettre d’oro Amor l’ imprima
nell’ imagine vostra, e in cui s’adori.

{p. 92}DEL CAVALIER MARINO

Per la signora Isabella Andreini mentre recitava in una tragedia

Tace la notte, e chiara al par del giorno
spiegando per lo Ciel l’ombra serena
già per vaghezza, oltre l’usato affrena
di mille lumi il bruno carro adorno.
Caggia il gran velo omai, veggiasi intorno
dar bella Donna altrui diletto e pena,
che in su la viva e luminosa scena
faccia a Venere, a Palla, invidia e scorno.
Febo le muse, Amor le grazie ancelle
seco accompagni, e da l’oblio profondo
sorga il Sonno a mirar cose si belle.
A si dolce spettacolo e giocondo,
dian le spere armonia, lume le stelle,
sia spettatore il Ciel, teatro il Mondo.

DI GABRIELLO CHIABRERA

Nel giorno, che sublime in bassi manti
Isabella imitava alto furore ;
e stolta con angelici sembianti
ebbe dal senno altrui gloria maggiore ;
Allor saggia tra ’l suon, saggia tra i canti,
non mosse piè che non sorgesse Amore,
nè voce apri, che non creasse amanti,
nè riso fè, che non beasse un core.
Chi fu quel giorno a rimirar felice,
di tutt’altro quaggiù cesse il desio,
che sua vita per sempre ebbe serena.
O di scena dolcissima Sirena,
o de’ Teatri Italici Fenice,
o tra’ Coturni insuperabil Clio.

{p. 93}DI GHERARDO BORGOGNI

l’ Errante Accademico Inquieto di Milano

Apollo, questa il cui valor cotanto
ammiri, ed ave per teatro e scena
Italia e ’l Mondo ; e d’ eloquenza piena,
e de’ socchi e coturni illustre vanto ;
or con l’eburneo plettro, ed or col canto
teco s’agguaglia ; e qual del ciel Sirena,
move gli accenti con sì dolce vena,
ch’altri col carme non poggiò mai tanto.
Siale tu dunque degno Padre, ed ella
a te sia figlia ; e queste carte e ’l nome
sien d’alto grido un immortal tesoro.
Vada co’ lustri a par l’alma Isabella,
e le sia fregio a l’onorate chiome
de la tua Dafne il sempre verde alloro.

Il figlio Giovanbattista (V.) la pone tra’ più noti scrittori de suoi tempi :

L’Arïosto famoso e l’Aretino,
Torquato Tasso, il buon Giraldi, il Caro,
lo Sforza d’Oddi, il Cremonin facondo,
il leggiadro Guarini, il Bracciolino,
di Partenope il Porta, e in un la dotta
Isabella Gelosa….
(La Saggia Egiziana).

e le dedica il seguente sonetto che tolgo dal suo Teatro celeste :

Sopra la madre dell’Auttore, alludendo al Nome, al Cognome, all’ Accademia, all’ Impresa, al Titolo, & a’ Comici Gelosi.

Tra le scene più belle, ecco la Bella
splende Accesa d’honor saggia Andreina,
Raggio nel mondo, e ’n ciel pura fiammella,
che di suo foco a ’ncenerir destina.
{p. 94}Donna dono fatal, opra divina
Franca penna real intenta appella ;
nè di tempo l’ indomita ruina
sua memoria immortal rode, o cancella.
D’ogni gloria maggior scena fastosa,
fatti giardin d’un sempiterno alloro,
giardiniera bellissima Gelosa,
o qual di ricca statua alto lauoro
fa colonna poggiar ambizïosa,
di’ : base fui d’ un simulacro d’oro.

nè mancaron i versi latini del Pola, del Tedeschi, e di altri. Si dettarono epigrafi, si fecero anagrammi, tra’ quali :

Alia Blanda Sirena…. e Lira ne, Labris Dea… (?)

Andata co’Gelosi a Parigi, munita di lettere di presentazione e di raccomandazione per quella Corte, coll’arte sua, col suo sapere, colla sua virtù divenne, si può dir, l’amica più che la protetta di Maria Medici, la quale, partita Isabella di Francia, scriveva alla Duchessa di Mantova : Elle a donné tout contantement d’elle et de sa troupe au Roy mon Seigneur et a moi : c’est pourquoi je vous la recommande avec affection. E il Beltrame Nicolò Barbieri nel Capo VII della sua Supplica : Fra’ moderni del mio tempo, la Signora Isabella Andreini comica celebre per le opere sue che sono alle stampe, fu dalle lettere del Grand’Enrico quarto Re di Francia honorata con mansione amorevolissima, et decente ad ogni gentildonna. A riscontro delle parole della Regina, e di queste del Barbieri, metto qui il facsimile della lettera non mai pubblicata, io credo, (Archivio di Stato di Firenze) che Isabella scriveva

Al molto Ill re , mio S re , e pron col. mo il S r Cavalier
Vinta Seg.° del Ser. mo gran Duca di Toscana in
Firenze

ringraziandolo di raccomandazioni sollecitate dal Granduca pei Sovrani di Francia, intese ad ottenerle, chi sa, forse la Loro {p. 95}Augusta protezione nel suo prossimo parto ; quello che, non condotto a fine, doveva, sei mesi dopo, condur lei al sepolcro.

Dalla Mirtilla – Edizione di Verona, Girolamo Discepolo, 1598.

Un’altra lettera nello stesso Archivio ho trovato, che ritengo pure inedita, e che mi pare valga la pena di trascrivere, così per le nuove cose ivi discorse, come per una riprova dell’interesse che le LL. Maestà prendevano alle cose anche private dell’Andreini. Anche questa è diretta al Segretario Vinta.

Molto Ill.re mio S.re e Pron col.mo

Alla Commissione della Maestà della Regina cristianiss.ª & alla Sua bontà V. S. perdoni il mio fastidiolo. Ch’ io sia lontana dal darle molestia, ella può assicurarsene, send’ io stata parecchi mesi senza scriverle di particolare, che pur m’importa. Hora non potendo far di meno, è forza ch’ io replichi queste poche righe. Saprà V. S. che da che Le mandai la lettera scritta dalla Regina a sua Altezza Ser.ma in materia del far hauer merito a tutta la somma di que’ denari, ch’ io ho sul Monte di Pietà in Firenze, tre volte Ella me n’ ha domandato. Due in Parigi, & una a Monceaux, dove sono stata con la Compagnia à servire : la prima io le mostrai la lettera, che ’l S.r Cioli per ordine di V. S. m’ hauea scritta data sotto il dì 14 di Marzo del corrente anno, le altre due, e particolarmente l’ultima, che fu il mese passato, le dissi che non ne haueua havuto altro auiso ; ma ch’ io ne sperava bene, confidata nella gentilezza, e nell’ humanità del S.r Cav.r Vinta, mio Signore offiziosissimo, verso chi ricorre alla sua bontà, ella lodando la mia speranza, e maravigliandosi della tardanza, mi disse, ch’io scriuessi di nuouo, e procurassi d’intender l’essito del negozio, {p. 96}che s’ hauesse bisognato altra lettera, l’haueria scritta, certiss.ª d’ottener in mio benefizio quel c’ hauessi dimandato. Scriuo dunque sì per ubbidir alla Commiss.e, come perchè mi sarebbe più caro di renderle grazie della grazia ottenuta, che d’affaticarla in altro scrivere, e la prego ad ordinare, che me ne sia dato ragguaglio : che ben la lettera giungerà a tempo, dovendo noi star al servizio dell’una e dell’altra Maestà questo verno, e forse ancor più.

Humiliss.ª Le m’inchino, e le prego da N. S. il colmo d’ogni desiderata prosperità.

Di Parigi il dì 26 d’ Agosto 1603.

Di V. S. molto Ill.re

Seruitrice aff.ma

Isabella Andreini.
V. S. uolti.

Poiscritto. Facendomi V. S. grazia di Sue lettere, e douend’ io seguitar la Corte, Le mandi con qualche mezzo ch’ i’ possa hauerle. Non so doue disegni d’andar il Re. Qui ognun dice ch’ anderà in Provenza ; e che per ottobre deu’essere in Lione. Sia come si voglia, se V. S. si compiacerà di farmene degna, ben saprà come farlo, e le mi inchino di nuovo.

Prima della sua partenza da Parigi, il poeta Isaac Du Ryer (Le tems perdu, pag. 65) le presentò a nome del pubblico la seguente lettera in versi per invitarla a restare.

A ISABELLE, Comédienne

Je ne crois point qu’Isabelle
Soit une femme mortelle,
c’est plutôt quelqu’un des Dieux,
qui s’est déguisé en femme,
afin de nous ravir l’ame,
par l’oreille & par les yeux.
Se peut-il trouver au monde
quelqu’autre humaine faconde,
qui la sienne ose égaler ?
Se peut-il dans le ciel même
trouver de plus douce crême
que celle de son parler ?
Mais outre qu’elle s’attire
toute ame par son bien dire,
combien d’attraits & d’amours,
et d’autres graces célestes,
soit au visage, ou aux gestes,
accompagnent ses discours ?
[n.p.][http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-01_1897_img035.jpg]
[n.p.]Divin esprit, dont la France
adorera l’excellence
mille ans après son trépas :
(Paris vaut bien l’Italie)
l’assistance te supplie,
que tu ne t’en aille pas.

All’ode del Du Ryer faccio seguire un sonetto del De la Roque (Œuvres, pag.  380). Quella e questo si trovano riprodotti a pag.  4-6 de l’Histoire de l’ancien théâtre italien depuis son origine en France, jusqu’à sa suppression en l’année 1697, etc. etc. par les Auteurs de l’Histoire du Théâtre français. (Fratelli Parfait). Paris, Rozet, m dcc lxvii.

A la Seignora ISABELLA ANDREINI

Sonnet

O siècle bien heureux, qui jouit favorable
du bien, par qui nos maux tous les jours sont distraits,
Dont la bouche & les yeux jettent de si doux traits ;
que qui moins les ressent est le plus misérable.
Le renom d’Isabelle errant inévitable
nous peut ravir le sens de loin comme de près ;
bref on ne sauroit voir, touché de ses attraits,
rien de plus admiré, ni de plus admirable.
C’est une autre Sapho, qui peut avec ses vers,
donner lustre à son sexe, enflammer l’univers
et faire écrire amour des plumes de son aîle.
Donc esprits que Daphné couronne de ses bras,
afin de vivre au monde affranchis du trépas,
pour oracle & pour muse invoquéz Isabelle.

Ahimè ! In mezzo a tanti trionfi, a tante attestazioni di schietto entusiasmo all’artista, alla poetessa, alla donna, la povera Isabella, nel rigoglio della vita e dell’ingegno, dovè soccombere miseramente, improvvisamente, nè pure colla soddisfazione di veder pubblicate le sue Lettere, ultima delle opere alla quale aveva posto ogni cura, e alla quale portava uno {p. 98}speciale amore. Partita di Francia per recarsi in Italia nel 1604, fu sorpresa dal male in Lione, ove moriva per aborto l’ii giugno. (Il Sand ha erroneamente il io luglio). Il Barbieri, nella Supplica citata, riporta da Pietro Mattei, Istorico e Consigliere del Re Cristianissimo, che Isabella Andreini fu favorita dalla Comunità di Lione di Francia d’insegne e di mazzieri, e con doppieri da’ Signori Mercanti accompagnata : ed hebbe un bellissimo Epitaffio scritto in bronzo per memoria eterna. (V. Francesco Andreini).

Dalle Rime – Edizione di Milano, Bordone, 1601.

Il Cavalier Marino dettò per la sua morte il seguente sonetto, riferito anche da Fr. Bartoli :

Piangete, orbi Teatri ; invan s’attende
più la vostra tra voi bella sirena.
Ella orecchio mortal, vista terrena
sdegna, e colà d’onde pria scese ascende.
{p. 99}Quivi Accesa d’amor, d’amor accende
l’eterno Amante ; e ne l’empirea scena,
che d’angelici lumi è tutta piena,
dolce canta, arde dolce e dolce splende.
Splendano or qui le vostre faci intanto,
pompa a le belle esequie ; e non più liete
voci esprima di festa il vostro canto.
Piangete voi, voi che pietosi avete
al suo tragico stil più volte pianto :
il suo tragico caso orbi piangete.

E il seguente dettò Gio. Paolo Fabbri comico detto Flaminio :

Quella che già cosi faconda espresse
detti sublimi, ed ornamento altero
fu de le scene, d’appressarsi al vero
lasciando l’ombra e di bearsi elesse.
Onde, poich’ebbe di virtude impresse
belle vestigia, a l’alma apri ’l sentiero,
e spedita volò dove il pensiero
fermo col ben oprar la scorse e resse.
Pregò, l’udì chi sempre ascolta pio,
noi perchè in guerra noi medesmi ogn’ora
tener, se ’n pace ella contenta or siede ?
Non è morta Isabella, è viva in Dio.
Del mio carcer terreno uscito fuora,
là su di rivederla ho speme e fede.

Il quale ancora in uno de’Suoi Capitoli alla Carlona (Trento, per Gio. Battista Gelmini, m dc viii) dice :

Con le Comedie ho già seruito à i Gigli
di Francia in compagnia di quella Donna
che non teme del tempo i duri artigli.
Quella che di virtù ferma colonna
fù sempre, cui diede la Brenta a noi,
e cui gemma pregiata hor tien la Sonna.

aggiungendo poi in una noticina in margine : « Intendo della {p. 100}Signora Isabella Andreini Padouana, morta in Lione, la maggior comica, che sia mai stata nell’ esercitio. »

Quanto al valor letterario d’Isabella Andreini, poco mi rimane da dire. In mezzo ai petrarcheggiamenti diluiti all’acqua di rose, poteva stare anche Lei, non ultima certo. Lascio al buon Francesco Bartoli tutti i più bei fiori della Rettorica, e la sana Filosofia e gli scherzosi detti che allettar possono infinitamente, di cui trova sparse le lettere di lei. In queste appar chiaro lo sforzo di dir cose straordinarie, l’intento, ahimè fallito, di innalzarsi il famoso monumento d’Orazio…. Nessuna spontaneità di forma e di concetti, mai : solo una esuberanza di bisticci, oserei dire, di freddure, di baggianate, di piccinerie, e di comparazioni talora ingegnose, talor bislacche, piene di fiorettature uggiose, snervanti, come ad esempio :

1. L’esser e ’l non esser secondo alcuni star insieme non possono, il che io non affermo, perchè so ch’io son morta a i diletti e viva a i guai : ecco dunque ch’io son e non sono, e morta e viva. (Lett. 62).

2. La morte sola può vietar al pensiero, che non pensi a quello, ch’egli vuol pensare : infelice mia sorte, poichè mentre ch’ io penso di pensar ad ogn’altra cosa, che all’avervi amato impensatamente, pensato mi vien di voi ; e di voi pensando, convien per forza ch’io pensi d’avervi amato ; il che più mi dispiace e più m’addolora che s’io pensassi alla morte, pensando insieme di dover allora morire. (Lett. 72).

Parlando ad uomo innamorato di mala femmina, dice :

3. Ohimè ! Tanto può dunque in voi una soave, ma traditrice parola, una mentita belleza, un modo lusinghiero, un atto astuto, un’arte di Circe, una frode amorosa, una rete incantata, un feminil inganno, un laccio dannoso, un ciglio bugiardo, un animo finto, un cuor simulato, una fede mendace, un ghigno fraudolente, una breve stilla di pianto, un sospir tronco, un leggiero toccar di mano, un molle bacio, pieno d’insidie, una grata ma perfida accoglienza, uno sdegno lieve artificioso, una repulsa pietosamente cruda, una pace piena di guerra, e finalmente un vaso colmo di menzogne e di tradimenti ? (Lett. 85).

E nell’Amoroso Contrasto sopra i Saluti :

4. Mario. Vi saluterò come corvo, poichè così volete, ma non vorrò già dire che voi siate il mal tempo.

Costanza. Anzi, ch’io sono l’istesso mal tempo per voi, poichè per me dite, che non havete mai buon tempo : noi sogliamo dire quando il cielo è coperto di nubi, ch’egli è mal tempo ; e voi mille volte m’avete detto che il mio viso è un cielo angusto, ma che le mia ciglia torve di sdegno son quelle nubi, che lo rendino fosco & oscuro ; l’oscurità cagiona mal tempo, dunque io sono il vostro mal tempo.

{p. 101}

E così di seguito, passando dal mal tempo al corvo, dal corvo all’amore, dall’amore al desiderio, dal desiderio al godimento, e il tutto seminando di citazioni poetiche, storiche, mitologiche da metter paura. Non vi par egli di sentir le tirate di un Dottor Graziano ? Nè s’ha da far troppo carico a Isabella di queste rettoriche e vacue piccinerie, poichè formavan pur troppo elemento non ultimo della commedia dell’arte. Più i Contrasti erano lunghi, più appariva (meglio a’comici forse che al pubblico) l’acume e la sottigliezza de’recitatori. Adolfo Bartoli (op. cit., pag. lxxix) riporta intero il dialogo fra uomo e donna per la caduta d’un fazzoletto, che è un modello del {p. 102}genere, e dal quale si può arguire la ragione del gran conto in cui eran tenuti i Contrasti dall’Andreini. Anche quel continuo frammischiare alle prose sentenze poetiche era dell’uso, specialmente per la chiusa delle scene nella commedia improvvisa, e più specialmente poi per le andate via.

Dalle Lettere – Edizione di Venezia, Zaltieri, 1607.

Ma dove pare a me che l’Andreini si levi talvolta a grande altezza è nelle rime ; in cui non sappiamo se ammirar più la scorrevolezza e armonia dei versi, o la leggiadra semplicità dello stile. Anche Adolfo Bartoli che trovò, come dissi, esagerata la Fama della medaglia, conchiude che l’Andreini non è sicuramente de’rimatori più scadenti che avesse l’Italia nel secolo xvii(?), e tra’nojosi imitatori del Cantore di Laura, è de’meno nojosi o, se la parola non potesse sembrare sarcastica, de’più geniali.

Benchè in versi, non toccherò della Mirtilla, Pastorale scritta nella età giovanile, che ha i soliti lambicchi, i soliti contrasti, non però peggiori di quelli onde son seminate quasi tutte le produzioni sceniche del genere e del tempo ; trascriverò dalle Rime (Milano, Bordone, 1601) per dare un saggio del suo poetico stile, due sonetti amorosi (pag. 59 e pag. 144), de’quali parmi vi sieno di assai meno valore in poeti del suo tempo e di maggior grido, e ai quali farò seguire come chiusa una canzone, la seconda delle poesie funebri (pag. 217) nitida e piana a mio giudizio, e soavissima quant’altre mai.

Sonetto LV

Ardo, e son fatta miserabil segno,
E ben se l’vede Amor, d’ogni suo strale ;
Nè schermo io trouo al mio martir fatale,
(Lassa) e prego non valmi arte, od ingegno.
Dentro vn bel viso à cui solo m’attegno
Veggio le fiamme, ond’ei quest’alma assale ;
E s’io chieggio conforto à sì gran male,
In vece di pietade accendo sdegno ;
{p. 103}E’l duol, che’ntenerir potrebbe i sassi,
E l’amaro mio pianto han per mercede
Noue lagrime sol, nouo tormento ;
E per maggior mio mal misera i’sento,
Che per girsen’à lui, ch’à me non crede,
L’infiammato mio cor sù l’ale stassi.

Sonetto CXXV

Io non t’amo crudel, che me l’contende
Del cor seluaggio la natia durezza ;
Pur s’alcun veggio, che di tua bellezza
Porti sembianza, à me si vago splende,
Che contra’l voler mio nel cor mi scende
Vn’affetto d’amara empia dolcezza ;
E tanto può la micidial vaghezza,
Ch’amoroso desire in me raccende.
Dura legge d’Amor ! dunque conuiene
Ch’ami quello in altrui, che’n questo altero
Fù la sola cagion de le mie pene ?
Ben è tronca nel mezo ogni mia spene,
Nè pace più, nè più salute spero
Se da cotanti riui il mio duol viene.

HIELLE piange la madre

Fvggendo il lume, à le spelonche tratti
S’eran gli Augei notturni ;
E già suegliata vscìa la Rondinella
A’bei raggi diurni ;
Quando più ch’altra bella
Hielle sorgendo, la uermiglia Aurora
Vide, che uiolette, e rose, e gigli
Da la sua chioma inannellata, e bionda,
E da l’eburneo seno
Spargèa del Ciel ne le contrade eterne ;
{p. 104}E col piè vago d’animata neue
Di fior premendo l’ingemmato suolo
Seguitò fin che giunse
Là doue scaturia da vn viuo sasso
Liquefatto vn bel vetro, che se n’gìa
Con lento e queto passo
L’herbe irrigando ; iui si pose, ed iui
Pensosa al volto fè colonna, e letto
Del braccio e de la mano ; e fisò i lumi
A terra. Intanto il Sole
Cominciò di sè stesso à far corona
De’vicin Monti à l’eleuate cime
Del Gange vscito. Ella dolente scossa
Quasi da sonno à lui riuolta disse.
Leggiadro almo Pianeta
Tu sorgi à rasciugar le molli brine,
Che da gli humidi vanni de la notte
Son cadute, nè mai de gli occhi miei
Perciò rasciughi il pianto.
Al tuo vago apparir più che mai lieti
Sorgono i fiori à proua : io (lassa) mai
Dal graue incarco de gli affanni miei
Erger non posso il core.
Spiegano al tuo venir dolci carole
I garruli Augelletti :
Io dolente non meno
O Sole al tuo venir che al tuo partire,
Viuo in amaro pianto ;
Ma voi deh per pietade
Vscite meste de gli herbosi fondi
O Ninfe, c’habitate i fonti, e i fiumi,
Ed aggiungete meco (ancor che’nuano)
Lagrime al pianto ; e voi
Lasciate ò molli herbette,
Lasciate il vostro verde : hor più non lice
Di smeraldo portar gonna ridente.
Dipinti Augei, che per le Tosche selue
Di ramo in ramo saltellando andate,
Dite nel vostro canto :
La gloria d’Arno, e la sua pompa è morta.
{p. 105}Morta è la nobil Donna,
Che fù del viuer mio securo appoggio ;
E breu’vrna sotterra
Gran beltà, gran virtù, gran lode serra.
Ma che dich’io ? sua lode intorno scorre,
Ed hà solo per meta i Poli, e’l Cielo
Dou’hor si posa la bell’alma, e lieta
Vagheggia à voglia sua quel che noi tanto
In dubbio pone. A noi stà sopra il Sole
Con gli altri ardenti lumi ;
E ben c’huom si consumi
Ne l’intender la forza e i moti loro,
Al ver però non giunge ;
Ed ella à pien gli intende, e gli fruisce.
Hor noi di si gran perdita dolenti
Poco il pomo curiam, poco la fonte,
Perchè la fame l’vn, l’altra la sete
E domi, e vinca. in altra parte il sonno
Sparga pur sua quiete : à noi non cale,
Ch’ei dal Mondo ne sciolga, ò da noi stessi.
Et io, che più d’ogn’altra afflitta viuo
Ben à dritta ragion il cibo, e’l sonno
Cara Madre sbandisco
Ogn’hor Morte chiamando.
O nemica mia stella, ò destin rio.
S’esser cruda per me deuesse, ed empia
L’innessorabil Parca
Col leuarmi dai viui
Ben ella in ciò saria veloce, e presta
Come fù alhor, che tè da noi diuise ;
Ma perch’ella conosce,
Ch’essendomi crudel fora pietosa,
Perdona al viuer mio,
Quando l’alma dolente altro non brama,
Che trar gli infausti giorni
Per l’occaso di morte al fin de gli anni.
Deh giunga de’miei di l’vltima notte,
Notte, ch’à me più chiara sia del giorno.
Felicità de gli infelici, Morte,
Morte deh prego trammi
{p. 106}Là vè sotto sembiante
Di morte è vita vera.
Pommi col cener freddo de l’amata
Mia Genitrice, pommi ou’è colei,
Che molto seppe al mondo, e poco visse.

Isabella.

(Dalle Maschere e Buffoni di Maurizio Sand).

Isabella Andreini ebbe sette figliuoli : le quattro figlie « sacrò vergini a Dio — dice Fr. Bartoli — ne’ Monasteri di Mantova ; » de’ figli, uno fu quel D. Pietro Paolo, Monaco di Vallombrosa, che sostenne (Bartoli) « carichi ragguar devoli nella sua Religione, » uno, Domenico, si diede alla milizia, e il terzo, Giovan Battista, del quale avrem molto da dire, seguendo le orme degl’illustri genitori, fu celebre nel teatro e nelle lettere.

Mi son servito, per la stampa del promesso dialogo del De Somi, sulla recitazione di quel tempo, del codice esistente nella R. Biblioteca di Parma, trascritto con ogni nitidezza di caratteri dall’originale, quello forse che è fra le opere di lui in sedici volumi nella Biblioteca Nazionale di Torino. Il De Somi, mantovano, fu autor comico, poeta e impresario di compagnie comiche, come rilevasi dalla supplica a Francesco Gonzaga Conte di Novellara, in data 15 aprile 1567, per ottenere un decreto di poter egli solo per anni x dare stanza in Mant.ª da rappresentare comedie, a coloro che per prezzo ne vanno recitando, offerendosi egli dare ogni anno a poveri della Misericordia, sacchi due di formento ; per la quale offerta, il Gonzaga il 17 aprile raccomandava la supplica al Castellano di Mantova. Per notizie più ampie e particolareggiate sul De Somi, vedi il D’Ancona, op.cit., vol. II, pag. 403, 404, 408, 410 en., 420 n., 540 n.

{p. 107}

Dialoghi dell’ebreo LEONE DE SOMI in materia di rappresentazioni sceniche, copiati dall’ originale.

Dialogo terzo, nel quale si ragiona de i precetti del recitare, et de i modi del uestire, et di tutto quello che generalmente apartiene a gl’ histrioni con molti neccessari auuertimenti et ricordi.

Sommario

Di che qualita si dee elegere la comedia da recitarsi — Cauar le parti — Informar tutti del soggetto — Elettione de recitanti — Pronuncia de recitanti — Dispositione — Bona uoce nel recitare — Delle preferenze de recitanti — Documenti de recitanti — Dir forte — Dir adagio — Che il recitare non sia spezzato — Efficaci affetti de recitanti — Il recitante suegliato — Delle comedie mute — Mouimenti de’ recitanti — Modo del uestire — Vestir nobilmente — Variare gli habiti de recitanti — Colori de gli habiti — Habiti barbari piu uaghi in scena — Habiti delle tragedie — Habiti pastorali — Habiti de le Nimphe — Auertimento prima che si mandi fuori il prologo — Ordine o norma per mandar fuori i recitanti — Prima che si mandi giù la tela — Qualita de prologhi — Voltar sempre la faccia a lo spettatore — Non caminar parlando — Con chi ragiona il prologo — Delli intermedij ordinarij.

Interlocutori

Santino, Massimiano, et Veridico

Sant. Se hoggi ci sodisfà cosi bene, questo galant’ huomo ; discorrendo sopra il modo di rappresentar le comedie in atti ; come hà fatto negli altri suoi discorsi ; assai ueramente contentar ci potiamo, hauendoci egli sempre assegnata qualche ragione, a tutte le cose da lui trattate.

Mass. Et io me ne aspetto anco di meglio, però che credo, che egli habbi guidate più comedie, che composte ; onde son certo, che egli sarà fatto più esperto nel modo del condurle, che nelle proprieta loro nello inuentionarle. mad eccoci a lui.

Sant. A noi Messer Veridico è paruto mill’ anni d’ auer desinato, per uenire a farci pagar da uoi quel debito, al quale uolon-tariamente obligato ui sete.

Ver. Voi siate e ben uenuti : sedete.

Mass. Vi hauremo forse disturbato, essendo uoi per quello che comprendo, intento a conteggiare.

Ver. Nò ueramente, che questa non è lista di dare, ne d’ hauere : ma anzi è apunto cosa, che apartiene al soggetto, di che uolete che hoggi si fauelli.

Sant. Et come ?

Ver. Questa è una lista ch’ io fò, de gli habiti, et altre cose, che occorrono a i recitanti nostri, per non mi condur poi isproueduto a fatti.

Sant. Hor noi siam qui, e per far come il pardo, al primo salto la preda, cominciaremo a dimandarui del modo che uoi terreste essendo [poniam caso] ricercato hoggi dal principe nostro, a farle rappresentare una comedia.

Ver. Presuponete uoi, che egli me ne desse una a suo modo ?

Sant. Anzi nò. ma che ui desse anco l’ assunto di trouarla.

Ver. Prima io mi sforzarei d’ hauer comedia che mi satisfacesse, con di quelle osseruationi, che dissi principalmente conuenirsi a tali poemi, e sopra tutto di bella prosa contesta, et che non fosse noiosa per molti soliloquij, o lunghi episodij, o {p. 108}dicerie impertinenti. per ciò ch’ io concorro nel parere di coloro, che hanno detto quella comedia esser perfetta, che leuandone una poca parte resti imperfetta. ma noua la comedia uorrei, se fosse possibile, o almeno poco nota, fuggendo più ch’ io potessi le stampate, quantunque piu belle. si per che ogni cosa noua piu piace ; et si per esser parer quasi comune, che le comedie, delle quali lo spettatore, hà notitia ; rieschino poco grate, per di molte cagioni, tra le quali, principale cred’io che sia questa : che douendo l’histrione ingegnarsi, et sforzarsi quanto piu può [come diremo] d’ingannar lo spettatore in tanto, che li paiano ueri i successi, che se gli rappresentano, sapendo l’ascoltante prima, quello che hà a dire et a fare il recitante, li par poi troppo aperta et sciocca menzogna, et la fauola perde di quel suo naturale, con che ella ha sempre da esser accompagnata, onde l’ uditore quasi schernito non solo uilipende lo spettacolo, ma disprezza anco se medesmo, che come fanciullo si sia lasciato condure, a udir, come si dice in prouerbio, la nouella de l’ oca. il che non auiene cosi delle comedie noue, per che quantunque l’huomo sappia da principio, hauer da udir cose non uere ; stando però atento alla nouita de i casi, par che ei si lasci ingannar da se medesimo a poco a poco, tanto che gl’ assembra di ueder in effetto, quei successi che se gl’ appresentano. se pero gl’ histrioni saranno bene essercitati, come gli si richiede.

Sant. Certo, conosco esser uero quanto dite, per che io mi son ritrouato ueder rappresentar bene, di bellissime comedie gia stampate, che me ne son partito insieme con gl’ altri, in certo modo mal satisfatto ; et ne ho poi udito recitare di non cosi belle, ma noue, che sono riuscite garbatissime.

Mass. Hor sia detto assai, quanto alla clettione della comedia, et ditene eletta che sia, come ui gouernate.

Ver. Prima io ne cauo tutte le parti ben corrette, e quindi, eletti i personaggi che mi paiono più atti [auuertendo il più che si puo, a quei particolari di che ragionaremo più avanti] li riduco tutti insieme ; et consegnato a ciascuno quella parte che piu le si conuiene, fò legger loro, tutta la comedia tanto, che sino a i fanciulli che ui hanno d’ hauer parti ; siano instrutti del soggetto di essa, o almeno di quello che a lor tocca. imprimendo a tutti nella mente, la qualita del personaggio, che hanno da imitare ; et licentiati con questo, le dò tempo di poter imparar le parti loro.

Mass. Questo mi par piano principio Veniamo dunque alla particolar elettione de recitanti, e destribuittione delle parti, che mi par cosa importantissima.

Ver. Tanto, che è da stupirne, et oso dire, anzi affermo per uero, che piu importi hauer boni recitanti, che bella comedia, et chel sia il uero habbiamo ueduto molte uolte riuscir meglio, al gusto de gl’ascoltanti, una comedia brutta, ma ben recitata, che una bella mal rappresentata. Et pero quand’ io sono per elegerli, hauendo copia d’ huomini atti et che ubidienti esser uoglino, m’ ingegno di hauerli, prima di bona prouincia, et questo piu che altro importa, et poi cerco che siano di aspetto rappresentante quello stato, che hanno da imitare piu perfettamente che sia possibile come sarebbe, che uno inamorato sia bello un soldato membruto, un parasito grasso, un seruo suelto, et cosi tutti. pongo poi anco gran cura alle uoci di quelli, per ch’ io la trouo una de le grandi et principali importanze, che ui siano. ne darrei [potendo far di meno] la parte di un uecchio, ad uno che hauesse la uoce fanciullesca, ne una parte da donna [e da donzella maxime] ad uno che hauesse la uoce grossa. Et se io, poniam caso, hauessi a far recitare un ombra in una tragedia, cercarei una voce squillante per natura, o almeno atta con un falsetto tremante, far quello che si richiede in tale rappresentatione. De le fatezze de i uisi non mi curarei poi tanto, potendosi ageuolmente con l’arte, supplire oue manca {p. 109}la natura, con tingere una barba, segnare una cicatrice, far un uiso pallido o giallo, ouero farlo parer piu uigoroso, et rubicondo, o piu bianco, o piu bruno, et tali cose, che ne possono occorrere. Ma non mai però in caso alcuno, mi seruirei di mascare, ne di barbe posticcie, per che impediscono troppo il recitare. et se la necessità mi stringesse far fare ad uno sbarbato, la parte di un vecchio, io li dipingerei il mento, si che paresse raso, con una capigliara canuta sotto la beretta, li darrei alcuni tocchi di pennello su le guancie, e su la fronte, tal che non solo lo farrei parere attempato, ma decrepito, et grinzo, bisognando. Et per che quanto alla elettione, e della comedia e de i recitanti non mi occorre al presente che altro dire, aspetto, se altro uolete da me intendere, che mi dimandiate.

Sant. Noi uoressimo intender prima, con quai documenti si hanno ad essercitare, et in che modo hanno da recitare questi eletti.

Ver. Questa per certo è impresa grauissi-ma. Ma per farui solo intendere, parte di quello che faccio io intorno a Recitanti, dico, che è da auertirli prima generalmente, a dir forte, senza però alzar la uoce in modo de gridare, ma alzarla tanto temperatamente, quanto basti a farsi udire comodamente a tutti gli spettatori, accio che non cagionino di quei tumulti, che fanno souente coloro, li quali, per esser più lontani, non ponno udire, onde ha poi disturbo tutto lo spettacolo, et a questo puo seruir solo, lo hauer il recitante bona uoce per natura, come dissi che dopo la bona pronuncia principalmente le bisognarebbe.

Mass. Auuertimento per certo necessario.

Ver. Come uitio pestilente poi, li prohibisco, lo affrettarsi, anzi li costringo, potendo, a recitar molto adagio, Et dico molto, facendoli esprimere con tardità, ben tutte le parole fin all’ultime sillabe. senza lasciarsi mancar la uoce, come molti fanno, onde spesso lo spettatore, perde con gran dispiacere, la conclusione della sentenza.

Sant. Se nel recitare si hà come credo ad imitar l’uso del parlar familiare, giudicarei, che quel recitar cosi adagio, e con tardità come dite, togliesse il naturale al dire.

Ver. Siate certo che non gle le toglie in parte alcuna, per che, oltre che il fauellare adagio, non concedo io che sia mal uso, anzi l’ approuo per proprio delle persone piu graui [et sempre si deono imitare i migliori] bisogna poi anco al recitante auuertire di più in questo caso, che egli hà da dar tempo alli spettatori di poter capir comodamente i concetti del poeta, et gustar le sue sentenze, non sempre comuni, e trite. Et uoglio che sappiate, che quantunque spesso paia a chi recita in scena, di dire adagio, non è mai tanto tardo, che a l’uditore non paia uelocissimo, pur chel dir non sia spezzato, ma sostenuto in modo che non induca afettatione et noia. Circa poi a gl’ altri precetti, o modi di recitare, non mi par che dar si possi alcuna regola particolare. ma parlando generalmente diremo, presuposto che il recitante habbia bona pronuncia, bona uoce, et appropriata presenza, naturale, o artificiata che sia, che bisogna sempre che egli s’ingegni, di uariar gl’atti secondo la uarieta delle occasioni, et imitare non solamente il personaggio che egli rappresenta, ma anco lo stato in che quel tale, si mostra di essere in quell’ hora.

Mass. Qui messer Veridico ui uorrei piu chiaro.

Ver. Eccomi con uno essempio. dico che non basterà ad uno che faccia la parte [poniam caso] d’uno auaro, il tener sempre la man su la scarsella, in tentar spesso se li è caduta la chiaue de lo scrigno ; ma bisogna anco che sappia, occorrendo, imitar la smania, che egli haurà [essempli gratia] intendendo chel figliolo li habbia inuolato il grano. Et se farà la parte di un seruo, in occasione d’una subita allegrezza, saper spiccar a tempo un salto garbato ; in occasione di dolore stracciare un fazzoletto co denti, in caso di disperatione trar uia il capello, o simili altri eficaci effetti, che {p. 110}danno spirito al recitare. Et se farà la parte di uno sciocco, oltre al risponder mal a proposito [il che gl’ insegnarà il poeta con le parole] bisogna che a certi tempi, sappia far anco di più, lo scimonito, pigliar delle mosche, cercar de pulci : et altre cosi fatte sciocchezze. Et se farà la parte di una serua, nell’uscir di casa, saper scotersi la gonella lasciuamente, se la ocasion lo comporta, ouer mordersi un dito per isdegno, et simili cose, che il poeta, nella testura della fauola, non puo esplicatamente insegnare.

Mass. Io mi ricordo hauerne ueduti di quelli che ad una mala noua si sono impalliditi nel uiso, come se qualche gran sinistro ueramente gli fosse acaduto.

Ver. Di questa prontezza trattando il diuino platone, nel suo dialogo del furore poetico, fà dire ad Ione, « ogni uolta ch’io recito qualche cosa miserabile, gl’ occhi mi lachrimano ; quando qualche cosa terribile o pericolosa, i capelli me si rizzano, » et lo che segue. Ma queste cose in uero malagevolmente insegnar si possono, e sono al tutto impossibili da impararsi, se da la natura non si apprendono. E ben che da gli antichi si facci mentione di molti histrioni eccelenti, et si conosce che questo era uno studio particolare, nel quale si essercitauano ; non si può però cauar regole di questa proffessione per che ueramente bisogna nascerci Et tra molti galanti huomini, che di recitare perfettamente si sono dilettati a tempi nostri [come il mirabile Montefalco et lo suegliatissimo Veratto da ferrara, l’arguto Oliuo, Et l’ acutissimo Zoppino da Mantoua, et un’altro Zoppino da Gazzolo. Et molti altri che potiamo hauer conosciuti a tempi nostri] mirabile mi è sempre paruto et pare il recitare d’ una giouane donna Romana nominata Flaminia, la quale oltre all’ essere di molte belle qualita ornata, talmente è giudicata rara in questa professione, che non credo che gli antichi uedessero, ne si possi fra moderni ueder meglio per chè in fatti ella è tale su per la scena, che non par gia a gli uditori di ueder rappresentare cosa concertata ne finta, ma si bene di ueder succedere cosa uera et improuisamente occorsa ; talmente cangia ella, i gesti, le uoci, et i colori, conforme a le uarietà delle occorenze, che commoue mirabilmente chiunque l’ascolta non meno a marauiglia, che a diletto grandissimo.

Sant. Mi ricordo hauerla udita, et sò che molti bei spiriti, inuaghiti delle sue rare maniere ; gli hanno fatto et sonetti, et epigramme, et molti altri componimenti in sua lode.

Mass. Ne udirei uolentieri alcuno.

Ver. Per compiacerui uoglio recitarui due sonetti soli che mi ricordo in lode sua l’ uno è

Mentre gli occhi fatali hor lieti, hor mesti &c.

l’ altro è

Donna leggiadra a cui la piu gradita &c.

hora per tornar a parlar de recitanti in generale dico di nouo che bisogna hauerci dispositione da natura, altrimente non si può far cosa perfetta ma però chi intende ben la sua parte, et che abbia ingegno troua anco mouimenti et gesti assai apropriati, da farla comparire come cosa uera, Et a questo gioua molto [come anco in molte altre parti è utile] lo hauer per guida lo stesso autore de la fauola, il quale hà uirtu generalmente, de insegnar meglio alcuni ignoti suoi concetti, che fanno comparir il poema piu garbato, et i suoi recitanti per conseguenza paiono piu desti. Dico desti. per che sopra tutte le cose bisogna che il recitante sia nel suo dire suegliatissimo, et sempre giocondo, eccetto che doue hà da mostrar qualche dolore, et anco in quel caso, lo hà da far con uiuacissima maniera, tal che non induca tedio a gl’ ascoltanti, et in somma si come il poeta con il soggetto uerisimile, et artificioso, et con le parole scelte, piene di spirito, e ben concatenate, hà da tener gl’uditori attenti ; cosi il recitante con uarij atti appropriati a i casi, li hà da tener sempre desti, et non li {p. 111}lasciar cadere in quella sonacchiosa noia, che tanto fastidisce altrui in cosi fatti spettacoli, qualhora lo histrione recita freddamente, et senza il debito feruore, et la conueniente efficacia. Et per fuggire questo diffetto, è neccessario a recitanti [et a quelli particolarmente che piu che esperti non sono] l’usarsi anco in tutte le proue, a questa uiuezza ch’ io dico, altrimente riescono poi sgarbatissimi nei pubblici teatri.

Sant. Per certo il recitante hà piu parte nella comedia, ch’io non pensaua, et forse che altri non crede.

Ver. Di atti, et di parole, ui ho detto altre uolte, che si compone la comedia, come di corpo, et d’anima siamo composti noi : l’ una di queste parti principali è del poeta, et l’altra è dello histrione. i mouimenti del quale, chiamati dal padre della lingua latina eloquenza del corpo, son di tanta importanza, che non è per auentura magiore l’ efficacia delle parole, che quella de i gesti. et fede ne fanno quelle comedie mute, che in alcune parti di europa si costumano, le quali, con gl’ atti soli si fanno cosi bene intendere, et rendono si piaceuole lo spettacolo, che è cosa marauigliosa a crederlo a chi ueduti non li habbia. Ma a questa corporale eloquenza [quantunque sia parte importantissima , talmente che è chiamata da molti l’ anima de l’ oratione, la qual consiste nella degnita de i mouimenti del capo, del uolto, degli occhi, e delle mani, e di tutto il corpo] non si potendo assegnare regola particolare, dirò solo, generalmente parlando, che il recitante dee sempre portar la persona suelta, Et le membra sciolte, et non annodate et intere. Deue fermar i piedi con appropriata maniera quando parla, et mouerli con leggiadria quando gl’ occorre, seruar co ’l capo un certo moto naturale, che non paia che egli l’ habbia affissato al collo co chiodi. et le braccia et le mani [quando non facci bisogno il gestar con essi] si deono lassar andare oue la natura gl’inchina. et non far come molti, che uollendo gestar fuor di proposito, par che non sappiano che se ne fare. Et se una Donna [per gratia di essempio] haurà pigliato per uezzo di mettersi la mano su ’l fianco ; o un giouane di appostarla su la spada ; non deue ne l’ una, ne l’ altro, star sempre, ne molto spesso, in quel modo ; ma finito quel ragionamento, che cotal atto richiede, rimouersi da quello, et trouarne un piu proprio al parlamento che segue, et quando altro gesto appropriato non troui ; o che atteggiar non gl’ occorre ; lasci andar come io dissi et le braccia, et le mani, oue gl’inchina la natura, sciolti et isnodati, senza tenerle solleuate, od aggroppate, come se co stecchi fossero attaccati al corpo. seruando pero sempre ne gl’ atti maggiore o minor grauità, secondo che lo stato richiede del personaggio che si rappresenta. et cosi anco nel suono delle parole, hora aroganti et hora placide, hor con timidezza, et hor con ardire esplicate ; facendo i punti al lor loco, sempre imitando Et osseruando il naturale, di quelle qualita di persone che si rappresentano : et sopra tutte le cose fuggire come la mala uentura, un certo modo di recitare dirò pedantesco, per non saperle io trouar piu proprio nome, simile al repetere che fanno nelle scole i fanciulli, quando dinanzi al lor pedagogo rendono di stomana. fuggir dico quel suono del recitare, che par una cantilena imparata alla mente, Et sforzarsi sopra tutte le cose [mutando le uoci, Et accompagnandoui i gesti, secondo i propositi] far che quanto si dice, sia con efficacia esplicato, Et che non paia altro che un familiar ragionamento, che improuisamente occorra. Et per che come dico il darui regole piu particolari, mi par impossibile, Et credo cosi generalmente circa a questo importantissimo auertimento, esser inteso abastanza ; non ci staremo ad alongare piu sopra, et uerremo al modo del uestire. parlando dunque de gl’ habiti, et lasciando il trattar de i modi antichi quando i uecchi tutti di bianco, et i giouani di uarij colori si uestiuano, i {p. 112}parasiti con mantelli attorti et affaldati, et le meretrici di giallo s’ ornauano ; per che cosi fatte osseruationi, sarebbono per la uarieta de gl’ usi, uani, o poco conosciuti ; dicoui principalmente ch’ io mi sforzo, di uestir sempre gl’ histrioni, piu nobilmente che mi sia possibile, ma che siano però proporzionati fra loro, atteso che l’habito sontuoso [et massimamente a questi tempi, che sono le pompe nel lor sommo grado, e sopra tutte le cose, i tempi, e i lochi osseruar ci bisogna] mi par dico, che l’ habito sontuoso, accresca molto di riputatione, et di uaghezza alle comedie, et molto piu poi alle tragedie. Ne mi restarei di uestir un seruo, di ueluto, o di raso colorato, pur che l’habito del suo patrone, fosse con ricami, o con ori, cotanto sontuoso, che hauessero fra loro la debita proportione : ne mi condurei a uestire una fantesca d’ una gonellaccia sdruscita, ne un famiglio d’ un farsetto stracciato, ma anzi porrei a dosso a quella una bona Gamurra, Et a questo uno apariscente giacchetto ; accrescendo poi tanto di nobile al uestire de i lor patroni, che comportasse la leggiadria de gl’ habiti ne i serui.

Mass. Non è dubbio che il ueder quei cenci, che altri mette tal uolta attorno ad uno auaro, o ad un famiglio ; toglie assai di riputatione allo spettacolo.

Ver. Ben si puo uestir uno auaro, o un uillauo ancora, di certi habiti che hanno nel lor grado del sontuoso, ne però si esce dal naturale.

Sant. Cosi è ueramente, douendosi rispettar massimamente come uoi dite anco gl’ usi de’ nostri tempi.

Ver. Io mi ingegno poi quanto piu posso, di uestire i recitanti fra loro differentissimi. et questo aiuta assai, si allo accrescere uaghezza con la uarieta loro, et si anco a facilitare l’ inteligenza della fauola. Et per questo piu che per altro cred’ io, che gl’ antichi haueuano gl’ habiti appropriati, Et i colori assegnati, a tutte le qualità de i recitanti. Hor se io haurò [per gratia di essempio] da uestir tre o quattro serui, uno ne uestirò di bianco, con un capello ; uno di rosso con un berettino in capo : l’altro a liurea, di diuersi colori : et l’altro adornarò, per auentura, con una beretta di ueluto, Et un paio di maniche di maglia, se lo stato di lui puo tollerarlo [parlando però di comedia che l’ habito Italiano ricerca] et cosi hauendo da uestir doi amanti, mi sforzo, si ne i colori, come nelle foggie de gl’ habiti ; farli tra lor differentissimi uno con la cappa, l’ altro co’ l ruboncello ; uno co pennacchi alla berretta, et l’altro con oro senza penne ; a fine, che tosto che l’huomo uegga, non pur il uiso, ma il lembo della ueste de l’uno, o dell’altro ; lo riconosca : senza hauer da aspettare, che egli, con le parole si manifesti. auuertendo generalmente, che la portatura del capo, è quella che piu distingue, che ogn’ altro habito, cosi ne gl’ huomini, come nelle donne : però siano diuersi tutti fra loro quanto piu si possa, et di foggia, et di colori.

Sant. O quante uolte son io stato ambiguo un pezzo, nel riconoscere uno in scena, per non esser ben differente da un altro recitante, o conseruo.

Ver. La uarieta de i colori, a questo gioua assai ; et uorrebbono essere per lo piu gl’ habiti di colori aperti, Et chiari, seruendosi il meno che sia possibile del nero, o di colore che molto cupo sia. ne solo mi sforzo io di uariare i recitanti fra loro, ma mi affatico ancora potendo di trasformare ciascuno, da l’ esser suo naturale, accio che non sia cosi tosto riconosciuto da li spettatori, che hanno giornalmente la sua pratica ; senza cader pero nell’errore, in che cadeuano gl’ antichi, i quali accio che i loro histrioni non fossero conosciuti, le tingeuano il uiso di feccia di uino, o di luto. per che a me basta il trasformarli, e non trasfigurarli, ingegnandomi quanto piu posso, di farli parer tutti persone noue. però che quando lo spettatore conosce il recitante, se gli leua in parte quel dolce inganno, in cui deuressimo tenerlo ; facendoli credere piu {p. 113}che sia possibile per uero successo, ogni nostra rappresentatione. Ma per che ogni nouita piu piace assai, riesce molto piaceuole spettacolo ueder in scena habiti barbari, et astratti dalle nostre usanze, et quindi auiene che riescono per lo piu cosi uaghe le comedie uestite alla greca. Et per questo, piu che per altra cagione fo io che la scena della comedia nostra che uedrete martedi [piacendo a Dio] si finge costantinopoli, per poter introdurui habiti cosi di donne come di huomeni, inusitati fra noi onde spero d’ aggiun ger uaghezza non poca allo spettacolo, oltre che piu ci parra sempre uerisimile il ueder succeder fra genti strane e che non conosciamo ; di quelle cose che per lo piu nelle comedie si rappresentono, che uederle acadére tra cittadini, co quali habbiamo continoua pratica. et se questo riesce ben nelle comedie, come per isperienza ne siamo certissimi, tanto piu succederà bene nelle tragedie. Nel uestir delle quali, dourà sempre chi le guida esser deligentissimo, non uestendo mai [se fia possibile] i suoi interlocutori, a i modi che modernamente si costuma, ma nelle maniere, che su le scolture antiche, o su le pitture figurati si ueggono, con quei manti, et con quelli abbigliamenti, co quali si figurano cosi uagamente quei personaggi de gl’ antichi secoli. Et per che tra i piu belli spettacoli, si mostra bellissimo il ueder comittiua di huomeni armati ; lodo che si facci comparire, in compagnia de i Re, o de i Capitani, sempre alcuni soldati, et gladiatori, guarniti all’ antica ne i modi che nelle castramentationi de i primi tempi si dissegnano, quando pero l’occasione lo patisca.

Sant. Veramente che queste cosifatte rappresentationi si conosce, che non son cose, se non da principi, che hanno l’ animo grande, et il modo da spendere, et ne gl’ apparati, et ne gl’ ornamenti che le si richiedono.

Ver. De gl’ aparati non uoglio che ragioniamo hoggi, et per dimane ui prometto di trattarne alquanto, Ma per non lasciarui ingannati, credendo uoi forse, che ci bisogna uno stato per rappresentare una tragedia, uoglio dir solo questo, che non é cosi mal fornita guardarobba d’un principe, che non se ne possa cauare da uestire ordinariamente ogni gran tragedia : se colui che la conduce, sara galant’ huomo, da sapersi seruire di quello che ci hà, et ualersi di alcuni drappi intieri, et di alcuni paramenti, et simile cose, dà far manti, soprauesti, et stole, con cinture, et nodi, ad imitatione de gl’ antichi, senza tagliarli, ne guastarli, in parte alcuna.

Mass. Certo, che chi uolesse fare tutti i uestimenti apposta, ui andrebbe [come disse il Santini] uno tesoro.

Ver. Il medesimo ui andarebbe anco, o poco meno, chi uolesse far di nouo apposta, tutti gl’ habiti da recitare una comedia, o anco una cosa pastorale. e pur ci seruiamo per lo piu di cose fatte.

Mass. Poi che ricordato n’ hauete non ui graui di gratia, dirne anco il modo con che si uestono queste cose pastorali, et come si fabbricano le lor scene, ch’ io non sò d’ hauerne mai ueduta rappresentar alcuna.

Ver. Circa alle scene pastorali parlaremo con gl’ altri aparati dimane ; hora circa al modo del uestirle dico che se il poeta, ui haurà introdotto alcuna deita, od’ altra noua inuentione ; bisogna in questo, seruire alla intention sua : ma circa al uestir i pastori, si haurà prima quello auertimento, che si è detto anco conuenire nelle comedie ; cioè, farli tra lor piu differenti che si può, Et quanto al generale il lor uestir sara questo. Coprir le gambe et le braccia, di drappo di color di carne, Et se sara il recitante giouane et bello, non si disconuerà, lo hauer le braccia, et le gambe ignude, ma non mai i piedi, i quali sempre hanno da essere da cothurni, o da socchi, leggiadradramente calzati. habbia poi una camisciola di zendado, o altro drappo di color uago, ma senza maniche ; et sopra quelle due pelli [nel modo che descriue Homero ne l’ habito del pastor troiano] {p. 114}o di pardo, o di altro uago animale, una su’ l petto, et l’ altra su’ l dosso, legandole insieme, con li piedi di esse pelli, sopra le spalle del pastore, et sotto i fianchi. et non è male per uariare, legarne ad alcuni pastori sopra una spalla sola. Habbia poi alcuno d’ essi un fiaschetto, o una scodella di qualche bel legno a cintola, altri un Zaino legato sopra una spalla, che gli penda sotto l’opposito fianco. Habbiano ogn’ un d’ essi un bastone, altri mondo altri fronzuto in mano, et se sarà piu strauagante, sarà piu a proposito. in capo le capillature, o finte, o naturali ; altri aricciati et altri stesi, et culti. ad alcuno, si può cinger le tempie d’ alloro, o d’ hedera, per uariare, et con questi modi, o simili, si potrà dire che honoreuolmente sia nel suo grado uestita : Variando i pastori l’ uno da l’ altro, ne i colori, et qualità delle pelli diuerse, nella carnagione, et nella portatura del capo, et simile altre cose che insegnar non si possono, se non in fatti, e con il proprio giudicio. Alle nimphe poi, dopo l’ essersi osseruate le proprietà loro descritte da poeti, conuengono le camisce da donna, lauorate, et uarie, ma con le maniche. et io soglio usare, di farci dar la salda, accio che legandole co munili, o con cinti di seta colorate, et oro, facciano poi alcuni gomfi, che empiano gl’ occhi, et comparano leggiadrissimamente. gli addice poi una ueste dalla cintura in giù, di qualche bel drappo colorato, et uago, succinta tanto che ne apaia il collo del piede ; il quale sia calzato, d’ un socco dorato, all’ antica, et con atilatura, ouero di qualche somacco colorato. gli richiede poi un manto sontuoso, che da sotto ad un fianco, si uadi ad agroppare sopra la oposita spalla. le chiome folte, Et bionde, che paiono naturali, et ad alcuna si potranno lasciar ir sciolte per le spalle, con una ghirlandetta in capo. ad altra per uariare aggiungere un frontale d’ oro, ad altre poi non fia sdiccuole annodarle con nastri di seta, coperte con di quei veli sutilissimi et cadenti giù per le spalle, che nel ciuil uestire, cotanta uaghezza accrescono ; et questo [come dico] si potrà concedere anco in questi spettacoli pastorali, poi che generalmente il uelo suentoleggiante, è quello che auanza tutti gl’ altri ornamenti del capo d’una donna, et hà pero assai del puro Et del semplice come par che ricerca l’habito d’una habitatrice de boschi In mano poi habbiano queste nimphe, alcune di esse un’arco, et al fianco la pharetra, altre habbiano un solo Dardo, da lanciare, alcune habbiano poi et l’ uno, et l’ altro. et sopra tutti gl’ auuertimenti, bisogna che chi essercita questi poemi, sia bene essercitato per che è molto piu difficile condur una sifatta rappresentatione, che stia bene : che non è a condurre una comedia ; et per la uerità fa anco molto piu grato, Et bello spettacolo.

Sant. Sotto questo nome di nimphe uoi non comprendete gia tutte le sorti di donne, che in tali spettacoli s’ intropongono ? ne sotto il nome di pastore tutti gli huomeni ?

Ver. Anzi nò, per che se il poeta u’ introducesse [come sarebbe per essempio] una maga bisognarà uestirla secondo la sua intentione. o se u’ introdurà un bifolco, con l’ habito rozzo, Et Villanesco, bisognarà figurarlo. ma se ui sarranno, come sarebbe, pastorelle ; il modo del uestir delle nimphe, le potrà ben dar la norma : senza manto, uariandolo dal piu sontuoso al meno, et senza darle altro in mano, che un bastone pastorale. Et si come rende gran uaghezza, se il pastore haurà seco alle uolte, uno, o piu cani, cosi mi piacerebbe, che alcuna delle Nimphe de boschi ne hauesse ; ma di piu gentili, con collari vaghi, et copertine leggiadre. e per finire quello, che a me pare a questi poemi conuenirsi, dico che si come nella lor testura, le se ricerca il uerso ; cosi bisogna che chi li ueste, o essercita facci accompagnare, la presenza et i mouimenti di chi ui recita, alla grauità che con li uersi li haurà dato il poeta. {p. 115}Mass. Io non credo, che sia possibile assegnar piu particolar regole di quelle che assegnate ci hauete sopra le cose pastorali : però tornando oue ci togliemmo, ueniamo al atto di mandar fuori il prologo delle comedie.

Ver. Prima che si conduca a questo, si suol fare una rassegna, de i personaggi, et uedere, se sono tutti prouisti di quelle cose, che fa lor bisogno, nel modo che in una lista [come quella ch’ io faceua pur dianzi] bisogna hauer notato : per che una poca cosa che si scordi, può in gran parte sconcertar lo spettacolo. Oltra di questa, io me ne soglio fare un’ altra molto utile, et necessaria ; doue noto tutte le scene per ordine, co i nomi de suoi personaggi, et con il segno della casa, o della strada, di onde hanno ad uscire, et a qual desinenza, co ’l principio anco de le lor parole ; accio che con questa norma, possi chi n’ haurà cura, porre tutti i recitanti sempre a tempo al lor loco. Et spinger fuori ogn’ un d’ essi, alla sua desinenza, e porli anco in bocca la parola, con che haurà da cominciare.

Sant. A questo modo, non è periglio, che possi restar da una scena all’ altra, il Theatro uoto. hora ueniamo al mandar giu della cortina o sipario che se la chiamassero gl’ antichi.

Ver. Prima che quella cada, lodo il far suonar alquanto, ad imitatione dei primi comici, o trombe, o piffari, ouero qualche altro istromento strepitoso, che habbia forza di destare gli animi, quasi adormentati per la lunga dimora che ordinariamente fan la maggior parte de gli spettatori, prima che si uenghi al desiderato principio : et questo Gioua anco per risuegliare i cori de i recitanti.

Mass. Questo per proua ho ueduto io far grande effetto. hor ueniamo ai prologhi et alle qualita di essi.

Ver. Quanto alle qualita loro, a me pare, che abbiano molta maesta, et che siano molto conuenienti, quei modi de prologhi usati da gl’ antichi, cioè che in persona del poeta, eschi uno, togato, Et laureato, il cui habito richiede essere, non men sontuoso che graue. Et addice molto aggiungere sotto alla laurea, una capillatura posticcia, si per trasformare il personaggio, come per farlo parere persona antica. et questo haurà da uenire subito calate le tende, con passo lentissimo et graue da la estrema parte della scena. et giunto con tardità a mezo d’ essa ; fermarsi tanto ; che senta ridotto in silentio quel bisbiglio, che suol sentirsi in cosi fatti lochi : et poi agiatamente incominciare. Ne lodo io, che uadi mutando loco ; ma che con grauità si fermi a recitare, e se pur haurà da mouersi ; da un proposito all’ altro, puo far un passo solo, o due, ma graui, senza però uoltar mai le schiene a gl’ uditori. et non essendo hora fuor di proposito al tutto, dirò per regola generale, cosi a tutti i recitanti come al prologo, et all’ argomento ; che mai non bisogna Voltar le spalle a spettatori, et che sempre è bene il ridursi a ragionare piu in mezo, et piu in ripa al proscenio, che sia possibile, si per accostarsi il più che si può a gl’ uditori ; come per iscostarsi quanto piu sia possibile dalle prospettiue della scena, poi che accostandolisi perdono del lor naturale, et il molto discostarsene par però poco a i ueditori ; come benissimo la esperienza ci mostra. et generalmente dico ancora, che mentre si parla ; non si dee mai caminare, se gran necessità non ce ne sforza.

Mass. Questo è benissimo inteso. hor ditene di gratia se la scena si fingerà, per cosi dire, esser Roma, et che la comedia [poniam caso] si reciti in firenze, questo prologo, con chi ha da parlare, et in che loco hà da mostrar di trouarsi ?

Ver. Lassando da parte per hora quelle inuentioni di prologhi doue s’ introduce deità od’ altri personaggi estraordinarij [de quali si trattarà poi ragionando de gl’ intermedij uesibili] dico, che quello che in persona del poeta fauella ; ha da rizzare sempre il suo ragionamento alli spettatori [contrario allo che ha da fare il recitante] et mostrarsi come lor citta {p. 116}dino : dandoli notitia della citta che rappresenta la scena ; della qualita et del titolo della fauola, chieder il silenzio, et altre cose simili.

Sant. Hor circa a gl’ intermedij non ci uolete uoi dir hoggi cosa alcuna ?

Ver. Lasciando di parlar di quelli che apaiono in scena, di che si trattarà dimane, come ui ho detto, e darouui anco sopra essi il mio parere circa il loro accrescere o scemare riputatione a le comedie, dico, che gl’ intermedij di musica almeno, sono necessarij alle comedie, si per dar alquanto di refrigerio alle menti de gli spettatori ; et si anco per che il poeta [come ui cominciai a dir hieri] si serue di quello interuallo, nel dar proportione alla sua fauola. poscia che ogn’uno di questi intermedij, ben che breue, puo seruir per lo corso, di quattro, sei, et otto hore a tale che quantunque la comedia, per lunga che sia, non hà da durar mai piu che quattro hore ; spesso se le dà spatio di un giorno intiero, et anco alcuna uolta di mezzo un’ altro, et il non comparire personaggi in scena ; fa questo effetto con maggiore eficacia.

Mass. E che sorti d’intermedij ui par poi, che piu conuengono alle tragedie, et ai poemi pastorali ?

Ver. Le tragedie come credo auer altre uolte significato, non hanno propriamente ad essere destinte in atti [quantunque i moderni per propria autorita le diuidono] et i chori che in esse si fanno da poeti, sogliono seruire per quella parte, che hà da trascorrer di tempo tra un successo et l’altro. Ma per che par che si usi a tempi nostri da destinguerle [pero che i moderni le ordiscono di piu lunghi soggetti] diremo dimane qual sorte d’intermedij son giudicati piu lor conuenirsi, Et insieme anco parlaremo de gl’ interualli de poemi pastorali, poi che per hoggi si è detto assai : et in uero mi conuiene essere a far proua di alluminar la scena della nostra comedia, per ueder che non gli manchi cosa alcuna, et però con uostra licenza farò fine al mio ragionamento, se però non uoleste uenir anco uoi, a ueder questa proua.

Sant. Vogliamo noi, o signor Massimiano accettar questo cortese inuito ?

Mass. E per che no ?

Ver. Andiamo dunque alla scena.

Sant. Andiamo.

Nulla di più importante e di più interessante per la storia della scena italiana, di questo dialogo, in cui sono massime e sentenze che assai ben si addirebbero agli attori di oggidì, e da cui possiam capir chiaro come il metodo di recitazione degli antichi comici si mantenesse quasi invariato fino a tutta la prima metà del secolo presente. Il progresso dell’arte esteriore, se così posso dire, ossia di tuttociò che concerne il gesto, la voce, la dizione ; quel progresso che fa spesso proferire un discorso eterno colle spalle voltate al pubblico, e tutto d’un fiato, rapido, precipitoso, ruzzolato, che il pubblico non arriva mai ad afferrare ; quel progresso che fa del palcoscenico, nel nome santo della verità, e a scapito dell’arte e del buon senso, una stanza a quattro pareti, senza tener conto quasi mai che per una di esse, il boccascena, gli spettatori han diritto dai palchi e {p. 117}dalla platea di vedere e udire quel che accade lassù ; quel progresso, dico, ha vita da poco più che trent’ anni.

Gli avvertimenti sulle Commedie nuove, sul parlare adagio, sul sillabare, sulla truccatura, sulla pronuncia delle ultime sillabe, sul gestire, sul non scordare oggetti necessari alla azione, sul buttafuori, o sveglione, o, come si dice oggi, soggetto, sulle scene vuote potrebber bene attagliarsi alle scene di oggi. Nè voglio mi si dìa del codino, se certe novazioni non sottoscrivo alla cieca. Progresso ci ha da essere, e certi convenzionalismi barocchi devono esser banditi. Ma dal conversar dinanzi a ’l pubblico schierati presso la ribalta, al restar gran tempo inchiodati alla scena di fondo, presso un camino con le spalle verso il pubblico, a me pare che il tratto sia troppo lungo. Senza convenzionalismi arte non v’ha : e molte volte per isbandirne uno a casaccio, se ne crea un altro maggiore e peggiore.

Andreini Giovan Battista. Figlio dei precedenti, nacque a Firenze il 9 febbraio del 1576.

Antonio Valeri (Carletta) nel suo pregevole studio (Un palcoscenico del seicento, Roma 1893) fu il primo, col soccorso del ritratto che è innanzi alla Florinda, a stabilire erronea la data di nascita dell’Andreini (1579) accettata sin quì da i più. L’oroscopo che tolgo da un codice della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, per gentile comunicazione dell’egregio sig. Baccini, e che riproduco in fine, taglia ogni discussione in proposito.

Passò Giovan Battista la prima giovinezza a Bologna ove si diede allo studio delle scienze. Invogliato poi di continuar l’arte dei genitori, entrò con essi nella Compagnia di Flaminio Scala, recitando con molto successo le parti d’innamorato sotto il nome di Lelio. Sposò in Milano nel 1601 Virginia Ramponi, giovane e bella milanese, la quale sotto la direzione del marito, diventò in breve rinomatissima attrice col nome di Florinda. Quando la madre Isabella morì in Lione, egli era colla moglie in Firenze, ove compose per essa la tragedia Florinda, la cui prima edizione fu da lui abbruciata per gli errori {p. 118}ond’era piena zeppa. Fu l’Andreini capocomico e direttore della Compagnia dei Fedeli, ch’ egli volle emula in tutto della celebre, allora estinta, dei Gelosi.

Oggi ancora il mondo
risuona de’ Gelosi il nome eterno,
che fra palme et honor spiegaro a l’aura
virtuoso vessil cui seguon lieti
(emuli professor) quei che Fedeli
Comici appella l’uno e l’altro polo….

(Saggia Egiziana, pag. 33). Di codesta Compagnia fecero parte la moglie Virginia, Eularia Coris, Giovan Paolo Fabri, Niccolò Barbieri, Domenico Bruni, Diana Ponti, Niccolò Zecca, Girolamo Garavini, ed altri. (Cfr. A. Bartoli, Introduz. agli scenarj).

Recatosi a Parigi la prima volta, pare, nel 1613 per invito di Maria de’ Medici, che aveva accettato la dedica dell’Adamo, vi ebbe onori non più uditi : questa volta però in qualità di amoroso e amministratore ; il direttore vero e proprio della Compagnia, dopo un fuoco ben nutrito da ambe le parti di raccomandazioni, proteste, suppliche, ecc., fu l’Arlecchino Tristano Martinelli, del quale il Baschet (Les Comédiens italiens à la cour de France sous Charles IX, Henri III, Henri IV, et Louis XIII, Paris, Plon, 1882) riporta i contratti.

La prima recita ebbe luogo il ventiquattro di novembre all’Hôtel de Bourgogne, ove le cose non andaron nè bene, nè male : e la Compagnia si trattenne a Parigi fino alla fine di luglio, recitando ora al Louvre per il Re, ora all’Hôtel de Bourgogne per il pubblico. Da una ricevuta del Martinelli rilasciata al signor di Beaumarchais, consigliere del Consiglio di Stato di S.M., abbiamo che alla Compagnia furon pagate 1800 lire, in ragione di 600 lire mensili.

Altra volta però, l’otto aprile 1614, non per rimunerazione reale delle recite fatte a Corte, ma per contratto privato fra i proprietari e reggenti dell’ Hôtel de Bourgogne e la Compagnia, non si riconobbe per contraente il Martinelli, ma {p. 119}l’Andreini, detto Lelio, accettante così per lui come per Tristano Martinelli detto Arlecchino e pei comici italiani loro compagni. Il contratto durò dall’otto aprile al sette giugno, e fu poi rinnovato per altri due mesi col corrispettivo di dugento lire mensili : ma il termine del secondo contratto non fu compiuto, poichè pare che la Compagnia tornasse in Italia sul finire del luglio, come si può vedere da una lettera della Regina a sua nipote la Duchessa di Lorena, concernente appunto Lelio e Florinda. L’Adamo che l’Andreini fece stampare in Milano, illustrato dal pittore bolognese Carlo Antonio Procaccini, oltre {p. 120}al valore intrinseco ha un valore istorico, poichè vuolsi da alcuno che ad esso e non ad altro pigliasse Milton l’ispirazione pe ’l suo Paradiso Perduto. (Vedasi per questo il citato studio di Enrico Bevilacqua che analizza largamente e magistralmente le due opere).

Dalla Florinda — Edizione di Milano, Gerolamo Bordone, m.dc.vi.

Veramente riaffacciatasi la questione delle date, quella della rappresentazione dell’ Adamo e quella dell’età del Milton, potrebbe cader dubbio sul fatto della prima ispirazione. Che il Milton abbia conosciuto l’Adamo dell’Andreini pare fuor di dubbio ; ma dal leggere un’ opera e magari seguirne poi le traccie, più qua allargandone il disegno, più là attenuandone le tinte, al riceverne la prima ispirazione ci corre : forse l’ha avuta da una rappresentazione della Scena tragica d’Adamo e d’Eva estratta dalli primi tre capi della Sacra Genesi, et ridotta a significato morale da Troilo Lancetta Benacense ? L’opera, dedicata alla Serenissima Maria Gonzaga, duchessa di Mantoa, di Monferrato, ecc., fu stampata a Venezia dal Guerigli il m.dc.xliv. La stessa data ha la lettera dedicatoria, e il Milton venne in Italia sul’38….

Forse, chi sa, il Voltaire confuse i due Adami ? Fra le tante sciocchezze snocciolate al proposito dell’opera andreiniana, poteva mettere anche questa. V’ è chi è andato a tirar fuori l’Angeleide del Valvasone, e la Strage degli Innocenti del Marini, ed altro. Sappiamo che il Milton aveva appreso l’ebraico e il siriaco all’intento di poter legger la Bibbia nei testi originali, e sappiamo ch’ ebbe, giovanissimo, il pensiero di farsi prete. Non poteva dunque dalla Genesi stessa, col mistico fervore del suo spirito, accogliere l’idea del poema che doveva poi farlo immortale ?

Comunque sia, tornando all’Andreini, senza tener troppo dal Maroncelli che alza iperbolicamente al cielo la forte creazione dell’ Adamo, senza tener troppo dal D’Ancona che lo stile dell’ Adamo chiama noioso documento di secentismo, a me pare che cose veramente belle e buone in questo vasto dramma non manchino. Qui, come in tutta la produzione letteraria {p. 121}dell’Andreini, è gusto per tutti i palati : chè a dare un’occhiata alle sue opere, si potrebbe affermare non essere in alcuna di esse l’espressione ben chiara dell’ animo suo, tanto son esse d’indole svariata. Accanto ad opere di un ascetismo oserei dire ridicolo, alle solite difese del teatro virtuoso, alle lacrime, alle penitenze stemperate in versi più o meno barocchi, troviamo commedie, nelle quali sono frasi e parole da far arrossire il più spregiudicato. Adolfo Bartoli, citando nella sua dottissima introduzione agli Scenarj inediti della Commedia dell’Arte, certe oscenità che sono in bocca al Magnifico nella {p. 122}Ferinda dell’Andreini, aggiunge : « figurarsi quel che scrivevano gli altri, se lo scriver questo sembrava possibile al devoto (?) Andreini. »

La La scena si finge nelle foreste di Scozzia.

(Dalla Florinda — Edizione di Milano, Gerolamo Bordone, m.dc.vi).

Di Francia tornò la Compagnia nel luglio del’14. Troviamo l’Andreini, nel’16, al servizio di don Alessandro Pico, principe della Mirandola, al quale dedica la rappresentazione sacra della Maddalena, ch’egli aveva scritta in Francia, a istigazione della Regina Maria ; e che fu musicata, nel’18 — secondo scrisse il Canal — dal Monteverdi insieme con Salomone De Rossi, con Muzio Effrem, maestri della ducale Cappella, e con Alessandro Ghivizzani, lucchese. La ristampa nel’20, poi ancora nel’52, il settantatreesimo dell’età sua, tagliata, ridotta in tre atti, rimpolpettata secondo le esigenze della scena. Di questa ci serviremo come breve esame alla fine di questo studio ; poichè se in alcune parti essa può parere il più bel pasticcio comico-drammatico-tragico-melodrammatico-mimo-danzante che sia mai stato visto sulla scena a chi piuttosto la guardi un po’ superficialmente, in altre, senza dubbio, dopo un’ accurata analisi si manifesta opera fortissima, ricca di originali bellezze.

Per intercessione di suo padre, Giovan Battista ebbe l’onore nel 1618 di esser fatto comico ai servizi del serenissimo Francesco Gonzaga II ; e fece con magnificenza di allestimento scenico recitare in Casal Monferrato la sua Turca, in occasione delle nozze di esso Duca con Margherita di Savoja, primogenita del Duca Carlo Emanuele.

Troviamo poi l’Andreini a Brescia e a Venezia nel 1619 ; nel’20 a Milano, ove recita con grande successo la parte del protagonista nel suo Lelio bandito, nuovissima tragicommedia boschereccia, che vediamo dedicata al Nerli, ambasciatore del Duca di Mantova a Milano, colla data del 5 agosto 1620. Finalmente, dopo inaudite difficoltà, la Compagnia, e questa volta sotto la direzione di Lelio, si decide di tornare in Francia, ove, a Parigi e a Fontainebleau, gli affari vanno a gonfie vele, e Lelio e Florinda, la moglie, festeggiatissimi, ricevono regali in danaro, vestiti e gioielli ; e ove pubblica per le stampe del {p. 123}Delavigne (1622) le nuove commedie La Sultana, La Ferinda, L’Amor nello specchio, I due Leli simili e La Centaura.

Dalla Veneziana, Comedia di G. Batta Andreini sotto nome di « Sior Cocalin De I Cocalin da Torzelo » Academico Vizilante detto el Dormioso. (Venezia, Aless. Polo, 1619).

Ma eccolo di nuovo in Italia nel 1623, e precisamente a Torino nella stagione di Pasqua ; poi di nuovo a Parigi nel’ 24, ’25 e parte forse del’26 ; poi di nuovo in Italia (a Cremona sul finire del’26, a Venezia sul principio del’27, ove pubblica pei {p. 124}tipi del Salvadori la nuova commedia la Campanaccia) ; poi nel 1628 a Praga, ove dedica il poemetto La Maddalena all’arcivescovo Cardinal d’Arrach, divenuto il suo protettore, e a Vienna. Recatosi a Bologna nel’30, anno in cui infieriva la peste, l’Andreini, rimastone illeso, compose in ottava rima Il Penitente alla SS. Vergine del Rosario : a codest’ epoca probabilmente, e probabilmente di contagio, gli muore la moglie Florinda.

Ma eccolo di nuovo a Verona, Vicenza e Venezia nel’33, a Mantova nel’34, poi a Bologna, ove (stesso anno) pubblica pei tipi di Giacomo Monti e Carlo Zenero la nuova commedia boschereccia I due baci, ch’egli dedica in data dell’ 11 giugno ai coniugi Odoardo e Maria Pepoli : in quest’ epoca (cfr. F. Bartoli) egli si unisce in seconde nozze a un’attrice della sua compagnia per nome Lidia. Lo troviamo nel’38 a Pavia e nel’39 a Bologna. Là, stampatore Giovanni Andrea Magri, pubblica altra commedia boschereccia La Rosa — ch’egli dedica al governatore spagnuolo di Milano Don Diego Filipez Guzman ; qua, stampatore Nicolò Tebaldini, l’Ismenia, opera reale e pastorale, com’egli la chiama, dedicata a Monsignor Giov. Battista Gori Panellini, vicelegato in Bologna, ultimo de’lavori scenici andreiniani. A Bologna, nel 1642, pubblica per Nicolò Tebaldini, e dedica a Ferdinando II, Granduca di Toscana, un poemone in 25 canti, che vorrebbe essere comico, intitolato l’Olivastro, o vero Il Poeta sfortunato, a proposito del quale apprendiamo dal Bartoli (Introd. cit., pag. cxiv n.), come il marchese Ferdinando Cospi scrivesse al principe Mattias de Medici da Bologna il 5 agosto 1642 : « M’ onorò V. A. S. a questi mesi passati di comandarmi ch’ io servissi il sig. Gio. Batista Andreini detto Lelio comico, com’ in effetto ho fatto com’ho potuto, e come V. A. S. dal medes. sentirà. Egli se ritorna in Toscana per presentare al ser.mo Gran duca il Poema che le dedica, finito e stampato qui in Bologna. Questo è molto piaciuto e parso bello, che però ne riporta laudi l’autore. »

Quando e dove l’Andreini morisse non sappiamo : sappiamo solo (cfr. F. Bartoli) che recitava a settantatre anni nella [n.p.]stessa guisa che facevalo venti anni prima, e che viveva ancora a settantaquattro anni. Egli prese il posto nella Compagnia de’ Gelosi di Domenico Bruni, Fulvio, il noto autore delle Fatiche Comiche, e fu il primo che pare assumesse in commedia il nome di Lelio. Lo stesso Bruni dice di lui : « Di Gio. Battista Andreini, degno figlio di così degna madre, non si può dire a bastanza, poichè se Cleante mendicava la notte il vivere per potere poi il giorno impiegarlo nell’ udire i filosofi di Atene ; questo ne’ travagli della sua gioventù, tra le maggiori avversità, tenendo sempre in pronto la penna, ha fatto con le sue opere chiaro che il vero comico deve affaticarsi, se vuole giungere al termine d’onoredove egli è arrivato. »

Dall’Adamo-Edizione di Milano, Gerolamo Bordone, 1617.

Parlando il Beltrame (op. cit., pag. 21) degli onori fatti a’ comici, dice : « Il Signor Gio. Battista Andreini detto Lelio in Commedia, quegli che ha tante opere spirituali alle stampe, fu accettato tra’ Signori Accademici spensierati, ed è stato favorito {p. 126}da’ Principi in molte occasioni, ed in Mantova ebbe fino titolo di Capitano di Caccia di certi luoghi in quello Stato. »

Tra’versi in lode dell’Andreini, metto qui il sonetto dell’Agitato, Vincenzo Panciatichi, il quale tolgo dal Bartoli ; un sonetto inedito di Giovanni Caponi, che è in un Codice Morbio ampiamente descritto all’articolo seguente su Virginia Andreini, e due madrigali del fratello Domenico.

Quel che d’ogni virtù sublime e rara
e più sublime e raro alto furore,
che disceso dal ciel solleva un core
da questa valle alla magion più chiara ;
per cui felice errante il mondo impara
come si perde e si guadagna onore,
come s’ammenda il giovenile errore,
come diviene ogni dolcezza amara ;
in te così, saggio Andreini, ha regno,
che non potendo più chiuderlo in seno,
di Florinda nel duol lutto si mostra.
Onde ben creder puoi che nobil segno
sen voli altero il nome tuo sereno,
sprezzator d’eternarsi in mortal Chiostra.
Qualhor tentate sotto nome finto
spiegar su l’alta et honorata scena
forti concetti d’amorosa pena,
l’animo han tutti a mirar Lelio accinto ;
ma quando poi dalla sant’aura spinto
sciolto d’ogni mortal cura terrena
notate in carta con feconda vena
carco di laude, e gloria ornato, e cinto,
prepongon tanto Gian Battista a quello,
per cui cinque cittadi a garra foro,
quanto è di quell’ il suo miglior soggetto.
Onde ben posso ad un istesso oggetto
dar lode doppia, e per lo stil nouello
dir Lelio ammiro, e Gian Battista honoro.

{p. 127}Il Signor Capitano

DOMENICO ANDREINI

fratello dell’AVTORE per la

MADDALENA in

Milano rappresentata.

Tu che’l piè su Teatri, il capo in cielo
ANDREINI ogn’or tieni,
veridico ti svelo
che nascesti più a Pulpiti che a scene.
Le pindariche or tu smover Sirene
carmi a ’ntuonar di Santità ripieni,
già fanti al tasteggiar di nobil CETRA
il ROSSIO teatral, l’ORFEO de l’Etra.

MILANO

A Comici Fedeli la Maddalena

Lasciva, e Penitente, rappre-

sentando, fizzione dello

stesso Signor

Capitano Domenico Andreini

Di lagrime ondeggiar l’orchestre piene
vider gl’Insubri allora
che MADDALENA in su FEDELI Scene
e lasciva, e pentita,
Or Satan, or GESU segue, ed adora.
A dedalea cotanta alta salita
poggiaste or voi, o RECITANTI industri !
Qui in su i vanni de’Lustri
dir s’udrà (vostre glorie a’Poli in seno)
di drammatici CIGNI è ’l Ciel ripieno.

Tra quelli dell’Andreini, per dare un saggio del suo scrivere, e come poeta e come autore drammatico, oltre al sonetto {p. 128}in lode di sua madre (V.), e ai madrigali in lode di Eularia Coris e della seconda moglie Lidia (V.), metto qui il monologo di Lucifero nell’Adamo, atto I, scena II, e il breve esame della Maddalena lasciva e penitente, della quale è trascritta una scena per intero.

Lucifero

Chi dal mio centro oscuro
mi chiama a rimirar cotanta luce ?
Quai meraviglie nove
oggi mi scopri, o Dio ?
Forse se’stanco d’albergar nel cielo ?
Perchè creasti in terra
quel vago Paradiso ?
Perchè riporvi poi
d’umana carne due terreni Dei ?
Dimmi, Architetto vile,
che di fango opre festi,
ch’ avverrà di quest’ huom povero, ignudo,
di boschi abitator solo e di selve ?
Forse premer co ’l pie’ crede le stelle ?
Impoverito è il Ciel, cagione io solo
fui di tanta ruina, ond’ or ne godo.
Tessa pur stella a stella ;
v’aggiunga e Luna e Sole ;
s’affatichi pur Dio
per far di novo il Ciel lucido, adorno ;
ch’al fin con biasmo, e scorno,
vana l’opra sarà, vano il sudore.
Fu Lucifero sol quell’ampia luce
per cui splendeva in mille raggi il cielo,
ma queste faci or sue son ombre e fumi,
o de’ gran lumi miei bastardi lumi.
Il ciel che che si sia, saper non voglio ;
che che si sia quest’ uom saper non curo :
troppo ostinato e duro
È il mio forte pensiero
in mostrarmi implacabile e severo
contra’l ciel, contra l’uom, l’angelo e Dio ! !

{p. 129}La Maddalena

Dopo di aver dato l’elenco dei personaggi che sono una trentina, senza il coro, l’autore descrive l’

APPARATO

L’apparato tutto esser dovrà mare e scogli ; e nel lontano dello stesso mare, alcuna barchetta vedrassi, prima però che apparisca il Prologo, come parimente guizzare varj pesci ; ma poi non mai questi pesci vedransi, se non quando le sinfonie risuoneranno ; ma però di rado. Dovrà tutto il cielo essere stellato, e ’n mezo alle stelle esser dovrà la Luna in plenilunio situata ; e ’n così fatta congiuntura apparirà il Favor Divino in Prologo, sovra carro luminoso in eccesso, e tutto a stelle ornato ; retto il carro da nubi e d’oro e d’argento ; e le nubi parimente sostenute saranno da duo angioli ; e qualora il Prologo, tra questi tre musicalmente al fine sarà per ridursi, così a poco a poco spariranno le stelle, e dal mar sorta l’aurora, e poi dopo l’aurora il Sole, partito il Prologo all’usanza di sinfonie melodiose, l’apparato che marittimo tutto era, rappresenterassi dalle parti in Palazzi sublimi, e nel mezzo poi la residenza di Maddalena, superbissima al possibile.

E dopo le poesie in lode dell’autore e delle attrici che rappresentaron Marta e Maddalena è stato aggiunto a queste indicazioni un

AVVERTIMENTO NELL’APPARENZA DEL PROLOGO,

CHE DATO NON S’ERA

(Subito alzata l’antitela, si dovrà sentir da tutte parti del teatro, uccelletti garrire, quaglie, cucchi ; e queste voci imitate da quelli istromenti di terra, che d’acqua s’empiono da quagliaruoli e cucchi di terra ; e sempre dovran suonare, sin che la nuvola dov’ è il Favor Divino sia discesa, accompagnando li suoni di questi uccelli, l’armonia delle sinfonie ; e cosi, finito il Prologo, allorchè la nube ascenderà, pur delle sinfonie al suono, dovransi gli uccelli sentire).

A questo avvertimento si aggiungono le note per le sinfonie e i mutamenti di scena a vista che dànno un’idea ben chiara di quanto l’Andreini fosse padrone degli effetti teatrali. Dopo che il Prologo ha recitato le prime quattro quartine, « al suono di concerto melodioso di varie trombe » scende dal Cielo la Ghirlanda, poi, cessate le trombe, continuano le sinfonie e ’l canto. Il Prologo recita ancor due quartine, poi i due Angioli che reggon le nubi cantano un verso per uno, replicando a due voci l’ultimo verso con accompagnamento di piena orchestra (a tutto coro d’istrumenti). Cessato il canto degli Angioli, il {p. 130}Favor Divino canta un a solo composto di tre strofette a ottonarj e quadrisillabi tronchi, di cui l’ultimo verso è ripetuto tra ’l Favor Divino e i due Angioli, con ischerzi musicali, due volte, poi, una volta, a tutto coro di voci e di strumenti, in compagnia degli Angioli e del Favor Divino.

Ma più notevole di tutte per effetto teatrale deve essere stata la scena nona del terzo atto, l’ultima cioè del lavoro, nella quale Maddalena ha modo davvero di mostrar tutta la potenza sua in un monologo, che, se ne togli il fraseggiare gonfio e bislacco, portato naturale del tempo in cui fu scritto, a me pare teatralmente perfetto.

Maddalena entra « di cilicio vestita, a piè nudo, scapigliata, cinta di nodosa e grossa fune, nella sinistra mano una testa di morte portando ; » lamenta la vita disordinata, invoca i martirj tutti della Passione di Gesù, e finalmente, affranta dal dolore, si sviene. Allora vien subito « sollevata da terra con ingegno sotterraneo alquanto in alto » sostenuta dai lati da due Angioli : e nello stesso tempo la scena si muta in asprissimo deserto. Qui i due Angioli cantano due strofe a solo alternate, invitandola a riaversi, poi scompaiono ; e Maddalena si riscuote infatti, prima come insensata, poi con tacita ammirazione contemplando per ogni parte il deserto. A un dato punto si apre un antro, ove è immensità di luce, poi in essa luce un Crocifisso, davanti al quale Maddalena s’inginocchia e prega ; poi presoselo fra le braccia « e a capo chino rimirandolo, al suon d’un flebil Miserere passeggiato il teatro per un poco, parte ; e qui al suon di trombe s’apre la Gloria, dove si vedono molti Angeli, Maddalena altamente nello stil musical recitativo lodando. » Finita la gloria, « spiccheransi a volo il Favor Divino e l’arcangelo Michele, su’ l Palco discendendo, e cantano i seguenti versi, congedo all’ Auditorio donando. » E aggiunge l’Andreini in nota che « conforme il solito, li duo versi segnati di stella (che sono gli ultimi), il Favor Divino, e Michele Arcangelo anderan quelli con ischerzi musicali iterando ; poi tutti gli Angeli a tutto coro di voci ed istromenti replicando gli stessi versi, l’opera sarà finita a gloria di tal Santa Penitente. »

{p. 131}

Date alla grandiosità della situazione una artista che renda tutti i dolori e tutte le gioie del personaggio !… Aggiungetevi una musica e un allestimento scenico non meno grandiosi ; e non dobbiamo stupirci se il pubblico di due secoli e mezzo fa andava in visibilio. Quanto alla recitazione, ammettiam pure dal contesto del lavoro e delle note stesse che vi fosse alcun che di convenzionale a declamazioni e a passi in cadenza ; ma io non sono alieno dal credere che tale specie di recitazione musicale dovesse assai più convenire al lavoro che una recitazione parlata ; quanto alla musica, il nome del Monteverdi è tale da non far dubitare del valore di essa ; e quanto all’allestimento scenico, si può esser certi come nulla vi avesse di {p. 132}esagerato nelle scene indicate dall’Andreini, le quali saranno state sfarzosamente e con ogni fedeltà eseguite.

Scena dell’ Atto primo del Solimano, tragedia di Prospero Bonarelli.

Basti prendere la scena della Florinda (pag. 121) o della Veneziana (pag. 123) di esso Andreini, o tutte le scene inventate e disegnate dal Callot sia pe ’l Solimano del Bonarelli, sia per altro (pagg. 131, 137) ; basti dare un’occhiata al libro dell’ Arte rappresentativa del Perrucci, o al quarto dialogo del De Somi, nel quale appunto, si tratta delle conditioni de gl’aparati et scene di tutte le sorti, et de gl’ ordini et diuersità de gl’ intermedij, per farsi un’idea ben chiara di quel che fosse l’allestimento scenico a’tempi dell’Andreini.

Il Perrucci dice a pag. 137 :

Perchè poi gli Antichi non videro come ha potuto l’arte inventare le metamorfosi in scena di trasformarsi in aquila, leone, serpente, ed altro, avendolo per impossibile, l’esclusero, benchè avessero le loro macchine tra le regole de’ teatristi antichi. Oggi che l’ arte è giunta a tanta eccellenza, che ci fa vedere ciò che appena l’occhio può credere, e si fa con tanta sollecitudine e destrezza, che sembra farsi per arte magica ; io queste belle stravaganze non escluderei da’ teatri, essendo fatte usuali e tanto comuni che fanno stupire lo stesso stupore : anzi l’arte supplitrice della Natura, tante ne va di giorno in giorno inventando, che per tante stravaganze può dirsi l’Arte della Natura più bella.

E a pag. 53, al proposito dell’allestimento scenico dei grandi teatri di Venezia, dice :

La Serenissima e bellissima città di Venezia…. ha invitato tutto il mondo in quella patria, ad ammirarne gli stupori. Stravaganti mutazioni di scena, macchine, voli non solo d’uomini ma di cavalli vivi han fatto vedere ciò che forse non avrebbe potuto operare la stessa Magia. Attonito è rimasto ognuno in veder fatto possibile l’impossibile ; poichè, quanto le chimere poetiche han saputo inventare, tutto si è veduto porre in opera dall’arte, più che imitatrice, superatrice della Natura. Or vada meravigliandosi qualche antiquario, come avesse saputo Sofocle dare il modo di far volare sopra un carro di Dragoni pennuti Medea, quando su i teatri dell’Adria si sono veduti volare gli Eserciti !!!

E il De Somi, dopo di aver parlato della sontuosità degli apparati antichi e di altri non men sontuosi, fatti per le nozze del Duca di Mantova ; dopo di aver parlato, solleticando al sommo la curiosità del lettore, della origine de’ lumi sui tetti delle scene, e degli specchi su certi luoghi del fondo, sui quali riflettendo i lumi, celati ad arte, si veniva a ottener la scena più luminosa e allegra ; dopo di aver parlato con molto acume {p. 133}del bujo della sala necessario al risalto maggiore della scena ; dopo di aver descritto con interessanti particolari e gli apparali pastorali e gli apparati marittimi, venendo a discorrer degl’intermedj e della loro attinenza colla favola, fa dire a Massimiano :

Dallo Schiavetto- Edizione di Venezia, Gio. Battista Ciotti, m.dc.xx.

La più parte delle fauole, et molte historie si possono rappresentare ageuolmente : come in Bologna vid’ io già molt’ anni introdur per intermedio uno Amphione, al suono et al canto del quale, uenivano i sassi a porsi l’ uno sopra l’ altro, tanto che ne fabricauano le mura a Thebe ; ne l’altro intermedio comparue un’ aquila a rapire un Ganimede ; vennero poi per interuallo del terzo atto deucalione Et pirra, li quali gettandosi sassi dietro alle spalle d’indi surgeuano a poco a poco fanciullini ignude. Et il quarto intermedio fu un gigante, che portaua una grandissima palla, et postola in mezo alla scena, con darli alcuni colpi con una sua mazza, la palla si aperse, et ne uscirono quattro satiri che fecero una moresca uaghissima. In una tragicomedia poi nella città nostra, vidi non ha molto, rappresentar la battaglia delli tre horatij, con li tre curiatij, con tanto arteficio condotta a tempo di moresca, con arme da filo ; che fece un superbissimo vedere.

Ma tornando all’Andreini e alla sua Maddalena, dove a me pare ch’egli abbia raggiunto relativamente al suo tempo {p. 134}il bello dell’ arte comica, è nella scena quinta dell’atto secondo, quando la vecchia Marta tenta la conversione di Maddalena. Le parole di Marta piene di soavità, quelle di Maddalena piene di sarcasmo,… la canzone di questa e il disprezzo di quella…. poi di quella il ritorno all’ attacco,… sono resi con solidità e varietà di colorito, singolarissime….

Trascrivo la scena intera.

Marta, Maddalena

Marta

Non so s’ arretri il passo, o s’ io l’ avanzi,
miserabile avanzo
di doglia inusitata.

Maddalena

Venga Donna Beata
a convertir la peccatrice ebrea.
Venga terrena Dea
entro sua celsitudine svelata
cognita e lucicante
nel Cielo a tragittar Donna dannata.

Marta

Ecco pur, ch’ a te avante
pallida e sospirosa,
timida e lagrimante
sorella a te si piega,
e qui tutta s’impiega
perchè l’accogli e ascolti.
Maddalena infelice,
dimmi, dimmi, deh, quando
se’ per volger dal Mondo al Cielo il passo ?
Oh tuo’ lunghi desiri, oh tempo corto !
lassa me, tutto riede
di stagione in stagion, fuor che la Vita,
ch’altro non è ch’una caduca fronda,
che’ n l’autunno di Morte
scossa dal ramo suo, più non rinverde.
Al tremoto di Morte
ch’edificio mortal ritto se n’stia,
non v’ è ch’ abbia tal sorte :
chi ’l crede è frenesia.
Da quelle rose appunto,
che t’ infiorano il sen, furanti il senno,
simboleggia tuo stato.
Sappi : come tra i fiori
è la rosa sol bella,
cosi ancor d’ ogni fiore ella è più frale :
Ma qual rosa più vaga e porporata
è della vita umana ?
Ma chi di lei più tosto
nell’ apparir sparisce ?
In su ’l fiorir sfiorisce ?
Quindi ha che ’n segno breve
di questa fragil vita, altri spargea
in sepolcro di rose ?
Ma se non ponno i fiori
trar quel frutto ch’ io bramo ;
movati almeno a’ generosi affari
de’ tuoi grandi avi il sangue,
de’ genitori il vanto
di cui siglie noi siam, Lazaro insieme ;
Ma se per mia sventura e per tuo danno
nulla val memorar fatti sublimi
a cui l’ orecchia hai sorda,
movati almen del gran rigor di Dio
giusto castigo eguale,
a tua colpa mortale.
Pensa qualor sotto superbi tetti
in mille vanità l’ ore trascorri,
ch’ hai sovra e Luna e Sole e tante stelle,
il mar dell’ acque infra le nubi accolto,
e le saette ardenti,
per affogar, per abbruciar ogni empio.
E benchè agli occhi altrui
t’ assembri esser celata,
sappi, misera, sappi,
che non t’ ascondi al gran saver di Dio,
il qual con occhio terno e sempre desto,
vigila, mira, e vede ;
{p. 135}e non pur che pareti e tetti, i monti
penetra, passa il mar, giunge a gli abissi,
verissima del Ciel perpetua Lince.
Chiudi gli occhi a le pompe,
l’ orecchio a le Sirene !
Fuggi, deh, fuggi omai
morbidezza terrena,
caligine d’ onor, venen di fama,
e peste al fin de l’ alma.
Pensa, pensa, infelice,
ch’ ogni alba ha sera, e ch’ ogni vita ha fine,
a tuttora ella stando
de la caducitate in su’ l confine.
Misera, se’ nel mar di sirti ignote
navicella sdrucita ;…
mira, che già t’ affondi.
(Due volte Marta dirà l’ ultimo verso)

Maddalena

Il consigliare è dote
di chi a canizie giunto,
perduto ha già di giovinezza il gusto.
O vedi che bel fusto !
Tu pur giovin già fosti, e come tale
col fanciullin di Gnido
star bramasti accoppiata entro un sol nido.
Or che se’ vecchia e vizza,
nè d’ amor hai la pizza, (la bizza ?… o….)
macera e convertita,
vuoi che da terra al ciel faccia salita.
Gioventù nol consente,
poichè al volar tant’ alto
punger d’ ali le penne appena io sento.
Prima il fior ; poscia il frutto
dassi il mirar su Pianta !
Io qui son su’ l fiorire,
di giovinezza in ramo, ond’ è ben vano
che nel fior spicchi il frutto in un la mano.
Quinci fastosa in cumulo di vanti,
pindareggiando, cosi avvien ch’ io canti.
Quando vecchia i’ mi sarò,
ben saprò
indefessa,
genuflessa,
graffiar gota e sveller crine ;
convertita poscia, al fine,
a tutte albe, a tutte sere,
dirò teco il miserere !

Marta

Ah, superbo pavon, vatten, va gonfio
d’ occhiuta piuma e d’oro
d’alto fasto fugace ;
che se l’orrida base avvien che miri
che sostiene il tuo fasto,
(misera) allor vedrai
di beltà, di bruttezza in sul confine,
ch’ogni superbia ha lagrimoso il fine.
Ma poi ch’ io parlo e piango
all’aspide, alla Talpa,
dispero il caso, e taccio.
Sol rivolgomi a Dio,
pietà per te chiedendo, ah, pria che scenda
fulmine al danno tuo, che ti disperda.
Cruda, rimanti ; io parto,
partomi in un momento,
portando agli occhi pianto,
a la bocca sospiri, al cor spavento.
(Quando Marta sarà vicina all’entrare, addietro
ritornerà piangendo e così dicendo) :
Guarditi, Maddalena,
guarditi il Ciel da l’orivol fatale,
che per sabbia di Morte
un’ora sol di suo languor t’apporte :
non finirà giammai,
poichè laggiù ne’ sotterranei affanni,
i momenti son anni :
e gli anni dell’ inferno
son lustri in sempiterno.

E questa è un’ andata via a effetto assolutamente moderna, e di riuscita sicura. Pieno di comicità è poi il personaggio del beone Mordacai il quale anche nei momenti più seri riesce a gettare una sprazzo di umore gajo e giocondo, come nella scena sesta dell’ atto secondo, in cui racconta la rissa tra’ pretendenti {p. 136}di Maddalena, e nella scena nona del primo atto in cui descrive a Sanson, uno degli amanti di Maddalena, il suo trasporto pel vino. Codesto bel tipo di assetato eterno è gittato là tutto di un pezzo, saldo come blocco di granito, e son certo che farebbe anch’ oggi la fama d’ un artista e la felicità de’ pubblici. Notevole è anche il soliloquio dl Baruc, paggetto scaltrito di Maddalena, per le aperte oscenità che vi dominano, e che farebbero arrossire il più spregiudicato pubblico del mondo. Si è detto e si è scritto, come più a dietro accennai, che codesta Maddalena è una specie di pasticcio senza capo nè coda : non oserei affermarlo. Non oserei nemmeno accanto a quello dell’ Andreini pronunciare sia pur di sfuggita il nome di Shakspeare, come ad altri piacque ; ma è certo che per la pratica della scena, per la conoscenza profonda degli effetti, per una certa naturale indipendenza nella condotta, Gio. Batta Andreini si è colla Maddalena lasciva e penitente levato molto al disopra degli altri scrittori comici italiani del suo tempo.

« Se avesse seguito lo stile d’ Isabella sua madre — esclama Francesco Bartoli — oh quanto migliori sarebbero gli scritti dell’ Andreini ! Grazie tante !… Ma allora la madre non c’ era più ; e c’ erano invece gl’ imitatori strampalati del Cav. Marino : e però io credo che relativamente più esatto sia il giudizio che ne dà Luigi Riccoboni, il grande erede del nome teatrale dell’ Andreini, il quale nel suo Teatro italiano (pag. 71) dice : « Gio. Battista Andreini (mi servo della traduzione di Francesco Righetti, pag.  107-108) compose egli solo 18 commedie, secondo la raccolta della Drammaturgia dell’ Allacci ; ma tutte sanno della decadenza del gusto, ed alcune sono oltremodo oscene. Che che ne fosse, Giovanni Battista Andreini era un uomo di spirito e di lettere ; e sono d’ avviso che s’ egli avesse vissuto cinquant’ anni prima avrebbe calcata la strada degli altri, ed avremmo di lui qualche buona commedia ; ma egli era autore e comico : quindi non poteva scrivere che come gli autori del suo tempo scrivevano, e come lo consigliava il suo interesse. » Anche qui, come si vede chiaro, c’ è un po’ l’ odore di codino. Che la cassetta entrasse {p. 137}per qualche cosa io credo : ma non veramente ch’ egli scrivesse come gli autori del suo tempo. A ogni modo, a parte la forma, la Maddalena e l’ Adamo sono, pare a me, assai superiori alla Mirtilla della madre, all’ Ingannata Proserpina, e all’ Alterezza di Narciso del padre.

{p. 138}

Quanto alla parte dell’ innamorato ch’ egli « faceva — dice il Bartoli — parlando con spiritosi e nobili concetti, frutti del suo colto e ben educato talento » ecco quel che ne scrive il comico Cecchini (loc. cit.).

Fot. di Cesare Spight.

sopra la parte dell’innamorato

Sogliono questi, che si compiaciono di recitare la difficil parte dell’ innamorato, arrichirsi prima la mente di una leggiadra quantità di nobili discorsi attinenti alla varietà delle materie, che la scena suol apportar seco. Ma è da avvertire, che le parole susseguenti all’ imparate, vogliono hauer uniformità con le prime, acciò che il furto paja patrimonio, et non rapina ; onde per far ciò non mi pare auiso sprezzabile una frequente lettura di libri continuamente eleganti, poi che rimane a chi legge una tale impressione di amabilissima frase la quale ingannando chi ascolta, vien creduta figlia dell’ ingegno di chi fauella.

Debbe insieme chi legge operar, che l’ intelletto comandi alla memoria che dispensa il Tesoro de’ premeditati concetti nello spacioso campo delle continue occasioni, che la Comedia porge, in quel modo, ch’ egli possa pretender di mieter applauso, et non di raccoglier odio, come fanno certi, che trattano con un servo sciocco, od una femina vile, con quelle forme di dottrine, che solo vanno adoperate con huomini saggi, et di eminente conditione. Conoschino adunque la differenza de gl’ huomini, et anche la natura de’ casi {p. 139}che maneggiano, che al sicuro comprenderanno non esser tutt’ uno il trattar con diuerso, che la loro qualità non sia tutt’ una, secondo gl’ accidenti, che succedono debbono caminar la scena con l’ istesso ordine, che scorrono il mondo.

Io so che molti professori del ben parlare troueranno molti luoghi dove ne men’ io debbo dir bene, si come anche mi accorgo, che quelli, che non sanno parlar bene non conosceranno s’ io dica bene, o male ; onde anderanno sempre dicendo peggio, si che da questi non desiderarei altra sodisfatione se non che si dichiarassero di non saper ciò ch’ io mi habbia detto.

Per altre cose concernenti la vita dell’ Andreini come at tore e capocomico, pettegolezzi di palcoscenico, invidie di mestiere, seccature e…. fedeltà di marito, vedi gli articoli seguenti sulle mogli Virginia, la rinomata Florinda, e Lidia (la Rotari) ; e quelli sul celebre Arlecchino Tristano Martinelli e i coniugi Cecchini Fritellino e Flaminia.

Andreini-Ramponi Virginia, milanese, moglie del precedente, celebre attrice col nome di Florinda, nacque, secondo abbiamo dall’ oroscopo, il 1 gennaio del 1583. Ebbe onore di rime da varj letterati, e scrisse anch’ ella qualche poesia, non del tutto sprezzabile, come il presente sonetto a suo marito.

Cigno felice, che spiegando i vanni,
varcando vai sovra i cerulei campi,
ed in tragico stil disserri i lampi
de’ gran tesori de’ superni scanni ;
vivi pur, vivi, che il volar degli anni
lieve incarco ti fia, già che tu stampi
d’ eternitade il calle, ond’ oggi avvampi
d’ immortal luce in questo mar d’ affanni.
E me beata, che dal tuo bel lume
qual la terra dal sol, virtute apprendo
involandomi teco al tempo edace.
Che se Florinda tua su ricche piume
innalzi al Cielo, insieme anch’ io v’ ascendo,
cui porge la sua morte aura vivace.

Allude alla tragedia Florinda, scritta per lei da suo marito, e da lei recitata con grandissimo plauso a Milano nel 1606. {p. 140}Morì di circa 45 anni, intorno al 1628. Pare ch’ ella fosse di rara bellezza ; e Alessandro Allori (il Bronzino giovine) le fece in Firenze un tal bellissimo ritratto, che ispirò al Cav. Marino il presente madrigale :

« Bronzin, mentre ritraggi
questo fior di beltà, beltà gentile,
che co’ detti, e co’ raggi
degli occhi vaghi, e del facondo stile
spetra i duri pensier, doma i selvaggi,
se non ardi d’ Amore,
hai ben di bronzo il core. »

Le gelosie di mestiere erano allora com’ adesso all’ ordine del giorno. L’ Antonazzoni (V.) non poteva, nè voleva più stare in Compagnia con una Valeria (l’ Austoni) nè con una Nespola (la Di Secchi)…. A Mantova il campo era diviso fra la Vincenza (l’ Armani) e la Flaminia (?) : qui abbiamo liti e lotte fra la Florinda, ed altra Flaminia (la Cecchini), come si vede da una lettera che essa Florinda scrisse da Torino al Cardinal Gonzaga il 4 agosto 1609, e che dall’ introduzione di A. Bartoli (pag. cxxxviii) riproduco intera.

Ill.mo mio Sig.re

Ricordevole degli obblighi ch’ io tengo con V. S. III.ma vengo con questa mia a farle riverenza, cosi fa Gio. Battista suo servo, ambidue con ogni affetto pregandola a tenerne vivi nella memoria sua. Saprà poi V. S. III.ma come io ho gettato a terra ogni trofeo eretto dalla S.ra Flaminia, e tanto se l’ è slungato il naso, quanto lo haveva superbo alzato. Ella è odiata da tutto Torino per la sua alterigia et frenesia nell’ amor di Cintio, invero con grandissimo suo obrobrio. Udrà V. S. sopra di questo cento ottave e quaranta sonetti del Cavalier Marino, l’ udrà sicuro, poi ch’ io faccio mia cura acciò che le capitino alle mani. Mi farà favore di parlar di costei con questo S.re Ambasciatore, che udrà cose scelleratissime. Tutti li compagni sclamano della temerità sua e di Frittellino, et già l’ harieno impiantata s’ io non giungeva a Torino. Io per sopportare questo humoraccio faccio quanto posso, ma credo che non durerò. Per tanto, caro il mio Sig.re, procuri con l’ Altezza Sereniss.ma del suo Signor Padre, ch’ io al partir di Torino (durando questi suoi capricci) ch’ io la possa lasciare, perchè non c’ è ordine ; et per cavarne S. A. il vero, faccia che parli con l’ Ambasciatore ; per vita sua, per l’ amor che mi porta, procuri che non potendo più soffrirla, ch’ io con gli altri compagni possa impiantarla, che vedrà che nessuno starà seco, poi che è da tutti odiata ; in grazia me ne avvisi ch’ io le giuro che se ottengo questo, che allora soffrirò più di core, sapendo ch’ io potrei volendo lasciarla, et ella forse ciò intendendo potria essere più donna da bene. Et per {p. 141}fine, raccomandandole D. Pietro Paulo mio cognato, le bacio la sua generosa mano, non mai stanca di giovare a Florinda ; cosi fa Gio. Batta, servo suo, et da N. S. le auguriamo il colmo dei suoi altissimi pensieri.

Di V. S. III., ecc.

A questa fa riscontro l’ altra del marito in data del 14, nella quale abbiamo ancor più particolareggiate notizie delle condizioni in cui trovavasi la Compagnia della Flaminia, e in cui si trovò poi coll’ arrivo dei Coniugi Andreini. Al Duca di Mantova pare non si potesse, almeno qualche volta, obbiettare, se la povera Virginia fu, dietro comando suo, costretta a raggiungere a Torino la Compagnia dei Cecchini, col pericolo di partorire entrando in lettiga.

Ecco ciò che scriveva Giovan Battista :

Era tutta questa Compagnia in arme, ma molto più s’ offendevano con la lingua arrotata che con il ferro, ond’ io quasi stetti per tornare a dietro. Lodato Dio, accomodai il tutto, ma che ? Feci per l’ appunto come colui che per un poco ripara a una gran corrente d’ acqua, che da un poco rompendo ogni riparo più impetuosa che mai l’ acqua scorre et innonda.

L’ Andreini supplicava il Duca a mettere riparo a tanto sconcio : nè lo supplicava in suo nome soltanto, ma a nome anche di alcuni colleghi, come il Garavini (Rinoceronte), il Ricci (Pantalone), il Soldano (Spaccastrummolo). « L’ A. V. — dice — è il pastore di questa greggia, la custodisca ancora, e le pecore infette le discacci. » E le pecore infette, si capisce, erano più specialmente i Coniugi Cecchini, poi, probabilmente, il codazzo degli ammiratori e corteggiatori e…. qualcosellina più, della Signora Cecchini : questo dev’ essere stato il pernio su cui s’ aggiravan di conseguenza tutte le altre cagioni della reciproca animosità.

Figurarsi ! La Cecchini non guardava in faccia, nè salutava alcuno degli Andreini e andreiniani ; sparlava di loro in casa, e anche in scena : all’ Andreini stesso faceva mossacce recitando. Fritellino, il marito di lei, faceva sempre acquistare alla Compagnia nomi ignominiosi…. Si assaltò perfino di notte da un servo dipendente da Fritellino il figliuolo del Ricci, perchè odiato a morte dalla Cecchini. In cotesto intrico tutti {p. 142}ebber parte, maschi e femmine, e fu per nascere un casa del diavolo. Per tutte queste cose G. B. Andreini supplicava il Duca di potere « al partire di Torino lasciar queste creature tanto odiose, poichè loro ne hanno giuramento — diceva — et io quasi voto, a ciò l’ A. V. non senta un giorno qualche nova che le dispiaccia. » (V. A. D’ Ancona, Nozze Martini-Benzoni).

Ed ora esaminiamo un po’ la cosa, poichè un po’ di bujo è intorno specialmente a Cintio, l’ innamorato della Cecchini, cagione di tanto intrico, di tante invidie, di tanti risentimenti !!! Circa allo « slungare il naso quanto lo haveva superba alzato, » transeat. La Flaminia piacea molto a Torino : vi andò la Florinda, e coll’ arte sua, rinnovando la division de’ partiti che furon già come abbiam detto per altre attrici, seppe gettare a terra ogni trofeo eretto dalla Signora Flaminia : non c’ è che ridire. Ma chi era codesto Cintio, pel quale la Signora Cecchini faceva addirittura frenesìe ? Non il primo Cintio, di cui s’ ignora il nome, e che si fece conoscere a Roma nel 1550 (V. Sand, T. I, pag. 331).

Non Mario Antonio Romagnesi (V.) il figlio di Orazio e dell’ Aurelia (V.), il quale esordì a Parigi nel 1667.

E nemmeno, pare, il famoso, bellissimo Iacopo Antonio Fidenzi (V.).

Il Sand, parlando di Flaminio Scala e de’ Gelosi (tomo I, pag.  304), dice : « dal 1576 al 1604 i personaggi e attori di questa compagnia rimarchevole furono, per le parti di amoroso, Flavio (Flaminio Scala), Orazio (Orazio Nobili), Aurelio (Adriano Valerini), Cintio (Cintio Fidenzi) Fabrizio. » Lasciamo stare il nome di Cintio, che è evidentemente una inesattezza del Sand ; a lui certo poteva benissimo attagliarsi la parte di rubacuori e guastamatrimonj, a lui potevan benissimo esser volte le Frenesie della signora Cecchini (il marito non aspettava più i sessant’ anni, e forse per sua temerità si deve intendere la sua bonomia matrimoniale), se è omai stabilito dal Cinelli (Biblioteca volante, scansia undecima. Modena, 1695) che « fu il Fidenzi di bello e gioviale aspetto, di faccia che tondeggiava, {p. 143}di capello castagno, di bianca carnagione, e maestoso nel portar la vita. Fu pieno di carni, ed anzi maggior del giusto, ed in somma appariscente e proporzionato alla parte d’ Innamorato che rappresentava. »

Ma ecco che stando a Francesco Bartoli, egli nacque intorno al 1596, e però non poteva essere cogli Accesi il 1609. Ed è possibile che la storia non ci abbia detto nulla sul conto di un così rimarchevole personaggio ? È possibile, dico, che questo amante della Cecchini, annunciato dalla Andreini col semplice nome di Cintio e però ben noto al Cardinal Gonzaga, e agli altri, sia poi giunto affatto sconosciuto a noi ? L’ unica conclusione, pare a me, è quella di ritenere erronea la data del Bartoli : forse, come accade talvolta, si son posposti i numeri ; e in vece di 1596, s’ ha a leggere 1569. (V. anche il Valeri, Un palcoscenico del seicento. Roma, 1893). All’ odio di mestiere, di cui ci parve di veder l’ origine nelle parole che il Cecchini stesso dettava al proposito del carattere del Capitano, aggiungevasi l’ odio generato per la dignità offesa della donna galante che vedeva il ricco sciame de’ corteggiatori volgersi d’ un tratto a quella nuova fortezza rimasta fin allora inespugnata ? Che la Cecchini fosse una specie di demonio è omai fuor di dubbio : che l’ Andreini le avesse dato nel naso co’ suoi trionfi è molto probabile, tanto più che a questa, sposa onesta e fedelissima a suo marito (« per quanto addetta al servizio del Duca Vincenzo, non faceva parte del suoharem riservato…. » A. Ademollo, La bell’ Adriana. Città di Castello, 1888), eran tributati onori, che avrebber fatto correr l’ acquolina in bocca all’ invidiosa e tumultuosa Cecchini. « Sulle magnifiche feste mantovane del maggio e giugno 1608 — scrive ancora l’ Ademollo (ivi) — indette per celebrare il matrimonio del principe Francesco con Margherita di Savoia, il carico principale per il lato musicale femminino fu sostenuto da Virginia Andreini…. », la quale, accettata la parte di Arianna, quantunque commediante di professione, l’ imparò in sei giorni e la eseguì in modo sorprendente, facendo scrivere al Marino :

{p. 144}Florinda udisti, o Manto,
là ne’ teatri de’ tuoi regi tetti,
d’Arianna spiegar gli aspri martiri,
e trar da mille cor mille sospiri.

Oltre che nell’ Arianna, ella cantò anche nel balletto delle Ingrate, parole del Rinuccini, e musica del Monteverde : e da Torino, proprio al momento della lotta accanita, 13 giorni dopo l’invio della lettera al Cardinal Gonzaga, il Cav. D. Ascanio Sandrio scriveva alla Duchessa di Mantova : « Credo che S.A. darà una festa a mille fonti alli III.mi Card.li, dove sarà un Balletto di Sirene che nell’ aqua nuotando danzar ano, et una Piscatoria cantata in musica, dove Florinda acquista non poca riputatione cantando con bellissima maniera. » (Arch. St. Gonzaga. Comun. Davari).

Se poi la Cecchini ebbe onori di rime, come vedremo, anche maggiori n’ebbe l’Andreini. È peccato davvero che non siensi potute rintracciare le cento ottave e i quaranta sonetti del Cav. Marino su quell’ intrico di retroscena, come è peccato che, per quante ricerche fatte, io non abbia potuto trovare il ritratto della Virginia fatto dall’Allori. Intanto, a titolo di curiosità, verrò pubblicando qui alcune delle poesie inedite in lode dei coniugi Andreini, che sono in un Codice Morbio, così descritto dall’egregio Dottore Puliti della Braidense di Milano :

Mss. Morbio I. — Codice cartaceo miscellaneo di 53 carte composto di fogli che prima stavano ciascuno da sè. Formato massimo cm. 30 X 20. La scrittura è di diverse mani, forse tutte del secolo xvii. Intercalata tra le poesie in lode di Florinda, è a carte 18 la minuta di una lettera senza indirizzo nè firma. Sul dorso è : Poesie in lode dei Conjugi Andreini.

In genere le poesie non sono la più bella cosa di questo mondo : meschinissimi poi i sei sonetti probabilmente improvvisati sulle rime dell’ addio detto l’ultima sera dalla Virginia a un banchetto dato agli artisti dopo la recita a Vicenza. Eccone il quarto, il meno peggio, sotto il quale non è nome d’autore.

{p. 145}All’ Ill.reSig.ra VIRGINIA ANDREINI detta

FLORINDA COMICA FEDELE

RISPOSTA

Và felice Florinda, Alto stupore
De la presente, e della prisca etade,
Và gloriosa, è di salir non bade
Il tuo gran merto al titolo maggiore.
Versa dagl’occhi lagrimoso humore
Vicenza tutta al tuo partire, è, rade
Sono le penne, che di lei pietade
Non mostrino, scrivendo il suo dolore.
Ma che ? se da mortal corpo se ’n uola
L’alma à gloria immortale, adonq. fia,
Ch’ ad’ huom saggio dolor partendo apporte ?
Và pur honor de l’Amorosa scola
Che ciascun t’ oda, è ’l tuo ualor ti sia
Contr’ à colpi del tempo vsbergo forte.

Quanto alla bellezza dell’Andreini, pare fosse davvero meravigliosa. Oltre al madrigale del Marino pe ’l ritratto dell’ Allori, abbiamo qui vari madrigali di Don Venantio Galvagni, non de’ peggiori, che ce ne dicon qualcosa.

Le chiome, gl’ occhi, e i labri,
Son oro, stelle, e rose,
Ch’ in uoi (donna gentil) Natura pose.
Le mani, il petto, e ’l uiso
Son ricchezze amorose ;
Ma le parole e ’l riso
Tesori e gioje son del paradiso.
FLORINDA hauete in uoi
Bellezza et leggiadria,
A cui null’ altra par non fu nè fia ;
{p. 146}Et nel sen fresche brine,
Et nel aurato crine
Ineuitabil rete,
Oue mill’alme, et mille cor togliete ;
Ne i cari et dolci sguardi
Acutissimi dardi ;
Ma uolto nel mirar tanto soave,
Che tal nel suo bel regno Amor non haue.
Quel sì pregiato FIORE,
In qual giardino hai colto,
Quando facesti il uolto
Di FLORINDA gentil, o dolce Amore ?
Dimmi qual sì bel arco,
Anzi amoroso artiglio,
Ponesti al nero ciglio,
Che prende l’alme e i cori in mezzo al uarco ?
Ove prendesti l’oro,
Con cui facesti il crine,
Inuer opre diuine,
Anzi del biondo Apollo il bel tesoro ?
Saper anco uorrei,
Quai sì lucenti stelle
Furasti mai sì belle,
Quando facesti gl’ occhi di costei.
Le stelle in Cielo io tolsi.
Al sol l’oro furai.
Del arco io men privai.
E ’l uago FIOR nel mio giardino io colsi.

Questi e altri madrigali e tre sonetti furono mandati dal Galvagni Al Virtuoso, et Gentilis.mo Sig.r mio Oss.mo Il Sig.r Gio. Battista Andreini — Mantova, accompagnati da una lettera che stimo inutile riprodur qui. Riproduco invece il seguente sonetto che a me pare il migliore della raccolta :

{p. 147}Sopra la S.ra FLORINDA

Questa del Cielo angelica Sirena
Che con soavi innamorati accenti
E col chiaror de gl’ occhi suoi lucenti
L’ aria amorosamente rasserena.
Mentre si mostra in luminosa scena
Oh quante auuenta à i cor fiammelle ardenti,
E fugati i pensier aspri e pungenti
Dispensa all’ alme ogn’ hor diletto, e pena.
Non così uaga al mattutino albore
Nell’ immensa del Ciel stellata mole
Vedesi lampeggiar la Dea d’Amore.
Che questa altera Diua emula al sole
Vnisce a’ raggi, onde s’infiamma il core,
Armonia di dolcissime parole.

V’hanno versi per la Pazzia di Florinda, ve n’hanno Pe’l suo vestirsi da uomo, Pel suo meraviglioso modo di cantare e di suonare. Le poesie son quasi tutte senza nome d’autore, eccetto una filastrocca di un seicento della più bell’ acqua di certa Luisa Pastronichi, e qualche sonetto e madrigale firmati or col nome di P. Cesareo Orobuoni, or con quello di C. Senterio Bossi, o colle semplici iniziali I. R., D. P. M., I. F., M. M. ; poesie tutte che furon pubblicate in appendice dello studio, più volte citato, di Enrico Bevilacqua su Giovanni Battista Andreini.

Chiudo la serie con due madrigali : l’uno, ignoto, scritto

Sopra i uarij effetti di pallore, e rossore, che si uiddero sul uolto di Florinda mentre recitaua la pazzia in scena ; e sopra la stessa pazzia.

Se impallidisce il fior del tuo bel uiso
Flora gentil, uago di quel pallore
Si fa ghiaccio il mio core.
Se poi ripiglia i suoi uiui colori,
Tosto ripiglia il core i primi ardori.
{p. 148}Corri disciolta il crin, squarciati i panni,
Segue l’alma il furor, segue gli affanni.
Ma finta in finta scena è tua pazzia.
Ne la scena d’ Amor uera è la mia.

e l’altro di Pomponio Montanaro,

Alla virtuosissima S.ra Florinda

FLORINDA, un fior tu sei entro a’ i giardini
Di virtude, e d’Amore.
Ah foss’ io d’ eloquenza agricoltore
Che del tuo sole al raggio
Havrei perpetuo maggio,
Anzi, che coglierei da le radici
Del tuo immenso ualor frutti felici.

Al quale tien dietro la

Risposta della S.ra Florinda

Tu, che per faticosi erti camini
Cerchi con nobil core
Mercar sudando glorioso honore,
MONTAN sublime, e saggio
Non disdegnar d’un picciol fior l’homaggio ;
Che forse di Parnaso a’ i colli aprici
Produrà nel suo auttun frutti felici.

Al proposito poi dell’ arte di Florinda come cantatrice, oltre alla testimonianza del Cav. Marino ammiratore accanito, e accanito corteggiatore sempre della Virginia, abbiamo il seguente madrigale di Benedetto Pamoleo :

FLORINDA, è pur il uer che, i, Giri eterni
Faccian nell’alma mia dolce concento ?
Pur è uer, e lo sento,
Che mi rubasti il core :
E gli diè la tua forma, il fabro Amore ;
{p. 149}Mentre con sì soaui e dolci note
E fra rubini ardenti
Sciogli musici accenti ;
Che ’l Cielo pareggiarli anche non puote,
Ma non stupisco io già, che possi tanto ;
Ch’Angiolo al uolto sei, Sirena al canto.

E come tale fu cantata anche in un idillio di Francesco Ellio, nobile Milanese, pubblicato da Gio. Batta Bidelli il 1618 a Milano, nella sua raccolta d’Idillj di diversi ingegni, e intitolato La Sirena dei mar tirreno — Stanze in lode della SignoraVirginia Ramponi, — comica fedele detta Florinda. È questa una delle testimonianze del casato vero di Virginia Andreini, sebbene paia strano che nel ’18, anno in cui fu scritto l’ idillio (fu anche in quell’anno pubblicato a parte dallo stesso Bidelli), l’autore non accenni menomamente al nome del marito. L’idillio è diviso in due parti e consta di 44 ottave non affatto spregevoli per una certa melodica scorrevolezza, ma assai misere per concetto. Trascelgo le poche dalla prima parte che ci dicon le lodi di Florinda.

Non mai spiegò Pavon vago e gentile
Con fasto tal l’ambiziose piume,
come costei, ch’ha tutto il mondo a vile,
di sue bellezze il prezïoso lume ;
erra nelle sue guancie aureo focile
onde accender le Stelle amor presume ;
il bel candore, il bel vermiglio sale,
che dir non si può : l’un l’altro prevale.
Quasi novelle rose al primo albore
ch’ apron vermiglie il rugiadoso seno ;
s’egli avvien che propinquo il suo candore
spieghi giglio gentil fiorito appieno,
fassi col misto lor vario colore
sì dubbioso e cangiante il loco ameno,
che non si può giammai scerner col ciglio
se sia giglio la rosa, o rosa il giglio.
{p. 150}Stavan sotto il bel naso in un congionte
due vaghe di rubin labbra lucenti,
entro a cui perle preziose e conte,
note non anco a l’iperboree genti,
con ordin vago, alle dolcezze pronte,
nel nido degli amori aghi pungenti,
lascive si scorgean, pure e vivaci
invitatrici a morsi, a scherzi, a baci.
Ma che parl’io di voi labbra amorose,
e quei begli occhi suoi sacro all’obblio ?
Occhi, che di sua mano amor compose,
non occhi no : ma strali al morir mio ;
occhi stelle del ciel, belle e ritrose,
fontane di dolcezza e di desìo,
a cui cede la gloria, a cui s’inchina
meraviglia celeste, opra divina.
Voi con il puro e tremulo baleno,
al primo folgorar morto m’avete ;
voi mi spiraste al cor dolce veleno,
ond’egli arda a tutt’or d’eterna sete :
voi, pria che l’angue ohimè nodrissi ’n seno,
mirai : nel Ciel d’amor, fauste Comete ;
indi (oh dolor, per cui piango e sospiro)
mi disperaste in un volubil giro.
Sotto a quegli archi, che un bel nero oscuro
le due degli occhi suoi serene stelle
luce porgean più rilucente e pura
che dal nascente Sol l’auree fiammelle ;
tali, mentre emulò l’alma natura,
pinse all’ eterna Dea l’antico Apelle ;
l’antica Dea che pur tra queste sponde,
genitrice d’amor, produsser l’onde.
Le rose della fronte, i tersi avori
fendean a solchi d’or, neglette ad arte,
le biondissime chiome, emule agli ori,
che a noi più schietti il fosco indo comparte.
{p. 151}Giva turbando i lor lascivi errori
Zefir umil ch’ora raccolte, or sparte,
a quello aurato vel sembrar le fea
che diè’n preda a Giason l’empia Medea.

Ed ecco l’ oroscopo, del quale spero, con quello di Gio. Batta Andreini, e cogli altri che verrò pubblicando, di dar presto la chiave per la completa deciferazione.

Andreini Lidia. Seconda moglie dell’ Andreini. « Aveva l’Andreini nella sua Compagnia - scrive Fr. Bartoli - una brava comica per nome Lidia rimasta vedova anch’essa da {p. 152}alcuni anni ; ed essendo di fresca età e vistosa, oltre il suo valore nell’arte del teatro, pensò Gio. Battista di passar seco alle seconde nozze. Spiegatole il suo desiderio, ella di buona voglia v’acconsentì, e furono in breve tempo conclusi i loro sponsali. Il nuovo matrimonio e le domestiche brighe della famiglia distolsero per alcuni anni l’Andreini dallo studio. »

Di Lidia abbiamo la seguente lettera alla duchessa di Mantova, colla data di Vienna 16 novembre 1628, già pubblicata in parte dal Bevilacqua :

Ser.ma Madama

Fu già tenuta a battesimo dalla A. V. S. Leonora figlia di Lidia comica, et humiliss.ª serva di V. A. S. e conforme l’uso natio dell’heroica bontà di così gran Principessa fu sempre come figlia sacramentale dall’ A. V. S. amata e protetta. Fede ne fa l’haverla già l’A. V. S. raccomandata alla S.ma Caterina Medici alhor che viveva meritissima Duchessa di Mantova, in modo tale che fu degna in virtù d’ una validiss.ª raccomandazione di V. A. S. alla stessa Ser.ma Caterina d’essere posta nella Scuola di quelle figlie che protette erano da così gran Protettrice. Partita per accidente di morte la stessa S.ma mancando di simil luogo la base e la benefattrice convenne alla povera Lidia tirar la figlia presso di sè, non già per molto custodirla, ma per locarla in alcuna parte degna e sicura, come al presente ella dimora, stando ad allevarsi Damigella con una figlia dell’ Ill.mo S.r Hercule Marliani meritiss.° Consigliero di Stato di questa A. S. di Mantova. Hora dovendosi (per esser grandicella) o maritare o monacare detta sua figlia in Cristo, supplica divotissima Lidia madre vedova e carica di sette figliuoli ad ajutarla in caso di tanto bisogno, onde per gran necessità ella non s’induca a farla divenir commediante, essercitio tanto pericoloso per donna. Il favore adunque sarà (All’ A. V. S. piacendo) che siccome l’A. V. si degnò di scriver lettera efficace per Leonora alla S.ma Caterina, onde fu posta nella sua scuola, cosi rimanga servita di scriver caldamente lettera alla M. dell’ Imperatrice (alla qual servitù è un anno che serve con le commedie) che in grazia di V. A. S. voglia haver per raccomandata la suddetta Leonora, tenuta a battesimo dall’ A. V. S. e far si che d’alcuno ajuto sovvenuta sia sì dalla M. dell’ Imperatrice, come dalla M. dell’Imperatore, grazie come tutto giorno fanno in figliuolette che prive di protezione non hanno chi chieda e supplichi per loro. Ottenerassi al sicuro la supplicata grazia, poichè la Intercedente è la S.ma Arciduchessa di Toscana e la supplicante è serva di 25 anni della Ser.ma Casa, e perchè è stata degna che due suoi figliuoli siano stati tenuti a battesimo, uno dal S.mo Ferdinando, l’altro dal Ser.mo Vincenzo duchi di Mantova, et ambi di gloriosa memoria.

Pongasi adunque l’A. V. S. e per la Madre che è tanto che serve questa S.ma Casa Gonzaga e per la servitù che di continuo fa a queste M. d’un anno intero, ottenga la supplicata grazia, la qual tutta ridondando a gloria dell’ A. V. S. ne haverà lode in terra e ricompensa in Cielo, Iddio la feliciti.

Di Vienna, il dì 16 novembre 1628.

D. V. A. S.

Serva Divot.ma

Lidia, Comica.
{p. 153}

Non tanto fresca dunque, come vorrebbe il Bartoli, se da 25 anni serviva la Casa Gonzaga, ed era allora vedova con 7 figliuoli.

Erronee anche, o meglio, ingenue paiono a me le parole dello stesso Bartoli che concernono il matrimonio della Lidia con Lelio. L’Andreini non era davvero marito esemplare ; ed è ormai fuor di dubbio che l’amore fra la Rotari e lui esisteva già, vivente la Florinda, per quanto egli si scalmanasse a far credere calunnie le voci sparse intorno a ciò.

Il Cecchini, il quale, anche non parendo, co’ modi i più gentili, non perdeva mai l’occasione di punzecchiare gli Andreini direttamente o indirettamente, scrive, su questo proposito, al Duca da Milano il 1620.

Sereniss.ma Altezza,

…………………………

…………………………

Riman solo Serenissima Altezza lo applicar l’animo, et vestirsi dell’ afflitioni, che apporta a diversi la baldina, la quale con un’ arte et con un modo tanto occulto notrice un incendio così grave in compagnia che ci è impossibile il vivere in questo travaglio.

Io lo voglio dire, se ben aveva pensato di tacerlo.

Florinda già da tre giorni fuggi et piangendo se n’andò in verso chiesa dove si faceva tenir per spiritata, et voleva mandar per una carozza per venirsene a Mantova, quando suo suocero con suo compare, et il Moiadé nostro portinaro corsero a rimediarvi et la fecero rimanere, di queste cose ce ne sono ogni giorno, et questa sgratiatuzza ride et gode sott’ occhio havendo ridotto questo negotio con una tal volpagine che l’istessa Florinda prega che lei non si disgusti acciochè il marito non li faccia qualche burla. dico signore che si tratta di cose concernenti alla vita e da queste che V. A. intende ne sieguono poi di quelle che la prudenza sua si puol immagginare.

Arlecchino non è informato di ciò facendo vita fuori del grembo dei compagni, et essendo sempre stato in casa del signor Ambasciatore e poi lui fuori de’ suoi interessi non capisce altra cosa.

Orsù non parliamo di questo che la materia c’ è amplissima.

Io replico a V. A. et glie ne fo giuramento, sà il desiderio ch’ io ho di ritornare con salute a riveder l’A. V., che con baldina non faremo mai cose buone nè in Francia nè in Italia.

Levar dunque costei et pigliar quel Pavolino in Compagnia, mi par che siano due cose necessariissime, rimetendomi sempre a quanto l’A. V. mi comanderà, et con il fargli profonda riverentia l’auguro da Iddio continua salute.

D. V. A. S.
Umiliss.° et devot.mo Serv.e
Pier Maria Cecchini.
{p. 154}

« L’istessa Florinda prega che lei non si disgusti acciocchè il marito non li faccia qualche burla. » E la cosa mi par chiara ! Bisognava non fare sgarbi alla baldina, perchè se no l’innamorato Andreini si sarebbe rifatto con la moglie. E l’Andreini doveva essere cotal tomo di non troppa arrendevolezza.

L’ 11 settembre del 1606 Pier Maria Cecchini cominciava una sua lettera da Milano al Duca con queste parole :

Le stratageme et persecucioni che me vengono dalla Florinda et suo marito et i mali trattamenti loro sono così grandi che mi hano ormai ridotto a rovina e a precipicio. Mi fano parlare che io resti questo verno a Milano, et perchè non mi pare giusto, et che io niego di restargli, mi ha il ditto marito di Florinda tirato a termine di fare questione, il che succedeva se Iddio non gli metteva la mano.

E chiesto aiuto al Duca, e avutolo con ordini recisi che a lui davano alcun potere in faccia ai compagni, trovò Gio. Battista Andreini sdegnosamente ribelle, il che si rileva con ampiezza da quest’altra lettera colla data del 20 settembre :

Ill.mo mio S.r et Patrone Col.mo

Gionto il mio messo et ricevuto la lettera di V. S. Ill.ma la quale ha servito anco per risposta di quelle che io scrissi a S. A. S., ho voluto parteciparla a tutta la compagnia ; et per trovarli tutti uniti gli parlai dietro il Palco doppo la Comedia, et mi ritirai in una camera dove si spogliamo et vestemo, ma Lelio marito di Florinda non volse venire, et ben che io supplicassi et gli mandassi doi volte un servitore publico a dirli che io volevo parlar de ordine di S. A. S., con tutto ciò il detto Lelio ridendo voltò via, nè volse ascoltarmi.

Ammettiamo pure che ci fosse un po’di esagerazione e di maligna insinuazione per parte del Cecchini, il quale avendo da rivelare qualche segretuzzo di compagni o riferir pettegolezzi e scandali di compagnia, adopera quasi sempre paurose parole come queste : non volevo dir tanto ; ma mi affido ch’io lo dico a padrone che non lasciarà perder questa mia et penetrare facilmente il tutto. Ammettiamo : è certo nondimeno che l’Andreini non la cedeva al Cecchini sia nei dispetti, e nelle offese, sia nelle rivelazioni più o meno aperte. L’affare della Baldina gli aveva messo addosso l’inferno, ed è naturale che alle scene di gelosia della povera Florinda che parve davvero una terribile donna a modo, egli scattasse come un demonio. Al Duca [p. 155]mandava proteste acerbissime, maravigliando come avesse ad ascoltarsi più tosto un mentitore che un povero giove che aveva sempre professato di essere servo di S.A.S. e servo d’honore. Povero Duca !… Ogni qualvolta gli capitavan fra mano lettere dell’una o dell’altra parte, sa Dio a quali contorcimenti nervosi si lasciava andare ! In una lettera del 20 settembre 1626 da Cremona l’Andreini arriva a dire persino della Cecchini, che il mondo non può più sostener di veder lei tanto è difforme. Dopo la quale dichiarazione, al solito, imitando il suo egregio avversario, aggiunge paurosamente : sopratutto non si tratti che questo avviso venga da me che pur troppo sarà sospettato.

Da Galeotto a Marinaro, non c’è che dire : facevano a chi poteva dirsene di più grosse ; e francamente non saprei affermare chi avesse il disopra nella tenzone. Dell’Andreini si sa per fino che un cotale italiano voleva farlo assassinare ; onde Maria de’Medici chiedeva in una lettera a suo nipote il Cardinal Duca di Mantova, protezione e giustizia.

Ma torniamo alla Lidia. Dunque l’Andreini ne era da gran tempo l’amante, vivente e (per forza, si capisce) assenziente la moglie Virginia. In fatti, in una sua lettera da Vienna (23 novembre 1628) egli unisce agli ossequi della Florinda quelli della Lidia…. Fo riverenza a V. S. Ill.ma e così fa Flor.ª e Lidia serve devotiss.e sue. Non solo ; ma ricorda, raccomandandolo caldamente, il negozio della S.ª Lidia con la Ser.ma Arciduchessa di Toscana ; quello concernente le raccomandazioni per le LL. MM. l’Imperatore e l’Imperatrice a favore della figlia Eleonora : mentre otto anni prima succedeva in Compagnia quel famoso scandalo per la Baldina, che fece scappar la Virginia come spiritata ! ! ! Morta questa, l’Andreini si unì in matrimonio con essa Lidia, imposta prima alla povera Virginia, la quale sopportava non rassegnata, per paura, come dice il Cecchini, che il marito non le facesse una qualche burla ! ! ! La tresca dunque durava, per lo meno, dal 1620, data della lettera del Cecchini, concernente gli scandali provocati dalla baldina, che altra non era che la Lidia Virginia Rotari, già moglie di Baldo {p. 156}Rotari, come abbiamo da una lettera (26 novembre 1612) al Duca di Mantova firmata da’comici tutti, fra cui Baldo Rotari, in nome di sua moglie ; alla quale fu dato il soprannome di baldina, dal nome del marito, o in antico per distinguerla dall’altra Lidia di Bagnacavallo, la comica famosissima de’confidenti, che di non molti anni l’aveva preceduta, o più tardi, in compagnia dell’Andreini, per meglio distinguere le due Virginie : io ritengo più probabile la seconda ipotesi. — Che anche la Rotari fosse attrice valente sappiamo dalle poesie varie pubblicate insieme alla Maddalena lasciva e penitente, azione drammatica dell’Andreini, nella quale recitando in Milano nel 1652 la parte della vecchia Marta, ottenne, come si direbbe oggi, uno strepitoso successo.

Trascrivo da Fr. Bartoli il madrigale di Lucio Narni :

Se la similitudine s’appella
causa di vero amore,
Lidia c’innamorasti,
quando Marta piagnevole imitasti.
Così bene il pallore,
gli atti per convertir vana sorella
in Teatro fingesti,
che gl’Insubri traesti
a dir, di verità lingua cosparta :
non è Lidia costei ; mirala : è Marta.

Ed ecco i due madrigali che Gio. Battista Andreini dettò per la signora Eularia, e per Lidia sua moglie, l’una Maddalena, l’altra Marta rappresentando.

I

Se di lascivo ardore
Maddalena un Vesevo ha un Enna al core :
Marta Egeria, che Egei forma di pianto
già d’estinguer tai fochi ha vena, ha vanto.
Di serafico ardor si riaccende
la Peccatrice : al Pianto Pianto rende.
Oh, di Marta valor, s’entro un sol loco
mesce l’onda col roco.

{p. 157}II

Su ’l bel pian Senonense
de’ Sicambri terror, fastosa io vidi
teatrale innalzar Mole superba,
là, ’ve di Maddalena illascivita
l’oscena io vidi e penitente vita.
Già tra’ que’ Regi nidi
(proprio d’ Insubri a ministrar Compense)
narran : che ’nfrà di lor tal gloria ha sparta,
una sol MADDALENA, una sol MARTA.
(La Maddalena, ecc. Milano, Malatesta, 1652).

Il Sand mette fra le amorose che fecer parte della Compagnia dei Gelosi dal 1576 al 1604, Isabella, Flaminia, Ardelia, Lidia, Laura. Al nome di Lidia segue la parentesi (seconde femme de G. B. Andreini). Avrebbe dovuto dire più esattamente : quella che circa trent’ anni dopo diventò la seconda moglie di G. B. Andreini. Se nel 1628 scriveva essere serva da 25 anni, non avrà avuto meno di 42 anni…. Dunque nel ’52, quando essa rappresentò la Marta, non poteva aver meno di 65 anni.

Androux Giovanni.Amoroso in Compagnia di Andrea Patriarchi, poi col Lapy, generico, e finalmente, nell’anno drammatico 1795-96, padre in Compagnia di Giuseppe Pellandi il noto Truffaldino. Francesco Bartoli ha per l’Androux parole di encomio, da quando era col Lapy ; il giornale dei teatri di Venezia del ’96 ha di lui : « col Ruggero nelle Lagrime d’una vedova e col Saggio nella Lauretta di Gonzales, si assicurò sempre più la fama di buon comico. » E altrove : « Roberto nella Pulzella d’Oxford, Alvise nelle Tre Tonine e Filippo nell’ Annetta veneziana di Spirito, parti assai distanti l’una dall’altra, diedero a conoscere l’estensione del suo talento comico. » E altrove ancora : « sublime nelle parti da padre, ha saputo mostrar non ordinario valore anche in caratteri disparati…. A questo eccellente {p. 158}comico non si può imputare altro difetto che quello che deriva in lui da natura, quello cioè della pronuncia. ( ?… Era fiorentino). Egli sa però talvolta farlo servire con bravura al comico. »

Androux Angela. Moglie del precedente. Fece anch’essa le prime armi nell’accademica Compagnia del Patriarchi, poi si acquistò buon nome come servetta. « Una figura gentile — scrive il Bartoli — una dolce favella, e un recitare pieno di spirito, rendono questa giovane comica, nel suo carattere di serva, assai pregevole. »

Androux Maria. Figlia dei precedenti, continuò l’arte di sua madre, diventando una servetta non comune. Recitò insieme col padre nella Compagnia Pellandi, il 1795-96-97. Il giornale citato ha per lei queste parole : « Finetta nelle Lagrime d’una vedova bastò a mantenerle il favorevole voto del pubblico ; » e in altra parte : « la serva confidente di Sofia nel Tom-Jones, e Costanza nella Pulcella d’Oxford distinsero quest’attrice nell’impegno suo costante per ben riuscire. »

Anelli Francesco. Comico fiorentino. È segnato dal Bertolotti (op. cit.) fra i comici che il 10 dicembre 1590 giungevano a Mantova in casa di Domenico Torni.

Angela. Nome di una attrice che pare unisse alla professione comica il mestiere di saltatrice, come risulta da una lettera del Rogna in data del primo luglio dell’anno 1567. « Hoggi si sono fatte due comedie a concorrenza : una nel luogo solito, per la sig.ra Flaminia et Pantalone, che si sono accompagnati colla sig.ra Angela, quella che salta così bene…. ecc. ecc…. si tratta della tragedia di Didone mutata in Tragicommedia, che è riuscita assai bene. » (V. D’A., op. cit.).

Angeleri Giuseppe Antonio. Nato a Milano di stimabilissima famiglia borghese. Compiuto il corso de’ suoi studi, si {p. 159}diede a recitare prima tra’dilettanti, poi divenne comico di professione, facendosi abbastanza onore nelle parti di innamorato. Ma pare che le galanterie dell’amore non si attagliassero all’indole sua. Infatti, pochi anni dopo, noi lo vediamo abbracciare la maschera di Brighella, nella quale fu eccellente, non tralasciando, nelle commedie premeditate, di sostenere ancora le parti serie. Di solito era affidato a lui, uomo colto, l’incarico d’invitare il pubblico alla commedia ; e anche in ciò seppe farsi apprezzare per la eleganza di modi e di parole ch’egli adoperava. Nel 1744 egli fu tradotto in carcere, accusato nientemeno di essere stato causa di un incendio : ed ecco il fatto : la sera del 19 febbraio 1744, si recitava al Teatro Malvezzi in Bologna dalla Compagnia di Filippo Collucci romano, il Giustino di Nicolò Beregani da Vicenza. Terminata da poco la rappresentazione, si sviluppò tra le scene il fuoco, e in breve ora, propagatesi ovunque le fiamme, il teatro fu distrutto. Alcuni pretesero che l’incendio fosse destato ad arte dall’ Angeleri, il quale fu subito carcerato : ma non avendo l’accusa fondamento di sorta, egli potè colla stessa sollecitudine essere rimesso in libertà. (V. F. Bartoli, op. cit. — C. Ricci, I Teatri di Bologna. Bologna, 1888, pag. 159-60).

« Passato poi a Venezia nella Compagnia del Teatro di S. Luca — scrive Fr. Bartoli — fu il primo che recitasse la parte d’Osmano nella Sposa Persiana del Goldoni. » Nel 1754 era la Compagnia scritturata per la primavera a Genova, e per l’estate a Milano. L’Angeleri aveva, pare, motivi suoi per non recarsi in patria ; ma dovè andarvi pur troppo : e la prima sera, vestito del suo abito di Brighella, assalito da atroci dolori fu colto istantaneamente dalla morte. Quella sciagura sembrò collegarsi intimamente colla ripugnanza ch’egli ebbe di recarsi a Milano, e Bartoli stesso afferma ch’egli morisse non senza sospetto d’essere stato col veleno in quel momento tradito. »

Ecco come Goldoni racconta il triste fatto :

Quest’uomo pure era ipocondriaco, ed avevo seco avuti in Venezia parecchi colloqui relativamente agli stravaganti effetti delle nostre malinconie. Al mio arrivo in Milano lo incontro in peggiore condizione di prima ; da una parte era combattuto dal desiderio di far conoscere la singolarità del suo ingegno, ritenendolo nel tempo medesimo dall’ altra il {p. 160}rossore di comparir sul teatro nel proprio paese. In tale stato soffriva infinitamente, vedendo sotto i suoi occhi applauditi i compagni, senza che riportasse dal pubblico ancor egli la sua parte di applauso. Aumentavano perciò le sue malinconie un giorno più dell’altro, di modo che i colloqui che frequentemente seco avevo su tal proposito le avevano risvegliate anche in me.

L’Angeleri cedè finalmente al violento impulso del suo genio : va sul palco scenico, è applaudito, rientra fra le quinte, e cade morto all’ istante. Resta vuota per tale accidente la scena, gli attori non vengono più fuori ; a poco a poco spargesi la nuova e giunge fino al palchetto dove era io. Oh cielo ! È morto l’Angeleri ! Il mio compagno di malinconie ! Nell’istante medesimo esco qual forsennato, vado non sapendo dove, e mi trovo in casa, senza neppure aver veduto la strada da me fatta. Tutti si accorgono della mia agitazione : me ne chiedono il motivo, ed io grido a varie riprese : l’Angeleri è morto ! e mi getto sul letto !

Che età avesse l’Angeleri non ho potuto accertare, non trovandosi punto d’accordo i due documenti che qui trascrivo, gentilmente comunicatimi dal Conte Paglicci Brozzi.

Dal Reg.° dei morti

della Parrocchia Metropolitana Milanese.

Giuseppe Antonio Angeleri, di anni 37, figlio del fu Giovanni Angelo Angeleri, assalito da accidente apoplettico, è morto senza ricevere alcun sacramento, e fu sepolto in duomo con sei sacerdoti.

Dal Reg.° Mortuario dell’Arch.° di Stato di Milano.

Porta Orientale — Parochia Sanctae Theclae. — Joseph Antonius Angelerius annorum 44, filius quondam Johannis Angeli, ex apoplexia : in theatro.

Angelini Teresa. Fu prima donna egregia sul finire del secolo scorso. Passata, benchè ancor giovane, nel ruolo di seconda donna e madre nella Compagnia Reale di Salvatore Fabbrichesi (V.), seppe serbare coll’ arte sua la bella rinomanza nella quale era salita come prima donna. Dovendosi rappresentare a Milano la Rosmunda dell’Alfieri, ella contese alla celebre Pellandi la parte di protagonista, la quale fu dal Camerino di Milano, giudice inappellabile in siffatte contese di artisti, a lei assegnata, perchè parte di matrigna, decretando alla Pellandi quella di Romilda. Con tanto fervore, con tale spirito di emulazione si diedero le due donne allo studio de’ loro personaggi, {p. 161}che, a detta degli spettatori, ne uscirono due delle più stupende creazioni dell’arte. Lasciato poi il Fabbrichesi, l’Angelini entrò nella Compagnia Rafstopulo, in cui poco dopo morì a 50 anni.

Angelis (De) Pasquale, attore napoletano rinomatissimo, figlio di Giuseppe e di Antonina Manzo, lasciò a mezzo gli studi di medicina per darsi all’ arte drammatica, facendo le prime prove, come dilettante, al San Severino. Dal 1837 al ’40 pubblicò il giornaletto La Specola. Fu premiato con medaglia d’oro a un concorso di declamazione, tenuto nella R. Università, e riuniti alcuni dilettanti rappresentò tre sue commedie, l’Otello, Il Precettore, e Il vampiro per prova. Sui primi del ’53 fu accolto dal Luzzi nella Compagnia del S. Carlino ; ed essendogli stata strappata da Antonio Petito, il celebre Pulcinella, la parrucca, colla quale celava la testa calva, fu obbligato da quella sera a lasciarla. Fu lo stesso Petito che gli affibbiò il nome di Buffo Barilotto, col quale fu celebre. Recitò la sera del 26 marzo ’76 nella Dama bianca del Marulli ; la sera fatale in cui il povero Petito moriva di apoplessia dopo il terzo atto. La sera del 30 marzo toccò al De Angelis di presentare al pubblico, con un monologo in martelliani, il successore di Petito, il De Martino, già pulcinella del Teatro Rossini.

Morì d’apoplessia nel settembre del 1880, mentre era sul punto di uscir di casa per recarsi alla prima rappresentazione di riapertura del S. Carlino colla nuova Compagnia di Edoardo Scarpetta. (V. Di Giacomo, loc. cit.).

Angelo Michele. Attore bolognese. Di lui si sa soltanto (V. D’Ancona) che nel 1567 formò compagnia in società con Guglielmo Perillo napoletano e Marcantonio veneto : societatem insimul recitandi comedias… e, all’occorrenza, sonandi, cantandi, ballandi, ecc.

Angelo (D’) Francesco. Figura nell’elenco della Compagnia, presentato da un Domenico Arcieri nel 1742 per {p. 162}ottenere il Teatro della Pace di Napoli. Il teatro (nel quale eran sempre infimi attori ed infimi spettatori), non fu accordato, a cagione delle attrici, Teresa Passaglione, Teresa Amoroso, Maria Grasso, Antonia Spina. Per quanto, la supplica dell’Arcieri dicesse in proposito : « le quali per li loro moderati costumi e per non essere state causa di scandalo veruno abitano presentemente in città, ed hanno più volte recitato nel sudetto teatro, » l’Uditore rispondeva che « le quattro donne erano delle peggiori. » Teresa Passaglione era stata allontanata. Antonia Spina, « bastantemente disonesta, » si sapeva che non voleva recitarvi, per non accomunarsi colle altre due…. ecc. (V. Croce, op. cit.).

Angeloni Filippo, mantovano. Detto Filippo Zoppo, e anche Filippo delle Commedie, attore e autore di grido. La sera del 24 febbraio 1525 fu rappresentata una sua commedia a Mantova, la quale — scriveva Vincenzo de Preti — « veramente al judicio de ogni persona fu molto bella, et bene recitata al possibile. »

Il De Sommi lo chiama, nei suoi dialoghi, l’argutissimo Zoppino da Mantova, collocandolo fra i molti galanti homini, che di recitare perfettamente si sono dilettati a’ tempi nostri…. In data del 14 marzo 1580, il Duca di Mantova eleggeva il giocondo Angeloni, superiore ai comici mercenari, ciarlatani, ecc., in tutti i suoi Stati, decretando che nessuno di essi potesse nè recitare comedie o cantare in banco, ecc. ecc., senza sua licenza in iscritto.

Angiolini Agapito.Generico, il 1815, nella Compagnia di Pellegrino Blanes (Paolo Belli), colla moglie Teresa, madre, e la figlia Adelaide, generica. Fu poi secondo caratterista dell’ottima Compagnia condotta da Antonio Rafstopulo, nel 1819-20, sempre insieme alla moglie, madre nobile, e alla figlia, prima amorosa. Di questa, il Corriere delle Dame del 5 agosto 1820, fa molti elogi col Boccomini, dopo le prime due recite al Teatro Carcano di Milano, col Giudice di sè medesimo, e Sofia Vander-Noot.

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Fra gli artisti che recitavano nel 1800 al S. Carlino di Napoli è pure una Carlotta Angiolini, della quale non seppi trovar altra notizia.

Angiolini Alessandro. Nato in Arezzo verso il 1780 da un professore di rettorica, passò gli anni del noviziato in Compagnie di poco o niun conto ; ma l’amore allo studio, la piacevolezza dell’aspetto, l’eleganza del vestire, congiunti a una certa attitudine pel teatro, lo fecero entrare nelle Compagnie migliori di Goldoni, Modena, Righetti, Fabbrichesi, Mascherpa, Perotti, come primo amoroso a vicenda, ora con Giuseppe Ruggeri, ora con Francesco Augusto Bon e Paolo Baldigara. Si vuole che, stando al fianco di Francesco Bon, artista insuperato nelle parti brillanti, s’invogliasse d’imitarlo ; e con tanto esemplare sotto gli occhi e con la costanza nello studio non mai attenuata, vi riuscisse così mirabilmente, che parve a tutti, se non uguagliare il maestro, a lui molto accostarsi. In Compagnia Righetti sposò la rinomata attrice Carlotta Polvaro, dalla quale presto fu separato per la incompatibilità dei caratteri. Fu a Parigi brillante colla Compagnia di Carolina Internari e Francesco Paladini. Il Costetti ne’suoi « dimenticati vivi della scena italiana » racconta come, scoppiata a Parigi la rivoluzione, ne toccasse anche la povera Compagnia italiana : e in mezzo a una specie di consiglio di famiglia, il brillante Angiolini [una macia di veneto (?)] recasse, come bomba, l’annunzio che tutta la condotta era sotto sequestro. S’alzò un grido d’ òrrore, misto all’incredulità, per tanto disastro. E l’Angiolini, tra il brusco e il faceto : « Sicuro, se ve piase i fighi ! »

Da quella dell’ Internari passò ancora in altre Compagnie, sinchè, avanzato in età, dovè darsi a’caratteristi, in cui non fece quelle prove che sperò. Inquieto, stravagante, violento, tanto si risentì dell’insuccesso, che a Milano, mentre si trovava nella Compagnia di Angelo Lipparini, colpito da mania furiosa, fu ricoverato alla Senavra, ove morì miseramente di circa settant’anni, dopo il ’40.

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Aniello Soldano, napoletano, detto il Dottore Spacca Strummolo.

Trascrivo da Francesco Bartoli :

« Graziosissimo comico fu costui, il quale fioriva intorno al 1590. Dal Regno di Napoli, dove per qualche tempo esercitato aveva la sua comica professione, passò egli in Lombardia ; e quindi in Firenze, in Bologna, in Venezia, ed in altre principali città fecesi conoscere per un gran Commediante. Spiritoso ne’ lazzi, pronto nelle risposte, lepido e faceto ; e sopra ogn’ altra cosa infinitamente studioso, acquistossi una somma riputazione, e fu tenuto in concetto d’uomo veramente negli studj fondato, e pieno di moltissime cognizioni. »

Pubblicò nel 1610 a Bologna per le stampe di Vittorio Benacci due operette ; la prima intitolata : Fantastiche et ridicolose etimologie recitate in commedia da Aniello Soldano, detto Spacca Strummolo Napolitano, dedicata al Conte Ferdinando Riario, Senator bolognese ; la seconda, La Fondazione et origine, ecc. ecc., dedicata al Conte Ercole Pepoli, che consta di 13 pagine di stampa, compreso il frontespizio, la lettera dedicatoria e una breve prefazione ai lettori, riportata da Francesco Bartoli nelle sue notizie. Un curioso prologo è questo, composto, al dire di esso Bartoli, in occasione di dover recitare a Bologna nel carnevale del 1611…. e che qui io pubblico intero, assieme alla riproduzione del frontespizio, per dare una idea ben chiara di questa variazione (sudiciotta, se vogliamo) della maschera del Dottore, di cui, per quanto io mi sappia, non è traccia fuorchè nel nostro Aniello.

Quando Gio. Battista Andreini, capo dei Fedeli, scriveva di Torino il dì 14 agosto 1609 al Duca di Mantova (V. Andreini Virginia) narrando i dissapori sorti in Compagnia, per opera specialmente dei coniugi Cecchini, conchiudeva col chiedere a S. A. aiuto e protezione, in nome anche di alcuni compagni, quali erano : mes.r Hieronimo (Garavini), mes.r Federico (Ricci), mes.r Carlo (Ricci, figlio), mes.r Aniello (Soldano), e mes.r Bartolomeo (Ranieri ?).

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In fatto l’ingegno, il giuditio, il sale che sta riposto in questa guardarobba di scienze, in questo scrigno di dottrina, in questa zucca, in questa chirichiocca Spacchesca, è veduto da’ ciechi, sentito da’ sordi, conosciuto da’ matti, e celebrato da’ muti. Fama volat ; la quale non sa spifferare dalla sua sonora sampogna altro che le lodi di questo Dottore, Plusquamdottore, Archimandritta di tutti i Dottori. In somma dice, e dice bene, che melius est nomen bonus, quam divitias multas ; ogn’uno Spacca di qua, Spacca di là, Spacca di sù, Spacca di giù, chi mi chiama, chi mi tira, chi mi prega, chi mi sforza a dispensargli parte della mia dotta dottoraggine ; di maniera, che spesso spesso son forzato di desiderare, ò che tutti i Dottori ne sappiano quanto Spacca, ò che Spacca non ne sappia tanto, per non hauer del continuo si gran fatiche in pacificar liti, accordar discordie, e pronuntiar sententie. E sarebbe una bagatella, una frulla haver solamente a spaccheggiar tra gli huomini : Anco gli Dei, quando vengono trà di loro in qualche disputa, se non andasse questo pezzo di Dottore à mettergli d’accordo, senz’ altro si romperebbono la testa : E questa mattina appunto (ò bel caso diavolo, alzate l’intelletto per cortesia) ero nel mio studio a spolverare i libri, quando sento con gran furia bussar’ alla porta ; apro, e veggo Mercurio co gli stivali in piedi, tutto sudato, che per hauer troppo corso, non poteua quasi rihauere il fiato ; lo fò passare, lo fò sedere, e gli domando quel che voglia dal fatto mio ; egli affannato mi dice. Gli Dei son raunati in consiglio, & è nato tra essi vn gran disparere, però hanno bisogno della presenza vostra ; Io galantamente rispondo, che per fargli seruitio sono in ordine, lui di posta mi piglia in braccio, & in vn batter d’occhio mi porta in Cielo, e non ve ne voleua di manco, perchè vn poco più ch’io fussi tardato, quei Barbassori si sarebbon date tante le maledette pugna nel naso, che sarebbe piouuto mostarda per otto giorni, e la spetiaria di maestro Apollo sarebbe stata sfornita d’vnguento di biacca, e difensiuo. Era nata la lor discordia, perche ciascuno di essi pretendeua d’essere stato il fondatore, il fabricatore della città di Bologna, e non hauendo chi desse sopra di ciò la sentenza erano quasi quasi venuti alle mani ; perciò tutti allegri del mio arriuo

Con mille reverenze e mille inchini

fattomi sedere pro tribunali, &c, volsero, ch’io gli fussi il Giudice ; e sul vero

Ci voleua un tant’huomo in tanta lite.

Non prima mi fui posto nel Soglio giudicesco, che tutti in truppa, come tanti Zingari, cominciarono a voler dirmi le lor ragioni. Piano (dico io) ; non tanta furia ; nessuno parli senz’esser chiamato ; e perchè si legge (non mi ricordo doue, à carte non sò quante, che vbi non est ordinem, ibi est confusionem) cominciando da’ più degni, chiamo il primo Saturno, che venga à espormi la sua pretensione. Vien M. Saturno Zoppiconi, e Scappellatomisi dinanzi, dice così. Quando al tempo antico io fui scacciato dal Regno da Gioue mio figliuolo, me n’andai vn gran pezzo ramingo pe ’l mondo, & il {p. 166}primo luogo, che mi paresse sicuro per habitarui, fù alle sponde del fiume, che hora si chiama Reno ; Quiui feci fabricare una Città, e conosciuto il paese per fertile, & abondante, la chiamai Felsina, quasi felix sinus, cioè luogo felice ; e perche gli abitatori di quella mi chiamauano Rè, io che sapevo d’essere stato scacciato dal Regno, rispondeuo Re nò, Re nò ; e di qui il fiume, che passa per la città di Felsina, fù dipoi sempre nominato Reno. O buono, ò buono, diss’io allhora ; ma perche dice odi l’altra parte, chiamo Gioue ; lui mi viene innanzi, e dice : Io sono stato il fondatore di Bologna ; e poiche M. Saturno vuol far vero il detto con l’Etimologie, ecco ch’ io vi stampo la vera Etimologia di quella Città, donde si conoscerà la mia buona ragione. Quando trasformato in Toro haueuo impregnato la bella Europa, tornando di Creta passai per doue oggi è Bologna, & alloggiato da vn mio pouero amico, che staua in una piccola casetta su la riva del Reno, a cena gli raccontai il caso seguito ; e nel partirmi feci miracolosamente nascere in quel luogo vna Città, per ricompensa, facendone Signore quel mio ospite ; & in memoria, che sotto forma di Toro, o Boue haueuo goduto la donna amata, nominai la nuova Città Bononia, dalle parole Bos, che vuol dir Bue, Non, che significa non, & Jam, che s’espone già ; cioè Bos non jam ; per mostrare, che non era già vn Bue, ma Gioue quello che portò via Europa.

Harei dato la sentenza in fauore al padre Gioue, se non hauessi veduto Mastro Apollo. che già haueua la bocca aperta per dire il fatto suo ; però fattolo accostare, gli diedi cenno, che parlasse ; Egli con la testa rossa per la collera, disse che quello, che era opera manarum suorom, quegli altri babbuassi se lo voleuano attribuire a sè stessi ; ma che la vera verità era, che egli già innamorato morto della Ninfa Dafne, non potendola con preghi, e promesse ridurre alle sue voglie, faceua quasi le pazzie per amore ; pure al fine risoluto di non star sempre come le zucche (co ’l seme in corpo) determinò di pigliarla per forza, e contrar seco legitimo adulterio ; la Ninfa, che era furba, auuedutasi della ragìa, à gambe fratello, e lui dietro ; corsero tanto, che arriuarono alle sponde del fiume Reno in Toscana, e non del fiume Peneo in Tessaglia (come dice quel minchione di ser Nasone), doue la Ninfa per opera di Gioue fù trasformata in alloro. Apollo perche restasse memoria dell’amor suo fece fabricare in quel luogo vna Città, e la chiamò Felsina, dalle parole, che seguitando Dafne diceua, fel sinas, fel sinas ; cioè, o Ninfa, sinas, lascia, dal verbo sinos, is, che stà per lasciare, e fel, che vuol dire fiele, e si piglia per l’amarezza, e crudeltà in amore.

Quand’io sentii questo, mi venne voglia di piantargli in mano vn tu hai ragione tanto lungo, se non che Marte imbizarrito senza esser chiamato si fece innanzi, e disse : Potta di Giuda, ch’io non vo bestemmiare ; è possibile, che voi siate tanto sfacciata canaglia, che mi vogliate leuar la gloria delle mie fatiche ? Io hò fabricato Bologna di mia mano, e molto prima, che impregnando Rea dessi cagione all’origine di Roma. Non vi ricorda bestiazze, quando io spasimauo per Venere, e lei in amarmi non era un’ oca, che quel becco cornuto di Vulcano voleua far del ritroso non si contentando, ch’ io dormisse con la moglie ? Vmbè allora appunto, capi da sassate, io presi la mia madonna Venere in braccio, e di peso me la portai in terra, e posatala su la riua del Reno feci le corna a quel zoppo, affumato del suo marito ; & in honore della riceuuta vittoria, fabricai subito in quel luogo vna Città, nominandola Bononia, quasi Bonum onus, cioè buono, e soave m’era stato il peso nel portar Venere di Cielo in terra.

È vero (soggiunse allor Venere) che voi ò Marte faceste quella Città, ma la faceste di mia commissione ; e però io debbo esserne detta la fondatrice ; oltre che il nome lo prese da me, e non da voi (come falsamente andate dicendo). Io, io fui quella che spalancata la mia larga bottega, chiamai quella Città Felsina, cioè tutta dolcezza, e senza alcuna sorte d’amaritudine, dal nome fel, lis, che vuol dir fiele, e dalla prepositione sine, che significa senza, quasi Felle sine, senza fiele, senza amarezza.

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Alla fè, che questa mi cauò quasi diffatto della brachetta la sentenza à favor suo ; ma ricordandomi, che in questa materia giudicevole

Tanti causa mali femina insala il fuso ;

Ritenni il ritto desiderio col freno della ragione ; e chiamai Pallade, che quasi quasi s’era pisciata sotto per la paura douendo venir di nuouo in concorrenza con Venere. Pure assicurata dal mio mostaccio d’huomo da bene, fatto vn ghigno sott’occhio, fattamisi innanzi allargò il pensier suo con queste parole. Sig. Iudex, vel Domine Spacca. Costoro, questi cujum pecus, senza l’aiuto mio non si ricordano dalla bocca al naso ; Igitur adunque sappia la Dottoraggine vostra, che Illa ego qui quondam sbalzata fuor del mazzucco di Gioue mio padre, cominciai à pascere tra gl’altri Dei, me ne scesi in terra, à far anch’io edificare vna Città, doue per sempre fusse la sedia, & abitation mia ; e perchè si riconoscesse per Città di Pallade Dea delle scienze, feci tutti i suoi abitatori dotti, e sapienti ; e per dimostrar l’istesso anco co’l nome, la chiamai, non Atene, nò, ma Bononia, che vuol dire Città che non ha ignoranti, dal nome Bò, o Bue, che volgarmente si piglia per ignorante ; dalla dittione non, e dal verbo hauere, cioè Bononia Bò non ha : è però meritamente è chiamata Mater Studiorum.

Non vi restava se non quel folletto di Mercurio a farmi sentire le sue ragioni, il quale senza aspettar l’inuito, cauatosi il capelletto, e di mio ordine messo in vn canto quel baston, che suol portare in mano, fece vna bella, e lunga cicalata, mostrando come tutto quello, che haueuano ditto gli altri Dei era Alchimia, e non poteua stare a martello ; e che lui solo era il pater patriæ Bononiensis ; vedendosi che tutti i Bolognesi come figliuoli, e descendenti di Mercurio Dio dell’eloquenza, nascono con vna buona inclinatione naturale alla Rettorica, e son dotati d’vn facondo parlare. Et ideo la Città fu chiamata Bologna, quasi Bonus logos, cioè buon parlare, dalla parola Latina bonus, a, um, che significa buono, e dalla voce Greca Logos, che vuol dire il parlare. Ergo (conclue Mercurio), io sono stato il fondatore di Bologna, & io debbo riportare il vanto di questa lite, e voi altri Signori Dei resterete

come senza lucerna i bacalari.

Voleuano tutti quanti replicare, e mandar la cosa in infinito : anzi Saturno haueua già preso in mano la sua falce fenaja, Gioue vn buon tizzon di fuoco, Apollo la piua, Marte un’archibugetto a ruota, Venere s’era messa a parata, Minerua haueua scoperta la sua rotella, e Mercurio s’era armato del baculo ordinario ; quando questo petto informato in facto, e resoluto in jure, impostogli il debito silentio, così pronuntiò.

Si vede bene, che siete vn monte d’ignorantoni, & insolentazzi, pensando e volendo far credere à gl’altri, che vn solo di voi habbia potuto fabricare vna Città così magnifica, così nobile, come è Bologna, e dotare i suoi Cittadini di tante gratie, e fauori, che gli rendono onorati, & ammirati da tutto il Mondo. Non Saturno, non Gioue, non Apollo, non Marte, non Venere, non Pallade, non Mercurio, è stato da sè solo il fondator di Bologna ; ma tutti insieme d’accordo come pifferi fuste i muratori di fabrica così stupenda ; e molto ben ve ne ricordate, se non hauete perduto il cervello ; Saturno fece i fondamenti con la Giustitia delle leggi, Gioue tirò sù le belle prospettiue con la benignità de’costumi ; Apollo vi fece miniature all’arabesca con il pregio della Poesia, Marte vi pose i baluardi con la fortezza de gl’huomini, Venere l’adornò di pitture con la beltà delle donne, Pallade dotò la Città tutta co’tesori delle scienze, e Mercurio la vesti d’vn bellissimo drappo di grata, e natural facondia. Il che fatto viuo vocis oraculo, gli poneste quel bel nome Bononia in latino, per dimostrar, che Bona omnia in ea sunt, e Bologna in volgare, perchè la fama sua Boat longe, cioè rimbomba, e si fà sentire da lontano. O voletene più bestiazze ? à che far tanti romori ? che possiate essere accisi.

Rimasero tutti con vn palmo di naso, spantati, strasecolati del mio sapere ; e fatto {p. 168}metter in ordine la carrozza del Sole, fattomi compagnia insieme

Alla porta d’ Oriente,

me ne rimandarono nel mio studio ; e si vede, che dal gran caldo son diuentato vn pò pò nero :

Ma ’l nero il bel non toglie.

E però questa sera (nobilissimi Signori Bolognesi) pregato da’ miei compagni à farui il Prologo d’vna bella Comedia, che hanno in animo di recitare, in quel cambio hò voluto dirui, quanto per cagion vostra m’ è avvenuto, e quanto in servitio vostro hò operato ; se vi pare, che meum labor sit dignum mercedem suam, fate silentio, che io per hora altro non chieggo, e voi in tal modo confermerete esser vero, che in Bologna non ha luogo l’ignoranza, l’ingratitudine, ma la vera cognitione e ricognitione de’ buoni, e di chi merita, come si caua dalla voce Bononia diuisa in sillabe, Bo, bonorum, no, notitia, ni, nimis, a, amabilis. Ma se per lo contrario (che non credo) ci denegherete la solita attentione, anch’ io cantando la Palinodia, a Gentil’ huomini, e virtuosi dirò che si sono troppo auari de’ lor beni, e fauori, pur cauandolo dalla voce istessa Bononia, Bo, bonorum, no, nobis, ni, nimis, a, auari, & à certi plebeuzzi, ignorantelli, se ce ne sono, pregherò il meritato fine all’ opere loro, dicendo, Bo, il boja, no, non, ni, nieghi, a, appiccargli. E con questo vi lascio.

Il Fine.

Antinori Amilcare, della famiglia dei marchesi Antinori di Perugia, invaghitosi nel 1842 dell’Annetta Vestri, figlia del celebre Luigi e artista di non pochi pregi, si diede con ogni amore all’arte comica. Esordì come amoroso a fianco di Adelaide Ristori. Nel 1846 lo troviam, sempre amoroso, nella Compagnia Solmi e Pisenti. G. B. Cipro, in un articolo su certa sua Maria Nienfour recitatasi al Malibran di Venezia da essa Compagnia, ha parole di molto encomio per l’Antinori insieme a’suoi compagni Gattinelli, Bertini, Beseghi. Volle poi formar Compagnia, e s’unì in società (1855-56) con Vestri, uno dei cognati. In quella Compagnia la Virginia Marini fece le sue prime armi. Le cose andate a male, abbandonò poi con suo grande rincrescimento l’arte militante ; e si ritirò a Perugia, sua patria, ove fu nominato Direttore della Filodrammatica del Carmine. Amilcare Antinori fu prestante della persona, pronto d’ingegno ; ebbe voce limpida, educazione squisita. Non si levò a grandi altezze, ma fu sempre attore conscienzioso, ed ebbe omaggi ed applausi dovunque. Gli sopravvissero la moglie Annetta e un figlio, Luigi, dimoranti a Perugia.

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Antonazzoni Francesco. Recitava col nome di Ortensio le parti di secondo innamorato, prima nella Compagnia de’Gelosi, poi dei Confidenti. (Vedi la sua lettera a D. Giovanni De Medici al nome di Antonazzoni Marina). Esiste un suo libretto stampato a Parigi nel 1623 (?) e si fece raccoglitore di poesie in lode della celebre Delia (V.). Al dire di Giovanni Cinelli che lo conobbe, Francesco Antonazzoni, smesse col crescer degli anni le parti di innamorato, si diede a recitar quelle di Capitano, e morì vecchio in Firenze.

Antonazzoni Marina Dorotea. Moglie del precedente, nota più specialmente col nome di Lavinia, nacque in Venezia il 5 febbraio 1593. Secondo l’oroscopo che togliamo dalla stessa collezione della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, sposò a diciott’anni in seconde nozze l’Antonazzoni, da cui ebbe un {p. 170}figliuolo. Poche parole ci ha lasciate nelle sue notizie Francesco Bartoli di questa comica ; ma di essa abbiamo un largo studio in due articoli di Achille Neri (Gazzetta letteraria dell’ 11 e 18 maggio 1889) dei quali ci varremo non solo restringendo, ma qua e là trascrivendo. L’Antonazzoni « di cui — egli scrive — non conosciamo il nome di famiglia, innanzi di salire agli onori di prima donna, come si dice, e farsi chiamare Lavinia, nome portato allora dalla Ponti (V.) sembra abbia sostenuto le parti di servetta sotto la denominazione di Ricciolina, a vicenda con la Silvia Roncagli (V.) detta Franceschina, nella Compagnia dei Gelosi, condotta in quel tempo da Flaminio Scala. Probabilmente, morta o ritiratasi dalle scene la Ponti, entrò essa in suo luogo nella nuova Compagnia de’ Confidenti, pur diretta dallo Scala, e le notizie sicure di lei muovono appunto dal 1615, quando quell’ accolta di commedianti, ridottasi sotto il patronato di Don Giovanni De’ Medici, ebbe per oltre un ventennio vita prospera e celebrata. » Recitata in Bologna La pazzia di Lavinia, {p. 171}noto scenario dello Scala (La pazzia d’Isabella, scritto per l’Andreini), il conte Ridolfo Campeggi dettò il seguente sonetto :

Fot. di Cesare Spighi.

Dai Balli di Sfessania di Iac. Callot.

Donna, che oggi il Teatro adorni e fregi,
con quanto hanno di bel le scene accolto,
non già l’oro del crin, l’ostro del volto,
o i fior del seno in te son pompe e fregi
.
Tu, tu con la bell’alma odi e dispregi
il vezzo lusinghier del tempo stolto,
e fai, che gusti sol lo spirto sciolto
dolce il licor de’ tuoi sudori egregi.
Ma la voce gentil che or trista, or lieta,
allettando l’udito, il core impiaga,
della facondia è inaccessibil meta :
e fra i portenti è meraviglia vaga
il tuo furor, ch’ ogni pensiero accheta ;
la tua follia, ch’ ogni desire appaga.

Ripetutasi la commedia a Firenze l’anno successivo, lo Scala ne annunziava con una lettera il grande successo a Don Giovanni. Ahimè !… Come scriveva il Piazza nel suo Teatro che è più facile trovare il moto perpetuo, che la concordia nelle comiche compagnie, così i successi entusiastici ottenuti dall’Antonazzoni misero l’inferno nella Compagnia, per opera specialmente di Battista e Valeria Austoni (V.), invidiosi degli applausi di lei ; tanto che D. Giovanni, il quale da quel povero Impresario che era, doveva sorbirsi le uggiose rimostranze di tutti, alla fine seccato, risolse mandarli con Dio : onde i pianti, le ire, le suppliche, le intercessioni, i pentimenti, le scuse di ogni parte. Scrissero lettere il Bruni (V.), uno dei più acerbi nemici dell’Antonazzoni (perchè pare fosse l’amante dell’Austoni) in nome anche del Romagnesi e di Mezzettino, e dell’Antonazzoni stesso. La risoluzione del Duca parve davvero cruda e irrevocabile, se dee giudicarsi dagli strisciamenti e dalle lacrime in ispecial modo della Antonazzoni. Ma all’arte dell’Antonazzoni s’aggiungeva, e forse come ragion dominante, la gelosia. Si {p. 172}voleva scacciar la Valeria, ma l’amante Bruni vi si ribellava ; si voleva scacciare una certa Nespola, comica di cui non abbiam notizia, ma che sappiamo essere stata la moglie di uno della Compagnia, Marcello di Secchi…, ma vi si ribellava l’Antonazzoni, il quale se l’intendeva molto bene con lei. Di qui le ire della Lavinia ; ire di donna per l’una, di artista per l’altra : insomma, un vero inferno. Io metto qui in fondo le due lettere dei coniugi Antonazzoni, le quali, con quelle degli Andreini e dei Cecchini (V.), dànno un’idea abbastanza chiara della vita dell’arte d’allora. Don Giovanni cercò di metter pace agli esacerbati spiriti, e finì, per meglio riuscirvi, col mandare un suo prologo allo Scala, perchè fosse recitato dalla Lavinia.

Dai Balli di Sfessania di Iac. Callot.

« Nell’anno successivo (1619) si fecero — dice il Neridei segreti maneggi da parte del Duca di Mantova per togliere Lavinia, il marito, Mezzettino (Ottavio Onorati), Scappino (Francesco Gabbrielli), dalla Compagnia dei Confidenti, forse con l’intendimento di radunare un buon manipolo di {p. 173}commedianti da mandare in Francia, in seguito alla richiesta fattane da quella Corte ; ma la cosa non ebbe effetto. »

Marina Antonazzoni morì nel 1639. Pietro Michiele inviava in tale circostanza al padre Angelico Aprosio il seguente sonetto :

IN MORTE DI LAVINIA COMICA

Chi la pompa m’ invola, onde le scene
mutano il riso in tragico lamento ?
Il lume de’ Theatri e l’ornamento
chi sott’ombra funesta oppresso tiene ?
Di Sirena di ciel, d’Hadria l’ arene
vantàr superbe il glorïoso accento
mentre rese Lavinia in tutto spento
di Roma il pregio e lo splendor d’Athene.
Già col vanto di saggia e in un di bella
d’ogni alma ottenne e d’ogni core il vanto,
Pallade insieme e Citerea novella.
Ed ha estinta al suo sepolcro a canto
l’alma a i sospiri, e per pietade appella
il cor per gli occhi a consumarsi in pianto.

A istanza dello stesso Michiele scrisse l’Aprosio una elegia non sino a noi pervenuta, e sollecitò poesie da amici per raccoglierle forse in un volume, pietoso omaggio verso la celebre morta. Uno di essi, il dottore Niccolò Schiattini di Genova, rispose bizzarramente : « morì Lavinia e duolmene ; tormento già di questo cuore grandissimo, e della borsa. Non poetar più per lei voglio. Siasi pur ella in Paradiso, e goda l’eternità, e per me prieghi. » Intorno alla bellezza, vantata nel sonetto di Michiele, ecco quel che ne dice Gio. Francesco Maja Materdonna in altro sonetto scritto per la rappresentazione d’una tragedia :

Pon giù quel ferro ; invan vittoria attendi
da rozzo e vile acciar ; se vincer vuoi,
con un guardo gentil vincer tu puoi
l’oste infedele, a cui dar morte intendi,
{p. 174}anzi fingi, qualor su i palchi prendi
il ferro per ferir : ma qualor poi
rivolgi agli altrui lumi i lumi tuoi,
sempre fai vere piaghe, e sempre offendi.
Anzi se dèssi mai morte verace
per vera ira, e furor col ferro ancora,
quella vendetta a te sarìa fallace.
Perchè vanto al nemico e gloria fòra
morir per bella man che alletta e piace,
ed a par di begli occhi anco innamora.

Ed ecco, senza più, le lettere di Lavinia e di Ortensio a D. Giovanni.

Ill.mo et Ecc.mo Signore,

Poichè la benignità di V. E. permette che ogniuno possa spiegarle così le pretensioni come i disgusti particolari, non mancherò anch’ io, sì come gli altri àn fatto, scriverli ciò che l’animo mio sente, sì per discolparmi di quanto mi viene aposto, come per godere di quel privilegio che agli altri miei compagni V. E. con tanta humanità concede. Hauendo io dunque conosciuto a più d’un segno manifestamente che il sig.r Fulvio per qual si fosse sua ragion di stato, m’era contrario, ch’io non so, nè posso imaginarmene la cagione, se non è per interesse di mia moglie, e mia sorella ; e vedendo essere impossibile di poter per qualsivoglia strada rimovere questa sua mala volontà, mi disposi ricorrere dal sig. Flavio, hauendomelo V. E. in Venetia comandato, e sapendo quanto da lei sia amato, pregando lui che da mio cognato volesse separarmi, stimando nel rimovere questa cagione, rimovere i cattivi effetti di detto sig.r Flavio. Così ritrovando pronto esso sig.r Flavio a compiacere le mie honeste dimande, ha fatto in mio servitio ciò che V. E. sa molto meglio di me, là dove maggiormente iritato il sig.r Fulvio tutto quest’anno mai ha fatto altro che dire non voler che io sia dove lui, e che non vol recitare dove mia moglie faccia da prima donna. Io, Sigre, intendendo con mio estremo disgusto questo, e sapendo che per essere io il minimo di compagnia, et egli il principale, a me haverebbe toccato l’uscio, perciò pensavo a’ casi miei havendo moglie in casa, debiti in quantità, e sorella in Monistero, anzi sopra le spalle, e tanto più ero necessitato a pensarci, quanto che mi riducevo a mente il periglio che passai di rimaner in asso quattr’anni sono, quando finimmo il carnevale a Lucca, che V. E. era a Firenze. Pensavo dunque andarmene a Napoli dove ero chiamato, e perciò prevenivo il tempo dell’aspettata, e non bramata licenza, scrivendo al Sig.r Flavio parte de’miei disgusti, il quale per sua bontà mi amonì ad hauer pacienza per quest’anno, promettendomi l’ajuto suo. Giunti a Bologna con la Compagnia, e ritrovati li SS.ri Comici di Mantova, s’ebbero seco diversi ragionamenti, tra quali si concluse parlar con il Sig.r Flavio, acciò che spiegatone l’intento di V. E. si potesse far cosa di suo gusto, e parlato finalmente con il Sig.r Flavio, dalle prime sue parole s’intese che V. E. metteva ogn’uno in libertà : ma chi che fosse, che hauesse alla sua protezione ricorso, sarebbe benignamente della sua gratia fauorito ; là dove rincorati e rinvigoriti, si propose quella Compagnia che da detto Sig.r Flavio le sarà stato detto, con fermo animo di gettarsi a’ piedi suoi humilmente, per suplicarla della sua gratia.

{p. 175}

Quando il Sig.r Fulvio senti questo disse e fece ciò che da altri haurà inteso, nè giovò humiltà di alcuna sorte, e protesti dal Sig.r Flavio fatti, spendendo il nome di V. E., e con tanto mio pregiudizio, promettendoli Valeria mia sorella in Compagnia, con suo gusto particolare. Signore, che pensieri si devono fare nell’intendere di simil cose ? Con tutto ciò mi sono achetato, sperando in Dio e in V. E. diffensori del giusto e protettori de’ più infelici. Il Sig.r Flavio dunque, veduta questa perfidia, scrisse e fece che noi scrivessimo a Leandro ch’era a Napoli, dandoli parola di compagnia : là dove il povero giovane, credendo alle nostre parole, ma più alle promesse del Sig.r Flavio, lasciò ogni interesse, ricusò ogni profferta, et a noi diede parola gloriandosi d’hauer acquistato il titolo di servo humilissimo di V. E. assicurandoci di precipitarsi, non che correre dove il cenno di lei lo chiami. Cosi sono state e sono le cose, Ecc.mo Sig.re, e quando trovi altrimente mi privi della sua gratia che sopra ogni cosa stimo, ed aprezzo. Della Nespola poi non dico altro, perchè dal Sig.r Flavio haurà inteso, che ogni cosa si faceva con patto che ella non ci fosse, stimandola mente di V. E. per riconoscere Scapino tanto suo partiale e devoto servo, che tanto tempo si è stato, con tanto danno di mia moglie, senza ch’ella recitasse fuori che nel far della luna. Ma ridducendo tutte le mie prettensioni, e tutti i miei disgusti a un punto, dico, che con tutta quella dovuta humiltà e riverenza ch’a me s’aspetta, et a V. E. si conviene, vengo a suplicarla che mia moglie riceva dall’ E. V. gratia d’essere posta nelle prime parti, o almeno alternatamente, ma non con mia sorella ; direi anco senza il Sig.r Fulvio, ma volendo ella che ci sia, mi acheterò, racordandole solo che il povero Leandro non ci ha colpa, nè dovrebbe rimanere schernito, e tanto più che il detto Sig.r Fulvio ha detto mille volte, che quando sarà astretto da V. E. a stare in Compagnia, darà disgusti segnalati, e farà alla peggio. Sì che veda ciò che da un animo preparato al male si può sperare. Mia moglie poi mi fa mille protesti di non voler essere dove la Nespola, s’io l’ammazzassi, si che V. E. faccia che il Sig.r Flavio le scriva a nome suo e che venghi da lei a contentarsene, perchè non vorrei vivere in un continuo inferno. Mi escusi della prolissità nello scriverle, e del disgusto ch’avrà riceuto della maniera del mio scrivere, detato dalla purità d’un riverente affetto, e dalla necessità de’ miei interessi, con che, humilmente inchinandomele, la riverisco colle ginocchia e col core, baciandole la cappa.

Di V. E. Ill.ma
humiliss.mo e devot.mo servo
Franc.coAntonazzoni detto Ortensio.
Ill.mo et Ecc.mo Signore.

Avendo inteso che V. E. vole che questa Compagnia stia insieme, e che se vi è qualcheduno che prettendi qualche cosa o abi disgusto di che che si voglia lo si faccia sapere a V. E. ond’io avendo da questo preso ardire, e confidatomi nella benignità sua dico che mai ho auto bon stomaco con la Nespola per l’interesse passato tra lei e mio marito, e sempre ho cercato di passarmela alla meglio che per me sia stato possibbille, sperando pure che il tempo trovase rimedio per liberarmi. Hora son forsata a suplicare V. E. a concedermi questa prima gracia che io sua humile e divota serva li adimando, et è che la Nespola non sia dove io sono, nè io dove la detta Nespola, perchè per nissuna maniera non ci voglio essere, e questo nasce da giustissima causa, poichè quest’anno è nato tal disordine per lei, che è stato quasi la mia rovina, e della perdita dell’anima e del corpo, e se non fosse stata la riverenza che ò portato, porto e porterò a V. E. mentre che viva, mi sarei partita subitto per non star dove lei ; ma per non disgustar chi n’ è {p. 176}padrone e sig.re ho auto pacienza sino a quest’ hora, con speranza di essere consolata dalla gracia sua. E tanto più che questa è cossa che non a porta disonore, anzi onore e riputacione, e infino si sa chi ella è, e di qual vallore ; ma perchè vedo che mio marito fa (come si suol dire) orecchie di mercante in detta materia, torno a dire che quest’anno che viene io non uscirò fora a recitare se questa donna è in compagnia, e più tosto mangerò radice di erbe e mi contentarò di adimandar la elemosina tanto che viva, quando fosse morto per me il soccorso a altra maniera. Bisognerebbe che io dicessi ancora molte cosse del Sig.r Fulvio, ma per non infastidilla dico questa solla, che per la sua partialità, ostinacione, non ha voluto ingegnarsi, o lasciar che altri s’ingegnino per potter guadagnare. Ma mi dispiace che non ò colpa e pure ò tutto di meno, avendo ogni cossa impegnatta ; nè manco dinari da far quadragesima e da far viaggio per Loretto, dal qual loco non uscirò sintanto che non sappi se mi vol far degna della gracia adimandatali. V. E. consideri che abbiamo bisogno di gente che s’affaticha per far guadagnare, ma non di gente che goda della nostra rovina ; ad ogni modo come serrà quadragesima e che non si vedranno dinari, averano gracia di noi e bisognerà che facino a nostro modo ; ma s’inganano di gran lunga poichè non abiamo più che impegnare, e dinari noi non abbiamo, non n’aspetto da nessuna parte e pure sono risolutissima di non essere con loro. Ma perchè mio marito dice che farrà quello che V. E. li comanderà, da questo m’acorgo che à gusto e che desidera di essere con lei, cioè con Nespola : ma che il Sig.r Flavio non tenga concerto di questo con mio marito, perchè ne succederà qualche gran rovina ; però torno a suplicare V. E. che voglia proveder lei a quettar questi tumulti, e io con ogni humiltà me le inchino facendolle humilissima riverenza.

Di V. E. Ill.ma
humiliss.ma e devot.ma serva
Marina Antonazzoni detta Lavinia.

Dalle quali lettere, congiunte a tutte le altre di comici, e non son poche, si vede chiaro come essi non abbiano pensato a importunare l’Altezza Impresaria, o chi per essa, se non che per battere cassa, o narrar pettegolezzi di retroscena, o invocar la protezione a figliuoli, od altro di simil genere : e mai una lettera che accenni all’arte loro, mai la notizia di un successo o di un fiasco, mai un giudizio, sia pure per gelosia, sul modo di recitare del tale attore o della tale attrice ; nulla in somma di ciò che avrebbe potuto gettare e con tanto interesse un po’di luce in questo buio della nostra scena d’una volta. Come parte integrante dell’articolo che concerne l’Antonazzoni, metto qui sotto gli occhi del lettore alcuni brani di una pastorale di lei tuttavia inedita, che verremo al proposito della recitazione esaminando, e la riproduzione fedele della lettera dedicatoria a Giambattista Ferrari.

[n.p.n.p.]
[n.p.]
[n.p.n.p.]
{p. 178}

Si tratta di un codice della braidense di Milano, portante il n.° I della raccolta Morbio.

Eccone la descrizione :

Ms. cartaceo in 4° piccolo di 70 carte, non numerate, delle quali 17 bianche ; quattro in principio, e dieci alla fine del volume : tre sono fra il primo e il secondo atto. Il codice è tutto della stessa mano ; e credo non ci sia da sollevar dubbi sull’autenticità dell’autografo. Il volume è in rilegatura originale, tutta pergamena, con taglio a fregi dorati sul dorso e sui piatti, i quali portan ripetuto un occhietto con entro le iniziali in due righe a tre a tre : M. D. A. G. B. F.

La favola, come valore intrinseco letterario e drammatico, è una vera e propria paccìa. Un ammasso di monologhi melodrammatici, iperbolici, un’accozzaglia di frasi reboanti e di stupidaggini della più bassa specie. È uno dei soliti lavori a protagonista, immaginato e creato per dar campo all’attrice di sfogare in iscena tutto il suo valore artistico.

Della favola sono interlocutori :


Astrea
Cupido che fanno il prologo.
Il Fato
Eolo
Sacerdote maggiore del Tempio di Venere.
Timante, ministro maggiore.
Ministri minori.
Dorindo, forastiero, amante di Alvida.
Teseo.
Arianna.
Alvida, sua ancella, amante di Dorindo.
Cavalieri di Teseo.
Aurillo
Glaucho pescatori.
Alceo
Aurilla, pescatrice, innamorata di Dorindo.
Bacco.
Coro di pescatori.
{p. 179}

Per dare un’idea dello stile e del sistema, dirò così, drammatico, tutto a bisticci, a contrasti, a pensieruzzi stemperati puerilmente in varie forme, di questa pastorale, sistema comune, a dir vero, se non in queste proporzioni, alla maggior parte di quegli scrittori teatrali buoni e cattivi, metto un brano del monologo di Arianna, dopo l’abbandono di Teseo ; correggendo l’ortografia, per non affaticar troppo il lettore.

O mio dolce Teseo, o non più mio
se tu da me ten fuggi, e vuoi ch’io pera.
Ah, che troppo credei, troppo t’amai.
Discortese Teseo, Teseo crudele,
mostro di feritade,
esempio di fierezza,
fierezza senza esempio,
nemico di pietade,
traditor inumano,
uccisor dispietato,
fabbricator d’inganni,
fallace mentitore,
protervo, lusinghiero,
anima senza core,
anzi cor senza senso,
cor di duro macigno,
anzi d’un aspro scoglio,
cor più freddo che ghiaccio,
crudel vie più che tigre,
più che l’orsa rabbioso,
sordo vie più che l’aspe,
cieco vie più che talpa,
più del lupo rapace,
basilisco mortale,
vipera velenosa,
angue pien d’ira e tosco,
più fugace del cervo,
più veloce del vento,
più che l’onda volubile, incostante,
ingrato, crudo, e simulato amante.

E questo monologhino tira avanti di questo passo per {p. 180}19 pagine ; e chiude l’atto terzo coi versi seguenti che sono l’espressione più chiara di questa strana pazzia :

L’ardir mi porge aita,
l’arroganza mi scorta,
l’astuzia fa gli agguati,
l’audacia move i passi ;

Dai Costumi di varie Nazioni di Pietro Bertelli.

ecco il biasmo che scopre
le bruttezze dell’alma ;
la confusione è meco,
il contrasto m’irrita,
il cordoglio m’affligge,
la vendetta mi sprona ;
nobil desìo m’accende,
la discordia mi chiama,
il disprezzo mi spinge,
il dolor m’avvalora,
il proprio error mi sforza,
la rotta fe’ m’irrita,
{p. 181}la fierezza m’abbraccia,
la fortuna m’aggira,
la forza mi sospinge,
le furie mi dàn l’armi,
il mio furor m’accieca,
la gelosia m’aggela,
la guerra m’accompagna,

Dai Costumi di varie Nasioni di Pietro Bertelli.

l’onor m’addita il premio,
l’incostanza m’innaspra,
l’empietà m’è presente,
l’inganno ha vario aspetto,
l’innocenza ho nel core,
l’insidia nella mente,
l’ira sta in mezzo al petto,
la lealtà sen fugge,
il martor non mi lascia,
la memoria non manca,
le minacce son pronte,
la miseria m’abbraccia,
{p. 182}necessità mi stringe,
l’odio sta sempre meco,
l’ostinazione è fissa,
la pena mi tormenta,
il pensier mi tradisce,
il pentimento è certo,
la perfidia è d’altrui,
la pertinacia è mia
il pianto è mia bevanda,
la preghiera non giova,
la purità non basta,
le querele son sparse,
la rabbia m’avvelena,
il vigor mi percote,
il rumor già m’assorda,
lo sdegno in me s’accresce,
il soccorso s’invola,
la speranza vien meno,
il timor mi travaglia,
il tradimento ha l’armi,
il valor lo respinge,
la vendetta l’uccide,
la vittoria m’innalza e mi corona !…
Queste son le mie palme,
ed è questa l’insegna !
Or sonate le trombe,
percotete i tamburi,
date il segno a Teseo….
A la guerra, a la guerra !… A l’armi, a l’armi !!

Pazza cosa non c’è che dire ; la qual, nondimeno, per quel che concerne la recitazione, fa pur sempre pensare al valore artistico di quei comici. Che le commedie d’allora fossero, in genere (scritte o improvvise), una poverissima cosa, portato naturale del tempo, bruttino anzichè no, sappiamo : che quelle commedie si reggessero e piacessero per la eccellenza dei comici, molti contemporanei, e di non sospetta autorità, lo affermano. Ma qual ne doveva essere il metodo di recitazione ? Recitavano, cantavano, ballavano, e il pubblico e le Corti andavano {p. 183}in visibilio. E i comici a modo non eran molti : v’erano al solito compagniette innumerevoli di minor conto, buffoni, cantambanchi, zanni, ciarlatani (pag. 177). E che roba !… Non morta compiutamente a’giorni nostri, ma, grazie a Dio, messa compiutamente fuori dal campo artistico. Sentitene la descrizione del Garzoni, e poi dite se non vi par di assistere alle rappresentazioni di certe Passioni di Cristo in certi paeselli di campagna in giorno di fiera, precedute dalla passeggiata de’ recitatori in costume con gran cassa e tromba, e relativi strilloni invitanti il pubblico idiota alla grande solennità.

Dai Costumi di varie Nasioni di Pietro Bertelli.

Come entrano questi dentro a una città, subito col tamburo si fa sapere che i Signori Comici tali sono arrivati, andando la Signora vestita da uomo con la spada in mano a fare la rassegna, e s’invita il popolo a una comedia, o tragedia, o pastorale in palazzo, o all’osteria del Pellegrino, ove la plebe desiosa di cose nuove, e curiosa per sua natura subito s’affretta occupare la stanza, e si passa per mezzo di gazzette dentro alla sala preparata ; e qui si trova un palco posticcio : una Scena dipinta col carbone senza un giudizio al mondo ; s’ode un concerto antecedente d’Asini, e Galauroni (garavloni) ; si sente un prologo da Cerretano, un tono goffo, come quello di fra Stoppino ; atti rincrescevoli come il mal’anno ; intermedij da mille forche ; un Magnifico (pag. 180) che non vale un bezzo ; un zanni, che pare un’oca ; un Gratiano, che caca le parole, una ruffiana insulsa e scioccherella ; {p. 184}un innamorato che stroppia le braccia a tutti quando favella ; uno spagnolo, che non sa proferire se non mi vida, e mi corazon ; un Pedante che scarta nelle parole toscane a ogni tratto ; un Burattino (pagg. 181, 183), che non sa far altro gesto, che quello del berettino, che si mette in capo ; una Signora sopra tutto orca nel dire, morta nel favellare, addormentata nel gestire, ch’ha perpetua inimicizia con le grazie, e tiene con la bellezza diferenza capitale. Si che il popolo tutto parte scandalizzato, e mal soddisfatto di costoro, portando oltre di ciò nella memoria i bruttissimi ragionamenti recitati, nella seguente sera, non spenderebbe un bagattino per sentir di nuovo cotali sciocchezze, già per tutta la terra, con beffe d’ognuno divulgate e sparse. Di modo tale, che per l’abuso di costoro, anco i galantuomini vengono disprezzati, e patiscono degli affronti che non sono convenienti a’meriti loro.

Con tutto ciò, potendo le vere e proprie compagnie a modo contarsi sulla punta delle dita, s’è visto e si vedrà più volte, come il Duca di Mantova sudasse per mettere assieme un complesso d’artisti di non discutibili meriti, e come le Corti se li disputassero, o li chiedessero e cedessero a vicenda. Lo Stoppato nella sua Commedia popolare italiana propende a credere si trattasse nella recitazione di quei comici, di accenti e gesti di convenzione ; e questa opinione seguì il Bevilacqua nel suo elaborato studio su G. B. Andreini. Ma, a dir vero, questo monologo di Arianna mi mette un gran dubbio nel cervello. Questo incalzarsi di più che sessanta frasi, compiute in un sol settenario, sarebbero oggi uno scoglio inevitabile, e oserei dire, insormontabile, per l’artista di qualunque merito si fosse. Ogni frase sta da sè ! Le respirazioni sono frequenti e rapide ! Ogni frase ha un’idea diversa da quella che precede e che segue ! Come avrà recitato l’Antonazzoni ? E se si fosse trattato di semplice convenzionalismo, di una dizione, direm così, meccanica, come poteva il pubblico dividersi così accanitamente in due partiti, di fronte a due prime attrici sulla stessa Piazza, come s’è visto a Bologna per la Beatrice e la Eularia, a Torino per l’Andreini e la Cecchini, come si vedrà a Mantova per la Vincenza e la Flaminia ? (V. Armani).

Antoniis (De) Rospizio. Attore di quella Compagnia che nel giugno del 1747 proponeva Domenico Giannelli (V. D’Afflisio Elisabetta) al Re di Napoli. Sosteneva le parti di Pantalone.

{p. 185}

Anton Maria, veneziano, era capocomico in Francia (a Blois) al servizio di S. M. Carlo IX nel 1572 e nel 1578.

A Anthoine Marie, commedien italien, la somme de six cent vingt-cinq livres en testons à xii sols par livre dont le dit seigneur a faict don tant à luy que à neuf autres ses compaignons aussi commediens à repartir, entre eulx esgallement en considération de ce qu’ils ont joué plusieurs commedies devant Sa Majesté et jouent encore ordinairement, et pour leu r donner moyen de continuer et s’entretenir donnant plaisir au dit seigneur…. Le 27 de mars 1572.

Colla data del 25 marzo, abbiamo una stessa nota concernente la Compagnia di un Soldino di Firenze. Dal che appare evidente che le due Compagnie alternavano le loro rappresentazioni…. nè di prosa soltanto, ma anche di giuochi acrobatici, o di piccoli balli (en considération des commedies et saults qu’ils font journellement devant Sa Majesté. V.Soldino), e, all’occorrenza, si fondevano assieme, come argomenta il Baschet da un ordine di pagamento dato contemporaneamente ai due capocomici : « A Soldini florentin et Anthoine Marie venitien, commediens du païs d’Italie, la somme de deux cent cinquante livres tournois en testons à XII sols par livre dont le dict seigneur a faict don tant à euls que seize autres personnes de leur bande aussy commediens, etc., etc….. le unziesme jour d’avril mil cinqsoixante douze. »

Soldino e Anton Maria avevano la loro residenza a Parigi, e furono chiamati a Blois per piacere del Re. Il Baschet determina il numero delle persone componenti le due compagnie dal numero delle persone sovvenute in essi documenti. Ma, mentre prima si dice di Soldino tant a luy que à unze ses compaignons, e di Anton Maria tant a luy que à neuf autres ses compaignons ; dopo, uniti in uno solo gli ordini di pagamento, abbiamo che i comici sovvenuti non furon più venti, ma sedici. Forse questa seconda volta si sovvennero, in ragione di chi prese parte alle commedie ? Le due Compagnie partirono da Blois per far ritorno a Parigi, quando Enrico il bearnese, figlio della Albret, si promise sposo a Margherita, la figlia di Caterina De Medici. Fra le grandi feste, la rappresentazione {p. 186}di comici italiani non poteva nè doveva mancare ; ma, morta Giovanna d’Albret, la madre dello sposo, si dovette rimandar la cerimonia. Le nozze non ebber luogo che in agosto, nel qual tempo pare non fosser più gli stessi comici, poichè gli ordini di pagamento per le rappresentazioni di quell’epoca, furono intestati al capocomico Alberto Ganassa. Secondo Baschet, Maria sarebbe il casato del nostro sconosciuto artista ; ma io lo ritengo un sol nome di battesimo  – Anton Maria – secondo la consuetudine d’allora di non ricorrer quasi mai al casato : messer Aniello, messer Ieronimo, Pier Maria soleva dirsi, e non Soldano, o Garavini, o Cecchini. Questo a giustificazione dell’aver messo qui e non alla lettera M le notizie di questo comico.

Anzampamber Luigi, o Anzempamber, o Azampamber, o anche semplicemente Zampamber. Artista drammatico e capocomico, rimasto omai celebre tra’ comici, e accettato omai da tutti come il prototipo del Guitto. Giuseppe Costetti, preludendo ai cenni biografici del Pezzana (V.), ne’suoi Dimenticati vivi della scena italiana, affibbia all’ Azampamber il nomadismo miserrimo ; e, a voler descrivere ne’ Bozzetti di Teatro un povero diavolo di capocomico, lo chiama : « lontano discendente del gran Patriarca Azampamber.

Ma…. chi era questo Azampamber ? – ricomincia lo stesso Costetti nella Leggenda del palcoscenico.

Vattel’a pesca. Pare accertato fosse capocomico e schiavone. I figli dei figli dei figli di coloro che lo videro affermano che Azampamber portava costantemente una pelliccia, due stivaloni alla Souvaroff e un cappello alla Bolivar ; e ch’egli non si separava mai, a nessun patto, da questi tre elementi che costituivano il suo abbigliamento con una esclusività così assorbente da scapitarne persino la camicia. Questa costanza mirabile nella pelliccia, emblema della ricchezza ; negli stivaloni, emblema della cavalleria, e nel cappello, emblema dell’elevatezza dell’animo, gli permetteva di rappresentare con una certa maestà, e senza brighe di travestimenti, Edipo, Abelardo, Orosmane, Misantropia e Pentimento, Il Burbero benefico ;….

E più avanti :

L’ultima volta che lo videro fu sullo stradale da Castel S. Giovanni a Stradella. Nel primo di questi paesi aveva recitato la sera il Medico olandese, e dovea recarsi al {p. 187}secondo per andare in iscena coll’Agamennone…… Da quella notte, più nessuna traccia di lui.

E più avanti ancora :

In che tempi fiorisse Azampamber è tuttora un mistero. Forse ci è sempre stato, e forse si aggira anche adesso nei botteghini dei teatri a controllare gli incassi, o freme sulle rupi di carta rimesse in onore dai moderni drammi.

E conclude :

L’artista drammatico non lascia traccia di sè ; ma il capocomico vive nella gratitudine dei futuri. Medebac divinizzò la cassetta ; Azampamber fondò il regno dei guitti.

La parolaguittoè entrata nel gergo teatrale col significato suo proprio, ma non è stata creata in teatro. Essa è italiana, italianissima : forse voce napoletana, ma usata toscanamente. L’adoperò il Varchi nel libro X della Storia, e l’adoperò il Lippi nelMalmantile riacquistatoalle stanze 9 del terzo cantare e 54 del cantare undecimo. Risalendo a Guittone d’Arezzo, troviamo un suo sonetto indirizzato a Messere Onesto Guinizzelli da Bologna, nel quale scherza sul nome d’entrambi :

vostro nome, messere, è caro, onrato,
lo meo assai ontoso, e vil pensando,
ma al vostro non vorrei aver cangiato.

Eguittovorrebbe significaretrascurato, sporco, sudicio, sordido, cialtrone. Quando un comico vuol dire che il tale s’è recato in compagnia, ove tutto si trova, tranne la dignità, il rispetto dell’arte, tra’guitti, insomma, usa dire : è ito inGuittelemme. E questa è parola del gergo.

Ma torniamo all’Azampamber.

In un giorno di mercato, a Lugano, si annunziava in cartelloni scritti a mano una serata di prestidigitazione data niente meno che dal professore Azampamber. Leggere questo nome, e riafferrare tutte la sparse e isvariate buffonerie che aveva udite sul famoso guitto, fu un baleno. Ma non potevo arrestarmi alla rievocazione del tipo immaginario ; mi bisognava assolutamente conoscere il professore, che, almeno da quel cartellone, m’aveva tutta l’aria di essere un natural discendente del gran Re. E lo trovo…. Altro che discendente !… Un giovinotto {p. 188}simpatico, spigliato, garbato, rattoppato, sganasciato, fiorentino puro sangue, andò infatti nella serata a percorrere i vari caffè, guitteggiando, facendo degli stupidi giuochi, e andando in giro accattando qualche centesimo…. e il giovinotto, s’intende, era bello, fresco, sano, robusto. Lo abbordai…. « Siete toscano, eh ?… – Fiorentino. – Famiglia di comici ? – Sissignore !… Mio nonno era il famoso Azampamber, Io Stenterello. – Stenterello ?… – Sissignore. – Dite…. dite…. – Non posso dir nulla, perchè non l’ho conosciuto…. – E il babbo ? – È morto. – E la mamma ? – Omnes composui. »

Mio nonno era il famoso Azampamber, lo stenterello. Famoso guitto ? O famoso stenterello ? O famoso…. l’uno e l’altro ? O vi sono stati due Azampamber di varia fama ? O l’Azampamber guitto è una creazione della fantasia dei comici ? Chi sa !… Fanno tanto presto a stabilire una fama…. bella o sinistra !… « Con chi era il nuovo scritturato ?… – Con Azampamber !… – Con uno stenterello ? » E più tardi : « Non sono mica stato tra’guitti, come te, io !… » e più tardi : « dove l’avete pescato quel nuovo attore ?… – Era con Anzampamber !… Guittelemme !… » E Anzampamber qua, e Anzampamber là…. la fama del guitto è assodata, fama repartita in arte con un altro tipo, del quale parleremo a suo tempo : il Vaudagna. Non iscrivo ciò davvero per riabilitare Anzampamber ; ma è certo che mi pare strano che a lungo o di sfuggita, per quante ricerche io abbia fatte, non si trovi nulla su pe’giornali riguardante il tipo con tanta garbata comicità descritto dal Costetti. Ma ho trovato invece l’Anzampamber del mio giovinotto professore : sicuro ! Luigi Anzampamber era lo Stenterello nel 1832 della Compagnia drammatica di Filippo Perini, della quale era prima attore il noto Cesare Pilla (V.), prima donna seria una Ester Franchini e prima attrice brillante Marietta Perini, attempatotta, moglie del capocomico. Eravi come padre Giuseppe Raimondi, e come tiranno Bandino Ferroni…. Appartenevano alla Compagnia come attori secondarii i coniugi Leigheb, genitori di Claudio. Della Compagnia del Perini e del suo repertorio parleremo a suo tempo ; intanto {p. 189}accenneremo di volo come dall’amalgama di drammi, commedie, pantomime, balli, onde si componevano le rappresentazioni, traspaia un non so che di guittume da non menomar punto la fama del leggendario Anzampamber. Oltre ai vari manifesti, che provano la parte che egli aveva in quella Compagnia, tra’ quali, non ultimo, quello per la beneficiata della Perini, in cui è detto che « lungi dal proporre un trattenimento insulso e senza alcun profitto morale, l’attrice ha preparato una giocosa commedia di autore classico, in cui senza alcuna mostruosità vi è annessa la maschera di Stenterello…. », abbiamo il programma della beneficiata di esso Anzampamber e di Antonio Garofoli (le beneficiate in quella Compagnia s’usava farle a due per volta). L’invito al pubblico, s’intende, è in versi martelliani, e di che tinta,… qua e là modificati poi sett’anni più tardi nell’invito al pubblico per la beneficiata del Cannelli. È il solito dialogo tra pubblico e Stenterello, in cui questo chiede a quello la somma per soddisfare agli assunti impegni. Il pubblico domanda quali sieno i creditori, e Stenterello giù a farne la filastrocca.

Io devo nove scudi a un certo Ravioli,
perchè mi fece credito sei sacchi di fagioli,
e più diciotto scudi a un certo Rangortoni
per salame, presciutto, salacche e peperoni.
E al macellaro pure che ben le sarò grato (?)
devo quindici scudi per pecora e castrato.
E più fatto di debito con il fornar Masaccio
ventitrè scudi in punto per pan tutto di staccio.
……………

e giù di questo passo fino al compimento della somma, concludendo :

con altri scudi dodici che fan la somma in punto,
ho da pagar l’alloggio dal giorno che son giunto.

E la somma era di cento cinquanta scudi : il Cannelli, più modesto, ne chiedeva ottanta.

{p. 190}

Ma ecco senz’altro il programma :

primo trattenimento

Grandioso spettacolo, non mai più esposto su queste scene, decorrato (sic) di numerosa Truppa, Banda militare, combattimento a fuoco vivo ed arma bianca con apposito scenario, Vestiario analogo, Marcia figurata, Assalti di fortezza, e per ultimo fuoco generale di gioja per la riportata vittoria : questo porta per titolo

LA GRAN SPEDIZIONE DEI FRANCESI IN AFFRICA

ovvero

La conquista di Algeri nell’ultima battaglia

data nel giorno 5 luglio 1830

sotto il comando del Luogo Tenente Generale Comandante in capo la spedizione.

distribuzione dello spettacolo

Atto primo – I Francesi a Torre Chicca.

Atto secondo – Husseim d’Algeri – Alle fortificazioni esterne di Algeri.

Atto terso – I Francesi all’assalto del forte l’Imperatore, gran combattimento ed assalto.

Atto quarto – L’armata francese sotto le mura d’Algeri. Gran combattimento.

Atto quinto – Il Trionfale ingresso dei Francesi, con il fuoco di gioja.

secondo trattenimento

Una grasiosa commedia nuovissima tutta da ridere, di fatica dello Stenterello, intitolata

IL COVO DEGLI AMANTI

ovvero Stenterello disperato per i pasticci di sua moglie.

(Verrà nello spettacolo sostenuta una parte ridicola di referendario dalla maschera dello Stenterello).

Il programma, come si vede, vale tutti gli Anzampamber ideali e reali. La beneficiata ebbe luogo la sera di giovedì 6 dicembre 1832 al Teatro Nota di Lucca. Si fece porta alle sei e mezzo e si cominciò alle sette e mezzo.

Apelli Francesco o Angiolo. Apparteneva alla Compagnia comica de’ Fiorentini di Napoli al servizio di S. M. Ferdinando I Re del Regno delle due Sicilie, sotto la direzione di {p. 191}Salvatore Fabbrichesi. Nell’elenco dato dal giornale di Venezia, inserito nel Teatro moderno (anno 1800) figura un Apelli Angiolo : ma io ritengo trattarsi della stessa persona. Infatti nell’uno è il solo Francesco, nell’altro il solo Angiolo, e i due elenchi concordano nei nomi di altri attori. La Compagnia era della Maddalena Battaglia e n’era primo attore e direttore Salvatore Fabbrichesi. Di questo Apelli dice il giornale : colle disposizioni ch’egli dimostra, non potrà che riuscire un ottimo attore per perfezionarsi collo studio.

Appio-Metello Gaetano. Artista romano, fiorito sul finire del passato secolo, il quale recitando ne’Baccanali di G. Pindemonte, in Compagnia Goldoni, la parte di Appio-Metello, ne ebbe tal plauso, che d’allora in poi fu assai più noto col nome del suo personaggio, che con quello vero di casa, non giunto sino a noi. Fu caratterista buffo della Compagnia di Giacomo Modena nel 1819 ; nel 1825 di quella condotta da Mario Internari ; e nel 1826 di quella Pisenti e Solmi. Un giornale del tempo rimproverava al Metello, come caratterista, una cotal freddezza che lo faceva monotono e punto comico. Morì a oltre sessant’anni, verso il 1830.

Aratta Nicolò.Generico l’anno comico 1795-96 insieme alla moglie Brigida, servetta di qualche pregio, nella Compagnia della signora Marta Coleoni.

Arbes (D’) Cesare, il più gran Pantalone del suo tempo, nacque circa il 1710 a Venezia. Innamoratosi dell’arte comica, abbandonò quella dello specchiaro, nella quale (V. Fr. Bartoli) sapeva assai bene travagliare, e fuggì dalla casa paterna.

Ecco come Carlo Goldoni ci descrive il primo colloquio avuto col D’Arbes a Pisa ; colloquio che ci dà un’idea ben chiara di questo bel tipo di comico.

Vedo un uomo dell’altezza di quasi sei piedi, grasso e grosso proporzionatamente, che traversa la sala con canna d’India alla mano e cappello tondo all’inglese. Entra nel {p. 192}mio studio a passi contati, ed io mi alzo : costui fa un gesto propriamente pittoresco per dirmi che non m’incomodassi ; s’avanza, e lo fo sedere : ecco il nostro colloquio.

D’A. Signore, io non ho l’onore di esser conosciuto da voi ; voi però dovete conoscere in Venezia mio padre e mio zio ; in una parola, sono il vostro servo umilissimo D’Arbes.

G. Come ! Il signor D’Arbes ? Il figlio del direttore della Posta del Friuli, quel figlio che si credeva perduto, di cui s’erano fatte tante ricerche, e che si era così amaramente pianto ?

D’A. Sì, signore : quel figliuol prodigo appunto, che non si è ancora prostrato alle ginocchia di suo padre.

G. Perchè adunque differite voi a dargli questa consolazione ?

D’A. La mia famiglia, i miei parenti, la mia patria non mi rivedranno, che gloriosamente cinto d’alloro.

G. Qual è dunque il vostro stato, o signore ?

A questa domanda si alza il D’Arbes dalla sedia, batte la mano sulla sua pancia, e in tuono di voce misto di fierezza e buffoneria :

D’A. Signore, fo il comico.

G. Tutte le doti sono stimabili, purchè chi le possiede sappia farle valere.

D’A. Io sono il Pantalone della Compagnia, che attualmente trovasi in Livorno ; nè posso chiamarmi l’infimo tra i miei camerati, e il pubblico non isdegna di concorrere in folla alle rappresenrazioni, alle quali io prendo parte. Il Medebac, nostro direttore, ha fatto cento leghe per dissotterrarmi ; non fo disonore ai parenti, al paese, alla professione, e senza vantarmi, o signore (dandosi in questo mentre un altro colpo sulla pancia) se è morto il Garelli è subentrato il D’Arbes.

Nell’atto appunto, che son per fargli i miei complimenti di congratulasione, egli si mette in una tal positura comica che mi fa ridere e m’impedisce d’andare avanti.

D’A. Non crediate, o signore, che per vanagloria io vi abbia esagerato i vantaggi di cui godo nella mia professione : ma son comico, mi fo conoscere ad un autore, ed ho bisogno di lui.

G. Voi avete bisogno di me ?

D’A. Sì, signore ; anzi vengo al solo oggetto di chiedervi una commedia ; ho promesso a’miei compagni una commedia del signor Goldoni, e voglio mantenere a loro la parola.

G. (sorridendo). Voi dunque volete una mia produzione ?

D’A. Si ; vi conosco per fama ; so che siete garbato quanto abile, non mi darete una negativa.

G. Ho molte occupazioni, non posso farlo.

D’A. Rispetto le vostre occupazioni ; farete questa composizione quando vorrete, a tutto vostro comodo.

Il Goldoni si schermì ancora, ma dovè poi cedere alle più che gentili insistenze del D’Arbes (gli aveva messo, come acconto, nella scatola da tabacco alcuni ducati d’oro) ; e chiestogli per lettera se la commedia doveva essere col Pantalone in maschera o a viso scoperto, ebbe questa risposta, che delinea ancor più la comicità e, diciam pure, furberia di quel bel tipo {p. 193}che ci pare di vedere e di sentir discorrere, e che chiameremmo a base di birignao. Ecco il brano della lettera riportato dal Goldoni :

Avrò dunque una commedia del Goldoni ? Questa, sì, questa sarà la lancia e lo scudo, di cui armato andrò a sfidare i teatri tutti del mondo. Quanto sono adesso felice ! Ho scommesso cento ducati col Direttore che avrei avuto un’opera del Goldoni ; se vinco la scommessa il Direttore paga, e la rappresentazione resta a me. Benchè ancora giovine, benchè non abbastanza noto, andrò a sfidare i Pantaloni di Venezia, il Rubini a S. Luca, e il Currini a S. Samuele. Attaccherò il Ferramonti a Bologna, il Pasini a Milano, il Bellotti, detto Tiziani, in Toscana, il Golinetti nella sua solitudine, il Garelli nella tomba.

Il Goldoni, dietro invito di lui, scrisse il Tonin bella grazia, sul modello di un’antica commedia dell’arte, intitolata Pantalone paroncino, per la quale poi, il D’Arbes aveva richiesto il Goldoni d’un sonetto di chiusa. La lettera con cui fu inviato il sonetto, ed il sonetto medesimo, li trascrivo da Francesco Bartoli.

A Monsieur
Monsieur Cesare D’Arbes, nella Compagnia
de’ Comici Livorno.
Monsieur,

Ecco il Sonetto del Paronzino. L’ ho servito subito, perchè so che gli preme. Ho cominciato quello del Giocatore, ma non ho avuto tempo di terminarlo. Può darsi che domani lo termini e lo spedisca. Lo prego de’ miei affettuosissimi saluti al nostro carissimo signor Girolamo, a cui ora non iscrivo per non moltiplicar lettere superfluamente ; siccome la prego de’ miei complimenti alla Signora Sua, ed a tutta la gentilissima famiglia. Mi scordai costì prendere due boccette di acqua della Regina, che mi erano state ordinate ; onde la prego istantemente favorirmi di provedermele, e spedirmele subito per il procaccino, o per altra congiuntura più comoda, ed avvisarmi del prezzo per rimetterglielo subito, raccomandandogli che l’acqua della Regina sia perfetta. La nuova Commedia non è ancora sbarazzata dalle Meteore, che la circondano, ma quanto prima, superata la convalescenza, uscirà dalle catacombe. Mi conservi la sua stimatissima grazia, ed in fretta mi confermo,

Tutto suo

Carlo Goldoni.

NEL PARONZIN

sonetto

Finalmente anca mi son arrivà
a aver al fianco un tocco de muggier ;
contento son, e spero de goder
tutte le più compie felicità.
{p. 194}Ma sento alcuni, che disendo va :
quanto, quanto s’inganna el to pensier ;
quello del matrimonio l’è un piaser
che prestissimo passa, e se ne va.
Xè giusto la muggier come la rogna :
el gusto del gratar piase all’eccesso ;
ma po’ resta el brusor e la vergogna.
Diga ognun quel che vol, mi son l’istesso ;
colle donne, lo so, soffrir bisogna,
e qualcossa donar bisogna al sesso.

Il Tonin bella grazia che piacque tanto al D’Arbes, e più ancora ai comici, ebbe alla sua prima rappresentazione a Venezia, per conseguenza, oserei dir naturale, un clamoroso successo…. di fischi, tanto che il povero Goldoni fu obbligato a ritirarlo.

Allora per compensare l’artista del fiasco, fu messo in iscena l’Uomo prudente, che ebbe un ottimo successo e pel quale fu il D’Arbes proclamato l’attore più perfetto - dice Goldoni – che fosse allora sul teatro. Ma ci voleva, a meglio stabilire la sua riputazione, anche una parte che gli desse agio di mostrarsi a viso scoperto.

Nel D’Arbes – continua Goldoni – conobbi due pregi opposti ed abituali nella macchina, nella figura e nell’azione. Ora era l’uomo più allegro e più vivace del mondo, ora prendeva l’aria, i tratti e i discorsi d’un inetto, di un balordo ; queste variazioni poi succedevano in lui senza pensarvi, e con la maggior naturalezza. Una scoperta di tal sorte mi risvegliò l’idea di farlo comparire sotto questi differenti aspetti in una rappresentazione medesima.

E furono scritti I due gemelli veneziani, che piacquero immensamente, contribuendo infinitamente al loro buon successo « la maniera incomparabilmente sostenuta dal Pantalone, che si vide al colmo della gloria e del contento. »

Nel carnevale del 1749 il D’Arbes, richiesto alla Repubblica di Venezia dal ministro sassone per passare al servizio del re di Polonia, lasciò immediatamente la Compagnia di Medebac, per non occuparsi che della sua andata a Dresda.

E questa partenza mise più d’ogni altra cosa in impicci il povero Goldoni, giacchè partito il D’Arbes, e non sapendo {p. 195}ove battere il naso per sostituirlo, nel giovedì grasso furono disdetti tutti i palchi per l’anno seguente. Fu allora che Goldoni ricorse allo spediente della famosa promessa delle sedici commedie nuove. Mantener la quale lo inquietava assai meno della difficoltà di trovare un attore abile e piacevole quanto il perduto Pantalone. (Fu poi sostituito da Antonio Mattiuzzi vicentino, del quale discorreremo a suo tempo).

Ebbe il D’Arbes in quella Corte straniera onori non comuni, e fra gli altri la soprintendenza nell’uso de’ giuochi d’invito e d’azzardo, onde – scrive Fr. Bartoli – potè farvi {p. 196}qualche fortuna, e ritornò in Italia ben provvisto e fornito d’abiti e di denaro.

Per quanto concerne la dimora del D’Arbes a Dresda, abbiamo dal Barone ö Byrn (op. Cit.) come, rappresentato per la prima volta all’Accademia Reale di musica a Parigi il 5 dicembre 1749, il Zoroastro di Rameau con parole del nobile signor di Cahusac, sotto la direzione scenica del veneziano Pietro Algeri, Giacomo Casanova che viveva allora a Parigi, e che oltre quella del Faraone, aveva anche di sfuggita, la occupazione di scrittore, fosse dal grande successo dell’opera invogliato a tradurla in versi italiani e ridurla per le scene di Dresda. Compiuto il lavoro fu accettato, e rappresentato il 7 febbraio 1752, probabilmente nel grande teatro dell’opera, sotto la direzione anche’ sta volta di Pietro Algeri, venuto a bella posta da Parigi, e con musica nuova del suonatore di viola da braccio, e compositore della musica pe’ balli, Johann Adam. – Della musica di Rameau furon serbati la sinfonia e il primo coro.

Ecco l’elenco de’ personaggi e degli artisti :


Zoroastro, Institutore dei Maghi Bernardo Vulcani.
Amelia, Erede pretendente del trono di Battro Marta Bastona Focher.
Abramano, Primo sacerdote degli Idoli Giovacchino Limperger.
Erinice, Principessa di Battro Giovanna Casanova.
Zopiro, Uno delli sacerdoti degl’Idoli CESARE D’ARBES.
Zelisa, Giovane Battriana Isabella Vulcani.
Cefia, Giovane Battriana Paola Falchi Noè.
Abenide, Giovine selvaggio indiano Gio. Batta Toscani.
La Salamandra Paola Falchi Noè
Un Silfo Gio. Batta Toscani.
La Vendetta Pietro Moretti.
Una Voce che sorte dalla Nuvola in fiamma Focher.
Altra voce sotterranea.

Battriani e Battriane, Selvaggi Indiani, Maghi,

Sacerdoti, Demoni, ecc. ecc.

Fra le comparse del ballo era anche la signora Casanova ; « forse, aggiunge il Byrn, Maria Maddalena Augusta, la {p. 197}ventenne figlia della commediante, che era ancora in casa di sua madre nel 1745. »

Cesare D’Arbes, lasciata poi la Corte di Dresda, e tornato in Italia, si scritturò con Antonio Sacco, il celebre Truffaldino, col quale stette fino al 1769. Da quella del Sacco passò nella Compagnia Lapy al Teatro S. Angelo, poi in quella di giro di Vincenzo Bugani, dalla quale entrò in quella della Maddalena Battaglia, nel 1776, allorchè le fu concesso il Teatro di S. Giovan Grisostomo. Ammalatosi gravemente, stette alcuni mesi in cura a Bologna ; ma tornato, appena convalescente, a Venezia, all’intento di riprender l’arte, vi morì nel’78 (24 febb.).

Fr. Bartoli dice che egli «  sapeva giocar di scherma, ed insegnavala a chi voleva da lui impararla. » E dopo di aver citate le parole del Piazza (Il Teatro, tomo II) : « Il Pantalone era tanto stimabile per la sua abilità, che per la bontà del suo carattere. Buon marito, ottimo padre, sincero amico, non aveva altro difetto, se pur difetto può dirsi, che quello di un cuor troppo grande, e superiore alle forze sue…. », aggiunge : dopo lui non è rimasto all’arte comica un Pantalone, per cui da altri possa nutrirsi la speranza di vederlo in questi tempi uguagliato giammai.

Arbes (D’) Antonia. Figlia del precedente. S’era data all’arte del canto, nella quale fece buone prove, specialmente per le opere buffe. Sposatasi con Tommaso Grandi, comico notissimo sotto il nome di Pettinaro, divenne comica anch’essa di qualche pregio, valendosi di quando in quando, e con molto profitto, dell’arte musicale…., giacchè, suonatrice egregia di pianoforte, sapeva mescolare nelle commedie or qualche pezzo di musica, or qualche arietta che la faceva meglio accetta al pubblico. Recatasi a Napoli col marito, vi fu colmata d’applausi ; ma la morte in un parto infelice le recise il fior degli anni sul principio dell’estate del 1779.

Arbes (D’) Maria. Altra figlia del D’Arbes, da lui istruita nell’arte comica, la quale doventò una buona servetta. Si sposò {p. 198}con un giovane parmigiano, non figlio d’arte, e nel 1782 era (V. Fr. Bartoli) con lui a Palermo, ammirata e applaudita.

Arcelli Ferdinando. Nacque l’anno 1817 dai Conti Arcelli di Piacenza. Per rovesci di fortuna si diede all’arte comica, e riuscì discreto attore nelle parti di amoroso in compagnie primarie. Ma una sana educazione e una perfetta correttezza di modi non bastarono a farlo proseguire nella via intrapresa. Venutagli a mancar la voce, dovè abbandonar l’arte come attore, ma dedicandovisi con tutte le sue forze come capocomico, in società prima col Giardini, poi col Pezzana, poi col Marchi ; poi solo colla figlia Emilia prima attrice. Furono suoi primi attori Carlo Romagnoli, Alessandro Salvini, Giovanni Emanuel. Non troppo fortunato nell’impresa, visto che omai non avrebbe più potuto far fronte a’suoi impegni, nel 1870 si mutò di capocomico in segretario della Compagnia di Bellotti-Bon. Divisa in tre la Compagnia, l’Arcelli passò nel 1873 in quella diretta da Cesare Rossi, con cui stette fino al 2 novembre 1890, nel qual giorno morì d’aneurisma mentre giuocava al bigliardo col brillante Masi al caffè del Teatro Alfieri di Torino. L’Arcelli, ottimo uomo, di rara integrità, fu pianto da’ suoi compagni, ed ebbe onori funebri degni di lui : l’attore Pilotto disse su la sua fossa commoventi parole.

Oltre all’Emilia ebbe un figliuolo, Emilio, attore secondario.

Arcelli Emilia, figlia del precedente, allieva di Gustavo Modena, col quale fece le sue prime armi come seconda amorosa e dal quale se ne andò per assumere il ruolo di prima donna giovane con Domeniconi, a fianco della Fumagalli, dell’Aliprandi, della Cazzola, del Morelli. Nel 1862 passò prima attrice assoluta nella Compagnia del padre, al fianco, ora del Romagnoli, ora del Salvinetto, ora dell’Emanuel. Nel 1865 sposò il brillante Antonio Colombari, caratterista fino a ieri della Compagnia Cesare Rossi.

{p. 199}

Areliari — ( ??) e Areliari Teodora, coniugi e figlia, appartenevano il 1675 alla Compagnia del Serenissimo signor Duca di Modena. La moglie, bolognese, rappresentava il carattere di Vittoria…. che era probabilmente quello della servetta ; nome assunto, pare, la prima volta per questo ruolo, dall’Antonella Bajardi, una delle serve de’Gelosi, come la Franceschina, l’Ortensia, l’Olivetta, la Nespola. Il marito, trentino, del quale non è messo il nome di battesimo, rappresentava il carattere di Lucca, servo anch’esso probabilmente, e noto fra i tipi del nostro teatro, come amante o marito di Franceschina nella prima delle Farces Tabariniques, nella quale appare egli goloso, libertino, sciupone. Franceschina per salvarlo dalle guardie che lo perseguitano, lo nasconde in un sacco ; nascosto poi in altro sacco Frittellino che era venuto a portarle un pollo in nome del Capitan Rodomonte suo padrone, e insidiatore dell’onore di lei, dice il seguente monologo :

Ecco giuocato il tiro. Io mi voglio vendicar di costoro. Dell’uno (Lucca) perchè è cagione della mia ruina, e ha dilapidato ogni mio avere ; dell’altro perchè m’insidia, importuno, l’onore. Gettarli tutt’e due nel fiume sarebbe davvero crudeltà troppo inumana ; è meglio lasciarli a quel modo per alcun tempo, aspettando gli eventi.

Qui capita Tabarrino occupato nei preparativi per le nozze sue con Isabella ; e, richiesta Franceschina del cammino che conduce alla macelleria, gli offre in vendita i due porci che son ne’ sacchi. Tabarrino, compratili, vien poi vestito da macellajo, colla coltella per isgozzarli…. Aperto il sacco, ov’è rinchiuso Lucca, indietreggia spaventato, gridando :

Oi mè ! Quali miracolè prodigio grande qui paroissè !
E Lucca : Au meurtre ! on me veut esgorger ! Ie suis Lucas, et non pas un pourceau !…

Uscito poi dal sacco Frittellino, Isabella e Pifagna suo padre se ne spaventano…. Il banchetto nuziale va all’aria, e finisce la farsa con una bastonatura generale. Questa farsa fu conservata nella Commedia dell’arte col titolo Li due porci che {p. 200}trovo tra gli scenari della corsiniana di Roma. (V. Scala). – Gli altri componenti la Compagnia del Duca di Modena erano :


Pei ruoli di Flaminia Marta Fiala, modenese.
» Capitano Spagnuolo Giuseppe Fiala, napoletano (suo marito).
» Gradelino Costantino Costantini, veronese.
» Corallina Domenica Costantini, veronese (sua moglie).
» Pantalone Antonio Riccoboni, veneziano.
» Dottore Giuseppe Orlandi, ferrarese.
» Finocchio Gio. Andrea Cimadori, ferrarese.
» Orazio Bernardo Narisi, genovese.
» Florindo Domenico Pannini, napoletano

(Cfr. Alessandro Gandini, Cronistoria de’ Teatri di Modena. Ivi, 1873).

Argante Antonio (V. Franceschini).

Argentina (V. Zanerini-Bianchi Antonia).

Arienzo Gennaro. Attore della Compagnia di Domenico Antonio di Fiore (V.), gran Pulcinella del settecento. Recitava la Compagnia a Napoli, in un baraccone chiamato S. Carlino, nel largo del Castello.

Lo troviamo nel 1770, nella Compagnia che, sotto la direzione di Onofrio Mazza, impresario il Tomeo, inaugurò il famaso e glorioso S. Carlino. Fu tra gli attori che firmarono una supplica, perchè fosser limitate le ragioni che i Religiosi in tempo di carnevale non potevano andare al S. Carlino, «  attenta l’oscenità del medesimo ; » e dicendo che «  quattro stregoni e saltimbanchi non possono costituire un diritto proibitivo. »

Arisi Francesco. Figlio di un corriere della città di Modena. Appassionato per l’arte comica, cominciò a recitare con plauso in Compagnie di poco valore, sostenendo la parte di primo innamorato, finchè la sorte non lo condusse in quella ben {p. 201}nota di Francesco Paganini, ove potè far apprezzare maggiormente le sue ottime qualità artistiche. L’Arisi fu valentissimo non solo nelle commedie scritte, ma in quelle anche improvvise.

Ecco il sonetto che un virtuoso (sic) gl’indirizzò a Bologna, il carnevale del 1778, riportato ad onor suo dal citato Bartoli.

Rammenti il Tebro i Rosci suoi, rammenti
la Senna i suoi Baron, nè l’Anglo austero
taccia de’ suoi Garrik, genj e portenti,
ch’ebber su i cori e su le scene impero.
Felsina, al Tebro, e a Senna non consenti,
ed al Tamigi sprezzatore altero
non invidj il piacer degli eccellenti
attor, che tanto insuperbir li fero.
Su le tue scene Arrisi oggi rinnova
i prodigi che un di l’attica scena
vide ; e i cor penetrando agita, e scuote.
Vedi al suo orror impallidire a prova
il ben (bel ?) femmineo sesso, e a la sua pena
turbar la fronte, e inumidir le gote.

Sposò l’Anagilda Fortunati, figlia dell’Arlecchino più conosciuto col soprannome di Toto, la quale, a detta del Bartoli, diventò coll’assistenza del marito una commediante di buon nome. La troviamo insieme con lui, terza nell’elenco della Compagnia Paganini, poi prima donna a soggetto in quella di Giuseppe Pellandi nel 1797-98, poi madre nobile in quella di Morrocchesi nel 1802, nella quale il marito era caratterista.

Arlichino. « N. N. – scrive il Quadrio (Della Storia e della Ragione di ogni poesia, vol. III, pag. 237) – detto in commedia Arlichino, servì colla sua Compagnia Filippo II Re delle Spagne, ne’ principii del Suo Regno : e fu sì valente nell’arte sua, che moltissima fama si acquistò nella Spagna. »

Chi fosse questo Arlichino, a cui succedè nel servigio del predetto Monarca – continua il Quadrio – Ganassa, non ho potuto sapere.

{p. 202}

Il Ganassa pare fosse a Parigi sino alla morte di Carlo IX, 1574, anno in cui si recò in Ispagna con la compagnia, della quale era parte anche la maschera dell’Arlecchino, sebbene il Sand si contraddica, affermando che l’Arlecchino apparì in Francia la prima volta sotto Enrico III (I, 73) ; e raccontando poi come in un ballo di Corte sotto Carlo IX nel 1572, tutti i cortigiani vestissero il costume di una maschera italiana, e quello d’arlecchino fosse indossato dal Duca d’Anjou (Enrico III) (I, 43). Stando a ciò, cade di pianta la probabilità che il nome di Arlecchino venga dall’essere stato uno zanni protetto da Achille di Harlay, primo presidente al Parlamento sotto Enrico III. (V. Biancolelli).

Armani Vincenza. Probabilmente essa fu figlia dell’arte, e nacque a Venezia, ove sua madre, incinta, era a recitare : questo il parere del D’Ancona, il quale cita al proposito i vari comici D’Armano, dei quali si parla più oltre.

Le notizie della sua vita abbiam particolareggiate nell’orazione di Adriano Valerini (V.), della quale discorriamo a lungo, e nell’opera più volte citata del D’Ancona. Il Garzoni ne loda il valore artistico, e Fr. Bartoli prende tutto dal Valerini stesso ; se non che, la fa esordire a Modena, mentre il Valerini non ce ne dice nulla, ed esclude perfino Modena dalle città annoverate, nelle quali essa colse tanta messe di lodi. Dell’Armani, bellissima, s’innamorò uno de’principi Gonzaga ; e Don Antonio Ceruto, giureconsulto e poeta, in un suo passo riportato dal D’Ancona, dice :

heri il signor Federico da Gazuolo venne posta a Mantova per menar seco la comediante Vincenza a solazzo ; ma la cattivella dubitando de non vi lasciare in un punto l’acquisto di molti mesi, fatto con sudore, fingendo di hauer un certo sdegno con lui, si riparò bravamente, e lui a guisa della donna del corso, subito tornò in dietro, bravando et bestemmiando, non essendogli restato altro che la lingua per potersi vendicare.

Nel 1567 a Mantova recitavan due compagnie, una colla Flaminia e l’altra colla Vincenza ; chi lodava questa, chi quella : c’era gran fermento nel pubblico, e il Rogna, citato dal {p. 203}D’Ancona, in una lettera del 6 luglio ne parla assai chiaramente, descrivendo con particolari interessantissimi l’allestimento scenico delle due compagnie.

Non hieri l’altro la Flaminia era comendata per certi lamenti che fece in una tragedia che recitorno dalla sua banda, cavata da quella novella dell’Ariosto, che tratta di quel Marganone, al figliuolo sposo del quale, la sposa, ch’era la Flaminia, sopra il corpo del primo suo sposo, poco dianzi amazzato in scena, per vendetta diede a bere il veleno dopo haverne bevuto anch’essa, onde l’uno et l’altro mori sopra quel corpo, et il padre, che perciò voleva uccidere tutte le donne, fu dalle donne lapidato et morto.

La Vincenza, all’incontro, era lodata per la musica, per la vaghezza degli habiti et per altro, benchè il soggetto della sua tragedia non fosse e non riuscisse cosi bello. Heri poi, a concorrenza e per intermedii, in quella della Vincenza si fece comparire Cupido, che liberò Clori, nimpha già convertita in albero. Si vidde Giove che con una folgore d’alto ruinò la torre d’un gigante, il quale havea imprigionati alcuni pastori ; si fece un sacrificio : Cadmo seminò i denti, vidde a nascer et a combatter quelli huomini armati : hebbe visibilmente le risposte da Febo, et poi da Pallade armata, et in fine cominciò a edificar la città. La Flaminia poi, oltre l’havere apparato benissimo quel luogo de corami dorati, et haver trovati abiti bellissimi da nimpha, et fatto venire a Mantova quelle selve, monti, prati, fiumi et fonti d’Arcadia, per intermedi della Favola introdusse Satiri, et poi certi maghi, et fece alcune moresche, a tal che hora altro non si fa nè d’altro si parla, che di costoro. Chi lauda la gratia d’una, chi estolle l’ingegno dell’altra : et cosi si passa il tempo a Mantova.

L’II luglio, così il Rogna descrive l’allestimento scenico di altra commedia.

L’Ill.mo S.r Cesare è ritornato da Guastalla per il battesimo, o che si è fatto o che si ha da fare, d’un figliolo del genero del S.r Massimiliano Gonzaga, cioè di quello da Tiene vicentino. Esso S.r Cesare Ecc.mo honorò hieri con la presenza sua la commedia della Flaminia, per essere sua vicina, con tutto che fosse invitato a quell’altra, che fu una pastorale bellissima, per quanto si dice, et si vidde Io a convertire in vacca, Giove e Giunone parlarono insieme : venne poi e spari la nebbia, Mercurio col sono adormentò Argo, et poi gli tagliò la testa, una Furia infernale fece venire in furia quella vacca, et infine fu di nuovo convertita in nimpha, et il padre ch’era un fiume, venne ancor lui, versando acqua, a fare la sua parte, et in un istante medesimo i pastori fecero le loro nozze et eccetera. Vi era l’Ill.mo S.r Massimiliano dal Borgo.

Ma gli entusiasmi per la commedia a poco a poco andarono scemando : i commedianti cominciarono già, come scrive il Ceruti, a dare in zero, e il pubblico a disertare le due stanze. La Compagnia della Vincenza, visto che ormai denari non se ne facevan più, cedette il campo e se ne andò a Ferrara. Ma il 26 aprile dell’anno successivo, troviam riunite in Mantova le due attrici rivali, come attesta Baldassare de Preti, in queste {p. 204}parole scritte al Castellano di Mantova che trovavasi a Casale, e riportate dal D’Ancona :

S. Ecc.ª ha fatto far comedia da due compagnie : l’una de Pantalone, l’altra deGanaza. Ha voluto S. E. che si unisca in una, et ha tolto li miliori : li era la Sig.ª Vicenza et la Sig.ra Flaminia, quali hanno recitato benissimo, ma tanto ben vestite che non poterìa esser più.

Il resto vedremo nel libretto, omai rarissimo, del Valerini, che prendiamo a esaminar minutamente.

ORATIONE

D’ADRIANO VALERINI VERONESE,

In morte della Divina Signora

Vincenza Armani, Comica

Eccellentissima.

et alcune rime del-

l’Istesso, e d’altri auttori, In lode

della medesima.

con alqvante leg-

giadre è belle Compositioni di detta Signora Vincenza.

In Verona, Per Bastian dalle Donne, &

Giouanni Fratelli

1570***

La data non è del libretto, ma di Fr. Bartoli. (cf.)

{p. 205}

È dietro al frontespizio un epitaffio latino del Valerini.

ADRIANI VALERINI

Hic illa eloquio insignis Vincentia, & Ore
Spectanda, & Cantu par tibi Phebe jacet.
Infelix obijt nitido sub flore juventæ
Scenarum asportans orbis, & omne discus.
Flet sine honore nigra velatus lumina vitta
et secum occideret in Deus esset Amor.

Poi la lettera di dedica « al Molto magnifico Signor, il Signor Antonio Prioli, mio Padron singolarissimo, » poi un non brutto sonetto al medesimo, nuova dedica del libricciuolo, poi finalmente l’orazione funebre, che non è altro che un cumulo di lodi sperticate, racchiuse in 19 paginette, ben compatte, in cui l’iperbole raggiunge il massimo grado.

Comincia :

« Tu Mondo, come più mondo potrai chiamarti ? Che se il tuo nome derivi dall’esser di belle cose adorno, io non veggo come più per tale possi esser nomato, essendosi da te ogni ornamento partito ; dunque non più Mondo, ma oscuro, e tenebroso abisso devi chiamarti. »

E di questo passo va innanzi, paragonando, ora che la divina Vincenza se n’è ita, i bei Palagi ad abbandonate spelonche, gli uomini a fiere selvaggie, il giorno alla notte, la primavera all’inverno, e via discorrendo.

E continua :

« Nacque la Divina Signora Vincenza nella famosissima città di Venezia ; ma fu però d’origine di Trento, e di Trento furono i parenti suoi, i quali vennero per diporto a Venezia, e ivi la madre ch’era gravida, e vicina al parto, lasciò del felice alvo il caro peso. Che fosse nobile e ben nata ne poteano le sue belle creanze e i suoi leggiadri costumi Santi dar chiaro indicio…….. Nel cucire, nel ricamare, anzi nel dipinger con l’ago avanzò non solo tutte l’altre compagne, ma quella favolosa Aracne, e Minerva che di si fatti lavori fu inventrice…….. nè avendo i tre lustri dell’età sua toccati appena, possedeva benissimo la lingua latina, e felicissimamente vi spiegava ogni concetto, leggeva tanto appuntatamente, e scriveva cosi corretto nel latino e nel materno idioma, che più non vi scriverebbe chi dell’ortografia diede i precetti e l’arte…. »

E di questa guisa il fervido innamorato va enumerando {p. 206}tutte le grandi qualità della sua morta, additandola ai posteri come

« Retore insigne, musica sublime, la quale da sè componeva i madrigali, e li musicava, e li cantava ; suonatrice soavissima di vari strumenti, scultrice in cera valentissima, faconda e profonda parlatrice, e comica eccellentissima.

« Volse il cielo che la signora Vincenza, forse per purgar de’ vizj la corrotta gente, si desse al recitar comedie in scena, dove degli uomini, come in uno specchio, rappresentando il vivere, e d’essi riprendendo i perduti costumi e gli errori, a vita lodevole gli infiammasse, il che fatto di leggiero avrebbe, quando il mondo non fosse al suo bene cosi incredulo, etc. etc. »

e qui tien dietro la solita predica in difesa delle commedie e contro coloro che le aborriscono, e che « come odono nominar comici, par che sentano qualche cosa profana e sacrilega. »

Ma eccoci all’arte sua.

« Recitava questa signora in tre stili differenti : in Comedia, in Tragedia, e in Pastorale, osservando il decoro di ciascuno tanto drittamente che l’Accademia degli Intronati di Siena, in cui fiorisce il culto delle scene, disse più volte che questa donna riusciva meglio assai parlando improvviso, che i più consumati autori scrivendo pensatamente. Nella comedia era giocosa secondo le occasioni, mordace nel riprendere i vizj, arguta nelle subite risposte, mirabile nei bei discorsi d’amore ; e non era alcuno che le potesse, parlando, stare al paro.

Ognuno fuggiva di venir con lei a disputa, e se alle volte sostentava il falso, lo faceva parere a chi l’udiva, il vero. Diventava pallida a qualche avviso strano che le era dato, di vermiglio colore tingea le guancie alle nove liete, nel timore avea si bene accomodata la voce, e nell’ardir medesimamente, che i nostri cuori or timidi, or arditi facea ; aggirava gli animi come le parea ; se d’odio, di sdegno o de’suoi contrarj parlava, accompagnava le parole con gesti si appassionati al soggetto, che più esprimeva col gesto solo, che gli altri con le parole.

………………………..

« Si trasformava come un novo Proteo a i diversi accidenti della favola, e se nella comedia facea vedere quanto ornamento abbia un dir famigliare, dimostrava poi differentemente nella tragedia la gravità dell’eroico stile, usando parole scelte, gravi concetti, sentenze morali, degne d’esser pronunziate da un Oracolo : e se occorreva sopra di qualche suo Amante o parente di vita spento, lamentevolmente ragionare, trovava parole e modi si dolorosi, che ognuno era sforzato a sentirne doglia vera, e ben spesso anche lagrimare, benchè sapesse certo le lagrime di lei esser finte…..

« Si vestiva, finita la favola, in abito lugubre e nero, rappresentando la istessa tragedia, e cantava alcune stanze che succintamente del Poema tutto contenevano il soggetto, ed era come di quello un argomento ; e cosi, data la licenza al popolo, e finito il canto, si sentiva un alto grido, un manifesto applauso che andava sin alle stelle, e le genti stupite ed immobili non sapeano da qual luogo partirsi. Che dirò delle pastorali da lei prima introdotte in scena, le quali di cosi vaghi avvenimenti intesseva, che di troppa meraviglia e dolcezza ingombrava gli ascoltanti ?

………………………..

« Andava in abito di Ninfa si vezzoso, che si poteva a Diana assimigliare, quando per piacere all’amato Endimione sen gìa più del consueto adorna e lasciva. Nelle Pastorali interseriva alcuni favolosi intermedj, or da Mercurio, or da Venere, or da Apollo, e or da Minerva {p. 207}vestita, e mentre questi Dei rappresentava, d’eloquenza, di bellezza, d’armonia e di sapienza gli era superiore. Qual Esopo, qual Roscio …. etc. etc. »

E qui fa una lista de’ grandi comici, attori e autori, greci e romani ; i quali tutti, s’intende, sono zero appetto a lei : nè ai comici si ferma, chè, nemmeno Teocrito, Esiodo e Virgilio seppero esprimere tanto artificiosamente la vita e i costumi dei pastori……. Oh ! amore !… amore !…

« Ha recitato in Roma, in Fiorenza, in Siena, in Lucca, in Milano, in Brescia, in Verona, in Vicenza, in Padova, in Venezia, in Ferrara, in Mantova, in Parma, in Piacenza, in Pavia, in Cremona e in altre città, nelle quali tutte è rimaso il nome delle sue virtù impresso nelle umane menti, e i dolci accenti della sua voce risuonano ancora nell’orecchie di ciascuno…. Nell’arrivar che faceva in molte città, si sparava l’artiglieria per allegrezza della sua giunta, o del suo ritorno, e i principali della terra le venivano all’incontro, e i dotti venivano da lei come da un vivo sole….. I musici, i poeti, i pittori, e gli scultori cercavano con ogni sforzo e industria delle lor arti renderla immortale. »

Poi, venendo alle bellezze fisiche, dice :

« Era di corpo bellissima, e di rado avviene che ad un bel corpo non sia bell’alma unita, essendo il bello e il buono un’istessa cosa. Era la signora Vincenza di statura piuttosto grande che no, e con tanta proporzione e conveniente misura eran situate le belle membra, che cosa si ben composta, altrove non fu vista mai. Aveva del virile nel volto e nei portamenti, onde se talora in abito di giovanetto si mostrava in scena, non era alcuno che donna l’avesse giudicata. Aveva i capei lunghi di finissim’oro ; alcuni in treccie avvolti, alcuni negletti ad arte givan vagando nei margini della fronte, e benchè fosser sciolti, legavan però più fortemente i cuori. La fronte come alabastro lucida e tersa sembrava quella parte di puro argento che nella luna si vede, quando la circonferenza non ha ben compita ancora ; le sottili e nere ciglia da giusto intervallo divise, facevan sopra l’uno e l’altro occhio un arco che a loro sguardi avventava fiamme e foco….. Nasceva il profilato naso dai confini delle ciglia, scendendo per mezzo il volto con debita convenienza, fiammeggiavano gli occhi a guisa di Zaffiri, nei quali irraggi il sole….. Le guancie nella calda ed animata neve rosseggiando senza artificio alcuno, eran da vaghi fioretti dipinte ; la bocca, anzi il Paradiso, chiuso da due preziosissime porte di rubini e di perle, non solo alla vista porgeva contentezza estrema, ma all’udito ancora, mentre le accorte parolette e l’angelica armonia del canto mandava fuori. Ma quella cosa da che più l’alme eran percosse, e maggior virtute aveva in noi, furono le rilucenti perle uguali, che qualora dal grazioso riso erano scoperte abbagliavano co’i suoi raggi la vista dei riguardanti.

E per giunta poi :

« …. avea bellissime…. virtuose mani, le cui dita coronavano gemme orientali, dalle quali usciva tanto splendore, che quanti gesti delle mani accompagnavan le parole, tanti parevan lampi che balenasse il cielo. »

E dopo tante altre e più vive e artifiziose parole, passa alla descrizione della morte, alla quale si lascia andare con {p. 208}l’anima fortemente, sinceramente, per quanto iperbolicamente, addolorata.

L’Armani si chiamava Lidia nelle commedie e Clori nelle pastorali, e sotto questi nomi fu ancora celebrata in versi. Il Valerini le dedicò vari sonetti, e vari glie ne dedicarono Giacomo Mocenigo, l’Accademia degl’Intronati, Antonio Sottile, Niccolò Pellegrino, Fulvio Urbino, Giovanni Saravalle, Nicola Cartari, Giovan Battista Gozzi, Luzio Burchiella, comico geloso (V.), Francesco Mondella, e l’Accademia degli Ortolani ; ed ebbe stanze da Giovanni Acciajoli e da altri : rime tutte che seguono l’orazione del Valerini ; alle quali tengon dietro le rime dell’Armani stessa al Duca di Mantova, a Lucrezia D’Este, alla Città di Vicenza, al Duca di Ferrara, e un’ode tutta sensuale in memoria certo de’suoi amori. A parte le iperboli del Valerini, la Vincenza Armani doveva essere davvero un essere eccezionale.

Pubblichiamo qui un sonetto dell’Accademia degli Intronati e uno di Gio. Battista Gozzi. Quelli di Adriano Valerini e di Luzio Burchiella troveremo ai nomi di questi due comici valorosi.

DELL’ACCADEMIA DEGL’INTRONATI

Dolce angelico riso, onde costei
che ha del mortale e del terren si poco,
accender può d’inestinguibil foco,
gli uomin gelati, e i più superbi Dei.
Qualor cortese in aprir gli occhi sei,
le belle labra ove hanno Amore, e Gioco
più caro seggio, e scopri a poco a poco
perle, qual non han gl’Indi, o i Nabatei.
Tacciono intorno le tempeste e i Venti,
s’aprono i cieli, e ne’profondi Abissi
Sisifo e Tizio al suo dolor han pace.
Così di te, che i tenebrosi Ecclissi
da ogn’alma sgombri, noi spesso contenti,
Amor, che in tua virtù sè stesso sface.

{p. 209}DI GIO. BATTISTA GOZZI

Non più s’adorni il Re de’Fiumi altero
di fronde umili il crin, ma lauri, e rose
tengan le tempie, e le chiar’onde ascose
poi che ha onor tale, e tanto nel suo impero.
Quel che il Tebro, Arno, Mincio, e il Ren non fero
nelle cui belle rive il piede pose
lasciandole al partir meste e pensose,
ben potrà il Pò, che può tropp’egli in vero.
Felice Pò cui si dolce aura spira
sovra le sponde, acque beate voi
dove cigno novel cantando gira.
Ma quel d’ognun più fortunato poi
che dolcemente del suo amor sospira,
che Vincenza il Sol vince, e i lumi suoi.

Per dare un saggio dello stile poetico dell’Armani, trascriverò anch’io intera (cf. Fr. Bartoli) la citata ode amorosa, la quale a me pare mirabile e strana per l’efficacia, la verità e la passione, ond’è formata.

Eccola :

Notte felice e lieta
prescritta al piacer mio,
onde l’alma s’acqueta
del suo dolce desio,
notte in c’ho ferma spene
por fine alle mie pene.
Pur fugge or, mentr’io canto,
il tempo, e già s’appressa
l’ora bramata tanto
ch’oggi è a mercè promessa
della mia lunga noja,
principio alla mia gioja.
Placido, amico sonno,
deh, yieni, occupa i sensi
di quei che sturbar ponno
i miei piaceri immensi,
tal ch’io senza sospetto
goda il mio ben perfetto.
Ecco : pur giunta è l’ora
prefissa a piacer tanto ;
ond’io, senza dimora,
prendo il notturno manto,
ed al luogo m’invio,
dove alberga il cor mio.
{p. 210}L’uscio ch’io tocco appena,
mi sento aprir pian piano,
poi cheta indi mi mena
una invisibil mano :
io con tremante passo
lieto guidar mi lasso.
Giunto al felice loco
ch’è al mio piacer parato,
dove risplende il foco,
ripiglio alquanto il fiato,
e poi, la lingua sciolta,
io parlo, ed ella ascolta.
— Dunque è, ben mio, pur vero
ch’io sia da voi degnato,
qui dov’esser già spero
felice, anzi beato ?
Son desto, o pur sogn’io ?
Troppo contento è il mio !
Non merta la mia pena
sofferta, e il mio tormento,
una, di mille appena
gioje che per voi sento,
e, mercè vostra, ottegno
oggi ch’io sono indegno.
Ella per la tua fede
e per tuo merto dice :
d’amor ti si concede
quel che ad altri non lice ;
e coglier è a te dato,
quel ch’è a ciascun vietato.
Dolce io l’ammiro, e insieme
con lei ringrazio amore
che in gioje alme e supreme
bear voglia il mio core….
poi nel piacer perduto
la miro, e resto muto.
Dolc’ella sorridendo,
mentre mi legge in viso
l’alto desio che ardendo
tien me da me diviso,
rende all’alma il vigore
che per dolcezza more.
E con le belle braccia
mi cinge il collo e tace :
e’l cor con l’alma allaccia
che di desìo si sface ;
ond’io di piacer pieno,
le bacio il petto e il seno.
E da sua bocca bella
poi colgo il cibo grato !
io muto e tacit’ella,
liet’ella, ed io…. beato
partiam l’alte faville
coi baci a mille a mille.
Quel che succede poi,
amor solo il può dire,
perch’ebbri ambedue noi,
nel colmo del gioire
perdiam ne’gaudi immensi
l’alma, gli spirti, i sensi !

Ecco che cosa scrive di cotesta donna il Garzoni nella sua Piazza universale.

Della dotta Vincenza non parlo, che, imitando la facondia ciceroniana, ha posto l’arte comica in concorrenza coll’oratoria : e, parte con la beltà mirabile, parte con la {p. 211}grazia indicibile, ha eretto un amplissimo trionfo di sè stessa al mondo spettatore, facendosi divulgare per la più eccellente commediante di nostra etade.

Il Sand inesattamente fa nascere l’Armiani (sic) a Vicenza, anzichè a Venezia, come abbiamo dal Valerini stesso, e dice che nel 1570 ella divien celebre per tutta Italia ; mentre sappiamo ch’essa rese l’anima al Creatore il dì 11 settembre l’anno 1569 ; e che « un Gandolfo, del quale rimane sconosciuto il cognome, a’15 settembre così scriveva al Castellano di Mantova : « La Vicentia comediante è stata atosegata in Cremona. » E ciò forse fu opera di qualche amante spregiato, che non poteva perdonarle l’affetto verso il suo compagno di scena, Adriano Valerini, veronese, dottore e comico rinomato nelle parti d’amoroso, e che per la Vincenza aveva abbandonata l’altra bella e valente attrice, Lidia da Bagnacavallo. » (V. D’Ancona, op. cit., pag. 461).

Armano (D’) Pietro, ricordato da Marino Negri nel prologo della pace (1561) in compagnia del Molino e del Calmo, come ingenioso et gentile.

Armano (D’) Tiberio. Figlio forse del precedente. La Didone del Dolce è da lui dedicata al senatore Tiepolo con queste parole : « avendo il padre mio questo carnevale passato (1546), aperto in Venezia la strada ad altrui di avvezzar le orecchie, corrotte per tanti anni dai giuochi inetti di certi moderni comici, alla gravità tragica, ed essendo io stato il primo che, secondo la debolezza de’miei teneri anni, sotto abito di Ascanio rappresentai la Didone di messer Lodovico Dolce, ecc. »

A lui virtuoso fanciullo dedicò poi il Dolce la sua commedia Il Capitano (Venezia, Giolito, 1545).

Armellina. Non ho potuto trovare altre notizie che queste brevissime che trascrivo dall’attore Bartoli.

« Comica celebre che fioriva nel 1655. Si mostrò molto eloquente e spiritosa sulle scene ; ed in Venezia fu sommamente {p. 212}gradita. Paolo Abriani nelle sue rime indirizza a’suoi meriti il seguente sonetto :

« Tu sei così brillante e sollazzevole,
Armellina gentil, che monna Urania
ci vorrebbe a lodarti, o quella smania,
che fa la poesia tanto aggradevole.
Pur dirà ad onor tuo musa piacevole,
che hai ne’sguardi e nel dir sì dolce pania,
che a ridur Giove a qualche nuova insania
un tuo vezzo d’amor saria bastevole.
Nè a Giunon gioveria, se a te facesse
come già alla rival, d’Iside fue
che il sembiante Vaccin volse che avesse,
perchè Giove a goder le grazie tue
acciò ch’Argo verun nulla sapesse,
verrebbe giù dal ciel cangiato in Bue ! !… »

Povera Armellina !… Anche vacca…. nelle poetiche aspirazioni dell’Abriani ! !…

Arminio (D’) Gaetano. Attore della Compagnia del Lorenzi al Teatro Nuovo di Napoli nel 1775.

Arnaldi Rosa.Prima amorosa di non pochi pregi. Fu scritturata per gli anni 1857-58-59 dalla Compagnia diretta dall’artista Giovanni Leigheb. Al Cocomero di Firenze, ora Niccolini, fu molto lodata dal pubblico e dalla critica insieme alla prima attrice Pedretti.

Arrighi Cialace. Era il Pantalone della Compagnia italiana chiamata a Parigi nel 1645 dal Cardinal Mazzarino, e che recitava al Teatro del Petit-Bourbon.

Arrighi Giovanni. Nacque nell’agosto del 1846 in Livorno da Francesco Arrighi e Assunta Romiti. I suoi maggiori, di cui l’ultimo il padre, furon tutti gente di mare e povera gente, {p. 213}che da barcajuoli saliron poi al mestiere più proficuo di navicellai o scaricatori. Giovanni visse fino ai 16 anni in mezzo alle tradizioni marinaresche ed ebbe un fratello maggiore che potè illustrare il nome degli Arrighi con azioni eroiche, riconosciute da compensi sovrani, dal 1866 al’70, sempre sul mare. Segretario della Società democratica livornese sotto la presidenza di F. D. Guerrazzi, che assai lo amava, fece la campagna del’66 insieme a’suoi compagni con Garibaldi. Il giorno 16 luglio, a Condino, pare trovasse il modo di distinguersi per l’umor gaio e giocondo, che mostrò davanti al fuoco austriaco. Tornato in patria, e mortogli il padre, intento alla ricerca d’un impiego che gli desse da vivere, con il suffragio delle sole quattro classi elementari, sognò di diventare un artista drammatico, e cominciò coll’entrare in una società di dilettanti che recitavano in un buco di teatrino improvvisato, posto in un solaio ; passò poi in altra società meno peggio, sostenendo le parti di primo attor giovine, fino a che, incoraggiato dagli applausi e dai consigli de’concittadini, esordì alle Logge di Firenze con Adelaide Ristori nel’70, in qualità di secondo amoroso. Terminato il carnevale del’70, e formatasi in Firenze una nuova compagnia sociale fra gli artisti Giorgio Kodermann, Giustino Pesaro e Argia Santecchi, egli vi fu scritturato per tutto l’anno comico’71-’72. A quell’epoca, in quaresima, Valentino Carrera diede la Quaderna di Nanni, in cui Arrighi ottenne un clamoroso successo, creando la parte di Oreste, l’indimenticabile venditor di giornali. Passò poi nelle Compagnie di G. Peracchi, di Alessandro Salvini, di Ettore Dondini e Giovanni Contini come primo attor giovine. Fatta poi società con Achille Dondini, all’intento più specialmente di dar libero sfogo alla sua viva passione dell’arte, si buttò a capo fitto nel gran repertorio, facendo una sua particolar fatica dell’Amleto. Nè i soli concittadini gli furon larghi d’encomio ; chè recatosi al Quirino di Roma e alla Canobbiana di Milano, vi ebbe dal pubblico e dalla stampa il migliore incoraggiamento. Staccatosi poi dal Dondini, entrò nella Compagnia Virginia Marini e Giovanni {p. 214}Emanuel con la Reiter e Zacconi, in qualità di generico primario e primo attore di spalla. Fu con questa a Madrid e a Barcellona, ove rappresentò ne’Rantzau la parte del primo attore Gianni (l’Emanuel aveva scelto quella del vecchio Fiorenzo) ; e tanto egregiamente vi riuscì, che al domani, la stampa tutta si credè in dovere di unire a’nomi di Emanuel e di Zacconi, anche quello dell’Arrighi. Quindi passò direttore e attor da parrucca in Compagnia di Lorenzo Calamai, ove stette quattro anni, che furon gli ultimi della sua vita nomade di artista.

Ora è a Milano, ove s’è dato accanitamente allo scrivere, mescolando le commedie, i monologhi, le novelle, i bozzetti, a’romanzoni e drammoni popolari, co’quali ha preso una non comune famigliarità, e ne’quali riesce più specialmente per la vivezza dell’interesse e per la forza del sentimento.

D’ingegno pronto, d’indole mite, di rara modestia, sa farsi voler bene da quanti lo conoscono e come uomo e come artista.

Arrighi Carlo, nacque a Livorno il 13 agosto 1859 da Pilade Arrighi, cassiere alle stanze dei pubblici pagamenti, e da Antonietta Bonamici, sorella del Dottor Diomede, il noto bibliofilo. Fin da giovinetto accudì al prosperoso commercio delle pelli, legatogli da un suo stretto parente. Nell’anno 1876 entrò a far parte della R. Accademia dei Nascenti, come filodrammatico, e in breve diede promessa di ottima riuscita per quell’arte, alla quale fu trascinato da passione irresistibile, e la quale doveva poi condurlo al sepolcro. Egli, non ostante i consigli dissuadenti del Direttore della Accademia, egregio Baldini, che per ingegno e coltura e arte e pratica della scena, meriterebbe di trovar posto qui a canto a’buoni artisti militanti, e che non vedeva tutto quello splendore di orizzonti che il neo-attore s’era venuto creando nella fantasia, diede un addio al commercio per darsi intero al teatro, e si scritturò il 1882 nella Compagnia di F. Pasta, passando poi l’anno dopo in quella di A. Maggi, della quale fu primo attor giovine corretto ed {p. 215}elegante sino al’91, e la quale abbandonò in America per tornarsene a Livorno, affetto da una di quelle malattie che consumano lentamente e spietatamente il cervello e l’anima. Il corpo del povero Arrighi trascinò nel manicomio di Siena diciassette mesi della più triste vegetazione.

Arrivabene Contessa Adelia, nata il 1818 a Mantova, e morta a Milano di tifo l’8 dicembre del’47, fu, per le parti di seconda donna, artista insuperata. Il Bonazzi (V.) nel suo studio su Gustavo Modena, parlando di quella nuova compagnia che egli pensò di creare, « raccogliendo filodrammatici non viziati da pretensioni (?), attori novelli non guasti da esempi contagiosi, ecc. ecc., » e che presentò poi nel’43 al Teatro Re di Milano, dice dell’Arrivabene (pag. 28, dell’edizione curata dal Morandi) :

E vi apparve l’Adelia Arrivabene, della patrizia famiglia di Mantova, nuova e vezzosa meteora, che dopo un’ora di meraviglia si estinse rapidamente per le scene italiane.

{p. 216}

E nella pagina seguente :

Nel secondo anno della sua impresa, all’Adelia già grande nelle parti comiche, specialmente nelle aristocratiche, ma non ricca di mezzi per le parti di forza, aggiunse con provvido consiglio la Sadowski.

E Tommaso Salvini (Ricordi, ecc. ecc. Milano, Dumolard, 1895, pag. 46) :

La Contessa Adelia Arrivabene, giovanissima gentildonna mantovana (che morte immatura tolse troppo presto alla scena, sulla quale lasciò impronta incancellabile dei più eletti e squisiti modi nel porgere).

Era dunque nel’46 la seconda donna di Gustavo Modena, al fianco della Sadowski, di L. Bellotti-Bon e di Iannetti, il famoso dilettante romano ; e, fatto per sua beneficiata il Bicchier d’acqua di Scribe al Teatro Re di Milano, la sera del 3 febbraio ’46, tutti i giornali ebber già grandi parole di lode per questa giovine ben promettente, che aveva rappresentato il personaggio della Duchessa di Malborough, con una dignità vezzosa e piacente, non ancor riscontrata in altre attrici. Il corrispondente triestino del Mondo illustrato scriveva il 23 gennaio 1847 : « si parla più dell’attrice Arrivabene, come speranza delle scene italiane, che di musici e cantanti. »

Quasi tutti i giornali d’Italia piansero la morte immatura di questa singolar tempra d’artista con parole di schietta lode. Trascelgo il breve cenno che ne fece l’artista Bon nel Bazar di Milano :

adelia dei conti arrivabene

La mattina dell’ 8 dicembre mori in Milano Adelia dei Conti Arrivabene di Mantova, giovine donna di bell’ingegno, di educazione fiorita e di generosi sentimenti. Decorava l’arte drammatica già da quattro anni con sicurezza di splendido avvenire. Savia e pia, sentendo di dover lasciare la vita, domandò da sè tutti i soccorsi della religione. Spirò nella pace del Signore, perchè alla classe dei buoni spettava.

A questo faccio seguire parte dell’articolo apparso nell’Italia musicale di Milano (15 dic. 1847), in cui è discorso ampiamente delle doti artistiche, ond’era pregiata la povera donna :

……………………..

Sotto la scorta del Modena, che primo intravide in lei l’anima artistica, erasi collocata in breve nel novero delle principali attrici italiane ; e niuna la superava per naturale {p. 217}eleganza di modi, per amabile disinvoltura, per nobile squisitezza di sentire. Le commedie dell’alta società, le parti che richiedono alterezza di contegno e finezza d’ironia, erano da lei rappresentate con tal verità e con tal brio, che la donna faceva quasi sempre dimenticare in lei l’attrice. Iniziata alla scuola moderna che fugge le convenzioni e cerca l’effetto nel vero, ella sentiva più addentro che non si suole nel riposto concetto dell’arte, e in quelle passioni e in quei caratteri, che più era chiamata ad esprimere, vi rispondeva con rara intelligenza d’artista. Può dirsi anzi che per lei il nostro teatro comico siasi arricchito di un intero genere di componimenti da prima quasi ignorati. Chi l’ha vista nel Bicchier d’acqua e nella Madamigella di Belle Isle, non dimenticherà al certo quel superbo sorriso, quell’altero portamento di capo, quell’eleganza aristocratica che traspariva da ogni suo moto, da ogni più lieve girar d’occhi. Nè mancò in lei l’espressione di affetti più concitati e più caldi ; e recente ancora è tra noi il plauso con che vesti le sembianze della tenera Ermengarda, e narrò gli strazj e le smanie della tradita Usca nella ballata del Dall’Ongaro.

………………………..

Nel Mincio di Mantova, giornale di scienze, lettere ed arti (sabato 1 marzo 1851, anno 1, Numero 1), redattore responsabile Alessandro Arrivabene, cugino dell’Adelia, apparve una poesia inedita di G. Prati (che metto qui per non averla più vista riprodotta), preceduta dal seguente cappello :

Questi versi gentili, e spiranti tutti venustà ed affetto, mi furono cortesemente profferti dal signor Luciano Cerchi : ed io son grato ad esso di questo dono, e a me ne sarà grato il pubblico.

La persona che il poeta cantò mi era unita per sangue, e fu segno di encomio e di biasimo, forse talvolta troppo alto il primo, ma certamente immeritato il secondo. Ora quella poveretta in Dio riposa, e poichè tacciono le umane passioni oltre il sepolcro, io vivo nella dolce lusinga che leggendo taluno queste melanconiche note, si ricorderà con reverente e pietoso animo di un fiore in si verdi giorni succiso !

Perchè Adelia, il tuo cor rompe in sospiri,

e raro il detto su’tuoi labbri suona,

e chiusa in bruno la gentil persona,

soletta e malinconica t’aggiri ?…

E più dei crocchi, ove elegante e bella

seder potresti, e più dell’infinito

strepitar delle turbe, ami il romito

favellìo d’una fronda o d’una stella ?

{p. 218}Perchè talvolta chi ti siede accanto

chinar ti mira tra le palme il viso,

poi sollevarlo con un tal sorriso

che men duro sarebbe un mar di pianto ?…

Ahi ! forse nell’occulta anima porti

qualche piaga insanabile e profonda,

nè per te stilla una balsamic’onda,

che il cupo e lento tuo dolor conforti.

Eppur…. chi lieta non dovria chiamarti ?
La serena speranza al cor ti serra,
e tu di terra trapassando in terra
col plauso arrivi, e insiem con lui ti parti ;
memore sempre d’onde nata sei,
la polve teatral varchi superba,
e t’aman quanti alla fortuna acerba
servono muti, ma non son di lei !
E sin ne’crocchi ove il maligno stile
in argute viltà scoppia sovente,
il tuo bel nome pronunciar si sente
con reverenza e simpatia gentile.
Qual è dunque la croce, onde si mesta
tu se’talvolta, che pietà n’avrebbe
qual più infelice nella polve crebbe
nè da quel loco osa levar la testa ?…
Ah ! tu coll’occhio seguitando vai
la rondinella che rivarca i mari,
e risaluta il ciel nativo, e i cari
lidi materni, amati or più che mai !
Povera Adelia ! E in un pensier ti vola
l’anima lagrimosa ai patrj flutti,
e sempre indarno ! Tu sei cara a tutti,
povera Adelia,… ma sei sempre sola.
Nè cara a tutti veramente sei,
martire egregia in tramutar di stato !
Oh razza d’Eva ! In tuo giudicio ingrato
quanti, perchè son miseri, son rei !
{p. 219}Ma non tremar ! chè la parola infame
sul labbro è a pochi : e questi pochi or sono
di te men degni. Nè dal lor perdono
l’amaro pan tu cerchi….
ma lo cerchi a quell’Arte, in cui s’onora
qual con affetto e con virtù l’abbraccia ;
leva, Adelia gentil, leva la faccia
verso al tuo Cielo ! Tu sei ricca ancora !
E conduci pur sempre il pensier mesto
al buon Parente, alla pia Madre, a quanti
una dolce superbia han de’tuoi vanti….
e poi lascia al tuo Dio cura del resto.
Pregalo sol, che germogliando sotto
le amare spine della vita il vago
fior dell’anima tua, quasi presago
d’un destino miglior, splenda incorrotto !
E insiem lo prega (perchè, Adelia, i buoni
son generosi !) per que’pochi il prega
chè abbian essi quel ben, che a te si niega,
a te cara, che piangi e che perdoni.
Abbiano il ben degli immutati affetti
e non sappiano mai siccome pesa
in cor gentile una inclemente offesa
più rea se vien dai consanguinei tetti !
Cessa, Adelia, dal piangere ! Perenne
ti porgerà la tua virtù conforto.
Pensar tu dèi che di chi fece il torto
è più caro al Signor chi lo sostenne.

La qual poesia fu inviata da Venezia il 26 gennaio del’46 alla madre dell’Adelia, accompagnata dalla seguente lettera :

Signora Marchesa,

Ho voluto io stesso mandarle questi versi che mi uscirono spontanei dal core dopo aver conosciuto e apprezzato il nobile ingegno, e l’animo elevato della Contessina Adelia. Annovero tra i pochi giorni festivi della mia vita questi che passo a Venezia alternati tra le inspirazioni della grande città e il conversar elegante ed arguto di questa decima Musa. Ella invero si rende molto simpatica a chi la conosce perchè sparge abitualmente di un {p. 220}velo di melanconia i suoi discorsi, e perchè rapisce all’arte quelle egregie e fidate consolazioni che forse non le saprebbe dare la vita.

Signora Marchesa, le bacio le mani con animo riverente.

G. de’Prati.

A quelli, dopo due giorni, tennero dietro questi altri versi, tuttavia inediti, e a me comunicati con gentilezza squisita dal fratello di lei Conte Giovanni Arrivabene, al quale debbo anche, in gran parte, la compilazione di queste notizie.

AD ADELIA CONTESSA ARRIVABENE

Ai vani e curiosi occhi mortali
Questa pagina, o Adelia, in cui si versa
Tanta parte di me, chiudi in eterno !
Oh Adelia ! Alfin due simpatie remote
Trovansi un’ora, e forse come due
Pianeti urtati nell’immenso Cielo,
Gemendo si distaccano per sempre !
Odimi dunque : e dalle inesorate
Leggi del tempo mi sia dato un giro
Di pochi istanti, e ch’io li parli teco !
Credi : nè reo nè ingeneroso io sono
Qual ti fui detto dal frequente vulgo,
Misero d’opre e d’animo codardo.
Perciò talor mi fuggirebbe il carme
Dalle sanguigne latèbre del core
Maledicendo. Ma v’han ore al mondo
Piene così d’inusitata gioia,
Che in quell’ore si svia l’amara fonte
Dello sdegno e dell’odio, e per un’alta
Anima sola, che s’incontra in questi
Muti deserti, tollerabil pare
Tanta razza di deboli e di rei !
E ier sentii nella profonda notte
Del mio pensiero un tremito di vita,
Una fiera allegrezza ; e con la muta
Ala del desiderio io ti deposi
Lagrimando sull’omero la fronte
E ti parlai così :
{p. 221}Misterïoso
È veramente de’mortali il Fato.
O Adelia ! appena io ti conobbi, e sento
Che potrei con l’ardente anima amarti !
Odi in silenzio, e oblia ! Sol ti rivenga
Qualche volta al pensier, quando t’ascolti
Suonar per questo italico deserto
Riverito il mio nome o vilipeso,
Ti rivenga al pensier che un’infinita
{p. 222}Riconoscenza a te, pia creatura,
Mi lega d’invincibili catene,
E seguirò coll’anima le tue
Poche gioie, o diletta, e i tuoi dolori
Sin che tra questo di civili belve
Covo io rimanga alla calunnia, e al canto !
Oh Adelia ! io penso di raccormi in qualche
Alpe nativa oscuramente. È troppo
Grave recarsi fra le turbe cieche,
Mobili, ingrate, e qualche volta infami,
Questo cencio di gloria. È un infinito
Patimento celar sotto ridente
Maschera il viso colorato d’ira
O dipinto d’amor, perchè la terra
Sì all’amor che allo sdegno è rinnegata !
Seder vicino a qualche anima cara,
E serrarle la mano, e in quei veloci
Moti del tempo ripigliar la fede
Della vergin natura, e via dal volto
Questa larva strapparsi e dire al mondo
Sei vil, sei vile, sette volte vile…. — 
Oh questa gioia procellosa immensa
Non puoi darla nè torla, avara terra ! — 
Ella è mia questa gioia, e mi lampeggia
Nella fronte e negli occhi, e se la morte
Vi serpesse per entro, io non saprei
Solo un istante rinunciare a questa
Gioia di morte….
Oh Adelia ! è veramente
Misterïoso de’mortali il Fato !
G. Prati.

Temendo la madre che queste tenerezze del Prati potessero distoglier l’Adelia dall’arte, glie ne movea rimprovero ; ma l’Adelia serenamente rispondeva :

State quieta che la passione della drammatica non è punto scemata e che studio e procuro di farmi onore. ’Sta settimana farò i cannoni. La Marion, il Bicchier d’acqua, la Cabala, la Calunnia. Se Prati mi vuol bene non nuoce però punto alla mia carriera, ed anzi mi incoraggia a progredire ognor più.

A questi cannoni si potevano aggiungere la Bohemienne,

{p. 223}

e il Visconte di Letorières, in cui ella sosteneva con grande successo la parte del protagonista.

Al caso, triste caso, ella dovè lo sviluppo largo e immediato della sua innata e ignorata attitudine all’arte. La provincia di Mantova fu nel’ 39 desolata da uno straripamento del Po ; e la miseria generata dalla immane catastrofe fu tale e tanta che si studiò di alleviarla in ogni maniera. A iniziativa {p. 224}del Conte Giorgio Roma di Zante, giovane di forte ingegno, che si trovava allora in Mantova, attratto dalle grazie di una delle più avvenenti e colte signore di quella aristocrazia, fu costituita una vera e propria compagnia, la quale doveva dare due o tre rappresentazioni la settimana, al celebre teatro dei Gonzaga, illustrato dagli affreschi del Mantegna. L’Adelia, al fianco di un Puricelli, che sosteneva con singolare maestria le parti di primo attore, tanto da parere artista provetto, vi fece la prima attrice, acclamatissima dalla prima sera. Fu una rivelazione. Rappresentatasi la Maria Padilla del Bugamelli, il grido del nuovo, imprevisto successo non si ristrinse alla città di Mantova : e Gustavo Modena, che dal’39 al’40 era a Milano, attratto da quel grido, e recatosi a Mantova ad assistere a una replica della Padilla, n’ebbe tale impressione che da quella sera determinò di prender con sè la nobile e vezzosa e già valorosa attrice. Nè molte parole ci vollero a farla risolvere di darsi tutta all’arte ; chè alle innate attitudini e alla recente e pur viva e radicata passione s’aggiungeva la speranza di recare alcun sollievo allo stato allor triste della famiglia, la quale dal più alto fastigio di fortuna era caduta in una relativa povertà.

Povera Adelia ! Ella sin allora vezzeggiata, amata da tutti, trovò dal momento di quella sua risoluzione tal voltafaccia che le fu cagione poi di continua e profonda amarezza…. Nè v’è da stupirsene, se si guardi al conto non troppo alto in cui eran tenuti i comici allora, e alla maggiore austerità e, oserei dire, intransigente solitarietà nella quale si teneva allora l’aristocrazia…. Data dunque la enorme disuguaglianza, i parenti ed amici di una Arrivabene non potevan vedere di buon occhio il loro blasone trascinato sulle tavole della scena. E quale blasone ! L’Adelia era figliuola del Conte Francesco Arrivabene, soldato del primo Impero, e della Marchesa Teresa Valenti Gonzaga, e però nipote della Principessa Tour-Taxis, una delle più illustri famiglie mantovane, imparentata colla Casa di Augsburgo.

{p. 225}

Non v’era notabilità artistica o letteraria, o politica, la quale, attratta a Mantova da’suoi tesori d’arte, non mettesse piede nella gran Casa ospitale della Marchesa Valenti-Gonzaga, l’amica fidata di Enrico Tazzoli ; quella Casa, che, perseguitata poi fino al’66, aveva cominciato dal’21 a dar contingente allo Spielberg, alla Giudecca, ecc….. In quell’ambiente alto e severo di letteratura, di arte, di amor caldo e profondo della patria, crebbe l’Adelia : e la naturale aristocrazia de’modi, mista a una ineffabile dolcezza dell’animo, e la squisita e compiuta educazione recò sulla scena, dischiudendo all’arte nuove vie : e chiunque anch’oggi la ricordi, suol dire che, non avendo visto l’Adelia Arrivabene nel Bicchier d’acqua, si può ben dire di non aver visto mai la vera Duchessa di Marlborough….

Una delle più accanite avversarie alla nuova professione fu la zia Eleonora, Marchesa Ippoliti di Gazzoldo, madre di Alessandro Arrivabene, uomo di alcuna coltura, e direttore a Mantova di quel Mincio, in cui apparver la prima volta, dopo la morte di Adelia, i versi del Prati accennanti a punto alla sospirosa e lagrimosa vita di lei,

martire egregia in tramutar di stato,

e che sono l’eco fedele, il commento lirico, dirò, delle intime confidenze dell’amica.

Nè il grido trionfale che corse di lei a Cremona, a Milano, a Padova, a Venezia, a Trieste ; nè gli applausi ch’ella strappò dagli stessi avversari, quando nella primavera del’45 fu per un corso di rappresentazioni a Mantova, valsero ad addolcire i loro animi. In vano Ferdinando Negri, noto poeta mantovano, s’era dato nel’44 con questi nobili versi a difender la povera vilipesa :

Lascia — ti disse il Genio — 
le neghittose torme ;
vieni, saliamo al vertice
dove il valor non dorme,
dove la sacra attingere
favilla io ti farò !
{p. 226}Vieni più cara a rendere
al cuor dell’uom virtude ;
vieni a svelar del vizio
le turpi forme ignude :
nell’alta impresa e nobile
compagno io ti sarò.

In vano Giovanni Prati la circuiva con parole di fuoco : ad esse non sapeva rispondere che collo stender della mano, serena, tranquilla, riconoscente, ma fredda. Se grido di passione uscì mai dal suo petto, fu per Seismit-Doda, il giovane dalmata, uscito allora dalla Università, entusiasta, ardente : e fu grido fuggevole. Conforto unico le era l’affetto non mai venuto meno della madre, con cui spesso s’intratteneva per lettere, ch’ella soleva intestare colle soavi parole : « Mamma mia divina. »

Povera Adelia ! Si dovè aspettare che il suo corpo fosse composto sotto terra, perchè al sincero dolore dell’arte si aggiungesse alta, se non sincera, la palinodìa delle rigide concittadine.

Artale Francesco. Palermitano. Era studente di legge, quando, lasciati a mezzo gli studi (1866), entrò per le parti di generico giovine in Compagnia Sterni. La persona prestante, la voce soavissima e forte, unite ad una viva passione per l’arte e ad una ferrea volontà di riuscirvi, lo fecer salire in brevissimo tempo sino al grado di primo attore, passando per le migliori compagnie del suo tempo, come quella di Salvini (1867), di Vitaliani (’68), la Romana (’69), di Bellotti-Bon (’71-’74) ; e recitando al fianco de’migliori artisti che gli furon sempre affettuosi compagni. Alla stima di essi andò congiunta sempre quella del pubblico e della stampa.

Nel’75 diventò conduttore e direttore di una Compagnia propria, della quale fu anche il primo attore sino al’91. Luigi Bellotti-Bon che ben conosceva le qualità dell’Artale come capocomico, strinse con lui contratto per affidargli la guida della sua seconda compagnia…. contratto che la morte fatale del {p. 227}Bellotti non mandò ad effetto. Francesco Artale oggi è stabilito a Napoli, ove, in unione alle sue due figlie prime attrici giovani e amorose, dotate di non comuni pregi artistici, trae vita modesta e onorata in mezzo alla stima e all’affetto di chi lo circonda, recitando pur sempre, e pur sempre applaudito.

Articchio Nicoletto. Rappresentava la maschera del Dottore, e sappiamo di lui (V. Ö. Byrn, op. cit.), che si recò a Dresda nel 1740, a far parte della Compagnia di Corte, formata e diretta da Andrea Bertoldi, la quale cominciò il corso delle sue rappresentazioni la sera del 12 maggio 1738, in occasione delle nozze per procura della Principessa Maria Amalia di Polonia e Sassonia, col Re Don Carlos di Napoli, a Pillnitz.

La commedia recitata cotesta sera, e di cui non fu conservato che il titolo, era : La maggior gloria d’un grande è il vincer sè stesso, ossia : L’invidia alla Corte. Ne’primi anni della sua scrittura, la Compagnia seguiva d’inverno la Corte a Varsavia, e v’era il signor di Breitenbauch incaricato dell’alloggio dei comici, i quali in codesto andare e venire tra Dresda e Varsavia eran diventati artisti nomadi come quelli d’oggidì. Stavano molti giorni in viaggio, accompagnati dalle loro famiglie, e dovean provvedere da sè al loro mantenimento : la Corte pensava alle spese di trasporto. Da un giornale di viaggi del 1740 si vede come fosser gli artisti alloggiati in Varsavia :

Bernardo, Isabella e il ballerino Alessandro Vulcani aveano tre camere, fra le quali una grande per le prove.

Le coppie Franceschini e Bertoldi, il capo, due ciascuno ; gli altri, fra cui un nuovo venuto dottore Nicoletto Articchio una per ciascuno ; e una camera vi fu per due servitori e per la guardaroba. Quel « nuovo venuto dottore » entrò nell’epoca in cui oltre al rinforzo de’nuovi elementi scritturati dal Bertoldi, la Compagnia si accrebbe di una importante artista, la Rosa Grassi, Colombina. Questo star lungamente in viaggio a proprie spese con le famiglie faceva sì che i poveri comici non avesser troppo da scialare.

{p. 228}

La Compagnia costava allora, sino al 1748, 6000 talleri (Reichstaller), e dal’ 48 in poi 7975. Non era gran cosa. È ben vero che il Conte di Brühl, primo ministro di Corte, sostituito al Sulkowsky, proprio quando arrivarono i comici italiani a Dresda, accordò loro ogni suo favore, accogliendo di quando in quando istanze per sussidj ; ma ciò non bastava a procacciar loro una vita tranquilla…. Alcuni poterono a stento rimpatriare miserissimi, altri ebber pensioni dal governo che li misero in grado di non morir di fame…. altri pensaron bene di tornarsene in Italia, lasciando colà un monte di debiti, come vedremo al nome dei singoli artisti Bertoldi, Vulcani, Franceschini, Casanova, Grassi, Ristori, Golinetti, Bastona, ecc….. (V., per l’elenco della Compagnia, Arbes (D’) Cesare).

Asprucci Sebastiano. Romano. Si diede alle scene dopo aver fatto ottime prove tra’dilettanti nella celebre accademia degl’Imperiti di Roma, che aveva teatro in Trastevere e della quale fecero parte il Cirri e il Pertica.

Francesco Righetti, il noto attore della Reale Compagnia Sarda, si volge nel suo teatro (T. II, pag. 239) alla novella gioventù « perchè collo studio e colle osservazioni trascurate dalla maggior parte dei loro predecessori, facciano rivivere e perpetuino sulla scena italiana il senno di Pianca Paganini, la dignità di Petronio Zanerini, le grazie comiche d’Asprucci, e la versatilità sorprendente di Demarini, la verità di Pertica, la pura dizione di Vestri, e rigettando la chimera delle tradizioni, recitino colla propria anima, e abbiano per norma i precetti dell’arte, e per modello la natura. » Lo troviamo gli anni comici 1795-96-97, brillante nella Compagnia del truffaldino Luigi Perelli, al fianco del famoso Zanerini, e dell’Angela Bruni : poi, l’anno 1797-98, in quella di Carlo Battaglia e compagni con Salvatore Fabbrichesi, e nel 1800-1801 in quella di Angelo Venier e compagni, in cui recita per la prima volta le parti di caratterista : è anche la prima volta che il giornale dei teatri di Venezia si occupa di lui. « Sebastiano Asprucci-esso dice-in {p. 229}quest’anno solamente fece la parte di caratterista, e la sostenne con bravura, decenza ed applauso universale. » Il commediografo Antonio Sografi nella Prefazione alle sue Inconvenienze teatrali (Padova, Bettoni, 1816, pag. 9) scrive : « Fu insuperato ed insuperabile nella parte del napolitano Gennariello Sebastiano Asprucci, in ogni senso, di cara ed onorata memoria. » Sposò egli la Caterina Cesari, lodata nella stessa prefazione, dal Sografi, con queste parole : « Caterina Cesari Asprucci, e Maddalena Gallina, e Caterina Venier, attrici sempre di grande utilità ai miei componimenti, come di grata ricordanza al mio cuore. »

Colpito da congestione cerebrale nel 1803, tornando di teatro, morì dopo poche ore, compianto dall’arte tutta, e da quanti lo conobbero come artista e come uomo.

Asprucci-Cesari Caterina, detta dalla famiglia dell’arte la Cesarina, nacque a Treviso nel 1775 ; fu moglie del precedente, e figlia di una sorella della notissima attrice Teodora Ricci-Bartoli (V.) che, presala con sè, l’educò all’arte. Fu prima amorosa a vicenda con quell’Anna Pellandi, che doveva poi più tardi salire in sì gran fama. Dotata di squisita bellezza, di prodigiosa memoria, e di singolar senso d’arte, divenne in poco tempo una delle migliori prime donne, così nelle commedie e nel dramma, come nella tragedia. Innamoratasi perdutamente dell’Asprucci, prima ancora di darsi all’arte, sol per averlo sentito recitare, e da lui corrisposta, fu a un punto di morire, per non avere il padre suo assentito sulle prime a quelle nozze, schiavo piuttosto di un antico pregiudizio…. Spento improvvisamente il marito, ella, nella quale non era mai l’amore per lui attenuato, ne restò così annichilita che dovè dopo soli sette mesi soccombere in Verona, nell’ancor verde età di 28 anni.

Asti Cesare. Cessata la società Tessari e Soci a’Fiorentini di Napoli nel 1840, cominciò un’epoca nuova per quel teatro {p. 230}colla Compagnia Prepiani, Monti ed Alberti. La quarta sera, dopo la pessima riuscita del Domeniconi, si presentò al pubblico Cesare Asti, primo generico, nell’antico dramma : La valle del Torrente. Rappresentava la parte di un vecchio mendico, il quale veniva ingiustamente arrestato in sospetto di ladro. La sua truccatura meravigliosa gli procurò un fragoroso applauso al suo primo apparire. Egli era un bell’ uomo ; la voce aveva naturalmente tremolante, molto adatta alle parti di vecchio, e piacque in quella sera a segno, che molti abbuonati reclamarono lui anzichè il Domeniconi al posto di primo attore. Ci fu persino (e fra questi il Duca di Ventignano, soprintendente de’ reali teatri) chi lo giudicò un nuovo De Marini. Ma il Domeniconi andava di sera in sera acquistando terreno, e di sera in sera l’Asti ne andava perdendo, a cagione più specialmente della sua poca mente e della niuna istruzione. Cesare Asti è passato proverbiale nella storia allegra del nostro teatro di prosa, per gli spropositi. Erano arrivate a un punto le corbellature dei compagni che ogni qualvolta gli si accennava seriamente ad un fatto storico, egli soleva rispondere : « Ah ! non me la dài ad intendere, non mi corbelli più ! »

Egli è quello stesso che a Torino, al Circo Sales, in compagnia Trivelli, sostenendo la parte di un pescatore nella caduta di Missolungi, dovendo dire : « nell’imperversare della bufera, mi abbandonai alla discrezione delle onde, » disse invece : « nell’imperversare della bufera, mi abbandonai alla descrizione di Londra…. »

Lo troviamo padre nobile, nel 1842, della drammatica compagnia condotta e diretta da Angelo Lipparini, poi, nel 1844, in quella di Romualdo Mascherpa ; proprietario nel ’54-55 di una Compagnia discreta, della quale era prima attrice la Vedova-Ristori, e caratterista Luigi Bottazzi, artisti di merito non comune ; e finalmente, nel ’57-58, caratterista e promiscuo della Compagnia condotta e diretta da Valentino Bassi.

L’Asti era un attore che voleva ad ogni costo farsi applaudire. Con ripetizione di parole, occhiate espressive, alti e {p. 231}bassi immediati di voce, tremarelle e simili ingredienti, era sicuro di scuotere le moltitudini. Accadde una sera, in un dramma a forti tinte, che il pubblico di applausi non volle saperne. Aveva l’Asti un bel far rotare in alto la spada, andando alla quinta e tornando a dietro poi, rosso come un gallinaccio per l’indignazione con cui proferiva le parole : « sì, con questa spada, lo giuro ! oh, sì !… lo giuro !… Con questa spadaaa ! » Ma il pubblico…. come non ci fosse. L’Asti, giunto al parossismo, uscì precipitoso di scena, e per vendicarsi dell’ offesa per lui inqualificabile del pubblico, trafisse con terribile veemenza la tela di una quinta. Un ahi lungo, doloroso seguì a quel colpo !… {p. 232}La punta della spada era andata a trovare le parti posteriori di un armigero che aspettava tranquillo il momento di entrare in iscena. (Cfr. Costetti, Bozzetti di teatro).

Nel 1842 eran con lui in Compagnia Lipparini come generici i figliuoli Gustavo e Marina.

Astolfi Giuseppe. Figlio di un suggeritore, lo vediamo per la prima volta nel 1820 generico della Compagnia Andolfatti ; generico nel 1827 della Compagnia di Romualdo Mascherpa, di cui era primo attore Luigi Domeniconi ; servitore giocoso (sic) nel 1836 della Compagnia di Luigi Taddei ; poi caratterista e promiscuo, e capocomico in società colla Sadowski nel 1853-54. Pel ’54-’55 egli formò due Compagnie, addette principalmente al Teatro Re di Milano, ove dovean recitare ogni anno ciascuna per due stagioni. Di una Compagnia eran prime parti : l’Astolfi stesso, caratterista e promiscuo, la Giuseppina Casali, prima attrice, in surrogazione della Santoni, che per dissensi col capocomico abbandonò la Compagnia a metà dell’anno (Cfr. Salvini, Ricordi, aneddoti, ecc. Milano, Dumolard, 1895), Tommaso Salvini, primo attore, Teodoro Raimondi, primo amoroso, Gaspare Pieri, brillante, Giulietta Casamurata, servetta ; dell’altra eran prime parti : Clementina Cazzola, prima attrice, Ernesto Rossi, primo attore, Gaetano Vestri, caratterista e promiscuo, Luigi Bellotti-Bon, brillante, Giacomo Glech, generico dignitoso, Daria Cutini-Mancini, servetta ; il fiore, in somma, degli artisti del tempo. La famiglia Astolfi ha dato oltre alla Carolina di cui discorriamo più sotto, una Maria, la figlia, che trovavasi nel ’20 col padre in Compagnia Andolfatti, scritturata per le parti ingenue, la quale, a detta del Giornaletto ragionato teatrale di Venezia, dava già belle speranze di sè ; e varj altri artisti di poco o niun conto, di cui, sfogliando gli antichi elenchi e gli antichi diarj non ci fu dato trovar cenni di sorta. Abbiamo la Marianna Astolfi, moglie di Giuseppe e generica il ’20 nella stessa Compagnia dell’Andolfatti ; la Giuseppina nel ’36 in Compagnia Taddei, {p. 233}e la Giulietta nel ’56-’57, in Compagnia Lottini e Mazzola, detta Carlo Goldoni. Un Luigi Astolfi, generico, si trovava nell’ ’86-’89 in Compagnia Pretolani e Portonova.

Scoppiato il colera a Bologna, Giuseppe Astolfi, spaventato, fuggì per recarsi alla nuova piazza : ma fermatosi a Pistoja per passarvi la notte, fu colpito dal morbo, e in breve ora cessò di vivere, compiuti appena i sessant’ anni.

Astolfi-Gattinelli Carolina. Sorella del precedente, sosteneva egregiamente nel 1828, in Compagnia Mascherpa, le parti di prima donna giovane. In una nota del Giornale drammatico di G. Ferrario « I Teatri » (Milano, 1828, vol. 2, P. 1). si legge : « La Sig.a Carolina Astolfi durante la malattia della prima attrice, ha avuto campo di dimostrare fra noi che ella offre più che speranze alla scena italiana. » Unitasi poi in matrimonio ad Angelo Gattinelli, il figliuolo del celebre Luigi (V.), doventò prima donna applauditissima della Compagnia che aveva formata suo marito in società col celebre caratterista Luigi Taddei (V.). Morì di puerperio verso il 1840, all’età di trent’ anni.

Astori Orsola, detta Isabella, e anche la Cantarina (pagina 39). Moglie di Fabio Sticotti (V.) andò in Francia nel 1716 colla Compagnia formata da Luigi Andrea Riccoboni per ordine del Duca d’Orléans, Reggente. Essa era la cantante della Compagnia, sotto il nome d’Isabella, e recitava all’ occorrenza le seconde e terze parti. Pare fosse artista di meriti singolari, e non le mancò il favore del pubblico, specialmente in una parodia di Biancolelli e Romagnesi (V.), intitolata Serpilla e Bajocco, rappresentata il 14 luglio 1729, ov’ella cantò un’aria italiana con accompagnamento di trombe.

Morì a Parigi nell’età di 45 anni, il 5 maggio 1739.

Astori. È citato da Maurice Sand fra i principali attori che sostennero in Italia la maschera dell’arlecchino. L’Astori fioriva in Venezia nel 1720.

{p. 234}

Astrodi Rosalia. Nacque verso il 1733 da un suonatore d’orchestra della Commedia italiana a Parigi, e da una comica che recitava nel 1729, con qualche successo, le parti di amorosa. L’Astrodi non aveva che undici anni quando esordì, con favore del pubblico, alla Commedia Italiana, il 30 aprile 1744, colla parte di Florina, nell’Isola dei talenti, commedia in un atto di Fagan, in cui cantò un duetto insieme a Rochard. Nel 1752 ella sosteneva con molto successo le parti di amorosa e di servetta, mostrandosi anche buona cantante e graziosa danzatrice nei balli. Nel ’55 si ritirò dalle scene. Fu donna di singolare bellezza, e di non troppo riserbo. Si crede che il Conte d’Egmont, colonnello dei dragoni e uno dei più amabili signori della Corte, morisse a cagione della vita sregolata condotta con lei ; e che il signor Le Féron, ufficiale delle guardie, con lei finisse ogni suo avere. Ebbe una sorella minore di nome Margherita, che apparteneva alla Compagnia italiana, in qualità di danzatrice, nota non meno di sua sorella per la sua…. prodigalità…. Ad esse un ammiratore dedicò la seguente quartina :

Que d’appas et de gentillesse
brillent dans les sœurs Astrodis ?
on croit voir Flore et la Jeunesse
des grâces disputer le prix.

Sul proposito della Rosalia, togliamo da Giacomo Casanova, il famoso avventuriere, il seguente aneddoto, che concerne una serata la quale, secondo i manifesti, dava al teatro di Avignone una parte della compagnia di Parigi. Si annunziava fra l’altre cose che l’Astrodi doveva cantare e ballare. Il Casanova si recò al teatro, felice di trovarsi con la charmante Astrodi, fameuse scélérate. Mistificazione ! Si trovò invece di fronte a un orco di ragazza, che gli saltò al collo chiamandolo per nome, e che egli poteva giurare di non aver visto mai.

Audiberti Bartolomeo.Generico amoroso nella comica Compagnia Goldoni, 1815, della quale era prima attrice la celebre Gaetana Goldoni (V.).

{p. 235}

Aurelia. In un codice dei Trionfi del Petrarca (S. I, 33-1131) della Riccardiana di Firenze, trovasi aggiunto in fine questo sonetto (gentilmente comunicatomi dal bibliotecario Sig. Morpurgo) che è, per quanto io mi sappia, inedito. Chi ne sia l’autore non è detto : certo fu scritto di mano del proprietario del codice, Francesco Orlandi.

SONETTO SOPRA LA SIGNORA AURELIA COMICA

Sovra d’ogn’ altra più leggiadra e snella,
che le virtù, comiche Azion apprende
nell’Erario celeste chiara splende
Aurelia al par di mattutina stella.
Qual’ encomij di lode devo a quella
che col vago sembiante i cori accende.
Ahi che la Musa mia stolta pretende
cantar donna che sia fra saggia e bella.
Dhe vieni, Apollo, sul pegaseo aringo,
a gloriar Colei che il mondo adora ;
mentre a sì alta impresa io non m’accingo.
Riempie di stupor la nobil Flora,
et io con rozzo Carme il ver astringo
che felice è chi l’ ama e chi l’ honora.

Molto probabilmente l’Aurelia qui lodata, e che destava stupore in Firenze, è quell’Aurelia, ignota sin qui, desiderosa nel 1593 di far parte della Compagnia degli Uniti, come rilevasi da questa lettera di un Giusto Giusti al Duca di Mantova colla data del 27 marzo, e riportata dal D’Ancona (II, 511) :

Aurelia comica desidera sommamente di haver luogo et unirsi con la Compagnia di Vittoria (la celebre Piissimi) sperando con la scorta di si gran donna di poter avanzarsi nella professione. Et perchè sà che un minimo cenno di V. A. S. può farla degna di questa gratia, è venuta a pregarmi con la maggior istanza del mondo, ch’ io voglia supplicar V. A. S. del suo favore, nella cui benignità havendo ella prima fondata ogni sua speranza, stima che la intercessione mia, come di servitore tanto obbligato et divoto di V. A. S. possa giovarle non poco. Et io amerei grandemente che il buon desiderio di questa donna fosse ajutato dal mio reverente affetto. Supplico adunque V. A. S. con tutto l’animo, che resti servito di essaudir cosi giusta et virtuosa domanda. Di che, non pur l’istessa Compagnia di Vittoria {p. 236}può ricevere accrescimento, ma particolarmente la nostra città, ove sperano di far lor comedie, sentirà grandissimo gusto, essendo Aurelia da ciascuno generalmente ben vista. Et a V. A. S. riverentemente m’inchino.

P. S. – Giovami di credere che se bene la Compagnia è stabilita, di conseguire questa gratia, et come di cosa già ricevuta le resto con quel magior obligo che possi venire dal mio conoscimento.

La qual lettera concorderebbe col sonetto, che per la calligrafia e per lo stile pare preluda al ’600. L’Aurelia, giovine, poteva infatti, senza esser celebre, dare accrescimento alla Compagnia, e perfezionarsi sotto la Piissimi, che non doveva essere più di fresca età, se venti anni a dietro, al colmo della rinomanza, fu l’ammirazione di Enrico III. È strano bensì che di una attrice, la quale, prima, è da ciascuno generalmente ben vista, poi, riempie di stupor la nobil Flora, non si abbsian notizie di sorta. L’altra Aurelia famosa è la Brigida Bianchi, che, ritiratasi dal teatro nel 1683, e morta nel 1703 a circa novant’anni, non era ancor nata al tempo in cui il Giusti scriveva al Duca per raccomandargli la nostra ignota.

Aurelio. « Capocomico, che fioriva intorno al 1630, il quale scrisse un trattato a favore delle Commedie oneste. Sta registrato il suo nome incidentemente in un’opera intitolata : Della Cristiana Moderazione del Teatro…. Di questo comico Aurelio non è a noi pervenuto altro lume ; ma ci persuadiamo ch’ egli sia stato un uomo di merito, avendo colla penna difesa valorosamente la di lui Professione. » Così Francesco Bartoli.

Chi fosse questo Aurelio non fu possibile sapere. Sappiamo solo dal Baschet, dall’ Ottonelli, dal Bertolotti e dal Belgrano che : nel 1610 dirigeva a Genova una accolta di nobili dilettanti ; nel 1620 si trovava a Milano, e probabilmente si recò a Parigi nel 1621 ; nel 1640 era a Firenze. (V. Ranieri e Valerini).

Auriemma (D’) Gian Gregorio. Comico del secolo xvi, appartenente forse alla Compagnia di quel Bartolommeo Zito, che sotto il nome di Tardacino, pubblicò nel 1628 un comento alla Vajasseide del Cortese ; nel quale appunto, al proposito del {p. 237}D’Auriemma, dice : « …. chillo che faceva lo Pascariello a la commedia, soleva dicere ca se fosse stato a tiempo nuostre non averria portato le culonne d’Ercole ncuollo pe fi all’ultema parte de Spagna ; ma s’averria puosto no pignato mmaretato napolitano de la deritta, e na Goglia potrita (olla podrida) a la spagnola de la senistra, e chelle portannole pe lo munno, averria potuto dicere co cchiù raggione : Non plus ultra !… » (V. Benedetto Croce, I Teatri di Napoli).

Austoni Giovan Battista, comico ferrarese. « Era-scrive Achille Neri-l’amministratore della Compagnia de’Confidenti diretta da Flaminio Scala. » (1615 e segg.). Il Bertolotti (Musici alla Corte dei Gonzaga) annovera l’Austoni fra i comici che il 6 febbraio e il 5 maggio del 1591, di passaggio a Mantova, presero alloggio all’albergo della Fortuna. (V. Antonazzoni Marina).

Austoni (?). Sorella di Francesco Antonazzoni (V.) e moglie del precedente, recitava nella stessa Compagnia le parti di prima donna, alternativamente con la Lavinia, sotto il nome di Valeria. Da tale comunanza di ruolo sorsero invidie e gelosie, dopo la recita specialmente della Pazzia di Lavinia, in cui l’Antonazzoni fu entusiasticamente applaudita. Ella, col marito e con Domenico Bruni (V.), che pare usasse con lei intimamente, mosse guerra spietata alla Lavinia, la quale fu costretta a impetrar soccorso al protettore della Compagnia D. Giovanni De’ Medici. La Valeria dovette uscirne e fu sostituita dalla Malloni (V.). (Cfr. Antonazzoni Marina).

Avelloni Francesco, detto il Poetino. Metto fra i comici anche il nome di questo scrittóre ben noto, nato a Venezia nel 1756 dal Conte Casimiro, napoletano, e da Angiola Olivati, veneziana, perchè, già vedovo della comica Monti, « che in quell’epoca – scrive Iacopo Ferretti – in cui era di moda recitare il verso tragico cadenzato, come i sonetti si recitavano dai novizii di Parnaso, era una rediviva figlia di Roscio, » fatta {p. 238}società colla insigne comica Marta Colleoni, si diede anche all’arte del recitare, nella quale riuscì mediocremente ; « fu discretissimo – dice lo stesso biografo – e non apparve più sulle scene. » Visse col De Marini, collo Zuccato, col Fabbrichesi, col Vestris e col Blanes, e ne fu poeta. Quest’ultimo lo chiamò al suo letto di morte, perchè lo consigliasse, come vedremo, nel testamento ; ma in mezzo a tanti legati non vi fu un solo scudo lasciato al povero consigliere che fu al morente pietoso di utili ricordi di gratitudine. Anzi il Ferretti aggiunge che egli si fece un peccato di susurrare (invano, s’intende) il proprio nome accompagnato dalle parole « non ti scordar di me. » Scrisse con entusiasmo pel Fortunati, detto Totino, per Ciccio Taddei, e per Vestris…. Abbiamo di lui circa duecento produzioni a stampa, bench’ egli ne componesse oltr’ a seicento. All’amico Iacopo Ferretti dovè se gli ultimi anni della sua vita non furono passati in mezzo agli stenti ; a settant’anni aveva sposato in seconde nozze, per compassione, la vedova d’un Pieri suggeritore. Oggi il nome dell’Avelloni è tornato sui cartelloni a cura di E. Novelli che ne rappresenta con ottima riuscita il Barbiere di Gheldria. (V. Antonio Valeri (Carletta) Di Francesc’ Antonio Avelloni detto « il poetino. » Roma, 1894).

Avelloni-Monti Teresa. Attrice egregia, bolognese, fu moglie di Carlo Monti, prima, poi dell’Avelloni. Toltala il Monti, artista, dalla casa paterna, l’avviò alle scene, in cui diè prove subito delle sue grandi attitudini al teatro. Abbandonato il marito, fu scritturata pel Sant’Angelo di Venezia dall’impresa Lapy ; e se bene dovesse lottare colle attrici di fama già stabilita, la Manzoni e la Gavardina (V.), nondimeno riuscì a trionfare compiutamente. Passò poi nella Compagnia di Pietro Rosa (V.) e in altre ; fu di nuovo col Lapy, fuor di Venezia, poi di nuovo a Venezia nel carnevale del 1779, al Teatro San Casciano, ove fu accolta con ogni favore. La Monti era di persona svelta, vezzosissima di aspetto ; fu così egregia nella commedia e nel dramma, come nella tragedia ; e scritturatasi al Teatro {p. 239}de’Fiorentini di Napoli nell’ ’8o col noto attore Tommaso Grandi, detto Tommasino il Pettinaro, come prima attrice, vi confermò i successi clamorosi che aveva avuti in ogni altro teatro d’Italia. Doventò allora la moglie dell’Avelloni. Passò, non più giovane, a sostener le parti di madre, e morì poi, fuor dell’arte, in Roma, nel 1832, assistita dal vecchio marito e dalla famiglia Ferretti (V. Monti Carlo).

Avogadro Girolamo, trevisano. Recitava le parti di amoroso in Compagnia di second’ordine. Tentò la prova di entrare in Compagnia primaria (V. Bettini Giovanni) e dovette tornarsene a dietro dopo due o tre recite. Lo troviamo nella quaresima del 1820 in Compagnia diretta da Ermeneghildo Maldotti che recitò prima al San Grisostomo di Venezia in unione a una Compagnia di balli, poi sola alla nuova arena Gallo della stessa città. Era una Compagnia colle maschere, e vi avevan parte principale Truffaldino e Brighella.

Azzalli Giuseppe. Fu innamorato di non pochi pregi nella Compagnia di Pietro Rossi, poi in quella della Battaglia e in altre. Al tempo di Fr. Bartoli, il biografo de’comici (1782), era a Napoli tra’ comici lombardi, artista non de’ peggiori.

Azzerboni Antonio (o Azarboni). Nel carnevale del 1743, recitò la parte del ragazzo nel Corsale del Baron Liveri al San Carlo di Napoli. Allo stesso teatro, nel carnevale successivo, fu tra gli attori che recitaron la Contessa del medesimo autore : vi sostenne la parte dell’Ercolino. Lo vediam poi rappresentare un Paggiotto nel Gianfecondo sempre del Liveri. Il suo stipendio mensile fu allora di 3 ducati, secondo una nota pubblicata dal Di Giacomo (op. cit.).

Azzolini Virginia, figlia di un avvocato egregio, nacque a Bassano nel 1770, e fu educata in un collegio di monache del quale era priora una zia. Uscita di convento, ad onta della {p. 240}singolar squisitezza di educazione, si innamorò di un giovine scavezzacollo, il quale, chiestala in moglie e non ottenutala, seppe con tali arti circuirla, che la indusse a fuggir da la casa paterna, e a recarsi con lui a Venezia, ov’egli la sposò, colla certezza di avere, a fatto compiuto, il perdono del padre. Ma così non fu ; chè alle supplicazioni degli sposi, alle affettuose intromissioni degli amici, egli ebbe a dichiarare sua figlia morta per lui. Finito ogni mezzo di sussistenza, dovettero gli sciagurati pensare a procacciarne in qualche modo. Capitato a Venezia un vecchio comico, il quale stava formando una modesta compagnia, scritturò la misera coppia ; e la moglie, giovinetta, dotata di singolar bellezza e di pronto ingegno, salì in brevissimo tempo al grado di prima donna ; per modo che, fattosi il marito a sua volta capocomico, rigenerato materialmente dai non pochi guadagni, e moralmente dall’amore e dalla virtù della sposa, fu richiamato dal suocero, che, perdonato a entrambi, lasciò la figliuola erede di un pingue patrimonio.

[B] §

I COMICI ITALIANI §

[n.p.]

Babet. (V. Visentini Luigia, ecc.).

Babet la Chanteuse. (V. Gherardi Elisabetta).

Bacelli-Zanerini……. (?). Moglie di Agostino Zanerini, comico. Morto lui, si unì in seconde nozze a un Bacelli musicista, autore della partitura del Nuovo maritato, o Gl’Importuni, commedia di Cailhava, rappresentata il settembre del 1770. La Zanerini, assai pingue, esordì alla Commedia Italiana il 21 luglio ’66, colla figlia (V. Zanerini-Bianchi) negli Amori di Arlecchino e di Camilla, commedia in tre atti di Goldoni, e vi fu accettata per le parti di madre. Creò con molto successo la parte di Eleonora nei Tre Gemelli Veneziani di Antonio Mattiucci detto Collalto, rappresentati il 7 dicembre del 1773 ; e abbandonò la Commedia Italiana, alla sua chiusura del 1776.

{p. 244}

Baccherini Anna. Attrice fiorentina che recitava a Venezia le parti di servetta con molto plauso. Di lei non abbiamo altre notizie che queste lasciateci dal Goldoni nelle sue memorie, che riproduco fedelmente per non sciuparle :

…. la mia predilezione per le Cameriere mi fece fissare sulla signora Baccherini, ch’ era stata in quell’ impiego alla sorella di Sacchi sostituita. Quella era una fiorentina bellissima, molto allegra, graziosissima, d’un viso pienotto e rotondo, di pelle bianca, d’occhi neri, di molta vivacità, e d’una pronunzia che rapiva. Non aveva il talento e l’esperienza di quella che avevaia preceduta, ma si vedevano in lei disposizioni felici, e non le mancava che tempo ed esercizio per giugnere alla perfezione. Madama Baccherini era maritata, ed io l’era ancora. Stringemmo insieme amicizia, avendo bisogno l’uno dell’ altro : io lavoravo per la sua gloria, ed essa dissipava le mie malinconie.

Era un costume inveterato fra i Comici italiani, che le Cameriere dessero ogni anno in più volte certe opere che si chiamavano di trasformazioni, come lo Spirito folletto, la Cameriera Maga, ed altre dello stesso genere, nelle quali l’attrice mostrandosi sotto forme differenti cambiava molte volte costume, rappresentava molti personaggi, e parlava diverse lingue.

Fra quaranta o cinquanta Cameriere che potrei nominare, non ve n’eran due che fosser soffribili. O avevano caratteri falsi, o costumi caricati, o linguaggi balbuzienti, od illusioni difettose ; e questo doveva succedere ; perchè, affin ch’una donna sostenga bene tutte queste metamorfosi, converrebbe veramente che avesse in sè quella magìa che nell’opera le si suppone.

La mia bella fiorentina moriva di voglia di far vedere il suo bel visino sotto varie figure. Corressi la sua pazzia, e procurai al tempo istesso di contentarla.

M’ immaginai una Commedia, in cui senza cambiar di linguaggio nè d’abito, potesse sostenere molti caratteri, cosa che non è troppo difficile per una donna, e meno ancora per una donna di spirito.

Questa Commedia aveva per titolo la Donna di garbo. Piacque infinitamente allorchè si lesse, e Madama Baccherini n’era incantata ; ma gli spettacoli a Venezia avvicinavansi al lor fine. La Compagnia doveva andare a Genova per passarvi la Primavera, ed era colà che dovevano la prima volta rappresentarla. Io ancora aveva proposto di andarvi, allorchè cominciassero a recitarla ; ma divenni ad un tratto il giuoco della fortuna.

……………………

…. andrò a Genova…. assisterò alle prove della Donna di garbo ; la Baccherini avrà forse bisogno di me, e sarà molto contenta di rivedermi. Gli allettamenti di quell’attrice vezzosa entravano ancor a parte {p. 245}delle mie premure ; e mi faceva un giorno di festa quello di vederla ad eseguir bene quell’ importante parte nella mia Commedia. Ma oh Cielo ! Il fratello di Madama Baccherini essendo ancora a Venezia, viene da me ; lo veggo addolorato, e senza poter pronunziare parola, mi dà da leggere una lettera venuta da Genova, e sua sorella era morta.

Che fatal colpo per me ! Non era un Amante che piangesse la sua Innamorata ; ma era un Autore che compiangeva la perdita dell’Attrice.

La Baccherini, secondo il necrologio della chiesa di S. Sisto (V. Loehner), morì il 19 maggio 1743, in età di circa 23 anni.

La Donna di garbo fu poi recitata dalla Medebach, e Goldoni che ne vide la rappresentazione a Pisa, ne fu soddisfattissimo. Ad essa egli dovè la sua partenza dalla Toscana e il ritorno a Venezia, scritturato dal Medebach.

La Donna di garbo fu la prima commedia di carattere, dal Goldoni disegnata e intieramente scritta, senza lasciare a comici la libertà di parlare a talento loro, come in quel tempo comunemente accostumavano. (V. Prefaz. Ediz. Pasquali, Ven. 1761).

Bacci Paolo. Di civile famiglia bresciana, vinto dall’amore per l’arte drammatica vi si abbandonò tutto, diventando, circa il 1780, artista amoroso di rari pregi. Fu nella Compagnia di Marta Coleoni e in quella di Antonio Goldoni, dalla quale poi passò col noto artista e capocomico Giacomo Dorati, scritturato per le parti di padre nobile e di tiranno, che sostenne, specie nelle tragedie del Pindemonte e dell’Alfieri, col plauso generale. Sposatosi all’attrice Luigia Miani, n’ ebbe due figliuole, dalle quali fu mantenuto in Brescia sino alla sua morte che accadde nel 1825, quand’egli aveva 67 anni.

La figlia maggiore, Giuseppina, sposata a un Ciabetti, attore mediocre, doventò la prima donna della Compagnia che suo marito formò nel 1835, e, specialmente nel Regno di Napoli, ebbe fama di attrice egregia ; l’altra, l’Elena, si fece conoscere, giovanissima, per buona servetta ; poi sposatasi al noto artista Nicola Medoni, divenne sotto a’suoi ammaestramenti prima donna di molto merito : morì in Genova a soli 35 anni.

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Bacci Dario. Figlio di un impiegato alle poste, nacque in Firenze il 1818. Fu amoroso per vari anni della Compagnia Pisenti e Solmi, poi, nel ’41, di quella condotta e diretta da Camillo Ferri. Entrato nella stessa qualità coll’Amalia Pieri, si unì a lei in società nel 1844, formando una Compagnia ricca di ottimi elementi, di cui era direttore il noto artista Francesco Paladini.

Eccone l’elenco :

Paladini Francesco
Primo attore e padre
Antonio Casigliani
Caratterista
Odoardo Venturini
Altro padre e tiranno
Giuseppe Beltrami
Generico dignitoso
Nicola Pescatori
Alessandro Ferroni
Generici
Amalia Pieri
Prima attrice
Angela Dal Buono Ferroni
Madre nobile e caratteristica
Giuditta Feoli
Amorosa
Clotilde Sacchi-Paladini
Servetta
Carlotta Beltrami
Seconda donna
Caterina Raftopulo
Carolina Pescatori
Elena Cristiani
Carolina Paladini
Generiche
Adele Feoli
Carlotta Raftopulo
Parti ingenue
Dario Bacci
Primo attor giovine
Antonio Zanzi
Amoroso
Francesco Zocchi
Brillante
Giuseppe Feoli
Secondo caratterista
Leonardo Raftopulo
Antonio Biasci
Generici

Facevano parte del repertorio le seguenti produzioni : Il Ventaglio – Un bicchier d’acqua – Trent’anni di vita di un giuocatore – Rosmunda – Le risa della disperazione – Caterina Howard – Giulietta e Romeo – Le Donne di buon umore – Saul – Il diplomatico senza saperlo – Il cieco e lo scultore – Luigi di Valois – Il progetto della strada di ferro, o sia la maniera di far fortuna, ecc.

Staccatosi poi il Bacci dalla società, e divenuto capocomico solo, si recò, dopo varie vicende, in Alessandria d’Egitto e al Cairo, ove si crede morisse poverissimo….

{p. 247}

Bachino Gio. Maria, comico mantovano, il quale recitava nel 1620 sotto nome di Fortunio (assunto la prima volta da Rinaldo Petignoni de’ Gelosi) in una modesta Compagnia nei contorni di Cento, Modena, Finale o Carpi, nella quale era anche, non sappiamo se come semplice attore o capocomico, Flaminio, il celebre Gio. Paolo Fabbri, già vecchio, e probabilmente dalla sua professione ridotto a male. Pare che il Bachino fosse un innamorato co’ fiocchi, certo non ispregevole, se Pier Maria Cecchini lo proponeva per la sua compagnia al Duca di Mantova, e lo riteneva se non eguale, almeno di poco inferiore al grande Adriano, il Valerini (V. D’Ancona, Lettere di Comici italiani, ecc.). Il Bachino aveva la moglie che recitava le parti di Silvia, e che il Cecchini riteneva, per sentito dire, non ingrata. Questi, assieme a un Francesco bolognese, magnifico, a sua moglie Barzelletta, fantesca, e a un Gio. Serio Contrallo napoletano, furon proposti al Duca in sostituzione degli altri di Compagnia : gli Andreini, i Ricci, Garavini, Soldano, ecc., ecc., che per un po’ di pace dovevano andarsene. Non sapendo il Cecchini dove dar di capo, si volgeva alle Compagnie di poco conto per veder di stanare qualche buona promessa, e molto a ragione egli scriveva :

« Questi forniranno il n.°, et seràno di gusto, per quello che può essere in questo tempo, et forsi chi sa ? serà questa una prova per vedere se in conseguenza di tanti ciarlatani che sonno riusciti, vi potessero ancor capir questi, quali stano tra il comico et lo ciarlatano. »

Del resto al Cecchini poco premeva che il Duca accettasse la proposta dei comici. Quando tutti, tutti mancassero, concludeva, non rimarrà S. A. S. senza gusto, nè la città di Mantova senza comedie nove et ridicole, poichè qui vi sonno :

Magnifico : Piermaria.
Dottor : Piermaria.
Frittellino : Piermaria.
Pipe Fiorentino : Piermaria.
{p. 248}

Il che fa rimettere alla memoria quel tal comico che prima della distribuzione di una commedia soleva dire : « se ghe xe un bel primo attor, lo fazo mi ; se ghe xe un bel caratterista, lo fazo mi ; se ghe xe un bel brillante, lo fazo mi ; se ghe xe un sbrufarisi (parte inconcludente) ti lo farà ti !!! »

Bagliani Pietro, bolognese. Recitava intorno al 1623, nella Compagnia dei Comici Uniti sotto la maschera di Dottor Graziano Forbizone da Francolino. Abbiamo di lui una commedia intitolata La Pazzia, stampata a Bologna da Teodoro e Clemente Ferroni nel 1624.

Non sappiamo se l’operetta pubblicata col nome di Giulio Cesare Croce, Indice universale – della Libraria – o Studio del celebratiss. – Arcidottore Gratian Furbson de Frā – culin, ecc. (Bologna, erede dei Cocchi s. d.), appartenga al Croce davvero, o al nostro Bagliani ; tanto più che si trovano anche sotto nome {p. 249}del Croce le Conclusioni del Dottor Partesana da Francolin, che sappiamo, come vedremo, essere di Ludovico Bianchi da Bologna (V.).

Bagnoli-Galletti Adele. (V. Galletti).

Bajardi Antonella. Fu secondo il Sand (op. cit.) tra le attrici che recitarono dal 1576 al 1604 le parti di servetta nella Compagnia de’Gelosi. La Bajardi si chiamò in commedia Vittoria. (V. Areliari Teodora). Anche la celebre Piissimi fu nota col nome di Vittoria ; che fu però il suo nome di battesimo : in teatro ebbe quello di Fioretta.

Trovo una sola volta negli Scenari dello Scala il personaggio di Vittoria. È nella commedia Il Ritratto, e vi rappresenta la prima attrice di una compagnia di comici che recita in Parma. Il suo carattere però non è quel della serva ma della seconda donna. Il che concorderebbe con quel che della Bajardi lasciò scritto Fr. Bartoli al nome di Cantella Bajardi Vittoria :

Questa Comica fioriva intorno al 1620. Recitò in Parma una rappresentazione spirituale d’Antonio Maria Prati intitolata : « La Vittoria migliorata, » e vi sostenne la parte della Donna protagonista. Fecela ella medesima imprimere in quella Città per Anteo Viotti, e dedicolla alla Serenissima Sua protettrice la Sig. Donna Maura Lucenia Farnese, e ciò fece in data delli 18 Febbraio 1623. Null’altro sappiamo di questa Comica per poter soggiungere di lei una più lunga, ed accertata notizia, e solo abbiamo in sua lode un sonetto, tolto alle Gemme liriche, libro citato altra volta da noi, ed è il seguente :

O splendori, o cinabri, o fiamme belle,
chiome, bocca, zaffiri, in cui si giace
il colore, il rossore, il bel che piace
degli ori, dei coralli, e delle stelle.
Laccio ed arco ed ardor dell’ alme ancelle
Tu se’ben ora, o crine, o labbro, o face ;
l’uno annoda, quel punge, e l’altra sface
freddo sen, freddo cor, voglie rubelle.
{p. 250}Or per te Donna, e Sole, e Dea, che folce
ogni effetto, ogni affetto, ogni memoria
è il mirare, è il penare, è il morir dolce.
Cosi già tieni o pregio, o fregio, o gloria
nel bel viso, che alletta, incende, e molce,
le battaglie, i prigioni, e la vittoria.

Secondo il Sand, avrebbe dunque la Bajardi mutato il ruolo di servetta in quel di donna seria ? O forse, pervenuta a maggior grado di arte, si diede più tardi alla rappresentazione de’vari caratteri ?

Baldarini Giacomo Antonio. Stando a quel che ne dice Francesco Bartoli, dopo di aver recitato per lungo tempo nella Compagnia di Domenico Bassi (1750), si diede al dolce far niente, stabilendosi in Venezia, vivendo alle spalle di un pubblico non sempre il più edificato dalle sue buffonate. Improvvisatore di versi, che, grazie a Dio, non son giunti sino a noi, se giudichiamo dal distico che ne dà il Bartoli e che riportiamo qui in fondo, soleva con una sfacciataggine singolare intromettersi nelle altrui conversazioni, sedersi alle altrui tavole, ciarlataneggiando, declamando, talvolta con grande sollazzo dei commensali, tal altra con gran loro rammarico. Nel secondo caso, che accadeva non di rado, era costretto dai moti nervosi o di mal celata insofferenza, o di aperta ribellione, batter la ritirata : e questo egli faceva senza verun atto di risentimento ; anzi inchinandosi a più riprese con esagerate cerimonie. Era di una imperturbabilità glaciale in ogni evento : un po’ per elezione, un po’ fors’anco per incapacità, egli rappresentava il vero tipo del comico a spasso, guitteggiando in Venezia stoicamente e filosoficamente, e appostando i comici, ai quali soleva declamare in aria di eroe da teatro :

nacqui in Vicenza ; fui allevato in Crema ;
il gran Balda son io ; sappilo e trema.

E avran tremato in fatti ; poichè, per liberarsi dal seccatore, avran dovuto metter mano alla tasca.

{p. 251}

Baldi Francesco, detto Ciccio, attore napoletano, sosteneva con molta grazia la maschera del Pulcinella. Apprese l’arte da Andrea Calcese (V.) detto Ciuccio, perfezionatore del Pulcinella dopo Silvio Fiorillo (V.), più noto sotto il nome di Capitan Matamoros, e l’insegnò poi a sua volta a Mattia Barra e Michele Fracanzano (V.). Fiorì nel 1660, circa, e fu molto applaudito a Napoli. Dal Perucci (Arte rappresentativa, Parte II, p. 333) apprendiamo, come nè il Baldi, nè il Calcese fosser comici di molta istruzione, ma d’ingegno naturale prontissimo. Ecco le sue parole : « Graziosissimo nelle sciocchezze facendo da Policinella, ho conosciuto un Francesco Baldi imitatore d’Andrea Calcese detto Ciuccio, che mi dicono essere stato impastato di grazia ; e pur costoro non sapeano che fusse rettorica, nè arte di facezie, nè sali per arte ; ma per natura. »

Baldigara Teresa.Seconda donna il 1819-20 della Compagnia di Gaetano Perotti, poi primattrice supplementare con l’Assunta Perotti. Era amoroso della Compagnia suo marito Paolo. La Baldigara, specialmente nelle così dette parti di forza, fu artista non delle peggiori ; a ogni modo, dava belle speranze di sè, quando la morte la colse nel 1824. Entrando da mano dritta nella Chiesa dei frati conventuali a Bagnacavallo, in una cappella vi è la sua sepoltura ; e scolpita sul marmo questa quartina :

col figlio suo fu tolta
da cruda morte amara
Teresa Baldigara
sul fiore dell’età.

Baldina (Rotari Virginia). (V. Andreini Lidia).

Balduino Emilio. Fu tra’ comici di passaggio a Mantova, nel movimento della popolazione per gli anni 1590-91-92. Il Bertolotti nell’opera sua « Musici alla Corte dei Gonzaga in Mantova dal secolo xv al xviii » (Milano, Ricordi), così lo cita : « 1592, 1 gennaio. Al Gallo vi era Emilio Balduino, da Parma, comico, con spada.

{p. 252}

Balestri Giovanni. Apparteneva alla Compagnia degli Uniti, non so in che qualità, come si rileva da una Supplica al Senato di Genova, pubblicata da A. Neri nel Fanfulla della Domenica (4 aprile 1886), per avere licenza di recitare colà per tre mesi le loro honeste Comedie, sottoscritta dalla Piissimi, dal Pilastri, dallo Zenari, dal Pelesini, dal Capitan Cardone, dal Fabri, dal Salimbeni, dal Panzanini, e dal nostro che firmò : Io Giovanni Balestri affermo ut supra. – Il testo della supplica, dice il Neri, è di mano di Gio. Paolo Fabbri, il più letterato dei compagni ; ma il capocomico, probabilmente, era Girolamo Salimbeni. La licenza fu accordata con decreto del 12 ottobre.

Balletti…… ? Comica egregia che fioriva – dice Fr. Bartoli – circa il 1725, recitando nella Comiche Compagnie di Venezia con molto credito nello spiritoso carattere della Serva.

Arrivata a una certa età, e messosi assieme coll’arte sua un po’ di danaro, abbandonò le scene, stabilendosi a Mantova, dove comprò una casa presso il teatro, e propriamente quella vicino alla Torre del Zucchero, la quale, ben ammobigliata, affittava poi a’ comici che si recavan colà a far la stagione. Quivi, col mezzo di Medebach, fu ospitato Carlo Goldoni, che, sul proposito, lasciò scritto nelle sue memorie : Questa era una vecchia comica, che sotto il nome di Fravoletta aveva esercitato eccellentemente l’impiego di Cameriera, che godeva nel suo ritiro d’un’agiatezza molto aggradevole, e che ancor nell’età di 85 anni conservava alcun resto di sua bellezza, ed una lucidezza di spirito bastantemente viva ed amena.

Pare che la Fravoletta o Fragoletta (nomignolo che le venne da un neo che sembrava una fragola) non seguisse i suoi a Parigi, ove furon chiamati nel 1711 per la Compagnia del Reggente, trattenuta in Italia da un amoretto con Gaetano Giuseppe Casanova, il futuro marito della Zanetta. (Cfr. Loehner).

Balletti Giuseppe Antonio. Figlio della precedente. Cominciò col recitar le parti di secondo amoroso nella Compagnia {p. 253}condotta in Francia da Luigi Andrea Riccoboni il 1716 per incarico del Duca d’Orléans ; nel 1757 si diede a sostener parti di maggiore importanza con piena soddisfazione del pubblico, il quale vedeva in lui non solamente un artista coscienzioso, ma un uomo di onestà a tutta prova, come è dimostrato dalla seguente quartina :

Mario (era il suo nome teatrale) que chacun renomme
Pour un acteur ingénieux,
Le rôle que tu fais le mieux,
C’est le rôle d’un galant homme.

Aveva sposato alla fine del giugno del 1720, nella chiesa di S. Germano di Drancy-le-Grand, presso Parigi, una sua compagna d’arte, la Giovanna Benozzi, artista rinomatissima sotto il nome di Silvia, dalla quale ebbe quattro figli, di cui uno solo, Antonio Stefano, seguì l’arte de’genitori.

Il Campardon riporta, oltre a una querela contro Silvia e il padre Benozzi, e l’atto di matrimonio di lei col Balletti, un atto d’usciere, col quale a istanza di certo Maziau, suo creditore per 230 lire e 11 soldi, dovevano essere sequestrati e asportati i mobili delle due stanze ch’egli abitava in via Tire-Boudin. L’usciere fu accolto da Silvia con invettive, e il Balletti, uscito ipso facto, tornò con certo Domenico Morin, tappezziere, il quale dichiarò formalmente esser lui il proprietario assoluto de’ mobili e delle suppellettili ivi esistenti, pei quali egli riceveva un prezzo di nolo in lire 400 annue. Opposizioni e reclami riconosciuti mendicati al solo scopo di eludere il pagamento del debito : e però fu continuato l’inventario dei mobili già cominciato, ecc. ecc…..

Giuseppe Antonio Balletti nacque a Monaco verso il 1692, e morì a Parigi nei 1762.

Balletti-Benozzi Rosa Giovanna, e per vezzeggiativo Zanetta. Moglie del precedente, sorella di Bonaventura Benozzi detto Il Dottore, nacque a Tolosa verso il 1701 da {p. 254}famiglia di comici italiani girovaghi e di non molto grido. Nel 1716 entrò nella nuova Compagnia italiana che si recò allora a recitare a Parigi, sostenendovi le parti di seconda amorosa, col nome di Silvia, tenendo per più di quarant’anni il primo posto a la {p. 255}Commedia Italiana. In una favola intitolata Proteo, un poeta anonimo tessè un ampio elogio di lei, nel 1725, al colmo della sua rinomanza ; elogio che fu poi pubblicato nel Mercurio di Francia, e che troviam riportato nel Campardon. Nelle commedie di Marivaux più specialmente ebbe campo di mostrare tutte le sue doti artistiche, e si vuole che anche a cinquant’anni, identificandosi alla perfezione col personaggio ch’ella rappresentava, recitasse col brio, la finezza, l’illusione della prima giovinezza. Un amico di suo figlio, il Casanova, che la conobbe nel 1751, ne fece un ritratto evidente con pochi tratti di penna : dopo di avere parlato del fisico (non era nè bella, nè brutta, ma aveva un non so che, che saltava subito agli occhi, e affascinava), dopo di avere parlato delle sue maniere gentili, dello spirito fine e abbondante, concludeva :

…. non s’è potuto trovare sin qui un’attrice che ne prenda il posto, poichè è poco men che impossibile trovare un’attrice la quale riunisca in sè tutte le doti ond’era ornata la Silvia nell’arte difficile del teatro : azione, voce, spìrito, fisonomia, portamento, e una grande conoscenza del cuore umano. Tutto in lei era natura, e l’arte che la perfezionava era sempre nascosta.

Di lei si cantò :

Toi que les Grâces ont formée,
sois sûre, aimable Silvia,
que tu seras toujours aimée
tant que le bon goût durera.

Alle quali vivissime lodi l’incontentabile e forte Grimm contrapponeva come una stonatura sguajata parole del più acre disprezzo, non riconoscendo nella grande artista una sola delle doti dagli altri decantate.

Giovanna Balletti si sposò il 20 giugno 1720, e morì il il 16 settembre 1758, in via del Petit-Lion. Fu sotterrata nella chiesa del San Salvatore, sua parrocchia. Al proposito della Compagnia, detta La nuova Commedia Italiana, o Compagnia del Reggente, V. Riccoboni Luigi. « I caratteri di Silvia-dice il Sand – erano svariatissimi. Nelle commedie del Marivaux, come {p. 257}nel Jeu de l’amour et du hasard, essa è padrona e cameriera ; in altre commedie è semplicemente cameriera, o talvolta semplice contadina ingenua, o innocente pastorella, come in Arlequin poli par l’amour, la prima commedia che Marivaux diede agl’ Italiani. »

A mostrare in che concetto fosse tenuta la Balletti, basti dare uno sguardo ai vari quadri di Watteau, Lancret, Pater, ispirati dalla Commedia Italiana, nei quali la Silvia è quasi sempre una delle eroine.

Ecco la descrizione della Testata (Lettera B) che ne dà Georges Lafenestre nel Musée National du Louvre (Ed. Quantin) :

Nel bel mezzo, in un paesaggio, Gille, di faccia, a diritta ; Colombina, a tre quarti, vòlta a sinistra, mascherata, in costume di Arlecchina, bella ; e accanto a lei il dottore col suo costume nero. A sinistra Silvia con veste color di rosa e bustina bleu a maniche gialle, vista di profilo, che tien colle due mani il grembiale bianco, tra Arlecchino che reca la maschera e Scapino che scoppia dalle risa.

Morta la povera Silvia, se ne fece l’orazione funebre degna di una donna religiosa, pia, virtuosa. Il Casanova, che fu presente alla sua morte, scrive :

La natura ha rapito a questa donna unica dieci anni di vita. Essa divenne tisica all’età di sessant’anni, dieci anni dopo che la conobbi. Il clima di Parigi è sovente fatale alle attrici italiane. Due anni prima della sua morte, io l’ ho veduta recitar la parte di Marianna nella commedia di Marivaux, e nonostante il suo stato e la sua età, l’illusione fu perfetta. Morì in mia presenza, tenendo sua figlia tra le braccia, e dandole i suoi ultimi avvertimenti cinque minuti prima di spirare. Fu onorevolmente sepolta al S. Salvatore, col pieno assentimento del parroco, il quale, degna persona, allontanato, per intolleranza anticristiana, dalla maggior parte de’ suoi confratelli, diceva che il mestiere di comica non le aveva impedito di essere cristiana, e che la terra era la nostra madre comune, come Gesù Cristo il Salvatore di tutto il mondo.

Balletti Antonio Stefano. Figlio dei precedenti, nacque a Parigi il maggio del 1724. Dopo avere fatto gli studi classici, e avere avuto lezioni da sua madre, dallo zio Riccoboni (Lelio), e dalla zia Elena Balletti (Flaminia), si diede all’arte il 1 febbraio del 1742, sostenendo di punto in bianco le parti di primo amoroso nelle commedie così francesi, come italiane, poichè parlava assai bene e l’una e l’altra lingua, delle quali {p. 258}possedeva tutte le finezze. Ebbe dal pubblico festose accoglienze ; ma, intollerante e nervoso all’eccesso, chiese e ottenne di lasciar la Compagnia : e si recò a recitare in Italia. Tornato nel 1750 a Parigi, rientrò nella Commedia Italiana, ove rimase fino al 15 marzo 1769, epoca del suo definitivo riposo, che ottenne con una pensione di 1500 lire. Dieci anni avanti, recitando nella Camille Magicienne, commedia a soggetto di Carlo Antonio Veronese, fu accidentalmente ferito sulla scena, e non si riebbe più perfettamente. Da quando ebbe abbandonato il teatro, sino al giorno della sua morte, egli, secondo il Casanova, passò il suo tempo in operazioni cabalistiche e in ricercar la pietra filosofale.

Di lui s’era scritto :

Balletti, lorsque je te vois
j’entends aussitôt le parterre
se récrier tout d’une voix :
Son talent est héréditaire.

Antonio Stefano Balletti sposò una vezzosissima comparsa della Commedia-Italiana, e morì in Parigi il lunedì 9 marzo del 1789.

Oltre alle presenti notizie che desumo dal Campardon, riporterò l’aneddoto, concernente la ferita fatta in scena al nostro artista.

Dichiarazione fatta dal chirurgo incaricato di medicar la ferita di Antonio Stefano Balletti, fattagli sul Teatro della Commedia-Italiana, mentre recitava.

L’anno 1759, la domenica 16 settembre, verso le otto del mattino, è comparso da noi, Michele Martino Grimperel, il signor Onorato Gabou, dottore in chirurgia, dimorante in via Mauconseil, parrocchia di St. Eustacchio ; il quale ci ha detto che giovedì passato, verso le nove di sera, fu chiamato dal signor Balletti figlio, comico italiano, ch’egli trovò nel suo letto, per medicargli la ferita prodotta da un colpo di fuoco : che, avendolo visitato, trovò una piaga non lieve nella carne, alla parte esterna della coscia destra, che egli medicò, e che gli parve causata da una palla, che il Balletti disse di aver ricevuta alla Commedia, mentre recitava nella Camille Magicienne, in cui si sparan colpi di fucile contro una torre, ove il signor Balletti stava rinchiuso con altri comici : che si presume esser causa della ferita uno dei soldati, il quale, sostenendo una parte nella commedia, e dovendo sparare a polvere soltanto, prese nell’intermezzo, inavvertitamente, il fucile carico a palla del soldato in fazione sul palcoscenico, anzichè quello che doveva {p. 259}esser carico a sola polvere ; che se il detto artista non venne subito a far la sua dichiarazione, si fu perchè egli credette non valerne la pena, essendo il fatto accaduto in pubblico, e, com’era da credersi, per semplice inavvertenza o errore ; non per cattiva volontà.

Firmato : Gabou.
(Archivi nazionali).

Al proposito del quale aneddoto, V. Colombari Antonio.

Troviamo nel Goldoni che il Balletti prima di darsi all’arte scenica, era stato ballerino : nel 1748 fu maestro di ballo a Milano, poi a Mantova, poi a Venezia.

Balletti-Riccoboni Elena. Sorella di Giuseppe Antonio Balletti, nacque a Ferrara nel 1686, ed esordì alla Commedia Italiana il 18 maggio 1716 nella Compagnia detta del Reggente, formata da suo marito Luigi Riccoboni detto Lelio, sostenendovi le prime amorose, le servette, e le parti a travestimenti, sotto il nome di Flaminia. Era di figura slanciata e graziosa, e di fisionomia simpatica ; ma aveva la voce un po’aspra. Il che non tolse ch’ella fosse un’attrice delle meglio del teatro italiano, alla quale fu dedicata la seguente quartina :

Que d’esprit, que d’intelligence,
dans le jeu de Flaminia,
peu de Comédiens en France
ont autant de goût qu’elle en a.

Elena Balletti-Riccoboni possedeva un’istruzione davvero superiore : conosceva perfettamente la lingua latina, la greca, la francese, la spagnuola, ed era socia di varie accademie letterarie d’Italia, compresa l’Arcadia, nella quale prese il nome di Mirtinda Parasside. Scrisse con de Lisle, e fece rappresentare con non molto successo a la Commedia Italiana, nel 1726 e 1729, Il Naufragio e Abdilly, Re di Granata. Abbandonò il teatro col marito nel 1729 con una pensione di 1000 lire, per rientrarvi poi il 10 aprile 1731, con parte intiera, a condizione di rinunciare alla pensione, che non le fu restituita fuorchè il 29 marzo 1752, epoca del suo definitivo riposo.

Tornata di Francia in Italia, fu applauditissima specialmente nella rappresentazione di alcune tragedie esumate dal {p. 260}marito, come la Sofonisba del Trissino, la Semiramide del Manfredi, ed altre ; fu grande nella Ifigenia in Tauride di Pier Iacopo Martelli, e nell’ Artaserse di Giulio Agosti ; e si vuole avesse ella il vanto di recitare la prima la Merope di Scipione Maffei, nel 1712. Francesco Bartoli dà invece la data del 1713, e fa morire la Balletti verso il 1730, mentre sappiamo essere morta a Parigi il 29 dicembre del 1771, ed essere stata sepolta il domani nella cripta della Cappella della Vergine nella Chiesa del San Salvatore.

Dal suo matrimonio col Riccoboni nacque un figlio, Anton-Francesco Valentino, detto Lelio in Commedia, come suo padre.

Tutti e tre furono naturalizzati francesi, con atto, dato a Meudon, il mese di giugno dell’anno di grazia 1723, ottavo del Regno di Luigi, per grazia di Dio, re di Francia e di Navarra.

L’Ademollo (Una famiglia di comici italiani) pubblica ancora alcune poesie di lei che sono nella raccolta edita a Venezia nel 1726 dalla Bergalli, moglie di Gaspare Gozzi, senza data, nè altre indicazioni. Sebbene all’Ademollo paja di maggior pregio quello di Addio a Venezia, io riporto qui il secondo de’ sonetti scritti prima di sposarsi e di darsi alle scene.

Un pensiero talor alto mi mena
a cercar di virtude il divin raggio,
poi tentando salir l’alto viaggio,
se ben pronto è il desir, manca la lena.
Quinci mentre il timor le forze affrena
per voi drappel canoro illustre e saggio
tanto rinasce in me nobil coraggio,
che del soverchio ardir sovvienmi appena.
Sulle vostre orme il mio pensiero intento
segue l’ardor che mi sospinge e fiede,
e mi riempie il cor d’alto ardimento.
E per l’ampio cammin cosi già crede
di gir spiegando in cento carmi e cento
quanto di gloria in voi splender si vede.
{p. 261}

Al proposito del Maffei e della sua Merope, il Pindemonte scrisse che a invaghirlo del coturno ebbe parte una comica illustre, Elena Balletti. Molto la pregiava Scipione, che un argomento scelse in bello studio per lei, ecc. ecc. Si volle da alcuno che tra il Maffei e la Flaminia fosse una corrente di simpatia, rafforzando l’opinione nel fatto che il Maffei seguitasse la Compagnia, intervenendo in molte città alle recite della sua Merope. Nè io sarei alieno dal crederlo ; parendo omai accertato che le grazie della Flaminia suscitasser tali discordie tra il Maffei e l’abate Conti e Pier Iacopo Martelli, da invogliare quest’ultimo a scrivere il Femia, acerbissima satira, in versi sciolti e divisa in cinque atti, della quale sono interlocutori Mercurio, Fama, Radamanto, Anima di Mirtilo (Mirtilo Dianidio fu il nome arcade dello stesso Martelli), Ombra di Bione (il Conti), Ombra di Femia (anagramma di Mafei) e Cori. Visto il baccano che quella satira generò, l’autore che ne aveva fatti tirare soli 100 esemplari, la diede alle fiamme : ma sei ne furon già sparsi antecedentemente, a insaputa dell’autore, in Italia e all’estero. In proposito del valore della Riccoboni, e del seguirla che faceva il Maffei di città in città, assistendo alle rappresentazioni della Merope, la Fama (atto secondo, scena I) a Radamanto, che, dopo la descrizione chiara e viva da lei fatta della tragedia, aveva detto :

mentre Femia m’accusi, io ben m’avveggio,
che nelle accuse tue l’amor traluce,
perchè se tu l’odiassi, i bei colori
negati avresti al tragico racconto…,

risponde :

Facciol perchè l’ingrato entro il mio amore
specchi sua colpa, e sè convinto accusi.
Ben quaranta fiate al popol denso
sua recitata favola non spiacque :
parte n’ebbe suo merto, io parte, e parte
v’ebbe una sua già favorita attrice,
che colle finte lagrime le vere
sapea svegliar di chi l’udìa ne’ lumi :
{p. 262}ma nè per questo il saziò sua lode.
Fido seguìa la sua Comica errante
per quanta è Grecia, e non l’ Egeo spumoso,
non l’ Ellesponto il suo cammin ritenne.
Alle recite sue plaudente assiso
col lumicin su l’esemplar de l’opra
quà invitava coi guardi e là coi cenni,
spettatore e spettacolo, gli evviva.

A quel sua già favorita attrice, il Maffei, forse punto sul vivo, diede in ismanie, tanto che il Martelli nella sua lettera di pentimento, scrisse :

…. tolga Dio, che io abbia nè meno per ombra avuta questa intenzione. So, e ne ho prove incontravertibili l’onestà sua, e l’onestà di Flaminia, nè una parzialità nata da vederla a meraviglia rappresentare, deve a mal costume imputarsi ; dichiarandomi io, che senza che altri dovesse pensar male nè di me, nè di Flaminia, parlando di cose mie, dal titolo istesso non mi sarei astenuto ; imperciocchè tre opere mie ha questa pudica e mirabil donna (per quel che ascolto) leggiadramente rappresentate……..

…. Che poi seguitasse la Compagnia di quei comici in questo senso, cioè che intervenisse in varie città d’Italia alle recite della sua Merope, è cosa assai nota, e della quale ho in mano le testimonianze e le prove.

Come chiusura dell’articolo, do l’ultima parte della lettera che la Flaminia scriveva all’abate Conti ; interessantissima, perchè concernente il modo di recitare la tragedia dei francesi al paragone di quello degl’italiani :

M. Baron mi ha detto la prima volta e la sola, che ho avuta seco conversazione, ch’egli aveva presa quella maniera di declamare senza scostarsi dalla natura, dopo che aveva sentita la Truppa Italiana, che, già sono quattr’anni, è ritornata in Parigi. Grande onore davvero per questi Italiani Comici, e tanto più grande, in quanto che non vi è alcuno di noi che lo meriti. Per creder vero, io tengo ch’egli l’abbi presa dalla sua esperienza, e dallo spirito suo, che sopra i difetti altrui ha saputo conoscere il vero ; ma pure quand’anche fosse così, e non un suo complimento, non ha egli potuto vedere la natura del recitare de’ Comici Italiani che nella Commedia ; mentre le Tragicommedie di Sansone e della Vita è un sogno, non sono tragedie ; ed è ben diversa da quella la maniera nostra nel recitare Andromaca, Ifigenia, Mitridate, Semiramide, Oreste, ecc., e le altre francesi ed italiane tragedie che eravamo accostumati di recitare, e che ora lasciamo da parte. Merope stessa, che abbiamo pur data una volta a Parigi, non gli può aver rappresentata l’idea della natura tragica italiana, essendo essa una di quelle Tragedie nelle quali, essendo miste di diversi gradi di persone, può discendersi ad una più familiare natura. Bramerei bene di rappresentarne una con l’assistenza di questo gran Comico, per sentire dal suo giudizio, se trovasse la nostra maniera plausibile, e per disingannarci infine se i Comici Italiani senza declamare possino recitar tragedie. Per altro non ho bisogno di sentirlo nella Commedia, non mettendo in dubbio la sua eccellenza. In quella parte in cui ho trovato qualche {p. 263}scrupolo per la natura tragica, ho conosciuto che nella comica giungerà al colmo della perfezione. Concludo il mio discorso coll’assicurarla, che se la Truppa Francese, ed ogni altro Comico di qualunque Nazione si sia, vorrà farsi un esemplare di questo grand’uomo, e cercar d’imitarlo, arriverà a quel segno, ove al giorno d’oggi alcuno Attore è ancor giunto. Per la Truppa Francese non lo dispero : la maniera da loro finora usata nella Tragedia tanto lontana dal vero e dall’immaginabile, accostandosi al vero di M. Baron, non potrà tanto imitarlo che discendino al di lui familiare, e se una volta potrà farsi un misto della tragica ed inverisimile dignità francese, con un poco di vero e di natura, felici gli spettatori che lo ascolteranno.

Baron (Michel Boyron) uno dei più forti, se non il più forte artista della Francia, nacque a Parigi l’ottobre del 1653, e vi morì il 22 dicembre del 1729.

Baraccani Eugenia. Figlia di Angiolina Baraccani (amorosa ben promettente in Compagnia di Paolo Belli Blanes, poi prima donna mediocre in Compagnie di poco conto) fu amorosa in Compagnia Moncalvo e prima donna in quella del brillante De-Rossi. Formata compagnia in società con Antonio Colomberti, potè mostrare i suoi pregi non comuni, interpretando mirabilmente i caratteri più disparati della tragedia, della commedia, e pur della farsa. Più tardi, nel ’63, essendo seconda donna in Compagnia di Luigi Domeniconi, supplì con ottima riuscita al Teatro Re di Milano la prima donna Carolina Civili, ammalata. Sposa a un Giustiniano Mozzi, primo amoroso,n’ebbe due figli : uno maschio, il rinomato tenore, e una femmina, attrice di qualche pregio per le parti di prima donna giovine, colla quale essa fu in America nella Compagnia di Tommaso Salvini. L’Eugenia Baraccani morì a Lecce, non tocchi ancora i sessant’anni.

Barach Doimo. Conosciuto in arte col nome di Rodolfo Barac, nacque a Spalatro in Dalmazia circa il 1821. Attratto dalla vita dell’arte, abbandonò paese e impiego per entrare in non so qual compagnia, come suggeritore ; ma le seduzioni della scena lo avvinsero di modo che, lasciata la modesta buca, diventò attore, dedicandosi alle parti di padre e tiranno, nelle quali, in quella di tiranno specialmente, fu acclamatissimo. Militò come {p. 264}artista e come capo-socio in varie compagnie di secondo ordine, ma assai pregiate, fra le quali, nel 1854-1855, quella portante la ditta Barac, Andreani e Gattinelli. Nel ’59 si stabilì in Milano, traendo la vita or come antiquario, or come maestro di declamazione, or come impresario.

Fu amato e stimato da tutti, e da tutti compianto, allorchè, colpito sul principio del ’63 da male improvviso, lasciò la vita a soli 42 anni.

Barach Fernandez Maria. Figlia del precedente e di Nicoletta Stipich Nefer di Spalatro, nacque a Zara, ove si trovava il padre suggeritore. Quand’egli lasciò l’arte, chiamò a sè la piccola Maria per metterla in un collegio di Milano : ma, lui morto, le angustie di famiglia le fecer troncare gli studî e la sbalzaron su le scene a soli 13 anni. Esordì a Milano sul finire del ’63 con Cesare Marchi nel teatro della Stadera ; e nonostante un fisico non de’più eleganti, era piccola e grassa, fece subito buona prova, dando speranza di forti e immediati progressi. Infatti un ferreo volere accoppiato a un’attitudine all’arte ben accentata, l’alzò dopo solo due anni al grado di amorosa in compagnia di Carbonin e in quella assai buona di Arcelli, e di prima donna assoluta in quella di un certo Tognotti. Ma se l’arte le arrise dal suo inizio, non le arrise fortuna materialmente : chè, sbalzata di compagnia in compagnia di varia specie e non certo delle migliori, trascinata di paesucolo in paesucolo, ebbe a patire ogni sorta di peripezie, sin chè, nel ’70, scritturatasi come prima donna assoluta con Achille Dondini, cominciò la sua vita nuova, che fu vita dell’arte propriamente detta. Passò dalla Compagnia Dondini in quelle di Cesare Vitaliani, di Lorenzo Calamai, delle sorelle Vestri, di Alessandro Salvini, di Carlo Lollio, di Enrico Dominici e Cavara, coi quali ultimi si recò a Lisbona. Sposatasi nel 1881 a un portoghese, lasciò il teatro per darsi alle gioie della famiglia…. Ma fu momento di transizione : chè, dopo sette anni, le tavole del palcoscenico l’attrassero di nuovo, ed essa piena ancora di entusiasmo, di vigore, di gioventù, di fede, {p. 265}vi si abbandonò ciecamente. Fu col Palamidessi e col Paladini prima, poi col Marinoni in Alessandria di Egitto, prima donna a vicenda con Teresina Mariani. Lasciò nel’ 91 il ruolo di prima donna assoluta per darsi a quello di madre, scritturata con Andrea Maggi prima, poi con Giuseppe Pietriboni, con Ernesto Rossi e con Gustavo Salvini, col quale si trova tuttavia.

È stata Maria Barach artista geniale, piena di slancio, popolarissima. La mancanza di una figura rispondente alle esigenze dell’estetica teatrale, fu in larga scala compensata da una voce potente e melodiosa. A Maria Barach mancò forse quella guida che altre artiste modificò e migliorò, togliendo loro tutte le angolosità che procedono più specialmente da esuberanza di mezzi e da soverchia libertà di azione…. ; ma non le mancarono certo nè applausi di pubblico, nè encomii di giornale.

Barbarizza Concordia. Comica veneziana, la quale fiorì intorno al 1590, e della quale non sappiamo altro, fuorchè l’ 11 dicembre di quell’anno, di passaggio per Mantova, fu alloggiata con un suo ragazzo, Girardino, e cogli altri comici Messer Guido Nolfi da Fano e Messer Leandro de Pilastri (V.), presso M. Cesare Galassi da Fano.

Barbetta Alessandro e Figlio. (V. Giovan Maria Romano).

Barbieri Niccolò. Più noto sotto il nome di Beltrame, da Milano, si recò nel 1600 a Parigi con Flaminio Scala e Isabella Andreini, al servizio di Enrico IV. Scioltasi la Compagnia dei Gelosi, Beltrame, ripartito per l’ Italia, entrò in quella dei Fedeli. Nel 1613 tornò a Parigi con G. B. Andreini, e vi restò fino al 1618. Vi tornò ancora nel 1623 ; e ancora, nel 1625, se ne tornò in Italia, salendo in grande rinomanza non solamente come attore e capocomico, ma anche come scrittore. {p. 266}Fu uomo piissimo ; e dice Francesco Bartoli che a’compagni suoi

inculcava con tutto il zelo d’essere modesti negli atti e nelle parole, e se talvolta sentiva alcuno oltrepassar anche di poco i termini della modestia, dolcemente da principio lo ammoniva, ma non giovando l’ammonizione, sgridavalo poi acremente ; e trovandolo incorreggibile, cacciavalo finalmente dalla sua Società.

Un documento della contabilità reale di Parigi reca che i tre principali comici italiani in Francia nel 1624 e 1625, furono Giovanni Battista Andreini, Francesco Gabbrielli, e Niccolò Barbieri, ai quali con atto del Re 17 dicembre 1624 fu ordinato si dèsse la somma di Lire 2400, in rimunerazione delle commedie recitate colla Compagnia in Sua presenza, nei mesi di settembre e ottobre, in ragione di 1200 lire al mese. E il Re aveva in grande pregio non soltanto l’ingegno del Beltrame, ma anche la sua persona.

Stampò in Torino nel 1629, e ristampò in Venezia nel 1630 una commedia intitolata L’inavvertito, ovvero Scappino disturbato, e Mezzettino travagliato, che dedicò « alla sereniss. Madama Christiana di Francia, principessa di Piemonte. » (Cristiana, o Cristina di Francia, Madama Reale, seconda figlia di Enrico IV e di Maria de’ Medici, sorella di Luigi XIII, nata al Louvre il 10 febbraio 1606, maritata a 13 anni nel 1619 a Vittorio Amedeo, primo del nome, principe di Piemonte, che diventò duca di Savoia, dopo la morte di suo padre Carlo Emanuele I o il Grande, il 26 luglio 1630). L’ Inavvertito è la Commedia da cui Molière trasse veramente il suo stordito ; benchè i Commentatori suoi gli voglian dar per esemplare l’Emilia di Luigi Groto Creco d’Adria. Eugenio Despois nella sua edizione di Molière (Les grands Ecrivains de la France) trova che il carattere del servo è identico nell’una e nell’altra commedia : Molière ne avrebbe solo mutato il nome, facendo dello Scappino, maschera, mascheretta, mascherina italiana, il suo Mascarillo. Questa l’opinione di Hermann Fritsche ; se bene il Boubaud, in una nota de’suoi nuovi sinonimi francesi accenni a un opuscolo, che però non si trova, intitolato : Le opere del Marchese di Mascarillo, stampato {p. 267}a Lione nel 1620, antecedente alle Preziose ridicole. Molière soggiornò a Lione, dunque probabilmente il nome di Mascarillo prese da quello già esistente. Comunque sia, lo Stordito è più che ispirato all’opera italiana, la quale ebbe tanto favore che restò nel repertorio lungamente, modificandosi poi coll’andare del tempo nelle improvvisazioni de’ comici più o meno intelligenti. Zanuzzi, per esempio, – dice Cailhava ne’ suoi studî {p. 268}su Molière – sosteneva la parte di Fulvio, non come amante turbato dal suo amore, ma come un matto fuggito dall’ospedale. Recava in testa un cappello a nastri svolazzanti, e aveva una calza rossa e una verde. In sul principio L’Inavvertito fu uno scenario, e Beltrame dovette veramente all’ingegno de’suoi comici, in gran parte, il successo di esso ; ma le libertà che si pigliaron poi le nuove compagnie, tali da ridurlo pressochè irriconoscibile, fecer prendere all’autore la risoluzione di spiegarlo per iscritto, seguendo in tutto le traccie lasciate dai comici egregi che lo recitaron prima. Anzi, sotto questo rispetto ancora, è interessantissima più che ogni altra, la Commedia del Beltrame, chè, a detta di lui medesimo, possiam quivi trovar trascritti fedelmente i lazzi, i motti, le tirate, il giuoco scenico insomma, de’singoli attori….. L’Innamorato, per esempio, pare non avesse che uno studio : quello di recar sulla scena tutto un repertorio di immagini achillinesche, di cui abbiamo avuto un largo esempio nell’orazione funebre di Adriano Valermi per la Vincenza Armani ; mostrando così, come la fama di un attore serio, e sopratutto amoroso, avesse una solida base nella strampalata ampollosità del fraseggiare.

Eccone un saggio. Cintio dice a Fulvio :

Nel crociuolo della fede l’oro della nostra amicizia a fiamme d’amore è stato molte volte copellato, et i sophistici moltiplicamenti di sdegni o disgusti si consumeranno mai sempre a si pure fiamme. Ma perchè in cosi affinat’oro d’amicizia non si deve legare mentita gioja, ma candida margarita di verità, io v’assicuro che non è la bellezza di Lavinia il primo mobile che conduca la sfera de’ miei pensieri a mover i passi per questi contorni. E se ben amore semina nel mio cuore abbondantissime granella de’suoi meriti, e che i raggi de’ suoi begli occhi, quasi vivi soli, faccino il loro officio di generare, non havend’io già mai con l’acqua del mio consenso inaffiato questo cuore, il seme non ha potuto concepire vegetativo germoglio….. (Atto I, Scena I).

Più notevoli nell’ Inavvertito sono le tirate sul modo di giudicar le azioni della plebe e de’signori !…. Potrebber passare come tirate da dramma domenicale per solleticare l’amor proprio offeso della povera gente, e reclamarne, conclusione indispensabile, urli e applausi in segno di protesta. Chi ci sa dire se al tempo del Beltrame accadeva lo stesso ? Dato l’incalzar {p. 269}delle frasi nell’ Inavvertito, è da crederlo. Nel prologo, a voler sostenere la sua tesi, che le commedie cioè sono la più moral cosa del mondo, e chi ne dice male un fior d’ignorante, egli conclude :

…. Nella comedia ogni vizio vien detestato, i furti ne i servitori puniti, i lenocinii gastigati, l’avarizie, i sciocchi amori ne i vecchi, e’ mali governi di casa derisi ; et ogni cosa si tira a buon fine. Ma perchè i documenti sono portati da’ comici, questi dalle sentenze miniate d’oro e conteste di credito non gl’accettano : disgratia della parte debole ! Il mondo va cosi, e l’autorità cuopre i difetti, o che gli muta il nome. Se un gentilhuomo dice alcune cose ridicolose, si dice ch’egli è faceto ; ma ad un pover huomo senz’altro è un buffone. S’un Signore dice un motto satirico, vien tenuto per arguto ; ma il poverello è stimato mala lingua. Se un nobile dà noja ad un povero compagno, è riputato un bell’ humore ; ma s’egli è di bassa lega, è tenuto per insolente. S’un huomo d’eminenza va a mangiare sovente a casa di questo e di quello, vien detto ch’egli è affabile ; ma s’è un meschino, è un scroca. S’un huomo di qualità si piglia qualche licenza ad una mensa tra convitati, passa per huomo senza cerimonie ; ma un poveretto per scrianzato. In somma, i brilli in mano a cavaglieri sono stimati diamanti, e i diamanti in mano a povere persone sono tenuti brilli.

E nella Scena X dell’Atto I tra Lavinia e Scappino :

Lav. …. Io ho inteso ; ma quel dar commodità ad un giovine che meni via una sua morosa, che ufficio si chiama ?

Scap. Ad un par mio si direbbe di ruffiano ; ma se ciò facesse un gentil’ huomo, si direbbe un servizio, et ad una par vostra si dice ajuto. Il ruffianesmo è come il furto : in un grande è agrandimento di stato, ad un mercante è ingegno, et in un disgraziato è latrocinio.

Altra cosa degna di nota nell’ Inavvertito è il personaggio di Spacca ; il quale, mentre può essere, talvolta Capitano, come vediamo nei Balli di Sfessania del Callot, da cui poi lo Spaccamonti, rimasto nell’uso a significare uno che le spara grosse, talvolta Dottore col nome di Spacca Strummolo (V. Aniello Soldano), quì, chiamato Spacca Strombolo, è amico di Scappino, e mariuolo, per giunta, del peggiore stampo. Quando Scappino gli dice : « vorrei che tu facessi una cosa contra a l’uso tuo, » Spacca risponde : « O, t’intendo : tu vorresti ch’io facessi qualch’opera buona. »

La Commedia, a parte il gusto del tempo, è ben fatta, e tale, forse, da poter essere riprodotta anche oggi con lievi modificazioni ; e si capisce come restasse viva sulla scena oltre un secolo. Nullameno l’opera che diede al Beltrame maggior {p. 270}grido, alla quale dobbiam tante notizie particolareggiate di comici del suo tempo, fu la Supplica, della quale vedasi il frontespizio, pag. 267, a illustrazione della maschera del Beltrame. Che cos’è la Supplica ? Una risposta alla solita sentenza : essere le commedie un passaporto per andar diritti all’ inferno ; essere dannati chi le scrive, chi le recita, chi le ascolta, ecc. ecc…..

E Beltrame comincia in poche parole di prefazione :

Chi non sente l’offese è morto. La difesa è scudo di giustizia e non spada di vendetta. Lo schermirsi è naturale fino ne’bruti. Le bocche delle ferite, senza favellare chiedono con la pietà rimedio. L’acqua intenerisce le dure glebe, ed assoda la liquefatta cera, l’umiltà dispone gli animi gentili, ma improterva le rustiche nature.

I primi passi nell’arte furon fatti con un ciarlatano, come accadde al Bissoni (V.) e ad altri. Lascio raccontare a lui stesso l’aneddoto, che ha per noi un valore storico non lieve, per quanto concerne anche le zannate che vedrem poi largamente descritte al nome di Bocchini Bartolomeo (Zan Muzzina).

Partendomi da Vercelli mia patria l’anno 1596, mi accompagnai con un mont’inbanco sopranominato il Monferino, e passando per Augusta, o sia Aosta, città del Serenissimo di Savoja, questo Monferino chiese licenza di montar in banco al Superiore ; ma perchè non era in uso il montar in banco in quei paesi, il Superiore non sapea come deliberarne : però quello mandò da un Superiore spirituale, il qual negò la licenza collericamente, dicendo che non voleva ammettere le Negromanzie in quei paesi : il Monferino stupefatto, gli disse (come era vero) che non sapeva manco leggere, non che saper di Negromanzia : il Superiore gl’impose che non altercasse con parole ; che egli ben sapeva come si fa, e che in Italia aveva veduto ciarlatani prender una picciola pallotta in una mano, e farla passar dall’altra ; che un picciolo piombo entra da un occhio, e per l’altro salga, tener il fuoco involto nella stoppa buona pezza in bocca, e farlo uscir in tante faville, passarsi con un coltello un braccio, e sanarsi per incantesimi subito, ed altre cose del Demonio ; e non voleva che il Monferino parlasse, e da sè scacciollo, minacciandolo di carcere. Ora dicami adunque alcuno : chi avrebbe potuto mai persuader quel buon Superiore a credere che quelle cose stimate da lui Magie, fossero destrezze di mano, e delle minime ancora che i giocolatori facciano ? Niuno al certo. E così sarà vissuto con tal credenza. Si trovano uomini che hanno massime in capo tanto abbarbicate, che non vi è ragione che le possa svellere. Quel Superiore era Teologo, ma non era addottrinato nelle scaltritezze mondane ; e cosi quei benedetti Dottori che hanno detto contro le Commedie, Dio sa se mai avevano veduto Commedie ; o se pur, ne videro alcuna che non fosse qualche Farsa, o qualche Zannata oscena, e che la stimassero Commedia : poichè vi è taluno che dice Commedia alle bagattelle che fanno i bambocci de’ Ciarlatani. (Cap. LV).

Ancora :

Il sentir nominar Istrioni, non sapendo l’etimologia d’Istrio, nè la derivazione, vi è chi penserà che si dica per Istrioni, Stregoni, cioè incantatori e uomini del Demonio ; {p. 271}e perciò vi sono paesi in molti luoghi d’Italia, che tengono per fermo, che i Comici facciano piovere, e tempestare : e un’orazione in genere deliberativo non sarebbe bastevole a dissuaderli dal mal fondato abuso……

E conclude :

Io fo sapere a questi non nati ingegni, aborti della conoscenza, che, allorquando piove, le persone non escono volentieri di casa, e pochi vanno alla Commedia ; e come le persone non vanno alla Commedia, i Comici falliscono ; a tal, che le pioggie sono contrarie a’Comici, e non favorevoli.

Venendo poi a parlare degli onori fatti a comici antichi e moderni (saran riportate le sue parole al nome di ciaschedun comico ; V. Andreini Isabella, Cecchini Pietro Maria, Andreini Gio. Battista, Fidenzi Cintio, Malloni Maria, Zecca Niccolò), dice di sè stesso :

Ed io più infimo di tutti, fui fatto dalla benignità di Ludovico il Giusto Re Cristianissimo soldato della sua guardia, e di maggior onore mi voleva far degno, s’io ambiva, come ne può far fede l’Ill.mo ed Eccell.mo Sig. Duca della Valletta mio Capitano ; e l’Eminent.mo e Rever.mo Sig. Cardinal Ubaldini può dir ancora per lettere scrittegli da Sua Maestà Cristianissima a mio favore, fin dove la benignità di quel gran Re si estese ad onorarmi.

Qui allude senza dubbio a’suoi quattro figliuoli i quali fece tutti Religiosi in Ferrara, « coll’assistenza e mediazione — scrive Fr. Bartoli – della medesima Cristianissima Maestà, la quale degnossi di raccomandarli alla Signora Marchesa Caterina Martinenghi Bentivogli per agevolare ad essi il religioso loro collocamento. »

Fra le molte cose occorsegli nella vita, scelgo anch’io l’aneddoto riportato dal Bartoli. Recitava in Parma colla sua Compagnia. Un giorno, caduta la Torre di Piazza, furono atterrati e il Salone e le sottoposte botteghe, restando meravigliosamente in piedi quella sola parte ove sorgeva il palcoscenico, sul quale erano alcuni servi di comici, che, naturalmente, non ebbero alcun danno, mentre la rovina, in altra parte, aveva cagionato la morte di alcuni cittadini. Gridato poco men che al miracolo, il pubblico fece assai buon viso alla Compagnia, tanto che il teatro fu a ogni rappresentazione pieno zeppo di spettatori, e Beltrame fece assai più denari che non avrebbe fatti, {p. 272}senza quell’accidente. Niccolò Barbieri terminò cristianamente i suoi giorni — dice il Bartoli — poco dopo il 1640.

Ed ora alcune parole sulla maschera che egli creò.

Questo tipo, più moderno del Brighella, non aveva nella Compagnia de’Gelosi altro carattere che quello di un furbo e astuto compare ; ma, come il Mezzettino, e più tardi lo Sgannarello francese, egli rappresentava tutte le parti di marito, fingendo di prestar fede talvolta alle frottole che gli si contavano.

Così il Riccoboni ; e il Sand :

Il suo vestire non è straordinario, e io credo sia un costume del tempo, o di poco prima. La sua maschera è la stessa di Scappino. Beltrame, milanese, volendo parlare la lingua del paese, ne portava anche il vestito.

L’incisione del Joulain, che è nel Riccoboni, è modellata sulla maschera della Supplica qui riprodotta.

Ed eccone i colori, secondo la descrizione dello stesso Sand : Maschera marrone con baffi castagni. Berretta nera. Mantello bruno, guarnito di nappine nere. Veste, borsa, e calzoni di panno grigio, orlati di un gallone nero. Calze bianche. Scarpe di pelle gialla con fiocchi neri. Cintura di cuojo gialla con fibbia di rame. Collaretto e manichini di tela senz’amido. La qual descrizione non concorderebbe con una vecchia litografia di Delpech, in cui i capelli sono raccolti in una specie di reticella rossa alla brava, la barba e i baffi son bianchissimi, il viso scoperto, la borsa in cuoio giallo, le scarpe nere, e l’orlatura e i bottoni dell’abito turchini.

Barese Francesco. Abbiamo di lui in Francesco Bartoli queste pochissime parole : « fu un grazioso Pulcinella, che recitò per molti anni con applauso ne’Teatri di Napoli. A mancar venne con danno dell’arte e dispiacere de’suoi amici intorno all’anno 1 777. »

Nella pregevole cronaca del Teatro S. Carlino di S. Di Giacomo, lo troviamo (1739) primo amoroso in una Compagnia che rappresentava commedie burlesche in un giardino fuori Porta Capuana, detto il Giardeniello ; della qual Compagnia faceva parte il Pulcinella Domenicantonio di Fiore, che, senza dubbio, {p. 273}coll’arte sua e co’suoi ammaestramenti fece prender più tardi al Barese la risoluzione di mettere anch’esso la maschera del pulcinella. Così fece : e andò di sera in sera acquistando terreno, tanto che, morto nel 1745 il famoso Bartolommeo Cavallucci, e sentito parlare Agostino Valle, padrone del teatro omonimo a Roma, di questa nuova celebrità, lo scritturò pel carnevale del 1746. Ma lasciam parlare il Di Giacomo.

Nel novembre del 1745 il Barese doveva già trovarsi a Roma ; il Valle s’era obbligato con contratto, di « fornirgli la casa e il letto per ogni anno, come parimente scarpe e calsette e Abito, alla riserva della Mascara e Coppola. » Ma Barese gli fa tutt’a un tratto sapere ch’egli non può partire per Roma, poich’è scritturato a Napoli con un’altra Compagnia istrionica. Quale ? Il documento d’archivio non lo dice, ma, certo non quella del Di Fiore, che nel 1745, un anno prima, cioè, di passare al Nuovo recitava a San Carlino. E a San Carlino il Pulcinella era Di Fiore. Dunque il Barese nel 1745 era alla Cantina ; tutto fa supporlo. Ma vi rimase anche dopo quell’anno ? Non potette ; il Valle s’era incaponito e lo voleva a Roma. Però scrive all’Uditor dell’Esercito, Duca di Salas, e gli chiede giustizia, tanto più che Barese ha già preso da lui del danaro. Il di Salas ordina al Barese di recarsi a Roma ; e così quegli è costretto a partir per forza. Dalla sua paga al Valle si sottraggono cento ducati co’quali l’Impresario napoletano è compensato della perdita d’un comico tanto valoroso ; ma l’Uditor dell’Esercito che gli passa quel denaro, glie lo consegna a condizione ch’ egli soccorra la moglie e i figliuoli che Barese lascia a Napoli.

……………………………

Nel 1772, in Primavera, lo ritrovo al Nuovo : recita da Zadir nella Dardanè di Francesco Cerlone, musicata da Paisiello. Nel carnevale del 1773 gli è affidata, pure al Nuovo, la parte di Mossiù le Blò nella Finta Parigina dello stesso Cerlone, musicata da Cimarosa. Sulla primavera dell’anno medesimo, Barese fa la parte del Barone nel Tamburo di G. B. Lorenzi, musicato da Paisiello. Nell’estate, in fine, del 1773, sempre al Nuovo, egli si chiama Bretton nell’Innocente fortunata, libretto d’un anonimo, musica di Paisiello.

Recitava e cantava ; era un di quei comici cui la necessità fornisce eccletismo e che noi ritroviamo, a tempo nostro, or nella commedia in prosa, ora nell’operetta. Tornato da Roma il Barese smette la maschera e diventa or generico, ora caratterista nelle opere buffe. L’apparire ch’egli fa più spesso in quelle di Francesco Cerlone, potrebbe dimostrar questo, che cioè, avendolo il Cerlone conosciuto da Pulcinella nella Cantina, ove appunto si recitarono le commedie cerloniane, lo ebbe in tanto conto da farlo chiamare al Nuovo, quando vi si rappresentassero cose sue. Era, come Francesco Massaro (V.), un attore che creava un personaggio e lumeggiava tutta una commedia. Non è documento, per altro, il quale dica fino a che anno il Barese abbia recitato da Pulcinella alla Cantina ; tornò egli a far parte di quella Compagnia, rimpatriato appena da Roma ? Dal 1746 — epoca nella quale il Barese lascia Napoli — al 1772 — in cui vi riappare al Nuovo — son di mezzo ventisei anni. Non è possibile ch’egli li abbia passati, tutti, fuori della sua patria.

Quanto alla Cantina, era una Cantina appunto, propriamente detta, vicina al S. Carlino, nella quale Michele Tomeo, {p. 274}con parole garbate, tirava i gonzi i quali stavano annusando i manifesti del S. Carlino. E le parole su per giù eran sempre queste : che, cioè, nella Cantina lo spettacolo era svariato e morale più assai che non promettessero i volgari cartelli d’un casotto plebeo, che accoglieva sbarazzini e facinorosi, e non offriva se non commedie rimpinzate di turpitudini. (V. ancora il Di Giacomo).

La Cantina era detta anche il Fosso dal Tomeo, ed era situata al largo di Castello, presso la Chiesa di San Giacomo. Al proposito delle due Compagnie che recitavano alla Cantina e al Giardiniello, il Croce riferisce un brano dell’ Uditor dell’esercito (19 agosto 1740), dal quale sappiamo che quelle erano in estremo miserabili, e facevano tal vile professione solamente per vivere, non lucrandosi se non poche grane per ciascheduno il giorno, li quali, qualora li mancavano, si riducevano in una strettezza, che faceva compassione.

Barlachia. Pare fosse attore di molto grido, se, dovendo credere a Monsignor Borghini, il grande erudito cinquecentista, le composizioni dell’Araldo (Giovan Batista dell’ottonajo) a leggerle non valgon nulla ; e in bocca al Burlachia parver miracoli, e dilettavano ancora i belli ingegni, non che gl’idioti ; per l’ajuto de’gesti, della voce, della pronunzia. (Ms. Palat., Fir. 10, 116, pag. 44-47). D’accordo quanto all’arte del Barlachia ; ma che le composizioni dell’Araldo non valesser nulla, con buona pace del Borghini è falso. Anzi : oserei affermare, che in niun lavoro come in quelli dell’Araldo è il primo elemento drammatico per quel che riguarda l’effetto scenico. Nel famoso prologo : Anton, chi chiama ? è tale ricchezza di passaggi, di forza comica, da invogliare chiunque a studiarlo e a riprodurlo.

Il tipo del padre è drammaticamente perfetto ; e tale oserei chiamare nelle sue ribellioni il figliuolo traviato. Il figliuol buono, obbediente in tutto, mansueto, diviene, s’intende, com’elemento drammatico una parte passiva.

Era uso allora di recitar ne’conviti ; e il Giannotti, ne’suoi Vecchi amorosi fa dire : « Il Barlacchi, se noi il potessimo averc, {p. 275}sarebbe a questa cena come il zucchero alle vivande. » Con tuttociò, pare che il Barlachia, citato sempre ad esempio come recitatore, non fosse, come tutti i suoi colleghi di scena un’arca di scienza : e nel Consiglio villanesco del Desioso (Siena, 1583) il dialogo comincia col chiedere scusa, per essere l’autore rappresentante, non letterato :

« Chi fa l’arte che fece il Barlacchia
non può come gli sdotti arrampicare. »

A pagina 432 delle rime del Lasca curate dal Verzone (Firenze, Sansoni, 1882) abbiamo le due seguenti ottave :

IN NOME DI CECCO BIGI STRIONE

Alto, invitto Signor, se voi bramate
ch’il Bigio viva allegro, e lieto moja,
la grazia, che v’ha chiesto, omai gli fate,
per ch’egli esca d’affanni e d’ogni noja ;
ei ve ne prega, se vi ricordate
delle commedie, ove contento e gioja
vi dette già, e spera a tempo e loco
farvi vedere ancor cose di fuoco.
E se i Vettori, i Barlacchi, e i Visini
di là son iti a veder ballar l’orso,
altri poeti, altri strion più fini
non mancheranno per l’usato corso ;
non è morto ne’petti fiorentini
lo scenico valor, ma ben trascorso ;
io so quel ch’io mi dico, e fia dimostro
alla tornata del principe nostro.

A che voglia alludere il Lasca co’primi due versi della seconda ottava ? All’essersi il Barlacchi e gli altri comici rinomati recati all’estero in una solenne occasione, per recitarvi qualche commedia ?… Noi sappiamo che alla rappresentazione della Calandra del Bibbiena, fattasi in Lione dalla {p. 276}Nazion Fiorentina per la magnifica et trivmphale entrata del Christianiss. Re di Francia Henrico Secondo di questo nome fatta nella nobile et antiqua Città di Lyone a luy et a la sua serenissima consorte Chaterina alli 21 Septemb. 1548, fu deputato il Barlacchi, il quale, trattandosi di festa fiorentina, e di esecutori fiorentini, mutò il luogo di azione della commedia, di Roma che era, in Firenze, recando così sulla scena i leggiadri e ricchi vestimenti della sua terra : e tanto piacque la rappresentazione di detta Calandra, che fattasene la replica a preghiera de’ lionesi che non la poteron vedere la prima volta, il Re e la Regina e la Corte vi intervennero inattesi, e dichiararon esser loro piaciuta la commedia assai più che la prima volta : e innanzi di partirsi di Lione il Re fe’ dare a’comici 500 scudi d’oro, e 300 la Regina, dimodochè — chiude la descrizione — il Barlacchi et li altri strioni che di Firenze si feciono venire in giù se ne tornarono con una borsa piena di scudi per ciascuno. (Lyone, Rovillio, 1549).

Barlaffa o Berlaffa Francesco. Era padre e tiranno nel 1815, a vicenda con Francesco Righetti, detto Righettone, in Compagnia di Pietro Perotti e Antonio Goldoni ; e tale nel 1819 in quella di Vestri e Venier, colla moglie Maria Teresa, seconda donna mediocre, figlia della famosa Caterina Venier. Capocomico il 1833 in società con Luigi Romagnoli, sosteneva sempre le parti di padre nobile, insieme alla moglie, madre nobile.

Eccone l’elenco :

SIGNORE ATTRICI

Albina Pasqualini,Prima donna
Maria Barlaffa, Madre nobile
Ferdinanda Baroncini, Prima amorosa
Laura Martini, Servetta
Marianna Donati
Caterina Mazzeranghi
Beatrice Barzaga

{p. 277}SIGNORI ATTORI

Luigi Romagnoli, Primo attore
Francesco Barlaffa, Padre nobile
Giuseppe Monti, Primo amoroso
Antonio Soardi, Secondo amoroso
Alessandro Donati, Tiranno
Lodovico Vellenfelt, Caratterista

Angelo Venier Eugenio Venier
Lodovico Zanchi Giuseppe Barzaga
Francesco Mazzeranghi Battista Martini

Aveva ancora la stessa Compagnia col Romagnoli nel ’35, col mutamento di vari attori : uscirono il Monti, il Mazzeranghi, il Barzaga, la Baroncini, la Mazzeranghi e la Barzaga, sostituiti da Giuseppina Miedi, da Modesta e Luigi Braccini, Luigi e Pellegrina Dusi, Lorenzo e Maria Zavagna, Leonardo e Catterina Raftopulo, Vittorio Parigi e Attilio Petracchi.

Barra Mattia. Grazioso Pulcinella, che fioriva intorno al 1670. Fu scolaro di Baldi Ciccio (V.), e nulla ebbe nell’arte da invidiare al maestro.

Barsanti Domenico. Bolognese. Esordì nell’arte comica in Compagnia di Antonio Sacco, e fu noto sotto il nome di Menghino degli Aldrovandi, per avere, prima di darsi all’arte, servito come impiegato in quella Casa Senatoria, come dice il Bartoli. A detta del quale anche fu generico di molto valore, sapendo rappresentar con valore così le parti comiche, come le serie e tragiche ; queste specialmente, chè il Farasmane nella tragedia di Radamisto e Zenobia sosteneva mirabilmente. Rappresentava di quando in quando anche la parte di Dottore, ma non per consuetudine, nè per elezione. Fu uomo onesto e probo, e sposò in seconde nozze la madre dei comici Merli Cristoforo e Merli Giovanni. Nacque nel 1742 e viveva ancora al tempo di Francesco Bartoli, editore delle più volte citate {p. 278}notizie, cioè circa il 1782. Abbiamo di lui un aneddoto nelle « Memorie inutili » del Conte Carlo Gozzi (vol. II, pag. 143), che è questo : il Sacco aveva una Compagnia troppo ricca di attori pagati, e voleva disfarsi di alcuni di essi. Il Coralli, artista di non gran merito, pare, ma astuto quant’altri mai, temendo di essere licenziato, a preferenza del Barsanti, del quale conosceva i pregi e l’utilità, ricorse ad uno strattagemma. Si recò dal Barsanti, e gli disse in tutta segretezza che aveva saputo da buona fonte, come il Sacco fosse risoluto di licenziarlo. Però lo esortava per decoro a chiedere volontariamente di sciogliersi da ogni impegno pel venturo anno. Il Sacco, al quale il Barsanti premeva davvero, avutane domanda di scioglimento, montò su tutte le furie. Si venne a spiegazioni ; e chiarita la cosa, in fin di carnovale, il Coralli dovette, scornato, lasciar la Compagnia. Questo a riprova delle parole del Bartoli su ’l Barsanti, che il Gozzi qualifica per valente comico, utilissimo attore, buon uomo e semplice.

Barsi Pietro. Attore egregio per le parti di caratterista, nacque a Firenze il 29 aprile del 1828. Adolescente, ogni qualvolta gli veniva fatto di raccapezzar qualche soldo coll’arte sua (dopo tante e diverse prove, s’era dato definitivamente all’oreficeria), si recava co’suoi al teatro della commedia, alla quale si sentiva inconsciamente attratto, sin da quando, bambino, sentì recitare al teatro della Piazza Vecchia, ora distrutto, il rinomato stenterello Amato Ricci. La prima impressione veramente artistica ricevette una sera dell’Avvento al Teatro del Cocomero, oggi Niccolini, in cui il celebre Taddei rappresentava il Barbiere di Gheldria dell’Avelloni (V.). Giunto a una certa età, accettò di far parte di una accolta di dilettanti, esordendo a Rovezzano, villaggio {p. 279}a due miglia da Firenze fuor di Porta alla Croce colla parte di Sbirro nella Ginevra degli Amieri. Egli stesso racconta che la soggezione e l’emozione lo paralizzarono per modo, che la sua voce non arrivò a’suonatori di orchestra. Il’48 troncò d’un colpo quei primi passi della sua carriera artistica ; ma tornato di Roma, e recitata in Montedomini la parte di Egherton nell’Orfanella della Svizzera con successo di applausi, determinò di darsi intero all’arte, scritturandosi con Lorenzo Cannelli, stenterello, e da questo passando con Raffaello Landini, stenterello anch’esso, col quale stette a recitare, prima a intervalli, poi (quaresima del’61 al ’63) stabilmente con sua moglie Cesira. Il ’64 fu diviso tra la scena (con Carolina Santoni, celebrità allora al tramonto, e con Lodovico Corsini, {p. 280}altro stenterello) e il Pontevecchio, ove la necessità l’aveva ricondotto. Si scritturò il ’65 con Michele Sivori ; e morto il caratterista Bottazzi, egli fu, di sorpresa, obbligato a sostenerne le parti.

Ma neanche il successo di Roma (all’Anfiteatro Corea) fissò la sua carriera, sempre interrotta ; tanto che tornato a Firenze, dovette restituirsi all’antico asilo, alternando i lavori dell’oreficeria con rappresentazioni or al fianco di Papadopoli, or di Adalgisa Stacchini Santucci, or di Laura Bon.

Fu dal ’67 al ’71 con Luigi Pezzana, il ’71 e ’72 con Francesco Sterni, per passare finalmente la quaresima del ’73 con Giuseppe Pietriboni, col quale stette sino a tutto il carnevale del ’94. Questi ventun anni lo compensaron davvero della travagliosa e dura vita ch’ egli aveva fatto peregrinando di Compagnia in Compagnia, di ristrettezze in ristrettezze, specialmente nella Compagnia precedente con Sterni solo, prima, poi con Sterni e Rescalli. Pietro Barsi, artista dei più coscienziosi, dotato di una memoria ferrea e di un fisico, per le parti di caratterista, più unico che raro, intelligente, studioso, modesto, potè di punto in bianco acquistarsi la benevolenza de’pubblici meno indulgenti, come quello del Teatro Manzoni di Milano ; dove, specialmente nel repertorio Goldoniano, fu annoverato, e a ragione, tra’ buoni artisti. La Compagnia di Giuseppe Pietriboni continuò per anni e anni la sua marcia trionfale ; e coll’intelligenza e la solerte cura del Capocomico e Direttore si era acquistata il titolo di Compagnia-modello. Pietro Barsi ne fu uno de’migliori ornamenti ; e se bene a lui si potessero spesso rimproverare alcuni difetti di pronuncia e di cadenza che gli venivano dal paese natale, e fors’anche dalle Compagnie in cui militò più anni, non si potevano in lui non riconoscere molte e pregevoli qualità di artista, fra le quali, prima di tutte forse, lo studio del vero. L’Alberto Pregalli, I Fourchambault, I Borghesi di Pontarcy, I nostri buoni villici, Goldoni e le sue sedici commedie lo hanno collocato tra i migliori caratteristi del teatro italiano.

{p. 281}

Barsi Giuseppe figlio del precedente. Compiuto regolarmente il corso di studi alla R. Scuola di recitazione di Firenze, si diede all’ arte (alla quale mostrò non poche attitudini) esordendo con Giuseppe Pietriboni in Compagnia di suo padre. Attore spigliato, studioso, appassionato, fu accolto in varie buone compagnie per le parti di brillante, che anche oggi sostiene con molto garbo.

Bartoli Francesco Saverio. Comico di qualche nome, più noto per le Notizie Istoriche de’Comici Italiani che fiorirono intorno all’anno mdl fino a’giorni presenti (1782), stampate in quello stesso anno dal Conzatti a Padova in due volumetti, onde si acquistò a buon dritto il nome di Plutarco de’comici, nacque il 2 dicembre del 1745 a Bologna da Severino Bartoli, e Maddalena Boari, che erano, come dice egli stesso,

Povera in vero, ma onorata gente.

Cominciò coll’essere intagliatore in legno nella bottega di uno zio materno. Ma come, piuttosto che a quell’arte, il padrone facevalo intendere a lavori materiali di facchino, o di semplice manuale, egli fu messo da’suoi in una libreria perchè v’apprendesse l’arte del libraio. Quivi, invogliato agli studi, si diede a leggere quanti più libri potè, coll’esempio anche del padre suo, al quale, sebben macellaio, erano sconosciuti ben pochi de’nostri poemi italiani. L’arte drammatica cominciò ad adescarlo, e finì in breve coll’invescarlo. Dopo di avere scritto, da ragazzo, una tragicommedia, dopo di avere recitato in una compagnietta di dilettanti, della quale era anche direttore, partì di Bologna con certo Francesco Peli, ancor comico al tempo in cui Bartoli scriveva le sue Notizie. Unitisi ad altri comici che li attendevano, andarono in iscena a Monselice, Castello del Padovano. Questo fu il vero primo passo nell’arte…. chiamiamola così. Da Monselice passò il Bartoli a Montagnana, poi di nuovo a Bologna, poi, scritturato con Gerolamo {p. 284}Sarti, detto Stringhetta, a Sassuolo nel modenese, sostenendo la parte dell’innamorato. Sentito dal capocomico Pietro Rossi, che recitava allora in Modena, passò di là nella sua Compagnia, facendo questa volta il primo passo nell’arte propriamente detta. Innamoratosi poi della Teodora Ricci, della quale avrem molto a discorrere, la prese in moglie a Genova il 5 novembre del 1769. Eccone l’atto di matrimonio, già pubblicato da G. Claretta nel Giornale Ligustico di storia e letteratura (anno X, genn. 1883, pag. 145) :

[n.p.]
[n.p.]

(S. Sisto — Matrimoni, 1750-1799, pag. 52). « 1769, die 5 novembris, D. Bartoli Franciscus filius Severini, civitatis Bononiae, et D. Theodora Ricci filia Antonii, civitatis Veronae, ad praesens ambo degentes in nostra Parochia, omissis solitis tribus publicationibus de licentia reverendissimi Vicarii Generalis Josephi Francisci Caffarenae, per testes examinatos obtenta et paenes me servata, juxta formam Sacri Concilii Tridentini, mutuo eorum consensu, singulatim interrogati, conjuncti fuerunt in matrimonium per verba de praesenti coram me Antonio Emanuele Fornelli Priore hujus ecclesiae ; praesentibus testibus Petro de Rubeis qm. Cajetani et Angelo Bentivolio Cajetani, ambo venetis, ad premissa vocatis et rogatis ; eademque die in hac parochiaii ecclesia nuptialem benedictionem susceperunt. »

Nel 1771 passò nella Compagnia di Antonio Sacco, quanto per sua moglie favorevole — egli dice con rara ingenuità — altrettanto per lui dannosa ; poichè essendo

o mal visto, o mal noto, o mal gradito

fu la sua abilità trascurata, ebbe a soffrire dei travagliosi disgusti, e perdendo la quiete, perse nel tempo istesso, pur troppo, gran parte della salute ancora. Povero Bartoli !… Frattanto egli cercava di levarsi i grattacapi, che la moglie a lui procurava, scrivendo commedie con rapidità vertiginosa. Ne scrisse cinque in undici mesi, e tutte in versi per giunta. Spronato poi dal desiderio di realizzare un suo disegno, già gran tempo ventilato, si diede con alacrità al lavoro ; e in meno di cinque anni riuscì a pubblicare un’opera nella quale era come un catalogo illustrato delle migliori opere di pittura che sono a dovizia sparse per l’Italia. Lo stesso anno (1777), la moglie Teodora partì per Parigi con una figliuoletta di cinque anni. Il Bartoli stette sei anni nella Compagnia di Antonio Sacco, poi, per la {p. 285}terza volta, si scritturò in quella di Pietro Rossi, poi, finalmente, dopo il carnevale del 1782 diede un addio al teatro per ritornar libraio. La moglie Teodora, tornata da Parigi, continuò a recitare, divisa dal buon marito, il quale, pover’uomo, nell’articolo che la concerne, le ricordava con semplicità non mai intesa, « che l’onestà è un pregio stimabile, che il marito non deve trascurarsi, che le vanità del mondo sono fugaci, e che la moglie onorata ama il Consorte, nelle disgrazie il solleva, e nol rende avvilito tra le dicerie del volgo, potendo colla di lui cooperazione esser anch’egli d’efficace sostegno alla propria famiglia. »

Il Bartoli fu davvero un buon uomo, e un brav’uomo. Egli non ebbe davvero a rimproverarsi quell’ozio che ha fatto e fa di certi comici una specie di vagabondi ignoranti. L’opera sua sulle pitture nostre componeva, di città in città, su luogo, allorquando vi si recava a recitar colla compagnia. Dettò prologhi, ringraziamenti, inviti al pubblico, ecc. ecc….. Pubblicò poesie e commedie, le quali, se non mostran troppo la peregrinità del suo ingegno ed una coltura vasta, dicon chiaro quanto egli perseverasse negli studi. Ha inserito nelle notizie che lo riguardano, un poemetto in decima rima, metro non usato, per grazia di Dio, da altri in componimenti lunghi. Ne trascrivo alcune ottave, per debito di coscienza.

Taci dunque mia Musa ; e in un silenzio
rispettoso ed umil tua lingua arresta ;
che dall’incarco grave io ti licenzio
e ad esso supplirà mente più desta.
Intanto a ragionare io ti sentenzio
della Carnovalesca e lieta festa,
che dileguar seppe dai cor l’assenzio
spargendoli di gioja immensa e presta,
narra del grasso giovedì il concorso,
che la Donna dell’Arno avea sul corso.

Faccio a questa seguire le ultime quattro decime, o diecine (sono ottantasei !).

{p. 286}

Si tratta di un amico, il quale interrogato dal Bartoli, gli dà notizie di teatri e attori del tempo.

Al Cocomero v’è una Commediante
che può piacer, e chiamanla la Zocchi.
Ivi è la Foggi ancor Donna prestante
per far da serva ; e in lei piaccionmi gli occhi.
Il Corsini è assai bravo improvvisante,
nè sono i versi suoi stentati o sciocchi.
Giovanni Roffi invero è un uomo amante
della fatica, e onor de’lieti socchi.
Il Frilli poi dell’arte è un vero specchio,
ma a far l’innamorato è un poco vecchio.
Al picciol teatrin detto di Piazza (La Piazza Vecchia)
vi sono alcuni attori molto attenti.
La Fineschi ch’è assai bella Ragazza,
dà di sua abilità chiari argomenti.
Il suo marito è pur di buona razza,
e può passar fra’Comici valenti.
Pe’ caratteri poi ogn’altro ammazza
il valoroso Gaspare Valenti.
Il Mancini val molto, e val millanta
la fanciulla che insiem recita e canta.
De’ Comici di Via Santa Maria (oggi Alfieri)
più di me voi ne siete già informato,
nè avete d’uopo che di lor vi dia
veruna informazione. Al mondo è nato
il Truffaldin per sparger allegria
nel core anco più tetro, ed angustiato.
Il Brighella mi piace, e in fede mia
che un pari ad esso qui non è mai stato.
Son bravi l’Andolfati e l’Ugolini,
la Fiorilli e non men la Marchesini.
D’altri recinti poi non vi vo’dire
ne’quai si fan commedie. Ivi una crazia
si paga a testa ; ed è facil capire
ch’ella sia tutta roba senza grazia.
{p. 287}Ma il freddo in me si fa vie più sentire,
lasciatemi andar via (vel chiedo in grazia) ;
ad abbruciare un fascio men vogl’ire.
Già avrò la vostra brama resa sazia.
L’Amico se n’andò per iscaldarsi,
e qui la musa mia vuole acchetarsi.

Ahimè ! Non dunque soltanto la rima era decima, ma anche la poesia !…

Delle tante opere a stampa di Fr. Bartoli ho qui sott’occhio una Tragicommedia intitolata : Il silenzio ovvero L’Erasto (Padova, mdcclxxx), scritta in prosa, per soddisfare — dice l’autore ai lettori — al solo suo capriccio e non per altro motivo, che non mi par peggiore di tante altre. Nella stessa avvertenza a’ lettori, il Bartoli annunzia la pubblicazione della sua prima commedia di Magìa, che avrà per titolo : Il Mago salernitano ; e Le Pitture, Sculture ed Architetture della città di Rovigo con undici illustrazioni — operetta di Francesco Bartoli accademico d’onore clementino (Venezia, mdccxciii), di cui traggo dal proemio a’lettori di Pietro Savioni veneto stampatore, le seguenti parole :

Sono più di due lustri che il medesimo amico Autore dopo d’aver per più di quindici anni scorse varie parti d’Italia a fissar giunse il suo domicilio in Rovigo ; e credette di far cosa grata a’ Cittadini, e a’ Forestieri il metter sotto gli occhi loro tuttociò, di che s’adornano le Chiese, i pubblici Luoghi, e le private nobili Abitazioni ; acciocchè essi conoscano che l’innato suo genio per simili erudizioni non ha voluto trascurare di dar qualche lustro ad una Città, alla quale deve esso Autore la sua quiete, il Religioso collocamento della sua Figlia, e del suo Figliuolo ; e altresì una probabile sicurezza di non aver giammai a temere che gli manchino que’sussidj, de’ quali la Providensa insieme col Padre lo ha sino ad ora benignamente soccorso.

Bartoli-Ricci Teodora. Moglie del precedente, figlia di Emilia Gambacciani, pisana (V. Ricci Emilia), e di Antonio Ricci, ballerino padovano, nacque a Verona, ove trovavasi la madre a recitare nel Teatro dell’Arena in Compagnia di Gerolamo Medebach. Fu tenuta a battesimo dalla moglie del capocomico, e fu chiamata col nome della madrina. Istruita nel ballo dal padre, esordì come ballerina nelle danze — dice {p. 288}Francesco Bartoli — delle opere musicali, in compagnia di sua sorella Caterina. Appassionatissima dell’arte comica, trovò modo di mostrare la sua grande attitudine a Giovanni Roffi, col mezzo del quale, fu accettata l’anno 1769 nella Compagnia di Pietro Rossi, di cui faceva parte Francesco Bartoli. A questo fu da quel capocomico affidata per la sua educazione teatrale ; e fra un ammaestramento e l’altro, trovaron modo di comprendersi a vicenda, tanto che a’ progressi nell’arte andaron di pari passo i progressi nell’amore : la Teodora si presentò al pubblico genovese nell’autunno dello stesso anno come artista provetta, e nell’autunno dello stesso anno divenne la moglie di Francesco Bartoli. Fu applauditissima poi a Torino, al Teatro Carignano, e fu colmata di beneficenze da quelle illustri Dame e da quegli illustri Cavalieri, a cui aveva dedicato gli Sciti di Voltaire nella italiana versione del D’Orenzo. Salita già in fama, e occorrendo ad Antonio Sacco, capocomico di grido, una giovane attrice che prendesse il posto della Regina Cicucci dal Sacco licenziata, fu proposta e accettata subito la Teodora Ricci. A questo punto lascio il Bartoli per ricorrere alla fonte del Conte Carlo Gozzi, il protettore della Compagnia, che nelle sue memorie inutili molto parlò, e fors’anche troppo, della nostra artista.

La Teodora fu scritturata, in unione al marito, innamorato, con l’onorario annuo di soli cinquecento venti ducati. Quel soli è del Gozzi, il quale anche aggiunge essere stato quello un prezzo miserabile ad una povera comica obbligata ad un vestiario teatrale decente, e alle spese de’viaggi frequenti, ecc. ecc. Quanto al fisico della Ricci, ecco quanto lo stesso Gozzi ne scrive :

Vidi quella giovane di bella figura, quantunque una sua gravidanza l’alterasse. La sua faccia, benchè diroccata dal vajuolo, non lasciava d’essere teatrale in qualche lontananza. Le sue belle chiome bionde supplivano a qualche difetto del viso. I suoi vestiti, che spiegavano la sua indigenza, erano però accomodati e portati da lei con tant’arte leggiadra, che non lasciava riflettere se fossero di lana o di seta, nuovi o logori.

………………………..

La sua bocca, non picciola, indebolita, e rovinata negli angoli da’tarli del vajuolo, sforzava quella povera giovine ad un involontario difetto.

………………………..

{p. 289}

La Ricci per pregiudizio, o per un naturale altero e schizzinoso, ogni momento sentiva e vedeva delle cose spregevoli e schife con l’udito e lo sguardo suo, e le dinotava col contorcere le sue labbra. Ciò ha rinforzato e viziato il suo difetto per modo, che divenne un abito inestirpabile, o piuttosto natura.

Il Gozzi cominciò di punto in bianco a proteggere la nuova arrivata, come quella che più se ne sentiva bisognevole. E codesta protezione, avvertita subito dagli altri comici, fu cagione di chiacchiere non inaspettate certo, ma pur sempre dolorosissime. Si ricorse persino alle lettere anonime per denigrarne la fama di artista : ma in vano. La Ricci lottò contro formidabili rivali, e finì coll’uscir vittoriosa dalla lotta : dopo l’enorme fiasco con la Innamorata da vero di esso Gozzi, colla vecchia tragedia Il Conte d’Essex, col Fasiel del D’Arnaud, tradotto a posta dal Gozzi, fu alla fine, col Gustavo Wasa del Piron, tradotto dal Gritti, prima, poi colla Principessa filosofa del Gozzi, battezzata artista insigne, e, come lo stesso Gozzi afferma, inarrivabile nella bravura. Ormai egli aveva ottenuto l’intento : nullameno perseverò nella protezione, poichè voleva fare di lei un’attrice completa ; toglierle tutte quelle angolosità che provenivano pur troppo dall’ignoranza : ignoranza assai frequente in molte delle attrici dell’Italia d’allora ! Ahimè ! In che ginepraio si cacciò pover’uomo ! Egli voleva moralizzare colla sua protetta, ogni tanto le faceva il predicozzo, le metteva innanzi agli occhi, semplici e forti di colorito i quadri della virtù e del vizio…. Le si proferiva non solamente protettore morale, ma anche materiale ; in ogni circostanza ella non avrebbe avuto che da rivolgersi a lui, ed egli l’avrebbe soccorsa…. Indarno ! La Ricci era una ragazza ignorante, vana, ambiziosa, civetta, cinica, invidiosa.

Uscita di casa per darsi all’arte, dopo di aver fatto in famiglia la serva alla madre e alle sorelle, con un sentimento di guitteria della peggiore specie, s’accorse che, pur troppo, in teatro, è sempre l’abito che fa il monaco, specialmente nelle attrici, e specialmente al cospetto del capocomico. Il primo passo al mal costume fu il suo matrimonio col Bartoli, maniaco {p. 290}per la letteratura, più guitto di lei nel vestiario, macilento, che teneva il fiato co’denti, e che per soprammercato sputava sangue. Nel Bartoli vide una larva di appoggio, e, lontano, lontano, nell’orizzonte, ben chiaro, un futuro di assoluta libertà. Lui dotto, o presunto dotto ; lei ignorante al sommo grado : immagini il lettore le scene di quella coppia. Entrò di mezzo il Conte Gozzi…. La proferta della protezione morale alla Ricci, le fece fare una smorfietta di ringraziamento ; la proferta di quella materiale, le fece spalancar tanto d’occhi, e mandar fuori certi oh ! ah ! uh ! di gratitudine profonda, della quale volle subito dar prova, o mostrar di dar prova, chiedendo, e ottenendo. Il vecchio capocomico, anch’esso, con meno onesti intendimenti di quelli del Gozzi, la circuì con promesse di donativi…. Ella si schermì dapprima, più per timore di perdere la protezione del Gozzi, che per virtù ; e finì coll’accettare un bellissimo taglio d’abito di raso bianco : le attrici…. pieghevoli comincian sempre di lì. Al capocomico Sacchi, vecchio bavoso, schifoso, geloso, successe il Gratarol, segretario del Veneto Senato, l’eleganza in persona, che s’andava cattivando la benevolenza delle comiche, col recar loro ne’ camerini le saccoccie piene di confetti (diavoloni) di ogni specie ; la Ricci non era caduta, era precipitata. Non v’era più bisogno della malignità dei comici per architettare aneddoti saporiti : la sua vita sbrigliata e sregolata era ormai palese…. Gittata a capo fitto nel turbine del vizio, parea quasi godesse farlo sapere a tutto il mondo…. E che raffinatezze aveva apprese !… E con che voluttà a quelle si lasciava ! Sentiamo ancora il Gozzi :

Narrava d’aver appreso a non portare più brache, perchè le brache, massime in certo tempo, chiudono e conservano sotto a’ panni delle femmine un tanfo di schifi odori. Le donne (diceva ella) devono tener esposte le loro membra all’aria, che giuocando sventoli, e purghi i fetori.

Coll’immaginazione fissa a Parigi dov’ella doveva andare, Venezia era divenuta per lei una cloaca. Gli abitatori di Venezia, e dell’ Italia tutta, non erano per lei che goffi, dozzinali, ignoranti, insopportabili.

Non vedo l’ora (esclama ella sanata dei pregiudizj) di passare a Parigi, laddove de’ finanzieri ricchi sfondati, scagliano de’ borsoni di luigi d’oro alle Attrici, con maggior facilità che in Italia non si dona una pera.

{p. 291}

Sia benedetto (diceva pavoneggiandosi) il far all’amore senza riguardi d’una stupida educazione. Noi mortali non abbiamo altra felicità che il fare all’amore sino alla morte. Dicendo ciò, da vera spregiudicata, non faceva il menomo conto d’aver un marito e due figli.

Nè solo parlava, si vestiva, si profumava alla francese, in modo da nauseare chiunque l’accostasse ; ma anche nella recitazione aveva messo una cotale affettazione da riuscire sgradita a quello stesso pubblico che poco a dietro l’aveva coperta di tanti applausi ! E il Gozzi doveva di cose di teatro essere intendente non mediocre ; chè la nuova maniera di recitare della Ricci, da lui indicata come guasta e manierata, finì coll’essere notata di punto in bianco, al suo esordire a Parigi. Nullameno fu accolta (se dobbiam credere al D’Origny, istoriografo contemporaneo del Teatro Italiano) allo stipendio della Compagnia, sebbene affettata nella pronunzia, studiata nell’espressione, impacciata nel gestire. Difetti che pare svanissero in breve. La Teodora Ricci esordì il 29 aprile 1777 nella protagonista della Femme jalouse, commedia italiana ; poi sostenne la parte di amorosa nel Double Mariage d’Arlequin. (V. D’Origny, Annales du Théatre italien, depuis son origine jusqu’a ce jour. Paris, Duchesne, 1788, vol. II).

Tornata in Italia, doventò, la primavera del 1782, la prima donna a vicenda della Compagnia di Maddalena Battaglia (V.). Il marito Francesco riporta un sonetto del cavalier Gaetano Tori modenese, egregio poeta – dice lui – e Ministro inviato alla Real Corte di Torino per S. A. S. il Signor Duca suo padrone.

Eccolo :

Alza verde arbuscel da fondo umile
de le foglie l’onor, dei tronchi i vezzi,
e già si stende, e già divien simile
a Pino che i virgulti ombri e disprezzi.
Invan nembo l’insulta irato o vile,
che a cacciar del rival l’onte e i disprezzi
si l’afforza dal mare aura gentile
che fia che ognun le frutta e i fior n’apprezzi.
{p. 292}Con la face del ver che a i vati splende,
Ricci, la cetra a Te risponde, e quanta
festa, lode, piacer l’agone accende.
De lo sdegno, del duol teco si ammanta
l’alma ; Ricci, per Te lieta si rende ;
il Teatro, Torin t’applaude e vanta.

Bartolo Stefano detto Mario in teatro. Trascrivo da Francesco Bartoli :

« Fu comico al servizio dell’Altezza Serenissima del Signor Duca Antonio Gonzaga di Guastalla, Sabionetta, e Principe di Bozolo, etc., a cui dedicò l’opera Teatrale scritta da altra penna, intitolata : La Costanza premiata nel Trionfo di Porsenna Re de Toscani. Ciò fece mentre la prefata Altezza Serenissima trovavasi in Venezia per suo diporto, e affidar volle al suo patrocinio quest’Opera Scenica allora, che se ne riproduceva in uno di quei Teatri la recitazione. Il Libro fu stampato in essa città da Domenico Lovisa in forma di dodici, e senza data dell’anno. Io però so, che fu il 1709. »

Bartolommeo di Venezia. (V. Sperindi).

Basilea Simone. Interessantisima è la figura di questo comico ebreo da Verona, il quale, a somiglianza del celebre Sivello (V. Gabbrielli) rappresentava da solo un’intera commedia. Del valore di lui ci fanno fede le varie licenze accordategli dal Duca di Mantova di recarsi fuor di stato a recitare, senza l’obbligo di portare in testa la marca di razza. Eccone una che tolgo dal Bertolotti :

Francesco Duca, etc…..

Concediamo licenza in uirtù della presente a Simone Basilea, hebreo, che con la sua sola uoce suole rapresentar comedie di molti personaggi, di poter, a nostro bene placito, però andar et stare in qualsivoglia città et luoghi dei nostri Stati et recitar comedie senza portar segno alcuno al capello o in altri luoghi come fanno gli altri ebrei eccetto che in Mantoua doue uogliamo che porti il solito segno, comandando perciò espressamente a tutti li ministri ufficiali et Datiari nostri non gli debbano dar molestia alcuna {p. 293}per tal conto ne fargli pagar datii per li suoi panni da dosso ne per quelli che adopera nelle comedie.

In fede di che la presente sarà firmata di nostra mano et del nostro sigillo.

E il Bertolotti aggiunge : « Era del resto una conferma, avendo il Basilea già avuto consimile privilegio dal Duca Vincenzo I, raccomandato da D. Giovanni De Medici. »

E dall’Appendice di Paglicci Brozzi alla sua opera : Il Teatro a Milano, apprendiamo che « Simone Basilea, comico veronese, ebreo, come ben si comprendre dal suo cognome medesimo, ottenne nel 1619, in occasione che recavasi a Milano onde recitare con alcuni suoi compagni, di poter portare la berretta nera, in luogo della gialla, colore allora obbligatorio pei seguaci della fede giudaica. »

Bassi Lodovica. Attrice di molti pregi, così nelle commedie scritte, come in quelle all’improvviso. Fu nella Compagnia di Antonio Sacchi e in altre, e morì intorno al 1750.

Bassi Domenico. Figlio della precedente. Fu artista e capocomico di pregi non comuni. Sostenne la parte di innamorato nelle commedie all’improvviso, e fu applauditissimo.

D’Italia passò in Francia ; e quivi apprese – dice Fr. Bartoli – alcune cose appartenenti al suo Mestiere, le quali poi con molta cura, ritornato in Italia pose in esecuzione. Le quali cose consistevano in bizzarre novità di allestimento scenico, adoperate specialmente ne’balli, che a lui fruttarono danaro e applausi. Fu anche autore di commedie non mai edite, e di farse mescolate di musica e prosa. Fra le commedie inedite, il Bartoli cita : L’Impegno della vera amicizia, La Donna di casa, e L’Irlandese fedele ; fra le farse pubblicate, Il Pellegrinaggio, Il diavolo a quattro, e La villeggiatura di Mestre. Tenne in affitto per molti anni il Teatro San Cassiano di Venezia ; ma la sorte, amica sul principio, gli voltò poi le spalle, non avendo egli alcuna novità per allettare il suo pubblico. Vecchio, povero, {p. 294}malazzato, si recò nella primavera del 1774 a Brescia, dove mori. Adolfo Bartoli, dallo spoglio fatto nelle notizie, più volte citate, del suo omonimo, dà l’elenco di alcune delle personne che appartennero alla Compagnia di Domenico Bassi. (V. Introduzione agli Scenarj inediti).

Uomini : Giacomo Baldarini – Ferdinando Colombo – Luigi Mazzochi – Nicola Menichelli – Carlo Monti.

Donne : Gaetana Bassi – Caterina Silani.

Sono da aggiungersi il figlio Gaetano e la nuora, e la figlia Marianna.

Bassi Marianna. Figliuola del precedente, da lui istruita nell’arte comica, diventò in poco tempo attrice valorosissima. Fr. Bartoli (op. cit.) scrive che « altra non eravi a’suoi giorni che potesse eguagliarla in abilità nelle tante cose, che ad esprimere intraprendeva. Recitava con molta intelligenza, cantava di buon gusto, e facevasi del ballo un passatempo. Questi tre pregi adoperati tutti anche in una sola sera sopra il teatro, destavano la meraviglia e gli applausi negli uditori. Una bella presenza, un brio animatore, una soave favella erano cose che formavano la delizia di chi l’ascoltava. Non era bellissima, ma aveva delle grazie non poche, e potevasi dir di lei :

nobil d’aspetto e di beltà modesta,
modi e maniere avea soavi e piane.

Morì a soli 20 anni in Pavia l’anno 1769 ; e la morte sua fu prima e forte cagione delle sciagure del padre, che non lo abbandonaron più mai. »

Bassi Gaetana, moglie di Gaetano Bassi, figliuolo di Domenico, come il padre attore e capocomico. Fu prima attrice pregiata, ma le sue qualità d’artista non potè mai far emergere, avvolta com’era nelle disgrazie, non mai interrotte, e perciò nel guittume della Compagnia del suocero, che non volle abbandonare finchè egli visse. Lui morto, divenne capocomico suo {p. 295}marito, e al tempo di Fr. Bartoli (op.cit.) viveva ancora in Palermo attrice ammirata, se non troppo fortunata.

Bassi……. Attore e capocomico, nativo di Venezia. Studiò al collegio di S. Cipriano con Giacomo Casanova ; vestì, come lui, l’abito ecclesiastico, poi abbracciò il mestiere dell’istrione, in cui pare vivesse brutalemente.

A dare un’idea della guitteria e sudiceria di codesto Bassi, trascrivo qui l’aneddoto che traggo dalle memorie del Casanova, inesauribile e interessante fonte di notizie su i comici italiani. Siamo ad Ausburgo nel 1789.

………………………..

« Quando la compagnia si fu tolta i suoi costumi di teatro, per indossar quelli di tutti i giorni, la laide Bassi, infilato il mio braccio, mi trascinò fuori, dicendo che io doveva recarmi a cena da lei. Mi lasciai condurre, e arrivammo tosto in una abitazione, quale io aveva immaginato. Era una immensa camera al pian terreno, che serviva a un tempo di cucina, di salotto da pranzo e di camera da letto. Una lunga tavola apparecchiata per metà con un cencio di tovaglia che portava l’impronta di un mese di servizio ; sull’altra metà stava un pajuolo assai lercio, nel quale si lavavano alcuni vasi di terra, rimasti là sin dal pranzo, che dovevan servire poi per la cena. Una sola candela ficcata nel collo di una bottiglia rotta rischiarava a mala pena lo stanzone ; e come non v’eran smoccolatoj, la brutta Bassi ne faceva le veci adoperando l’indice e il pollice e asciugandosi poi senza cerimonie le dita sulla tovaglia, dopo di aver gettato per terra la moccolaja. Un attore, servo della Compagnia, che portava lunghi mustacchi, a motivo delle parti di assassino e di ladro ch’egli recitava, servi un enorme piatto di carne riscaldata nuotante in mezzo a una quantità di poltiglia, a cui avevano affibbiato il nome di salsa ; e la famiglia affamata si mise a intingervi del pane che andava spezzando colle dita o coi denti, in mancanza di coltello e di forchetta. Un gran vaso di birra passava di convitato in convitato, e nel bel mezzo di questa miseria, si mostrava la gioja su tutti i volti ; il che faceva chiedere a me stesso, che cosa fosse davvero la felicità…. Come chiusa, l’attore-cuoco mise sulla tavola un secondo piatto, pieno di pezzi di porco fritto nella padella, che fu divorato in un fiat con grande avidità. Bassi si degnò di farmi prender parte a questo appetitosto banchetto, e glie ne fui tenuto di cuore. Mi fece poi brevemente la narrazione delle sue avventure, che eran quelle di un povero diavolo ; e fini col dirmi ch’egli andava a Venezia, ov’era sicuro di far fortuna nel carnovale. »

Povero Bassi !… Egli dava, quando poteva, un fiorino a ciaschedun attore : quando non poteva, accadeva la rivolta in Compagnia, e si doveva ricorrere ad espedienti più o meno decorosi per recitare, e per togliersi la fame.

La Compagnia era composta di 14 persone, compresa la famiglia Bassi, marito, moglie e una figlia di 13 in 14 anni ; e il {p. 296}più delle volte s’introitavano tre o quattro fiorini, non bastanti nè per l’orchestra, nè per l’illuminazione, per quanto, come si può credere, modestissime.

Nulla sappiamo degli attori, se non che di una servetta strasburghese e di un arlecchino, il suo amante, intorno ai quali i alla famiglia Bassi è nello stesso Casanova la descrizione di un’orgia schifosa al segno da far arrossire il più spregiudicato uomo del mondo.

Ma chi potevan essere questi Bassi ? Non certo alcuno menzionato nel dizionarietto del Bartoli, poichè Domenico era già morto nella primavera del 1774, cioè quindici anni prima dell’incontro di questo col Casanova ad Ausburgo : non la Marianna morta a venti anni. Se mai potrebbe cader dubbio sulla Gaetana, ma mi pare strano che il Bartoli, suo contemporaneo, non abbia fatto alcun cenno nè di viaggi all’estero, nè della educazione ecclesiastica del marito Gaetano, nè della sciagurata figliuola.

Bassi Valentino. Figlio di un Giuseppe Bassi agiato negoziante di Senigallia. Nonostante il divieto del padre, uomo di austerità singolare, e schiettamente e profondamente religioso (tre altri figli datisi agli studi ecclesiastici, coprironto alte cariche nel clero), frequentando nascostamente i teatri, fu preso d’amore per l’attrice Adelaide Pasquali, figlia di un ex-capitano contabile di Napoleone, poi capocomico, e di Annetta Verolti ; e fuggito dalla casa paterna per entrar nella Compagnia del futuro suocero, si diede con tanto amore all’arte che potè riuscrire brillante prima, poi caratterista non de’peggiori, al fianco de’grandi artisti del tempo, Ventura, Monti, Pertica, Taddei, Vestri, Marchionni, Pelandi, Internari e Vergnano.

Anche tentò di riavvicinarsi al padre, ma sempre invano…. Fu capocomico in società col cognato Luigi Preda, il noto meneghino ; e nel 1856 se ne separò per formare una compagnia italiana di primo ordine, in cui affidò al figliuolo Domenico le parti di brillante assoluto. Alcuni rovesci di fortuna e l’età {p. 297}omai avanzata l’obbligarono ad abbandonar l’arte ; e seguìto per alcun tempo il figlio di compagnia in compagnia, si stabilì in Firenze, ove morì a settantaquattro anni.

La moglie Adelaide morì a ottantaquattro in Torino, circondata dalle cure affettuose del figlio, della nuora, de’nipoti.

Bassi Domenico. Figlio del precedente e attore brillante rinomatissimo. Le sue attitudini all’arte comica non si mostraron troppo presto, chè, recitata la particina del bimbo ne Due Sergenti, in compagnia di suo padre, fu subito collocato a riposo per…. insufficienza. Fatto grandicello e ritentata la prova, passò progressivamente, nè con maggior fortuna, dai servi ai mami, ai secondi amorosi, ai brillanti, ai meneghini, ai primi {p. 298}atori ; poichè, al finire del disastroso capocomicato di suo padre, nel ’59, egli, cavallo da tiro e da soma, alternava le parti comiche colle tragiche, fra cui, incredibile a dirsi, quella dell’ Amleto e dell’ Otello !!! Sciolta il padre la compagnia, Domenico si scritturò il ’60 collo Sterni, poi dal ’61 al ’66 con A. Alberti a’ Fiorentini di Napoli, ov’ebbe compagni Majeroni, Taddei, Bozzo, la Sadowski, la Monti, la Cazzola, Salvini, ecc. Fu dal ’67 al ’72 splendido ornamento della Compagnia Morelli al fianco di Pia Marchi e Luigi Monti, la Cazzola, Salvini, ecc. Fu dal ’67 al ’72 splendido ornamento della Compagnia Morelli al fianco di Pia Marchi e Luigi Monti, deliziosa e indimenticabile coppia d’innamorati. Il suo maggior grido anzi gli venne in quella compagnia, nella quale era segnato a dito come il più nobile de’giovani brillanti. Passò da questa del Morelli in quella di Bellotti-Bon sino al ’76 ; dal ’77 all’ ’82 in quella di Giuseppe Pietriboni, poi finalemente, dall’ ’83 all’ ’85, in quella di Andrea Maggi. Stabilitosi a Torino, fu prima dirigente del Carignano, per due anni : poi istitutore di una scuola di recitazione, ch’egli ha tuttavia, intitolata da S. A. R. Maria Letizia, e dalla quale usci tra gli altri Corinna Quaglia, che sostenne per alcun tempo le parti di prima attrice in Compagnia di Cesare Rossi.

Fot.Bettini – Livorno.

Fu Domenico Bassi artista egregio sotto ogni rispetto ; e la proteiformità mostrata nel tempo non avventurato della sua giovinezza, passando dalle buffonerie della farsa ai belati del dramma, gli fu poi di non poco giovamento in quello della sua maggior riputazione artistica, nel quale seppe farsi applaudire da ogni pubblico d’Italia, così colle comicità grottesche del Flaupin ne’ Buoni villici, come colla compassata rigidità del Metzburg nel Ridicolo ; così nel Tatà dell’Andreina, come nel Prospero delle Zampe di mosca. Ebbe poi un’attitudine singolare a’dialetti, de’ quali mescolava alcune farse, come p. es. Scarpa grossa e Cervello sottile, riproducendo nel volger di mezz’ ora vari tipi disparatissimi : e non minore attitudine ebbe alla pronunzia correttissima della lingua francese, di cui molto si valse, facendo smascellar dalle risa lo spettatore più contegnoso col Grelufont e col Graffigny ; due parti, nelle quali egli fu artista incomparabile. Tradusse dal francese una infinità di {p. 299}commediole e farse e monologhi, e non poche pochades ridusse per la scena italiana. Va citata, come singolarità, la sua avversione ai versi ; tanto che si vuole mettesse in patto di scrittura di non mai recitar che in prosa ; la quale avversione gli venne forse da una cotal consuetudine di andare spesso e volentieri a soggetto.

Bastona Andriana. Veneziana. Dice il Loehner (op.cit.) che il suo vero cognome pare fosse della Facchina. Sosteneva a Venezia al S. Samuele le parti di prima donna con molto plauso l’anno drammatico 1736-37 nella Compagnia Imer diretta da Carlo Goldoni, il quale nella prefazione al Vol. XIII delle sue opere (Ediz. Pasquali) così ne parla :

Prima Donna Andriana Bastona Veneziana, detta la Bastona Vecchia, per distinguerla da Marta Foccheri sua figliuola, detta essa pur la Bastona. Questa era una brava attrice, una brava Amorosa, del carattere di Vitalba ; e vecchia, com’ ella era, si conservava brillante, e vivace sopra la scena, un poco troppo anch’ ella nella parti serie ed interessanti, cercando, come il suddetto Comico, di porre tutto in ridicolo. Mi ricordo, che rappresentando essa la parte di Rosmonda in una tragedia mia, che Rosmonda era intitolata, mancando la Ballerina che danzava fra gli atti, e gridando il popolo Furlana ! Furlana ! ch’ è il ballo favorito de’ Veneziani, sorti la Bastona vestita all’eroica, e Rosmonda ballò la Furlana.

E al proposito del Belisario (ivi) :

Per dire la verità gli attori contribuirono infinitamente alla riuscita dell’ opera e le parti erano bene distribuite : …… Teodora Imperatrice, vana, superba e feroce non potea esser meglio rappresentata : la Bastona la sosteneva a maraviglia ; e s’investiva si bene di quel carattere odioso, che più e più volte i Gondolieri, ch’ erano nel Parterre, la caricavan d’ingiurie, ch’erano insulti alla parte rappresentata, ed applausi alla brava attrice.

E più oltre, al proposito della Rosmonda :

L’ho composta per contentar la Bastona, la quale sostenuto avendo il carattere odioso di Teodora, pretendeva di farsi onore con una parte virtuosa, ed eroica ; ma tutti e due c’ ingannammo : ella non era fatta per queste parti, ed io non era ancora assai pratico per iscegliere gli argomenti.

Queste mie compiacenze mi hanno qualche volta giovato ; ma moltissime volte mi hanno pregiudicato.

Ma se la Bastona era del carattere di Vitalba, tale da volger tutto al riso e da mostrarsi in veste di Rosmonda a ballar {p. 300}la Furlana, che quella sera fu certo più accetta al pubblico della tragedia stessa, fuor di scena pare fosse un vero grano di pepe.

Ella era prima donna a vicenda colla Romana (V. Collucci). Toccava dunque or all’una or all’altra recitare in principio di stagione il complimento d’uso.

La Romana aveva già recitato il suo a Udine, scrittole a bella posta : si trattava di scriver l’altro per la Bastona ; ma essa che ne recitava uno da trent’anni, non voleva studiar cose nuove. Fu allora che il Goldoni pensò comporre una specie di serata-complimento, nella quale prendesser parte tutti gli attori della Compagnia. La serata si divise in tre parti, prima delle quali fu un’accademia poetica in lode di Venezia, la seconda una commedia in un atto, e la terza un’ operetta la Fondazion di Venezia (V. Amurat) ; e nel chiedere all’uditorio la completa indulgenza, il Goldoni aveva un po’ caricata la dose, pare, sul nome della Ferramonti.

Tanto la Bastona se ne adontò, che andava gridando di avere il Goldoni composto quella sua ciarlantaneria per favorire la sola Ferramonti, che non era che una seconda attrice…. e che il diritto di rappresentazione ne spettava alle prime donne ; e aizzava la Romana, perchè anch’ella si unisse a lei ne’reclami e nelle molestie.

Bastona Marta. Figlia della precedente.

Prima ancora del rimpasto della compagnia che doveva avvenire in quaresima del ’37, la Marta « eccellente attrice – scrive Goldoni stesso (Memorie, T. I, pag. 315, ed. Loehner) – piena d’intelligenza, nobile nelle parti serie, e piacevolissima nelle comiche » era stata chiamata a sostituire sua madre. E di questa sostituzione così parla il Goldoni nella prefazione al Tomo XIV delle sue opere (Ediz. Pasquali) :

…. il cambiamento più rimarcabile fu quello della Bastona madre nella Bastona figlia, moglie di Girolamo Foccheri, comica eccellente quanto sua madre ; ma che oltre l’avvantaggio dell’ età aveva quello di una maniera più nobile di recitare. Ella fu presa per prima donna a vicenda colla Romana, com’ era sua madre.

{p. 301}

Recatasi al Falcone di Genova colla Compagnia di S. Samuele, la primavera del 1736, la Compagnia – scrive Goldoni – era salita in maggior credito per la novità dellaBastona…. E il maggio del 1743, morta la Baccherini a Genova, ella s’impossessò della parte della Donna di garbo, ed ebbe la soddisfazione di recitarla e di riscuoterne infiniti applausi (Gold., Id., Tom. XVIII). La Marta era stata avanti seconda donna al S. Luca, contendendo la palma alla prima attrice che era la Vittoria Miti.

Così ne scrive Fr. Bartoli :

Reggeva allora quella Compagnia Antonio Franceschini detto Argante primo Innamorato, con il quale faceva de’ Scenici contrasti con molta vivacità di spirito, e con un dialogo eloquente ed ottimamente condotto. Passò in altre Compagnie di grido, e crebbe sempre più il suo valore quando ebbe occasione d’esercitarsi con Silvio della Diana, e poi con Antonio Vitalba. Ella era assoluta Padrona del Teatro, e quando parlava, sapeva ben in qual modo incominciare e finire il discorso con intero compiacimento di chi l’ascoltava. Una facondia copiosa, un’ arguzia sottile, ed alcuini motteggi aspri insieme ed accorti, resero questa comica sulle scene gradita. La sua fama giunse oltre i confini d’Italia, e fu chiamata dall’Elettor di Sassonia, sotto a’ cui reali auspicj, onorata di favori e di generosa pensione, venne meno il viver suo in Dresda l’anno 1762, il cinquantesimo dell’età sua non interamente matura.

Secondo il barone ö Byrn (op. cit.), il nome della Bastona appare la prima volta in Sassonia il 3 agosto del 1748, onomastico del Re, all’ inaugurazione del nuovo teatro per la commedia, nelle vicinanze del Palazzo Reale nel sobborgo, in Varsavia, dove Augusto III abitava di preferenza. Per la 2ª rappresentazione furon dati gratis i biglietti dall’ufficio del maresciallo di Corte, dietro domanda firmata e sigillata di chi desiderava assistervi. Si recitarono ventotto commedie dal 3 agosto 1748 al 24 gennaio 1749, fra le quali una in tre atti di Giovanna Casanova, con musica di Apollini : Le Contese di Mestre e Malghera per il trono, che si conserva tuttavia manoscritta (testo e partitura) e rilegata in velluto rosso nella biblioteca musicale del Re di Sassonia. La rappresentazione ebbe luogo il 6 di novembre, e i personaggi e gli attori ne furono i seguenti : Bottenigo, Pietro Mira – Malghera, Giovanna Casanova – Mestre, Rosa Grassi – Stricherhoc, Gerolamo Focher (Focari o Foccheri) – Carpenco, Francesco Seydelmann, e Ballotta Antonio Bertoldi. {p. 302}L’opera, una farsa senza spirito, secondo il gusto moderno, e senza l’eterno feminino, contiene anche un’ apprendice in polacco, nella quale è detto non trattarsi che di una parodia delle più salienti scene della Didone e Semiramide e altre opere del Metastasio. Benchè in questa non prendesse parte la Bastona, nondimeno è certo che ella era già nella compagnia col marito Focher o Focari, che sosteneva in detta opera la parte di Stricherhoc, come abbiam visto. Nel carnevale del 1749 si diede « Amor non ha riguardi » di cui i personaggi erano Tabarino padre di Aurelia e di Florindo, Lelio cavalier bolognese, Brighella maestro di casa, Pantalone padre di Rosaura, e Arlecchino padre di Colombina : l’Aurelia era la Bastona che rappresentava quasi sempre, come vedremo, quella parte ; Tabarino era Camillo Conzachi – Pantalone, Francesco Golinetti – Colombina la Isabella Toscani – Rosaura la Casanova – Arlecchino, Antonio Bertoldi – Brighella, Pietro Moretti ; gli amorosi erano Bernardo Vulcano, Giovacchino Limberger e Giovanni Battista Toscani ; e molto probabilemente in questa rappresentazione sarà stato eliminato il Limberger, il peggior di tutti, secondo i giudizi del tempo. Anche la Bastona troviamo prender parte alla rappresentazione del Zoroastro, sotto le spoglie di Amelia, l’erede pretendente del trono di Battro. (V. D’Arbes Cesare).

Nel 1750, ossia dopo le accennate rappresentazioni di Varsavia, apparve a Stuttgart una specie di contributo alla Storia e alla prosperità del Teatro, in cui è uno schizzo critico sugli artisti della commedia, che il lettore troverà al nome di ciascun d’essi. Ecco quello che concerne la Bastona.

Marta Focari (Bastona-Focher) è indiscutibilemente la miglior commediante. Ha voce, figura, e piace nelle parti anche più antipatiche. Il suo portamento è davvero da regina. Non è la più giovane, ma si direbbe tale, a giudicar dall’entusiasmo ch’ella desta sull’altre in iscena. Il suo sguardo, le sue espressioni, il volger del capo, i gesti, l’incesso, tutto contribuisce a farla recitare perfettamente. Ella può essere colla stessa facilità comica e drammatica : sostiene per lo più la parte di Aurelia.

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Questo giudizio così favorevole non ebbe nè meno la Giovanna Casanova. Nello studio del Byrn non è alcun cenno che riguardi la pensione e la morte della Bastona : solo vi si trova un cenno della pensione del marito, Gerolamo Focher, nel 1763 circa, quando, cioè, la moglie, secondo il Bartoli, era già morta. Il 26 febbraio del 1756, la rappresentazione della Vedova scaltra fu l’ultima dei comici italiani a Dresda.

Bastona Giacinta. Sorella della precedente, recitò in sua compagnia e da lei separata le parti di donna seria. « Fu gradita – dice il Bartoli – sui teatri d’Italia, e fu stimata e ricercata dalle comiche compagnie. »

Battaglia Carlo. Milanese. Recitò le parti di caratterista con molto favore, prima nella Compagnia di Onofrio Paganini, poi in quella di Gerolamo Medebach a Venezia, l’anno 1772, finchè si fece conduttore di una Compagnia propria, che intitolò dal nome di sua moglie, la rinomata Maddalena, e pella quale scritturò, dice il Bartoli, una scelta de’ migliori commedianti che vantasse allora l’Italia. Gli fu concesso il Teatro di S. Grisostomo per tre anni dopo l’azienda Medebach, durante i quali potè mostrare la sua grande perizia e come direttore artistico e come amministratore.

A me pare errato il sistema di Adolfo Bartoli di formare gli elenchi delle varie Compagnia co’ nomi, trovati nelle notizie del suo omonimo, di quei comici che a quelle date Compagnie appartennero, senza tener troppo conto delle date. Così nell’elenco della Compagnia Battaglia troviamo, ad es., Cesare D’Arbes, che figura primo, mentre sappiamo che il D’Arbes fu colla Battaglia un anno appena pressochè settuagenario : e accanto al D’Arbes, Gaspare Doni, l’amoroso, scritturatosi in quella Compagnia, vivo ancora Fr. Bartoli, ossia qualche anno dopo la morte del D’Arbes.

Vedasi a pag. seg. l’elenco, che traggo dalla mia raccolta. Manca la data, ma è certo del 1782. (Cfr. Bartoli, Ricci Teodora).


{p. 304}

SIGNORE

Maddalena Battaglia

Teodora Ricci

a vicenda

Giuseppa Marzocchi

Pierina Cardosi, serva

SIGNORI

Gregorio Patella

Gaetano Florio

Alessandro Riva

Fausto Marzocchi

Giacomo Modena

Caratterista : Carlo Battaglia

MASCHERE

Angelo Valsecchi, Pantalone
Atanasio Zannoni, Brighella
Gaspare Marzocchi, Anselmo
Vincenzo Bugani, Arlecchino e subalterni.

A questo si aggiunge l’elenco per l’autunno 1795 e carnovale 1796, nella quale stagione la Compagnia era al S. Gio. Grisostomo di Venezia (Teatro Mod. App., Tom. III). Come si vede, la Battaglia era passata al ruolo di madre, e il Battaglia, già vecchio, aveva abbandonato quello di caratterista per non figurar più nell’elenco della Compagnia come attore. La Compagnia era sociale, come appare dal manifesto che ha :

Impresari : Carlo Battaglia e Compagni


ATTORI ATTRICI
Antonio Belloni a vicenda Luigia Belloni

Angelo Venier

Angelo Roberti

Francesco Cavalletti

Maddalena Corticelli

Teresa Zappi

Gaetana Cavalletti

Gaetano Fiorio

Giacomo Modena, per le parti da padre

Giambattista Pavoni, caratterista

Maddalena Battaglia, per le parti da madre

Maddalena Gallina, servetta

MASCHERE

Alberto Ferro, Pantalone
Gaspare Marzocchi, Anselmo
Innocente De Cesaris, Brighella
Felice Villani, Arlecchino.
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Nell’estate del ’95 la Compagnia era a Trieste, ove recitò per la prima volta e con gran successo L’Avventure notturne del Federici.

Battaglia-Torti Maddalena. Moglie del precedente, nacque in Pisa da non volgari parenti. Fatta sposa del Battaglia, si diede all’arte comica, e divenne in breve attrice valorosissima. Lascio la parola a Fr. Bartoli :

Altra difficilemente si è veduta sostenere al pari di lei le tragiche rappresentazioni con tanta maestria e con tanto decoro. Le passioni e gli affetti dall’arte sua dimostrati sembrano dalla natura in quel momento prodotti, e fa esprimere al vivo l’eroico carattere che rappresenta. Chi meglio di lei in Italia recitò la Semiramide del signor di Voltaire ? Ventidue sere videsi replicata l’anno 1773 in Venezia nel Teatro di S. Gio. Grisostomo con molta fortuna di Girolamo Medebach.

Dallo stesso Bartoli traggo il seguente sonetto, tributo d’un illustre poeta a’degni pregi offerto di questa valorosa ed inimitabile Recitante.

Al subblime merito della Signora Maria Maddalena Battaglia nata Torti di Pisa, la quale con universale applauso recita nel pubblico Teatro di Lucca in grado di prima Donna nella scelta Compagnia Comica degli Accademici Riuniti.

SONETTO

Illustre donna, sul cui viso adorno
scherzan le Grazie, e ridono gli Amori,
a Te dovuti son, d’invidia a scorno,
del Coturno e del Socco i primi onori.
Da dove muor fin dove nasce il giorno
suona di Te la Fama, e i più canori
Cigni, che al Reno stanno e all’Arno intorno,
ti ornaro il Crin dei meritati allori.
Quando sciogli agli accenti il lusinghiero
labbro, s’asconde l’Arte, e sol Natura
parla, ed in forse stiam, se fingi il vero.
Così su i cor Tu imperi, e al riso e al pianto
ci volgi a tuo piacer : e in van procura
ragione opporsi al ben tessuto incanto.

{p. 306}Quando la prima donna Regina Cicucci fu licenziata dal Sacchi, furono in predicato le due attrici Maddalena Battaglia e Teodora Ricci-Bartoli ; la prima delle quali – scrive Carlo Gozzi per relazione del Sacchi stesso (op. cit.) – era una valente donna toscana, ma d’età non fresca, non capace nella commedia alla sprovveduta, e che aveva molte pretese di preminenze, e d’etichette, ma sopratutto quella d’un grosso onorario. Che la Battaglia fosse superiore nelle grandi parti di tragedia pare fuor di dubbio ; ma pare anche fuor di dubbio che le parole del Sacchi fossero esagerate, tanto più, aggiunge il Gozzi, che il Sacchi era già internamente determinato di scritturare la Ricci, prima di chiedere il consiglio di lui….

Sappiamo dal vol. III del Teatro App. Mod. (Ven., 1796) che la Battaglia creò nella stagione di autunno e carnevale ’95-’96 la parte di Agata nell’Elena e Gerardo di Luigi Millo, uno dei poeti della Compagnia, che fu l’unica parte da lei recitata nel corso di quell’anno, lasciando in ogni spettatore un sommo desiderio di udirla altre volte.

La Maddalena Battaglia sopravvisse di qualche anno al marito. Essa col solo frutto della sostanza raccolta coll’arte sua, e depositata alla Tesoreria di Venezia, aveva potuto formarsi, fuor delle scene, una agiata se non ricca esistenza : ma, caduta la Repubblica, dietro l’invasione francese, ella fu compiutamente rovinata. Le varie compagnie che si recaron di poi a Venezia l’andaron soccorrendo quanto poterono, e la nobile famiglia Vendramin le assegnò gratuitamente due stanze in quello stesso teatro, in cui ella aveva raccolto sì copiosa messe di applausi, di onori e di quattrini.

L’umiliazione e la miseria affrettaron la sua fine, che fu nel 1803 al settantacinquesimo anno dell’età sua.

Battaglia Giuseppa. Nipote di Carlo Battaglia, si trovava, il 1782, in sua Compagnia, promettendo, benchè giovanissima, di riuscire sotto gl’ insegnamenti della zia Maddalena una buona attrice.

{p. 307}

Battista Veronese. A proposito del Pastor Fido di Giovan Batt. Guarini, Jason De Nores, nella sua Apologia contra l’autor del Verato, dice : « E Messer Battista Veronese, altresì recitator di commedie, affermò pubblicamente appresso persone dignissime di fede di aver rappresentato già quindici anni sono in Franza, per tutta Italia, e specialmente nella istessa città di Ferrara, oltra molte altre la tragicommedia pastorale della Pazzia d’Orlando. » Codesto Battista noverato da Jason De Nores assieme a Messer Giulio, il Pasquati Pantalone, e a Messer Orazio, il Nobili Innamorato dei Gelosi, deve aver fiorito fra il 1570 e il 1580.

Battista da Rimino. Non ho trovato altra menzione di lui, fuor di quella fatta dal comico Bartolomeo Rossi, da Verona, il quale nel discorso a’ Lettori che è in una sua pastorale, Fiammella (Parigi, Abel l’Angeliero, 1584) al proposito di certa libertà nel dire che debbono avere le parti ridicole, scrive : ……come Bergamino, se bene non osserva la vera parola Bergamascha, non importa, perchè la sua parte e come quella di Pedrolino, di Buratino, d’Arlechino, et altri che imitano simili personaggi ridiculosi, che ogni uno di questi parlano a suo modo, senza osservanza di lingua, differenti da M. Simone, Zanne de i Signori Gelosi, e M. Battista da Rimino, Zanne de’ Signori Confidenti che questi osservano il vero dicoro de la Bergamascha lingua.

Battista da Treviso (degli Amorevoli), recitava le parti di donna sotto nome di Franceschina.

Nella Biblioteca Ambrosiana di Milano – Cod. B. g. inf. – tra le lettere autografe di Iacopo Corbinelli a Gio. Vincenzo Pinelli esiste la seguente del 1° maggio 1579 (carte 221ª) gentilmente comunicatami dal Prof. Pio Raina.

Hoggi ho consegnato alla Fran ceschina comico (alias Batista Amorevoli, il quale e tutto cosa mia, et e buona persona et desidero che gli facciate per amor mio buona cera) un pacchetto, dove è {p. 308} 3 libri di quei mia, del quale V. S. hebbe il primo tomo : ce ne resta 2 altri.

E in altra lettera del 10 maggio, stesso anno (carte 224ª), dice : La Franceschina partì X dì sono.

Il Corbinelli era a Parigi, e il Pinelli a Padova. Con qual Compagnia era dunque l’Amorevoli ? Non ne sappiamo nulla. Era co’primi Gelosi, che furono in Francia nel 1577, e in quell’anno istesso preser congedo dalla Corte, non so bene se per tornare in Italia o recarsi in Inghilterra ? Co’ secondi Gelosi no certo : chè non si recarono in Francia fuorchè nel ’99…. e nel ’79 eran molto probabilmente a Firenze, dove Isabella Andreini diede alla luce il figlio Giambattista. E poi : di questi non facea parte come Franceschina la famosa Silvia Roncagli ? Forse, abbandonò quei primi Gelosi per recarsi alla Corte del Re di Navarra a Nerac in quella Compagnia raccogliticcia di comici italiani, de’quali fu capo nel ’78 e ’79 un Massimiano Milanino ? Il non esser egli nominato ne’varj ordini di pagamento insieme agli altri comici, non mi par cosa di gran rilievo ; poichè, come accenna il Baschet, molti di quei quaderni contenenti le spese straordinarie furon distrutti. Noi camminiamo, come ognun può vedere, nella via delle ipotesi, ed è peccato davvero che nè dall’opera dello Scala, il capo de’Gelosi, nè dall’epistolario del Martinelli, il Drusiano, conduttore di comici italiani a Londra nel ’78, e citato da A. Mézières (Prédécesseurs et Contemporains de Shakespeare. Paris, Charpentier, 1863) sugli studi di Poyne Collier, si possa rilevar nulla di chiaro e di preciso intorno alla Compagnia de’ Gelosi che fu in Francia nel ’77.

Battista da Treviso lasciò dunque la Francia il 10 maggio del ’79 per recarsi in Italia e precisamente a Padova. Lo troviamo il 1584 nella Compagnia degli Uniti, come si rileva dalla seguente lettera da Ferrara al Principe Vincenzo in data del 3 aprile, sottoscritta da tutti i Comici Pedrolino, Magnifico, Gratiano, Lutio, Capitan Cardone, Flaminio, Batt.ª da Treviso Franceschina, Giulia Brolo, Isabella, Gio. Donato, Grillo, e che riporto dal D’Ancona (op. cit., II, 486) :

{p. 309}

Havendo noi Comici Uniti, umilissimi servi di V. A. S., di nuovo tornata insieme la Compagnia di Pedrolino, come già era, et anco migliorata di personaggi famosi nell’arte comica, et desiderando noi venire a recitare a Mantova con buona gratia di V. A. S., humilmente la preghiamo et supplichiamo concederne licenza si che possiamo venire, chè subito saremo prontissimi. Noi sariamo venuti confidandosi nella bontà di V. A. S., ma perchè il Sig.r Filippo Angeloni (V.) fa ogni opera acciò che noi non ci venghiamo, habbiamo prima voluto farne consapevole V. A. S., affine che la si degni trattarne con l’A. S.ma del S.r Duca suo padre, et far si che possiamo venir liberamente a servirla.

A questa degli Uniti seguì, ventiquattr’ ore dopo, una lettera di calda raccomandazione di Margherita Gonzaga, duchessa di Ferrara, sorella del Principe.

Nel 1587 pare che Messer Battista si fosse fatto capocomico, come può rilevarsi da quest’altra lettera, tolta pure dal D’Ancona (II, 492), dalla quale anche si apprende come egli fosse già da tempo in que’ rapporti relativamente intimi che solean correre fra S. A. S. e i comici di maggior grido : rapporti che confermerebbero le parole del Corbinelli : è buona persona et desidero che gli facciate per amor mio buona cera.

Siccome gli infiniti favori et gratie che mi ha sempre fatto V. A. Ser.ma mi levano la speranza di poterle far servitii che da quelle me disobleghe, così la grandezza dell’animo suo pronto sempre a compiacere i suoi servitori, me dà ardire di supplicarla di una gratia ; il che tanto più volentieri mi movo a fare, quanto che questo mi porgerà occasione di poterla di novo servire. La supplico adunque con ogni humiltà e col maggior affetto ch’ io posso, che per sua benignità si degni concedermi licenza di poter venire a Mantova con una compagnia di Comici a recitar comedie, assicurandola che la Compagnia è tale, che merita esser favorita da V. A. Ser. di questa gratia, et perchè son certo che secondo la sua solita benignità è per concedermi questa licenza, non glie ne farò maggior istantia, ma supplicandola a tenermi per quel vero servitore che sempre le sono stato e le sono, le faccio humiliss.ª reverentia, et prego il Sig.r Dio che prosperi ogni suo desiderio.

Di V. A. Ser.ma
humiliss.mo servitor
Battista degli Amorevoli da Treviso detto la Franc.na
Comico Amorevole.
(V. Roncagli).

Bava Giuseppina. (V. Ruggieri Giuseppe).

Bazzi Gaetano, nato a Torino nel 1771, fu, più che attore, capocomico rinomatissimo. Sebbene si creda generalmente che {p. 310}il Bazzi non abbia mai calcato le scene, a somiglianza del fratello Giovanni, marito della celebre Anna ; pur sappiamo ch’egli sostenne la parte di Luigino nell’ Innamorato al tormento del Giraud ; e nell’elenco a stampa della Compagnia pel 1820 (un anno prima che egli avesse l’incarico di formar la famosa Compagnia Reale Sarda) figuravano : Gaetano Bazzi per le parti di padre, e Giovanni per quelle di generico. Comunque sia, egli sali in rinomanza esclusivamente come conduttore e direttore di Compagnia ; nè la sua fama cominciò a stabilirsi colla formazione e direzione della Compagnia Reale : chè molti e principali artisti di questa avevan già appartenuto alla Compagnia di lui innanzi al ’21, come il Miutti, il Righetti, il Bucciotti, la Vincenza Righetti, e altri. Nel 1808 la sua Compagnia recitò il 3 settembre al Valle di Roma la Ciarliera indispettita del Giraud, e a Siena per la prima volta La Casa disabitata.

Per la Compagnia Reale Sarda furono stanziate in bilancio lire cinquantamila, e il Bazzi col valido aiuto morale dei Conti Piossasco e Benevello, potè pel corso di oltre venti anni far ammirare dai più disparati gusti del pubblico italiano un vero modello di Compagnia, e pel valore degli artisti e per la ricchezza dell’allestimento e per la musicalità dell’assieme e più ancora per la elettezza e varietà del repertorio, quasi tutto italiano. In codesto non breve periodo sfilarono davanti al pubblico la Bazzi, la Marchionni, la Romagnoli, la Robotti, la Bettini, Romagnoli, Boccomini, Bon, Righetti, Miutti, Borghi, Vestri, Gottardi, Taddei, e altri molti.

Il Bazzi, il quale, dice il Bonazzi, congiungeva a talenti profani monastiche virtù, morì a Torino il 1843 ; secondo il Regli (op. cit.), la data della morte sarebbe quella del 21 marzo 1853 ; ma è un errore evidente, poichè nel 1844 egli non era più nella Compagnia Reale Sarda, alla direzione della quale successe interinalmente Domenico Righetti, e nel ’45 la moglie Marianna, come vediam più giù, era già vedova. Del suo valore artistico discorre largamente Angelo Brofferio nella introduzione ai Primi Erudimenti dell’Arte drammatica (Torino, 1845), {p. 311}pregevolissima operetta di Gaetano Bazzi, dedicata con soavissima lettera al cognato, e valoroso artista, Domenico Righetti.

Ecco le parole del Brofferio al proposito di un suo lavoro giovanile, La saviezza umana :

…… Bazzi ponea mano alla rappresentazione ; e allora la commedia era sua, allora con uno zelo, con un amore, con una intelligenza che non era in altri che in lui, metteva tutto in movimento, e l’autore vedeva sotto i suoi occhi trasformarsi quasi per incantesimo il proprio lavoro, e i suoi pensieri si animavano, il suo dialogo si vestiva di arcane significazioni, le sue scene si succedevano cosi naturalmente che era una maraviglia, e i suoi personaggi si sentivano trasfuso nelle vene tanto sangue che il medico avrebbe perduto il suo tempo.

E più oltre :

Chiudendo gli occhi alla vita Gaetano Bazzi lasciava un’operetta in cui erano contenuti, siccome fraterno legato, i migliori precetti che per la recitazione si potessero desiderare. Questi precetti, frutto di assidui studi e di lunga esperienza, vengono oggi in luce per cura della signora Marianna Righetti vedova Bazzi, a cui morendo trasmise il marito una preziosa eredità di affetti che per morte non si estinguono.

Gli artisti drammatici troveranno nel libro del Bazzi tutto quello che si può nel loro arringo imparare colla teoria associata alla pratica ; ma ciò che il Bazzi non potè dire con espressi insegnamenti e lasciò tuttavia non oscuramente raccomandato è questo : che le regole e le massime e gli esempi non giovano all’artista drammatico se prima egli non abbia pensato a istruirsi la mente, a educarsi l’animo, a ingentilirsi i costumi, a rendersi famigliare tutto ciò che è bello, che è grande, che è nobile, che è generoso, e, anch’esso cittadino d’Italia, abbia pensato a scaldarsi anch’esso al raggio del sole italiano.

C’ è un po’ di fervorino, se si vuole, per l’effetto della chiusa ; come appare un non so che di bizzarro, o almeno, di manchevole in questa teoria del Bazzi ; ma la bizzarria e la manchevolezza dileguan subito leggendo l’operetta sua, breve compendio di acute osservazioni artistiche, le quali non si direbber da vero scritte mezzo secolo fa. Interessantissima è sopra ogni altra l’analisi ch’ egli fa delle varie parti, o ruoli (amoroso, primo uomo, padre, caratterista, parti brillanti, tiranno, {p. 312}servo sciocco e secondi caratteri, prima attrice, ingenua o amorosa, vecchia caratteristica, cameriera, madre), analisi ch’egli restringe poi in queste ultime parole :

L’amante ingenuo dice all’oggetto più caro del suo cuore :  – Sono innocente – colle voci di scusa, di raccomandazione, o di abbandono, e disperazione. Il traditore lo asserisce con quella enfasi che ha premeditata col suo delitto. Il padre coll’accento sicuro lo dice ai propri figli, ai giudici, agli astanti. Il giovialone colla certezza della netta sua coscienza ; il serbino colla noncuranza e sufficienza del suo carattere a chi ebbe l’audacia di accusarlo. Il servo raggiratore, astuto, con sogghigno derisorio. Lo sciocco lo pronunzia interrotto da singhiozzi, e l’ipocrita lo assevera coll’unzione mendace della dissimulazione. La ingenua lo profferisce colle sue lagrime sincere all’ ingannato amante. La donna di maneggio, presaga dell’avvenire e d’un esito corrispondente, lo afferma quasi deridendo i creduli. La crivetta lo pronunzia con seduzione agli amici sorpresi. La caratteristica, perduto l’equilibrio della ragione, lo ripete col tuono della rampogna ; e la versatile vispa cameriera lo alterna, e lo varia anche a mezzo le parole secondo la qualità de’suoi accusatori. Sono innumerevoli i modi relativi ad una brevissima frase per accennarla colla dovuta proprietà. Dimostrasi adunque ad evidenza la necessità della più accurata analisi e dello scrutinio del cuore umano, nelle ascose latebre del quale deve aggirarsi con sicurezza colui che aspira a meritare il titolo di artista drammatico.

Oltre a Gaetano e Giovanni Bazzi, abbiamo la Caterina che recitava la parte di Donna Luisa nell’Innamorato al tormento del Giraud ; Paolo, detto il gobbo, conduttore al principio del secolo di una mediocre compagnia, e morto a Torino, sovvenuto dai fratelli ; Elisabetta (la madre ?) e Carlo, Nicola e Battista, non sappiam se figli o altri fratelli.

Bazzi Anna Maria, moglie di Giovanni Bazzi, iniziata all’arte dal cognato Gaetano, divenne in breve una delle più valorose attrici del suo tempo, competitrice degnissima delle contemporanee Anna Fiorilli Pelandi, Assunta Perotti, Gaetana Goldoni, Luigia Bernaroli, Lancetti Modena. Fu prima donna per varj anni della Reale Compagnia Sarda, poi madre nobile, e nel lungo periodo della sua vita artistica diè tal prova della versatilità dell’ingegno suo, che si vuole non esserci stato carattere, vuoi comico, vuoi tragico, ch’ella non rappresentasse a perfezione. Anche nelle parti di madre fu sublime, e nella Merope del Maffei e in quella dell’Alfieri sollevò i vari pubblici all’ entusiasmo. Abbandonate nel ’41 le scene, e morti poco [n.p.]dopo il marito e il cognato, passò a seconde nozze col comico Luigi Negri, col quale andò a stabilirsi a Firenze : quivi morì in età avanzata.  – L’egregio attore contemporaneo Francesco Righetti ha lasciato di lei il seguente giudizio (Teatro italiano, Vol. II. Torino, 1826) :

La Signora Anna Bazzi, già prima attrice di rinomanza, ed ora madre tragica nella real compagnia drammatica di S. S. A. M. Sarda, fornita a dovizia di doni naturali, ha sempre ottenuto il pubblico suffragio nella tragedia, che si adatta mirabilmente alla sua bella figura, alla sua fisonomia piena d’espressione, mercè due occhi neri, ed ampie ciglia egualmente nere. Nelle due Clitennestre delle due tragedie del grand’Astigiano, Agamennone, ed Oreste, nella Giocasta in Eteocle e Polinice, nella Rosmunda, nella Merope, tutte del medesimo autore, nella Fedra di Racine, ha cotesta attrice dei tratti veramente sublimi, si disegna non di rado con molta maestà, e nelle violente espansioni dell’anima dà alla sua dizione tutto il fuoco possibile, e non scapiterebbe alquanto di pregio, se fosse più accurata la pronunzia, e facesse mente locale a proferire lascia e non lassia, sciagura e non siagura, ecc., vizio di pronunzia, in che cadono molti attori ed attrici, e di che poco lor cale.

Bazzigotti Vincenzo, bolognese, figlio di onesti negozianti, abbandonò la casa per darsi all’arte del comico, nella quale riuscì mediocremente come innamorato, e passabilmente come brillante. Fu socio per lungo tempo della prima donna Maria Grandi, soprannominata la Pettinara dall’arte di suo marito, e con lei si recò a Malta il 1758. Tornato poi in Lombardia, condusse compagnia da sè, della quale, secondo lo spoglio di A. Bartoli (op. cit.) furono attori Domenico Botti, Gregorio Cicuzzi, Antonio Fiorilli, Carlo Giussani, Francesco Lombardi, Giuseppe Pelandi, Andrea Rossi, Alberto Ugolini ; e attrici Rosa Brambilla, Caterina Fiorilli, Elisabetta Marchesini. Il Bazzigotti, uomo di cuore, ma sdegnoso di alcun consiglio, visse guitteggiando, e morì poverissimo in Parma il 1775.

Bazzigotti Antonia. Figliuola d’un sarto di Pavia, fu sposa del precedente, e da lui iniziata alle scene, in cui riuscì amorosa ingenua graziosa e graziosa cantatrice. Morto il marito, passò a seconde nozze con Camillo Friderici, amoroso egregio, e si diede a sostenere i caratteri di servetta con molto plauso nella Compagnia di Pietro Ferrari, Innamorato e Arlecchino (1782).

{p. 315}

Beatrice….. (V. Adami e Fiorilli Beatrice).

Beccarina…… Il Bertolotti a pag. 115 della sua Musica in Mantova, riporta un brano di lettera del Farnese da Piacenza al Duca di Mantova in data 12 aprile 1688, in cui ringrazia per la Beccarina gionta qua in tempo di portarsi a recitare nell’opera che dovrà farsi fra poco a Piacienza. Il Bertolotti, forse per quella parola recitar ha messo nell’indice la Beccarina come comica ; sebbene tutto possa far credere, e fin lo stesso nomignolo di Beccarina, trattarsi di una cantante.

Poco innanzi il 1740 alla Pergola di Firenze cantava la Facchinelli veneziana, chiamata la Beccaretta. E gli artisti di musica avevan presso che tutti un di codesti nomignoli bizzarri, mentre quelli di prosa eran chiamati col loro nome di scena. E portiamo ad esempio : le Polpette, la Tincanera, il Puttanino e la Spaccatavole.

Beco Sudicio (V. Somigli Domenico).

Belchiari Domenica (V. Orsatti Domenico).

Belingeri Antonio. Nel registro passaporti dell’Archivio di Milano, N. 780, in data 26 settembre del 1739, è scritto : Antonio Belingeri comediante con sua moglie ballarina, per passare a Venezia con loro bagaglio (Comunicazione Paglicci-Brozzi).

Belisario Luigi, comico rinomatissimo, nacque da famiglia di civil condizione in Napoli verso il 1800. Fu scritturato il’ 19 da Salvator Fabbrichesi come brillante assoluto, dopo pochi anni di esercizio tra’ dilettanti napoletani. Fu in breve tempo acclamato come uno de’migliori artisti dell’ epoca sua, al fianco della Tessari, di De Marini e di Vestri. Morto il Fabbrichesi, e scioltasene la Compagnia, il Belisario si restituì a Napoli, ove fu scritturato a’ Fiorentini dalla Società Visetti, Prepiani e Tessari, della quale eran ottimo ornamento la Luigia Pieri, {p. 316}i Miutti, i Monti, Luigi Marchionni, Adamo Alberti e la vaga Carolina Colomberti. Toltosi poi dopo vari anni da quell’accolta di valorosi artisti, volle egli stesso farsi capocomico, all’intento di percorrere il Regno di Napoli e la Sicilia. Talvolta avventurosa, talvolta rovinosa gli riuscì l’impresa ; sicchè travagliato dalla instabilità della fortuna, e occupato tutto dall’idea d’un triste avvenire, pensò bene di accettare l’ufficio di Direttore d’un giornale politico-umoristico, offertogli quando si trovava a Malta. Quivi morì tranquillamente nell’età non avanzata di cinquant’anni. Adamo Alberti ne’ suoi Quarant’anni di Storia del Teatro de’ Fiorentini in Napoli (ivi, 1878), dice che Luigi Belisario era un distintissimo attore comico ; ei recitava con grande spontaneità, e spesso improvvisava la sua parte con tanta verità, che il pubblico lo applaudiva credendo che la sapesse a memoria. Egli era un uomo molto erudito, traduceva dal francese con molto spirito e le migliori opere del repertorio erano sue traduzioni. E più oltre, al Capitolo VIII, anno 1840 : con grave dolore perdemmo il bravo artista Luigi Belisario, il quale non volle rimanere con noi, dappoichè avendo per figlia una graziosa giovanetta che aveva grande disposizione per l’arte drammatica, preferì di fare una Compagnia drammatica da lui diretta e portarsi in Sicilia, dove la figlia esordi come prima attrice e fu molto applaudita, ed avrebbe fatta una bella carriera, se dopo pochi anni non si fosse ritirata dal teatro, facendo un vantaggioso matrimonio.

Veramente l’Alberti sarebbe stato più nel vero, asserendo come il Belisario, già scritturato dalla nuova Impresa de’ Fiorentini, se ne sciogliesse per divergenze insorte, e pel voler della moglie impetuosa, custode rigida e alquanto noiosa, pare, dell’onore e del decoro di quel povero dabben uomo.

Bellagambi Vincenzo. Attore, autore, traduttore, e, a tempo perso, legatore di libri, nacque a Firenze da modesti parenti. Dai Ricordi di un comico (1822-25-26) pubblicati in estratto nel mio Libro degli Aneddoti (Modena, Sarasino, 1891) {p. 317}e che serbo originali nella mia biblioteca, appare chiaramente esserne il Bellagambi l’autore. Guittate di capocomico, pettegolezzi di artisti, liberalità di attrici, intimità di retroscena, tutto è raccolto in quei ricordi e con rara semplicità a parte a parte descritto.

Vincenzo Bellagambi esordì nientemeno che a Borgo di Lucca, in Compagnia Majer la quale dovette fare una colletta con cui raccapezzar pochi soldi per potere abbandonare la piazza. Da quella del Majer passò poi nella Compagnia Fini, poi in quella Colapaoli, poi su su in Compagnia di maggior conto, sino a quella di Luigi Taddei, nella quale lo troviamo il 1836 per le parti di amoroso. Ritiratosi il Bellagambi dall’arte, si restituì a Firenze, ove, aperta una bottega di libri antichi, doventò uno dei più pregiati e intelligenti librai, ed ove morì in età avanzatissima.

Bellentani Gaspare, bolognese. Esordì nella Compagnia di Pietro Rossi come innamorato, e potè in poco tempo competere coll’attore provetto Cristoforo Merli. Abbandonato il Rossi, condusse per qualche anno compagnia in società con Costanzo Pizzamiglio mediocre attore, ma egregio cantante ; ed essendo anche’gli dotato di buonissima voce, si fece molto onore ne’ musicali intermezzi. Passò nel 1779 in Compagnia di Pietro Ferrari, lasciata la quale si trasferì a Roma, ove stette alcun tempo, vagando ne’ dintorni e procacciandosi, con recite mescolate di prosa e musica, onorata esistenza. Al fianco di Petronio Zanerini sostenne la parte di Gonippo nell’Aristodemo di V. Monti, quando fu recitato al Teatro Valle di Roma, la prima volta, che fu il 16 di Gennaio del 1787 (V. Zanerini Petronio).

Belli Paolo (Blanes Pellegrino), figlio di Vincenzo Belli e di Maria Romei, fu trascinato dall’ amore dell’ arte comica, tenuta in non troppo alto conto al suo tempo, a fuggire di casa per iscritturarsi non sappiamo più in quale compagnietta di {p. 318}zingari. Pensò bene di mutar nome, e per conservare le iniziali ch’ egli aveva sulla biancheria, si fece chiamare Pellegrino Blanes. Nel 1799 rappresentò al Teatro del Fondo in Napoli una delle prime parti del Bruto di Alfieri, e fu applaudito. Venuto il Cardinal Ruffo in Napoli, egli fu in que’ moti politici arrestato, e dovè esulare in Francia, d’onde poi ritornato, si rimise a calcar le scene con successo rapido e prodigioso. Fu al fianco della Pellandi il primo attore per le tragedie (quello per le commedie era il celebre De Marini) nella Compagnia Reale istituita dal Principe Eugenio Beauharnais, impresa Paganini. Le sue più grandi creazioni furono Aristodemo, Icilio nella Virginia, Arminio del Pindemonte, e l’Egisto tanto nell’ Oreste che nell’Agamennone : sublime poi, anzi unico – afferma Fr. Regli – fu nel Saul. Lo troviamo nel 1812 a Tolentino colla sua regia Compagnia, della quale eran prime parti la celebre Pellandi, Luigi Vestri e Carolina Internari. Erano – dice l’anonimo delle memorie tolentinati (Tolentino, 1882) – quasi tutti avanzi gloriosi della R. Compagnia istituita dal Vicerè d’Italia, che era stata diretta fino al Carnevale del 1812, in cui {p. 319}si sciolse, dal celebre artista Salvatore Fabbrichesi. Dotata di un annuo assegno ed arricchita di privilegi e d’onorificenze, contribuì potentemente a sollevare quasi alla perfezione l’arte drammatica, e a diffondere per tutta Italia il gusto vero per la medesima.

Era il Blanes di alta e bella persona : i capelli aveva biondocastagni, e nella fisionomia maschia ricordava alcun poco il Foscolo. La voce era piuttosto rauca, ma nel calor della recitazione si faceva forte e pastosa. È grido che il Blanes spingesse la verità a tale esagerazione, che, nel Carlo XII, dovendo presentarsi in scena bagnato, si faceva buttar sul capo due grosse secchie d’acqua ; e rappresentando una volta l’Aristodemo, s’investì della parte a segno, che si ferì davvero e gravemente : e si racconta che la Pellandi atterrita dal fatto, e dal pensiero che un giorno o l’altro, nella veemenza delle passioni, potesse anch’ella riportar qualche ferita, impetrò allora e ottenne dal Governo che non più si adoprassero in scena armi vere. L’Alfieri soleva dire del nostro attore : « voglio che le mie tragedie sieno fatte da Blanes ; » e G. B. Niccolini ne dettò una breve e forbita necrologia, della quale ecco il principio :

Paolo Belli-Blanes, fiorentino, mancato di vita ne’ 15 ottobre 1823, ha delle sue virtù e del suo ingegno lasciato negli amici il desiderio, e nel mondo la fama. Noi, pei quali fu certo ch’egli era uom dabbene, lo credemmo volentieri egregio attore ; ma s’altri del suo valor nell’arte comica facesse giudizio diverso, non vorremo sdegnarcene, perchè teniamo la bontà in maggior conto del talento. Pur non dubitiamo d’affermare che l’Italia soffre tanta penuria di valenti comici, ch’ ella dee della morte del Blanes, come di non lieve perdita, dolersi.

E più giù :

…. osserveremo che il Blanes, calzando a vicenda il socco e il coturno, sosteneva così bene alcune parti, che poco gli emuli in lui potevano riprendere, e gli amici desiderare.

E qui intende l’Abate de l’Epée e Ciniro nella Mirra.

Il Bonazzi (Gustavo Modena e l’arte sua, Perugia, 1865) dice del Blanes che calzava con mitica dignità l’alto coturno dei classici.

Egli rappresentò la prima volta colla Pellandi la sera del 15 gennaio 1813 la Polissena di G. B. Niccolini al Teatro Nuovo di Firenze, e la prima volta, pur del Niccolini, l’Edipo nel Bosco delle Eumenidi alla Pergola di Firenze il 17 marzo del 1823 ; {p. 320}rappresentazioni che dovetter colle repliche fruttar non poco al Blanes, se il Niccolini, in una lettera all’amica Angelica Palli a Livorno, scagionandosi dell’accusa che l’Internari gli aveva mossa di voler guadagnare sulla recita della Matilde, riportava questa parte del battibecco colla valorosa artista.

« Ah, malvagia ! gridai, ringrazia il sesso e la sventura…. puoi tu crederlo ? Non ti è noto che a Blanes pagai fino i biglietti d’ingresso, a Blanes che guadagnò sull’Edipo una somma considerabile empiendo la Pergola in un modo inusitato ? (Lettere, ediz. Vannucci. Le Monnier, 1866).

Quanto ai costumi e all’indole del Blanes, possiam quasi ciecamente attenerci all’ottimo giudizio del Niccolini, se ci facciamo a pensare al suo testamento dettato dinanzi al notaro Cecchini e ai testimoni Dott. Bertini, Dott. Franchi, Dott. Magher, Gio. Batta Niccolini e Francesco Avelloni il 13 ottobre 1823, dal quale, dopo una viva raccomandazione dell’anima nelle mani del Signore, della Beatissima e Gloriosa sempre Vergine Madre Maria, del Patriarca S. Giuseppe, e di tutti i Santi protettori ed Avvocati, acciò lo assistano nel punto estremo di sua vita, si apprende come dopo aver lasciato alla Carlotta Corazzi sua diletta consorte (sic) (era una nobile signora veneziana che sposò nel 1817, e dalla quale poi visse diviso) il medesimo trattamento che riceveva vivente il marito, e di avere nominato erede universale il figliuolo Alessandro ch’egli ebbe legittimamente dalla moglie, lasciasse otto scudi fiorentini al mese sua vita natural durante a Coriolano figlio naturale ch’ egli ebbe dalla signora Margherita della Rose, dimorante a Milano e presso un farmacista Cataneo, il quale prega vivamente di cure e assistenze speciali a detto figlio sinchè non sia pervenuto all’età maggiore.

Il Belli-Blanes dimorava a Firenze in Piazza degli Agli, N. 898 : e un mese dopo circa la sua morte fu fatto l’inventario degli oggetti trovati in casa e del corredo di teatro, che constava fra l’altre cose di 14 manti in saia, velluto, lana, ricamati in oro e argento, e di 22 tuniche rosse, amarante, bianche, turchine, arancione, pel valore complessivo di L. 3964. Il valore degli ori, argenti e gioie fu di L. 6111, delle quali 1866 per {p. 321}una verghetta doppia con 20 brillanti : quello dei libri di L. 1383. Eran anche tra gli oggetti due ritratti del Belli a olio su tela, che per quante ricerche io abbia fatte, non mi fu dato rintracciare ; e figurava tra’suoi crediti un’obbligazione di Luigi Ve stri di L. 5754 in data 7 febbraio 1822.

Ebbe anche il Belli-Blanes la malinconia di scrivere, ma fortunatamente per lui non quella di dare alle stampe. Ho qui sott’ occhio un fastello di letterine domestiche, in alcuna delle {p. 322}quali, d’indole affatto intima, traspaiono l’austerità dei costumi e la nobiltà dei sentimenti. È certo che alle tasche del Belli facevano capo e madre e fratelli e figli di fratelli, alla cui educazione egli attendeva severamente. A queste lettere vanno aggiunte una lunga tiritera morale, affettuosa in prosa a’ parenti di ogni specie, e un polimetro, specie di cantata, alla quale ha posto il titolo di Sentimenti affettuosi di Paolo Belli nel rivedere la sua Patria Firenze, i suoi genitori, e la famiglia de’ suoi, e la quale comincia così :

Care, beate mura
cui lambe intorno con sue limpid’onde
il rapid’Arno ! oh de’ natali miei
fortunato soggiorno
omai chiesto favor di stelle amiche
e a’voti miei seconde, a voi mi porta
salubre a ricercar dolce riposo
alle mie lunghe tragiche fatiche.

Oh meglio per lui le tragiche fatiche, che han potuto ispirare delle gentili iperboli come queste :

SONETTO

Con l’auree chiome abbandonate ai venti
eran le Dee di Pindo in sen di Flora,
e al dolce suon dei modulati accenti
ride la Terra, e il Ciel viepiù s’indora.
Dante il padre degl’Itali concenti
salutavan con voce alta e canora,
Clio par che altera Macchiavel rammenti,
Di Galileo la tomba Urania adora.
Melpomene e Talìa sol men giulive,
niun fra i Toschi in veder di lor ben degno,
quasi invidia sentian dell’altre Dive.
Blanes comparve, e alzando ambe le braccia
« Dell’Italica scena ecco il sostegno »
gridàr contente, e si baciaro in faccia.
Di Lisauro Megarense
Pastore Arcade
{p. 323}

(V. Omaggi poetici alla incomparabile Anna Fiorilli Pellandi ed all’egregio attore Paolo Belli-Blanes. Firenze, Carli, mdcccxiii).

E dall’Archivio di Milano (Presidenza Melzi, – Polizia, Carta 19), il conte Paglicci-Brozzi mi manda questa nota e questo sonetto :

Ieri sera al teatro della Scala si riprodusse il Cincinnato, e non furono tralasciate le espressioni proibite dal Presidente Lucini : al terzo atto fu gettato dal loggione il sonetto del quale unisco copia. Assieme a questo per effetto di satira furon gettati dei fogli del libro dell’opera scaduta intitolata La schiava dei due padroni. Nessun francese si vide in teatro ieri sera (1803, 2 Aprile).

a PELLEGRINO BLANES
nella tragica arte insigne
perfetto di natura imitatore
nel rappresentare
oreste, aristodemo, cincinnato
valentissimo, egregio, ammirabile

SONETTO

E alfin la prisca glorïosa traccia
Ricalca, e a noi Melpomene sorride
E funeste, tremende, parricide
Opre pingendo di terror ne agghiaccia.
Chi truce il ferro in sen materno caccia
Vendicatore de l’inulto Atride ? (Oreste).
Chi fra i rimorsi in trono egro s’asside
Torvo il guardo, irto il crin, pallido in faccia ? (Aristodemo).
Blanes, tu sei che a nuova vita spingi
Eroe che giacque in muto avel sepolto
E nudo spirto di tue membra cingi (Cincinnato).
Ed or per te rivive a noi quel tanto
Prode Roman, che un di a l’aratro tolto
Tornò guerriero in dittatorio manto.
Domenico Vicerè.
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Belli-Blanes Enrico, nacque a Foligno il 1°aprile del 1844 da Anna Miani e da Francesco Belli-Blanes, nipote del precedente. Ormai il nome di Blanes col quale salì in tanta rinomanza lo zio, non poteva essere abbandonato dal nipote che si dava alle scene : quel nome era come un augurio…. pe ’l suo avvenire artistico. Ma Francesco Belli-Blanes non seppe alzarsi oltre il grado dell’aurea mediocrità. Figlio d’Arte dunque, il nostro Enrico fece le sue prime prove nei Due Sergenti, nell’Andromaca o Pirro e in altri lavoroni di simil genere che formavan la delizia de’pubblici d’allora, recitando or da maschio, or da femmina conforme se ne offeriva l’occasione. Fu con Giuseppe Moncalvo, il famoso Meneghino, o Beltramino, e più grandicello con Giorgio Duse, zio della celebre Eleonora : ma la sua vita artistica, può dirsi datare dal ’62, nel qual anno entrò come secondo amoroso e generico giovine in Compagnia di Luigi Bellotti-Bon, attore brillante insuperato e insuperato direttore. Passò con lui sedici anni, i migliori, non è a negarsi, della sua carriera artistica ; ed altri ancora forse avrebbe passati, se futili motivi ch’ egli oggi riconosce e rimpiange non lo avesser separato da lui che gli fu maestro, amico e padre. Dalle parti di generico giovine passò a quelle di generico di spalla, dalle quali dopo un solo anno, mercè la forte interpretazione del Duello di L. Gualtieri, passò a quelle di generico primario : da queste poi, a quelle di caratterista e promiscuo, ultimo grado della sua vita artistica, sul quale egli si trova tuttavia a fianco di Claudio Leigheb e di Flavio Andò, molte volte applaudito, sempre rispettato da ogni pubblico.

Enrico Belli-Blanes non fu mai ciarlatano ; aborrì da ogni mezzo che non fosse legittimamente artistico per ottenere un successo. Artista nell’anima, coscienzioso, preciso al cospetto del pubblico, doventava un semplice e modesto mortale fuor della scena…. Ripensando il tempo della maggior gloria di Bellotti-Bon, che fu quello in cui egli aveva un’unica, e quale ! compagnia, non è cui non si riaffacci alla mente la superba figura di Enrico Belli-Blanes, il generico primario per {p. 325}eccellenza. Egli portò quel ruolo a tale grandezza che il più delle volte, lui in iscena, il pubblico non d’altri poteva occuparsi. A codesto ascendente ch’ egli aveva sullo spettatore, a codesta specie di fascino ch’ egli esercitava su di lui, molto certo contribuiva la perfezione dell’esteriorità, se così posso dire, nella quale son raccolti l’abbigliamento, il portamento, la truccatura (camuffagione) ; la truccatura più specialmente ; chè quando Belli-Blanes appariva sulla scena, ci si trovava ogni sera di fronte a un quadro nuovo e meraviglioso, come nella Gerla di Papà Martin, nel Romanzo di un giovine povero, nella Patria…. Che Sarançon, che Marchese De la Roque, che Duca d’Alba !

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Belloni Antonio, vicentino, figliuolo di un maestro di spada e di una lavoratrice di mode, come dice Fr. Bartoli, si diede all’arte comica giovanissimo. Dopo di avere aiutato la madre nella sua professione, entrò nella Compagnia di Giuseppe Lapy, in cui divenne in poco tempo attore egregio per le parti d’Innamorato ; e seppe con l’arte e con la bontà così ben meritare dell’affetto e della stima del suo Capocomico, che ne ottenne una figliuola in moglie per nome Luigia. Il Bartoli dice che l’arte del comico e del lavorator di mode andava alternando e che per la squisitezza de’modi e l’avvenenza della persona, era accolto e gradito dalle dame di ogni città. Morto il padre Lapy, passò con la moglie nella Compagnia di Maddalena Battaglia, ove stette sino all’autunno del 1795, per recarsi poi a Roma ove stette tutto il carnevale ’96. Dal ’96 al ’98 fu in compagnia di Antonio Goldoni e di Pietro Perotti. Dal ’98 al 1802 ebbe Compagnia in società con Giacomo Modena, e si trovò il ’99 in Napoli, allo scoppio della rivoluzione, nella quale, entrato il Cardinal Ruffo e alzato il patibolo pei congiurati, fu tra gli altri appiccato anche il Padre Giuseppe, domenicano,fratello del Belloni. Alle suppliche della moglie atterrita, alle sue lagrime incessanti egli dovè cedere finalmente : e, passando di pericolo in pericolo, potè varcare il confine e recarsi a Roma sottraendosi così a morte sicura alla quale, per le sue idee liberali, era già stato dalla Commissione reale condannato. Recitava allora a quel Teatro Valle la Compagnia Perotti, della quale anni a dietro fu parte il Belloni ; e venne subito scritturato con la moglie seconda donna, sino al 1806. Fu una parte del 1806 primo uomo e capocomico in società col Ferro (V. Battaglia). Dal ’6 al ’10 fu poi colla Compagnia reale italiana del Fabbrichesi, dalla quale si tolse per formar società con Meraviglia, Calamai ed Elisabetta Marchionni la madre della celebre Carlotta : società che andò innanzi a gonfie vele sino a tutto l’anno comico 1822-23. In quest’anno rinnovò società col solo Meraviglia, poi, dopo quattro anni, diventò il direttore della Compagnia di Tommaso Zocchi. Maritatasi la figlia al Colomberti {p. 327}nel ’27, Antonio Belloni si ritirò dall’arte, istituendo una agenzia d’affari per l’arte comica in Bologna, ove morì nel ’42, a 83 anni.

Fu egli amoroso egregio, egregio primo attore, ed egregio padre e tiranno : ebbe a compagni la Battaglia, la Pelandi, Demarini, Pertica e Blanes ; e, vissuto onestamente, non gli venner mai meno l’affetto e la stima dei compagni.

Belloni-Lapy Luigia, moglie del precedente e figlia di Giuseppe Lapy, seguì il marito nelle sue peregrinazioni artistiche fino al 1816, anno della sua morte ; e della età sua il cinquantatreesimo. La Belloni fu prima amorosa semplice (oggi ingenua) assai pregiata, poi pregiata prima donna. Fu con la Battaglia seconda donna e serva ; madre nel 1812 con Serafino Callochieri, nella cui Compagnia era primo amoroso Luigi Domeniconi, e madre per le tragedie nel ’14 con suo marito in Compagnia di Elisabetta Marchionni.

Quand’era colla Battaglia, creò la parte di Elena nell’Elena e Gerardo di Luigi Millo e quella di Carlotta nel Federico II, re di Prussia, traduzione dallo spagnuolo (Comella) di Pietro Andolfati ; e il Teatro appl. e mod., Tom. III, dice della Belloni che colla pantomima di Elena, e coll’espressivo sentimento di Carlotta, s’accostò all’apice della perfezione.

Belloni Colomberti Isabella. Figlia dei precedenti, esordì per le parti ingenue, il 1814, nella Compagnia di Elisabetta Marchionni, della quale eran parte il padre e la madre. Nel 1819 sosteneva in Compagnia Modena-Bellotti le parti di servetta con molto brio, applauditissima sempre dal pubblico, il quale vedeva in lei una forte promessa per l’arte. Il Giornaletto ragionato teatrale di Venezia (N. VII) scrisse dell’Isabella : « Corre voce che a quest’astro nascente i maggiori non permettano un libero movimento, temendo eglino di restarne ecclissati. Se così fosse, non ci rimarrebbe che ad augurare alla signorina Belloni un cielo più aperto, affinchè di quella luce, ch’è sua, potesse ella pienamente risplendere. »

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Fu prima attrice giovine applauditissima nella Compagnia di Carlotta Marchionni, e prima donna in quella che il padre formò in società col Meraviglia. Con gli insegnamenti del padre, del Domeniconi, della Marchionni, con la fermezza della volontà, e la squisitezza dell’ingegno potè in breve tempo competere colle migliori attrici dell’età sua, mostrando quanto valesse ne’ caratteri più disparati, come Ottavia, Mirra, Antigone, Pamela, Zelinda, Eugenia degl’ Innamorati, Chiara di Rosemberg, e altri più. Nel ’27, scritturata col padre direttore, dal capocomico Tommaso Zocchi, si unì in moglie ad Antonio Colomberti il primo attor giovine della Compagnia, col quale passò poi, il ’28 e ’29, in Compagnia di Romualdo Mascherpa. Si vuole che rappresentato più volte l’Antonio Foscarini, l’Autore dicesse in pubblica prova : credevo di avere scritto la Teresa per la Pelzet ; errai. L’ho scritta invece per la Colomberti. Fu poi la prima donna e prima donna giovine della Compagnia formata da Carolina Internari in società con Francesco Paladini per recarsi a Parigi. Recatasi colla stessa Compagnia a Livorno, e colà sgravatasi d’un bambino, fu colta da febbre d’infezione della quale morì, non ancor tocco il trentesimo anno dell’ età sua.

Bellotti (Natale ?). Al nome di Bellotti, senz’altro, Fr. Bartoli scrive :

Bellotti, detto ilMonco, Comico famoso, che recitò il carattere d’Arlecchinocon grande impegno ; e che cessò di vivere oltre la metà del secolo presente.

Dal Barone ö Byrn (op. cit.) abbiamo che Tomaso Ristori, direttore dei comici italiani a Varsavia, il 1717, rimandati gli attori insufficienti, si recò in Italia per scritturarne altri importanti, fra’ quali Andrea Bertoldi, Pantalone, Marianna Bertoldi, Rosetta, e Natale (Natalino) Bellotti, Arlecchino, i quali rappresentarono gran varietà di Commedie improvvise e Pastorali e Intermezzi. La paga annua della Compagnia fu allora di 8000 fiorini imperiali. Si trovò il 1718 alla famosa festa data in onore della Contessa Dönhoff, pel suo onomastico, a {p. 329}Moritzburg. La tavola per la cena era a ferro di cavallo in una vasta sala, ov’ era innalzato nell’una estremità un piccolo teatro, in cui i comici italiani recitarono una commedia alla loro maniera. Anche alle feste degli sponsali del principe elettore Federico Augusto coll’arciduchessa Maria Giuseppa d’Austria, fu la Sala d’equitazione trasformata da Poisson in bazar, e i comici italiani furon distribuiti nelle varie baracche, parte come venditori, parte come marionette, sotto la direzione musicale del Ristori.

Recitarono poi nel ’21 a Pillnitz e nel ’30 nel teatro presso il villaggio di Streumen, durante il soggiorno della Corte a Zeithain.

Il 10 aprile del 1732 tutto il personale italiano fu messo in libertà, eccettuati Malucelli, Bellotti e la coppia Bertoldi. Si sa che il Bellotti era retribuito con 600 fiorini annui, i quali pare non fosser punto sufficienti al suo quieto vivere, se fu costretto a muover suppliche per un impiego, magari di portinaio, che lo sottraesse alla miseria, accampando i suoi meriti d’Arlecchino per 17 anni : e il Directeur des Plaisirs, in una Istanza dell’ 11 febbraio 1734, indica il Dottore Malucelli e l’Arlecchino Bellotti, come coperti di debiti. Concordando il ruolo e l’epoca dei due Bellotti, è molto probabile ch’essi non fosser che una sola persona ; benchè paia strano che il Bartoli quasi contemporaneo, il quale tanto disse dell’andata a Dresda della Bastona, del D’Arbes e di altri, non abbia accennato nemmen di volo, a’viaggi di questo, che pur chiama famoso, di cui parla fuggevolmente come di sconosciuto….

Bellotti Luigi. Di una rispettabile famiglia di Rovigo, assai educato e coltissimo, fu egregio attore, egregio poeta estemporaneo e non meno egregio autore comico. Si diede giovinetto alle scene, e fu per molti anni primo attore della primaria Compagnia, condotta da Giacomo Dorati. Traeva, a rovescio di quel che si farebbe oggi, le commedie dai balli più applauditi di Gioja e Viganò, come il Prometeo, I Riti Indiani, Cesare {p. 330}in Egitto, ed altri. Per dare un’idea della riuscita di questi spettacoli, basti dire che a Milano, mentre al gran Teatro della Scala fanatizzava il Prometeo ballo, al Teatro Lentasio faceva furore il Prometeo dramma, scritto in pochi giorni in versi, del quale furon fatte trenta rappresentazioni con tale affluenza di pubblico, che molti furon costretti seralmente ad andarsene per mancanza di posti. Il Bellotti fu, come ho detto, attore egregio ; e si vuole che ogni più grande artista del tempo che si trovava sulla piazza, ov’ei recitava, come ad esempio, la Pelandi, De Marini, Blanes, Lombardi, Bettini, andasse al suo teatro, e prendesse posto ne’palchi di proscenio, per meglio gustare i rapidi e varj mutamenti dell’espressione….

Fu il Bellotti artista proteiforme nel più largo senso della parola ; poichè mentre alla rappresentazione diurna sollevava il suo pubblico all’entusiasmo colla recitazione calda e vibrata della parte di Prometeo, a quella notturna faceva smascellar dalle risa colla parte di Tonin Bonagrazia, o di Nicoletto mezza camisa, in cui si dice non avesse rivali. Fece, dopo la scrittura col Dorati, società con Giacomo Modena ; ma còlto da improvvisa infiammazione cerebrale in Venezia, vi morì in pochissimo tempo, a soli trentasette anni.

Nell’elenco della Compagnia Dorati era anche un’Annetta Bellotti che non saprei dire se fosse figliuola o sorella di lui, e che trovo poi nel 1831 in Compagnia di Domenico Verzura.

Al proposito della proteiformità del Bellotti, il Giornaletto ragionato teatrale di Venezia (N. VI), dopo aver parlato del Tonin Bonagrazia, pel quale egli poteva a ragione esser chiamato il Demarini faceto, conchiude : « da ciò si comprenderà facilmente che quando il Bellotti assume il carattere grave ed eroico, è ben difficile che gli riesca di sopprimere negli astanti quella giuliva impressione che la sua sola presenza ridesta. »

Bellotti-Bon Luigia, moglie del precedente, e figlia di Teresa Ristori (attrice rinomatissima tra ’l finire dello scorso e’l {p. 331}principiar di questo secolo e nonna della celebre Adelaide, educata all’arte e alle lettere da Antonio Simon Sograffi, divenne ancor giovanissima la prima donna della Compagnia che suo marito aveva formato in società con Giacomo Modena. Rimasta vedova, passò dopo un anno nella Compagnia della Teresa Goldoni-Riva, nella quale, al fianco di Alessandro Lombardi, crebbe in rinomanza più specialmente con le parti in dialetto veneto del repertorio goldoniano, ch’ella rappresentava mirabilmente. Passata a seconde nozze col celebre attore e autore Francesco Augusto Bon, che la sposò per procura, trovandosi egli allora in compagnia Perotti, diventò la migliore interprete dell’opere sue, vuoi comiche, vuoi drammatiche, serbando intatta la fama che s’era prima acquistata.

Morì Luigia Bon dopo lunga e penosa malattia in Milano, verso il 1845, non ancor tócco i cinquant’anni, compianta dai {p. 332}pubblici e da’ fratelli d’arte che amavano in lei la squisita bontà, e ammiravano il non comune ingegno, al quale era accoppiata quella dovizia di mezzi materiali, che dovrebbero essere l’indispensabile patrimonio di un’attrice : figura slanciata, volto geniale e piacevole, voce melodiosa, occhi vivaci, capelli d’oro filato.

Bellotti-Bon Luigi. Figlio dei precedenti, nacque il 1820. D’ingegno pronto e vivace, d’indole mite e aperta, appassionatissimo dell’arte, divenne il figliuolo adottivo di Augusto Bon, secondo marito di sua madre ; e così, potendo al nome del {p. 333}padre aggiungere quello del padrigno, egli si presentò alla ribalta con un augurio doppiamente splendido di futuri trionfi.

Esordì come amoroso nella Compagnia Tassani ; poi passò in quella di Gustavo Modena che lo iniziò nelle parti comiche, per le quali salì in poco tempo e meritamente in gran fama. Egli appartiene a quel glorioso periodo della scuola di Modena, che diede all’arte la Sadowski, la Mayer, la Botteghini, l’Arrivabene ; Salvini, Rossi, Vestri ed altri. Nel ’54 sostituì il Pieri nella Compagnia Reale Sarda, ed ecco che ne dice E. Rossi nel I vol. de’suoi Quarant’anni di vita artistica :

Il cambio non fu sensibile nè in meglio, nè in peggio. Erano entrambi eccellenti e simpatici attori, tutti e due geniali. Il Pieri forse più pronto, più vivace, più arguto ; il Bellotti-Bon più castigato, più nobile, più vero. Pieri più variato e proteiforme ; il Bellotti più personale. Il Pieri più studioso ; il Bellotti niente affatto. Pieri sapeva tutte le sue parti a memoria ; Bellotti-Bon nessuna. Pieri era guidato dall’arte ; Bellotti-Bon dalla sua natura……..

Fu socio per varj anni di Alamanno Morelli ; entrò in Compagnia dell’Adelaide Ristori, colla quale si recò fuor d’Italia, applauditissimo sempre ; e finalmente si fece egli stesso capocomico.

A questo punto, pare a me, comincia la celebrità vera del Bellotti, che seppe di punto in bianco alla grandezza dell’attore unire la grandezza del capocomico e più specialmente del direttore ; chè, come tale, fu da’ fratelli d’arte proclamato primo fra’ primi. Militaron sotto la sua bandiera i più grandi artisti del tempo : altri ne formò egli di pianta.

Dai modi insinuanti, dalla parola convincente, dall’indole dolcissima, esercitava su’novizj e su’ provetti un fascino ineffabile : non uno de’ vissuti con lui o sotto di lui che non ne abbia ricordato e non ne ricordi tuttavia con profondo rammarico la bontà e la valentia. La morte sua fu un compianto per tutta {p. 334}l’arte : il modo di essa fu un compianto e un mistero inesplicabile per tutta Italia.

Ma torniamo alla sua Compagnia unica, la vera Compagnia modello, nella quale egli era tuttavia per viscomica, per finezza, per verità, il principe de’brillanti.

Ricordo. Si rappresentava al teatro massimo di Ravenna Il vero Blasone di T. Gherardi del Testa : s’era, se ricordo bene, nel maggio del ’64 (epoca della gran fiera), stagione splendida allora per le compagnie drammatiche di grido, poichè alla molta frequenza del pubblico andava congiunta una forte dotazione. Serbo una vaga, pallida idea di quegli artisti, tranne più quà, più là, di Cesare Rossi, grandissimo nella parte di Cesare ; ma una assai chiara ne serbo di Luigi Bellotti-Bon, del quale una intera scena mi si confisse nel cervello, e colla scena l’impressione profonda che n’ebbe il pubblico : ….. la scena VIII dell’ atto I, in cui il Conte Carlo insegna al figlio Paolo il modo di salutar da cavallo una signora. Eccone l’ultimo passo :

Quando dico una cosa io, è quella, ed in fatto di equitazione, credo di aver voce in capitolo. Dunque osservi, stia attento. Quando si corre al galoppo, e si vuol salutare una dama che s’incontra distesa nella sua calèche, non si fa, come vidi fare a lei, un semplice movimento col capo e col frustino, ma bisogna voltarsi con grazia verso di quella, portar la mano destra alla punta del cappello, velocemente alzarlo, velocemente rimetterlo, spronare di fianco, e là…. Ha capito ?

A questo punto l’entusiasmo del pubblico era al colmo, e scoppi continuati di ilarità accoglievano poi per tutta la sera le parole di quel personaggio incarnato da Bellotti con tanta finezza, con tanta intelligenza…. e con tanta verità…. E questa del vero blasone era una delle innumerevoli parti, in cui fu sommo davvero. Una vena inesauribile di comicità sapeva congiungere, come niun altro mai, a una singolare elettezza di modi : a una inflessione di voce, a un movimento del capo, a una occhiata, scoppiavan risa convulse ; ma il pubblico era sempre in faccia a uno specchio di vera eleganza….

Dire delle lodi tributategli dalla stampa concorde e dal pubblico di ogni specie e da’comici, è superfluo. Lui morto, {p. 335}mi capitò sott’occhi un volume di Edmondo De Amicis « Costantinopoli, » nel quale è la seguente dedica autografa, colla data di Torino 1 settembre ’77, che sotto la celia gentile ben compendia, nella infinita modestia del geniale poeta, le grandi qualità dell’artista :

Al Pascià dai mille amori,
Al Muftì dei commedianti,
Al Sultano dei brillanti
Il Rajà degli Scrittori.

A dare una chiara idea di quel che fosse la Compagnia del Bellotti, ecco come furon distribuiti I Mariti di A. Torelli, la commedia ch’ebbe, e di santa ragione, sì festose accoglienze.


Il Duca d’Herrera Cesare Rossi
La Duchessa Amalia Fumagalli
La Baronessa d’Isola Giacinta Pezzana-Gualtieri
Emma Annetta Campi
La Marchesa di Riva Costanza Ciotti
Fabio Regoli Francesco Ciotti
Di Riverbella Gaspare Lavaggi
Marchese di Riva Luigi Bellotti-Bon
Barone d’Isola Enrico Belli-Blanes
Duchino Alfredo Antonio Bozzo

E si capisce, mi pare, come il pubblico accorresse ogni sera a empire il teatro….

Ma ahimè ! Come la formazione di quella Compagnia segnò la grandezza morale e materiale del Bellotti, così lo smembramento di essa ne segnò il materiale e morale scadimento. In uno slancio di megalomania, profondamente convinto, non dubito, di farsi il grande benefattore dell’arte, se ne fece il monopolizzatore. La Compagnia unica ch’egli condusse e diresse, grande in ogni sua parte, sbocconcellò, o meglio sfasciò, dividendola in tre Compagnie, delle quali diventaron prime parti assolute non grandi, quelli stessi artisti che nella Compagnia unica furon parti non assolute grandissime. Lo sfascio della {p. 336}compagnia generò lo sfascio dell’arte. Da codesta usurpazione di nuove fame derivarono l’ira e l’invidia de’piccoli, che si sentiron, se non maggiori, non certo minori de’ nuovi arrivati. Le prime attrici giovani saliron senza processo artistico al grado di prime attrici assolute ; i generici primari a quello di caratteristi, e via di seguito : così le salite già audaci doventaron pazze addirittura, e trascinaron l’arte a vertiginoso e rovinoso andare, di cui non si conosce nè il quando nè il dove della fine. A questa degli attori andò di pari passo la danza vorticosa degli autori. Fu per opera del Bellotti che cominciarono a scendere in Italia que’ tipi matti e sconclusionati, aventi a guida certi Esiliati in Siberia, tra’quali il pubblico avrebbe voluto vederne l’autore. Le rappresentazioni a scadenza fissa {p. 337}davano appena il tempo agli attori di studiar la parte materialmente. A poco a poco, essi passarono in seconda linea ; e le opere teatrali ch’eran venute occupando il primo posto, non avendo più l’allettamento di una forte esecuzione, una volta affrontato il lume della ribalta, perdevan della loro importanza. Alle nuove compagnie che le rappresentavano il pubblico non andava più…. Così le produzioni si successero alle produzioni con rapidità inaudita, a segno che il pubblico avvezzo al nuovo, di nuovo assetato, non s’occupava più che del nuovo, per una sera tanto : e al nuovo della commedia tenne dietro per natural {p. 338}conseguenza il nuovo del genere : il quale poi, passando di trasformazione in trasformazione, è venuto oggi alle faticose elucubrazioni del dramma filosofico, e ai grotteschi acrobatismi della pochade.

In mezzo a questa specie di ridda infernale, il Bellotti, sfiduciato, annichilito, perduta ogni speranza di rialzamento materiale e morale, si tolse tragicamente la vita in Milano, alle 2, 45 pom. di mercoledì, 31 gennaio 1883, empiendo di costernazione schiettamente sentita tutti i pubblici d’Italia, ch’ egli aveva mosso per tanti anni alle più sane risate. L’infiacchimento e la sfiducia cominciaron già a far capolino in un suo scritto sulle Condizioni dell’arte drammatica in Italia pubblicato prima nel Teatro Italiano di Firenze, poi in opuscolo ad Ancona l’anno 1875, in cui mise a nudo con una gajezza forzata le piaghe dell’arte, chiamandone il Governo responsabile unico ; e nella tema che le varie Commissioni rigettassero i suoi reclami sulle varie tasse teatrali, dopo di avere ironicamente accennato a una modesta tomba per sottoscrizione all’arte drammatica italiana, conchiudeva : ho iniziato delle pratiche per concorrere ad un posto di spazzino comunale.

Povero e glorioso artista !!!! Ed egli si appuntò la rivoltella a una tempia, quando nell’alta vergogna di un fallimento, sentì di non poter più continuare in quelle agiatezze che gli vennero per assai gran tempo dall’arte.

Fu anche il Bellotti scrittor di commedie, tra le quali Spensicratezza e buon cuore non compiutamente bandita dal nostro teatro, in virtù dell’interesse che ne desta l’intreccio e della vena di comicità di cui abbonda.

Ricordo di aver letto sul proposito dell’artista : « Se tutti lo imitassero, nessuno studierebbe più la parte, e ritorneremmo ai bei tempi della commedia a soggetto. Che Dio ce ne scampi !… Bisognerebbe che tutti avessero il di lui genio ! E, pur troppo, non è facile !… »

Il critico aveva ragione : nessun attore fu più soggettista di L. Bellotti-Bon…. E tal volta una improvvisazione felice potè mostrar l’ingegno pronto e pieghevole dell’artista.

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Bellotto Lorenzo detto Tiziano. Trascrivo da Francesco Bartoli, non avendo trovato di lui altre notizie.

« Nato in Venezia, ed allevato civilmente da’suoi genitori, esercitò l’impiego d’inserviente sopra il veneto foro. Gran genio aveva il Bellotto per esercitarsi nella maschera da Pantalone ; però, travestito in quella foggia, andava in tempo di carnevale per le vie e ne’ pubblici ridotti, parlando come un personaggio da commedia, e facendo anche delle scene graziose insieme con altri suoi amici mascherati in diversa guisa. Finalmente, non potendo più resistere all’ inclinazione ch’egli aveva per il teatro, s’insinuò nell’ amicizia d’alcuni comici, i quali seco lo tolsero a recitare, e bravamente riuscì sostenendo con molto spirito il personaggio di Pantalone, a cui era tanto inclinato. Avanzandosi in meriti, fu accolto nella Compagnia d’Antonio Marchesini ; e quindi in quella d’Antonio Sacco fu con piacere accettato. Il Bellotto recitò molti anni sempre ben visto ed applaudito ; ma poi, alienatosi dalla professione, passò ad abitare in Trevigi, dove, fatto già vecchio, terminò felicemente i suoi giorni intorno all’anno 1766. »

Belmont (Vedi Romagnesi di Belmont Carlo Virgilio, e Romagnesi-Costantini Anna Elisabetta).

Belotti Amilcare (detto in arte Belottino), nacque a Bergamo da un negoziante di seta ; morto il quale, egli, poco esperto e poco incline alla mercatura, finì in pochissimo tempo quanto aveva ereditato. Mostrate nella Filodrammatica della città natale chiare attitudini all’arte, si scritturò per parti di generico giovane e di niuna importanza. In grazia della comicità della persona (era piuttosto piccolo, avea le gambe formate ad arco e il viso di color terreo) potè recitare qualche parte di mammo (ingenuo, sciocco, da mammolo – fanciullo, bambino) nella quale, in quella di Filippetto dei Rusteghi specialmente, palesò nuove e maggiori attitudini alle parti comiche ; tanto che, scritturato da Luigi Domeniconi e Gaetano Coltellini {p. 340}pel 1843, finì coll’assumere il ruolo di brillante assoluto che mantenne per diciotto anni in compagnia del Domeniconi stesso, con piena soddisfazione del pubblico. Nel 1861 passò in quella Romana condotta da Cesare Vitaliani, poi in altre, finchè fu nominato Direttore de’Filodrammatici di Milano, ove morì a sessant’anni circa. Amilcare Belotti salì meritamente in rinomanza per una inesauribile vena di comicità, per una singolare spontaneità, per una scorrevolezza e limpidezza di dizione più unica che rara. Annunciava, secondo l’uso, la sua entrata in scena con qualche parola : va bene, va bene, ecc. ecc. Bastava quel cenno a destare l’ilarità piena del pubblico. Forse al Belottino poteva rimproverarsi una cotal mancanza di finezza {p. 341}nelle mezze tinte, mancanza derivata anche dal fisico volgare ; ma in compenso : quale esuberanza di vita ! quanto amore alle parti che recitava ! e soprattutto : quali polmoni !!!… Di lui dice T. Salvini ne’suoi Ricordi (Milano, Dumolard, 1895) :

Amilcare Belotti fu la delizia dei pubblici italiani, e specialmente dei Romani, che in vederlo si rammentavano di tratto in tratto della loro maschera prediletta, del Rogantino. Due occhietti luccicanti e vivaci da topo, un naso pronunziatissimo e delle gambe arcuate, coadiuvavano a renderlo simpaticamente risibile nelle parti giocose.

Abbiamo di Gustavo Modena, che gli fu amico intrinseco, non poche lettere (G. Modena, Politica e Arte. Roma, 1888) a lui scritte su vario argomento, delle quali alcune troverà il lettore al nome di Modena stesso. Qui ne trascrivo due brani (3 settembre ’56 da Tor Luserna, e 8 giugno ’58 da Torino), che riguardan la persona del Belotti, e ne mostran l’indole a evidenza.

………………………..

Dunque tu vuoi venire nella Compagnia di X ? Sei un briccone : e il Dio della scena ti punirà d’aver disertato la bandiera di monsignor Domeniconi, placida vittima della tua tirannia. Lo rimpiangerai…. ma io già non credo che tu voglia davvero voltargli le spalle : sospetto bensì che tu tiri il roccolo per farti esibir maggior paga da X e poi dire con tuono flebile a Domeniconi : Papà mio, mi piange il cuore, ma vedi, mi offrono 500 di più ; io sono pover’uomo, crescimi tu i 500 ed io resto con te fino alla morte. Furberia da bergamasco, ma vecchia : tu non inventi nulla, non eclissi il tuo concittadino Brighella-caviccio-gambon.

………………………..

Con questa lettera obbligatoria in via commerciale da valere come un rogito del notaro dottor Bellini, rinunzio per me ed eredi, in favore dell’egregio artista Amilcare Belotti, ad ogni e qualunque direzione di dilettanti drammatici, nata e nascitura nell’ Orbe terraqueo illuminato dal sole e dalla luna ; assoggettandomi in caso di mancanza alla mia obbligazione, a rifondere il valsente delle penali pagate e da pagarsi dal capocomico Domeniconi, più i danari spesi e da spendersi dal sullodato capocomico in viaggi d’andare e venire colla sua nomade Compagnia. In fede Gustavo Modena.

Sei contento ?

Figurati, anche jer l’altro venne David Chiossone a Torino per parlarmi d’una direzione a Genova : e lo mandai via colla comminatoria che se me ne riparla lo morsico.

Se i dilettanti non ti afferrano come un Messia del cielo io li compiango. Dove vogliono trovare un infaticabile che ti valga ? Quando tu convertirai la tua lupa, la tua fame di recitare in fame di dirigere, tu spingerai la antica Filodrammatica milanese in nuove regioni di progresso, la ringiovanirai ! E poi, per quei Burgravii della Società, tu Lion, tu uomo universale, compiacente, pregno di ripieghi e di sanatorie, tu sei l’uomo unico, introvabile ! Forse farà ombra a Milano il tuo essere da Bergamo : ma Domeniconi ti ha tanto navigato che della natura prima non ti deve esser rimasto neppur l’odore. Se sei d’un paese, sei di Roma.

{p. 342}

E alle lettere del Modena faccio seguire un brano di Giuseppe Costetti che tolgo da’ suoi lepidissimi Bozzetti di teatro (Bologna, Zanichelli, mdccclxxxi) :

Del cinquanta, quando la rotta di Novara e i Francesi in Roma empivano di lagrime gli occhi d’Italia, la Compagnia Domeniconi correva i teatri della penisola. L’idolo del pubblico era Amilcare Belotti, a preferenza della prima attrice e del primo attore. E la prima attrice si chiamava Adelaide Ristori, il primo attore si chiamava Tomaso Salvini.

Ed anche lasciando stare le epidemie e le guerre disastrose, il brillante è sempre il beniamino del pubblico, che gli perdona quanto punirebbe in altri senza misericordia. Amilcare Belotti, negli ultimi anni d’arte, s’impaperava più dell’onesto.

In una scena nella quale sorprendeva una conversazione intima, disse ai due innamorati confusi : continuinino.

Questo lusso di ni nell’imperativo plurale del verbo continuare suscitò una fragorosa risata e un vivissimo applauso.

Nelle successive rappresentazioni il Belotti continuò a dire Continuinino, e il pubblico continuò ad essergliene riconoscente.

Benaglia Antonio (V. Coleoni Marta).

Bendinelli Giacinto detto Valerio, nacque a Modena da Luca Bendinelli e da Francesca Sennasoni (o Scavasoni : la lettura di questo nome è alquanto incerta). Era a Roma il 1658, come da registro di forastieri (V. Bertolotti, op. cit.), nel distretto della parrocchia di S. Pietro, insieme ad Agostino Lolli, il Dottor Baloardo, che divenne poi il suo testimonio di nozze. Il Bendinelli si recò a Parigi probabilmente nel 1660 per succedere nelle parti di Primo Innamorato al Romagnesi, detto Orazio, nella Compagnia di Luigi XIV. Sposò colà una Giovanna Maria Poulain il 1°Settembre 1665, a proposito della quale il Campardon riporta un curioso e pungente aneddoto che io do qui in ristretto.

Giacinto Bendinelli, detto Valerio, comico italiano della Compagnia del Re, abitante presso Guglielmo Devil, armaiuolo, Via S. Onorato, recatosi il 5 aprile 1667 allo studio di Pietro Lemusnier, ha mosso querela contro Don Pietro Gazotti, prete modenese suo compatriotta, ch’egli conosceva da 6 anni, e in cui aveva riposta una illimitata fiducia per tutto quanto potea concernere le cose spirituali e temporali, perchè accolto in seno alla sua famiglia e ammesso alla sua tavola, ov’egli mangiava e beveva come se fosse stato di casa, spinse la sua brutalità a tal segno da fare a più riprese indegne proposizioni alla moglie del querelante Giovanna Maria Poulain ; la quale, visto come a nulla valessero nè la prudenza, nè il riserbo, nè le rampogne, nè le minaccie, si trovò costretta a narrargli il tutto. {p. 343}Sorpreso e stupefatto il marito per tanta audacia e tanta viltà scoperte improvvisamente in chi fin allora egli ebbe in concetto di sant’ uomo, pensò bene di affrontare il detto Gazotti e dirgli intero l’animo suo. Al che non fu il prete nè umiliato, nè confuso ; anzi tanto imbestiali contro il querelante che non solo lo minacciò di morte, ma tentò anche di mandare ad effetto il suo triste proposito, servendosi di due sicarj, due svizzeri, i quali alle sette di sera lo aspettarono, appostati presso la sua casa ; e l’insultarono, e miser mano alla spada…. alla presenza del signor Gazotti che osservava il tutto dalla bottega vicina di un merciajo. Per la qual cosa il sottoscritto si sarebbe recato all’ Ufficio del suddetto Lemusnier, coll’ intento di sporgere la presente querela : – Firmato : Io Giacinto Bendinelli, detto Valerio, comico italiano di S. M.

Dal matrimonio colla Poulain ebbe due figliuole : una, Francesca Margherita, morta a tre anni ; l’altra, Nicola Genovieffa, morta a ventisette mesi. Giacinto Bendinelli restò nella Compagnia fino al 1667, e morì il 15 marzo 1668 in via S. Nicasio, ov’egli abitava. Ecco l’atto d’inumazione, riportato dal Jal (op. cit.) :

« (Venerdì 16 marzo 1668) fu inumato il signor Giacinto Bendinelly, detto Valerio, uno dei comici di Sua Maestà, della compagnia italiana, morto in via S. Nicasio. Firmati : Tommaso Ferrary, prete italiano, Marc’Antonio Romagnesi, comico italiano (V. Allori Francesco).

Benedetti Luigifiorì – dice F. Bartoli – ne’ Teatri di Roma sua patria, dove molto esercitossi nel carattere d’Innamorato, e dove fu molto gradito. Si meritò il pubblico elogio di Carlo Goldoni che lo vide rappresentar la Pamela Fanciulla con molta perizia. Salito in alta rinomanza così per le parti improvvise, come per quelle premeditate, fu scritturato dal Capocomico Antonio Sacchi qual primo Innamorato ; e tanto seppe ben meritare dell’affetto di lui, che ne ottenne in moglie la nipote Chiara Simonetti. Si trovò a Venezia nel momento delle scenate che il Sacchi provocò in pubblica prova contro la Ricci (V. Bartoli-Ricci), e fu dallo zio mandato paciere al Gozzi, perchè riprendesse il suo ufficio di Protettore della Compagnia. Gli fu assegnata la parte di Don Adone nelle Droghe d’Amore di esso Gozzi, rappresentate al Teatro S. Salvatore in Venezia il 10 gennaio dell’anno comico 1776-77 e cagione di tante noie, di tanti {p. 344}fastidi, di tanti pettegolezzi al proposito appunto di quella parte ; chè in essa vide la Ricci ritratta la figura del Gratarol suo benefattore. La parte poi, tolta al Benedetti per raggiri del Sacchi, fu recitata da Giovanni Vitalba, che cedè al Benedetti la sua, quella di Don Alessandro gran Cancelliere del Duca ; essendo la quale di carattere d’un geloso furente, molto comica e teatrale, il Benedetti, attore di maggior fuoco del Vitalba, avrebbe, a detta del Sacchi, sostenuto quel carattere molto bene, e tenuta allegra una gran parte della Commedia (V. Gozzi, Memorie inutili, II). Scioltasi la Compagnia del Sacchi, ridotta – dice esso Gozzi – per le di lui stravaganze un carcame scarnato, il Benedetti passò colla moglie in altra Compagnia, finchè poi abbandonata l’arte, nel 1780 andò a stabilirsi a Bologna, ov’egli ottenne onorato impiego. Fu il primo e l’unico – dice F. Bartoli – che portasse in Lombardia una commedia intitolata : I vari personaggi di Florindo ; l’esccuzione de’ quali vedevasi da lui fatta nell’ uscire da una portantina, situata a vista del popolo in mezzo alla scena.

Benedetti-Simonetti Chiara, moglie del precedente, e figlia di Giuseppe Simonetti, lucchese, mostrò da fanciulla grandi attitudini pel ballo, ed esordì nella compagnia dello zio Antonio Sacchi (suo padre ne aveva sposata la sorella Anna), come danzatrice, recitando anche alcuna particina d’ingenua. Divenuta moglie nel 1769 di Luigi Benedetti, e vieppiù appassionatasi all’arte comica, tanto progredì che il Conte Carlo Gozzi le affidò alquante parti di protagonista in proprie commedie, altre ne scrisse a posta per lei, come nella Caduta di Donna Elvira, nella Punizione, nel Precipizio, nel Pubblico secreto, e nelle Due notti affannose. Recitò essa la prima volta in Italia l’Eugenia di Beaumarchais tradotta dall’Abate Perini, e tanto vi piacque, che in grazia più specialmente del suo valore artistico, se ne fecer più repliche. Entrata in Compagnia Sacchi la Teodora Ricci, che assunse il ruolo di prima donna assoluta, ella dovè passare a quello di seconda donna, che sostenne con ugual valentìa e ugual zelo. Poco tempo stette a Bologna fuor {p. 345}dell’arte ; chè, attratta di nuovo dagl’incantesimi della scena, finì coll’ abbandonare il marito e tornar collo zio Sacchi, in compagnia del quale si ripresentò sul Teatro di S. Luca, destando nel pubblico ammirazione ognor crescente.

Benedetti Vittorio e Salvatore, livornesi. Attore assai stimato il primo, si tolse dall’arte quando essa gli arrideva maggiormente. Ebbe grandi attitudini alla musica e cantò da baritono, e dettò alquante romanze ricche di melodìa. Liberale di antica data dovè riparare il 1842 in Corsica. Fu egregio nell’arte del leggere e nell’insegnamento drammatico, e non v’ha de’suoi allievi, divenuti poi artisti di alquanto merito come il Fagiuoli, il Parrini, il Tellini, chi non lo ricordi con affettuoso rimpianto. Alle sue insistenti premure deve Livorno il sorgere e il fiorire del Politeama di cui fu col fratello Salvatore dirigente attivo e appassionato. Morì a 65 anni il 9 aprile dell’ 89.

Fu il secondo generico primario di molto pregio, e buon primo attore di Compagnia secondaria. Sappiamo dalle memorie di Ernesto Rossi ch’egli creò, nel 1854 a Milano, e con successo, la parte di Jago nell’Otello, quando era il generico primario della Compagnia di Cesare Asti. Entrò con egual ruolo in quella di esso Rossi, il quale anche afferma aver avuto il Benedetti buone attitudini all’arte. Fu poi il primo attore della Compagnia di Giovanni Internari, figlio della celebre Carolina, e ricordo di aver sentito da lui la prima volta I nostri buoni villici di Sardou, in cui con molta perizia sosteneva il personaggio del Conte. Ma egli fu maggiormente apprezzato nei drammi popolari come Sisto V, I misteri dell’ Inquisizione di Spagna, I misteri di Parigi, e altri simili. Passò il 1871 generico primario con Tommaso Salvini, col quale si recò ne’vari Stati d’ Europa e in America. Nato il ’34, morì il 7 Gennaio del ’92 a Livorno, ove dirigeva da più anni con ogni sollecitudine quel Politeama.

Benini Gaetano, bolognese, nato da famiglia agiata, si diede agli studi legali, poi, dopo le noie venutegli dall’avere {p. 346}appartenuto a’carbonari del’ 31, abbracciò l’arte drammatica, nella quale riuscì ottimo primo amoroso e primo attor giovane. Fu il triennio 1840-41-42 con Giardini, Voller e Bellati ; e a quel tempo, dal poeta della Compagnia Paolo Giacometti molte parti di rilievo furono scritte pel Benini, e da lui valentemente eseguite. Passò il ’42 nella Compagnia di Angelo Lipparini al fianco di Carolina Santoni ; poi in altre, finchè si fece capocomico egli stesso. Sposò una Elena Tamberlicchi, di onesta e agiata famiglia fiorentina, che troviamo il 1840 con Luigi Domeniconi, e n’ebbe fra gli altri il figliuolo Ferruccio, che fu poi il sostegno della Compagnia paterna.

Gaetano Beninì morì a Savona il 1888.

Benini Ferruccio, figlio del precedente, nacque a Genova il 1854. Dall’affetto per la famiglia fu costretto a restare nella Compagnia del padre, e a respinger le richieste che gli eran fatte da egregi capocomici. Esordì in parti di bimbo nella Compagnia di Monti e Preda, e di Cesare Dondini. Recitava una sera del ’66 al S. Benedetto di Venezia, oggi Rossini, per la solenne entrata di Vittorio Emanuele, la parte del bimbo nel Medico Condotto di Castelvecchio. Quando ad una interrogazione del Rettore esaminante rispose Roma dev’essere la Capitale d’Italia, il pubblico entusiasta si levò in piedi, agitando i fazzoletti, urlando e applaudendo : e il piccolo Benini tutto compreso dell’effetto artistico ch’egli aveva saputo produrre con quelle parole, giù a profondersi in riverenze senza fine. E si vuole accadesse poi una lite, che minacciava di doventar sanguinosa e che a stento potè comporre il Dondini, fra lui e il piccolo collega Napoleone Masi, pregiato brillante oggi, il quale voleva a ogni costo persuaderlo che quelle dimostrazioni non eran per lui !…

Cominciò il Benini a recitar le parti di brillante nel ’74 al Teatro Balilla di Genova, fuor di Porta Pila, che fu incendiato, e ricostruito poi dal Chiarella in forma di teatro vero e proprio col nome di Vittorio Alfieri. E ho detto in forma di teatro, chè {p. 347}prima era un baraccone, con la loggetta al di fuori pe’suonatori chiamanti il pubblico sotto le spoglie di Pagliaccio, Arlecchino e Donna Cannone. Si pagavan 10 centesimi ; e oltre a’giuochi equestri (?) si mostrava un vitello con cinque gambe. Immaginatevi da quale specie di pubblico era frequentato ! Bene : la Compagnia, se così poteva chiamarsi, del Benini, trasformò di punto in bianco l’ambiente. Andò in scena colla Pia de’ Tolomei, aggregandosi gli attori Rigatti e Mancini. Ferruccio Benini per evitar la vergogna di mostrarsi a viso scoperto, scelse la parte del guerriero incognito. La recita fanatizzò. Animati da ciò, andaron formando una Compagnia non delle peggiori, con proprietà di abbigliamento e di allestimento scenico ; tanto che, mentre essa al suo esordire era composta di quattro attori, finì {p. 348}poi coll’averne ben trenta ; il pubblico scamiciato restava al di fuori a guardar le eleganti signore che scendevan di carrozza per recarsi al teatro ; e l’incasso della stagione, che durò tre mesi, fu di 37,000 lire.

Mortogli il padre, il Benini entrò nella Compagnia dialettale di Giacinto Gallina, il gentile continuator di Goldoni, nella quale si trova tuttavia, cavallo da sella e da tiro, artista generico per eccellenza, ugualmente egregio nelle parti di amoroso e di caratterista, di brillante e di promiscuo, e qual si conviene apprezzato e applaudito da ogni pubblico d’Italia.

Benotti Luigi, vicentino, sosteneva nel 1630 le parti di Pantalone nella compagnia de’ Fedeli…. Dove ? A Parigi ? (È il Sand che ci dà la notizia di questo comico, op. cit.). Il ’29 e il ’30 furono appunto i due anni tristissimi per l’Italia, a cagione del gran contagio, della carestia e della guerra ; i due anni ne’quali non sappiam dove si trovassero i Fedeli : ma assai probabilmente fuori d’Italia. Adolfo Bartoli (op. cit.) asserisce che restarono dal ’28 al ’30 a Praga.

Benozzi Gio. Batista Bonaventura, detto Il Dottore, fu fratello della famosa Giovanna-Rosa-Guyonne Benozzi, moglie di Giuseppe Balletti, e nota in teatro col nome di Silvia. Secondo il Jal (op. cit.) sarebbe entrato nella Compagnia italiana a Parigi il 1738, assumendovi il carattere di Dottore ; mentre, secondo il Campardon (op. cit.), prima di assumere il carattere di Dottore, avrebbe recitato in quello di Scaramuccia, nel quale appunto avrebbe esordito alla Commedia italiana il 3 marzo 1732 in Colombina, Avvocato pro e contro. Fu anche buon musicista ed esperto concertista di violino.

Lo vediamo assistere il 20 agosto 1739 al seppellimento di Tommaso Vicentini (Tommasino) il celebre Arlecchino, il 13 settembre 1745 a quello di una figlia dello stesso e il 7 dicembre 1753 a quello di Luigi Riccoboni. Sposò Claudia-Simona Audureau, e morì nel suo domicilio, via Beaurepaire, il 26  {p. 349}maggio 1754. Eccone l’atto di decesso : Il lunedi, 27 maggio 1754, Gio. Battista, Bonaventura Benozzi, ufficiale del Re (era il titolo de’comici di S. M.), di anni 67, sposo di Claudia Simona Audureau, morto jeri in via Beaurepaire, sepolto nella cripta della cappella della Vergine, presenti Pietro Luigi Audureau, borghese di Parigi, e Giuseppe Balletti, ufficiale del Re, suoi cognati.

Tolgo dal Campardon la seguente quartina, pubblicata in suo onore nel Calendario storico dei teatri del 1751 :

Le fameux docteur Benozzi
nous instruit en nous faisant rire ;
c’est la bonne façon d’instruire
mais elle n’appartient qu’à lui.

Il Campardon pubblica ancora due documenti tolti dagli Archivi Nazionali, uno concernente la dichiarazione del Benozzi per il furto commesso alla Commedia Italiana di un orologio da tavola con soneria in bronzo dorato : l’altro la querela di esso Benozzi, contro un inquilino di una casa situata in via Montorgueil, il quale dal terzo piano gli aveva rovesciata addosso dell’acqua sudicia.

Fu anche testimonio l’aprile del 1737, insieme a tutta la compagnia, in una causa contro l’attore Giovan Battista Francesco Dehesse, accusato di rapimento e seduzione.

Benozzi Giovanna-Rosa (V. Balletti-Benozzi).

Benvenuti Giovanni, Cammillo e Carlo. Fu il primo un buon Pantalone, e si trovava l’autunno e carnevale 1795-96 in Compagnia di Luigi Perelli, noto Truffaldino, della quale era ornamento principale per le parti di padre il celebre Petronio Zanerini.

Troviamo il secondo primo uomo nel 1820 della Compagnia Morelli-Borelli colla moglie Carolina prima amorosa poi seconda donna. Per questa il Giornaletto teatrale di Venezia (N. xxiv) ha parole di encomio e d’incoraggiamento ; per {p. 350}quello, che fu anche direttore della Filodrommatica veneziana nel Carnevale 1817-18, parole piuttosto aspre.

Il terzo fu artista di buon nome, e autore di notissimi drammi popolari quali l’Antonietta Camicia e la Figlia del Fabbro. Morì verso il 1860.

Beolci, o Beolco Angelo, detto il Ruzzante, nacque a Padova nel 1502. Lo Scardeone (de antiquitate urbis Patavii) lo chiama il Plauto e il Roscio dell’ età sua. Scrisse commedie, orazioni e dialoghi in lingua rustica, che pubblicò prima a parte a parte, poi raccolti in un sol volume. Le commedie sono : la Rhodiana, l’Anconitana, la Piovana, la Vaccaria, la Moschetta e la Fiorina ; se bene il Calmo nella dedica della Rodiana che fa al Conte Ottaviano Vimercati, affermi questa commedia esser sua, così dicendo : e dia la colpa a’ maligni, che mi rubarono la Commedia Rhodiana, la quale fu recitata in Vinezia del 1540, e poi nella Città di Trevigi sotto il felice Reggimento del clarissimo M. Giovan Lipomani, facendola stampare sotto il nome di Ruzzante, credendo forse col mezzo di tante mie Vigilie aggiungerli gloria. Fu poi ristampata sotto il proprio nome del Calmo in Venezia per Domenico Farri, 1561, in-8, e 1584, in-12, e in Vicenza presso gli eredi di Perin libraro, 1598, in-8 (V. Quadrio, Della Storia e della Ragione d’ogni poesia, vol. III, P. II). Comunque sia, la Rodiana figura prima tra le commedie del Ruzzante (Vicenza, Giorgio Greco, 1584), e senza di essa non sarebbe la fama di lui attenuata, tanti sono i pregi onde abbondano le altre cinque, e le orazioni e i dialoghi rusticani. A lui dobbiamo forse la prima apparizione dei dialetti nella commedia regolare. Nel 1528 diede la sua prima commedia in cui ciascun personaggio parlava un differente linguaggio : la qual cosa dovette recar molto piacere agli ascoltatori delle varie regioni che voller d’allora in poi – scrive il Sand – rappresentato sulla scena il proprio tipo…. Di qui ebber vita nuova i buffoni delle antiche commedie, trasformati in Pulcinella, Brighella, Arlecchino, Capitano, Pantalone, Dottore : di qui, si può dire, ebbe vita nuova e rigogliosa {p. 351}il teatro popolare d’Italia. E che modelli di verità e di vitalità quei personaggi !… quelle Bette, quei Tonin, quei Truffi, quelle Fiorinette ! Che vivezza di dialogo, che realismo sincero, non accattato, non forzato !… Mai una sconcezza per la sconcezza !… Le cose accadono perchè debbono accadere, le parole si dicono perchè debbono esser dette : nulla di quella ipocrisia voluta che fa i personaggi tisici del corpo e dell’anima ! Il personaggio di Ruzzante non ha carattere speciale : egli è quello che capita : talora soldato pauroso arieggia il Capitano ; talora servo, talora innamorato, talora marito…. E questa varietà di caratteri il Beolco dava forse a bella posta al suo personaggio, a meglio mostrare agli spettatori ammirati la versatilità e proteiformità del suo ingegno. Quand’egli era in iscena, scrive Scardeone, il pubblico non s’occupava che di lui : leggendo le opere sue non si è alieni dal crederlo ; specie la Moschetta, di cui abbiam dato un breve saggio al nome di Alvarotto, e che mi par tutta un piccolo capolavoro del genere. Nella scena del primo atto di dichiarazione amorosa fra Bettia e Tonino, e nella quarta degli atti secondo e terzo fra Bettia e Ruzzante, il Beolco ha raggiunto il colmo della dolcezza e della forza, della comicità e dell’ effetto. Qui davvero non mi pare esagerazione dir collo Scardeone e col Sand che contenda con Plauto. È peccato che io non possa trascriver siffatte scene. Nell’originale troppo affatican per la difficoltà de’ dialetti, e in una traduzione scemerebber della loro freschezza e spontaneità. Trascriverò piuttosto il discorso che {p. 352}è nel primo atto dell’Anconitana col quale Isotta in veste d’uomo sotto nome di Gismondo, raccontando le buone qualità ond’è ornata, cerca di persuadere Doralice a riscattarla con danaro.

Non posso, gentilissima Madonna, fare ch’io in quello che servirò quella Magnifica Madonna per la cui generosità sarò riscattato non dica che il padre mio doi figliuoli ebbe senza più, ed egli è il vero che la madre noi d’un medesimo parto avendo partorito passò di questa vita ; per il che dall’avo materno nostro, fummo fino alli sette anni allevati, di poi, per odio di nostri parenti a noi portato, e per fuggire le insidie loro a noi nella vita tese, fummo disgiunti : quello che di mio fratello avvenisse non potei mai risapere ; io in abito di donna fino alli diciotto anni stei rinchiuso in un monasterio di monache, ove, in cambio delle lettere, allo ago, alla rocca ed al fuso diedi opera, e prima imparai a tirar in filo il lino e la lana, di poi a comporre e tessere le tele, e di poi con l’ago di seta di varj colori trapungerle e ricamarle d’oro e d’argento, ed in quelle dipingere e colorire figure di uomini, di animali, di arbori, di paesi, di fontane, di boschi…. ed in breve, quello che faria con un pennello un dotto dipintore, io con l’ago, con la seta tinta di varj colori farò. E ciò che per me si dipinge, e con atti, movenze, congerature con panni ignudi in maestà, in profilo, in iscorcio, adombrati e coloriti con riflessi, con ombre morte ; e se di dieci mila figure le più belle parti scegliessi, quelle so benissimo accompagnare ; il che in pochi si ritrova : e di poi colorire di azzurro, di giallo, di perso, di vermiglio, e più e meno, come richiede lo effetto della figura. I lavori di camice e di gorgiere di trapunti aurati e serici benissimo li so fare. Oltre di ciò ho perfettissimo judicio e intiera cognizione di adornare una donna di vestimenti, di scuffie, di balzi, di treccie e di gorgiere. E quali colori di drappi siano più confacevoli alla donna bianca, e quali alla bruna ; e quali panni meglio si accompagnano alle divise e alle nove livree d’imprese. Come significano o amore, o speranza, o gelosia ed altre simili cose. Come si devono portare le faldigie, come la scuffia in balzo riesca meglio, o coprendo tutti li capegli, o lasciandone vedere un dito o due. A quali donne riescono le orecchie forate, e come meglio se gli confaccino o le perle, o le fila d’oro, ed in anella rivolte. Le guise di cassi come vogliano essere a far parere il petto morbido e far mostrar le mammelle o poco o meno. Gli monili, le catene d’oro, le perle ordinate in filza come faccino parere più altera la donna. Delle anella ancora quali dita si debbano ornare ; come deve muovere il passo la donna, come deve ridere, come volger gli occhi, come far riverenza ; e in quali atti più di grazia e più d’onestà si trova. Come si deve fregiare una vesta, e nuove guise di aggiungere diversi colori di panni che più leggiadri pajono. Ed in vero ho veduto in questa città molte madonne, tanto inordinatamente acconcie ed ornate, che se a loro stesse fossero così note come a chi le mira, si andariano tutte a riporre. Elle nello specchio colli propri occhi si rimirano, o al judicio cieco delle fantesche si riportano, le quali più presto di una scanciera di scudelle che di adornamenti di donna saperiano judicare. Alcune donne ordinano li capelli egualmente castigati, e tutti ad uno ordine posti, che uno l’altro non passi ; alcune lasciandoli così inordinati hanno accrescimento di grazia e di beltà tanto che non si potria con mille lingue raccontare. Con sofferenza vostra, madonna, tirate un dito quella scuffia innanzi, che non si veggiano tanto i capegli. Oh, vedete che più di grazia avete, perchè il viso vostro è alquanto iscarno. Sicchè alla donna che mi riscuoterà sarò servo e fante, e uomo e femmina. Piacendovi adunque uno di noi, piglierete quello che più vi piace, ch’ io non ho a dire altro, alli effetti rimettendomi.

{p. 353}

Degli onori ch’ebbe in vita il Ruzzante scrive largamente lo Scardeone (op. cit., 255). Io dico, riepilogando, che le sue commedie, rappresentate ne’ vari teatri d’Italia, ebber dovunque accoglienze di risa e di applausi, e ch’egli superò tutti i recitatori del suo tempo. Andava l’estate in campagna alla villa Codevigo presso Luigi Cornelio, veneto, magnifico e liberalissimo uomo suo mecenate ; e là recitava le sue commedie. Forse – accenna il Sand – l’illustre signore stesso prendeva parte alla rappresentazione sotto le spoglie del vecchio Cornelio. Quando i Cardinali Marco Cornaro e Francesco Pisano, preposti ecclesiastici di Padova, fecero il loro ingresso nella città, tutti, a qualunque classe appartenessero, mosser loro incontro con gran festa. Fu allora che, dopo la cena, il Ruzzante, secondo l’uso, a esilarar gli animi, recitò le sue tre orazioni in lingua rustica, magna cum astantium voluptate.

Morì a soli quarant’anni in Padova, con grandissimo cordoglio di tutti. Sepolto nella chiesa di S. Daniele, a Prato della Valle, gli fu, a eterna ricordanza del suo nome e della sua fama, eretta una pietra su cui sta incisa la seguente iscrizione che dettò Giovanbattista Rota profondo ammiratore di lui.

V. S.

angelo beolco rvzanti patavino nvlli in scribendis agendisq comoediis ingenio, facvndia avt arte secvndo iocis et sermonib. agrest.

applavsv omnivm facetiss.

qvi non sine amicor. moerore e vita decessit, ann. domini m. d. xlii. die xvii martii.

aetat. vero xl.

io. bapt. rota patavinvs tantae praestantiae admirat. pign. hoc sempit. in testimon. famae ac nomin.

p.  c.

ann. a mvndo redempt. m. d. lx.

{p. 354}

Beretta Federico. Recitava il 1675 le parti di Capitano Spagnuolo, come si è potuto vedere dalle lettere di Francesco Allori detto Valerio, che ne faceva richiesta a un ministro del Duca di Mantova per la compagnia, della quale egli era direttore, e sua moglie Francesca, Ortensia, prima donna. Sebbene il Beretta fosse già stato scritturato dal Duca, pare che non raggiungesse subito la compagnia, come avrebber desiderato i comici, e specialmente il Truffaldino Palma, che si raccomanda sul proposito a un ministro del Duca con la lettera seguente, tratta dagli Archivi de’ Gonzaga, e come l’altre gentilmente comunicatami dall’ egregio cav. Davari :

Illmo. Sig.re et Padrone,

Ricevo stasera di V. S. Ill. con l’ordine del Passa porto, anderò inanzi doi giorni, dall’ Ill.mo S.r Residente per il passaporto, rendo infinite gratie a V. S. Ill. del favore ricevuto, spero in dio, che questa settimana che entra di essere spedito di miei interessi, e poi mettermi in viaggio a dio piacendo. Ricordo a V. S. Ill.ma di Federico Beretta, che fa da Capitanio spagnolo, essendo personaggio onestamente buono per la parte del capitano, avendone io di bisogno per molte comedie, e parte necessaria, e poi nelle opere si porta per di verità, e a buona memoria e ricorda nelle opere e scrive bene. V. S. Ill. se ne potrà informare del detto personaggio con la Sig.ra Ortensia, lei essendo buona comica ne farà fede, starò atendendo le sue gratie, pregandola di favorirmi di riverire il Ser.mo Padrone e protetore al quale inchinandomi li bacio afetuosam.te le mani.

Di V. S. Ill.ma
Aff.mo Ser.re
Carlo Palma detto Truffaldino, Comico.

(V. anche Turri Gio. Batta, detto Pantalone, che in una lettera allo stesso ministro tocca del Beretta ; la scrittura del quale, dice, non sa come possa conciliarsi con quella di suo figlio Virginio, che gli raccomanda vivamente. Il figlio Virginio è quegli che l’Allori chiama inetto al recitare, e di cui dice che ha tanto poca fortuna da per tutto che la compagnia patisce pur assai).

Berettaro Francesco. È citato dal Quadrio sulla fede del Sansovino, che ne fa menzione assieme a un tal Franciotto, come Improvvisatori in maschera. Uomini eccellenti in questa professione, da’ quali si soleva qualche poetica invenzione recitare all’ improvviso, e rappresentare nelle allegrie del Carnovale.

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Bergamaschi Luigi, di famiglia benestante, nacque a Cremona il 1785. I primi passi nell’arte fece in compagnie di pochissimo conto ; ma il tempo del noviziato fu breve. Aitante della persona, di fisionomia aperta e simpatica, di voce forte e pieghevole, di coltura non comune e ricco di sentimento, diventò ancor giovanissimo primo amoroso di grido. Nel 1812 fu in Compagnia di Giacomo Dorati, poi, nel ’19, in quella di Vestri e Venier, e finalmente in quella di Luigi Favre, del quale sposò una figlia, la Giulia, e col quale stette gran parte della sua vita artistica. Par che talvolta le cose non camminasser troppo bene ; e si sa che a Venezia gli fu venduta all’asta pubblica tutta la roba con quella del capocomico : grave infortunio, compensatogli da una vincita al lotto fatta dalla moglie in quell’istesso tempo di quattrocento Bavare.

Recitò coi celebri Francesco Lombardi e Amalia Vidari ; e il Regli dice che erano tanti gli applausi ch’ egli coglieva da farne geloso il Lombardi stesso ; e aggiunge in fine del suo breve cenno : anch’ esso è uno di quegli attori, di cui si è perduto lo stampo.

Ecco l’ Elenco degli attori che formarono la sua Compagnia del 1829 :


Primo attore

Luigi Bergamaschi

Tiranno

Giuseppe Copelotti

Primo amoroso

Gaetano Gattinelli

Caratt. promiscuo e Padre

Giuseppe Guagni

Caratterista

Lorenzo Baseggio

Prime attrici a vicenda

Giulietta Favre

Carmina Favre

Madre e caratterista

Maddalena Caprara

Servetta

Giuseppina Copelotti

Seconda amorosa

Alemanna Guagni

Generiche

Agnese Mancini

Giovanna Favre

Annetta Ogna

Altro Padre

Antonio Mancini

Secondo caratterista

Pietro Caprara

Generici

Lodovico Mancini

Antonio Copelotti

Pietro Imiotti

Benedetto Mancini

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Vale la pena di trascriver qui le parole colle quali il Bergamaschi invitò il pubblico alla sua beneficiata, la sera del 20 maggio 1829, al R. Teatro del Giglio di Lucca :

SERATA

A BENEFIZIO DEL PRIMO ATTORE

LUIGI BERGAMASCHI

commedia allegorica

scritta dal celebre sig. Abbate Avelloni detto il Poetino

È indubitabile ehe il Teatro è scuola di morale esperienza e di pubblica istruzione. Il vizio fra la dolcezza del riso sferzato ed avvilito, l’orgoglio fiaccato fra la semplicità dello scherzo, la virtù trionfante in mezzo all’ orror tenebroso della calunnia…. ecco il risultamento delle Sceniche Produzioni. Composto più sorprendente di così belle sociali pitture noi non troviamo che nelle Allegorie, nelle quali con vive immagini osserviamo i diversi mostri, che mascherati di soave apparenza, si fanno i tiranni dei nostri affetti, e tutto sfigurano il nostro spirito.

L’allegoria che verrà esposta è un Capo d’opera in simil genere. Fra la più grande illusione della (per così dire) Magica Azione, il valente Poeta ha saputo costantemente condurci alla conoscenza dei più nobili sentimenti, al più moral disinganno, ed al trionfo più bello dell’ umana moderazione. Viene intitolata :

LA LUCERNA DI EPITETTO

che scopre dalle tenebre il passato, il presente e l’avvenire

ovvero

la filosofia magica e il prodigioso morto palpabile ed invisibile

Commedia Allegorica Filosofico-Magico-Portentosa

Scenarj e Vestiarj Allegorici formeranno l’adornamento della Commedia di un genere sempre variato e sorprendente.

L’umile Attore offre a questo Colto ed Illustre Pubblico in attestato di rispetto e della più alta considerazione, la presente Allegoria recitata soltanto dalla fu Compagnia Goldoni nell’ Anno 1815 giacchè a quella sola apparteneva. Egli si riputerà abbastanza fortunato se la sua offerta sarà compensata da quel gentile accoglimento che è innato in questa cortese ed Inclita Popolazione.

Si trovava il 1840 al Circo Sales di Torino, e lasciò scritto un contemporaneo (l’attore Colomberti) di averlo sentito rappresentar molto bene la parte di Fernando nel notissimo dramma del Roti : Bianca e Fernando.

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Bergonzio-Perelli Giulia, milanese. Entrò nella Compagnia del celebre Moncalvo scritturata per le parti di amorosa, col marito Giuseppe Bergonzio pur milanese, trovarobe e attore, ne’ casi eccezionali, per alcune particine in dialetto.

Ella diventò poi prima attrice ; e se la numerosa famiglia non veniva a distoglierla interamente dall’arte, avrebbe potuto colla intuizione fortissima, colla bella figura e la bella voce, mantener le grandi promesse ch’ella dava di sè.

Dalla coppia Bergonzio nacquer dodici figli, de’ quali i quattro sopravissuti, Luigi, Adalgisa, Linda e Carolina, abbracciaron l’arte de’ parenti. Luigi sposò poi la Luisa Valenti, comica anch’essa, dalla quale ebbe quattro figli, tutti comici ; tra i quali Teresita, promettentissima attrice, morta a Roma nel’ 93.

Adalgisa moglie ad Alessandro Meschini, reputato generico primario, ritirata da alcun tempo dall’arte, fu una egregia servetta ; Linda, moglie di Enrico Belli-Blanes, fu assai pregiata per le parti di prima attrice giovine, e si dovette a lei la buona riuscita di alcune commedie.

Bergonzoni Filippo. Nacque a Bologna nel 1833. Si cimentò con buon successo, benchè giovanissimo, nell’accademia filodrammatica diretta dall’attore e autore Luigi Ploner, dopo di aver dato vive speranze di riuscire più che mediocre pianista. Esordì in non so qual compagnia come amoroso, per diventar poi nel ’56 il primo attor giovine di quella dei fratelli Bosio, diretta da Francesco Chiari, di cui era prima attrice la Giuseppina Biagini : e leggo ne’ giornali del tempo ch’ egli si faceva molto applaudire, specialmente nel mulatto della Suonatrice d’arpa. Consigliato da Bellotti-Bon di lasciar le parti serie, abbracciò di punto in bianco il ruolo di brillante, che sostenne con assai decoro per alcun tempo, per passar poi a quello di caratterista, a cagione della figura che accennava già a diventar voluminosa, nel qual ruolo fu per molti anni con Alamanno Morelli, al fianco di Luigi Monti e Pia Marchi. Fu marito di Elena Cirri, filodrammatica fiorentina di assai pregio, {p. 358}mortagli dopo brevissimo tempo. Pippo Bergonzoni, allettato dai grandi successi che ottenevan dovunque le fiabe musicate dallo Scalvini, determinò di darsi a quel genere, con nuovi intendimenti d’arte, trascegliendo le migliori operette del repertorio forestiero, e formando in società con Achille Lupi una compagnia, della quale fu direttore appassionato e intelligentissimo, e dalla quale s’ebbe ne’ primi tempi lodi e guadagni !

Moltiplicatesi le compagnie congeneri, e non trovando più il Bergonzoni in Italia quei vantaggi che avea ragione di ripromettersi, risolse di recarsi nell’America meridionale, ove le sorti furono assai prospere ; per modo che nell’ 89 tornò in Italia all’intento di rifare, migliorandola in ogni sua parte, la compagnia, in cui scritturò tutto il buono che già componeva quella del Tomba, col quale doveva poi tornare in America. Ma colpito da febbri malariche, morì in quell’anno a Bologna, proprio il giorno, in cui la compagnia da lui organizzata salpava pel nuovo mondo.

Fu Pippo Bergonzoni molto apprezzato come artista, moltissimo amato come uomo, poichè niuno forse ebbe come lui tanta mitezza di indole, tanta elettezza di modi. Predilesse il dialetto bolognese che inframmetteva piacevolmente in ogni discorso ; e fu ne’ più alti ritrovi disputato per la gaiezza del conversare, generata da una inesauribile vena di comicità ch’ egli seppe mostrare assai più in società che in teatro. Udita un giorno in sua casa una forte scampanellata, chiamò in fretta la serva e le disse : S’ l’è un creditòur, ciama’ m, ch’a’ j casch adoss ! Se è un creditore, chiamami, chè gli casco addosso.

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Berilli Norberto. Si ha di lui il seguente passaporto (N. 870), tratto dall’Archivio di Milano, e gentilmente comunicatomi dal conte Paglicci-Brozzi :

1739. 1°Febbraio. – Quirino Norberto Berilli Bolognese comico, e sua compagnia, che da Piacenza passano a questa Metropoli per divertire la nobiltà della medesima colle loro fatiche, con loro famiglie, servitù, armi all’uso militare, ed attrezzi teatrali esenti di qualunque dazio e gabella.

Berlucci Luigi. Recitava le parti di Pantalone, il 1712, a Parigi, nella Compagnia italiana di Giovambattista Costantini di Verona, detto Ottavio, fratello del celebre Mezzettino. (Cfr. Sand e A. Bartoli, op. cit.).

Bernardini Ottavio. Romano. Lo troviamo, secondo una notizia di A. Neri (Fanfulla della Domenica, 16 luglio 1882) a far le parti di donna sotto nome di Franceschina cogli Uniti a Genova, dove con nota 4 agosto 1614 fu loro concesso di recitar commedie per due mesi. Ecco l’Elenco della Compagnia :


Jacomo Braga, ferrarese Pantalone
Domenico De Negri, ferrarese Curzio
Silvio Fiorillo, napolitano Capitan Mattamoros
Gio. Batta Fiorillo, suo figliolo Scaramuzza
Andrea Frajacomi, bolognese Trivellino
Hippolito Monteni, mirandolese Cortelazzo
Andrea Mangini, genoese Adriano
Michel Zanardi, ferrarese Graziano
Ottavio Bernardini, romano Franceschina
Gio. Paolo Fabbri, di Cividal del Friuli Flaminio
Hippolito Agnella, ferrarese Portinaro
Jacomo Filippo detto Savoncino Portinaro anche egli
Giovanni Salina, bolognese Servitore da palco
Gio. Antonio Gherardi, bolognese Servitori
Jacinto Pennelli, ferrarese
Vincenzo Spadaretta, veneziano
Jacinto Alberti, pavese
Marcantonio Anselmi, mantovano
Girolamo Fiorillo, altro figliuoletto di Mattamoros.
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Qui dunque non son donne ; ma esse dovevano esserci – dice il Neri ; – e riporta le parole del Barbieri : « ve n’era bisogno di tre : prima, seconda e fantesca. » Infatti ne’Gelosi abbiam l’Andreini, la Prudentia e la Roncagli (V. Andreini Francesco). L’aver fatto un uomo la parte della Franceschina, si può attribuire al ritegno che avevan sempre le donne di apparir sulla scena (e però più vivo per le parti di fantesca), ma fors’anche al fatto che un uomo, Battista degli Amorevoli (V.) aveva già recitato la Franceschina e s’era fatto celebre in tal parte.

Giovanni Salina bolognese, servitore da palco, era probabilmente la maschera incaricata alla porta del palcoscenico di non lasciar passare le persone estranee alla Compagnia, com’ è in uso anche oggi. E anche ieri come oggi, nonostante quella maschera, l’amico dei comici, il protettore, il critico, si credevano in diritto di penetrar sulla scena, e mettere gli attori e più specialmente le attrici nel rischio di ritardare una sortita. (V. Scala Flaminio).

Bernaroli Antonia, bolognese, fu avviata all’arte da Francesco Bartoli, che, dopo pochi mesi, egli dice, dovè lasciarla. Entrò a recitare nella Compagnia detta de’Bolognesi, e a Torino fu molto applaudita. Passò nel 1777 in Compagnia di Antonio Sacchi, al posto della Teodora Ricci che si recava a Parigi, e fu molto ammirata, specialmente nelle commedie all’improvviso. Dopo tre anni, offertolesi un ottimo partito, divenne moglie di un ragguardevole personaggio, dando in ancor giovane età un addio alle scene. (Cfr. C. Gozzi, op. cit., II, 228).

Bernaroli-Lancetti-Modena Luigia, figlia di Giuseppe Bernaroli e di Angela Vignoli, nacque nel 1772 in Corsica. Sin da bambina mostrò forti attitudini all’arte, e a soli diciott’anni diventò la prima donna assoluta della Compagnia di suo padre, nel qual ruolo ebbe applausi e onori e guadagni, specialmente in Marsiglia, d’onde poi dovè rimpatriare allo scoppio della prima rivoluzione.

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Fu sposa di Luigi Lancetti, veneziano, che recitava al suo fianco le parti dell’amoroso, e tornata in Italia si scritturò con lui nella Compagnia del Truffaldino Perelli. Apparsa la prima volta al S. Luca di Venezia, vi fanatizzò a segno da esser proclamata insuperabile. Nè ad un genere solo si attenne ; chè tanto era valente nelle parti comiche, quanto nelle drammatiche ; e le commedie del Goldoni, e le tragedie del Ringhieri ebbero in lei una interprete valorosa. Da Venezia passò a Napoli scritturata dall’impresa de’Fiorentini, poi da quella del Fondo ; e il successo ivi ottenuto non le fece rimpianger quello di Venezia. Nel 1799, vedova da un anno con un figliuolo, dovè fuggirsene, ricacciata da’ moti rivoluzionari. Cominciò il 1800, applauditissima, nel Teatro Nuovo di Firenze, e lo finì in Compagnia di Lorenzo Pani. Sposò l’anno dopo in seconde nozze l’artista Giacomo Modena, che trovossi con lei a Napoli, e che come lei n’era fuggito. Si unirono in società il 1803 con Angiolo Venier e si recarono a Venezia prima al San Giovan Grisostomo, poi al San Benedetto, dove Luigia rinnovò i trionfi della prima volta. Staccatisi poi dalla Società, e condotta la compagnia per proprio conto, ritornarono, il 1807, a Napoli, ove rimasero cinque anni. Furono al Valle di Roma nel 1812 e in altre città principali, e nel 1813 Luigia, a soli quarant’anni, diede il suo addio al teatro.

Bernetta (V. Liberati Urania).

Bernieri Teresa. Nacque a Correggio il 18 novembre 1827 dai coniugi Andrea Bernieri e Martina Morselli, benestanti. Si diede per due anni agli studi musicali in Mantova colla famosa Lotti, sotto la direzione del maestro Antoldi ; studi, i quali ella dovette abbandonare quando più le arrideva l’avvenire, per la decisa avversione che i parenti avevano al teatro ; ma i quali furono a lei di non poca utilità nell’arte comica, giacchè trovo ne’giornali del tempo, come essendo l’autunno del ’54 serva nella Compagnia diretta da Luigi Robotti, in {p. 362}società con Gaetano Vestri, a vicenda con Carlotta Diligenti, ella cantando al Gerbino di Torino in una commediola di Federigo Robotti figlio della celebre Antonietta, riportasse un compiuto trionfo. Esordì il’ 52 con Achille Dondini col quale stette un solo anno, e passò dalla Compagnia Robotti, il ’59, in quella di Bellotti-Bon. Scritturata poi dalla Sadowski con Cesare Rossi, restò al fianco di lui sino all’ ’89, anno in cui abbandonò le scene.

Teresa Bernieri fu, si può dire, attrice madre e caratterista nata. Dopo un assai breve noviziato di generiche e servette fu in quel ruolo assoluto acclamatissima non ancor trentenne. Sostituita la Fumagalli, quant’altre mai valorosa, non ne fece rimpianger l’assenza, sia con la elettezza dei modi nelle parti aristocratiche, sia con la vivacità della dizione in quelle popolari, sia, e in quelle e in queste, colla giustezza della intonazione e la verità della concezione. La Gerla di Papà Martin, la Celeste, i Mariti, l’Aristocrazia e Commercio, il Brindisi, la Vita Nuova, Moglie e buoi de’ paesi tuoi, e altre moltissime ebbero in lei un’interprete perfetta.

Bertani Lauro. Fu comico al servizio dei Gonzaga di Mantova. Il Bertolotti (op. cit.) pubblica una patente del Duca Ferdinando in data 3 aprile 1680, colla quale si nominava virtuosa di camera, Apollonia fu Lauro Bertani, nostra suddita, cantante già in diversi teatri ; e altra in data 24 ottobre 1683, così concepita : avendo concesso il nostro genitore al fu Lauro Bertani comico e dopo lui ai suoi figli la facoltà di noleggiar sacchi in questa nostra città in ragione di un soldo per sacco al giorno, confermo ai figli Apolonia e Antonio, vita loro durante, tale privilegio.

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Berti Francesco. Vicentino. Vólti alla peggio gl’interessi de’ parenti (erano stimati mercanti e lavoratori in seta), si sottrasse alla miseria, dandosi all’arte comica. Cominciò col sostener mediocremente le parti di innamorato, poi, con moltissimo plauso, la maschera del Brighella. Fu anche, per molti anni, capocomico reputatissimo, e morì in Bergamo l’anno 1756.

Berti Caterina. Moglie del precedente, sostenne nella Compagnia del marito le parti di prima donna, con molto favore del pubblico, specialmente per le commedie improvvise. Rimasta vedova, condusse per due anni ancora la Compagnia ; poi passò a seconde nozze con un agiato mercante di Milano, col quale visse ritirata dall’arte fino al 1761, anno della sua morte. Ebbe due sorelle ; l’Anna, moglie di Giovanni Roffi, e la Maddalena, moglie di Pietro Rossi, ambedue comiche esperte nel carattere della serva.

Berti Ettore ed Elisa. Figli di Carlo Berti e di Giovanna Mazzarelli, nacquero l’uno a Treviso il 17 gennaio del’ 1870, e l’altra a Trieste il 1 aprile del ’68. Gentile e singolar coppia di fratelli questa dei Berti, i quali, avendo cominciato a recitar da bimbi in compagniette di provincia, in cui peregrinarono sino all’ ’85, si scritturarono in quella italo-veneta di Benini-Sambo, lei come generica giovine, lui come amoroso e mammo, passando poi sempre uniti, modesti e perseveranti, rispettosi dell’arte e di sè, l’ ’87-88 con Marchetti, l’ ’88-89 con Maggi, dall’ ’89 al ’94 con Marini, e dal ’94 a tutt’oggi con Pasta, col quale resteran tutto il triennio, lei qual seconda donna di spalla, lui quale primo attor giovine. L’essere in poco tempo saliti da umili compagnie alle più reputate è prova certa dei loro pregi. Lei, sposa dal ’92 a Giuseppe Masi, è attrice corretta e gentile ; lui, attore moderno, studioso, educato alla scuola dello Zaccone, col quale fu per alcun tempo, è oggi uno de’ migliori amorosi del nostro teatro di prosa.

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Bertinazzi Carlo, celebre Arlecchino, più noto col nome di Carlino. Dagli studi particolareggiati del Campardon e dello Jal (op. cit.), col soccorso del Casanova e del D’Origny (op. cit.), è dato oggi poter ricostruire intera la figura di questo artista che trascinava il pubblico all’entusiasmo con un gesto, con un movimento della persona, senza ricorrer mai allo spediente volgare di certi lazzi e certe cascate, che furon prerogativa del suo predecessore Antonio Costantini, figlio naturale del rinomato Costantino Costantini detto Gradelino. Lo stesso Grimm, che della Commedia Italiana si mostrò sì poco tenero, ebbe parole di calda ammirazione per lo spirito che il Bertinazzi sapeva mettere ne’suoi gesti, nella sua fisonomia, nelle inflessioni della sua voce. Non siam dunque dinanzi a un buffone volgare, ma dinanzi a un artista nel vero significato della parola. La flessibilità della persona era tale da non si dire : non camminava, scivolava ;… in ogni ripiegatura della vita, in ogni passo, in ogni torcimento di collo era una delicatezza di linee, una siffatta eleganza di contorni, da muover l’applauso del pubblico, senza che il suo labbro avesse profferito una sillaba. Lo Jal riporta la frase tradizionale de’ vecchi detta a’ giovani che andavano in visibilio alla ornata recitazione del Laporte, Arlecchino del Teatro del Vaudeville, che era : « Se aveste veduto Carlino ! » e il D’ Origny (op. cit.) dice al proposito del Bon Ménage di Florian : In molti punti Carlino ha fatto piangere. Queste poche parole devon bastare al suo elogio.

Carlo Bertinazzi nacque a Torino il 2 dicembre 1710 da Felice Bertinazzi, ufficiale nelle truppe del Re di Sardegna (nell’atto di nascita è Bertinassi ; e Bertinassi egli si firma nell’atto matrimoniale) e da Giovanna Maria Gti (?). All’età di tre anni gli morì il padre : e la madre volse alla educazione di lui ogni cura, non obliando nè la danza, nè la scherma. Fu a quattordici anni accettato come porta-bandiera in un reggimento ; ma venutagli a morte la madre, e non andandogli troppo a genio la carriera militare, si diede all’arte del comico, esercitandosi dapprima in qualche teatrino particolare, poi affrontando il gran {p. 365}pubblico sotto la maschera dell’Arlecchino, nella quale divenne in poco tempo attore senza rivali. Morto il famoso Tommasino del Teatro italiano a Parigi (Tommaso Antonio Visentini), che recitava appunto gli arlecchini, e tentatosi invano di surrogarlo degnamente (il Costantini, come abbiam detto, più acrobata che attore, finì coll’annoiare), fu chiamato Carlo Bertinazzi, il quale, non troppo signore della lingua francese, scelse per suo esordire l’Arlecchino muto per forza, scenario italiano del Riccoboni, in cui egli non aveva da dire che poche parole. La sera {p. 366}della rappresentazione (8 aprile 1741) fu anche quella della riapertura del teatro, che secondo il costume era stato chiuso durante la quindicina di Pasqua.

All’attore Carlo Raimondo Rochard de Bouillac toccò di fare la presentazione, avanti la recita, del camerata Bertinazzi, del quale mi piace riportare dal Campardon, come curiosità, l’ordine di debutto.

Noi, duca di Rochechouart, Pari di Francia, primo Gentiluomo di Camera del Re, Ordiniamo alla Compagnia dei comici italiani di Sua Maestà di fare esordire senza ritardo sul loro teatro Carlo Bertinazzi nel ruolo d’Arlecchino, e ciò affinchè possiamo giudicar de’ suoi talenti per la commedia.

Firmato : Il Duca di Rochechouart.

Carlino piacque a segno che il D’Origny (vol. II, 177) lasciò scritto : « Egli mostrò a un tempo tanta naturalezza e tanta verità, una precisione così esatta, una recitazione così corretta, un ingegno così pieghevole, che se ne affrettò l’ammissione » ; infatti l’anno di poi fu ricevuto nella Compagnia, in cui non cessò di farsi applaudire e come attore arguto e vivace, e come elegante ballerino. Le opere nelle quali egli palesò maggiormente il suo valore artistico furono la Corallina maga, commedia in tre atti del Veronese ; Corallina spirito folletto, commedia anonima in tre atti, con intermezzi ; Le Fate rivali, commedia in quattro atti di Veronese ; La gara d’Arlecchino e di Scapino, commedia anonima in un atto ; Il Principe di Salerno, commedia in cinque atti di Veronese ; Le ventisei disgrazie d’Arlecchino, commedia in cinque atti dello stesso, e più specialmente il Figlio d’ Arlecchino perduto e ritrovato, scenario in cinque atti di Goldoni. Recitò anche a viso scoperto, e sostenne con molto valore la parte di Gobe-Mouche nella Serata dei boulevards, commedia di Favart.

Avendo omai stabilito la Commedia-Italiana di non più rappresentare se non commedie francesi, licenziò tutti i suoi attori, ad eccezione del Bertinazzi, il quale, nonostante l’enorme pinguedine e l’età soverchia, recitò ancora il 1782 con molto {p. 367}successo ne’ Gemelli bergamaschi, commedia in un atto di Florian, per la quale gli furon dettati questi versi :

Dis-moi, Carlin, par quel avantage
ne vois-tu point s’affoiblir par les ans
Ni ton esprit ni tes talens ?
C’est que les grâces n’ont point d’âge.
Ton hiver reproduit les fleurs de ton printemps !
Tel que ce dieu qu’adore la jeunesse,
plus ancien que le monde il brave la vieillesse,
il est toujours le plus beau des enfans.

Una delle ultime creazioni di Carlino fu la parte di marito nel Bon Ménage, altra commedia in un atto di Florian, rappresentata il 17 gennaio 1783, per la quale si è già riportato il giudizio del D’Origny. Alla fine dello stesso anno l’apoplessia lo colse nel suo domicilio di Parigi, Via dei Petits-Champs, ove morì il 6 settembre 1783. Fu sotterrato il domani a S. Rocco sua parrocchia ; e il 28 dello stesso mese i comici italiani fecer celebrare in suffragio dell’anima sua un servizio funebre, nella Chiesa dei Petits-Pères della Piazza delle Vittorie, al quale intervennero l’Accademia Reale di musica e la Commedia Francese.

Carlo Bertinazzi godè, in grazia del suo nome e dell’indole sua, dell’affetto e del rispetto di ragguardevoli personaggi ; e vediamo i sei figliuoli avuti dal suo matrimonio con Susanna Foulquier di Nantes, attrice e più danzatrice della Commedia Italiana, sorella della celebre Catinon, tenuti a battesimo, chi dall’Intendente degli ordini del Re, chi dall’Intendente di Palazzo, chi dal Ricevitor generale delle Finanze, ecc. Gli furono amici provatissimi e non mai mutati il Papa Clemente XIV e l’Enciclopedista D’Alembert.

L’amicizia di quello, oltre all’aver formata una degna posizione al figlio Costantino, ispirò anche a un egregio uomo, il signor di Latouche, una specie di romanzo ingegnoso : Clemente XIV (Lorenzo Ganganelli) e Carlo Bertinazzi, {p. 368}corrispondenza inedita (Parigi, 1827). Quest’operetta, assai bene immaginata e meglio condotta, ha per base l’amicizia che il papa e l’artista si eran giurata, e sopratutto la promessa di scriversi o di vedersi ogni due anni, qualunque fosse il loro destino. Per quanto inventato il fondo dell’opera, benchè di una realità non improbabile, le lettere poggiano pressochè tutte su fatti accaduti, e hanno giudizi e notizie su uomini e cose di non poco interesse. La lettera diciottesima, per esempio, nella quale Carlino descrive al papa il suo debutto, e la ventesima, in cui parla della sua celebrità, e dell’esser diventato di moda, tanto che le belle signore davano il nome di Carlino a’ piccoli cani che tenevan sotto ’l braccio, o in tasca, sono veramente belle. Nella prima, per esempio, venuto Carlino a scoprire che il Curato di Saint-Méry avea ricusato di seppellire un parrocchiano, perchè comico, scrive argutamente al Ganganelli : io non mi so spiegare {p. 369}come possa conciliarsi la protezione della Corte con questa severità della Chiesa. Perchè i comici di Francia non fan mettere ogni mattina sui loro avvisi : Gli Scomunicati ordinarj del. Re avranno l’onore di, ecc., ecc…. ?

Nella seconda vi hanno giudizi importanti sull’arte di Préville, il grande attore francese, e sulla differenza tra il recitare colla maschera e a viso scoperto….

Alla fine dell’opera (Terza edizione, Paris, Canel, 1828) è fra le altre note istoriche la seguente :

Quanto a Carlino, il marmo non ha avuto cura sin qui di eternarne le sembianze : il suo volto sconosciuto quasi anche a’contemporanei, poichè celato costantemente sotto la maschera, non è conservato che in un pastello assai mediocre, di cui poche copie furon distribuite agli amatori. Qualche particolarità del suo carattere, qualche aneddoto appartenente alla fine della sua carriera, lo dipingeranno forse meglio di uno schizzo di Vanloo.

Oltre alla corrispondenza del Latouche, abbiamo anche varie commedie : Arlecchino e il Papa, commedia recitata nel 1831 all’Ambigu, e Carlino a Roma, o Gli amici di collegio, memoria storica in un atto di Rochefort e Lemoine recitata lo stesso anno alle Varietà. L’amicizia del D’Alembert, oltre alle cure morali e materiali prodigate ad una sua figliuola cieca, per sollevarlo di una perdita di 50,000 fr. per fallimento del depositario, gli procacciò, dopo morto, un elogio funebre, che resterà pur sempre il migliore attestato delle grandi qualità che il Bertinazzi possedeva e come artista e come uomo. D’Alembert morì il 29 ottobre dello stesso anno, nè men due mesi dopo la morte dell’amico suo ; e il Giornale di Parigi il 17 ottobre pubblicò il suo Elogio funebre di Carlino, del quale il Campardon riporta la fine, che io credo utile metter qui tradotta.

Carlino suonava tutti gl’istrumenti : dipingeva e incideva genialmente. Dotato di una prontezza non comune, riusciva meglio d’ogni altro in qualunque impresa. Propose {p. 370}al suo domestico di servirlo per ventiquattr’ ore, all’intento d’insegnargli il modo vero di servire convenientemente : e dettò a tal’uopo istruzioni, che formerebber, se osservate, de’servitori esemplari…. Se Carlino era il cucco del pubblico per l’arte sua, non l’era meno di quanti lo conobbero, per le sue qualità morali. La giovialità, la bonarietà piacevole e la sperimentata probità constituivano precipuamente la sua natura. Ottimo padre, ha dato a’figli suoi una educazione elevata, amico fedele ha serbato sino all’ultimo vecchi e sinceri amici, ne’quali egli lasciò un lungo e profondo rammarico. Amante sempre dell’ordine, avrebbe dovuto formarsi una onesta fortuna : ma la bontà del suo cuore gli procurò sciagure da parte di coloro cui diede intera la sua fiducia. D’allora in poi quest’ultimo sentimento s’andò in lui attenuando, e la sua felicità ne fu scossa. Talvolta, amareggiato nel fondo dell’anima, gli accadde di esclamare : Ho paura di non esserci che io solo al mondo di veramente onesto ! ! ! Mori a Parigi il 6 settembre dell’ ’83.

Ecco il suo epitaffio :

Ci-git Carlin, digne d’envie,
qui, bouffon, charmant sans effort,
nous fit rire toute sa vie,
et nous fit pleurer à sa mort.

Per dare un’idea della sua bontà, dirò che, rubatagli una vistosa somma di danaro da un uomo ch’egli aveva accolto in casa sua e per lungo tempo nutrito, sollecitò la protezione della regina per salvarlo, e sovente fu udito sclamare : Non è del danaro che mi accoro, ma…. della fiducia che mi aveva ispirato quel tristo…. Lo amavo ! !

Dalla quale sconfinata bontà anche si volle dedurre, e credo calunniosamente, ch’egli fosse marito compiacente a segno da tollerar certo intrigo di Madama Carlin con l’Ambasciatore d’Olanda.

Al proposito di questo modo di chiamare la signora Bertinazzi (e a questo modo soltanto è pervenuta fino a noi), Vittorio Malamani ne’suoi Nuovi Appunti Goldoniani (Venezia, 1887) fa le grandi maraviglie, leggendo come lo Spinelli aggiunga alle parole « madama Carlin »moglie di Carlin Bertinazzi. E domanda : ma da quando in qua si è usato che la moglie porti non il cognome, ma il nome, anzi il vezzeggiativo del nome del marito ? Dov’è che il signor Spinelli ha trovato questo ? La domanda è ingenua. Prima di tutto a dare un’occhiata al Campardon, si vedono riportati l’Augmentation d’appointements pour M.me {p. 371}Carlin in data 29 marzo 1763, che comincia : La dame Carlin en consideration etc., etc., e la Réception de M.me Carlin à demi-part, in data 16 settembre 1765, che comincia Recevoir la dame Carlin etc., etc. ; poi, anche senza tali documenti, è noto il costume francese di chiamar la moglie col nome del marito, specialmente nella società alta : serva come un esempio La Principessa Giorgio del figlio Dumas.

A Carlo Bertinazzi fu assegnata con decreto del 1 gennaio 1780 una pensione di 1000 lire (nette L. 837 e s. 10) sul Tesoro Reale, come gratificazione annuale in premio de’servizi resi in qualità di comico ordinario del Re, sotto nome di Carlino.

Altri documenti riporta il Campardon ; atto di decesso e d’inumazione, contratto di matrimonio, ecc. Fra gli oggetti, che in un ingente furto commesso in suo danno un giorno che egli era andato a desinar fuori di casa gli furon rubati, era anche un orologio antico portante incisa in un sigillo di pietra nera inglese la testa del celebre attore Garrick, amico e ammiratore profondo del nostro Arlecchino.

E all’ammirazione del grande attore inglese aggiungiamo quella di Carlo Goldoni, il quale, come abbiam visto, aveva con una sua commedia, offerto modo a Carlino di mostrar tutta la sua valentìa. Nè codesta del Figlio d’Arlecchino perduto e ritrovato fu la sola : sappiamo che anche nell’ Amor paterno la parte di Arlecchino fu sostenuta dal Bertinazzi.

Ecco una lettera che il Goldoni scrive da Parigi l’8 di novembre 1774 al marchese Francesco Albergati Capacelli, al proposito dell’Arlecchino Coralli, e che tolgo dai Fogli sparsi del Goldoni raccolti da A. G. Spinelli (Milano, Dumolard, 1885).

Eccellenza. Il signor Coralli mi ha recato il di Lei pregiatissimo foglio, e da quello, e dal precedente di cui V. E. mi aveva onorato, veggio la stima, ch’ella fa di tale soggetto, e l’interesse ch’ella prende per lui. Ciò basta presso di me per qualificarlo ed impegnarmi a far per lui tutto quello che da me potesse dipendere. Sono molti anni, che ho rinunciato del tutto a scrivere per gl’Italiani, ma lo farò volentieri per il signor Coralli, se però mi sarà permesso di farlo, e conviene ch’io glie ne spieghi il mistero. L’Arlecchino attuale che ha molto merito per la Francia, e ne avrebbe pochissimo per l’Italia, soffre in estremo grado la passione comune dei Commedianti : la gelosia. S’io faccio una commedia nuova, che convenga al signor Coralli, si crederà in istato di sostenerla meglio di {p. 372}lui, dirà che le cose nuove non appartengono ai debutanti, che gli attuali e provetti devono essere preferiti ; il fera une cabale du diable et ses camerades seront d’accord avec lui pour l’exemple. Ecco la condizione miserabile de tous ceux, qui viennent débuter à Paris. Il faut ch’ils jouent dans des pièces encienes, et ils courent toujours le risque de la comparaison, e ordinariamente si verifica il proverbio italiano : Beati i primi. Il signor Coralli ha dello spirito e lo credo abilissimo per il carattere che ha intrapreso di sostenere, ma per fargli del bene bisognerebbe che l’altro avesse la bontà di andarsene o di morire. La presenza dell’attuale deve far del torto al signor Coralli per delle ragioni, che non dipendono da lui, ma dalla natura, cioè pour la taille, et pour les graces naturelles de ses mouvemens. Enfin nous verrons, et je promet a V. E. que je ferai tous mon possible pour contribuer à son succès ; come mi propongo altresì di renderle conto esatto di quello che accadrà a suo tempo, giacchè è deciso che il signor Coralli non sarà esposto sulla scena che dopo Pasqua, per dargli tempo d’imparare il francese ed il gusto di questa nazione.

Sono col più profondo rispetto di Vostra Eccellenza….

E nelle Memorie (Tom. III, Cap. III) sul merito del nostro artista aggiunge :

Il signor Carlo Bertinazzi detto Carlino, era un uomo stimabile pe’suoi costumi, celebre nell’impiego di Arlecchino, e godeva una riputazione che mettevalo al pari di Domenico e Tommasino in Francia, e di Sacchi in Italia. La natura lo aveva dotato di grazie inimitabili : la sua figura, i suoi gesti, i suoi movimenti prevenivano in suo favore : le sue maniere ed il suo talento lo facevano ammirar su la scena, e prediligere nella società.

Carlino era il favorito del pubblico : aveva saputo così bene guadagnare la benevolenza del Parterre, che gli parlava con una libertà e famigliarità, di cui non poteva compromettersi alcun altro attore. Dovevasi parlare al pubblico, o con esso far qualche scusa ? A lui si addossava tal peso, e gli ordinari suoi avvisi erano altrettanti aggradevoli trattenimenti fra l’attore e gli spettatori.

Tuttavia anche a lui accadeva talvolta quel che accadde, e accade pur troppo, ad altri dei e semidei della scena : di recitare alle panche. La Commedia Italiana de’vecchi tempi non sapeva ancora che cosa volesse significare la frase far forno (chiudere il teatro per mancanza di pubblico) in uso oggidì con poco decoro dell’arte. Del Bertinazzi si racconta che recitò una sera davanti a due sole persone, conservando il suo buon umore, e non saltando nè una scena, nè un lazzo. A un dato punto Colombina doveva dirgli alcune parole sottovoce, ed egli : Parlate pur forte – le disse – nessuno ci sente. Finita la commedia e dovendo egli annunziare al pubblico lo spettacolo del domani, fe’segno ad uno degli spettatori, l’altro aveva già preso la porta, di accostarsi alla ribalta ; e famigliarmente e {p. 373}sottovoce con un garbo tutto suo gli disse : Signore, l’altra metà del pubblico se n’è andata : se incontrate qualcuno uscendo di qui, fatemi il piacere di dirgli che noi rappresenteremo domani Arlecchino eremita.

Io credo ora di far cosa grata ai lettori, mettendo qui lo scenario di Carlo Goldoni Il figlio d’ Arlecchino perduto e ritrovato che il Bertinazzi rappresentò a Parigi il 13 giugno 1758, e che io traduco dall’ Histoire anecdotique et raisonnée du Théâtre italien, par Des Boulmiers (Paris, Lacombe, m.dcc.lxix).

Il teatro rappresenta la montagna sulla quale è situata la casa d’Arlecchino ; gl’ingressi sono illuminati rusticamente ; i vicini ballano e cantano per festeggiare la sua sposa che ha lasciato il letto dopo il parto. Non lontana da Arlecchino è un’altra capanna, dove Rosaura e Celio, d’accordo con Scapino, hanno fatto nascondere un loro bimbo, dell’età di quello d’ Arlecchino, e ch’essi quivi custodiscono, nell’aspettazione di aver trovato cui confidarlo, o di aver palesato il loro matrimonio. Rosaura viene con Scapino per vedere questo caro fanciullo, e mentre lo accarezza, giunge Pantalone. Ella tenta nasconderlo ; ma egli lo vede e vedutolo, domanda a chi appartenga. Scapino afferrando l’idea di potersi servire della conformità delle circostanze e delle età, dice a Pantalone che il bambino che tien Rosaura è il figlio di Arlecchino. Pantalone gli ordina di prenderlo e restituirlo a suo padre. Scapino vorrebbe portarlo in qualche luogo ove fosse sicuro ; ma s’imbatte nuovamente in Pantalone, il quale va a consegnarlo colle sue mani ad Arlecchino. Scapino, ancor più imbrogliato, teme che Arlecchino tornato a casa e trovatovi un altro bambino, scopra l’intrico. Che fare ? Mentre Arlecchino si diverte a scherzar con suo figlio, seduto per terra poco lnnge dalla sua casa, Scapino vi entra senz’esser visto, e ne invola il suo vero figliuolo. Camilla trova suo marito occupato a far carezze a suo figlio, e ne gioisce, e mostra ad Arlecchino la sua gran contentezza. Celio, marito di Rosaura, che sa dell’accaduto, sopravviene, e cerca pretesti per chiedere a quella brava gente di affidargli il loro figliuolo. Arlecchino si schermisce, dicendo che gli appartiene ; Celio replica ch’ei potrebbe ingannarsi, e che il bambino non è suo. Nascono in Arlecchino sospetti sulla virtù della moglie ; ella si difende, ed infierisce contro Celio. Pantalone sopravviene, e Arlecchino che l’ha in conto di sapiente, lo prega a trar l’oroscopo di suo figlio per vedere s’egli sia veramente suo. Pantalone glie ne dà promessa.

Al secondo atto, Scapino svela a Celio che Rosaura non è altrimenti figlia di Pantalone. Questi vuol darla in moglie a Fileno, amato alla sua volta da Dorinda ; noi sorvoleremo questo episodio, che fu aggiunto per la Cantatrice che esordi quella sera. Arlecchino viene con Pantalone, per conoscer l’oroscopo di suo figlio ; eccolo :

Ce fils que d’Arlequin on avait toujours cru,
est un fruit de l’amour qui n’est pas bien connu.

I suoi sospetti raddoppiano ; egli s’adira contro Camilla ; ella si dispera ; scoppiano liti, e restano adirati.

Al terzo atto, egli studia il modo di vendicarsi di sua moglie ; risolve di abbandonarla ; ma per lasciarle un segno dell’ira sua, e punirla dell’oltraggio fattogli, appicca l’incendio alla capanna ; nè pur pensa a salvare suo figlio, volendo sterminar tutto quanto {p. 374}possa attestare del suo disonore. Celio giunge ; e vedendo le fiamme, esclama : « Oh mio povero figlio !… » Ha trovato il padre, dice Arlecchino andandosene. Celio entra nella capanna, prende il fanciullo e parte. Sopravviene Scapino, vede l’incendio, e crede che il figlio di Celio sia abbruciato ; e per toglier dalla disperazione Rosaura, immagina di sostituirgli il figlio d’Arlecchino ch’egli ha tra le braccia, e di farle credere che quello sia il suo. Camilla desolata dello sdegno di suo marito, giunge dolendosi del suo destino. Volge mestamente gli occhi verso la capanna, rimpiangendo la pace che vi godeva ; la vede, preda delle fiamme, inabissarsi d’un tratto. L’orrore e il terrore la vincono così che va a traverso le ruine per salvare il suo piccino, e non trovatolo, esce, abbandonandosi ad alte grida di disperazione e di dolore. Giunge Rosaura, e chiede a Camilla la ragione delle sue lagrime e de’suoi singhiozzi. La vista degli spaventevoli avanzi dell’incendio colpisce lei pure. Camilla, meravigliata dell’interesse ch’ella prende alla sua sciagura, ne cerca la causa. Scapino giunge col figlio d’ Arlecchino sotto il suo mantello. Rosaura gli si accosta per muovergli rimprovero ; Scapino la placa, dandole il bimbo che le dice esser suo figlio. Camilla vuol rapirglielo, dicendo ch’egli è suo ; ed eccoti arriva Pantalone che obbliga Rosaura a cederlo ; ella sviene, e Fileno accorre in suo soccorso ; Celio che la vede nelle sue braccia, è preso da gelosia.

Il quarto atto comincia con una scena di dispetti, fra Celio e Rosaura ; Scapino li riconcilia. Arlecchino che ha trovato il figlio di Celio nelle mani di un contadino, ha creduto che fosse il suo, e s’avanza accarezzandolo. Camilla giunge da un altro lato col suo vero figlio, che Pantalone le ha fatto restituire. Essi sono entrambi stupefatti dell’incontro : entrambi pretendono di aver tra le braccia il figlio legittimo, e pretende ciascuno che quello dell’altro sia un figlio supposto ; il che dà luogo ad una scena fra i due attori (lazzi). In quella viene Celio, avvisato dal contadino del rapimento di suo figlio, e avvicinatosi ad Arlecchino, gli strappa con destrezza, e strappa anche a Camilla il bimbo che hanno tra le braccia, e fugge inseguito da entrambi. Rosaura s’imbatte in Fileno, che le parla ancora. Scapino loro svela che son fratello e sorella ; s’abbracciano ; Celio arriva ed ha nuova fonte di gelosia. Arlecchino appare, mentre questi si lascia andare al furore, e gli chiede suo figlio, e tanto l’importuna, che Celio, al colmo dell’ira, vuol batterlo ; Arlecchino lo respinge a colpi di testa. « Io ti ferirò – egli dice – colle armi che tu m’hai fatto. »

Al quinto atto, Pantalone vedendo che tutto è scoperto, permette di render conto a Rosaura del suo bene, e le permette di sposar Celio. In questo mentre, Arlecchino viene a richieder suo figlio a Celio, e Camilla muove la stessa domanda a Scapino. Entrambi sen vanno senza risponder parola, e tornan poco dopo co’due fanciulli. Tutto sta nel sapere qual sia il vero figlio di Arlecchino. Scapino che è al giorno dell’intrico, scioglie il bandolo della matassa, dicendo che quello che ha Celio è suo, e ridà a Camilla e ad Arlecchino quello ch’egli ha loro involato. Tutti sono al colmo della gioja, e la commedia finisce.

E qui il signor Des Boulmiers aggiunge :

Questa eccellente commedia è del signor Goldoni, ed è stata messa in iscena dal signor Zanuzzi con molta intelligenza ; si può ben metterla assieme alle migliori commedie d’intrigo antiche e moderne : il celebre Autore, cui dobbiamo esserne grati, è senza dubbio quello che ha seguito più da vicino le orme di Plauto e degli antichi autori comici.

La commedia, che io non oserei chiamare eccellente, e nella quale trovo a stento il grande maestro, fu poi ridata {p. 375}all’arrivo del Goldoni in Francia (1762) a Fontainebleau dinanzi alla Corte, e non piacque, a cagione di certe libertà che gli artisti s’aveano prese, mescolando alle scene tracciate alcune lepidezze del Cocu imaginaire. Della qual cosa molto si dolse il Goldoni, che trovò modo di rincarar la dose de’rimproveri agli attori, i quali, recitando a braccia, o a soggetto, parlano qualche {p. 376}volta stortamente e a rovescio, guastando scene e facendo andar commedie intere a rotoli. Nè tale indignazione gli venne da speciale amore ch’egli portasse a quell’imbrogliato romanzo : chè anzi non ebbe per esso mai una benevola parola, nonostante il suo successo ottimo e schietto, chiamandolo piccola bagattella, composizione avventurosa, che, lui vivo, non avrebbe mai visto la luce pubblica, nè mai sarebbe entrata nel suo teatro italiano. « Vi saranno forse stati diamanti – dice Goldoni stesso – ma erano incastonati nel rame. Si conosceva che qualche scena era stata fatta da un autore, ma l’insieme dell’opera da uno scolaro…… Il suo errore principale, per esempio, era quello dell’inverisimiglianza : questa vi si ravvisa in tutti i punti. Ne ho dato sempre il giudizio a mente fredda, nè mi son mai lasciato sedurre dagli applausi. E tanti furon davvero gli applausi, che ad essa dovette il Goldoni la sua andata a Parigi, e a Parigi assistè a nuove rappresentazioni di quella fortunata bagattella, che ’sta volta, con suo grande stupore, fu innalzata alle stelle sul teatro della Commedia italiana. Figurarsi se aveva dovuto dolersi, dopo sì gran successo, di vederla cadere davanti alla Corte per la ignoranza e petulanza e arroganza de’comici ! Tanto se ne dolse che non volle più saperne di commedie a braccia, e pensò subito di riabilitarsi, oserei dire, in faccia a sè stesso, coll’intendere a tutt’uomo alla composizione di una commedia dialogata in tre atti in prosa, che fu appunto l’Amor Paterno (V. Tomo XII, dell’ Ediz. dello Zatta, Venezia, 1788), data a Parigi la prima volta il 4 febbraio 1763, e che se segnò un nuovo grande trionfo per l’Arlecchino Bertinazzi, non pare ne segnasse uno per l’autore. Il Des Boulmiers (ivi, pag. 498) che dell’opere goldoniane si mostra sincero e profondo ammiratore, dopo avere esposto l’argomento della favola, conchiude :

Questa commedia è la prima data dal signor Goldoni sul Teatro italiano, dopo il suo arrivo a Parigi, ove i comici, sempre intesi a procacciarsi la benevolenza del pubblico, l’avean chiamato, per ridar vita alla lor Scena Italiana, che cominciava a essere negletta. Questo illustre autore parve averci ricondotto per alcun tempo gli spettatori, con molte opere che i conoscitori hanno a buon diritto avuto in conto di capolavori ; ma il pubblico, guastato da certe frivolezze, le abbandonò ben presto ; il che non scema certo {p. 377}il merito del signor Goldoni, come non scema quello dei capolavori di Molière e di Corneille, non meno abbandonati. Mi bisognerebbe avere una maggior conoscenza della lingua italiana e più larghe cognizioni per poter dare all’ingegno suo tutta la giustizia che gli è dovuta. Adunque non potendo apprezzar come si conviene l’opere sue, non mi resta che far conoscere la sua rara modestia, pubblicando la lettera seguente ch’egli ha indirizzata al signor di Meslé.

Se l’è cavata, come chi dicesse, pe ’l rotto della cuffia. Se l’ Amor paterno avesse avuto un successo buono schiettamente, il Des Boulmiers che aveva alzato alle stelle il Figlio d’ Arlecchino, non l’avrebbe taciuto. Dopo il successo entusiastico di questa, è ben naturale che si ascoltasse con rispetto un nuovo lavoro e magari con buon volere si applaudisse più qua più là nelle parti buone, tanto da fare scrivere dal Goldoni al Paradisi che la commedia fortunatamente era riuscita bene ; e far mettere nella prefazione di essa (Ediz. Pasquali, Venezia,mdcclxi, Tomo V), che la fortuna avea voluto fargli del bene, che la commedia era stata ben ricevuta, e che il pubblico lo aveva incoraggito. È lecito dunque a chi specialmente legga tra le linee, più che dal Malamani (op. cit.) tenere dal Masi (Lettere di Carlo Goldoni, Bologna, Zanichelli, 1880) e dal Galanti (Carlo Goldoni e Venezia nel Secolo xviii, Padova, Fratelli Salmin, 1882) che ne confermarono il fiasco ; e dal Goldoni stesso che nelle Memorie (V. Tomo III, Cap. IV) colla solita ingenuità, dice secco secco al proposito : questa non ebbe fuor che quattro rappresentazioni !

Quanto alla lettera indirizzata al signor Di Meslé per aver da lui una traduzione francese dell’estratto dell’ Amor paterno, puoi vederla nella citata opera del Masi : è la xxxiv della raccolta.

Abbiamo visto come il Bertinazzi recitasse anche a viso scoperto : e questa importante notizia che trovo nell’opera non comune di Luigi Riccoboni : Reflexions historiques et critiques sur les différens théâtres de l’Europe. Paris, Guerin, m.dcc.xxx.viii, farebbe supporre ch’egli, oltre alle parti di Arlecchino, altre ne sostenesse, fors’anche in tragedia, sebbene le mie ricerche non me ne abbian fornito alcuna prova.

{p. 378}

Mai una compagnia italiana conta più di undici attori o attrici, fra’quali cinque, compreso Scaramuccia, non parlano che bolognese, veneziano, lombardo, napoletano : e quando s’abbia a recitare una tragedia, dov’entrin molte persone, tutti vi prendon parte, non escluso l’ Arlecchino, che toglie la sua maschera ; e tutti declamano de’ versi in buon italiano (il testo ha : en bon romain….). Tale esercizio li fa capaci di rendere le idee più alte de’poeti drammatici, e d’imitar le più straordinariamente ridicole della natura. Ecco un pregio che può dirsi unico nella classe de’comici, poichè nelle compagnie delle altre nazioni, gli attori, che sono almeno una trentina, non recitan che le parti che per natura o per arte loro si attagliano ; ed è raro che uno, o due al più, possano rappresentare differenti caratteri.

Dalle quali parole, più che di vergogna, pare che il Riccoboni traesse una conseguenza di orgoglio per la pieghevolezza dell’indole e dell’ingegno de’comici italiani. E aveva ragione : e le sue parole potrebber benissimo esser ripetute oggi se guardiamo alla costituzione delle nostre compagnie di prosa. Non è qui il caso di analizzare se dal rappresentar le sole parti che meglio si addicono al tale o alla tale attrice, ne verrebbe gran vantaggio all’arte…. Al pubblico certo uno grandissimo ; chè la varietà delle Compagnie produrrebbe naturalmente la varietà del repertorio…. In ogni modo, data l’indole dei nostri artisti, e date le condizioni del nostro paese, io credo si potrà sempre affermare, che se per rispetto di sè, dell’arte, del pubblico, le nostre Compagnie dovran cedere di fronte alle Compagnie forestiere, gli artisti forestieri debbono tutti per natural senso d’arte, per ingegno, per islancio, pel così detto fuoco sacro, insomma, cedere di fronte agli artisti nostri.

Bertinelli…. È ricordato dal Sand come Scaramuccia. Recitava in Italia con grande successo nel 1715.

Bertini Florido.Primo caratterista e promiscuo assai pregiato. Il nonno, orefice, non avuto in troppo odore di santità, {p. 379}dovette abbandonare Roma, sua patria, col figliuolo, giovanissimo, e rifugiarsi a Buje nell’ Istria, dove continuò a esercitar l’arte sua, e dove Augusto, era il nome del figlio, si unì con Antonietta Mazzari, istriana, in matrimonio, dal quale nacque il maggio del 1841 Florido Bertini. Giunta colà una compagnia comica, il padre pensò bene di lasciar l’arte dell’oreficeria per abbracciar quella del palcoscenico. La madre morì a Mantova di parto nel’49, e Florido esordì, ancor giovinetto, nella Compagnia di Gio. Batt. Zoppetti, diretta da Alamanno Morelli. Passò poi in quelle di Giustiniano Mozzi e di Alessandro Salvini, cominciando in questa a sostener le parti di secondo amoroso. Entrò il’57-58 nella Compagnia che suo padre aveva formata in società con Luigi Aliprandi, e vi recitò gli amorosi a vicenda con Carlo Monti ed Eugenio Cazzola. Fu il ’60 con Prina e Asti, dai quali si sciolse per pagare alla patria il suo tributo di buon cittadino. Fece parte della seconda spedizione Medici, e combattè a Milazzo, ove ebbe il grado di sergente, poi a Reggio, poi, il 1° di ottobre, al Volturno. Licenziato dopo la presa di Capua, raggiunse ad Alessandria il padre (che sin dal ’50 era passato a seconde nozze), col quale fu scritturato dal conte Iacopo Billi di Fano pel teatro di Naum di Costantinopoli. Dopo un anno, il padre formò compagnia per teatri di minor conto, e fu con quella a Smirne, ad Atene, nelle Isole Ionie, e nell’ Egitto, ove s’era finalmente domiciliato. Fatta Cesare Dondini compagnia con Gaspare Pieri, Bertini vi fu scritturato qual primo attor giovine. Ma il patetico non fu il suo forte : e se ben dalle beccate del {p. 380}suo esordire al teatro di Cremona, passasse poi alla tolleranza de’pubblici i più severi, si diede alle parti di brillante che sostenne varj anni, sinchè, venutagli ad aumentar la pinguedine, risolse il ’70, per consiglio di artisti sommi, fra’quali il Bellotti-Bon, di metter la parrucca e abbracciar definitivamente il ruolo di caratterista, ch’egli anch’oggi sostiene.

Fu il ’73 nella seconda Compagnia della Sadowski, diretta da Luigi Monti, e il ’74 in quella di Luigi Bellotti-Bon (che il Bertini con sentimento di gratitudine profonda, chiama suo solo maestro), al fianco della Tessero e della Falconi, di Pasta, di Salvadori e di Bassi. Dopo un triennio passò in quella di Luigi Monti, che lasciò dopo due anni, scritturato dalla Principessa di Santobono pe’ Fiorentini di Napoli, al fianco della Pezzana e della Duse, di Emanuel e di Majeroni. Formò, l’anno dopo, società con la Boetti-Valvassura ; poi fu scritturato per l’ America del Sud, ove stette oltre due anni, da Adelaide Tessero, colla quale tornò in società, dopo aver passato tre anni in Compagnia di Vittorio Pieri. Formò nuova società con Ettore Paladini e Pietro Falconi per un triennio ; finito il quale, si unì alla Compagnia Talli-Carloni-Colonnello-Favi.

Tornò poi in America coll’antico socio Pietro Falconi, e oggi, marzo 1896, ha formato società con Vitti e Raspantini.

Il Bertini ebbe campo nella sua lunga vita artistica di mostrare quanto egli valesse, creando parti disparatissime in versi e in prosa col miglior de’successi dovunque. L’ Agatodèmon nel dramma omonimo di Cavallotti, il Duca di Modena nel Fulvio Testi di Ferrari, il Conte Trast nell’ Onore di Sudermann, lo Scarpia nella Tosca di Sardou, il Teissier nei Corvi di Bèque, collocarono il Bertini fra i più intelligenti e più colti artisti del nostro tempo. Una sera in cui egli rappresentava al Gerbino di Torino l’A’ basso porto di Cognetti, l’Emanuel che assisteva alla recita da una poltrona, con sentimento di schietta ammirazione pel fratello d’arte, gli mandò sulla scena un bellissimo anello con pietre preziose, accompagnato da queste parole : Giovanni Emanuel all’inzupperabile o’ Zi Pascale lu cantiniere. {p. 381}Anche si dilettò il Bertini di poesia, e scrisse versi originali ispiratissimi, tra’quali un sonetto all’ Aleardi ; altri volgarizzò o imitò dal francese, tra’cui quelli del Bateaux Rose di Giovanni Richepin.

Volle scrivere pel teatro, ma si fermò al primo tentativo.

Ha il Bertini una sorella, Augusta, già prima amorosa, poi seconda donna, oggi madre e caratteristica, sposa a Raspantini, napoletano, attore, ma più amministratore della compagnia sociale di cui s’è fatto parola.

Bertocchi Carlo,bergamasco, recitò – dice Fr. Bartoli – assai bene nella maschera dell’ Arlecchino, e ne’ Teatri di Venezia fu per molto tempo, con piacere di quella Metropoli, nel presente secolo (xviii) applaudito.

Bertoldi Andrea e Marianna. Recitavano l’uno da Pantalone e l’altra da Serva sotto nome di Rosetta, e furono condotti d’ Italia a Dresda il 1717 da Tomaso Ristori. (V. Bellotti Natale). Quando i comici italiani furono licenziati (10 aprile 1732), si fece eccezione per la coppia Bertoldi, alla quale era stata assegnata la non pingue pensione di 400 fiorini annui. Pur tuttavia non se ne lagnarono, e seppero tirare innanzi onoratamente, ricorrendo a qualche onesto spediente che ne migliorasse la condizione materiale. Una volta, per esempio, ne’venti giorni che la Corte soggiornò a Zuthein, il Bertoldi fece una tombola che gli procacciò buon guadagno. E tanto co’suoi modi, col suo ingegno, colla sua rettitudine aveva saputo acquistarsi la benevolenza della Corte, che dietro sua proposta i comici italiani poteron dare nel carnovale del 1735, mentre il Re era a Varsavia, nella prima anticamera de’Grandi appartamenti ufficiali, nel palazzo di Dresda, piccole rappresentazioni e intermezzi, davanti ai principi e alla principessa, sotto la direzione di Giovanni Alberto Ristori ; rappresentazioni che attenuarono temporaneamente le ristrettezze penose de’poveri artisti. Dopo la morte del re Augusto II, la Corte sassone si era volta di {p. 382}nuovo e con occhio ancor più benigno alla commedia italiana ; e il re Augusto III e la regina Maria Giuseppa, sentito il bisogno di ripristinar ne’loro palazzi la commedia italiana, dieder carico al Bertoldi di recarsi in Italia a scritturarvi una compagnia, la quale coll’aiuto dell’Ambasciator sassone a Venezia, Conte di Villéo, riunita sul finire del 1737, arrivò al principiar del nuovo anno a Dresda. (V. Casanova Giovanna). Se nella formazione della nuova compagnia entrasse il Bertoldi come attore non sappiamo ; come non sappiamo la data della sua morte.

Dallo studio del barone ö Byrn sui Comici italiani alla Corte di Polonia e di Sassonia, si apprende come, nel 1748, la {p. 383}sola Marianna Bertoldi col figlio Antonio, l’Arlecchino, prendesse parte alle rappresentazioni straordinarie di Varsavia per l’inaugurazione del nuovo teatro, che fu il 3 agosto, onomastico del Re. (V. Bastona Marta).

Bertoldi Antonio, figlio dei precedenti, attore di grido per le parti di Arlecchino, e nato probabilmente a Dresda, diventò in poco tempo l’idolo del pubblico e della Corte. Nello schizzo critico sui comici italiani apparso a Stuttgart nel 1750, è detto, al proposito di Antonio Bertoldi, che fu piccolo di statura, asciutto e agilissimo. Apparve sempre artista di gran pregio, e fatto a posta per recitar l’ Arlecchino…. nel cui costume egli era proprio ne’suoi panni. Parlava molte lingue, possedeva gran finezza di spirito ; e tanta comicità avrebbe potuto mostrare in una parte insignificante di servo, quanta ne mostrava in quelle di Arlecchino.

Troviamo il suo nome citato nel 1762 fra le notizie dell’ Ufficio del Maresciallo di Corte, dalle quali resulta che « il Segretario Bertoldi il 25 agosto si era recato a Varsavia. » Segretario di che ? Dell’ultima Compagnia di comici italiani, sfasciatasi a Dresda collo scoppiar della guerra di sette anni ? O segretario di Corte per tutto quanto concerneva i comici stessi ? Che il nome del Bertoldi fosse legato a tutto quanto era manifestazione di arte sulle scene del Teatro di Corte abbiam veduto. Il padre Andrea colla moglie fu tra i fortunati che poteron rimanere a Dresda con pensione reale ; e a lui si diede incarico di formar compagnie. Del figlio Antonio dice il Casanova nelle memorie che era il preferito Arlecchino della Principessa Elettorale di Sassonia (Regina di Polonia) e che fu poi il conduttore dei Sassoni che viaggiaron l’Italia. E di un figlio di questo, Andrea, sappiamo che fu più tardi impresario dell’opera italiana a Dresda, ove morì il 14 maggio 1822.

Nel 1737, sia detto di passaggio, Antonio Bertoldi abitava a Dresda nella Neustadt, nella strada principale, e morì il 1787.

Bertolino. (V. Zecca Niccolò).

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Berzacola Napoleone. Era nel 1837 in Compagnia Corrado Vergnano ; e nel 1840 a’ Fiorentini di Napoli con Domeniconi, Guagni e la Pelzet. Lo troviamo nel 1845 a Parma in Compagnia Lipparini, primo amoroso sotto Cesare Asti.

Beseghi Antonia, servetta, l’anno 1831-32, nella Compagnia Rosa e Tranquilli di prosa e ballo.

A dare un’idea della Compagnia, riproduco a titolo di curiosità l’avviso di beneficiata della Beseghi al Pantera di Lucca, insieme al caratterista Antonio Massini :

Regio Teatro Pantera – Avviso – Per la sera di Sabato 25 febbraio 1832 – Dell’interessante, storica, spettacolosa, tragica produzione – tratta dall’opera del celebre maestro – Giovanni Pacini – corredata di nuovo ed analogo scenario, apposito vestiario – truppa, banda musicale, – e per ultimo una scena rappresentante al naturale la più orribile eruzione – del Vesuvio nel suo pieno furore – a benefizio della servetta – Antonia Beseghi – e del caratterista –  Antonio Massini. – Il titolo della medesima è : – L’ultimo giorno de’ Pompei  – ovvero – la prima terribile eruzione del Vesuvio. – Verrà questa seguita da una graziosa Farsa tutta da ridere intitolata : – Amori gelosie disperazione e felicità – d’una vecc hia di 70 anni. – Gli umili offerenti hanno riposte le loro speranze nella comprovata magnanimità di un Pubblico tanto indulgente, e nella generosità della Nobile Guarnigione, e sperando di essere nei loro voti favoriti vi tributano in concambio stima, ris petto, ed una viva indelebile riconoscenza.

ANTONIA BESEGHI AL BEL SESSO

Donne gentili che verace esempio
Mai sempre foste di bontà sincera,
Voi che di grazie il cor rendeste un Tempio,
Non sdegnate onorarmi questa sera :
Essendo donna io pur conosco a fondo
Che sia la donna, e come vada il mondo.
{p. 385}La donna ha tal poter, tale attraenza
Cui l’uomo invan resister tenta ; (sic)
Invan filosofia, ed esperienza
Combatton contro lei ; e se non spenta
Di veder cento donne è in me la speme
Uomini a mille le verranno insieme. (?)

Questa recita non è compresa nell’abbuonamento.

Beseghi Angela, nata a Ragusa il 12 ottobre 1837 da Rafaele e da Olimpia Marini, artista drammatica, esordì come amorosa in Compagnia Miutti l’anno 1855, e passò il ’56 collo stesso ruolo in quella di Giorgio Duse. Fu, il ’57, prima attrice della Compagnia Pisenti ; e, non levatasi a grandi altezze, pensò bene di scritturarsi qual prima attrice giovine, il ’60 con Giovanni Boldrini (aveva già sposato nel ’58 Luigi Beseghi comico, figlio della precedente), il ’61 con Francesco Coltellini, il ’62 con la Pieri-Tiozzo, e il ’63 con la Compagnia Romana, in cui stette sino a tutto il ’69, passando alle parti di seconda donna. Entrata il ’70 con Bellotti-Bon, fu da lui consigliata, dopo sei anni, a lasciare il ruolo delle giovini per quello di madre, ch’ella sostenne con assai decoro. Dal ’79 all’ ’82 fu con la Marini, e l’ ’83 con Ciotti. Passò poi tre anni, trascinata di compagnia in compagnia, applaudita e non pagata, dopo i quali risolse di abbandonar le scene. Ma vi ritornò l’ ’88 con la Marini, e vi stette sei anni, dopo i quali abbandonò il teatro per non tornarvi mai più.

Senza essere stata la Beseghi artista di grande slancio e di peregrine concezioni, fu, nel ruolo delle vecchie specialmente, comiche o serie, artista di assai pregio per correttezza di recitazione, giustezza di misura, diligenza esemplare, ed esemplare modestia. Tra le ultime parti che Angela Beseghi creò e che la fecer cara a ogni pubblico, fu quella della Suocera nelle Sorprese del divorzio, per la quale ella non è e non sarà certo, da chi ebbe il piacere di sentirla e di vederla, dimenticata.

{p. 386}

Bettini Giovanni. Di civile famiglia veronese, si diede giovinetto all’arte, cui fu strappato da morte immatura. Fu d’ingegno pronto e versatile, di voce pieghevole, di bella persona, di fisonomia espressiva, e seppe con una recitazione calda e a un tempo naturale procacciarsi gli encomi di ogni specie di pubblico. Troppo sarebbe il voler ricordare tutti i lavori così comici e drammatici come tragici, ne’quali fu proclamato eccellente ; ma basti il dire che mentre atterriva e paralizzava quasi il pubblico rappresentando il Maometto di Voltaire, lo sollevava poi all’entusiasmo, la sera dopo, nel Tutore e la Pupilla di Kotzebue : e solevasi affermare più tardi, non solo dagli spettatori, ma da’comici stessi, che ove egli non fosse stato così presto rapito alla scena, il gran De Marini non avrebbe avuto il primato dell’arte. La sua vita artistica fu delle più brevi. Cominciò ad acquistar nome di attore pregiato in Compagnia Fabbrichesi, il quale, incitatolo allo studio, e sovvenutolo sempre di consiglio e di ammaestramenti, gli fe’raggiungere il più alto grado dell’arte. Dal Fabbrichesi non si staccò più : chè, affetto da tisi in seguito a una caduta di vettura, lentamente si spense in Venezia a soli trentatrè anni, compianto da’parenti ed amici e comici tutti che videro dileguare uno de’più luminosi astri del teatro di prosa.

Alla squisita cortesia del conte Paglicci-Brozzi debbo queste altre notizie concernenti la Compagnia Reale, tratte dall’ Archivio di Stato di Milano :

1811. Relazione Fabbrichesi al Ministro dell’ Interno del Regno d’Italia sui comici della Compagnia Reale, in via di nuova organizzazione.

…. Vedo difficile assai che persuada la moglie a cedere le parti di 2ª donna giovine ; se insiste adunque, ove S. E. creda, io lo lascierò andare ; ma sottopongo che quest’attore se non è perfetto, ha tutti i doni della Natura, e che per primo amoroso non saprei come rimpiazzarlo, salvo sempre che la sua salute sussista (?)……

FirmatoFabbrichesi.
{p. 387}

1813. 2 Gennaio. Informazioni come sopra al Ministro dell’Interno.

…. Il signor Bettini dacchè è stabilita la Compagnia Reale fa sempre il primo amoroso giovine : e quantunque qualche cosa siasi sempre detto sul suo conto, si è sempre concluso che era il meno cattivo, e fu ed è il più ben pagato di tutti gli amorosi attuali nella Comica Italiana, quindi niuno mi ha mai detto di cangiarlo, bensì io più che altro in obbligo di conoscere i bisogni della mia Compagnia, ho cercato fra gli Accademici, se si poteva trovare uno che con decoro potesse servirgli di supplemento ; nei Commedianti era inutile cercarlo ; non ci è assolutamente : trovai, per mala mia ventura, il sig. Avogadro di Treviso (V.) ; gli accordai lo stipendio di lire it. 3000 annue, ebbe un acconto di circa £. 1350, recitò due volte in Padova, una in Venezia, e fu così male accolto che dovetti lasciarlo in libertà, e perdere le somme sborsate.

FirmatoSalvatore Fabbrichesi.

I coniugi Bettini, fino dalla fondazione della Compagnia Reale Italiana, nell’anno 1807, avevano di stipendio complessivamente zecchini 440. Il giornale del Dipartimento del Reno (Bologna, martedì, 14 aprile 1812) rendendo conto delle recite che là si tenevano dalla Compagnia Reale, così parla del Bettini :

Bettini è un giovane dotato di molti pregi, e ce li ha fatti conoscere nelle rappresentazioni dei Baccanali e del Maometto in cui sostenne con molto valore le parti di Eburio e di Leid, e ne riscosse i più vivi e reiterati applausi ; nè potrà a meno di ottenere lo stesso incontro ovunque, se con pari ardore vorrà farsi valere in ogni rappresentazione.

Fra le parti, in cui fu da’contemporanei proclamato insuperabile, vanno annoverate quelle di Giuseppe Ebreo (il De Marini sosteneva quella di Abramo) e di David nel Saul.

Bettini-Morra Lucrezia. Moglie del precedente. Fu buona prima attrice, buona seconda donna e buona madre : e la troviam tale nel 1815 in Compagnia di Salvatore Fabbrichesi. Vedova, passò poi per le parti di madre e di caratteristica in quella di Gaetano Nardelli, nella quale fu tanto e meritamente celebrata {p. 388}come prima attrice la figliuola Amalia. – Di lei, il numero 9 delle Varietà teatrali, (Venezia, 1824) enumerando gli artisti della Compagnia Fabbrichesi, dice : BettiniMadre…. Dopo tanti anni di sicuro cammino sulle scene, ornata dei pubblici elogi, tal Donna è superiore a qualsiasi linguaggio di maldicenza.

Bettini Amalia. Figlia dei precedenti, nacque in Milano il 15 agosto del 1809. A sei anni, trovandosi la madre in Napoli colla Compagnia di Salvatore Fabbrichesi, fu messa in uno de’ primi educandati francesi, dal quale, morto il padre, uscì a tredici anni, per entrare a sostener le parti di amorosa nella Compagnia Reale di Napoli diretta dal Fabbrichesi stesso, di cui facevan parte Giuseppe De Marini e Luigi Vestri, attori massimi del lor tempo, che, affezionatisi alla fanciulla ben promettente di sè, l’avviarono, e l’addestrarono a quell’arte in cui non ebber rivali, e in cui ella, recitando a Padova colla Compagnia, provocò il seguente articolo che traggo dalle Varietà teatrali del ’24 (Venezia, Rizzi) :

Bettini figlia…. giovinetta di 15 anni, di leggiadra figura, di volto avvenente, di bei modi, non iscarsa di grazie, e solo da un anno al drammatico esercizio educata, ella supera sè medesima, e porge altissime speranze di pareggiare ben presto le decantate prime attrici, che l’han preceduta. Nulla le manca ad essere nel numero delle valenti, fuorchè un esercizio più lungo, mancanza a cui il tempo porrà quanto prima il compenso ; ma intanto è dolce il vederla con merito vero rappresentare i suoi caratteri, e troppo bello e giocondo il difetto, che alcun rigido osservatore in qualche parte le addossa, d’essere cioè troppo giovine. Oh ! quanto meglio ciò conta che il vedere provetta attrice con tre dozzine d’anni alle spalle affibbiati rappresentarci talora l’ingenua ragazza, o la spiritosa sposina ! Si calmi adunque di talun l’iraconda impazienza, e mentre da un lato trova in questa compagnia chi per assoluta perizia può soddisfarlo, si appaghi dall’altro della tenera capacità e delle belle speranze, onde a buon dritto l’Itala scena può attendere in questa ragazza una novella esimia attrice.

Al principio del 1824 seguì con la madre il Fabbrichesi che lasciava Napoli per condurre la Compagnia nell’Italia centrale.

{p. 389}

Essendo lui morto nell’autunno del ’28 a Verona, e lei avendo terminato la scrittura col carnevale del ’29, si recò, in compagnia della madre, a Vicenza, per sostener le parti di prima attrice in quella filodrammatica…. che lasciò dopo un anno per formare una compagnietta, della quale essa era, si capisce, direttrice, prima attrice, matatrice, e…. si può capire anche questo, infelice ! Ma se la speculazione fallì, non fallì certo il principale intento di dar libero sfogo alla sua passione, dominata pur sempre da un sentimento vero dell’arte, e di farsi conoscere e ammirare da’varj pubblici ; chè, adocchiatala il Nardelli, capocomico veronese di buon nome, e caratterista egregio, la scritturò per quattr’anni come prima attrice assoluta.

Dalla Compagnia Nardelli passò (1835) in quella di Romualdo Mascherpa, della quale eran principale ornamento i fratelli Dondini, Gattinelli padre, e Giacomo Landozzi. Dovunque ella si recò ebbe onore di rime e di effigie ; e in Perugia le fu coniata questa medaglia d’oro, la riproduzione della quale, come quella de’ritratti, io debbo alla squisita cortesia della figliuola Maria Lismondo.

Nè agli applausi e agli onori si limitò il trionfo della Bettini ; chè ogni sera il teatro riboccava di spettatori, tanto che, nella sola primavera di Trieste, sappiamo che il Mascherpa guadagnò nette 27,000 lire austriache. Tornò poi col Nardelli {p. 390}che ella amava come padre, e che, in capo a tre anni, messa assieme la non lieve somma di 55,000 franchi, si ritirò beatamente in un paesello del veronese.

Dai versi di un cigno livornese, non certo morente, che qui riproduco, e che debbo alla cortesia del dott. Diomede Bonamici, sappiamo quali erano i componenti la Compagnia.

Il ritiro del Nardelli coincise con quello della grande Marchionni, l’astro maggiore della R. Compagnia di Torino, diretta da Gaetano Bazzi, il quale subito pensò di sostituirle la Bettini alle stesse condizioni. Avuto sentore in arte del ritiro di {p. 391}Gaetano Nardelli, non so dire da quali e quante proposte ella fu assediata ; proposte che non furon poi accettate, perchè ella si risolse per la R. Compagnia Sarda, nella quale, dopo due anni, ebbe le stesse accoglienze festose, gli stessi onori prodigati alla grande attrice che la precedette, e che per ben diciassette anni fu l’idolo di quel pubblico ; e dalla quale uscì per isposare in Bologna il dott. Raffaele Minardi.

Eccone l’atto di matrimonio :

Anno 18 quarantadue (1842) li due (2) del mese di Giugno ommesse le pubblicazioni seguite nel tempo della celebrazione della S. Messa in questa Chiesa Parrocchiale dei SS. Giuseppe e Ignazio, domicilio dell’infrascritta sposo, e nella Parrocchia di S. Bartolomeo, domicilio dell’infrascritto sposo, e non essendovi denunciato alcun impedimento canonico, io infrascritto Parroco dei SS. Giuseppe e Ignazio ho congiunto in matrimonio secondo il prescritto dal Concilio di Trento il sig. Dottore Raffaele figlio del fu Pasquale Minardi e della vivente signora Maria Pilati della Parrocchia di S. Bartolomeo colla signora Amalia figlia del fu sig. Giovanni Bettini e della vivente signora Lucrezia Mora di questa Parrocchia de’ SS. Giuseppe ed Ignazio, testimonii sig. D. Serafino del vivente Francesco Giorgi abitante in via Castiglione N. 345 e 7, e Giovanni figlio del fu Giuseppe Cerioli abitante in via Castiglione N. 345 e 7.

A dare un’idea del valore artistico della Bettini, e del come e quanto ella fosse apprezzata da’compagni di arte ; e anche a mostrare dell’arte le condizioni a quel tempo, metto qui brani di lettere ordinati cronologicamente, e gentilmente trascritti dall’egregio Antonio Fiacchi, geniale scrittore di critica teatrale ; non togliendo, nè aggiungendo parole a quelle da lui messe per legare chiaramente e opportunamente l’una lettera all’altra.

Da Napoli, il 28 novembre 1837, Pietro Monti propone alla Bettini di far parte della Compagnia dei Fiorentini per l’anno 1840 ; e soggiunge che la società si compone di esso lui, del cognato Adamo Alberti e di Prepiani socio di Tessari.

Si capisce che l’attrice ha esposto le sue pretese ; a cui il Monti risponde il 21 dicembre :

Dalla tua ho rilevato che tu o non hai piacere di far parte della nuova compagnia propostati o che tu hai voluto scherzare…………….

…. ti rammento ancora che per ora dalla sopraintendenza posti assoluti non se ne danno, come pure abbi presente che l’Egregio benemerito Fabbrichesi per pagar molto fu obbligato partire ad onta che aveva L. 4500 di più dalla Corte oltre L. 24,000 d’appalto degli introiti serali niente indifferenti……………

{p. 392}

A questa lettera la Bettini risponde colla seguente :

Mio Caro Monti,

Ricevo la tua 21 spirante e la riscontro al momento.

Si vede che tu conosci poco il mio carattere – per tua norma io sono seria sempre e non amo per nulla scherzare. Vedo piuttosto che tu sei d’umore molto allegro. Come ? oltre il tuo invito di limitarmi sulla paga, mi dici ancora che la vostra Sopraintendensa non accorda posti assoluti ! Mi fai osservare che il mio amor proprio sarà appagato ? Non ho bisogno di venire a Napoli per godere di questa soddisfazione…. anzi più di quello che lo è nell’alta Italia non potrei desiderarlo. Conosco chiaramente che siete voi piuttosto che non aggradite troppo di avermi nella vostra Compagnia piuttosto che dire ch’io non amo di farne parte. Di quanto scrissi nella mia del 9 non mi rimuovo d’una sillaba.

V’auguro fortuna e quando vi verrà in capo di pensare a me ricordatevi di parlare sul serio e che io non scherzo mai.

Mamma ed io contraccambiamo gli augurj che c’invil per il nuovo anno. Salutami tua moglie e credimi pure mai sempre

La tua Obb. ma amica
Amalia Bettini.

Il 14 gennaio 1838 Camillo Ferri da Milano propone alla Bettini il posto di prima attrice assoluta nella propria Compagnia alle stesse condizioni che ha col Nardelli, e soggiunge :

Mi si dice che quest’ultimo non prosegua oltre il 39 ed è perciò che le avanzo questa proposizione, in caso contrario mi guarderei bene dal tentare di rapirle uno dei primi ornamenti dell’ arte nostra.

Da Milano il 12 marzo 1838 Gio. Batta Gottardi le offre scrittura per l’anno 39-40, ed acclude alla lettera un biglietto Pietro Boccomini.

Il 3 aprile il Monti torna alla carica dicendo :

…………………………………..

Ecco ciò che ti offro : Posto assoluto di Iª donna – onorario annuo Franchi Italiani novemila ed una serata intera nell’appalto ad uso comico. Le prime 4 commedie e le prime 4 tragedie a tua scelta ed oltre de’ riposi che dà la piazza, uno d’obbligo alla settimana……

L’11 aprile 1838 il Gottardi da Torino torna alla carica, ed, autorizzato anche dal suo futuro socio Domeniconi, le propone

il posto di Iª attrice assoluta dalla quaresima del 1840, l’onorario di 12 mila lire austriache divise in tante mezze mesate anticipate, ed il compenso di mezza serata per piazza ad uso comico. – Dispensa dalle recite doppie – una recita per settimana di tutta vostra scelta.

Il 24 aprile 1838, il Monti da Napoli cresce l’offerta di 10 mila lire ed una serata di beneficio con appalto sospeso.

Da Ferrara il Domeniconi il 23 aprile 38, conferma quanto le ha proposto a mezzo del suo futuro socio Gottardi e la esorta ad accettare la scrittura propostale.

{p. 393}

Romualdo Mascherpa, con questa intestazione stampata :

Il Capo Comico – della Drammatica Compagnia al servizio di S. M. Maria Luigia, Principessa Imperiale, Arciduchessa d’Austria, Duchessa di Parma, ecc., ecc.

scrive da Bergamo il 21 aprile 1840 rallegrandosi colla Bettini che debuttava a Torino quale prima attrice della Reale Compagnia Drammatica Sarda.

Giuseppe Coltellini da Lucca (13 maggio 1840) chiede se è contenta della sua nuova posizione per farle in caso delle proposte. Vi è un P. S. che trascrivo :

In questo momento ricevo una lettera di mio fratello, il quale mi dà notizia delli coniugi Tessari. Andò in iscena la Carolina con Sedici anni sono e fece un fiasco deciso – andò lui di seconda sera col Filippo e fece doppia damigiana. Si riprodusse la Carolina coll’Irrequieta, nella qual parte piacque infinitamente. Soggiunge mio fratello che la prima sera non piacque nè al pubblico, nè ai comici. Sentiremo in seguito.

Queste notizie erano sulla Compagnia dei Fiorentini, nella quale era andato pure il Domeniconi mandando così a monte la società col Gottardi. Infatti nel 19 giugno 1840 il Domeniconi stesso scrive da Napoli per sentire se sarebbe disposta ad aprire trattative con lui per l’anno successivo e poi parlando di cabale e intrighi soggiunge :

Fra i nuovi attori per Napoli, io sono stato quello che da principio ho trovato più opposizione degli altri, come è vero altresì che più presto degli altri mi è riuscito di vincerla. Ancor qui i partiti e gl’intrighi si avvicendano, ma l’evidenza fa cessare le storte illusioni.

L. Da Rizzo il 7 luglio 1840 scrive da Roma :

Vengo assicurato che Ella non rimanga, dopo il corrente anno, nella Reale Compagnia.

Se fra le cose possibili la voce sparsasi fosse vera, io mi reputerei fortunato di poterle offerire il posto di Iª attrice assoluta dandole carta bianca per fissare l’onorario e stabilire le convenienze per tre anni.

Mi onori ecc…….

Il 23 stesso mese il Da Rizzo manda le scritture in bianco con facoltà di aggiungervi, se crede, il nome della madre per le parti caratteristiche.

Il 12 agosto da Vercelli Angelo Lipparini scrive alla madre dell’Amalia :

Ho veduto alcune lettere scritte da Torino che accertano lo scioglimento col signor Bazzi, di sua figlia. è vero che io non porto un nome Reale ma ho sempre fatto onore alla mia firma in modo da non invidiare quella del sig. Bazzi : se dunque ciò fosse, ecc.

{p. 394}

Il 17 agosto proporrebbe di far un cambio colla sua Iª attrice, la Santoni.

Ora vien fuori Francesco Paladini da Ravenna il 25 agosto, dicendo che è in trattative di far società con Domeniconi, e quindi spera che la Bettini cui si dirige, accetti d’andare con essi. Dopo ciò si sfoga contro le arti di una mala femmina ingrata, che dopo averlo lusingato per averlo in Compagnia, gli fa fare delle parti non da paedre, e la moglie di lui, infelice, recita ogni 4 0 5 sere e nelle farse !

Poi c’è un P. S. : « Ditemi se fate Il Bicchier d’acqua e come è distribuita questa commedia nella R. Compagnia. »

Gaetano Coltellini, deciso di dividersi dal Vergnano, propone da Verona il 9 settembre 1840 la scrittura di Iª attrice alle identiche condizioni fattele dalla Compagnia Reale, e conclude :

Gli attori principali che avrei in vista e che potrei con certezza stabilire sono questi : Ferri – Voller padre e Colombini brillante ; di questi due ultimi mi si fanno grandi elogi – la coppia Pedretti che non abbandonerò mai….

Il 12 settembre il solito Paladini, che avrà già recitato il Bicchier d’acqua, trovandosi a Roma, scrive per sentire le pretese per far parte di una Compagnia semi-sedentaria (sic) che si vuol formare colà a cominciare dal 1842.

Un Cilenti (forse Pisenti ? – la firma non è chiara) scrive da Forlì il 17 settembre una supplica :

Mi viene fatto suporre che quest’altro anno la brava, imparegiabile Bettini, non trovi convenienza il sequitare con la Compagnia Reale. Dato il caso io vado in tracia della mia fortuna, si come fu di Nardelli, che non fa che ripetere, la mia sorta la Devo alla Bettini….

Il Paladini il 24 settembre da Roma annunzia che il progetto della Compagnia semi-sedentaria è caduto in terra addirittura ed esclama in un momento di giusto sdegno : « l’arte drammatica in Italia abbandonata viene a sè stessa ed all’infuori di qualche spiantato speculatore (sic) nessuno se ne occupa. » E soggiunge :

Sono ben semplici i comici di qualche fama, di legarsi a de’ speculatori senza fondi i quali ci pagano se fanno denari e falliscono all’occorrenza, e senza nulla arrischiare fanno commercio della vostra capacità e del vostro sapere ! Se gli artisti conoscessero il vero loro interesse, dovrebbero unirsi in società e quindi operando a loro senno, dar la legge a questi miserabili speculatori senza senno nè mezzi e fare il loro interesse. Mi direte essere difficile il trovare persone oneste ; ma vi dirò francamente non esserne al tutto priva la drammatica arte. Mi stà tuttora presente la felice società della Marchionni, Meraviglia e Calamari, dessi andarono d’accordo e fecero il loro interesse.

{p. 395} Vincenzo Jacovacci
appaltatore del Regio Teatro di Apollo e Valle in Roma

le scriveva da Firenze il 26 settembre 1840 :

Stavo in trattative col Bazzi per prendere la sua Compagnia per l’autunno 42, ma appena inteso che ella in quell’epoca non si trova più in codesta Compagnia ho sconcluso tutto mentre l’oggetto principale e le mie speranze erano fondate giustamente sulla somma e gran Bettini. Mi è stato supposto che ella faccia Compagnia per quel tempo : se ciò fosse vero desidererei combinare per l’autunno stesso del 42 col dargli il teatro Valle.

E il 1 ottobre :

…. Aspetterò anche due buoni mesi prima di prendere impegni per il teatro Valle pel 1842 perchè mi preme e desidero sommamente di combinare con quel capocomico che ella anderà….

Nello stesso giorno il Da Rizzo le scriveva da Roma :

So che finalmente Ella ha potuto ottenere il tanto bramato scioglimento dalla R. Compagnia Sarda.

Il contratto da me stabilito con la signora Internari è per tre anni.

Posso però, anzi sono determinato, onde non rinunziare al vantaggio di fare l’ottimo di Lei acquisto, di disporre gli elementi necessari a formare un’altra primaria Compagnia, nel caso che la signora Internari fosse contenta di proseguire anco pel 42 e 43 con me.

Alla Direzione della nuova Compagnia verrei io stesso e si agirebbe almeno sei mesi in Roma.

{p. 396}

Il Domeniconi, il 4 ottobre 1840 da Napoli, vorrebbe riallacciare le trattative per l’anno 1842, e così Da Rizzo da Roma il 16 dello stesso mese, che accenna che fra gli attori disponibili per il ’42 spera di trovare il Gattinelli e forse Venturoli.

Il Domeniconi, il 18 detto, parlando delle pretese, dice :

Circa all’onorario vi prego di considerare che la Compagnia Reale di Torino ha un provvedimento sovrano che manca alle altre Compagnie girovaghe e le 12,000 lire austriache che vi avevo accordato credo che sia il maggiore stipendio che queste possano accordare ; non è questa un’ offesa al vostro sommo ed incontestabile merito, ma sono i meschini proventi che si ricavano dagli esercizi drammatici nel nostro disgraziato paese….

Ricompare il Mascherpa, sempre al servizio di S. M. Maria Luigia, ecc. Scrive da Bologna (20 ottobre ’40) che ha ricevuto la lettera che gli sopragiunse da Venezia e lagnandosi di non aver saputo prima lo scioglimento del Bazzi, mette il dilemma : « ho io non godevo la vostra confidenza, ho perchè non mi credevate vero ed onesto amico – ed assicuro che non ho fatto traspirare a nessuno la vostra lettera ; » e conclude : « ricevete da me un Baccio da vecchio (cioè senza Malizia ! ma il core parla !!!) datte un Baccio alla mamma, ecc. »

Il Mascherpa ha indovinato che la Bettini si marita, e scrive da Bologna il 19 novembre ’40 :

…. mi confermo che la vostra rissoluzione è fatta per accasarvi. Io vi auguro tutti i beni e vi desidero tutte le felicità che non vi potranno mancare per la vostra onesta condotta.

Io fui obbligato di rinunziare alla quaresima di Bergamo pagando una penale di cinquanta zecchini effettivi.

Poi abbiamo una lettera di F. Lottini a Giuseppe Bosio (Bassano, 1°maggio ’41) per sapere se la Bettini intenda o no di accettare le proposte Mascherpa, dipendendo da essa sola l’avvenire della Compagnia, della quale naturalmente il Lottini fa parte. Il Bosio, si capisce, era nella Reale.

E torna Da Rizzo l’8 maggio 1841 da Firenze, con una lettera che trascrivo quasi integralmente :

Angelica Creatura,

Perdonate la mia importunità. Vi dispiacerebbe se vi offerissi, a nome di un ricco signore di Firenze, un onorifico contratto per rimanere tre stagioni dell’anno ferma ad agire in Firenze ?

Di questa combinazione farebbe parte l’amico Gattinelli.

……….………………………..

Il progetto sarebbe onorifico e vantaggioso per voi, e per me l’àncora di salvezza poichè in 3 anni ho perduto 32 mila lire austriache. – Voi sareste il mio nume tutelare.

{p. 397}

E da Bologna, in data 18 maggio :

…. la persona che ambirebbe avervi per cardine principale della Compagnia che vuol formare per Firenze, non escludendo una qualche scappata per poche recite nelle vicinanze e specialmente alla Villa del Sovrano a Poggio-Cajano, è pronta ad assicurarvi l’onorario sopra quella Banca che meglio vi piacerà di indicargli. Non posso dirvi per ora, fuori di Gattinelli, quali saranno i vostri compagni….

L. Da Rizzo.

Il progetto va a monte – ed il Da Rizzo ne comunica il fiasco, colle lagrime agli occhi.

Il Lipparini da Genova (25 giugno 41) insiste per aver la Bettini e scrive :

Vi faccio una confidenza : la Santoni me ne fa provare d’ogni genere – cerca tutte le strade di andarsene, manca alle prove, non vuole recitare che le parti che le vanno a genio – qui è giunta un giorno dopo gli altri, e poi…. e poi tralascio perchè direi troppo.

Tutto il male è stato perchè mi chiese un permesso di 4 mesi di andare a Marsiglia e tornare alla Compagnia alla fine di 7bre (vedete che pretese) glielo negai, perchè come doveva fare con Genova che sono pagato ? il mestiere per lei serve da secondo ; si teme…. si vedrà ! ad ogni piazza si teme che fuga si deve stare sempre in guardia e a dirvi il vero sono stanco di fare questa vita ; infelice quel Capo Comico che la prenderà…..

Qui abbiamo il Bazzi che le scrive da casa (Milano, 19 settembre 1841) per proporle di rimanere nella sua Compagnia alle stesse condizioni sinora accordatele. Soltanto soggiunge :

Ella mi concederebbe la libertà di tre recite per settimana escludendo in esse la recitazione di Drammi o Tragedie locchè verrebbe unicamente assegnato al di lei diritto e nel caso di malattie approffitterei della opera sua per tutte cinque recite ; otterebbe da ciò, sicurezza di salute, bramosia nel pubblico ed effetto sicurissimo……

…. baciandole rispettosamente le mani, mi dico

suo obb.mo servo ed amico
Gaetano Bazzi.

E qui giova aggiungere che il Bazzi, il Monti e Jacovacci si facevano scrivere le lettere e le loro firme sembrano i saldatti che certi faleniami mettano nelle liste !

Da Jesi, Gaetano Coltellini il 29 settembre 1841 scrive : « Ebbene, abbandoni la professione ? Dobbiamo piangere la tua perdita come abbiamo fatto poco tempo indietro per quella di un altro sommo ? » Forse allude alla stessa Marchionni, ritiratasi un anno a dietro, e surrogata appunto dalla Bettini ?

E Gaetano Gattinelli scrive da Roma il 26 ottobre del 1841 :

Carissima Amalia,

Parecchi signori di Roma sarebbero intenzionati di formare una Compagnia Drammatica che facesse onore alla nostra bella Italia : codesta Compagnia avrebbe principio {p. 398}coll’anno comico 1843 ; agirebbe nello Autunno e Carnevale in Roma ; nelle provincie dello Stato Pontificio in Primavera ed Estate e negli Stati vicini la Quaresima e l’Avvento. Io fui incombenzato di scrivere a te se vuoi essere la prima attrice di codesta Compagnia ; sai quanto i Romani ti amano, ed apprezzano il tuo merito singolare….

…. Questi signori non attendono che questa tua risposta ed io egualmente onde non restarmene in pendenza e potere realizzare la mia idea di trovarmi nuovamente vicino alla prima attrice drammatica che possa vantare la nostra Italia.

Aff.° Osseq. servo ed amico
Gaetano Gattinelli.
Eccellente Amalia,

La tua lettera gelò il sangue a que’ tali che ideavano averti per prima attrice in una Compagnia che per primo scopo doveva riformare il teatro italiano in quanto alla buona recitazione. Io chino il capo alle circostanze : fa ciò che credi, quello che il cuore ti detta. Solo ti prego, qualora nel venturo maggio tu ti decidessi a rimanere nell’arte pel bene della medesima, dammene un pronto avviso. Io pure se Dio mi darà forza e salute ho ferma intenzione di ritirarmi dalle scene dopo altri cinque anni, ma prima di far ciò desidero ardentemente (per quanto il mio scarso ingegno lo permetterà) cooperare con que’ pochi ottimi artisti drammatici che abbiamo in Italia (dai quali cerco imparare e le massime e l’arte) onde formare un buon gusto generale in tutta Italia che va purtroppo scadendo colpa la noncuranza in che si tengono le cose vere e naturali, le finitezze, le sfumature dell’arte come noi le chiamiamo, per applaudire soltanto alle esagerazioni, contrarie il più delle volte al buon senso. Speriamo che il bel giorno venga e tu che hai coltura e reale abilità artistica e sentimento sublime puoi affrettarlo – io me lo auguro. Addio.

Obb.mo Tuo servo ed amico
Gaetano Gattinelli.

Domeniconi da Napoli il 26 novembre ’41, tanto per cambiare, insiste per scritturarla qual prima attrice in una delle due compagnie che sta formando : e l’11 dicembre 1841 Corrado Vergnano da Parma canta la stessa solfa. Francesca Vergnano (la moglie del suddetto) ha saputo delle trattative, e così scrive all’amica :

È egli vero ? Si attende un tuo assenso perchè ogni sventura della mia famiglia stia per avere un termine ! Mia cara Amalia, soccorri all’amica, acconsenti a tutto ed io ti adorerò come una santa, ed infatti tu saresti una santa per me e quest’ opera ti frutterà mille benedizioni ed ogni felicità. – È inutile che io spinga il tuo cuore con maggiori parole, sono persuasa che tu farai ogni sforzo per rendere la felicità ad una amica la di cui vita, dirò così, dipende da un tuo assenso….

La lettera pare non avesse risposta, poichè il Vergnano tornò alla carica, rivolgendosi alla madre, pel desiderio vivissimo di avvicinarsi alla « odierna celebrità drammatica. »

Camillo Ferri, che incontrammo sui primi gradini di questa scala epistolare, riprende la penna in Roma il 6 gennaio 1842, per proporre scrittura a colei la quale il3 giugno successivo s’impalmava fra le felsinee mura col dott. Minardi.

{p. 399}

E Vergnano non cede : da Padova, il 26 febbraio detto anno, spera ancora di poterla aggregare alla sua « riunione drammatica. »

Mascherpa ha sentito dire che il matrimonio non si fa più, e quindi da Firenze il 9 marzo ’42, fa la proposta di scritturarla col titolo di « Iª attrice di riguardo, obbligata a fare sole 3 recite la settimana e da pasqua a tutto il carnevale non fosse obbligata a studiare più di otto produzioni nuove. » Essa avrebbe a compagni Landozzi, Lottini, Branchi e i coniugi Pelizza. Anche Mascherpa ha sentito dire che il matrimonio è andato in emaus e canta da Livorno (22 marzo ’42) il solito ritornello.

Amato Ricci Corrispondente Teatrale

ed impresario dell’I. e R. Teatro degli Arrischiati

di Firenze

in via Mercato nuovo,

é pressato il poveretto da molti capocomici che vorrebbero scritturare la Bettini, fra i quali il Checchi che sarebbe pronto a dare qualsiasi anticipazione.

Chiude l’epistolario il Paladini che il 24 aprile 1842 si lusinga ancora di potere concludere il contratto…. mentre quello nuziale è già alle viste.

A questi assedii di proposte, di preghiere, di suppliche, a queste espressioni di ammirazione e di devozione, si aggiungon lettere e versi di grandi che facevano a gara nel tributarle degnissime lodi. Nello studio su di Amalia Bettini di Giuseppe Costetti (I dimenticati vivi della Scena italiana. Roma, 1886), abbiamo un sonetto italiano e uno in dialetto di Gioacchino Belli, un’ode di Giovanni Prati, e lettere del Belli, del Niccolini, del Pellico, del Rossini.

Tu Regina dolcissima de’ cuori hai nell’italo socco i primi onori !

Incisione moderna di L. Margotti da una litogr. del tempo dello Stab. Angeloni.

Il Niccolini le dice : la natura vi ha privilegiata di mente arguta, d’animo forte e gentile : e non conosco chi abbia più {p. 400}dottrina e sentimento di quello ch’è bello. Arnoldo Fremy (Costetti, op. cit., p. 21), che la sentì a Venezia, scrisse nella Revue de Paris del 1837 che Amalia Bettini era la emulatrice di Fanny Kemble nel patetico e nell’impeto, e non inferiore a mademoiselle Mars nelle delicatezze e nella perfezione dell’arte. E Giorgio Briano nello Eridano Torinese, il 15 giugno ’41, scriveva al proposito della Iginia d’Asti di Silvio Pellico :

…. Che diremo della signora Amalia Bettini ? Ella fu dal grido universale salutata grandissima attrice ; una di quelle pochissime donne capaci di farsi interprete di un Pellico, di trascinare un intero pubblico agli applausi, di reggere alla più acuta e profonda critica. Dal primo suo apparire sulla scena, sino alla fine, fu il vero, il reale personaggio con tanto amore, con tanta forza descritto dal Pellico ; anzi si può dire, che lo stesso autore avrebbe provato una nuova compiacenza per la sua creazione ove l’avesse veduta rivivere per opera della egregia attrice.

L’autore ha colorito il carattere, la Bettini lo ha scolpito ; ella ebbe dall’autore una parola che passata sulle sue labbra conduceva al fremito, all’applauso, al delirio. Pareva che l’attrice volesse col vigore della sua anima, coll’espressione degli atti, coll’ardore del desiderio rientrare nell’entusiasmo che destò quell’alto lavoro ; pareva che un altro sentimento, non meno nobile e generoso, la infiammasse, ed era di recare un conforto, una gioia all’anima, su cui in pochi anni tanti e si fieri dolori si sono accumulati. Ella fu interprete dell’autore al pubblico, del pubblico all’autore. Descrivere a parte gli altri pregi di questa sua rappresentazione, seguirla in que’ suoi atteggiamenti varj, in quei rapidi trapassi che l’eccesso di una passione immensa, combattuta, rendeva in lei profondi, subitamente veraci, è cosa che non si può significare in brevi parole. Quando un’attrice ha tocco quella eccellenza a cui giunse la signora Bettini, il darle una lode comune sarebbe un oltraggio all’arte stessa, per cui tanto si affatica, per cui si può dire che viva. Abbiasi per ora la nostra ammirazione, che riputiamo il più bell’elogio al suo merito, quando quest’ammirazione è divenuta sentimento universale.

Queste bellissime parole trovo inserite nel bellissimo articolo che il Fiacchi dettava nel Piccolo Faust di Bologna, il 24 maggio 1894, dopo la morte della celebre artista, avvenuta a Roma otto giorni prima, a ottantacinque anni.

Traggo anche dall’articolo il seguente sonetto del Belli (1835), pubblicato dal Fiacchi la prima volta, e non più riprodotto :

ER PADRE E LA FIJJA

Si è stata una commedia troppo corta,
ma è stata una commedia accussi bella,
ch’io pe’ ssentilla ar monno un antra vorta
me ce farebbe strascinà in barella.
{p. 401}C’era una fijja d’una madre morta,
bona e graziosa e se chiamava Stella,
poi c’era un padre, una testaccia storta,
che strepitava : è quella o nun è quella.
La parte de sta fijja tanta cara,
senti, la recitò, na certa Amalia,
un angelo de Dio, ’na cosa rara.
Che pparlate ! che mmosse ! tutte fatte
da incantà. Benedetta quella bbalia
che l’ha infisciata e che j’ha dato er latte !

E sotto un ritratto della Bettini, litografia Matraire di Torino, disegnato dal vero da Pietro Petronilla (collezione Paglicci-Brozzi) e che io non riproduco per la poca differenza che è fra esso e il precedente, son messe le parole di Dante :

Vedi quanta virtù l’ha fatta degna di riverenza !

Chiudo queste notizie colle parole, tuttavia inedite, che un egregio artista contemporaneo, e affezionato compagno della Bettini (Antonio Colomberti), lasciò scritto di lei :

Possedeva una persona giusta, volto esprimente tutte le umane passioni ; era di capello castagno e di carnagione bianchissima. La sua voce corrispondeva a tutte le vibrazioni della sua anima. Di natura estremamente sensibile e nervosa, s’immedesimava tanto perfettamente nel personaggio da lei rappresentato, fosse esso comico, drammatico o tragico, da far provare allo spettatore le stesse impressioni da lei esuberantemente sentite. Dotata di memoria ferrea, poteva fare a meno del rammentatore ; ed in 5 anni che ebbi il piacere di esserle al fianco come direttore e primo attore, non l’ho mai veduta ricorrere al soggetto per saper la parola di entrata in scena. Abituata fin dalla sua più tenera gioventù a non considerare la sua parte dal numero dei foglietti, ma dall’interesse che poteva avere nell’intiera produzione, poneva in tutte lo stesso impegno, non escluse le farse.

Quasi tutte le opere drammatiche da lei interpretate potean dirsi suoi cavalli di battaglia ; chè ben poche eran quelle che, mercè sua, passavan senza una replica ; moltissime quelle che ne avean cinque, sei, otto, fin dieci. Fra le produzioni formanti il repertorio della Bettini, cito le seguenti, nelle quali ella era costantemente e ovunque acclamatissima :

Teresa – La finta ammalata – Mistress Siddons – Pamela nubile – Pamela maritata – I tristi effetti di un tardo {p. 402}ravvedimento – L’amor di una madre – Un fallo – Sedici anni or sono – La fedeltà alla prova – Maria Stuarda – Ottavia – Parisina – Pia de’ Tolomei – Iginia d’Asti – Gismonda da Mendrisio.

Quale ricchezza ! quanta varietà ! E questa donna acclamata, festeggiata, celebrata da pubblici e da poeti, lasciava a soli trentatrè anni le scene senza tornarvi più mai, se non per offrire alla patria il proprio contributo di donna italiana, a un misero compagno d’arte quello di donna di cuore.

Bettini-Bignami Matilde, di Spalatro. Appartenne il 1819, qual seconda donna e generica, alla Compagnia di Carlo Toffoloni, ed in quell’epoca appunto il Giornaletto ragionato teatrale di Venezia (N. I) disse di lei :

Bettini Matilde, seconda donna : potrebbe migliorare di molto e nel gesto non sempre adattato e nella maniera di pronunciare, posto che qualche sincera ed intelligente persona la persuadesse a trarre miglior partito, mediante lo studio, da quelle doti, delle quali avara non le fu natura.

La troviamo nel 1820-21 in Compagnia Mascherpa e Velli, e il succitato giornale constata con parole di encomio, ch’ella « approfittò degli amichevoli consigli datile in allora. »

Sposò un Pietro Bignami, appartenente a doviziosa famiglia bolognese, il quale sosteneva nella stessa Compagnia a vicenda con Gio. Battista Beltrame le parti di primo amoroso.

Biagi Luigi. Figlio di un ingegnere bolognese, errò bambino pel Veneto colla famiglia, passando dal Polesine a Verona, poi a Vicenza, poi a Padova, ove passò l’adolescenza. La morte del padre l’obbligò a lasciar gli studi di filosofia per un impiego ferroviario che gli desse da vivere. La passione dell’arte scenica l’occupava tutto ; e trovava modo e tempo di recitare ed assistere alle lezioni di arte drammatica fatte da A. Bon a’ filodrammatici di Padova. Esordì nella Compagnia di Alessandro Monti e del noto meneghino Luigi Preda, scritturatovi da Majeroni padre con cinque svanziche al giorno, a Casal Monferrato, ove non fece la miglior delle prove.

{p. 403}

Passato come secondo amoroso con Tommaso Salvini, ebbe la fortuna, per la insufficienza del primo attor giovine Bregaglia, di averne tutte le parti e di poter mostrare tutte le sue attitudini. Fu dal ’62 al ’64 con Gaetano Gattinelli e dal ’65 al’ 66 con Achille Dondini. Il ’67, fu di nuovo con Tommaso Salvini, per entrar poi nella grande Compagnia di Bellotti-Bon, a sostituirvi colla Tessero e con Salvadori la Pezzana, Ciotti e Lavaggi che ne uscivano. « Qui » – egli scrive – cominciò quel « periodo per me indimenticabile, in cui non so, nella gara, se vincesse il merito degli artisti, o l’entusiasmo del pubblico, la valentia del direttore, o la fecondità degli autori ; forse tutte queste cose unite insieme con tribuirono a crearci anni beati, compiacenze indescrivibili, trionfi incancellabili ! » Nel ’72 lasciò il Bellotti per formar società con Casilini e Rosa. Dal’ 76 al ’78 fu con Morelli e la Tessero ; sostituì il Salvadori con Bellotti nel ’79, tornò socio con Casilini nell’ ’80, passò colla Tessero in America l’ ’81 e ’82, poi entrò primo attore in sostituzione di Ceresa, e vice-direttore sotto Paolo Ferrari nella Compagnia Nazionale. Nell’ ’85 si unì in società con la Tiozzo e nell’ ’87 fu scritturato dal Bertoni e dalla Tessero. Dall’ ’88 all’ 89 entrò in Compagnia Maggi nella nuova qualità di generico primario, poi in quella di Favi, e finalmente in quella di Pasta, col quale è rimasto tutto l’anno comico 1895-96.

Bella e gloriosa fede artistica questa di Luigi Biagi. Attore intelligente quant’altri mai seppe imporsi a ogni pubblico, nonostante una certa leziosaggine di gesto e di dizione. Le parti che gli dettero maggior fama furon quelle di {p. 404}Nerone e di Antonio nel Nerone e nella Cleopatra del Cossa, ch’egli creò.

Vale la pena ch’ io metta qui alcune parole che tolgo da una sua lettera, e che concernon l’andata in scena appunto della commedia Cossiana.

Pietro Cossa presentò il manoscritto del Nerone a Bellotti nell’aprile del ’71. Il Bellotti comprese subito da quell’esperto conoscitore che era, il merito dell’opera : fece subito copiare le parti e le distribuì. Non rinuncio all’onore di essere stato il primo ad eseguire il Nerone, e di avere contribuito in parte, scusa la poca modestia, alla buona riuscita del lavoro. Consumai 4 notti ad impararne la parte, che mi piaceva assai. Di getto, secondo l’idea fattami del personaggio, ne improntai il carattere ; e n’andai si franco e sicuro, che nelle successive rappresentazioni non ebbi nulla da modificare.

Atte era la Tessero, Egloge la Campi, Menecrate Belli-Blanes, Icelo Salvadori : non c’era male !

Il pubblico romano non fu all’altezza del poeta : Nerone piacque, ma…. nulla più. Fu come un successo di stima, e si replicò, come s’usa dire, per onor di firma. Da Roma passò in sei altre città, le quali, compresa Firenze, gli fecer la stessa accoglienza : fu solo nel carnovale ’71-’72 che sulle scene del Vecchio Teatro Re di Milano, il Nerone ebbe il battesimo degno di un gran pubblico e di un grande autore. Fu dato la prima sera per mia beneficiata di nome. Niuna réclame, niun annunzio su pe’ giornali. Pochini, pochini in teatro ! Ma questi pochini fecer chiasso per mille : fu un vero crescendo di ammirazione, di applausi, di frenesia. Il giorno dopo, tutto venduto ; era il teatro delle grandi occasioni…. il quale continuò, inalterato, per quattordici sere di fila. Fu una vera prova della elasticità e forza de’ polmoni miei e di quelli della povera Adelaide. Fu chiamato Cossa da Roma, onde sull’animo suo fosse viva la voce dell’entusiasmo che Milano tributava al poeta. Povero Cossa ! Quanta riconoscenza tributava il suo cuore a noi, modesti esecutori del suo lavoro. Egli tradusse poi in atto le speranze che di lui si eran concepite ; ma se Bellotti non accettava il lavoro, se Milano non era all’altezza dell’autore, chi sa se l’umile maestro avrebbe potuto diventare il pittore di quell’epoca, a cui poteva egli solo dar vita sulla scena.

Biagini-Pescatori Giuseppina. (V. Pescatori).

Bianchi (De) Ludovico. È quel famoso Lodovico da Bologna (V. Andreini Francesco) che recitava le parti di dottore in quella Compagnia de’Gelosi, di cui tutte le parti erano singolari, col nome di Dottor Gratiano Partesana da Francolino, a differenza del Bagliani che aveva preso quello di Forbizone da Francolino, sotto il qual nome G. C. Croce pubblicò la sua Libraria (V. Fargnoccola). Del Bianchi sono lettere nell’Archivio di Stato di Firenze (Cart. Univ.) dirette a Ferdinando I de’Medici, già pubblicate da A. Bartoli nell’introduzione a’suoi {p. 405}Scenarj, dalle quali si può vedere con quanta dimestichezza solesse usar col Granduca. Ne riporto la prima, assai notevole per le sciocchezze dottorali di cui è piena, e per la traduzione che lo stesso Bianchi ne dà.

Dal Gratiano Innamorato del Codice Corsiniano :

« Raccolta di Scenarj più acelti d’Istrioni. »

Ser.mo Gran Duca mio S.re

Pe recar denari a V. A. S. la prima messa a me fritta a fiore di lorenza alla tavella regulare di V. A. S. di forarmi appresso a uno staro delle primicie cuccie dal peggio che se avemia da falare gli mondo ceste porche regole a trento che gli riferiscono la marmoria di merendarmela al secondo del organo e costì acorrere vi do argumentando caricresendo querela ch’io Sansone orbo ligado per mia panirola dappresso un staro a V. A. S. la quila partorirà quarto primiere semino appresso a terra l’oca in un cassone et con sequestro un milion di monte et un miglio in cane le vinte mane agli impegolando ogni facilità e continento.

Per ricordare a V. A. S. la promessa a me fatta a Fiorenza alla tavola regale di V. A. S. di farmi apresentare delle prime caccie dal Poggio che se haveano da fare, gli mando queste poche righe attento che gli rinfreschino la memoria di mandarmela secondo l’ordine, et così ancor io vado agumentando et crescendo quello ch’io sono obligato per mia parola d’appresentare a V. A. S. la quale portarò quanto prima se mi appresenterà l’occasione ; et con questo humilmente me gli inchino, baciandole le invitte mani, pregandoli dal Cielo ogni felicità e contento.

Di V. A. S.
Humil. servo
Lodovico De’ Bianchi da Bolo gna
detto il Dottor Gratiano.

Altra lettera del Bianchi fu pubblicata dal D’Ancona. In questa (Cart. Univ. G. D. F.co), con data di Venezia 1587, annunzia l’invio di qualche sua opera, che il D’Ancona ritien probabile fosser le Conclusioni, di cui parlo più innanzi, stampate appunto in quell’anno.

{p. 406}

Come le Compagnie drammatiche dipendevan, si può dire, assolutamente dalla Corte di Mantova, così era frequente negli attori il balzar di compagnia in compagnia per soddisfare al voler del Padrone. Ora è Pedrolino che si vuol togliere alla Vittoria, ora è il Gratiano che si vuol togliere ai Gelosi. Talvolta i comici accettavano a occhi chiusi, talvolta il capocomico si raccomandava affinchè non fosse privato del tale attore o della tale attrice, talvolta anche i comici si rifiutavan di andare, o dando garbatamente le ragioni del rifiuto, come abbiam visto per Francesco Andreini, o mettendo condizione come vediamo pel Bianchi ; il quale, fatto invitare dall’ambasciator del duca in Milano il 20 luglio del 1585 di recarsi a recitare a Mantova nella Compagnia della Diana, rispondeva che avrebbe servito S. A. ogniqualvolta Ella avesse fatto andare con lui Giulio da Padova (il Pantalone Pasquati, pur de’Gelosi) perchè – faceva sapere il Bianchi – senza di lui non era possibile far cosa per bene. (V. D’Ancona, op. cit.).

Le Cento | e quindici | conclusioni | in ottava rima | del Plusquamperfetto | Dottor Gratiano Partesana da | Francolin Comico Geloso, | & altre manifatture, & Compositioni | nella sua buona lingua (s. d. nè l.), comprendono : una ottava alli lettori sotto il presente ritratto ; una lettera dedicatoria all’illustrissimo, et eccellentiss. signor Don Virginio Orsino Duca di Bracciano, ecc., e 23 ottave di conclusioni : a queste si aggiungono 10 ottave per gli Utroni, e le Quattro Stagioni. La stessa operetta è citata dal Guerrini al N.°58 del suo saggio {p. 407}bibliografico (op. cit.) come opera di Giulio Cesare Croce ; ma è un errore evidente ; poichè la lettera dedicatoria in data del 1587 è sottoscritta da Lodouico Bianchi da Bologna. Alias Dottor Gratian partesana della vera Compagnia delli Comici Gelosi. Le conclusioni son tutte una insulsaggine ancor più insulsa di quelle usate nella lingua graziana : eccone un saggio :

3. Vn che sempre habbia stort, mai ha rason.

4. La nav ch’è in alto mar è via dal port.

9. Vn stort e un gob non sarà mai drit.

13. Vn Ferrares non sarà Mantoan.

22. Vn che sia adormentà non è svegiad.

24. Vn infermo se può dir amalad.

30. Vn fiol che sia nassù, vist al present,

ha manco tempo, che non ha so par.

E via di questo tenore.

La maschera del Dottore come quella del Capitano, mutava il paese e il nome senza mutarne l’essenza : e mentre quella del Capitano anche poteva mutar foggia di vestire ad libitum degli attori, la maschera del Dottore, sotto qualsiasi nome fosse rappresentata, manteneva invariato il suo costume professorale, togato, nero da capo a piedi, con modificazione lievissima dall’antico al moderno. (V. Materazzi). Si chiami egli Partesana come il Bianchi, o Forbizon come il Bagliani, o Baloardo come il Lolli, o Spaccastrummolo come il Soldano, o Balanzoni come il Lombardi, o Grazian de’ Violoni come il Chiesa, o Scatolone come il Francesconi, o Campanaccio (le nuove Pazzie del Dottore), o Hippocrasso (l’Erofilomachia), o altro ancora, il Dottore è sempre il solito ignorantone, saccentone, che sputa sentenze, con mescolanza inevitabile di latino maccheronico, di citazioni spropositate, di etimologie bislacche.

Secondo il Riccoboni, a dir vero (op. cit.), piacque a taluno rappresentar la maschera del Dottore con serietà ; ma di tal maniera non ci resta esempio scritto, fuorchè sotto il nome di Pedante, nelle rappresentazioni più o meno classiche : segno evidente che il tipo vero del Graziano ebbe al cospetto del {p. 408}pubblico per base unica la saccenteria ignorante, la etimologia insulsa, la storpiatura grottesca de’vocaboli, la buffoneria delle citazioni latine.

Ecco quel che il Riccoboni dice in proposito :

La Città di Bologna, in Italia, che è il centro delle scienze e delle belle lettere, e dove sono una così celebre Università e tanti collegi di paesi stranieri, ci ha sempre fornito un gran numero di scienziati, e sopratutto di dottori, che avean le cattedre pubbliche di quella Università. – Essi vestivan la toga e in iscuola e per via ; e saggiamente si pensò di far del dottore bolognese un altro vecchio che potesse figurare al fianco di Pantalone, e i loro due costumi divenner, l’uno accanto all’altro, di una irresistibile comicità.

Il Dottore è un eterno cicalone che non saprebbe aprir bocca senza metter fuori una sentenza o una citazione latina. Non è fuor del possibile che sia preso questo {p. 409}carattere dal vero. Noi vediamo oggi ancora e medici e pedanti far lo stesso. Vi son stati de’ Commedianti che sul carattere del Dottore la pensaron in modo diverso. Gli uni impresero a parlar come si conviene, a declamar tirate scientifiche ed eruditissime, ornate di citazioni latine tratte da’ più gravi autori. Gli altri volsero il carattere più al comico, facendo del Dottore più che un sapiente, un ignorante, che parlava il latino maccheronico di Merlin Coccajo, o di quella specie al meno. I primi era giuocoforza sapessero qualcosa, per non lasciarsi sfuggir di bocca in buona fede qualche solecismo. I secondi, oltre a codesto saper qualcosa, dovevano anche aver del genio ; però ch’io son persuaso volerci assai più di mente per adattare a storto una sentenza, che per ispacciarla nel suo giusto senso.

E il Perrucci, che colla sua arte rappresentativa ha gettato veri sprazzi di luce in mezzo al bujo che avvolge le nostre scene ne’secoli xvi e xvii, dice :

La parte del Dottore non ha da esser tanto grave, servendo per le seconde parti di Padre, ma per la vivacità dell’ingegno, per la soverchia loquela può darsele qualche licenza d’uscire dalla gravità ; ma non tanto che si abbassi al secondo Zanni, perchè allora sarebbe un vizio da non perdonarsele ; il suo linguaggio ha da esser perfetto Bolognese, ma in Napoli, Palermo ad altre città lontane da Bologna, non deve essere tanto strigato, perchè non se ne sentirebbe parola, onde bisogna moderarlo qualche poco, che s’accosti al Toscano, appunto come parla la nobiltà di quell’inclita Città, e non la Plebe, di cui appena si sente la favella : onde allora ch’ebbi la fortuna di esservi, al mio Compagno sembrava d’esser fra tanti Barbari, non intendendo punto quella lingua. Ha da esser erudito per dir a tempo e luogo qualche sentenza latina, qualche testo, o qualche autorità di Dottore.

Ancora :

Molti anni sono s’introdusse un modo di recitar da Dottore, che stravolgea i vocaboli, v. g. Terribil orinal, per Tribunale, Amerigo frega la groppa all’Asino, per dir : l’America, l’Africa, l’Europa e l’Asia, e così si cavava la risata dal nome storpio, che da’ Greci si chiama paranomasia : ma perchè si conobbe far il Dottore da troppo semplice e balordo, si è disusato, restando questi scherzi al servo sciocco, di cui possono esser più proprj, lasciando al Dottor Graziano la Dottrina soda ed erudita, ma accompagnata dalle dicerie lunghissime.

E qui il Perrucci dà al solito esempi di Consiglio, di Tirate, di Persuasione allo studio, di Consiglio Generale. Scelgo il terzo, quello della

persuasiva allo studio

L’è l’hom al mond senz’al saver, sicut asinus sine capistro, perchè se non ha el cavezon, ch’el mena per la strada de la virtù, el va a scavezacol al prezipiz. Le appunt sicut Porcus in luto ; chè se non s’ingrassa col beveron de la dutrina, al resterà sempr’ secc, e magr com stornel, el no sarà bon per ingrassar la minestra de la conversazion ; al è un Papagal int’al Bosc’ ch’al non articulat verba, de mod che se dal maester non l’è {p. 410}post int la gabbia, e vien ammaistrà ad articolar i azzient, non l’è pericol che sepa na gotta. A l’è al Boja mal pratic, che no savend struzer la ignuranza, al s’espon al pericol d’ì sassà del popol. A voi mi pertant che ti set l’Asen, ma col cavezon meæ disciplinæ. El porc, ma col beveron de me document. El Papagal, ma ch’el sapia reddere voces. El Boja, ma pratic, che te possa jugulare ignorantiam. Perchè de ti non se possa dir : Asinus ad liram, Porcus ad glandes, Psittacus in Nemore et Carnifex in Furcis ; ma Asen cargà de sapienza per andar al mulin del Tribunal a smasenar el frument de le ciàciare ; Porc gras de Dutreina per ingrassar le Pentole dell’ Accademie ; Papagal int la gabbia de la Cort par saver adular el prossim, e Boja nel pubblic par struzer l’ignuranza, avend’i applaus d’i ragazz : e così ti sarat l’Asen d’or d’Apulei, ch’ l’era Asen, ma filosof ; el Porc d’ Enea, ch’al fu prognostic del Regn ; el Papagal ch’el dsè ad ottavian : Ave Caesar Imperator, e al Boja di Tedesc, che avend tajà più melone, al divien cavalier. In sto mod, ti t’ sarà l’Asen, al Porc, al Papagal, al Boja, e mi al Cavezon, al Beveron, al Maester, e la forca par fet pratic int ’al mstiir.

Ecco per quel che concerne la maschera del Dottore le parole di Pier Maria Cecchini, il famoso Fritellino :

La parte del Dottor Gratiano tanto grato à chi l’ascolta (quando vien fatta da chi l’intende) vien hoggi dal poco conoscimento d’alcuni adulterata in guisa, che non gli vien lasciato altro, che ’l semplice nome.

Ditemi, e chi è quello il quale possa trattare senza sdegno, con uno, che essendo tu Pantalone ti dica. Piantalimon, Petulon, Pultrunzon, e peggio ? & poi nel fine dopo mille ingiurie ti convenga darli tua figliuola per moglie ?

Vn’altra spetie Gratianatoria si è ritrouata, ed è che pensando questa di correggere l’vso del parlar rouerscio, si è posta à dir latini, & sentenze, con tirate, & ponga di memoria in guisa, che non lasciando mai parlare chi seco tratta, confonde, & snerva il filo della Fauola, & la mente di chi ascolta, che non riman campo per intendere, & molto meno per capire l’orditura de’ negotij ; e chi è poi colui, che voglia far credere agli Scolari di questa Scuola, che faccino, & dichino male, se ogni giorno cento beuanti gli fanno fede, che sono i primi huomini del Mondo ?

Per rappresentare adunque (secondo il mio senso) questo così gratioso personaggio direi che quello il qual si dispone di portarlo in iscena, si formasse ben prima nell’ idea un tal huomo il quale voglia esser moderno al dispetto dell’antichitá, & che a tempo isguainasse fuori sentenze propositate quanto alla materia ; ma sgangherate quanto all’espressura, il condimento delle quali fosse vna lingua Bolognese in quella forma, ch’ella viene essercitata da chi si crede, che non si possa dir meglio, & poi di quando in quando lasciarsi (con qualche sobrietà) vscir di bocca di quelle parole secondo loro più scielte ; ma secondo il vero le più ridicole, che si ascoltino ; come sarebbe a dire. Interpretare, per impetrare, vrore, per errore. Secolari (credendosi di parlar Toscano) per Scolari, & altre simili, che non vituperano la patria & il personaggio.

Bisognarebbe anche tal volta dar di piglio a qualche materia sciocca, treuiale, & molto ben conosciuta, & quiui mostrare, o finger di credere, ch’ella sia la più curiosa, la più noua, & la più incognita cosa del mondo ; onde senza dar punto segno di ridere darsi a credere di hauer fatto stupire.

Questo personaggio malamente descritto dalla mia penna, vorrebb’esser maneggiato da chi hauesse pensiero di accender un gran doppiere al picciol lume di questa fiaccola da me solo allumata per iscorta, & non permeta, poich’io mi rendo sicuro, che il fine di colui, che vorrà far da Gratiano, sarà di voler far a suo modo.

{p. 411}

MARCHE COMIQUE.

Voyez-vous ce Docteur sur sa digne monture,
Qu’accampagnont Pierrot suivie d’autre bonfons,
Et qui pour annoncer sa grotesque figure,
Remplit l’air de ses mauvais sons ?à Londres du Major.
Il est bien des Docteurs de pareil caractere,
Qui sont de leur mérite eux mêmes les hérauts,
Et dont tout le talent ne consiste qu’à faire
Beaucoup de bruit devant les sots.
{p. 412}

Anche Domenico Bruni detto Fulvio, comico confidente, ha fra gli altri un prologo da Pantalone (V. Pasquati) e uno da Graziano, che è un rincorrersi di citazioni latine, di nomi e di aggettivi da far venir la pelle d’oca all’attore e all’ascoltatore. È probabile che col proferir speditamente e tutte d’un fiato quelle parole, traendo all’ultima un grande sospiro, si ottenesse allora, come s’è visto accadere oggidì con qualche comico dialettale, un clamoroso effetto d’ilarità.

A un dato punto il Dottore dice :

Però essend tra un alligad e culigad la grazia, l’affabilità, la benignità, l’allegrezza, la zuvialità, l’amicizia, la carità, la furtezza, la gajardisia, la diligenzia, l’industria, la duttrina, le litter, la liberalità, la magnanimità, la mansuetuden, l’humiltà, la pase, la piasevolezza, la temperanza, la subrietà, l’hunestà, la cuntinenza, el valor, l’ardir, la virtù, la sapienza, l’humanità, la giustizia, l’equità, la libertà, la nobilità, l’hubidienza, la quiet, la prudenza, la pruvidenza, l’eloquenza, la facondia, la secretezza, la fideltà, la lealtà, la sincerità, la gratitudin, la clemenza, la magnificenza, la gloria, la fermezza, la custanza e l’esser hom da ben, chi serà quel razza de boja impastà, inzenerà e compost de maledicenza, murmurazion, accidia, busia, falsità, sfazzadazin, pigrizia, aruganza, detrazion, vanità, ambizion, negligenza, ingratitudin, lasivia, fraude, tradiment, adulazion, ipocrisia, rapina, seleragin, infelicità d corn ; per far che al sipa un hom maledich murmurador, accidios, busard, fals, sfazzà, pigr, arugant, detrador, van, ambizios, neglizent, ingrat, lassiv, fradulent, traditor, adulador, hipocrit, rapinador, scelerad, infelis e cornud, che voja dir el cuntrari ? Se al jè ch’ el parla, ch’ inanz ch’ el finissa de dir al se sintirà una tempesta de mintide zo per la gola, difficile impedire unum multos ……

E conclude :

Se, numerus ternarius ad quascunque controversias dirimendas maxime idoneus, ut qui principium medium et finem habet, segond Dionisi Alicarnaseo, notate observatio inaudita, e po stà zitt’. Tre cose hari havù da mì : el vegnir, el star, e l’andar : el star è sta quest qui, el vegnir è sta de là, e l’andar l’è per dezà.

Per quel che concerne l’origine della maschera del Dottore, dice il Sand (op. cit., II, 30) :

La maschera nera che non copre se non la fronte e il naso del Dottore, le sue guancie d’un rosso esagerato, son la satira personale d’un giureconsulto bolognese del decimosesto secolo, che avea una gran macchia di vino in tutto un lato della faccia.

E questa è l’opinione accettata dai più, i quali anche son d’accordo nell’affermare che la maschera del Dottore cominciò ad aver vita sulle scene italiane verso il 1560 per opera di Luzio Burchiella. Vediamo.

{p. 413}

Olindo Guerrini a pag. 123 della citata opera sul Croce, dice :

Se non sotto questo nome (Grasiano da Francolino), pure la caricatura del legista cattedratico del vecchio studio bolognese deve essere, quasi quanto lo studio stesso, antichissima. Inutilmente il P. Adriano Banchieri, sotto il nome di Camillo Scaligeri della Fratta, nel suo Discorso sulla lingua bolognese, vorrebbe sostenere che il Dottor Graziano non è bolognese. Egli cita in prova della sua asserzione i seguenti versi macaronici :

Ego Gratianus sum Franculinensis
Filius quondam d’ Mser Tomas ;
Nobilis civis erat Mutinensis
Oculos habens d’fora dal nas.
Catlina Mater mea Ferrariensis
Appellabatur d’casa Bambas ;
Gratianus vero addotoratus est
in Bologna, dal trenta, l’ann dal bsest.

Versi, secondo il Banchieri, dovuti ad un poeta comico.

Ma questa ottava prova il contrario : prova che Graziano, per quanto portasse il nome di diverse patrie, parlava pretto bolognese, era dottore bolognese, o meglio satira di dottore.

Io non vedo come da questa ottava si possa trar la prova che il Graziano parlava proprio il pretto bolognese : tanto più poi che sappiamo dal Cecchini (L’Amico Tradito. Venezia, Bona, 1633) che poteva essere il Dottor Gratiano da Bologna, o da Ferrara ; e lo vediamo nelle Favole dello Scala, talvolta di Pesaro, tal altra di Napoli, o di Venezia, o di Milano, o di Firenze.

Anche dice il Guerrini, al proposito dell’autor vero di un Trattato delle virtù morali già attribuito a Roberto Re di Napoli, e riconosciuto poi per opera di Bonagrazia, Graziolo, o Graziano de’ Bambagioli, bolognese :

Resta intanto che fu dottore, letterato e mescolato alle faccende politiche del suo tempo. Se dunque l’ottava maccaronica riferita dal Banchieri ha qualche fondamento nella tradizione, se il comico che la fece, ed è quasi impossibile credere il contrario, verificò una genealogia del dottore da Francolino accettata ed ammessa nel teatro e nelle sue tradizioni, questo Graziano figlio di una Bambagi ed il dottor Graziano de’ Bambagiuoli potrebbero avere vincoli di parentela così stretta da scambiarla per identità. Così la maschera bolognese, il dottore, sarebbe ben più antica di quel che si crede e logicamente da riferirsi ai tempi più floridi dello Studio, quando Bologna forniva di dottori tutto il mondo civile.

{p. 414}

A questo punto io richiamo l’attenzione degli eruditi sopra una strana coincidenza di nomi, fin qui, credo, non avvertita.

Graziano era dunque figlio di un Messer Tommaso e di una Caterina Ferrarese di casa Bambagi ? Bene : con questi nomi noi ci troviam di fronte a quel Tommaso Bambagi, per l’appunto Ferrarese, del quale scrive il Petrarca nella lettera a Pietro da Bologna Retore, descrivendogli le feste e gli spettacoli, ch’ ebber luogo in Venezia per la vittoria di Creta.

Mi servo della traduzione di Giuseppe Fracassetti (Firenze, Le Monnier, 1869, Vol. IV) :

…. E da Ferrara a tal uopo avevan chiamato Tommaso Bambasio, del quale voglio che tu sappia, e se la mia voce può giungere creduta ai posteri, sappiano anch’essi che in tutto lo Stato veneto egli è riguardato come un tempo Roscio fu in Roma, ed è a me caro ed amico, quanto fu questi a Cicerone.

E qui si dà a descriver con evidenza di particolari la Corsa magnifica, a diriger la quale era stato chiamato il Bambagi. Veramente non ha che veder l’arte di Roscio con una corsa di cavalieri isolati a lancia in resta : ma nulla impedisce di credere che a tale spettacolo potesse essere preposto un commediante, il quale sappiamo anche essere stato perfetto suonatore, dacchè il Petrarca a lui lasciò nel testamento il suo leuto, non perchè il suonasse per suo diletto, ma a eterna gloria di Dio. Anzi dalle parole del Petrarca il Napoli Signorelli desume anche la frequenza di rappresentazioni teatrali nel secolo xiv, chiedendo :

Se non avesse questo ferrarese dati in Italia continui saggi della sua eccellenza in tale esercizio, l’avrebbe il Petrarca paragonato a Roscio ? E che mai avrebbe egli rappresentato ? Forse i muti misteri, o le buffonerie di cantimbanchi ? Ma con simili cose avrebbe meritati e gli elogii che sogliono darsi a’ dotti artefici e l’amicizia di un Petrarca ? Dovettero dunque in quell’ età esservi favole sceniche in copia maggiore di quello che oggi possa riferirsi.

Le parole del Petrarca dicon davvero troppo poco ; e non mi pare sia il caso di dedurne recisamente la conseguenza del Signorelli. Possibil mai che una notizia di sì gran momento non avesse solleticato la curiosità de’ letterati che sino al secolo xvi trovaron le scene del nostro teatro di prosa ravvolte della più fitta tenebra ? Come è probabile che un commediante {p. 415}fosse preposto a giostre e tornei, così è anche probabile che si desse in quel tempo il nome di Roscio a chi si mostrasse espertissimo di cose teatrali in genere, quali la musica, le giostre, i tornei, la declamazione, il canto…. Comunque sia : il nome di Roscio c’ è, e le conseguenze del Signorelli, come semplice ipotesi, non sono da escludersi.

Bianchi Giuseppe, detto in commedia Capitan Spezza-ferro. Traggo le notizie dall’ Histoire de l’ancien théâtre italien dei fratelli Parfait.

Tiberio Fiorilli, il celebre Scaramuccia, avutone il permesso dalla Corte nel 1668, venne in Italia, ove stette fino al 1670. In questi due anni di assenza da Parigi, fu sostituito sulla scena da un nuovo comico italiano, valorosissimo, che fece di ben poco rimpiangere il celebre suo predecessore, come abbiamo da una lettera in versi del 21 aprile 1668 di Robinet. Lo stesso Robinet in altra lettera dell’ 8 marzo 1670 ci fa sapere come, tornato Fiorilli d’Italia, e ripreso il suo posto in compagnia, l’attore che lo aveva in quei due anni sostituito, assumesse la maschera del Capitano :

Depuis peu l’ancien Scaramouche,
qui paroit une fine mouche,
est dans sa troupe de retour,
et divertit des mieux la Cour.
Celui qu’on voyoit en sa place,
en changeant d’habit & de face,
s’est en Capitan érigé, etc. etc.

Ma qui parmi che il Robinet abbia torto, poichè, non già al ritorno di Scaramuccia assunse l’attore che lo sostituì la maschera del Capitano, ma assai probabilmente tornò alla maschera antica, poichè sappiamo dal Soleirol come il Bianchi facesse già le parti di Capitano nel 1645.

Nel 1645 il duca di Ghisa, partendo per l’Italia, fece dono della sua guardaroba ai principali attori di Parigi : essa fu divisa fraBeauchâteaudell’Hotel de Bourgogne, Giosia di {p. 418}SoulasdettoFloridordel Teatro delMarais, il Capitano (Giuseppe Bianchi, direttore ?) della Comedia italiana, la Béjart, Carlo Beys e Molière dell’ Illustre Teatro.

[n.p.]

Spezza Ferre.

Ce Capiton, fait grand esclat.
Et sa valeur est si parfaite.
Ou il est des derniers au combat.
Et des premiers à la retraitte
[n.p.]

Le Capiten Spezza ferre

Spezza ferre est rude a l’Espade
Mais ce n’est qu’en rodomontade

(H. A. Soleirol, Molière et sa Troupe. Paris, 1858, pag. 3).

L’interrogativo in parentesi è del Soleirol stesso. Il Moland recisamente afferma : la commedia più rimarchevole che rappresentasse la Compagnia di Giuseppe Bianchi fu un’opera mezzo comica e mezzo lirica, intitolata : La finta pazza (di Giulio Strozzi) rappresentata al Petit-Bourbon, il 14 dicembre 1645 (op. cit.).

Quanto al costume dello Spezzaferro, metto qui la riproduzione di due incisioni della Biblioteca Nazionale di Parigi, comunicatemi gentilmente dal signor Bouchot, Direttore in essa Biblioteca della Sezione Stampe. Come si vede, le due varie foggie di vestire del Capitano Spezzaferro non han che vedere colla terza prodotta da Maurizio Sand, la quale, per quante ricerche io abbia fatte, non mi fu dato trovare in nessuna antica incisione : nè mi fu dato rintracciar notizie de’ colori che il Sand assegna in modo assoluto alle sue figure. Nell’ Arlequin Lingère du Palais, del Gherardi, il costume di Spezzaferro è un misto dei due qui riprodotti.

Questo attore, secondo i Parfait, scomparve dalla scena verso il 1680, poichè d’allora in poi nè lo Scenario di Biancolelli, nè il Teatro di Gherardi ha più la maschera di Spezzaferro ; erronea deduzione, poichè l’ Arlequin Lingère du Palais (vol. I del Teatro di Gherardi) fu rappresentato la prima volta dai comici italiani del Re all’ Hôtel de Bourgogne il 4 ottobre 1682 ; e nell’ Industrie, prologo alle due operette Zemine et Almanzor e Les Routes du Monde, rappresentato alla Foire Saint Laurent, il 1730 (Théâtre de la Foire, raccolto da Le Sage e D’Orneval. Paris, m.dcc.xxxi, Vol. VIII), è Spezzaferro, non più Capitano, ma Cavaliere d’Industria, il quale, fra un ballo e l’altro, intuona una graziosa canzoncina musicata dal Gillier.

Nel Livre sans nom, p. 272, si trova il seguente aneddoto :

« Morto Spezzaferro, molto se ne parlò a Versailles. Il signor ……, medico di S. M., avendo detto che si era trovata {p. 419}in lui molta rassomiglianza con quell’attore, oh, v’ingannate — disse il Principe di …… — egli non ha mai ucciso alcuno. »

Non si sa se Spezzaferro fosse ammogliato : ma nell’ Arlecchino, Re per caso (Scenario Biancolelli), avendo Spezzaferro domandato di essere governatore di una Piazza di frontiera, assicurando ch’egli la custodirebbe bene…. « Bravo ! — rispose Arlecchino — proprio tu, che da vent’anni, non puoi custodire la moglie !!… » La spiritosaggine, se vòlta all’attore, fu atroce.

Bianchi Brigida. Figlia del precedente e moglie di N. Romagnesi, il rinomato Orazio della Comedia Italiana. Nacque nel 1613, e fu attrice pregiatissima per le parti di prima amorosa, che recitava sotto il nome di Aurelia. Si recò a Parigi verso il 1640 con Tiberio Fiorilli, e ne partì un anno dopo per poi tornarvi nel 1645 colla Compagnia che fu chiamata dal Cardinal Mazarino, di cui fecer parte le tre cantanti Locatelli, Gabrielli e Bartolazzi, come si ha dalla spiegazione dell’allestimento scenico e dagli argomenti della Finta Pazza di Giulio Strozzi, rappresentata nella Sala del Petit-Bourbon.

Anche la Bianchi doveva essere esperta del canto, come si rileva dalla seguente terzina caudata di un sonetto indirizzatole da Giuliano Rossi, quand’ Ella fu a recitare a Genova, probabilmente nel 1634.

Comm’ un Giove in tri de’ do sommo choro,
così in talenti, in gratia, in dote canto
fra ri comici Aurelia và un tesoro.
Ben l’è unna donna d’oro,
s’infin ro nomme mostra à ra desteisa
ch’ insomma à và tant’ oro quant’ a peisa.
(Cfr. Belgrano. Caffaro, 28 marzo 1886).

Fu ella, secondo il Sand, sorella di Orsola e Luigia che la seguiron nel 1645. La Orsola, nata a Venezia, sosteneva, prima di recarsi a Parigi, le parti di prima amorosa.

Fu Brigida Bianchi autrice di una commedia intitolata L’Inganno fortunato, ovvero L’Amata aborrita, e poetessa non {p. 420}delle peggiori. Quella dedicò alla Regina madre e fe’stampare a Parigi in 12° dal Cramoisi nel 1659 ; e il Loret (Muse historique del 31 maggio 1659), così ne scrisse :

Aurélia Comédienne,
Comédienne Italienne,
Comme elle est un fort bel Esprit,
Qui bien parle et qui bien écrit,
A fait un Prézent à la Reine,
D’un Livre sorty de sa Veine
En fort beau langage Toscan,
Et dont on fait bien du can-can ;
Ce Livre est une Pastorale,
De beauté, presque sans égale,
Et dont les Esprits délicats
Feront, assûrément, grand cas,
Etant si bien imaginée,
Et de si beaux discours ornée,
Que pluzieurs ont intention
D’en faire la traduction,
Ayans sceu que ladite Reine
A dit qu’elle en vaut bien la peine.

Non dunque si tratterebbe a voler del Bartoli di una traduzione dallo spagnuolo. Ma il Loret potea benissimo avere preso un granchio, tanto più che per semplice referto aveva dato erroneamente all’opera il nome di Pastorale.


L’ingano fortunato ou l’Amata aborrita, Comedia bellissima Ce Livre de Dame Aurélie,
(Un des beaux Esprits d’Italie)
Que la Reine si bien receut,
Sur un raport qui me déceut,
Fut, par moy, nommé Pastorale,
Dans mon autre Lettre verbale :
Mais pour m’être, alors, méconté,
Voyez-en le titre à côté.
Certainement, toute personne
Qui sçait cette Langue mignonne,
Estime fort ce Livre-là :
Mais c’est assez écrit, hola.
{p. 421}Pour recompenser Aurélie,
De la Pièce belle et jolie
(Sous le nom de Comédia)
Qu’à la Reine elle dédia,
Cette Princesse libérale,
Dont l’Ame est, tout-à-fait, royale,
Au jugement des mieux sensez,
Luy fit prézent, ces jours passez,
D’un paire de Pendans-d’oreilles
De diamans beaux à merveilles,
Ouvrage exquis, rare et brillant,
Travaillé des mieux, et valant
(Ainsi que m’a dit certain Homme)
De trois cens pistoles la somme.
J’ay vû, moy-mesme, ce beau don,
Et je jure par Cupidon,
Vainqueur des plus braves Monarques,
Que quand je vis ces riches marques
De la gratitude et bonté
De cette Auguste Majesté
Envers ladite Demoizelle,
I’en fus ravy, pour l’amour d’elle :
Car plus de deux ans il y a
Que j’aime cette Aurélia
Pour son esprit et gentillesse ;
Et je n’aprens, qu’avec tristesse,
Qu’icelle doit partir Mardy,
Soit devant, soit après midy,
Et retourner en diligence,
A Rome, Venize, ou Florence,
Pour exercer, en ces lieux-là,
Les aimables talens qu’elle à.

L’assenza di Aurelia non fu molto lunga, giacchè nel’ 60 ella era già di ritorno a Parigi, senza dubbio, dicono i Parfait (op. cit., 25), per la morte di Romagnesi, suo marito. A ogni modo, ella continuò a recitare a Parigi sino all’anno del suo ritiro dalle scene, che fu il 1683.

{p. 422}

Aurelia avvezza al soggiorno di Parigi, vi si stabilì e prese casa in via S. Dionigi, vicino alla comunità di San-Sciomonte, ove morì nel novembre del 1703 a novant’anni.

La Bianchi fu bellissima donna ; e serbò sempre un gusto de’più raffinati nell’adornarsi ; e riferisce il Gueullette, come la Belmont, moglie del nipote di Aurelia, attore della Commedia italiana sotto il nome di Leandro, gli dicesse di averla veduta nel suo letto, donde omai non usciva più, eccessivamente ornata, e pur sempre conformantesi al sopravvenir delle mode.

Fu assai stimata e amata da Anna d’Austria, della quale, come il Fiorilli, poteva dirsi veramente intima.

Delle poesie di lei vider la luce alcune Poesie musicali composte in diversi tempi, aggiunte alla prima edizione dell’Inganno fortunato, e una raccolta di rime, intitolata : Rifiuti di Pindo, edita in Parigi nel 1666, in 12°, sotto’l nome di Aurelia Fedeli, a proposito del quale si levaron dispute e contese fra’letterati : quello sostenendo che fu per semplice error di proto stampato Fedeli e non Fedele, cioè Aurelia, comica fedele ; questo immaginando che il nome di Fedeli sia quello d’un secondo marito, dovendosi escludere l’error del proto, il quale sarebbe stato continuato da lei e dal figlio di lei, che nelle sue liriche indirizza una poesia a Brigida Fedeli sua madre, a cui tien dietro subito la risposta della signora Brigida Fedeli, madre dell’autore. Questa è opinione di Giuseppe Martucci (Rassegna Naz. del 1 marzo 1888), il quale cita anche in appoggio il Baillet quasi contemporaneo di lei. Io son sempre per la prima ipotesi, aggiungendo l’altra che col nome di teatro e con quel della Compagnia a cui appartenne, abbia fatto per un volume di versi un nome di guerra. Che altri la chiamasse pel suo nome di guerra, capisco : ma non capirei che altri potesse chiamarla col nome del secondo marito (e il figlio specialmente), giacchè sappiam per uso come un’attrice porti con sè oltre la tomba il nome col quale diventò famosa. Così tutti san chi fu la Polvaro, la Bettini, la Cazzola, la Tessero, e chi è la Ristori, la Pezzana, la Duse, la Campi ; pochi assai chi fosse l’Angiolini o {p. 423}Pezzana, la Minardi, la Brizzi, la Guidone, e chi sia la Capranica, la Checchi, la Gualtieri, la Piatti. E poi : se, nonostante il marito Romagnesi, ella fu per tutti la Brigida Bianchi, tutt’a un tratto avrebbe mutato il suo nome glorioso per quello d’un nuovo arrivato ? E il figliuolo l’avrebbe permesso ? Perchè non Brigida Romagnesi prima, e Brigida Fedeli dopo ?

Comunque sia, quel che più preme, che cioè l’Aurelia Fedeli e la Brigida Bianchi fosser la stessa persona, è omai fuor di dubbio ; com’è fuor di dubbio che, dagli esempj che ne dà il Bartoli, e più specialmente il Moland in una sonetto che qui riproduco, si capisce chiaro come questa donna, al pari delle sue gloriose preceditrici, riuscisse nel poetare assai più che sufficientemente.

Voi col pennello il mio ritratto fate,
et io con la mia penna formo il vostro ;
voi stemprate i colori et io l’inchiostro ;
io carta adopro e voi tela adoprate.
Voi mi pingete bella e mi adulate ;
io non vi adulo e il vostro bel dimostro ;
voi fingete di me l’avorio e l’ostro ;
io non fingo di voi le glorie ornate.
Dunque cedete a me ne la disputa :
io verdadiera sono e voi mendace,
benchè maggior di spirto e molto acuta.
Poesia è una pittura ch’è loquace,
e se pittura è poesia ch’è muta,
merta fede chi parla e non chi tace.

Inoltre : non parrebbe strano davvero che il Campardon e il Ial, solleciti raccoglitori di documenti, questi anzi tutto, non abbian accennato in alcun modo nè men di volo a questo Fedeli, italiano, venuto a Parigi non si sa d’onde nè quando ?

Bianchi-Zanerini (V. Zanerini-Bianchi).

Bianchi Andrea. Attore e capocomico pregiato. Ebbe fra i suoi stipendiati i migliori artisti della sua epoca ; e fra gli {p. 424}altri Demarini e Vestri. Ma, ahimè ! Momento passeggiero e ben rapido fu quello glorioso del capocomicato di Andrea Bianchi, il quale non finì certo la vita negli agi e nelle ricchezze. Lo troviamo agli ultimi del’700, conduttore di una Compagnia, nella quale egli sosteneva la maschera del Brighella.

L’annotatore dice di lui : Di questo vecchio non si può dir male ; mentre essendo vecchio nell’arte sapeva stare sulle scene ed era sicuramente il meglio che fosse in compagnia.

Nel 1812, la Compagnia fu addirittura rinnovata, se non migliorata.

Eccone l’elenco :


DONNE UOMINI
Prima donna Primo uomo
Ronzoni Antonietta Paci Luigi
Madre Caratterista
Fanfani Teresa Bianchi Andrea
Seconda donna Primo amoroso
Gherardi Giuseppa Ferroni Bandino
Padre
Serva Paladini Carlo
Graffi Anna Tiranno
Generiche Cavalieri Francesco
Paci Francesca Altri amorosi
Paladini Maria Marini Gaetano
Ceccatelli Giuseppe
Servolini Angiolo

Fece l’autunno (50 recite ; dal 10 ottobre sino al 10 dicembre) al teatro Castiglioncelli di Lucca, e l’annotatore, dopo aver chiamato la Ronzoni bella giovine e assai comica, il Paci buono, e il Bianchi assai buono, aggiunge in calce : Tutta la compagnia era cattiva, eccettuati vedi sopra : e però la compagnia restò senza un soldo e rovinata.

{p. 425}

E per dare un’idea del repertorio e dell’ambiente di essa, ecco, a titolo di curiosità, un

premuroso (sic)

AVVISO TEATRALE

Per la sera di sabbato 5 corrente

Premurosa tutta la rispettosa Comica Truppa nel voler dar prova del suo costante impegno per ben servire questo erudito, e dotto PUBBLICO, ha scelto per detta Sera una nuovissima Rappresentazione Spettacolosa, quale porta per titolo

L’INCONTRO DI VENTI REGI

all’assedio di troja

ossia

andromaca, e pirro.

Scenario, combattimento ad arme bianca, Vestiario analogo, nulla sarà ommesso, acciò il tutto corrisponda al merito della Rappresentazione. Dopo questa vi sarà un Terzetto ballato da tre Signori Dilettanti di Lucca, quali graziosamente si prestano, onde procurare un maggior concorso al Teatro, e nel medesimo tempo certi di acquistarsi il vostro aggradimento.

L’introito di detta sera è devoluto a particolar benefizio di Carlo Paladini Lucchese, Bandino Ferroni, e di Anna Greffi. Essi hanno cercato il modo di ben divertire questa amorevolissima Popolazione : onorate pertanto o LUCCHESI col vostro concorso gli umili Attori, e questi due Spettacoli ; perdonate loro ogni mancanza, mentre premiare il merito, proteggere la virtù è dovere ; ma il giovare e l’assistere chi di sì bei pregj è privo, proprio è soltanto di Anime grandi, sensibili, e generose.

Biancolelli-Franchini Isabella detta Colombina. In una casetta — dicono in nota i F.lli Parfait (pag. 105) — che Dominique (Domenico Biancolelli, il celebre figlio d’Isabella) avea comprata nel villaggio di Bièvre, vicino a Parigi, era un ritratto di sua madre in abito di città, con un paniere in mano, contenente due colombi, per allusione al nome di Colombina, ch’ella portava in teatro. E fu per questa ragione che una figlia di Dominique, la Caterina, assunse lo stesso nome.

Isabella Franchini aveva sposato Francesco Biancolelli, comico, del quale rimase vedova poco dopo il 1640, e dal quale ebbe tra gli altri il citato figlio Domenico. Carlo Cantù, comico, sotto nome di Buffetto, che aveva già ammirato e i meriti e le virtù di lei, la tempestò di lettere in prosa e in versi {p. 426}per piegarla a un secondo matrimonio. Ella, tuttavia addolorata per la morte recente del marito, si schermì gentilmente, assicurando che ove determinasse di passare a seconde nozze, non altri avrebbe preso che il suo Buffetto. Noi non seguiremo certo i due innamorati a traverso le loro peregrinazioni artistiche e amorose, nè metterem qui tutte le canzoni che in dialetto veneto il povero innamorato le indirizzava ; alcune di esse troverà il lettore al nome di Cantù. Basti sapere che il matrimonio tra Colombina e Buffetto parve a questo argomento sufficiente per essere tramandato a’posteri in un Cicalamento (Fiorenza, Massi, 1646), che pare a me, e certo parrà anche al lettore, documento interessantissimo per la storia del nostro teatro di prosa.

Quando tutto pareva combinato, ecco sopravvenire la invidia e gelosia de’comici, e inventare storielle, seminar zizzanie, allontanar momentaneamente i due promessi. Quindi i timori e dubbi e sospetti dell’una ; le proteste e assicurazioni e disperazioni dell’altro.

Ma ventura volle che Buffetto, il quale era comico al servizio del Principe Francesco Maria Farnese, dovesse andar con la sua Compagnia a Venezia ove si trovava a recitar Colombina. Immaginarsi la gioia di entrambi : Colombina gli fe’dono d’un suo ritratto in miniatura, del quale aveva già fatto promessa per lettera, e sul quale egli scrisse la seguente ottava :

Già fu il mio primo nome d’Isabella,
Franchini nel cognome fui chiamata,
Colombina tra’comici son quella,
Ch’ora qui tu rimiri effigiata,
Mi mutai di Franchini in Biancolelli,
Quando in Francesco già fui maritata :
Vedoa restai, & hora non son più,
Che son moglie a Buffet Carlo Cantù.

Tornarono all’assalto i comici, a lei dicendo rompersi il collo pigliando Buffetto, a lui avere essa dichiarato formalmente {p. 427}di non voler perdere la propria libertà…. A queste chiacchiere seguiron nuove scene tormentose, finite poi, al solito, con proteste di fiducia da un lato, di fedeltà dall’altro. E un giorno che l’Isabella col padre, la madre e i figliuoli era a colazione da Buffetto, egli la pregò di volergli lasciare per tutta la giornata il minor di essi Domenico Giuseppe, cognominato Menghino, d’anni 7 e mezzo, ma di tanta svegliatezza che il più delle volte si faceva a racconsolar con belle parole Buffetto dei suoi dolori. Sventuratamente una Staffetta del Serenissimo suo Padrone gli consegnò una lettera, nella quale era il comando reciso di recarsi fra due giorni a Modena, ove avrebbe dovuto recitare il carnevale, obbligato dal Principe stesso a quel Duca. Nuovi tormenti e non nuovi tormentati. Buffetto supplicò Isabella che gli lasciasse Menghino, il quale, perchè amavalo come padre, fu subito da tutti concesso. Qui un nuovo contrattempo venne a turbare la pace del povero Buffetto. Recatasi la Compagnia d’Isabella a Ferrara per farvi il carnevale, accadde che un de’suoi comici fosse colà ucciso ; per la qual cosa fu anch’essa cogli altri imprigionata. Ma ben passeggiero fu il dolore di Buffetto, chè ottenute raccomandazioni dal Principe stesso a Parma, riuscì a farla liberare. E perchè i comici avean fra l’altre stravaganze inventato che egli, una volta fatto il matrimonio, si sarebbe liberato de’suoceri, dichiarò di sposar Colombina senza dote, contraddotandola di cinquecento scudi, e obbligandosi di pagare a’genitori mille scudi, ove per cagion legittima non volesser più vivere con lui. E il contratto fu stipulato per mezzo di notajo, e le nozze ebber luogo nel duomo {p. 428}di Parma il giorno 15 di aprile del 1645. Compiute le quali, Buffetto con nuova generosità offerse alla moglie quanto egli aveva potuto avanzar nell’arte in quattordici anni circa. Il quale atto commosse per modo Isabella, che volle per la pace comune, e perchè nel loro contratto di nozze nulla esistesse che potesse dare appiglio a quistion d’interesse, mutar l’istrumento nella seguente maniera : che si leuasse a suo tempo di tutto l’haver di Colombina la prouisione douuta alli suoi tre figliuoli, e per lei le sue gioje, & argenteria al prezzo come fu stimato ; del resto fosse a metà tra marito e moglie, con il guadagno venturo, lasciandosi dopo la lor morte heredi uno dell’altro.

Pensi ognuno l’allegrezza del pover’uomo, il quale si sfogava a cantare :

Hora si, che son contento,
Causa che son maridado,
El mio cor è consolado,
Nè più ancor me dà tormento.
Hora sì, che son contento.

Ahimè ! Tanta gioia doveva essere offuscata da nube improvvisa e dolorosa. La Regina di Francia fe’istanze al Serenissimo di Parma per avere aggregato a’suoi comici Buffetto. Fu un fulmine ! Nessuno sapeva del matrimonio di Buffetto, e però l’invito era per lui solo. Come fare ? Andar Colombina a Parigi ? Ma ella era legata formalmente colla Compagnia di Bologna ; rifiutarsi lui di andare in Francia, disobbedendo a un volere del suo padrone e più che altro del suo benefattore ? Mise in mezzo terze persone, si raccomandò, supplicò, ma sempre in vano. Nullameno si tentò di consolarlo con belle parole. Colombina era già stata in Francia col marito Biancolelli ; era dunque conosciuta dalle LL. Maestà. Appena giunto in Francia, avrebbe potuto fare istanza presso di Loro per aver seco la moglie. È vero che colà era anche la servetta ; ma nessuna avrebbe mai potuto competere col valore di Colombina. La sua vedovanza non poteva esser dunque che breve. Egli veramente non trovò {p. 429}sollievo in tali parole ; chè troppo il pensiero della partenza gli martellava il cuore, per quanto il piccolo Menghino, che gli fu anche’sta volta compagno fedele, cercasse di fargli animo. Degli onori a lui toccati in Francia diremo all’articolo suo. Qui basti sapere che non appena Buffetto fe’cenno della moglie, e ciò fu, come ognun può credere, poco dopo arrivato, tutti a gara si adoprarono perchè ella lo raggiungesse al più presto in Francia, e S. M. stessa diede ordini per lettere al Serenissimo di Parma, concesse un passaporto, nel quale era detto che la Maestà della Regina aggregava Colombina alla Compagnia de’ Comici italiani ; e fe’dono di 100 scudi per le spese di viaggio. In quel tempo la Isabella era a recitare a Milano. Buffetto la sollecitò alla partenza ; ma ella, sopravvenuto l’inverno, passò con la compagnia a Piacenza, poi a Modena, senza aver ordine mai di lasciar l’Italia. Altre cagioni ben gravi le fecer prendere la risoluzione di scriver da Modena al suo amato Carlo, supplicandolo di non insistere oltre…. E le cagioni eran queste : il padre vecchio, la madre aggravatissima, e i figliuoli piccoli. La stagione (s’era in gennaio) rigidissima. I passi da Milano in Piemonte per la guerra non sicuri, e per mare impossibile andare perchè troppo soffriva. A queste parole il Cantù rispose da Parigi in data 4 febbraio 1646, una lettera piena di amarezza, colla quale nullameno assentiva a lasciar l’adorata consorte in Italia.

Quel che poi accadesse non sappiamo…. Il Cantù promise un’altra opera che avrebbe avuto per titolo : Ritorno di Francia in Italia, di Buffetto Comico in canzonette ridicolose ; e che non vide mai la luce.

Il tipo della Colombina, fu, certamente, un de’più antichi della commedia italiana, il quale troviam già dal 1530 nella Compagnia degl’Intronati, accanto all’altre serve Oliva, Fiametta, Pasquella, Nespola, Spinetta. Una delle prime imagini di Colombina abbiamo nel quadro di Porbus del 1572, nel quale egli ritrae un ballo della Corte di Carlo IX : il costume del nostro personaggio è quivi indossato da Caterina de’ {p. 430}Medici. Le Colombine più rinomate, o meglio, le sole rinomate del teatro italiano appartennero tutte alla famiglia Biancolelli. Alla Isabella successe la Caterina, figlia di Dominique, nel 1683, e a questa la Teresa, figlia di Dominique figlio nel 1739 ; in somma le nonne eran surrogate dalle nipoti. Ma la più celebre per versatilità, per istruzione, per viscomica, fu la seconda che recitò acclamata sino al 1697, e di cui avrò molto da dire, analizzando il tipo di Colombina nelle sue svariate forme.

Biancolelli Giuseppe Domenico, figlio della precedente, più noto in Francia col solo nome di battesimo « Dominique, » nacque a Bologna nel 1646 secondo i più, compreso lo Jal ; tra il’37 e il’38 secondo Carlo Cantù (Buffetto), il quale nel citato Cicalamento ci avverte aver avuto Menghino, il minor figlio d’Isabella, al 1645, sette anni e mezzo. Ed è il Cantù che lo chiama Domenico Giuseppe ; e Domenico Giuseppe è chiamato nel ritratto di Ferdinand che qui riproduciamo, mentre lo Jal non sa del secondo nome capacitarsi, non avendo mai trovato il Biancolelli, in quanti documenti abbia veduti, firmato se non col primo. Da tal Cicalamento parrebbe accertato avere avuta il Biancolelli la prima educazione da Carlo Cantù, dal quale, espertissimo Zanni, molto probabilmente accolse l’idea fondamentale del teatro e del tipo che dovea poi, non molti anni dopo, farlo al sommo famoso. Pare che egli recitasse, ancor giovinetto, nella Compagnia del celebre Tabarrini a Vienna, quando per invito di Luigi XIV, con lettera del 5 luglio 1661 al Duca di Parma, fu mandato a Parigi.

Il Duca di Parma più che protettore e benefattore, fu amico di Buffetto ; e durante le noie che questi ebbe a patire pel suo matrimonio con Colombina, il Duca potè conoscere e amare anche il piccolo Domenico, il quale, molto probabilmente, per intromissione e raccomandazione di Buffetto stesso, che volea bene al figliastro come a figliuolo, fu dal Duca mandato a Parigi per assumervi nella compagnia italiana la maschera dell’arlecchino. Dominique, stando sempre al {p. 432}Cicalmento (pag. 46) non si recò allora a Parigi per la prima volta : egli vi andò sul finire del’45, quando da quella Cristianissima Maestà vi fu chiamato Buffetto, il quale anche ci fa sapere come, presentate le commendatizie e ricevuti con ogni degnazione da’Sovrani e dall’eminentissimo Cardinal Mazzarini, fosser dati a Menghino e denari e un vestito bellissimo. I genitori, a ogni modo, avean recitato anni a dietro a Parigi, e la madre vi avea lasciato assai buona memoria : non dunque vi andava il figlio sconosciuto. Non mi fu dato rintracciare il titolo della commedia colla quale egli esordì : si sa solo che il primo Zanni della compagnia era Locatelli (Trivelino), e il secondo Biancolelli ; che, recitando con istraordinaria verità, finì col vincerla sulla recitazione raffinata, ma un po’manierata di Trivelino ; morto il quale, nel 1671, egli ne prese il posto, conservando la maschera di arlecchino, e diventando in breve l’idolo del pubblico.

Sposò il 2 aprile ’63 Orsola Cortesi (Eularia), da cui ebbe otto figliuoli, tre de’quali, due femmine e un maschio, seguiron l’arte de’parenti.

Povero Biancolelli ! La cieca devozione e un sentimento profondo di gratitudine verso il monarca, che a lui tante prove avea dato di benevolenza e di famigliarità, il desiderio vivissimo di servirlo fedelmente ogni qualvolta se ne porgesse occasione, furono il vero motivo della sua morte. Il maestro di ballo del Re, Pietro di Beauchamps, avea fatto un giorno alla Corte, in una specie di intermezzo che i comici italiani aveano inventato in una commedia che rappresentavan dinanzi al Re, un nuovo passo assai singolare che fu molto applaudito. Dominique, non meno eccellente ballerino che eccellente attore, si diede alcun tempo dopo ad imitare il ballo di Beauchamps, e vedendo quanto il Re prendesse diletto da quella parodia, maestrevolmente eseguita, la prolungò più che potè. Ma sciagura volle che, abbandonata la scena sudatissimo, egli prese tal raffreddore che, mutatosi di punto in bianco in polmonite, lo condusse in capo a pochi giorni al sepolcro : e ciò fu il 2 agosto 1688.

{p. 433}

La Comedia italiana restò chiusa poco men d’un mese in segno di lutto ; e il giorno in cui si riaprì, fu affisso ai muri di Parigi un manifesto, ov’era espresso tutto il cordoglio per la grave perdita, e tutto il rammarico per non saper come colmare la immensa lacuna.

Ecco lo stato della Compagnia alla morte di Dominique, che traggo dal prezioso manoscritto del Gueullette sullo Scenario del Biancolelli e sul Teatro italiano, esistente alla Biblioteca dell’Opera di Parigi.


Il Dottore Lolli
Eularia Cortesi vedova Biancolelli
Aurelia Brigida Bianchi vedova Romagnesi (Orazio)
Diamantina Patrizia Adami
Cintio Romagnesi Cintio
Aurelio Ranieri
Scaramuccia Tortoriti
Pascarello Fiorilli
Pierrot Geratoni
Isabella Fr. M. Ap. Biancolelli
Colombina Caterina Biancolelli
Mezzettino Angelo Costantini

Attori ricevuti dopo la morte di Dominique :


Ottavio al posto di Aurelio, G. B. Costantini.
Arlecchino al posto di Dominique, Evaristo Gherardi.
Marinetta Angelica Toscano, moglie di Tortoriti.
Leandro Carlo Virgilio Romagnesi, al posto di Cintio suo padre che prese il posto di Dottore invece di Lolli.
Spinetta Moglie di un attore italiano, Vittorio D’Orsi, che in Italia faceva i Dottori, fratello di Angiola.
Auretta figlia di Angiola.
{p. 434}

Dominique fu di statura più che mezzana, e snello…. ma innanzi di morire, impinguatosi alquanto, aveva perduto un po’di quella elasticità indispensabile alle parti di Arlecchino. Fu colla moglie naturalizzato francese nell’aprile del 1680, ed ebbe onori di ogni specie ; primo, la intrinsichezza di Luigi XIV ; al proposito della quale si raccontan gli aneddoti seguenti :

Gli attori della Comedia Francese volevano impedire a quelli della Comedia Italiana di parlare francese. L’affare si fece serio, e ne volle essere giudice lo stesso Re, che ascoltò gli avvocati delle due compagnie : Baron e Biancolelli. Allorchè il Baron ebbe terminato di perorare la causa de’suoi colleghi, il Re accennò a Biancolelli di parlare.

— Che lingua – disse al Re il bizzarro attore – vuol Sua Maestà ch’io parli ?

— Quella che tu vuoi – rispose il Re.

— Non m’occorre altro, Maestà…. La mia causa è vinta.

Baron voleva protestare, ma il Re, dopo aver riso della interpretazione spiritosa, conchiuse :

— Quel che è detto è detto, e non se ne parli più. — 

Assistendo una sera Biancolelli alla cena del Re, contemplava con occhio avido e invidioso due magnifiche pernici servite su di un piatto d’oro. Luigi XIV che se n’accorse, volto al direttore di tavola :

— Date – disse – questo piatto a Dominique….

— Come !… Sire !… – sclamò Dominique – anche le pernici ?

Il Re lo guardò un istante, poi, sorridendo, rispose :

— Anche le pernici !… — 

Nè a queste intimità si fermò la degnazione sovrana, chè Luigi stesso volle essere il padrino del primo figliuolo di Dominique cui fu messo il nome di Luigi, e che, entrato giovanissimo nella milizia, morì nel 1729 a sessant’anni circa, in Tolone, direttore delle fortificazioni nel dipartimento di Provenza, e cavaliere dell’ordine militare di S. Luigi. Molte commedie egli scrisse pe’l teatro francese, e solo, e in società col Du Fresny. (V. Teatro di Gherardi, vol. V e VI).

E per farsi un’idea della stima in cui era tenuto Domenico Biancolelli a Parigi, e della specie de’suoi ammiratori, protettori e amici, basti vedere nello Jal (op. cit., pag. 214 e {p. 435}segg.) la lunga sfilata degli alti personaggi che tennero a battesimo gli otto figliuoli.

Dopo la morte del grande artista il Mercurio di Francia pubblicò i seguenti versi :

SUR LA MORT D’ARLEQUIN

Les plaisirs le suivoient sans cesse,
Il répandoit partout la joie et l’allégresse.
Les jeux avec les ris naissoient dessous ses pas :
On ne pouvoit parer les traits de sa satire ;
Loin d’offenser elle avoit des appas.
Cependant il est mort, tout le monde en soupire.
Qui l’eût jamais pensé sans se deséspérer
Que l’aimable Arlequin qui nous a fait tant rire
Dût sitôt nous faire pleurer ?

Se egli avesse molta istruzione non è affermato : almeno il suo Scenario (V. F.lli Parfait, e Biblioteca de l’Opera di Parigi, che conserva lo Scenario intero trascritto da Gueullette) non ne è indizio certo ; e questo sembrò anche agli stessi Parfait. Ma quel che appare fuor d’ogni dubbio è che il Biancolelli aveva siffatta intuizione artistica, era siffattamente padrone de’così detti ferri del mestiere, de’salti, delle cadute, delle capriole, delle scalate arlecchinesche, da essere meritamente acclamato uno de’più forti artisti del suo tempo : il che parmi anche provato dalla somma ch’egli lasciò, morendo, agli eredi, la quale ascese a 100,000 scudi.

Biancolelli-Cortesi Orsola, detta Eularia in commedia. Moglie del precedente e figlia di Antonio Cortesi (Corteza, o Cortezzi, non so se comico anch’esso, ma, al dir della moglie, discendente nientemeno che del famoso Fernando Cortez, che fece la conquista del Messico) e di Barbara Minuti, attrice italiana col nome di Florinda. Esordì un po’prima di suo marito, come seconda amorosa nella Compagnia italiana, il 1660, e vi {p. 436}sostenne quel ruolo sino alla morte di Brigida Bianchi (Aurelia), moglie di Romagnesi (Orazio), la quale surrogò nelle parti di prima amorosa. Orsola Cortesi era alta, di figura slanciata ; non veramente bella, ma assai piacente. Lasciò il teatro nel 1691 e si chiuse il 1704 nel convento delle Filles-de-la-Visitation di Montargis, ove morì l’11 gennaio del 1718.

Con atto dell’aprile 1680, Orsola Cortesi e Domenico Biancolelli furon naturalizzati francesi, e con altro del 26 settembre 1691, epoca in cui la Cortesi abbandonò le scene, fu dato ordine ai comici italiani, e precisamente a Cintio (Romagnesi), a l’Ange (Lolli) e Mezzettino (Costantini), di pagare alla vedova di Dominique 1500 lire, come rimborso di quella parte di danaro che egli aveva speso per la compagnia in materiale di scena, ecc. ecc.

Fu la Biancolelli moglie esemplare : ed essendosi sparse contro di lei dicerie calunniose, per mostrare in che conto ella fosse tenuta dalla Corte, l’abbate Torta, limosiniere di S. A. R. Madame, le scrisse da St. Cloud, in data 10 agosto 1688 (otto giorni dopo la morte di suo marito), la lettera seguente che trovo trascritta e seguita dalla traduzione francese nel citato Manoscritto del Gueullette, e che ritengo tuttavia inedita :

Molto oss.da Signora,

L’altezza reale di Madama, che ha sentito con singolar disgusto la perdita irreparabile del Signor Domenico, che goda il Cielo, non vuole lasciar così dolorosa occorrenza, senza conceder a V. S. manifesti segni del suo dispiacere, insieme con certezza della sua protettione. M’ha perciò commandato S. A. R. di significargliene il motivo, considerando che non potrei da parte mia differir di partecipar con Lei le sue angustie, et invero hauendo io da tanti anni inuincibil notitia delle infinite prerogative con le quali V. S. veniva così strettamente conjunta col caro nostro difonto, ho campo di penetrare assai più che molti altri ne’sviscerati sui affani, supplico però la divina manc che Le ha fatta la piaga che si degni di sanarla con gratie, e consolationi proportionnate alla sua Virtù e che mi porga il Cielo la desiderata occasione di effettuare i caldissimi affetti con quali mi offerisco.

Di V. S. molto oss.ª

humilissimo ossequentissimo servitore
L’Abbate Torta.

Pubblicò a Parigi una sua traduzione della commedia spagnuola : La Bella brutta (Parigi, Guglielmo Lassier, 1666), {p. 437}che dedicò al Re. Il signor Di Pelletier preluse alla commedia nella stampa con questo madrigale :

Que puis-je dire icy de ce petit Ouvrage,
sinon qu’il m’a trompé dès la première page,
et je le regardois avec quelque froideur ;
mais après l’avoir leu hautement je proteste,
que dans le titre seul on trouve la laideur,
et qu’une Beauté eclatte en tout le reste.

Biancolelli-di Turgis Francesca-Maria-Apolline, figlia dei precedenti, nacque il 1664, ed esordì come amorosa alla Commedia italiana l’11 ottobre 1683 nell’Arlecchino Proteo, sotto nome d’Isabella, insieme alla sorella minore Caterina che recitò la parte di servetta, diventando poi la rinomata e incomparabile Colombina. L’esordire delle due ragazze non passò inosservato, fors’anco perchè figliuole di Dominique, il vero cucco del pubblico ; e il Mercurio di Francia dell’ottobre scrisse : « gli opposti personaggi ch’elle sostengono, son così al vivo rappresentati, che Parigi intera non ha cessato di applaudir le ed ammirarle. Non s’era mai visto in tanta gioventù sì gran copia d’intelligenza per la commedia. »

Francesca-Maria-Apolline Biancolelli abbandonò il teatro nel 1695. Aveva sposato nel 1691 Costantino di Turgis, ufficiale delle guardie, in mezzo a un cumulo di noje procurate dai rancori della famiglia di lui che non voleva quell’unione e che all’uopo intentò agli sposi un processo. La Biancolelli restò vedova il 29 aprile del 1706, e, caduta nell’indigenza, ottenne, per memoria del padre, da Luigi XIV, una pensione di 300 lire. Morì il 3 settembre del 1747 a 83. anni.

Biancolelli Caterina, sorella minore della precedente ; la più rinomata servetta del teatro italiano sotto il nome di Colombina, col quale fu celebre la nonna Isabella. Nel novembre del 1685 sposò a Fontainebleau Pietro Lenoir de la Thorillière, egregio comico del Re, della Compagnia francese, e continuò {p. 438}a recitar le servette alla Commedia Italiana sino all’epoca della sua chiusura che fu il 1697. Le fu offerto allora di entrare alla Commedia Francese, ma ella non accettò e si ritirò per sempre dalle scene.

Morì a Parigi il 22 febbraio 1716, poco innanzi che la Commedia italiana si riaprisse al pubblico per ordine del Duca d’Orléans, reggente, e sotto la direzione di Luigi-Andrea Riccoboni.

Ippolito Lucas, sul proposito de’tipi comici forastieri che servirono alla Commedia di Molière e di Regnard (La France qui rit, par Baumgarten. Cassel, 1880), dice di Colombina :

La Colombina era la compagna obbligata dei servitori astuti ; era la ragazza vivace e astuta, capace di tener fronte ad essi per spirito e destrezza. Colombina, or padrona, or serva, amante di Lelio, l’amoroso, o di Arlecchino, il servo, s’accosta più d’ogni altro tipo al carattere francese. Colombina è soprattutto coquette.

Colombina al pari di Arlecchino, ha generato un mondo di commedie, trasformandosi in migliaja di personaggi, senza però mai mutare essenzialmente il tipo primitivo della servetta birichina. Essa è avvocato, attrice, cantante, acquajola, contadina, contessa, figlia di Esopo o di Cassandro, serva o cognata d’Isabella o di Angelica, moglie di Mezzettino o del Governatore, ma soprattutto amante o moglie inseparabile di Arlecchino, l’oggetto de’suoi sogni. Quanto al personaggio di Colombina, lo si vorrebbe far risalire al teatro antico ; e il Sand trascrive una scena della Mostellaria, mettendo a raffronto delle serve del teatro italiano la Scafa plautina. Sino alla Colombina del xvii secolo, il tipo della servetta, si chiamasse Colombina, o Nespola, o Franceschina, o Diamantina, o Ricciolina restò pressochè invariato, se ne togli quelle variazioni di forma che le venivano dall’attrice che lo rappresentava. Nella Colombina del xvii e xviii secolo, abbiamo lo stesso tipo con accentuazione marcata di birichineria e di civetteria insieme : vero ideale di servetta.

Sul proposito a punto della civetteria, Colombina dice a Isabella :

{p. 439}

Non bisogna essere eccessivi mai ; ma siate certa che un pizzico di civetteria nei modi, fa la donna cento volte più amabile e provocante. E lo so da mia madre che in fatto di galanteria era una meraviglia. La sentii dire cento volte che la galanteria è come l’aceto. Mettetene troppo in una salsa, essa divien forte e insoffribile ; mettetene poco, non sa di nulla ; mettetene quel tanto che basti ad aguzzar l’appetito, e vi lecchereste anche le dita. Tale e quale di una donna. Fa la civetta a spese dell’onore ?… Oibò !… Che robaccia !… Non la fa punto ? Peggio ancora !… Essere insulso !… Bellezza addormentata ! Ma quando la donna, bella per giunta, ha quel tanto di vita e di giocondità che ci vuole per divenir piacevole, ah…. schiettamente, se fossi un uomo, ne impazzirei. (Sand, op. cit.).

A leggere tutti i sei volumi del Teatro di Evaristo Gherardi, ci si fa un’idea ben chiara di quel che fosse di amabile diavoleria il personaggio di Colombina nella Commedia italiana a Parigi. Trascelgo dall’Arlecchino Proteo, nel quale la Caterina Biancolelli esordì colla sorella Francesca, e il quale suggerì al signor Devizé l’articolo del Mercurio di Francia, che s’è visto al nome di Francesca, la scena dell’incendio che precede la parodia di Berenice, originalissima nella sua mescolanza delle due lingue.

Colombine. M’hanno detto che Vosignoria vuol parlarmi…. ha, ha, ha ! Che figura graziosa ! Vossignoria mi pare un Dindon à la daube.

Arlequin. Come un dindon ! Son un Comedien, chef d’une troupe de Dindons ; ho volu dire de comediens.

Colombine. Vossignoria è Comediante ? E quando comediarete ? Mi muoro di voglia di vedervi.

Arlequin. Comediarò quando havrò trovà dei Comedianti per Comediar.

Colombine. Che personaggio fate ?

Arlequin. Fo il personaggio principale. Je suis celuy qui finit toujours les Actes.

Colombine. Vous estes donc le Moucheur de chandelles, che finisce sempre gli atti.

{p. 440}

Arlequin. Vossignoria si burla. Si vous voulez venir dans ma Trouppe, ve donerò un bon rolo.

Colombine. O Signor si ; ho un gran genio per la comedia. Ma come Vossignoria dice, voglio un bon rolo ; per esempio le rolle du Portier che maneggia l’argento. C’est un bon rolle celuy-là !

Arlequin. Selon le temps & les Pieces.

Colombine. Mais quelle Piece joüerez-vous d’abord ?

Arlequin. Noi cominciaremo per l’incendio di Troja.

Colombine. Ah sì sì, mi piace, il soggetto è buono. E che personaggio farete ?

Arlequin. Il personaggio principale. C’est moy qui feray le Cheval de Troye.

Colombine. Ditemi per grasia l’historia di questo incendio di Troja.

Arlequin. Volontieri. C’est…. c’est…. Mais tout le monde sçait cela.

Colombine. Io non la so e vorrei ben saperla.

Arlequin. C’est…. Mais cela sera trop long.

Colombine. Non importa.

Arlequin. Voicy ce que c’est. L’Incendie eut quelque different avec Troye, & un jour il voulut l’attaquer ; mais dans le même temps il arriva une très grande pluye qui vint au secours de Troye, & qui moüilla furieusement l’Incendie, lequel enragé se retira, & l’histoire finit par une grande fumée.

Colombine. No, no, non mi piace ; è una commedia che farebbe male agli occhi, e che farebbe pianger tutto il mondo. Bisogna trovare qualche soggetto, plus élevé…. Per esempio, gli amori di Piramo e Thisbe, overo d’Angelica e Medoro. Ma no, vorrei ancora qualche cosa di più elevato.

Arlequin. Plus élevé ? Nous pourrions joüer ler Amours des Monts Pirenées. C’est un sujet fort élevé.

Colombine. E chi diavolo vorrebbe montar così alto per veder la Comedia ?

Arlequin. E bene, giocaremo gli amori di Titus Empereur Romain. Io sarò Titus e voi Berenice.

Colombine. Oh questa sì sarà bonissima. Appunto a forza di vederla e di leggerla, la so tutta a memoria. Vado ad imberenicciarmi. Adesso, adesso vengo.

Arlequin. Ed io vado ad intituninarmi. Adesso, adesso torno.

Il costume di Colombina è nel Teatro del Gherardi uguale a quello delle amorose, se ne eccettui il piccolo grembiule. Rappresentando la moglie di arlecchino, ne veste anch’essa l’abito a piccoli quadri di svariati colori. Dallo stesso Teatro del Gherardi il Sand deduce che la Colombina si mostrasse la prima volta in Arlecchina, la sera del 1 ottobre 1695, nella commediola in un atto di Gherardi Le Retour de la foire de Bezons. Da quella sera il costume di arlecchina diventò popolare nelle baracche de’ saltimbanchi, nelle parate, nelle pantomime. Il Watteau, uno de’ più geniali illustratori della Commedia italiana, del quale verrò riproducendo le principali opere, ci ha dato il costume dell’ Arlecchina in una delle sue incomparabili {p. 442}acque-forti (pag. 441) : e ce lo ha dato Geremia Wachsmuth col suo Inverno (pag. 439), nel quale, come si vede, figurano, a lato di Arlecchina, il Dottore, Scaramuccia, e altri tipi del nostro antico teatro.

V. anche il costume di Rosetta, al nome di Bertoldi (pagina 382).

Anche in Goldoni la Colombina è stata scelta nel Teatro Comico a significare il tipo della servetta, che rimane pur sempre invariato ne’varj nomi di Corallina, Smeraldina, Lisetta, Cammilla, a dir de’ più usati : mezzana, sventata, lusingatrice di padroni, chiacchierina, impertinente, civetta, amante o moglie d’arlecchino : ma il tipo della Colombina goldoniana sta a quello della Colombina gherardiana, press’a poco, come la civetta italiana sta alla coquette francese, sia nella forma, sia anche nella sostanza. Nel maggiore sviluppo della Commedia italiana, alcuni tipi rimasero pressochè gli stessi, ma un po’, anzi, raffreddati nell’attenuarsi delle precedenti scempiaggini ; Colombina in vece è andata assumendo proporzioni gigantesche : sia ella protagonista o personaggio di contorno, il più delle volte è il pernio su cui s’aggirano tutte le figure di una commedia : la padroncina per ajuto, la padrona per gelosia, i padroni vecchio e giovane, raggirati, sbeffeggiati, per amore, arlecchino, il futuro marito naturale, per ira, per amore, per gelosia, per disperazione, per…. tutto…. In sino a che la servetta ha seguito l’antica traccia, essa ha avuto sulla scena una parte spiccatissima e un ruolo per sè. Chi abbia come me veduto e sentito nella Cameriera astuta del Castelvecchio le finezze d’espressione, d’intonazione, di dizione della Daria Cutini-Mancini, benchè già fuor dell’arte, può ben essersi fatta una idea chiara e della importanza di quel ruolo, e del valore di chi lo rappresentava, e degli schietti entusiasmi del pubblico. Le Sacchi-Paladini, le Romagnoli, le Cutini spariron dalla scena, e il ruolo della servetta fu a poco a poco ingoiato dalla prima donna o dalla prima amorosa, specie di attrice universale, che secondo l’importanza di una parte sapeva essere {p. 443}ad un tempo e serva e padrona, e vecchia e giovane, e comica e tragica ; fino a che non venne questa nuova forma di arte, che vuole, dicono, la fotografia dell’ambiente, la quale, oltre al ruolo, ne ingojò persino il tipo….

Biancolelli Pier Francesco. Figlio di Dominique, del quale prese il nome sulla scena, nacque a Parigi il 20 settembre 1680. Dopo di essere stato nel collegio de’ Gesuiti, determinò di darsi all’arte, esordendo in provincia, prima del 700, in una Compagnia diretta da Giuseppe Tortoriti, Pascariello, di cui sposò più tardi una delle figlie, Maria Angelica, nata a Parigi il 18 agosto 1696. Passò in Italia, recitando applauditissimo nelle città principali, poi tornò in provincia, ove stette fino al 1710. Andato a Parigi vi ottenne il più clamoroso successo sotto la maschera dell’arlecchino. Entrò poi all’Opéra Comique quale Pierrot ; e nel 1717 alla Comedia Italiana, in quella Compagnia formata l’anno prima da Luigi Andrea Riccoboni, nella quale fu accolto per espresso volere del Duca d’Orléans, il Reggente, che amava molto Dominique.

Non sappiamo dire se e quando, a lui vivo, morisse la moglie. Certo è che il Biancolelli visse maritalmente con una delle sue compagne, Maria Teresa di Lalande, dalla quale ebbe una figlia nel 1723. (V. Campardon).

Egli esordì alla Comedia italiana il 12 ottobre colla parte di Pierrot nella Force du Naturel, scenario italiano in tre atti di Freret, tratto da una commedia spagnuola di Agostino Moretto.

Prima della rappresentazione, Biancolelli si presentò al pubblico colla seguente perorazione inserita nella Storia del Teatro italiano del Des Boulmiers, e riprodotta poi dal Campardon :

{p. 444}

Messieurs, la protection d’un prince illustre à qui j’ai maintenant l’honneur d’appartenir et qui me place aujourd’hui dans sa troupe, devroit par bien de raisons me rassurer sur mes craintes et me faire entrer avec confiance sur ce théâtre ; mais comme c’est à sa seule bonté que je dois cet avantage, c’est à vous, messieurs, à qui je viens demander grâce :

Prêt à jouir d’un bien et durable et solide,
de mortelles frayeurs je me sens accabler ;
ce n’est pas sans raison que je parois timide,
votre bon goût me fait trembler.

Si j’embrasse un caractère qui ne m’est point familier et dont le succès est incertain, n’imputez ma métamorphose qu’à la justice que je rends avec tout le public au mérite incomparable du gracieux arlequin [Thomassin – (V. Vicentini)] que vous honorez tous les jours de vos applaudissemens. Que de raisons pour m’alarmer ! Le spectateur peut me regarder ici comme un homme emprunté ; d’un autre côté avec quels hommes suis-je associé ? Avec les meilleurs sujets qui pouvoient venir d’Italie, avec des comédiens qui excellent à peindre les passions, qui sont sur-le-champ des scènes remplies de traits vifs et délicats, qui parlent avec autant d’élégance que de facilité, en un mot qui savent entrer si parfaitement dans les caractères qu’ils représentent et si bien se consulter qu’ils attachent jusqu’aux personnes qui ne les entendent point. Quels efforts, messieurs, ne faut-il pas que je fasse pour me rendre digne d’être confondu avec de pareils confrères et d’avoir part aux louanges que vous leur donnez ! J’aspire pourtant à ce bonheur et, s’il n’est pas au-dessus de mon travail et du désir ardent que j’ai de vous plaire, je me flatte d’y parvenir. Hé quoi ! messieurs, né sur ce théâtre où mon père a contribué si longtemps à vos plaisirs, me bannirez-vous de ma chère patrie et me priverez-vous du seul héritage qu’il m’a laissé ? Non, messieurs, je ne saurais le croire ; docile aux leçons des gens de goût, je m’y conformerai sans peine, trop heureux si je puis réussir à mériter votre indulgence :

Arbitres de ma destinée,
enfin je m’abandonne à vous ;
oui, dût-elle être infortunée,
Sans oser murmurer je recevrai vos coups.
A mes faibles talens si vous livrez la guerre,
Je n’entreprendrai point de repousser vos traits,
Et quand je me verrai condamné du parterre,
Je n’en appellerai jamais !

Dal ruolo di Pierrot passò poi a quello di Trivellino, in cui fu eccellente. (V. Locatelli). Rappresentò con egual successo diversi caratteri, e sopra gli altri un tipo di ragazza (fille d’opéra), con grazia e finezza tali da richiamar gran folla al teatro per lungo tempo.

Morì a Parigi il 18 aprile 1734 in sua casa, via Montorgueil, munito dei SS. Sacramenti, e fu sepolto a San Salvatore, sua parrocchia.

Il Biancolelli scrisse grandissimo numero di produzioni in verso e in prosa, con e senza musica, ora solo, ora in società {p. 445}con Legrand, Riccoboni padre e figlio, e Romagnesi, così per l’Opéra comique, come pei teatri di provincia e pel Teatro italiano.

Gli applausi del pubblico non fecero che incitarlo a procacciarsene de’ nuovi, sia coll’arte scenica, sia coll’opere letterarie. Uomo infaticabile e infaticabile lavoratore, recitò tutte le sere e talvolta in tre commedie diverse. Frequentò balli e feste d’ogni specie ; e trovò modo, in questa operosità continuata, di scrivere in sedici anni cinquantasette opere teatrali, di cui dodici senza l’ajuto di collaboratori, e di darci una traduzione intera delle liriche di Orazio.

Biancolelli Maria Teresa, figlia del precedente e di Maria Teresa di Lalande, nacque a Parigi nel 1723, ed esordì alla Comedia italiana il 10 febbraio 1738, sotto il nome di M.lle Biancolelli, con una parte d’amorosa nella commedia di Boissy : La sorpresa dell’odio, ottenendovi un successo vero e proprio, e ispirando i seguenti versi :

Par la Surprise de la Haine
En vain vous avez cru débuter en ce jour ;
Non, non, pour qui vous voit paroitre sur la scène,
C’est la Surprise de l’amour.

Giuoco di parole fra la commedia di Boissy e l’altra del Marivaux, data alla Comedia italiana il 31 marzo del 1722.

M.lle Biancolelli, affidata per la sua educazione artistica alla celebre Silvia (V. Balletti), recitò lungo tempo in qualità di amorosa nelle commedie francesi, e non lasciò le scene che nel 1762. Era ancor viva nel 1788.

Di lei si ha la seguente quartina :
Dans tes traits que de dignité
et dans ton jeu que de noblesse !
Thérèse, en toi tout intéresse,
et tes talens et ta beauté.
{p. 446}

Biancolelli Niccolò.Comico – dice il Bartoli – che fioriva intorno al 1650. Dalla prefazione a una sua opera tragica intitolata Il carnefice di sè stesso, si apprende com’egli fosse a Napoli in Compagnia di certo Fabrizio, nella quale recitava le parti d’innamorato. Il Bartoli al nome di Biancolelli Domenico, a cui dedica appena due righe, scrive che fioriva nel 1680 ; lo suppone figlio di Niccolò, e lo dice fratello di Orsola. Ma quel Domenico, che lasciò alcuni dialoghi scritti per le commedie all’improvviso, e di cui fa menzione Luigi Riccoboni nella sua Histoire du Théâtre Italien, non è che il famoso Dominique, di cui il padre era morto, come abbiam visto, nel ’40, e l’Orsola era moglie e non sorella. Io crederei trattarsi più tosto di un fratello di Francesco Biancolelli, e però zio di Domenico. Staccatosi Niccolò – continua il Bartoli – da Fabrizio, a motivo d’una sua indisposizione ; e ritirandosi in casa d’un suo amico in luogo eremo e solitario, si diede a scrivere un Romanzo, che voleva diviso in sei libri ; ma compiuto solamente il terzo, cambiò pensiero e si pose a scrivere un’opera tragica in prosa intitolata : Il carnefice di sè stesso.

A questa tenner dietro Il Nerone, La Regina statista, e Il Principe tra gl’infortunj fortunato : opere tutte che pubblicò in Bologna tra ’l ’64 e il ’68. Ai pregi della Regina statista accennai già al nome di Francesco Andreini (pag. 77).

In essa si vede chiaro come il Biancolelli possedesse in sommo grado la pratica del teatro. Ben trovato il soggetto, il quale va a poco a poco intrecciandosi e arruffandosi per modo da destare il più vivo interesse. Lo sviluppo è semplice e naturale : le scene di amore caldissime mescolate a quelle della più spontanea comicità : commoventi le scene tra Florisbe e il Conte in prigione, ingegnosa quella in cui la Regina svela copertamente il suo amore al Conte. In somma : un lavoro che ammodernato più qua più là nelle espressioni, potrebbe formare anch’oggi la delizia de’ pubblici domenicali. Il vero titolo ne è il seguente : La Regina statista d’Inghilterra, et il Conte di Esex. Vita, successi e morte. Al molto Illustre Sig. mio, Sig. e Padron {p. 447}colendissimo il Signor Antonio Francesco Facini, uno de’ Signori Tribuni della Plebe. La dedica non è del Biancolelli, ma di Petronio Ruinetti, che par l’editore, il quale fa anche precedere all’opera una lettera dedicatoria al detto Facini.

Bigottini (Francesco ?). Loehner in una sua nota (Mem. di Goldoni) al nome di Bigottini, dice : lo credo identico con quel Francesco Bigottini, che trovai nelle carte dell’archivio ex Gonzaga di Mantova, agente della Passalacqua (V. D’Afflisio Elisabetta), quando costei diventata direttrice per conto proprio, prese in affitto il teatro di Mantova nell’autunno del 1749.

Il Signor Bigottini, com’ è chiamato ne’ documenti pubblicati dal Campardon, nacque a Roma, ed esordì alla Comedia italiana di Parigi il 27 aprile 1757 nell’Arlequin maître de musique, ou le Capitaine Scanderberg.

Recitò poi nell’Arlequin Protée, nella Gageure d’Arlequin et de Scapin, e nelle Métamorphoses d’Arlequin, commedia messa in scena da lui stesso ; ma non ebbe alcun successo, e dovè ritirarsi. Il 25 dicembre 1775, fu richiamato con ordine de’primi gentiluomini della Camera alla Comedia italiana, dove, per altro, non riappare che il 18 febbraio 1777 in Arlequin esprit folet di cui egli era l’autore. Questa volta il pubblico l’accolse favorevolmente, in ispecial modo per la precisione dei gesti e la rapidità delle trasformazioni. Gli fu in un articolo del Journal de Paris rimproverato di fare ancora gli esercizi della bandiera, e di togliersi per alcuna delle sue trasformazioni la maschera d’arlecchino. Alle quali osservazioni il Bigottini rispose con lettera del 22 febbraio 1777, in cui pur accettando l’osservazione del giuoco della bandiera ch’egli poi soppresse, rigettava, discutendole, quelle concernenti la maschera.

…. Anzitutto, Signori, voglio farvi osservare, che nella commedia intitolata Lo Spirito folletto, recitando la parte dello Spirito, secondo ogni idea avuta in fatto di magia teatrale, ho diritto di prender tutte le figure che voglio. Ora, se io conservo la maschera che appartiene esclusivamente ad Arlecchino, l’illusione è distrutta ; e per gli spettatori io non son più che Arlecchino anche nelle mie metamorfosi. Se io mi trasformo in Turco, mi bisogna necessariamente toglier la maschera per la verità del costume. Quando io faccio {p. 448}una parte di bleso, mi tolgo la maschera : perchè ? Perchè colla maschera non potrei mostrare sul mio volto gli sforzi che un bleso fa inutilmente per parlare e la tensione dei muscoli prodotta da quegli sforzi. Ecco, signori, le obiezioni che mi permetto di farvi : esse mi paiono fondate su l’amore del vero che deve sempre essere la base delle arti….

Bellissime parole che non impedirono al pubblico di togliergli le parti di Arlecchino per affidargli quelle di Dottore che disimpegnò mediocremente, e la sorveglianza de’ macchinismi teatrali. Nel 1780, Bigottini fu congedato con una indennità equivalente alla metà dell’assegno ch’egli aveva allora. Da un biglietto del Maresciallo Duca di Richelieu, colla data del 1778, Bigottini chiedeva di riprendere la maschera dell’arlecchino ; ma la dimanda fu respinta.

Il Bigottini si trovava nel ’43 a Rimini in Compagnia Ferramonti. Il Goldoni pregato dal Conte di Grosberg di scrivere qualcosa per l’arlecchino da lui protetto, ricostruì per le scene italiane una commedia sull’Arlequin empereur dans la lune, vecchia farsa di Nolant di Fatonville, recitata nel 1684 davanti a Luigi XIV. La commedia ebbe ottimo successo e il Goldoni dice del Bigottini ch’era buon attore, ma sorprendente per le metamorfosi e per le trasformazioni. (V. Mem. Goldoni, Ed. Loehner, L. I, Cap. XLV).

E l’inesorabile Grimm :

Un giovine arlecchino di sessanta e più anni, il signor Bigottini, ha esordito sul teatro della Comedia italiana, in una sua commedia, intitolata : Arlecchino Spirito folletto. Il modo di recitare del signor Bigottini non ha nulla che vedere con quello dell’attore ch’egli deve surrogare ; egli non ne ha nè la grazia, nè la finezza, nè la semplicità : tuttavia le sue metamorfosi sono ingegnose e variate ; e i suoi movimenti senza avere la flessibilità e la mollezza che caratterizzano ogni menomo gesto di Carlino, sono d’una esattezza e d’una rapidità singolari. Nulla uguaglia la prontezza con cui egli cambia di costume e di maschera ; la sua perizia a questo proposito ha del prodigioso ; ma è tal pregio che finisce collo stancare….

Billi Giacomo (in arte si fece chiamar Iacopo) nacque a Fano dal Conte Antonio Billi. Ottenne laurea d’ingegnere all’Università di Roma, e servì per alcun tempo il governo : ma stimolato dall’amor della scena, lasciò la città natale per aggregarsi alla Compagnia Rosa, in cui di punto in bianco {p. 449}esordì e con successo qual primo attore. Si fece conduttore di compagnie egli stesso, in una delle quali (al Cocomero di Firenze, autunno e carnevale 1853-54) erano la Bon prima donna, la Colombino prima donna giovine, Colombino brillante, Brunone primo amoroso, e Guagni caratterista. Si recò poi a Costantinopoli ove stette alcun tempo, ma non prosperamente. Tornato in Italia andò vagando per le città di Toscana, e tornò a Firenze ov’ebbe l’egual fortuna.

Mortogli uno zio prete assai dovizioso, lasciò il teatro, e si restituì colla moglie a Fano, dove visse nelle agiatezze, e dove morì or son molti anni senza figliuoli, lasciando un vistoso patrimonio.

Bissi Giacomo. Capo stipite di una delle più numerose, se non della più numerosa famiglia di comici, nacque nel 1780. Sposò un’Anna Medoni, comica anch’ essa, nata nel 1790, da cui ebbe due figli : Giovanni e Stefano. Questi, nato il 1812 e morto il 1880, amoroso in Compagnia di Giuseppe Salvini, si sposò a una Felicita Rocca, nata il 1821 e morta il 1895. Tale unione produsse Giovanni (1836), Fortunata (1838), Irene (1840), Pia (1844), Maria (1846), Vincenzo (1848), Zaira (1850), Ferdinanda (1852 – morta 1891), Ruta (1854), Achille (1856), Ferruccio (1858), Vittorio (1859), Ovidio (1862), Ester (1864), Emma (1868 – morta 1886).

Giovanni fu primo attor giovine in Compagnia Ajudi, primo attore e generico primario in quella di Adelaide Ristori, e promiscuo in altre. Ebbe un figlio, Stefano, secondo brillante ed amoroso.

Fortunata, sposatasi a Priamo Favi, ebbe due figli : Odoardo, buffo in compagnia di operette, e Gaspare, generico.

Irene si sposò con Antonio Brunorini.

Pia, moglie di Achille Sartirana, fu prima attrice in varie compagnie.

Maria, moglie di Ettore Sainati, ha sostenuto i ruoli di generica e madre. Ebbe due figli : Alfredo, secondo amoroso e {p. 450}brillante con Cesare Rossi e con altri ; ed Ester, amorosa e prima attrice giovine con Giuseppe Pietriboni.

Vincenzo, sposatosi con Angela Giribaldi, comica, fu amoroso con Massa e Romani ; primo attor giovine con Lambertini e Ferrante ; amoroso con Luigi Monti, Alamanno Morelli e Vittorio Pieri ; generico primario con Adelaide Tessero, Ernesto Rossi, Lombardi-Pavoni, Andrea Maggi, e Micheletti Pezzaglia, coi quali si trova attualmente quale amministratore. Egli fu, come il maggior fratello Giovanni, attore di non pochi pregi, tra’ quali primo : la spontaneità. Fu volontario nel ’66 ; ed ebbe nel ’69 un figlio, Armando, oggi secondo brillante con la Marchi-Maggi.

Zaira, cantante.

Ferdinanda, moglie di Carlo Cataneo, fu prima attrice giovine con Achille Majeroni e seconda donna con Giacinta Pezzana.

Ruta, moglie di Valeriano Perretti, comico, ebbe tre figli : l’Elvira, prima donna, e l’Annina generica, in compagnia di operette ; ed Enrico, suggeritore.

Achille, ammogliato, sostiene il ruolo di brillante.

Ferruccio, ammogliato, sostiene il ruolo di generico.

Vittorio e Ovidio furon suggeritori con Ernesto Rossi, Alessandro Salvini, Pedretti-Artale, Maggi, Roncoroni, ecc.

Ester, moglie di Meravigli, fu con Ernesto Rossi, Giovanni Emanuel, Antonio Schiavoni e con altri, prima attrice giovine e seconda donna.

Emma si diede all’arte del canto.

Bissoni Giovanni. Nato a Bologna nel 1666, si unì a soli quindici anni, a un ciarlatano, certo Girolamo, che vendeva i suoi unguenti col mezzo di buffonerie…. In capo a qualche tempo, il Bissoni ne seppe quanto il maestro, del quale divenne il socio, poi separatosene, il concorrente. Andato a spacciare i suoi unguenti a Milano, e trovato il posto preso dal rivale, per non si morir di fame ricorse a uno strattagemma. Innalzò il suo palco sur una piazza vicina a quella ove agiva l’altro, e si diede a vantar le sue droghe enfaticamente : « Ma, a che vantarle ? » {p. 451}sclamava poi ; « voi tutti ben conoscete i miei rimedj, poichè son gli stessi che spaccia nella piazza vicina il mio rivale, di cui io sono il figliuolo. » E qui si diede ad architettare una storiella verosimile, secondo la quale, per certe sue ragazzate, sarebbe stato maledetto e scacciato dal padre. Riferita al ciarlatano la cosa, Bissoni approfittando della commozione de’circostanti corre alle ginocchia del presunto padre, chiedendogli perdono delle sue mancanze. Il ciarlatano era fuor de’gangheri e dichiarava non solo di non esser suo padre, ma di non averlo mai conosciuto :… e più inveiva contro di lui, più cresceva nella folla la compassione pel disgraziato ragazzo, di cui furon comperate tutte le droghe, e a cui furon fatti per giunta molti regali.

Bissoni, lieto del successo ottenuto, ma temendo alcun guajo, si affrettò di abbandonar Milano ; e poco tempo dopo il mestiere del ciarlatano, aggregandosi a una Compagnia di comici, nella quale recitò le parti di Scapino. Passò poi al servizio del signor Albergotti, secondo il Sand e il Des Boulmiers, e del Marchese Tangoni, secondo il D’Origny, in qualità di maestro di casa ; e si recò in Francia. Tornato in Italia, fu accettato dal Riccoboni nella Compagnia del Duca di Orléans per le parti di Zanni, che egli sostenne col nome sempre di Scapino, fino al tempo della sua morte, che fu il 9 maggio 1723.

Il Bissoni non ebbe elevatezza d’ingegno come artista, ma una sensibilità squisita, e un cuore eccellente.

Pare, secondo il D’Origny, che egli esordisse il 21 settembre nella Grotte de Scapin, in cui prese il nome di Finocchio. Cominciò a recitar colla maschera, ma fu costretto dal pubblico a lasciarla alla seconda scena. « In Francia, scrive il D’Origny, si voglion vedere le diverse passioni dipingersi sul volto degli attori. »

{p. 452}

Il poco che potè mettere assieme lasciò a Luigi Riccoboni, il quale, con lettera-patente data a Versailles il maggio 1723, fu autorizzato ad accettare la eredità. La lettera è pubblicata per intero dal Campardon. Quanto al costume e al carattere dello Scapino, metto qui tradotte le parole del Riccoboni che sono nella sua Storia del teatro italiano a illustrazione della figura del Joullain (V. pag. 451) la quale, secondo il Gueullette è stata fatta per Bissoni stesso.

Abbiamo una stampa di questo costume, disegnata e incisa a Parigi dal Bel, che era un famoso disegnatore italiano. Questo costume, stando alle apparenze, era sul teatro innanzi a quello di Beltrame, Niccolò Barbieri, che era milanese, e che volendo parlar la lingua del suo paese, ne portava anche il vestito. Nel resto si conformò al carattere dello Scapino, poichè la maschera dell’uno è uguale a quella dell’altro. Quanto al carattere di Scapino, è il medesimo degli schiavi di Plauto e di Terenzio ; intrigante, furbo, che s’impegna di condurre a buon termine tutti gli affari i più disperati dei giovani libertini ; che si picca di far dello spirito, che parla molto e molto consiglia. È infine il ritratto vero degli Schiavi della Commedia latina. Tutte le commedie di Plauto sono state recate sul nostro Teatro Italiano per la facilità del carattere principale, che è quello degli schiavi, applicato a questo personaggio.

Il famoso disegnatore italiano le Bel non fu altri forse che Stefano Della Bella, e il costume di cui parla Riccoboni fu quello forse di Buffetto (V. Cantù), che è in tutto somigliante a quello dello Scapino. Lo Scapino del Callot, invece (V. Gabbrielli Francesco), ci dà la solita variazione quasi inavvertita dei Pulcinelli, Gianfarine, Fritellini, Francatrippe, ecc., ecc.

Bissoni Luigi. Nacque a Venezia di agiati mercanti. Andati a rovescio gli affari, rimasto privo quasi di sostentamento, si diede all’arte del comico nella quale riuscì egregiamente sotto la maschera del Pantalone. Fu lungo tempo colla Compagnia di Gerolamo Medebac, ne’teatri veneziani e in altri, gradito sempre. Passò a seconde nozze con una pulita giovine – dice il Bartoli – e seco visse non pochi anni, sul finir de’ quali alienossi dalla Professione, avendo ottenuta una carica onorevole. Morì la quaresima del 1781.

Blanes Pellegrino. (V. Belli Paolo).

{p. 453}

Boboli Giovanni. Nacque nel 1770 a Firenze, e fu egregio caratterista. Fece parte delle migliori compagnie del suo tempo quali di Marta Coleoni, Fiorilli-Pellandi, Goldoni, Raftopulo.

Il burbero benefico, Il poeta fanatico, Il maldicente e l’avaro del Goldoni, L’ajo nell’imbarazzo e Il pronosticante fanatico del Giraud, L’Ulivo e Pasquale del Sografi, Così faceva mio padre del Bon furono i lavori nei quali si levò a maggior altezza. Fu il 1820 nella Compagnia con balli di Gaetano Perotti, il ’22 in quella di Paolo Belli-Blanes, e il ’27 in quella di Carolina Internari, colla moglie Anna, buona servetta. Morì nel 1836.

Bocchini Bartolommeo detto Zan Muzzina della Valle Retirada, bolognese.

Compagni ve ringrazio
col zenocchio piegà, la bretta in man,
e son pur troppo sazio
tenendo in st’occasion starve lontan,
che per mi tira el fango
ne la città, ch’a nominarla piango.
Quella Bologna cara,
quella patria mia, quel caro albergh,
quella dove s’impara,
e lo conferma il Bagaron sul tergh,
quella ov’ebbi il natale,
privo di questa son nel carnevale.
(Seconda parte della Corona maccheronica).

Dice il Fantuzzi (Degli Scrittori bolognesi) che il Bocchini

fu nativo del Castello di S. Agata, e si dilettò di Poesia Burlesca, ma non aveva fatti grandi studi, ed era solo ajutato nel comporre da una naturale disposizione ; e pretendendo di vendicar la sua Patria dalla burla, che gli aveva data il Tassoni nella sua Secchia rapita, diede alle stampe un Poema tragicomico diviso in XII Canti intitolato : Le passie de’ Savj ovvero il Lambertaccio, nel quale si parla con poco rispetto de’ Modonesi. Questo libro fu stampato In Venesia appresso i Bertani, 1614, in-12, con dedicatoria al Principe D. Lorenzo di Toscana….. avverte giustamente il Quadrio nella Storia e Ragione d’ogni Poesia, tomo IV, pag. 728, che come il Bocchini nel dir villanìe superò di gran lunga il Tassoni, così nel fatto di Poesia gli restò di gran lunga addietro fino a perderlo di veduta.

{p. 454}

Il Bocchini fu argutissimo ingegno, e lasciò scritte molte opere poetiche in cui è da ammirare più specialmente la vena comica abbondantissima. Fu egli semplice scrittore soltanto ? Non credo. E se bene nè il Fantuzzi, nè il Quadrio, nè altri, a mio sapere, accennino al Bocchini attore, pure gli scritti suoi (Corona Maccheronica, ecc., Modena, Soliani, 1665, in-12), nei quali sono particolarità curiose sulla schiera infinita degli Zanni e una conoscenza profonda dell’arte e della vita loro, starebbero a provare che non solo egli montò in banco, ma che nè men fu de’peggiori recitanti, di cui alcuni eran gente di moltissimi pregi nell’arte comica, che esercitavan non solo recitando, ma, come i grandi colleghi, suonando, cantando e ballando.

Comincierò dal trascrivere intero il suo Prologo rappresentato quand’egli fu accettato nella Zagnara, nel quale abbiamo l’idea di quel che fossero le rappresentazioni degli Zanni.

Scoprendosi la scena, si vede il Re Scappino con Brighella e Bagolino suoi consiglieri, uno da un canto, e l’altro dall’altro con una mano di Paggi Zagnetti, dove arrivando Muzzina senza Tabarro e Beretta, gli dà una Supplica, e Scappino così cantando dice :

Varda un poco, Brighella,
mio conseglier fidado,
se sto Zagno ha portà qualche novella,
che possa desturbar el nostro stado :
spiega tosto la carta,
e inanzi, ch’el se parta,
saveme dir, s’el brama pase o guerra,
e che bon vento l’ha portà in sta terra.

Brighella

Questo, Signor, xè un Zagno
da vu recorso in fretta,
sol, perchè ’l meschinel nol fa vadagno,
e non ha soldi da comprar la Bretta ;
ma con supplica fresca,
la maestà zagnesca
prega, per impetrar gratia sì cara,
de poderse introdur ne la zagnara.

Bagolino

È ben giusto, Signore,
col xe un Zagno d’ingegno,
che vostra maestà per servidore
no se sdegna accettarlo entro el so Regno.
Perchè za le Vallade
son del tutto estirpade,
e per destin sì crudo e manigoldo,
nol ghe xe un Zagno più che vala un soldo.

Scappino a Mussina

Famme sentir almanco
qualche cosetta niova,
ma avverti ben de note dar de bianco,
ch’el se scortega i Aseni a la prova :
dimme qualche concetto,
quà senza scaldaletto,
che a sta foza vedrò, se ti xe instrutto,
e fa saltar la rana sora el tutto.

{p. 455}Muzzina

Za, ch’el me vien concesso
da corona si degna,
vogio desgamuffar la Musa adesso,
se però d’ascoltar lei no se sdegna :
supplicando in zenocchio
con la lagrema all’ occhio,
che la vogia accettar da Zan Muzzina,
la Riosa sol, e no toccar la spina.
La Zia Mona mia mare,
scarsella mai me diede,
Zan Pitocca Batocchio, qual fu el pare,
d’un strazzo de Tabar me lassò erede ;
ma la mia trista sorte
causò dopo la morte
gran nascita de debiti, e malanni,
si ch’el morir me ravvivò i affanni.
A tal, che in sti rumori
per non haver cervello,
el se me serò adosso i creditori,
e fu dato el precetto al Barisello,
qual me tolse de fretta
el Tabar con la Bretta,
e son remasto un Zagno sì deserto,
ch’el neva, e tegno star col cao scoverto.

Scappino

O là Paggi, via presto,
no fe’ al corso sparagno,
ma disè al Vardarobba, ch’el sia lesto,
e ch’el me manda da fornire un Zagno
e ch’el se pia sto assunto,
perchè de tutto punto
vogio vestirlo, a zo col stil Zagnesco,
el possa star co i altri Zagni al desco.

Qua si scoprono i campi Elisi, e si vedono l’ombre di tre Zagni, quali cantando dicono, principiando Trivello.

Mentre, che a tanti spirti
de Zagni hozi è concesso
l’uscirne fuor da questi ombrosi mirti,
ecco Sivel, che da ti vien adesso,
che in paese me chiama
de Muzzina la fama,
el qual per fabbricar canzon sì spesso,
el merita segur d’esser ammesso.

Fenocchio

Quel Fenocchio, che al mondo
se fe’ cognoscer tanto
e in su le scene ognor sì furibondo,
ne riportò tra Zagni il pregio e il vanto :
quel te supplica e prega,
che grazia nol se niega
a sto Muzzina, scusando i defetti,
che fra Zagni el farà piover concetti.

Stupin Candelotto

De Stupin Candelotto
zonto adesso è a l’orecchio,
el gran valor de quel Muzzina dotto,
in zovanil età Zanno sì vecchio,
a te digo, Signore,
ch’el merita ogni onore,
per esser fio de la Zia Mona solo,
ch’un tempo fu sì grata al nostro stuolo.

I Paggi tornano con un Bacile dove vi è sopra il fornimento d’un Zagno.

Eccone retornadi
obedienti al tuo cenno,
perchè daspò che semo stà sbrigadi
ciascun s’è messo a caminar da senno,
sì che in tempo arrivando
con gusto massa grando,
hozi vedrem crescendoci un compagno,
Muzzina dal suo Re creado Zagno.

Scappino a’ Conseglieri

Levè el cul da le sedie
Bagollino e Brighella,
e a zo ch’el possa recitar comedie
deghe pur col Tabar, Bretta, e Scarsella ;
che per mi me contento,
pur ch’el ghe tira dentro,
e avrò gusto a sentir per la confina,
per tutto rebombar : Viva Muzzina.

{p. 456}Bagolino e Brighella insieme

O Zagno avventurado,
se vede, che in effetto
ti ha inclinazion ne l’esser fortunando,
perchè a la prima ti ghe intrà in concetto,
e nu grami meschini
sfadigai d’assassini,
stentando el ghà volesto più d’un mezo
inanzi, ch’el ce segna el privilezo.

Muzzina

In effetto me sento
lonzi da ogni desgratia,
e spero ogn’ hor de viver più contento,
purchè del Re Scappin me trova in grazia.
Faza donca la sorte,
ch’altro mai, che de morte
no avrò spavento più, no avrò timore,
sotto a la protezion del mio Signore.
E con questo ve baso
la man, o Re de’ Zagni,
pregando solo a no me dar del naso
ne la partenza, perchè i miei compagni
sta aspettando la niova,
se son passà a la prova,
che dopo tante grazie e tanti onori,
volemo far comedie a sti Signori.

Scappino

Per no desdire al canto
de l’ombra mia paterna,
va pur felice, e ’n su le scene intanto
cerca lassar de ti memoria eterna.
No te metter paura,
che questa xe segura,
vera occasion da immortalarte giusto,
se a tanta Nobiltà ti sa dar gusto.

La parte parlata nelle commedie degli Zanni doveva restringersi a ben poco ; tutti i ritratti di Zanni a noi pervenuti, ce li descrivono con la chitariglia, o mandola, o altro strumento a pizzico, in atto di accompagnarsi una canzonetta.

Zan Muzzina era dunque nella genealogia zannesca figliuolo di Zia Mona e di Zan Pitocco Batocchio. Basta il nome del padre, per capir bene come la povera mamma non gli avesse mai dato scarsella. E Scappino dice ai Consiglieri : e a zo ch’el possa recitar comedie – deghe pur col Tabar, Bretta, e Scarsella.

La scarsella era appunto una borsa di cuojo, o d’altro, che gli Zanni portavano alla cintola : e se ne servivan forse per mettervi dentro il danaro che avevan raccolto in giro dagli spettatori colla berretta. Quasi tutti gli zanni raffigurati nelle antiche incisioni hanno al fianco la scarsella, come vedremo. Quando Scappino invita Muzzina a far la prova dell’arte sua, gli dice : « ma avverti ben de non te dar di bianco. » Dar di bianco è frase del gergo comico. I comici d’oggi dicono ancora : fare uno sbianchimento ; e vuol dire più specialmente : metter sotto gli occhi del pubblico l’errore di un compagno di scena, non rilevato avanti. Il gergo teatrale propriamente detto, la lingua {p. 457}di cui si servivano i comici abitualmente da’tempi i più remoti ; quella di cui abbiamo esempio nella citata Farsa Satyra morale del Venturino (V. Andreini Francesco), dove il bravo Spampana sfidando il giovine Asuero a ogni specie di giuochi, chiama le carte galante sfogliose :

Ah, ah, scio quel che uuoi, no te intendea :
eccole qui le galante sfogliose :
chiama te : fante ; ue, chel te venea,

e di cui ci ha lasciato più che un saggio Carlo Goldoni nella Locandiera, quella lingua, dico, è oggi del tutto scomparsa. E credo per lo studio della scena di prosa, non sia privo d’interesse il dialogo in furbesco di Zan Muzzina tra Scatarello e Campagnolo, che è nella seconda parte della Corona maccheronica, e di cui ecco le prime due stanze :

Scatarello

Alluma un po’ Calcagno,
se ’l gonzo da per ell’ vien al cogoll’.
che se ’l ghe de vadagno,
munel ghe slanzerà le cerre al coll ;
no te squassar ; sta saldo,
tiò al sbasidor, e tira zo el ghinaldo.

Campagnolo

Tanto farò, ma credo,
che so isa ha tagiado el cordovan,
perchè per quanto vedo,
el batte la calcosa molto pian ;
el se mostra invilio,
ghe trema el proso, e par tutto sbassò.

Quanto agli Zanni, personaggi del prologo, V. anche Gabbrielli Francesco, lo Scappino, Re de’Zanni, e Gabbrielli Giovanni, padre, detto il Sivello. Quanto a Fenocchio, V. Cimadori Giuseppe.

Di moltissimi Zanni nulla ci è rimasto. Essi son tutti su per giù variazioni poco sensibili del tipo di Brighella, del {p. 458}quale in genere conservano anche il costume. La schiera degli Zanni era, come abbiam detto, infinita ; e lo stesso Muzzina nel suo trionfo di Scappino, ne cita buona parte. Eccoli : Pidurlino (V. Lombardo), Gonella (citato da Ludovico Domenichi nella sua raccolta di facezie), Fregnocola (V. Gabbrielli Giovanni), Buffetto (V. Cantù), Lupino, Frittellino (Vedi Cecchini), Burattino, Farina (V. Roncagli), Guazzetto, Capocchia, Trippone, Gradella, Padella, Fritella, Gabionetto, Scalogna, Trappolino, Scattolino, Cortellazo (V. Montini), Boccalino, Baccalaro, Zan Gurgola (V. Andreini Francesco). E questi sono un niente ancora appetto ai tanti nominati nella genealogia di Zan Capella, che pubblico in fine. Un saggio di quello stile in Bisticcio, che troviam poi nella Villana di Lamporecchio (V. Del Bono), ci ha dato anche Zan Muzzina in più sonetti, uno dei quali è il seguente :

Io che passo si spesso, e pur non posso
se ben batto da Betta un dì far botta,
comporterò s’altrui l’accatta cotta,
ch’ella me sol salassi fin su l’osso ?
No, che vergogna in simil rissa rosso
renderìa il viso, e più la detta indotta
da mero amor fariami in fretta, e in frotta
ferir, forar da drudi d’essa il dosso.
Ma pur mi par, se su lo stocco attacco,
o con sferza la sforzi a star a stecco,
che sì la sciocca non mi secchi il sacco.
Scusimi il ciel se per la picca pecco
non vuò più a patto alcun potta di Bacco,
che feccia di facchin mi faccia becco.

Nel prologo di accettazione nella Zagnara era certo rappresentato al vivo il suo stato miserevole. « Le vicissitudini della mia fortuna » dice nelle parole al lettore (V. la Corona maccheronica) « dopo la mia nascita, hanno stillato sempre di farmi vivere in angoscie. » E più oltre : « Spero una volta frenare gli empiti di questa mia sorte, ecc., ecc. »

{p. 459}

E ora, ecco un brano, che tolgo dalla Piazza Universale di Tommaso Garzoni, descrizione particolareggiata di quel che erano e facevano gli Zanni, nella quale andrò intercalando le graziose e preziose figurine del Callot, che, specialmente coi fondi, come s’è già visto anche pei capitani e per l’Antonazzoni (V.) e come anche si vedrà per altri, illustrano alla perfezione il testo.

Dal Discorso CV – De’Formatori di spettacoli in genere, e de’Ceretani e Ciurmatori massime (pag. 550 e segg. dell’ edizione di Venezia, Miloco, 1665).

Da un canto della piazza tu vedi il nostro galante Fortunato insieme con Frittata cacar carote e trattener la brigata ogni sera dalle ventidue sino alle ventiquattro ore di giorno, finger novelle, trovare istorie, formar dialoghi, far caleselle, cantar all’improvviso, corucciarsi insieme, far la pace, morir dalle risa, alterarsi di nuovo, urtarsi in sul banco, far questione insieme, e finalmente buttar fuora i bussoli e venire al quamquam delle gazzette (moneta venesiana da dieci centesimi) che voglion carpire con queste loro gentilissime e garbatissime chiacchiere.

Da un altro canto esclama Burattino, che par che il boja gli dia la corda, col sacco indosso da facchino, col berettino in testa che pare un mariuolo, chiama l’udienza ad alta voce, il popolo s’appropinqua, la plebe s’urta, i gentiluomini si fanno innanzi, e a pena egli ha finito il prologo assai ridicoloso e spassevole, che s’entra in una strana narrativa del padrone, che stroppia le braccia, che stenta gli animi, che ruina dal mondo quanti uditori gli han fatto corona intorno ; e se quello co’gesti piacevoli, co’motti scioccamente arguti, colle parole all’altrui orecchie saporite, con l’invenzioni ridicolose, con quel collo da impiccato, con quel mostaccio da furbo, con quella voce da scimiotto, con quegli atti da furfante s’acquista un mirabile concorso ; questi collo sgarbato modo di dire, con la pronuncia bolognese, col parlar da melenso, con la narrazione da barbotta, collo sfoderar fuori di proposito i privilegi del suo dottorato, col mostrar senza garbo le patenti lunghe di signori, col farsi protomedico senza scienza, all’ultimo perde tutta l’udienza, e resta un mastro Grillo a mezzo della piazza. Fra tanto sbuca fuor de’portici un Toscano e monta su con la putta, smattando come un asino Burattino col suo Graziano ; il circolo si unisce intorno a lui, le genti stanno affisse per vedere ed ascoltare, ed ecco in un tratto si dà principio, con lingua fiorentinesca, a qualche pappolata ridicolosa, e in questo mezzo la putta prepara il cerchio sul banco e si getta in quattro a pigliar l’anello fuora del cerchio, poi sopra due spade, tuole una moneta indietro stravaccata, porgendo un strano desiderio al popolo della sua lascivia grata : ma fornita la {p. 460}botta, si urta nelle ballote e il cerchio si disunisce, non potendo star più saldo allo scontro dei bussolotti che vanno in volta. Da un’altra parte della Piazza il Milanese, con la beretta di velluto in testa e con la penna bianca alla guelfa, vestito nobilmente da Signore, finge l’innamorato con Gradello, il qual si ride del padrone, li fa le fiche in sul viso, le mocche di dietro, si proferisce al suo comando, prontissimo a pigliare una somma di bastonate, si tira il cappello sul mostaccio, caccia mano al temperino, e con gli occhi storti, con un viso rabbuffato, con un grugno di porco, con un guardo in sberleffo verso i rivali del suo padrone, fa mostra di sè stesso come d’un can mastino corrucciato ; ma pian piano vedendo l’incontro degl’inimici diventa paralitico, e tremando di paura e lordandosi in sul banco, si dà in preda ai calcagni e lascia il Milanese fra le scatole e l’ampolle in mezzo della piazza impettolato.

Fornita questa istoria, Gradello fa una squaquarata di voce e di canto molto sonora ; ovvero finge l’orbo col cagnuolo in mano in luogo di tiorba, e poi si comincia l’invenzione delle bolle di Macalesso che dura due ore, onde gli uditori stomacati, si partono beffando lo sciocco cerretano, che sta pur saldo su le tre gazzette delle grosse, e delle piccole due soldi, protestando al cielo ed alla terra di non volere calare se non quando l’udienza parte senza dir buona sera, nè tor commiato d’alcuna sorte.

E qui dopo di avere con ogni particolarità parlato di Mastro Lioneaddottorato a Lizzasusina, del Cieco da Forlì, di Zan della Vigna, del Tamburino, del Napolitano, e di Mastro Paolo D’Arezzo e del Moretto da Bologna, e di Settecervelli colla sua cagnuola ammaestrata, e del Parmeggiano colla sua capra, e del Turco e del Giudeo e di tutte le loro scioccherie comiche, ciarlatanesche, acrobatiche, conclude :

Or da ogni parte si vede la piazza piena di questi Ciurmadori, chi vende polvere da sgrossar le ventosità di dietro ; chi una ricetta da far andare i fagiuoli tutti fuor della pignatta alla Massara ; chi vende allume di feccia per stopini perpetui, chi l’olio de’filosofi, la quinta essenza da farsi ricchi, chi olio di tasso barbasso per le freddure, chi pomata di seno di castrone per le crepature, chi unguento da rogna per far buona memoria, chi sterco di gatta o di cane per cerotto da crepature ; chi paste di calcina da far morire i topi ; chi braghieri di ferro per coloro che sono rotti, chi specchi da accendere il fuoco posti incontro al sole ; chi occhiali fatti per vedere allo scuro ; chi fa veder mostri stupendi e orribili all’aspetto, chi mangia stoppa, getta fuori una fiamma, chi si percote le mani col grasso discolato, chi si lava il volto col piombo liquefatto, chi finge di tagliar il naso a uno con un cortello artificioso, chi si cava di bocca dieci braccia di cordella, chi fa trovare una {p. 461}carta all’improvviso in man di un altro, chi soffia in un bossolo e intinge il viso a qualche mascalzone, e chi gli fa mangiare dello sterco in cambio di un buon boccone.

Oltre a ciò V. Casali Gaetano, comico di rari pregi al servizio del celebre ciarlatano Buonafede Vitali, Bissoni Giovanni, e primo fra tutti il famoso Tabarrini, da cui poi la maschera di Tabarino, quasi sempre (V. Sand) padre di Colombina e compagno del Dottore, che vediamo comico e ciarlatano, al servizio del celebre Mondor, nel 1620 circa, a Parigi.

Nè in questi soltanto, ma in altri ancora avremo da notare questa mescolanza di ciarlataneria e d’arte comica. Quanto a’rimedj, segreti, ricette (buffonerie da non dirsi), V. Montini Ippolito e Mozzana Francesco. Anche abbiamo un canto carnascialesco di Zanni e di Magnifichi e un capitolo, pubblicato per la prima volta da Carlo Verzone, di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, che vedremo riprodotto al nome di Cantinella.

A riscontro della descrizione garzoniana, ecco un brano di Giambattista del Tufo, concernente il carnevale del 1588 in Napoli, ecc. ecc., riprodotto da Benedetto Croce nell’opera sua de’ Teatri Napoletani più volte citata :

Vedresti ed anco allor tanti buffoni,
Transtulli e Pantaloni,
che, per tutti i cantoni,
con le parole e gesti ed altri spassi
fanno muovere i sassi ;
sentireste d’intorno
cento cocchi di musiche ogni giorno,
come anco farse e tresche e imperticate
da cento ammascherate,
ed al suon del pignato e del tagliero
cantar Mastro Ruggero,
e simili persone
col tamburello e con lo calassione,
{p. 462}sentendo in giro chi da là e da quà :
Lucia mia Bernagualà !
Veder talvolta comparir in scena
con dolcissima vena
presto e destro, qual suol, Covar Navettola,
Coviel, Giancola, e Pascariello Pettola.
Così veder quel ballo alla maltese,
ma in Napoli da noi detto Sfessania,
donne mie, senza spese
vi guarireste allor febbre o micrania.

Quella frase di Lucia mia Bernagualà, o era il primo verso di una canzone celebre cantata in carnevale dagli Zanni, come oggi dal popolo quella di Piedigrotta, o una specie di parola d’ordine, nella quale era, dirò, il segno col quale il popolo e le maschere si davano a quella specie di chiasso indiavolato. Di questa frase press’a poco si servì il Callot per il frontespizio de’suoi balli di Sfessania (Lucia mia, Bernovallà, che buona mi sa), nel quale essa è intonata a suon di mandòla, di cembalo, e di armonica, e in mezzo alle danze, o meglio a’salti i più vertiginosi. In fondo di tra le tende, sbucan due tipi, probabilmente la Signora Lucia e Trastullo ; e a’fianchi del palco si veggon teste di spettatori intenti. Bernovalla è poi, mutato in Pernovalla, divenuto uno dei personaggi de’Balli di Sfessania, accoppiato con Cucorongna.

Quanto all’etimologia della parola Zanni, omai, dopo i vari studi dello Stoppato, del Rossi, già pubblicati, e quello del Della Torre, tuttavia inedito, credo sia da rigettarsi recisamente la derivazione che fecero i nostri antichi, seguiti poi servilmente sino al secolo scorso, dello Zanni dal Sannio de’latini.

{p. 463}

Assai più semplice pareva a me di dover prendere il Zan bergamasco come la forma dialettale di Gianni, Giovanni ; forma conservata sin qui nel veneto e nel lombardo. Anche a Lugano, Canton Ticino, quando si voglia rimproverar taluna di certe sue sciocchezze, si suol dirle : fa minga la Zana ! Nel linguaggio famigliare veneto vive la frase : far daZanee da Burattin, ossia far tutte le parti in commedia. A ogni modo Vittorio Rossi, in una sua recensione alli studi dello Stoppato sulla Commedia popolare, avvertiva :

Non fu, ch’io sappia, mai rilevato come in appoggio di questa opinione possa essere citata La Primavera, Comedia di Messer Vincenzo Fenice, detto il Rinovato, nuovamente recitata nella magnifica città di Venezia. (In Vinegia, appresso di Agostino Bindoni, 1549). Nella lista dei personaggi vi troviamo infatti un Giovannibergamasco servidor, il quale nel corso della commedia è sempre chiamato Zane, e fa precisamente la parte dello Zanni.

Ed eccoci, senza più, alla promessa

GENOLOGIA

DI ZAN CAPELLA.

Fatta in una bellissima Matinata, alla sua

cara innamorata detta D. Bertolina

nella qual si narra tutta

la nobiltà del

suo

parentado per acquistar la

gratia sua.

Opera nuoua, et redicolosa ad

ogni spirito gentile.

Bona sera, o Bertolina
L’hè chi ol Capella valent
Ch’è venud de voltolina
Per narrat ol so torment
Mo te pregh te stagh attent
E non esser venenusa
Ne superba o desdegnusa
Ma pietosa e Melosina.
Bona sera o Bertolina.
Za che sem a rasona
Perchè so che t’ho cennat
Delle volte più de mil
Mi te l’ho volud mostra
Ol me sangu col parentà
Perchè son innamorà
Ma ti soni la sordina.
Bona sera o Bertolina.
(Manca un verso alla strofa)
{p. 464}Del illuster sangu de Troja
Homen splendid, e famus
Nanzi alla Regina Ancroja
Dosent an ancora plus
Ch’el nasi quel valorus
E terribel fier porchet
Che fu pader del zampet
Hom d’ingegno e de dottrina.
Bona sera o Bertolina.
De Zampet nasi Frittada
De Frittada ol Codeghi
Codeghi fe la Stagnada
La Stagnada ol Pentoli
Pentoli fe Burati
Burati criò ol Bocal
Ol Bocal fe l’orinal
Che fu poi detto Fascina.
Bona sera o Bertolina.
Ol Fascina fe Molena
E Molena fe crosti
Ol Crosti fe la Mezena
La Mezena ol Tempari
Tempari fe Scorteghi
Scorteghi fe Pan Buffet
Che fu pader dol Guazzet
Ch’andò sempre a testa china.
Bona sera o Bertolina.
El guazzet fe Zan padella
Zan padella Pedroli
Pedroli fe Zan Capella
Zan Capella ol Giouari
Giouari fe Zan Doni
Zan Doni fe Zan Batochio
Zan Batoch fe Zan Capochio
Che fu mes poi alla berlina.
Bona sera o Bertolina.
Zan Capochio fe Zan Intrigh
Zan Intrigh fe Frega ol bus
Frega ol bus fe Zan Brutigh
Zan Brutigh fe Zan Ambrus
Zan Ambrus fe Rocca e Fus
E de Fus naq Zan Pestel
Zan Pestel hauea un fradel
Che si chiama Zan Farina.
Bona sera o Bertolina.
Zan Farina fe Faloppa
Ol qual fu poi Cazza diauol
Cazza diauol fe la Stoppa
E la Stoppa fe Zan Pauol
De Zan Pauol naq Zan Cauol
Che fe poi la Filippetta
Che cantaua la zerometta
Quand la faceua la cachina.
Bona sera o Bertolina.
Filippetta fe Fiumana
Che fu poi di Zan Bagozza
Zan Bagozza fe Guzana
E Guzana Zan carozza
Zan carozza fe catozza
Che fe poi quel Zan Caualla
Che morì dentro una stalla
Che pelaua una galina.
Bona sera o Bertolina.
Zan caualla fe Frittada
Da qual naq puo Bon amigh
Bon amigh fe barba rada
Barba rada Zan Douigh
Zan Douigh fe Barba righ
Barba righ fe la quintana
Che vendeua la sua lana
A i fachi de voltolina.
Bona sera o Bertolina.
Fe Quintana Zan Gradella
Zan Gradella ol Scattoletta
Scattoletta fe Labella
Che criò puo Zan Braghetta
Che cagand mai non si netta
Zan Braghetta eb quattro fioi
Che volend robbà i fasoi
Fu impicat una mattina.
Bona sera o Bertolina.
Ol mazzur fe Zan Poina
E puo l’oter fe Sturiù
E dol terz naq la Pedrina
E dell’ultim Zan Tripu
Zan Tripu fe un gran poltrun
Che si chiamaua Zan Pedral
Che mori di carneual
Che’l mangiaua una poina.
Bona sera o Bertolina.
{p. 465}Zan Pedral fe’ Zan Pignatta
Zan Pignatta ol Moleghi
Moleghi fe donna imbratta
Donna Imbratta il Mescoli
Che portaua un bocal
Su la testa per berretta
Mescoli fe Zan Zanchetta
Che morì poi a panza pina.
Bona sera o Bertolina.
E costù fe’ Zan Beltram
Merchadant ch’andò a patras
Zan Beltram fe Zan Pedram
Che compraua i Scartafaz
I bicchier la fezza e i stroz
Don Pedral fe Zan Tognuol
Che magnaua in dol parol
E da sera, e da matina.
Bona sera o Bertolina.
Zan Tognuol fe la canella
E Canella fe Canu
Che sponsò donna Stanella
Chem fe mi che son zanuol
Guarda me doncha se sun
Dun terribel parentà
Et se merit d’esser ama
Da ti cagna patterina.
Bona sera o Bertolina.
Oltra questo mi so fa
D’ogni cosa che se pol di
So cantà mi la sol fa
E la sol fa do re mi
So sonar ol violi
La chitarra col trombu
E le gniachare el violu
La zampogna e la sordina.
Bona sera o Bertolina.
Per portà la conca in spalla
E drouà zappe e vanghet
Per strià una caualla
Una mula e un zanet
Una troja, e un porchet
Una piegora, e un multu
Non è par al tu zanul
Che ti vol ben cara manina.
Bona sera o Bertolina.
Perchè vegh che tro al bordel
Tut ol me rasonament
Che t’e ti che un mat ceruel
Com s’è vist in tra la gent
Dunq à voi fa testament
Perche a vegh che ho a morì
Solament per amar de ti
Marioletta frasarina (o frascarina ?)
Bona sera o Bertolina.
Alag dunq alla tognuola
Un bel caspi de fenoch
E seg lag la grattarola
Che la possa fa di gnioch
Et puo lag a Zan Batochio
Me fradel quella bajada
Che s’adroua a fa la jada
E puo lag a te mamina
Un bel bas in la buchina.
Bona sera o Bertolina.
il fine.

(Dalla Miscellanea della Biblioteca dell’ Università di Bologna, 266. Tab. I, N. III, Fascicoletto 10. Sono in tutto 8 paginette di stampa in carattere corsivo, 12, senza luogo nè data, ma probabilmente sul ’600).

{p. 466}

Boccomini Giovanni. Nato a Roma nel 1784, si diede all’arte giovanissimo, ed esordì in Compagnia Zuccato, nella quale, in poco tempo, divenne l’attor principale. Fu col Bazzi, col Vestri e col Fabbrichesi al fianco del gran De Marini. Dalla Compagnia del Fabbrichesi passò in quella stabile agli stipendi del Re di Sardegna ; poi di nuovo in quella del Fabbrichesi nel 1824, col grado di primo attore tragico, per tornarsene ancora una volta nella Compagnia Reale. Mentre era il 1836 al Teatro Grande di Trieste, in Compagnia di Angelo Rosa, fu colpito dal colèra che lo tolse a i vivi a circa sessant’anni.

Tutti gli autori nostri, Alfieri, Metastasio, Goldoni, Nota, Bon, Sograffi, ebbero in lui un valoroso interprete : e quando l’Italia fu inondata circa il 1830 dalle traduzioni del Teatro di Scribe, l’esecuzione del Filippo, della Malvina, del Povero Giacomo mostrò a qual grado di perfezione egli seppe giungere coll’arte sua.

A lui dedicò Iacopo Ferretti il seguente sonetto :

Non io perchè de’tuoi sublimi accenti

il regolato suon, che non sa d’arte,

e giugne al cuor come dal cuor si parte,

interrompono ognor plausi frementi ;

non perchè ne’tuoi muti atti eloquenti

i pensier leggo come scritti in carte,

nè perchè in vario mar sciogli le sarte,

stupor perenne alle addensate genti ;

ma perchè di natura alcuno hai vanto

con brevi cenni, e semplici parole

trar da ciglio Roman stille di pianto,

{p. 467}

dirò, che Roma al tuo partir si duole,

e quelle stille su i tuoi lauri intanto

saran gemme del Gange ai rai del sole.

E di lui così lasciò scritto un egregio artista contemporaneo, Francesco Righetti (Teatro italiano, vol. II. Torino, Paravia, 1826) :

A Giovanni Boccomini fu genorosa natura ; di bella figura, di voce sonora, di avvenente aspetto ; quasi sempre applaudito, soventi volte encomiato, oltre le qualità fisiche possiede un tatto giusto e perfetta cognizione degli spettatori con che ha a fare. Pieno del nobile ardore di meritarsi un posto distinto nel numero de’suoi confratelli d’arte, l’ottenne ; una lunga pratica gli tiene luogo di teoria, ed è ben raro il caso che non riesca nel divisamento che si è proposto. Trasportato dall’entusiasmo nella tragedia, colpisce con forza gli animi de’spettatori, che con pari forza gli contraccambiano applauso ; non meno vivace nella commedia, quest’attore non lascia mai di occupare, e chiamare a sè l’attenzione di chi lo guarda e l’ascolta ; e s’egli fosse talvolta più rattenuto nella violenza de’conati, lo scoppio degli affetti farebbe più impressione.

Boccomini Pietro. Figlio del precedente, nacque a Milano nel 1819. Rimasto orfano, abbracciò l’arte del padre suo, scritturandosi nella Compagnia di Gaetano Nardelli. Dopo soli tre anni di noviziato entrò nella Compagnia Reale Sarda come primo e secondo amoroso. Da questa passò in quella di Adelaide Ristori, colla quale si recò fuor d’Italia. Morì in Amsterdam nel 1860.

Cagione della morte furon due colpi di pugnale ch’ebbe, quattro dita più su del cuore, da mano sconosciuta, dai quali non si riebbe più mai compiutamente. Le principali sue creazioni furon Ciniro nella Mirra, Ugo nella Pia de’ Tolomei, Mortimer nella Maria Stuarda, e Orfeo nella Medea. Ebbe – dice il Regli – molt’anima, fino sentire e non comune intelligenza ; e quanti lo conobbero son concordi nell’affermare che niuno come lui seppe accoppiare alle doti pregevoli dell’artista le squisite doti dell’animo.

Boccomini-Lavaggi Giuseppina, figlia del precedente e moglie di Gaspare Lavaggi. Educata nel Collegio delle Rosine a Torino, dove nacque, ne uscì a quattordici anni per abbracciar l’arte dei parenti. Esordì a’Fiorentini di Napoli qual {p. 468}seconda amorosa nella Compagnia di Adamo Alberti, passando poi di sbalzo, dopo soli due anni di noviziato, in quella di Gaspare Lavaggi e Antonio Zerri, qual prima attrice assoluta. A sedici anni dunque ella si trovò a interpretare, e ne’teatri di maggior grido, la Messalina, la Signora dalle Camelie, il Trionfo d’amore, la Giuditta, la Pia de’ Tolomei, ecc. ecc. Alla mancanza di quelle finezze di esecuzione e profondità d’interpretazione, che non vengon fuorchè dallo studio e dall’esercizio, mancanza inevitabile della verde età, suppliva la rara esuberanza dello slancio. Forse quella esuberanza, a cui fu prodigo il pubblico di tanto favore, serbandosi tuttavia elemento primo dell’attrice, nocque poi alla formazione compiuta dell’artista. Intanto, come una delle più forti promesse, la Boccomini-Lavaggi percorreva trionfalmente le scene, sostituendo in Compagnia di Alamanno Morelli l’ Adelaide Tessero, decoro alto del nostro teatro. Ammalatosi gravemente il marito, ella dovette abbandonar di punto in bianco la Compagnia, e restar fuor dell’arte un anno, per tornarvi poi coll’antico amore e coll’antico favore, vuoi scritturata da Luigi Monti, vuoi da Francesco Pasta, col quale ultimo andò a sostituir di bel nuovo la Tessero, gravemente ammalata, poi la Giagnoni, morta d’improvviso.

Oggi, ancor giovine, vive col marito in Livorno, ritirata dalle scene, lieta di potere di quando in quando offrir l’opera sua d’artista in pro di qualche sciagura.

Boccomini Adelaide. Sorella maggiore di Pietro, e moglie dell’attore Giovan Maria Borghi, sostenne per molti anni le parti di seconda donna, nella Compagnia Reale Sarda. Si scritturò poi nel 1860 con Luigi Domeniconi, col quale tornò il ’63, come madre nobile e caratteristica. Abbandonata l’arte, si recò presso un suo figlio a Genova, ove morì, più che sessagenaria.

Boetti-Valvassura Teresa, piemontese, e non figlia d’arte, esordì come prima attrice e prima attrice giovine con Giovanni {p. 469}Emanuel al Teatro Rossini di Firenze, al fianco di Laura Bon. La ricordo nell’Amalia dei Masnadieri di Schiller, gentile promessa di artista. Toltasi dall’Emanuel, recitò coi dilettanti, or vagando pei teatrini della capitale, ora per quelli dei paesi e città circostanti, come ad esempio Prato, ov’ella furoreggiava nelle Eleonore da Toledo, nelle Francesche, ecc., ecc. La Compagnia N.° 2 della Sadowski diretta da Luigi Monti, sentito, dopo una disastrosa quaresima a Livorno, il bisogno di una prima attrice giovine che alternasse le parti con la prima attrice, che era l’Adelina Marchi, scritturò la Boetti, la quale raggiunta la Compagnia a Napoli, esordì nella Verità di Torelli, ottenendovi il più spontaneo e clamoroso successo. A codesto punto comincia la vita artistica, propriamente detta, di Teresa Boetti. Fu due anni con Bellotti-Bon seconda donna, un anno a’ Fiorentini di Napoli colla Pezzana e con Emanuel. Fu tre anni con Zerri, uno con Pasta, cinque con Falconi, col quale andò in America, poi in Compagnia sociale con Ditta sua. Sposò un Valvassura di Faenza, e oggi vive, or nella casa del marito, or trapelando qualche compagnia, in attesa di miglior fortuna. Attrice di larghe promesse, da principio, di voce pieghevole e forte, di eletta educazione, di intuizione non comune e di non comune slancio artistico, passò la seconda metà della sua vita artistica in mezzo alle avversità di ogni specie, nonostante i successi ottenuti specialmente colla Teodora e la Tosca di Sardou, ch’eran divenute una particolarità tutta sua.

{p. 470}

Bognioli…… Apparteneva dal 1758 alla Compagnia del Reggente, l’ultima compagnia italiana che si recasse a Parigi. Nel 1768 se ne allontanò, per rientrarvi poi nel ’76. Esordì la sera del 19 febbraio, e piacque a segno da esser subito nel numero dei pensionarj della Comedia italiana. Morì il 27 dicembre del ’77.

Boldrini Federigo, veneto, capocomico assai noto, col quale furon scritturati in epoche varie, Alessandro Salvini, Giovanni Emanuel, Achille Majeroni, Icilio Brunetti, ecc. Fu anche attore di qualche pregio, e vuolsi, da’vecchi che lo ricordano, essere stato il miglior interprete del caratterista nella Cameriera astuta di Riccardo Castelvecchio. Sposò Luigia Cappella prima attrice, figlia del noto Meneghino, e morirono entrambi in America di febbre gialla.

Altri Boldrini esercitaron l’arte drammatica, tra’quali :

Giovanni, detto il mutolino, artista di qualche pregio per le parti di brillante ;

Augusto,primo attor giovane mediocre, si diede all’arte dopo di avere ottenuta la laurea di ingegnere. Fu il 1875 con Emanuel-Pasquali ; poi con Giuseppe Pietriboni, dal quale, dopo una cattiva prova al Teatro Valle di Roma, si tolse a principio d’anno, per finir colla moglie, una giovane dilettante torinese, in America, ov’egli si fece direttore di filodrammatici, e ove, dopo pochi anni, morirono entrambi ancor giovanissimi ;

Domenico, romano, tuttavia vivente, vecchio attore di compagnie d’infimo ordine.

Bolico Giulia. Comica illustre, fiorita sul finire del ’500. Di lei non abbiamo che le poche notizie che io trascrivo dal D’Ancona. Quando il Principe di Mantova, Vincenzo, disegnò di formare una gran compagnia, coi capi migliori di quelle già esistenti, che si sarebbe chiamata degli Uniti Confidenti, dopo il rifiuto motivato de’coniugi Francesco e Isabella Andreini, {p. 471}si volse alla Giulia Bolico, che allora era a Bologna, colla lettera seguente, in data 2 aprile 1583 :

A M.ª Giulia Bolico, Comica.

Car.ma mia. Li comici Confidenti, dei quali hora io mi servo, desiderano di haver voi in compagnia loro, il che anche a me piace, per intender la sufficienza vostra ; perciò mi sarà di non poca soddisfatione che, posponendo ogni cosa, vi transferiate qui a servire me et a compiacere loro, che vi amano molto. State sana. Per farvi piacere

Il Princ. di Mantova.

A questa il Principe ne fe seguire altra lo stesso giorno a Pirro Malvezzi, pregandolo d’interporsi per la riuscita della scrittura ; ma il Malvezzi rispose il 25 che la Bolico aveva preso altro partito, e non poteva accettar l’invito di S. A. Il D’Ancona in Giulia Bolico vedrebbe quella Giulia Brolo degli Uniti che firmò il 3 aprile 1584 da Ferrara una lettera collettiva al Principe per recarsi a recitare a Mantova. (V. Battista da Treviso).

Bollini Antonio, nato a Bologna da una modesta famiglia di operai, esordì il 1861 in Compagnia Fabbri e Codignola, come generico giovane e segretario, errando poi sino a tutto il ’63 in Compagnie di 3° ordine quali di Napoleone Berzacola, Saverio Petracchi ed Enrico Verardini. Dall’ottobre ’63 sino a tutto il ’64 fu secondo amoroso con Francesco Bosio, poi, il ’65, con Bellotti-Bon. Passò brillante il ’66 con Gaetano Gattinelli, e il ’67 con la Sadowski e Majeroni ; e il ’69 fu scritturato brillante assoluto da Tommaso Salvini. Fece poi compagnia il ’70 con Koderman, Pesaro e la Santecchi ; il ’71, ’72, ’73 con Cesare Vitaliani ; il ’74 con la Zampolli e Toselli ; il ’75 con Achille Dondini e Giovanni Aliprandi ; il ’76, ’77, ’78 con Achille Majeroni ; dal ’79 all’ ’84 solo. Smesso l’ ’85 di fare il brillante, passò amministratore con Giovanni Emanuel. Fece l’ ’86 società con Adelaide Tessero ; passò l’ ’87 al Teatro Manzoni di Roma con Dominici, Rosa e Della Guardia ; fu l’ ’88 con Marazzi e Morelli, l’ ’89 con Francesco Pasta, col quale andò per la prima volta in America, e il ’90 formò con Ettore Paladini {p. 472}una Compagnia Sociale, di cui egli era l’amministratore, e di cui fece parte, scritturata, la Tina Di Lorenzo. Fu il ’91, ’92, ’93 con Pasta, Garzes e Reinach, e il ’94, ’95, ’96 con Pasta e Tina Di Lorenzo, coi quali trovasi tuttora, scritturato pel triennio ’97, ’98, ’99 colla nuova Compagnia di Claudio Leigheb e Virginia Reiter.

Bon Francesco Augusto. Nacque a Venezia il 7 giugno 1788 da’nobili parenti Giovanni Antonio e Laura Corner. I suoi nomi – dice il Regli – furon Francesco Giorgio Maria, ma egli assunse a Parma il nome di Augusto, quando la Duchessa Maria Luigia, vedova di Napoleone I, presentatale dal Bon l’edizione delle sue commedie, gli disse : Signor Augusto Bon non so come ringraziarla…. Ma gettati gli occhi sul volume, e accortasi dell’errore, aggiunse : veggo che mi sono ingannata, ma per il di lei genio, il solo nome che gli si compete è quello di Augusto. D’allora in poi – continua il Regli – il Bon si chiamò Francesco Augusto, in onore di colei che fecesi sua matrina in questo battesimo di gloria. Secondo il Costetti invece (op. cit.) il nome del Bon sarebbe stato quello di Augusto, al quale poi fu aggiunto quello paterno(?) di Francesco. Preso d’amore ardente per l’attrice Assunta Perotti, lasciò Venezia, ed entrò in quella Compagnia, diventandone in poco tempo uno de’principali ornamenti e come attore e come poeta. Fu il 1821 nella R. Compagnia Sarda di Torino, dalla quale uscì dopo un anno, per entrare in quella Goldoni-Riva, di cui sposò la prima attrice Luigia Ristori, vedova dell’attore Bellotti (V. Bellotti-Bon Luigia). Morto improvvisamente il Riva a Trieste nella primavera del ’22, e troncato dalla vedova Gaetana Goldoni ogni contratto, il Bon formò quella società comica Bon-Romagnoli-Berlaffa, colla quale si ripromise di ridar vita a tutto il repertorio goldoniano : e tanto vi riuscì che si acquistò il titolo di fedele esecutore testamentario delle volontà dell’italiano Terenzio. La Compagnia, che si chiamò appunto Carlo Goldoni, ebbe dal Duca di Modena il titolo di Compagnia {p. 473}ducale e il teatro gratis per l’autunno e carnevale con un assegno di 8000 lire…. La società dalla quaresima del 1823 ebbe florida vita sino a tutto il carnevale del 1831. Fu poi il Bon in Compagnia Cesaroni e in quella di Camillo Ferri colla moglie prima attrice. Rimasto vedovo, fu scritturato colla figlia Laura e il figliastro Luigi (V. Bellotti-Bon) nella Compagnia lombarda di Giacinto Battaglia, come direttore. Si fece poi egli stesso conduttore di quella impresa, la quale dopo tre anni cedette ad Alamanno Morelli e Bellotti-Bon, e della quale restò sempre direttore, recitando ancora talvolta, benchè in età avanzata, la sua Trilogia di Ludro.

Lasciata l’arte e ridottosi a Padova, fu nominato direttore di quella filodrammatica. Quivi sposò in seconde nozze una giovine padovana, e quivi morì nell’età di oltre settant’anni. – Ebbe onoranze funebri degne di lui : una pietra commemorativa fu alzata sulla sua tomba dalla figlia Laura colla seguente iscrizione :

qui riposa Francesco Augusto Bon
patrizio veneto
scrittore comico
dopo Goldoni primo
morto in Padova il xvi decembre mdccclviii
Laura figlia sua maggiore
con doloroso affetto questa pietra pose
il gennaio del mdccclix
{p. 474}

A questo punto lascio la parola a Giuseppe Costetti che con tanto amore ed acume dell’opera letteraria del Bon discorse nel suo studio sulla Real Compagnia Sarda (pag. 23-24).

Scrisse più di quaranta commedie tra le giovanili e sconfessate, e quelle che più recarono in alto la fama di lui. Vive ancora sul teatro la trilogia dei Ludri, un tipo tolto ad imprestito a Carlo Goldoni ; e cioè, Ludro e la sua gran giornata, il matrimonio di Ludro, e la vecchiaja di Ludro. La prima delle tre è un capolavoro di furberia, di comicità, di movimento scenico. Così faceva mio padre, modellato sul Todaro brontolon e sul Burbero benefico, durò anni ed anni sulle scene con successo commozionale. Il vagabondo e la sua famiglia ha tutte le attrattive del dramma francese, senza nulla perdere delle fattezze della commedia italiana. Nel Testamento di Figaro si mostrò degno di proseguire la trilogia del Beaumarchais. Il suo capolavoro però è una semplice commediola in due atti, Niente di male ; un giojello ancor luccicante nello scrigno dell’arte nostrana. Alla distanza di due terzi di secolo quelle quattro figurine onde si compone l’azione vi dilettano, e vi rapiscono per la vivezza della pittura colta dal vero. Egli stesso, l’autore, vi era inarrivabile nella parte del servitore intrigante…………

Lasciò scritte, e tuttora inedite, le sue Memorie ; in fondo alle quali, di suo pugno, si leggono queste parole : « Nato nel 1798, morto…. (in bianco) : prego gli amici di mettere questa data, perchè io, probabilmente, non sarò in grado di farlo. »

Oltre alle tante produzioni drammatiche, abbiamo di lui i Principii d’arte drammatica rappresentativa, dettati nell’ Istituto drammatico di Padova (Milano, Sanvito, 1857), nei quali, più che le lezioni teoriche, sono da ammirarsi i dialoghi, alcuni de’quali, come la Rissa, sono drammettini vivi, palpitanti, d’una modernità scenica meravigliosa ; e una infinità di articoli pubblicati nella Gazzetta di Milano e nel Pirata…. pieni di spigliatezza, di brio, di comicità satirica, tra’quali primo il rapporto della società degl’imbecilli. È vero peccato che le memorie sue, narrate sotto il titolo di Avventure comiche e non comiche di F. A. Bon, giacciano tuttavia inedite.

A titolo di curiosità metto qui la lettera seguente all’attore Ferri (V.), che debbo alla gentilezza del sig. cav. Azzolini.

Stimatiss.mo Sig. Ferri.

Non potendo ella sopra il mio credito di circa duemila lire somministrarmi scudi settanta fiorentini, che mi necessitano pel pagamento degli impegni da me contratti qui in Firenze, nè tampoco pagarmi il costo della vettura pel trasporto di me e mia famiglia fino a Forli, crescendo d’ora in ora i miei bisogni, nè trovando conciliabili i suoi mezzi pecuniarj con le esigenze della Compagnia tutta, io sono costretto a prevenirla essere per me di necessità di provvedere sull’istante ai bisogni della mia esistenza, a quelli di mia {p. 475}moglie, de’miei quattro figli, non potendo più sostenermi in siffatta pendenza. E ciò le partecipo in forma di atto regolare, onde procedere con tutto quell’ordine che la urgentissima circostanza permette.

Mi favorisca due righe di risposta o al momento, o tutto al più all’ora del mezzo giorno al solito Caffè d’ Etruria, e mi creda

All’ornat.º Sig. Camillo Ferri
S. R. M.

Bon Laura. Figlia del precedente e di Luigia Ristori-Bellotti (V. Bellotti-Bon), nacque nel 1825 a Torino. Cominciò per tempissimo a recitar parti comiche di qualche importanza con molto successo. A sedici anni era a Milano con Tommaso Zocchi, ingenua applauditissima ; a soli venti anni applauditissima prima attrice assoluta con Pisenti e Solmi. « Maravigliò – scrive il Regli – per la stupenda esecuzione da lei data a quelle parti, in cui più le violenti passioni campeggiano, come nel Ricco e Povero, nel Testamento d’una povera donna, nell’ Eulalia Granget, Era io » della signorina R. Wan-Duersen, ch’ella stessa volgarizzò, e in cui riportò un successo clamoroso. Nè solo nel dramma fu artista pregiatissima, ma anche nella commedia e nella tragedia : e a quest’ultima, anzi, dedicò ogni suo studio negli ultimi anni di arte. Recatasi nel ’46 al Vecchio Re di Milano colla Compagnia di Vincenzo De Rossi, diventò a un tratto l’idolo del pubblico, ch’ella trascinò all’entusiasmo, specialmente colla Teresa di Dumas e la Parisina del Somma. Si riunì poi il ’48 a suo {p. 476}padre nella Compagnia Lombarda, con Alamanno Morelli e Bellotti-Bon. Ma intollerante di giogo, o più tosto di quiete, di natura mobile e bizzarra, passò di compagnia in compagnia, or a’ Fiorentini di Napoli, or col Billi, or col Bosio, or con Rossi e Gattinelli, or col Bastrelli, festeggiata ovunque. Lasciò l’arte per alcun tempo : vi tornò fiorente ancora, e ancor bene accolta dai pubblici, ma conducendo sempre vita travagliosa anche in mezzo alle dovizie che le piovver più volte in ogni modo e da ogni parte.

Di lei così scrive Ernesto Rossi nel vol. I delle sue Memorie artistiche :

…… attrice intelligentissima : se avesse voluto, avrebbe potuto essere di decoro all’arte e di utile a sè stessa : disgraziatamente non aveva tutti i giorni della settimana ; credo glie ne mancasse qualcheduno : però era sempre una buona compagna, più dannosa a sè stessa che agli altri, e quando voleva era bravissima.

Fu conduttrice di compagnie ella stessa, e finì col ridursi a Firenze, ove per alcun tempo recitò di quando in quando assieme a filodrammatici per campar la vita, e ove trovasi anch’oggi. Una volta, a sollevarla dalla indigenza nella quale fu trascinata un po’dalle vicende dell’arte e molto dalla sua natura, si unirono con pietoso e gentile proposito i migliori artisti nostri, i quali dettero una di quelle rappresentazioni che segnano una data nella storia dell’arte. Si recitò l’Oreste di Alfieri e le parti furon così distribuite :


Elettra Adelaide Ristori
Clitennestra Laura Bon
Oreste Achille Majeroni
Pilade Tommaso Salvini
Egisto Angiolo Grossi (dilettante)

E a compimento dell’opera seguì alla tragedia la farsa Un laccio amoroso, recitata da Maria Luigia Rubini e da L. Bellotti-Bon, il fratellastro di Laura.

Il solenne spettacolo ebbe luogo al R. Teatro Niccolini la sera di mercoledì 9 marzo del 1870.

{p. 477}

Bonaldi Antonio, detto Pezzetta. Fu, dice il Bartoli, Arlecchino, e recitava assai bene nella commedia all’improvviso, che insegnava anche agli altri con passione ed amore. Lasciata l’arte, andò con la moglie a stabilirsi a Bologna, dove morì, assistito caritatevolmente dal capocomico Onofrio Paganini. Secondo il Loehner, questo Antonio non è che il Lorenzo Bonaldi, marito di Colombina, di cui il Goldoni tenne a battesimo una figliuola (a Rimini il 16 luglio 1743). « Patrini fuere Dominus Carolus Goldoni ac Domina Angela Zanotti. »

Ecco le parole del Goldoni :

Andai a pranzo dal Direttore ; e Ferramonti avendo parlato molto di me, tutti i Comici si eran là radunati. La prima amorosa era un’attrice eccellente, ma molto avanzata in età ; e la seconda era una beltà stupida e mal educata. Colombina era una bruna fresca e vezzosa, prossima al parto, e che, per parentesi, bentosto fu mia comare. Questa era la cameriera, e questa era la parte che mi piaceva.

L’arlecchino della compagnia non era però il Bonaldi, ma il Bigottini.

Bonaldi-Bartozzi Angela. Moglie del precedente. « Recitò questa comica – dice il Bartoli – nel carattere della serva con molto spirito ; e dopo d’aver passato un lungo corso di comiche vicende, toltasi alla professione, morì nella città di Bologna. » È questa dunque la bruna fresca e vezzosa del Goldoni, che faceva col Ferramonti le Colombine (V. sopra), e che era a Rimini il ’43 con la Casalini.

Bonani Vittorio.« Fu un celebre pulcinella, che fece volare il suo spirito sui teatri di Napoli, e che passò all’altra vita circa il 1730. » Così il Bartoli. Il Di Giacomo lo annovera tra’pulcinelli che recitarono alla Cantina. (V.).

Troviamo nel 1738 a’ Fiorentini qual prima donna una Nicolina Bonanni, figlia o sorella forse, dice il Croce, di Vittorio.

Bonazzi Luigi, perugino. D’indole bizzarra, intollerante, aveva esercitato parecchie professsioni, e – dice il Morandi –  {p. 478}tutte bene : lo studente di medicina, il professore, il poeta, il critico, il cospiratore, la guardia di finanza, il commediante, il capocomico, l’agronomo, e ultimamente faceva anche il fabbricatore di vino scelto, e ne beveva ! (Pref. al Gustavo Modena, Città di Castello, 1884). Dopo di essere stato a venti anni professore di rettorica in Ascoli, poi foriere nelle guardie di finanza, poi a Perugia insegnante privato, si diede nel ’43 all’arte, esordendo modestamente a Gubbio nella Compagnia Zanardelli e Viti. La quale scioltasi, dopo due mesi, entrò generico nella Compagnia Domeniconi, con cui andò a Genova e a Torino. Passò da questa in quella di Alamanno Morelli, allora sconosciuto al teatro italiano, come generico dignitoso, poi in quella di Gustavo Modena, in cui sostenne e con buona fortuna le parti di Lusignano nella Zaira, di Lowendeghen nel Cittadino di Gand, di Maresciallo nei Due sergenti. Formatasi la Compagnia Lombarda con Augusto Bon direttore e Morelli primo attore, vi rimase come generico, sostenendo parti superiori al suo ruolo, come il Don Pirlone e il Tartufo, e passando poi a quelle di caratterista per la insufficienza dell’attore Bugamelli. Fu nella Compagnia Reale di Napoli con Adamo Alberti, e tornò il ’49 a Perugia ove si diede a recitar co’dilettanti, e d’onde si restituì all’arte generico, tiranno e caratterista della Compagnia Coltellini, terminando l’anno a Roma con la Internari e Capodaglio, e tornando poi, caratterista assoluto, in Compagnia Lombarda. Lo vediamo nel ’54 esercitare in tutta la sua estensione il primo ruolo di caratterista colla Botteghini e colla Majer, poi col Santecchi, poi in compagnia propria, poi col Peracchi, poi, nel ’62, tornare a Perugia a insegnare storia e geografia in quel liceo ; dal quale uscì dopo tre anni, per andar a sostituire a Napoli con ottomila lire di stipendio il Taddei, il primo caratterista italiano ancora vivente, ma irreparabilmente colpito da apoplessia. Ma anche questa volta vi rimase poco tempo, chè la cattedra lo richiamò a sè. Ho seguito nella cronologia il Bonazzi stesso, di cui una breve autobiografia, dettata interamente alla sua nipotina Fiordilinda Agostini, e rivista poi nel febbraio {p. 479}del ’79, fu testè pubblicata dal dottor Cesare Agostini (Perugia, 1896) assieme ad altri scritti minori in prosa e in versi ; e ho seguito il Morandi che del Bonazzi fu scolaro, e di lui parla colla più schietta delle ammirazioni e delle affezioni. Quanto al fisico e all’indole sua, egli dice (op. cit., VII) :

…. grasso e tarchiato, con quel faccione da canonico e pur tanto simpatico, con quella fronte spaziosa, con mezza libbra di tabacco giù per il panciotto, con que’soprabitoni lunghi, lunghi, che gli arrivavano ai tacchi, e rivelavano il commediante in riposo. Mi par di vederlo quando entrava in iscuola tutto burbero e accigliato ; eppure, al suo apparire, un lampo di gioia brillava nel viso di noialtri scapati. Egli si sedeva sulla cattedra fiutando una presa, e a poco a poco si rasserenava, perchè la nostra compagnia gli faceva bene, e noi ce ne accorgevamo, e a modo nostro se ne cavava profitto. Quando glie ne facevamo qualcuna delle grosse, « birboni, birboni, birboni !… » tonava lui con un crescendo, che ci faceva venire la pelle d’oca, e alzava il bastone (classico avanzo anch’esso del palcoscenico) ; ma la cosa finiva li……

Le opere che al Bonazzi assicuraron fama di scrittore egregio furono due : il Gustavo Modena e l’arte sua, e la Storia di Perugia dalle origini al 1860 (Perugia, 1879), per la quale, dopo la pubblicazione del primo volume, fu a voti unanimi eletto socio straordinario della Deputazione bolognese di storia patria.

Il libretto sul Modena è un aureo studio sull’arte del grande attore. Se di tutti i grandi della scena si avesser studi compagni, ci si farebbe una idea ben chiara di quel che fosse l’arte rappresentativa ne’vari periodi : ma sciaguratamente il libro del Bonazzi è unico. Egli vede e ode e sente : e rende ciò che ha veduto e udito e sentito, con una semplicità e con una evidenza, che par ch’egli discorra. Il miglior degli elogi gli fece nell’Italia di Napoli del 1865 (n. 189) Luigi Settembrini, il quale conchiudeva : « così si scrive, benedetto Iddio ; così lo scrittore ti afferra, e ti stampa nell’anima ciò ch’egli vuole. »

{p. 480}

Ho detto in principio che il Bonazzi aveva carattere intollerante. Di una rettitudine a tutta prova, di una mente penetrativa, di un gusto squisito, odiava tutto ciò che era, o gli pareva ingiustizia…. Non ebbe la malvagità di animo di fissarsi acerbo su que’ poveri attori che a tutto eran chiamati fuorchè all’ arte del teatro, e che traevan la vita a stento peregrinando di paesello in paesello…. : ma per gli attori che, pur essendo al par di quegli sciagurati negazione di arte, con illeciti mezzi strappavan applausi a i pubblici che avean nome d’intelligenti, e che preferivano, ad esempio, una meschina compagnia rappresentante il Prometeo di Troilo Malipiero ad altra di cui faceva parte il gran Vestri ; che accorrevan a un teatro ove recitava una compagnia Zocchi, composta degli attori più abbietti, mentre in altro era la grande trinità artistica De Marini, Vestri e Modena…. ; oh, per quelli, il Bonazzi fu un vero demonio ! E siccome di arte s’intendeva assai, e siccome, essendo stato attore valente tanto da sostituire talvolta il Modena in alcuna delle sue parti e uno de’ più acuti e profondi critici, quando mena la sferza ha sempre ragione da vendere, dirò anch’io col Morandi : Dio gli benedica le mani e la lingua.

A questa indole indiavolata accenna anche il Modena in una sua lettera a lui del 22 giugno ’57 (Epistolario, Roma, 1888) :

…. vi vedo imbrogliato male andando a Faenza. Sono romagnoli fieri veh ! E voi non siete figlio di santa Prudenziana. Dovreste andare a Faenza coll’acqua in bocca e coll’olio santo in saccoccia. Pensateci.

E da molti ancora che lo conobbero sentii dire più volte : non ci si poteva vivere accanto !… E nondimeno, quand’egli vive lontano dall’arte nella quale egli vede le più alte idealità cedere il posto a la camorra signoreggiante, quanta dolcezza, quanta soavità…. e più ancora qual finezza di forma ; laddove, nello scoppio dell’iracondia le parole gli escono di bocca come sono sono, e s’inseguono e s’incalzano senza che il pensiero della lima tenti di arrestarle.

Ecco, come saggio di quel suo stile eletto, le strofe di una poesia scritta nel ’66, tornato da Napoli a Perugia :

{p. 481}………….
E tu con me mio fido cane. Ignaro
de la vita che fugge, a’ tuoi futuri
danni non pensi allor che accovacciato
sul pavimento dell’aprica stanza
ti scaldi taciturno a’ rai del sole,
ed all’ insetto che ti ronza intorno
volgi obliquo lo sguardo, e lo sollevi
fraternamente all’augellin che canta
da la pensile gabbia. Oh tu non sai
come pallidi i giorni e come triste
passan le neghittose ore all’amico
che tu carezzi ! A te della ragione
non fu dato il tormento ; e sul mio letto
forse inconscio alzerai la zampa e il muso,
allor che quivi cesserà per sempre
il solingo, inudito, entro gli arcani
del cerebro sentieri,
inane bisbigliar de’ miei pensieri.

E di questi soavissimi versi metto a riscontro questi altri, che tolgo dall’ epistola a Gustavo Modena sulle comiche compagnie italiane, inserita nel citato libretto del Bonazzi, e che, pur non essendo cattivi, son ben lontani, pare a me, dall’aurea semplicità dei primi.

……Invan sperate
che crescendo il valor vi cresca il lucro,
o seco lor vi accolgano i signori
dell’italica scena. A regia stirpe
solo, a prole di numi è conceduto
sperar regi connubi. Ancor che tutta
si rimesca la comica falange,
d’uno in un altro de’ beati stuoli
a vicenda tramutansi pur sempre
i dinastici artisti ; e se alcun vuoto
tra le file celesti apre il cholera,
pronto ad empirlo un suocero, una nuora,
od un genero sta. Così all’onore
provvegon di lor casta i semidei !
Oh ! a te rida salute…….
{p. 482}

(V. anche Job Anna, al cui nome è pubblicata per intero un’ epistola di lui sulla Recitazione).

E ora, com’ è principale intento dell’ opera pubblicare le cose che contribuiscono a dar più compiuta la storia della nostra scena, metto qui dalla Storia di Perugia le pagine che trattano delle condizioni dell’arte (vol. II, pag. 682-687).

Anche per la prosa i primordi del secolo furono felicissimi. Vennero allora ad onorare le nostre scene il milanese Giuseppe Demarini e il fiorentino Luigi Vestri, due attori mostruosi. Non vi fu più chi superasse il Demarini per virile bellezza, per potenza di voce, e per miracolose particolarità d’organismo. Per queste, più che per la forza di commozione, egli cangiava di colore a sua voglia, tremava di tutta la persona, si faceva rizzare in testa i capelli, irti come le penne dell’ istrice. Nelle situazioni patetiche gli usciva dall’occhio una grossa lacrima che gli si spandeva per la guancia ; ed era un pietoso incanto per la platea quel suo lamentarsi col viso umido di pianto, che luccicava al lume della ribalta. Il Vestri, senza tante parrucche, dava un’acconciata alle poche ciocche de’suoi capelli, e usciva dalle quinte con fisonomia, con voce, con modi talmente ottemperati al suo personaggio, ch’ei poteva rappresentare tutta quanta la umanità, e nelle parti promiscue, ove la natura umana è dipinta come è realmente, faceva piangere e ridere al tempo stesso, come ebbe a dire anche il Byron. Lo Scribe ad udirlo ne restò incantato ; e la famosa simpatica Malibran, grande attrice ancor essa, senza aver mai parlato con lui, scese dal suo palchetto in palco scenico a dargli un bacio ; ed ei dopo averlo cordialmente assa porato, le disse che non si sarebbe lavato il viso per cent’ anni. Questi attori si udirono qui dal popolo con biglietto a mezzo paolo, poco più di venticinque centesimi ; e forse a minor prezzo anche Città di Castello potè udire il gran Demarini. È ben vero che quando recitavano sì fatti artisti, la platea del nostro teatro era illuminata a candele di sego, e la ribalta con fiaccole che ardevano in teglie ripiene di grasso ; ma questa illuminazione non era particolarità di Perugia. Che anzi, erano già molti anni dacchè al teatro del Pavone era stata posta la lumiera con quattro grandi pavoni dorati, che poi furono tolti perchè dalla sua luce si pavoneggiavano quei soli quattro animali, quando io nel 1843, assistendo ad una rappresentazione della compagnia Reale di Torino, trovai il teatro Carignano senza lumiera, e in cosi fitta oscurità, ch’ io distingueva appena la fisonomia di chi mi stava vicino, mentre la luce concentrata tutta sopra gli attori li faceva sembrare figure magiche, e la commedia era ascoltata con religioso silenzio. A poco a poco si aggiunse alla lumiera una infinità d’altri pomposi, inutili e fin ridicoli accessorii, specialmente in provincia, che vi portarono le spese serali alla grossa cifra di un migliaio e mezzo di lire, mentre al teatro Re di Milano non ascendevano in tutto a più di ottanta lire ; tantochè senza forti compensi, mancando le risorse delle grandi capitali, non fu più possibile alle migliori e più numerose compagnie di calcare le scene provinciali. Quindi a Perugia non solamente non vi tornarono più nè Demarini, nè Vestri, che pur seguitavano a vivere, l’uno fino al 1829, l’altro al 1841, ma, tranne la Internari e il Taddei, non vi comparvero mai i grandi attori del tempo ; non la Tessero, non la Marchionni, la soave ispiratrice di Silvio Pellico, non il Lombardi, famosissimo per le parti di Orosmane e d’Oreste, non l’attore ed autore Augusto Bon, non il Prepiani, non il Visetti, non Francesco Righetti, non Giacomo Modena, non Gustavo Modena, e più tardi non il Morelli, non il Bellotti-Bon in gioventù, non la Ristori con compagnia regolare. Nè per tale privazione il pubblico era meno esigente verso gli artisti minori. I grandi artisti hanno la proprietà d’innamorare il {p. 483}pubblico, avvezzo a sentirli, delle singole parti dell’arte ; talchè un attore che valga da un certo lato, è bene accolto da un pubblico erudito, che in grazia di quel pregio gli perdona i difetti. È proprio il caso d’un pittore distinto per qualche particolarità, che invece di andare a Roma andasse a Grenoble o a Mancester.

L’aumento delle spese serali senza compenso sicuro, e non già l’aumento delle paghe degli affari ci condannarono allora a quel limbo. Certo i migliori artisti si pagarono sempre qualche lira di più ; ma non poterono mai alzar la testa con gl’impresari, perchè a quei tempi correvano rischio di far forni teatrali anche le primarie compagnie. Dapprima fecero loro dannosa concorrenza gli spettacolacci, rimasuglio delle fiabe del Gozzi contro cui ebbe tanto a combattere il Goldoni ; e a Venezia il pubblico lasciò recitare alle banche una compagnia in cui a Demarini e Vestri si aggiungeva Gustavo Modena per amoroso per andare a sentire al teatro di S. Cristofano il Prometeo di Troilo Malipiero. Cessata quella guerra, non potevano certo favorire al teatro le fucilazioni dell’Austria, le torture del Borbone, l’ascetismo di Carlo Alberto, e il Sant’Uffizio di Roma, anche senza calcolare che i grandi artisti furono allora parecchi, la memoria degli artisti anteriori non era ancora perita, e alla poca voglia poteva unirsi la sazietà. E noti bene il lettore che tale condizione dei comici è assai meno antica di quel che si crede, e risale fino ai più cospicui attori odierni, quasi decrepiti in gioventù, e ringiovaniti in età matura. Nel 1854 io vidi a Pisa gli avanzi del naufragio di una compagnia in cui recitava Tommaso Salvini, e circa a quel medesimo tempo udii dire a Padova che poc’ anzi Ernesto Rossi aveva troncato le recite della sua compagnia al teatro della Concordia, e io stesso vidi a Firenze la Ristori rappresentare a teatro vuoto la Maria Stuarda di Schiller. E il tristo andazzo durò per altri anni ; e Salvini rappresentava l’Orosmane, e Rossi l’Oreste, e la Ristori rappresentava tutto ; ed essendo tutti nel pieno vigore dell’ età dovevano fare anche meglio.

Il tempo delle grandi affluenze ai teatri, e quindi delle grandi paghe degli attori e dei profusi cavalierati, incominciò dopo la liberazione d’ Italia, e specialmente dopo i trionfi della Ristori in Europa, e dopo la morte di Gustavo Modena nel 1861. La Ristori fece inorgoglire gl’ Italiani delle loro domestiche glorie tanto ammirate fuori d’Italia ; Gustavo Modena, uomo di Plutarco, artista letterato, patriota e martire vero, fece nascere per l’arte drammatica un culto che non aveva avuto dapprima ; il libero pubblico italiano si affezionò ai suoi migliori allievi, e a quegli insigni che erano sorti a fianco della sua scuola, come la Ristori e il Morelli ; e poichè scarso era il numero dei grandi colleghi, diede la promozione in fama ed in paga agli artisti che più si appressavano a quelli, e spargendo anche sul teatro una tinta di patriotismo si vergognò di non accorrervi quando recitavano i più riputati artisti d’Italia. Ma per la mancanza di grandi successioni, mano a mano che crescevano le paghe da sette a dieci, a quindici e fino a venti mila lire all’anno, l’arte sempre più decadeva. Abbandonata o falsata la scuola del Modena, che pur teneva alcun che della scuola del Demarini, giacchè nelle arti non si rinnega mai il passato, si oscillò dapprima fra la verità e la forza, poi si trovò cosa comoda di scambiare il languore per verità ; tantochè oggi anche fra gli attori ben pagati non mancano taluni che fanno l’ arte a furia di vestiti e di perucche, impiastricciandosi il viso ; che non si sentono perchè non hanno fiato, che non si capiscono perchè si mangiano le parole ; e mostrano il gomito appena escono dal loro piccolo seminato. E dire che fra i nuovi sopraggiunti ve ne hanno degli altri, che parlando degli attori passati si degnano di approvarli per quei tempi, come pittori che compatissero ai tempi di Michelangelo e Raffaello, non sapendo guardarsi d’attorno per vedere che i valenti di quei tempi sono i valenti d’oggidi.

Ma il fenomeno delle grandi paghe accoppiato alla decadenza dell’arte non avrebbe intera spiegazione, se, tenuto conto del maggior caro dei viveri, non si tenesse anche conto di un elemento oggi importantissimo, cioè della mafia e delle camorre che caratterizzano {p. 484}l’epoca nostra. Per mafia e per camorra, fra capi-comici e autori, fra autori e giornalisti, fra giornalisti ed attori, fra attori e frequentatori di caffè si formò una tenera compagnia di mutuo soccorso, una ditta cointeressata, una società in accomandita, una vera congregazione di teatrale carità. Per mafia e per camorra, traendo pretesto da quello spirito d’innovazione che il valente Ferrari portava nella commedia italiana prima che il Cossa schiudesse nuovo orizzonte alla letteratura drammatica dal lato tragico e storico, si tentò da qualche speculatore di proscrivere dal teatro i classici italiani e stranieri, e questa scandalosa proscrizione, cosi contraria all’uso delle nazioni civili, si chiamò, prima che il Ferrari, il Cossa ed altri pochi schiudessero nuovi orizzonti alla letteratura drammatica, riforma del teatro italiano : a tutto favore di certe commediole, il cui manoscritto è un ananasso per il capo-comico, ma che in fondo sono farse in cinque atti, e non durano in teatro cinque mesi, si soppressero o assai si diradarono vari generi di componimenti teatrali, si diminuirono i ruoli delle compagnie per essere in minor numero a spartire i proventi del teatro : a sterminio di ogni semenzaio di attori, si istituirono le compagnie numerate come le celle degli stabilimenti carcerarii ; e per non gittare una nube sopra gli applausi meritati, si seguitò a battere le mani anche fra gli sbadigli del pubblico. Dicesi che su certe vigne omai brontoli il temporale ; ma gli attori di quei tempi si sono provveduti con le raccolte precedenti : e Tommaso Salvini è milionario, laddove Vestri morì in miseria, e Demarini non ebbe mai più di ottomila lire all’ anno.

A maggiori danni dell’arte sopraggiunse, ai tempi dell’Italia una, la recitazione delle commedie in dialetto, ammirabili per semplicità di linguaggio parlato, utilissime per istudi comparativi di lingua, ma opportunissime per far salire il palco scenico anche ai vetturini. Che la Pezzana e la Tessero, anime artistiche, recitassero egualmente bene in italiano e in piemontese, lo si comprende facilmente ; ma che quegli che per anni ed anni fu sempre un attore da museruola recitando in italiano, diventi ad un tratto artista, cavaliere e milionario recitando in piemontese, ciò non si comprende, se non supponendo che chi recita in dialetto non faccia un’ arte. Chi recita in dialetto, il quale non è altro che una monotona ripetizione di pochi accenti, se non è vero relativamente al suo personaggio, è sempre vero relativamente a sè stesso, il che non è poca cosa, ed è dispensato dalla creazione di quell’ ideale, che costituisce la vera essenza dell’arte. Quando il povero parroco, nella bella commedia del Garelli I contingenti piemontesi, esce a far la sua parte, il pubblico lo prende su come viene, e se la figura è meschina e i modi sono piccoli, il pubblico se ne compiace di più perchè lo rassomiglia all’uno o all’altro dei tanti curatucoli di campagna, che son di sua conoscenza ; ma se il parroco recita in italiano, allora il pubblico, ci si perdoni la frase, si monta diversamente, e vuol figura veneranda, vuol modi gravi, vuole unzione, vuole insomma quell’ ideale, che invano si vorrebbe da taluni scompagnare dall’arte.

Dal registro 326 del Municipio di Perugia (ufficio dello stato civile), sappiamo che Luigi, Giuseppe, Pietro Bonazzi, professore e cavaliere, nato e domiciliato a Perugia, figlio del fu Giuseppe, cuoco, domiciliato in vita ivi, e della fu Celeste Carattoli, donna di casa, domiciliata in vita ivi, marito di Maria Rocchi, morì d’idropisia all’una pomerid. del 2 aprile 1879 nella casa posta in via Sapienza vecchia al numero 2.

{p. 485}

Bonazzo Giacomo. È citato dal Bertolotti (op. cit.) fra’ comici al servizio di S. A. il Duca di Mantova, che nel 1658 si trovavano a Roma, e precisamente nella parrocchia di S. Pietro. Il Bonazzo, bolognese, era chiamato Gabucetto (?) in commedia.

Bonfigli Manetta. Fu prima attrice amorosa il 1832 in Compagnia di Giovanni Ghirlanda, col marito Giovanni Trenti primo attore e con Geltrude, forse una sorella, generica. La troviam poi il 1840 quale madre sotto la Internari, nella Compagnia di Luigi Domeniconi diretta da Giuseppe Coltellini ; e il 1841 collo stesso ruolo in quella di Luigi Pezzana.

Bonfiglioli Oreste. Nacque il 20 febbraio del 1847 a Lucca da Gaetano Bonfiglioli, tiranno allora della Compagnia Giardini, poi padre nobile e caratterista, e da Maria Cocchi di S. Giovanni in Persiceto, non comica. Cominciò Oreste ai 14 anni a recitar parti di niuna importanza, salendo gradualmente ai mami e secondi brillanti, sino al ’67, in cui si scritturò secondo brillante con Morelli. Passò poi il ’70 con A. Monti per assumere il ruolo di brillante che non abbandonò più. Fu in varie compagnie, scritturato e in società ; e fra l’altre, in quella de’ Fiorentini di Napoli nella impresa Santobono, al fianco della Pezzana, della Duse, di Emanuel. Sposò il ’76 Giulia Bighi, figlia di artisti, colla quale si trova anch’oggi in una Compagnia sociale.

Bonfìo Giacomo. Nato a Padova da nobili parenti, si diede all’arte comica, nella quale riuscì buon attore e leggiadro scrittore. Fra le sue commediole si vuol notare principalmente quella intitolata : I viaggi di una donna di spirito. Come attore fu molto ammirato da’ varj pubblici ; e in un frammento di lettera sul carnevale di Roma dell’anno 1815, pubblicato nella Biblioteca teatrale (Roma, Puccinelli, 1815) e firmato Wencislao, è detto di lui :

Bella e graziosa figura, sentimento, nobiltà, e scelta educazione riunisconsi nel Bonfio per formarne un eccellente amoroso. Egli è idolatra della verità, e nemico per {p. 486}sistema della maniera. Mi si assicura esser egli debitore in gran parte della sua comica naturalezza ad alcune lezioni di Simeone Sografi ; e certamente un buon terreno con tale e tanto cultore produr non poteva che bellissimi frutti. Qualche critico incontentabile desidera in lui una maggior dose di fuoco. – Ma questi critici son pure i gran seccatori.

Gli editori della stessa biblioteca avevano a lui dedicato, il 26 febbraio 1813, un discorso in lode dell’arte comica del signor dott. Giovanni Bianchi di Rimini, mentre si trovava a recitare in Firenze.

Ridottosi vecchio in Padova, lontan dal teatro, vi fu dopo alcun tempo richiamato dalla passione dell’arte : ma la sua ricomparsa lo fe’battere per sempre in ritirata. Mosso a pietà di un povero sordo-muto, lo aveva raccolto e istruito : e, insegnatagli con ogni amore la parte di Giulio nel noto dramma L’Abate de l’Epée, pensò di produrlo in quella colla Compagnia di Antonio Morelli che allora recitava in Venezia. Il Bonfìo sostenne in quella sera la parte del protagonista. Ahimè !… L’arguto Buratti, poeta veneziano, lo annichilì con questo epigramma :

O vu che podè tuto,
Giusto e clemente Iddio,
Deghe la vose al muto,
Toleghela a Bonfio.

Dopo la qual prova, il povero vecchio, riprese la via di Padova, dove morì….

Bongiochi Giovanni, ferrarese. È citato dal Bartoli come giovanedi studiosa educazione, ben promettente nelle parti di innamorato.

Bongiovanni Bartolomeo. Recitava le parti di Graziano nella Compagnia de’Fedeli, al momento di recarsi a Parigi (26 novembre 1612). Troviam prima un Bartolomeo citato dall’Andreini nella sua lettera del 1609 al Duca di Mantova da Torino (V. le lettere di comici italiani, pubblicate per le nozze Martini-Benzoni dal D’Ancona), che altri non dovrebb’essere che il Bongiovanni stesso, forse non ancora scritturato per le {p. 487}parti di Graziano ; forse Graziano a vicenda (un per le parti italiane, un per quelle dialettali) con Messer Aniello Soldano facente parte di quella compagnia, noto col nome teatrale di Dottor Spaccastrummolo napoletano. (V. A niello Soldano).

Vi fu chi erroneamente credè vedere in questo Bongiovanni (V.Carletta [Valeri] Un palcoscenico del’600) quel Giovanni Buono (V.), mantovano, nato il 1568 da Giovanni e Buona De’ Bonomi, al quale Gio. Batta Andreini dedicò un sonetto nel suo Teatro Celeste.

Bongiovanni Antonio. « Recitò – dice il Bartoli – nel carattere dell’arlecchino per molto tempo con valore ; ma poi si alienò dall’arte, e vive oggigiorno (1782) in Ferrara, coi vantaggi che ne ricava assistendo ad una Bottega di Caffè, che da non pochi anni in quella città egli aperse. »

Bonifaci Bernardo. Apparteneva il 1687 colla moglie Angela alla Compagnia che Francesco Calderoni (V.) condusse da Venezia a Monaco al servizio dell’Elettor di Baviera. (Cfr. Trautmann, op. cit., 262).

Boniti Nicola. Comico napoletano, che seppe molto farsi apprezzare nel carattere di capitano sotto ’l nome di Spacca.

Bon-Martini……. Forse figliuola di quel Giacomo Bon-Martini, primo attore il 1823-24 della Compagnia di Caterina Venier e Francesco Toffoloni. Trovatasi libera in Venezia il 1849, andò prima attrice in Compagnia di Ernesto Rossi e Giovanni Leigheb a Fiume, in sostituzione di Marianna Ferrari, colpita a Trieste da colera fulminante.

Della Bon-Martini dice il Rossi nel 1° volume delle sue memorie (pag. 44) :

…. mi occupai molto della direzione della compagnia, e specialmente della nuova prima donna, la quale, poveretta, faceva tutto quello che poteva ; ma le piaceva più cantare che recitare : e tale era la sua passione, che indusse anche me a cantare con lei. Ella aveva una bella voce da soprano : io mi accorsi di averne una non meno sonora da baritono.

{p. 488}

E cantarono infatti, acclamatissimi, romanze e duetti, or nellaMuta di Portici, or nel Nabucco, or nella Pianella perduta nella neve. Ma pare che la Bon-Martini, non ostante questo singolar pregio, restasse assai poco in compagnia, per darsi probabilmente all’arte lirica, giacchè lo stesso Rossi alla seguente pagina, conchiude : mandai a farsi benedire da qualche impresario musicale la mia prima donna…… ecc.

Bonnetti…… Era tra’ principali attori della Compagnia che Giuseppe Bianchi, Spezzaferro, condusse a Parigi nell’anno 1645.

Bonomi Fausto. Fu prima attore della Compagnia diretta da Antonio Franceschini detto Argante ; poi per lungo tempo, quale innamorato, al S. Luca di Venezia. Nella tragicommedia, che il Bartoli chiama gustosa, La clemenza nella vendetta, egli sostenne la parte di Tugo Marmotta, condottiere de’soldati allocchi.

Bonomi Felice. Moglie del precedente. Fu una serva egregia ; e recitò col marito al S. Luca di Venezia, applauditissima, specialmente nelle commedie del Goldoni. Nella tragicommedia La clemenza nella vendetta sostenne la parte di Argentina Regina delle civette. Col danaro accumulato nell’arte potè comprare una casa e qualche terreno in Livorno, dove, forse, avanzata in età finì i suoi giorni.

Bononcini Domenico, brighella. Il cav. Azzolini mi comunica colla consueta gentilezza la lettera seguente :

Illus.mo Sig.re Sig.re Pron Colen.mo

Intendo p lettera d’Amico che l’ Illus.ma Sig.ª Sua sia meritevolmte eletto Giudice de Saui in Ferrara, tal nuoua mi ha Resa tanta Consolatione p la deuota servitù che li professo, che mi ha stimolato ancora ad incomodare V. S. Ill.ma col preste foglio Ralegrandomi del nobiliss.º honore che ha ottenuto ; posto tanto più meritato quanto meno desiderato.

Gli notifico poi come sono in Rimini con la Compagª che douerà farli seruitù qtoCarneuale, e dimani si darà principio alle Recite nel Teatro di qta Cità e spero che qti Cavalieri e Citadini nò si abandonerano poichè si mostrano assai uogliosi.

{p. 489}

Se nostro Sig.e Iddio mi darà vita, qto Carnevale verò ad esercitare con l’opere, quelli ossequij che hora con l’ Idea vo Riverentete esercitando verso il suo Gra merito, e col Ralegrarmi nouamente de’ suoi onori, Baciand :i con ogni Umiltà le mani, p sempre mi dichiaro

Di V. S. Ill.ma

Nè da Ferrara, nè da Rimini mi fu possibile rintracciar notizie sulla compagnia alla quale apparteneva il Bononcini. Si trovava il 1687 tra que’ comici che Francesco Calderoni (V.) condusse da Venezia a Monaco al servizio dell’Elettor di Baviera (Trautmann, op. cit., 262). Dallo spoglio fatto sullo Jal ho trovato al nome della Riccoboni scrittrice notissima e nuora di Luigi Riccoboni (sabato, 7 luglio 1734), un atto concernente la bigamia del signor de Laboras, padre di lei, e firmato da’ seguenti interessati e testimoni : « A.f. Riccoboni, Marie Ieane de laborras, L. Riccobonj, Elena Baletti Riccoboni, Marie Marguerite Dujac, Margheritta Bononcini, Lamoignere. »

Borelli Francesco.Tiranno in Compagnia Donati il 1820 colla moglie Teresa madre nobile, idem nella sua propria in società con Morelli.

Eccone l’elenco :

DONNE

Adelaide Morelli, prima attrice

Teresa Borelli, madre nobile

Carlotta Benvenuti, seconda donna

Luigia Brenci, serva

Marietta N. N., generica

UOMINI


Camillo Benvenuti, primo uomo Gio. Batta Merli, caratterista buffo
Agostino Brenci, primo amoroso Carlo Zane generici
Antonio Morelli, padre nobile e caratterista Vincenzo Mingotti
Ignazio Borri, e Subalterni
Francesco Borelli, tiranno Alemanno Morelli, parti ingenue
{p. 490}

Borghi Giovan Maria. Attore di gran pregio, entrò a far parte, come amoroso comico, della Reale Compagnia Sarda, al momento della sua formazione (1821), sostituendo poi Augusto Bon nel ruolo di brillante. Sposò prima una nipote del Bazzi, entrando a parte dell’impresa, poi l’Adelaide Boccomini. Rimase in quella Compagnia della quale era diventato il generico primario e il direttore tecnico, sino alla sua fine (1855).

Uomo eruditissimo, dotato di memoria ferrea, era quasi una biblioteca ambulante : capacissimo di dare un consiglio sull’arte, indicare il modo di interpretare un carattere, sviscerare un concetto, svolgere un fatto storico, precisarne l’epoca. Ma agire minuziosamente sulle masse, curare i dettagli, dirigere un insieme, perchè tutto armonizzasse e scorresse con regolarità e precisione, non era cosa per lui : forse perchè egli pure era vecchio e si stancava. Suppliva però a questa deficienza di forza o di volontà l’interesse e il sapere di tutti i capi principali, che a mano a mano si cambiavano nella direzione, a seconda della parte importante, che disimpegnavano nella produzione. Però la direzione non era mai abbandonata, e Borghi sedeva accanto al buco del suggeritore, da quando cominciava la prova, sino all’ora in cui finiva.

Così Ernesto Rossi (op. cit.).

Fu poi scritturato dalla Ristori, che egli seguì in Italia e all’estero, e della quale educò i figliuoli. Affievolito dagli anni e dalle fatiche, si recò a Genova presso un suo figliuolo impiegato, e quivi morì.

Borghieri Claudio, bolognese. Sosteneva la maschera del dottore, « rappresentando – scrive il Bartoli – l’avvocato dei poveri con valore ed energia. »

Fu in varie Compagnie, fra cui quella di Pietro Rossi e di Gerolamo Medebach. L’autunno e carnevale 1795-96 era al S. Luca di Venezia nella Compagnia di Luigi Perelli, Truffaldino.

{p. 491}

Borghieri Elisabetta, moglie del precedente. Fu artista pronta e vivace nelle parti di serva, che sostenne sempre al fianco di suo marito. « Rappresentava – dice il Bartoli – lo Spirito folletto con molto impegno. »

Borgo Giovanni, vicentino. Artista egregio per le parti di primo amoroso era il 1822 nella Compagnia di Paolo Belli Blanes ; e scrisse di lui il Colomberti che, « giovine istruitissimo, ornato di bella figura e di magnifica voce, si faceva molto applaudire benchè al fianco di un Blanes e di una Internari. »

Dopo soli tre anni di vita artistica, restituitosi in patria per la morte del padre, lasciò definitivamente il teatro.

Borisi Amalia, attrice oggi di molti pregi per le parti di madre e caratterista in dialetto veneto, nacque il 1844 da Francesco Ninfa Priuli di famiglia patrizia veneziana, caratterista, e da Annetta Maliani, figlia di un medico, pur di Venezia. Non è a dirsi quanto la infanzia dell’egregia artista fosse fortunosa e travagliosa !… Ella nacque e crebbe in un guittume di nuova specie : non in quel guittume generato dall’inerzia, dalla sudicieria, dalla mancanza di ogni senso d’arte (e questo può trovarsi in artisti di prim’ ordine) ; ma in quello generato dalle avversità e dall’ambiente. La Compagnia, se così poteva chiamarsi quell’ accolta di cinque o sei persone al più, era come una piccola famiglia che vivea in piena concordia, che si dava reciproco aiuto materialmente e intellettualmente ; il primo attore poteva diventar benissimo al secondo atto la prima donna, o viceversa. Nata l’Amalia Borisi in tale ambiente…. di ristrettezze, non appena fu utilizzabile, naturalmente, recò anch’ essa la sua parte di aiuto alla Compagnia, recitando a tre anni, per la prima volta, nel Vagabondo e la sua famiglia di Augusto Bon, e declamando poi poesie, col profitto delle quali potè una volta a piccole tappe compiere col padre suo, che improvvisava pe’ caffè qualche scena di arlecchino, un viaggio in Isvizzera. Fatta più grandicella, e formata il padre società {p. 492}or col Subotich, noto arlecchino, or con Luigi Zerri, padre di Enrichetta e di Antonio, e in ultimo con Antonio Scremin, alla declamazione delle poesie succederon le ombre palpabili e le rappresentazioni improvvisate sulle tavole di una cantina, con biglietto d’ingresso a 20 e a 10 centesimi, e magari in commestibili, come alle recite del Capitan Fracassa nel mirabile studio di Teofilo Gauthier. Il primo attore, in sulla porta, chiamava il pubblico a suon di tamburo, poi correva a sostenere il suo, o i suoi personaggi nel Sior Serafin Bonigolo, ad esempio, dai Storti del Dolo, vestito tra l’antico e il moderno, con lungo soprabito alla napoleonica, e con elmo e spada alla greca. E in tempo di fiera si facevano, all’americana, sin cinque rappresentazioni nella sola mattina, cominciando alle 9, e rimandando il pubblico a ogni fin d’atto della stessa commedia, per dar posto al pubblico nuovo, talvolta accalcantesi alla porta d’ingresso, talvolta, il più spesso forse, costituito da pochi monelli : ma la scarsezza del pubblico non fece conoscer mai a quegli ottimi sciagurati il significato della parola forno nel gergo teatrale ; nè col forno nel significato suo proprio ebber mai troppa dimestichezza. Una volta, racconta la Borisi, la Compagnia, per non andare in prigione, dovè recitare dinanzi…. all’unico rappresentante della legge per la tutela dell’ordine, entrato, s’intende, a scapaccione.

E in vario tempo, con varia fortuna, fecer parte della famiglia attori pregievoli come il Gandini, il Mingoni, il Vedova : a poco a poco dai villaggi della Svizzera si passò alle grandi città d’Italia, dal Sior Serafin Bonigolo si passò al più bel repertorio goldoniano, e quel mezzo drappello di zingari, perseverante e animoso, si conquistò il diritto di essere annoverato fra le Compagnie drammatiche propriamente dette. Nel ’60 a Torino si rappresentò per diciassette sere al Teatro Sutera, oggi Rossini, l’Emigrazione Veneta di Riccardo Castelvecchio, in cui il padre Priuli sostenne, acclamatissimo, il personaggio del prete liberale. E nel Mondo illustrato del 14 settembre ’61, da cui tolgo il presente ritratto, è l’Amalia chiamata la gemma {p. 493}della compagnia, la quale alla franchezza, alla disinvoltura, alla naturalezza, alla vivacità accoppia una grazia ed una riservatezza che accrescono pregio e dan rilievo a tutte le altre doti.

Morto il padre a Torino nel ’64, ella con la madre e due sorelle restò col Mingoni divenuto allora capocomico. Sposatasi nel ’67 al conte Carlo Borisi istriano, attore di assai pregio così per le parti italiane, come per quelle dialettali, fu con lui due anni in Compagnia di Gustavo Cappella, il noto Meneghino, poi in quella di Colomberti e Casilini, in sostituzione della coppia Caracciolo, superando la Borisi ogni aspettazione dei capocomici, specialmente colla parte di Teresa nel dramma omonimo di Dumas e con quella della Marchesa nel Filippo di Scribe. Fece poi compagnia col marito, non avendo egli potuto accettar la scrittura di Alamanno Morelli pel formale divieto che aveva, renitente alla leva, di metter piede nel suolo austriaco. Furono il ’76 per due anni con Giacinta Pezzana, poi, con poca fortuna, rifecer compagnia. Morta nell’ ’80 la Morolin, celebre attrice in dialetto veneziano, la Borisi andò a sostituirla ; e vinse pienamente la prova ardua in faccia al pubblico e alla stampa, specie negli Oci del cor e nel Moroso de la nona di Giacinto Gallina, pei quali il Ferrigni (Yorick) le fu prodigo di lodi. Smessa il Morolin compagnia nell’ ’82, per tre anni Carlo Borisi formò società con Zago e Gallina. Ma nell’ ’85 dovè abbandonar l’arte, e poco tempo dopo, colpito da malattia insanabile, morì a Milano fra le braccia della moglie, nella casa di salute dei fratelli Dufour. Tornata lei l’ ’88 con Zago, che era divenuto nella proprietà e direzione della {p. 494}compagnia socio di Guglielmo Privato, vi è anch’oggi, e vi starà per un pezzo, amata e stimata dai compagni, dal pubblico, dalla stampa, per la dolcezza dell’indole, per la bontà dei costumi, per l’amore e il rispetto dell’arte.

Nacquer dai coniugi Borisi Armando e Maria : quello, divenuto attore-cantante, fa parte della Compagnia di operette del Gargàno ; questa, fatte le prime armi come generica e amorosa in compagnia de’ genitori, sposò l’attore dialettale Francesco Micheluzzi. Formaron compagnia italiana, col ruolo essa di prima attrice, egli di primo attore, e si abbandonaron d’improvviso al grande repertorio…. non so con quale fortuna.

Borra Pietro, bresciano. Sosteneva il 1820 le parti di tiranno assoluto nella Compagnia Campana e Socii. Fu ufficiale di cavalleria, prima di darsi all’arte, nella quale riuscì passabilmente.

Bossi Giovanni. Attore di buon nome, così esperto nel recitar la tragedia come la commedia seria e giocosa. Anche sosteneva con plauso la maschera del Brighella nelle commedie all’ improvviso. Fu in varie Compagnie fra cui quelle di Giuseppe Lopez, e Luigi Perelli. Viveva ancora nel 1782, amato e stimato da tutti come uomo e come artista.

Si trova nel Teatro applaudito, vol. III, un Santo Bossi, attore della Compagnia Perelli al S. Luca di Venezia per l’autunno e carnevale 1795-96, forse il figlio di Giovanni. Era secondo nell’ elenco, e dice il Giornale de’ teatri che si distinse colla parte di Rodolfo (primo innamorato) nel Ladislao, fisedia (?) del conte Alessandro Pepoli, rappresentata la prima volta il martedì 5 di gennaio, e replicata ventisei sere. Questa fisedia, che vorrebbe significar canto della natura, è un vero e proprio zibaldone in prosa e in versi con scene a grandi tinte, mutamenti a vista, effetti di sole e di luna, combattimenti, musiche, ecc. ecc.

{p. 495}

Bosello Giovanni.Primo amoroso il 1831-32 della Compagnia di prosa e ballo Rosa e Tranquilli. A tempo perso sosteneva anche la maschera di Arlecchino in alcune farse, come nell’Arlecchino spaventato dalle supposte ombre, imbrogliato dall’ astuzia femminina, bastonato dal padrone e costretto a stare senza cena.

Bosio Giuseppe. Aveva nel 1813 una Compagnia comicodrammatico-musicale, e fors’anche danzante. Nel 1817 vi fu già un po’ di miglioramento, e si limitò a recitar la Pianella in prosa e musica, con una compagnia, della quale facevan parte artisti discreti.

Eccone l’elenco :

DONNE

Pani Mazzeranghi M., prima donna

Colomberti Caterina, madre e seconda donna

Pianigiani Rosa, servetta

Casini Teresa, caratteristica

Bocci Luigia, generica

Bocci Clementina, ingenua

UOMINI


Bosio Giuseppe, primo uomo

Colomberti Gaetano, tiranno e padre

Pini Andrea, amoroso

Bocci Luigi, caratterista

Calamari Francesco, secondo tiranno

Moggi Giuseppe, secondo amoroso e stenterello

Colomberti Antonio, ingenuo

La Compagnia fece poco incontro perchè erano poco bravi (così il raccoglitore lucchese).

Fu però il Bosio artista stimabile e onesto ; e tanto seppe adoprarsi che potè da solo allevar con decoro una numerosa famiglia, la quale nell’arte comica e lirica lasciò bellissimo {p. 496}nome : citiamo l’Angela, cantante celebratissima, morta ancor giovine a Pietroburgo, che lasciò ai fratelli un patrimonio di circa mezzo milione di franchi ; Francesco, primo attore e capocomico pregiato, poi buon generico primario ; Romualdo, attore brillante di meriti singolari ; e Virginia, prima attrice, della quale discorreremo al nome di Virginia Chiari.

Bottazzi Luigi. Artista di assai pregio per le parti di caratterista. Fu in varie compagnie, encomiatissimo sempre, e specialmente nelle commedie goldoniane ; si meritò l’amicizia di Gustavo Modena, il quale invitato a recarsi or a Torino, or a Cuneo, or a Genova a recitarvi con la Compagnia di Cesare Asti che faceva magri affari e di cui il Bottazzi era ottimo ornamento, gli scrisse parecchie lettere che son pubblicate nel volume Politicae Arte. Da una delle quali anche si apprende come il Bottazzi oltre all’essere artista, si dilettasse di pittura.

« Il crociato – a lui scrive Gustavo da Genova il 5 dicembre del ’58 – è tornato galoppando alla Mecca, e per adattarlo al caminetto della nostra camera da letto, il falegname ha tagliato una fetta de’ soldati. »

E il crociato, dice in nota il compilatore dell’epistolario, era un parafuoco dipinto dal Bottazzi che i Modena dovettero rimpiccolire per adattarlo al nuovo appartamento di Torino.

Il ritratto che qui riproduco gli fu offerto nell’estate dell’anno 1843 a Roma, ov’era caratterista acclamatissimo.

Morì nella Compagnia di Michele Sivori l’anno 1865.

{p. 497}

Botteghini-Vedova Eleonora.Prima attrice il 1830 della propria Compagnia, diretta dal marito Pietro Vedova.

Eccone l’elenco :

ATTRICI


Eleonora Botteghini-Vedova, prima donna Metilde Rausini
Agata Michelangeli Marianna Guarna
Paolina De Rossi, servetta Paolina Brizzi
Orsola Begey Lucia Piccini

Parti ingenue : Orsola Guarna – Angiolina Vedova

ATTORI


Sebastiano Zavalloni, primo uomo Leonardo Mattei
Gio. Batt. Castellazzi, caratterista Giovanni Stocco
Pietro Vedova Giuseppe Rausini
Francesco Orsi
Onorato Begey, primo tiranno Adamo Piccini
Enrico Brizzi, primo amoroso Gabbriele Rosa
Medoro Aliprandi Luigi Battisti

Parti ingenue : Giovanni Aliprandi – Annunziato Rausini

Botteghini-Mayer Angela, trevisana, una delle più forti attrici che illustraron la scena italiana dal ’50 al ’60. Essa apparteneva a quella gloriosa falange di artisti, scelti da Gustavo Modena per quella Compagnia che doveva segnar la riforma della recitazione in Italia. Quando Sabbatini nel ’43, a lui tracciò le prime linee della Bianca Capello, il Modena qualcosa gli disse del modo di svilupparla, sopratutto perchè vedesse di creare tre belle parti per la Sadowski, per l’Arrivabene e per la Botteghini. E subito al Sabbatini balenò per quest’ultima l’idea della popolana arrabbiata. La troviam nel ’50 a Milano {p. 498}in Compagnia Dondini e Romagnoli ; e il Perego nell’Italia Musicale, al proposito della Piccarda Donati pure del Sabbatini, lasciò scritto che la Botteghini, interpretando nel quarto atto la parte diabbadessa, fu sublime, e destò l’entusiasmo nel pubblico colle poche parole che chiudono la scena del rapimento. Fu poi nella Compagnia Peracchi e Trivelli il ’58-’59, e in quella di Rossi e Trivelli dal ’63-’64 a tutto il ’67-’68, acclamata e festeggiata sempre da ogni specie di pubblico. Di lei mi scrisse Tommaso Salvini :

Non aveva l’attraente prerogativa della bellezza, ma i suoi occhi vivacissimi, e la folta e leonina capigliatura la facevano simpatica, sebbene tutto l’insieme tendesse al volgare : era il tipo della popolana romana. La versatilità delle sue illustrazioni drammatiche le attiravano la stima di Gustavo Modena che la teneva in grande considerazione ; ed infatti, nessuna attrice, nè prima nè dopo di lei, interpretò con maggior giustezza d’espressione e di verità i differenti personaggi di Sofia nei Due Sergenti, della qual parte faceva una vera creazione, della moglie di Jacquart nel Jacquart, di Cate nella Putta onorata di Goldoni, di Numitoria nella Virginia di Alfieri, e finalmente della Marchesa di Savné nella Calunnia di Scribe. Dotata di una bellissima voce, facile alle varie modulazioni, teneva la facoltà di timbrarla a norma dei vari caratteri che rappresentava. (Ohimè ! Di quelle attrici si è perduta la stampa !) Come donna era di un carattere gioviale, bonacciona, la ben amata di tutti i suoi compagni ; e la perdita di questa eminente attrice fu un vero lutto per l’arte che l’amava e l’onorava. Dal suo secondo matrimonio ebbe una bellissima figlia, Elisa Mayer, che per parecchi anni esercitò l’arte della madre, per la quale addimostrava tendenze non comuni, ben lontana però dal pervenire all’eccellenza della madre sua.

Botti Domenico, piacentino. Recitò le parti d’innamorato in Compagnia di Vincenzo Bazzigotti, poi in quella del Medebach. Nel 1776 si recò in Ispagna, ov’era ancora nel 1782 impiegato alla direzione di uno di que’ teatri.

Bozzo Michele. Nativo di Palermo, fu scritturato da Adamo Alberti a’ Fiorentini di Napoli per la quaresima del 1848, al fianco di Luigi Taddei, della Zuanetti, di Aliprandi. Esordì colla parte del fratello vendicatore nel dramma : Prestatemi cinque franchi ; e tanto vi dispiacque, a cagione specialmente della pronuncia siciliana, accentatissima, che il Marchese Imperiali, deputato della sopraintendenza a quel teatro, ne volle cancellato il nome dall’elenco degli attori pel nuovo anno comico, rispondendo rigidamente a chi glie ne vantava le doti : {p. 499}« quando il signor Bozzo parlerà italiano potrà tornare al Teatro dei Fiorentini. » Quella specie di ordine del Marchese dovette essere molto arrischiato, dacchè il Bozzo rientrò a’ Fiorentini un anno dopo, facendo dire all’ istoriografo di quel teatro, Adamo Alberti, ch’egli era già divenuto artista pregevolissimo ; e artista pregevolissimo fu davvero, e divenne de’ Fiorentini un idolo, e vi restò sino alla fine della sua carriera, festeggiato, acclamato, senza che mai gli fosse passato pel capo di modificar la sua pronuncia siciliana.

Strano artista codesto Bozzo ! Di slancio tutto meridionale, facea levarsi il pubblico con iscatti di passione felini…. Dinanzi a tali scatti spariva anche il metodo di recitazione, che fu, a creder mio, de’ più bizzarri : strascicava le finali, fermandole con una nota, che pareva a bella prima una stonatura. Accanto a queste vocali strascicate, altre ne proferiva scivolate, guizzate, salterellate…. nè questo accadeva per la volata incettatrice di applauso, come, ad esempio, nella Orfanella di Lowood, se ben ricordo, in cui colla frase « ed anche i cani delle reggïe muteee van rispetttati (alzata massima di tono, con immediato ruzzolamento delle parole che seguono) perchè portano sul collare una corona reale, » strappava i più calorosi applausi ; ma per le scene piane, nelle quali poi il difetto era più palese. Ma dove il difetto della pronunzia siciliana, se non spariva, si nascondeva, sopraffatto, dirò così, dalla acuta interpretazione del testo e dalla fine cesellatura delle frasi e delle parole, rivelando al pubblico, colla maggior semplicità di mezzi il più riposto concetto dell’ autore, era nelle cose comiche. Giammai mi accadde, nè più mai forse mi accadrà, di sentire {p. 500}il Brindisi di Girella del Giusti, più semplicemente e finamente detto, e più profondamente sviscerato, che da Michele Bozzo. E alla poesia del Girella potrei aggiungere la parte del Cavaliere di spirito, e altre siffatte, nelle quali fu artista egregio nel più largo senso della parola.

Il fisico del Bozzo fu teatralmente meraviglioso. Alta e svelta la persona, quadrate le spalle, toroso il collo ; fisionomia aperta con misto di ferocia e di dolcezza ; carnagione bruna, occhio saettante ; era nell’insieme un uomo che avventava.

Ne’ tempi della sua maggior gloria menò vita brillantissima ;… ebbe guadagni e prodigalità senza fine : queste più di quelli…. se ne indovina la fine : la vecchiaja in compagnia dell’indigenza.

Bozzo Antonio. Figlio del precedente, vissuto sempre lontano da lui, vagò giovinetto di compagnia in compagnia, recitando parti di nessun conto. Il suo nome cominciò a esser proferito con lode sul finire del ’67, insieme a’grandi interpreti dei Mariti di Torelli, in cui rappresentava mirabilmente il personaggio del Duchino Alfredo. Passò poi al ruolo di brillante che sostenne con favore sempre in buone compagnie, or socio ed ora scritturato : sposò l’Amalia Checchi, larga e gentil promessa di artista, e, in seconde nozze, la Laura Tessero, sorella della celebre Adelaide e vedova di Olinto Mariotti.

Bracci Giuseppe. Nato a Roma nel ’48 da modesto impiegato, lasciò a’ quindici anni la scuola (distruggendo i sogni del padre che volea fare di lui un gran dignitario della chiesa), per chiedere asilo al palcoscenico del Valletto, ove faceva gli annunzi e le comparse. Nel ’65 fu accolto come figliuolo nella famiglia di Giuseppe Zacconi, e vi restò sino a tutta la quaresima del ’66, recitando magro, allampanato la parte di Pilade al fianco del vecchio Zacconi, Oreste, grasso e grosso allora come un caratterista. In tutto l’anno, egli avea guadagnato in compagnia lire 1,80 al giorno. Per la lautezza dello stipendio {p. 501}determinò di prendere il volo insieme a un certo Melnati suo compagno d’art….istica miseria. Quel ch’ebbe a patire non è a dirsi : digiuno nelle maggiori solennità, scorpacciate di fave in aperta campagna per campar la vita e una infinità di piccoli accidenti comici e tragici potrebber dare una idea ben chiara più tosto della indigenza che della guitteria dominante in quella compagnia.

Fu Giuseppe Bracci, il restante del ’66, con Ferdinando Arcelli, il ’67 con Raffaello Landini, il ’68 -’69 con Cesare Vitaliani come primo attor giovine, poi, sino a tutto il ’73, con Alessandro Monti, col quale andò a sostituire l’egregio attore Marchetti. Il 10 ottobre del ’73 si unì in matrimonio con la prima attrice giovine della compagnia, Celeste Iucchi, figlia d’arte ; matrimonio non fortunato, chè il 14 dicembre dell ’’87, il Tribunale di Milano segnò l’atto di separazione dei due coniugi. Fu il ’74 nella Compagnia di Michele Bozzo e Angelo Vestri, il ’75 in quella di Michele Ferrante, il ’76 colla Ditta Vernier-Iucchi, il ’77 con Giovanni Emanuel, che il Bracci chiama suo primo vero maestro, il ’78 con Achille Dondini, il ’79 con Ettore Dondini, el ’ ’80 sino a tutto l ’ ’81 con Luigi Monti.

Da questo punto, si può dire, comincia la realizzazione del sogno artistico di Giuseppe Bracci. La quaresima dell’ ’82 andò a sostituire Giovanni Ceresa nella Compagnia di Virginia Marini, passando poi primo attore, a vicenda i primi due anni con Luigi Biagi, e assoluto gli ultimi tre, in Compagnia Nazionale.

Fu dall’ ’88, per un triennio, primo attore con Virginia Marini, poi per un anno con Andrea Maggi con cui si recò nell’America del Sud. Ne tornò alla fine del ’91 per entrar nella Compagnia d’ Italia Vitaliani con la quale stette un triennio, e dalla quale si tolse per far parte sino alla quaresima del ’97 della Compagnia Pasta-Di Lorenzo, in qualità di primo attore a vicenda coll’ egregio suo capocomico.

Fu ed è il Bracci artista di egregie qualità. Forse non si levò mai a grandi altezze, ma, diligente e intelligente, si {p. 502}conservò sempre attore de’ più coscienziosi e accurati. Tra le parti da lui create cito quella dello Chamillac di A. Daudet, nella quale si procacciò l’encomio meritato e del pubblico e della stampa.

Bracci Ignazio. Fratello minore del precedente. Dopo di aver recitato vario tempo e in compagnie varie parti generiche, cominciò con Pietriboni a recitar quelle, e con buona riuscita, di secondo carattere. Passò poi in processo di tempo, caratterista assoluto, e lo abbiam visto tale per molti anni con Andrea Maggi. Oggi è nell’America del Sud con l’Italia Vitaliani. Attore accurato e diligente, molto deve della sua vita artistica alla comicità della persona che ricorda, anche nel volto, Pasquale De Angelis, il celebrato buffo barilotto del Teatro S. Carlino di Napoli.

Ignazio Bracci ha una figliuola, Clotilde, che, datasi all’arte, vi è riuscita sufficientemente in qualità di amorosa e seconda donna.

Braccini Luigi. Nacque in Firenze nel 1814. Entrò col Domeniconi in qualità di generico ; allievo del Morrocchesi, ebbe particolari attitudini alla tragedia. Passato al ruolo di secondo tiranno, fu molto applaudito nelle parti di Gomez nel Filippo e di Abner nel Saul di Alfieri, in quelle di Lisandro nell’ Aristodemo e di Ubaldo nel Galeotto Manfredi di Monti. Fu primo attore a vicenda col Chiari nella Compagnia Calloud, Fusarini e Marchi per l’anno 1846 : poi pel triennio 1847-48-49 in quella di Colomberti, Internari e Fumagalli. Era il 1854 al Politeama di Firenze nella Compagnia Pezzana : vi rappresentava lo Zigo nel Goldoni di Ferrari. Fu poi col {p. 503}Domeniconi, colla Petrelli e Fabrizi sino al ’56, in cui tornò nella Compagnia di Luigi Pezzana, col quale stette tutto l’anno comico ’58. Morì nel 1860 per aver bevuto in una sola volta, non sappiamo se per errore o determinatamente, la medicina che dovea prendere a cucchiajate.

Braga Giacomo. Nel movimento della popolazione mantovana per l’anno 1591, il Bertolotti (La musica in Mantova) segna il nome di Giacomo Braga, ferrarese, che con G. B. Austoni, Gio. Paolo de’ Rigetti e un ragazzo, alloggiarono il 5 maggio all’Albergo della Fortuna, e si fermarono soltanto due giorni.

Il Braga (Fr. Bartoli lo chiama Barga) era il Pantalone de’ Gelosi, quando si recarono (1583) a Milano, capocomico il Valerini. Fu allora che S. Carlo stabilì la censura per le bozzature delle commedie, su poche delle quali però appose la sua firma, perchè, pei molti affari di quell’ uffizio, fece tralasciar l’ordine, fidando nella parola dei comici, i quali giurarono che non sarebbero stati gli altri soggetti meno honesti de i riveduti. Il Braga e il Pedrolino havevano ancora di quei soggetti, 0 siano Scenarj di comedie sottoscritti. (Beltrame, Supplica, Cap. XXXVI).

Lo troviamo poi a Genova cogli Uniti il 1614. (V. Bernardini Ottavio).

Brambilla Giacomo. Attore milanese, che secondo le notizie di archivio date da Schlager e riportate dal Trautmann, si trovava a Vienna al servizio di S. M. Imperiale, nel 1590.

Brambilla. Comico milanese. « Innamorato di grido – scrive il Bartoli – che meritò d’essere applaudito per tutto quel tempo, che si fece veder sulle scene, fino che sorpreso dalla morte cessò di vivere intorno al 1750. »

Brambilla Rosa. Figlia di Maria Grandi (la Pettinara) e moglie di Antonio Brambilla ballerino. Recitò con molto plauso le parti di prima donna, nonostante la figura soverchiamente {p. 504}pingue. Fu in Portogallo nel 1770 col Paganini, poi, tornata in Italia, con varie Compagnie, fra cui quella del Bazzigotti. Toltasi dal teatro, si stabilì in Parma ; ma poi vinta dall’amore dell’arte, tornò sulle scene, e nel 1782 recitava in Palermo, « tentando – dice il Bartoli – che il proprio merito le servisse di strada, onde poter giungere ad una sorte migliore. »

Brancaccio Flaminio, napoletano. « Nel 1636 scrisse e recitò un Prologo nella commedia intitolata : La Flaminia, composta da Ottavio d’Isa di Capua, e pubblicata in Napoli insieme con esso Prologo nell’anno suddetto. » Così il Bartoli.

Benedetto Croce ne’ suoi Teatri di Napoli(pag. 104), dice che evidentemente il Brancaccio era un gentiluomo dilettante.

Chi abbia ragione dei due non so. Le osservazioni del Croce sulla rappresentazione della Flaminia sono giustissime : ma non men giuste paion le induzioni del Bartoli fatte sul Prologo stesso. Alla fine di esso il Brancaccio dice : la commedia si chiama La Flaminia, nome pur troppo noto a voi, poichè avete alcun vostro servitore che anch’egli ha così nome, ecc. Comunque sia, il Prologo è una scipita cosa, degno di far da avanguardia alla Flaminia più scipita che mai. Il lavoro è accademico e della peggiore specie.

Brandi Girolamo, vicentino. Il suo vero cognome fu Del Carcano. Per ragion d’interessi, avuta a patire da’ parenti alcuna ingiustizia, pensò di chieder soccorso all’arte drammatica, nella quale riuscì conducendo esso stesso una compagnia, e recitando nelle parti di innamorato. Nel 1772 entrò a far parte della Compagnia Medebach, in qualità di padre e tiranno, nella quale stette otto anni applauditissimo sempre. Restituitigli finalmente per legge i suoi beni, abbandonò l’arte e si stabilì in Venezia, ov’ ebbe un onorevole impiego. Desumo queste notizie dal Bartoli, dal quale anche si apprende come il Brandi scrivesse alcuni sonetti faceti intorno ad una burrasca sofferta da un Comico rinomato nel mar d’amore.

{p. 505}

Brangi Gaetano. (V. Buzzi Isabella).

Bresciani Giuseppe.

1731, 24 Marso. – Passaporto al comico Giuseppe Bresciani detto il Ferrarese, che colla sua compagnia, loro armi etc. di misura, robbe ed arnesi passa da questa Città all’ Imperiale di Vienna ed altre di Germania per distribuirne de’ suoi medicamenti.

(Dal Reg. 730 dei Passaporti nell’Arch. di Stato in Milano).

Bresciani Caterina. Dallo spoglio delle Prefazioni di Carlo Goldoni alle sue Commedie, in cui fu protagonista la Bresciani, si può farsi un giusto criterio del valore di questa attrice che recitò ugualmente bene le parti serie e le comiche, quelle in italiano e quelle in dialetto :… e che, vecchia, recitò le parti di madre ammirata e applaudita sempre.

Dell’ arte sua, negli ultimi anni, e del suo secondo matrimonio con un figliuolo del capocomico Giuseppe Lapy, suonator di violino, così parla il velenoso autore del Teatro, Antonio Piazza (Tom. II, pag. 21), che il Bartoli chiamaingrato contro tutti quelli, che l’hanno infinite volte nelle sue indigenze assistito.

Per fare da madre e da nonna v’ era la famosissima e celebratissima Ircana(cosi fu chiamata la Bresciani dopo l’interpretazione della Sposa Persiana), che fece tanto romore ne’ tempi andati. Quella parte che tanto onore le fece, non la rinunzia ad alcuna, nemmeno se la volessero scorticare. Colla tremante sua voce asserisce che il Goldoni l’ha fatta per lei, e che non deve cederla mai. Suo marito, quando ella recita, va nel parterre a batter le mani. Alcuni gondolieri a Venezia, che di ciò se ne accorsero, gli andavano sempre vicini, e applaudivano la sua cara metà, con quella voce che si fa sentire tanto dagli orecchi, come dal naso. Egli ardeva di rabbia, ma bisognava soffrir e tacere. Era questi zoppo, e pareva Vulcano che avesse presa la Beffana per moglie. Oh che bel matrimonio ! Che smorfie ! Che dolcezze reciproche ! Che carezze ! Udire quella brutta vecchiaccia a chiamarlo sempre colviscere mie, mio core, anima mia, parole paralitiche che le ballavano in bocca prima di uscire ; veder lui zoppicando starle attaccato sempre alla gonna, usare il diminutivo nel di lei nome, vaneggiarla, alla presenza di tutti, era cosa da eccitare il vomito alli stomachi più forti eziandio.

Nelle brevi parole che precedono La Dalmatina, tragicommedia di cinque atti in versi, rappresentata in Venezia l’autunno del 1758, dice il Goldoni :

La valorosa signora Catterina Bresciani ha sostenuto con tanto spirito e verità il carattere della Dalmatina, che ha meritato gli applausi di tutti, e specialmente degli Schiavoni. (Teatro, ediz. Pitteri. Venezia, mdcclxiii, Tom. IX).

{p. 506}

Ma la commedia che aveva, già cinque anni prima, dato fama di grande attrice alla Bresciani, fu la Sposa Persiana, rappresentata per la prima volta in Venezia l’autunno del 1753, con successo meraviglioso, che diè poi tanto nel naso al Gozzi, da fargli stampare il Canto della Sposa Persiana, che è la più volgare e acerba critica della commedia.

A proposito di quella recita, Goldoni (Memorie, vol. II) scrive :

Son debitore dei diletti che mi procurò questa commedia a Madama Bresciani che rappresentava la parte d’Ircana ; ed era appunto per essa, che avevala immaginata e composta. Gandini non voleva che l’ impiego di sua moglie venisse usurpato ; egli avrebbe avuto ragione se Madama Gandini non avesse toccata la sua cinquantina ; ma per evitare i contrasti, feci una parte alla seconda amorosa, che a quella della prima prevalse.

Fui ben ricompensato della mia fatica. Non è possibile di rappresentare una passion viva ed interessante con maggior forza, con maggior energia e con maggior verità di quel che fece Madama Bresciani in una parte così importante.

Quest’attrice, che aggiungeva al suo spirito ed alla sua intelligenza le vaghezze d’una voce sonora, e d’una pronunzia bellissima, fece tanta impressione in questa fortunata commedia, che in appresso non la chiamaron fuorchè col nome d’ Ircana.

E nella Prefazione alla stessa (ediz. Pasquali) :

Il popolo interessato per essa, non so se per il carattere che rappresenta, o per il merito singolarissimo dell’ eccellente attrice, la valorosa signora Catterina Bresciani, mi andava continuamente eccitando per una seconda commedia.

E l’eccellente attrice seppe serbarsi intatta la fama acquistata, alla quale non nocque punto nè meno il suo difetto capitale comune a molte donne : la gelosia di mestiere…. Un applauso fatto a una compagna le era una trafittura al cuore. Il povero Goldoni che nonostante la sua infinita serenità d’animo, dovè patire tutte le noje prodotte dalle eterne guerricciuole di palcoscenico, determinò un bel giorno, a soddisfar la Bresciani, e più ancora a darle una buona lezione, di formare una commedia nella quale l’attrice non avesse a temer confronti : e scrisse la Donna sola, che piacque molto alla Bresciani e che fu da lei, se ben capita la satira, mirabilmente recitata nel carnevale del 1757. Ma non questo accadde per la Donna stravagante, recitata la prima volta nell’apertura del carnevale 1760, forse perchè la parte piaceva assai poco all’attrice.

{p. 507}

Dice Goldoni :

Questa commedia ebbe un bastante incontro, quantunque fosse fatta per averne uno maggiore ; ma Madama Bresciani, che di sua natura era capricciosa un poco ancor essa, credette di vedersi ella stessa rappresentata, e l’umor suo cattivo indeboli la buona riuscita della commedia.

E per rimediare ai torti che questa eccellente attrice gli faceva, il Goldoni, anima nobile, scrisse le Baruffe chiozzotte, nelle quali madama Bresciani recitò stupendamente.

…. malgrado il suo accento toscano, aveva cosi bene imparate le maniere e la pronunzia veneziana, che recava un egual piacere, tanto nelle commedie dell’ alto comico, quanto in quelle del più volgare. (Gold. ivi).

E il 1762 recitò la Bresciani un Addio, pure in dialetto veneziano, che si trova stampato negli Atti Granelleschi del Gozzi, seguito dalla Risposta del Pubblico a lei del Gozzi stesso. (Carlo Gozzi, Opere, Tom. VIII. Firenze, Colombani, 1774).

Ecco l’uno e l’altra :

ADDIO

Questa è per onor mio la sesta volta,
Che me presento a sta benigna Udienza,
L’ultima sera a ringraziar chi ascolta,
E chi soffre la nostra insufficienza.
Ah ! se avesse dal fren la lengua sciolta,
Vorria stassera domandar licenza
De poder dir quel che non ho mai dito,
Ma ogni sfogo per mi saria un delito.
Compatime, ve prego, in carità
Se confusa me vegno a presentar,
Perchè dopo aver tanto sfadigà
Villanie no me par de meritar.
Da mi, da tutti nu s’ha procurà
El mestier con modestia esercitar,
E pur zente ghe xe (ne so dir come)
Che i Attori strapazza, e stampa el nome.
{p. 508}Del Poeta no parlo ; el soffre, el tase,
Perchè a lu no i ghe fa nè ben, nè mal ;
El Pubblico el respetta, el se compiase,
Che dei discreti el numero preval.
Solamente el se lagna, e ghe despiase,
Che se diga, che el guasta la moral,
E che penne lo scriva venerande
Con parole sporchissime e nefande.
No so, come se possa in bona legge
Metter chi non offende in derision.
Se critica con grazia, e se corregge,
E no se intacca la reputazion.
Ma, come se sol dir, le maravegie
Le va dopo tre zorni in obblivion ;
E termine averà tante faccende
De chi stampa in secreto, e de chi vende.
Basta, lassemo andar ste cosse odiose
Capace ogni omo onesto d’irritar.
Anime benedette, e generose,
Vu podè consolar, e serenar.
Fin ch’ el Ciel me conserva e vita, e ose,
Della vostra bontà v’ ho da lodar,
E partindo, e tornando, qua, e lontana
Sempre sarò la vostra serva Ircana.
Tanto del vostro amor, tanto me fido,
Veneziani cortesi, e de bon cuor,
Che nell’ anno, che vien, spero, e confido
Egual prosperità, se no maggior.
Avvilirne i vorria, ma me ne rido.
Ghe vol altro, che Fiabe, a farse onor,
E Maghi, e Strighe, e Satire, e schiamazzi :
Le vol esser Commedie, e no strapazzi.
Grazia domando, perdonanza aspetto,
Se sti ultimi dì v’ ho mal servio,
Perchè son stada tanti zorni in letto,
E ho dubità, ma son tornada in drio.
{p. 509}Gho una passion, che me devora el petto,
Quando no posso far l’obbligo mio,
E lo fazzo de cuor, come convien,
E no go invidia de chi fa del ben.
V’auguro a tutti sanità perfetta,
E longa vita, e lieti zorni, e pase.
Se mai ve recordè de sta Donnetta,
Ve prego usar de carità la frase.
Ve domando giustizia, no vendetta :
A longo andar ga più rason chi tase.
Compatì generosi i mi difetti,
Veneziani, de cuor sieu benedetti.

RISPOSTA

Ve ringraziemo, Ircana. El complimento
Che ’l vostro Direttor v’ ha messo in boca,
Nol fa parer un’ omo de talento,
Ma no diremo gnanca, che ’l sia un’oca ;
E ne dispiase solo del lamento,
Che fe, d’esser offesa, cara gnoca,
E sfidemo el Poeta, che menazza,
A dir, dove i Attori se strapazza.
Circa ai nomi stampai, credeme, Ircana,
Che se stampa anca el nome al Re de Franza.
Domandeghe al Poeta, ch’ el ne spiana,
Se el pensa colla testa, o colla panza.
Quanto a vu, semo allegri, che siè sana,
E ve stimemo Attrice d’importanza,
Ma del Poeta vostro, con licenza,
Pensemo ancuo con qualche differenza.
Gh’ è cascà sie Commedie, e l’accidente
Fa, che incontra la settima qualcossa,
Le sie più lu no conta, e impertinente
El vol, che lo lodemo d’ogni cossa.
{p. 510}Se vu no ghe pensè, gnanca la zente
Ghe pensa. Ircana, via, no vegnì rossa,
Solo pensè, che l’ultima composta
Settecento Ducati la ve costa.
L’ ha guastà la moral ; volesse Dio,
Che sto peccà sul toni nol gavesse.
Chi l’ ha proposto, no xe tanto in drio,
Nol lo diria, se dirlo nol podesse.
El ne lo mostrerà, che el ghe xe drio ;
Nol lo fa per invidia, nè interesse.
La corruzion d’un Popolo, ne par,
Perchè un Cristian se scuota, ha da bastar.
La rabbia che lo rode, caro ben,
Per bocca vostra ghe fa dir assai.
Respetto verso el Pubblico el mantien ?
Un Pubblico no semo de cocai.
Quei versi Granelleschi ve assai ben,
El Pubblico li ha cari, e el l’ha accettai,
Ne a metterli lu basta in derision,
El Pubblico trattando da cordon.
Savemo, che le Fiabe sulla scena
A un Poeta no basta a far onor ;
Ma per sie zorni avemo fatto piena,
E nu femo l’onor, e el desonor.
Diseghe, che no l’abbia tanta pena,
Perchè el palesa quel, che el ga in tel cuor,
E alfin el perderà cervello, e polpe,
Volendose sforzar a far da volpe.
Povera Ircana ! un gran peccà ne fe’
A portar chi ve svoda la scarsella.
Chi paga chi lo frusta ne parè,
E senza un fia d’inzegno una puttella.
Suè, ranchè, v’arrabbiè, v’amalè,
E al fin xe del Poeta la cassella.
Almanco, se le Fiabe no corona,
Le ga de bon, che chi le fa, le dona.
{p. 511}Diseghe, cara fia, con libertà,
Che nol se creda un’ omo sovruman,
Che l’ è un Poeta a scriver condannà,
Come Santo Bagozzi, in venezian ;
E che, se un pochettin l’aspetterà,
L’ancuo no xe compagno del doman ;
Che quel, che xe stampà, sta tra la zente,
Ma cinquanta sbattue no dise gnente.
Ste cinquanta sbattue, che al vostro muso,
Cara, vien dae, e a inchini, e a adulazion,
No xe però stae bone a far star suso
L’altre Commedie andade a tombolon.
Ben mio, no fe’ de quel proverbio abuso :
La forza ghe ne indorme alla rason ;
Perchè, se ancuo xe le sbattue cinquanta,
Le vien trenta, e poi vinti, e poi i ve impianta.

Recitò il carnevale 1754-55 un Prologo (riprodotto dallo Spinelli nella sua Raccolta de fogli sparsi del Goldoni. Milano, Dumolard, 1885) alla commedia intitolata I Viaggiatori, non mai stampata, forse pel poco successo avuto, e rifatta poi dal Goldoni a dramma giocoso in tre atti, col titolo : I viaggiatori ridicoli pel Duca di Parma nel 1756 che lo creò in quell’anno suo poeta di Corte.

Alle recite del carnevale 1760 preluse il Goldoni con altro Prologo recitato da madama Bresciani e riprodotto dal Malamani ne’ suoi Appunti Goldoniani (Venezia, tip. dell’Ancora, 1887).

E dallo spoglio della Gazzetta Veneta (che non mi fu possibile vedere) fatto dal Tessier (Giornale degli eruditi, Tom. III) vediamo che la Bresciani recitò nel 1760 vari altri prologhi del Goldoni :

alle recite autunnali nel teatro di S. Luca in Venezia ;
alle recite in Mantova nella primavera ;
nell’ultima sera delle recite della primavera ;
{p. 512}al fine dell’estate in Mantova ;
nell’ultima sera di carnovale in Venezia, dopo la recita della Casa nova.

Restò poi colla Compagnia del suocero sino alla sua morte, che accadde in Brescia la primavera del 1780.

Brizzi Giacomo. Di questo ex attore intelligente, corretto, che per le parti di generico primario e di primo attore ebbe tanti schietti encomj dai giornali e dai pubblici nostri e forestieri, metto qui una nota autobiografica, la quale, nella sua modesta semplicità, rivela l’uomo e l’artista.

Mio padre, povero nobiluccio romano, discendente da una famiglia di quei signorotti dei Castelli Romani, entrò nell’arte drammatica non troppo giovane, con una buona dote d’istruzione, che non gli servì punto per diventare un buon artista ; fu anzi mediocre attore, ma onestissimo uomo. Io nacqui a Zara, capitale della Dalmazia, nel 1832. Mia madre, nipote del conte Cesarotti, poeta e letterato padovano, seguì sempre suo marito nella sua nomade carriera. Io venni al mondo in tristissimi tempi, ed educato alla meglio seguii modestamente l’arte del padre mio, che mi lasciò per patrimonio la volontà del lavoro e dello studio. Fui sempre in ottime compagnie ; e conobbi in quella primarissima di Cesare Dondini, Clementina Cazzola, che fu celebre attrice, e che dopo qualche anno d’ un amore romanzesco e perseverante, divenne mia moglie…. Fui attore studioso, ma mediocre ; l’esecuzione tradiva spesso il concetto, quantunque all’estero e particolarmente a Parigi e a Londra, abbia avuto encomj esagerati dal pubblico e da tutta la stampa. La prima sera che si diede l’ Otello al Teatro Italiano di Parigi, Folchetto (Capponi) telegrafò al Fanfulla parole troppo lusinghiere per me, perchè io possa ripeterle. Per 23 anni di seguito fui amministratore, segretario, attore ed amico di Ernesto Rossi attraverso a quasi tutto il mondo ; ed ora eccomi qui, rappresentante l’Accademia dei Filodrammatici e direttore di un teatro……

Quanto al teatro (il Filodrammatico di Milano) ch’ egli cominciò a dirigere nell’ ’85, sappiamo che la sua attività e la sua intelligenza si sono affaticate nervosamente, prepotentemente {p. 513}per dargli quel primato al quale aveva diritto, quello splendore a cui lo si era destinalo. (V. Gazzetta artistica). Sarah Bernardt, Iudic, Coquelin, per dir de’ maggiori, han fatto la loro apparizione al Filodrammatico. Nè solamente il Brizzi intende alle cose del teatro suo ; ma dell’arte drammatica in genere, discutendo, consigliando, ammonendo con larghezza di vedute sempre, e con sano criterio.

Quando più sembravano arridergli le gioie della famiglia, dovè staccarsi dalla moglie che adorava, e che morta pianse con affettuosi versi, e rifugiarsi nel suo dolore, solo. Fu allora, nel ’64, che abbandonato Cesare Dondini, entrò, attore e amministratore, con Ernesto Rossi.

Pubblicò in gioventù molte poesie, nelle quali, più che la elevatezza della forma son da ammirare una freschezza e spontaneità che non si attenuarono in lui col sopravvenir degli anni, come può far fede la lirica seguente dettata in sul cader dell’ ’89, e pubblicata or non ha molto con altri versi in un volumetto fuor di commercio.

ETÀ CRUDELE

Quando negli anni fervidi
M’ardeva in petto il core,
Quando d’affetti turgido
Serpea col sangue amore !…
Quella era vita ! all’impeto
Dell’alma abbandonata,
D’ogni dolore immemore,
Sol dal desio guidata
E riluttante all’incubo
D’indomito poter !
Nelle più strane immagini
Accarezzando il ver !
Sorgere all’alba, correre
A calpestar le brine,
Salir sui monti, ridere,
Baciar le montanine,
Inebriarsi al garrulo
Pispiglio degli augelli,
Sugger la vita in margine
Dei limpidi ruscelli !
Forti di membra, creduli
Nell’infido avvenir….
Tutto bramar nell’estasi
Procaci del desir !…
{p. 514}Quella era vita !! – fremere
Degli astri all’armonia,
Sovra un visetto pallido
Leggere un’elegia,
Sognar battaglie, glorie,
Sul tramite ridente,
Sprezzanti d’ogni ostacolo,
Gonfia d’idee la mente.
Inceder fra i pericoli
Baldi di voluttà,
Con uno sguardo vincere
Le più restie beltà !…
Quella era vita !! or restano
Le larve dell’inganno,
Qualche memoria sterile,
Qualche recente affanno ;
La pianta annosa incurvasi,
Langue appassito il fiore,
Nè val se sempre giovane
Palpita ardito il core.
La vita fugge, mancano
Le forze, ed è virtù
Dei giorni che passarono
Non ricordarsi più !…
Meglio morir nel fascino
Della passione ardente !
Meglio morir nel turbine
Dell’anima fremente,
Quando d’amor fioriscono
Le rose della vita,
Vòlti a una meta incognita
Giovanilmente ardita !
Quando fra lotte indomite
Scorrono lieti i di !…
Meglio morir che piangere
Sul tempo che fuggi !…
Divenir vecchi ; assistere,
Se il senno ci rimane,
Al trapassar monotono
Delle miserie umane,
E l’uom che prima impavido
Uso a tremar non era,
Volgersi malinconico
Stupidamente a sera.
Che se ingannarlo un alito
Può ancor di gioventù,
La vigoria dei muscoli
Non sa ingannarlo più !
Addio liete battaglie
Dei ludi fescennini !
Addio pugne titaniche
Degl’itali destini,
Glorie dell’arte, teneri
Contrasti d’ogni affetto !
Già l’affannoso anelito
Grava degli anni il petto….
Le forti membra assidera
Dell’egra etade il gel,
E gli occhi immoti fissano
Lo scoperchiato avel !…

Broccoletto Francesco. Artista veneziano, nato il 1772, e fiorito tra il 1795 e il 1812. Esordì con la Battaglia, come generico di niun conto, poscia, a dar pieno sfogo alla sua viva passione per l’arte, entrò in una compagnia di infimo ordine, ove s’innamorò della prima donna, giovinetta di qualche pregio, che sposò più tardi e col padre della quale formò {p. 515}compagnia. Educato alla scuola degli artisti che eran colla Battaglia, diventò in breve uno de’ principali caratteristi. In capo a tre anni di capocomicato fu scritturato, con la moglieseconda donna, nella Compagnia di Andrea Bianchi, poi in quelle di Marta Coleoni, Francesco Perotti e Giacomo Dorati. Stimolata la moglie dalla brama di ridarsi a’ruoli principali, Broccoletto formò nuovamente compagnia il 1810, che condusse con fortuna sino alla metà del carnevale 1812 ; nel qual tempo morì per apoplessia a poco men che quarant’ anni.

Broglia Ambrogio. Recitava il 1672 in Bologna sotto nome di Bertolino(V. Zecca) in una compagnia, della quale facevan parte la moglie Francesca, Tortorina, Angiola Isola, Lavinia Isola, Gioseffo Milanta, detto il Dottor Lanternone, Andrea Cimadori, dettoFinocchio, e Antonio Riccoboni, detto Pantalone. (Quadrio, op. cit., 244). Apparteneva il 1687 alla Compagnia che Francesco Calderoni condusse da Venezia a Monaco al servizio dell’Elettor di Baviera. Il Trautmann (op. cit., 262) lo chiama Brollio.

Brolo Giulia. (V. Bolico Giulia e Battista da Treviso).

Brunacci Tommaso e Amalia. Primo attore e prima attrice della Compagnia accademica-toscana addetta al regio teatro degl’Intrepidi di Firenze, si trovavano l’estate del 1790 a Livorno, ove dieder principio a un corso di recite con un prologo in versi (stampato in Siena dai torchi di Francesco Rossi), esaltante la città di Livorno e l’attore Giuseppe Fineschi, il quale avea, pare, lasciato il teatro, e al nome del quale è pubblicato per intero il prologo originalissimo, ricco d’interesse per la storia della scena italiana su ’l finire del passato secolo.

Brunelli Rosa. Attrice di grandissimi pregi così per le tragedie come per le commedie scritte e all’improvviso, allieva e scritturata per alcun tempo del capocomico Onofrio {p. 516}Paganini. Sposò il comico Zanerini, poi in seconde nozze il maestro di musica Baccelli, sotto il qual nome fu già collocata in questo dizionario (V.). Della sua andata a Parigi così parla il Des Boulmiers nella sua Storia del Teatro italiano (Tomo VII).

« I comici italiani per riparare alla perdita della signora Vezian, nota sotto il nome di Piccinelli, e per la morte della signora Savi, incaricarono l’aprile del 1766 il signor Collalto che sosteneva il carattere di Pantalone, di recarsi in Italia alla ricerca di due attrici pei ruoli di prima e seconda amorosa. Le signore Sanareni (sic) e Baccelli, madre e figlia, ch’egli condusse, esordirono negli Amori di Arlecchino, scenario in 3 atti di C. Goldoni, che diventò poi gli Amori di Zelinda e Lindoro. Quelli che conoscon la lingua italiana, applaudirono il modo di improvvisar della madre ; ma come tal pregio non poteva essere notato da tutto il pubblico francese, essa non ebbe quel successo che poteva sperare. L’una e l’altra furon, nullameno, accettate come pensionane, e continuarono a coprir le parti l’una di prima amorosa, l’altra di servetta. » (V. Zanerini-Bianchi).

La Baccelli - dice il Bartoli - travagliò più di dieci anni in carattere di prima donna, finchè fu poi sostituita dalla Teodora Ricci, moglie del Bartoli stesso. Alla definitiva chiusura del Teatro italiano a Parigi, ella tornò in Italia, vivendo ora in Venezia, ora in Treviso, e godendosi in pace il denaro che aveva accumulato a Parigi.

Il Bartoli riporta i due seguenti sonetti :

Per una Commedia nuova egregiamente rec itata dalla signora Rosa Brunelli, composta dal signor Onofrio Paganini, Capo della Truppa.

Maraviglia non è se i grati amici
danno al merito tuo condegno onore,
maraviglia mi fa, mi fa stupore
che ti lodino ancora i tuoi nemici.
{p. 517}Ti basta ? Vuoi di più ? Rosa, che dici ?
Fidati del mio cor : Parla l’Autore :
Temi di sorte rea l’empio rigore,
o speri in avvenir vanti felici ?
Umile non rispondi ? E ben, decido
come m’inspira il ciel. Tu ognor ti fai
onor d’Italia, e dell’Adriaco Lido.
E se con te tutto finor tentai,
ad onta ancor d’ogni destino infido,
io tuo sostegno, e Tu onor mio sarai.

Recitando con universale applauso la valorosissima ed incomparabile signora Rosa Brunelli Baccelli nelle Commedie, che si rappresentano nel Teatro Formagliari di Bologna il Carnevale dell’ anno 1765. Alludesi alla Commedia intitolata – Il Trionfo dell’ Innocenza – nella quale la suddetta virtuosissima Signora ha rappresentato il Personaggio della Candace.

Il bell’ inganno che diletta e piace

chi può mai dir d’una Maestra Scena,

che sovra i nostri cor troppo efficace

i più svegliati spiriti incatena ?

Colà, sovra ogni attor la gran Candace,

come più vuol rattrista e rasserena.

Come al vivo ella è ognor pronta e sagace,

il labbro e gli occhi di più affetti piena.

Bello è il veder dalla scoppiata mina

onde dovea venirle ingiusta morte

scampo acquistar l’Etiope Regina.

E mentre intento tu l’osservi e l’odi,

vedi che de’ Teatri a rara sorte,

ella è maggior delle maggiori lodi.

Brunetti Icilio, nato a Fossombrone il 1838, fu, ancora in fasce, portato a Roma, ove stette fino al ’61, nel qual anno esordì a Livorno come secondo amoroso e secondo brillante in Compagnia di Francesco Sterni. Fu per trent’anni attore {p. 518}accurato, coscienzioso, onesto e pregiato ; e appartenne alle migliori Compagnie italiane, quali di A. Salvini (’63-’64), Gattinelli (’66), T. Salvini (’68-’69), Majeroni (’70), Peracchi (’72), Pezzana (’75-’78), Romagnoli (’80-’81), Tessero e Dominici (’86), Giozza (’90), e ad altre molte. Salì al grado di primo attore, e nella Compagnia di Tommaso Salvini, rappresentò al fianco del glorioso artista e di Virginia Marini, i personaggi di Paolo nella Francesca, di Pilade nell’Oreste, di David nel Saul ; e nei riposi di Salvini, quelli di Alfieri nel dramma omonimo di Gattinelli, di Dottor Nuvoletti nella Donna Romantica, di Armando nella Signora dalle Camelie.

Nei trent’anni di vita artistica, il Brunetti ne passò dodici direttore di Compagnia e capocomico in società con Luigi Pezzana ; e fu il primo a scritturar la Eleonora Duse affatto sconosciuta per gli anni ’75-’76 con l’Adelina Marchi prima attrice.

Abbandonata l’arte dal ’90 per malferma salute della moglie, si restituì a Roma ove si trova tuttavia, impiegato dal marzo ’92 qual Segretario nella Società di Previdenza fra gli Artisti drammatici.

Bruni Domenico, detto Fulvio in commedia, comico Confidente al servizio di Madama Serenissima Principessa di Piemonte, fu rinomatissimo come innamorato e come autore di opere attinenti al teatro. La più nota e interessante è senza dubbio quella delle Fatiche comiche, stampata a Parigi per Nicolao Callemont il m . dc . xxiii, e divisa in due parti ; di cui l’una dedicata all’ Ill. mo ed eccellentissimo D. Cesare di Vandome, Duca di Vandome, di Belforte, e di Etampe, Governatore di Bertagna, ecc., e l’altra al Serenissimo Principe Tomaso di Savoja. Il volume ha una specie di autobiografia dei primi anni del Bruni, in cui è narrato per disteso il suo ingresso nell’arte, e in cui si discorre largamente e chiaramente di vari comici, quali Isabella Andreini, Gio. Battista Andreini, Pietro Maria Cecchini, Adriano Valerini, Orazio Nobili, Giovan Paulo Fabbri, Cintio Fidenzi (V.), al nome de’ quali si troveran {p. 519}riportate le parole di lui. Anche vi sono due prologhi da Pantalone e da Graziano di cui il lettore troverà menzione ai nomi di Pasquati e Bianchi. A questa delle Fatiche comiche segue un’operetta col titolo : Prologhi di Domenico Bruni Comico Confidente detto Fulvio, all’Ill. et Ecc. Sig. D. Emanuel di Savoja, ecc. Torino, 1621. Contiene : Prologo a S. A. S. recitato da Celia. – Affetti di Lavinia verso Madama Serenissima Principessa di Piemonte, Prologo. – Meraviglie di Torino conosciute da Lavinia, Prologo. Della nobile Torino, riserbata ad avere tanta e così gloriosa parte nella storia d’Italia, scriveva il Bruni, quasi presago dell’avvenire : « in questo luogo dove i monti tengono il piede, l’Italia il cuore, il Re dei Fiumi la cuna, Venere l’albergo, la Vittoria le palme, la Gloria i trionfi e l’Onore il seggio, ecc. » Non ho veduto questo libretto di Prologhi, ed ho però trascritte le parole di A. Bartoli (op. cit., cxxviii). Ma di altra opera importantissima dovrem parlare qui, a mia notizia non mai pubblicata per le stampe, posseduta manoscritta (e assai probabilmente autografa) dal conte Paglicci-Brozzi, addetto all’Archivio di Stato di Milano, e solerte raccoglitore di cose teatrali, il quale con abnegazione più unica che rara volle mandarmela in esame, concedendomi di pubblicare quanto fosse stato necessario al maggiore e migliore sviluppo di questo dizionario. L’opera è in quarto, di nitida scrittura (certo del ’600), e ha per titolo : Dialoghi Scenici di Domenico Bruni detto Fulvio, Comico Confidente fatti da lui in diverse occasioni ad istanza delle sue compagne, Flaminia, Delia, Valeria, Lavinia e Celia ; cioè : Orsola Cecchini, Camilla Rocca Nobili, l’Austoni, Marina Antonazzoni e Maria Malloni. Il volume non comprende che una prima parte di dialoghi, di cui ecco i titoli :

Amore di amante sprezz ato rivolto in odio.
Donna incredula.
Principio d’Amore.
Se la bellezza e la gratia sieno una cosa stessa.
Se la lontananza sia buona in Amore.
Guerra amorosa.
Amante troppo amico.
{p. 520} Ragioni di essere et non essere amante.
Precedenza dell’huomo e del la donna.
Chi sia Amore, lo Amante o l’Amata.
Complimenti alla finestra nel partirsi dall’amata.
Chi più ami l’huomo o la donna.
Amante ruffiano nell’amor costante.
Amanti riconosciuti nella istessa com. ª
Se in Amore prevagliono i sensi o l’intelletto.
Augumento delle fiamme amorose.
Amante giuocatore.
Sole et Luna.
Amante ingrato nella corsara.
Gelosia buona in Amore.
Giuoco della palla.
Fine del giuoco della palla.
Lode degli occhi ne’duoi pazzi.
Amanti pazzi ne’ duoi pazzi.
Zodiaco.
Amanti petrarchisti.
Moglie ragionevolmente gelosa nell’innocenza travagliata.
Precedenza del Legista e dello Artista.
Bacio, vero godimento di Amore.
Precedenza dello Armigero et del letterato.
Precedenza dei colori e della proportione.
Amanti Astrologhi.
Della Bellezza.
Giuoco dell’ Amore.
Il servire più d’una donna non è incostanza, e lo scordarsi dell’amata non è mancanza.
Giuramento involontario.
Che si deve amare chi non ama.
Non voler amare per non esser geloso.
Retorica.
Sdegni placati.
Donna semplice et a ccorta.
Partenza.
Amante volubile.
Cinque per cento.
Amorosa ostinatione superata
Donna sdegnata contro il marito.
Marito sdegnato contro la moglie.
Ritratto salutevole.
Ringraziamento.
Donna servitore.
Parlare d’intelligenza diversa.

I dialoghi per vero dire non valgono gran cosa. Ci si trova dinanzi a’ soliti contrasti dalle imagini bizzarre a grossi {p. 521}paroloni, dalle sottigliezze lambiccate, dalle sdolcinature iperboliche a base di sole, di luna, di fontane, di fiumi, di aurore, di tramonti, con tutti gli dei e semidei dell’olimpo. Ma quel che dà importanza e valore a questi dialoghi è l’idea ch’essi ci danno del recitar d’allora ; e forse di que’tali scartafacci o soggetti, ne’quali i comici serbavan le frasi di entrata e di uscita, i pensieri amorosi, le nuove arguzie, le nuove spiritosaggini, il patrimonio insomma dell’artista che dovea recitar la commedia all’improvviso ; poichè questi dialoghi del Bruni molto probabilmente eran incastrati volta per volta nelle varie commedie improvvise, le quali, a lungo andare, avevan poi nelle repliche la parola stereotipata per modo che si poteva col solo soccorso della memoria, trascriverle distesamente, senza nè toglier, nè aggiunger sillaba. Questo abbiamo visto accadere per l’Innavertito del Beltrame ; e questo forse accadde per la Rodiana, commedia improvvisa del Calmo, trascritta poi sulla scorta di quei primi recitatori dal Ruzzante ? (V. Beolco e Ruzzante).

Trascelgo il dialogo della Donna servitore che è tra Fulvio e Celia in abito d’uomo.

Fulvio. Dico che vi somigliate di maniera a questa Celia, che facil cosa sarebbe che se voi foste adornato da donna, si come sete vestito da huomo, che fosti preso per quella.

Celia. Queste sono delle maraviglie che suole produrre la natura che ancor che paja diligentissima si dimostri nel distinguere le persone, nel carattere dello scrivere, nel suono delle voci, et nella forma dei volti ; contuttociò molti si sono trovati che simigliantissimi tra di loro essendo, benchè nati in paesi diversi e lontani, hanno ingannati quelli che più famigliarmente con loro praticavano ; e la prova si vede nella mia persona che tanto dite assomigliarsi a questa Celia.

Fulvio. Sia come si voglia, se come vi ho detto volete venire a stare in casa mia, mi sarete caro e rimanerete beneficato dell’ajuto da voi ricevuto.

Celia. Questo giorno la fortuna mi ha condotto in questo luogo, perchè io adempisca il decreto del Destino che mi fece nascere per servirvi. Mi comandi e mi ami.

Fulvio. Vi amo ; e per mostrare quale verso di voi sia la confidenza mia, vi costituisco secretario delle mie passioni amorose, confidando la mia salute nella vostra diligenza. Ho amato quella Celia che dissi, ma l’alterezza di questa balordella (benchè adesso il suo amore mi prometta e mi preghi) mi ha di maniera contro di lei alterato, che ad ogni mio potere mi sono disposto, aborrendo le sue nozze, di conseguire una giovine che alberga in quella casa il cui nome è Lauinia, figlia d’un mercante honorato, e non disuguale a me di parentado, alla quale risolvo di scrivere una lettera, e farne voi il portatore, sì come sarete a lei il primo palesatore delle mie affettioni.

{p. 522}

Celia. Benchè habbi letto :

Pazzo chi al suo Sig. r contradir vuole,
se ben dicesse hauer ueduto il giorno
splender le stelle e a mezzanotte il sole,

con tutto ciò, non per contradire, ma per non simulare, dirò che la vostra incostanza conosciuta per difetto dalla Sig.ª Lauinia, si opponerà all’acquisto che bramate ; onde infine il tempo perduto seruirà di penitenza delle contentezze che Celia ui offerisce nel suo matrimonio : questa risolutione offende Celia, Celia ha il nome dal Cielo, e chi offende il Cielo, all’inferno è dannato ; guardate che il disprezzo di questa meschina non vi condanni all’inferno della disgratia di quest’altra. Io ho inteso che i nomi hanno in loro un non so che di fortunato e d’infelice ; per me questo di Lauinia non mi piace ; poichè Lauinia, quella cantata da Virgilio originò incendio al Latio, la morte a Turno, e trauagli a Enea : oltre che se voi pigliate la seconda sillaba di questo nome che è Vi, e la fate prima, componete un nome che dice Vilania. Le vilanie dishonorano gli huomini, dove si può concludere che dall’acquisto di questa Donna, solamente dishonore ne acquistarete.

Fulvio. Sete molto pratico delle cose del mondo, il mio Lucio.

Celia. Se V. S. mi conoscesse bene, farebbe altro giudicio : ma che risponde V. S. in questa materia ?

Fulvio. Dico, che quando anco la scienza della nomandia nel nome di Lauinia mi facesse prevedere la mia morte, che in ogni modo a confusione di Celia l’amerei, et se il nome di quella con l’anagramma da voi formato dice Vilania ; e quello di Celia per inversione di lettere dice Alice. Alice è quel pescetto che, salato, serve per aguzza appetito e non per vivanda ; che forse ha voluto significare che Celia, perch’io possa satiarmi di Lauinia, per aguzza appetito mi ha servito.

Celia. L’Alice dopo morte, mercè del sale, per gusto dell’uomo molto tempo si conserva ; e Celia benchè morta nella vostra gratia, mercè della costanza sua, per vostro gusto, credo, si conserverà vostra sino tanto che si conserverà il mondo.

Fulvio. Vi scuso, o Lucio, poichè hauendoui detto che tanto assomigliate a Celia ; è ben di dovere che difendiate la causa di chi tiene la vostra sembianza.

Celia. E la volontà.

Fulvio. Come ?

Celia. E la volontà, poichè dite che lei vi desidera, et io solo bramo di compiacervi.

Fulvio. Torno a dire che ragionevolmente fate della sua persona buon giudicio : mouendoui a ciò, potrebbe essere la forza delle stelle che forsi nel uostro natale, nello stesso modo all’uno et all’altro concorsero. Ma fermandoui nella conoscenza di dovermi ubidire, acchetateui ; io vado a scrivere ; uoi per portare la lettera uenite da qui a poco a pigliarla.

Celia. O Fulvio, mi ferisci il cuore e vuoi ch’io taccia ? Mi condanni ingiustamente a morte, e non uuoi ch’io parli ? E di Amante fattami messaggera d’Amore, termini la pretensione delle mie speranze nello affaticarmi per l’altrui contento, et nel consumarmi per le altrui delicie ? Di quai tempre s’arma il mio cuore per resistere alle uiolenze di questi colpi ? Di qual forza si ueste il mio corpo per sostenere lo sforzo di tanta sventura ? Non si trova che il solo silenzio, che lo possa esprimere, poichè per essere incomprensibile non si può narrare. Con tuttociò le crudeltà di Fulvio sono per me di tanta dolcezza animate, che minacciandomi rovina, pare che mi promettino salute. Onde conviene che ringrati Amore che mi porge occasione di sopportare lo impossibile per il gusto di una sì bella causa, misurando il mio cuore alla {p. 523}grandezza delle mie passioni. Vengo dunque, o Fulvio, a servirti, sperando ancora nella notte così horrida della mia sventura, e nel mare così procelloso de’miei sdegni, di trovare con la forza della sofferenza, e sole e porto.

Ma parliamo della vita del nostro artista. Dalle Fatiche comiche sappiamo che fu figlio di un artista della Compagnia de’Gelosi, e che nacque…. ma lasciamo che cel dica egli stesso.

L’anno del mille cinquecento novantaquattro, che fu il quatordicesimo dell’età mia, dopo lo avere passato per tutte le angustie e patito tutte le necessità, che la carestia universale (gravissimo flagello di Dio) così vivamente gli anni inanti fece sentire, intendendo che mio Padre si ritrovava in Firenze, essendo di ritorno di Sicilia e di Napoli ; esortato dal magnifico Adriano Riccardi (la bontà del quale di molte miserie in quella età mi sollevò) di andare a ritrovarlo ; chiesto licenza alla madre, dopo molte lagrime ottenutala, involto in un pelliccetto, ed un paro di sottocalze per le saccoccie, delle quali spingevo fuori le braccia, mandate a punto dallo stesso M. Adriano allo Speziale di S. Maria nuova in Firenze ; montato con questo ornamento sopra d’un Mulo carico di mezza soma di ferro oltre la mia persona, uscii di Bologna il di 15 di Gennaio la sera. Se volessi raccontare le sventure nelle quali incorsi, ed i pericoli che passai in quei tre giorni e mezzo che mettessimo da Bologna a Firenze, forsi parrebbe favola, e pure è vero, poichè in Savena ci avessimo ad annegare, a Scarica l’Asino il vento mi gettò da cavallo, o giù del Mulo. La scesa del Giogo bisognò farla a piedi ; a Firenze non mi volsero lasciare entrare la sera perchè avevo troppo del giudoncello ; dove bisognò che due crazie che avevo servissero per albergare ed iscaldarmi ; che del magnare, se non era l’ostessa che mi donò un poco di pane, digiunavo la vigilia di Santo Bastiano con tutte le circostanze. La mattina entrato, dopo l’avere a molti chiesto lo albergo dove mio padre alloggiava, trovatolo in fine, il desiderio che avevo d’abbracciare il padre, mi fece abbracciar l’oste che anch’egli come mio Padre era convalescente ; e dichiarandomi per suo figliuolo, provocai sua moglie a dirmi bastardo, a gridar col marito, quasi a mettere la casa sottosopra. Pure a’cenni il pover’uomo (poichè dove una donna grida, bisogna farsi intendere a’cenni, essendovi debole ogni voce) la pregò di tacere. Ottenutolo, ed inteso da me quello che dimandavo, con la scorta d’una serva mi mandò sopra in un camerino dove trovai il Padre, col quale non occorsero molte parole, per dirgli ch’io fossi ; poi che in vedendomi, benchè non mi raffigurasse per figlio, sentendosi commuovere, gli vennero le lagrime a gli occhi ; ed accertatosi dell’esser mio, abbracciatomi e di li a poco fattomi vedere a’suoi compagni : date le sue sottocalze allo Speziale, e mutato il pelliccietto in un vestito di panno il Sig. Francesco Andreini marito della famosissima Isabella mi fece imparare un Prologo, che da me recitato fu il pronostico che sempre dovevo perseverare in questo esercizio, poichè il prologo fu questo :

(V. Andreini Francesco (pag. 56) dove il Prologo è pubblicato per intero).

Questo fu il primo prologo ; e così entrato nelle Commedie, e con mio Padre vivendo tra’ Commedianti, conobbi l’arte non essere così facile come molti che, non la praticando se non con gli occhi, la credono ; poi che vi sono persone di così poca pratica, che giudicano esse mestiero d’ogni ignorantello il farsi vedere sopra i teatri, parlare in pubblico, e ad una infinità di popolo dare più che mediocre satisfazione. È vero che anche ogni cestaruolo può toccar denari per soldato, ma non seguirà però che l’uno sia {p. 524}Commediante, nè l’altro Capitano. Lo studio è necessario per sapere occorrendo trattare di tutte le materie non solo in Commedia, ma nelle Accademie, poichè pure vi sono Accademie illustrissime che per testimonio che i comedianti, che fanno l’arte loro come si conviene, non sono indegni d’essere ammessi nelle loro adunanze ; hanno accresciuto il numero degli accademici accettando e uomini e donne, che ordinariamente comparivano in iscena…. ecc. ecc.

Il Bruni fe’dunque le prime armi ne’Gelosi, sciolti i quali dopo la morte d’Isabella, entrò nella formazione de’ Confidenti. Quanto all’indole, pare che egli non fosse uno stinco di santo, se ci diamo a richiamar le scene violente di gelosia artistica fra la Lavinia (Marina Antonazzoni) e la Valeria (….. Austoni), della quale il Bruni, amante palese, pigliava accanitamente le parti. Al nome dell’Antonazzoni son quelle scene particolareggiate, specialmente in due lettere di lei e del marito a S. E. Impresaria Don Giovanni de’ Medici, il quale, seriamente seccato, minacciò di scioglier la compagnia. E quando, vinto dalla umile e calda intercessione di Flaminio Scala, il direttore, scrisse di continuar la protezione a’comici con patto di fraterna concordia, il Bruni che a detta dell’Antonazzoni aveva più volte affermato voler fare d’ogni erba fascio, ove dovesse restare in compagnia, e che sembra fosse stato davvero la pietra dello scandalo, mandò pel primo a Don Giovanni colla seguente lettera le sue giustificazioni e le sue proteste di obbedienza e di reverenza.

Ill.mo et Ecc.mo Sre et Pne colendissimo,

Per non mi concedere l’obbligo a cui volontariamente mi sottoposi, et la riverenza che ragionevolmente devo all’E. V. di obligarmi ad altri, nè di procurarmi ad altrui persuasione o mio capriccio compagnia, mi ha trattenuto che in niuna rivolta fattasi tra di noi, habbi nè aderito nè promesso, et hora che la volontà di V. E. mi viene notificata per la lettera scritta alla Compagnia, torno di nuovo a promettere che Sig.r Flavio per parte sua m’imporrà, che mi governerò, non potendo interesse di odio o di benevolenza farmi bramare nè ricusare più uno che altro compagno, nè ambire a preminenze o negare obedienza. Il Romagnesi et Mezzettino anche loro facendo riverenza, et ringraziando la E. V. della grazia in che li mantiene ; di nuovo si obbligano di non volere se non quanto dalla volontà di V. E. li sarà imposto, et meco augurandoli da N. S. ogni compita felicità lo supplichiamo di essere mantenuti nel numero de’suoi più humili servitori.

Di V. E. Ill.ma
Dev.mo Servo
Domenico Bruni.
{p. 525}

Al principio delle notizie autobiografiche del Bruni, ne ho messa in diverso carattere l’età, la quale esclude in modo irrefutabile ch’egli sia l’autore delle Difese delle Donne che a lui attribuiscono. L’opera di Messer Domenico Bruni da Pistoja, ch’io posseggo stampata in Milano da Giovanni Antonio degli Antonij, e che non è nè men la prima edizione, ha la data del 1559 ; mentre il nostro Bruni nacque nel 1580, cioè ventun’anni dopo. E la supposizione di alcuni, che il Bruni, pistoiese, fosse lasciato colla madre a Bologna, intanto che il padre scorrea colla compagnia il mezzogiorno d’Italia (e non saprei poi perchè più tosto a Bologna che nella città natale), cade dinanzi all’oroscopo che traggo, come gli altri, dalla Biblioteca Nazionale di Firenze, il quale ci dice il Bruni bolognese.

Bruni-Canòva Angela. Nata in Siena verso il 1780, si diede, giovinetta, all’arte, riuscendo in brevissimo tempo attrice di gran pregio. Creò nel 1793 al S. Gio. Grisostomo di Venezia la parte di Nina nella Nina pazza per amore. Nell’autunno del’94 allo stesso teatro, quella di Isabella nell’Olivo e Pasquale del Sografi, e il 4 gennaio ’95 quella della {p. 526}protagonista nella Ginevra di Scozia del Millo. Passò la fiera dell’Ascensione di detto anno al S. Luca in Compagnia Perelli, creandovi il 5 gennaio 1796 la parte di Sofia nel Ladislao del Pepoli. (V. Bossi). Il Giornale de’ teatri (Teatro applaudito, ecc., vol. II) dice : « nei caratteri di varia semplicità conservò sempre il raro suo valore. »

Fu poi per tre anni prima donna assoluta al teatro de’Fiorentini di Napoli, ove si sposò con Giovan Angiolo Canòva, attore della stessa compagnia e scrittore di cose d’arte assai pregiato. Fatta compagnia egli stesso, ne fu l’Angela per molti anni il principale ornamento, finchè, non volendo ridursi alle parti di seconda donna e di madre, risolse di abbandonar l’arte, stabilendosi a Torino, ove morì verso il 1835.

Brunini (Baroni) -Privato Elettra nacque il 1853 in Livorno da onesti commedianti, e fu tenuta al fonte battesimale dall’illustre artista Cesare Rossi, povero ed oscuro attore a quel tempo. Suo padre, di nome Enrico Baroni, morì quand’ella aveva a pena tre anni : e passata la madre a seconde nozze con Ferdinando Brunini, artista di pregio non comune, la piccola Elettra, da lui primamente educata e istruita, e da lui amata come figliuola, ne assunse il nome. La figura, se bene elegante nelle sue piccole proporzioni, non le consentì di abbracciare i grandi ruoli, ma alla deficienza della figura supplì sempre una intuizione artistica vivissima, uno slancio senza uguali, una vena inesauribile di comicità. A dodici anni potè passar per attrice provetta in parti di serva maliziosa e civetta ; e potè a trenta, in parti di bimba come nel Signor Alfonso e nella Colpa vendica la colpa, esser tenuta per giovinetta quattordicenne a cui si prediceva un lieto avvenire. E questo suo pregio di vestir la parte, di qualunque specie e di qualunque età fosse il personaggio, si mantenne costante in lei ; la quale passava in una stessa commedia, applauditissima sempre e a pochi anni d’intervallo, da un personaggio all’altro colla maggiore indifferenza. Ella fece i primi passi nell’arte in {p. 527}Compagnia Boldrini, poi in quella di Ernesto Rossi. Fu con Peracchi e colla Marini ; poi con la società Biagi-Casilini, e poi con Morelli, con Pietriboni, con Aliprandi-Privato, e di nuovo con Pietriboni ; e finalmente, sposatasi a Guglielmo Privato, con la Compagnia Veneta formata da Zago in società con suo marito, sostenendovi ancora, e con buon successo, le parti di prima attrice, e prima attrice giovine, a cagione del fisico che le si è serbato quale a’ suoi venti anni.

Brunorini Antonio. Figlio di Antonio Frangini, gioielliere veneziano, morto il ’49 sulle barricate della (Momola) Guardia Nazionale. Sposatasi la vedova, dopo tre anni, a un Brunorini di Verona, fornitore di viveri militari, il bimbo Antonio, per desiderio del padrigno, ne assunse il nome. Da lui educato e iniziato a severi studi, compì il terzo corso reale a Verona, dopo il quale si recò per due anni a Padova a studiarvi avvocatura. Adescato dall’arte drammatica, soggiacque al suo fascino, e fuggì con la Compagnia Rosaspina-Bonivento, senza paga, mantenuto e non vestito. Vani furon gli sforzi della famiglia per ricondurlo a sè…. la quale anche tentò di lasciarlo privo del necessario per mostrargli più ardua e fosca la via dell’arte. Volenteroso, appassionato, riuscì a occupar, dopo non lungo noviziato, il posto di brillante assoluto, che tenne con costante favore del pubblico, passando dalla Compagnia di Michele Ferrante a quelle di Alessandro Monti, di Angelo Diligenti, di Luigi Monti, e di altri, e diventando poi capocomico, or solo, ora in società.

Una singolarità del Brunorini che assai gli giovò nell’arte, è l’essere stato un suonator di flauto di non comune perizia ; tale che fu dal celebre Briccialdi esortato, in vano, a lasciar le scene per darsi alla professione di concertista. E concerti diede acclamatissimo a Venezia e a Verona ; e dalla filarmonica di Verona ebbe diploma di professore, e più volte fu ed è tuttavia dal pubblico applaudito come attor comico e come flautista.

{p. 528}

Buccellati Luigi. Milanese, lasciò a mezzo gli studi legali per fuggir di casa e andare ad abbracciar l’arte comica, rifugiandosi, perchè ricercato da’ suoi, a Riverzaro prima, in quel di Piacenza, poi a Bettola sulle montagne, in Compagnia Mazzeranghi, composta di tre donne, quattro uomini e un bimbo, in cui la prima donna sosteneva la parte di Paolo nella Francesca da Rimini e quella di Roberto nei Due Sergenti, diventando Sofia al secondo atto e ritornando Roberto al terzo.

Da Bettola richiamato a casa si rimise agli studi, i quali abbandonò di bel nuovo, appena uscito di tutela. Entrò in Compagnia Brunorini, poi, sposatosi alla Rossi, in quelle di Lazzeri, Tessero e Bertini, Luigi Monti, Andrea Maggi, sostenendovi le parti di primo attore giovine. Fu anche primo attore e direttore, ora in società con Brunorini, or solo, or pagato e con Fantechi e con la Diligenti-Marquez.

Negli elenchi dell’anno comico ’96-’97 egli figura come direttore e primo attore in Compagnia delle sorelle De Ogna. Artista garbato e colto egli scrisse anche poesie delle quali alcune furon pubblicate a Piacenza in un volume col titolo di Ore solitarie.

Buccellati-Rossi Mirra. Moglie del precedente, nacque a S. Giovanni in Persiceto da Eugenio Rossi, attore e conduttore per lungo tempo di compagnie secondarie. Iniziò la sua vita di artista con Angelo Moro-Lin, seconda amorosa al fianco di Amalia Borisi. Poi, sposatasi al Buccellati, lo seguì nelle varie compagnie or prima attrice giovine, or prima attrice assoluta, traendo tutto il giovamento che potè dalle sue valorose maestre, Anna Pedretti e Adelaide Tessero, la quale, con Luigi Monti, ebbe sempre parole di calda ammirazione e di schietta affezione per la gentile artista, che in pochi anni, dopo di avere esordito l’ ’86 a Torino colla parte di Bérangère nell’Odette, si trovò a interpretare in Italia e fuori, e con plauso dovunque, le più forti opere del teatro moderno, quali Francillon, Moglie ideale, Casa di bambola, Trilogia di Dorina, Rozeno e altre assai. Oggi {p. 529}è, a vicenda coll’Emilia Varini, prima attrice nella Compagnia di Cesare Rossi e Giovanni Emanuel.

Bucciotti Giuseppe.Secondo caratterista di assai valore. Era il ’20 nella Compagnia Bazzi ; il ’21 nella Reale Sarda, in cui stette col medesimo ruolo sino al ’41 che fu l’anno della sua morte.

Bucciotti Antonio. Figlio del precedente, era il ’25 in Compagnia Internari amoroso sotto Francesco Paladini. Entrò il ’29 nella Reale Compagnia Sarda, in cui rimase sino al suo ultimo disfacimento, scritturato per le parti di sciocco o mamo, nelle quali acquistò tanta rinomanza da poter mantenere con successo quel ruolo giovanile anche quando la canizie e la obesità ebber dileguata ogni illusione. (Costetti, La Comp. Reale Sarda.)

Un Bucciotti Luigi, forse altro figlio di Giuseppe, ho trovato amoroso il ’22 nella Compagnia di Paolo Belli-Blanes.

Buffetto. (V. Cantù Carlo).

Bugamelli-Sacchi Rosa.« Felice rampollo di famiglia illustre ne’ fasti del teatro italiano, perchè nata Sacchi, ella venne già onorata col titolo di Pellandi delle servette ; in fatti è un’ottima sostituzione all’eccellente Maddalena Gallina, di cui non si può ricordare che con dolore la perdita. » Così il Giornaletto ragionato teatrale di Venezia (N. IX).

Il 1819-20 fu servetta in Compagnia di Vestri e Venier, col marito Francesco e il figlio Gustavo, generici. Passò poi servetta (e parti di carattere) il 1823-24 nella Compagnia di Caterina Venier, Francesco Toffoloni e Soci ; e nel 1834 in quella di Pasquale Tranquilli e Medoro Aliprandi. La Bugamelli aveva bella figura, bella voce, e volto espressivo. Luigi Vestri la volle sempre con sè ; le commedie del Goldoni più specialmente, come la Donna di governo, la Locandiera, la Donna vendicativa ed altre, ebbero in lei una interprete ottima.

{p. 530}

Bugani Vincenzo. Padovano. Da un’arte non fabrile – dice il Bartoli – passò il Bugani a far il comico esercitandosi nella maschera del Traccagnino. Fu al S. Luca di Venezia, poi con Pietro Rosa e la Giustina Cavalieri in Lombardia e in Toscana. Tornò a Venezia al S. Gio. Grisostomo socio di Maddalena Battaglia, e un po’ coll’arte, un po’ col commercio, trovò modo di formarsi una certa fortuna. Viveva ancora al tempo del Bartoli (1782). Fu attore assai fortunato, se non di vero merito, se dobbiam credere a Carlo Gozzi, il quale dice di lui nel tomo secondo delle sue Memorie inutili :

Un nuovo Truffaldino detto Bugani nel Teatro di S. Gio. Grisostomo, infelice, e laido secondo Zanni, aveva destato il risibile ne’ veneziani per modo, ch’era predicato per Venezia con perfetta ignorante ingiustizia, assai miglior Zanni del Sacchi.

Bugni Smeraldo, nacque in Pisa nel 1775. Compiti gli studi di legge in quella Università, s’innamorò perdutamente di una comica, dalla quale fu persuaso di darsi all’arte drammatica. Dopo il primo passo fatto in quella compagnia d’infimo ordine, abbandonata l’amante, andò a far parte della gran Compagnia formata da Petronio Zanerini, quale amoroso. In capo a due anni, colla piacevolezza del volto, la prestanza della persona, la bellezza della voce, e soprattutto la grandezza dell’ingegno, diventò uno de’ più egregi attori del suo tempo. Fu, qual primo amoroso, nella Compagnia di Marta Coleoni, in cui creò il Cajo Gracco di V. Monti. Da questa passò poi nelle Compagnie Pellandi, Bianchi, Avelloni e Benferreri, nella quale ultima diventò primo attore di grido, creando pressochè tutti i protagonisti delle commedie che l’Avelloni andava scrivendo. Fu ancora col Cavalletti e col Perotti ; ma venuto a età piuttosto avanzata, non amando far passi a dietro nell’arte, risolse di recarsi a Londra, per insegnarvi l’italiano. Quivi morì nel 1820.

Buonamici Gaetano. Al solo nome di Bonamici, il Bartoli dice : « Comico fiorentino. Ebbe i suoi principj ne’ teatri di Firenze, esercitandosi assai bene nel carattere d’innamorato. {p. 531}Passò a Napoli, ed ivi presentemente si fa distinguere per comico di non poca abilità, e molto attento nell’esecuzione del proprio impegno. »

Dalle noterelle del Di Giacomo pel 1778, sappiamo che

Il comico del S. Carlino Francesco Vitonomeo fugge a Roma mentre è scritturato da Tomeo. Tomeo scrittura l’amoroso Gaetano Buonamici, che intanto firma un altro impegno con l’impresario del Valle di Roma. Sospettando del Buonamici, Tomeo lo fa arrestare e condurre alle carceri di S. Giacomo. Dice don Tommaso che egli non può far a meno d’un personaggio tanto essenzialissimo. E così Buonamici ogni giorno è accompagnato dagli sbirri al concerto e alla recita, e riaccompagnato dal teatro alle carceri. Restituisce all’Impresario del Valle 20 scudi e resta al S. Carlino, per ordine del Re, fino al 1779.

Lo troviamo poi nel 1796 primo attore della gran Compagnia, sempre al S. Carlino, della quale facevan parte i noti attori Nicola Pertica, Vincenzo e Filippo Cammarano, Camillo Fracanzani.

E nella stessa qualità e pressochè cogli stessi compagni era al S. Carlino anche nel 1800 ; dove lo troviamo nel 1803, usciti di Compagnia alcuni importanti attori, tra’quali il Pertica, scritturato per le parti serie e sostenute.

Eccone l’atto di nascita che ho estratto dall’Opera di Santa Maria del Fiore.

Domenica a di otto agosto mille settecento cinquantasei. Gaetano, Giuseppe, Antonio, Maria, Gaspero, Baldassarre, del sig. Gaspero del sig. Gaetano Buonamici, e della sig.ra Maria, Caterina del sig. Giuseppe Panchetti, conjugi, popolo S. Lorenzo, nato il di sette detto, a ore dieci della sera. Compare sig. Giuseppe del sig. Gaetano Bonamici del popolo suddetto.

Buonamici Anna. Moglie del precedente. Compare la prima volta con lui nell’elenco della Compagnia del 1796, terza dopo Rosa Grignani e Carlotta Angiolini. Nel 1800 era seconda dopo Rosalia Linder, e nel 1803 prima donna. (Cfr. Di Giacomo e Croce).

Buonamici Giuseppe. Attore fiorentino. Lo troviamo, il 1856, alunno della Scuola di Declamazione di Firenze diretta da Filippo Berti, già preconizzato ottimo attore, {p. 532}specialmente nelle parti d’effetto. Entrò come primo amoroso assoluto in Compagnia Domeniconi col quale stette alcuni anni. Fu il 1880 con Antonio Colomberti, che in una sua nota inedita dice di lui :

…. avemmo campo di apprezzarne le doti artistiche nel dramma di Gualtieri, Silvio Pellico, nell’Antigone di Alfieri, nella Signora dalle Camelie di Dumas, in varie commedie di Gherardi Del Testa, ecc. Bella figura, volto espressivo, pronunzia perfetta toscana e non comune intelligenza, erano i suoi pregi. Fu per tre anni primo attore nella primaria Compagnia di Cesare Dondini, ed anche in quella seppe distinguersi, e farsi applaudire. In seguito, per aver preso in affitto il Teatro Goldoni, si ritirò dall’arte.

Morì nel ’69 a San Pier d’Arena dopo breve malattia, a soli cinquantacinque anni.

All’Arena del sole di Bologna, l’estate del ’61, fu pubblicato in onore di lui il seguente sonetto :

Salve, o gentile, o nuovo onor dell’arte
che il guerrier greco ristorar solea,
quando il furor del sanguinoso Marte
la bella Pace il corso rattenea.
E che di Plauto nelle argute carte,
e negli atti di Roscio indi splendea,
poi surse allor che furon rotte e sparte
le tenebre in che Italia s’avvolgea.
Te dalla curva arena il Popol folto
applaude, e oblia de le sue cure il pondo,
tanto gioir sta ne’ tuoi detti accolto
chè a Te dell’arti il genio almo, fecondo
diè un leggiadro sentir pari al tuo volto,
le grazie, il riso e il favellar facondo.

Buonomo Ambrogio. Citato dallo Zito nel commento alla Vajasseide del Cortese, come socio del D’Auriemma (V.). Recitava la parte di Coviello. Il Fuidoro parlando di lui e di Andrea Ciuccio (Calcese), li chiama attori del volgo, ma di tale voga, di tale concorso, che non poteva venire e restare a Napoli una {p. 533}Conversazione (Compagnia) forestiera, se non li accoglieva tra i loro. Il nome di Amb.° bon’ Uomo (sic) si trova unito a quello di altri comici in una Platea del secolo xvi della Real Casa degli Incurabili. (V. B. Croce, op. cit.).

Buranella (la). (V. Casanova Giovanna).

Burchiella Antonio. Si nasconde sotto questo nome Antonio da Molino, veneziano, attore assai pregiato non che pregiato scrittore, amico intrinseco di Andrea Calmo, il quale gli scrive la tredicesima lettera del primo libro, interessantissima per la storia del costume, coll’indirizzo : « al mio conzontao in openion, M. Antonio Burchiela, » e colla firma : « El gemini de la vostra sfera, Allegreto d’i Sepolini da Comachio. » Che il Burchiella fosse valoroso attore sappiamo da Calmo stesso, che di lui faceva sì gran conto, da esclamar nella lettera di chiusa del libro secondo, vòlto alle povere commedie, ridotte a mal partito : « orsù, state di buona voglia ; chè sino al tirar del fiato di Burchiella e a l’aprir delle mie mascelle, vi faremo, per quanto ci sarà possibile, star su l’onor vostro. » E meglio lo sappiamo da Messer Ludovico Dolce, che nella lettera di dedica a Giacomo Contarini del poemetto di Burchiella i fatti e le prodezze di Manoli Blessi strathioto, ci dice di lui che nel recitar commedie passò così avanti, da poter essere meritamente chiamato il Roscio dell’età sua. – E de’versi che il Burchiella lasciò in italiano e in greco, dice il Dolce ch’e’ potean contendere con quelli del Bembo e del Petrarca.

Il poemetto delle prodezze di Manoli Blessi è scritto in una lingua (greco volgare ?) che ha – dice il Rossi (le lettere del Calmo) – fenomeni fonetici dei dialetti istriani e dalmati, e nella quale scrisse anche il Molino alcune barzellette ispirate dai preparatori della battaglia di Lepanto. Dettò in veneziano alcune Rime, tuttavia inedite nel codice Marciano It. IX 173, e in lingua italiana un Dialogo ovver Contrasto d’amore, e un Dialogo piacevole di un greco et di un fachino. (Rossi, ivi).

{p. 534}

Burchiella Luzio. Recitò la parte di Dottor Graziano nella Compagnia de’Comici Gelosi che si recarono in Francia nel 1572, sostituito nel 1578 da Ludovico De Bianchi ; e potrebbe anch’essere il conduttore e direttore di quella tal Compagnia menzionata dal Rogna in varie lettere. (D’Ancona, op. cit.).

11 Maggio 1567. S. E. ha fatto recitare oggi una comedia dai Gratiani.

18 » » Heri si fece nel palazzo del Sig. Cesare Ecc.mo una comedia de’Gratiani.

E il medico Ettore Micoglio sotto la stessa data :

Qui non si sente di nuovo che le commedie del Gratiano.

Fu il Burchiella comico pieno di brio. Abbiam di lui il seguente sonetto inserito nelle varie poesie che seguono l’orazione funebre del Valerini per la Vincenza Armani (V.) :

Dal pigro sonno, che con gli ozj suoi
neghittoso alle fredde ombre ti rese,
alma risorgi, e fa al mio cor palese
quell’affetto d’amor che or dorme in noi.
Mente confusa, oppressi spirti, e voi
mie dormenti virtù le voglie accese
abbiate in lei, ch’è in terra un sol cortese
più di te, Febo, e de’ bei raggi tuoi.
Cantate le bellezze che non ponno
dal tempo o dalla morte esser corrotte,
che invidia ve n’avranno Uomini e Dei.
Cosi dagli occhi sbandirete il sonno,
e condurrete a più sicura notte
e a più felice occaso i giorni miei.

E abbiamo una lettera in lingua graziana (V. Bianchi [De] Ludovico) tratta dalle Argute e facete lettere di Cesare Rao, e già pubblicata dal Bartoli.

Egli è probabilmente quello stesso Lucio Fedele, di cui parla il Quadrio, e che cominciò a fiorire verso il 1560. « Il Ghilini nel suo Teatro – dice esso Quadrio – per occasione di Giulio Cesare Capaccio, fa menzione di costui, come di eccellentissimo comico, e il migliore assolutamente de’ tempi suoi. Il detto Capaccio inviò a questo Lucio la sua commedia, {p. 535}perchè colla sua compagnia la recitasse, come si ricava da una lettera dello stesso Capaccio posta nel Libro I del suo Segretario. »

Businelli Gaetano, nato nel 1772 a Verona, esordì come primo amoroso nella Compagnia di Marta Colleoni.

Fu ne’primi tempi dell’arte sua di pessima condotta. Soleva passar le notti nelle case del vizio e nelle bettole da cui usciva quasi sempre ubbriaco. Scacciato dalla capocomica in pubblica prova, tanto se ne accorò, che, riaccettato dopo supplicazioni d’ogni specie, non solamente mutò radicalmente i costumi, ma tanto si diè allo studio, che in brevissimo tempo divenne uno de’ più forti artisti de’ suoi giorni. In alcune parti, come in quella di Flodder nella Teresa e Claudio e del Re nell’Ines di Castro, ambedue del Greppi ; in quelle di Bonfil nelle varie Pamele del Goldoni e in altre moltissime non ebbe rivali. Passò poi in Compagnia Pellandi, e lo troviamo l’anno comico 1795-96 al S. Angelo di Venezia, ove crea la parte di D. Solitario nelle Lacrime d’una vedova del Federici. Sposò una certa Teodora Donati attrice poco nota di quella Compagnia, e morì il 1812 circa.

Buzzi-Brangis Isabella. Di famiglia di commercianti, nacque a Firenze il 1788. Si sposò ad un parrucchiere della città, Brangis, che da lei stimolato, abbandonò il suo negozio per darsi al teatro, in cui riuscì mediocremente, e per formare poi una Compagnia discreta, in cui potesse la moglie mostrare tutte le sue attitudini a quell’arte alla quale fu chiamata fin da giovinetta. Eccone l’elenco :

DONNE


Buzzi Isabella, prima donna Biagini Rosa, altra seconda donna
Fava Giuseppina, madre Petrucci Luigia, serva
Alberti Annetta, altra Alberti Bettina parti ingenue
Brandi Santina, seconda donna Buzzi Augusta

{p. 536}UOMINI


Bosio Giuseppe primi uomini Fava Filippo, parti d’aspetto
Mancini Carlo Petrucci Lorenzo, caratterista
Brunacci Tommaso, padre Brandi Luigi, secondo caratterista
Ringhieri Giuseppe, tiranno amorosi Bianchi Francesco generici
Checchi Candido Alberti Luigi
Brunacci Bernardo Didiè Giuseppe

Petrucci Achille, parti ingenue

Dopo quattro anni di studio e di lotte artistiche, l’Isabella fu annoverata fra le migliori artiste dell’epoca sua. Non essendole riuscito di porre un freno alle sregolatezze del marito, si separò da lui legalmente, scritturandosi prima con Lorenzo Pani, poi con Luigi Favre. Assunse il 1825 con Romualdo Mascherpa, col quale stette quattr’anni, il ruolo di madre nobile ; e dopo di essere stata in altre Compagnie, applaudita sempre, abbandonò il 1840 il teatro per recarsi in patria, ove morì.