Luigi Rasi

1897

I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia

2019
Luigi Rasi, I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia, volume I, parte 2, Firenze, Fratello Bocca, 1897, 2 vol. in-8. PDF : HathiTrust.
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[n.p.]

Quadro dei buffoni francesi e italiani, esistente nel Museo della Comédie française

LUIGI RASI

I COMICI ITALIANI

(Biografia, Bibliografia, Iconografia) §

L’opera sarà completa in 60 fascicoli circa (edizione di gran lusso illustrata) di 32 pag., e al prezzo di Lire Due ciascuno pei soli sottoscrittori.

(Lire Cento anticipate per l’opera completa)

Prezzo dell’opera finita pei non sottoscrittori Lire Duecento

È completo il primo volume in due parti, che comprende 35 fascicoli (lettere A-K)

Abbiamo annunziato già questa pubblicazione ; ora che essa è avviata, essendone già a luce sei fascicoli, possiamo parlarne più di proposito, e dirne il bene che merita. Nulla può desiderarsi di più e di meglio per ciò che concerne la stampa, eseguita dal bravo Landi, nonchè per le riproduzioni di ritratti, costumi, scenarj, fac-simili, ecc. Sotto tale aspetto questa pubblicazione non ha nulla da invidiare alle più belle stampe estere. L’utilità poi dell’opera è evidente, dacchè la storia dei comici è storia del Teatro ; e dacchè nei secoli scorsi, i nostri attori tennero il primato fra tutti, e diffusero la commedia italiana, specialmente nella forma detta dell’arte, in tutta Europa. E noto come la prima idea di raccogliere le notizie biografiche dei comici italiani venisse a [n.p.]Francesco Bartoli, marito della celebre Teodora Ricci, che le pubblicò in due volumi nel 1783 ; ma d’allora in poi molto altro era da aggiungere sia di nuovi nomi, sia di altri particolari sugli attori già noti ; e a ciò più specialmente contribuirono il Sand e il Campardon in Francia, fra noi il compianto Adolfo Bartoli e altri. Il materiale da adoprare era perciò già copioso, e a questo ha recato nuovo accrescimento il signor Rasi con proprie ricerche, specialmente d’archivio. Come egli se ne sia giovato, si vede già da queste prime 172 pagine dell’opera, dove si trovano, fra altre minori, le biografie di quattro comici antichi di gran fama : Francesco e Giambattista, Isabella e Virginia Andreini. La copia e varietà di particolari raccolti ad illustrare la vita e la carriera artistica di queste vere stelle di massima grandezza nel cielo drammatico – la frase secentistica non è fuori di luogo parlando degli Andreini – ci dà certezza di eguale diligenza per le vite che restano da compilare.

Alessandro D’Ancona.

(Rassegna Bibliografica della Letteratura italiana).

Richiamo vivamente tutta l’attenzione dei miei lettori sopra una grande e coraggiosa pubblicazione d’un erudito coraggioso e pieno d’ingegno e d’amore per l’arte e per la storia dell’arte. Editori i Fratelli Bocca, stampatore Salvadore Landi, Luigi Rasi, direttore della Scuola di recitazione in Firenze, ha cominciato a pubblicare l’anno scorso un dizionario biografico dei comici italiani e prosegue arditamente in mezzo alle mille difficoltà dell’argomento e sfidando la difficoltà più grossa, io voglio dire l’indifferenza del pubblico, così avaro di aiuto in Italia per imprese letterarie serie, vaste e belle come questa che lodo senza restrizioni, senza reticenze, senza riserve.

L’edizione è magnifica : oltre allo splendore della carta e dei tipi, noto la ricchezza delle incisioni, tratte con scrupolosa fedeltà dagli antichi disegni : il testo, così vivo ed esatto, sembra più vivo ed esatto illustrato da immagini che rievocano il tempo in cui i comici, questi poveri esseri della gloria rumorosa ed effimera, vissero la loro vita agitata, fra le miserie e le gaiezze, fra gli applausi e le insurrezioni delle platee.

Il Rasi ha indefessamente studiato e indefessamente studia ; s’è sprofondato negli archivi e nelle biblioteche ed ha restaurata così la storia della nostra grande famiglia comica che dalla fine del secolo decimoquinto sino ai nostri giorni ha, si può dire, dominato il teatro europeo.

Domenico Oliva

(Corriere della Sera, 16-17 marzo ’96).

L’opera di Luigi Rasi, I Comici italiani, è un lavoro di mole non comune, che presenta non poche difficoltà di compilazione e che richiede una ricerca minuziosa, paziente ed intelligentissima, una gran cura, una perizia straordinaria, molto sapere ed un profondo e fine criterio artistico congiunto alla massima imparzialità.

Ora, da quanto già si può giudicare, questa pubblicazione è il compendio di ogni esigenza, sotto ogni rispetto.

Nessuno meglio di Luigi Rasi poteva assumersi, con certezza di riuscire appieno nel suo alto e nobile intento, un còmpito simile.

Per la storia del teatro italiano il di lui Dizionario è un ricco e prezioso tesoro.

L’arte italiana dev’essere molto riconoscente al Rasi del grande servigio che egli le rende con tanto affetto e con tanta capacità.

Chiunque si occupi di cose di teatro avrà ne I Comici italiani il migliore ausilio ed una miniera inesauribile di notizie, di dati, di curiosità, ecc.

Giuseppe Cauda

(Gazzetta di Torino, 13-14 agosto ’96).

[n.p.]L’opera del Rasi, opera che contiene tesori d’erudizione, sarà la più completa e geniale storia del nostro Teatro drammatico.

Jarro

(La Nazione, 6 marzo ’96).

…… chi si propose di scrivere la storia dei comici italiani fece opera nobile. E se per la necessità d’una cultura solida e d’una vasta erudizione doveva essere un letterato, per l’affetto era necessario che sorgesse di loro.

Luigi Rasi ha questi due requisiti ; e la sua opera I Comici italiani, di cui sin dal ’94 ha incominciato l’edizione in fascicoli la casa Bocca con ricchezza di tipi e d’incisioni, promette di essere magistrale sotto ogni aspetto.

Enrico Corradini

(Il Marzocco, 28 giugno ’96).

………………………

Ma non il mio ringraziamento solo, stimatissimo Sig. Direttore : io voglio esprimere anche il mio migliore augurio. Poichè l’opera Sua, come si può già conchiudere dalle dispense pubblicate, è magnifica, è una vera miniera di materiale interessante e degno di fede, come può produrre soltanto la ricerca infaticabile conscia dello scopo e (come traspare da ogni linea), entusiastica. È veramente un lavoro industre e onesto che agisce beneficamente infondendo zelo in chiunque cammina sulla stessa strada. Io non ho che un augurio : che l’opera così bene incominciata sia condotta a termine felicemente con gioconda attività, poichè allora Ella avrà regalato alla Storia del teatro d’Italia un’opera da consultarsi come nessun’altra Nazione ancora possiede, e per la quale in ogni tempo chiunque si occupi di ricerche di teatri Le sarà riconoscente.

Per me poi sarà un onore e una gioia se potrò in qualche modo esserle utile nella cerchia del mio lavoro nella Baviera. Se Ella desiderasse delle notizie su personaggi che abbiano avuti rapporti colla Corte bavarese e che non siano menzionati nel mio studio sui Comici Italiani, io farò tutte le ricerche. Poichè a un’opera, come quella che Ella ha così coraggiosamente intrapreso, ognuno ha l’obbligo di recare aiuto con tutte le sue forze.

Con sincera e speciale considerazione, suo devotissimo

D.r Karl Trautmann

(Monaco, 8 luglio 1895).

Je voudrais signaler à ceux de nos lecteurs français qui s’intéressent au théâtre étranger une magnifique publication italienne : I Comici italiani (Les Comédiens italiens), par M. Luigi Rasi, directeur du Conservatoire (Scuola di recitazione) de Florence. Il n’en a encore été publié que quinze livraisons, mais elles donnent une suffisante idée de cette collection qui est en même temps une œuvre de science historique et une œuvre d’art. Son auteur et ses éditeurs l’ont intitulée modestement Dictionnaire, parce que l’ordre alphabètique y est observé ; mais pour la sûreté des documents biographiques et bibliographiques, pour l’exactitude scrupuleuse du récit, pour la beauté et la rareté de l’iconographie, et aussi, je crois pouvoir le dire, pour l’élégance du style, je ne vois pas trop l’équivalent français que nous pourrions opposer à cette publication étrangère. Je n’entends pas lui faire une réclame banale, car elle mérite vraiment le nom d’histoire et mon amour-propre national en souffrirait un peu, si je ne songeais que l’histoire des troupes de la Comédie italienne, aux dix-septième et dix-huitième siècles, se confond un peu avec celle de la Comédie française, et si, d’autre part, je n’étais averti par l’auteur lui-même qu’il a trouvé en France beaucoup de renseignements précieux.

[n.p.]C’est ainsi que M. Nuitter de la bibliothèque de l’Opéra, et M. Bouchot de la bibliothèque nationale, se sont mis à sa disposition, l’ont aidé dans ses recherches avec la plus extrême obligeance et lui ont fourni des matériaux pour son travail. Je les en remercie en son nom. Cette heureuse conspiration littéraire et théâtrale, cette fraternelle collaboration franco-italienne nous repose agréablement des défiances et des sottises de la politique.

E. Claveau

(Le Soleil, 18 maggio ’96).

Nessuno poteva essere più competente di Luigi Rasi a far entrare il pubblico nel mondo teatrale. Egli – già attore apprezzatissimo, scrittore accurato e geniale ed attualmente direttore appassionato della R. Scuola di recitazione a Firenze – riuniva in sè le qualità necessarie per una compilazione colossale di tutte le notizie che si possono riferire ai comici italiani, e cioè : coltura, relazioni personali e paziente ardore.

Nè l’opera è solamente valida come arida miniera di ricerche ; essa è compilata con spigliatezza, con brio, con intenti artistici così palesi e con una così sicura vivezza di spirito da dar campo ad una delle letture più singolarmente piacevoli che si possano immaginare.

Scorrendo queste pagine – stampate in un nitidissimo e largo elzevir, in cui si alternano fregi della più appropriata eleganza, riproduzioni di disegni antichi, tavole cromolitografiche ed autografi inediti di singolar valore per la storia dell’arte – abbiamo provato centuplicato quel piacere che De Amicis seppe tanto abilmente descrivere nella sua Lettura del Dizionario.

Questo il valore vero dell’opera del Rasi – tanto diverso dai dizionari biografici consueti ; – questo il motivo per cui ogni biblioteca, anche privata, che si rispetti, dovrebbe contarla nel proprio elenco.

C’è tutto in essa ; la data e l’episodio, la persona e l’ambiente, la diligenza dell’archivista e l’amore per l’arte.

(La Sera, 9 febbraio ’98).

L’importanza dell’opera nel contenuto, e dell’opera la bellezza nelle forme, ha diritto a uno studio, accurato e completo, degno ; e sarà fatto certamente, non solo come omaggio al risultato che il Rasi va ottenendo, ma anche come dovere di studiosi. Qui accenniamo alla pubblicazione, per ricordarla assiduamente al pubblico che sa valutare e incoraggiare e proteggere le opere che conquistano il loro posto nella biblioteca, poichè nobilmente si elevano. Il Rasi, ora direttore della Scuola di recitazione in Firenze e un tempo attore, consacra a quell’opera, che è il fior della sua anima, l’ingegno, l’esperienza e la coltura : quella coltura che per un attore è addirittura oltre l’incredibile, e che resta particolarmente notevole e superiore anche fuori il palcoscenico ; e vi consacra ancora il frutto del suo lavoro quotidiano, perchè i risparmi che dovrebbero rappresentare il premio e la tranquillità della vita di lavoro e di studio nobilmente spesa, nella mirabile sua pubblicazione egli profonde ; senza contare la immane fatica che dura e le difficoltà che incontra, tali da fiaccare i più tenaci, nella raccolta dei documenti. E lo accompagni e lo sorregga l’illuminato e sollecito interesse degli studiosi, di quanti hanno gusto e sentimento d’arte ; rimeritando così, giustamente, l’ingegno, la coltura, la volontà, e la bella fede, della quale l’opera di Luigi Rasi è manifestazione singolare.

Edoardo Boutet

(Don Chisciotte, 16 marzo ’98).

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[C] §

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I COMICI ITALIANI §

Caccamesi Cesare. Recitava oltre la metà del secolo xvii le parti di innamorato con grande successo, in Sicilia. Il sabato 24 novembre 1668, mentre stava sul punto di slanciarsi colla spada alla mano, conforme richiedeva la scena, sul suo nemico, côlto da male improvviso, morì.

Cagliero Emilia. Fu splendido ornamento della Compagnia di Giovanni Toselli, e una delle più geniali figure del teatro piemontese, che abbandonò, giovanissima, quando più le arrideva la gloria, per entrare nel santuario della famiglia. Non saprei far meglio che trascrivere in volgare alcune parti del bellissimo articolo, che Luigi Pietracqua, il rinomato {p. 540}commediografo piemontese, dettava su di lei nel Birichin del 4 luglio 1896.

Oh la deliziosa, l’adorabile creatura quella Cagliero ! Occhi neri, espressivi, lucenti come il diamante, lampeggianti come stelle ; un sorriso che ipnotizzava tutti con quelle labbra più rosse e fresche del corallo, con quei denti che avrebber fatto invidia alle più autentiche perle orientali ; un’indole quasi infantile, semplice, piena di soave ingenuità, sempre bonacciona con tutti, pronta sempre all’ allegria, alla risata argentina, al buon umore : al tempo della primiticcia compagnia dialettale di Giovanni Toselli ella era il vero cucco del pubblico. L’Adelaide Tessero, Salussoglia, Penna, Cosset e Toselli stesso campeggiavano per innegabil valore artistico personale, e ognuno sapeva ogni sera sollevar meritamente il pubblico all’ entusiasmo ; ma la Cagliero aveva certe maniere tutte sue, certe inflessioni di voce così spontanee, così incosciamente affascinanti, che lo suggestionava addirittura.

Il suo ruolo era quello, non di prima importanza, della servetta. Ma che servetta ! che servetta ! ! Ricordo di aver visto quasi bambino la famosa Romagnoli già un po’ in là cogli anni, recitar la Serva amorosa di Goldoni col Boccomini ; e confesso che allora ne fui così dolcemente colpito da non sognar per un pezzo che la Romagnoli con quelle inflessioni di voce così simpatiche, con quelle grazie tanto naturali e tanto care. Bene : la Cagliero giovanetta, nova dell’arte, sin dalle prime sue prove su la scena, esercitava già su di me e di tutto il pubblico lo stesso fascino della grande artista italiana. Bastava vederla e sentirla una volta sola per non più dimenticarne la graziosissima figura, la voce spontaneamente armoniosa, le occhiate assassine, i sorrisi freschi e liberi che elettrizzavano. Una vera rosa fiorita. E niente di studiato, niente di ricercato in lei. Se aveva da ridere, lo faceva di gran cuore, e la sua risata argentina si comunicava subito negli spettatori ; se aveva da piangere, senza punto preoccuparsi, piangeva liberamente, apertamente, sinceramente, sul serio, e a quelle di lei mescolava il pubblico le sue lagrime ch’era un gusto a vederle. Quell’aurea semplicità e quella cara ingenuità constituivano il più grande e più prezioso merito della Cagliero.

E questo bel tipo di artista vera, forse più unico che raro nel suo genere, che tutti dicevan creato a posta pel teatro, si fermò ben poco sulle tavole del palcoscenico. La sua rapida apparizione dinanzi ai lumi della ribalta è stata come una meteora luminosa che colpisce, commuove e vanisce.

Se fosse rimasta nell’arte, chi sa quale artistona se ne sarebbe fatta. Il suo nome sarebbe certo stato proferito con lode e ammirazione accanto a quelli della Tessero e della Pezzana, e di altre che, stelle fulgidissime, han brillato più tardi nell’orizzonte glorioso del nostro Teatro italiano.

Calabresi Oreste. Attore di molti pregi per le parti di caratterista. Non figlio di comici, nacque a Macerata il 7 maggio del 1857, ma dovette, per rovesci di fortuna, recarsi ancor giovinetto colla famiglia a Roma, dove, dominato dall’amore dell’arte, entrò nella filodrammatica Pietro Cossa, della quale era direttore Eugenio Gerbino, piemontese, un de’ migliori e più vecchi dilettanti. Esordì come primo attore e amoroso {p. 541}con lo stenterello Mori a Pitigliano. Passò, dopo un anno, con Regoli e Cappelli, poi con Cuneo e Villa, assumendo il ruolo di generico primario, che serbò successivamente nelle Compagnie Lollio, Alessandro Salvini, e Serafini, recitando in quest’ultima a fianco di Ernesto Rossi e Tommaso Salvini, recatisi in vario tempo a trapelar la Compagnia. Scritturato A. Vestri in Compagnia Nazionale, andò il Calabresi a sostituirlo con Vitaliani ; morto il Vestri, lo sostituì con la Marini, con cui restò cinque anni, e con cui si recò in compagnia di Francesco Garzes, dopo la tragica fine del quale andò socio e scritturato con Paladini e Zampieri, che abbandonerà la quaresima del ’97, scritturato pel nuovo triennio in Compagnia di Claudio Leigheb e Virginia Reiter. Alla splendida figura il Calabresi accoppia una intuizione artistica non comune e una volontà ferrea. Nato per le parti comiche egli si trova col novissimo repertorio ne’ suoi panni, e festeggiato da ogni specie di pubblico per la vena di comicità spontanea, congiunta sempre a una ricca sobrietà.

Calamai Lorenzo, di famiglia toscana, si diede giovanissimo all’arte drammatica, nella quale riuscì assai mediocre attore, e capocomico di qualche pregio. Nelle sue Compagnie, di secondo ordine, quando quelle di primo ordine si contavan sulle dita ed eran ricche davvero di valorosi artisti, militaron Giovanni Emanuel al principio e Alamanno Morelli alla fine della sua vita artistica. Ne furon per varj anni primo attore e {p. 542}prima attrice Icilio Brunetti e Corinna Codecasa. Lasciato coll’avanzar dell’età il capocomicato, si diede all’ufficio di amministratore, e come tale morì a Firenze in Compagnia Ferrati e Socj al principio del ’96.

Calamari Carlo. Ottimo caratterista, fu socio per dodici anni, col Belloni e il Meraviglia, di Elisabetta Marchionni. Sciolta la società, fu scritturato da Gaetano Bazzi, con cui stette parecchi anni ; passò poi con altre Compagnie, finchè, lasciate le scene, andò a stabilirsi a Firenze, ove morì nel 1865.

Calcese Andrea, napoletano, famosissimo pulcinella, fiorito intorno al 1660. Fu detto ch’egli era giureconsulto innanzi di darsi alle scene ; ma il Perrucci nella sua arte rappresentativa dice in proposito : « in Napoli ci sogliamo servire della Parte di Pulcinella, personaggio non già inventato da un giurisconsulto, che si diede a farlo su i pubblici teatri, chiamato Andrea Ciuccio, come sognò l’Abbate Pacicchelli ; ma da un comediante detto Silvio Fiorillo, che si facea chiamare il Capitan Mattamoros : è vero che poi vi aggiunse con lo studio e la grazia naturale, perfezione Andrea Calcese, detto Ciuccio per soprannome, sartore e non tribunalista, come è noto a tutti coloro che ancora se ne ricordano, essendo morto nel passato contagio del ’56. »

Il Bartoli poi alla sua volta, cita contro quella del Perrucci l’asserzione di Bernardo de’ Dominici, che nel Tomo III delle sue Vite de’ Pittori napolitani (pag. 87) afferma essere stato il Calcese giureconsulto. Comunque fosse, egli ebbe fama di uno de’ migliori comici del suo tempo, nè solamente a Napoli ma anche a Roma, ove fu chiamato a recitare, e ove ottenne un clamoroso successo.

Calderoni Francesco. Comico eccellente che fiorì nella seconda metà del secolo xvii. Luigi Riccoboni dopo di avere parlato delle condizioni artistiche, dell’ignoranza dei comici, della sudiceria dominante nelle commedie di allora (1690) dice :

{p. 543}Una sola Compagnia in questa spaventosa decadenza serbò la modestia sul teatro ; ma il buon esempio non durò gran tempo per poter essere seguito dagli altri : essa lasciò l’Italia per recarsi in Germania a servizio dell’ Elettor di Baviera a Monaco e a Bruxelles, d’onde poi passò a Vienna in Austria al servizio dell’ Imperator Leopoldo e di Giuseppe Re de’ Romani. A capi della Compagnia erano Francesco Calderoni detto Silvio, e Agata Calderoni detta Flaminia sua moglie, nonna della mia.

[La figlia di Francesco ed Agata Calderoni, sposatasi ad un Balletti fu madre di Elena, la famosa Flaminia della Compagnia del Reggente e moglie del Riccoboni. (V. Balletti)].

E qui aggiunge con molti particolari che il lettore vedrà trascritti al nome di Pietro Cotta, come essendosi questo imbattuto nel Calderoni, a lui si unisse in società, e con lui rialzasse a poco a poco il teatro, espurgandolo da tutto ciò che vi era allora di equivoco, di osceno, di immorale.

Di Francesco Calderoni metto qui una lettera inedita comunicatami gentilmente dal cav. Azzolini.

Illmo. et Ecc.mo Sig.r Mio è Pron. Colend.mo

Mi forza incomodar V. E. con mie mal composte rige, le gran disunioni che nascono in q.ta Comp.ª, sopra della scena, che si auerebbe da esser fratelli, sono come nemici chi da un ochiata torta, chi ride dietro al altro, e tra l’altre ogn’un dice, scriverò al Sig.r Marchese Sua Ecc.za Mandarà gl’ordini. chio in quanto a me stimo che al detto di q.ti Sig.ri V. E. non facci altro che leggier lettere di Comedianti ; il Fiala, come scrissi a V. E. non uol saper niente, si che non si pol far un opera che sia bona, ma non solo le opere anche le comedie ; l’altra sera appunto si fece ti tre finti turchi e recito il secondo Zanni nouo che andò così bene che tutti si partirno inanzi fornita ; dicendo che se si fariano di quelle ci daranno delle Pomate. dove che ardisco suplicarla il dar ordine à qualcheduno che regoli la compag.ª pchè ò bisogno di studiare è tirarmi inanzi non di star à spasso p. i capricci d’altri ; la Sig.ª Flaminia à dato una delle sue parte che ne faceva due à mia sorella addesso pare che la Sig.ª Ippolita con la colega fatta tra di loro abbiano disgusto è la uoriano far fare alla guercina basta doppo dificultà si sono contentati ma però di nouo lo suplico il scriverli che la facciano recitare è la lettera onorarssi d’inuiarla à me però diretta alla Comp.ª non dirò più per non incomodarla, solo che se segue così non occorre uenir a Ferara p. che so che se non fosse in riguardo alla protetione di V. E. ci accopariano. È qui con farli umiliss.ma riuerenza p. parte di mia sorella che se li dedica serua, mi notifico

Di V. S. Ill.ma et Ecc.ma

Bergamo il dì 13 agosto 1664.

{p. 544}Li tre finti turchi è fragli scenari di Basilio Locatelli, conservati alla Corsiniana di Roma (Acc. de’ Lincei).

Il Fiala recitava le parti di capitano, e la signora Flaminia, la prima attrice, era sua moglie. Di loro sappiamo dal Bertolotti (op. cit.) che Ranucino Farnese per compiacere alla Corte di Mantova, nell’aprile 1670 lasciavale il Capitan Fialla, sua moglie Flaminia, loro figli e cognato, affinchè si unissero in Mantova con Nicolò Zccca (Bertolino) e formassero una buona compagnia comica.

Nel ’64 dunque il Calderoni non avea ancor preso moglie ; e data la famigliarità della sua lettera, doveva, se ben giovanissimo, essersi già acquistata ottima fama di artista.

Il 1687 pubblicò a Modena dal Soliani stampatore ducale una commedia spagnuola « Gl’impegni per disgrazia, » tradotta dal Marchese Ippolito Bentivoglio, a cui forse è diretta la lettera del Calderoni. E pubblicò con nuove sue aggiunte a Vienna il 1699 da Gio. Van Ghelen, stampatore accademico, la commedia del Dott. Gio. Batta Boccabadati « Quando sta peggio sta meglio, ovvero la Dama innocente creduta colpevole. »

Dell’andata a Monaco del Calderoni abbiam qualche notizia nel bellissimo studio del Trautmann. Massimiliano Emanuele, il Principe Elettorale, come tutti i principi tedeschi del suo tempo, era un assiduo visitatore di Venezia, il gran centro europeo della vita di piacere che contendeva il primato a Parigi. Nel 1687 vi trovò la Compagnia del Calderoni, e subito risolse di legarla stabilmente alla sua Corte. Il contratto fu concluso nel luglio dal segretario intimo e poeta di teatro Bonaventura Terzago, dal cui giornale di viaggi si apprende come a titolo di sovvenzione fosser pagati 500 fiorini alla Compagnia che constava di undici persone. Entrarono in paga dal 1° ottobre con un decreto del principe, dal quale si hanno anche notizie precise sullo stipendio annuo di singoli attori. Francesco Calderoni e Agata Caterina sua moglie, Bernardo Bonifaci e Angela sua moglie, Francesco Balletti e Giovanna sua moglie, Vittorino D’Orsi e Teresa sua moglie ebber {p. 545}fiorini 1 200 ciascuno ; Domenico Orsatti, Domenico Bononcini, e Ambrogio Brollio, solo 600. Lo stipendio era pagato a quartali anticipati. Pare davvero che il Riccoboni non andasse errato nel tributar lodi uniche alla Compagnia del Calderoni, dappoichè essa rimase al servizio della Baviera sino all’ottobre del 1691. Dopo il qual tempo ritornò in Italia, e precisamente a Mantova, come abbiamo da una lettera dell’Elettore al Duca ; a cui raccomanda nel lor ritorno la coppia D’Orsi, e da una nota che ci fa sapere come « i loro abiti da commedianti furono spediti a Mantova in 29 casse. »

Dalle qui unite lettere, esistenti nel R. Archivio di Stato di Modena, dirette al Computista del Ser.mo di Modena in Ferrara, Girolamo Viviani, apprendiamo alcune delle piazze in cui si trovò la Compagnia del Calderoni dopo ritornata di Baviera.

Molt. Ill.re S.re e P.ne Oss.mo

Dalla compitissima Sua sento le glorie fracesi, che già comincio a vedere che la fortuna, a cura ma questo poco m’importa, sono gl’otto scudi delle botte che mi danno fastidio, La pregho andare dal Signor Giuseppe Priori, cassiero del Monte, e dirli che mi fauorisca auuisarmi per qual causa non ha pagato una mia polizza d’una doppia dicendo non auer denari de miei, e farsi dare una notarella del nostro, conto, perche mi pare che tenghi assai più nelle mani, se pure a riscosso li denari dal Ebreo Rossi al quale uendei il Vino, auendo il suddetto Signor Priori acettato di riceuer lui il mio credito e darmene credito, che in tal caso corre la somma per conto suo, che per altro, io non avrei dato il Vino, oltre di che di Conto Vecchio ui è qualche bagatella senza questi che lo pregho prenderne Nota distinta accio possa regolarmi, e ne do carico a V. S. e l’incomodo perche per esser Computisca in pochi momenti lei se ne sbrigha, et io aurò eterne le obbligazioni. Caro Signor Gerolimo assistetemi in questo particolare, perche al bisognio si Conoscano gli Amici, in oltre lo pregho uedere l’Ill.mo Sig.r Cast.no e Sig.r Seg.rio e dirli che Non mi scordo receuer li suoi fauori per l’alloggio in sua Casa come per sua Gentilezza mi esebi e che tra poco potria seguire mi ualessi delle sue grazie, e qui con riuerenza per parte di tutti di casa resto dicendoli che le faccende Nostre per l’Estate, Vanno assai superiori alli guadagni che si fanno in Italia e mi sottoscriuo

Di V. S. M.to Ill.tre

Nap.li li 5 Ag.to 1692.

Aff.mo Ser.re Vero

Francesco Calderoni d.º Siluio.

Molt. Ill.tre S.r e P.ne Oss.mo

Son certo della sua Cortesia in auer gusto de miei caratteri et io sospiro li suoi si che ogni ordinario li scriverò sino à tanto che lei sij in stato di farmi auer sue ogni ordinario.

{p. 546}Il Nostro Signor Pantalone sara giunto in Ferrara e da lui aurà distinta relazione delle nostre facende e perchè il medesimo mi à lasciato in forse di ritornare, la pregho con destrezza ricauare il suo intento et auuisarmi, e questo suppongo saralli permesso dalla ricuperata salute che gl’auguro perfettissima quanto a me stesso.

Se potrà onorarmi di quel poco di fitto decorso mi farà fauore pagarlo al Signor Priori, appresso il quale deuo ualermi in breue di qualche somma, e così anco se non li fosse incomodo quello di pasqua prossima che gl’auguro felicissima e così pregare in Mio Nome l’Ill.mo S.r Castellano, e seguito che sij auuisarmi accio possa ualermene.

Godo che tenghi V. S. la casa e per li morari la pregho auantaggiarmi s’e possibile non se ne seruendo lei, intendendomi sempre che per lei non intendo crescerli cosa alcuna e lo fo padrone di tutto.

Li raccomando le botte e Tinazzi, acciò non patiscano, e non uadino da male, e già che la S.ra Leonora à pagato al S.r Albini per la S.ra Anna, ne scrivo al S.r Pantalone acciò c’ intendiamo.

Godo che detta S.ra Leonora sij acettata nella Compagnia di Modena, ma vorrei auerne certezza, e così di pasq.no e qui con riuerenza per parte di tutti di Casa resto.

Di V. S. M.to Ill.tre

Nap.li 3 Marzo 1693.

Aff.mo Ser.re Vero

Francesco Calderoni d.º Siluio.

Mol.t Ill.re Sig.r e Patron Os.mo

Lordinario passato non scrissi stante esser ritardato il procaccio, ora non manco al mio debito pregandolo di nuouo far por in Monte il denaro del fitto è così il S.r Castellano, caro s.r Gerolimo non manchi auendo gran necessità prima che parta il S.r Pantalone, per riscuotere alcuni pegni, noi godiamo ottima salute l’istesso, spero nell’Altissimo, che sij di V. S. che mi sarà car.mo sentirlo con sua, è se potessi seruirla in cosa alcuna, fauorirmi de suoi commandi, gl’auguro le S. Feste di Ress.ne per parte di tutti di casa, a misura del suo merito, che ual a dire, colme di ogni bene, la nostra Quadragesima è quasi finita, con pioggie quasi ogni giorno, l’armata di marc già si prepara per andarsene, ne altro si attende che alcuni uascelli Inglesi per far un buon numero, e poi portarsi uerso Genoua è quest’anno si uol sentir belle cose, altro non ò che dirle solo che non mi lasci infrotuoso, accertandola che sempre sarò.

Di V. S. M.t Ill.re

Napoli 17 Marzo 1693.

Aff.mo S.re Vero

Francesco Calderoni d.º Siluio.

Molt. Ill.re S.re e P.ne Oss.mo

Replico questa mia per non parere che stij sul grande, ma so dirli che non mi lusinga altra speme ch’ella si sij scordato di me se non il suppormi V. S. occupato nelle fatiche, ora ueniamo a noi.

O scritto al S.r Faccioli della Containa per auer del uino di S. Nicolò, onde prego V. S. uedere se pol auersi quando no la supplico al solito lei prouedermene, e non andrà come l’anno scorso, mentre a Carneuale (se a Dio piace) dobbiamo essere a Ferrara.

{p. 547}La prego ancora se mi conosce abbile in Liuorno non mi lasciare infrotuoso ne sij scarso di sue lettere, e se pensa con il non scriuere esimersi dal formaggio s’inganna, mentre tengh’ordine salutarlo e con tutti mi sottoscriuo

Di V. S. M.to Ill.re

Livorno 4 7bre 1693.

Aff.mo Ser.re Vero

Francesco Calderoni d.º Siluio.

Sempre seguendo il Trautmann, vediam che il Calderoni più tardi fu chiamato anche una volata da Massimiliano Emanuele alla sua splendida Corte di Bruxelles. Lo troviam poi nel 1699 a Vienna ; nel 1702 in Augsburgo, dove il 16 maggio ottenne il permesso di poter dare dovunque alcune rappresentazioni in lingua italiana, e nel 1703 ancora a Vienna, assistito dalla liberalità del Principe Elettorale, che si occupava con ogni larghezza delle spese di costumi ecc. ecc. per ogni singola rappresentazione di cui fu tenuto un esatto registro.

Calderoni Agata. Moglie del precedente. Il suo nome è intimamente legato a quello del marito, col quale passò la sua vita artistica sotto nome di Flaminia, attrice acclamatissima. Niun particolare abbiamo di lei, se non che quello – dice Riccoboni – di aver veduto ed esaminato alcuni scenarj firmati dalla mano di S. Carlo Borromeo, che Antonia Isola, rinomata Lavinia, possedeva e donò poi a varj dotti che ne la pregarono istantemente. E sappiam che per quante richieste fatte da Luigi Riccoboni, essi divennero irreperibili, trafugati forse dalla galleria del Canonico Settala a Milano, ove Angelo Costantini, il celebre Mezzettino, assicurò di averli veduti in buon numero.

Calici Pietro. Trascrivo dal Bartoli : « Comico bolognese, il quale si esercita con dello spirito nella Maschera da Dottore. Fu colla Truppa di Pietro Rossi, passò poi in quella della Tesi ; ed oggi trovasi in altra vagante Compagnia, recitando anche qualche parte nelle cose serie con buona intelligenza ed aggiustato criterio. »

{p. 548}Callochieri Serafino, fiorentino, artista egregio per le parti di amoroso fu con la Battaglia, con la Coleoni e col Perotti. Condusse per qualche anno Compagnia, assumendo il ruolo di primo attore, nel quale, specie in varie commedie dell’Avelloni, riusci a meraviglia. Morì il carnovale del 1817 a Cagliari.

Calloud Gian-Paolo, figlio d’un negoziante di cappelli, nacque a Parma verso il 1810. Esordì nella Compagnia di Gaetano Bossi come amoroso, facendo mediocre prova. Determinò allora di mutar ruolo, e si diede ai caratteristi, passando in varie compagnie fra cui, nel ’42, in quella di Angelo Lipparini al fianco di Carolina Santoni. Formò, il ’46, società con la Fusarini e Marchi, della quale discorre largamente Ernesto Rossi nelle sue Memorie (vol. I) ; e fu, nel ’48, messo alla testa della Compagnia formata da Gustavo Modena dopo lo scioglimento della Società predetta, accaduto pel matrimonio della Fusarini e pel conseguente suo ritiro dalle scene. Per lui ebbe il Modena amicizia grandissima ; e di qual dimestichezza l’onorasse sappiamo dalle sue lettere (Roma, 1888), tre delle quali, le migliori politiche (18, 129, 179) furono a lui dirette. Ma che cosa passasse il povero capocomico di nome in quell’anno di ribollimenti, di assedi, di guerre non è a dirsi. Egli invocava aiuto al Modena, il quale da Palmanova rispondeva : la posizione tua e di tutti voi mi lacera le viscere ; ma io non posso aiutarvi per ora…. Io sono più misero di voi, perchè ho la madre moribonda, e non ho da mantenerla. E queste ultime parole sottolineava. {p. 549}Altra volta da Livorno (18 marzo ’49) a nuove suppliche del Calloud rispondeva conchiudendo : pensiamo all’ Italia per ora e non badiamo alle nostre miserie. Splendide parole, ma che non tutti, i quali non avean la grande anima del Modena, pure non essendo antipatriottici, potevan bene intendere. E per chi non le intendeva, per chi non sapeva darsi alla patria collo slancio giovanile di vent’anni come seppe il Modena, e non sapeva rassegnarsi, quali avversità, quali stenti, qual vita ! Fortunatamente s’arrivò alla fine del ’49 ; e i teatri, a Torino, davan da vivere a tutti. Era il solo pacse (14 nov. ’49) dove i comici mangiassero ; quindi ve n’era uno sciame. Tutti dunque a Torino. Ma anche là finì presto la cuccagna, e, su per giù com’oggi, qualche buona piazza per una data stagione faceva le spese di tutto l’anno. Calloud diventò attore e socio del Domeniconi nel ’54 e ’57. Fu con Pezzana ; entrò il ’61 a far parte della Compagnia di Roma condotta da Cesare Vitaliani, dopo la quale fu scritturato in quella di Angelo Diligenti. Lontano dal Modena, n’ebbe sempre i migliori consigli e le più intime confidenze, nonostante una certa disparità di carattere, la quale traspar viva da quelle lettere in cui il sommo artista battezza il Calloud di Sant’ Ermolao, di Michelaccio, di Trippa, ecc. Dopo la scrittura del Diligenti, il Calloud si ritirò a Parma, ove prese in affitto un teatro, mutando definitivamente il suo ruolo di attore in quello di impresario.

Morì di apoplessia fulminante a poco men che settanta anni nell’agosto del ’78.

Calmo Andrea. Dopo il poderoso studio col quale Vittorio Rossi prelude alla pubblicazione delle lettere di Messer Andrea Calmo (Torino, Loescher, 1888) non è difficile oggi ricostruire intero questo bizzarro tipo di comico e cantante e scrittore.

Andrea Calmo nacque a Venezia ne’ primi anni del secolo xvi (1509, o 1510) da povera famiglia di pescatori. Venuto a maturità, e spiegata una svegliatezza d’ingegno non comune {p. 550}e una singolar vena d’arguzia, si pensò a dargli una educazione che valesse a sviluppare e coltivare quelle doti che gli si eran manifestate in copia.

E con opere dialettali in verso e in prosa, ricche di giocondità e profondità insieme, si venne in breve acquistando tra’ letterati del suo tempo un tal posto che poi gli mosse contro l’invidia irosa e petulante dei parrucconi. Ma l’indole sua gaia e gioviale trovò modo di esplicarsi maggiormente dinanzi al gran pubblico, giudice immediato.

Solleticato dall’arte del Ruzzante, si diede a scriver commedie e a rappresentarle. E tanto riuscì come attore nella riproduzione ammodernata del Senex latino, che fu poi il Pantalone, o del Pedante, che fu poi il Dottore [se ci facciamo a ricordar le lettere sue, nelle quali è sparso in larga copia l’elemento di quella lingua a travestimenti che fu poi nella Commedia dell’arte detta Graziana (V. Bianchi Ludovico)], che Girolamo Parabosco ebbe un giorno a scrivergli :

E’ mi par vedervi sopra la scena farvi schiavi quanti vi veggono et odono. Io sento fin qui il rumore dello applauso che vi danno le genti : le quali montando le mura del loco dove sete, rompendo porte e passando canali et d’alto smontando, si pongono a periglio di mille morti per poter solamente godere una sol hora la dolcezza delle vostre parole.’

Per quanto le opere d’allora fossero scritte interamente, pure il soggetto doveva entrar per qualche cosa nell’umore spontaneo del Calmo, vivificato, afforzato forse dalla spontanea festività del pubblico.

Nullameno, dopo tanti allori mietuti, dopo di aver dato l’anima all’arte sua, egli, che trovandosi al cospetto del pubblico, sentiva il sangue fluirgli vivo nelle vene e una ricreazione immediata e nuova dello spirito ; dopo di avere impegnata assieme al Burchiella una lotta gagliarda e pur troppo infruttuosa contro l’avversione o apatia del pubblico, dovette piegarsi, e abbandonar la scena a cinquant’anni circa, per godersi il danaro che s’era guadagnato, in mezzo alle attestazioni di stima e di affetto che gli venivan certo da ogni {p. 551}parte, ma che non gl’impediron mai forse di menare una vita di rimpianto.

Andrea Calmo morì a Venezia a soli sessantun’ anni il 23 febbraio del 1570, e lasciò le seguenti opere :

La Rodiana. — Comedia stampata quasi sempre sotto ’l nome di Ruzzante (V.). (Venezia, Alessi, 1553).

Il Travaglia. — Comedia (Venezia, Alessi, 1556), per la quale fu dettato un proemio dal Padre Sisto Medici, domenicano, allora insegnante teologia nello studio di Padova.

Il Saltuzza. — Comedia (Venezia, Alessi, 1551).

Las Spagnolas. — Comedia, pubblicata sotto ’l nome di Scarpella Bergamasco (Venezia, appresso Stefano e Battista cognati, 1549).

La Pozione. — Comedia (Venezia, Alessi, 1552).

La Fiorina. — Comedia (Venezia, Alessi, 1552).

L’Egloghe pastorali. — (Venezia, Bertacagno, 1553).

Le Rime pescatorie. — Sonetti, Stanze, Capitoli, Madrigali, Epitaffi, Disperate e Canzoni, ed il Commento di due sonetti del Petrarca in antica materna lingua (Venezia, Bertacagno, 1553).

Le lettere. — Quattro libri (Venezia, 1547-48-52).

Nelle Commedie nelle quali andò allargando il concetto, non so dire se più proficuo che dannoso, de’ vari dialetti, egli restò di gran lunga inferiore al Ruzzante, di cui non aveva la maschia vigoria nel gettare i caratteri : forse qua e là migliori, nella semplicità della lor veste pastorale, le Egloghe.

Quanto alle rime, pescatorie e non pescatorie, a pena qualche sprazzo di luce, in mezzo al fosco di una poesia punto originale, sbrodolata, il più delle volte a travestimenti burleschi, ne’ quali non campeggia mai la efficacia della parodia.

L’opera massima del Calmo, scrittore, è senza dubbio la raccolta delle lettere, che è prova manifesta del suo ingegno pronto e vivace.

La questione della identità delle persone a cui son le lettere dirette, e dei fatti che in esse son descritti, non è risoluta. Io, anche di fronte a nomi di persone reali, le une ritengo non mai inviate, gli altri non mai accaduti. Comunque sia, tolto il valore storico-autobiografico, riman sempre un valore storico relativameute alla generalità delle descrizioni di persone e di {p. 552}cose, descrizioni fatte con sicurezza di tinte, con pennellate da vero maestro, talora di una soavità ineffabile, talora, il più sovente, di una sensualità nuda e cruda.

Dice bene il Rossi (pag. cxxi) :

Ora la forma è facile e piana, come si conviene a scrittura vernacola, ora assume atteggiamenti strani, contorcimenti inesplicabili, ora corre liscia e spontanea, ora si riveste dei riboboli più bizzarri, delle secentate più aride. In mezzo a tutto questo, scappano fuori periodi in latino sgrammaticato e senza senso, richiami a sproposito ad autori greci, latini, italiani, anche immaginari, citazioni monche ed erronee di passi latini, talora riferiti dove non hanno nulla che vedere…. etc. etc.

Di tutte le opere del Calmo, una lettera, quella scritta al padre domenicano Medici per avere un proemio al Travaglia, è scritta in italiano e senza sensi riposti ; a questa si aggiungon brani qua e là, specie nelle egloghe.

Dalla prima di esse appunto traggo parte della scena di introduzione, che è uno de’ soliti assalti amorosi, e non certo una meraviglia del genere.


Lucido. Deh, Ninfa, non fuggir, ti prego : ascoltami, ch’io non son drago, nè lupo che dèvora ; Anzi ’l tuo fedel servo, afflitto Lucido.
Lidia. Che vuoi da me ? Già te l’ho detto, insipido, che d’altra ninfa ti procacci. Intendimi, nè più sopra di me tua mente fermisi : Che più possibil fia gli monti altissimi veloci andar, che mai io mi dissepari da l’onesto pensier casto e immutabile.
Lucido. Non vuoi del mio servir, dolce mia Lidia, aver pietà ? Deh, non voler si rigida farti contro di me, Ninfa bellissima. Se cerchi con mia morte farti gloria, t’inganni. Anzi ti fia di maggior biasimo ; chè ognun dirà : Oh Lidia crudelissima !
Lidia. Ma s’avvien che di me resti vincibile, diran le sacre ninfe : Ahi, carne fetida, degna d’ogni castigo e gran supplizio ! Però statti con Dio, e ad altro pensati : nè sperar più di me, come de l’India farti signor, cosa fuor d’ogni termine.
{p. 553}Lucido. Ahimè, ch’io sento che mi manca ´l spirito !
Ajutate, pastori, cari socij.
Lidia. Resta ; ch’io non do fede a finte lagrime
……………

Camerani Bartolommeo Andrea. Ferrarese. « Sostenne – dice Fr. Bartoli – con bravura il carattere d’Innamorato nella Compagnia diretta dal Lapy nel Teatro di S. Luca. A fronte di Giuseppe Majani seppe farsi distinguere, specialmente quando nell’anno del 1762 rappresentò per molte sere il Cavaliere di spirito ovvero la Donna di testa debole ; e poi l’Apatista, ossia l’Indifferente, commedie del signor dottor Goldoni. Passò poi al Teatro a S. Gio. Grisostomo con Girolamo Medebach, impiegato nell’assoluto carattere di primo Innamorato. Volò il grido de’ suoi meriti sino a Parigi, e fu colà chiamato, perchè la parte dell’Innamorato egli recitasse nella Truppa Italiana. »

Bartolommeo Camerani si recò a Parigi nel 1767 chiamatovi a recitare i secondi amorosi, alternativamente con Francesco Antonio Zanuzzi e Antonio Stefano Balletti, e vi esordì la sera dell’ 8 maggio, insieme all’ arlecchino Sacchetti nel Maître supposé, nuova commedia italiana che non ebbe veramente un gran successo. Sul successo dell’ attore Camerani abbiamo invece notizie controverse, dappoichè dice il Campardon (Les comédiens du Roi) ch’ egli esordì avec fort peu de succès, mentre il D’Origny (Annales du Théâtre italien), afferma ch’ egli fece l’amoroso avec une noblesse, une aisance et des graces peu communes. Comunque, il Camerani non passò certo a Parigi per grande artista, se due anni dopo, ritiratosi Alessandro Luigi Ciavarelli, che recitava alla Commedia Italiana le parti di Scapino, egli lo sostituì, riuscendo, dice il Campardon, aussi faible que dans les amoureux. E vuolsi che il mediocre successo fosse dovuto alla figura colossale dell’artista, che mal s’addiceva all’impercettibile teatrino della Commedia italiana.

Quando il Goldoni, dopo il successo a Parigi della sua trilogia a soggetto di Arlecchino e Camilla pensò di trascriverla distesamente pel teatro di S. Luca a Venezia (Camilla e {p. 554}Arlecchino diventaron poi Zelinda e Lindoro), così disse del Camerani (V. Carteggio pubblicato dal Mantovani. Milano, Treves, 1885, Lett. XLIII) :

Gli attori principali delle medesime devono essere sicuramente una serva ed un servitore, e cambiato il loro carattere, le Comedie non valerebbero niente. Non è necessario che il servitore sia un Arlecchino, ma deve essere giovane d’abilità, e capace di sostenere il comico, e la passione. Queste qualità in un Moroso costituiscono un primo Moroso, e son certo che il Sig. Camerani lo avrebbe sostenuto assai bene, e non essendovi l’Arlecchino niuno avrebbe potuto lagnarsi, che un primo Moroso facesse la parte di servitore.

Ma se fu il Camerani attore mediocre davvero, fu eccellente amministratore, e più eccellente gastronomo. Quando nel 1780 la Francia pensò di disfarsi di tutti gli attori che recitavano il genere italiano, Camerani fu licenziato come ogni altro ; e, benchè non compiuti gli anni voluti per la pensione, glie ne fu concessa una di lire 1000, oltre ad altre lire 5000 che gli furon pagate in due rate annuali. Poi, riaccettato nella compagnia a mezza parte, gli fu affidato l’incarico di settimanajo (ch’egli copriva già dal 1769) col titolo di settimanajo perpetuo.

Secondo il Faur, redattore della Vita privata del Maresciallo di Richelieu, seguito poi dal Thurner (Les transformations de l’Opéra-Comique. Paris, Castel, 1865, xii, 169-170) Camerani sarebbe stato un despota, un autocrata, una specie di nume onnipotente, il quale, recandosi a raccontare gli scandalucci giornalieri dell’una e dell’altra attrice, aveva saputo toccare il lato debole del Maresciallo di Richelieu, incaricato, come primo gentiluomo della Camera, dell’alta direzione del Teatro Italiano, e impadronirsi dell’animo suo a segno tale che dinanzi a lui, a Camerani, unico imperante, ogni autore doveva necessariamente prosternarsi, all’intento di vedere recitato un suo lavoro.

Acrimonia esagerata di autore, dovuta senza dubbio al fatto che avendo gli autori di concerto stabilito di chiedere un aumento di diritti, il Camerani protestò energicamente dinanzi al Comitato degli attori, proferendo allora, dicesi, le famose e curiose parole : « Signori, state in guardia. Finchè ci saranno autori, la commedia non potrà andare avanti. »

{p. 555}Il Goldoni di fatti (Mem., P. III, Cap. XXIX) dice del Camerani : « Quest’uomo molto attivo, pieno d’intelligenza e di probità, incaricato di commissioni spinose, sa conciliar così bene gl’interessi della Società e quelli dei particolari, ch’egli è il mezzano delle contese, l’arbitro delle riconciliazioni, e l’amico di tutti. »

E queste qualità trovo confermate nella lettera seguente, non mai pubblicata, che debbo alla cortesia di Luigi Azzolini.

5 xbre 1792, 1r de la République Françoise.

Citoyen Comandant

D’apres les Recherches, et la verification sur les Enciens Etats des Entrées gratis à notre spectacle, nous avons trouvé a la verité que le citoyen Rullieres jouissait de ce Privilege pour sa place ; Mais depuis le decret 1790 qui annulle les Privileges, depuis l’autre decret qui defendt toute Garde dans l’interieur du Spectacle, et depuis le dernier qui annonce les théatres, Boutiques, Marchandes, puisqu’ils payent droit de Patente, nous croyons qu’aucune Place peut avoir droit aux Entrées gratis.

Neanmoins, Citoyen Comandant, je suis chargé par notre Societé, d’avoir l’honneur de vous ecrire en reponse a la lettre que vous avez bien voulu lui adresser, que nous serons trop flattés de vous recevoir a notre spectacle, que c’est avec la plus grande satisfaction, que nous allons donner des ordres aux controleurs, afin que les Portes vous soyent librement ouvertes, sans autre interet de notre Part, que d’aquerir votre attachement. Je vous prie, Citoyen Comandant, d’agreér l’hommage des sentiments fraternels de la Société, et en particulier ceux du votre

A questa ne aggiungo altra diretta all’attrice Sofia Arnould, che trascrivo fedelmente. E un’altra ancora che riproduco alcun po’ ridotta, interessantissima per le firme di tutti i componenti la Compagnia italiana a Parigi :

Ma Voisine

J’ai vu M.r Esmenard a midy - ; Nous avons parlé de vous. Il est bien eloigné de mettre de la violence, et du despotisme. Ce n’est pas là le sentiment du Ministre, ni le sien.

Les choses seront faites de bonne grace, et dans 8 jours tout serà arrangé. Mille amitiés

Camerani.

7 Ventose.

P. S. Je compte sur ma voisine demain pour Montenero.

{p. 556}[http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img008.jpg]

Quanto alla gastronomia, egli lasciò rinomanza di avere avuto il maggior numero d’indigestioni. E d’indigestione morì il 22 aprile 1816 a Parigi, dopo di aver divorato nella notte, {p. 557}da solo, una quantità di pasticci di fegato grasso. Grimod de la Reynière gli dedicò il secondo volume del suo Almanach des Gourmands, in cui è la descrizione di una zuppa inventata dal Camerani, a detta del Grimod deliziosissima, per la quale occorreva una spesa di 120 lire al meno.

Camerani Antonio. Fratello minore del precedente, lasciò nel 1768 l’arte dell’oreficeria per darsi a quella della scena, in cui riuscì egregiamente per le parti di primo Innamorato.

Fu il ’76 con Gerolamo Medebach al S. Angelo di Venezia, poi si fece capo di una Compagnia vagante, della quale era principale ornamento la sorella Rosa, e colla quale, dice il Bartoli, scorse la Liguria e la Toscana più volte.

Camerani Rosa. Sorella dei precedenti, fu prima donna di assai merito, e recitò, ora scritturata ora capocomica, in Italia e in Germania. Coll’avanzar degli anni passò alle parti di Madre applauditissima sempre. Secondo lo spoglio delle Compagnie fatto da Adolfo Bartoli (Scenari inediti), quella di Antonio e Rosa Camerani, viventi ancora il 1782, si componeva per le parti principali, di Giuseppe Nanini, Antonio Tomasoli, Paolo Tremori, Gaspare Valenti, Angela Menicucci, Anna Moretti, Margherita Rebecchi.

Camia Giulia, piacentina. La cita il Bertolotti fra i comici che furono a Mantova nel 1590.

Alloggiò il 10 Dicembre da Domenico Torni.

Cammarano Vincenzo, siciliano, nacque a Sciacca intorno al 1720. Fu Pulcinella famoso col nome di Giancola. Esordì al Fosso, a Napoli, con Tommaso Tomeo nel ’65. Non aveva al principio della sua vita artistica portato maschera, e sosteneva in iscena il carattere dell’Abate. Una sera, recitando nella Dama maritata, vedova e donzella di Cerlone la parte di Don Pompilio Pecegreca, napolitano grazioso, s’acquistò il nome di Giancola {p. 558}che mantenne fino alla morte. Vincenzo Cammarano ebbe due mogli : dalla prima ebbe tre figlie, dalla seconda, Paola Sapuppo siciliana, i maschi, fra’ quali Filippo attore e scrittore di lavoroni popolari mitologici-briganteschi, e Giuseppe geniale pittore che il più delle volte istoriava al S. Carlino i cartelloni delle commedie in cui aveva parte principale suo padre. Quanto valesse Vincenzo Cammarano nella maschera del Pulcinella e come sapesse afferrare il suo pubblico e farlo ridere apertamente, sanamente, di quel riso che rifà il sangue, sappiamo da Cesare Malpica, del quale il Di Giacomo (op. cit.) riferisce un brano, inserito nello Spettatore napolitano del 1844.

E quel Pulcinella ? È anch’ esso un Cammarano (Vincenzo) ed è padre dello scrittore. Vincenzo Cammarano ! Pochi conoscon forse questo nome, ma dite Giancola e vedrete gli avanzi di tutta una generazione batter le mani, atteggiarsi a un sorriso di gioja e rammentare il beato tempo che fu, quando tutti gli affanni della vita, e non ve n’eran molti allora, tutte le noje, tutte le malinconie svanivano a una frase, e ad una mossa del non superato Giancola. Oh se aveste veduto : l’assedio di Troja con Pulcinella scrivano criminale ! Oh se aveste ascoltato Angelo del Duca con Pulcinella servo sciocco, finto morto e perseguitato dal mago Aristone ! Avreste saputo che cosa è il ridere di cuore, ridere lungamente e a più non poterne. Questa specie di riso or non si conosce più. Così dicono i vecchi e dicon bene. Essi ricordano i di in cui v’eran denari molti e pochi pensieri. Passare il tempo ridendo era la prima cura di quei felicissimi, e Giancola era l’uomo nato ad hoc.

Vincenzo Cammarano morì il 1802 a 84 anni ; e il S. Carlino restò chiuso in segno di lutto per oltre una settimana. Si cercò di coprire, se non degnamente, mediocremente al meno il posto lasciato vuoto dal geniale artista. Invano…. I sostitutori erano accolti a fischiate, il pubblico s’andava assottigliando, e il teatrino di Piazza del Castello dovè, per la morte di Giancola, cedere il primato a un bugigattolo sotterraneo, da quello non discosto, che s’intitolò la Fenice, e che accolse le ornai sparse reliquie della Compagnia, vedovata del suo sostegno, afforzandola con nuovi elementi. Ne ebbe l’impresa un tal Gaetano de Felice proprietario del teatro.

La morte di Vincenzo Cammarano fu cantata in uno scherzo poetico da Giulio Genoino che il Di Giacomo reputandolo inedito, pubblica per intero :

{p. 559}L’invidia piena il cor di rabbia muove reclami a Giove contro il Cammarano

che non era un uomo semplice
ma un Demonio in forma umana
(che giammai non fu possibile
arte tanto singolare
cui la forza dell’ Invidia
non è giunta a denigrare !)
ch’era cosa abbominevole
il far ridere poi tanto
quei che un Ente sapientissimo
avea già dannati al pianto.

E Giove fe’ venire a sè l’anima di Cammarano,

e per dargli un degno premio
l’impiegò nel Campo Eliso ;
là diverte le buon’ anime
e le fa crepar di riso.
Indi a eterna sua memoria
decretò di propria mano
che mai più nel Regno Comico
sorga un altro Cammarano.

Campagnani….. Licenziato Antonio Costantini arlecchino dalla Compagnia Grimani, andò il Campagnani, dilettante milanese de’ migliori, a sostituirlo : ma come arlecchino riuscì mediocremente, poichè – osserva saviamente il Goldoni – altra cosa è il recitare fra dilettanti, ed il recitare fra comici. Mutato poi ruolo, potè più tardi mostrar tutta la sua valentìa, facendosi assai applaudire colla parte di Carino nel Don Giovanni dello stesso Goldoni, che gli ebbe grandissima obbligazione d’aver reso onore al suo personaggio.

Il Campagnani fu sostituito il 1736 da un attore che in grazia della sua figura era noto nell’arte comica col nome di Figurina.

Campana Ercole, bresciano, fu capocomico pregiato e pregiato caratterista. Dopo di aver fatto parte delle primarie compagnie Taddei, Righetti e Bazzi, ne formò una egli stesso in {p. 560}società con Pietro Solmi e Giovanni Pisenti, colla quale si trovava il 1820 al S. Benedetto e alla nuova arena Gallo di Venezia.

Eccone l’elenco :

DONNE

Elisabetta Campana, prima donna

Rosa Olivari Pianigiani, seconda donna

Elena Cantual, madre


Antonia Olivari
prime amorose
Carolina Borra

Paola Pisenti, serva e caratteristica


Agnese Mancini
generiche
Antonietta Bresciani

UOMINI

Pietro solmi, primo attore

Giovani Gisenti, primo amoroso

Angelo Pianigiani, secondo amoroso

Antonio Mancini, padre

Pietro Borra, tiranno

Luigi Carnoli, brillante

Ercole Campana, caratterista

Federico Lombardi, altro caratterista

Gio. Batt. Maroadi, generico dignitoso


Filippo Bresciani
Angelo Pisenti Generici
Lodovico Mancini
Angelo Mancini parti ingenue

Luigi Barbieri, poeta e rammentatore

Filippo Margoni, guardarobe

Lorenzo Zavagna, macchinista

La Compagnia recitava ora allo scoperto, di giorno, ora in teatro chiuso di sera, cercando di contentar tutti i gusti con commedie di carattere e con drammi spettacolosi che avean per base l’inverosimile. Nè il repertorio era molto diverso da quello di compagnie di maggior conto. Accanto alle commedie del Goldoni e del Nota figuravan sempre come contrapposto i drammi lacrimosi del Federici quando non erano l’Incendio di Troja e la Navigazione di Enea del Chiari, o La Grotta del Misfatto del Signori, o La Vendetta d’Apollo c Diana dell’Avelloni, per dir de’ meno peggio : nè anche mi par bene stabilito {p. 561}se il pubblico più volentieri accorresse a veder questi che a sentir quelle.

E il n. XV del Giornaletto ragionato teatrale di Venezia per l’anno 1820, dice in proposito della Compagnia Campana, che

si è meritata la benevolenza di quel pubblico intelligente, mediante l’indefesso zelo che dimostra nell’ esecuzione delle rappresentazioni, che di mano in mano si vanno esponendo su quelle scene. L’Otello, rappresentazione d’argomento patrio, ne sia tra le altre di prova, il di cui buon esito devesi ripetere fuor di dubbio e dalle molte correzioni fatte al non perfetto originale, e dalla sfarzosa decorazione e dalla più accurata esecuzione.

L’Otello era dell’attore Luigi Bellotti, e il n. 7 del Giornale delli Teatri Comici delle città principali d’Italia, dice che poteva passare nel genere degli spettacoli, ma che non conveniva esaminarlo, nè farne commenti.

Campana-Parma Elisabetta, veneziana, fu moglie del precedente e attrice di non pochi pregi. Cominciò col percorrere le principali città d’Italia al fianco dell’artista Bazzi, poi divenne prima donna applauditissima della Compagnia del marito, che recava la ditta : Campana e Soci. Il Repertorio teatrale di Roma ha per lei parole di molta lode.

Campi Carlo. « Ferrarese. Recitò da Brighella per molto tempo nella comica Compagnia diretta da Antonio Marchesini. Passò poi a Venezia a far conoscere la propria abilità nel teatro Grimani a S. Samuele, dove si fece molto onore, avendo lasciato dopo la sua morte un chiaro grido del suo valore alla comica professione. »

Così Francesco Bartoli.

Campi-Piatti Annetta. Fu la più soave e incantevole delle prime attrici giovani, per le parti ingenue. Nata da famiglia milanese, fu educata al Collegio delle Orsoline, da cui uscì nel 1859, per entrare in quello Coudert. Trasferito il padre a Torino, era impiegato di Prefettura, l’Annetta ottenne di poter frequentare la rinomata Scuola di Carolina Malfatti, dalla quale {p. 562}uscirono la Tessero, la Pezzana, Emanuel, Maggi, Diotti. Rovesci di fortuna obbligaron la giovinetta a calcar le scene, e la maestra si recò il 1867 a posta da Torino a Milano per assistere all’esordir della sua allieva, che andava a sostituire a metà d’anno la Guendalina Dominici Scalpellini in quella celebrata Compagnia di Bellotti-Bon, nella quale ella salì poi al più alto grado dell’arte, ove seppe mantenersi anche dopo, alternando il ruolo di prima attrice assoluta colle sue creazioni di bimba, quali la Carolina nel Codicillo dello Zio Venanzio di Ferrari, la Ivonne nella Serafina di Sardou, la Celeste nell’Idillio Campestre di Marenco, la Silvia nella Famiglia pur di Marenco, la Ida nella Vita Nuova di Gherardi Del Testa, l’Emma nei Mariti di Torelli, ed altre molte, in cui non ebbe chi la superasse, nè chi la uguagliasse.

Al proposito di quest’ultimi, Luigi Capuana, nel suo Teatro italiano contemporaneo (Palermo, Lauriel, 1872) così parla di lei :

La signorina Campi si è mostrata inarrivabile nella bellissima parte d’Emma. Non solo ha potuto farvi sfoggio di tutte le sue eccellenti qualità che noi già conoscevamo, ma è stata nel caso di rivelarcene delle altre che eravamo certi si sarebbero sviluppate in lei con una più lunga pratica dell’arte. Noi infatti credevamo che ancora le mancasse quella perfetta sicurezza di tocco nella rivelazione d’un carattere che è propria soltanto degli artisti provetti. Invece la Campi ci ha dimostrato il contrario, interpretando il carattere {p. 563}d’Emma con una squisitezza di colorito e di sfumature incantevole davvero. Questa figura così vaga, così gentile, intorno alla quale il poeta ha speso un largo tesoro di grazia e di bellezza, è stata incarnata da lei senza mende, senza incertezze e con una ispirazione felicissima, dalla prima all’ultima scena. Fanciulla bizzarra e alquanto leggiera nell’atto primo ; donna esitante, ignara di ciò che realmente prova nel suo petto, e sbalordita della mutazione che intravede dover fra poco accadere nella sua esistenza all’atto secondo ; nel quinto la gioja di sapersi madre la fa quasi ritornare alla ingenuità fanciullesca ! E li la Campi ha indovinato cose che la nostra parola non può rendere affatto, giacchè l’eloquenza de’ sorrisi, delle vereconde reticenze e delle riflessioni amorose son lampi di bellezza artistica che solo il ricordo di chi li ha visti può richiamare alla vita.

Nè si potrebbe dir meglio : nel girar de’ grandi occhi neri, nel muover della bocca breve, in una certa aggraziata e naturale infantilità di pronunzia, dell’s e del c specialmente, nella spontaneità incomparabile della dizione era un cotal fascino, al quale non si poteva resistere…. Con molta bravura, se non con egual grandezza, sostenne il ruolo di prima attrice assoluta il 1874 con Cesare Rossi, il ’75 con Emanuel in Società, il ’77, ’78, ’79 di nuovo con Rossi, e l’ ’82 con Francesco Pasta in Società. In quel momento di sosta (1880-81), quando si trovava fuor dell’arte a Genova, dove s’era sposata a un banchiere Camillo Piatti di Piacenza, rottasi la Pietriboni un braccio, andò lei a sostituirla, creando quasi d’improvviso e in modo incantevole la parte di Cipriana nella commedia Facciam divorzio di Sardou. Rimasta vedova, e toltasi definitivamente dal teatro, andò per alcun tempo a stabilirsi a Ginevra, per passar poi a Parigi, ove si crede sia tuttora.

Campioni Giuseppe, parmigiano, fu valoroso Brighella e ottimo artista per le commedie a soggetto, al S. Luca di Venezia, ove trovavasi sin dal 1735 prima in Compagnia Franceschini, poi in Compagnia propria. Recitò allora la parte di Fichetto nella tragicommedia : La Clemenza nella Vendetta : e il Goldoni, parlando appunto della Compagnia del S. Luca (Pasquali, XIII), lo chiama il bravo Campioni. Da Venezia si recò più volte a Milano, ov’ebbe onori e applausi, come si vede dai seguenti passaporti comunicatimi gentilmente dal conte Paglicci-Brozzi.

{p. 564}
Archivio di Milano. Reg.° Passaporti 780.

1737, 10 Settembre. – Giuseppe Campioni : uno dei capi della compagnia de’ comici veneziani venuti mesi sono da Venezia a divertire colle loro applaudite fatiche la nobiltà di questa Metropoli e che ora ritornano a Venezia, colle loro famiglie, servitori, attrezzi teatrali e robbe di uso proprio.

Ibid. Reg.° 800.

1743, Luglio 3. – Giuseppe Campioni comico della Compagnia di S. Luca di Venezia, per Brescia e poi per Venezia, con suoi attrezzi di teatro, casse, baulli, armi, etc.

Ibid. Reg.° 780.

1740, 20 Settembre. – Giuseppe Campioni capo della compagnia de’ Comici di S. Luca di Venezia, che colle loro fatiche anno con applauso divertito la nobiltà di questa Metropoli nel R.° D.e Teatro, e che or ripassano da Pavia per il Pò alla Patria, con loro servitù, armi, bagaglio, vestiti, ed arnesi teatrali.

Adottò per figliuola una giovinetta chiamata Giustina, che fu poi moglie di Bartolommeo Cavalieri, e attrice rinomatissima. Egli ebbe due figli de’ quali uno violinista espertissimo.

Dice il Bartoli che « fatto vecchio ed incapace di montar più sul teatro, gli vennero retribuite le beneficenze, che ad altri egli aveva impartite, trovando que’sussidj ch’erano necessari alla sua cadente vecchiezza. »

Morì a Venezia il 1767.

Campioni Alfredo. Figlio di un industriale milanese, fu educato al commercio in un collegio di Zurigo, dal quale uscito, s’impiegò presso una reputata Ditta tedesca in Lione. Colto, dopo un anno, dall’ardente febbre dell’arte, si diede alle scene, nonostante il formale divieto de’parenti, recitando di punto in bianco parti di primo attor giovine in una compagnia, in cui si trovò spesso a lottar colla fame, e da cui uscì pien di debiti e col solo abito che aveva in dosso per chiedere un rifugio alla famiglia. Ma aveva appena il padre pagato ogni suo debito, a condizione che non mettesse più il piede sul teatro, ch’ egli ripreso di notte tempo il volo, tornò in seno alla famiglia artistica, e questa volta per non distaccarsene mai più. Fu per due anni in compagnia Faleni, poi, l’ 86, in quella di Dominici al Manzoni di Roma. Scritturato il ’90 qual primo attor giovine {p. 565}col Favi, potè, sostituendo il primo attore Rosaspina ammalato, mostrar tutte le sue egregie qualità di artista.

Fu il ’91 con Drago, il ’92 con Pietriboni, e ’l 93 con Angelo Diligenti, col quale cominciò ad assumere il ruolo di primo attore assoluto che conservò poi degnamente sino a oggi, passando da una Società con Belli-Blanes e Parrini, nelle compagnie Boetti Valvassura prima e Marchi e soci dopo, per passar poi in quella di Emanuel. Ma una malattia fierissima lo colse e lo allontanò dalle scene, alle quali è tornato oggi dopo un anno, salutato con gioia sincera dai compagni d’arte e dal pubblico.

Cannelli Lorenzo. Rinomato Stenterello. Condusse sempre compagnie, delle quali era egli il principale ornamento, e nelle quali fecer le prime armi artisti di grido, come il Raimondi, il Verzura e altri. Era con lui prima attrice la moglie Paolina, nata Conti.

Fu scolaro del primo Stenterello Luigi Del Bono ; ma l’opera del maestro ridusse al grottesco : il sorriso diventò sberleffo, il riso sghignazzata ; in cotesti sberleffi e sghignazzate egli si grogiolava. Non più una parola senza un doppio senso, non più una frase, una situazione la più semplice, in cui egli non trovasse modo di mettere la men pulita allusione. Il giornale Lo Scaramuccia del 22 novembre ’56, parlando del teatro in cui recitava il Cannelli scrive :

A questo teatro si vedono e si sentono cose, che non si son mai, ch’ io mi sappia, vedute nè sentite in nessun paese del mondo. Se dovessi dirvi che razza di spettacolo è quello che vi richiama tanta gente, mi vedrei imbrogliato. Il cartellone annunzia una compagnia drammatica e delle produzioni drammatiche, ma potrei giurarvi che al teatro Leopoldo non si recita davvero ; qualcuno dirà che vi si canta, ma non è vero nemmen questo ; chi dicesse che vi si urla, vi si strepita, vi si fa un baccano da taverna, sarebbe il narratore più esatto.

In nessun’altra occasione, nemmeno negli infimi teatri, mi son mai trovato alle scene plateali ed ignobili cui si è costretti di assistere mettendo piedi in quella bolgia infernale. Fortunatamente ognuno è padrone di andarsene quando più gli aggrada ; ed invero questo è il solo mezzo che rimane, quando si è nauseati di vedere un pubblico, che fra le più volgari bassezze, dimentica interamente la sua dignità, fino al punto di far credere a chi non lo conosce, che esso non ha più nè buon senso, nè gusto, nè moralità, nè pudore.

{p. 566}Nè in mezzo alle più volgari allusioni, ai frizzi improvvisati del Cannelli, mancavan le allusioni politiche ; chè, anzi, a lungo andare, ci avea fatto l’abito a segno ch’eran più le sere passate per esse in prigione che in teatro. Qualche esempio : recitava all’antico teatro della Quarconia, mutata poi in Teatro Leopoldo, poi in Nazionale. Una sera disse : « C’è troppi stenterelli in Firenze. Siamo tre : Piazza vecchia, primo, Leopoldo secondo ; e Borgognissanti, terzo. » Leopoldo secondo fu specialmente il suo bersaglio. « Poldino, portati bene – disse una sera – l’altra volta si fece per chiasso, ma questa volta se ti mando via ’un ti ripiglio più. » E un’altra, alludendo alla minaccia di abolire lo Statuto : « Poldino, apri le Camere, se no ti finisce male. » E infinite della stessa risma. Buona parte della vita artistica passò tra Firenze e Lucca con compagnie comiche, cantanti e danzanti. Fu anche talora fuor di Toscana, e abbastanza apprezzato. Il feroce Cominazzi nella Fama del ’42 (17 febbraio) lasciò scritto :

Al Carcano il Cannelli co’ suoi drammatici subentrò ai molteplici trattenimenti del carnevale, ma perchè non vuol esser da meno de’ suoi predecessori, egli appresta un balletto ; s’io non temessi di fargli un complimento, gli direi :

Ben venuto il balletto – non biasimo lo scopo,
Ma se gli attori piacciono – vano è il soccorso all’ uopo.

{p. 567}Si capisce che ballerini e cantanti recitavan con gli altri : anzi ho qui sott’ occhio il manifesto della beneficiata di Felice Sciaccaluga, artista comico e primo ballerino (15 nov. 1843) in cui si eseguì un nuovissimo

PAX-DEX-DEUX POLLACCO
ossia CRACCOWIENNE

Composto dall’artista beneficiato, Ballato dal medesimo e dalla PRIMA ATTRICE

Un’altra sera (27 nov. 1837) a benefizio del primo attore Lorenzo De Paoli, Onde non restasse tediato il Pubblico, nell’ intermezzo della Commedia e della Farsa vi fu un gran volo di Piccioni. Talvolta il Cannelli, attore-specialità si aggregava solo, a simiglianza de’ grandi, a compagnie comiche, per rappresentazioni straordinarie : lo vediamo infatti al Pantera l’autunno 1825 colla Compagnia Zocchi, e al Giglio la primavera del 1829 con quella di Bergamaschi.

Quanto al repertorio Cannelliano, i soliti spettacoloni con trasformazioni, combattimenti, naufragi, incendj, in cui lo Stenterello ci faceva la solita parte di servo perseguitato dai ladri, dalle ombre, dalle balene, ecc., ecc. Dove il Cannelli poteva mostrar la sua vena satirica, era più specialmente a lavoro finito, quando s’intratteneva col pubblico invocante e reclamante l’ottava di prammatica.

Degl’ inviti al pubblico per la beneficiata si parla ai nomi di Anzampamber e di Ricci. Ora è lo Stenterello che numera al pubblico i suoi creditori, ora è un dialogo co’ creditori stessi. E gl’inviti son passati di Stenterello in Stenterello, come di padre in figlio, eredità incomprensibile di guitteria in quel costante ripetersi di spropositi sciocchi e di versi che non tornano.

Canova Giovanni Angelo. Nacque a Torino il 1781. Fu prima negoziante, poi datosi al teatro, divenne artista di grido nelle parti di padre e tiranno. Il 1805 era nella compagnia Consoli e Zuccato, quando il Vestri vi entrò come generico, e quasi {p. 568}gli fu maestro. Fu co’ primari capocomici, e condusse poi compagnia egli stesso, della quale fu principalissimo ornamento l’Angela Bruni, sua moglie (V.). Rappresentando a Lucca il 6 dicembre 1836 in Compagnia Pelzet il Galeotto Manfredi per sua serata, invitò il pubblico con queste parole :

La fiera gelosia che agita la sospettosa Matilde, fomentata dall’ arte scaltrita dell’ambizioso Zambrino, la debolezza del generoso e troppo credulo Manfredi ; infine l’ingenuità della giovine ed onesta Elisa, formano l’inviluppo di questa tragedia, la di cui catastrofe, terribile non meno che esemplare degna la rende di tenere un posto distinto tra le classiche italiane.

Se Alfieri, Niccolini, Ventignano e Pellico hanno chiamato in folla al Teatro l’intelligente e colto Pubblico Lucchese, prova non dubbia della squisitezza di gusto, che lo distingue ed onora, possibile che il Monti sia per esser negletto e non curato ? Ah non sarà mai ! Non, per rispetto al chiarissimo autore, non, per compiere le speranze dell’attore che l’offre ; infine, non, per onore di questo…. sì lo ripeto, di questo si colto ed iutelligente Pubblico Lucchese.

Unitosi ai Carbonari, fu nel 1821 arrestato e condannato al carcere duro a vita in Lubiana. Liberato il 1837 per grazia sovrana, tornò per alcun tempo alle scene, che abbandonò poi definitivamente il 1844 per diventare maestro di declamazione nella Società filodrammatica di Torino. Quivi avea pubblicato nel 1839 alcune lettere sopra l’arte d’imitazione dirette alla prima attrice italiana Anna Fiorilli-Pelandi, alle quali va innanzi una bella lettera di Iacopo Feretti al discreto Lettore sul merito dell’opera. In esse il Canova si manifesta comico di larghe vedute, che non vuol l’arte impastoiata nei vincoli di canoni assurdi.

Ad afforzar le sue idee, cita spesso e volentieri le parole della Clairon che non conosceva nè regole, nè convenzioni che potessero inspirare tutte quelle diverse sensazioni e gradazioni di spirito e di sensibilità, che sono necessarie per formare un grand’artista comico. I soggetti trattati con molto acume e senza pur l’ombra della pesantezza sono : la nobiltà dell’arte, l’educazione comica, la scelta ed unità di caratteri, lo studio de’ caratteri, la natura e il colorito, la pronunziazione, la mimica, la direzione, il contegno e la controscena, il vestiario in costume e l’acconciatura, le doti naturali, la moralità dell’arte (Teatro greco, romano, {p. 569}medievale, e moderno) e in ultimo, la moralità dell’attore accoppiata a quella del teatro.

Vengon dopo : una lettera di Angelo Maria Ricci e una di Vincenzo Folcari, all’incitamento dei quali è dovuta la pubblicazione dell’interessante operetta.

Angelo Canova morì nel ’54 circa, compianto da quanti lo conobbero e come artista e come uomo.

Canovaro Gabriele. Ferrarese, è citato dal Bertolotti (la Musica in Mantova) tra’ comici che di passaggio a Mantova il 6 febbraio 1591, alloggiarono all’albergo della Fortuna.

Cantella Bajardi Vittoria (V. Bajardi Antonella).

Cantinella, celebre comico, che fu carissimo a Silvestro da Prato, e di cui fa menzione Sant’Antonino. Così il Quadrio, V, 236. Fiorì nella metà del xvi secolo. Nel Canto carnascialesco di Zanni e Magnifichi di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca, già pubblicato da Francesco Bartoli è accennato al Cantinella con questi ultimi versi.

Alfin voglianvi una benfatta e bella
prospettiva di nuovo far vedere,
là dove il Cantinella
e Zanni vi daran spasso e piacere ;
or se volete avere
buon tempo un pezzo e rider fuor d’usanza,
doman venite a trovarci alla stanza.

quell’e messo fra il Cantinella e lo Zanni parrebbe stabilire aver rappresentato il Cantinella le parti di Pantalone, o Magnifico.

Il Capitolo dello stesso Lasca a M. Giovambatista Altoviti, che il Verzone pubblica per la prima volta (Firenze, Sansoni, 1882) e di cui riproduco il principio, ci dice chiaro essere stato il Cantinella il capo della Compagnia, se ben per arte inferiore allo Zanni….

{p. 570}Messer Giovambatista, o ver signore
come vi piace, pur ch’io non v’inganni,
state ad udir del mio canto il tenore.
Tra le perdite grandi di mill’anni,
c’han fatto Roma, Napoli e Fiorenza,
si può metter ancor questa di Zanni :
perchè la dolce e leggiadra presenza
del Cantinella e de’ compagni suoi
era nel vero una magnificenza.
Ma recitando le comedie poi
a gli atti, a’ modi, a’ gesti ed alla voce
gli altri strion restavan tutti buoi.
Non facevan le genti stare in croce
con quel lungo ciarlar senza profitto,
ch’ a gl’ altri comedianti tanto nuoce.
Vedeasi spesso misero ed afflitto
Zanni dal Cantinella sopraffare,
che gli correva addosso a naso ritto ;
poi si sentiva il Cantinel cagliare,
chè Zanni gli faceva un sopravento,
ch’ il meschin non sapea dove s’entrare :
e così gli altri ancora e fuori e drento
facevan gli atti lor si gentilmente,
ch’ ognun restava al fin lieto e contento.
Ma Zanni sopra tutto è uom valente,
per ch’ or spazzacammino ed or soldato
rider faceva e spasimar la gente ;
tanto ch’ io credo che Zanni sia nato
per passatempo, burla, giuoco e festa,
e fare il mondo star lieto e beato.
………….

Le buffonate descritte dal Lasca tra il padrone e il servo, i due principali tipi della Commedia dell’ arte, troviamo identiche dappertutto, e particolarmente alla Corte della bassa Baviera in Landshut, quando su al Castello di Trausnitz, Venturino da Pantalone e Battista Scolari da Zanni faceano smascellar da le risa i nobili astanti.

{p. 571}Cantù Carlo, tra’ comici Buffetto, al servizio del Principe di Parma, nacque il 1609 e si diede all’arte nel 1632, come vediam narrato al principio del Cicalamento di cui abbiam già discorso ampiamente al nome della Biancolelli. Il Bartoli, al nome di Colombina, dice che maritandosi con Buffetto commediante diè motivo ad un poeta di pubblicare, ecc., ecc. Non credo : dacchè il Cantù accenna al libro suo conosciuto e aplaudito, mercè la gratia del Sere.mo patrone, nella lettera da Roma delli 22 febbraio 1647.

Grandissimo artista fu veramente il Cantù per le parti di secondo Zanni, e dal suo Signore e dai pubblici tutti e dalla Corte di Francia ebbe onori e lodi senza fine. Il principe Farnese l’onorava di tal dimestichezza che, venuto a formar la compagnia per le solite recite in Parma li fece grazia d’una sua carrozza per andare a pigliare la Colombina a Bologna. Arrivato a Parigi, dov’era stato richiesto dalla Maestà della Regina di Francia per essere aggregato a quella Compagnia di Comici italiani, fu regalato ne’ primi due giorni di tre vestiti di non ordinaria bellezza. E dopo la prima recita al Palazzo Reale, la Regina, finita la commedia gli disse in pubblico che s’ era diportato bene. E levatasi Buffetto la maschera, e fattale una profondissima riverenza, li Cavalieri del recitare l’applaudirono. E come poi la Regina seppe che la Colombina era sua moglie, non solamente ne fe’ subito richiesta al Principe, ma diede anche a Buffetto 100 scudi pel viaggio : onori, in vero, incomparabili fattigli pel gran merito e per le amplissime raccomandazioni che da Parma recava a Parigi. Col mezzo delle quali anche, otteneva da Milano, prima di mettersi in viaggio per la gran Capitale, il più ampio dei passaporti, che qui trascrivo letteralmente :

(Archivio di Stato di Milano. Registro Patenti N. 469, foglio 54).

Dovendo Diana e Buffetto Comici passarsene á Parigi per rappresentare a quella Corte e convenendogli transitare per questo Stato habbiamo voluto accompagnarli con la presente. Per tenor della quale li concediamo ampio e libero passaporto per le loro persone e per quelle di quattro o cinque altre che conduranno seco con sue robbe non ostante {p. 572}qualhunque ordine in contrario. Commandiamo dunque á tutti li Ministri et officiali così di giustizia come di guerra, Datiari, Gabellieri et portinari et ad ogn’ altro á chi spetta, che non solo non gli diano molestia ne frapongano impedimento di sorte alcuna, nel loro viaggio, ma prestino piutosto ogni ajuto possibile, osservando e facendo osservare la presente valitura per giorni trenta prossimi.

Dato in Milano a’ 30 aprile 1645.

Ecco la lettera colla quale Buffetto dedicava il Cicalamento :

Al Serenissimo Principe

Cardinale Farnese

Mio Signore e Patrone singularissimo.

La cortese protezione, che V. A. Serenissima tiene di me e mia povera casa ; i benefizj ricevuti, gli utili ed honori concessimi dalla sua splendidezza, con havermi connumerato (benchè indegno) per servo attuale nella sua Corte, nominandomi per tale in più lettere nelle mie occorrenze ad altri Principi ; mi sforzano (e con ragione) far noto al mondo, che ogni mio affare dipende tutto dal patrocinio dell’Alt. Vostra. Quindi è, che sendomi congiunto in matrimonio con Colombina Comica (in riguardo però del favore di V. A.) concorrendovi le nostre libere volontà, ho composto il presente Cicalamento, intorno a ciò, il quale come tributo del mio debito l’espongo alla luce del Mondo sotto il patrocinio di V. A. sperando non sia per spiacerli che questa mia piccola fatica porti in fronte il glorioso suo nome

…………………………………………………………………………..

Di Fior., il dì 30 Novembre 1646.

Di V. A. Sereniss.

Umilissimo, obbligatiss. e devotiss. servitore

Carlo Cantù tra Comici Buffetto.

Alla quale tien dietro, dopo una prefazioncella ai benigni lettori, una ode che, per le cose ivi dette e per la molta rarità del libro mi par metta conto pubblicar per intero.

Del Signor

MAVRITIO TENSONIO

accademico hvmorista

Allude á gli Amori dell’ Autore ; Loda le di lui virtù, Tocca l’ordine, che da un Grande ebbe di portarsi in Parigi.

Gli applausi, i regali, & i l ritorno in Italia

ODE

Questi che su le scene altrui deride,
Ingegnoso inventor di mille errori,
Hoggi intento a spiegar flebili amori,
Veri successi, in su le carte incide.
{p. 573}E quella man, che Cetere festose,
Con arguta armonia tocca e percuote
Intenta a numerar l’interne note,
Ricerca in tuon d’Amor corde amorose.
Non van sciolti fra lor Musica e Amore :
E mentre intuona l’un, l’altro già scocca
Dalla sonora innamorata bocca
Con frequenti sospir voci canore.
Onde se già di musici concenti
Empiè i Teatri e fe’ stupir le Scene,
Ben formar vi dovea delle sue pene
Su le carte canori anco i lamenti.
Arse (ed oh strano ardor) del suo bel foco,
Per ignota cagion lontano amante,
Nè potea la speranza al cor tremante
Far più breve o vicino il tempo o il loco.
Fra l’onde de l’invidia empie e voraci,
Fu naufrago gran tempo, e quasi absorto,
Quando ecco apparve alla salute il porto,
E ritrovossi entro le braccia a i baci.
E poi che le fu pronuba Talia
Altra musa a cantar l’alma le accese,
E fa de’ propri casi altrui palese
Nel consueto stil l’arte natia.
Stile, che fra le valli, ove ristagna
Di più ricchi Lombardi il puro argento
Usa gente simile, o dove intento
A formar molli mura il Mar vi bagna.
E già tutta allentata al Mar cruccioso
L’ira credea, che le sue calme infetta,
Mentre che in grembo accolto alla diletta
Sua Colomba, prendea pace e riposo.
Ma d’un Eolo potente aura improvvisa
Lo spinse a valicar nuove pendici,
Là su la Senna, ove fra colli aprici
La Regina de’ Regni è in trono assisa.
{p. 574}E ne’ serii Teatri e ne’ Faceti,
Fra le comiche larve ottenne il grido,
E la Senna a’ suoi motti il nobil lido
Fe’ d’intorno sonar d’applausi lieti.
E ben fede ne fa la marca d’oro,
Che la regnante Astrea spontanea diede,
Marca a cui cede ogni più lenta fede,
Se nell’orbe immortal chiude un tesoro.
Dal suo Talamo amato al fin costretto,
Volse il rapido piede al suol nativo,
E quindi poscia al desiato arrivo
Copulò con la pace il suo diletto.

La maschera del Buffetto, come si vede anche dalla magnifica stampa di Stefano della Bella, è identica a quella di Brighella, uno dei due Zanni della Commedia dell’arte, di cui non ha mutato che il nome. Un’ idea del suo idioma abbiamo chiara in questa lettera ch’ei scrive alla sua

Lampeggiante Stella

È tanto l’ardore, che per amor vostro intorno alla pignatta del mio cuore s’è acceso, che dando negli eccessi, il borbottamento d’ogni mio sentimento, dubito che non crepi : mi sforzo però di dimenar il mescolo del mio affetto per disaccenderlo, ma non faccio nulla, dove che dubito che Buffetto biscottato in amore non vi comparisca avanti. Prima che facci questo strabalzo il trottolante mio cuore, vi supplico cum totam coradellam meam, di farmi avere il vostro ritratto, acciò possa a quello fissare gli occhi con attenzione sviscerata, senza batter palpebra, che ciò facendo (come ne son certo) precipiterà dalle pupille qualche lagrimetta, la quale rinfrescherà alquanto il mio ardore. Fatemene dunque la grazia, che ciò facendo vi resterò obbligato tanto di là, come di qua dal sempre

obbligatissimo anco con mio scomodo

Buffetto.

È strano che di questo artista, il quale oltre i monti incontrò tanto il favor del pubblico, non sia rimasta traccia in alcun libro del tempo, nè in alcuno degli archivi di Parigi, tanto consultati oggimai dagli storiografi del Teatro italiano in Francia. Al momento di accennare al costume di Buffetto, mi balzò agli occhi della mente la maschera, anzi il ritratto di un {p. 575}antico Brighella, di cui non solamente il costume, ma e il tipo mi par concordino a segno con quelli di Buffetto da essere scambiati.

E come mai la incisione qui riprodotta rappresenta il Brighella accanto al Trivellino, che a lui fa tanto di cappello, come se l’uno e l’altro avesser avuto comune la gloria ? Prima di poter dare una qualsiasi risposta, bisognava far le ricerche opportune sul Trivellino, sperando che le notizie che lo concernono, potesser dare alcun lume sulla quistione. Domenico Locatelli, secondo il parere dei Parfait, convalidato da un brevetto del Re in data 21 gennaio 1647 che gli accorda di poter confiscare i beni di certo Lorenzi, italiano, sarebbe andato in Francia il 1645. Nel 1645 appunto è stato dato in Milano ai Comici Diana e Buffetto il passaporto amplissimo per passarsene a Parigi.

Ma chi era questa Diana che ha fatto almanaccare tanto gli studiosi di cose teatrali ?

Ed ecco come le mie induzioni trivelliniane avrebber dato una inattesa risposta anche a questa domanda. Quali altri comici si recarono con Locatelli a Parigi, chiamativi dal Cardinal Mazzarino ? Vediamo un po’ l’argomento colla spiegazione delle scene della Finta pazza di Giulio Strozzi, fatto da Giacomo Torello da Fano e stampato a Parigi il novembre del 1645 : (è unito allo Scenario del Biancolelli raccolto da Gueullette e appartenente oggi alla Biblioteca dell’Opera di Parigi) e leggeremo a pagina 6 che Flora sarà rappresentata dalla gentile e vezzosa Luisa Gabbrielli-Locatelli detta Lucilla ; e a pagina 7 che Teti sarà rappresentata dalla signora Giulla Gabbrielli, detta Diana, la quale farà conoscer maravigliosamente la sua collera e l’amor suo.

Ecco dunque trovata la Diana di Buffetto, cognata di Locatelli, sorella di Luisa Lucilla e figlia del celebre Scapino e di Spinetta (?), come si apprende dalla canzone : Infermità, Testamento e Morte di Francesco Gabbrielli detto Scapino, di cui la seconda strofe suona così :

[n.p.][http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img011.jpg]

[n.p.][http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img012.jpg]

(Avec privilège de l’Impression de Mariette, rue St. Jacques à l’Espérance)

{p. 578}Inconsolabil piange
Spinetta sua consorte,
E ’l dolor, che ne sente è più che morte.
E la bella Diana,
E la bella Diana,
per dolor di tal padre è quasi insana,
È quasi insana.

E venuto al testamento, egli proruppe e disse :

Spinetta mia consorte,
Diana figlia cara,
Sa il Ciel se per voi m’è la morte amara,

Hor nell’ ultimo addio,

Hor nell’ultimo addio,

Ambo heredi vi fo di tutto il mio,

Di tutto il mio.

Il solo fatto adunque che può lasciar dubbio sulla identificazione del Brighella trivelliniano con Buffetto nostro, è : il non esser egli colà citato col nome della sua maschera. Ma l’aver dato al Buffetto, nome tutto italiano e non traducibile, il nome generico di Brighella, ben noto in Francia, il cui costume vediam già nel quadro di Porbus del 1572 indossato dal Cristianissimo Re Carlo nono, non mi par cosa fuor del probabile.

Ad altro Brighella che sostituì il Locatelli, morto, accenna il Robinet nella sua lettera in versi del 13 giugno 1671.

….. accrue depuis peu
(pour rendre plus complet leur jeu),
d’un Briguelle, le quel fait rage :
Pour vous y faire aller en faut-il davantage ?

Ma il suo nome non giunse fino a noi. Forse egli era lo stesso che troviamo al servizio di Ranuccio Farnese, ceduto pel carnevale del 1650-51 al Duca di Modena, e con lettera

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{p. 579}poi del 3 gennaio 1651 da Piacenza raccomandato da esso Ranuccio a esso Duca con le parole : concorrono in Brighella comico così buone parti, che le medesime saranno valeuoli da renderlo accetto all’A. V. alla quale io risoluo di raccomandarlo ?

Forse questi due Brighella non eran altro che lo stesso Cantù, il quale morì probabilmente nel ’76, come si può argomentare da una lettera inedita di Alfonso D’Este, della linea de’Marchesi di S. Martino, in data 30 giugno di quell’anno, nella quale, trattando della formazione di una nuova compagnia, è detto : Noi haueuamo Bufetto et il Dotore, ma Bufetto è andato a recitare nel altro mondo…. ?

A queste domande io non saprei che rispondere. Basti per curiosità che io metta qui alcune lettere inedite del Cantù, di cui una riprodotta in fac-simile, comunicatemi gentilmente dal sig. Conte Malaguzzi, direttore dell’Archivio di Stato in Modena, ricchissime d’interesse per la scena intima d’allora.

Molto Il.e et molto Reue.do Sig.r mio patrone Colen.mo

Li mali termini usati si in comedia, come fuora dal Dottore à pantalone il quale si lamentò alla Gaiarda con el sig.r mangelli due uolte, io pregato da cauaglieri per l’agiustamento non solo lo fecci ma per satisfare questi sig.ri amici del Angela condussi il medesimo Giorno pantalone dal S.r mangielli atestando di hauer agiustato il tutto et pregarlo à non darne parte a S. A. per non fastidirla, tanto più che non erano cose se non apartenente alla Comedia, il S.r mangielli promisse pregandoci a stare uniti come debito nostro in riguardo di S. A.

Hora spropositatamente io sono stato mal ricompensato dal Dottore il quale ingiuriò me et mia moglie nel honore et riputatione presente tuto il popolo et i Comici senza alcun riguardo del patrocinio del Ser.mo patrone et la cosa fu cossi.

Mercordi pasato recitasemo el prodigio del marchese del uasto il quale non piaque troppo la Compagnia me preghò per repezare l’ auditorio che inuitassi per il giorno seguente Colom.na zacag.no et zacag.no Colom.na Flaminio era morto in detta opera e non lo poteua inuitare et io era ciamato dalla S.ra donna olimpia con ming.no finita l’opera dissi caro Dottore inuitate uoi lui disse uolentieri et io me spogliai il Dottore uiendentro e non l’inuita il popolo si soleua non sentendo a inuitare, io dissi perche non l’haueua inuitato lui me rispose che non hà uoluto inuitare quella fredura ne la quale sua moglie non ui à troppo che fare, io sogionsi che lo doueua dire che non me n’ incuraua tanto più per essere di Giobia et che lo faceua per seruire la Compagnia, et si come lui e stato causa che mai ho fato quest’anno la mia scola per non agiustarse a lasar fare la prima parte com’era di douero a l’inpolita non me marauigliaua che lui auesse disgusto anco di questa Comedia de mia moglie, lui alborosato per la Comedia che bramaua el popolo ò {p. 580}per la mia andata da donna olimpia me disse, ch’ io era un uis de cazzo un Comediante da nulla che non me cognosceua per nulla et che non li rompesse il cullo, io sogionsi che haueua ragione di strapazarme alla presenza non solo del popolo ma di comedianti perche à più mani che me à questa parola me uene alla uolta per darme, il S.r Cupis et molti altri messero di mezzo, quà s’empi la scena di gente, e lui me disse Becco fotuto razza bozerona te farò ben ueder mi a suo tempo se hauerò più de due mani, la mia pouera moglie piangendo di rabbia disse marito abiate pacienza che tutti siamo conosiuti l’Angela li uene alla uolta per darli dicendo che era più honorata di lei il portinaro l’abbraciò et molti altri e lei per suiluparsi dal portinaro li dete un pugno nel uiso, io me tretti a una spada fui intertenuto da molti, li miei poueri fanciuli strilauano, ed il dottore et la moglie seguitauano ad’ ingiuriarsi con infamentissime parole in questo ariuò li sbiri fui auisato da un Cauaglier del S.r Cardinale Rocci a fugire e lasar la spada cossi fecci ma me ariuorno in piazza et il dottore per ordine del S.r Ducca della recia et del nipote del S.r Cardinale Cechini amici del angela fui intartenuto sù el palco, et io me condussero uia : per la strada me hariuò el S.r Cupis et Sig.r Felipo mei mastro di camera del S.r Cardinale Sforza, et me dissero affermandomi sotto una porta che io facessi la pace che me aurebeno fatto dare dal dottore ogni satisfatione se nò che saria andato prigione io risposi ch’el S.r Cardinale farnese non protegieua giente infame come, me haueua imputato me et mia moglie il dottore, et che non bramo da lui nisuna satisfatione : in questo ariuò ordine del Gouernatore che me agiustassi ò che me conducesero in tor di nona io ero pronto per lasarme condure tanto più che questa tramma de farme far pace era per broio de amici del angela li quali non solo furno dal Gouernatore ma presente me pregauano el S.r Cupis et sig.ri mei che me facessero far la pace il qual S.r Cupis me disse io ui comando da parte del S.r Cardinale farnese, come suo camariero ch’ io sono, di far la pace al dottore Altrimente andarete prigione e poi ne riceuerete disgusto da S. A. : io me butai al partito di un mezzo termine e disse fatemene scritura ch’ io farò il tutto lui me fecce l’incluso policino nella guardiola de i sbiri e poi mi fecce rogare la pace per mano di notaro il quale uoleua intartenerme perche non uoleua dar quella al dottore per le ingiurie riceute qua el S.r Cupis non poteua nulla, io mandete a ciamare il mastro di sala dela S.ra donna olimpia il quale uene con ordine da lasarme andare et a otto hore di notte uene a casa non esendo più a hora di andare da la S.ra Donna olimpia come altre uolte ui son stato la quale me regalo, giocando con altri, d.1 14½ ; et la Sig.ra Principessa Giustiniani uolse la chittara de mia moglie et le donnò 5 dopie ming.no dal S.r Cardinale Sforza a hauto nna medaglia di oro con l’ effigie di nostro Signore la quale pesa 10 scudi conosco. il mio libro e aplaudito, mercè la gratia del Sere.mo patrone.

Per le ingiurie riceuute inocentemente da un mal homo che non stima ne dio ne la Gente del mondo, io, ne mia moglie, non uolcuamo recitare più sino al Comando de S. A. in questo ponto io receuo ordine dala S.ra Donna olimpia di recitare in gracia sua, e questo e broio che ha fato fare l’Angela perche la detta S.ra Donna olimpia non uene alla Comedia di più sono ancora hauisato che ha fato parlare l’Angela da cavaglieri Grandi al S.r mangielli et S.r Cupis acciò scriueno dolcemente a S. A. del tutto faccia dio che in tutto e per tutto me remeto al Comando de S. A. mi metta con chi uole e facci di me quello che li pare che sempre sarò pronto a seruirla ma l’esser poi strapazato con quella pouerazza de mia moglie sono cose che fano catiuo, tanto più che il dottore per essere a l’ombra del patrone me a fatto questo che se non fusse me farebbe li ponti d’oro per riunirci in sieme come me fano tutti li altri compagni li quali aspeteno con grandissima diuotione se sono in Compagnia si ò nò acciò poseno fare el lor uiagio per le lor case caso che fuseno esclusi ; di questo io ne suplico con ogni Umilta posibile il Sere.mo patrone di qualche ordine non solo per li miei interessi et mio gouerno ma per l’utile di {p. 581}chi sarà mio Compagno, il tutto però io scriuo con riserbo del gusto de S. A. alla cui binignita Umilmente prostratto le baccio di tutto core le sacre uesti, et a V. S. caramente le mani.

Roma il dì 22 Febraio 1647.

Di V. S. molto III.e et molto Reue.do

Obe.mo Seruitore

Carlo Cantù detto Bufetto.

Molto III.e et molto Reue.do Sig.r mio patrone Col.mo

1er sera che fu il Giorno di Carneuale riceuei la lettera scritami di ordine del Ser.mo patrone, et intendendo il mutamento solo della prima Donna, senza tocarme ponto nisuna satisfazione delle parole infame et ingiuriose con quasi fatti usatemi dal dottore et moglie, a mia moglie et io come tutta Roma ne informato contra a ogni ragione et senza riguardo del Patrocinio di S. A. Argumentai che ancora le lettere di tal hauiso non fuseno al riceuere di detta letera capitate doue che non solo in tutto e per tutto io et mia pouera casa ci rimetiamo alla Giusticia di S. A. ma atendiamo nouo comando recomandandoci di tutto core come offesi et inocenti, come S. A. si pò informare non solo da Comici ma da tutta Roma, come ho detto, perche il negocio fu troppo publico ; e ben che li broi fatti da l’Angela et il dottore siano stati grandi non dubito pero che la uerità non si sapia quando S. A. la uora sapere senza dar credito a broio nisuno : Sig.r Don Cornelio siamo tanti offesi che me ne creppa il Core uedendoci non solo questa infamia publica in faccia ma adolarata la mia cara moglie in maniera tale che siamo piu che disperati, tanto piu che il Dottore di gia dice, auendo uisto la letera di Flaminio, io sono in Compagnia al dispetto di Buffetto : doue che aspetiamo magior desposti, se sua altezza non ci remedia con la sua Clemenza, per il douero bramo e non per altro. Remetendoci sempre alla benignità di S. A. come nostro Signore et patrone, e qui umilmente se li inchiniamo con Profonda Riverenza et le bacciamo le sacre uesti — il mio figlio magiore Dio l’inspira di essere frate nella religione Domenicana doue con bona licenza di S. A. me ne paserò a bologna con mia moglie per farlo la figlio de quel monastero che cosi e il gusto di sua madre. — Per mio socero suplico di tutto core insieme con mia moglie di qualche resolezione in bologna per lui suplichiamo dico S. A. acciò entri in una bona Compagnia giache la mente et gusto di S. A. è che non sia con le sue Creature detta Resolutione brama la celerità prima che li personaggi si obligano a d’altre persone per l’amor di dio Sig.r Don Cornelio la me ne sia protetore acio io non receua questo danno che li prometto da uero seruitore che mio socero non si deporta male, et in fiorenza e stato piaciuto : mia moglie scriue ancora lei due reghe in detta letera a V. S. acciò la ne fauorisca di protetione apresso al patrone che di tutto core gli ne pregiamo — ed io come serua di V. S. la prego a esermi mezano acio io non resti mortificata da questo mal omo contra ala mia inocenza che piu tosto con bona licenza del patrone morirei di fame perche mi figuro dale parole che lui dice di essere in compagnia al nostro dispetto di riceuere magiori mortifichazioni cosa che non ho mai riceuto perche o sempre auto protezioni ora mi par strano che ciò mi sia intreuenuto soto ala protetione di S. A. per il giusto parlo e non altrimenti e con ogni afeto ne suplico S. A. S. e con ogni riuerenza come sua serua obligatissima la prego ancora per il mio pouero padre come mio marito ha scrito e umilmente gli bacio le mani dandoli auiso che spero fra dieci o dodici giorni di dar frate il mio filgio magiore in bologna con il fauore pero di S. A.

di Roma il dì 6 marzo 1647.

Di V. S. molto Ill.e et molto Reue.do

Obli.mo Ser.e

Carlo Cantù Detto Buffetto.

{p. 582}
Molto Ill.e et molto Reue.º sig.r mio patrone Col.mo

Per conto della licenza per recitare in Roma ogni nostro patrone ci fà animo che l’ haueremo oggi che il primo sabato di quatragesima sono stato dal S.r marchese del Buffalo acciò ci fauorischa di entercedere la licenza per noi me ha promesso di fare apresso a Donna Olimpia ogni posibile ma che lassi passare un giorno o dua, cossi hò promesso di recceuere la Gratia ma domandato come sarà la Compagnia io li hò risposto che sarà meglio de quello è adesso, e cossi lui e restato satisfatto et io in conformita del comando ci tornerò e poi ne darò minuto raguaglio. — Me sono informato ch’ el mio figliolo lucha tanto io lo posso far uestire da frate in Roma col farlo figlio del monestero in bologna come se lo uestisse là non sò però a che me resoluerò perche uoglio el gusto del figliolo el quale più aderisse a essere prete che frate. — Suplichiamo S. A., mia moglie et io per il mio povero uechio acciò abbi in bologua una bona Compagnia già che noi non lo potiamo sostentare in nostra Compagnia per non offendere il gusto de S. A. dove che suplichiamo, dico, per una lettera di fauore in bologna a qualche cauagliere acciò lo fauorischa in riguardo di S. A. di metterlo in una bona Compagnia : prometto però a V. S. Sig.r Don Cornelio che non si deporta malle mio Socero nella parte di pantalone, et per dio come ho scritto in Fiorenza piague, prima che si serasse le Compagnie saria bene detta lettera di resolutione che poi obligate più inpegno ci saria del tutto però me remetto alla benignità de S. A. che sò che non uorà comportare questo danno alla mia povera casa : Scriuendo à mio socero V. S. potrà fare cossi à Francesco Franchini tra Comici detto pantalone in bologna (poi a basso) Padre della Colombina Comica, Caro patrone a V. S. per la protecione di ciò di tutto core insieme con mia moglie me racomando restando per sempre obligatissimi a V. S. : mando la notta de ciò che auemo fatto acciò S. A. la ueda et lo fatta copiare in bona forma e qui umilmente inchinandomi con tutti di mia casa con Profonda riuerenza bacciamo la sacra porpora al Sere.mo patrone et a V. S. caramente le mani,

Roma il dì 9 marzo 1647.

Di V. S. molt’Ill.e et molto Reue.do

Obe.mo Seruitore

Carlo Cantù detto Buffetto.

Molto Ill.e et molto Reu.do Sig.r mio patrone Colend.mo

Siamo quasi alla fine di Quatragesima e ancora io non ho hauto nisuna lettera per mio Governo et per consolazione de mia moglie et mia pouera famiglia, e pure dio benedetto sa et il mondo uede quanto noi tutti siamo seruitori obbligatissimi et suiserati a S. A. (come ho fatto) che tra Comici non ha il piu suiscerato seruitore di me : Strano mi pare in estremo che S. A. comporti ch’io sia infamato insieme con mia moglie senza farne fare almeno una parola sola di sentimento in fauore della ragione e non d’altro, e pure per bugie state scritte contro di me da Genova a S. A. io ebbi di ordine di S. A. minaccie di uita per homo a posta, alhora ben che fureno false le imputationi si trataua di marito e moglie, et hora da un strano il tutto si comporta pacienza il tempo è padre de la uerità, antiuedo li disgusti che receuera la prima donna che uera da questo bon homo di già sento a buccinare molte cosse li quali (Dio facci che me ne menti per la gola) tutte saranno in danno della pouera Compagnia, nissune cosse mie noue ho fatto ne mai la mia scola per le ragione scritte tanto basti a chi di me più intende. il mio povero socero atende Grazia per guadegnarse un pezzo di pane e ciò lo suplico con ragione tanto più che non tirera ne quarto ne nulla, e pure tanti altri Comici ano le lor Gionte et sono {p. 583}soli, et io con Colombina non li posso far seruicio ben che sia mio socero : del tutto pero me contento per seruire a S. A. ma almeno abbi a memoria per l’amor di dio chi suisceratamente l’ama, riuerisce et di tutto core lo serve — di bologna o letere che un pezzo fa ano inuiate li miei libri a V. S. delli quali come n’apare da mie lettere V. S. me fara grazia di far hauere il suo al Ill.mo Sig.r lampugnani in milano la ne faccia diligenza dal S.r Tassi ouero alla porta che sarano capitati sicuro per che cossi me scriuano, (come ho detto) da bologna, e qui Umilmente inchinandomi con Profonda Riuerenza baccio le sacre ueste al sere.mo patrone et a V. S. Caramente le mani.

Roma il dì 29 marzo 1647.

Di V. S. molt. Ill.e et molto Reue.do

Obl.mo et Diuot.mo Ser.re

Carlo Cantù detto Bufetto.

Canzachi Giovanni Camillo, bolognese, detto lo Zoppo. « Recitò assai bene – dice Fr. Bartoli – nella Maschera del Dottore, e fu in Vienna al servizio dell’Imperator Carlo VI. Sapeva la lingua francese e la tedesca, e fu esso l’introduttore dello spiritoso carattere di Francese Italianato, che fu poi da altri comici imitato. » Fu a Venezia al S. Luca, e nel 1740 pubblicò e recitò una Commedia ch’ebbe già buon successo a Vienna, intitolata L’adulatore. Ma il pubblico veneziano l’accolse a fischi e a risa, e non ne consentì la rappresentazione intera, consentì lì per lì da una commedia all’improvviso. Aggiunge il Bartoli che Apostolo Zeno ne parlò assai vantaggiosamente, e l’ebbe in qualche stima. Passò poi il Canzachi al servizio dell’Elettor di Sassonia e lo vediamo il 3 agosto del 1748 (onomastico del re) prender parte all’inaugurazione del nuovo teatro a Varsavia, e il Carnevale del 1749, recitar nella commedia Amor non ha riguardi, sostenendovi la parte di Tabarino (V. Bastona Marta).

Nelle notizie apparse a Stuttgart il 1750 sulle condizioni del teatro a Dresda, è detto che Camillo Canzachi è un uomo di piccola statura e grassoccio ; quantunque zoppichi da una gamba, è attore completo. Ogni ruolo gli si attaglia egualmente bene. Sa anche rappresentare con valore le parti di Marchese, ma il più delle volte egli è Tabarino.

Capelli Enrico. Artista contemporaneo de’più intelligenti e de’ più originali nel vario significato della parola, nacque a {p. 584}Bologna il 29 dicembre 1828. Fu in società, o solo, sempre alla testa di compagnie di second’ordine, che sfasciava e rimetteva assieme da un momento all’altro, senza preoccupazioni di sorta. Le sue strampalerie lo avevan fatto un comico guitto, e un artista intermittente !

A teatro pieno rimandava la gente, perchè non si sentiva la voglia di recitare : talora da una parola all’altra metteva una pausa eterna, tanto da destar qualche mormorio nel pubblico. Allora egli si volgeva alla platea coll’occhio vitreo, col viso allampanato ; restava lì un istante a guardar la folla stupefatta, poi volgeva le spalle e riprendeva serenamente la scena interrotta. Si racconta che al famoso monologo dell’Amleto, egli, una volta, proferito il primo essere…. si fermò…. Dopo alcun tempo uno del pubblico ad alta voce gli disse : Mo avanti dunque ! Ed egli placidamente : Mo aspetta !… Dopo le quali parole, tornato Principe di Danimarca, disse il suo e non essere coll’accento voluto dalla scena. Talora l’esquilibrio della mente lo fece nervoso, intrattabile. E di tali nervosità ebbe prove, a volte troppo accentuate, specialmente la moglie Giuseppina Ferroni, una delle più avvenenti attrici del nostro teatro di prosa, seconda donna di pregio, ammirata e festeggiata a Parigi al fianco di Adelaide Ristori.

Ma quando la febbre dell’arte lo coglieva, quando la sua mente era intera nel personaggio che egli rappresentava, quando si mostrava al pubblico sicuro di sè, padrone assoluto della sua voce, del suo gesto, della sua concezione, quale artista ! Recatosi all’Arena Nazionale di Firenze, avanti al ’70, fu tale il successo ch’egli ebbe coll’Amleto in una di coteste sere di lucido intervallo, che fu istantemente pregato, cosa non {p. 585}mai accaduta nè prima, nè dopo di lui, di trasportare le tende al Teatro Pagliano per meglio appagar le esigenze del pubblico. E l’Amleto fu replicato senza incidenti, in mezzo alle urla frenetiche, spontanee di una folla elettrizzata, accatastata ne’ palchi, nel lubbione, in platea. Un po’alla volta le stramberie cessarono e dieder luogo a una specie di mania solitaria…. Il Capelli vive oggidì a Bologna, passando le notti al Caffè del Corso tacito, isolato, guardando i cerchi di fumo che s’alzano dal suo sigaro, e nè men forse ascoltando chi parla intorno a lui.

Di quando in quando si risveglia nel suo cervello il ricordo de’ passati studi e allora tenta di ricostruirli o a sè stesso o a qualche sciagurato curioso…. Ma l’occhio non lampeggia più, l’anima non più s’infiamma, la parola è fredda, le dissertazioni si succedon disordinatamente alle dissertazioni, e lo spensierato Edmondo Kean, e il pazzo Principe di Danimarca ricade nel suo letargo…. a pena indicato alla curiosità o alla derisione dei comici.

Capellino. Attore reputatissimo per le parti di Pantalone, fiorì nella metà del secolo xvii. Sappiam di lui che il maggio del 1655 si trovava a recitare in Milano, com’ebbe a scriver da Mantova Ottavio Gonzaga al Duca di Modena che glie ne fece richiesta :

{p. 586}« Non è stata servita V. A. per non ritrovarsi Capellino Comico in Mantua essendo a recitare a Milano…. »

e che apparteneva alla Compagnia del Farnese di Parma, di cui era principale ornamento, come abbiam dal seguente brano di lettera tuttavia inedita scritta da Bartolommeo Manzoli al Duca di Modena il 4 giugno 1655 :

« Non è stato possibile di conseguire in alcun modo che il sig. Prencipe Alessandro, il quale ha negata altra volta il Milanta Dottore richiestole per il medesimo effetto, habbia voluto adesso permettere che Capellino Pantalone lasci la sua Compagnia per andare in Francia, mentre hauendo l’A. S. promessa quella a diuersi personaggi la stimerebbe resa troppo imperfetta dalla mancanza di questo soggetto che è tra’ migliori. »

Capodaglio Luigi. Nacque a Padova nel 1802. Compiuti gli studi universitari, si diede, dopo ottime prove in quella filodrammatica, alle scene, dove, dotato di prestante figura e di voce armoniosissima, riuscì artista di qualche pregio. Esordì nel 1835 qual primo amoroso nella Compagnia Petrelli e Fabrici, facendo concepir forti speranze pel suo avvenire artistico, specialmente dopo di aver recitato la parte di Ugo nella Parisina del Somma, ch’egli creò. Ma le speranze furon deluse. Luigi Capodaglio apparve nell’orizzonte dell’arte e vanì come una meteora. Alle compagnie primarie che lo accolser fidenti al suo esordire successer subito quelle secondarie, in cui si mantenne ora socio, or pagato, e or capo egli stesso, percorrendo le varie città di provincia, alle quali ammanniva, entusiasticamente applaudito, i più forti e ardui lavori del gran repertorio. Nonostante il compimento {p. 587}de’ suoi studi universitari, che trovo affermato in una memoria inedita del Colomberti, il Capodaglio fu notissimo per le enormi corbellerie che soleva dire, negl’inviti al pubblico, secondo l’uso del tempo.

Si vuole che nel Teatro di Treviso, la vigilia della sua beneficiata, si esprimesse innanzi al pubblico testualmente così :

Colto pubblico ed inclita guarnigione. Questa sera non avete sentito Capodaglio, perchè il mio torace, come tutti abbiamo un torace, era indisposto. Domani a sera, per mia beneficiata, sentirete Capodaglio Orosmane. Si rappresenterà : Zaira, tragedia Voltaire in 5 atti. Il teatro sarà illuminato di Reggia per rischiarare i nostri errori passati, presenti e futuri.

Morì nel 1864.

Ebbe due figli, Icilio e Tullo, datisi entrambi all’arte, in cui riusciron sufficientemente : il primo, in ispecial modo, per le parti di brillante.

Cappelletti Gaetano, volterrano, si diede giovanissimo alle scene, riuscendo prima un buon mamo, o servo sciocco, poi coll’esempio di Luigi Del Buono, un bravo stenterello. Fu in tale ruolo coll’Andolfati, il 1820, e di lui così scrive il Giornale de’ Teatri (Bologna, 1820) :

Questa è la prima volta che si sente in Lombardia la maschera dello Stenterello fiorentino senza annoiarsi. Operatrice di un tale prodigio è la capacità del bravo Cappelletti, che adattò la sua maschera al nostro gusto, e piace, e piacerà ovunque. Unisce pure l’abilità del canto ; molto utile perciò per le farse in musica che suole eseguire plausibilmente tratto tratto questa comica compagnia.

Condusse poi varie compagnie in società con altri, e finalmente entrò in quella primaria di Antonio Raftopulo, dalla quale si allontanò il 1830 per ridursi nella sua Volterra, ove morì nel 1845.

Probabilmente fu sua moglie quella Laura Cappelletti che nella stessa Compagnia Andolfati recitava egregiamente le parti di servetta.

Caracciolo-Ajudi Carolina. Cominciò ad acquistar fama nella società formata pel 1851 dalla celebre Carolina Internari, {p. 588}in cui sosteneva il ruolo di prima donna e prima amorosa. Fu sempre in ottime compagnie, fra cui, nel ’53, in quella condotta e diretta da Antonio Feoli, finchè sposato il brillante Amilcare Ajudi (V.), si fece capocomica ella stessa. Nel ’56 era la prima attrice della Compagnia di Antonio Stacchini, e nel ’57-58 della Compagnia Ligure, la seconda di proprietà di Giuseppe Trivelli, e diretta dallo stesso Stacchini. Fu nel ’66 con Colomberti e Casilini, poi con Cesare Vitaliani, e finalmente con Tommaso Salvini.

Apparve la Carolina attrice di molti pregi così nella commedia, come nella tragedia : ebbe onore di applausi e poesie da ogni pubblico. Nella sua beneficiata al Valle di Roma, recitando la Maria Stuarda di Schiller, fu una pioggia non interrotta di fiori e sonetti ed epigrafi, con dono agli spettatori del suo ritratto, disegnato da Carolina Grasselli Scröther. Ecco una delle epigrafi :

A CAROLINA CARACCIOLO AJUDI

che

nell’arte drammatica

potentissima

somma

sublime

vaga nel riso

terribile nell’ira

pietosa nel pianto

soavemente

a voler suo ogni animo rapiva

con ingegno precoce

sulle scene del teatro valle

i romani

ammirando

plaudendo

questo ricordo

tenue compenso a tale valore

offrivano

l’autunno 1856

Anche sapeva cantare con molto garbo ; e nella commedia Clelia o La Plutomania di Gaetano Gattinelli, il caratterista {p. 589}della compagnia, eseguendo la romanza del maestro Lafon, destava l’ammirazione di ogni pubblico.

Carolina Internari, abbandonate dopo tanti anni di gloria le tragiche scene, lasciava in retaggio alla Caracciolo il diadema ond’ella si cingeva in Medea, con queste parole : Eccoti, Carolina, una mia memoria : io portai questa corona per venti anni, e mi è cara sopramodo perchè tanti trionfi mi ricorda ; te la dono, perchè non saprei a chi meglio dedicarla.

Pregi incontestabili doveva avere la Caracciolo : che fosse oro colato tutto quel che usciva dalla penna de’suoi laudatori non giurerei. Anche a Torino, per sua beneficiata, vi fu il dono de’ ritratti dell’artista.

E questa manifestazione di stima, strana nel suo riprodursi, mi fa pensare a quell’artista che a ogni serata d’onore riceveva la sua stessa corona d’alloro….

Nel Trovatore del ’57 si legge al proposito della Caracciolo, dopo un lungo articolo di lodi sperticate : « questo registriamo per amore di verità e per rispondere alle stolte e villane critiche di un giornale senza credito che si stampa a Torino. » ( ? ? ?)

Carbutti Filippo, attore napoletano per le parti di servo sciocco. Recitava il 1845-46 nel teatrino di Donna Peppa, la madre dei Petito ; e come – dice S. Di Giacomo (op. cit.) – il primo attore, tal Comincio, impiegato alla fabbrica dei tabacchi, lo apostrofa spesso con l’aggettivo di furbacchiotto, il lubbione ha soprannominato Fra Pacchiotto il Carbutti, ch’ è l’idolo suo.

Cardarelli Luigi. Nato a Roma verso il 1805 da padre stagnino, seppe colla ferrea volontà formarsi un buon corredo di studi. Datosi all’arte drammatica, riuscì prima un ottimo generico primario, scritturato nelle migliori compagnie, quali di Luigi Domeniconi e Romualdo Mascherpa ; poi un buon caratterista ; nel qual ruolo recitò parecchi anni, sinchè eletto direttore della Società Filodrammatica di Terni, abbandonò per sempre le scene. Morì nel 1864.

{p. 590}Cardosi Chiara, lucchese, attrice di molto merito per vivace ingegno e non comune coltura, fu in varie compagnie ; poi, sino al 1779, in quella di Luigi Perelli, ove potè più specialmente mostrare le sue rare qualità di artista. Passò il 1780 con Maddalena Battaglia al S. Gio. Grisostomo di Venezia, e vi rinnovò nella Sposa Persiana i trionfi della Bresciani. Nella Clorinda della Gerusalemme Liberata, ossia Il Tasso, ridotto in quattro Sceniche Rappresentazioni da F. N. V., recitò – dice il Bartoli – con valore, combattendo con marziale coraggio, benchè finto, e nella apparente ombra di lei, cantando con molta grazia.

Fu anche la Cardosi attrice ammiratissima nelle commedie all’improvviso per non comune prontezza ed elettezza di parole. S’ebbe da varj poetiche lodi, tra le quali il seguente iperbolico sonetto del Dott. L. P. Scolare, indirizzatole quand’era il carnevale del 1778 prima attrice nel Teatro Nuovo di Bologna, e che tolgo dal Bartoli :

Donna gentil, che le notturne Scene
fai sempre risuonar co’ plausi tuoi,
e in Socco, ed in Coturno il male e il bene
fingi, e proponi sì, che non annoi.
No, che non vide mai Roma nè Atene
tanto valore ne’ teatri suoi ;
tu risi e pianti ; tu diletti e pene,
se in te li fingi, li commovi in noi.
Tremar ci fai ad un tuo van periglio,
e tutti siamo a lacrimare astretti,
se fingi tu d’inumidire il ciglio.
Che più ? Tu sai tutte le vie del core,
e in noi risvegliar sai tutti gli affetti,
ma più di tutti ammirazione e amore.

Cardosi Pierina. Sorella minore della precedente, fece i primi passi nell’arte in Compagnia Patriarchi, e riuscì egregia in ogni specie di parti, ma particolarmente in quelle di serva, che sostenne, dice il Bartoli, con molto spirito, grazia ed {p. 591}intelligenza. Trovavasi il 1781 nella Compagnia di Faustina Tesi, e per la sua pronunzia corretta, la graziosa figura, la innata vivacità e la leggiadria del volto era in ogni città festeggiatissima.

Cardosi-Fefferi Carmina. Sosteneva le parti di servetta il 1795-96 in Compagnia Perelli al S. Luca di Venezia. Era probabilmente una sorella minore delle precedenti, e moglie di Francesco Fefferi, uno de’ principali attori della compagnia. Al nome di lei dice il Giornale de’ Teatri (Teatro app., Tom. III) che riuscì a meraviglia nella Smeraldina statua animata.

Carexana Paolo. Faceva parte della Compagnia formata a Venezia da Andrea Bertoldi il 1737 per l’Elettor di Sassonia, e lo troviamo il 3 agosto del 1748 all’ inaugurazione del nuovo teatro in Varsavia : ma nulla sappiamo del ruolo che sosteneva. Si ha solo dal Barone ö Byrn (op. cit.), che egli era ammogliato.

Carini Luigi, nato a Cremona il 21 dicembre 1869, lasciò a mezzo gli studi tecnici per entrare in arte, nella quale, dopo ottime prove nella Filodrammatica cremonese sotto la direzione dell’intelligente ex-comico Guido Guidi, esordì qual secondo amoroso e generico giovine in Compagnia di Giuseppe Pietriboni, al Valle di Roma, la quaresima dell’’88. Dal ’90 al ’92 pagò il suo tributo alla patria come soldato di leva, poi tornò all’ arte in Compagnia Beltramo e Della Guardia, come primo attore giovine. Nella quaresima del ’94 entrò collo stesso ruolo in quella di Andò e Leigheb per un triennio ; {p. 592}terminato il quale egli assumerà il ruolo di primo attore assoluto nella nuova Compagnia di Leigheb e Reiter. Prestante della persona, fine d’intelligenza, elettissimo di modi, dicitore garbato, accurato, studioso, egli saprà, son certo, vincere trionfalmente l’ardua prova, giustificando le speranze vive in lui a buon diritto fondate.

Carloni-Talli Ida, nata a Roma da Gioachimo Carloni, romano, e da Emilia Marovich, slava, maestra di ballo, si diede all’arte nel 1887, dopo di aver fatto ottima prova sotto la direzione dell’ex-comico Alessandro Meschini nella Filodrammatica romana, esordendo a Verona, qual prima attrice giovane, nella Compagnia di Giuseppe Pietriboni col quale restò tre anni. « Al Teatro Manzoni di Milano – scrive il Traversi (Natura e Arte, gennaio del ’93) – si ebbe, in quell’anno stesso, il più splendido battesimo….. Paolo Ferrari, Leone Fortis, Felice Cavallotti lodaron l’artista valorosa : e Marco Praga le dedicò un articolo nel Secolo xix, chiamandola addirittura una grande attrice che spunta. »

La giunonica dovizia delle forme, una fine intelligenza, e una non comune intuizione artistica, la innalzaron subito al ruolo di prima attrice nel quale esordì a Venezia in Compagnia Favi, diventando di punto {p. 593}in bianco una fra le più reputate artiste giovani, specialmente per la interpretazione gagliarda e inattesa della Trilogia di Dorina, commedia di Gerolamo Rovetta, la cui fiorente esistenza è a lei dovuta in gran parte. Il 17 maggio del ’90 si unì in matrimonio col brillante fiorentino Virgilio Talli, e con lui si trovò per due anni capocomica in società col Paladini. Fu un anno con Flavio Andò e Claudio Leigheb, e un anno con Giovanni Emanuel ; poi toltasi momentaneamente dal teatro, andò con Pasta due mesi a sostituir la Tina Di Lorenzo ammalata. Oggi, dopo di aver vissuto alcun tempo fuor della scena in Firenze, si trova prima attrice in Compagnia Ferrati.

Carpiari Orazio. Nessuna notizia, per quante ricerche fatte, mi fu dato di avere su questo comico, tranne la lettera che riproduco, alcun po’ ridotta. (V. pag. 594-595).

Carpioni…… ? A questo comico è accennato nella seguente lettera interessantissima al Duca di Modena che traggo da quell’ Archivio di Stato. Forse, con soli otto anni di distanza e con la stessa qualità di attore e capocomico, egli e il precedente Carpiari sono una persona sola ? La orribile scrittura del Trenti potrebbe dar peso alla congettura.

Sere.mo sign.r et Padrone Col.mo

Questa note e à Brutiato il loco della Comedia di San Cassano, si che facilmente Vostra Altezza potrà hauer se uole la compagnia del carpioni, ò uero questa di cintio che bonissima.

Il detto Carpioni credo che habia promesso, di uenire à reccitare à san luca si che si potria agiustare che lui restasse à seruire Vostra Altezza, et in suo logo seruisse qua la compagnia di Cintio, et quando il detto non uolesse restar à modona, che sarebbe la migliore, perche luna e l’altra compagnia sfugiria le spese, si potrà fare uenire la compagnia di cintio costà, e di tutto nò voluto dar pate à Vostra Altezza credendo di seruirla, et aspetaro i suoi Comandi a ferrara, e li faccio humilissima riuerentia.

Di Venetia li 20 xbre 1633.

Si V. A.

Vasalo e deu.mo servitore

Enzo Trenti.

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{p. 596}Carrani Luigi. Nacque a Pisa il 1790 di civile famiglia. Entrato in arte a venti anni, passò gli anni del noviziato in compagnie di second’ ordine, sino al 1814, nel quale anno fu scritturato qual secondo amoroso dalla celebre Carlotta Marchionni. Passò a Napoli, il ’19, col Fabbrichesi ; che abbandonò per entrare nella Compagnia Nazionale Toscana, qual primo amoroso assoluto, al fianco di Maddalena Pelzet, di Ercole Gallina, Luigi Rocchetti e Luigi Parrini. Fu poi scritturato pel ’22 e ’23 dai soci Assunta Perotti e Luigi Fini ; pel ’24, qual primo attore assoluto dal Fini stesso, rimasto solo a capo della compagnia, e dal ’25 al ’29 da Romualdo Mascherpa. Si unì poi in società con Francesco Ciarli, che abbandonò ben presto, per entrar nella Compagnia di Giuseppe Moncalvo prima, poi in quella di Francesco Sterni qual padre e tiranno. Trovandosi il ’56 a Sebenico in non so qual compagnia, fu colpito da malattia che in pochi dì lo condusse al sepolcro.

Luigi Carrani fu attore pregevolissimo così nella tragedia come nel dramma e nella commedia. Le parti di Oreste, Polinice, Carlo nel Filippo, Emone nell’ Antigone ebbero in lui un interprete accurato ed efficace. Creò egli la parte del protagonista nell’ Antonio Foscarini di G. B. Niccolini al Cocomero di Firenze, destandovi un vero entusiasmo al fianco della Pelzet e del Domeniconi.

Recitando colla Compagnia Ciarli e Falchetti, nel carnovale del 1831 al Teatro Alfieri di Firenze, ottenne di poter fare la sua beneficiata, dietro informazione favorevole del Commissario di S. Croce al Presidente del Buongoverno.

La concessione, in data del 25 gennaio 1831, aveva le seguenti parole : « Risultando che il detto con intelligenza non ordinaria tanto nelle rappresentazioni comiche che tragiche, e sempre con zelo e dignità si è saputo conciliare la pubblica lode, ecc. ecc. »

Casali Gaetano, lucchese, ottimo ed eccellente comico per le parti d’innamorato sotto ’l nome di Silvio. Le sue prime {p. 597}armi, e con grande successo, fece nella Compagnia dell’Anonimo Ciarlatano, il signor Buonafede Vitali, al fianco di Francesco Rubini, che divenne poi al Teatro di San Luca, celebre artista.

Passò il Casali dalla Compaguia dell’anonimo in quella de’ Grimani, prima al Teatro S. Samuele, direttore l’Imer, poi al S. Giov. Grisostomo, direttore Antonio Sacco, il famoso Truffaldino, pel quale il Casali scrisse varie opere teatrali, come : Le azioni d’Ercole imitate da Truffaldino suo scudiere (Milano, 1753), e L’eroica pazienza di Socrate gran filosofo d’Atene (Torino, s. a.).

Fu col Sacco in Portogallo, e con lui tornò in Italia. Ma venuto ormai vecchio, lo abbandonò per recarsi a Firenze, scritturato al Cocomero di Firenze nella Compagnia di Giovanni Roffi (1767), dove non ebbe quell’accoglienza ch’ei si aspettava e che, a detta del Bartoli, gli spettava : e di ciò tanto si dolse, che aggravato dal male morì nell’istesso anno.

Il Gozzi nel suo ditirambo pel Truffaldino Sacchi lo ricorda con onore ; e così di lui lasciò scritto Gianvito Manfredi nell’Attore in scena :

Gaetano Casali, detto Silvio, non meno celebre che saggio ed onesto, il quale adempiedo a tutte le parti, che ad un saggio ed ottimo attore spettanti sono, tanto si distingue dagli altri nell’arte sua, che non cred’io che a’ suoi tempi tanto si distinguessero dagli altri gli attori antichi.

Molte volte occorre al Goldoni di parlare di lui, e la notizia dell’avere il Casali recitato coll’anonimo Ciarlatano l’abbiam tolta dalle sue memorie (vol. I, cap. XXIX). E di quel tempo appunto ci narra, come, sentito un Belisario detestabile, una vera indegnità, promettesse di farne uno pel Casali che l’anno di poi dovea recarsi a Venezia. E il Belisario fu fatto e letto con successo a Verona in casa del Direttor Imer, che aveva in un giorno di riposo invitato a pranzo il Goldoni assieme alla Compagnia.

E a un de’ comici che dimandò se i suoi compagni sarebbero stati i primi a rappresentare il Belisario, il Casali rispose {p. 598}con aria di sicurezza : sì signore : il signor Goldoni mi ha fatto l’onore di lavorare per me : e prendendo l’opera ch’era rimasta in tavola, vado, disse, con permission dell’autore, a copiarla io medesimo ; e senz’aspettar la risposta, la portò via. Aggiunge poi il Goldoni che dopo la prima prova, che produsse miglior effetto della lettura, il Casali lo pregò in grazia di riavere da lui particolarmente un segno della sua riconoscenza e gli presentò sei zecchini. Il Belisario fu dato con riuscita splendida il 24 novembre del 1734, e replicato sino al 14 dicembre, chiudendo con esso le recite dell’autunno.

Nel cap. XXXIV descrive la scena occorsagli, mentre stava all’Arena di Verona un giorno dell’estate 1734, accennando al Casali, che scoprendolo al pubblico sulla scena al mutar di una decorazione, lo fece fischiare. Allora il Casali era secondo amoroso (il primo era Vitalba), e fu lui che andò ad avvertire il pubblico del cambiamento dello spettacolo. E nel capitolo XXXVIII, a proposito della rappresentazione della Griselda, dice ch’egli interessava e faceva piangere. Ma il migliore accenno, e più che un accenno, al Casali lo abbiamo nella prefazione del vol. XIII (ediz. Pasquali), nel quale è anche descritta la persona di lui.

Quest’onorato galantuomo, provveduto d’intelligenza e di capacità nel mestiere, di bella statura e di buona voce, parlando bene e con una pronunzia avvantaggiosa e grata, non ha mai avuto buona disposizione per la parte dell’amoroso. Una certa serietà nel {p. 599}sembiante, una certa durezza nella persona, un’inclinazione involontaria del fianco e della spalla verso il Personaggio con cui recitava, lo facevano scomparire, malgrado le belle cose ch’egli diceva : all’incontro nelle Tragedie riusciva mirabilmente, e sopratutto nelle parti gravi, come nel Catone del Metastasio, nel Bruto dell’abate Conti, nella parte di Giustiniano nel mio Belisario, ed in altre simili. Del resto poi il più attento, il più zelante comico della Compagnia ; sempre il primo al teatro, sempre il primo alle prove ; vestendosi colla maggior verità, secondo i caratteri, che dovea sostenere, e tanto internandosi in quelli, che quando aveva intorno l’abito di Giustiniano, non degnava rispondere a chi gli parlava.

Casali-Pieri Giuseppina. Bolognese, figlia di Giovanni Casali, e moglie dell’attore brillante rinomatissimo Gaspare Pieri, esordì giovinetta, come seconda amorosa, in Compagnia di Lorenzo Cannelli, stenterello di grido. Fu qual prima donna giovine, con Luigi Domeniconi, poi, a’ Fiorentini di Napoli, con. A. Alberti, e con Giuseppe Astolfi, nella cui compagnia sposò il Pieri. Fattosi il marito capocomico, essa occupò sempre al suo fianco il posto di prima attrice. Lui morto a Genova, nell’anno 1864, essa continuò la società che egli aveva fatto con Cesare Dondini ; sciolta la quale, ritornò scritturata a Napoli, dove sposò in seconde nozze Enrico Alberti, fratello di Adamo, che lasciolla ben presto nuovamente vedova. Toltasi da Napoli, formò altra società con Antonio Stacchini, per entrar poi scritturata in Compagnia di Alessandro Monti e in altre di second’ordine, finchè si ritirò in Bologna per l’educazione dei due figliuoli Vittorio e Vittorina. Ma datosi quello all’arte e al capocomicato con poca fortuna, ella dovè sagrificare tutta intera la non lieve somma lasciatale dal marito, e ridursi assieme alla figliuola colla Compagnia de’ piccoli Lambertini in America, ove diventò poi direttrice di filodrammatici, e ove morì sui cinquantacinque anni.

{p. 600}Casali Giulio. Fratello della precedente, cominciò a farsi buon nome nella Compagnia romana di Bellotti e Calloud, nella quale sosteneva le parti di secondo brillante. Attore intelligente e di modi elettissimi, potè in breve assumere il ruolo di primo brillante assoluto in Compagnia di Alessandro Monti : ruolo che mantenne poi sempre con molto decoro nelle varie Compagnie in cui fu scritturato, e in quella specialmente di Ciotti, Lavaggi e Marchi, coi quali divideva ogni sera le simpatie del pubblico. Sceso con l’andar degli anni di gradino in gradino, tentò anch’egli l’America in compagnie secondarie ; ma dopo alcuni anni giunse la fatal nuova della sua morte volontaria. Il poveretto lasciò la moglie Maria Checchi, e un figliuolo, Cesarino, attore anch’esso per le parti generiche.

Casali ebbe un maggior fratello, Giovanni, buon generico e secondo caratterista, morto sui quarant’anni circa.

Casalini Francesca. Dice di lei Francesco Bartoli : « Sosteneva con molta abilità il carattere di prima donna in varie Compagnie, e specialmente in quella condotta e diretta da Onofrio Paganini. La primavera dell’anno 1750 recitò in Genova ; e si produsse con un Prologo scritto in versi sciolti dal medesimo Paganini, che trovasi fra le di lui rime manoscritte, il quale incomincia :

Qual timor, o compagni,e qual ribrezzo
sì vi sorprende, il vostro passo arresta,
e vi rende da voi tanto diversi ?

La Casalini alienossi poi dall’arte, e vive anch’oggi, seguendo ne’suoi viaggi una figliuola ballerina, dall’onorate fatiche di cui ella ha pensato di poter in miglior modo passare il restante della sua vita.  »

{p. 601}Forse ell’è quella stessa che Goldoni trovò a Rimini il 1743, buonissima attrice, principale ornamento, insieme alla Bonaldi servetta, della compagnia che recitava allora in quella città.

Casanova Maria Giovanna, figlia di Gerolamo e Marzia Farusi, calzolai, nacque a Venezia nel 1709 circa. Innamoratosi di lei Gaetano Giuseppe Giacomo Casanova, artista del Teatro S. Samuele, che a 19 anni aveva abbandonato la casa paterna per amor d’un’attrice nota col nome di Fragoletta, e s’era dato al teatro come violinista, ballerino e comico, la tolse in moglie il 27 febbraio del 1724, dopo di averla rapita ai parenti, i quali poi perdonarono, a patto che la figliuola, più nota col nomignolo di Zanetta, non calcasse le scene. Ella ebbe da tal matrimonio sei figli :

Giacomo Girolamo Casanova, il noto scrittor di memorie, nato a Venezia il 12 aprile 1725, morto nel Castello a Dux in Boemia il 4 giugno 1798 ;

Francesco, il pittor di battaglie, nato a Lisbona, o a Londra il 1727, morto nella Contea di Brühl, presso Vienna, l’ 8 luglio 1805 ;

Giovanni Aloise (e non Battista), professore all’Accademia di Belle Arti a Dresda, nato a Venezia il 2 novembre 1728, morto a Dresda l’ 8 dicembre 1795 ;

Una figlia, morta bambina ;

Maria Maddalena Augusta (Antonia ?), nata il 1732, morta il 10 gennaio 1800 a Dresda, vedova dal 16 febbraio 1787 di quell’organista di Corte Pietro Augusto ;

Un figlio, di cui lo scrittore di memorie non ci dà il nome, nato dopo la morte del padre, morto povero a Roma, circa il 1783, prete e maestro di francese.

Poco dopo la nascita del primogenito, la coppia Casanova si recò a Londra, ove Zanetta, infrangendo la promessa fatta a’parenti, esordì come attrice. Tornaron poi col figlio Francesco, nato nel frattempo, a Venezia, ove avean lasciato {p. 602}Giacomo alle cure della nonna, e quivi recitarono sin circa il 1733, che probabilmente fu l’anno di morte dello sposo. Sappiamo dalle memorie di Giacomo, che la vedova si unì il 1736 a una compagnia di artisti chiamata a Pietroburgo alla Corte dell’Imperatrice Anna Ivanovna, lasciando i figliuoli a Venezia, ov’era già di ritorno il 1737, nel qual anno si scritturò nella compagnia di attori e cantanti italiani formata allora per la Corte polacco-sassone da Andrea Bertoldi, il Pantalone (V.), coll’aiuto dell’ambasciatore sassone Conte di Vixio. La Compagnia era composta della coppia Isabella e Bernardo Vulcani, della coppia Gerolima e Antonio Franceschini, di Paolo Carexana, e della vedova Casanova, che aveva mutato il suo nome dialettale di Zanetta in quello italiano di Giovanna, e che recitava le amorose e cantava anche negl’intermezzi lirici. Sostituito il Conte di Salkowsky nella carica di Ministro di Gabinetto dal Conte di Brühl, vero mecenate degli artisti, a qualunque ramo appartenessero, la commedia italiana prosperò per lunghi anni a Dresda. (V. Articchio, Bellotti, Bertoldi, Arbes). L’ultima manifestazione artistica degli italiani a Dresda fu la recita della Vedova scaltra data il 26 febbraio del 1756 ; dopo la quale, lo scoppiar della guerra dei sette anni chiuse per sempre le porte del teatro italiano a Dresda. Conchiusa finalmente la pace, buon numero di artisti italiani furono inscritti per le pensioni, e Giovanna Casanova, pe’ suoi lunghi servigi, ne fu tra’ preferiti : e se bene, nonostante la pensione e le sovvenzioni di ogni specie, gli artisti, in genere, fosser costretti a rimpatriare, ella, vissuta durante la guerra a Praga, tornò a Dresda, ove restò, senza mai l’ombra di un lamento, fino alla sua morte, che accadde il 29 novembre del 1776. (Il Bartoli erroneamente la fa morir nel 1745). Veramente le condizioni di Giovanna Casanova non eran da compararsi a quelle de’colleghi : e per quanto la posizione artistica de’ suoi figli a Dresda, e i ricordi del suo brillante passato le avesser fatta una vita di agiatezze, non dimenticò mai l’indole e le consuetudini della commediante.

{p. 603}L’inesorabile figliuolo che non conosce riserbi di sorta, ha per la madre parole di sangue, sia come artista, sia come donna.

Fu amante dell’Imer, al quale dava frequenti occasioni di esser geloso. Accortosene il Goldoni, quegli amori e quelle gelosie riprodusse nella Pupilla, inter mezzo in tre atti, che fu rappresentato con buon successo insieme alla sesta recita del Belisario.

Quanto al modo di recitare di Giovanna Casanova, il critico anonimo di Stuttgart si trova d’accordo col figlio, rincarando anzi la dose della critica. Egli dice :

Ha più di quarant’anni ; una figura colossale, una faccia di vecchia, nonostante la magia della truccatura. Rappresenta le parti di Rosaura, ma le si attaglierebber meglio quelle di donna cattiva ; per giovani amorose la sua voce è troppo rauca.

Alle quali parole il barone ö Byrn (op. cit.), da cui desumiamo le presenti notizie, fa seguir queste altre :

Veramente parrebbe audacia sostener parti di amorosa a quarant’anni col fisico descrito dall’anonimo e colla voce non limpida : nè le grazie della persona, nè la soavità della voce possono essere sostituite da checchessia. Nullameno tali difetti saranno stati attenuati da una recitazione vivace, spiritosa, intonata, italiana ; e pare che Giovanna Casanova non amasse di seguire il consiglio di darsi alle parti di vecchia cattiva, poichè sino alla fine della sua vita artistica rappresentò le Rosaure, fedele al principio dominante dei ruoli stabili.

Tra le farse rappresentate sul teatro di Varsavia nel 1748, ne troviamo una : Le contese di Mestre e Malghera per il trono, o scritta o rimaneggiata dalla Casanova, con musica dell’Appolloni. (V. Bastona Marta).

È vero peccato che, per quante ricerche fatte, non siasi fin qui rinvenuto un ritratto di lei. Madre di due pittori di grido, è assai probabile ch’ella fosse da uno di essi serbata ai posteri in una immagine che ne offerisse i tratti caratteristici, e soprattutto togliesse ogni dubbio sulla maggiore o minor sua bellezza, sulla quale i pareri furon diversi, come abbiam visto nell’anonimo critico tedesco, e come vediamo in Carlo Goldoni, che chiama la Zanetta (Mem. I. XXXV) una vedova leggiadrissima e bravissima, aggiungendo al proposito della partenza di lei per la Russia (ivi, XXXVII), che la perdita più considerevole della compagnia fu quella della vedova Casanova.

{p. 604}Casanova Ignazio. « Bolognese, nato – dice il Bartoli – da illustri parenti celebri nel foro…. c nelle cattedre della sua Patria, come non meno ne’ gradi eccelsi di Religioni claustrali antichissime ed insigni, » lasciò a mezzo gli studi per darsi all’arte del comico in cui riuscì ottimo per le parti di primo innamorato, e specialmente nella commedia all’improvviso, « da lui travagliata – trascrivo ancora dal Bartoli – con nobili e concettosi sentimenti, facendosi non solo conoscere per buon Rettorico e dicitore forbito, ma altresi per dotto e sentenzioso filosofo, degli affetti e delle amorose passioni in sul teatro scrutatore ingegnosissimo e penetrante. » Fu quasi sempre con Gerolamo Medebach e con Antonio Sacco, applauditissimo ; e Carlo Gozzi lo ricorda con onore nel suo ditirambo in lode del Sacco stesso, Truffaldino (V.) ; poi fu, nel 1762, con Pietro Rossi, poi di nuovo con Medebach, poi, dopo il carnevale del 1774, con Vincenzo Bugani e Giustina Cavalieri, che abbandonò a Bologna, per recarsi in Sardegna colla Compagnia di Andrea Patriarchi, trascinatovi dalle grazie allettatrici di una femina. Nel novembre, dopo la recita della Dalmatina di C. Goldoni, fu colto da apoplessia, ancor vestito del costume di teatro, e in capo a otto giorni morì miseramente a soli 52 anni.

Dice il Bartoli che come artista egli fu irreprensibile, ma che, come uomo, corse troppo a sciolta briglia dietro gli amori, pe’ quali ebbe più volte a far naufragio fra burrascose procelle a segno di rompere contro a’scogli la nave, e di smarrirvi per fino interamente il timone….

Casigliani Antonio, nato a Pisa nel 1814, fu attore di non pochi pregi per le parti di caratterista. Entrò generico primario nella Compagnia Colomberti, Fumagalli, Internarni, e vi stette tre anni. Recitava egualmente bene la commedia e il dramma. Ebbe ottimo successo al Valle di Roma, recitando replicatamente la parte di Virginio nella Virginia di Alfieri ; e al Cocomero di Firenze quella di Mitrane nel Nabucco di Niccolini. Assunse il ’59 il ruolo di caratterista in Compagnia Pezzana e {p. 605}Marchi, applaudito dai pubblici migliori. Scioltasi la compagnia, si scritturò con Angiolo Morolin, formando poi egli stesso una compagnia che condusse per vari anni con tempestosa fortuna. Levatosi dal capocomicato, ritornò scritturato per un triennio con Ernesto Rossi : ma dopo alquanti mesi, colpito da febbre tifoidea in Faenza, vi morì in pochissimi giorni nell’anno 1863.

Casilini Amalia. Nata da Eugenio Casilini buon amoroso, poi buonissimo generico primario, e da Enrichetta Romagnoli figlia di Luigi e di Rosa, la celebre servetta, cominciò ad apparir sulle scene in parti di bimba. Giovinetta ancora, recitava parti di generica il 1853 in Compagnia Sadowski-Astolfi, nella quale s’ebbe molte lodi per la Contessa di Cerny nelle Memorie del Diavolo. A diciotto anni fu scritturata co’ genitori da’ soci Antonio Colomberti e Carlo Romagnoli, zio di lei, quale prima donna giovane assoluta. Passò nel ’66 in Compagnia Peracchi ; poi, per due anni, qual prima donna assoluta, in quella formata da suo padre in società col Colomberti. Fu per un triennio scritturata nello stesso ruolo da Ernesto Rossi, poi dal Bertini. Formata suo marito società con Luigi Biagi e Salvator Rosa dal ’71 al ’75, ella ne fu la prima donna. Entrò quindi a far parte della Compagnia di Alamanno Morelli quale seconda donna, e prima (di spalla) sotto l’Adelaide Tessero, della quale, gravemente ammalata, sostenne con lode un intero carnevale al Manzoni di Milano il difficile repertorio.

Castagnola…….. Nobile padovano che recitava nella Compagnia del famosissimo Ruzzante, sostenendovi il personaggio di Bilora. Vedi il secondo de’ dialoghi in lingua rustica, in cui sono interlocutori : Bilora e Pittaro villani, Dina moglie di Bilora, M. Andronico venetian, e Tonin bergamasco, suo fante. Il dialogo è de’ migliori e le scene fra Dina e Bilora e fra Bilora e il vecchio Andronico ove son descritti gli amori di questo per Dina son della più schietta comicità.

{p. 606}Castiglioni Leonora. Per quante ricerche fatte a Ferrara, a Mantova e altrove, non mi fu possibile rintracciar altre notizie su questa comica, che le due lettere, che metto qui ; di cui una comunicatami dal cav. Azzolini, e una dal conte Malaguzzi dell’Archivio di Modena.

Ill.mo Sig.re et Pad.e Coll.mo

L’allegrezza che mi ha apportato la sua cara lettera, per vedere ch’ella tien di me memoria, ben che sua minima nell’operatione, ma nell’affetto riuerente serua maggiore, vien mitigata oltre modo dal quasi accertarmi ch’ella non ritorni in Ferrara p. q.º Carnev.e e ben che alle cose impossibili vi sia maggior rimedio il non più pensarci, io non potrò non pensare a quegli onori che la sua presenza mi concedeua, et al mio sommo desiderio di seruirla di persona : dorrommi della mia pouera ventura. l’amoreuole proferta ch’ella mi fa si nuovo della sua casa, sarà da me accettata nelle occorrenze, et me li chiamo sempre più obligata, mi duole grandem.te che le comedie di costì non li piaccino, nè possa qui goder le sue che p. la dio gratia a tutti q.i Sig.ri danno il solito gusto, ancorchè i Comici siino p. l’absenza di V. S. Ill.ma quasi smarriti, et io più di loro trauagliata. li scrissi jeri che sabbato prossimo faremo i 7 infanti dell’ara con machina nel prologo dell’Aurora, ma doppo la mia lettera vennero in mia casa gl’ Ill.mi Sig.ri D. Ascanio, et il fratello del Sig.r Duca Conti, et mi portarono versi p. doi altre machine, cioè il sole che p. non ueder il tradim.º che corse nell’opera si asconde, et il terzo, Nemesi Dea del Gastigo palesa che i traditori saranno puniti, come si uede nel fine di detta opera. Fatte che saranno, hauiserò V. S. Ill.ma come riescirà il tutto. Circa della memoria ch’ella tien di me nell’interesse dell’Ill.mo Sig.r Duca Conti, non saperei se non con il cuore tacitam.e ringratiarlo, et attenderne gl’effetti, a suo piacere. Mio marito, et io se li dedichiamo di nuouo veri serui et li facciamo riuerenza.

Di Ferrara li 15 feb.º 1634.

Di V. S. Ill.ma

Ill.mo Sig.re et padron Coll.mo

I Comici a quali mio marito, già molti giorni sono, promesse per le nostre due parti, sono quelli che il Sig.r Cinzio nella sua li descrive ; che giudicati buoni, e per esserui il detto Cinzio, presi ardire col fauore di V. S. Ill.ma d’offerirli a Sua Altezza Ser.ma mio sempre riuerito padrone suplico dunque riuerente la bontà di Sua Altezza Ser.ma a non rendermi per questo indegna della sua gratia, poi che il tutto scrissi con puro affetto di riuerentemente seruirla, e farle saper il uero del passato perche mi scrisse V. S. Ill.ma che si sapeua ch’io non ero in parola con nissuno.

Hora con questa sua consegnata dall’Ill.mo Monsig.r Bentiuogli suo nepote a mio marito, mi persuade a non rifiutare il fauore che mi uien fatto da cossi gran principe di mettermi nella sua Compagnia con mio marito, rispondo a V. S. Ill.ma che la maggior brama ch’io mi habbi, e di seruir Sua Altezza Serenissima ma lo accomodarmi con il Sig.r leandro, e Brighella, e quell’estremo dolore che mi fa, con hogni humiltà, suplicare il Ser.mo Sig.r Duca a comandarmi più tosto che io mi rimanghi di recitare, che il {p. 607}riunirmi con loro. le cagioni sono tante, e tali, che mi uergogno di fargliene riassunto, non che minuto. e mi creda per quella riuerenza che si deue, e ch’io osseruo al Serenissimo padrone : che se mio marito non fosse in’atto all’armi per la infermità della podagra, che sarebbe stato necessitato a perderci la uita, o farla perder ad’altrui ; poi che il loro fine, e stato d’oltraggiarmi nella riputazione, e danneggiarmi nell’utile ; e giornalmente con termini insofferibili, non cessano di prouocare l’altrui incredibile pacienza : e massime doppo che hanno riceute le lettere di V. S. Ill.ma per parte del Serenissimo Sig.r Duca. di quanto scriuo gliene potrà far fede il nostro Beltramme che sempre a procurato l’unione di questa compagnia, et ora ne confesso l’impossibilità. si come mi rimetto allo stesso che dica s’io mai diedi occasione a niuno dei sudetti di maltrattarmi. spero che le mie potenti ragioni appresso la natural Clemenza di Sua Altezza Serenissima mi faranno degna della grazia che humilmente suplicando le chiedo di non esser non questi doi. et io come riuerente serua di Vostra Signoria Ill.ma la prego a proteggermi, et a compassionarmi, e uietar ch’io sia con li sudetti leandro e brighella, che sarà tanto, quanto il conseruar la uita, e la salute dell’Anima, ad una sua riuerente serua. Con che fine offerendomi a pregare iddio per l’intera felicità del Serenissimo Sig.r Duca e di V. S. Ill.ma unita con mio marito riuerenti gli si inchiniamo.

Roma li 13 feb.º 1630.

Di V. S. Ill.ma

Aff.ma Serua

Leon. ra Castig. ni

Catani Carlo. Recitava le parti di amoroso al S. Carlino di Napoli, impresarii Tomaso e il nipote Salvatore Tomeo. Scritturato dalla Pasqua di Resurrezione del 1788, scappò a Roma coi denari anticipatigli per la scrittura. Pare però che le cose si accomodassero, poichè oltre alla scrittura continuata dal 1789 al ’90, con documento prodotto dal Di Giacomo del notajo Pietro de Roma, di Napoli, troviamo il Catani dopo il Buonamici nell’elenco de’ comici del S. Carlino pel 1796.

Catolini Antonio. Il 31 ottobre del 1736 esordì come arlecchino nella Surprise de l’amour, e tentò di acquistarsi l’indulgenza del pubblico col seguente discorso che traduco dagli Annali del Teatro italiano di D’Origny.

Signori, voi potete essere certi della mia paura : le ragioni da cui è motivata vi son note ; esse sono assai solide ; e se non ne trovo altre che mi dieno animo, voi non avrete in me che un attore timido, e però noiosissimo.

Esordisco oggi in un carattere nel quale mi si giudicherà per confronti : se così è davvero, è meglio che non cominci. Chè, se voi, Signori, non iscacciate dalla vostra mente l’attore che ha meritato e merita ogni giorno il favor vostro per le grazie ognor nove ond’è ornato e pei vent’anni di servizio, che sarà di me ? Più l’attore di cui parlo è ricco di grazie, di genio, di arte, di tutto ciò in somma che in altri si cercherebbe in {p. 608}vano, più l’accostarglisi è difficile. Ma v’ha, se un altro non sia interamente cattivo, oso dire che voi non dovete rigettarlo. Qui mi par d’udire alcuno di cattivo umore…. — Cotesta è un’impertinenza. O perchè fate l’arlecchino ? — Per imparar sotto si gran maestro a recitarlo bene…. — E io sarò il padrino minchione del vostro noviziato ? — E nol siete ogni sera di gran parte degli esordienti ? Perchè non avrei io i vantaggi degli altri ? — Ciò è ben diverso. Non si deve recitar l’arlecchino, che quando si è ben certi di piacere e di far ridere.  — Bene, o Signori. In capo a dodici anni io prometto di farvi ridere. Pensate di grazia che l’arte non si ottien che col grande esercizio. Datemi animo, vi prego. — Bravo ! Se io v’ incoraggio, voi prenderete per sinceri i miei applausi, e crederete di meritarli. — No, Signori ; io vi prometto di doventare superbo, solo allora che io mi creda sicuro del fatto mio. — Sia così ! Vediam dunque che sapete fare.

L’oratore fu applaudito, ma l’attore a mala pena ascoltato.

Morto Vizentini, il celebre Thomasin del Teatro italiano, Catolini tentò di sostituirlo, riapparendo la sera dell’8 ottobre 1739 nella parte di Arlecchino Hulla ; ma anche ’sta volta fu poco più che tollerato, e dove cedere il posto ad Antonio Costantini, figlio natural di Costantino Costantini, il rinomato Gradelino.

Catroli-Zanuzzi Elisabetta, padovana, fu attrice assai pregiata per le parti di serva, che sostenne al Teatro di S. Luca in Venezia, quando Carlo Goldoni ne era il poeta comico. Recatosi egli a Parigi, la Catroli abbandonò quel teatro per entrare in compagnie nomadi, nelle quali seppe mantenersi in quel grado di riputazione che aveva acquistato coll’arte sua, accompagnata alle grazie della persona. Vestiva con tanta attillatura – dice Francesco Bartoli – che fu l’esempio del buon gusto alle donne in allora sue compagne.

Nella lettera del Goldoni allo Sciugliaga (carteggio, 205) riguardante la distribuzion delle parti nella Trilogia di Lindoro, sono alcune particolarità che toccan la Catroli. Quanto al Lindoro, non essendovi più l’Arlecchino, si poteva benissimo servirsi del moroso Camerani…. Ma per la donna ? Chi aveva da fare la serva ? Io stimo la signora Catrolli, ma questa parte non è adattata alla sua abilità. Dal che si capisce chiaro che la Catrolli era la vera e propria servetta, spigliata, birichina, intrigante, piena di furberie, punto tagliata a rendere i timori, i dolori, le inquietudini, le lagrime di Zelinda.

{p. 609}Però se la Catrolli non poteva far Zelinda, a chi si sarebbe potuto affidarla ? Alla Bresciani ?… Apriti cielo ! La signora Catrolli non lo avrebbe permesso. E il povero Goldoni per queste ragioni dovè abbandonar quell’anno (il 1764) l’impresa di rappresentar la trilogia, trovando il disegno di più facile esecuzione l’anno di poi, nel quale avrebbe potuto affidar le parti de’ due innamorati servitori al fratello e alla sorella Majani.

Nella seconda e terza commedia – aggiunge il Goldoni – vi è bisogno di una seconda serva, e se la signora Catrolli non volesse farla, com’è probabile, si potrebbe far supplire ad una ballerina, o alla figlia del sig. Rosa. Il che potrebbe star a provare quanto la Catrolli tenesse, forse anche troppo, alla sua dignità artistica, a quelle benedette convenienze teatrali che furon sempre la disperazione del povero Goldoni.

Con alcuni avanzi – aggiunge il Bartoli – da lei fatti nel mestiere, e con l’assistenza del fratel suo (Francesco Catroli, comico anch’esso) potè circa dieci anni sono (1772) abbandonare del tutto il teatro, e vivere a sè stessa ritirata in un angolo della città di Venezia segregata sino al dì d’oggi dal commercio, non solo de’ comici, ma quasi interamente del mondo.

Cattoli Giacinto. Bolognese, comico del Serenissimo di Parma Antonio Farnese, fu attore di assai pregio per la maschera dell’Arlecchino, sotto nome di Tracagnino (nel linguaggio romagnolo risponderebbe al Tombolotto de’Toscani). Fu da principio al servizio del Duca di Mantova, poi dopo il 1708, passato quel Ducato in potere dell’Imperatore Giuseppe, il Cattoli portossi a Venezia, dove ebbe sempre impiego ; così Fr. Bartoli.

Nel 1716 era a Bologna, come vediamo dal sonetto che qui pubblico per gentile comunicazione del signor Pietro Pieri, antiquario di Roma, fedelmente trascritto da un foglio volante largo 40 centim., alto 58, che contiene in cima il presente ritratto.

[n.p.][http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img026.jpg]

{p. 611}

GIACINTO CATTOLI DETTO TRACAGNINO
comico di s. a. s. il sig. principe Antonio Farnese di Parma

Dedica umilissimamente il proprio Ritratto in segno
di riverentissimo ossequio, ed obbligo

AL MERITO GRANDE DEL NOBIL’UOMO
IL SIG. CONTE ANTONIO ESTENSE MOSTI

Non vi ramenti Antonio Avi possenti
Ne quel Tralcio Regale, onde scendete ;
Ma la natìa Virtù, per cui splendete
Onor di Voi medesmo, e delle Genti.
Questa, che al vostro piè fia s’appresenti
Giocosa Immago è vil, come scorgete,
L’Immago è di Colui, che render liete
Le Scene vi solea co’ rozzi accenti.
Pregio sarà, che sovra ogn’altro ascenda,
Se l’onor d’un sol guardo or le donate,
Benchè per sua viltà già non l’attenda.
Ma sol perocchè ognun, queste malnate
Mie sembianze mirando, indi comprenda,
Quanto coi Vili ancor Gentil voi siate.

Il 21 ottobre del 1720 inviava da Piacenza al Duca di Modena la seguente supplica, tuttavia inedita, che tolgo dall’Archivio di Stato di Modena, per gentile comunicazione del Direttore conte Malaguzzi.

Ser.ma Altezza

Non Auendo potuto Auer l’onore di seruire l’Altezza Vostra Serenissima questo Carnouale per eser io impegnato in Ferrara à Benche il male sia deriuato dà chi poteua impegnarmi Auanti di Ferrara Auendone io fatto là Ricerca ; Tutta Via esendo io disochupato quest’Autunno, se mai l’A. V. gradise di Voler ch’io mi portasi in modona Con la Compagnia niente inferiore à quella che Ci Verà il Carnouale ; quando io sia Chiamato dal A. V. questo solo mi Basta, per Ottenermi Licenza è Teatro, ma quello del S.r Co : Ottauio Rangoni Con quel Vtile che Vorà darci ; So che il Regalo del Ser.mo S.r Duca non potrassi auere per eser destinato per il Carnouale in presto Basterami là Generosita di V. A. S. ; Se questa mia Vmilissima Oferta fosse dal A. V. Gradita ed’Acetata, Saria necesario che {p. 612}L’A. V. me ne facese subito Auertito Aciò che io non prendesi Altro impegno, esendo in tratato ed’Atendero L’impegnarmi sino alla Venuta delle Letere di modona ; perdoni V. A. questa mia temerita, non esendo stato Altro il stimolo che l’Ardente Brama ch’io nutro d’Auer l’onore di seruire l’A. V., Là mia Compagnia è Composta tutta di Giouentù, Bone maschere, è Ben Vestita ; Atendero Stimatissimi Cenni di V. A. è Col Umigliarle i miei Riu.mi Rispetti mi Costituisco

Di V. A. S

Vmile è Riu.te Suplica al A. V. S.

Per

Giacinto Cattoli d.to Tracagnino

Comico del Ser.mo di Parma

Probabilmente fu la stagione di primavera del 1728 a recitare a Modena, come si rileva da una viva raccomandazione del Farnese al Duca Suocero, la quale comincia :

Desiderando ogni maggior uantaggio alla Compagnia Comica del Cattoli da me riceuuta sotto la mia Protezione, mi prendo la confidenza di pregare uiuamente V. A. acompiacersi d’accordare Alla medesima la permissione che possa fare le sue recite in cotesta Città doppo le Feste della prossima Pasqua etc. etc.

Lo troviamo poi nel’39 a Bologna, dove, secondo una indicazione nel diario del Barilli (Ricci. T. di B.) morì il mese di dicembre. La sera del 27 dicembre, con pompa funebre fu portato alla sepoltura alla sua chiesa parrocchiale di S. Michele del Mercato di mezzo il famoso Tracagnino Cattoli, compianto universalmente da tutti li Tracagnini per essere lui l’unico in tale professione, e vi erano tutti questi comici dietro con torcie accese.

Cattoli Francesco. Figlio del precedente, fu degno successore di lui nella maschera di Tracagnino che sostenne lungo tempo al S. Luca di Venezia, al servizio di S. E. Vendramin. Nel diario di G. Zanetti, pubblicato da F. Stefani nell’Archivio Veneto del 1885 (Tomo XXIX, 98) alla data delli 8 di ottobre del 1742, è detto che i comici del S. Luca eran ottimi rappresentatori di commedie ; e specialmente l’Arlecchino, ch’era un uomo piccolo cognominato Catoli da Parma, si distingueva sopra gli altri. Dopo di aver fatto monaca una figlia e addottorato un figlio, si ritirò, dopo il carnevale del 1763, dalle scene, pensando di vivere gli ultimi suoi anni agiatamente e in pace col danaro lasciatogli dal padre, e con quello da lui {p. 613}guadagnato. Ma recatosi a Vicenza per sostituirvi il famoso Arlecchino Antonio Rubini, morto in quei giorni, fu còlto anch’esso dal male che lo condusse in capo a pochi dì al sepolcro. Francesco Cattoli lasciò di sè stesso – ripeto le parole del Bartoli – la fama d’eccellente comico, e d’onesto insieme ed onorato galantuomo.

Cavalieri Bartolommeo. Dice Francesco Bartoli : « Fu marito della Giustina Cavalieri, di cui si farà menzione qui appresso. Recitò da innamorato per qualche tempo, ma poi diessi alla fatica di suggerire. Scrisse varie commedie, e fra le altre Il Genio benefico, commedia con trasformazioni, e L’avarizia combattuta dal punto d’onore. Morì in Milano nell’anno 1775. »

A queste si dee aggiungere un libretto per musica L’Impresa d’opera, dramma giocoso da rappresentarsi nel Teatro Giustiniani di S. Moisè il Carnevale dell’anno mdcclxix. (Venezia, stesso anno, appresso Modesto Fenzo), che trovo nella raccolta Corniani della Braidense di Milano. La musica fu del celebre maestro signor Pietro Guglielmi, e fra gli attori era per la Madama Minima Laura Cavalieri.

A istanza di lui fu anche pubblicata in Bologna la supplica ricorretta ed ampliata del Barbieri (Beltrame), e il libretto della Scena Illustrata, preziosa raccolta di notizie su’comici antichi, più volte citata dal Bartoli, ma fin qui non trovata.

Della morte di Bartolommeo Cavalieri ecco l’atto tolto dai Registri di S. Giovanni Laterano (1699-1787) in Milano, gentilmente comunicatomi da Ferdinando Martini.

Mille settecento settantacinque il giorno dieci di Giugno.

Bartolomeo Cavalieri, che fu marito della signora Giustina Bercelli, d’anni quarantacinque, munito de’ Santissimi Sagramenti della Penitenza ed Estrema Unzione, esercitato negli atti di Fede Speranza e Carità ebbe la benedizione Papale coll’ Indulgenza Plenaria in Articulo Mortis e fattagli la raccomandazione dell’anima passò da questa a miglior vita il giorno dieci, assistito fino all’ultimo da Rev. Sacerdote Antonio Bertolotti vice Curato di S. Giovanni Laterano ; il di lui cadavere fu seppolto in questa mia chiesa Parrocchiale di S. Giovanni Laterano con funerale privato.

Il Cavalieri era nato dunque il 1730 ; e, secondo l’atto che è nel Registro manoscritto appartenente al Magistrato di {p. 614}Sanità, dei morti nella città e nei suburbi di Milano, morì ex febri acuta, sine pestis suspicione iudicio Patrini Medici chirurgi Sanitatis.

In una nota di esso Martini, avendo il Cavalieri per moglie, secondo l’atto di morte, una Giustina Bercelli, e secondo il Bartoli (V. il seguente articolo) una Giustina Faggi, è giustamente domandato : La sposò il Cavalieri, in seconde nozze ? Ma come non se ne terrebbe conto nell’atto di morte ?

Alle quali dimande non mi par facile il rispondere. Forse, trovandoci di fronte a una figlia adottata, e però, forse, naturale, il Bartoli ci ha dato il nome della madre o altro tolto a prestito, invece di quello, fin allora ignoto, del padre ; il quale poi, in occasione del matrimonio avrebbe riconosciuta la figliuola. Ciò anche spiegherebbe la identità del nome di Giustina.

Cavalieri Giustina. Moglie del precedente, adottata per figliuola dall’attore Campioni, fu una egregia attrice per le parti all’improvviso che sosteneva con molta spontaneità ed eleganza di parola. Morto il Campioni, ella entrò col marito nella Compagnia di Pietro Rossi, dove, al fianco dell’amoroso Leopoldo Maria Scherli, potè mostrare tutta la sua valentìa. Fu in Padova nel 1767, applauditissima : e terminato il Rossi l’impegno col Teatro del Marchese Obizzi, vi subentrò ella capocomica in società col Bugani sino al ’75 ; nel quale anno si condussero a Venezia nel Teatro Grimani a S. Gio. Grisostomo, in società colla Maddalena Battaglia, con cuis stette cinque anni, per passar poi a seconde nozze in Verona, abbandonando definitivamente la scena.

Parlando il Goldoni in una lettera da Bologna a S. E. Francesco Vendramin (21 agosto 1759) di alcune modificazioni da introdursi nella distribuzion delle parti degli Amori di Alessandro, dice : La parte della Majani è di una giovinetta alquanto innocente ; la Catroli non pare fatta per questo. Quando si dovesse cambiare, piuttosto la parte della Majani converrebbe alla {p. 615}Cavalieri, ma anche ciò meriterebbe la critica. E nell’altra lettera allo Sciugliaga (V. Catroli Elisabetta) alludendo alla protagonista negli Amori di Arlecchino c Camilla (Zelinda e Lindoro), e all’intendimento di adattar la parte alla signora Bresciani, dice : la signora Giustina si sarebbe opposta.

Cavalletti-Tessari Carolina, nata in Gorizia il 1794 dagli artisti drammatici Francesco e Gaetana Cavalletti (V. Battaglia Carlo), non aveva compiuto i quindici anni, quando nella Compagnia di sua madre e del patrigno Francesco Toffoloni, entrò a sostenere il ruolo di prima donna ; nel quale tanto e in sì breve tempo s’innalzò, che Salvatore Fabbrichesi la scritturò nelle veci di Anna Fiorilli Pellandi, quando questa s’unì in società con Paolo Belli-Blanes : e seppe la Cavalletti vincere allora con l’arte sua calda e spontanea la reluttanza del pubblico milanese che credeva di dover sempre sentire la mancanza della celebre artista. Il 3 dicembre 1812 creò in Verona la parte di Mistriss Herfort nell’Atrabiliare del Nota, facendosi molto applaudire ; e il Giornale del Dipartimento del Reno di Bologna del 14 aprile così parla di lei :

…. Alla giovinetta Sig. Carolina Cavalletti che sostiene le parti di [ILLISIBLE] l’attrice a fronte di sì illustri soggetti capaci di adombrare il merito dei più provetti, debbesi molta lode e incoraggiamento. Voce robusta e modulata, disinvoltura comica, pronuncia non ricercata sono le doti, che assicurano a questa giovinetta di belle maniere, un posto onorevole in un rango cui poche possono aspirare nell’età sua.

E gli illustri soggetti si chiamavano Tessari, De Marini, Prepiani, Modena padre, ecc.

Doventò in quel tempo sposa di Alberto Tessari, ottimo padre nobile e tiranno tragico ; e fu con lui scritturata dal Fabbrichesi pe’ Fiorentini di Napoli, ov’ ebbe dapprima le più schiette attestazioni di stima, terminando col suscitare il più spontaneo entusiasmo, e specialmente nell’Ambiziosa del Nota, nella Matilde del Monvel, nella Medea del Ventignano, nei Baccanali del Pindemonte, nel Sospetto funesto del Giraud, nel Matrimonio di Carlo Goldoni del Righetti. Scioltasi il ’24 dal {p. 616}Fabbrichesi formò un’ ottima Compagnia in società con Francesco Visetti e Giovanni Prepiani, e si recò al Valle di Roma, rinnovando il successo di Milano e di Napoli. Tornò il ’25 a’ Fiorentini, a Napoli, colla società stessa, e quivi rimase fino al ’40, stipendiata da quella real Corte. Diventò pel ’40-41-42 prima attrice madre della Compagnia Verniano, dalla quale si tolse, per ritornare il ’43-44 capocomica al fianco del marito.

Abbandonato poi entrambi il teatro, si ridussero a Verona, patria del Tessari.

Il Regli, dopo di aver detto che all’ultima recita di Alberto Tessari, e a quella di sua moglie (a’ Fiorentini di Napoli), il pubblico piangeva, e applaudiva con quello spontaneo trasporto, che è figlio della convinzione, scrisse di lei :

Tessari Carolina era sorprendente per la robustezza de’suoi polmoni, per la voce maschia ed insinuante. Artista eccellente, sapeva far aggradire anche le produzioni più strambe e bizzarre. De Marini volevala sempre a compagna, perchè sapeva cogliere a volo le sue inspirazioni, e maravigliosamente secondarlo. Forse fu poco dignitosa perchè un po’ tozza di persona e piuttosto pingue ; ma nell’esprimere la gelosia, la rabbia, il furore, la pazzia, non aveva rivali. Spese somme favolose nel vestire così all’antica, che alla moderna. Parecchie dame adottavano le mode francesi dopo averle viste in teatro da lei, e la mandavano a interrogare dalle loro sarte, per non esserle inferiori almeno da questo lato. Non frequentava nessuna società, amantissima della propria casa e dello studio. S’occupava continuamente dell’arte, e il suo repertorio era vastissimo.

Bernardo Giulini-Golfi di Arezzo dettò in onore di lei il seguente sonetto :

Il volto, ov’ hanno Ebe e le Grazie il trono,
la pura amabil voce, onde i cor tocchi,
rari pregi a trovar, tuoi pregi sono,
e il passo e il gesto e il balenar degli occhi.
{p. 617}Cingi pur, delle muse illustre dono,
i dorati coturni o i lievi socchi ;
a tua voglia or diletti, or fai, che al suono
de’ tuoi flebili accenti il pianto sbocchi.
In tutto il suol, che l’alpe e l’onda serra,
un’eco ascolto, che festosa plaude
all’alto grido dell’Etrusca terra.
Nata l’alme a rapir, prode Tessari,
degna che miglior cigno offrati laude,
l’invidia istessa a farti omaggio impari.

Al qual sonetto faccio seguire una ode, pubblicata in foglio volante, e gentilmente comunicatami dal signor Pietro Pieri di Roma.

alla sublime attrice

la signora

CAROLINA CAVALLETTI

TESSARI

che in giovanile età sostenendo il carattere di prima donna

su le scene del teatro valle

nel carnevale dell’anno 1815

ha riscossi plausi veraci ed universali per la rara maestria nella difficil arte

della declamazione

ODE

Qual su i mattin d’Aprile
Vola di fiore in fior
La breve Ape gentile
Formando il suo tesor ;
Su la vetta Dircea
Talìa rivolge il piè
La Primavera Ascrea
A impoverir per te.
A teatral talento
Natura in te riunì
Incantatore accento,
Che ogni alma impietosì.
Come le guance tingi
D’innocente onestà
Se la difficil fingi
Cara semplicità !
Dalla tua voce scende
Magica non so che ;
Si sente, e non s’intende ;
Ma d’ogni affetto è Re.
Su la Dircea Collina
La Musa i fior trecciò,
Poi disse : a CAROLINA
E verso te volò.
Ma il Genio, che godea
Già Roscio coronar,
Dalla balza Tarpea
Ferma : s’udì gridar.
Ferma : l’onore è mio
Disse, e il serto rapi,
E ad insultar l’oblìo
Te cinse, e poi spari.
In Roma dai Torchi di Crispino Puccinelli in Via Valle, n. 53. (Con lic. de’Sup.).

{p. 618}Cavalli-Cristiani. Figlia di artisti, cominciò a esser nota in arte come prima donna giovane della Compagnia Goldoni-Riva. Fu nello stesso ruolo, il 1820, col Fabbrichesi, il quale, quando condusse il ’24 la Compagnia a Trieste, l’assunse al grado di prima donna assoluta. Aveva la Cavalli sposato a Napoli l’amoroso Demetrio Cristiani ; e con lui, scritturato dalla società Tessari-Prepiani-Visetti quale caratterista, tornò il ’25 a Napoli, ove dopo alcuni mesi morì.

Cavallini-Privato Emilia. (V. Privato).

Cavallucci Bartolommeo, romano, fu assai pregiato da’suoi concittadini nella maschera di Pulcinella. In un discorso dell’Arte Comica, dato in luce nel 1750 da un certo Dottore, medico di professione, fu chiamato un altro Roscio de’ nostri tempi. E Fr. Bartoli, da cui tolgo la notizia, aggiunge ch’egli fu un Pulcinella molto famoso ; e che seppe distinguersi fra quanti s’esercitarono in quel ridicolo Personaggio. Morì a Roma nel 1746, sostituito al Teatro Valle da Francesco Barese. (Cfr. Di Giacomo, op. cit.).

Cavallucci Antonia. Figlia del precedente. Benchè lodata nel citato libretto dell’Arte Comica (v. art. prec.), a’primi passi nell’arte, distrusse in breve ogni speranza fondata sul suo avvenire, passando meschinamente la vita in compagnie d’infimo ordine, e finendo poi, vecchia e abbandonata da’ compagni di ogni specie, infermiera nell’ospedale di Udine.

Cavazzoni Giovanni Andrea. (V. Zanotti).

Cavicchi Giovanni. Ferrarese, nacque il 1765 da onesta famiglia che l’avviò agli studi legali. Ma ottenuta la laurea, egli risolse di non indossar la toga dell’avvocato, per abbracciar l’arte del comico. Esordì in una Compagnia di niun valore, {p. 619}dalla quale dovè uscire per disperazione. Tornato in patria ripensò all’avvocatura ; ma una giovinetta, attrice della Compagnia di Antonio Fiorilli gli fe’ di punto in bianco mutar pensiero. Scritturatosi quale secondo amoroso, ebbe subito campo di mostrare le sue forti attitudini, non discompagnate da ottime qualità fisiche e da una bellissima voce.

Dominando ancora le maschere sulla scena, abbandonò il Cavicchi gli amorosi per darsi tutto allo studio della maschera di Brighella nella quale riuscì mirabilmente, tanto che fu dal Fiorilli riconfermato per cinque anni come ruolo primario assoluto. Passò poi con la Marta Coleoni assieme alla moglie Francesca (il nome di famiglia non giunse a noi) egregia servetta, e assai probabilmente la stessa giovinetta, per la quale egli s’era dato all’arte. Bandite a poco a poco le maschere dalla scena, e però non trovando il Cavicchi più chi lo scritturasse, diventò conduttor di compagnia egli stesso. Era il 1824 all’Arena di Verona, ove, a detta di Antonio Colomberti, attore contemporaneo, recitava, se ben vecchio, con molto plauso, sotto le spoglie dell’astuto Zanni.

Ebbe numerosa famiglia, di cui era composta per metà la sua compagnia. Morta la moglie, maritò due figlie, una delle quali prima donna non delle peggiori, e l’altra egregia servetta. Morì d’aneurisma il 1838 in una locanda, ove s’era fermato col figlio maggiore per riposarsi la notte.

Ho seguito in questi cenni il notiziario del Colomberti ; ma, o egli ha fatto con errore evidente di due persone una sola, o il teatro ha avuto più di un Cavicchi brighella. Il 1820, in Compagnia di Andolfati era il Cavicchi Giovanni per le parti di caratterista, di cui dice laconicamente il Giornale dei teatri : non si può negare a questo attore un sufficiente talento ; conosce la comica ed è applaudito ; poi Cavicchi il giovine (unico per la maschera del Brighella). Ma come poteva questo Cavicchi giovine del 1820 essere il Cavicchi sentito recitar, già vecchio, nel 1824 dal Colomberti ? ? ?

{p. 620}Cazzola-Brizzi Clementina, nata a Sermide, provincia di Mantova, il dì 26 agosto 1832, dagli artisti Giuseppe Cazzola, capocomico, e Claudia Bragaglia, esordì nel 1848 al Teatro Re di Milano qual prima amorosa della Compagnia di Cesare Asti. Fu il ’48-49 con Papadopoli, Lottini e socii, il ’50 con Antonio Giardini, col quale cominciò a salire in rinomanza, il ’51-52 con Carlo Romagnoli e Achille Dondini, sotto la direzione di Cesare Dondini, prima attrice assoluta, nella qual Compagnia sposatasi a Giacomo Brizzi, passò dal Teatro Grande di Brescia a quelli di Trieste, Milano, Torino, Bologna, Livorno, Padova, trascinando il pubblico all’entusiasmo, che nella primavera del’55 al Valle di Roma diventò esaltazione, delirio. Entrò il ’60 nella Compagnia di Luigi Domeniconi ; diventò socia il ’61-62 di Tommaso Salvini, e fu scritturata il ’63 da Antonio Stacchini e il ’64-65-66, a’ Fiorentini di Napoli, da Adamo Alberti. Ma non potè compiere il suo contratto ; chè, sviluppatasi alacremente la tisi, dovè recarsi per consiglio de’ medici prima a Pisa, poi a Firenze, ove in capo a pochi mesi (il luglio del 1868) morì compianta da quanti la conobbero.

Clementina Cazzola non fu bella veramente, ma di assai viva espressione. I suoi occhi nerissimi mostravano or languidi, or lampeggianti lo stato dell’anima. Il metallo della voce, rispondente a ogni corda del sentimento, sapeva toccar l’anima, non pur degli uditori, ma degli artisti in scena con lei. Quand’era a’ Fiorentini di Napoli, nel ’65, Alessandro Dumas figlio, recatosi dopo la rappresentazione della Signora dalle Camelie, sul palcoscenico, disse alla Cazzola : « Io mi inginocchio dinanzi a voi. La Nazione Francese sarebbe orgogliosa di avere una tanta artista ; ed io sarei ben fortunato se avessi nel mio paese {p. 621}un’interprete come voi…. » Nè solo nella interpretazione della Signora dalle Camelie, ma in quelle ancora del Cuore ed Arte, dell’Adriana Lecouvreur, della Pamela, della Gabbriella, dell’Elisabetta, della Battaglia di donne, della Piccarda Donati, dei Gelosi fortunati, della Pia de’ Tolomei, e di cento altre opere o tragico-romantiche o drammatiche o comiche, non ebbe chi la uguagliasse, nè chi le si accostasse.

Ho detto tragico-romantiche : nella tragedia classica a lei mancava la fibra. E se, desiderosa di assurgere a somma altezza anche in quel genere, si diede con ogni studio e con ogni amore alla rappresentazione della Saffo e della Norma…. tragedie irte di difficoltà materiali, pur troppo ad esse più specialmente dovè la immatura sua fine.

Di lei così scrisse un acuto critico di arte, Enrico Panzacchi, ne’suoi Soliloqui artistici (Roma, Angelo Sommaruga, 1885) :

La Cazzola aveva in favor suo tutti i fascini d’una figura oltre ogni dire simpatica, della quale pareva che tratto tratto si sprigionassero gli aneliti d’un’ anima nobile, tormentata, infelice. Chi potrà mai dimenticare le sue occhiate lunghe e profonde e le sue grida appassionate rotte dal pianto ? In lei trovava sempre e di preferenza un’interpretazione efficacissima ognuna di quelle forme d’arte che erano in maggior voga vent’anni fa. Artista romantica per eccellenza. La passione era quasi sempre fra le nubi ; la voce dell’attrice la significava abbandonandosi a declamazioni deliziose come una melodia, poi a un dato momento quell’incanto ideale si risolveva in un particolare di verità viva e potente, quasi cruda. In questi contrasti, che parevano cercati nella poetica di Victor Hugo, era il massimo prestigio della Cazzola.

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{p. 624}E al proposito dell’Adriana Lecouvreur :

Il suo amore per il brillante e infedele principe di Sassonia, la Cazzola ce lo significava in una forma continuamente elegiaca. Nelle intonazioni della sua voce, nel gesto, nel muover degli occhi parea rivivere quella sensiblerie delicata e un tantino leziosa che era la forma obbligata dell’epoca e che il Taine ci ha così stupendamente risuscitata nella sua storia del Vecchio regime. Ciò doveva accadere naturalmente senza che la Cazzola si studiasse a farlo o s’accorgesse di farlo : fra quella sensiblerie e la passione romantica esistevano affinità segrete che in quel tempo un’artista vera doveva indovinare e cogliere per istinto.

A queste del Panzacchi faccio seguir le parole di due massimi artisti del nostro teatro di prosa.

Che dire di questa prediletta figlia di Melpomene e di Talìa ? Mi si perdonerà l’esorbitanza degli aggettivi qualificativi, ma certo chi ebbe la sorte di vederla e di udirla, li troverà inferiori e insufficienti ad esprimere il vero. Clementina Cazzola nacque nell’arte, e fino da bambina veniva chiamata l’enfant prodige. Figlia di umili artisti, possedeva dalla natura il sentimento del bello, e come dalla roccia si estrae il diamante, così Cesare {p. 625}Dondini tolse dall’oscurità questa preziosa gemma di pura acqua, alla quale sovrabbondava il fuoco, produttore dei raggi che abbarbagliano. L’intuizione psichica di questa attrice era unica più che rara. L’inspirazione mai l’abbandonava. La squisita e fine interpretazione dei caratteri, la minuziosa analisi d’ogni profondo sentimento, aveva in lei una riproduttrice esatta e fedele. Gli occhi, come due diamanti neri gettavano sprazzi di luce, e non potevansi fissare a lungo senza sentirli penetrare in voi a indagarvi ogni vostro pensiero. Le ugualissime perle della bocca servivano di specchio a chi le parlava, e il mesto e dolce sorriso vi svelava la candidezza dell’anima e l’esuberanza del sentimento. Nella Piccarda Donati era seducente : nella Vita color di rosa era meravigliosa ; nella Dama dalle Camelie era ammaliatrice ; nella tragedia Saffo, del Marenco, era immensa ; nella Pia de’ Tolomei era sublime ! In questa tragedia soprattutto raggiungeva tal grado di perfezione, da farvi credere ad un prodigio.

L’arte, che pur sempre si appalesa nel riprodurre la natura, si ritirava vergognosa di fronte all’eccellenza di quella realtà.

(T. Salvini, Ricordi, 130).

Non posso parlare di questo lucido astro dell’arte venuto per illuminare un momento il triste e oscuro nostro orizzonte, e poi sparito per sempre per lasciarlo nuovamente nelle tenebre. Clementina era il tipo incarnato dell’attrice romantica drammatica. Non era bella, ma la mobilità della sua fisonomia era tale, che appariva quello che ella voleva ; il suo sguardo or scintillante, or languido, esprimeva la gioja e il dolore a sua voglia o capriccio : di una mobilità eccezionale : più natura che arte : troppo contenuto in uno sdrucito recipiente. Chi la ricorderà nella Vita color di rosa, nella Donna in seconde nozze di Giacometti, e nella Signora dalle Camelie ? Ben pochi, forse nessuno : ma io sì : e dico con orgoglio a Clementina, e con rammarico per le altre — che ella fu grande, perchè fu vera, vera nel vero patologico e non in un forzato e ricercato verismo con combinazioni di nervosità che fanno della verità una menzogna, dell’arte un giuoco di prestidigitazione !

(Ernesto Rossi, Quarant’anni di vita artistica, vol. I, 166).

Fra le tante poesie scritte per lei scelgo il bel sonetto di Paolo Costa che le fu indirizzato nell’estate del 1858, a Faenza.

Di che loco beato, e di che stella
scese costei, che aggiorna l’età nostra ?
E chi gli atti Le diede e la favella
onde fra noi siccome Dea si mostra ?
Lei nova meraviglia il mondo appella,
Talia fra mille a dito la dimostra,
per Lei l’ausonia scena or si rabbella,
per Lei, Muse, va al ciel la gloria vostra.
Quand’Ella appare, da’suoi labbri move
uno spirto d’amore e di pietate,
ch’empie ogni petto di dolcezze nove,
sì che fa dire altrui : Quei che comparte
il ben quaggiù, La diede a questa etate
per mostrar quanto può natura ed arte.

{p. 626}Cecchini Pier Maria. Celebre nella Commedia dell’arte col nome di Frittellino, nacque a Ferrara il 14 maggio del 1563. Aveva esordito come semplice dilettante il 1583, regnando a Mantova Guglielmo Gonzaga ; ce lo apprende egli stesso in questa lettera del 30 marzo 1622 pubblicata in parte dal Baschet.

Ser. Sig. et solo mio Sing. Padrone

Ha piacciuto a Iddio doppo tanti anni di visitarmi con un figliuolo, il quale mi è stato caro, sì come figliuolo, ma molto più caro per haver ritrovato al mio ritorno di Ferrara che l’hanno rassegnato sotto il patrocinio di V. A. S., alla quale spero un giorno di essere perpetuo vassallo si come le sonno antichiss.º seruitore, posciachè il mio servitio comintiò sin l’anno 1583, nel cui tempo fui introdotto tenero giovineto a rappresentare alcune Comedie al Ser.mo S.r Duca Guglielmo, glorioso avo dell’A. V., il cui accidente convertitosi poi in natura io ho nel corso di 38 anni (con poca intermitenza) sempre servito alla S.ma sua Casa. Servij all’A. V. mentre era nel ventre della madre, et spero di servir nel ventre della Ser.ma Consorte la sua prole, che N. S. voglia, che sia in breve come lo spero. Intanto l’aviso dell’arrivo di Cintio et altri, dove daremo principio in uno di questi Theatri marti V di aprile, con che in sieme con mia moglie divottam.te mell’inchino et prego da Dio ogni compiuto contento.

Di Venezia il dì 30 marzo 1622.

Di V. A.

Hum.mo et Dev.mo Servo

Piermaria Cecchini.

{p. 627}Il 6 gennaio del 1591 è registrato dal Bertolotti (op. cit.) sotto il nome di Pietro Maria Chezzini, in compagnia del Canovaro e di quell’Austoni (Battistino) che diventò poi amministratore nella Compagnia da lui diretta.

Lo troviamo sul finir del 1595 a Firenze, come appare da questa sua lettera, diretta allo jll.mo et ecce.mo mio S.r et Patron Coll.mo jl sig.r Gia battista londerchi meritissimo secretario di S. A. S. di Ferrara, che traggo dall’Archivio di Stato di Modena.

Ill.mo mio Sig.re et Patron Coll.mo

Confesso di haver fato gran torto all’obligo jnffinito ch’io tengo à V. S. Ill.ma per l’jnfiniti fauori da lei ricceuti, non essendole [ILLISIBLE] ueputo a far riuerenza alla mia partita Come erra mio debito, ma fu la subita et jnnaspetata noua che mi uene di douer ritrouarmi al seruicio del ser.mo Gran Ducca con una Compagnia Principallissima fata per honesto passatempo delli jll.mi Cardinali mont’Alto, e monti doue sono stato e sono hora in Firenze, essendosi per la morte del Cognato partito per Roma lo Ill.mo mont’Alto ; sò che oso troppo, e troppo ardisco à scriuere à lei che se impiega in altri negocij che in leggere cosse che uenghino da sogeto cossi basso come è il mio, pur mi affida la Gracia sua è la vecchia seruitù ch’io le tengo, che se non le agradirà, non le spiacerà almeno di hauer udito ch’io le resto (qual sempre gli fui) suisserato seruitore, è pregherò sempre per lei è per la sua felliccissima famiglia che jddio la prosperi e conserui, frà tanto facendole riuerenza umilmente le baccio la veste.

Di Fiorenza alli 14 9bre 1595.

Di V. S. jll.ma

Seruitor Divottiss.º

Pier M.ª Cecchini.

Andò il 1600 a Lione, direttor della Compagnia l’Arlecchino Martinelli, pel matrimonio di Enrico IV con Maria De Medici che si celebrò il 17 dicembre ; poi a Parigi. E tanto ebbe dal Martinelli, famoso rivoluzionario nelle compagnie comiche, l’animo inasprito, che associatosi alla rivolta la Diana (la Ponti ?) lo accusò nientemeno che di volerlo assassinare.

Nell’ottobre del ’601 la Compagnia era ancora a Parigi, e nonostante le guerricciuole interne, tanto il Cecchini vi piacque che fu invitato, ma indarno, dalla Contessa Maria di Boussu a recarsi nelle Fiandre e in Brabante.

Fu in Francia una seconda volta, dai primi giorni di febbraio al 26 d’ottobre del 1608, e questa volta direttore e {p. 628}conduttore della Compagnia ; a proposito della quale il Duca Vincenzo in data 10 novembre 1607 annunziava al suo ambasciatore alla Corte Messer Trajano Guiscardi, Fritellino e sua moglie come i migliori personaggi non solo della sua compagnia ma di tutta Italia. A Parigi recitava prima all’ Hotel di Borbone presso il Louvre, poi all’Hotel di Borgogna pel pubblico, dietro istanza firmata da Battistino Austoni, l’amministrator della compagnia, per tutti i compagni qualificati Comici Italiani del Duca di Mantova.

Il successo della compagnia fu completo ; e Don Giovanni de’ Medici, che allora era alla Corte della nipote e tanto amore mostrava alle commedie, scrisse l’ 8 marzo al Duca di Mantova che la principal causa di quel successo era da attribuirsi alla valentìa e alla saviezza di Pier Maria detto Fritellino, che con gran perspicacia manteneva l’unione e l’accordo dei comici.

La sola volta è questa in cui Pier Maria Cecchini s’abbia una parola di lode concernente l’indole sua : ma è anche la volta in cui lo vediamo padrone assoluto della compagnia. E, senza dubbio, il miglior tempo della sua vita artistica fu codesto appunto, e quello (1613 e 1614) passato a Vienna alla Corte dell’Imperator Mattia che volle dargli patente di nobiltà.

Anche nel 1619 si adoperò, brigò, combattè strenuamente per la formazione della Compagnia che doveva andare a Parigi ; si diè d’attorno per espurgarla di cattivi elementi come il Pantalone pessimo comico, e la Baldina Rotari, pessima…. donna, e per rinforzarla di miglior gente, come un Pavolino Zanotti.

Ma le sue forze questa volta si trovaron misere di fronte a quelle dell’Arlecchino Martinelli, il quale aveva da vendicarsi di tutte le noie, che nel suo primo viaggio in Francia gli aveva procurato il Cecchini colle sue lamentazioni. Forse, chi sa, anche la seconda volta, nel 1608, il Cecchini riuscì a tornare in Francia direttore di compagnia a forza d’intrighi, e certo entusiasmò il pubblico e la Corte con l’arte sua. E questo ufficio accordatogli dal Duca, e questi entusiasmi forse, il Martinelli, {p. 629}anima indemoniata, non gli perdonò più : e mostrò la sua superiorità morale, uscendo trionfante nella lotta. Così, dopo tante assicurazioni di buona riuscita per parte del Cecchini, ove il Duca si attenesse alle sue proposte, vediamo il Pantalone rimanere in compagnia, e starne fuori il povero Cecchini e quel Pavolino Zanotti, divenuto, a detta di esso Cecchini, il grande emulo di Gabbrielli. Povero Frittellino !!! Che smacco ! E che accasciamento !… E come se ne doleva col Duca nella lettera che qui diamo riprodotta autograficamente.

[n.p.][http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img034.jpg]

Noi abbiam già assistito alle lotte noiose e dolorose, da lui sostenute con Giovan Battista Andreini (V.), delle quali non sappiam bene se si dovesse cercar la causa nel carattere bestiale della moglie Orsola che, gelosa di Florinda, gelosa della Rotari, gelosa di tutte, irruenta, violenta, aggressiva sempre, incitava il marito alla rivolta. Le lagnanze dell’uno trovan sempre a riscontro le lagnanze dell’ altro. Però, nella interessantissima lettera dello Scappino Gabbrielli (V.), mentre si sparla unicamente dell’arte di Lavinia, di Cintio, di Ortensio, di Mezzettino per metterli in disgrazia del Duca, venuto a parlar di Cecchini « Frittellino — dice — è buono da farsi odiare non solo da comici, ma da tutto il popolo, e lo vediamo con isperienza, poichè se volle compagni bisogna vadi per forza de prencipi, o che li pagi ; lasso il voler tirare più parte degli altri. » E più innanzi : « Chi vorrà Frittellino bisognerà pagare le anticaglie (allude alla moglie Orsola già vecchia per parti di fanciulla) e pigliare l’istessa discordia in Compagnia…. »

Non sappiamo se per potenza d’amore, o per ragion d’amor proprio o di mestiere o d’interesse, il Cecchini subisse codesto diavolo in sottana : ma è certo che nell’una cosa o nell’altra si dee ricercar la causa della lor serbata unione. Nel primo caso (e dati gli sforzi epistolari del Cecchini, e il suo delitto a tutela dell’onore ci appare il più probabile) c’ è davvero di che compiangere un povero marito ! Qual peccato che sia stata sin qui senza frutto la ricerca delle cento ottave e dei quaranta sonetti del cav. Marino !…

{p. 630}Il delitto, che vediam confermato nell’oroscopo tolto come gli altri da un codice della Nazionale di Firenze, è stato messo la prima volta agli occhi del pubblico dal conte Paglicci Brozzi (Il Teatro a Milano nel secolo xviii). Si tratta di una supplica diretta dal Cecchini a Don Giovanni Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Governatore di Milano, colla quale egli mira a ottenere un salvacondotto per recarsi da Torino a Milano a esercitar con sicurezza l’arte sua ; dacchè si trova a esser bandito in contumatia dalla città di Turino per la morte di un Carlo De Vecchi, anch’ esso comico. Il salvacondotto fu accordato in data del 3 giugno ’6oo, e il Cecchini si recò subito a recitare a Milano. Le cagioni della morte del De Vecchi sono chiaramente spiegate, nella dedicatoria al Marchese Ottavio di Scandiano delle Lettere facete e morali, in cui egli dice :

Un’ altra cagione (pur di momento) mi ha persuaso a raccomandarli questo puoco Volume, et è stato lo raccordarmi, ch’ io stesso fui caramente raccomandato alla protettione dell’ Illustrissima Sua Casa nel tempo, che riscaldandomi gli ardori della gioventù, mi rendevano tal’ hora bisognoso di un saluo ricouero per fuggir non so s’io debba dir lo sdegno, o pur il costume della Giustitia, la quale con il mezo dell’autorità, et bontà della felice memoria dell’ Illustrissimo Sig. Marchese suo genitore, mutò per me più volte il nome, & addimandossi Misericordia, ricercando così anche l’ honorate cagioni da me intraprese.

{p. 631}Non mi par cada dubbio sul significato dell’ honorate cagioni. Ma la Cecchini, da quella donna navigata che era, traeva poi argomento da tutto per mostrarsi di rigida austerità al cospetto del marito, sia per provargli il torto d’ingiusti sospetti, sia per farsi perdonare i falli trascorsi. A venti anni di distanza, quando l’Arlecchino Martinelli potè ottenere dal Duca di Mantova il diritto di far stare a dovere Frittellino, comandandogli come a soggetto, il fratello di lei, per nome Nicola, buona schiuma, amico, dice il Martinelli, sol di ladri e gente cattive, prese le difese del cognato, minacciando di morte tutti coloro che aveangli fatto dispiacere.

Di Pier Maria Cecchini abbiamo due opere teatrali : La Flaminia schiava ; pubblicata il 1610 a Milano, e L’Amico tradito, il 1633 a Venezia.

Ma le opere per le quali dobbiamo essere grati a Pier Maria Cecchini son quelle d’indole didattica, nelle quali unicamente abbiamo, come più volte ho detto, l’idea ben chiara di quel che potesse essere il comico a quei tempi e il suo modo di recitare.

I Brevi discor si intorno alle comedie, comedianti et spettatori, dove si comprende quali rappresentationi si possino ascoltare et permettere (Venetia, Pinelli, m dc xxi), sono una difesa delle Comedie oneste contro i lor detrattori fatta con molta chiarezza e molta vivacità, in cui troviamo qualche notizia interessante pel teatro e pei costumi.

Commentando, per esempio, il passo di S. Gio. Grisostomo che condanna gli attori come rovina dell’altrui patrimonio, conchiude :

Diremo adunque che quel glorioso Scrittore non hebbe altra intentione che di far sapere, che quelle genti erano instrumenti per far distruggere i patrimonij a quelli che avviticchiavano la mente in le lor tresche ; onde posiamo credere, che si come egli sempre santamente scrisse il vero, che così hoggi, vivendo, darebbe nome a i nostri comici di conservatori degli altrui patrimonj ; posciachè un miserabile scudo serve per lo trattenimento d’un mese a chi si diletta di veder comedia, con il qual prezzo si compra ancora quel tempo, che da molti potrebbe esser speso in quei trattenimenti, che somministrano viva cagione di spender non solo il denaro, ma con esso la robba, la sanità, la vita, la reputatione e l’ anima.

{p. 632}E più giù :

In Bologna, dove per lo più si recita il Verno, et dove sono sempre chiamate le buone compagnie ; al mio arrivo, già anni sono, mi fu detto da un Mastro Dionisio Bruni padrone d’ una bottega di carte da giuoco, le precise parole : « S’ io non amassi tanto voi e le vostre virtù, e s’ io non avessi qualch’ altro comodo fuori del mestier delle carte, non potrei fare di meno di non vi maledire, et desiderarvi ogni male, acciò lasciaste di venire in questa città, poichè siate cagione, che i ridotti si chiudono, e che con essi la mia bottega fallischi. »

Le Lettere facete e morali (ivi, m dc xxii) gli procacciaron da molti poeti una bellissima corona di sonetti, che poi non fece imprimere, egli dice modestamente, essendosi accorto, che per abbassare il suo povero stile non ci voleva altro che l’altezza de’ loro concetti (Lett. III).

Di molte sentenze son esse ricche, in cui è la prova evidente che il Cecchini era un profondo e fine osservatore. A un tale, per esempio, ricchissimo e non dabbene, egli scrive crudissime verità ; dice (Lett. XII) :

Credete ch’io non sappia che ricevete dispiacere da questa mia ? Io lo so ; ma, perchè non voglio nulla del vostro, per questo parlo con soverchia libertà. Dormite prima di rispondermi, il che doveva far anch’ io prima di scrivervi. State sano.

Ad altro, avvezzo alle adulazioni di una mala pratica, scrive (XLIII) :

S’io dicessi d’ amar assai più la vostra della mia salute, e ch’ io vorrei poter aggiunger a i giorni della vostra vita que’ della mia, userei di quelle parole, che sogliono usar i corteggiani desiderosi di farne baratto in tante pensioni : Ma perchè da voi altro non voglio, se non corrispondenza a non voler nulla da me, vi dico, che non più di me, nè quanto me v’ amo : ma sì ben tanto, che niuno dopo me amo più di voi.

A chi sparlava della sua nobiltà avuta dall’ Imperator Mattia, risponde (Lett. VI) :

Le meraviglie che mi scrivete, che s’ han fatto molti nell’arrivo della nuova, che Sua Maestà Cesarea m’ ha privilegiato di Nobiltà, non sono così grandi, come son quelle, ch’ io mi fo, quando veggo uno, che per antichità sia nobile, e per natura dissoluto ; dimostrando egli col giuditio, confermando col discorso, e approvando con le opere che molti villani sono più civili di lui. Sappiano quelli che si son maravigliati, e credano tutti, ch’è assai meglio l’ esser giudicato meritevole d’ esser gentiluomo, e perciò fatto, che di già essendo, si dica non esserne degno. In me comincia et in te finisce, mi ricordo d’haver letto che disse un filosofo ad un pretensore di nobiltà vitioso.

{p. 633}E per codesta nobiltà che con decreto di Vienna del 12 novembre 1614, firmato da Mattia e munito del sigillo imperiale, lo estolleva sopra al numero de’ Cittadini, ponendolo nella schiera de’ gentil’ huomini et pretendenti, come se di quattro Avi Paterni et Materni fosse nato nobile, e con tant’altre prerogative, tante noie ebbe a patire cagionate dalla invidia e sopr’ a tutto dalla incredulità, che risolse di pubblicar per intero il Decreto stesso, il quale si trova alla fine de’ Brevi Discorsi intorno alle Commedie.

Frittellino.

(Da una serie di dodici acqueforti antiche, riproducenti alcuni tipi della Commedia Italiana).

Dei Frutti delle moderne Comedie et avisi a chi le recita (Padova, Guareschi, 1628) abbiam già riportato i varj capitoli al nome dei personaggi che li concernono (V. Andreini Francesco, Andreini Gio. Batta, Bianchi (De) Ludovico, ecc.). Nulla ci ha detto sul modo di rappresentare la parte sua in genere, alla quale solo è accennato al principio del capitolo sul Primo e Secondo Servo : è cosa molto necessaria et molto dovuta nella comedia che dopo la parte di un servo astuto et ingegnoso il quale spiritosamente attendi senza buffonerie al maneggio della favola, che ne succedi un altro totalmente dissimile, ecc. ecc., e qui si dilunga a parlar dell’Arlecchino. Ma nel monologo, in cui Frittellino chiude il terzo atto della Flaminia Schiava, è ben descritta tutta la furfanteria e furberia del servo raggiratore ; e alla fine dell’Amico tradito Frittellino, {p. 634}presentandosi in scena esclama : « Eccovi, o Signori, il ritratto di tutte le scelleraggini, il compendio di tutte le furberie, e per dirvi tutto in una parola : eccovi Frittellino. » E a Cintio che gli consiglia di divenir quello che non fu mai, cioè huomo da bene, Frittellino risponde : io ho una cosa molto difficile : il far un esercizio che non si abbia mai imparato. Abbiam dunque nella sostanza un Brighella che ha semplicemente mutato di nome.

Ma un’opera ancor più interessante del Cecchini giace tuttavia inedita, per quanto io mi sappia, nella Biblioteca di Torino. Essa ha per titolo :

Discorso sopra l’Arte Comica — con il modo di ben recitare — di — Pier Maria Cecchini Comico — Acceso detto Frittellino,

ed è dedicata all’Ill.mo et Ecc.mo Sig.re Don Amedeo di Savoja col seguente sonetto :
Mira tall’ hor il pastorello errante
Del Biondo Dio, che ’l sacro Delfo adora
Superbo il tempio, e riverente odora
Di pretioso licor l’ara fumante.
È giunto al fine al chiaro nume accante
Tosto s’inchina, el sacro fuoco honora
Di latte solo, e poverello infiora
Di rose il legno placido, e sonante.
Tal’Jo ch’umile a riverir or vegno
Heroe celeste, in picciol carte accolto
Vostra pompa, è ’l mio cor mostrar m’ingegno.
Me in viva tela di colori involto
T’ofro l’imago mia, poichè men degno
Pregio mortal d’immortal lode è molto.

L’operetta consta di una introduzione, della breve raccolta in latino de’Sette preclarissimi Dottori, fatta da S. Tommaso, e che è già a stampa innanzi ai Discorsi citati, e di Sette Capitoli :

{p. 635}1. Modo di ben recitare. Qual sorte di persone dovrebbon recitar le Comedie.

2. Del gesto.

3. Della parola come si pronuncij.

4. Distintione delle parole secondo le parti.

5. Della Voce.

6. Sopra le parti ridicole.

7. Breve istrutione in generale a chi recita Comedie.

Molte volte, come nel gesto, o nella voce, ti vien fatto di trovar parole e frasi già dette ne’Frutti delle moderne Comedie, e non saprei dire se questi sieno un rifacimento in ristretto di quelli per la stampa, o se quelli sieno una parafrasi di questi pronta per una nuova edizione. A ogni modo vi si trovan concetti o meglio chiariti o nuovi di zecca, i quali mostran come al Cecchini stesse a cuore l’estetica in ogni sua parte, e i quali potrebber senza togliere e aggiunger loro un ette, attagliarsi a’comici dell’età presente.

Di codesti capitoli verrò trascrivendo quelle cose che più mi pajon degne di nota.

(Dal Cap. I) :

Prima che si lasciasse comparire alcuno in su le pubbliche scene, bisognerebbe intendere quel ch’egli sa, perchè vuol recitare, e se è instruito dell’ordine che si tiene, che in questo modo molti che vengono a far comedie per non lavorare, tornerebbero a’ lavor senza far comedie, e certo che questo sarebbe cagione di molti beni.

Il primo e più importante sarebbe, ch’inviolabili s’ osserverebbono le leggi del recitare, nè s’inciamperebbe per balordaggine in parole, che punto si allargassero da gli honorati e lodevoli confini del honestade, nè ci sarebbe tanta copia di sviati e Ciarlatani, che così spietatamente lacerassono questa povera comedia, la qual mi par tuttavia di udire che pianga e si lamenti per esser non solo per le bocche di molti ignoranti ; ma ne’meccanici banchi, su le pubbliche piazze strascinata.

Un altro bene seguirebbe doppo questi, che ristretto il numero de’recitanti, quel poco sarebbe così virtuoso, et esemplare che non si vedrebbe altro che soggetti nuovi e corretti, e colui che gli mettesse fuori, sarebbe scarico di quel peso di leggere a un solo mille volte un solo soggetto, che in quello stesso fa poi anco mille errori, et si leverebbe quella spezie di gente, di che fa menzione l’eccellentissimo Garzoni nella sua Piazza Universale del Mondo, che si vede per le cittadi vestiti alla divisa con pennacchi, che prima che fossero suoi, furono di mille altri, con cappe bandate di veluto che inanzi che sia diventata banda era calzone affaticato prima nella cittade e poscia in villa. O povera Comedia…..

{p. 636}(Dal Cap. II) :

Voi che fate professione di parlare in pubblico, raccordatevi d’aver pronto l’occhio, la mano, il piede, anzi tutta la persona, non meno che habbiate la lingua, poichè il concetto, senza il gesto, è appunto un corpo senza lo spirito, havertendo che non si vuol gesticolare in quel modo che molti sogliono fare, e ch’io molte volte ho veduti, che se girano gli occhi pajono spiritati, se muovono il piede sembrano ballerini, se le braccia barbagiani che volano, e se voltano il capo, scolari di Zan della Vigna ; però il capo, le braccia, i piedi, gl’occhi si deono muovere a tempo, con modo, con ordine e con misura, havertendo ancora che non è poco vitio adoprar sempre un sol braccio, o una sola mano, ma che si dee hor l’ una, hor l’altra et hora tutte due muovere, come più comporta il discorso che si recita. Lo stare avviluppato nel ferrajolo a chi fà parte di moroso non piace, però bisogna hor sotto mano, hor sopra tutte due le spalle, et hora in un modo, et hora in un altro andarlo accomodando, mentre camina, o passeggi…..

(Dal Cap. VII) :

Prima guardarsi di parlar con il popolo, raccordandosi che non vi si prossume persona in quel luoco, se non quello con cui si parla in scena, et se per sorte si parla solo fra sè stesso, si dee andar discorendo, se della sua donna si querella, alla casa di quella si volta gli occhi, se d’amore, se di fortuna, o d’altro, hora il cielo, hora alla terra, et hor in un luoco, et hor nell’altro, e non far come quelli ch’ apostano nel auditorio uno o due amici, et a quelli vanno dicendo le loro raggioni, questo precetto è di tanta osservanza, quanto mal osservato quasi da tutti.

Il secondo havertimento sarà, ch’ essendo sopragiunto in scena da un altro personaggio si taccia subito, non impedendo il luoco a quello che cominciar dee a parlare e troncar qual si voglia bel discorso per non lasciar mutto colui, che di novo è giunto, havertendo però chi dee uscire di star sin tanto che conoschi esser giunto al fine del suo raggionamento quello ch’ è in scena, e poi uscito, dir si puocho, che quello che dianzi parlava non resti come una statua, se però non deve dir cosa aspettante al soggetto, il quale ha molto bene da essere impresso nell’ascoltante, raccordandosi insieme ch’il dir breve e compendioso è quello solo che piace, et ch’ osservar si dee, non repplicando le cose dette più volte per non venir a noja, e secondo la necessità apporta la replica rassumer il discorso, si che solo si tocchi quello che già save il popolo. Raccordandosi l’autor della Comedia che il mettere in obbligo di ridir più volte una cosa che di già per parola e per effetto s’è veduta ed udita, recca nausea a chi ascolta, così anco fa bruttissimo vedere il personaggio che recita star attaccato alla scena, o venir troppo inanzi a recitare, non essendo in niun attione tolerabili gl’estremi.

Circa al merito artistico del Cecchini, scrive Domenico Bruni nelle sue Fatiche comiche :

Ma che dirassi di Pietro Maria Cecchini che nel tempo che recitava inanti la Sacratissima Maestà dell’Imperatore Matias fu dalla Cesarea Maestà sua con privilegio amplissimo ammesso nel numero de’Nobili, dichiarando lui e i suoi discendenti per tre gradi passati nobili ? E ciò fece perchè quello et altri comici moderni, non sono del numero di coloro che poco intendendosi di comedie pervertiscono l’arte, rendendosi indegni d’ esser posti nel numero de’ buoni, tal che, è necessario lo studio, e studio assiduo. Oltre di ciò, bisogna che la natura con un privilegio particolare assista il comico ; se no la fatica sarà {p. 637}gettata come a miei giorni è avvenuto e molti che professi nelle scienze ma dalla necessità astretti per liberarsi dal Pedantesmo, vollero farsi comici ; che alla prima scena accortosi poco valere il sapere, senza il dono della natura, si ritirarono fuori de’ Teatri, confessando l’arte esser troppo difficile.

Da una lettera del Forciroli, datata da Roma il 19 gennaio 1619, nella quale si annunzia l’arrivo in Roma da Napoli della Compagnia del Cecchini sappiamo anche la paga ch’egli aveva stabilito per ciascheduna rappresentazione in case particolari di nobili, cioè : 25 scudi per comedia col rinfrescamento appresso di robbe mangiative ; e aggiunge il Forciroli ch’eran soliti a recitarne due commodamente tra il giorno e la notte. Paga enorme a quel tempo, con la quale, ben nota lo scrivente, se ne sarebber tornati via con le borse piene.

In una lettera da Mantova (15 gennaio 1611) del Cecchini sono i ringraziamenti a Cosimo II per una medaglia con catena, portante il nome e il ritratto di esso Granduca, e per una pomposissima veste di che la Serenissima Arciduchessa si è compiacciuta di ornar la moglie Flaminia.

E donativi di ogni specie egli ebbe in ogni tempo e in ogni luogo da ogni Signore : la qual cosa sta a provare in che gran conto fosse tenuto l’artista. Il ciarlatanismo non doveva certo esser discompagnato dall’alto valore, se ci facciamo a pensare a quel suo disprezzo per tutti quei che lo circondavano, e che, naturalmente, indignati per la tirannia gli facevan guerra apertamente e copertamente. « Mi abbandonate ? — egli diceva — E che m’importa ! Non ci sono io ? Io basto a tutto. » Era una specie di attore-omnibus, di Giove onnipotente, il quale voleva torreggiar su tutti. Amante dell’arte e rispettoso di sè, tentava ogni mezzo di mettere assieme compagni di gran pregio…. Ma guai a dover piegare il collo ! allora il sentimento dell’arte doveva cedere alla boria ; e il gran capocomico si mutava di punto in bianco nell’ eterno matador circondato da una muta di cani. (V. Bachino Gio. Maria).

Ma se in onta di ciò ; se in onta alle requisitorie dell’ Andreini, del Martinelli, del Gabbrielli, ecc. ecc., egli potè {p. 638}artisticamente restar saldo sul suo piedistallo di bronzo, ammirato, onorato da Re, da Principi, da popolo, è segno manifesto che i pregi dell’artista soverchiavan d’assai i difetti dell’uomo.

Cecchini Orsola. Moglie del precedente. Francesco Bartoli dice al nome di Flamminia (op. cit., tom. I, pag. 227) : « Nome teatrale d’un’Attrice, che faceva da prima donna nella Compagnia de’Comici Accesi diretta da Pier Maria Cecchini intorno al 1609. Il suo vero nome era quello di Orsola, ma del suo cognome non ci è pervenuta alcuna notizia. » E in una noterella che è alla fine dell’opera, aggiunge : « Alla pagina 227, quella Flaminia, deve essere conosciuta per Orsola Cecchini, moglie di Pier Maria Cecchini, come abbiamo veduto chiaramente da un libro manoscritto favoritoci dal sig. Atanasio Zanoni, il quale è intitolato : Discorsi da commedia di me Benedetto Maffei detto il Furioso, allievo della signora Flaminia Comica detta Orsola Cecchini. » A corredo poi dell’articolo, pubblica tre sonetti, uno di Gio. Bernardino Sessa, che sta in fine delle rime di Scipione de’Signori della Cella, da lui pubblicate in Milano, e due di Girolamo Graziani, il noto autore del poema Il conquisto di Granata.

Quanto al casato della Cecchini, il crederla il Quadrio moglie di Flaminio Scala, e il sapere che Frittellino fu allievo valentissimo di lui, han fatto nascere il dubbio ad Antonio Valeri (Carletta) che Flaminia sia, invece, una figlia del maestro, maritata allo scolaro, e che debba perciò chiamarsi Orsola Scala (Un palcoscenico del Seicento. Roma, 1893).

Le notizie che abbiamo di lei sono così intimamente legate a quelle del marito e degli Andreini, e di tutti i componenti le compagnie in cui ella militò, che al nome di questi rimando il lettore. (V. l’Indice generale dei nomi).

Qui metto solamente una lettera di lei al Ser.mo mio S.r et padron Col.mo il S.r Prencipe di Modona tratta da quell’Archivio di Stato, e concernente la prigionia del fratello Nicola, di cui s’è già parlato al nome di Pier Maria, e pel quale il Martinelli, {p. 639}anche nel 1620, invocava dal Duca di Mantova aiuto e protezione, pregandolo di mandar subito Nicola a Mantova et farlo retenire sin all’arrivo de’comici in Torino, perchè egli aveva minacciato di ammazzare Aurelio e queli, come s’è già detto, che aveva fatto dispiacere a Frittellino.

Ser.mo S.re et Col.mo mio padrone

Quando ch’ io intesi che la protecione dell’ inocenza di mio frattello era stata presa dall’A. V. S. cominciai a credere che subito dovesse uscir di priggione, et piu me ne assicurai allora che mi fu detto l’jstanza che di esso haueua fatta al S.r Podestà, tutte cose che me lo faceuano aspettar jersera a Cena, onde non essendo seguita, dinuouo mi conuien tornare ai primi affani ; ma perchè sò che non ui è forzza maggiore di quella dell’A. V. S. mi gioua anche il credere che lei sia per superare ogni mal officio che fosse fatto contro la sua liberacione si che, e per la promessa fatta, et per la speranza ch’ io hò nella sua bontà ; ma più per l’Amor di Dio V. A. S. facia ch’ io l’habbia questa sira a Casa che oltre jl pregar nostro Signore per la sua salute sforzarò insieme il mio seruicio per acrescer il gusto dell’A. V. S. alla quale faccio humillissima riuerenza.

Di Casa alli 16 feb.º 1612.

Di V. A. S.

Humilissima serua la sconsolata

Flam.ª Cecchini.

Nella Biblioteca Braidense di Milano è un libricciuolo edito in Milano il 1608 da Gio. Battista Alzato, per le stampe di Bernardino Santoni, dal titolo : Raccolta | di varie rime | in lode | della Sig. Orsola | Cecchini | nella Compagnia degli Accesi detta | Flaminia. | Al molto illustre Sig. Alessandro Brivio. Il libretto consta di 72 pagine ; e contiene, oltre a una lettera dedicatoria dell’Alzato al Brivio, e ad un sonetto allo stesso del signor Antonio Biagnaggoni, 109 poesie (madrigali, canzoni, sonetti) tutte — dice l’Alzato — compositioni di honorati Cavalieri, & d’altri virtuosi spiriti concorsi alla lode di meritevole soggetto, quale è appunto la Sig. Orsola ; della quale è pure il seguente madrigale alla città di Torino.

O’ del Toro divin Reggia felice
o’ di gratie, et d’amori,
et di palme, et d’allori sotto inuitto Signor, superba attrice,
{p. 640}ecco che ’l Ciel t’honora,
e à la tua chioma ogni fauor destina :
ecco la terra ancora
a’ le tue palme, e’ a’ tuoi trofei s’inchina,
et per l’onda vicina
ti porge il Re de l’acque arene d’oro ;
ond’io humil t’osservo, e humil t’honoro,
povera d’altro don, ricca d’amore,
t’ offro diuoto, e tributario il core.

A questo risposero l’Incenerito e altro.

Riesce il nostro libretto di grande interesse per le notizie dei comici italiani, racchiudendo esso non pochi particolari dell’arte di Flaminia e delle parti ch’ Ella rappresentava. Anche per quel che concerne il fisico apprendiamo esser Lei stata bionda e bellissima.

— Orsa bella, e gentile (1)
— S’ hai ben d’Orsola il nome pur ne’ begli occhi, e nell’ aurate chiome (7)
— Quest’ aurea fiamma oltre le belle bella (18)
— Luce vostra beltà fra le fattezze (22)
— Onde l’avorio tolse ?
Da qual conca le Perle ? onde i Rubini ?
In quai vaghi giardini
le pallidette Rose,
che per formarti il volto, Amor compose ?
Ond’ hebbe l’ or, che ti fa biondi i crini ?
Di qual Sol gli occhi ? et di qual armonia
fe’ le parole ? & di quai lampi il riso ?
Et tu cosi formata onde scendeste ?
Chi sei dimmi ? ch’in te mi par, che sia, beltà, c’ha del Celeste :
Ahi che l’Orsa tu sei del Paradiso,
che non può far Natura un si bel viso (34).
— Qual’ hor Flamminia il uostro volto i’ miro
Oue Natura tante gratie aduna,
{p. 641}Veggio, che sotto il Ciel non vive alcuna
Donna di voi più bella, ond’ io sospiro (42).
— Non pinse Zeusi mai, nè pinse Apelle,
nè quanti unqua fiorir Pittori industri,
nè pingerà giammai co ’l gir de i lustri
dotta man forme si leggiadre et belle.
Non son gli occhi di lei due chiare Stelle,
anzi del maggior lume al pari illustri ?
Non son le guancie molli ostri, e ligustri,
il collo d’alabastro & le mammelle ?
Non son l’altre sue parti…. auorio schietto ?
Et le labbra coralli ? & perle i denti ?
Fù tal ne’gesti Hippolita, & Cammilla.
Ma che dirò di quelle voglie ardenti
d’alta virtù, che si le infiamma il petto,
che quasi Mongibello arde, e sfauilla ? (45).

Rappresentando Delfa in tragedia, ispirò un sonetto al Sofferente Incognito (12) e uno all’Astratto (16) ; un madrigale al Riparato (51) e uno all’Affilato (85).

Per la Pazzia di Flaminia, scrisser versi l’Olimpico (11), il Sofferente Incognito (14), e l’Afferrante (60) ; un madrigale dettò Incerto Autore, quando ella rappresentò Angelica nella Pazzia d’Orlando (57) ; altro ne dettò il Zifferante, quando ella era in abito d’Iride (94) ; ne abbiamo del Crivellato sopra un bacio colto da lei in scena, per lo quale s’arrossì (65), dell’Acuto, sopra l’archibugiata sparata da lei (48) ; un sonetto scrisse il Sofferente Incognito, al’hora che risero alcuni al veder che molti veramente piangessero (13), e altro ne scrisse il Galleggiante, mentre ella recitava in habito virile (54).

L’Orsola Cecchini, come quasi tutti i principali comici del suo tempo, recitava, suonava, e cantava, non dandosi più specialmente a un genere, ma tutti abbracciando, e in tutti facendosi applaudire. Noi chiuderemo l’esame del libretto pubblicando alcuna delle poesie che dìano un’idea del valore artistico di lei, che, rispetto all’arte, ci par degna compagna delle più forti attrici del tempo antico.

{p. 642}DELL’ERRANTE (7)

S’ hai ben d’Orsola il nome
pur ne’ begli occhi, & nel’aurate chiome
un vivo Sol risplende,
che l’ alme ogn’ hor’ accende :
Tu de’Socchi, & coturni eterno vanto
Sei, nova Cinosura,
che di mill’altre il degno nome fura,
et nel tuo chiaro volto
stassi fra le bellezze Amor sepolto.

DEL PUNGENTE (26)

Se di geloso sdegno voi fingete
Ira, sdegno mostrando,
ogni pietade in bando
mandate, e al’ hor crud’ Orsa irata sete,
Ma se ridete poi,
Serena Orsa del ciel sete frà noi.

DELL’AFFINATO (27)

Questa, che sue virtuti inalza tanto,
ch’altra frà Scene ancor non l’assimiglia,
È questa, ch’ ogni huom move à meraviglia,
Flamminia de’ Theatri honore, et vanto.
S’ avvien, che pianger finga, ahi mira quanto
seco pianga il Theatro ; & se le ciglia
tranquilla, come al’ hor si riconsiglia
di rider seco, et porre in bando il pianto.
Mira come tal’ hor ne’ gesti suoi
gonfiar si vegga il mar, turbare il Cielo,
come nascano i tuoni, & le procelle.
Indi al mutar di due serene Stelle,
come discacci Giove il fosco velo,
et acqueti Nettun gli sdegni suoi.

{p. 643}DEL CRIVELLATO (66)

Fiamma gentil che dolcemente incendi
L’alme, che non san far da te riparo,
Ahimè, che troppo rigida t’estendi
Mentre sfavilli nel bel lume chiaro
Invisibil ne’ petti nostri scendi,
Nudrita da pensier soave, & caro,
Io per te sola incenerirmi sento
Ardendo, & son del’arder mio contento.

DELLO STUPIDO (98)

Mentre pompe funeste

di tragico accidente isnodi altrui,

co’ dotti accenti tui :

sott’armi favolose

son veri duoi, & vere piaghe ascose :

poichè tue luci infeste

ravivando i già spenti

ancidono i viventi,

et fan de’ spettatori

tragedia vera di mentiti honori.

Celia. (V. Malloni Maria).

Cenzo (De) Gaspare, nato a Napoli il 1800 da gente di piccola borghesia, recitò sotto la maschera di Pulcinella, esordendo a diciott’anni nel Teatrino di Donna Marianna. « Al 1820 – trascrivo dal Di Giacomo – Gaspare de Cenzo fu chiamato al San Carlino da Silvio Maria Luzi. Vi rimase un anno, poi emigrò a Roma ; e di là tornato in patria prese scrittura al teatro Partenope. Finì per mettersi in giro per le provincie, direttore d’una compagnia infantile. Morì verso il 1875. »

Egli ebbe una figlia, Silvia, che col marito Giuseppe Crispo, amoroso, apparteneva il ’48 alla compagnia del S. Carlino rinnovata dal Luzi.

{p. 644}Ceresa Giovanni. Milanese, uno de’più forti artisti moderni per le parti di primo attore, cominciò nel 1867 a gittar la solida base del monumento ch’ei si sarebbe alzato più tardi, in Compagnia di Luigi Pezzana al fianco di Adelina Marchi, dopo di essere stato con Evaristo De Ogna, Michele Sivori e Michele Paone, impresario del Fondo di Napoli.

Il Giorgio Gandi, la Celeste, la Marcellina, il Michelangelo e Rolla, il Romanzo d’un giovane povero, eran altrettante creazioni. Passato dalla Compagnia Pezzana qual primo attore assoluto in quella della Sadowski, diretta da Cesare Rossi con la Campi prima attrice, potè sviluppar maggiormente il suo genio artistico, e mostrar quanto alto egli avrebbe potuto salire. Lasciò la Compagnia Sadowski per entrar in quella di Luigi Bellotti-Bon, dalla quale fu strappato per rammollimento cerebrale che dopo vario tempo di vita ebete lo spense a Milano sua patria, in una casa di salute, il 18 febbraio 1884, a ore 3 di mattina. Non vi fu compagno d’arte che nel limite de’suoi mezzi non cercasse di addolcirgli la lunga agonia.

La domenica 24 dicembre dell’ ’82, la Compagnia di Francesco Pasta chiuse il corso delle sue recite al Teatro Manzoni di Milano con una commovente solennità artistica a favore del povero Ceresa, al quale pervenner oltre duemila lire. In quella sera Felice Cavallotti improvvisava durante lo spettacolo un’ode che lesse l’Annetta Campi-Piatti, prima attrice della Compagnia, e che trascrivo qui, perchè mirabilmente compendia in poche strofe l’arte veramente grande di Giovanni Ceresa.

{p. 645}Sul letto di lunghi dolori
sta il pallido artista sognando ;
passeggia fra ignoti bagliori
dai vivi lo spirito in bando :
E mentre le strofe dei canti
sommesso parlando gli van,
gli passan, gli passano avanti
le larve di un giorno lontan !…
« Timandra ! che fuggi ? che temi ?
Oh lascia che infuriino l’ire !
Ancora alle fide triremi
vuol teco Alcibiade venire !
Si dolce, si bello è il tuo viso !
Oh piombi di Grecia il furor,
se mite mi doni un sorriso
s’io bacio la chioma tua d’or ! »
E dolce la bionda figura
nel sogno sorrider gli pare ;
poi lieve via via nell’oscura
tenèbra dilegua, scompare….
Ma in aria invisibili canti
pur sempre parlando gli van
e passan, ripassano avanti
le larve d’un giorno lontan !
« Cleopatra ! Superba regina !
perchè, perchè fugge la nave ?
oh guarda che immensa ruina
pel lampo d’un guardo soave !
La gloria, l’impero del mondo,
ahi, tutto quest’ora perdè !…
Or meglio morir nel profondo
dei flutti, regina, con te ! »
Sdegnosa tacendo lo guata,
la bella codarda sovrana….
Sui molli guanciali sdrajata
fuggendo pel mar s’allontana….
E mentre dolcissimi canti
dall’onde sorvolano il pian,
al mesto ripassano avanti
le larve di un giorno lontan.
« Oh, no, non morir Margherita !
Armando, il tuo Armando non vedi ?
Disgiunti il destino ci ha in vita….
Ma Armando ritorna a’tuoi piedi….
Mill’anni di vita angosciosa
compensa un istante d’amor !
O mia Margherita riposa
del povero Armando sul cor ! »
Or mentre nell’ occhio fiammante
la pugna del core indovina,
sul labbro del pallido amante
la smorta fanciulla si china….
« Oh Armando ! pei nostri due cori
mai ora più bella non fu !
Mio povero Armando, tu muori….
a viver che resto quassù ?… »

E felice è stata l’ispirazione del poeta di chiuder l’evocazione de’personaggi ne’ quali il Ceresa nitidamente rifulse, con quello di Armando, ch’egli soavissimamente incarnò, e in cui ben pochi ebbe che gli si accostassero. Nè ormai si fermò all’interpretazione del teatro moderno : chè tutti i varj tipi della {p. 646}gamma artistica, dal Fulgenzio di Goldoni all’Amleto di Shakspeare, recitò con egual giustezza di concezione, con egual finitezza di rappresentazione. Quando il 1° dicembre del 1871 si mostrò per la prima volta al rigido Re Vecchio di Milano sotto le spoglie di Kean, fu un grande avvenimento artistico : l’arduo cimento in cui s’era messo l’ardito giovane, fu superato trionfalmente. Era nella voce del Ceresa e nella dizione un fascino potente : forse nella rappresentazione della commedia moderna si sarebbe potuto notare, a rigor di termini, una tal quale volgarità di persona e di volto ;… ma qualsiasi menda rimaneva assorbita da quella dizione limpida e pura, soave nel sentimento, gagliarda nella passione, ma sempre vera, incomparabilmente vera.

Cesari Caterina. (V. Asprucci-Cesari).

Cevolini Francesco. Veneziano. Esordì nella Compagnia di Giuseppe Lapy al S. Angelo di Venezia, passando poi a Napoli, dove fu chiamato a sostener le parti d’innamorato, e dov’era ancora al tempo del Bartoli (1782), recitando – egli scrive – con grazia e ponderato sentimento, sì nelle comiche, che nelle tragiche rappresentazioni.

Checcati Laura. Padovana. Trascrivo dal Bartoli : « Comica spiritosa e di bella presenza, che nelle parti brillanti e di forza sa farsi assai bene distinguere su i Teatri (1782). Dopo di essere stata colla Truppa di Gerolamo Madebach nel Teatro S. Cassiano, unissi all’altra di Francesco Paganini, in cui da alcuni anni fa valere il suo merito, e può fra le buone attrici di questi tempi essere plausibilmente annoverata. »

Checcherini Marianna. L’ultima caratterista della scena napoletana, attrice di grandissimo pregio, nacque da Giuseppe e Francesca Checcherini, autore di libretti per musica il primo, cantante comica riputatissima la seconda. Morta la moglie di {p. 647}Salvatore Petito, la famosa Donna Peppa, Marianna Checcherini amante sentimentale e fedele di lui da lungo tempo, potè finalmente sposarlo, facendo così tacer, com’ ella diceva, le male lingue. La troviamo al Teatro Nuovo nel ’34 seconda donna con la madre e una sorella, Giulietta. Dopo il ’44 spariscono dalla scena del Teatro Nuovo. Ma poi vi si rivede la Marianna in sostituzione della caratterista Serafina Zampa nel’64. Passa più tardi al S. Carlino, dove ha sorte migliore (la Zampa non fu per lei dimenticata) recandovi – dice il Di Giacomo – una figurina asciutta, piccola e un’ osservazione satirica che talvolta pungeva forte. Dell’ idillio amoroso di Marianna Checcherini con Salvatore Petito, il Di Giacomo scrive alcune pagine soavissime degne del poetico soggetto (XIV-511). Io riporto quelle che ci descrivon gli ultimi tempi della Ceccherini, le quali non son meno incantevoli nella lor poetica tristezza (XVII-517) :

L’ultima caratterista è morta nel settembre del 1889, per gli anni ch’eran molti e per la miseria, che era grave non meno. Era nata nel 1807 ; di questi ultimi tempi ella avea patito, patito assai, ma le forze non l’avevano abbandonata se non che all’ultim’ora. L’ho incontrata parecchie volte in corridoi di teatri, o d’ avanti a un « botteghino, » o avviantesi, passo passo, lungo i muri, alla piazzetta Tagliavia dove, a casa di Aniello Balzano, Pulcinella alla Fenice, avea un lettuccio per carità. Una sera, quand’ ella era già caduta nell’indigenza, la vidi gironzare nell’ambulatorio del Fondo. Pioveva a dirotto : la poverina, addossata a uno spigolo di muro, levava gli occhi al soffitto, di volta in volta, con uno sguardo cosi triste, cosi disperato che impietosiva. Il buon Dio non le aveva mandato niente, neppur un soldo, e pioveva. La vecchietta piangeva, silenziosamente, con le mani sotto lo scialle ; le sue labbra si movevano, come mormoranti una preghiera. Un giovanotto che l’aveva riconosciuta e s’era fermato, esclamò, indicandola a un altro : « Guarda la Checcherini. » Ella rispose : « Ahimè, quanto scheccherinata, signor mio. » Ripassando poco dopo, la sorpresi che baciava, misteriosamente, una monetina d’argento. Il campanello elettrico chiamava gli apettatori, l’ambulatorio rimaneva deserto. La Checcherini, come la pioggia era cessata, se n’ andava con i suoi dieci soldi, pian piano, infagottata in una veste scura, tutta rammendata, tutta insozzata di mota e così rifinita che pareva le dovesse a momenti cascar di dosso a brandelli. Cenci contemporanei. Poverina, neppure cenci suoi !…

Nell’ elenco della Compagnia di Antonio Morrocchesi pel 1802, trovo un Checcherini amoroso tenero, forse uno zio della Marianna.

Checchi Candido. Figlio di agiato possidente, compiè regolarmente il suo corso di studj, e sotto il governo francese {p. 648}ottenne la patente di maestro. Fanatico dilettante, abbandonò la famiglia per darsi interamente all’arte, nella quale fece ottima prova. Entrò quale amoroso nella Compagnia Favre, una tra le ottime d’Italia ; e passò poi in quella di Gioacchino Andreani, il ’36, per le parti nobili ; e di Luigi Pezzana, il ’41. Fu compagno di Vestri, di Pertica, di Bucciotti, di Bergamaschi e di Giacomo Modena ; del figlio Gustavo fu maestro ; ammiratore del De Marini ne seguì la scuola. Condusse per venti anni compagnia, ed ebbe fra’ suoi scritturati Angelo Canova e Carlotta Polvaro, artisti celebri. Sposatosi a una forlivese, Elisabetta, figlia di una spagnola e di un romagnolo, n’ebbe due figli, Tebaldo e Luigi, da lui cresciuti ed educati all’arte, co’quali stette sino ai 64 anni. Di principj ultra liberali (il sangue del padre, terribile e fanatico giacobino, circolava nelle sue vene), nella fatal giornata del 15 maggio 1848 a Napoli egli era su le barricate co’ due figliuoli.

Checchi-Bozzo Amalia. Se Tebaldo e Luigi Checchi non riuscirono a lasciar traccia di sè nella storia del teatro, unitisi in matrimonio, ebbero molti figli che furon, le femmine specialmente, ornamento e decoro dell’arte per chiare attitudini, per molta intelligenza, per venustà di forme e piacevolezza di volto singolarissime.

Dal figlio Luigi nacque Tebaldo, Michele, Amalia e Giulia. Quello, generico primario assai pregiato per correttezza di dizione, per aristocrazia di modi, per intelligenza e coltura non comuni, fu poi marito di Eleonora Duse, dalla quale separato, {p. 649}si allontanò dall’arte, per darsi alla vita politica e alla diplomazia, in cui fece ottima prova. Michele si diede alla milizia, e Giulia, seconda moglie di Angelo Zoppetti, fu una vezzosa e cara amorosa prima, e seconda donna poi nelle compagnie nostre di maggior conto. Di Amalia, che divenne poi la moglie del brillante Antonio Bozzo, dovrò dire più distesamente.

Essa, come l’Adelia Arrivabene, apparve nell’orizzonte artistico, e vanì d’un tratto come una meteora. Aveva dato tante speranze di sè ! Firenze specialmente l’aveva battezzata una delle più chiare promesse dell’arte, quando si mostrò nel 1871 quasi esordiente sulle scene del Niccolini a fianco della Pezzana, di Monti, di Privato. E la promessa fu tenuta largamente, quando sei anni più tardi nella terza Compagnia di Bellotti-Bon, capitanata da Cesare Rossi, l’Amalia Checchi si presentò prima attrice assoluta, piacendo sempre, talora fanatizzando come nel Vero Blasone di Gherardi del Testa, e nella Dora, ch’ella creò, e che fu una vera e propria rivelazione. La sera, dopo la prima rappresentazione, Yorick scriveva di lei nella Nazione :

La signora Checchi-Bozzo ci riempi tutti di stupore. Nessuno si sarebbe aspettato da lei giovane, da lei nuova, da lei inesperta, tanta perfezione di giuoco, tanto acume d’intelligenza, tanta padronanza di scena, tanta forza di passione, tanta verità e tanta furberia, tanta dignità e tanta grazia, tanta sobrietà e tanta forza, quanta ne sfoggiò per ritrarre con arte stupenda il personaggio di Dora. Quando, alla fine del quarto atto il pubblico plaudente la volle salutare cinque volte alla ribalta, il pubblico si rammentò che era suonata mezzanotte, altrimenti avrebbe durato ad applaudire un’altra mezz’ora.

E tanta esuberanza di gioventù, di forza, di intelligenza, dovè sfasciarsi sotto il colpo improvviso e terribile di una malattia che la condusse in pochi dì al sepolcro, proprio nel momento in cui al fianco di Tommaso Salvini si faceva ammirare e applaudire in su le scene del Teatro Italiano di Parigi. Povera attrice !… Il martedì 20 gennaio del 1878, rendeva l’anima al Signore, e il dì dopo fu condotta a Père Lachaise, con {p. 650}modesto, ahi troppo modesto trasporto, al quale, oltre a’pochi intimi amici, appena intervennero il Vitu e il D’Harcourt del Figaro, e la signorina Rousseil, unica fra le attrici parigine – scrisse l’Yorick – che stimasse suo dovere rendere quest’ultimo omaggio alla compianta consorella.

Checchi-Serafini Vittorina. Tebaldo Checchi ebbe due mogli. Nacque dalla prima Candido, attore di qualche pregio per parti di secondo brillante, poi di carattere, marito all’attrice napoletana Dareni ; ed Ernestina, moglie dell’attore Cambiè ; nacquer dalla seconda Vittorina, moglie di Giovanni Serafini, e Marietta, moglie di Giulio Casali. Di Vittorina dirò ora brevemente.

Cominciò la vita dell’arte come amorosa in Compagnia di Gaspare Lavaggi, nella quale a sedici anni, diventò la seconda moglie dell’attore brillante Giovanni Serafini. Fu per alcun tempo la seconda donna della Compagnia Morelli al fianco di Adelaide Tessero, a la cui scuola progredì fortemente e rapidamente. Di alcune parti da lei create, come della Grimani nella Cecilia del Cossa, non si è tuttavia cancellato il ricordo. Tornata dalla Spagna e dall’America ove andò col Morelli stesso, assunse il ruolo di prima attrice assoluta, esordendo nella Compagnia di Francesco Ciotti. Recitò con Ernesto Rossi e con Tommaso Salvini ; condusse per alcun tempo compagnia ; fu prima attrice e prima attrice madre con Ermete Zaccone, a fianco del quale creò, tra l’altre, con buon successo la parte della Magdalena nel Cristo di Bovio. Scioltasi da Zaccone, e unitasi in società con l’attore Lotti, piena di fede e di coraggio, superbamente bella, esuberante di vita, vòlto l’animo e il pensiero a orizzonti migliori, salpò per l’America, il sogno {p. 651}dorato de’comici, dove, giunta a Pernambuco, cadde fulminata dalla febbre gialla che la strappò in brev’ora all’adorazione de’ suoi.

Cherea Francesco. Sotto questo nome si nasconde Francesco de’Nobili lucchese, cancelliere del signor Fracasso di Sanseverino, e il più grande tra’ recitatori di commedie classiche nella prima metà del xvi secolo.

Siccome narra il Sansovino nella descrizione di Venezia pag. 168, fu favorito da Papa Leone Decimo in Roma, dove tenne il primo luogo fra’ Recitanti in iscena : onde per ciò fece acquisto del cognome del Terenziano Cherea. Ma essendo quella città sotto Papa Clemente VII soggiaciuta a un lagrimevole saccheggiamento, egli di là si fuggi a Venezia, dove l’arte sua comica esercitando, grandemente piacque ; e fu inventore in quelle parti di recitar Commedie a suggetto.

Così il Quadrio (op. cit., vol. III, P. II, 237).

Ma alquanto monco ed erroneo appare tal giudizio dopo l’elaborato studio del Rossi (Lettere di Messer Andrea Calmo. Torino, Loescher, 1888), il quale, analizzando l’opera del Calmo (V.), anche viene, col concorso del D’Ancona e del Sanudo, a parlar distesamente del Cherea, avvalorando le sue parole di molti e importanti documenti.

Prima di essere a Roma il Cherea fu già a Venezia, ove lo vediamo la sera del 10 gennaio 1508 recitar nei Menechmi di Plauto a S. Canziano, e poco dopo nell’Asinaria : il 14 giugno 1512 in una Tragedia e Pastorale per le nozze di un Contarini ; e nel carnevale seguente in un’ecloga, in casa di Fracasso da Sanseverino alla Giudecca. Riappare a Venezia nel carnevale del 1522, e lo vediamo recitare il 2 febbraio una tragedia in casa Grimani alla presenza del vescovo d’Ivrea, il 9 detto una commedia nel Convento dei Crocicchieri, e il 12, nello stesso luogo, la Mandragola. E il 5 e il 16 gennaio dell’anno seguente lo vediamo sempre a’Crocicchieri prender parte a una bellissima commedia, over cosa d’amore…., poi il 3 gennaio 1525 all’Orba, in casa Querini Stampalia a S. Maria Formosa per l’anniversario delle nozze di Francesco Morosini con una Querini. Il 20 febbraio dello stesso anno fu a recitare {p. 652}in casa Molin, già Priuli, a Murano, e il 5 febbraio dell’anno seguente in casa Morosini a S. Apollinare, ove recitò i Menechmi di Plauto, e due giorni dopo in casa Trevisan alla Giudecca, dove si recitarono tre commedie di vario genere : la erudita dal Cherea, la villanesca dal Ruzzante (V. Beolco), la comica, forse improvvisa, dal Cimadori, il figlio di Zan Polo o Zuan Pollo (Gian Paolo), buffone. A questo punto si arrestan le notizie di recitazioni a Venezia in cui prese parte il Cherea ; ma sappiam poi dal diarista Sanudo che il Cherea, stretta amicizia con l’oratore ungaro, di passaggio a Venezia, aveva lasciato la città, nella quale aveva raccolto tanta messe di lodi, per recarsi in Ungheria, dov’era nel 1532, non sappiam bene se per ispasso, o ad esercitar l’arte sua.

Dal Conte Malaguzzi dell’Archivio di Stato di Modena mi vien comunicato il seguente brano di lettera, indirizzata da Alfonso Paolucci Alo Ill.mo et ex.mo s.r mio col.mo il s.r Duca de Ferrara, concernente il nostro artista e la morte del Sanseverino :

………………………..

Mi è sta anco decto esser morto il s.r Fracasso, et hauer lassato à cherea comico trece[nto] ducati ne la pocha roba sua : De nouo altro non cie : et a vostra Signoria Ill.ma deuotissimo me racomando p.° Junij M. D. xviiij.

Chiarelli. Dice il Bartoli ch’egli « recitò con infinito valore nell’astuto Personaggio di Scappino ; e che in Parigi fu onorato de’più sonori applausi. Dopo la sua morte gli successe nel comico esercizio Antonio Camerani. »

Chiari Francesco, toscano, fu primo amoroso per vari anni con Pisenti e Solmi, poi primo attore con altri, e finalmente caratterista e capocomico. Ebbe società con Francesco Pieri e Filippo Lottini ; e l’anonimo autore della cronistoria del teatro di Tolentino giudica la compagnia di lui (1853) assai buona. Lo troviam nel 1858-59 caratterista in Compagnia genovese diretta da Antonio Stacchini, con la Laura Bon prima attrice.

{p. 653}Una delle ultime parti ch’ei recitò fu quella del Marchese Colombi nella Satira e Parini di P. Ferrari. Sposò una giovine di Fivizzano, da cui si divise dopo un solo anno di matrimonio, e di cui verremo ora discorrendo.

Chiari-Dondini Matilde. Moglie del precedente, nacque a Fivizzano da Francesco Rappì-Venturelli e da Natalina Salvatori il 18 agosto del 1816, come appare dai registri parrocchiali della chiesa prepositurale di Fivizzano. Sposatasi al Chiari deliberò di intraprender l’arte della scena, per la quale mostrò subito attitudini singolari. Esordì con Pisenti e Solmi in parti di poco o niun conto, ma ch’ella sostenne così lodevolmente da essere scritturata dopo un anno qual prima donna giovine. Separatasi dal marito, un po’per la incompatibilità di caratteri, un po’per la condotta di lui, entrò (1836) collo stesso ruolo nella Compagnia di Romualdo Mascherpa, col quale la troviamo e il’ 39 e il’ 42 : e tanto progredì nell’arte sua, che non ebbe chi la superasse, pochissime che l’uguagliassero. Mortole il Chiari si unì in seconde nozze con Cesare Dondini. Fu sempre al fianco di ottime artiste, quali la Bettini, la Robotti e la Ristori, la cui somma valentìa non valse mai ad attenuare il fascino ch’ella esercitava sul pubblico sia con le doti intellettuali, sia con quelle del fisico ; poichè la Chiari aveva elegante figura, volto piacevole, bellissima voce.

Il gran repertorio delle prime attrici, a scapito della dignità artistica, non la tentò mai : piuttosto che esser prima in compagnie secondarie, amò di essere seconda in primarie. Per tal modo ella passò tutta la sua vita artistica in cinque sole Compagnie : di Pesenti e Solmi, del Mascherpa, del Bazzi, del Dondini e del Peracchi, passando in processo di tempo dal ruolo di prima donna giovine a quello di seconda donna e di madre nobile. Abbandonò il’ 70 le scene per andare a viver gli ultimi anni con una sorella sposa a Sarzana del dottor Valenti ; morta la quale, si recò a Torino, dove morì il 29 marzo dell’anno 1894.

{p. 654}Chiari-Bosio Virginia. Figlia di Giuseppe Bosio, fu artista reputatissima per le parti di prima attrice giovine e di prima attrice. Amorosa nel 1841 in Compagnia Reale Sarda, di cui era prima donna l’Amalia Bettini, sposò Torello Chiari, fratello di Francesco e amoroso allora nella stessa Compagnia, dalla quale usci con lui dopo un anno per diventar capocomica e prima attrice assoluta. Ebbe per ben due volte tra’suoi scritturati il celebre Luigi Taddei. Morta a Pietroburgo la sorella Angiolina celebre cantante, ch’ella avea fatto educare a sue spese nell’arte lirica, n’ebbe in compenso eredità di una villa e di non poco danaro, col quale costruì a Firenze, ove, rimasta vedova, s’era stabilita, la ben nota Arena Nazionale, ch’ella condusse e conduce tuttora con sorti assai propizie.

{p. 655}Chiariani Silvestro. Trascrivo dal Bartoli : « Grazioso commediante, che recitava in Napoli la parte di secondo Zanni sotto il nome di Pannocchia. Portava un abito tutto bianco, come costuma anch’oggi il Pierò de’Saltatori, e metteva certi occhiali fatti di legno, non solo rotondi, ma concavi ancora. Fu molto applaudito per le sue facezie e pe’suoi lazzi ridicoli e gustosi. Terminò la sua vita intorno all’anno 1745. »

Chiesa Girolamo, « detto in commedia il Dottor Graziano de’ Violoni, fioriva circa il 1630. Fu egli molto onorato da Principi in Francia : e meritamente ; poichè molta modestia e pietà congiungeva a’ suoi rari talenti. Fu ammogliato, e figliuoli ebbe. » Così il Quadrio (op. cit., 239).

E il padre Ottonelli nella sua Cristiana moderazione del Teatro, riferisce al proposito del gran conto in che eran tenuti i comici da Principi e da Re e da nobili in genere, come il Chiesa gli dicesse un giorno in Firenze : « Io ebbi in Francia il mio primo figliuolo, e fu tenuto a battesimo dal Duca N. (io tacio – dice l’Ottonelli – e tacerò i nomi uditi per degni rispetti), e dalla Principessa N. Il secondo parto fu d’una figliuola, tenuta dal Seren. Principe N. Cardinale. Il terzo fu figliuolo, tenuto dal Sereniss. Principe N. che poi fu Duca. Il quarto parto fu di una figliuola, tenuta dalla Sereniss. Duchessa N. »

Di un Dottor Violone è fatto cenno in una lettera di Ludovico Bevilacqua al Duca di Modena con data di Ferrara 9 aprile 1664, come di attore il quale, ben lontano dall’aver la pietà e modestia del Chiesa, per certi livori ch’egli ebbe con la Marzia Fiala, moglie del Capitano Sbranaleoni, capocomico, mancò a’suoi impegni scritturandosi con una Marchetta, e allegando con atto di perfidia, pretesi contratti antecedenti con un Cavaliere. Ma evidentemente, e per la data della lettera e per l’indole dell’artista dee trattarsi di altra persona.

Chiesa Isabella. Moglie del precedente. Il Bartoli, dopo averla detta comica di vaglia unita alla Compagnia de’Comici {p. 656}Affezionati, pubblica il seguente sonetto di Gio. Francesco Maja Materdonna tratto dalle sue Rime (Venezia, Deuchino, 1629) :

Alla Signora Isabella Chiesa, comica,
per averla veduta rappresentare la persona d’una Regina.
Questi, o bella Istriona, onde tu cingi
fianco e crin, regi ammanti, aurati serti,
mostrano ai guardi alteri, agli atti esperti,
ch’esser dovresti tal qual ti dipingi.
Stringer con quella mano, onde tu stringi
un finto Scettro, un vero Scettro merti.
T’ammirano i Teatri, e stanno incerti
se vanti i veri Regni, o se li fingi.
Sii pur finta Regina : Or se le vere
cangiasser col tuo stato e regni e onori,
quanto gir ne potrian ricche ed altere.
Ch’è gloria assai maggior d’alme e di cori
reggere il fren, che in testa e in braccio avere
cerchio e verga real di gemme e d’ori.

E continua a dire il Bartoli che « oltre al recitar bene la tragedia, ella esprimeva anche a maraviglia le parti famigliari e le affaticate nelle commedie. L’anno 1634 era in Bologna a recitare, e fu distinta con poetiche lodi nel Libretto intitolato : La Scena Illustrata, composizioni di diversi. Libretto di 4 fogli e mezzo in forma di quarto, stampato ad istanza di Bartolommeo Cavalieri per Niccolò Tebaldini, e dedicato al signor Marc’Antonio Fioravanti. Recitò ivi con molto applauso una faticosa commedia, intitolata : La forsennata Isabella (La pazzia d’Isabella ?) in lode di cui Paolo Cersonti le scrisse un’oda, che non trascriviamo per essere troppo lunga, e ci contenteremo di riportar qui un solo sonetto di Tinocasto Gradivello, fatto in occasione della di lei partenza.

Di cori ancisi archi famosi e chiari
ergansi a te, bella d’amor guerriera,
che quinci omai trionfatrice altera
gir di mill’alme ad altro ciel prepari.
{p. 657}Preceda il carro in lieti applausi e cari,
lunga d’amanti e catenata schiera ;
e delle glorie tue l’istoria intera
lo stral che ne trafisse anco dichiari.
D’Amore intanto esercito feroce
qui lascia in guardia ; e stragi e morti nuove
vanne a piover dal ciglio e dalla voce.
Cosi saggio veggiam duce là dove
giunse vincente, e rapido e veloce
indi partirsi, e portar guerra altrove. »

Ciarli Gaetano. Nel volume quarto di una miscellanea manoscritta di Firenze del 1761, gentilmente comunicatami dal signor Silvio Gonnelli, libraio antiquario, che ha per titolo : Suite de Recueil des Pieces Italiennes, Françoises, Angloises, Latines, Espagnoles, etc. tant en prose qu’en vers, trovo le seguenti

Ottave diGaetano Ciarlicomico recitate da esso nel Teatro di via del Cocomero nella Commedia intitolataLa Reginella, e nellaVedova scaltra, nelle quali faceva daMadre.

1ª sera

Quando io penso al primier tempo passato,
qual mi facea stentar più del dovere,
dico fra me ; ch’il ciel sia ringraziato
che diede alla mia figlia un gran sapere :
per opra sua mi trovo in altro stato,
ma in oggi così va ; chi vuol potere
vestir lindo e mangiare a crepapelle
ci vuol per casa almen due reginelle.

2ª sera

Ora che la mia figlia è maritata
con quel Zannetto più fier del demonio,
crede d’esser contenta, e s’è ingannata,
perchè ha trovo una stampa senza il conio.
{p. 658}Tra poco s’avvedrà la sfortunata,
che non può aver effetto il matrimonio,
perchè manca alla sua consolazione
la forma, la materia e l’intenzione.

(L’amante della Reginella è una donna che fa da uomo).

3ª sera (nella Vedova scaltra)

Non vorria terminare i giorni miei
così vedova sola, in pene e duoli ;
e qualche buon partito attenderei,
ma non trovo nessun che mi consoli ;
(qui manca il 5° verso, omesso per errore probabilmente dal copista).
perchè ho ancora desio d’aver figliuoli ;
e se io facessi tal risoluzione,
mi piacerebbe questo bisciolone.

4ª sera (nella Reginella)

S’ ho a dire il mio pensier schietto e reale
dico che son contenta del marito,
che ha preso mia figlia in forma tale,
che mi è parso toccare il ciel col dito ;
e dirò ancor non già per dirne male
che se prendea quel vecchio rimbambito,
che fosse per seguir son d’opinione,
un biascia-biascia senza conclusione.

5ª sera

Ascoltatemi, figlia, in cortesia ;
ora vi parlo con materno affetto,
già siete dello sposo e non più mia,
e questo è ciò che mi trafigge il petto.
Cercate che tra voi la pace sia ;
fate l’istesso voi, sposo diletto ;
e, d’altra cosa vi voglio avvisare :
fate bel bello per poter durare.

In queste ottave, come in quelle cantate dal Corsini, potremmo forse, e senza troppa fatica, intravvedere il germe della maschera dello Stenterello, la quale sola serbò in teatro {p. 659}l’uso delle ottave, che furon poi come l’elemento primo della maschera, poichè in esse Stenterello mostrava senza inceppamenti il proprio io, dando bottate o politiche, o sociali, in cui emergeva l’inevitabile frizzo a doppio senso, generato forse dal Ciarli, e continuato dal Corsini e dal Del Bono entro una cerchia di relativa correttezza, e ridotto poi dal Cannelli a vera e propria sguajaterìa.

Ciarli Filippo. Figlio del precedente. Fu attore discreto e discreto capocomico. Nel 1831 ebbe Compagnia in società con Giovanni Falchetti, nella quale figuravan elementi assai più che mediocri, quali la Falchetti prima donna, la Buzzi madre, il Carrani primo attore, il Tessero tiranno, il Pellizza caratterista, Luigi Robotti, Cesare Fabbri, ecc. ecc. Aveva il Ciarli in compagnia la moglie Caterina e il figlio Giuseppe, che fu poi padre di Stanislao. Lorenzo Piccinini toltosi momentaneamente dall’arte e restituitosi in patria, si aggregò alla lor compagnia, recitando nell’Eteocle e Polinice di Alfieri la parte del protagonista. Il repertorio della Compagnia non era per nulla diverso da quello di altre di maggior grido. Un po’di Goldoni, d’Alfieri, di Pellico, di Nota, di Scribe, tra cui facevan capolino ogni tanto o le farse più sciapite, o i più inverosimili spettacoloni. Filippo Ciarli ebbe anche un fratello, Francesco, che fu generico primario di assai pregio e buon capocomico.

Ciarli Stanislao. Figlio di Giuseppe Ciarli, artista drammatico, cominciò a recitare, come tutti i figli d’arte, appena potè spiccicar parola. Smise dagli 8 ai 16 anni, per ricominciar poi nel 1873. Fu in compagnie di poco o niun conto sino all’ ’84, in cui fu scritturato secondo brillante con Emanuel, col quale stette sino all’ ’86, per passar poi altri due anni con Maggi. Fu sei anni con Virginia Marini, e oggi si trova da quattro anni con Ermete Zacconi, e da tre brillante assoluto.

Stanislao Ciarli ebbe diritto davvero alla promozione che s’andò acquistando con una diligenza e una docilità non mai {p. 660}attenuate. Egli fu ed è noto più specialmente nelle parti di mammo e nelle così dette macchiette, in cui appare le più volte di una comicità irresistibile.

Ciavarelli Luigi Alessandro. Questo comico, famosissimo sotto la maschera dello Scapino, che il Goldoni dice eccellente pantomimico, e d’un esccuzione esattissima ; che trovò a Parigi una festosissima accoglienza per la intelligenza, il brio, la precisione de’ gesti e delle movenze, e sopra tutto la fisionomia perfettamente a taglio col personaggio astuto ch’egli doveva rappresentare ; che dall’incontentabile Grimm ebbe in contrapposto parole di biasimo, oserei dir volgare, nacque a Napoli verso il 1702 da Antonio Ciavarelli e Domenica Spadafora. Il 16 di luglio 1724 sposò in prigione Maddalena Buonanni. Perchè fosse in prigione, l’atto di matrimonio che tolgo dallo Ial non ce lo dice :

A di sedici luglio, mille settecento ventiquattro, Alessandro Ciauarelli, e Maddalena Buonanni di nostra parocchia sono stati congiunti in legitimo matrimonio dentro la capella delle carceri, dette di S. Maria della Gnora, per verbo de presenti sposo et sposa, seruata la forma del S. C. T. ed ordini della Corte archiueschovale di Napoli, presenti Antonio Gandioso, Gio. Luca Papalardo ed altri, per me D. Giuseppe Traguello. (Reg. di S. Maria di Tutti li Santi, Libro I dei matrimonj, fil. 12).

Non si sa s’ella si recò in Francia col marito ; certo morì a Paola in Calabria il 24 novembre del 1751 : il che potrebbe far supporre che sia stata anch’essa comica, appartenente probabilmente a famiglia di comici. (Nel 1739 una Nicolina Bonanni era prima donna de’Fiorentini nella Compagnia di Domenico Di Fiore, il quale, caso strano, aveva l’anno dopo a prima donna nel Giardino fuori Porta Capuana, un’Agata Ciavarella : un Vittorio Bonanni fu celebre pulcinella morto circa il 1730).

Il 5 settembre del 1739 Alessandro Ciavarelli esordì alla Commedia italiana colla maschera di Scapino nello Scenario italiano, La Cameriera, già rappresentato il 1616 allo stesso teatro sotto il titolo di Arlecchino, marito della moglie del suo padrone, ovvero la Cameriera nobile ; e tanto vi piacque, dice il {p. 661}D’Origny, per la energia, l’intelligenza e la precisione, che non si fu punto in forse di accettarlo in società. Nel 1740 – dice lo Ial – egli fu ricevuto come segretario, serbando la parte di Scapino : e l’ 8 maggio del 1754, tre anni dopo la morte della prima moglie, si unì in seconde nozze con Maria-Giacomina Commolet, figlia di un capo sarto, dalla quale ebbe due figli, e la quale morì il 30 luglio 1769.

Il Ciavarelli, alla morte della moglie, abbandonò il teatro dopo di avervi sostenuto con crescente successo la parte di Scapino per trent’anni ; e dopo un lustro a pena, morì a settantadue anni il 12 giugno del 1774.

Egli, dice il Campardon, di cui un celebre satirico aveva detto che faceva molto onore al suo stato, ispirò ad un poeta anonimo i seguenti versi :

Ciavarelli met tant de grâces
Quand il représente Scapin,
Qu’à ses lazzis, à ses grimaces
On le prendroit pour Arlequin !

Cicuzzi-Marchesini Regina. Fu attrice di grandissimi pregi per ogni genere di parti. Rappresentasse una serva o una regina, una contadina o una dama, vestiva sempre il personaggio con tale spontaneità e con tal verità che potè esser sempre annoverata fra le più forti attrici d’Italia. Fra le parti che ella recitò con singolar valore, Fr. Bartoli cita le protagoniste nella Ipermestra del conte Girolamo Pompei e nell’Arsene del Bevilacqua, da lei create e più volte replicate all’Arena di Verona nell’estate del 1767. I suoi primi passi nell’arte fece con Gabriele Costantini. Fu poi con Antonio Sacco, dal quale dice il Gozzi (Mem. II) per non essere gran cosa grata al Pubblico di Venezia, con tutto il di lei valore fu licenziata. Fu con Onofrio Paganini e con Pietro Rossi ; poi tornò col Sacco, con cui stette un triennio ; poi, alternativamente, ancora col Rossi, e con Pietro Rosa. Ebbe tre mariti, uno dei quali, il secondo, a noi sconosciuto. Gli altri due furono : il Cicuzzi, di Brindisi {p. 662}(il Gozzi lo chiama Cicucci), col nome del quale fu celebrata la Regina, e Giovanni Marchesini, pittor teatrale, figlio di Antonio Maschesini attore e capocomico. Toltosi il Rossi dall’arte, ella recitò alcun tempo col genero di lui, Luigi Perelli ; si fermò a Bologna assieme al marito e alla figlia con l’intenzione di lasciar per sempre le scene ; alle quali poi pare tornasse dopo un solo anno, scritturata nella Compagnia di Francesco Paganini.

Cicuzzi Angela. Figlia della precedente, ebbe dalla madre sua una educazione non comune : addestratasi nell’arte comica, del ballo e del canto, sapeva già, nel 1782 se ben giovanissima, farsi molto ammirare dal pubblico. Fr. Bartoli le dedicò il seguente sonetto :

Alla Signora Angela Cicuzzi Comica, Ballerina,

e che si diletta ancora del canto.

Bene a te si convien d’Angela il nome,
S’anco d’Angelo hai tu forme, e virtudi :
E se per belle vie fatichi e sudi,
Merti cinte d’alloro aver le chiome.
Un mostro di virtù fan ch’io ti nome
I rari pregi che in te nutri e chiudi.
S’oggi t’impieghi in dilettosi studi,
N’acquisti onor sotto si degne some.
Tu nell’arte di Roscio hai chiaro il vanto ;
Tu leggiadretto il piè movi nel ballo ;
Tu canora la voce isciogli al canto.
Ma nell’ampio del mondo orribil Vallo,
Per tua gloria maggior vinci poi tanto,
Che pure hai l’alma al par d’un bel cristallo.

Cicuzzi Gregorio. Cognato della Regina, nacque a Brindisi, e si diede giovanissimo al teatro, nel quale riuscì collo studio e il buon volere attore di qualche pregio nelle parti caratteristiche e di tiranno. Fu con Vincenzo Bazzigotti al fianco dell’Ugolini che gli fu largo di savi ammaestramenti nell’arte {p. 663}comica ; e con Costanzo Pizzamiglio, col quale stette più anni, non solo come attore, ma anche adoperato da’ suoi Compagni — dice il Bartoli — negli affari della Truppa, avendolo esperimentato per un Uomo di spirito, e ne’proprj divisamenti utilissimo alla società.

Cimador. Dai diarj del Sanuto, riferiti dal Rossi nella citata prefazione alle lettere del Calmo, rileviamo come il 7 febbraio del 1527 in casa Trevisan, dopo un bellissimo banchetto fosser recitate tre bellissime commedie una delle quali dal Cimador, figlio di Zan Polo, buffone.

Metto qui su di lui le parole dell’Aretino ne’ suoi ragionamenti, già riferite dal D’Ancona (op. cit.) : Io mi rido d’uno che lo dimandavano il figlio di Ciampolo (Giampaolo), secondo me, venetiano, che tiratosi dietro un poeta, contrafacea una brigata di voci. Egli facea un facchino, che ogni bergamasco glie l’avrebbe data vinta.

Cimadori Gio. Andrea. Ferrarese, fu noto nel teatro italiano per le parti di primo Zanni sotto ’l nome di Finocchio. E attore di grido dovette esser veramente, poichè lo vediam richiesto in più contingenze or dal Duca di Modena a quel di Mantova, or da Luigi XIV al Duca di Modena, di cui lo troviamo nel 1675 provvisoriamente e dal ’76 definitivamente, al servizio, assieme ai Fiala, ai Costantini, agli Areliari, al vecchio Riccoboni, all’Orlandi, al Narici e al Parrino. Interessante è la lettera del Duca di Mantova per certa larghezza di vedute nelle varie formazioni e alterazioni di Compagnia. Alla cessione di Finocchio, aggiunge queste parole :

Con tal occasione deuo dirle che conuenendo al presente far qualche permuta di simili soggetti per meglio aggiustare le compagnie, desiderarei ch’ella hauesse la bontà d’intendersi etiandio meco nella guisa che si pratica tra me, et il Signor Duca di Parma, mentre uariandosi alle uolte d’anno in anno li Comici, si proua maggior dilettazione e si dà campo agl’istessi di far più studio e riuscire assai grati all’Vditorio. Io ho uoluto dar questo motiuo à Vostra altezza in segno dall’ottima volontà mia, che professo di caminaretrà di noi con ogni uicendeuole et affettuosa corrispondenza…..

E in gran conto dovè il Duca di Modena tenere il Cimadori, dacchè in due lettere del Duca di Mirandola al Principe {p. 664}Cesare D’Este in data dell’ ’81, è descritto il grande affanno patito dal Conte Cornelio Pepoli per la voce sparsasi di aver egli potuto mancare a Sua Altezza col far battere Finocchio comico. E avendo il Duca risposto sulla attendibilità delle relazioni avute, si dovè procedere a una inchiesta. La notizia della morte di Finocchio a Lione, mentre era in viaggio per Parigi, l’abbiam dai fratelli Parfait per detta di Antonio Riccoboni, ma la data di essa (tra ’l ’73 e il ’75) è assolutamente erronea. Forse il Riccoboni si è ingannato colla dimanda dell’artista per parte del Re di Francia, ma, quella volta almeno, Cimadori non potè muoversi assolutamente da Modena, per una malattia incurabile qualificata dal Dottor Francesco Tonani per passione asmatica con scirio nelle visere naturali et propensione alla idropisia, che se non l’obbligava al letto, non gli permetteva in alcun modo di intraprender viaggio alcuno senza rischio della vita.

E l’attestato del medico fu inviato all’abate Riccini a Parigi con lettera autografa del Serenissimo di Modena addì 28 settembre 1684. Tuttavia, come nel Cimadori si notò un leggiero miglioramento, il Duca, dopo di aver dimostrato largamente la impossibilità di far partire Finocchio, conchiude con queste curiose e poco edificanti parole :

Atteso con tutto ciò quello che Vostra Signoria ci motiua e già che pare che sia in qualche miglioramento noi facciamo speditamente partirlo, stimando minor male l’azardare la di lui persona che potesse mai questa dilazione essere interpretata costì a difetto di prontezza e di uolontà.

E la servitù alla Casa di Francia, fu provata mi pare a esuberanza col sagrificio della vita…. altrui.

Fra i documenti che concernono il Cimadori abbiamo anche una sua polizza di debito in data 28 aprile 1677 verso Don Alfonso d’Este per doppie n.° sei da restituirgli a suo beneplacito : ed è firmata io Gio. And.ª Cimador detto finocchio.

Cimarelli Pietro. « Comico, che nella Compagnia della Faustina Tesi ebbe impiego per alcuni anni, recitando nel carattere {p. 665}dell’Innamorato, e che anche presentemente (1782) fa valere il suo spirito sopra i Teatri della Lombardia. » Così il Bartoli.

Cintia. Nelle Rugiade di Parnaso (Cosenza, 1654), poesie di Carlo D’Aquino della Compagnia di Gesù, il traduttor latino di Dante, è il seguente sonetto, già riferito dal Croce (op. cit.) :

In lode di Cintia, comica famosa.

Non così vaga, o Cintia, in ciel tu giri,
ricca di tanta luce il volto adorno,
quanto quest’altra Cintia, ond’hai tu scorno,
gira degli occhi i lucidi zaffiri.
Ne’ più vaghi concetti, o Cintia, spiri,
qualor tu sei alle tue suore intorno,
di costei, che non so, quando a lei torno,
se più bella o faconda il ciel la miri.
Al gratioso suo girar dei lumi,
languiscon l’alme e van le grazie ancelle,
apprendendo da lei leggi e costumi ;
A le mutanze sue leggiadre e belle
sian palchi i cieli e spettatori i Numi
e per lampade e faci ardan le stelle.

Chi era essa ? o, al meno, di qual Cintia intende qui di parlare ? Forse di quella stessa annunciata da Gio. Batta. Andreini il 1623, prima di recarsi in Francia, come novo astro sorgente, pieno di giovinezza e di grazia ? Il sonetto pubblicato nel 1654 poteva essere stato composto alcuni anni prima, e la giovine ben promettente, poteva essere ancora tra le comiche famosa a poco più o poco men de’ quarant’anni. O forse è un lieve error di data nel Quadrio, e dovrebbesi in questa Cintia riconoscer la Dorotea Cortigiana degl’Inganni, comica celeberrima, lodata da poeti e poetessa anch’ella ? (V.).

Cioffo Nicola. Artista napoletano di gran nome per le parti di Tartaglia. « Oltre il suo proprio merito — scrive Fr. Bartoli — si può a questo comico attribuire il vanto d’essere stato il {p. 666}maestro del rinomato Agostino Fiorilli. » Era il Tartaglia della Compagnia di Domenicantonio Di Fiore, prima a’Fiorentini, poi, nel 1739, al Casotto del S. Carlino, sostituendo in questo anno a quelle del Tartaglia le parti di Vecchio, poi, nel 1746 al Nuovo, dove creò la parte di Rambaldo nello Scherzo comico del Di Fiore, musicato dal D’Aquino, altro comico — Fra lo sdegno nasce amore. — Fino al 1768 però, secondo la ricostruzione del ruolo della Compagnia di Tommaso Tomeo, fatta dal Di Giacomo, il Cioffo riapparirebbe sotto l’antica maschera del Tartaglia, per la quale salì in grandissima fama.

Ciotti Francesco, nato a Firenze il 1835 da un impiegato di dogana, fu per trentasette anni il più aristocratico, è la vera parola, tra gli attori del suo tempo : aristocratico nella dizione, nei modi, nel vestire, nella persona, nella voce, in tutto. Esordì qual primo attor giovine, a diciotto anni, in Compagnia Domeniconi, al fianco di Amalia Fumagalli, Alessandro Salvini, Amilcare Bellotti, Gian Paolo Calloud, e a ventun anni, uscito di Compagnia Salvini per un ripicco, Francesco Ciotti fu assunto al grado di primo attore assoluto, e iniziò, si può dire, il nuovo ruolo con una stupenda creazione al Teatro Re di Milano del protagonista nella Satira e Parini di Paolo Ferrari. Trascrivo dall’Arte drammatica del 7 febbraio ’91 lo stato di servizio dell’egregio artista :


1854-58 Compagnia di Luigi Domeniconi
1859-60 ……. Gaspare Pieri
1860-63 ……. Adelaide Ristori
1864 ……. Romagnoli e Colomberti
1865-67 ……. Luigi Bellotti-Bon
1868-69 In Società con Lavaggi, Dondini e Piamonti
1870-72 ……. Marchi e Lavaggi
1873-75 …….Marini e Morelli
1876 Compagnia di Raffaello Giovagnoli
1877 Riposo
1878-79 In Società con Belli-Blanes e Bozzo
1880-81 ……. Giovanni Aliprandi e Giulio Casali
1882-83 ……. Buzzi e Fagiuoli
1884 …….Adelina Marchi ed E. Casilini
1885-87 Compagnia di Andrea Maggi
1888-91 …… Gio. Batta. Marini

{p. 667}[http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img042.jpg]

Al finire della sua vita artistica, il Corriere della sera di Milano del 14-15 febbraio dedica al caro artista un lungo articolo dal quale trascrivo i seguenti brani che mi par compendino in poche parole le belle e rare doti di lui.

Se colle loro personalità eminenti, Modena, Salvini e Rossi dànno il marchio ad un’epoca nella storia del teatro italiano, Ciotti appartiene alla plejade eletta di quei ferventi, studiosi cultori dell’arte, che sono i più efficaci strumenti del gusto del pubblico. Attore distinto, come diremo più innanzi, non portò sulla scena i convenzionalismi della scuola, piacendo anzi per quella sua naturalezza spontanea del gesto, del portamento, e sopratutto del dire. Comparso alla ribalta quando il periodo eroico del teatro italiano era sul tramontare, non si lasciò prendere dal tono enfatico, dal fare atteggiante all’eroico de’comici più in voga del suo tempo, ma si accostò per intuito forse delle nuove esigenze, {p. 668}ma senza dubbio per sentimento individuale, a quegli attori come il Bellotti-Bon, per dirne di uno, che prepararono il gusto attuale della recitazione semplice della commedia.

Figura aggraziata e severa insieme, lineamenti simpatici, era un forte tipo bruno, onde all’estero lo dicevano tipo italiano ; vestiva con suprema eleganza sicchè dava l’illusione del signore, aggiungendo il porgere dignitoso. Molta parte della sua fortuna la dovette però, come qualche suo compagno, alla voce armoniosa, che insinuante accarezzava l’orecchio del pubblico ; e nei paesi meridionali il giudizio dell’orecchio è superbissimo, prepotente. Si ricordano ancora a Milano gli entusiasmi quando Ciotti appariva nel Falconiere di Pietr’Ardena a far da sirena dicendo i versi melodiosi del Marenco. Allorchè alla fine del prologo rispondeva al lamento della sua amata, per tre volte, in tono diverso, « Ci verrò » tutti erano in piedi : insomma un buggerio, come dicono i comici. Il signor Eugenio Lombardi, direttore del Teatro Manzoni, ci diceva che allora gli capitavano dalle provincie vicine vaglia e lettere raccomandate di smaniosi che si assicuravano i posti per le repliche — fenomeno che non s’è più ripetuto. E tra il tumulto per le feste a Guglielmo, Imperatore di Germania, venuto a Milano nel 1875, i giornali registravano i fanatismi del Trionfo d’amore di Giacosa, ripetuto 15 sere, i cui versi, come un’onda melodica, uscivano dalla bocca di Ciotti e di Virginia Marini.

E ai successi della Satira e Parini, del Falconiere, del Trionfo d’amore, possiamo aggiunger quelli della Prosa, del Ridicolo, della Messalina, della Catena, del Pietro o La gente nuova, del Rienzi, del Lorenzino de’Medici, scritto per lui dal vecchio Dumas, del Duello, dei Mariti, ecc. Egli appartenne a quella falange gloriosa di artisti, e ne fu principale ornamento, capitanata da Luigi Bellotti-Bon.

Nello studio critico di Luigi Capuana sui Mariti di Torelli, si leggon queste parole :

Il Ciotti (Fabio Regoli) non rappresentava un personaggio a forti risalti, tale da dargli campo d’adoperare una grande varietà di colorito. Però recitò con giustezza e con diligenza inappuntabili. Sotto quella sua dolce serenità si vedevano la risolutezza, la fermezza e la nobiltà dello stupendo carattere dell’avvocato ; e la sua voce seppe trovare inflessioni piene d’affetto gentile, di dignità profondamente sentita ma senza albagia, che improntavano al personaggio una vita dove l’arte pareva affatto estranea, e dove intanto fors’era più grande.

Francesco Ciotti vive oggi a Pistoia, dove di quando in quando mostra ancor l’arte sua forte e gentile a quei filodrammatici ; e d’onde si recò a Firenze il ’93 nella ricorrenza del 1° centenario dalla morte di C. Goldoni, per sostenervi al fianco di T. Salvini la parte del vecchio Andreuve, nella quale mostrò come i suoi cinquantotto anni fosser sempre, al lume della ribalta, una giovinezza gagliarda.

{p. 669}Ciotti-Sartorio Costanza. Moglie del precedente, figlia del Custode del Teatro della Canobbiana, nacque a Milano il 1836. Cresciuta si può dir su la scena, desiderò vivamente di farsi artista ; e dopo una felice prova coi filodrammatici, entrò amorosa il ’54 con Giovanni Leigheb ed Ernesto Rossi. Passò il ’56 collo stesso ruolo in Compagnia di Alessandro Monti, e il ’58, come seconda donna, in quella di Luigi Domeniconi, nella quale conobbe e sposò Francesco Ciotti. Recitò fino al ’70 ; poi dovette abbandonar la scena per mal ferma salute, e si ritirò a Firenze nella casa del marito. Nell’ ’85 le si sviluppò una cruda malattia cerebro-spinale, che in capo a cinque anni di patimenti la condusse al sepolcro. Fu la Costanza amantissima dell’ arte, attrice accurata, elegantissima della persona, e dell’aspetto leggiadra. Creò la Contessa Paola nella Satira e Parini e Teresa nella Prosa di Ferrari, e fu la prima Baronessa nel Figlio di Giboyer di E. Augier.

Ciotti Itala. Figlia dei precedenti, nacque a Torino l’aprile del ’59. Fece i suoi primi studi in un istituto a Firenze, ed entrò a undici anni, nel collegio Borde di Milano, dal quale uscita dopo cinque anni fece dolce violenza al padre perchè la lasciasse tentar la prova della scena. A Nizza, nel 1881, dovendosi un giorno mutar lo spettacolo per improvvisa malattia della prima attrice giovine Emilia Aliprandi, si offrì l’Italina di sostituirla in quella parte (che era la Camilla nella Donna Romantica di R. Castelvecchio) per la sera stessa. Fu accettata l’offerta, e la giovane esordiente, già padrona di tra le quinte e delle parole e delle situazioni, recitò come artista provetta, ottenendo il migliore de’successi ; e tanto andò poi di sera in sera progredendo, che nell’ ’82 fu la prima attrice giovine della Compagnia sotto Giovannina Aliprandi. E il ruolo mantenne con crescente favore del pubblico, gentile e viva promessa dell’arte, sino all’ ’84 : in cui, innamoratasi a Bari di un egregio ufficiale, che poi sposò, lasciò il teatro per recarsi a Firenze nella casa paterna.

{p. 670}Ciuccio Andrea. (V. Calcese).

Civili-Paci Laura. Figlia di Francesco Civili, nacque verso il 1790. Era, il 1813, prima donna giovine della Compagnia Dorati ; e, più tardi, della Reale Italiana condotta dal Fabbrichesi, nella quale suppliva la prima donna Anna Pellandi. Nel’ 19 fu a Tolentino con lo Zuccato e la Zannarini, e s’ebbe lodi moltissime. Sposò il bravo primo amoroso Luigi Paci, del quale restò vedova nel ’21. Fu prima donna con Luigi Vestri, poi seconda donna di nuovo col Fabbrichesi, col quale restò fino all’anno in cui lasciò definitivamente le scene, che fu il 1827.

Civili Carolina. Figlia di Filippo Civili, artista mediocre per le parti di tiranno, cominciò da bambina a esercitar l’arte del padre, e la precocità dell’intelligenza diede segni manifesti dell’alto grado a cui sarebbe salita adulta. Iniziata ne’segreti dell’arte dalla zia materna, la celebre Carolina Santoni, si fece vivamente applaudire, qual prima donna giovine, a soli sedici anni. Trascorso vario tempo in quel ruolo, colla zia (era in Compagnia Domeniconi il 1844), entrò prima attrice assoluta con Antonio Stacchini, poi di nuovo con Luigi Domeniconi. Si recò poi in Ispagna per invito della zia Santoni.

Fu la Civili di slanciata e imponente figura ; di fisionomia attraente e nobilissima ; nella tragedia specialmente esercitava sugli spettatori un fascino indicibile : e i pubblici di Torino, Roma, Parma, Milano, Genova le furon prodighi in ogni tempo di acclamazioni entusiastiche.

{p. 671}Clarini Virginia. Al nome di Virginia, moglie di Giambatista Andreini, il Quadrio (op. cit.) dice : « Una Virginia Clarini detta Rotalinda trovo pure da alcuni rimatori lodata, come eccellente nel rappresentare con maestà le alte matrone. Questa seconda non è però dalla prima diversa, che fu di casato Clarini, e innestata negli Andreini. » Errore evidente, poichè è omai provato come l’Andreini fosse di casato Ramponi. La Clarini, nota in teatro col nome di Rotalinda, fiorì intorno al 1665. Il Bartoli riporta il seguente sonetto del Marchese Girolamo Ugolani Milanese, tratto dalle sue Rime (Milano, Marelli, 1667) :

Allude l’Autore al soprannome di Rotalinda

Ruota Ission, e la volubil ruota
l’eternità ne’giri suoi predice ;
e neppur una (ohimè) sperar ti lice
dal tuo lungo girar un’ora immota.
Col rostro adunco il crudo Augel percota
del redivivo cor l’esca infelice :
saprà per eternarlo un Giove ultrice ( ?)
eternar le tue pene in una ruota.
Ogni cosa qui ruota : e Cieli, e Morte,
e del venturo dì ruota l’Aurora ;
sicchè ogni cosa è nel rotar sicura.
Ruoti dunque Ission, ruoti la sorte,
ruotino i Cieli, a Rotalinda ancora
ruotar veggo soggetta or la Natura.

Clavignano Sebastiano da Montefalco. Fiorì nella prima metà del decimosesto secolo. Recitò nella Cassaria e nella Lena dell’Ariosto ; poi, il 1541, nell’Orbecche del Giraldi ; poi, il ’45, nell’Egle dello stesso Giraldi. Il De Sommi lo cita assieme al Verato e ad altri fra quelli che si dilettaron di recitar perfettamente : e lo dice mirabile. Il Giraldi poi scrive che non si vide mai uomo che avesse ugualmente i risi e i pianti in mano {p. 672}a sua voglia, e la voce e i gesti acconci a questi e a quelli, come egli ha, e fa avere a tutti coloro che sono ammaestrati da lui, tal ch’egli solo si può dire l’Esopo e il Roscio de’nostri tempi.

Cola. Chi si celasse sotto questo nome di teatro non sappiamo. Un forte artista senza dubbio, se il Duca di Mantova lo sostituì nella Compagnia che si recò a Parigi nel 1608 al celebre Arlecchino Martinelli, raccomandandolo vivamente alla Maestà della Regina con la seguente del 14 novembre 1607, alla quale accenna il Baschet (pag. 163).

In luogo d’Arlechino che non ha potuto venire a V. M. per le ragioni da me già significatele, ho procurato che venga Cola, personaggio che non le sarà forse di poco gusto, ma la supplico ad haver di lui particolare protetione con sicurezza che le gratie ch’egli riceverà da lei obbligheranno me ; e qui con debita riverenza della M. V. inchinandomi, l’auguro per fine ogni maggiore prosperità.

Le ragioni significate, devon esser quelle della vecchiaia, che sono in una nuova lettera del Duca alla Regina, di cui il Baschet non riferisce che il seguente brano in francese.

Egli è per ciò ch’ io ho fatto si che Cola entrasse nella Compagnia. È un nuovo personaggio che pe’ suoi salti e pe’ suoi gesti, non piacerà forse meno di Arlecchino, il quale, d’altronde invecchiato, non più divertiva come una volta. Intanto, io prego Vostra Maestà di aver questi comici come raccomandati alla Sua benevolenza e alla Sua protezione.

Per quante ricerche fatte nell’Archivio dei Gonzaga, la lettera originale non s’è potuta rinvenire, spostata molto probabilmente dal Baschet quando fu a Mantova nel ’66, come si ebbe a verificare per altre lettere.

Il 3 luglio 1608 il Delfino fu condotto per la prima volta alla Commedia Italiana, ove potè vedere con grande stupefazione quel famoso Cola, che pure mescolava alla sua recitazione de’salti ginnastici sin allora poco noti, e che i cronisti del tempo dicon essere stati sorprendenti.

Cola Carlo. Figlio di un suggeritore, cominciò a recitar parti di brillante nelle varie compagnie che suo padre andava formando in società. Datosi poi al ruolo di primo attor giovine, {p. 673}fu in Compagnia di Bellotti-Bon con Virginia Marini negli anni ’79-’80-’81, durante i quali s’era acquistato buon nome specialmente per la parte di Morto da Feltre nella Cecilia di Pietro Cossa ch’egli recitò di tal modo da non aver mai chi lo superasse. Si fece poi conduttore di compagnie di terz’ordine, recitandovi mediocremente le grandi parti di primo attore.

Collalto-Matteucci Antonio. Nacque a Vicenza nel 1717 circa ; e dopo di essere stato soldato in una compagnia di dragoni, si diede al teatro, sostenendovi mirabilmente le parti di Pantalone. Chiamato a Venezia dal Medebach, toccò in poco tempo sotto gli ammaestramenti di Carlo Goldoni il sommo della celebrità. Verso il 1754 sposò in Venezia Lucia Rosalia, figlia di Vincenzo Cinigoto, da cui ebbe una figlia, battezzata a Santa-Marina. Volata la fama della sua grandezza artistica a Parigi, i comici del Re lo invitarono a recarsi colà, dove esordì il 20 settembre 1759, succedendo a Carlo Antonio Veronese, sotto la maschera di Pantalone in una commedia di Sticotti figlio e Moramberg, intitolata : Le avventure della caccia. Il 26 febbraio 1760 fu già ricevuto in società con tre quarti di parte, e l’11 marzo 1765 con parte intera.

Egli abitò a Parigi dapprima in via Contessa d’Artois poi nella via del Sobborgo S. Dionigi, ove morì il 5 luglio del 1778. Fu sepolto il domani nella chiesa di S. Lorenzo sua parrocchia, assistito da 44 preti, in presenza d’Innocente Collalto suo fratello e di suo genero che firmarono Innocente Collalto e Felix Gaillard. Il Collalto non dev’ esser dunque un soprannome del Pantalone, ma un secondo nome di famiglia. Infatti, nell’atto di morte egli è chiamato Antonio Mattiucy Collalto.

Il Goldoni ha parole di calda ammirazione per l’ingegno e l’arte del Collalto, alla grandezza della quale egli aveva, come ho già detto, contribuito in Venezia co’suoi insegnamenti. Intorno all’Avventuriere onorato (Ediz. Pasquali) egli dice :

Io anzi aveva prima un tal Personaggio scritto nella nostra favella, perchè destinato era a sostenere la parte un valorosissimo Pantalone, vale a dire il Sig. Antonio {p. 674}Collalto, che dopo di avere riscossi lunghi applausi in Italia, passato è a Parigi, dove presentemente è stimato ed applaudito qual merita.

E intorno ai tre gemelli veneziani, di cui il Collalto era l’autore (Mem. III, 3) :

Quest’ uomo intimamente comico, aveva l’ arte di far parlar la sua maschera, ma a viso scoperto brillava ancora di più. Aveva rappresentata in Italia una delle mie commedie intitolata i due gemelli veneziani, l’uno de’quali era balordo, e l’altro spiritoso : vi diede una nuova forma a questo soggetto, ed aggiunse un terzo gemello cruccioso e collerico, rappresentando a perfezione questi tre differenti caratteri. Fu estremamente gustato ed applaudito, e mi feci un vero piacere di dar a lui tutto il merito dell’imaginazione.

Dell’ arte del Collalto nella rappresentazione di questa commedia dice con più larghezza il Bartoli :

Il Collalto rappresentava fra l’ altre una Commedia di sua particolare fatica, che aveva per titolo : i tre veneziani gemelli. Il primo armigero, il secondo sciocco, ed il terzo accorto. Egli altro non faceva che cambiar la perrucca, avendola, a norma del personaggio che esprimeva, una nera, una bigia (e queste rotonde), e l’altra alla francese colla borsa appiccata. Con questo piccolissimo, ma notabile cangiamento, unito però ad una total mutazione della voce e del portamento, cranvi molti che non poteano persuadersi che fosse sempre egli solo, che quei tre personaggi rappresentasse. Passò nella Provincia a giocare questa sua Commedia, e colà recitolla tutta in francese, e diella colle stampe alla luce. Grande abilità aveva il Collalto ; ed i doni della natura erano stati in lui profusi. Una bella presenza, una buona voce, ed uno spirito inimitabile contribuivano moltissimo a renderlo maggiormente l’idolo de’suoi protettori. Molto guadagnò e molto spese, perchè gli piacque di trattarsi alla grande……

E aggiunge che lui vivo, forse non sarebbe avvenuta l’abolizione del genere italiano nella Commedia a Parigi, che fu nel 1780, circa un anno e mezzo dalla sua morte.

Il D’Origny, pure contemporaneo del Collalto, ha parole caldissime sull’arte e l’indole di lui, in aperta contraddizione con quelle del Bartoli, col trattamento alla grande. Trascrivo intero l’articolo che è a pag. 124, vol. II, de’suoi Annali del Teatro italiano, riferito in parte dal Journal de Paris.

Il Siguor Antonio Colalto morì il 5 Agosto ( ?). Si hanno di lui diciassette comedie, di cui la maggior parte rappresentate con successo : tra queste i tre gemelli veneziani. Sosteneva con molta anima e con molta intelligenza il ruolo di Pantalone, ed era specialmente ammirato nelle scene appassionate, in cui l’anima sua ardente poteva mostrarsi tutta intera. Alcune inflessioni sublimi e precipitose rivelavan le passioni varie ond’era agitato : si leggeva l’espressione del dolore, della collera, della gioia a traverso una orribile maschera nella quale il suo ingegno superiore aveva saputo trionfare. Nè si smenti nella rappresentazione del comico : la commedia dei tre gemelli ne è la prova. In essa egli era {p. 675}alla sua volta galante, amoroso, appassionato, brusco, impetuoso, duro, sciocco, imbecille e fin anco sfigurato. Ei lasciava dubitar se fosse lui davvero, ingannava gli occhi i più avvezzi a vederlo, e giustificava l’entusiasmo di Garrick, uno de’ primi comici dell’ Europa.

L’uomo, in Colalto, non la cedeva all’autore. Modesto, semplice, disinteressato ; il suo candore domandava grazia all’ invidia. Scrupoloso osservatore de’suoi doveri, non se ne schermì mai. La famiglia sua divideva il frutto de’suoi guadagni, e ringraziava lo sventurato che il caso aveva offerto alla sua generosità.

Egli si è spento nell’angoscia di un disfacimento lento e doloroso. I suoi figli che non han lasciato mai il suo capezzale, se lo son visto morir tra le braccia.

Egli ha sentito tutte le lor cure, e l’ultime parole da lui proferite sono state di riconoscenza. I suoi occhi s’eran fissati su la stampa del paralitico ajutato da’suoi figli : a piedi dell’incisione son questi versi :

Si la peinture d’une image
est la vérité de l’objet,
que le sage artiste a bien fait
de mettre la scène au village !

« Figli miei — dice loro il morente con un fil di voce — l’autore di questi versi non vi conosceva. »

Collalto-Gaillard Caterina Maria Antonia. Figlia del precedente, nacque a Venezia il 18 settembre 1755. Recatasi co’genitori a Parigi, vi sposò l’ 11 aprile 1774 Felice Gaillard attore alla Commedia italiana, alla quale il 26 aprile dello stesso anno ella esordì come amorosa del genere italiano, colla parte di Angelica nella commedia di suo padre : Pantalone ringiovanito. Fu accettata il 1775 con 1800 lire di stipendio, e congedata il 1780 assieme agli altri comici del genere italiano con lo stipendio di sei mesi a titolo di gratificazione.

La sua accettazione alla Commedia italiana fu dovuta alle vive sollecitazioni di tutti i comici, che dopo la morte di Collalto la condussero essi stessi dinanzi al Gentiluomo della Camera, e vivamente la raccomandarono in memoria del loro amato e illustre compagno.

Colleoni Marta. Attrice rinomata, ma più rinomata capocomica, nacque a Venezia il 1760 da un impiegato alla Quarantìa Criminale, di cui non giunse il nome sino a noi. Capitato a Venezia un Francesco Colleoni di Brescia, giovane elegantissimo, dai modi eletti, dalla fisionomia aperta, secondo amoroso della {p. 676}Compagnia di Petronio Zanerini, e occorsagli sulla riva degli Schiavoni la Marta, giovinetta allora sedicenne, tanto egli se ne invaghì che la domandò in isposa.

L’arte del commediante era a que’tempi riguardata più tosto come un volgar mestiere ; e regnava nella famiglia il pregiudizio di aver macchiato l’onore, imparentandosi con gente di teatro : quindi le ripulse del padre. Ma i due giovani si amavano : la Marta, in tanta avversità s’andava stemprando in lagrime, e di giorno in giorno assottigliando ; la madre chiamava il marito carnefice del proprio sangue, e il giovine incalzava : e tanto si armeggiò, tanto si implorò, che il padre tediato più che convinto, finì col cedere. Divenuta moglie di Colleoni, la Marta cominciò a manifestar viva inclinazione all’arte ; e provatasi in particine di niun conto, con tanto garbo le sostenne da invogliare il capocomico Zanerini a occuparsi seriamente di lei. E tanto di consigli e di ammaestramenti la soccorse che in capo a due anni ella diventò una delle più acclamate prime amorose così nelle commedie scritte come in quelle all’improvviso.

Scioltosi poi il Colleoni dalla Compagnia Zanerini, ne formò una per proprio conto, in cui la Marta sostenne le parti di prima donna assoluta ; e pel merito di entrambi e degli artisti tutti che la componevano, fu quella compagnia giudicata delle migliori che scorresser l’Italia. Morto dopo quattordici anni il marito in Mantova, la Marta continuò a condur compagnia, di cui fu il principale ornamento fino al 1810, nel quale anno cessò di vivere in Venezia.

Sappiamo dal Gandini (Cronistoria dei Teatri di Modena. Ivi, 1873, I, 163) che la Marta Colleoni si trovava il 1796 a Modena al Teatro Rangoni, e che, appoggiata anche dal General Rusca, chiese alla Municipalità il permesso di far delle Tombole, onde risarcirsi della perdita fatta di modenesi L. 7255, perchè interveniva al Teatro pochissima gente. Tornò poi a Modena il marzo del ’99, e vi recitò il Matrimonio Ebraico, ossia la Sinagoga, parodia dei riti israelitici che suscitò un diavoleto in {p. 677}teatro, pel quale fu necessario l’intervento delle autorità. (Ivi, 186). L’ultima comparsa in Modena della Compagnia Colleoni fu nel marzo del 1802.

Colletta Orazio. A questo comico è fatto cenno nella lettera seguente che tolgo dall’ Archivio di Stato di Modena :

Ser.mo sig.re

Horatio Colletta da Ferrara con tutta la sua compagnia de Comici hauendo uisuto sempre desideroso di servire la serenissima casa d’Este, et hora più che mai, et uedendo, che in questa Città non si trouano altri comici, et essendoli noto la sua humanità che tiene in fauorire li uirtuosi comici uiene esso pronto ad offerirsi di seruirla con tutta la sua compagnia anzi a pregarla, che si uoglia degnare di accettare al suo seruitio per questo poco carneuale poiche esso si offerisce pronto di seruirla se non quanto che comporta la sua grandezza, almeno secondo che comportara il loro poco sapere, et di piu l’oratore a nome di tutta la compagnia la prega a uolere restar seruita di honorarla di farli prouedere di un luoco opportuno a potere recitare. Che il tutto riceuera per gratia singularissima. Quam Deus &.

Di fuori :A Sua Altezza Serenissima

Per

Horatio Colletta Comico

Annotazione della Cancelleria. S’è scritto.

Colli-Pellegrini Aldigonda, nata in Fermo nel 1783, entrata in arte giovanissima, trovò modo di farsi ammirare in molte città del napoletano. Recatasi il 1806 nella capitale recitò le parti di seconda donna alla Fenice e al S. Carlino, non lasciando alcuna traccia del valor suo. Ma quando a varj attori della antica Compagnia Giancola venne in mente di rappresentar l’Annella tavernara di Porta Capuana, ella si rivelò attrice fortissima nella caratteristica parte della vecchia Porzia che recitò colla maschera al viso ; e a quella della Porzia seguì la parte della Baronessa Cofani che rappresentò con successo ognor crescente. Venuta l’amministrazione del teatro {p. 678}nelle mani di Silvio Maria Luzj, si deliberò di rinsanguare il S. Carlino, rifacendo di pianta il repertorio ; a cotesta riforma cooperò validamente Filippo Cammarano, il quale ebbe in Aldigonda Colli la più forte e valorosa interprete dell’opera sua varia e copiosa.

Di lei, scrive la Moda del 1841 :

Sdegno, amore, gelosia, puntiglio, vanità, presunzione, ironia, sarcasmo, civetteria e moine d’ogni specie, tutto quanto appresentavasi alla ferace fantasia del Cammarano, trovò nella Colli il riso, il gesto, il contegno, la voce, il piglio ed i lazzi convenienti ; si che penato si sarebbe a trovarle non che l’eguale, la seconda. Efficace in tutte queste cose fu il potere del suo ciglio e tanto animato il volto che bastava vederla una sola fiata per non dimenticarla più mai.

Ma in nessun’altra forma portò ella mai la naturalezza e la verità ad un più alto segno, nè mai fu più lepida e sagace che nel carattere di quella donna che i Francesi esprimono interamente col termine prude e che noi indichiamo a metà con gli aggettivi schifiltosa, schizzinosa, smancerosa, leziosa, smorfiosa, ecc. Se questa penna far potesse l’ufficio di pennello, i nostri lettori vedrebbero la vera immagine d’una pulcella di 45 anni che tutto ha perduto fuorchè la speranza di piacere, e, contro l’aspettativa, si trovi per caso o malizia altrui, al cospetto di un qualche bell’uomo.

L’effetto che produce in una donna dimenticata una equivoca dichiarazione di amore, il passaggio che ella fa da una finta modestia ed un finto sdegno alle leziosaggini d’un simulato pudore, e ’l raccoglimento o sconcerto dello spirito, la ricomposizione o turbamento del volto, e la mutazione della voce che in lei succedono al disinganno, tutto questo ed altro ancora dipingevasi si vivo nella Colli, che la illusione toccava il massimo suo grado. Ajutata era in ciò da un volto in cui leggevasi come in nitidissimo specchio il transito d’ uno in altro pensiero, indizio d’una mente studiosa di quanto le accade intorno, indizio d’una fibra da cui riverbera la sensazione come raggio da superficie lucente.

E Salvatore Di Giacomo :

Altigonda Colli, la romana passata dalla Fenice al S. Carlino, preparò il suo debutto di caratterista nelle Funnachere, con pellegrinaggi continui ai quartieri di Porto e di Pendino ove imparò la lingua e il costume della nostra gente, diventandovi, pur dopo breve tempo, di tutte e due cose padrona in tale maniera da meravigliare quanti l’avevano udita, da prima, romaneggiare nell’antico repertorio semidrammatico. Or ella …….. interpretava meravigliosamente la nuova produzione artistica di Cammarano, colorendola ove mancasse di colore, drammatizzandola quando vi languiva il dramma, alitandovi per entro la passione e la verità.

Ammalatasi nel Carnevale del 1840, fece ancor qualche rara apparizione sulla scena, che dovette abbandonar poi per sempre nell’aprile. Morì il 6 di ottobre, sostituita da Serafina Zampa, l’unica, a detta del pubblico, veramente degna di accogliere la grande eredità da lei lasciata al celebre teatrino di Piazza Castello.

{p. 679}Collinetti Francesco, veneziano, fu attore di assai merito nella maschera di Pantalone, ch’egli assunse per sostituire Andrea Cortini al S. Samuele. Il Goldoni, che lo chiama Francesco Bruna, detto Golinetti, dice di lui nel vol. XV dell’ Ediz. Pasquali :

Passabile era il Gollinetti colla maschera di Pantalone, ma riusciva mirabilmente senza la maschera nel personaggio di veneziano, giovane, brillante, giocoso, e specialmente nella Commedia dell’Arte, che chiamavasi il Paroncin. Il Paroncin veneziano è quasi lo stesso che il Petit-Maître francese ; il nome almeno significa la stessa cosa ; ma il Paroncin imita il petit-maître imbecille, ed evvi il Cortesan veneziano, che imita il petit-maître di spirito. Il Golinetti era più fatto per questo secondo carattere, che per il primo.

L’ osservai attentamente sopra la Scena, l’ esaminai ancora meglio alla tavola, alla conversazione, al passeggio, e mi parve uno di quegli attori, che io andava cercando. Composi dunque una Commedia a lui principalmente appoggiata, col titolo di Momolo Cortesan…… Il Golinetti la sostenne con tutta la desiderabile Verità…..

Delle due commedie il Paroncin e il Momolo Cortesan sulla Brenta, divenuto poi il Prodigo, altra commedia dal primo Momolo Cortesan che fu poi l’ Uomo di mondo, il Bartoli erroneamente dice il Gollinetti inventore. Il Goldoni (ivi, XVI) ci narra particolareggiato l’ accaduto, generato dalla vanità dell’ attore.

Circa all’ incontro di questa Commedia, è necessario che prima di parlarne racconti una burletta, una bizzarria che mi è caduta in capo in quel tempo. Il bravo Gollinetti non contento dell’ applauso, che meritava la buona esecuzione della parte, che io gli aveva data nel Momolo Cortesan, ha voluto ancora arrogarsi il merito dell’ invenzion delle scene e del dialogo che piaceva. Siccome una gran parte di quella commedia era a soggetto, ha fatto credere agli amici suoi, che anche la parte sua era opera del suo talento, e che tutto quel che diceva, lo diceva all’ improvviso. Tutti non pensano che chi parla all’ improvviso non dice sempre le stesse cose, e molti non badavano che il suo discorso era sempre il medesimo ; e gli credevano. Piccato anch’ io, non so se dall’ amor proprio, o se dall’ amor della verità, ho immaginato di trovar la via di umiliarlo e di farlo in pubblico. Ho scritto dunque intieramente il Prodigo sulla Brenta, e poi ho ricavato dalla Commedia lo scheletro, o sia il soggetto, e l’ ho dato ai Comici, tenendo nascosta la Commedia scritta. Trovarono il soggetto buono ; accennai qualche cosa per istruire gli attori sopra quel che dovevan dire ; la Commedia andò in iscena e non dispiacque ; ma il Golinetti andò in terra, perdette affatto il suo spirito, la sua facondia ; e non riconoscevan più quel bravo Momolo che li aveva incantati. Ritirai la commedia tre giorni dopo, ed il medesimo giorno diedi ai comici l’altra ch’ io avevo scritto ; e copiate le parti e provata e rappresentata, comparve un’altra, e riuscì sì bene che niente più si poteva desiderare. Il Gollinetti confessò il suo torto, riacquistò il suo credito di buon attore, senza usurparsi quello di Autore……

Nel 1748-49 passò in Varsavia colla Compagnia italiana, e nello schizzo apparso a Stuttgart, nel 1750, è detto di lui {p. 680}che era un uomo alto e ben tagliato. Il suo ruolo era quello del Pantalone che rappresentava nel modo più naturale : pure sosteneva con egual valentìa un giuocatore o un buontempone. Era di carnagione bianca e di lincamenti finissimi. Aveva a pena quarant’ anni. E di lui, del Bertoldi, del Canzachi, del Vulcano è detto in massa : Queste persone acquisterebber la stessa fama su di un teatro francese. Voce, azione, memoria tutto è in lor potere ; e sanno esser naturali anche nelle commedie le men naturali….

Secondo il Bartoli, morì fuor de l’ arte in Venezia circa l’ anno 1767.

Collucci Filippo, romano. Rinomatissimo capocomico e artista egregio per le parti d’innamorato nelle commedie scritte e improvvise. « Fu uomo di molta intraprendenza – scrive il Bartoli – ed ebbe in sua Compagnia degli abili Personaggi, a’ quali però all’ occorrenza non mancava di dar loro delle buone instruzioni intorno al mestiere. » Mortagli la moglie, abbandonò per sempre il teatro, aprendo in Venezia nel Campo di Santa Margherita una scuola per fanciulli che gli procacciò una decorosa esistenza. Morì verso il 1763.

Collucci-Rutti Cecilia. Moglie del precedente, nota col nome teatrale di Diana, e assai meglio coll’appellativo di Romana, fu comica di molto grido per le commedie scritte e a soggetto. « Faceva talvolta – scrive il Bartoli – delle scene con suo Marito, le quali conduceva con eleganza, con brio, e le spargeva di sali frizzanti, che il popolo ascoltava con gran piacere, impartendole de’ sinceri encomi. Essa fu di bella presenza e di graziosa avvenenza fornita, quindi è che i pregi suoi naturali uniti ai meriti della propria virtù la resero piacevolissimo spettacolo sui teatri…. !! »

Il Goldoni dice di lei nella Prefazione al Vol. XIII dell’ edizione Pasquali :

Prima donna a vicenda colla Bastona, Cecilia Rutti detta la Romana, Moglie del comico Collucci ; ma che non vivendo con suo Marito aveva ripreso il nome della famiglia, {p. 681}dov’ era nata. Questa brava Attrice conservava nella sua età avanzata un resto di quella bellezza, che la rese amabile ne’ suoi begli anni, e che meritò le attenzioni dell’ Imperator Giuseppe. Ella non valeva gran cosa nelle commedie dell’ Arte ; ma era eccellente nelle parti tenue delle Tragedie, conservando ancora una grazia e una delicatezza nel gesto, nella voce e nell’ espressione che la faceano piacere e applaudire.

Per lei ridusse in versi, modificandola, la Griselda tragedia di Pariati.

Era stata a Vienna – dice il Loehner in nota alle Memorie del Goldoni (Cap. XXXVII) – nei primi anni del secolo con quella Compagnia a cui appartenevano Gaetano e Gennaro Sacchi, padre e zio del sommo comico. E morì, secondo il Bartoli, dopo il 1750. (V. Diana).

Colombari Antonio. Nato a Bologna il 13 giugno del 1842 da Federigo, negoziante di guanti e pellami, e da Ildegarde Bragaglia, già attrice drammatica, lasciò la scenografia cui lo aveva destinato il padre, e si diede all’arte comica, esordendo a Firenze il 1859 nella Compagnia Marchi e Pezzana, in qualità di secondo brillante. Il ’63 fu scritturato da Adamo Alberti ai Fiorentini di Napoli con Tommaso Salvini, la Cazzola, Taddei, la Marini, Bozzo, ecc. Passò il ’64 in Compagnia Arcelli, con Alessandro Salvini primo attore ed Emilia Arcelli prima donna ; e fu in quell’anno che al Corea di Roma nella Preghiera de’Naufraghi, una comparsa, investendosi troppo della sua parte, gli sparò a bruciapelo una fucilata nel petto, fratturandogli due {p. 682}costole. (V. Rasi, Il Libro degli Aneddoti : Accidenti comici e tragici). Sposò nel carnevale la figlia del suo capocomico, Emilia Arcelli (V.), colla quale tornò per quattro anni, ’65-’69, ai Fiorentini di Napoli. Fu poi sei anni con Bellotti-Bon, quattordici con Cesare Rossi, e tre con la Pia Marchi, sino al carnevale ’97-’98. Antonio Colombari buon brillante fino al ’73, divenne un ottimo, incomparabile secondo caratterista, nel qual ruolo si mantiene tuttavia. Fece il giro dell’ America del Sud e di quasi tutta l’ Europa al fianco di Eleonora Duse, amato e stimato da compagni e da pubblico per la serenità dell’ indole e la comicità spontanea del giuoco.

Colomberti Gaetano. Figlio di Antonio, bravo pittore di prospettiva, nacque a Ferrara il 20 febbraio 1786. L’avolo suo, di Lipsia, si chiamava Calemberg ; ma quando Antonio, dopo di avere studiato quattro anni a Roma, fu chiamato dall’arcivescovo di Ferrara per alcuni lavori in chiese ed in conventi, finì collo stabilirvisi, mutando il nome tedesco in quello italiano di Colomberghi. Lui morto, Gaetano, col poco danaro ereditato, non sapeva come trar la vita assieme alla vecchia madre ; e, sebbene avesse compiuto gli studj universitarj, deliberò di darsi all’ arte comica, scritturandosi come generico nella Compagnia di Paolo Bossi detto il Gobbo. Fu poi il 1804 e 1805 come primo e secondo amoroso in compagnia Petrelli, nel qual tempo, innamoratosi a Fossombrone di una giovinetta, Caterina Rinaldi, figlia di onesto negoziante ; e, dopo lagrime e preghiere di ogni parte e intrommissioni di Vescovi, ottenutala in moglie, l’ addestrò nell’ arte sua per modo, che in poco tempo diventò una non spregevole servetta. Terminato il contratto col Petrelli, si scritturarono il 1806, lui come primo amoroso e lei come serva, con Velfranch, col quale stetter due anni : poi dal 1808 al 1811 con Antonio Previtali, il 1812 con Rigoli in Dalmazia, il 1813 e ’14 con la società Consoli, Zuccato e Pellizza, il 1815 con Giacomo Dorati, poi con altri molti. Amputata a lui una gamba per tumor bianco nella clinica di Bologna, {p. 683}il 1844, e recatosi per ordine di medici a Pisa, vi stette mantenuto dal figlio Antonio fino all’ anno della sua morte che fu il 1859.

Colomberti Carolina. Figlia del precedente, nacque in Cagliari nella quaresima del 1818. Dopo aver fatto i primi passi nell’arte come ingenua e generica giovine nella Compagnia che suo padre conduceva in società con Gaetano Martini il 1830, entrò il 1833 nella Compagnia di Romualdo Mascherpa qual prima donna giovine. Passò poi a’ Fiorentini di Napoli colla società di Tessari, Visetti, Prepiani, con cui stette cinque anni, terminati i quali, sdegnando il posto di prima attrice assoluta che le fu offerto da Luigi Domeniconi, si diede all’ arte del canto, riuscendo una egregia artista. Cantò al Fondo di Napoli e al Valle di Roma con pieno successo del pubblico ; ma anche nell’ arte del canto fe’ pochissime prove ; chè un conveniente matrimonio la tolse improvvisamente al teatro e per sempre.

Colomberti Antonio. Fratello della precedente, nacque a Viterbo il 20 febbraio del 1806. Appassionato per gli studj, s’andò formando da sè una sana istruzione. Cominciò a esercitar l’arte di suo padre con infime parti fino a’ 17 anni ; compiuti i quali entrò amoroso nella Compagnia Pieri e Vedova. A questo punto comincia la vita artistica propriamente detta del Colomberti.

Sostenne con Fini nel 1824 il ruolo di secondo amoroso col quale passò poi il 1825 con Tommaso Zocchi. Quivi, essendo stato protestato il primo amoroso assoluto, fu d’ improvviso chiamato a surrogarlo : e l’ amorosa direzione di Giuseppe Salvini, primo uomo della compagnia, e il favore del capocomico e del pubblico lo incitarono per modo allo studio, che riuscì artista de’ più encomiabili. Formò poi il padre Gaetano società con Giacomo Dorati e Giuseppe Guagni ; ma spiacendo ad Antonio di dover lasciare la direzione del Salvini, tanto si adoperò che abbandonata dopo alcun tempo quella società e la famiglia, se {p. 684}ne tornò collo Zocchi al posto di primo attore giovine e primo amoroso assoluto.

Innamoratosi poi d’ Isabella Belloni, prima donna della compagnia, figlia del rinomato artista Antonio, che da attore era passato al grado di direttore, assenziente il Salvini, l’ebbe in isposa, e con lei si recò in Compagnia di Romualdo Mascherpa, prima, poi in quella del caratterista Belisario Viti. Ammalatasi la moglie, dovè sciogliere col Viti il contratto, e recarsi in Vicenza, patria di lei ; donde poi si restituì alle scene, formando società con suo padre e Nicola Vedova. Fece parte poi qual primo amoroso assoluto colla moglie prima donna e prima donna giovine, della Compagnia di Carolina Internari e Francesco Paladini. Venutagli a morte la moglie in Firenze, il carnevale del 1832, passò con Romualdo Mascherpa, dove, dopo diciotto mesi di vedovanza, sposò l’ Amalia Boni, egregia servetta. Lasciata il’ 36 la Compagnia Mascherpa, passò con la moglie pel triennio 1837-38-39 in quella di Gaetano Nardelli. Tornò poi il’ 40-41-42 col Mascherpa, e fu il’ 43-44-45 con Luigi Domeniconi. Si unì in società pel 1847-48-49 con Carolina Internari e Amalia Fumagalli : pel’ 50 con Eugenia Baraccani ; e pel’ 51 e’ 52 condusse compagnia egli stesso. Fu primo attore assoluto il 1853 con Luigi Domeniconi, e padre nobile e tiranno tragico il 1854-55-56-57 con Adamo Alberti a’ Fiorentini di Napoli. Dopo un {p. 685}anno di riposo a Livorno, fe’ ritorno alle scene con Luigi Pezzana, e col Domeniconi stesso ; poi, dopo varie vicende, con Carlo Romagnoli ; e finalmente, pel ’ 66 e ’ 67, gli ultimi due anni della sua vita artistica, formò società con Eugenio Casilini.

Fu il Colomberti di attività singolare. Diede al teatro molte commedie applauditissime, in prosa e in verso, e molte ne tradusse dal francese. Dettò varj romanzi e due volumi, uno di ricordi della sua vita, uno di notizie de’ comici del suo tempo, tuttavia inediti.

Quanto alla recitazione sua, dice il Bonazzi ch’ essa era lapidaria. E questo aggettivo concorderebbe col nomignolo che gli venne da’fratelli d’ arte di Re Pausania. Lo stesso Costetti, lodatore cordiale del Colomberti (I dimenticati vivi della Scena italiana) pur non accettando quel nomignolo, dice che certo, per non dare intero il torto al Bonazzi, si può convenire che nel temperamento artistico di Antonio Colomberti l’ elemento meditativo avesse sugli altri preponderanza. E prima aveva detto che era eloquentissimo quel suo sguardo dei grandi e grossi occhi di color grigio, di che, consapevole, abusava talora negli effetti detti di controscena. Par di vederlo.

Negli ultimi anni dell’ arte sua, a’ Fiorentini di Napoli, i compagni suoi, mossi forse da alcuna bizzarria del caso, gli dieder fama di jettatore, o apportator di sventura.

Non sappiamo se la triste e volgare stupidità gli abbia procacciato dolori ; ma dal Costetti sappiamo che sino a quando durò la società di lui coll’ Alberti, l’ impresa dei Fiorentini fece ottimi affari. Antonio Colomberti, lasciate le scene, andò a stabilirsi in Bologna, ove morì il 13 marzo 1892.

Ebbe egli un altro fratello, Luigi, nato in Ferrara il 1814, che datosi all’arte, dopo di avere esordito qual generico giovane in Compagnia Tessari, morì al principio del ’ 38 in Napoli.

Colombini Pietro, vicentino. Trascrivo dal Bartoli : « Lasciata Vicenza sua patria con qualche studio fatto nelle prime scuole, passò alla comica professione facendo da innamorato. {p. 686}Sposò la vedova di un comico nominato il Barbieri, e seco cantò in alcuni musicali intermezzi. Formò compagnia, e la condusse in Italia e fuori d’ Italia. È uomo intraprendente, abile ed onorato, e trovasi presentemente (1782) colla sua Truppa nella Dalmazia. »

Colombini Anna, bolognese, moglie in seconde nozze del precedente. Istruita nell’ arte comica dal suo primo marito, detto il Barbieri, riuscì egregia artista specialmente nel carattere della serva.

« Sa cantare – scrive il Bartoli – con qualche grazia, e benchè pieghi a quegli anni che dalla gioventù son lontani, pure la sua gracile e piccola figura le serve ancora di qualche schermo contro l’ ingiurie del tempo. »

Colombino Napoleone, nativo di Biella, fu attore accurato nei diversi ruoli di brillante, di padre e di tiranno. Lo vediamo in quest’ ultima qualità il 1836 con Luigi Taddei. Ma se come artista non seppe levarsi a grandi altezze, come amministratore si acquistò la più bella delle rinomanze dovuta alla sua specchiata e rigida integrità. Sposatosi già in là cogli anni a una certa Giannuzzi, fu lungo tempo, con lei seconda donna di spalla, amministratore di Bellotti-Bon, dal quale si allontanarono per recarsi a Torino. Quivi egli morì in età avanzatissima.

Colombo Fortunato. Ferrarese. Nato da civili parenti, riuscì egregio artista per le parti di Brighella. Fu in varie compagnie ; ma più specialmente in quella di Antonio Marchesini, applauditissimo. « Era verboso – dice il Bartoli – e ne’ lazzi suoi mostrava una comica arguzia piacevole e gustosa. » Andò al S. Samuele di Venezia a sostituirvi il Brighella Gandini, e benchè non avesse – dice il Goldoni (Ediz. Pasquali, XV) – gli adornamenti del suo antecessore, pur sosteneva meglio il suo personaggio, e lavorava assai bene le Commedie dell’ Arte. Morì in Alba di Piemonte circa il 1761.

{p. 687}Colombo Ferdinando. Attore scritturato, o capocomico, fu un Arlecchino di assai grido. Lasciò l’ arte per seguire una figlia ballerina ; maritata la quale, ritornò sulle scene, applauditissimo sempre, or con Pietro Rossi, or con Domenico Bassi, or con la Faustina Tesi, che molto aveanlo in pregio, benchè vecchio. Grazioso nei gesti e nelle parole, destò fanatismo in varie principali città, fuorchè in Venezia, dove non seppe distruggere le belle prevenzioni radicate per Antonio Sacco, il celebre Truffaldino. Viveva ancora al tempo del Bartoli (1782) a circa novant’ anni.

Colombo Giuseppe, siciliano, nacque il 1783 a Castronuovo. Entrò il 1811, per rovesci di fortuna, in Compagnia Bonajuto, ed esordì a Partenico nel Bugiardo di Goldoni, sollevando il pubblico all’ entusiasmo. Dopo di avere trionfalmente percorso tutti i teatri della Sicilia, si recò a Napoli al S. Carlino, rinnovandovi il successo clamoroso. Vi recitò il solo anno ’42-’ 43. Tornatovi nel ’47, appartenne poi alla gran Compagnia, rifatta nel ’48 da Silvio Maria Luzi, che andò in iscena il 26 marzo, e a cui il vecchio pubblico del S. Carlino fece la più clamorosa e festosa delle accoglienze.

In quella prima rappresentazione, Giuseppe Colombo, sotto nome di Pasquino, supplì il buffo Biscegliese, che per l’esigenze del pubblico e dell’impresario era già troppo vecchio.

Colonnello Ajace. Appartenente a famiglia aristocratica napoletana, al tempo della dominazione borbonica, dovè per vicende politiche abbracciar l’arte comica in cui visse onoratamente. Sposò l’attrice Carolina Spelta in Cammarano, ed ebbe undici figli, tutti comici, dei quali Colomba, Michele, Guglielmo, Edoardo, Ernesto, Matilde, Elena e Pia, morti. I tre superstiti. sono :

Amelia, egregia attrice al principio della sua vita artistica in compagnie napoletane, e di Napoli più specialmente, poi bella e brava seconda donna in Compagnie nostre di maggior {p. 688}conto, quali di Marchi-Ciotti-Lavaggi, di Tommaso Salvini, di Sterni, di Alessandro Salvini, ecc., sposatasi a Corrado Di Lorenzo, n’ ebbe tre figliuoli, di cui seconda la Tina (V.) che ha saputo coll’ arte, accoppiata alla leggiadria, salire in gran rinomanza ;

Adolfo, egregio artista per le parti di primo attor giovine e di primo attore, appartenne sempre a compagnie di buon nome, e sposò l’attrice Pia Pezzini ;

Pia, si ritirò per malattia dall’ arte, e si recò in Roma col marito Icilio Brunetti (V.).

Del fratello Ernesto primo attore di merito, morto in America di febbre gialla, nacque l’ Italina, oggi maritata a Oddi, attrice adorna di moltissimi pregi.

Colonnesi Lorenzo. Nacque il 1765 in Cortona da onesta ed agiata famiglia. Compiuto un corso regolare di studj, s’ innamorò di una giovane comica venuta in Cortona con una compagnia di infimo ordine, e la sposò. Perduti poi i genitori, vendè quanto possedeva, e si aggregò a quell’ accolta di guitti, per allontanarsene poco dopo, nauseato, colla moglie. Ornato di bella presenza, di sana educazione, di non comune ingegno, risolse di formar compagnia egli stesso ; e tanto perseverò nello studio dell’arte, che in capo a pochi anni divenne un buon primo amoroso. Frattanto la moglie andava ognor più progredendo, tanto da sostener le parti di prima donna, acclamatissima. Allora il Colonnesi pensò di accogliere in compagnia Geminiano Lustrini, egregio padre nobile e tiranno, Antonio Pavoni, ottimo caratterista, ed altri valenti artisti, coi quali potè percorrere i principali teatri d’ Italia. Abbandonati, dopo varie vicende, i fastidj del capocomicato, si scritturò colla moglie nella Compagnia di Consoli e Zuccato, Gaetano Bazzi e Antonio Goldoni ; finchè stanco, si ritirò in patria, che lasciò poi per recarsi a Ravenna (1829) a dirigere quella filodrammatica. Morì in Cortona il 1834, seguìto a breve distanza dalla moglie.

{p. 689}Coltellini Giuseppe, figlio di un intraprenditore di lotto, nacque a Cortona verso il 1800. Abbandonò il ’20 circa la casa paterna ; e lo troviamo già capocomico e caratterista il ’21 a Grosseto. Si scritturò poi il ’24 con Luigi Fini, qual secondo caratterista, dopo la scelta di Domenico Verzura. La esiguità delle parti a lui affidate, e la passione vivissima per l’arte lo fecer lasciare quella compagnia : nè sappiamo ove si recasse sino al ’35 ; nel quale anno lo vediam negoziante di mobili in Napoli. Tornato sulle scene, vi fu poi applauditissimo, dal ’37 al ’40, con Luigi Domeniconi ; che, scritturatosi a’ Fiorentini, e non volendo pagar penali agli artisti, gli affidò pel ’40 41-42 la condotta e direzione della sua compagnia. Compiuto il triennio, andò a stabilirsi a Napoli dove stette sino al ’51, ora scritturato al teatro de’ Fiorentini, pel quale ebbe più volte incarico da quella Corte di formar compagnia, ed ora libero.

Fu Giuseppe Coltellini artista nobile, spontaneo, comicissimo : e ogni qualvolta riappariva sulle scene era una vera festa pe’ napoletani. Ma ormai il teatro non era più il principale scopo della sua vita : e sul finire del ’51, abbandonato Napoli, si recò a Bologna, ove diventò in breve esperto negoziante di quadri ed oggetti antichi. Tornato poi a Napoli, vi morì di colera l’ anno 1855.

Coltellini Gaetano. Fratello del precedente, si diede anche egli all’arte drammatica. Dotato di bella figura, di aspetto gioviale, di molta intelligenza, fu, dopo brevi anni di noviziato, caratterista egregio prima con Angelo Rosa, poi con Corrado Verniano, e con Gaetano Nardelli. S’unì poi in società collo stesso Verniano e con Luigi Domeniconi, col quale restò fino al 1850 colla moglie Fanny ; anno in cui, lasciate per sempre le scene, si restituì alla natìa Cortona, ove morì il 16 agosto del 1883. – Fu Gaetano Coltellini artista valentissimo, specialmente per la recitazione dell’Odio {p. 690}ereditario, della Figlia dell’avaro, del Curioso accidente, del Far male per far bene, e di tante altre commedie di cui è parte principale il caratterista.

Coltellini Francesco. Fratello minore dei precedenti, cominciò a recitar con Gaetano in Compagnia Nardelli, qual semplice generico, l’ anno 1837. Passò poi al ruolo de’ fratelli, nel quale non fu ad essi inferiore ; e sposatosi colla comica Malvina Simoni, egregia prima attrice giovine, si fece conduttore di una buona compagnia, in cui la moglie assunse il grado di prima donna assoluta. Ebbe fra’suoi scritturati anche Luigi Taddei. Mentr’ era il 1850 al Teatro Re di Milano con una compagnia di prim’ ordine, della quale prima attrice era la Carolina Santoni, i giornali del tempo lo disser caratterista eminente. « In lui – è scritto nella Moda del 1°febbraio ’50 – nessuna affettazione, nessuna ricercatezza : le scene da lui riprodotte son quali tuttogiorno succedono nel domestico focolare e d’ una naturalezza sorprendente. » Nel 1857 era a Tolentino, capocomico e attore applauditissimo con la Feoli e la Miutti.

La moglie e i figli continuarono a recitare quando egli si ritirò (1878) nella sua Cortona, ove morì nel ’94 a ottantadue anni.

Egli ebbe due figli, Antonietta ed Ernesto, artisti entrambi ; l’ una, ritiratasi dal teatro nel 1882, per le parti di prima attrice giovine e prima attrice ; l’ altro per quelle di generico e secondi caratteri !

I Coltellini traevano origine da una famiglia nobile del quattrocento venuta di Piemonte. Uno degli avi fu Ambasciatore della Repubblica Veneta presso la Corte di Pietroburgo, ed altro in Bologna e in Modena chimico rinomato.

{p. 691}Concevoli Florinda. Desumo le presenti notizie dal Teatro a Milano nel secolo xvii del Dott. Paglicci Brozzi (Milano, Ricordi) :

« Florinda Concevoli…. il 3 di ottobre 1606 innalzava a Sua Eccellenza Don Pedro Rodriguez conte de Acevedo, Governatore per Sua Maestà Cattolica in Milano, una sua domanda per ottener la grazia di poter fare esercire un lotto in Milano per mesi tre cominciando da Novembre fino alla fine di Febbraro. Il lotto poi doveva consistere in bacili di argento, sottocoppe, fruttiere ed altre cose di argento ; d’oro poi collane, anella con diamanti, rubini et altre gioje fine, bottoni d’oro, centurini d’oro da cappello et simili altre cose di tutta finezza. Il valsente non doveva passar le otto o diecimila lire : fu data concessione per ottomila lire. Riuscito il primo colpo, la Concevoli tornò all’ assalto l’ anno dopo, chiedendo la licenza per la durata di 8 mesi, e per Cremona e Pavia, col valsente di tre mila scudi per ogni città. Non accordando le due città, contentarsi degli otto mesi e de’ sei mila scudi per la città sola. Fu accordata la licenza per Cremona soltanto, colla durata di tre mesi e pel valsente di duemila scudi, prescrivendo che il prezzo di ogni bollettino fosse di tre parpajole, ossia di trenta centesimi della nostra moneta. Ma visto che il prezzo di tali bollettini era eccessivo, la Florinda chiese e ottenne che le tre parpajole fosser ridotte a due per ciascun bollettino. »

« Nel 1612 – dice ancora il Paglicci Brozzi nell’ Appendice del suo lavoro – si ebbe una nuova concessione, in forma tutta gentile e direi quasi sentimentale, onde poter recitare insieme alla sua compagnia nel teatro solito del palazzo Ducale. Unica condizione le veniva imposta di presentare le commedie, o meglio i soggetti delle sue commedie, al Segretario del Senato, Gio. Battista Sacco. »

Consoli Teresa, nata a Venezia il 1751, e sposatasi a Pietro Consoli, basso impiegato di quell’arsenale, risolse, per togliersi dalle ristrettezze nelle quali vivevano, di darsi alle scene. Entrò col marito in un’ infima compagnia che recitava l’ estate {p. 692}a Mira in una specie di rimessa. I due nuovi arrivati, provenienti dalla Capitale, furono annunciati a suon di gran cassa, e fatti segno alle favorevoli dimostrazioni del pubblico, l’ uno per la voce stentorea, per la persona aitante, pel volto piacevole ; l’ altra per la soavità dell’aspetto e la poca età. Percorsero in lungo e in largo la Dalmazia ove stetter quattr’ anni, e tanto avevan progredito nell’ arte che l’ uno era divenuto il primo amoroso della compagnia e l’ altra la prima donna. Così duraron qualche anno ancora, studiando accanitamente, sfogandosi in crear parti di grande rilievo, e guitteggiando pei teatri delle Marche e dell’ Umbria, fino a che gli omai valenti artisti, saliti a grado a grado in rinomanza, condussero e diressero essi stessi una compagnia ricca di ottimi elementi, della quale era lei prima donna applauditissima e nelle commedie scritte e in quelle improvvise, e nelle parti comiche e in quelle tragiche ; e lui primo amoroso e incomparabile Arlecchino. Recatisi in Sicilia, egli fu colpito da malattia acuta che in capo a pochi dì lo condusse al sepolcro.

Continuò la Teresa a tenere la compagnia con decoro e fortuna : ma avanzando nell’ età, e passando dal ruolo di prima donna a quello di madre nobile e caratteristica, il quale sostenne con egual plauso, si unì in società per gli anni 1811-12-13 col bravo primo attore Bartolommeo Zuccato e col bravo caratterista Ferdinando Pellizza. Finito il contratto, ella abbandonò il teatro e si ridusse in patria, ove morì nel 1818.

Contavalli. Faceva in Compagnia Fabbrichesi nel 1826 le parti da traditore, al fianco di De Marini, Vestri, la Fabbrichesi e la Bettini.

Contini Giovanni. Figlio di buoni e modesti artisti drammatici, fu per lungo tempo nelle provincie meridionali ; poi nell’alta Italia con Sterni e Moro Lin come primo attore. Uscito Giovanni Ceresa dalla Compagnia di Luigi Pezzana, fu chiamato a sostituirlo il Contini, il quale passò di trionfo in trionfo {p. 693}interpretando i caratteri più disparati, come il Foscolo e il Raffaello, ch’egli rendeva, più che con delicatezza di contorni, con maschio e gagliardo colorito. Bello, forte, simpatico, ma di una cotal durezza ne’ modi, meglio il costume gli si attagliava che la marsina. Smessa il Pezzana la compagnia, Contini entrò a far parte della società Ettore Dondini e Giuseppe Galletti. Nel ’73, a Milano, egli era già condannato : la tisi tracheale lo consumava lentamente, non lasciando alcun adito alla speranza. Dopo tanti mesi di agonia, fu deliberato di condurlo a Bologna…. e proposto di fargli subire una operazione pericolosissima. Egli vi si assoggettò ; e poco dopo, la notte del 26 agosto 1874, morì compianto dai parenti ed amici. L ’attore Carlo d’ Antoni dettava una affettuosa epigrafe per la tomba del perduto compagno d’ arte.

Contrallo Gio. Serio, napoletano. (V. Bachino Gio. Maria).

Copellotti Giuseppe. Bravo tiranno, era il 1827-28 in Compagnia di Luigi Bergamaschi colla moglie Giuseppina, mediocre servetta, poi il ’28-’ 29 in quella di Pisenti e Solmi, diretta da Albina Pasqualini.

Coppa Giuseppe detto Virginio. Artista della Compagnia del Duca di Modena per le parti di amoroso con la moglie Aurelia, amorosa. Sappiamo da un ordine di pagamento del 1689 che lo stipendio degli artisti era di lire quarantacinque mensili per ciascuno. Il 3 settembre dello stesso anno il Coppa scriveva al Duca da Sassuolo, avvertendolo che si sarebbe recato a Modena con la compagnia. Di lui abbiamo la seguente istanza inedita che riferisco intera.

Seren.ma Altezza

Son già ott’ Anni, che Giuseppe Coppa detto Virginio, con Aurelia sua Moglie Comici, e Seruitori Vmilissimi di Vostra Altezza Ser.ma, habitano in Ferrara, prese à pigione quattro Camerette, situate nell’ ultimo Corritore del Cortile di detta Città, pagando per esse quattro Scuti l’anno. Hora, già che il Cielo fè sortire à Supplicanti la fortuna d’esser ammessi à questo Serenissimo Seruiggio e porta l’accidente, che l’accennato Sito è proprio di V. A. S., confidati nell’innata bontà del loro benignissimo Padrone, alle di lui Seren.me Piante prostrati ;

{p. 694}Vmilmente supplicano l’ A. V. S. compiacersi, concedergli gratis la sudetta Habitatione, ordinando a quel Sig.r suo Comissario, che dal tempo, che li Supplicanti seruono attualmente l’ A. V. S., non esigga da essi Piggione alcuna, il che sarà motiuo di pregare assiduamente l’ Altissimo, che doppo più Secoli di felicissima Vita, conceda all’ Altezza Vostra Serenissima una Reggia di Luce nell’ Empireo, e lo sperano.

Di fuori : À Sua Altezza Serenissima

Per

Virginio, et Aurelia Comici.

Rescritti di Cancelleria :

Si riporti 27 Aprile 1691.

Al marchese Fontanella 14 genn.° 1692.

Fu concessa l’abitazione gratuita sino a nuovo ordine con data del 29 febbraio 1692.

A detta supplica fo seguire quest’altra interessantissima, che racchiude le forme e le qualità de’ singoli artisti componenti la Compagnia del Duca.

Seren.ma Altezza

Scorron già Venti giorni, che la Compagnia de Comici Seruitori Vmilissimi di Vostra Altezza Ser.ma sì ritroua in Brescia, ma con sì poca fortuna, che può dirsi disgratia, e questa omai degenera in deplorabil Miseria, mentre il nostro lucro non uiene ad esser bastante per le Piggioni. Il ritrouarsi in tale stato, e quel ch’ è più senza speme di miglioramento, stante l’improprietà della Stagione, doppo un Viaggio sì dispendioso da Genoua à questa parte, con un debito di Compagnia di gran consideratione per la Condotta, ci costringe a portar auanti l’ A. V. S. le nostre Miserie, sicuri, che rimirate dalla medema con gl’ Ochi del suo benignissimo Compatimento, non ci lascierà senza sollieuo, senza di cui non sarà possibile, che di quà parta la Compagnia se non ui lascia le Robbe ; Che però prostrati i Comici Ser.ri Vm.mi di V. A. S. alle sue Seren.me Piante

Vmilmente la suplicano ad esercitar seco in si urgente Ocasione gl’ atti di quella Generosità con cui assistè sempre a’ suoi Servi, accertandola, chè l’A. V. S. non haurebbe il tedio delle nostre Supliche, se la Necessità non ci fosse di sprone, come ne può far fede il Cauag.r Protettore, e col bacciare il terreno calpestato dal suo Seren.mo Piede, si giuriamo

Brescia li 10 Agosto 1690.

Di Vostra Altezza Ser.ma

Vm.mi et Osseq.mi Ser.ri

Anna Arcagiati detta Rosaura
Gaetano Cacgia detto Leandro
Giuseppe Coppa detto Virginio, anche per
Aurelia mia moglie
Gennaro Sacchi d.° Couiello Cardocchia, e per
Armellina mio matrimonio
Galeazzo Sauorini d.° il Dottore
Marco AntZanetti d.° Truffaldino
Carlo Zagnoli detto Finochio
Antonio Rico Boni Pantalone.

{p. 695}Coralli Carlo, di Bologna. Segretario di Francesco Albergati, cominciò ad addestrarsi sotto di lui nella maschera di Arlecchino e in altre parti comiche o serie a viso scoperto. Innamoratosi a Venezia di una nipote di Antonio Sacco, fu accolto il 1772 nella Compagnia da lui condotta, nella quale stette due anni, ma con poca fortuna, sostituendolo talora nella maschera del Truffaldino. Il matrimonio non si effettuò più – per ignote cagioni – dice Fr. Bartoli. Ma senza dubbio esse dovean ricercarsi nella soverchia dimestichezza che il Coralli aveva con Teodora Ricci, moglie del Bartoli ; dimestichezza che fece montare su tutte le furie il Sacco, vecchio ottuagenario, che della giovane artista era bestialmente invaghito, e che assalì con mortificazioni e sgarbi di ogni specie il Coralli, il quale dovè ricorrere alla protezione del Gozzi : e sarebbe rimasto senza dubbio in compagnia, nonostante l’ invelenimento del Sacco, se, pel timore di essere definitivamente scacciato, non avesse ricorso a uno strattagemma volgare di cui fu vittima un bravo e onesto comico della compagnia. (C. Gozzi, Memorie inutili, II). La quaresima del ’74 entrò nella Compagnia di Pietro Rosa come Arlecchino, per passar poi, scritturatovi da Francesco Zanuzzi venuto a posta in Italia, nella Compagnia italiana di Parigi, nella quale esordì il 16 maggio del 1775 nella commedia in quattro atti : Il Dottore avvocato dei poveri. Egli entrò alla Commedia italiana per recitare al fianco del Bertinazzi che non poteva per vecchiezza disimpegnar da solo il ruolo di Arlecchino ; e se non poteva accostarsi troppo all’arte sovrana di lui, benchè anch’ esso attore di pregi singolari, pure collo studio indefesso, colla più schietta modestia, seppe conquistarsi la benevolenza del pubblico e del comitato del teatro, il quale, quando nel 1780 licenziò gli attori del genere italiano, pensò bene di conservare il Coralli.

Morto Carlino, il 6 settembre del 1783, Coralli entrò nel pieno possesso del ruolo di Arlecchino, e quattro giorni dopò, avanti di recitare nei Due Biglietti di Florian, rivolse al pubblico calde e affettuose parole di ammirazione e di compianto {p. 696}pel suo grande predecessore, che gli accrebber subito la benevolenza del pubblico. Al principio del 1789 egli era tuttavia unito alla Commedia italiana. Il Bartoli, contemporaneo del Coralli, dice : « Nella maschera dell’ arlecchino non piacque pel troppo disuguale paragone del tanto ben veduto ed accreditato Bertinazzi. Rimase però il Coralli in Francia, esercitandosi in altre cose per servizio di quella Truppa, fino a tanto che venne in questi ultimi tempi abolita. Il Coralli non ha voluto riveder l’ Italia, ma avendo sposata una figlia del Ruggeri, fabbricatore di fuochi artificiali, è rimasto a Parigi, impiegato colla Truppa francese allo stesso Teatro, e un tal impiego gli fa onore e giovagli altresì per il congruo, e necessario suo decoroso mantenimento. »

Una delle migliori creazioni del Coralli fu quella del fratello minore nei Gemelli Bergamaschi di Florian, dati la prima volta il 6 agosto 1782, in cui si fece molto applaudire al fianco del Bertinazzi che rappresentava il fratello maggiore : e una delle peggiori pare fosse quella nel Venceslao, dramma francese, come appare dalla prefazione del traduttore Francesco Gritti.

Coris Eularia…. Orsola ( ?). Prima attrice della Compagnia dei Fedeli. Nell’ edizione della Maddalena lasciva e penitente di Gio. Batt. Andreini, direttore di quella Compagnia, (Milano, Malatesta, 1652), sono le lodi artistiche di lei, che sostenne la parte della protagonista, espresse ne’ seguenti madrigali :

Alla Signora Eularia mentre rappresentó la Maddalena Penitente.

MADRIGALE

Flora di Palestina
se rappresenti, o vaga,
rapisci i cor ; com’ il tuo bel gli appaga ;
e tra schiere d’ amanti
porti d’ un ciel sereno in faccia i Vanti :
{p. 697}ma poi se ’n gonna umil fatta pentita,
piangi gli error della passata vita,
fai sì ch’ ognun nel tuo dolore immerso
il cor riacquista al ciel nel mal sommerso.

MADRIGALE

Ev l’aria rimbomba
de le tue glorie, e del tuo dir facondo :
degna, ch’ il ciel, no il mondo
gli affetti del tuo duol fosse a sentire,
e coronar di stelle il tuo pentire.
Vn gentiluomo Cremonese.
A Maddalena, che terge i Pié di
Christo con i Capegli.
Et Capillis capitis sui tergebat.

MADRIGALE

Dolente Peccatrice
al Divino Amador pentita riede,
e col biondo tesor di sua cervice
legagli il cor, e gl’ incatena il piede.
Sparge odorosi unguenti,
sciuga con pioggia d’ or perle cadenti :
e se in piaga d’ Amor ferito il lascia,
poichè stese l’ unguento il crin lo fascia.

d. p. c. s.

L’ Autore

Alla Sig.Evlaria Coris, in
Theatro rappresentando

Maddalena

Delle gemme disprezzatrice.
A che, o bella pentita
frenetica divota,
sprezzi perle e rubini,
tesor de l’ onde, onor de i gioghi alpini ?
{p. 698}Nel foglio di tua gota
leggo già ; ch’ alta gemma è vetro vile
(lapidaria d’ amor) qualor servile
prostrata a Dio davanti
offri i baci in Rubin, le Perle in pianti.

(V. Lidia Andreini).

Il Bartoli riferisce di lei il seguente aneddoto :

In occasione che questa Comica recitava in Venezia con grido, vi fu un tale, che invaghito del di lei merito, pensò di acquistarsi qualche porzione della sua grazia con esibirle un Sonetto da lui composto. Eseguì il suo pensiero, e la Coris accettollo con dimostrazioni di gratitudine. Partito il suo lodatore, e capitato da lei Paolo Abriani, noto letterato, lessero unitamente il presentato Sonetto, e lo trovarono si goffo e disgraziato, che non poterono far a meno di prorompere in una solenne risata. L’ Abriani disse alla Coris, che voleva mortificare lo scimunito innamorato, e il giorno appresso fece capitare il sonetto che segue ad una brigata d’ amici, fra’ quali eravi l’ ignorante Poetastro ; e quelli burlandolo gliel lessero, e ne restò (come può credersi) confuso e mortificato.

Per un goffo Sonetto presentato da un tale alla

Signora Eularia Comica Celebre.

Dalle virtù della Signora Eularia
comica illustre, un tal mosso a far versi
alcuni ne sputò de’ così tersi,
che parver d’ un Toscan nato in Canaria.
Di rime in prosa una mistura varia
fece, e di piedi e numeri diversi,
ma soavi così che amica fersi
l’ asinesca d’ amor turba gregaria.
Prendi il dono Eularia mia, cui portatore,
diceva il primo. Or tu la squadra piglia,
e giudica degli altri, o buon lettore.
Ma se pur sei della Febea famiglia,
faratti anco il cantar d’ un goffo autore
stringer le labbra ed inarcar le ciglia.

Ciò fatto, l’ Abriani compose un altro sonetto sopra il medesimo soggetto, ed inviollo alla Coris, che lo trovò del tenore seguente : ( ?)

Son così dolci, Eularia, i bei concetti
che v’ escon dalla bocca saporita,
che nè Saffo, nè Laura, o Margherita,
nè il Petrarca vi può co’ suoi sonetti.
{p. 699}Anzi la perderebbe in fatti e in detti
con voi degli Orator l’Archimandrita,
e direbbe, leccandosi le dita,
questi dell’alma mia sono i confetti.
Ma che sto a dir ! Qualor voi favellate
d’Orfeo mi pare il suon sentire allora,
che le fiere traea quasi incantate.
Ma questo è poco ; perchè Orfeo talora
tirò le bestie, e voi non sol tirate,
ma fate poetar le bestie ancora.

Ho messo dopo il nome di Orsola, al principio dell’articolo, un punto interrogativo, non osando io di affermare che Orsola ed Eularia sieno qui la stessa persona. Della Eularia che rappresentò la Maddalena dell’Andreini non abbiamo altre notizie che quelle già riferite. Dell’Orsola, non mai da alcuno citata, abbiamo le seguenti lettere inedite che pubblico per gentile comunicazione del cav. Davari dell’Archivio mantovano dei Gonzaga.

Ser.ma Altezza,

Ho havuto haviso da Flaminio che à otenuto dal S.mo Gran Duca le licenze per tutta la Toscana, mercè la lettera di V. A. e facilmente ne haverà havute le nuove da Firenze l’A. V. Io invio il mio servitore a Mantova acciò che questa mia le giunga più presto di quello che farebbe per la posta, prego l’A. V. a favorirmi d’una lettera per Flaminio, ma scritta di bon inchiostro, il tenore sij questo, che venga quanto prima alla compagnia e non la facci patire con le sue tardanze, e se à lasciato la moglie una volta a Roma per Franccia, tanto meglio può lassarla, non andando molto lontano ; che guardi bene a non trasgredire a suoi comandi che altrimente sarà per risentirsi, poi chè il suo gusto è che la compagnia cominci presto e guadagni bene. V. A. questa volta facci un poco il cospetone. Questo che le scrivo è solo perchè Flaminio si è lasciato intendere qui in Bologna che per tutto estate non vuol partirsi di Roma, e questo sarebbe di troppo nostro danno. Per la posta di Venetia ò inviato una lettera a V. A., nella quale l’haviso d’una altra impertinenza di Flaminio, pure qui gliel’acenno, acciò anche questa la possa scrivere. Dimanda la Vicenda alla sig.ra madre per la sua ragazza. Veda se si può trovare temerità magiore, mi honori dunque di porre nella lettera che la ragazza faci quello che viene a bisogno come l’anno passato, non conoscendola buona a far cosa di più, acenandole che V. A. si maraviglia che facci questa dimanda così spropositata, mentre non dovrebbe neanche fiatare, non che far domande inlecite, considerando che tira una parte e meza, perchè non merita neanche un quarto. Questo è quanto bramo in questo particolare. Le giungerà per la posta di Venetia una mia lettera che sarà di quatro o cinque righe in circa sopra questo tenore, ma dubitando che le giunga troppo tardi scrivo questa e la mando per il servitore a posta. La patente che V. A. m’à concesso non è come quella che à dato a Flaminio ond’io la bramerei come quella che dice per essere {p. 700}rafermato nella sua servitù havendo servito con deligienza ve le concedo per bene merito che goda etcetera. Scusi per gratia del troppo ardire e mi conceda quello che ò dimandato, accompagnato con una lettera di raccomandazione per me al S.mo Gran Duca, che le prometto di star un pezo ad infastidirlo. Le invio una canzonetta nova, mi saprà dire se le piace, mentre con il riverirla per parte de miei augoro colme d’ogni felicità le s.te feste di Pasqua.

Di Bologna li 16 ap.le 1658.

Obi.ma Serva

Orsola Coris.

Ser.ma Altezza,

A tempo giongono le mie lettere a V. A. mentre lo ritrovano a cantare, voi fareste disperarmi, poichè sono tanto importune che non credo possa far di meno di non disperarsi leziendole, lo prego però a perdonarmi del ardire, conoscendo che il tutto nasce dalla necessità che mi stimola ad essere ardita. Son gionta in Ligorno quando Dio à voluto, ehe non credevo d’arivarci mai, dove abiamo principiato a recitare senza Flaminio, ma perchè la compag.ia non è compita non abiamo quel udienza che supuniamo d’havere al suo arrivo. Sin ad hora abiamo dato fuori cento e sei Boletini a una doppia l’uno per un mese, che viene a essere un utile sicuro. Voglia Dio che le lettere che V. A. à fatto scrivere a Roma a Flaminio, facino profitto e che venga alla compag.ia quanto prima acciò non sij di pregiuditio la sua tardanza, ne al guadagno ne alla riputatione, da Firenze scrissi al A. V. la morte del povero Giangurgolo, hora le do aviso delle nozze della S.ra Lavinia già concluse con Zaccagnino, potrà l’ A. V. dar la nuova al S.r Co. Vialardi, et egli stare alegramente poichè stimo che per mezo di questo parentado V. A. uscirà for di stufa e potrà viaggiare, voltando faccia il mal francese, e se questo Carnovale stando in Mantova la d.ta Sig.ra à avuto paura, tengo per fermo che hora havrà l’angoscia. Qui si dice che l’opera in musicha di Firenze non si fa per insino alla rinfrescata, però questa non è nova sicura, io ne avrei grand.ma sotisfatione sapendo che sarebbe facile al A. V. il poterla vedere e rimaner consolato. Come riesce la compagnia non glie ne posso per ancora dirgliene cosa alcuna, perchè non è compita, e così come si è comincio parmi meglio assai di quella dell’anno passato, come sarà arrivato Flaminio penso che sarà la meglio di tutte le compagnie di questo anno, però non tocca a me a giudicare, come V. A. la vedrà sarà giudice lui di questa causa. Circa alla compagnia della S.ra Lavinia che va prima di noi a Firenze, tutti affermono quello che dice l’A. V., che in quel tempo non faranno nulla per essere troppo caldo. Iddio però gli dia bene a lei e non si scordi di noi. In Ancona non fanno niente, così sono venute le nuove, il principio è molto brutto. Mi duole della disgratia avenuta al S.r marchese Lanzoni e Amorotti, ma poi mi rallegro che è stata disgratia gratiata non essendoli succeduto male, gli servi dunque d’aviso al andar più cauti un altra volta e operare giuditiosam.te come à fatto V. A. La Lessandrina humil.te lo riverisce rendendole gratie della memoria che si compiace tener di lei, assicurandolo che non fa altro che studiare da Trufaldino per poter servire l’ A. V., intanto ella sta atendendo il ritratto con grandis.ª ansietà non vedendo l’hora che giunga. Quest’altro ordinario le manderò qualche arietta nuova, sperando che serà di suo gusto, almeno per la novità. Mi occorre suplicare V. A. d’una gratia, la quale è questa, nel viagiare, all’ osteria mi sono dimenticata quella scufia bianca, della quale V. A. mi fece haver la moda, dico però quella della notte, che se non m’inganno disse, che gliela haveva datta la figlia del S.r Terachia per mostra, scusi per gratia dell’ardire, mi honori mandarmene una overo il modello, e con il riverirlo per parte de miei non lascio di confermarmi di

V. A. S.ma

Oblig.ma Serva

Di Livorno li 7 giugno 1658.

Orsola Coris.

{p. 701}Ser.ma Altezza,

…….. L’ordinario passato gli diedi haviso come Flaminio era gionto, hora lo confermo, abiamo terminato il mese e riscosso le cento e sette doppie de bolettini che havevamo dispensato, e di nuovo gli abiamo confermati, si che sino ad hora si potiamo contentare. La comedia in musica che si doveva fare qui non si farà per adesso, poichè volevano che vi cantassi io, ma perchè non possono essere al ordine per questo mese non ò voluto per non far danno alla Comp.ia accettare la parte, a ben che i compagni abino corisposto con poco termine, poichè sapendo che questi mi stimolano a pigliar questo impiego, dissero che se io havessi recitato in questa comedia m’ havrebero mandato fori di compagnia, ma essendomi risentita si sono disdeti, e così non vi è stato altro…. Lo prego a non tralasciare di favorirmi con sue lettere, unita con padre e madre e Alessandrina humil.te me le inchino.

Di V. A. S.

Oblig.ma Serva

Di Livorno li 5 luglio 1658.

Orsola Coris.

Chi dunque poteva scrivere al Duca in persona lettere di così aperta famigliarità, parlando degl’ interessi di Compagnia, accusando compagni, reclamando rimproveri, dando commissioni intime e delicate, e svelando fatti, di cui potrebbe arrossire una donna maritata, se non una donna, artisticamente al meno, a capo della Compagnia ? O una favorita del Duca ? O una che fosse l’una cosa e l’altra insieme ? E di dove sarebbe sbucata questa Orsola ? Per un momento, se bene il Bartoli chiami l’Eularia giovinetta nel 1652, ho pensato che quella potesse essere figliuola di questa, e che la madre di cui chiedeva la vicenda Flaminio (Marco Napolioni) per sua figlia, fosse appunto l’Eularia : ma ecco un’ altra lettera al Duca di Modena dello Zio Tomaso, con data di Ivrea, 13 gennaio del 1643, comunicatami dal Conte Malaguzzi dell’Archivio di Modena, che comincia così :

Feci dire nell’ anno passato a Bernardino Coris, Comico, chiamato Silvio, che non s’obbligasse a Compagnia, poichè desiderano il ritorno di lui e di Florinda sua moglie per recitare in comedia…………………

…………………………

Non sarebber questi per avventura il padre e la madre, nel cui nome, assieme alla Lessandrina (una sorella minore), l’Orsola saluta il Duca di Mantova ? Anche sta il fatto che mentre il nome di Eularia sarebbe, nei comici conosciuti del {p. 702}xvi, xvii e xviii secolo, una rarità qual nome di battesimo, diverrebbe assai comune qual nome di teatro.

Bernardino Coris, è anche citato dal Bertolotti fra i comici che abitavano il 1658 in Roma, nel distretto della Parrocchia di S. Pietro.

Corona Teresa. (V. Constantini-Corona).

Corona Anna. (V. Paganini-Corona).

Corsini Iacopo, fiorentino. Trascrivo da Francesco Bartoli :

Bravo ed esperto commediante, che da molti anni recita in Fiorenza nel teatro della Via del Cocomero con la comica compagnia da Giovanni Roffi diretta. Sostiene egli le parti di padre, e di altri caratteri seriosi e gravi, come egualmente quelli d’un genere faceto e scherzevole. È poeta improvvisatore, e riuscirono graditissime le di lui ottave, cantate una per ciascheduna delle sue recite nel suaccennato Teatro. Veggonsi queste in diversi libretti pubblicate colle stampe, e trovansi vendibili al negozio Cambiagi nella Stamperia Gran Ducale. In esse ha egli procurato d’essere spiritoso, ma non osceno ; pungente, ma non satirico.

E dopo di aver pubblicato le due ottave per l’ Indigente (4 ottobre 1773) e per Le Trentatre disgrazie (6 gennaio 1774), continua :

Iacopo Corsini, che sino ad una età avanzata non mai da Firenze partissi, nell’anno 1780 ha cominciato colla Compagnia del suddetto Roffi a farsi conoscere anche in altre città, come Milano, Torino, Genova e simili ; e per tutto ha riscossi de’sinceri applausi, ben dovuti alla sua abilità di Recitante e alla sua Musa naturalmente piacevole. Meriterebbe egli un più lungo elogio, ma questo gli vien fatto da’ suoi proprj talenti, che sanno farsi distinguere dovunque ha egli sin ora avuta occasione di presentarsi.

Viveva egli dunque ancora nel 1782.

Dei libretti pubblicati dal Cambiagi due soli potei vedere ; l’uno di mia proprietà, che contiene 47 ottave cantate dalla primavera dell’anno 1776 a tutto il carnevale 1777 ; e l’altro esistente nella Biblioteca Nazionale di Firenze, che {p. 703}contiene 56 ottave cantate dalla primavera dell’anno 1778 fino a tutto il carnevale 1779, colle quali abbiamo il repertorio della Compagnia Roffi che metto qui a titolo di curiosità :

La bottega del caffè – L’ Amante militare – Il Feudatario – La Moglie gelosa – Le Donne curiose – La forza dell’amicizia – La Figlia obbediente – L’ Ipocrita – Il Raggiratore – La finta ammalata – Le astuzie di Trastullo e d’Arlecchino – Arlecchino principe per accid ente – La Scozzese in Londra – I Rustici – La guerra – Il Padre giudice del proprio Figlio – Il Tutore – Arlecchino, cavalier per forza – I Senatori romani – L’anello magico – Il Padre amoroso – Lo Zoroastro – La donna scientifica – L’Avventuriere onorato  – La Tartana – L’Antiquario, o sia Suocera e Nuora – La casa nuova – Arlecchino marito alla moda – Il saggio amico – La bacchetta parlante – Arlecchino servitore di due padroni – Il Bugiardo – Gli amori di Damet – Arlecchino perseguitato da 4 elementi.

Come si vede, dunque, base del repertorio era il teatro di Goldoni.

A dare un saggio della mente poetica e della prontezza di spirito di Iacopo Corsini, metto qui le tre ottave cantate nelle tre recite delle Donne curiose :

22 maggio 1778

Quanto rider mi fe’ quell’ assemblea
di Donne fisse all’ uscio unitamente,
che una dal posto l’altra rimovea,
e l’altra l’una ne traea sovente ;
felice era colei che più vedea
dallo spiraglio la racchiusa gente :
e ve n’era una sì ostinata e dura
che ceder non volea la sua fessura.

11 giugno 1778

Sien maritate, vedove o ragazze,
cercan tutte scovar le altrui freddure,
e van per le Botteghe e per le Piazze
anche in Zendale a far triste figure ;
son sì curiose queste donne pazze,
che se l’ Uscio era pieno di fessure,
purchè a ciascuna ne toccasse alcuno
avrian pagati i Buchi un Zecchin l’uno.

{p. 704} 7 gennaio 1779

Più facile saria con l’acqua pura
togliere il pel dal capo del Somaro,
o lavando un Etiope figura
tor dal volto il color del calamaro ;
toglier dal foco la vorace arsura,
toglier dal forte ghiaccio il freddo amaro,
la durezza levar da una colonna
che la curiosità dal cuor di donna.

Oltre alla raccolta nei libretti del Cambiagi, ho potuto esaminare, comunicatomi dal Dott. Bonamici, un altro volume di ottave cantate nel Teatro di S. Sebastiano in Livorno, nell’autunno dell’anno 1780. In esso volume, oltre alle commedie recitate in Firenze, figurano :

L’amor semplice – Il Molière – L’amor non può celarsi – L’erede universale – L’orfana fuggitiva – La vedova spiritosa – L’ Eugenia – La finta pazza – Gl’impostori onorati – La contadina tradita – Torquato Tasso – Il disertor tedesco – Pamela fanciulla – Pamela maritata – La fiera delle fate – I due avari – Il Conte di Valtron – La moglie saggia – La caccia d’ Enrico IV – Il vecchio collerico – Gli eroi inglesi – Le glorie della religione di Malta – L’inferno aperto a favore d’ Arlecchino – Arlecchino custode dei pazzi – Geneval – Colombina spirito folletto – La felicità nata dalle sventure – La Reginella – Il padre fanatico – La Calzolaia – La presa di Belgrado – Il disertor fortunato.

Delle ottave metto qui l’ultima recitata nella serata d’addio, come ringraziamento e ossequio al pubblico.

Volgo gli accenti alla cortese Udienza,
cui render grazie in tutto io non saprei ;
per dimostrar la mia riconoscenza
più energico, eloquente esser vorrei ;
che debbo far presso alla mia partenza ?
Se glorifica in parte i versi miei,
nel giubilo del sen farò che sia
gloria del suo bel cor la gloria mia.

Altra ne troverà il lettore al nome della prima donna della Compagnia, che era la Giuseppa Fineschi, a proposito della commedia : Colombina spirito folletto.

{p. 705}Oltre a dette raccolte di ottave e ad altre opere piacevoli del Corsini, assai noto è uno Scherzo poetico intitolato : Il viaggio dei fiorentini alla Madonna della Tossa (Fir., Magheri, 1824), che comincia :

Quattro amici compagnoni,
sendo in Tomba all’ osteria,
dopo il bere ed il mangiare,
com’ è l’uso di costoro,
cominciaro a ragionare
sopra varie allegre cose,
secondo quel che ciaschedun propose.
…………

Corsini Alceste, figlio di Ludovico Corsini, Stenterello di pregio, nacque a Firenze, e si diede giovanissimo all’arte di suo padre, esordendo con una Compagnia da lui accozzata alla meglio a Piombino nella maschera di Stenterello, e peregrinando poi con incerta fortuna da Piombino a Cecina, da Cecina a Montecatini, da Montecatini a Pontedera, poi a Pistoia, poi…. poi…. fino a Nizza, lottando colla fame, affrontando privazioni di ogni specie, senza che mai lo prendesse lo sconforto. Egli aveva come un ideale da raggiungere, una grande missione da compiere : la trasformazione della maschera. E in questa trasformazione gli pareva dovesse essere tutta l’arte…. C’era un po’ di vanità, un po’ d’ignoranza anche ; ma c’era tanto {p. 706}culto per l’arte sua da fargli perdonare ogni esagerazione ridicola. Per lui lo stenterello non ebbe più il costume tradizionale ! brillante, o caratterista, o anche primo attore, appariva in una festa come un misero mortale in frac e cravatta bianca, senza però abbandonare la tipica truccatura del volto, che faceva del personaggio un essere ibrido, non più carne nè pesce, poco rispondente certo al tipo originario, che dalla sua faccia allampanata, da quella espressione di stento, trasse appunto il nome di Stenterello. Tolta questa fisima di trasformazione della maschera, in Alceste Corsini restava pur sempre una rara naturalezza di dizione e di gesto, e una spontaneità meravigliosa dell’ arguzia, due qualità che lo tolser presto dal primitivo guittume per collocarlo più alto, ove potè respirare liberamente l’aria sana dell’arte, e d’onde potè mostrare i suoi pregi a un pubblico degno di lui.

Ormai i suoi due teatri eran l’ Alfieri di Firenze l’inverno, e l’ Arena di Montecatini l’estate, ove si recava già da tempo, anche per la sua salute assai malferma, e ove si gloriava dell’assiduità di Giuseppe Verdi alle sue rappresentazioni. Il Corsini teneva molto alle lodi scritte delle persone preclare, e in un grande album custodiva assai parole benevoli di moltissimi illustri, fra cui Salvini, Rossi, la Ristori, Verdi, ecc.

Affetto da una malattia di cuore che lenta lenta lo struggeva, si spense in Firenze l’ 11 febbraio 1895, ov’ebbe in uno splendido funerale la più bella testimonianza di affetto e di stima da una moltitudine grande di ammiratori e di amici.

Cortellaccio. (V. Molteni).

Cortesi Orsola detta Eularia. (V. Biancolelli).

Cortesi Giovan Battista, veneziano. Recitò sotto la maschera di Pantalone. Sposata nel 1767 una fanciulla di Udine, mentr’egli colà si trovava in Compagnia di Girolamo Brandi, {p. 707}l’addestrò nell’arte comica, e con lei passò il 1774 in Compagnia di Giuseppe Lapy al Sant’Angelo di Venezia. Nel 1782 s’eran stabiliti in Verona, « alienandosi – dice il Bartoli – in virtù d’altro impiego dalla comica professione. »

Corticelli Maddalena. « Comica piena d’avvenenza e di brio che recitò per molti anni nel carattere della serva in una Compagnia di Napoli. Tornata con il suo marito in Lombardia, fu accettata nella comica truppa d’ Onofrio Paganini, e seco fu in Portogallo. Ha trovato impiego in altre vaganti Compagnie anche dopo d’esser rimasta vedova. La sua figura gentile e una grazia singolare la rendono anch’essa degna delle pubbliche lodi, nè lasciano che gli oltraggi del tempo cagionino in lei quelle perdite, che pur troppo inseparabili sono dalla caducità di quei pregi, che tanto soglionsi stimare dagli uomini nel gentil sesso. »

Così Francesco Bartoli. La troviamo l’autunno 1795 e carnovale ’96 al S. Gio. Grisostomo di Venezia nella Compagnia di Carlo Battaglia (V.) e compagni, in cui è la seconda dell’elenco. Probabilmente recitava le caratteristiche.

Nell’elenco della compagnia pel 1796-97, pubblicato nell’ Esopo in Almanacco (Venezia, tip. Pepoliana) appare anche una Rosa Corticelli, forse figliuola della Maddalena.

Corticelli-Fortunati Margherita. Figlia della precedente, recitava al tempo del Bartoli (1782) le parti di donna seria con molto spirito. Sposò un Fortunati di Piacenza datosi anch’egli all’arte comica.

Poteva la Corticelli, a detta del Bartoli, aver luogo fra le più belle e meritevoli comiche che calcassero allora con bravura i teatri.

Cortini o Corrini Andrea. Recitava la parte di Pantalone all’Arena di Verona l’estate del 1734 in Compagnia Imer, sostituito poi al S. Samuele di Venezia dal Collinetti.

{p. 708}Il Goldoni, descrivendo a parte a parte i personaggi di quella Compagnia nel vol. XIII dell’ edizione Pasquali, dice di lui :

Primo vecchio, cioè Pantalone, Andrea Cortini del Lago di Garda, il quale aveva la figura disavvantaggiosa, e non era buon parlatore ; ma gran Lazzista e ottimo per li Zanni ; poichè avea moltissima grazia, e contraffaceva assai bene i personaggi ridicoli, e soprattutto era ammirabile nelle scene di Spavento, e di agitazione. Egli è il Padre di quella bravissima danzatrice, detta la Pantaloncina, che si è poi maritata al celebre Monsieur Deny danzatore francese.

Costa Rosa. Sebbene terza donna della Compagnia diretta e condotta da Antonio Franceschini detto Argante, al S. Luca di Venezia, pure era tenuta da lui in gran conto, sapendo ai pregi dell’arte comica, unir quelli del canto. « Nel 1736 – dice il Bartoli – sostenne nella Tragicommedia intitolata La clemenza della vendetta le parti della Cingara Indovina, di Madama Do La Sol Re, Virtuosa di Camera della Regina, e d’ Eurilla figlia del maggior Sacerdote. »

Costantini Costantino. Nato a Verona da famiglia agiata, si diede per tempo alla ricerca di varj secreti per la tintura delle stoffe in seta e drapperie in genere : ed essendo pervenuto a felici scoperte, aprì una manifattura colla quale s’acquistò in breve un gran nome. Ma innamoratosi di una commediante, per la quale si diede a spender da disperato, fu costretto, per seguirla, a lasciare il commercio, e ad imprendere l’arte comica, assieme alla moglie e ai due figli Angelo e Giovanni Battista. Fu colla famiglia e con quella donna in varie città d’Italia, fra le quali Modena, ov’ era già il 1668 con l’ Ippolita e la Cintia, e ove tornò poi il ’75, comico del Serenissimo Signor Duca, con la Flaminia e la Vittoria. Sotto il nome di Flaminia si nascondeva la Marzia Fiala, modenese, prima donna e moglie del Capitano Sbranaleoni, e sotto quello di Vittoria la bolognese Teodora Areliari. Non così agevole è l’identificare le due attrici del ’68, le quali potrebbero essere la Ippolita Gabbrielli e l’ Anna Maria Millita detta Cintia.

{p. 709}E giacchè siam sulla via delle ipotesi, anche potrebb’essere la Gabbrielli quella Ippolita, a cui è dedicato il sonetto dialettale, di cui il Bartoli non riferisce per pudore alcune parti, e la stessa per la quale lasciò il Costantini la patria. Stabilire cronologicamente la vita di lui è impresa malagevole per certe contradizioni che sono nelle date dei documenti. Egli fu a recitare l’estate del 1686 a Vicenza, raccomandato da S. A. al Conte Frignano Lessi, l’autunno dello stesso anno a Padova, raccomandato da S. A. al signor Marsilio Papafava ; e poco dopo a Venezia raccomandato sempre da S. A. all’abate Grimani. Il 13 maggio del 1688, il Duca di Modena scriveva al Conte Marco Verità a Verona, pregandolo di far partir subito per Modena Costantini e suo figlio Gio. Battista, e il 13 aprile del 1689 un tal dottore Pietro Francesco Torricelli fa istanza al Cardinal Cibo, perchè voglia ottener dal Duca di Modena la remissione dall’esilio, protestandosi innocente nell’impostura datagli, che habbi fatti attestati di percosse nella persona di Graddellino Commediante. Da una nota del Tralage sappiamo che il Costantini esordì al teatro italiano a Parigi nel 1687 nella parte di primo Zanni, sotto nome di Gradelino ; e secondo il parere del vecchio Riccoboni, riferisce il Gueullette che il Costantini, attore di assai pregio in Italia, dovette a Parigi lasciar le scene poco dopo il suo esordire. Il Gherardi nella prefazione alla sua Raccolta del Teatro Italiano, dice di non aver conosciuto che Gradelini e Pulcinelli che non piacquer mai ad alcuno ; e però non se ne trova traccia nelle scene della sua raccolta, e se li ha nominati nella prefazione, si è perchè essi sono stati alla Porta del Teatro italiano.

Il Costantini dunque, dopo la sua prima comparsa a Parigi, se ne tornò in Italia, ove si trattenne, pare, pochissimi anni per far ritorno alla Commedia italiana, che dovette abbandonare non già per avervi poco incontrato, ma a cagione di una canzonetta satirica da lui composta contro la Francia. Egli era buon musicista, e pare ch’egli avesse lo speciale incarico da’compagni di occuparsi della parte musicale nelle loro {p. 710}rappresentazioni. Ufficio che gli fu riaffidato al suo ritorno a Parigi, poichè riferisce il Campardon una querela colla data del 5 febbraio 1696 sporta dal Costantini a nome di tutta la Compagnia, perchè alcuni venditori ambulanti facevano smercio alla porta dell’Hôtel de Bourgogne delle arie che si cantavan sul lor teatro, composte dal musicista Gillier : arie, che per decreto del 17 dicembre 1694, non potevano essere stampate da chicchessia.

Costantini Domenica. Moglie del precedente, recitava le parti della serva sotto nome di Corallina. Pubblicò il 1669 colle stampe di Gio. Francesco Valvasense, e dedicò a Giovanni Giustiniani il Natale de’ Fiori, dramma di Andrea Salvadori Fiorentino, ridotto ad uso delle comiche scene senza la musica.

Costantini Angelo. Figlio dei precedenti, nativo di Verona, dopo di avere recitato in Italia le parti di Arlecchino, si recò a Parigi, chiamatovi per recitar alternativamente col famoso Biancolelli, ed esordì all’antico teatro italiano verso il 1682. Ma per non riuscire inutile a’suoi compagni (il Biancolelli non gli lasciava troppo il modo di mostrare il suo valore) pensò di rappresentar parti staccate, immaginando un nuovo tipo, mezzo avventuriere e mezzo servo, col quale si presentò l’ 11 ottobre 1683, nell’ Arlequin Prothée, recitandovi in francese sotto nome di Mezzettino, diminutivo di mezzetta, ossia mezza misura. Metto qui una incisione del Bonnart rappresentante Mezzettino boccale, ossia misura intera, generata, probabilmente, dal grande successo riportato dal Costantini, quando, sotto le spoglie di Arlecchino, morto il Biancolelli, continuò a recitare col nome di Mezzettino.

Il 26 dicembre dello stesso anno, recitò in italiano nel Banqueroutier la parte del Conte Constantin, cantando la canzone dell’ Usignuolo, che ricantò poi al suo riapparir sul teatro de’ Nuovi Comici Italiani nel 1729. Morto il Biancolelli, Angelo Costantini fu chiamato a sostituirlo ; e la sera del 1° {p. 711}settembre 1688, che fu la prima recita dopo la chiusura del teatro in segno di lutto pel perduto artista, egli in una scena preparata all’uopo ricevè da Colombina la maschera e l’abito di Arlecchino, non mutando però mai il suo nome di Mezzettino. È questa scena che ci descrive il Lichery nell’acquerello originale appartenente alla Biblioteca nazionale di Parigi, e che qui riproduco. (V. pag. 713).

{p. 712}Molto dispiacque al pubblico di vedere una maschera su la faccia piacevole, se bene alquanto bruna, del Costantini ; ma egli serbò il ruolo di Arlecchino sino al successo di un nuovo arrivato, il Gherardi, che lo sostituì, recitando sempre a viso scoperto, sino alla soppressione del teatro nel 1697 ; dopo di che fu obbligato a recarsi a Brunswick ov’ era una compagnia italiana, colla quale recitò il Mezzettino. Propostogli poi dal re di Polonia, Augusto I, Elettore di Sassonia, di entrare al suo servizio, e da lui invitato a formar per quella Corte una compagnia di attori assai completa così per le commedie come per le opere italiane, egli si recò nel ’98 a Parigi, e sì bene compiè la sua missione, che il re Augusto gli mandò un titolo di nobiltà, creandolo cameriere intimo e custode del suo tesoro privato. Un posto di tale specie parve dover assicurare la sorte di Mezzettino ; ma l’ardire di lui spinto talora alla impudenza, soprattutto con le donne, fe’ volger le sue mire su di una Dama di Corte, che il Re onorava del titolo di sua Favorita, alla quale con le richieste di amore proferì parole non contegnose all’indirizzo del Re. Offesa la dama di tanta audacia, la rivelò al Re, invitandolo eziandio a mettersi in un angolo riposto dell’appartamento, di dove avrebbe potuto ascoltar non veduto i discorsi di Mezzettino. E acconsentito il Re, e avuta certezza del tradimento, si slanciò sull’indegno con la spada sguainata per farne pronta vendetta : ma rientrato poi in sè stesso, lo fe’ arrestare e tradurre al Castello di Konigstein, dove stette rinchiuso per oltre venti anni, e donde uscì per intercessione di altra Dama, la quale, padrona dell’animo del Re, si fece da lui condurre al Castello. E visitata la prigione ov’era Mezzettino, questi con la barba lunga e incolta si gettò alle ginocchia di Augusto, che dopo tre mesi lo fece liberare, ordinandogli di lasciar Dresda e la Sassonia. Si recò allora il Costantini a Verona, sua città natale, ma voglioso di ricomparir su quelle scene ove tante volte aveva coll’arte sua trionfato, si restituì alla fine del 1728 a Parigi ; e fu ricevuto come un vecchio camerata alla Comedia italiana, ove riapparve il 5 febbraio 1729 nella di cui si spogliò a un cenno di Momo. In tal prologo, egli cantò rivolto al pubblico i seguenti versi, accompagnandosi colla chitarra :

Mézetin par d’heureux talens
voudroit vous satisfaire,
quoqu’il soit depuis tre-long-tems,
presque sexagénaire,
il rajeunira de trente ans,
s’il peut encor vous plaire.

{p. 713}[http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img051.jpg]

Foire S. Germain, rappresentata la prima volta il 1695. Per tal circostanza, Luigi Riccoboni detto Lelio, il direttore della Compagnia, compose un prologo in azione, nel quale avevan parte Momo, Arlecchino e Mezzettino in costume da vecchio,

{p. 714}Veramente in quel presque sexagénaire esiste una compatibile alterazione di cifra. Se il Costantini aveva quasi sessant’anni nel 1729, era dunque nato verso il 1670. Ma ecco un documento, dal quale apprendiamo come il Costantini con la moglie Annetta, il 1678 al servizio del Serenissimo di Parma Ranuccio Farnese, passasse per un anno a Venezia al servizio dell’Abate Grimani. Comunque fosse, dice il Mercure de France, che gli applausi in quella riapparizione furon frenetici, e che, nonostante l’aumento del doppio nei prezzi, il teatro non potè contenere tutto il pubblico che avrebbe voluto assistervi. Il 7 dello stesso mese, e commedia e prologo furon replicati con egual successo alla presenza della Duchessa di Bourbon. Riapparve poi il Costantini l’ 8 successivo nell’Amant Etourdi, commedia italiana, recitandovi la parte d’intrigante in francese, alla presenza della Duchessa di Maine ; il 12 nell’Arlequin dévaliseur de Maison, o les Fâcheux, commedia italiana in cui sostenne ancora la parte di un intrigante, e il 13 finalmente nell’Arlequin Empereur dans la lune, commedia dell’antico teatro recitata il 1684 la prima volta all’Hôtel de Bourgogne : nella quale lo stesso attore rappresentò una parte di furbo e una scena notturna con Arlecchino applauditissima. Fu questa l’ultima commedia in cui egli ebbe parte : e l’enorme successo annunciato dal Mercure de France non parve confermato da chi assistette a quelle rappresentazioni, dicendolo anzi, a cagione specialmente della tarda età, successo assai mediocre. Nè, a detta degli intelligenti, anche nel tempo della sua gran {p. 716}rinomanza, fu mai riguardato come attore di grandi pregi : e ai versi del La Fontaine che si leggon sotto al bel ritratto del De Troy (V. pag. 715), fatti probabilmente ad istanza di lui, il Gacon nel suo Poëte sans fard contrappose i due seguenti epigrammi riferiti dai fratelli Parfait (op. cit.) :

Sur le portrait de Mézetin
un homme d’un goût assez fin,
lisant l’éloge qu’on lui donne
d’être un si grand comédien
que qui ne le voit, ne voit rien,
et qu’on voit tout en sa personne,
disoit : je ne vois pas qu’il soit si bon acteur ;
il ne fait rien qui nous surprenne.
Monsieur, lui dis-je alors, pour le tirer de peine,
ne voyez vous pas bien qu’un discours si flatteur
est un conte de la Fontaine ?
Pour le portrait de Mézetin,
La Fontaine a fait un sixain,
— ou l’on voit cet acteur traité d’incomparable,
si La Fontaine a cru la chose véritable
je n’oserois le garantir :
mais je sçai bien qu’étant fort porté pour la fable,
il n’enrage pas pour mentir.

[n.p.][http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img052.jpg]








Pochi giorni dopo la rappresentazione di Arlequin Empereur, Angelo Costantini riprese la via di Verona, ove morì alla fine dello stesso anno 1729, lasciando a Parigi assai più creditori che ammiratori.

Sua moglie, figlia di Angiola d’ Orso, esordì all’Hôtel de Bourgogne sotto il nome di Auretta, col quale sua madre salì in gran rinomanza ; ma non avendo incontrato il favore del pubblico passò a recitare in Germania.

Nacquer da tal matrimonio due figli : una femina, morta monaca a Chaumont, e un maschio, Gabriele Costantini, artista di molto valore per le parti di Arlecchino.

{p. 717}Dati i versi del La Fontaine, l’articolo incensatore del Mercure de France, e l’impiego alla Corte di Sassonia, dovè certo Angelo Costantini essere salito in grandissima fama, tale da essere dal Watteau ritratto in ogni maniera, e solo e in compagnia de’comici italiani, tra’quali il più delle volte occupa il primo posto. Così, nelle scene deliziose del Gillot, e in {p. 718}alcune del Bonnart che il lettore vedrà nel corso dell’opera riprodotte.

Il costume di Mezzettino – dice Riccoboni – trae la sua origine dai disegni di Callot (V. il Mezzettino dei Balli di Sfessania al nome di Antonazzoni) o dagli attori comici del teatro francese del 1632, Turlupin e Philipin, che vengon dalla stessa fonte. Se ne fecer corti i calzoni e lo si rese più grazioso, conservando solamente la qualità della stoffa a striscie di differenti colori. Il Sand assegnerebbe il rosso e il bianco. Quanto al carattere del personaggio, esso può dirsi una leggiera variante di quello dello Scapino e del Brighellla : servo intrigante, impiegato ognora nelle furberie e ne’travestimenti. Il Costantini l’andò poi allargando, rappresentando sotto quelle spoglie, come lo Sganarello nel teatro di Molière, parti di marito ingannatore o ingannato, talor servo di Ottavio, e talora di Cintio.

Maurizio Sand riferisce dai fratelli Parfait il seguente aneddoto, che traduco liberamente :

Avendo il Costantini dedicato una Commedia al Duca di Saint’Agnan, che pagava generosamente le dediche, si recò una mattina al suo palazzo per averne il dovuto compenso ; ma per poter giungere sino a lui, dovè promettere al guardaportone, al domestico, e al cameriere un terzo del premio che il Duca gli avrebbe dato. Giunto a lui davanti, gli presentò la commedia, pregandolo di dargli in compenso cento bastonate. La singolar domanda stupi il Duca, il quale volle saperne la ragione : e, dettagliela Mezzettino, egli rimproverò severamente i tre inservienti, e mandò cento luigi alla moglie Costantini che non aveva nulla promesso.

Di Angelo Costantini è nota la Vita di Scaramuccia, pubblicata a Parigi il m. dc. xcv. Evaristo Gherardi, il famoso Arlecchino, successor di Mezzettino, a cui dobbiamo esser grati della preziosa raccolta di tutte le scene rappresentate sul teatro italiano, biasima fieramente l’opera, siccome quella che tende a calunniare un incomparabile artista, mettendo sotto gli occhi del pubblico fatti non mai accaduti. Ma se il libro è detestabile, egli dice, ne va compatito l’autore, il quale ha dovuto uniformarsi, scrivendolo, alla capacità di colui che avrebbe dovuto metterci il suo nome come autore.

{p. 719}Nè di questa vanità ci sarebbe troppo da stupirsi, poichè con tutte le notizie raccolte sul conto del Costantini, non è difficile immaginare un siffatto tipo di ambizioso, che sapeva accoppiare un forte talento a una palese ciarlataneria.

Fu anche voce comune che la chiusura del Teatro italiano nel 1697 (ritratta dal Watteau in uno splendido quadro che riproduco dalla superba incisione originale del Jacob), dopo la quale egli dovette andarsene in Germania, si dovesse alle allusioni mordaci da lui fatte alla Maintenon nella rappresentazione della Fausse Prude ; dopo le quali, il signor D’ Argenson, luogotenente generale di polizia, il 4 maggio 1697, accompagnato da gran numero di commissarj, si recò alle 11 del mattino al Teatro dell’ Hôtel de Bourgogne, e fece apporre i suggelli su tutte le porte, non solo di strada, ma dei camerini degli attori, {p. 720}ai quali fu vietato di presentarsi per continuar gli spettacoli, non giudicando più Sua Maestà opportuno di ritenerli a’ suoi servigi.

Fra le tante versioni sul motivo della loro cacciata, vi è anche la seguente, che il Costantini stesso si affannò di raccontare al signor Gueullette. A quel tempo apparve in Olanda un romanzo intitolato La Fausse Prude : e si fe’ il diavolo a quattro per impedirne l’ingresso nel suolo francese. Fu tanto e così indemoniato il chiasso che se ne fece, che i commedianti italiani vollero approfittar di quel titolo per semplice ragione di réclame : e dovendo rappresentare La Finta Matrigna con nuova giunta di scene francesi del Fatouville, la chiamarono sugli avvisi di teatro La Fausse Prude. Quindi l’ordine di chiusura. È certo però che dietro il racconto del Costantini furon fatte in Olanda, e sempre indarno, tutte le possibili ricerche per aver notizia di quel tal romanzo. Il che starebbe a provare, o farebbe almeno supporre, che il racconto del Costantini non fosse altro che una spiritosa invenzione per iscagionarsi della colpa che gli veniva attribuita.

Costantini Gabriele, veronese, figlio del precedente, fu capocomico e artista rinomatissimo nella maschera d’ Arlecchino. « Fu chiamato – dice il Bartoli – al servizio di D. Carlo Re di Napoli, il quale ebbe a dirgli un giorno : Voi siete un pulito Arlecchino. » Aveva molta coltura il Costantini, e possedeva l’uso di varie lingue con una franchezza ammirabile. Disputava sopra varie materie con uomini dotti, che non lasciavano di lodar il suo spirito. Morto il Re Carlo, passò con la Compagnia a Palermo, dove un frequentatore assiduo di casa, conosciute le sue non poche ricchezze, ed entrato una sera per la finestra, mentre tutti erano in teatro, gli rubò quanto più potè. Desolato per tanta sciagura, il pover’uomo, il quale, sebbene scoperto il ladro, nulla o ben poco potè riavere, ridotto in vecchiaja, carico di figli, e per di più con un occhio perduto, si ritirò a Venezia ove morì nel 1757.

{p. 721}Dice il Goldoni (Ediz. Pasquali, XIII), che Gabriele Costantini fu il primo inventore della novità incantatrice delle trasformazioni istantanee.

Costantini-Monti Angela. Figlia di Tommaso Monti e seconda moglie del precedente, recitò con molto plauso le parti di donna seria, e fu, dopo la morte del marito, in Compagnia di Nicola Petrioli per varj anni. Sposò in seconde nozze il comico Giuseppe Greffi, e poco dopo restò vedova anche di lui. Viveva ancora al tempo del Bartoli (1782) recitando tal volta, ma fuor dell’arte, e campando la vita con sussidj di parenti e di qualche pietoso capocomico.

Costantini Giovanni Battista. Fratello minore di Mezzettino, recitò le parti di amoroso col nome di Cintio nella Compagnia del Duca di Modena. Passato poi in Francia, esordì all’antica Commedia italiana il 2 novembre 1688, nella Follia d’ Ottavio, sostenendovi la parte di Ottavio, sotto il qual nome salì poi in gran fama. Bello della persona, bravissimo ballerino e musico eccellente (eseguiva molte arie su ’l flauto, la tromba, il salterio o decacordo, il piano, la chitarra, l’oboe e l’organo) ebbe liete accoglienze dal pubblico a Parigi e alla Corte, ove apparve la prima volta il 30 dicembre dello stesso anno. Esiliato il 1689, d’ordine del Re, Bartolomeo Ranieri per aver con indiscrezione parlato delle cose del tempo, Costantini lo sostituì, con gran soddisfazione del pubblico, sino al ’94 ; nel quale anno sostituì per le parti di primo amoroso Marc’ Antonio Romagnesi, detto Cintio, che assunse quelle di Dottore. La qual cosa non parve dal Romagnesi accettata con rassegnazione, dacchè in un documento pubblicato dal Campardon (op.cit.) vediamo il Costantini sporger querela contro di lui il 19 ottobre del ’94 per essere stato offeso e minacciato colla spada alla mano all’ Hôtel di Borgogna in pubblica assemblea d’artisti, al proposito del nome col quale il Romagnesi intendeva di recitar la parte di Dottore in una commedia nuova allora letta.

{p. 722}Ma un altro documento riferisce il Campardon di querela sporta da Evaristo Gherardi contro di Ottavio, il quale avrebbe per una recita secondo lui arbitraria, convocata un’assemblea de’ comici subito dopo la rappresentazione del 17 agosto 1692, e assalito e percosso del bastone sulla testa e sul viso il querelante ; contro il quale i fratelli Costantini inveirono già un anno prima dopo la lettura del Don Chisciotte, e altre volte ancora, colle spade alla mano. E la querela del Gherardi è accompagnata dalle testimonianze dei colleghi Fracanzani, Romagnesi, Lolli, Geratoni e Tortoriti, che conferman pienamente il fatto da lui riferito. Il quale pare stia a provare come regnasse un’antica ruggine fra loro per gelosia di mestiere, e come anche Costantini fosse d’indole piuttosto ribelle. A queste scenate di compagnia possiamo aggiungerne altra accaduta in Modena il 13 luglio del 1682 e così riferita al Duca dal Podestà Giulio Rossi e dal giudice Ottavio Cortesini.

Nel giorno delli 13 mese corrente di Luglio Gio. Battista Constantini detto Cintio comico, fu assalito da questi sbiri per catturarlo à causa della Caccia, ma il medesimo Cintio si ritirò in una bottega di speciaria di questa Piazza, et ivi contro i medesimi essecutori pose mano et evaginò la spada, tirandoli delle stocate per essimersi dalle loro mani, come depongono li Testimoni. Lui stesso confessa che li sbiri l’assalirono per pigliarlo in Piazza, e che nel correre in detta speciaria, vedendosi seguire da essi sbiri pose mano alla spada contro di loro, ne voleva che lo pigliassero, e che voleva sapere prima d’ordine di chi lo volevano pigliare, sì che poi loro li dissero essere per ordine di Vostra Altezza Serenissima, onde si rese a detti Esecutori, che condussero prigione, che sono le formali della di lui confessione.

La sola evaginazione della spada era punibile con una multa di 25 scudi d’oro, e con tre tratti di corda, che potevano esacerbarsi ad arbitrio di S. A…. Ma il Costantini fu, cinque o sei giorni dopo, lasciato in piena libertà.

Nel 1697, appena dato l’ordine di chiusura del teatro italiano, egli si restituì a Verona, la patria di suo padre, ove potè render segnalati e disinteressati servigi ai generali dell’armata francese in sul cominciar della guerra del 1701. Esso fu il primo ad avvertir la marcia de’ nemici in Italia, dai quali ebbe poi manomesso ogni suo avere ; e il Cavaliere di Lislière, inviato dal Re in Italia, ne rilasciò ampia testimonianza, in forza {p. 723}della quale egli potè al suo ritorno in Parigi, che fu il 1708, avere in ricompensa l’ufficio d’ Ispettore di tutte le barriere di Parigi, che lo mise in grado d’intraprender nel 1712, con varia fortuna, spettacoli di opera comica alle fiere di S. Germano e di S. Lorenzo.

Nel 1716, alla venuta della nuova Compagnia del Reggente, egli ottenne finalmente un impiego amministrativo, del quale si disimpegnò così male, che dovette esserne poco dopo licenziato.

Giovan Battista Costantini morì a La Rochelle il 16 maggio del 1720.

Costantini-Corona-Sabolini Teresa. Moglie del precedente, assai nota nei fasti teatrali col nome di Diana. Il Campardon dopo di aver detto ch’ella non fu mai in Francia, aggiunge che alla fine del secolo xvii e al principio del xviii, dirigeva una compagnia di comici che davan rappresentazioni nelle principali città d’Italia ; volendo forse alludere a quella Diana (V.) citata dal Bartoli, l’amante di Silvio che dal di lei nome fu detto Silvio della Diana. Ma per tale identificazione non abbiam prove sufficienti. Sta solo nel fatto che la Diana sosteneva le parti di seconda donna con parte intera di ducatoni 60, a vicenda totale con Eulalia che aveva mezza parte, nella Compagnia del Serenissimo di Modena ; e che a lei con regolamento dell’aprile 1681 furono assegnate le seguenti commedie :

Equivoci – Improprio carnefice – Regina d’ Inghilterra – Don Gaston – Pazzia del Dotor – Nerone – nel Convitato la parte di dona Anna – Cit del’espagne – Lucretia – Bugia verità – Cameriera – Ladro sbiro e giudice – Medico volante – L’aluarado – Oime il core.

Il 26 aprile 1677 firmando Teresa Corona Sabolini detta Diana, rilasciava a Don Alfonso d’ Este una ricevuta per puro imprestito di doppie quindici d’ Italia.

Il 3 marzo 1683, sembrando che il Duca di Modena non volesse far compagnia, il Duca di Mantova lo pregava di rilasciargli Diana con altri attori, fra cui il suocero Gradelino.

{p. 724}La stessa richiesta fu fatta il 20 marzo 1688 dall’abate Vincenzo Grimani.

E il 16 marzo 1686 in un ordine di pagamento del Duca Francesco di Modena al Tesoriere Zerbini per varj comici, è aggiunto come nota :

E perchè de dinari che furono prestati dal S.re Zerbini ne toccaua alla Diana moglie di Cintio da scontare dobble dieci che il S.re Tesoriere intendeua di trattenerli nella parte di detto Cintio, essendo questi ricorso a S. A. Serenissima, la medesima Altezza glie le ha donate e però se gli è fatto l’ordine come sotto.

Le dobble dieci furono infatti levate a Cintio, poi subito restituitegli con quest’altro ordine di pagamento.

Tesoriere Zerbini. Pagate degli effetti di Cassa segreta dobble dieci, ò valuta a Cintio comico per donatiuo. Di Camera li 16 marzo 1686.

Dunque la Diana, moglie di Cintio, non era in compagnia con suo marito ? E la ribellione di Cintio alla ritenuta di dieci dobble che erano un debito della moglie, starebbe forse a provare che i coniugi vivevano separati non solo di corpo, ma anche di anima ?

E questa separazione troverebbe la sua ragione nella condotta poco riservata della Diana ? Chi sa ! (V. Diana e Collucci Cecilia).

Costantini Anna Elisabetta. Figlia dei precedenti, sposò il 1708 Carlo Virgilio Romagnesi, detto Leandro col quale fu in Francia a recitare in provincia sino al 1725, e del quale restò vedova il 1731.

Il 3 maggio 1729 esordì con successo alla Commedia Italiana nella Femme Jalouse di Ioly, e nella Veuve Coquette di Desportes ; e il 14 luglio seguente comparve nei Débuts sotto le spoglie di Mezzettino, e vi cantò la canzone dell’ Usignuolo, colla quale aveva già esordito lo zio Angelo.

Il Gueullette in una delle sue preziose note manoscritte allo Scenario del Biancolelli, dice che il Mezzettino del Riccoboni, che qui riproduco, è il ritratto di Anna Elisabetta Costantini.

{p. 725}Ella fu ammessa a un quarto di parte il 30 marzo 1730 e a parte intiera il 4 marzo 1737. Abbandonò il teatro alla chiusura del 1746, e morì il 21 ottobre 1754, naturalizzata francese, lasciando erede universale il suo celebre collega Bertinazzi detto Carlino.

Costantini Antonio. Figlio naturale di Giovanni Battista Costantini, attore di pregio per le parti di Arlecchino. Nacque a Padova, e fu denominato il Tegna, forse per certa sua economia di vivere. Recitò per molto tempo a Venezia, poi fu chiamato al servizio dell’ Elettore a Dresda, ove, incontrato il {p. 726}favor del pubblico, potè accumular molta fortuna, e ove, giunto in età avanzata, morì nel 1764.

Così a un dipresso il Bartoli. Dell’andata di lui in Sassonia non mi fu possibile rintracciar notizie. Ne abbiamo invece sul suo esordire a Parigi il 21 novembre del 1739 nelle Furberies de Scapin, che, non piaciute il 1726, ebber liete accoglienze, in grazia dell’arte sua. Qualche giorno dopo si fece molto applaudire in un vecchio Scenario italiano Arlequin Bouffon de Cour, e il 3 dicembre ottenne un compiuto successo nelle Métamorphoses d’ Arlequin, una di quelle cosiddette commedie di fatica, scritte apposta per far brillare un solo attore. Finalmente il 23 dello stesso mese fu oltremodo applaudito in una antica pagliacciata italiana : Arlequin Médecin volant, che ispirò poi al Boursault il suo Médecin volant. Si sa ancora che l’ 11 maggio del ’40, la commedia di Arlequin au désespoir de ne pas aller en prison dovè per la sua meschinità cadere, nonostante l’arte di Costantini ; e che il 5 agosto del ’41 egli sostenne la parte di Scapino nelle Fourberies de Scapin, al fianco di Bertinazzi Pantalone, al quale dovette lasciar ben presto il posto di Arlecchino. Assai poco sembra valesse il Costantini come attore propriamente detto : e gli applausi che gli furon davvero prodigati si debbon più tosto attribuire al suo singolar pregio di acrobata. Questo troviam nelle note francesi (Campardon, op. cit.) ; questo troviamo in Goldoni, il quale dice di lui (Ediz. Pasquali, XIII) che non valeva gran cosa nel suo personaggio, ma aveva degli adornamenti che attiravano il basso popolo. Era gran saltatore, e giocava mirabilmente sopra la corda.

Dopo di aver dunque recitato in Italia, Arlecchino della Compagnia Imer il 1734, sostituitovi poi dal Campagnani, si recò a Parigi, d’onde probabilmente tornò in Italia prima di andare a Dresda.

Costantini Pietro, detto el Putin, a cagione della sua piccola statura, era figlio di un suggeritore non maggiore di lui {p. 727}nella persona. Era tiranno il 1827 della Compagnia di Romualdo Mascherpa colla moglie Maria amorosa, e vi stette fino alla quaresima del ’35. In quella compagnia, sotto gli ammaestramenti di Luigi Domeniconi che vi recitava le parti di primo attore, cominciò a salire in gran fama il carnevale del ’27 al Cocomero di Firenze per la creazione del personaggio di Loredano nel Foscarini del Niccolini. Tra le parti in cui poscia maggiormente emerse vanno annoverate quelle di Lusignano nella Zaira, di Gomez nel Filippo, di Abner nel Saul, di Guido nella Francesca da Rimini, di Egisto nell’ Oreste e altre moltissime. Egli era giunto a tal perfezione di copia del suo maestro, che chiudendo gli occhi si poteva scambiar l’uno con l’altro. Uscito dalla compagnia, ne formò una in società con Angiolo Gattinelli, scritturandovi il Taddei, col nome e colla direzione del quale potè passar tra quelle di prim’ordine. In esse egli aveva seco la moglie caratterista e madre nobile e due figlie, Luigia e Virginia ; l’una per le parti di giovinetta, l’altra per quelle ingenue. Apparve ancora nel ’63 al Teatro Re di Milano ; poi, venuto vecchio, e ormai vedovo da qualche tempo, con le due figlie ancor giovani, ebbe la fortuna di essere ricoverato da un’agiata famiglia milanese, in seno alla quale morì in tardissima età.

Cotta Pietro, romano, assai noto in teatro col nome di Celio. Luigi Riccoboni (op. cit., Cap. VII) ci apprende come il Cotta, risolto di farsi commediante, avesse la ventura di capitar nelle mani di Francesco e Agata Calderoni che lo guidarono nella diritta via dell’arte. E tanto quegli collo studio e l’amore in essa progredì, che divenne capocomico a sua volta e il primo artista del suo tempo. Nemico acerrimo di ogni volgarità, dei doppi sensi, di quelle licenze in somma, tanto vive in iscena su lo scorcio del secolo xvii, si diede con molto acume a purgare il teatro, arricchendolo delle opere migliori. Recitò più volte il Pastor fido del Guarini, tentò l’ Aminta del Tasso, e a Venezia volle cimentarsi per la prima volta con una tragedia in versi, {p. 728}l’ Aristodemo del Dottori, per la quale dovè predispor l’animo degli spettatori, che di tragedia avean fin perduta l’idea, per avvertirli che Arlecchino non vi prendeva parte, che il soggetto era pieno d’interesse e che li avrebbe commossi alle lagrime.

Il successo ne fu clamoroso ; e, naturalmente, vi fu anche una invasione di tragedia ; all’ Aristodemo del Dottori tenner dietro le traduzioni di tragedie dei due Corneille e di alcune di Racine nei collegi, specialmente per sollazzo di carnevale. Ma se una piccola parte di buongustai applaudiva alla novazione, l’altra che formava pur troppo il grosso del pubblico, vi si ribellò, chiamando noiose quelle interminabili scene ove non eran che parole.

Tenne fronte per alcun tempo il Cotta alla opinione allor prevalente, sperando di condurre un po’alla volta il pubblico dalla sua ; e recitò Rodogona, Ifigenia in Aulide e altre opere tragiche : ma si trovò solo nella lotta. Nessuna delle compagnie volle seguire l’esempio di lui ; chè, tentatolo appena, vista la mala parata e l’assottigliarsi del pubblico, tornò subito all’antico…. Quindi gran confusione ; quindi lo scoraggiamento del Cotta, la sua sconfitta, il suo abbandono del teatro per sempre.

Compose due opere sceniche : Il Romolo (Bologna, 1679) e Le peripezie di Aleramo e di Adelasia ovvero La discendenza degli Eroi del Monferrato (Bologna e Venezia, 1697), dedicata la seconda al Duca di Mantova col seguente sonetto :

Queste peripezie d’ Alme Reali,
che ad illustrar la fedeltà d’ Amore
compariscono in Scena, a voi Signore
corrono ad implorar glorie immortali.
Voi dar potete al vostro nome, eguali
loro il merto, la fama e lo splendore,
sol che accolte da voi, traggon l’onore
d’ir coll’aquile vostre alzando l’ali.
Io, che fra l’ombre osai trarle alla luce,
gran Ferdinando, le consacro a voi,
e in voi più bello il fasto lor riluce.
{p. 729}Che se in queste costanza ha i pregi suoi,
son vostri vanti, e siete voi quel Duce,
per cui splende Virtù negli altri Eroi.

Io ho veduto soltanto il Romolo, opera scenica di Pietro Cotta detto Celio accademico Costante, che è dedicato all’abate Vincenzo Grimani.

In uno stile gonfio e reboante, con mescolanza di prosa e versi rimati, son le solite scene vuote, retoriche, in cui si passa dal furore all’amore colla maggior tranquillità del mondo, senza ombra di gradi. I soliti giocherelli di battute a principio determinato, come :

Ersilia. Da così dolci lusinghe già è posto il freno al mio sdegno.

Ostilio. Da così vago sembiante già fu piagato il mio seno.

Romolo. Da così altera bellezza già affascinato mi sento.

Oppure :

Romolo Caro invito.

Ersilia. Dolci nodi.

Romolo. Graditi legami.

Ersilia. Ersilia, or che più vuoi ?

Romolo. Romolo, or che più brami ?

Ersilia. Che più speri, alma mia.

Romolo. Che più paventi, o core.

a 2. Fra catene d’amore.

Romolo. In sen de la mia Diva.

Ersilia. In braccio del mio bene.

Romolo. Cada il Regno.

Ersilia. Pera il mondo, ecc., ecc., ecc.

Pur talora t’imbatti più qua più là in scene di una tal qual finezza e di effetto teatrale sicuro, qual è questa tra Ersilia e Ostilio, la sesta dell’atto primo :

………………………..

Ers. Narrami in cortesia, o Cavaliere, ciò che s’intende in questa Reggia ?

Ost. Altra guerra io non provo, se non quella che, nuova in vero, tu mi recasti in petto.

Ers. Ippolita non son io, che in furioso sembiante accolga furie virili per atterrire sul Termodonte i nemici.

Ost. E pur da Scite saette mi sento l’alma piagata.

Ers. Arco non vidi mai.

Ost. Ben io lo provo nel tuo ciglio sereno,

se ognor, che il guardo giri
un strale avventi a saettarmi il core.

Ers. Eh, parliamo di guerra e non d’amore.

Ost. Ma che brami sapere ?

Ers. Chi è ’l nemico al Quirino ?

Ost. Estero Sole.

Ers. Aspra guerra intraprende.

{p. 730}Ost. Perchè ?

Ers. Perchè solo coi raggi puote acciecar chi lo mira.

Ost. E pur cieco io non fui nel vagheggiare il tuo bello,

se penetrò per entro gli occhi al core.

Ers. Eh, parliamo di guerra e non d’amore.

Ost. Ma che intender t’aggrada ?

Ers. Per qual causa si pugna ?

Ost. Per l’acquisto d’un Cielo.

Ers. Impresa da Titani, ma perigliosa.

Ost. Non è sì empio ne’ suoi costumi il guerriero.

Ers. Ma è però folle.

Ost. In che modo ?

Ers. Sai che a poggiare nel cielo vi è di bisogno aver l’ali.

Ost. E ben alato n’andrò, mentre risiede nella mia mente Cupido.

che dà l’ali al pensier, la fiamma al core.

Ers. Eh, parliamo di guerra e non d’amore.

Ost. Ma che deggio spiegarti ?

Ers. L’apparecchio dell’armi.

Ost. Son preghiere e sospiri.

Ers. Dunque è il timor che guerreggia ?

Ost. È vero.

Ers. Sarà vinta al sicuro.

Ost. Tale già si confessa

vinto da tua beltà questo mio core.

Ers. Eh, parliamo di guerra e non d’amore.

Ost. Ma se vinto già fui.

Ers. Tu fosti vinto ?

Ost. Si, o bella.

Ers. E che dunque farai ?

Ost. Vinto già in guerra, chiede

pace ottener da tua pietade il core.

Ers. Eh, parliamo di guerra e non d’amore.

Ost. Eh, parliamo d’amor, parliam di pace.

Ers. Oh Dio non posso !

Ost. Ah che non vuoi, cor mio !

Ers. Non so, non deggio !

Ost. Cruda, perchè ?

Ers. Altri guerra mi fa : parlar di pace

non può colei

ch’ ha acceso il cor dell’amorosa face (via).

Covi Luigi, padovano, nacque il 1820. Fatte le prime armi in una Società filodrammatica, entrò in arte giovanissimo, passando non pochi anni di compagnia in compagnia d’infimo ordine, e lottando il più spesso colla fame. Dotato di una certa spontaneità e di una ferrea volontà, non tardò molto a togliersi {p. 731}dal guittume che lo avvolgeva, per recarsi in compagnie, ove l’arte non fosse un mito. Fu con la Ristori, con la Robotti, con la Cazzola, con Pezzana, col Moro-Lin, (col quale stette sei anni, caratterista, e col quale iniziò la sua nuova carriera di attore dialettale), con Gallina e con Corazza. Morì a Padova a settantacinque anni.

Cristiani Demetrio. Egregio primo amoroso, fu parte della Compagnia Reale italiana del Fabbrichesi. Impinguatosi alquanto, lasciò il ruolo di primo amoroso per darsi a quello di caratterista, nel quale fece ottima riuscita a’ Fiorentini di Napoli, ove si recò scritturato dalla Società Tessari, Visetti e Prepiani. Sposò quivi l’ Amalia Pieri, figlia maggiore di Francesco Pieri, ottimo caratterista ; ma in capo a tre anni morì.

Ebbe un fratello, Pietro, caratterista anch’esso di qualche valore, che morì verso il 1835.

Cristina Ines, prima attrice giovine di assai pregio, nacque il dicembre 1875 a Costantinopoli da Raffaello Cristina di Malta e Cesira Sabatini artista drammatica.

Cresciuta sulle tavole del palcoscenico cominciò col recitar parti di bimba, non appena le fu dato spiccicar parola al lume della ribalta. Entrò amorosa il ’90 con Davide Mazzanti, il ’91 con Carlo Cola, il’91-’92 con Michele Fantechi ; metà del ’92 prima attrice giovine con Angelo Pezzaglia, il ’92-’93 {p. 732}con Paladini e Talli, il ’93-’94 con Cesare Rossi, il ’94-’95 con Paladini Zampieri, coi quali stette due anni per passar poi, scritturata per un triennio, con la nuova Compagnia di Claudio Leigheb e Virginia Reiter, ove è ammirata come promessa gentile di un lieto avvenire artistico, per tutte quelle doti, onde natura l’adornò : leggiadria del volto, eleganza della persona, soavità della voce, svegliatezza della mente.

Cuccetti Antonio Martin, veneziano, fu poeta comico e attore generico della Compagnia di Pietro Andolfati. Un rovescio impreveduto di fortuna lo costrinse ad abbracciar l’arte comica, nella quale riuscì mediocremente. Aveva sposato una Margherita Polinà, prima attrice applaudita, e applaudita madre nobile. Entrambi lasciaron la Compagnia Andolfati subito dopo la stagion di quaresima, stabilito avendo piuttosto – scrive il Giornale de’ teatri pel 1820 – di vivere in seno della loro patria, che avventurarsi a nuove disastrose vicende, cui andò soggetta la compagnia stessa nella scorsa quaresima, e che ora partì per Trieste.

Fra le opere del Cuccetti son da annoverarsi il Mitridate che fu dato con gran successo dalla Compagnia Raftopulo, e l’Alunna della giumenta che ebbe otto repliche consecutive.

Ma quel che tiene ancor vivo il nome suo fra gli scrittori di cose di teatro è un’opera pressochè introvabile, stampata a Milano dal Visai il 1859, e intitolata : Biblioteca drammatica italiana antica e moderna, di cui possiede pochi volumi, non so se tutto il pubblicato, la Braidense di Milano. Secondo l’antico sistema del Teatro applaudito, della Biblioteca teatrale e di altre collezioni di simil genere, l’opera del Cuccetti contiene una raccolta di componimenti teatrali in prosa e in versi, preceduta a ogni volume da notizie concernenti attori e attrici dalle origini della scena italiana.

Cuniberti Luciano, torinese, uscito da una società di dilettanti, fece le sue prime armi in arte con Gustavo Modena. Fu ottimo generico e buon caratterista in Compagnie di {p. 733}prim’ordine quali di Tommaso Salvini e di Giovanni Emanuel. Bellissimo della persona, era noto in arte per la strana rassomiglianza ch’egli aveva con Napoleone I. Nonostante l’avanzar dell’età, egli trova modo di far tuttavia qualche apparizione dalla ribalta in compagnie del momento.

Cuniberti Gemma. Figlia di Teodoro Cuniberti, fratello del precedente e attore di qualche pregio in dialetto piemontese, nacque il 1872. Vero miracolo d’arte che si manifestò per lo spazio non lungo di quattro o cinque anni. Nel ’78 a men che sei anni levava all’entusiasmo il pubblico della Commenda di Milano. Ferrari, Marenco, Carrera, Salvestri scrissero commedie per lei. Non le s’insegnava nulla. Le si leggeva la commedia, le si dava la parte, e lei studiava, imparava e creava. Le commedie metteva in scena e dirigeva da sè : e tutto faceva con una semplicità, con una ingenuità indescrivibili. Niente di quella petulanza che è nelle saputelle di sei anni. La Gemma era bimba, bimba a rigor di termini…. giocava fra le quinte, saltava…. poi…. entrava in iscena trasformata, e il pubblico era tutto suo.

Ricordo gli entusiasmi del ’78 al Rossini di Torino : un delirio ! E questo delirio si mantenne costante nelle principali città dell’ Italia e dell’ America, dove la Gemma si preparò un agiato avvenire. A poco più che dieci anni, la piccola grande artista abbandonò per sempre il teatro della scena per darsi con gran fervore a quello degli studj classici, nel quale anche riuscì, dicono, attrice preclara.

Cusati Girolamo. Dice Fr. Bartoli ch’egli fu pittore napoletano di fiori e frutta ; e che datosi all’arte comica, vi riuscì a meraviglia per ogni genere di parti, specialmente per quella di S. Pietro nella Passione di Cristo, al successo della quale contribuiva oltre il merito artistico, la perfezione del fisico.

Cutini-Mancini Daria. Nata in Livorno il 16 marzo 1835 da genitori commercianti, si diede per tempissimo all’arte dopo {p. 734}alcune ottime prove fra’ dilettanti della sua città. Si trovava nel 1853 in Compagnia Feoli, già sposa all’attore Ludovico Mancini ; e ad Alessandria della Paglia, in quell’anno, uditala il Righetti, la scritturò per la Compagnia Reale Sarda, pagando la penale alla Società Arnoud e Carrani con cui la Cutini era scritturata.

Nel citato libro su La Compagnia Reale Sarda e il Teatro italiano dal 1821 al 1855 (Milano, 1893), così parla il Costetti della egregia artista, dopo di avere accennato al ritirarsi dalle scene della Romagnoli :

Le succede Daria Cutini-Mancini, giovane, avvenente e bellissima attrice, ben degna insomma di succedere nella Reale a quella celebrità del grembiule.

La Cutini-Mancini recava con sè, in più della Romagnoli, uno spirito di modernità e un sentimento di grande fierezza che il nuovo repertorio esigeva. Infatti, il ruolo della servetta vera e propria era finito : subentrava la seconda donna, ossia un ruolo di comicità più oggettiva, come chi dicesse la donna emancipata, spesso vedova, desiderosa di nuove nozze, ed alla quale per solito annodavasi l’intrigo galante delle commedie nuove. Per un ruolo siffatto la Daria era proprio nata. La civetteria elegante, la malizia raffinata, l’arte di sottolineare le più arrischiate espressioni, avevano in lei una esecutrice inarrivabile.

Ed Ernesto Rossi (op. cit.) :

Daria Cutini-Mancini era una bellezza piccante, giovanissima, ella pure di 22, ’23 anni appena : svelta della persona, elegante nei movimenti, con una pronunzia aperta e correttissima, qualità principale nel disimpegno delle parti brillanti e di servetta : ella doveva rimpiazzare la signora Romagnoli, che a buon diritto era chiamata la Déjazet italiana, per avere, come quella, creato in Italia le parti di Richelieu, Napoleone a Vincennes, e tante altre nelle commedie di Goldoni, di Molière e di Nota.

Fu parte poi della Compagnia Pieri, e, cominciando a star male col petto, non fece che rare apparizioni sul teatro. Negli ultimi anni di sua vita, diresse per alcun tempo e per suo diletto alcune recite del Circolo Filodrammatico di Roma.

{p. 735}Al proposito di una sua beneficiata a Torino colla Cameriera astuta di Riccardo Castelvecchio, fu pubblicato in una gazzetta locale che ad onta delle mende di cui si potrebbe appuntare, la commedia non cadrà mai ove sia eseguita ottimamente, come lo fu in questa occasione, per merito principalmente della signora Cutini-Mancini, delizia di ogni pubblico per quel brio e naturalezza onde sa improntare le parti di servetta, nella quale è veramente l’erede dell’esimia Romagnoli. – Ed io, se non di quella sera, di quella interpretazione serbo il più vivo ricordo. La Daria Cutini-Mancini, già da un po’ fuor delle scene, si presentò appunto colla Cameriera astuta al pubblico dell’ Accademia Fiorentina de’ Fidenti.

Non era una donna, ma uno spiritello, che correva per la scena con movenze birichine, d’una galanteria indicibile, con una vocina d’argento che s’insinuava ne’ cuori, con una dizione limpida e netta, che afferrava lo spirito. Si pendeva intenti dal tutto di quel frullino, dinanzi a cui non si osava lasciarsi andare a una matta risata, per paura di perdere una mossa, un’occhiata, una sillaba. E la povera artista, giovane, appassionata tuttavia per quell’arte che le aveva così fuggevolmente sorriso, estenuata dalla tisi, morì in Roma il 16 aprile dell’ ’81.

Suo marito, Ludovico Mancini, era morto ad Alicante il 13 maggio del ’77 in Compagnia di Ernesto Rossi.

[D] §

[n.p.]
[n.p.]

I COMICI ITALIANI §

Da Molino Antonio. (V. Burchiella).

Daneret Elisabetta. (V. Gherardi).

Dardanelli Giuseppe. Torinese. È citato da Francesco Bartoli come Brighella e attore per le parti gravi di qualche merito. Fu in varie compagnie e scrisse alcune commedie, fra le quali L’amor coniugale come seguito del Fabbricatore inglese di Falbaire. Alla pubblicazione delle notizie del Bartoli (1782), il Dardanelli era a Palermo colla Rosa Brambilla.

{p. 740}D’Armano. (V. Armano).

Davia Marta. Bolognese. Nata – dice il Bartoli – da poveri parenti, cominciò per procacciarsi di che vivere, a montare in banco nella Compagnia dell’ Anonimo Ciarlatano Bonafede Vitali, col quale probabilmente si trovava il 1733 a Milano, se ben giovanissima, assieme al Casali e al Rubini (V.). Si sposò poi in Venezia e fecer molte allegrezze in Campo Ruzzolo, gettando denari e confetture al popolo. Passò al teatro di S. Luca, prima donna a vicenda colla Marta Bastona, della quale divenne un’emula fortissima ; lasciò giovane il teatro, e viveva ancora nel 1782 a Venezia, avendo – aggiunge il Bartoli – il marito impiegato in cariche civili, che a lui procacciavano un utile guadagno, ed a sè stessa una quiete più tranquilla nell’età sua, che a gran passi alla vecchiezza s’incamminava.

Del merito di lei fa fede Carlo Gozzi, il quale nel Ditirambo pel Sacchi Truffaldino (Firenze, tip. Colombani, 1774, T. VIII), dice :

Se il Sacchi avesse que’due compagnoni,
(Antonio Vitalba e Rodrigo Lombardi, morti)
e la Davia crudel che l’abbandona,
(che noi preghiamo tutti ginocchioni
a ridonarci ancor la sua persona)
ben potrieno i poeti co’ Bordoni,
e con la cetra in spalla che mal suona,
andarsi nella Persia e nella China,
donde hanno tratto la miglior dottrina.

De Bianchi Lodovico. (V. Bianchi [De]).

De Cesari Giovanni. Nacque a Venezia il 1760, e cominciò a recitar ne’teatri secondarj della sua città. Percorse poi colle Compagnie Lapy, Medebach, Battaglia, Zanerini, Goldoni e Perotti, le primarie città d’Italia, applauditissimo sempre nelle parti di primo amoroso. Morì a soli trentacinque anni in Padova.

{p. 741}De Fornaris Fabrizio. Napoletano, recitava la seconda metà del secolo xvi nella famosa Compagnia dei Comici Confidenti, le parti di capitano, col nome di Capitan Coccodrillo.

Fu in Francia negli anni 1571 e 1584. Questa seconda volta la compagnia prese stanza all’ Hôtel de Cluny. Il De Fornaris vi pubblicò, coi tipi di Abel Angelier, l’Angelica, commedia in cinque atti in prosa, dedicata all’Illustrissimo et Eccellentissimo Signore il Signor Duca di Giojosa, della quale ecco l’istoria che traggo dalla lettera dedicatoria.

….. essendo in Venetia gli anni a dietro mi fu da un gentil-homo Napolitano virtuosissimo spirto, donata questa comedia, la quale essendo da me vista, et in qualche parte imbellita, o fiorita, per quanto con la comica prattica sapevo, introducendoli il Capitano Coccodrillo con alcune sue Rodomontate, mi disposi con questa, dico, comparirle davanti. Con tal pensiero dunque volsi prima farla recitare, per vedere se li fusse stata alcuna parte soverchia oppure bisognevole, come in fatti io feci nel felicissimo battesmo della figliuola dell’ Eccellentissimo Signor Duca d’Umena, alla presenza della Serenissima Regina Madre et de molti illustrissimi Prencipi e Principesse. La quale, secondo potei conoscere, non fu dispiaciuta ; non dimeno dovendo comparire avanti de un Signore di si alto merito come V. E., desiderava rappresentargliela prima in suggetto, per vedere se Le fusse in qualche parte gradita. Onde riuscendomi il disegno per essere stata da V. E. la nostra Compagnia chiamata in casa dell’illustre signor Conte di Gos questa istate passata, glie la rapresentassimo. Et perchè mi parve che V. E. con tuti li altri Signori spettatori la godessero presi ardire di farla in parole stampare, et poi sotto nome di altri personaggi dedicargliela, come con essa le dedico la servitù et affetion grande ch’io le porto.

La commedia era dunque un semplice Scenario, disteso poi in parole per questa occasione.

Il Bartoli, seguito dal Sand e dal Bachet, accenna anche alla rappresentazione che il nostro fece, prima dell’ Angelica, di una pastorale di Bartolommeo Rossi « La Fiammella » pur edita lo stesso anno a Parigi dall’Angelier, e come quella {p. 742}dedicata al Duca di Voyeuse : ma di ciò non trovai traccia in alcuna delle due. Il Croce ne’suoi Teatri di Napoli accenna, forse per natural supposizione, che il De Fornaris fece a Napoli le sue prime armi. Il Sand lo fa nascere il 1560 (e a undici anni, il 1571, avrebbe, secondo lui, percorso le provincie della Francia al fianco della Maria Malloni, la celebre Celia, e di Bernardino Lombardi, il famoso Dottor Lanternone) e lo fa morire il 1637 in Italia.

La commedia dell’Angelica non è certamente delle più brutte ; e si sente subito che è scritta da un comico esperto. Anche vi sono frasi e parole di una volgarità un po’cruda, come in tutte le altre del tempo, nella scena specialmente tra il servo Mastica e la balia di Angelica, una, del resto, delle più belle per vivezza di dialogo. Notevole è anche la scena tra il Capitano e Mastica, il quale si profonde in adulazioni di ogni maniera per ottener finalmente un buon pasto. Quanto alla sua origine e al suo potere, il Capitan Coccodrillo non ha nulla da invidiare a’suoi predecessori e successori. (V. Andreini Francesco).

Infatti egli è

il Capitan don Alonso Cocodrillo, hijo d’el Colonel don Calderon de Berdexa, hermano d’el Alferez Hernandico Mandrico de strico de Lara de Castilla la vieja, cauallero de Seuilla, hijo d’Algo verdadero, trinchador de tres cuchillos, copier major de la Reyna de Guindaçia, saccador de coraçones, tomador de tierras, lançador de palos, caualcador de janete, jugador de pelota, enuentor de justras, ganador de torneos, protetor de la ley Christiana, destruydor de los Luterianos, segnor y Rey de l’arte militaria, terror de los traydores, matador de los uellacos, socorro de los tribulados, Capitan y Lugar-Teniente general de toda l’armata anzi de tierra, como de la mar d’el gran Rey de Cappadocia, {p. 743}maestro de Cirimonias, Principe d’el collegio de los matadores, dotado de muchas graçias, seruidor de Damas, enemigo de los vellacos, y amigo cordialissimo de Don Garauite Pontius de Leon, y de don Rebalta Salas de Castannedo.

E per non essere un Capitan degenerato, appena trova chi voglia tenergli fronte, si ritrae spaventato, ma senza abbandonar l’innata arroganza. Magnifica teatralmente è la scena settima dell’atto secondo, quando Fulvio venuto a cognizione delle nozze di Angelica col Capitano, si dispone a cimentarlo con offese di ogni specie.

A quali Rodomontate allude il Cataldo nella prefazione alla sua commedia Gli amorosi inganni, edita il 1609 a Parigi, là dove dice :

T’auiso Candido Lettore, che molti mesi sono, son uenute in luce alcune rodomontate Spagnuole, non solo qui, ma quasi per tutta la Francia vendute poco accortamente da colui (perdonami Sua Signoria) che le diceua e recitaua sopra la scena, le quali hanno forse auuilite quelle che ’l vostro Cataldo vi fa leggere…… ?

Forse a un’opera, sin qui sconosciuta del De Fornaris ?

Degli Amorevoli Battista (V. Battista da Treviso).

Degli Amorevoli Vittoria. Moglie forse del precedente, recitava le parti di seconda donna col nome di Isabella. La troviamo firmata col solo nome di teatro nella citata lettera degli Uniti (V. Battista da Treviso), poi con tutte due nella lettera dei Comici Costanti, senza data, ma diretta da Ferrara al Duca di Modena, reclamando la partizione di trenta zecchini dal Pantalone Scarpetta (V.) il quale non solo vuol tenerli per sè, ma neanche vuol seguire la compagnia, adducendo la ragione del caldo soffocante. E la lettera è firmata :

Io Virginio Costante affermo quanto di sopra si contiene.

Io Aurelio di Secchi A fermo quanto in ciò si contiene.

Io Vittoria Amoreuoli detta Isabella confermo quanto nel presente si contiene.

Io Francesca Tabò anchio afermo.

Io Hippolito Montini detto Cortellaccio affermo.

Io Giomaria Antonazzoni affermo e fece scrivere.

Io Gabriello ditto Francatrippe comico geloso fece scrivere.

{p. 744}Degola Tommaso. Noto attore per le parti di caratterista che disimpegnò lodevolmente nelle Compagnie Favre, Granara, Marchionni, Medoni e altre di minor conto. Avanzato nell’età, abbandonò il teatro, e andò a stabilirsi a Milano, ove morì, agente teatrale, verso il 1860.

Dehesse-Visentini Caterina.(V. Visentini).

Del Buono Luigi. Artista celebre nella maschera dello Stenterello, ch’egli creò, nacque a Firenze (fuori di Porta a Prato a San Stefano in Pane) il 13 agosto del 1751 da Filippo Del Buono, possidente. Visse e morì in Via Borgognissanti nella casa segnata allora col N.°3930, oggi col 66 ; e prima di darsi all’arte fu orologiajo, ed ebbe bottega in Piazza del Duomo. Come egli risolvesse di calcar le scene non sappiamo : ma è certo che non vi apparve la prima volta sotto le spoglie di Stenterello. Dell’ingresso in arte di lui discorre il Paese di Pistoia del 15 ottobre 1887 in un articolo firmato X, nel quale è detto ch’egli cominciò a fare il commediante in una compagnia comica che recitava al Teatro del Cocomero (oggi Niccolini) di Firenze. Recatosi a Napoli e divenuto frequentatore assiduo e ammiratore profondo del Pulcinella……

pensò di creare lui stesso una maschera che stesse di fronte a quella milanese del Meneghino e a quella torinese del Gianduja, ed avesse un carattere suo speciale e tutto fiorentino. E ad un fiorentinissimo com’era Luigi Del Buono non poteva non riuscire. Ideò subito la sua maschera che altro non doveva essere che il popolano fiorentino di tutti i tempi ; si vesti il cappello a tre punte, colla giacca colorita, coi calzoni corti, colle calze di colore, colle scarpe colla fibbia, e cosi truccato sali sulla scena. Il Del Buono viaggiò colla compagnia e fe’fortuna……

A qual fonte sia stata attinta la interessante notizia dell’anonimo articolista non saprei dire. Secondo la tradizione, il Del Buono avrebbe accolto l’idea della sua maschera dalla viva voce del basso popolo fiorentino, chiassoso, arguto, spensierato nella sua miseria, rigido conservatore del vernacolo, dacchè la sua casa situata in faccia alla via di Merignano, che {p. 745}sboccava allora in via Gora, mettevalo con lui in immediato contatto.

Anche sulla origine del nome di Stenterello varj sono i pareri. Il Landini, ultimo degli Stenterelli celebri, raccontava di avere udito (e le parole sue furon riferite nella Nazione del 31 marzo ’91 da Giulio Piccini (Jarro), a cui debbo gran parte di queste notizie, e di cui uscirà presto, editore Bemporad, una particolareggiata e documentata vita del nostro artista)

che il nome venisse da un faceto garzone di parrucchiere, o da un gaissimo mendicante, il quale se ne stava sugli scalini d’un portone, chiedendo l’elemosina, e attirando la gente co’suoi lazzi, destando la pietà pel suo vestito, tutto toppe e brandelli, per la sua persona, scarna, allampanata, stentata : da ciò il nome di stento o stenterello, che si dà tuttora a un mingherlino e sparuto.

Ma dopo il ritratto che di Luigi Del Buono ci lasciò il Morrocchesi nelle sue memorie tuttavia inedite, pubblicato per la prima volta dallo stesso Jarro insieme ad altre molte notizie concernenti la maschera e l’artista (ivi, 13 e 20 aprile ’91), io credo che il nome di Stenterello egli prendesse da sè stesso, essendo piccolo di statura, magro, sparuto, di carnagione giallastra, ma non difettoso della persona.

Giacchè sono sulla citazione del Morrocchesi, continuo.

Avea la fronte spaziosa e una facile rallegratura. Le doti del suo bell’animo, non alterando di un atomo la verità, furono rare. Buon cristiano, buon amico, buon prossimo : sovventore dei poveri, ed abile artista comico in generale : in particolare poi, sommo nel così detto carattere di Stenterello, che egli stesso inventò, ed inimitabilmente e gustosamente sostenne fino alla decrepitezza……

E il Morrocchesi poteva discorrerne con ragione, poichè fu con lui scritturato per tutto il 1800, che egli passò, dice,

in un batter d’occhio, perchè fu del continuo accompagnato da quiete d’animo, da perfetta salute, da ogni possibile soddisfazione nell’arte, e con sopra a 400 zecchini d’avanzo, dopo essersi mantenuto gajamente in tutto e per tutto.

E aggiunge che pur troppo non potè godersi a lungo tale papato, a cagione della prima attrice della compagnia, certa Faustina Zandonati, cagliaritana, la quale viveva col Del Buono, e glie ne faceva passare di tutti i colori, maltrattandolo sovente a parole, talora picchiandolo, e facendolo fin anco {p. 746}girandolar di notte dopo la recita, in traccia di un suo cane maltese, chiamato Maschero, che spesso e volentieri le scappava di casa.

Fu in processo di tempo il Del Buono preso da tal manìa religiosa, che datosi tutto a Dio, fece solenne promessa di abbandonare il teatro, scuola, diceva lui a’compagni, di turpitudini, al quale non sarebbe certo tornato mai più, se un’opera di carità, sciolto dal voto per intercessione di un alto sacerdote, non ve lo avesse ricondotto. E ciò fu nel 1830 all’età di ottant’anni : e si racconta, che dovendo egli salire sur una tavola, e non riuscendovi, a uno del pubblico che gli disse forte esser quella troppo alta per lui, rispondeva : « no, sono le quattro ventine che mi pesano. »

Nell’andito della casa di lui fu collocata nel ’91 la seguente lapide :

Luigi Del Buono – nato a Rifredi presso Firenze – scrittore castigato elegante – autore di operette e commedie popolari – comico corretto e pregiato – nella satira arguta educativa – maestro – della maschera fiorentina – inventore

In questa casa che fu di sua proprietà – morì ottantenne – il 19 ottobre 1832.

E nel chiostro della chiesa di Ognissanti ov’egli è sepolto, si legge su di una parete il seguente epitaffio, fatto da lui stesso incidere in marmo fin dal 1826 :

Luigi Del Buono fui – che da vivente destinavo questo marmo – per soprapporsi alla mia fredda salma – presso quest’ara sacra alla gran vergine – in carità prego di recitare – il De Profundis e la seguente giaculatoria – in lode della nostra avvocata – Maria Santissima – che ciò sarà di sollievo all’anima mia – e di merito a quel devoto che la suffragherà.

Sia benedetta – la Santa ed immacolata Concezione – della Beata Vergine Maria.

Toltosi dal teatro, a continuar l’opera sua scelse Lorenzo Cannelli, del quale fu maestro appassionato, ma che poi dovette abbandonare per la troppa scurrilità di cui si piaceva rivestire ogni sua frase ; giacchè il Del Buono, che il Morrocchesi dice {p. 747}Angelo umanato, volle ritrarre il popolo fiorentino in genere, nella vivezza del linguaggio, purgato da ogni parola men che conveniente.

Stenterello non ha carattere spiccato : esso può esser tal volta amante fortunato, tal altra marito ingannato ; ora servo sciocco spaventato dai morti, ora arguto dispensator di morale ; ma sempre, nelle quistioni più vive politiche o sociali, de’grandi e piccoli errori satirico flagellatore. Un po’alla volta, pur {p. 748}troppo, la maschera perdè la sua prima fisionomia, terminando col trasformarsi in un semplice personaggio da pochade e magari da operetta, oggi Stenterello in mare, domani organista nella Santarellina, e via discorrendo. Si è detto e si è scritto che le maschere in genere oggi non han più ragione di essere. Io credo che se invece di invadere un campo non loro, si fossero contentate di quello naturale cioè a dire di satira in azione, non mai com’oggi avrebber potuto essere salutari al popolo di su la scena.

Fu anche Luigi Del Buono, come dice la lapide commemorativa, egregio scrittore di commedie e di operette, tra le quali, una delle più note e più lodevoli, la Villana di Lamporecchio, la cui protagonista fu studiata sul vero nella persona di Virginia Venturini di Lamporecchio, che viveva al servizio di lui, e lo pettinava ogni mattina, acconciandogli il codino stenterellesco che egli non abbandonò mai. Trascrivo il dialogo della sfida tra Scivoli e Bisticcio, pretendente della Villana, uno de’più ingegnosi ch’io mi conosca :

Bisticcio. Se tento intanto, un tantin tutto il vostro cor, tutt’atto a tor da tutti, gli atti di timore ho più a temere, perchè se qui a me non diè quel labbro un si e leta, a lete o a dite, date in dote i dati dubbi, io debbo se tacete, veder che dite ai moti muti, che mi amate mite ; e se non muta, immoto resto, e muto senza metà.

Scivoli. Frenar più l’irascibile non posso a tali termini ! Per Dorotea tu spasimi ? Sei forsennato o semplice ?

Bisticcio. Non forsennato, ma forte nato per assennarti od assonnarti se tu non parti.

Scivoli. Son io forse un papavero, del sonno autore e simbolo ? Son sveglio, e niente trepido di una mal fatta virgola l’alte minacce e i crociti….

Bisticcio. Tu ti picchi ? Anch’io mi picco alla tua picca, se hai la pecca di aver pacche, non t’appicco, ma non pecco, se ti spicco e spacco il capo cupo, e dò alla parca un parco porco.

Scivoli. Non mi conosci, o misero ; se contro te mi adopero, quant’ossa porti io spezzoti.

Bisticcio. Se la rabbia, fa ch’io rebbi, ti do un rubbio di rebbiate, ma se busso prendo un bosso, e t’abbasso nell’ abisso a suon di basso e busse. Io non beffo, goffo, buffo, se ti azzuffo per il ciuffo presso al baffo, quel tuo ceffo t’abbaruffo, e per caffo nel rabbuffo ti do il tuffo.

Scivoli. Ebben, finiamla e subito ; entrambi provvediamoci d’un biforbito e lucido acciar di tempra ruvida e andiam fuori a combattere in fier duello orribile.

Bisticcio. Accetto il patto ; di citto o putto, non cito il petto. Eccetto il ratto mi accingo a tutto. Io mi batto fuor nell’atto fino all’otto ; mi ci metto come un matto nè vo in letto finchè a lutto non fai motto ; tu mi batti, io ti ribatto, e in baratto di tua botta, io ti butto giù in un botto ; se sei dotto, io sono addatto ; niuno editto

{p. 749}nè altro detto che sia indotto non adotto. Mi porta a sparte, e parto in parte aperta. Ho detto netto ; il patto è fatto. T’aspetto in ghetto.

Scivoli. Non temo e vengo subito.

Il Giornaletto dei teatri di Venezia del 1821 cita un Vincenzo Fracanzani il quale partito da Firenze sua patria, immaginò in Lombardia un nuovo ridicolo personaggio, cui diede il nome di Stenterello, che quantunque in lui non male accolto dal pubblico, tuttavia non fu da altri poi ricopiato.

C’è qui dell’inesattezza, avendo nel ’21 il Del Buono già da quarant’anni creato la sua maschera ? o forse il Fracanzani, caratterista allora al fianco di Luigi Vestri, aveva, quarant’anni prima accennato con insuccesso a quella maschera, affermata poi nel suo maggiore sviluppo dal nostro Del Buono ? O non piuttosto, come giustamente osserva Jarro, si tratta dell’ignoranza dell’articolista che per la difficoltà allora di comunicazioni, non sapeva a Venezia quel che il Del Buono aveva fatto in Toscana ? E l’incisione che io riproduco (V. pag. 747), a qual tempo appartiene ? Tranne la lucerna che è dello stenterello più moderno, corrisponderebbe al ritratto che di Del Buono ci ha dato l’articolista pistoïese. Ma la lucerna specialmente di questa forma, è anche anteriore al tempo in cui il Del Buono vestì la sua maschera, come anche anteriore mi sembra la giubba a vita abbottonata e fermata da cintura. A ogni modo è certo che nè lo schizzo del Cannelli fatto dal vero dal De Goncourt, nè le intestature delle rappresentazioni alla Piazza Vecchia, stenterello il grande Amato Ricci (V.), nè lo stesso ritratto autentico di Luigi Del Buono, che l’Jarro pubblicherà quanto prima ci dànno un abbigliamento simile a questo.

Del Carcano Girolamo. (V. Brandi).

Delia. (V. Roca Nobili).

Delicati Luigi. Il Bartoli lo dice di Ravenna, ma ogni mia ricerca negli archivj parrocchiali e del Comune riuscì vana : {p. 750}egli era forse della provincia o di qualche paesello del Ravennate. Nato da famiglia civile, l’abbandonò giovanissimo, fuggendo, per un amore, dalla terra natale. Abbastanza istruito, si diede a calcar le scene, e riuscì buon comico per le parti d’innamorato e per quelle di Brighella. Fu con Domenico Bassi, attore e cantante. Passò il 1776 con la Faustina Tesi ; ma dopo due mesi fu licenziato dalla compagnia per contese domestiche. Punto da tal fatto, volle far pubbliche le sue ragioni ; e stampò all’uopo un libricciuolo in Cremona colla data di Parma. D’indole risoluta, energica, che non conosceva docilità, dovè pur troppo, nonostante i non pochi suoi pregi artistici, restar sepolto in compagnie di niun conto. Ebbe, secondo il Bartoli, più mogli, variis modis et temporibus, e andava guitteggiando ancor nel 1782.

Curiosa è la lettera, gentilmente comunicatami dal cavaliere Azzolini, che qui trascrivo fedelmente.

Amatis.mo Sig.r Marchese Padrone.

Segno soltanto due righe. Ieri sera sono giunto a Torino, perchè mi sono fermato un giorno e mezzo a Bergamo. Domani parto per Lione e ci metterò sei giorni, onde non sarò a Londra che alli 4 dell’ Entrante. A Milano siamo stati all’opera buffa, ove canta la Morichelli, e fanno l’opera che faranno a S. Moisè che ha per titolo L’albero di Diana. EccoLe qui acclusa la Satira che hanno fatto in Milano. Attendo lettere di V. E. a Londra, e facci sulla mansione doppo il mio nome Chez Monsieur Gallini. Mia moglie fa mille complimenti a V. E., al Sig.r Marchesino, e a tutta la villereccia Comitiva. Supplico V. E. a continuarmi la sua grazia, e Patrocinio, e con tutto il rispetto mi do l’onore di rassegnarmi

Di V. E.

Torino 13 ott.e 1788.

P.S. Non è mancanza di rispetto, se non fo sopracarta, ma solo perchè la Lettera riescirebbe troppo grossa.

Soprascritta :

A Sua Eccellenza

Il Sig.r March.se Franc.º Albergati

Capacelli

Agente di S. M. Il Re di Pollonia

Bologna.

{p. 751}Della Guardia-Miquet Clara. Torinese, fu iniziata al teatro da Adelaide Tessero, che l’udiva e ammirava il 1885 a Torino in una recita di filodrammatici colla Celeste di Marenco, lei protagonista. Entrata l’ ’86 in arte come amorosa, fu scritturata l’ ’87 da Enrico Dominici come prima attrice giovine, per passar poi nello stesso ruolo con Giovanni Emanuel, col quale stette il triennio ’88-’89-’90, e al quale, maestro de’più egregi, deve gran parte del suo valore artistico. Divenuta sposa di Ernesto Della Guardia, attore brillante di buon nome, esordì qual prima attrice assoluta in America ; e tale si trova ora, dopo egregie prove e là e qui, in società con l’artista De Sanctis, col quale andrà l’anno venturo a far parte della compagnia stabile della città di Torino.

Della Seta-Lapy Laura. Figlia di un nipote del celebre capocomico Giuseppe Lapy, fu per varj anni come seconda donna e serva nella Compagnia sociale Bon, Berlaffa e Romagnoli. Unitasi il 1834 in matrimonio col suggeritore Della Seta, ne restò vedova dopo alcun tempo. Vezzosissima attrice e dotata di uno spirito singolare, volle abbandonare le parti in cui avea saputo meritamente emergere, per abbracciar quelle di prima donna, in cui non fece buona prova. Il rinomato capocomico Romualdo Mascherpa si provò con ardimento inaudito di colmar con lei il gran vuoto lasciatogli in compagnia dall’Amalia Bettini, ma dopo un anno di disastrose vicende, lasciò in libertà la nuova venuta, che andò poi vagando di compagnia in compagnia secondaria come prima donna di spolvero, sino al 1853, in cui passò in un de’teatri nazionali di Napoli, scritturata per le parti di madre nobile. – Una Della Seta Luigia, probabilmente figliuola, era il ’76 caratterista del S. Carlino ; e recitava nella Dama Bianca la sera del 26 marzo, fatalmente memorabile per la improvvisa fine di Antonio Petito.

Delli Angioli Francesco. Comico di Sua Altezza serenissima il Duca di Modena recitava le parti di amoroso, come ci {p. 752}apprende la seguente lettera di non lieve interesse del comico Lolli (Dottore Brentino), che traggo dall’Archivio di Stato di Modena :

Carissimo Sig.r Mio

Sò che ui dolerete di me perchè nell’ Passaggio che faceste per lione non ui uenni à ritrouare mà douete Compatirmi perche il tempo non mè lò permise ;

Dà questi miei Compagni uiene fatto instanza appresso il Ser.mo Padrone d’un Primo moroso hauerei caro d’intendere chi mandano in quà ; perche sè per mè Goderei che ui rimandassero uoi acciò che al’loro marcio dispetto doppo hauermi fatto tanti torti bisognasse che hauessero patienza di ripigliarui. Sè bene dal’altro canto non uorei uedere un mio nemico in questa Compagnia à causa delle continue dissensioni chè sono continuamente in essa ; Dio nè liberi i Turchi ; Io uò sopportando perchè il Sig.r D. Alfonso me lò và continuamente insinuando, mà per Dio che là mia Patienza fa miracoli.

Attendo uostre risposte, è Vi saluto di core.

Lione li 15 Maggio 1679.

Di Vostra Signoria

Aff.mo Amico per Seruirui

Gio. Antonio Lolli, Comico.

De Mani Tomasa. È citata dal Bertolotti tra’comici che presero alloggio a Mantova in casa di Domenico Torni il 10 dicembre del 1590.

De Marini Giuseppe. Nacque a Milano il 13 agosto 1772. Suo padre lo destinò agli uffici delle finanze, ma appassionatissimo per l’arte comica, sordo a ogni rimostranza, dopo di avere recitato co’filodrammatici, comparve sulle scene di Lodi il 1798, come primo amoroso della Compagnia di Pietro Pianca, dalla quale passò in quella di Andrea Bianchi, sino al 1801. In codest’anno egli dovè cedere alla volontà imperante del padre che lo restituì al suo ufficio ; ma dopo un anno di prigionìa del corpo e dello spirito, rotto ogni ritegno, superato ogni ostacolo, determinò di tornar sul teatro per non abbandonarlo più. Comparve questa volta al S. Samuele di Venezia in Compagnia di Giacomo Dorati, e parve da quel tempo un prodigio. Il 1807 fu scritturato da Salvatore Fabbrichesi per la Compagnia Reale del Principe Eugenio, Vicerè d’Italia, {p. 754}al 1827 ; anno in cui il Fabbrichesi morì quasi improvvisamente a Verona. Tornato a’Fiorentini di Napoli, scritturatovi per tre anni dalla Società Prepiani, Tessari e Visetti, vi ridestò gli antichi entusiasmi ; ma dopo un anno dovette lasciare il teatro per una gravissima operazione chirurgica. Ricomparve apparentemente guarito la sera del 15 marzo 1829 ; e così festosa e clamorosa fu l’accoglienza di quel pubblico affollato che egli ne pianse vivamente commosso. Ma dopo alcune recite, incalzando il male, si fe’trasportare a S. Maria di Capua presso la famiglia della moglie, Virginia Trenca, che avea sposata nel’24, e in breve tempo mancò ai vivi, il 10 di maggio, non ancor compiuto il suo cinquantasettesimo anno di età.

[n.p.][http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img065.jpg]

come primo attore assoluto nei drammi e nelle commedie con scelta di parti. Scioltasi quella compagnia, restò De Marini col Fabbrichesi, recandosi con lui a Napoli, ove stette a quel Teatro de’Fiorentini fino al 1823, e nell’ Italia centrale fino

Dire dell’arte del De Marini non è ardua impresa. Chiunque scrisse di lui non ebbe che inni di lode. Parve che la natura si fosse divertita a raccogliere in lui solo tutte le grandi qualità fisiche e intellettuali occorrenti a formare un grande artista.

Sfogliando una serie di manifesti della Compagnia Fabbrichesi ne ho tratto le parti ch’egli sosteneva :

Rotemberg nell’ Onor vince amore d’Iffland – Falklaud nella Coscienza – Il Presidente Monsenico nel Berretto nero – Merfort nel Pittore per amore – L’ Abate de l’Epée nella commedia omonima – Il Conte nel Portafoglio di Kotzebue – Giacobbe nel Giuseppe in Egitto – Valman negli Eredi dal tedesco della Waisen-Thurn, prima attrice al Teatro Imperiale di Vienna – Lord Suffold nel Benefattore e l’Orfana di Nota. – E altre ne cita Luigi Borghi in una sua Dissertazione in difesa dell’Arte Comica, al De Marini dedicata, nella quale sono parole di entusiasmo per l’artista gigante.

Ma il meglio che io possa fare per dir giustamente e degnamente di lui si è di riferir qui le parole che Francesco Righetti, attore della Compagnia drammatica al servizio di S. M. il Re di Sardegna, dettò nel secondo volume del suo Teatro Italiano (Torino, Paravia, s. d.), e quelle che traggo dagli Scritti inediti di Antonio Colomberti, attore assai {p. 755}pregiato e contemporaneo del De Marini, che desteranno, son certo, il più vivo interesse per le particolarità artistiche onde son ricche.

……Non credo che altri ragionevolmente chiamar si possa offeso, se giudico il nostro De Marini per il più valoroso ed acclamato attore Italiano vivente. Una versatilità prodigiosa, mercè che si accomoda ai caratteri i più opposti, una voce insinuante, ed a vicenda dolce, maschia, robusta, maneggiata nelle graduazioni con mirabile maestria ; un aspetto seducente, un portamento grazioso e nobilissimo, una tal verità nell’espressione delle passioni e nell’espansione degli affetti, fanno si che nessuno più di lui è stato padrone del cuore degli spettatori ; nessuno più di lui ha saputo, e sa agitarli, commoverli, straziarli ; ed ove avvenga che nel carattere da lui rappresentato s’incontrino scene comiche, il riso ch’ei promuove non è quello sganasciamento, a cui s’abbandona tanto facilmente e tanto volentieri la plebe per gli sconci e per le smorfie de’buffoni, ma quel riso eccitato nobilmente dalla naturalezza e dalla semplicità con cui sono espressi que’sali attici della commedia, che dilettando istruiscono : riso, che non va mai sino in obscuras humili sermone tabernas.

Egli è in forza di questa maravigliosa unione di sublimi qualità di natura e di arte, che quest’insigne attore ha saputo cattivarsi l’ammirazione di tutta l’Italia, ad onta di due importantissimi difetti, cioè dell’uso troppo più del bisognevole della mimica. L’illusione si diminuisce nello spettatore, se vede nell’attore troppi preparativi : per questa sovrabbondanza si dimentica talvolta delle convenzioni sociali e del tacito patto fra l’attore ed il pubblico sul limite stabilito a quella massima, che l’attore, tranne i personaggi co’quali trovasi in scena, deve credere non esservi altra persona che lo guardi e l’ascolti ; precetto che ha bisogno d’essere ben spiegato, perchè non del tutto vero, ed a cui contrasta il fatto. L’altro difetto è d’una pronunzia che sente dello straniero, e che mal suona all’orecchio d’un delicato spettatore italiano. Ma questi due vizj, se adombrano un cotal poco un si gran quadro, non distruggono l’effetto di quella luce, di che n’è tutto raggiante, e non si può meglio che al nostro De Marini applicare il detto d’ Orazio : ubi plura nitent non ego paucis offendar maculis.

Giuseppe De Marini possedeva l’educazione di gentiluomo. Era affabile, e per nulla superbo della sua immensa superiorità nell’arte. Direttore, insegnava con amore ; e Francesco Lombardi e Gustavo Modena ne furono la prova. Egli fu dotato dalla natura di tutti i doni necessarj per raggiungere la perfezione nell’arte della scena. Ad una giusta e proporzionata figura univa un portamento nobile, mentre il suo volto imitava con una sorprendente facilità tutte le umane passioni. Con un ingegno naturale, reso più grande da un perfetto corso di studj, era naturale che emergesse subito nella Tragedia classica ; ed infatti fu il primo a declamare il Cajo Gracco del Monti, e con tal fanatismo ne fu retribuito dal pubblico, che l’autore ne lo ringraziò con una sua lettera. Oreste, Orosmane, Cintio, Aristodemo e molte altre furono da lui declamate con immenso successo. I due Bonfil, i Lindori, le tre Zelinde, gl’ Innamorati, il Bugiardo, l’ Avaro fastoso ; e più tardi : il Benefattore e l’Orfana, il Filosofo celibe, l’Atrabiliare, l’ Ospite francese, il Tutore e la Pupilla, La riconciliasione fraterna, il Ministro d’onore, il Cugin di Lisbona, l’Abate della Spada ( !!), Tom Iones, Derby nel dramma la Rosa bianca e la rosa rossa, il Berretto nero, la Scuola dei vecchi, I due Sergenti, l’Uomo di 104 anni, etc., etc., etc.…, tutte queste produzioni tragiche, comiche e drammatiche furono da lui declamate e recitate con tal superiorità di genio da non temere il confronto del Garrick inglese e del Talma {p. 756}francese : ed era cosa veramente sorprendente il vederlo questa sera nel Milord Bonfil con volto di forme regolari, con sguardo vivo ed ardente d’amore, con un corpo, che per le sue perfette proporzioni, solo un Canòva avrebbe potuto modellare, con una voce ora armoniosa, ora irritata, ora commossa, dimostrare l’immensa sua passione per Pamela ; e la sera seguente sotto l’aspetto di un vecchio centenario (l’Uomo di 104 anni) paralitico, balbuziente, vederlo camminare a stento, con occhio semispento ; eppure giungere a destare il fanatismo in una scena di rimprovero al nipote e alla nuora per la loro cattiva condotta. Oltre lo studio accurato sull’incedere e sul gesto, De Marini occupava moltissimo tempo per trasformare il suo volto, e bene spesso egli recavasi al teatro due ore prima del principiare dello spettacolo. Onde riuscire a diferenziare la sua fisionomia il suo volto fu sempre raso. Egli teneva nella sua tavoletta di teatro scatolette con varj colori per dipingersi in modo che quando si presentava sulla scena molte volte il pubblico non lo riconosceva che al suono della voce. E ciò accadeva in una farsa chiamata La finestra murata, ov’egli rappresentava un muratore di mezza età. (In quell’epoca i grandi artisti si degnavano di recitar nelle farse). De Marini, appena lo potè, prese il sistema di destinare un abito apposito ad ogni produzione, incominciando dalla parrucca alle scarpe, meno, s’intende, l’abito borghese, che, per questo non diferenziava che la testa. Egli diceva come il celebre Zanerini : – L’artista vestito in carattere ha già fatto la metà della parte. – Era cosa poi assai sorprendente per gli stessi artisti che con lui recitavano, il vedere come si prevaleva delle più piccole cose, come una scatola da tabacco, una penna da scrivere, una sedia, un tavolino, per ricavarne un effetto certo in una scena o in altra della produzione. E tante volte, alla fine della commedia, questo preparativo servivagli per un gesto, per un’occhiata. E mentre nel suo pensiero era tutto preparato, riesciva a far credere allo spettatore esser tutto opera del caso : tanto in lui l’arte imitava la natura. De Marini però non sagrificava mai la verità all’effetto, perchè diceva : questo si ottiene sempre, seguendo quella.

Ecco ciò che fu Giuseppe De Marini.

E in una nota, dopo di aver invocata da Milano al meno una pietra che ricordi il nome del grande artista, nato e cresciuto tra le sue mura, si domanda il perchè egli mettesse quel De al Marini che era il suo vero casato. Alcuni dissero che il facesse per non compromettere il nome di famiglia, altri per nobilitarlo all’uso francese. E qui il Colomberti aggiunge : Nel primo caso, ha tolto un onore alla sua famiglia ; nel secondo…. non ne aveva di bisogno.

De Martini Celeste. Figlia di Gaetano Martini di Pisa, capocomico e brillante (il de era usurpato) e di Anna Loddi di Siena prima attrice, cominciò a recitar bambina come tutti i figli d’arte nella compagnia del padre, scritturandosi poi quand’egli smesse il capocomicato con Cesare Astolfi in qualità di amorosetta sotto la Fanny Sadowsky, con la quale la {p. 757}troviamo ancora nel 1853 prima amorosa al fianco di Giuseppe Peracchi, primo attore, che diventò poi suo marito. Dalla Compagnia Astolfi entrò in quella di Domeniconi prima donna giovine sotto la Fumagalli, a vicenda con la Zerri-Grassi, per passar poi prima attrice assoluta nel ’59 con Ernesto Rossi, e nel ’62 con Bellotti-Bon. Fatta il marito compagnia, la Celeste vi sostenne durante gli otto anni lo stesso ruolo, per tornarsene poi col Bellotti prima attrice madre e seconda donna. Passò dalla Compagnia di Bellotti a quella di Pietriboni per quattr’anni, e di Lavaggi per due ; dopo i quali (nell’ ’81) ritiratasi dalle scene, andò a stabilirsi a Firenze ove vive tuttora agiatamente, e direi quasi giovanilmente a dispetto dell’età incalzante.

La Celeste Peracchi non fu una grande artista ; e non fu nè men forse un’artista. Attrice di mezzi limitati, d’intelligenza mediocre, di voce aspra e chioccia, di dizione lagnosa, riuscì a occupare lodevolmente il suo posto di prima attrice, un po’per volontà sua, molto per volontà del marito, istruttore de’più intelligenti, e moltissimo poi per la meravigliosa armonia di tutta la persona, che fece di lei per lungo tempo il tipo esemplare della bellezza, intorno al cui fascino corrono aneddoti de’più strani e de’più salaci. Le parti che le procacciarono maggior lode furon quelle della Statua di carne del Ciconi, a’bei tempi della gioventù, e dei Fourchambault (Signora Bernard) dell’Augier, ch’ella creò nella maturità con assai buon successo al Manzoni di Milano.

Della Peracchi si ricorda un fratello, Luigi De Martini, che tenne alcun tempo il posto di secondo brillante in Compagnia di Bellotti-Bon.

{p. 758}De Negri Domenico. Attore della Compagnia degli Uniti col nome di Curzio, recitava a Genova il 1614. (V. l’elenco della compagnia al nome di Bernardini Ottavio).

De Nobili Cesare, fiorentino. Era a Genova l’estate dell’anno 1586 colla Ponti, la celebre Lavinia dei Desiosi.

De Nobili Francesco. (V. Cherea).

De Nobili Nobile. Commediante bolognese. Arrivò a Mantova il 12 settembre del 1590 e prese alloggio in casa di Cesare Gonzaga. Forse lo stesso precedente, il quale qui apparirebbe manchevole del nome di battesimo ? (V. Bertolotti, op. cit.).

De Pilastri Leandro. (V. Pilastri Francesco).

De Rossi Giuseppe. Nato al principio di questo secolo da famiglia italiana, stabilita in Grecia, si diede all’arte dopo di aver compiuto il corso di studj a Padova diventando in breve uno dei migliori brillanti del suo tempo. Fu il primo a rappresentar la parte di Ludretto nella Trilogia di Ludro, sotto la direzione dell’autore Francesco Augusto Bon. Fu in varie compagnie ; e per molti anni prima scritturato, poi socio in quella di Natale Fabrici. Morì intorno al 1870.

De Sanctis Alfredo. Uno de’migliori artisti giovani di oggidì, nacque casualmente a Brindisi da Pio De Sanctis, mediocre attore sotto la maschera di Pulcinella. Dopo una infinità di peripezie dolorose, il piccolo Alfredo riuscì a tornare nella città nativa, in cui, col soccorso di uno zio materno, si dedicò se ben disordinatamente agli studj, balzando dalle tecniche al ginnasio, dalla medicina alle lettere, e abbandonando poi scartafacci di formule e ricette e poesie per l’arte drammatica, la quale cominciò a esercitare per affettuosa devozione verso il {p. 759}padre capocomico, cui eran mancati di punto in bianco e suggeritore e attori ; e alla quale diede poi, avuti i primi successi, tutta l’anima sua. Dopo tre anni di suggeritore, primo attore, direttore, amministratore…. e altro della compagnia paterna, deliberò di abbandonare il regno dei guitti, per entrare in quello dell’arte vera. Fece, non trionfalmente, le prime armi con Cesare Rossi, dal quale passò con Roncoroni in America, per tornar poi in Italia, scritturato dopo tre anni di secondo noviziato, qual primo attore di Francesco Garzes, che ebbe sì malaugurata fine, poi di Emanuel, poi della Duse, poi della Vitaliani, poi della Della Guardia, colla quale trovasi tuttora, e colla quale andrà l’anno prossimo (’97-’98), nella Compagnia stabile di Torino, al posto di direttore artistico.

Non poche sono le parti che gli procacciaron le lodi dei pubblici i più colti, ma specialmente si notan quelle di Osvaldo negli Spettri di Ibsen, e di Prina nella Fine di secolo di Rovetta.

D’Este Francesco. Nato da civil famiglia padovana, e datosi all’arte comica, entrò nella Compagnia di Andrea Patriarchi, poi in quella di Luigi Perelli, nelle quali percorse la Sardegna e la Sicilia e le varie città d’Italia, facendosi non poco applaudire nelle parti serie e gravi. Si trovava ancor col Perelli nel 1782.

Diamantina. (V. Adami Patrizia e Lolli).

Diana. « Celebre e brava commediante – dice il Bartoli – che s’acquistò molta fama col valor suo in Italia e oltre i monti. La sua valentia nel recitare era sì grande che propriamente incantava gli spettatori. Nelle cose all’improvviso era {p. 760}vivacissima, ed insieme con Silvio, che dal di lei nome fu cognominato della Diana, recitava delle Scene di grande impegno, dove i frizzi gustosi, i motti pungenti, gli sdegni e l’amorose tenere espressioni vi campeggiavano a meraviglia. Sapeva altresì cantar dolcemente, e suonava varj strumenti con maestrìa. » Questo per l’artista. Quanto alla donna, pare ch’ella non fosse di troppo riserbo, se personaggi di rango e teste coronate profusero a favore di lei l’immensità de’ loro tesori, scialacquati poi da Silvio che sapeva estorcerglieli colle carezze più d’amante che di compagno. « Fu Diana – aggiunge il Bartoli – creduta una bellezza, ma le arti del sesso formavano in lei un incanto, che fu poi scoperto fallace. » Ahimè ! Sciagura volle che un giorno la magnifica dentiera, l’ammirazione di tanti adoratori, le cadesse di bocca, scoprendo un inganno che fu per molti lustri celato.

Morì nel 1730 circa a Palermo dopo di avere scorsa l’ Europa, conquistatrice di mille cuori.

Il Bartoli riferisce in sua lode il seguente sonetto caudato in lingua veneziana :

Per la signora Diana bella ed eccellentissima Comica giunta in Reggio
Zonta, che me xe sta la niova cara
che in Rezo siè arivà, bella Diana
xe corsa a sbatochiar la gran campana
de Pindo la mia musa campanara.
Ah ! qual donna de vu ghe xe più rara,
de beltà, e d’eloquenze soraumana,
se xe la vostra boca una fontana
singolarmente in su le scene chiara !
Senza dubio nissun, vu sè la stella,
che porta luse ai più sublimi inzegni
con la vostra dottissima favella.
Tanto i vostri concetti è d’amor pregni,
e ogni altra qualità xe in vu sì bella
che se Dea dei Teatri a mille segni.
{p. 761}Per eccelenza i sdegni
fenzer savè, ma i gha sol quel color,
no podendo sdegnarse el vostro cuor.
Veri affetti d’amor
palesè ben a chi ve varda in viso,
perchè portè in tei occhi el Paradiso.
Se el matto de Narciso
ve vedeva al so tempo, el ve chiapava,
e de lu stesso el no se inamorava.
E tanto vu se brava
in la soavità del canto, e ’l son
più del musico Trace, e più d’Anfion.
Che s’un tolse a Pluton
so Mujer, e se l’altro tirò i sassi,
vù a Febo fe’ fermar el ziro, e i passi.
V’assalto in versi bassi ;
xe vero, ma però parlo sì schietto,
che de coscienza un pel mi no ghe metto.
Perchè in sinciero efetto
dona se per virtù, grazia e beltà
da tegnir tuti i cori incatenà.
M’ho mo desmentegà
de vegnirve a veder, perchè ve osservo
senza paura de partirme un cervo.
Perchè vu el cuor protervo
no ghavè de Diana, se ben che
col nome de Diana ve chiamè.
Ma una Diana se
che con rete amorosa de splendori
chiapè a vostro poder a mille i cuori.
I vostri alti colori
superar de Diana el lume vuol,
resplendendo qua in terra un niovo sol.
E dir po al fin se puol
da mi, e da gente che non porta in gropa
che la Fenice se de tutta Europa.

{p. 762}Questa donna, grande nell’arte, a segno da incantar gli spettatori, che aveva la dentiera posticcia, che aveva scorsa l’ Europa, conquistatrice di mille cuori, e che fu protetta da teste coronate, non potrebb’ essere quella Cecilia Rutti, la Romana, che recitava, separata dal marito, le prime amorose nel ’33, col nome teatrale di Diana, artista deliziosissima, nonostante i cinquant’anni che gli ornamenti e il belletto non potevan nascondere, recatasi a Vienna coi Sacco, e divenuta l’amante dell’ Imperator Giuseppe I, che morì nel 1711 ?

Troppe volte ci siam trovati col Bartoli a errori di data. Egli nacque nel ’45 e scrisse le notizie nell’ ’82 ; nè l’una dunque, nè l’altra Diana conobbe ;…. e i venti anni di differenza che mette nella morte delle due Diane, posson essere facilmente erronei. (V. Gabbrielli Giulia, Ponti Diana, Costantini Corona Teresa). Di un’altra Diana trovo notizia nella lettera dell’Archivio di Stato di Modena, che qui riproduco :

Ser.mo Sig.re Cugino Oss.mo

Bramoso d’incontrare in ogni opportunità le soddisfattioni di Vostra Altezza, hò dato ordine alla Diana Auerara di portarsi à recitare in conformità di quelli dell’ Altezza Vostra, la qual pregando uiuamente à porgermi frequenti occasioni di seruirla, come ne sarò sempre ansioso, mi raffermo con tutto l’animo

Di V. A.

Affett.mo Seru.re e Cugino

Torino li 22 Marzo 1698.

V. Amedeo.

Al Sig.r Duca di Modena.

Diana (della) Silvio. Egli si chiamò Ferrari, e fu primo innamorato di sommo merito : tale, secondo il Bartoli, che non ebbe nell’arte del teatro chi lo superasse. La sua vita è tutta legata a quella della Diana di cui prese il nome. « Procurava – dice il Bartoli – di provvedere il teatro di nuove cose, quindi è che applicò sovente l’ingegno nell’invenzione d’alcune commedie a soggetto delle quali anch’ oggi sulla scena se ne suol far uso. »

Morì in Romagna nel 1747.

{p. 763}Diligenti Angelo. Figlio di comici, nacque ad Albenga in Liguria il 1835, e restò nella Compagnia condotta da suo padre fino alla morte di lui. Passò il ’53 amoroso in quella di Luigi Robotti e Gaetano Vestri, con la madre Vittorina, scritturata per le parti di madre e seconda donna, e la sorella Carlotta come serva. Il ’59 entrò in Compagnia Dondini qual primo attor giovine sotto Salvini, e nel 1860 sposò la nota attrice Anna Pedretti che era allora nella compagnia stessa. Fece poi società con Gian Paolo Calloud, Amilcare Bellotti e Cesare Vitaliani, creando la Compagnia Romana, ch’ebbe vita sino al ’72. Fu allora appunto che contese domestiche balzarono il Diligenti in Egitto, ov’ebbe a trarre per due anni la più fortunosa delle vite, ora in lotta con la fame, or possessore di cospicue somme. In Egitto, a Costantinopoli, a Smirne, in Atene, s’ebbe grido di celebrità, e conquistò con l’arte sua due croci : quella dell’ordine del Megediè, e altra datagli dal vicerè Ismail. Fu il ’74 – ’75 – ’76 primo attore della Pezzana, poi di Salvini sino al ’79, nel qual tempo rifece compagnia, che non lasciò più sino al giorno della sua morte, avvenuta per ipertrofia di cuore dopo sei giorni soli di letto, il 22 ottobre del ’95.

Di lui, morto, disse il Costetti, del quale mi piace riportar le parole che indirizzò alla figliuola Lina il Io giugno del ’96.

…… Fu un artista valoroso quanto modesto. Intelligentissimo negli affari, non battè però mai la gran cassa del cerretano. Seppe mettersi in seconda linea, lui, che stette sempre e poteva stare ancora nella prima. Conobbi il mio caro Angelo, quando si era giovani entrambi. Egli venne su con la fioritura del teatro italiano a metà del secolo, e interpretò, primo, i grandi lavori del tempo come Prosa, Goldoni di Ferrari, e tante altre che i giovani d’oggi non sanno neppure immaginare. Fu il meglio Nerone di Cossa.

Proprio così. Dell’arte del Diligenti non serbo memoria che di questo momento : la recita del Nerone. Il Cossa che dell’interpretazione del Biagi e del Monti si diceva lietissimo, {p. 764}e di quella di Ernesto Rossi era supremamente orgoglioso, chiamava Diligenti il suo Nerone ideale. Ricordo la prima sera al Valle di Roma. Già nelle prime scene egli aveva conquistato il suo pubblico, di cui l’ammirazione andava ognor crescendo, fino a diventare stupefazione. E tanta arte e tanta verità mise poi nel punto in cui a Nerone si affiochisce la voce, che l’Autore e gli amici che gli facevan corona su la scena, temetter per un istante che il Diligenti non potesse per afonia improvvisa continuar la rappresentazione.

A queste dell’artista andavan congiunte le migliori qualità dell’uomo : laborioso ed onesto allo scrupolo, e buon soldato dell’ indipendenza italiana.

Diligenti-Marquez Lina. Figlia del precedente, nacque il 1865 a Torino. Dalla precocità dello sviluppo, dalla giunonia opulenza delle forme fu sbalzata a poco più che tredici anni nel gran mondo dell’arte, sostenendovi al fianco della Pezzana, Stuarda, la parte di Elisabetta regina d’Inghilterra. Non compiuto il quattordicesimo anno, sostituì con Tommaso Salvini, che aveva rilevato la Compagnia del padre, l’Amalia Checchi-Bozzo, spentasi a Parigi, recitando le parti di Ofelia, Desdemona, ecc. ecc. Da allora non abbandonò più il ruolo delle prime attrici, che sostenne decorosamente nella Compagnia paterna, addestrata nell’arte dalla grande Pezzana, di cui volle imitare fin anco l’audacia, presentandosi al pubblico sotto le spoglie di Amleto.

Sposò il ’90 l’attore Gennaro Marquez, e il ’92 ne restò vedova.

Di Lorenzo Tina. Nata a Torino il 4 dicembre del 1872 da Corrado Di Lorenzo dei Marchesi di Castellaccio, siciliano, e da Amelia Colonnello, artista drammatica, trascorse la prima fanciullezza in Noto, città natìa del padre. Andata poi a Napoli in una Scuola evangelica tedesca, dovè uscirne, astrettavi da domestiche vicende per recarsi di bel nuovo a Noto, ove gli {p. 765}ognor crescenti dissesti finanziarj, cagionati da un fratello del padre, fecer prendere alla famiglia la determinazione di metter nell’arte la figliuola Concettina, che sin da bimba aveva dato prove non dubbie di molte attitudini per la scena, e che esordì a Torre Del Greco in una Compagnia Sociale di terz’ordine, col ruolo (non aveva ella ancora i quattordici anni) di prima attrice assoluta, commovendo il pubblico alle lagrime colla rappresentazione della Dionisia di Dumas. Passò di là a Caserta, Capua e Santa Maria Vetere ; poi (con Luigi Ferrati, al fianco dell’ Anna Pedretti), al Rossini di Napoli, ov’ebbe la fortuna d’interpretare con successo strepitoso la parte di protagonista in un nuovo dramma del Duca Proto di Maddaloni « Ruit-hora. » Andò poscia con Drago e Paladini, dopo i quali fu scritturata prima attrice giovane assoluta con Virginia Marini : ma Francesco Pasta, solerte e avveduto capocomico, a lei la tolse, pagando di penale parecchie migliaia di lire. Morto il Garzes, diventò socia dello stesso Pasta, con cui stette sei anni ; dopo di che, ritiratosi il Pasta dalle scene, si unì in società con Flavio Andò (’97) col quale si trova tuttavia. Queste le note cronologiche della vita artistica di Tina Di Lorenzo. Dire del fascino ch’ella esercitò sempre sul pubblico, sui critici, su quanti l’avvicinarono, non è agevole impresa. Furon marcie trionfali a piena orchestra, inni di gloria, antonomasie nuove : la Tina Di Lorenzo diventò in Italia l’Angelicata, in America l’Encantadora. Alcuni anni or sono ella non aveva ancora toccato la sommità dell’arte alle quali mostrò sempre di aspirare : ma il grado già alto in cui si {p. 766}trovava nella sua giovinezza, congiunto alla dolcezza degli sguardi, alla soavità del sorriso, alla melodia della voce, all’armonia perfetta di tutta la persona, all’espressione di natural candore, a tutto un esteriore insomma di donna ideale, giustificava pienamente gli entusiasmi del pubblico ; il quale, abbacinato dalla miracolosa fusione, non sapeva più se l’arte soverchiasse la bellezza, o la bellezza l’arte. Quell’armonia delicatissima d’intonazione e di espressione non si celava mai. E però più forte appariva la Di Lorenzo, a chi la giudicasse con mente riposata, in quelle opere in cui dominava soavità di sentimenti.

Nella recitazione alle Logge di Firenze (il gennaio del ’93) della Pamela nubile in memoria del primo centenario della morte di Carlo Goldoni, con Tommaso Salvini Bonfil, ella, fedele interprete degli intendimenti artistici di un tanto maestro, mostrò a qual grado di perfezione si possa salire. Non fu solamente la rappresentazione reale del personaggio nel suo insieme : ma quella analisi minuta e profonda di ogni momento, che si manifesta in una frase, in una parola, in una pausa, senza di che, artista grande nel significato vero della parola, non è.

Malauguratamente ella non poteva incarnar tutte le sere Pamela. Per la triste costituzione delle nostre compagnie, se non fosse più tosto per una triste consuetudine, che fa dell’artista un cavallo da tiro e da sella, ella dovette dalle patetiche paure, se così posso dire, della fanciulla goldoniana, balzare aspramente nelle passionalità brutali della donna isterica, nevroastenica, sensuale, ribelle, audace : oggi Pamela, domani Fedora ; una sera Cesarina, un’altra Giulietta ; ora Dionisia, {p. 767}ora Margot. E l’attrice con anima e mente di artista, potè, nonostante la insufficienza del tempo per lo studio e per le prove, che le desse l’agio di mettersi tutta nel suo personaggio, riuscir buona in alcune parti, incantevole in altre, che più si attagliavano al suo temperamento artistico.

Tra mezzo agl’inni iperbolici che si levaron d’ogni parte intorno a lei, si udì la voce di Edoardo Boutet, che la gentile artista studiò amorosamente, e notomizzò, e chiaramente e giustamente pregi e difetti mostrò al pubblico in quattro elaborati articoli pubblicati sul morto e rimpianto Carro di Tespi, di cui riferisco alcun brano (7, 14, 21, 28 settembre ’93).

Dal primo articolo : « gli entusiasmi. »

Come nella vita così sulla scena soddisfa e rinvigorisce tutto ciò che è frutto della propria operosità, tanto più adorato quanto più contrastato. Ciò che è donato non conforta e non consola. Quando il giovane artista non è costretto a strappare la sua foglia d’alloro, ma se la trova caduta sul capo, senza spiegarsi il come ed il perchè, non toccherà mai la mèta cui era destinato : l’ingegno sortito da natura nella facilità del possesso si andrà affievolendo fino al torpore. Se, appunto come si dice in questi casi, l’ingegno governa l’artista incosciente, e l’artista recita così perchè un dio anima l’argilla, e al vagito appena viene decretato l’onore trionfale, l’artista non studierà più o non studierà mai. E senza lo studio, la natura gli avesse concesso il più felice e completo e insuperabile tra’ doni, l’artista è una canna vuota. Sarà questione di tempo ma comincierà col discendere e finirà col precipitare giù giù nel buio fitto del nulla assoluto. — No : nessuno ha il diritto di togliergli tutto quell’avvicendamento di dolori e di ebbrezze, di consolazioni e di gaudi, di lagrime e di sorrisi nelle sue lotte quotidiane alla conquista dell’ideale che nell’anima gli freme : dolori ed ebbrezze, consolazioni e gaudi, lagrime e sorrisi, che nel giorno della gran vittoria, sono la sua pagina di storia, la ricordanza, che mentre soddisfa e ripaga, dà nella visione del cammino percorso l’esatta misura e il legittimo orgoglio di ciò che veramente si è.

Alle doti naturali risponde, vigorosamente spontaneo e felice, il metodo della recitazione. Il metodo del quale la Tina Di Lorenzo dà le più simpatiche prove è il vero ed il solo ……

{p. 768}Dal secondo articolo : « quello che c’è. »

La Tina Di Lorenzo ha l’abborrimento, segno benedetto di fibra eletta, per tutte le sciocche, antiartistiche, imbecilli ricerche dell’effetto e dell’applauso. Quel bagagliume non la riguarda ; lei sente che il momento umano, della situazione e del carattere, non deve essere alterato da impeti vanitosi che non hanno nè la ragione nè il sentimento dell’arte ; lei sente che i prontuari, le tradizioni, le pratiche di quel mondo artificiale non hanno il potente alito di vita della creatura fatta ad imagine e similitudine ; lei sente che l’applauso del pubblico, dal mormorio di approvazione al grido entusiastico, deve prorompere spontaneo, non deve essere strappato con le tenaglie arroventate del mestiere ; e per quanto non abbia dato finora delle interpretazioni complete, nel tono generale della recitazione della Tina Di Lorenzo si vede questo che è la pura bellezza dell’arte della scena ; vivere una creatura, non fare una parte con tutti gli annessi e connessi del macchinario, e si scorge nella dizione, dalla piana a quella che si eleva nel vario erompere di una passione, nel vario avvicendarsi di una situazione ; e si scorge nel modo di concludere la frase, senza finali di maniera ; e si scorge nello sprezzo, costante, tenace, di quelle note stridenti, le quali anche a volte, rarissime, innocenti, riuscirebbero all’effetto dell’applauso plateale ……

Dal terzo articolo : « quello che non c’è. »

…. ecco quello che finora manca a Tina Di Lorenzo. Ha le doti naturali, ha spontanea la sincerità, ha, in tre situazioni, fuggevolmente, fatto balenare l’interpretazione del carattere, ma in genere non ha mai interpretato interamente un carattere, dei molti e vari del suo repertorio. È stata sempre Tina Di Lorenzo, con le qualità che la provvidenza le ha elargito, e nulla più ; ma non ha mostrato finoggi di intendere l’alto fine dell’arte sua : – l’interpretazione. Essere soltanto Tina Di Lorenzo, sulla scena, in qualunque umana vicenda da un dramma o da una commedia rispecchiata è assai carino, soave e dolce visione, ma non è l’arte. E poichè la Tina Di Lorenzo è nata all’arte, deve preoccuparsi di conseguire lo scopo supremo e solo. È stato detto : – Lasciatela liberamente sbocciare così spontaneo fiore di campo ! – La frase è gentile e simpatica, ma non dice nulla. Sì, lasciatela liberamente sbocciare così, e poi vedrete. Povero fiore di campo, nato al mattino e al tramonto inaridito ! Sentite a me : è meglio uscire dalla retorica : è più rispettoso, è più sincero per l’attrice giovinetta, ed è anche più praticamente utile per l’avvenire di Tina Di Lorenzo. Lasciamo il giardinaggio da stufa o la spontanea produzione dei campi, e diciamo le cose come veramente sono. La Tina Di Lorenzo è una speranza benedetta della scena italiana, ma nulla più ……

Dal quarto articolo : « riassumendo. »

Vi sono gli entusiasti : gli entusiasti ad oltranza. Essi hanno fabbricato il piedistallo e vi hanno collocato la statua …… La Tina non ha bisogno di studiare, non ha bisogno di pensare, non ha bisagno di ricordare : esce sulla scena così com’ è, e le meraviglie dell’arte si succedono felicemente sgorganti da spontanea facile vena. Le platee sono trascinate, e in preda al delirio : e la storia dell’arte della scena straccia tutte le pagine delle date memorabili, piglia un libro nuovo, tutti i fogli immacolati, e segna un nome, il nome che inaugura la nuova e vera tradizione illustre. Date fiori, date applausi ……

Poi ci sono i ribelli …. Essi …. non accettano nemmeno la speranza, non accordano nemmeno il domani. L’avvenire …. un’altra follia ! Quella giovanezza non merita nè conforto, nè consiglio ; è nulla, un fuoco fatuo, visto e sparito. Chi se ne occupa è uno sciagurato : non ha nè il criterio, nè il sentimento dell’arte……

{p. 769}E finalmente ci sono coloro che hanno detto semplicemente e sinceramente così :

La Tina Di Lorenzo ha le doti naturali, ma non ha l’arte ; farà la gran conquista quando ai mezzi che la provvidenza le ha elargito avrà aggiunto la formazione dell’intelletto d’arte, che è studio tenace, serietà di proposito, fermezza di volere. Se la Di Lorenzo intenderà questo alto e unico fine dell’arte che l’appassiona, avrà compiuta la conquista : se no, no. E intanto, non gl’inni trionfali nè i picconi demolitori, ma la sincerità e la tenerezza dell’interesse, del conforto, del consiglio. Poichè il domani è della giovanezza, sorreggiamola senza fiacchezza e senza ferocia nella via disagevole, non le nascondiamo il pericolo ma rassicuriamola sul valore della propria forza : e se precipita, per disgrazia o per errore, non ci sia rimorso in noi : rimorso di ostacolo corrivo, rimorso di entusiasmo cieco.

Se la signorina Di Lorenzo chiedesse l’opinione mia, le direi di credere alla parola di questi ultimi soltanto.

Una malattia al ginocchio l’allontanò momentaneamente dalle scene. Oggi vi è ritornata completamente guarita : più appassionata per l’arte sua, e ancor più ammirata, se pur fosse possibile un crescendo nell’ ammirazione del pubblico per la sua Beniamina.

Non ho sentito dal ’93 Tina Di Lorenzo ; e però cedo la parola a chi s’occupò dell’arte di lei in questi ultimi tempi.

………………………..

Ora, è una vera gioia constatare che vi è nella giovane attrice un’ artista vera – e forte – originale – nuova – e rispondente a nuove sensazioni esordienti e a nuove tendenze del pubblico. Perchè di lei, si può dire appunto quel che un critico francese dice dell’opera dei poeti simbolisti : il faut qu’elle soit nouvelle, et on la reconnait nouvelle tout simplement à ceci qu’elle vous donne une sensation non encore prouvée. Qual’ è questa sensazione ? È una sensazione di freschezza e di salute non prima da noi provata ; è una sensazione di dolcezza e di giocondità, quale si prova soltanto nelle dolci mattine primaverili tutte stillanti di rugiada e tutte ebbre di profumi. Quella bocca che anche nel pianto non arriva a perdere il cortese disegno del sorriso (?) ; quello sguardo azzurro che anche nel dolore rimane limpido (?), e quasi attonito sul panorama della vita (?) ; quella voce che, come nell’inno greco, par si levi sonora e armoniosa per salutare sempre il sole rinascente, danno veramente al pubblico come l’annunzio – o il ricordo – di una bella primavera. E il pubblico, che ha troppo sofferto, troppo pianto, si è troppo commosso all’arte di altre grandi attrici ( ?), si rifà ora nella nova giovinezza di Tina Di Lorenzo. E in questo senso la bellezza di lei è anche arte – o per lo meno ha effetti di arte.

VINCENZO MORELLO.

{p. 770}…. Ella aveva da dimostrare, che le acclamazioni e gli applausi del pubblico non eran soltanto rivolti alla sua venustà, ma che questa doveva pur farne parte alla sua valentia. E l’ha dimostrato in modo non dubbio. Ora, il fascino della donna, conservatosi uguale, è vinto dal valore dell’artista aumentato : di un’ artista perfetta per tutto ciò che è gentilezza, grazia, sentimento mite.

In parti di simil genere, ella non ha bisogno di sforzare i suoi mezzi fisici e il suo ingegno ; e tutte le doti della sua persona, di cui la nota precipua è la delicatezza, hanno modo d’esplicarsi compostamente, ottenendo i massimi effetti con giustissima misura e con una non mai smentita signorilità di maniere, ch’è sì rara nelle nostre attrici, anche men volgari. Allora, tra la sensazione emanante dal personaggio rappresentato, e quella puramente estetica prodotta dalla vista della interprete, esiste una compenetrazione armoniosa, e non si rompe il fascino, per cui Tina Di Lorenzo, sin dal suo primo apparire, si conquistò i pubblici di tutti i teatri di Italia, perchè cioè dava piacere a vederla.

Così appare in un repertorio non molto caro alla grossa massa degli spettatori, ma pur adattatissimo a mettere in mostra le qualità più sostanziali d’una indole artistica : in quello goldoniano, per esempio. Nella Locandiera, infatti, e nella Pamela nubile – la prima così bonamente, così onestamente, direi quasi goldonianamente civettuola ; la seconda così ingenua, così innamorata – la Di Lorenzo raggiunge sempre col gesto, con la voce, con la fisonomia dolce e arguta, una tale efficacia correttissima, da non farci desiderare di meglio.

Ed è allora, più specialmente allora, ch’ella s’attira il plauso tacito di quanti hanno un gusto squisito dell’arte ; e che le ampie gradinate sono tutte una corona di volti intenti, in cui si manifestano le innumerevoli gradazioni dell’ammirazione umana ; e che le signore la riguardano con quel sorriso negli occhi e su le labbra, che dà solo la vista delle cose gentili, quasi ella fosse in quel momento l’eletta a rappresentar degnamente la loro grazia e la loro venustà.

Enrico Corradini.

.… Tina Di Lorenzo ha fatto indubbiamente in questi ultimi anni lunga via nel cammino dell’arte : la sua personalità più matura e naturalmente più complessa la mette in condizione di interpretare degnamente oggi talune parti, che un tempo non parevano troppo adattate per lei. Ma nonostante un progresso innegabile, fondalmente identico ci sembra rimasto il suo temperamento drammatico, che è, volere o no, in lei come in ogni artista il riflesso fedele del temperamento morale.

Come sempre insuperata e insuperabile nelle parti così dette leggere, con una tinta più accentuata di delicatezza muliebre, certo non meno affascinante delle grazie quasi infantili di una volta, ella è in grado di esprimere oggi un forte sentimento di amore o di dolore con efficacia ed evidenza nuove. Nè a caso abbiam detto di amore o di dolore, perchè questo veramente è il suo campo : sembra infatti che la naturale bontà e la mite dolcezza della giovane donna si ribellino quasi all’espressione di sentimenti di diversa natura.

E così in Fedora, mentre la protagonista agita nel cuore atroci propositi di vendetta, mentre si dibatte disperata fra la passione nascente ed il rancore, mentre prepara sapientemente la rovina dell’uomo che l’adora, ella non ci parve vivere intensamente la vita del personaggio rappresentato : laddove nel terzo e nel quarto atto fra lo spasimo per la rivelazione di Loris e le torture del rimorso per il male irreparabilmente compiuto, la vedemmo salire ad un grado di potenza drammatica degno veramente di una grande artista.

Gajo (Adolfo orvieto).

{p. 771}In questo momento Tina Di Lorenzo si trova in Russia, ammirata e festeggiata nei più forti lavori del repertorio moderno, quali : Magda, Signora dalle Camelie, Fedora, Seconda moglie, Adriana Lecouvreur, ed altri.

Diolaiti Gaetano, bolognese. « Fu un bravissimo Dottore, il quale molto affaticossi per dare al suo carattere scenico delle nuove grazie ; e cogli assiomi latini, e con un sentenzioso studiato si rese utile alle comiche compagnie ; e procurò a sè medesimo e fortuna ed applauso. Fioriva circa il 1740. »

Così Francesco Bartoli.

Diotti Arturo. Nato a Mortara il 2 di ottobre del 1854, ne partì a quattordici anni per recarsi colla famiglia a Torino, ov’essa si era stabilita. D’ingegno svegliatissimo, di memoria facile e pronta, s’era dato allo studio delle lettere, del disegno e della musica, con tutto l’ardore della sua giovinezza gagliarda : ma sciagure domestiche lo distolser presto a’suoi amori per confinarlo in una casa di commercio. L’idea del teatro non gli si affacciò alla mente che dopo di aver sentito per la prima volta Tommaso Salvini a un corso di recite che diede al Gerbino di Torino. Fu una rivelazione. Da quel momento figure e squarci poetici si succedevan nella sua mente accesa : ora era un pezzo dell’ Otello, ora uno della Zaira che egli diceva ad alta voce con febbrile concitazione…. e da quel momento non ebbe più che uno scopo nella vita : salire sul palcoscenico. Fece le prime armi, se così possiam dire, in un paesello poco discosto da Torino, con una specie di compagnia formata da quattro o cinque ragazzi della sua età, e capitanata da {p. 772}Ferdinando Salvaja, amico inseparabile del povero Diotti, del quale, dopo morto, rievocò affettuose memorie, da cui traggo oggi le presenti notizie. A una di quelle rappresentazioni volle assistere la Marchionni : e tanto fu colpita dalle chiare attitudini del Diotti, che lo fece conoscere a Carolina Malfatti, nota maestra, e a Rosa Romagnoli, celebre servetta. Le quali poi lo amarono di amor figliale, ammiratrici profonde del suo ingegno e dell’indole sua. Fu allora che si affacciò alla mente della Malfatti l’idea di una filodrammatica torinese ; alla filodrammatica successe una vera scúola pratica di drammatica al D’Angennes per preparare gli alunni alla scena…. si recitaron : il Duello, il Ferréol, il Ridicolo, la Donna e lo Scettico, le Due Dame…. A una di quelle recite assistè Cesare Rossi, e sentito il Diotti, lo scritturò come primo amoroso per la quareresima del 1878. Che cosa divenisse il Diotti in pochissimo tempo, tutti noi sappiamo…. Poco a lui si addicevano gli amori sdolcinati…. Egli era soldato ; di una fibra forte, robusta ; a volte aspro e rude nella voce ; ma di una fisionomia dolcissima, così dolce che tutta rispecchiava la mitezza angelica dell’indole sua.

E quella fibra gagliarda si spezzò in brev’ora, come quercia schiantata dalla bufera. Arturo Diotti, vittima della sua spensieratezza, moriva a Rio Janeiro, colpito da febbre gialla, alle 2 antimeridiane del 30 giugno 1885.

Giacinta Pezzana, che gli fu compagna con Cesare Rossi nell’ ’80, scrisse di lui :

Povero Arturo ! Caro concittadino, simpatico e geniale artista, perchè abbandonarci così ? Rammento i tuoi primi passi nell’arte, nell’ ’80 ! Quante ansie ! Che dolorosi dubbi (effetto di modestia innata) ti tormentavano ! E che gioja infantile allorchè un battimano, una mia parola d’elogio, o un cenno favorevole sul giornale venivano a rialzare il tuo morale ! Hai amato l’arte come un amante appassionato, ed essa porterà il lutto per la tua immatura scomparsa. Se le tue ossa rimangono preda del micidiale Brasile, il tuo spirito eletto sarà sempre fra noi.

Di Re Pietro. « Detto tra comici Mestolino, fu molto stimato a’suoi giorni, e meritamente ; poichè accoppiava a un singolare talento una singolare modestia. Tuttavolta di lui si divulgò {p. 773}questa taccia, ch’era freddo : ma non per altro motivo, se non perchè dalla sua bocca non si sentivano motti impuri giammai. » Così il Quadrio (V. 237). Vedi in Bocchini Bartolommeo, pag. 459, il costume di Mestolino, lasciatoci dal Callot ne’ Balli di Sfessania.

Di Secchi Marcello. Appartenne alla nuova Compagnia dei Confidenti, formata il 1615 da Don Giovanni De’Medici, assieme alla moglie che vi sosteneva le parti di servetta col nome di Nespola, e che, per essere l’amante di Antonazzoni, fu causa di discordie in compagnia. (V. Antonazzoni Marina). Egli recitava le parti di innamorato col nome di Aurelio, e tale lo troviamo coi Comici Costanti, come si vede dall’elenco pubblicato al nome di Degli Amorevoli Vittoria.

Di Ventura Giacomo. Attore celebre col nome di Magnanino alla Corte di Mantova. Prese parte il 1562 alle feste fatte a Bozzolo da Vespasiano Gonzaga, nelle quali fu anche data una commedia piena di molte cose ridiculose, con scena miracolosa etc. etc. e prospettiva grande. Anche il giovedì grasso del ’68 prese parte alla commedia che si diede in Mantova. E il Rogna di lui scriveva il 2 febbraio al Castellano di Mantova che trovavasi a Casale :

Il Magnanino ogni di è per Mantova facendo le più ridicole cose del mondo alla contadinesca….

Morì l’11 del 1569, e ne’registri cronologici è scritto : Messer Jacomo de Ventura detto Magnanino buon compagno, e spasso di tutta la città di Mantova, e maximamente nel tempo del carneval, morì nel borgo di San Zorzo di febbre et catarro, fu infermo sei giorni, morì ai 10 a ore una di notte incirca di età di anni 50. (V. D’ Ancona, op. cit., e Luzio, Gazz. di Mantova).

Domeniconi Luigi. Figlio di un fattor di campagnia, nacque presso Rimini il 1786. Appassionato dell’arte, entrò a venti anni in una compagnia d’infimo ordine, e dopo aver passato {p. 774}peripezie di ogni specie in altre compagnie mediocri, nelle quali però era già divenuto un buon artista, riuscì a entrar socio il 1811 con Elisabetta Marchionni, recitando al fianco della celebre Carlotta le parti di primo amoroso. Scioltosi dalla società, ma rimasto in compagnia come scritturato, ne uscì dopo undici anni per passare in quella di Belloni e Meraviglia, nella quale stette quattr’anni. Fu per un triennio primo attore con Romualdo Mascherpa ; formò con Ferdinando Pelzet una società che durò tre anni ; tornò col Mascherpa il 1835. Condusse poi un’ottima compagnia di cui era prima attrice la Carolina Internari ; fu il ’40-’41-’42 a Napoli colla Società di Alberti, Monti e Prepiani ; e formò per proprio conto e per un quadriennio due compagnie, che ridusse poi dopo due anni di mala fortuna a una sola. Fu due anni in Compagnia Reale Sarda ; ma questa pagina – dice il Regli – nella sua biografia va voltata di pianta, se però non vogliamo provare che ogni eroe ha le sue sconfitte. Ne uscì per formare una gran Compagnia, che durò quattr’anni (1847-’48-’49-’50) con grande fortuna, e della quale ecco l’elenco :

ATTRICI

Adelaide Ristori

Socia dell’ Accademia di

S. Cecilia di Roma

Anna Job

Carolina Santecchi

Annetta Ristori

Annunziata Glech

Virginia Santi

Regina Laboranti

Margherita Santi

Fanny Coltellini

Teresina Chiari

Geltrude Chiari

ATTORI

Luigi Domeniconi

Gaetano Coltellini

Amilcare Belotti

Gaspare Pieri

Achille Job

Ignazio Laboranti

Carlo Santi

Carlo Zannini

Tommaso Salvini

Lorenzo Piccinini

Giacomo Glech

Antonio Stacchini

Giovanni Chiari

Luigi Santecchi

Giorgio Zannini

Luigi Cavrara

{p. 775}I molti debiti lasciati colla malaugurata azienda delle due compagnie, saldò interamente in questo quadriennio ; e sostenuto dalla fama che s’era meritamente acquistata di galantuomo, continuò a condur compagnie, in cui militaron sempre i più forti artisti del momento, sino al triennio ’61-’62-’63 che fu per lui costantemente e fatalmente rovinoso. Còlto da apoplessia nella primavera del ’63 al Valle di Roma, poi nell’estate a Viterbo, e trovatosi inetto per mancanza di mezzi e di salute a continuar l’Impresa, si ritirò a Roma, ove morì nel ’67.

Di lui lasciò scritto il Colomberti :

Molta parte delle sue disgrazie, qual capocomico, venne da lui sofferta per l’immensa passione che nudriva per la sua arte, e nulla trascurò per accrescerne il decoro, dedicandole continuamente studio, veglie, sagrifizj d’ogni genere. Egli fu il primo ad innalzare il lusso della scena a tal punto che il solo Fabbrichesi potè paragonarsi a lui. Incoraggiò e premiò per il primo i Poeti drammatici, accrebbe gli onorarj degli artisti ; ammise nella sua Compagnia molti dilettanti, e, generoso e benefico, nessuno mai si presentò a lui per implorarne il soccorso che si partisse senza esserne beneficato. Fu sempre l’amico e il padre de’ suoi artisti, e ne fu con pari affetto retribuito. Fu il primo a esser decorato nella quaresima del ’63 Cavaliere di SS. Maurizio e Lazzaro.

Quanto a’ meriti artistici egli n’ebbe moltissimi. Nonostante una figura tozza, una fisionomia volgare, un collo sepolto nelle spalle, riuscì coll’occhio vivo e lampeggiante, colla voce forte e armoniosa, coll’intelligenza naturale accentatissima, a ottenere il plauso de’ pubblici i più varj, e nelle parti di ogni specie ; poichè egli mirabilmente passava dalla rappresentazione de’ più atroci personaggi, quali il Montalban nella Chiara di Rosemberg, e il Walter nell’ Orfanella della Svizzera, a quella de’ più gai, quali il Geraldino della Lusinghiera e il Cuoco del Cuoco e Segretario. Colla interpretazione {p. 776}particolareggiata, sminuzzata, egli incideva i pensieri più riposti di una parte. La sua recitazione era, si può dire, un commento in azione. E di questo commento sapeva così ben convincere con larghezza di parole e con evidenza di ragioni i suoi scritturati, che, se atti ad accoglierne l’intendimento artistico, non potevan che riuscir di onore alto al maestro. Così accadde, cito il maggiore esempio, di Tommaso Salvini, il quale se a Gustavo Modena dovè la ispirazione e la concezione e il metodo tutto moderno di esposizione, a Luigi Domeniconi dovè certo il metodo dello studio analitico. Questo non ebbe il Modena come il Domeniconi ; nè il Domeniconi ebbe come lui la modernità della dizione e del sentimento nella concezione sintetica di un personaggio…. Anzi da quel suo svisceramento di ogni frase, di ogni parola, di ogni sillaba, usciva naturalmente una dizione quasi direi faticosa, voluta, convenzionale, che fu detta al suo tempo antiquata, ma che probabilmente non era mai stata prima di lui.

Non molto noto forse è l’aneddoto che trovo ne’ricordi del Minghetti, al proposito del metodo e dell’ingegno del nostro artista. Egli riferisce come all’Arena del Sole il pubblico batteva le mani tanto più forte quanto maggiori erano le smancerie e le turbolenze della voce e del gesto del Domeniconi, attore allora in gran voga. Queste smancerie e turbolenze ispirarono allora a Paolo Costa dei versi di questa specie :

Mal abbia l’istrion che con orrendo
artificio sonar fa la parola
che il latrato dei cani, il rugghio, il fremito
dei rabidi leoni e delle strigi
le querimonie imita……

Per la qual cosa il Domeniconi, dolente, si recò dal Costa e gli disse che sua non era la colpa, ma del pubblico : e che glie lo avrebbe provato il domani. E infatti il Domeniconi recitando il dì dopo il Filippo di Alfieri fu sobrio, verecondo, semplice, attore veramente preclaro, ma non strappò neppure un applauso dal pubblico. Ma ciò non toglie – conchiude il Minghetti, {p. 777}saggiamente e pur troppo in vano, – che sia corruzione adulare il pubblico, lusingandone le inclinazioni men buone, o rifiutando di ritemprarlo a gusto migliore.

Questo intanto starebbe a provare come il Domeniconi sapesse anche essere, quando voleva, attore castigato : e sappiamo che Gio. Batta. Niccolini scrisse per lui il Giovanni da Procida e Ludovico il Moro ; e che Silvio Pellico, quando per la prima volta affidò alla Marchionni la sua Francesca, volle a ogni patto che il Domeniconi sostenesse la parte di Paolo.

Recitando egli a Pistoia l’estate del ’33 in società con Ferdinando Pelzet, fu pubblicato un opuscoletto di versi e prose, da cui trascelgo la seguente epigrafe, un po’ duretta se vogliamo, in onore di lui :

i circhi, i ludi, i teatri

in età feroci

l’abbondanza della forza

esaurivano

in tempi codardi

il sibaritico ozio

molcevano

in secoli emergenti dall’orror delle tenebre

vita di contradizione

mostravano

oggi sono riepilogo di tutti gli errori dei tempi

allora, ed ora

a quei che si porgeano spettacolo del popolo

plausi secondo natura de’tempi sinceri

ma come noi, l’età future

non danneranno dell’età volte

la manifestazione di falsa vita,

quando sapranno

che prorompevamo in solenni encomii

per te

O LUIGI DOMENICONI

che

coll’eloquente gesto, colla parola informata

da tutte gradazioni del sentimento

incomparabilmente a mostrarci l’uomo

emulo de’ più celebri scrittori

svolgevi l’idee eterne del vero

{p. 778}Lo spirito analitico, la coscienza ch’egli metteva in una parte, sapeva mettere anche nelle cose del capocomicato. Non una commedia era da lui restituita senza che l’accompagnasser le più chiare e minute ragioni che ne avean determinata la restituzione. E, uomo di poca coltura ma di senso pratico giustissimo, coglieva sempre nel segno. In un lungo carteggio col noto scrittore e commediografo Antonio Benci, egli si presenta il vero capocomico sereno, senza livori, gentile sempre. Il 5 gennaio 1830 scrive da Firenze : mi sono state date 10 commedie da leggere. Che roba ! Pure conviene leggerle per poter dare ragione del perchè si ricusano : e non è neppure permesso di parlare con libertà : è un bell’imbarazzo ! E interessantissima è la lettera del 29 aprile 1830 che egli scrive da Roma, ragguagliando il Benci e dell’Itinerario dell’anno e della Censura teatrale ecclesiastica…. Ne metto qui la parte più importante :

Terminato il carnovale del 1832 finiscono i nostri impegni con il Mascherpa. Noi recitiamo al Teatro Valle dove ci conviene alternare nella stessa sera le nostre recite con l’opera in musica ; uso barbaro che sente moltissimo della tarda civilizzazione, che apertamente si scorge negli atuali costumi Romani. Non si fanno di seguito che le commedie nuove, e le tragedie che poche se ne permettono. Abbiamo due censure ; l’ecclesiastica è in mano di certo abate Somaj, che è il più somaro ed il più incomodo di tutti i revisori. Quasi a tutte le parole egli dà una maliziosa interpretazione. Non si permette la Fiera di Nota, non la Locandiera, etc. Noi tardiamo a portargli le sue commedie, con la speranza che possa essere cambiato, cosa di cui si è sparsa voce ….

E dopo di avergli dato ragguaglio sull’esito delle due Pupille, della Bottega del libraio, dell’ Avaro, della Turca, commedie tutte dello stesso Benci, delle quali ebber le prime due le migliori accoglienze dovunque, dice :

…. Il Rosa corretto, a Roma piacque ; a Firenze si sostenne. Se Ella conserva le mie ultime lettere, ella potrà vedere ciò che più o meno produsse effetto. Io ho {p. 779}sempre seco lei fatto uso della verità, e non potrei mai ingannarla ; ciò che le ho sempre detto, lo replico. Non si dimentichi, quando scrive per il teatro, che l’interesse è indispensabile, che necessaria è la chiarezza, e che dal porre i personaggi in situazione ne deriva l’effetto.

Dominici-Aliprandi Alfonsina. (V. Aliprandi).

Dominici Ettore. Se non seppe levarsi ad alto grado di arte come attore (non uscì mai dal ruolo di generico) egli ha diritto qui a un cenno speciale di lode pel posto al quale, mercè l’amore dello studio e la svegliatezza dell’ingegno e una particolare attitudine, seppe salire come autor comico.

Il Dominici nacque il 1838 a Perugia dall’avvocato Francesco e dalla marchesa Emilia Bourbon del Monte Santa Maria. Fatto il liceo nella città nativa, fu da vicende domestiche condotto a Firenze, quand’era sul punto di darsi agli studj legali. La sua carriera artistica incominciò nella primavera del 1864 a Bologna, in Compagnia del cognato Giovanni Aliprandi. Vi entrò qual segretario, e quale scrittor di commedie ; e come da ragazzo aveva talvolta recitato con la sorella (V. Aliprandi-Alfonsina) nella filodrammatica di Perugia, così accettò anche di sostener qualche parte di non grande importanza. Visse per tal modo coi parenti sino al 1873, nel quale anno passò con Giuseppe Peracchi, avendo il cognato, per cattiva fortuna, dovuto scioglier la compagnia. Ma rifattala poi l’anno seguente in società con Carlo Romagnoli, egli ritornò sotto la vecchia bandiera. Accettò nel carnevale del 1876-77 a Trieste l’ufficio di direttore di quella filodrammatica Talìa ; che lasciò dopo un solo anno, per passare amministratore del Politeama Rossetti, dove si trova tuttavia, qual segretario della Direzione.

{p. 780}Ecco la data della prima rappresentazione de’suoi lavori :


La Dote Fiume 1866
Un passo falso Trieste 1868
La Legge del cuore Id. 1870
I tiranni domestici Id. 1872
La Moda Id. 1872
Le due strade Firenze 1873
Triste passato Siena 1873
Una Società anonima Roma 1874
Misteri d’amore Ancona 1874
Le donne virtuose Trieste 1875
La Beneficenza (fiasco) Parma 1875
Follie d’estate Roma 1876
La Fidanzata Trieste 1877
L’Orfano calabrese Id. 1877

Prima di entrare in arte aveva già scritto Zio e Nipote, Giovani e vecchi, Maria o Amore, La camorra, e Ada o l’angelo della famiglia.

Dire degli applausi del pubblico e delle malignità della critica, che davano al giovane autore momenti fuggevoli di gioia suprema e lunghe ore di supremo sconforto, è arduo. Egli il quale non aveva che un fine nella vita : lo studio ; e un fine nello studio : l’arte ;…. che, vittima di una modestia fuor di misura, il più bello e il più fatale degli ornamenti umani, avea l’animo delicato a segno da accoglier ogni dolorosa sensazione che la superbia e ignoranza e invidia gli venivan man mano generando, egli, dico, inconscio della sua forza, si ritrasse alla fine dalla battaglia, più rassegnato che sfiduciato. A dare un’idea dell’animo suo buono, metto qui un brano di lettera, scritta a me quest’anno :

Nel lavorare non mirai mai a scopi d’ambizione o di lucro. Quando dopo molte, forse troppe prove, mi convinsi che la povertà dell’ingegno e la coltura insufficiente non mi consentivano di uscir dalla mediocrità, deposi la penna, pensando che con opere mediocri non val la pena d’ingrossare il ciarpame artistico-letterario d’Italia. Di questa mia astensione nessuno a vero dire si accorse, salvo qualche amico cortese, che me ne mosse, per cortesia, rimprovero.

Di lui scrisse il Calissano in un opuscolo edito a Siena il 1876, nel quale sono messe in rilievo tutte le buone qualità {p. 781}dello scrittore, alcuna opera esaminando con coscienza di artista, quale ad esempio, la Moda, una delle migliori, se non la migliore di lui.

Non si sa per via di quali ragioni, fu stabilito che i comici, ignari della gran vita che si agita fuor da essi, e parte attiva di quella sola artificiale che metton loro davanti agli occhi autori dall’indole più svariata, non posson dare, divenendo autori alla lor volta, che raffazzonamenti di commedie o scene altrui. I tre atti della Legge del cuore di Dominici che richiamavan di fatto al pensiero il Vero blasone di Gherardi del Testa, non solo confermaron la opinione della critica, ma furon come il punto di partenza per la demolizione dell’autore : il semplice ricordo di un’idea distruggeva in un attimo nel cuore e nella mente, ma più nel cuore, dei demolitori, le qualità essenziali e originali, che nessuno avrebbe mai dovuto disconoscere : la spontaneità e vivezza del dialogo, la chiarezza dell’esposizione. Egli è ben vero che alla epidemica malignità della critica rispondeva il pubblico applaudendo, ma nel cuore sensibile del Dominici gli applausi dell’uno eran soffocati dalle fischiate dell’altra. E oggi, lo sconosciuto Dominici, del quale i giovani autori d’Italia non sanno pur l’esistenza, in un paese di tristi ricordi e di dolci illusioni, oggi, dico, da un tedesco, il Duca di Meiningen, è invitato ad ornare di una copia delle opere sue la grande biblioteca del nobile artista, e ne riceve in premio la Croce di cavaliere dell’ordine Ernestino.

Dominici Enrico. Nato a Trapani il 24 ottobre del 1850 da Carlo, ufficiale di dogana, e Francesca Lombardo, fece il suo ingresso in arte, rappresentando per favore nei Mafiusi di Rizzotto (1864), che era amicissimo del padre di lui, una particina da ragazzo di poche parole ; particina che poi, mercè la svegliatezza e spontaneità del giovinetto, divenne a poco a poco la più importante dopo quella del protagonista, e diè forse l’idea del maggiore sviluppo del lavoro, allora in un solo atto.

{p. 782}Dopo alquante peripezie or con una Compagnia Stecchi, di cui la prima donna era guercia, or con la Pochini, e di nuovo col Rizzotto in Sicilia, poi coll’Arcelli in Calabria, poi soldato nell’8° granatieri, finì coll’entrare il 1872 primo attore nella Compagnia di Federigo Boldrini, diretta dalla Pezzana, colla quale fu in Ispagna e nell’America del Sud. Scioltasi la Pezzana dalla compagnia, egli continuò trionfalmente al soldo del Boldrini, facendo il giro del Brasile : ma perdutivi di febbre gialla il capocomico e la moglie signora Cappella, e il primo attor giovine Ernesto Colonnello, tornò in Italia, dove, il’ 75, fece società con Alessandro Salvini, per passare poi primo attore scritturato con la Paladini, con cui fu a Lisbona, applauditissimo. Finito l’anno, formò società con Cavara e Piccinini ; poi si scritturò sino a tutto l’ ’81 con Ettore Dondini, per passare l’ ’82-’83-’84 con Alamanno Morelli. Fu l’ ’85 primo attore e direttore della Compagnia Faleni, l’ ’86, un po’ della stabile al Teatro Rossini di Napoli, e un po’di quella condotta dal Bollini con la Tessero prima attrice. Formò pel triennio ’87-’88-’89 compagnia stabile al Manzoni di Roma. Costretto a partirsene il ’91 per malattia, fu sino al ’92 con Serafini ; dopo il qual tempo ebbe compagnia propria fino al ’95. Stette un anno con Ermete Zacconi qual generico primario, per rifar poi compagnia che condusse ora in Egitto, ora in Grecia, ora in Turchia, e con cui gira anch’oggi applaudito ne’teatri secondarj d’Italia.

Enrico Dominici, attore di intelligenza svegliata e pronta, aitante della persona, di voce flessibile e forte, di slancio tutto meridionale, che fu forse talvolta a scapito della correttezza, s’ebbe a patir le più grandi amarezze dell’arte, e a provarne {p. 783}tutte le gioje. Queste però non lo compensaron di quelle. Gli fu data al Brasile la croce di cavalier della Rosa, in Portogallo quella dell’ordine di Cristo, e da noi, ministro Coppino, quella della Corona d’Italia.

Dominique. (V. Biancolelli).

Donati Maria. Figlia di un apparatore teatrale noto col nomignolo di Patano, cominciò come ballerina nelle opere in musica, e fu specialmente al S. Benedetto di Venezia ; poi, mercè le istruzioni di Giuseppe Majani detto il Majanino, potè darsi all’arte comica, nella quale apparve come seconda donna, ottenendovi un successo inatteso, prodigioso. Era nel 1782 con Giuseppe Lapy, e il Bartoli ha parole di molta lode per codesta attrice che all’inizio della sua carriera dava sì belle speranze di sè, avendo sortito dalla natura una bella e grata voce, e un portamento maestoso e gentile a un tempo, alle quali doti accoppiava lo studio indefesso, e una instancabile volontà.

Il Teatro moderno applaudito, Vol. III, fa menzione di una Teodora Donati, di un Giovanni Donati, brighella, di un’Anna Girelli-Donati e di un Francesco Girelli-Donati, forse parenti della Maria, che recitavano il Carnevale del 1796, la prima al Teatro S. Angelo di Venezia, nella Compagnia di Giuseppe Pellandi, e gli altri al S. Cassiano, in quella di Francesco Menichelli.

Dondini Carlo. Artista di molto pregio per le parti di primo attore e generico primario, nacque a Cento dalla nobile famiglia de’ Savii, alla quale venne poi il moderno casato da un capo di essa chiamato Dondino. Carlo Dondini, recatosi co’ suoi a Bologna, si arruolò nell’esercito francese, in cui salì ben presto al grado di capitano. Tornato in patria, e datosi a recitare tra’ filodrammatici, spiegò tale attitudine alle scene, che risolse di far dell’arte drammatica la sua professione ; e si scritturò nella Compagnia di un certo Giambattista Pucci, del {p. 784}quale sposò poi la figlia Teodora. Il carnevale del 1817, egli era, (dopo di essere stato alcun tempo capocomico con la moglie prima attrice) al Tordinona di Roma in Compagnia Benferreri, di cui era parte principale la maschera del Pulcinella, con la moglie e il figliuolo Cesare allora decenne. La vegnente quaresima, scritturati da Antonio Raftopulo, furon tutti e tre condotti su di una sdruscita nave a Palermo, dove furon piantati, dopo cinque mesi di vita tribolatissima. Formata coi soci di sventura una compagnia, che meglio si sarebbe potuta dire una accozzaglia di zingari, percorsero, guitteggiando e stentando, in lungo e in largo tutta l’isola, a piedi o sui muli, sino al 1825. Riusciti poi finalmente a lasciar la Sicilia, si recarono a Napoli, dove con una colletta del Fabbrichesi, capocomico a’ Fiorentini, e con qualche recita fatta qua e là, poteron trascinar la vita sino al carnevale ’25-’26 ; dopo il qual tempo, unitisi ad alcuni sciagurati, poteron fare una discreta campagna a Marcianese. Furon poi nella Compagnia del Tassani, scritturatovi il Dondini per le parti dignitose, e il ’27, probabilmente, o egli morì, o si ritirò dalle scene, perchè nol vediam più negli elenchi del tempo.

Dondini-Pucci Teodora. Moglie del precedente, seguì sempre il marito, prima amorosa, prima attrice e madre sino al momento della morte di lui che accadde, come abbiam detto, probabilmente nel 1827. La vediamo madre nobile il ’28 in Compagnia Mazzeranghi e Mariani diretta da Lorenzo Pani ; poi collo stesso ruolo in quella del solo Mariani il 1832. Il ’39-42 era caratteristica della Compagnia di Romualdo Mascherpa colla figlia Argenide amorosa, e i tre figli Cesare, brillante, Achille, primo generico di riguardo, ed Ettore, generico. – È notato nel Diario di Cesare Gallo che sta nella miscellanea politica {p. 785}dell’Archivio di Roma, che essa dette la sua beneficiata in Osimo il 14 gennaio 1815, e che lo stesso Gallo compose per lei un sonetto. – Teodora Dondini morì in Livorno nell’anno 1866.

Dondini Cesare. Figlio dei precedenti, nacque a Cuneo il 4 dicembre 1807. A dieci anni, quando i parenti si trovavan con Benferreri al Tordinona di Roma, esordì con molto successo in una piccola parte di pulcinellino : poi seguì i parenti in Sicilia, passando in mezzo alle tribolazioni di ogni specie pel lungo periodo di otto anni. Cominciò a recitar parti di secondo amoroso il ’26 nella Compagnia di Lorenzo Tassani, dalla quale passò in quella di Monti, Rosa e Marchionni, scritturato per le parti di… trovarobe. Fu generico il ’28 nella Compagnia Mazzeranghi e Mariani, diretta da Lorenzo Pani, poi successivamente, assieme alla madre, in quella di Colapaoli, Ghirlanda e Nardelli. Fece i suoi primi passi alla celebrità nella Compagnia Solmi e Pisenti, creandovi per cortesia del Pisenti, brillante, la parte di protagonista nel Diplomatico senza saperlo di Scribe, con tal successo, che a poco gli fu dagli accorti capocomici passato il repertorio intero del brillante, nel quale il Dondini potè di punto in bianco mostrarsi artista preclaro.

Entrò il ’35 assieme alla famiglia nella Compagnia di Romualdo Mascherpa in cui stette sino al ’45, per poi {p. 786}scritturarsi in quella Reale Sarda che abbandonò il ’53 per passare dalla parte di attore pagato a quella di capocomico ; e formò una compagnia di cui fu splendido ornamento Clementina Cazzola, (alla quale successer poi e la Pezzana e la Pedretti e Tommaso Salvini), e in cui egli assunse per la prima volta il ruolo di caratterista e promiscuo, cedendo quel di brillante al fratello Achille.

Dopo quindici anni di glorioso capocomicato, si scritturò in Compagnia Giuseppe Peracchi, dalla quale uscì la quaresima del ’70 per lasciar definitivamente il teatro. Morì a Trieste il 20 maggio del 1875.

Dire dell’arte di Cesare Dondini non è agevole impresa. Egli fu attore di una verità e spontaneità maravigliosa. Avea fatto mezza la parte all’apparire in scena, (in arte lo chiamavano buzzo, a causa della sua splendida pancia) l’altra metà la faceva, dicendola, con una semplicità di mezzi sorprendente. Non si capiva se recitasse ; non faceva nulla ; discorreva : ma intanto il pubblico era tutto suo. Della vasta opera goldoniana fu un interprete valorosissimo, il più valoroso forse di quanti furono a’ bei tempi di Goldoni stesso. I personaggi boriosi e stangati del Marchese di Forlimpopoli nella Locandiera e del Conte nel Ventaglio, erano, incarnati da lui, altrettanti poemi.

Non vi fu pubblico, del quale Cesare Dondini non doventasse dopo poche frasi l’idolo ; non vi fu critico per quanto sofistico, il quale avesse a notar qualche pecca nell’arte sua. Tra tante testimonianze del suo valore e della sua gloria son degne di nota quelle di Gustavo Modena, di Ernesto Rossi e di Tommaso Salvini. Il primo, recatosi una sera dopo il suo {p. 787}lungo esilio, al Carignano, ove recitava la Compagnia Reale, e richiesto del parer suo su di essa, rispose : « È senza dubbio una compagnia composta di ottimi attori ; ma sembra a me che fra essi molti declamino, e due soli veramente parlino ; cioè Cesare Dondini e la Romagnoli. »

Ed Ernesto Rossi (op. cit.) :

Per me, Cesare Dondini fu il più caro artista, che io mi avessi visto : allevato alla scuola del Vestri, ebbe sempre per guida la naturalezza. Forse aveva un difetto : la sua natura emergeva troppo nei caratteri da lui rappresentati ; ma era una natura così simpatica, omogenea, che dal critico poteva esser perdonato il vederla spesso riprodotta.

Te lo ricordi tu ? Nel Marchese della Seglière, e nel Don Marzio alla Bottega del caffè ? Nella parte del padre del Bugiardo di Goldoni : a quella famosa lettura della lettera : non faceva ridere e piangere ad un tempo ? E nel Michele Perrin, che io aveva veduto rappresentare a Parigi da Buffet ? Nel Michele Perrin, Dondini superò il Buffet : e gli fu facile ; poichè la figura del Dondini pareva tagliata a bella posta per rappresentare quel bonaccione di prete di campagna, vero servo di Dio, cui stava più a cuore l’anima che il corpo. Buffet era piccolo, magro e nervoso. e suppliva ai suoi difetti collo studio e l’intelligenza. La fatica per giungere allo scopo non poteva fra i due attori aver paragone : e quantunque quella del Dondini fosse minima, pure riusciva più bella.

E Tommaso Salvini (op. cit.) :

Dopo Luigi Vestri e Luigi Taddei, questo attore fu il seguace più fedele della scuola del vero. Al solo vederlo suscitava il buon umore, infondeva l’amenità del suo carattere nell’uditorio, e faceva fare buon sangue agli ascoltatori, nelle interpretazioni dei più variati caratteri che rappresentava.

Dondini Laura, figlia del precedente, nacque a Torino il ’48, e recitò parti di non grande importanza nella Compagnia di lui. Quando egli passò scritturato nella Compagnia Peracchi, essa mostrò in alcune parti di amorosa a qual grado avrebbe potuto salire, se con più amore e con più studio si fosse data all’arte comica. Ma appassionatissima pel canto, al quale aveva mostrato sin da giovinetta singolari attitudini, vi si abbandonò con tal fervore, che in breve tempo riuscì artista lirica assai reputata.

Oggi è insegnante azione scenica nell’Accademia Romana di S. Cecilia.

Dondini Achille. Altro figlio di Carlo e Teodora, che seguì l’arte dei parenti, nacque nel 1818 a Ragusa Sicula, e fu {p. 788}attore di pregio per le parti di brillante e di caratterista. Dopo di avere sostenuto in Compagnia Mascherpa il ruolo di generico e secondo brillante, passò brillante assoluto in quella che Cesare aveva formato il ’53 ; e poco mi resta da dire sul miglior tempo della sua vita artistica, essendo essa legata intimamente a quella del fratello. Quando questi lasciò il capocomicato, Achille staccatosi da lui, abbandonò le parti brillanti per darsi a quelle caratteristiche e promiscue, nelle quali riuscì artista di buon nome. Fu per vario tempo capocomico, e tale lo vediamo citato nella memoria tolentinate con moltissima lode. Il 19 febbraio del ’60 sposò Maria Masi a Roma ; nata a Rimini il ’45 da Filippo Masi, già Capitano del papa, poi soldato della nostra Indipendenza, poi comico, e da Casilde Bocci, pur romagnola. Essa recitò con molto plauso le parti di prima donna giovine ; ma una malattia di cuore la condusse giovanissima (febbraio del ’72) al sepolcro. Da tal matrimonio nacque Cesarino. Morta la Masi, Achille Dondini si unì con una Rosina Ingargiola di Castelvetrano in Sicilia, artista di qualche pregio, dalla quale ebbe quattro figli : l’Amelia, moglie di Ferruccio Benini, l’Ida, moglie di Camillo De Riso, l’Ada, ora in Collegio nel Friuli, e un secondo Cesarino che comincia a recitar con la madre e la sorella Ida a Corfù.

Povero Achille Dondini ! A lui avevano affibbiato il nomignolo di brindellone, educata modificazione di un altro più usitato e volgare, che ha significato di minchioncione. Sì, se per minchioncione s’avea da intender colui che avea la casa e la borsa aperte a tutti ; il cuore, l’animo, gli affetti intimi affidati a tutti ;… ch’era ottimista per eccellenza, che finiva col prestar gratis a’ comici che si staccavan da lui le scene e le tende a lui {p. 789}indispensabili, che aveva tavola imbandita, che le sventure altrui faceva sue…. Sì ! proprio minchioncione e peggio ! Fu noto in tutta la Società artistica per le sue distrazioni, natural conseguenza di quella sua mitezza d’indole che lo faceva fiacco, debole, infingardo. Come artista, aveva molto ritratto della maravigliosa verità del fratello. In alcune parti, come del Maestro ne’ Rantzau, ebbe assai pochi che l’uguagliassero, niuno che lo superasse. La sua esagerata modestia, frutto anch’essa della sua incomparabile bontà, gli nocque non poco nella vita dell’arte. Una volta (1875), andatigli male gli affari, mancando di fondi, temendo famiglia e comici rovinati per cagion sua, ne impazzì : e fu per tre o quattro mesi ricoverato al Manicomio di S. Isaia in Bologna. Vissuto alcun tempo in una certa agiatezza, morì poverissimo a Pordenone il 1° aprile dell’ ’86, fulminato su la scena, mentre s’accingeva a mangiare nel 1° atto del Tiranno di S. Giusto di Pilotto.

Dondini Cesarino. Figlio del precedente, nato a Torino l’11 dicembre del 1861, esordì come generico il ’78. Fu secondo brillante, brillante, primo attor giovine, soldato, poi di nuovo brillante. Ora è scritturato col medesimo ruolo nel Teatro d’Arte di Torino. Sposò il 21 marzo ’95 a Lecce l’attrice Armida Bergonzio, che fu amorosa e prima attrice giovine, e che è oggi con lui come generica. – Cesarino Dondini è artista di assai merito per le parti comiche, ammirato dovunque, specialmente per correttezza e spontaneità di dizione.

Dondini Ettore, noto in arte con l’appellativo di Bazza, nacque a Capua del ’22. Quando il fratello Cesare, fattosi capocomico, si diede al ruolo di caratterista, cedendo quello {p. 790}di brillante assoluto al fratello Achille. Ettore se ne distaccò per diventare a sua volta capocomico e passare dalle parti di generico a quelle di brillante, poi di caratterista, che sostenne fino a tardissima età e come scritturato, e come capocomico, ora solo, ora in società, e in cui riuscì non men pregiato attore del fratello Achille.

Morì in Roma il 22 gennaio del ’97.

Dondini Argenide, sorella dei precedenti, nacque a Roma il 1825, e cominciò a recitar le parti d’ingenua con Lorenzo Tassani, poi quelle di amorosa con Mascherpa. La sua vita artistica passò colla famiglia. Morì del ’79 al manicomio di Siena.

Dones Francesco, milanese, nacque verso il 1785, e tenne dal 1810 al 1830 il posto di caratterista con grandissima lode nelle primarie Compagnie, quali di Consoli, Zuccato, Goldoni e Perotti, e in quella poi ch’egli formò al finire della sua carriera. Fu artista acclamatissimo specialmente nel repertorio goldoniano e di Giraud.

Dorati Giacomo. Nato a Udine nel 1760 da parenti agiati, e rimasto orfano ancor giovanetto, si diede, non ostante il divieto del tutore, all’arte comica, nella quale riuscì ottimamente come primo amoroso. Innamoratosi a quel tempo di una figlia {p. 791}d’artisti, e venuto in possesso dell’eredità lasciatagli dal padre, determinò di realizzarne i capitali, e di formare una compagnia comica, pernio della quale sarebbe stata la giovane artista, ch’egli avea già sposato, e che sino ad allora non aveva sostenute che parti di amorosa generica ; dando però con l’avvenenza e intelligenza e volontà a sperar bene della prova audace. E la prova fu vinta, e la compagnia andò a gonfie vele, e il Dorati potè nel corso di venti anni scritturare i più illustri artisti del momento, non escluso il De Marini. Ma gli avvenimenti politici fatali a tutta l’arte furono a lui fatalissimi. Perduto ogni suo avere, indebitato sino alla punta de’capelli, dovè smettere ogni altra speculazione, passando dalla compagnia propria a società di maggiore o minor conto, in sino a che, vecchio omai, e senza più una via a guadagnarsi onoratamente il pane, ricoverato dal genero Giuseppe Guagni, morì a Firenze verso il 1850.

Dorati Rosa. Moglie del precedente. Passò tutta la sua vita artistica in compagnia di suo marito ; e tanto e così fortemente volle, che salita audacemente al posto di prima attrice assoluta in una compagnia di gran conto da quello di semplice amorosina, seppe in breve tempo acquistarsi fama di brava artista accanto ai nomi della Pellandi, della Perotti, della Bazzi e della Goldoni, i più grandi astri del suo tempo. Avendo suo marito formato compagnia il 1826 in società con Gaetano Colomberti, nella quale la Rosa era scritturata qual prima attrice tragica, benchè di oltre cinquant’anni, potè mostrare l’antico valor suo, ammirata dovunque così nell’ Isabella del Filippo, come nella Clitennestra dell’ Oreste e nell’ Antigone di Alfieri. Morì a Firenze dopo il ’60 in tardissima età.

Dorati Carolina, Alamanna, Battista e Dionisio. Figli dei precedenti. Abbracciaron tutti l’arte dei parenti. La Carolina sosteneva il 1826 le parti di prima donna giovane e prima donna dopo la scelta della madre, in Compagnia {p. 792}Dorati-Colomberti. Fu moglie dell’ottimo artista Giovanni Casali, e madre della Peppina Casali-Pieri e del brillante Cesare Casali.

L’Alamanna, moglie dell’ottimo caratterista Giuseppe Guagni, sostenne lungamente e lodevolmente il posto di servetta. Abbandonato il teatro, si ritirò col marito a Firenze, ove aprì un negozio di modista, e ove morì nel 1858.

Battista fu buon generico e ottimo mammo, o sciocco. Il 1829 era in Compagnia di Colomberti.

Dionisio fu, come il fratello, buon generico e ottimo mammo. Trovandosi nella Compagnia di Camillo Ferri, nel carnovale del 1840, si fe’saltar le cervella in un camerino della Canobbiana.

Dori Gaspare, fiorentino. Recitò le parti di innamorato, prima colla Compagnia di Lapy, poi con quella della Tesi. Nel 1782 era con la rinomatissima della Maddalena Battaglia, in cui, con buon gusto di recitare – dice il Bartoli – seguendo lo stile de’suoi compagni sapeva farsi distinguere per un comico di merito in sui Teatri gradito.

D’ Orso (o D’ orsi, o Dorsi) Angela. « Comica rinomata che fioriva intorno al 1650, ed esercitavasi con grido sopra i Teatri d’Italia. Ebbe l’onore d’essere all’attual servizio delle serenissime altezze di Alessandro ed Orazio Farnesi Principi di Parma, ai quali dedicò una commedia d’origine spagnuola da lei tradotta in italiano, che porta per titolo : Di bene in meglio stampata in Venezia per Matteo Leni l’anno 1656 in forma di ottavo. Pubblicò in Ferrara l’anno 1666 un’altra commedia spagnuola di D. Pietro Calderone, tradotta nell’idioma d’Italia, intitolata : Con chi vengo, vengo, e fu impressa per Alfonso e Gio. Battista Maresti in forma di ottavo, e dedicolla all’illma. signora Donna Lucrezia Pia Bentivogli. Andò poi a Roma a recitare (che allora non era colà interdetto alle donne il prodursi sul teatro), ed ivi diede alla luce una commedia in prosa intitolata : Il Ruffiano in Venezia, e Medico in Napoli, stampata per Bartolommeo Lupardi l’anno 1672 in forma di dodici. Questa commedia che è tradotta anch’essa dallo spagnuolo, aveala prima però stampata in Ferrara sotto il titolo di Paolo Gemma l’anno 1669. Non abbiam rinvenuta, nè trovasi per quanto si sappia, alcuna cosa poetica della sua Penna. L’Armida Impazzita per amor di Rinaldo opera Eroica scritta in versi, non è {p. 793}produzione di questa Comica, come vuol supporre l’autore della drammaturgia. Di essa non v’è che la dedica fatta all’altezza di Francesco II Duca di Modena in data de’17 febbraio 1677. Angela D’Orso sostenendo con molta bravura la parte d’un Capitano Generale in una commedia da lei rappresentata in Verona, mosse il Marchese Giovanni Malaspina Accademico Filarmonico a lodarla con un Sonetto, che qui trascriveremo tolto dalle sue Rime impresse in Verona per i Merli l’anno 1653.

Ad Angela Comica finta Capitano Generale
L’Angel che in Ciel cinse guerrieri allori
vinto lo stuol rubel, sembri ai sembianti,
e con armi novelle e novi manti
par che minacci, e pur l’alme innamori.
Ma mentre scopri in te vani i furori,
ed i colpi commetti all’aure erranti,
ecco cadere a’tuoi begli occhi innanti
senza sangue versar trafitti i cori.
Ond’ognor minacciando al popol folto,
ch’è già fatto tua preda, e foco, e strali,
a’più sovrani Duci il pregio hai tolto.
Si, mentre tu con finte pugne assali,
dài vere morti altrui, che nel tuo volto
son le vittorie alle bellezze uguali.

Così Francesco Bartoli.

Il Vescovo di Parma scriveva al Marchese Rossetti a Ferrara il 9 aprile 1664, inviandogli la nota dei comici che desiderava unire Fabrizio, il primo innamorato (V.), de’quali prima donna era l’Angiola, e serva la figliuola, moglie di Costantini, nota col nome di Auretta.

Il 13 aprile 1672 l’Angela scriveva da Parma al Marchese Ippolito Bentivoglio a Ferrara la lettera seguente comunicatami gentilmente dal cav. Azzolini :

Ill.mo et Ecc.mo Sig. mio e Pron. Cols.mo

A mio ariuo in Parma fu da me il Sig. Marchese di Vigolino, à quale rapresentai li interessi della Compagnia e uiaggio conforme l’appuntato con V. E. dovendo andare a cominciare a Padoua, e la necessita che hauessimo d’un moroso per esser Mario innhabile, il sud.º Sig.re approuo il tutto e disse che poteua partire la Compagnia p. Padoua sub.º fatto Pasqua. Hora intendo che il Cap.º Fialla e Dottore Paghetti che sono a’giorni {p. 794}passati stati a Parma habbino ottenuto da S. A. Ser.ma di andare con la loro Compagnia a Padova, di tratenere Trivellino, lasciando a noi Bertolino con la gionta della Moglie e Vicenza invece di Padoua, con più di douere fatto feste andare a fare quattordici o quindecci Comedie a Bologna p. l’obligo che ha con quei Cauag.ri e Dame i Comicci di S. A., di tutto questo uengo accertata che V. E. ne sia auisata e se cio è la uerita, altro non posso significarle se non che Vicenza non fa per noi in modo alcuno per esser non solo stata sbatuta l’anno scorso, et per non esser hora la sua staggione, mi dò a credere che tutti li compagni insisteranno di non dare la parte alla Moglie di Bertolino, mentre non reciterà, e se ne starà a casa p. la sua insuficienza, non so che cosa andare a fare a Bologna con duoi Morosi che non li uogliono ne sentire ne uedere, e fuori di tempo ruuinando l’Autuno, quando la Compagnia ui debba andare. Sono per tanto rissoluta di più tosto starmene a Casa p. quest’ Estate che andar fuori ad impegnare quel pocco che ho, a suo tempo seruirò V. E., et essendoui l’Autuno sarò prontiss.ma la prego à mandarmi le mie robbe mentre lei non hauesse qualche Città p. poter uiuere. So che lei mi compatirà perche le miserie dell’anno passato m’hanno a bastanza adotrinata, et io che sono pouera Vedoua, agrauata da tanti figli e famiglia, ho di bisogno di solieuo e non d’agrauio, e stimo più utile il stare a Casa che l’andar fuori senza speranza di guadagno, le mie raggioni sono tante euidenti, che so ueranno approuate da V. E. quale m’honorerà di sub.ª risposta p. il pnte Pedone, con qualche da me desiderato comando, e qui resto.

Di V. Ecc.ª

Parma li 13 Aprile 1672

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S.r March.e Hippolito Bentiuog.º

Ferrara.

Giunta in età avanzata, supplicò invano Ranuccio Farnese, suo padrone, di lasciarle godere il riposo ; poichè sollecitato egli dal nipote di Modena, per mandarla nella Compagnia di lui, vi acconsentì, in via eccezionale ; ma dopo quella stagione, che fu il carnevale del 1676, Angiola D’Orso non salì più in palco. (Archivio di Modena. Dramm.).

D’ Orsi……. Figlia della precedente, e moglie di Angelo Costantini, fu comica famosa per le parti di serva, sotto ’l nome di Auretta. Si rileva da una lettera dell’Archivio di Modena, scritta da Parma a quel Duca da Ranuccio Farnese il 1° aprile del 1678, come Auretta e Mezzettino, comici dei Farnesi, fossero stati accordati per un anno all’Abate Grimani, dietro istanze del Duca di Modena espresse con lettera del 24 marzo.

{p. 795}Sin dal ’64 s’è vista Auretta già serva nella Compagnia di Parma (V. Fabrizio) a vicenda con Colombina, moglie di Bagolino (?) il primo Zanni. (V. Costantini Angelo).

D’ Orsi Maria Teresa. Sorella minore della precedente, fu attrice rinomatissima per le parti comiche sotto il nome di {p. 796}Spinetta. Fu comica del Duca di Mantova, e il 23 maggio del 1695 le si concesse vita durante una casa ove ella abitava sul Corso, purchè restasse in servizio con doppie 50 d’Italia annue (f. 95). (V. Bertolotti, op. cit.). Il servizio però non fu lungo, poichè la vediamo esordire nell’aprile del 1697 a Parigi alla Commedia italiana, un mese avanti la sua chiusura, nello Scenario : Spinette Lutin amoureux, in cui rappresentò cinque o sei personaggi con una verità sorprendente. Ella accoppiava un raro talento alla freschezza della gioventù, e a un volto incantevole. Fu probabilmente questo del Lutin amoureux, lo stesso Scenario che la fece famosa in Italia, e ispirò il Sonetto che riproduco qui dietro, ridotto di un terzo.

Dotti Angiola. Esordì nel Teatro Marsigli di Bologna sua patria in parti di niun conto, passando poi col tempo a quelle di prima donna, che sostenne in Italia e fuori con molto successo. Trascorsa l’età giovanile (1782) si diede a recitar parti adattate – dice il Bartoli – agli anni suoi più gravi, mantenendosi con pari fortuna in concetto e riputazione. Ebbe una figlia, Gertrude, la quale, a detta del Bartoli, aliena dagli amori, e sol dedita allo studio dell’arte sua, recitava con buon raziocinio in tuttociò che s’aspettava al suo teatrale impiego.

Dracopulo Spiridione, di Atene, fu buon artista per le parti di amoroso, che sostenne due soli anni in Compagnia del suo connazionale Antonio Raftopulo, non appena terminati gli studi all’Università di Pisa. La morte del padre lo richiamò in Atene, donde non uscì più, troncando la carriera artistica ch’egli aveva abbracciata con tanta passione, e nella quale dava di sè così belle speranze.

Drago Adolfo. Figlio di Giovanni Battista, commerciante, e di Carlotta Bracco, nacque a Genova nel 1851. Entrato a diciassette anni nella filodrammatica italiana, ebbe per direttrice la Carolina Fabbretti-Giardini, che lo avviò con amore a {p. 797}quell’arte, a cui si sentì fin da bimbo trascinato. Lasciò gli studi d’ingegneria pei conti correnti della Banca Anglo-italiana, e questi, (’70-’71), per le parti di amoroso e generico in Compagnia di Cesare Vitaliani, passando poi, primo attor giovine, il ’71-’72 con Augusto e Florido Bertini, il ’72-’73 con Peracchi, il ’73-74 con Achille Dondini, il ’74-’75 con Ajudi e Benelli prima, poi con Dondini e Galletti sino al ’77-’78, nel quale anno formò compagnia in società con Ettore Dondini. Tornò scritturato il ’78-’79 con Ciotti e Belli-Blanes, e l’80-’81 con Adelaide Ristori, per tornare poi al capocomicato che tenne sino al momento del suo contratto per l’America in Compagnia Cerruti e Lotti, durato dalla primavera del ’96 al novembre del’97.A questo punto cessan le note artistiche di Adolfo Drago, tornato ora alla città natale, sicuro di trovar nel seno della vecchia madre un conforto alle delusioni avute in quell’arte alla quale con ardore di amante aveva dato la mente ed il cuore. Nè a quelle delusioni andaron tuttavia disgiunte le più grandi soddisfazioni d’artista : chè cimentatosi anche nell’ardua prova delle interpretazioni shakspeariane ne uscì trionfante, sì per la intelligenza, come per la recitazione caldissima. E se non ebbe in arte maestri, se non ebbe la fortuna di metter piede mai nelle compagnie privilegiate, ebbe nullameno quella di brillare accanto agli astri massimi Salvini e Ristori. Non andrà dimenticato il grande avvenimento di una recita dell’ Otello al Paganini di Genova con Drago Otello e Salvini Jago, della quale metto qui a testimoniar del valore artistico di Adolfo Drago, il giudizio apparso nel supplemento al n. 82 del Caffaro, 13 marzo 1891.

Il Drago fu, a giudizio di tutti, degno compagno di Salvini, e il grande attore fu il primo a riconoscerlo, dichiarando che l’interpretazione del nostro concittadino lo aveva sorpreso. E infatti se fu sempre notevole in tutto il dramma, nel terzo atto apparve {p. 798}davvero sorprendente. Il lento lavorìo della gelosia ha già alterato quell’uomo ; colpito al cuore dalle insinuazioni di Jago, egli si dibatte ancora, vuole cacciare il sospetto, vuole convincersi, affermandolo alto, che Desdemona è pura, ma dopo una lunga lotta finisce col soccombere.

Nessuno dei tanti Otelli della scena moderna, incarna questa lotta tremenda con più efficacia e con maggiore verità del Drago, nessuno mostra con più evidenza di contrasti la passione che strazia il Moro. Con quale disperato rimpianto dice egli addio a tutti i suoi sogni d’amore e di gloria ! Con quale furore balza alle rinnovate calunnie di Jago, lotta un’ultima volta contro di lui, s’abbandona tutto alle sue furie, giura vendetta.

Fu una scena meravigliosa a cui il pubblico assistette stupefatto e quasi non credendo ai propri occhi, dinanzi a quei due uomini trasfigurati in quella stupenda manifestazione d’arte ; e quando la tela cadendo ruppe l’incanto, un applauso entusiastico, incessante li salutò, confermando all’uno la fama gloriosa, battezzando solennemente l’altro come grande e vero artista ; e questo giudizio resterà.

Dreoni-Toffoloni Eugenia. Attrice di molto valore per le parti più specialmente di amorosa. Entrò il 1845-46 prima donna giovine nella Compagnia Romana di Domeniconi, sotto la Laboranti. Il ’47 si recò a Siena a far la quaresima, nella stessa compagnia e collo stesso ruolo, al fianco della Ristori, prima attrice, e di Tommaso Salvini, amoroso ; il quale mi raccontò com’ella fosse veramente grande nelle amorosine {p. 799}goldoniane in genere ; e grandissima poi nella Contessa d’ Altenberg, in quella scena famosa in cui le sorge il dubbio che la madre le sia rivale, e per cui Salvini, spettatore tra le quinte, si commoveva alle lagrime. Da lui stesso fu scritturata qual prima attrice assoluta nella Compagnia ch’egli formò in società con Gaspare Pieri, e sappiamo che insieme a lui recitò al Cocomero di Firenze le Ultime ore di Camoens di L. Fortis col migliore de’ successi.

Sposò il fratellastro Vincenzo Dreoni (ella era figlia del primo marito della madre di lui), attore di qualche nome per gli amorosi e tiranni giovani, ed entrambi entrarono il ’54 al Teatro popolare di Napoli la Fenice, ove stetter sino al ’58 festeggiatissimi. Nel qual tempo, morto il padre del Dreoni, antico amministratore di una fattoria del granduca Leopoldo II in Valdichiana, egli ne prese il posto, lasciando colla moglie il teatro definitivamente.

Duse Luigi. Egli proviene da una famiglia chioggiotta di lupi di mare. Esiste ancora a Chioggia un Calle Duse, benchè la famiglia fosse un tempo assai più nota col nomignolo di Griguolo, che le fu dato un po’ per antica consuetudine del sito di chiamar ciascheduna famiglia con un soprannome che riman poi per secoli, un po’per distinguerla da altra famiglia Duse, tuttavia esistente. Luigi Duse ebbe cinque fratelli e due sorelle : Andrea, Giacomo, Felice, Gaetano, Federico, Elisabetta e Domenica.

Andrea, il primogenito, uomo di mare, ebbe traversìe infinite ne’suoi viaggi, e morì celibe e povero nel 1872 a ottantadue anni, assistito dai fratelli.

Felice fu capitano di mare, e viaggiò lungo tempo con molta fortuna. Si fermò a Chioggia, ove trasse agiatamente gli ultimi anni della sua vita. Ebbe due mogli e non lasciò alcun figlio. Morì dopo il ’70.

Giacomo, ricco mercante, non abbandonò mai la città natale, ove sposò una figlia di mercanti, non men ricca di lui. {p. 800}Ebbe soprannome di Signoretto, col quale son noti anch’oggi i figliuoli Luigi ed Annetta, ricchissimi, e col quale è tuttavia chiamato l’antico negozio di manifatture a lui appartenuto. Morì due anni circa dopo il fratello Felice.

Gaetano, impiegato al tribunale di Padova, morto a sessantacinque anni, ebbe un figlio, Silvio, avvocato, residente a Padova, e una figlia, Carlotta, vedova, che vive col poco lasciatole dal padre.

Federigo, l’ultimo dei fratelli Duse, è morto a trentacinque anni, avanti il ’50, e fu artista drammatico di buon nome per le parti di primo attore. Prese in moglie certa Capra, comica assai più vecchia di lui, e non ebbe figliuoli.

Luigi Duse, del quale imprendo a parlare, nato a Chioggia il 15 gennaio 1792 da Natale e da Teresa Sambo in Parrocchia di S. Giacomo, aveva ottenuto, fatti gli studi liceali, un posto di alunno al Monte di Pietà. Impiegato effettivo dopo un triennio, restò ancor due anni nella nativa Chioggia, dopo i quali si trasferì a Padova per assumere a quel Monte di Pietà l’ufficio di Cassiere. La passione del teatro lo indusse a formare una Società Filodrammatica, di cui eran parte, fra gli altri, Giacomo Bonfìo, poi attore e scrittore drammatico, Antonio Calvi e Francesco Crescini ; e di cui egli fu l’anima, recitando con gran successo le parti principali nel Filippo e nella Malvina di Scribe, nella Teresa di Dumas, nel Benefattore e l’ Orfana, nell’ Incendiario, nei Trent’anni di vita di un giocatore. Recatasi a Padova la Compagnia di Angelo Rosa, il Duse (aveva già sposato una Elisabetta Barbini, padovana, e ne aveva avuto il figlio Eugenio), vi si scritturò in qualità di primo attore giovine per un triennio, formando poi la famosa compagnia (che dal suo nome s’intitolò Compagnia Duse), colla quale, a Padova specialmente e a Venezia, passò di trionfo in trionfo, sia per la prontezza dell’ingegno e i pregi artistici, sia per la fortuna che gli arrise sempre e dovunque. Creò, trascorso qualche anno, il Giacometto, giovialone veneziano, che egli incarnò stupendamente facendo smascellar dalle risa il pubblico, di cui egli era ormai il {p. 801}beniamino. Esordì sotto le spoglie della nova maschera (parrucca nera liscia con codino dritto all’ingiù, due segni neri alle sopracciglia, fazzoletto bianco al collo, giubba turchina, panciotto goldoniano a fiori, calzoni rossi, calze bianche, scarpe nere con fibbie) il 1832-33 al S. Benedetto di Venezia, oggi Rossini, nella commedia in tre atti di Giacomo Bonfìo – L’imbrogio delle tre mugier – la quale per gli equivoci e i sali {p. 802}comici ond’era piena, e per la maestria del Duse fu replicata ben quindici sere. A questa tenner dietro Gli Esposti, ovvero Sior Giacometto va con uno, torna con dò, e resta con tre, il Medico e la Morte e poche altre con cui egli finì la stagione di Carnevale fortunatissima. Nelle sere di riposo della Fenice, la più alta nobiltà accorreva in folla a rifarsi il sangue dal buon Giacometto ; e tanta fu la simpatia del pubblico di Venezia ch’egli vi fece quattordici stagioni di seguito, alcuna delle quali comprendeva autunno, carnevale e quaresima, con grave danno delle maggiori compagnie sulla Piazza, quali di Mascherpa con l’Adelaide Ristori, di Robotti, e la Reale Sarda. Nè il successo del Duse fu esclusivamente locale ; chè ugual fortuna l’accompagnò nelle principali città del Veneto, della Dalmazia, di Lombardia e di Romagna. Nel’46 risolse di far rivivere il teatro, più specialmente dialettale, di Goldoni, scegliendo a ciò attori provetti, e le commedie allestendo con minuziosità di particolari, e decenza e fedeltà di arredi, e interpretazione accurata, e recitazione viva e spontanea : e tanto vi riuscì, che la sua Compagnia si acquistò allora fama di Compagnia modello ; e le rappresentazioni della Casa Nova, delle Morbinose, delle Donne Gelose, del Campiello, del Maldicente, del Bugiardo, della Puta onorata, della Bona Mugier, del Ventaglio, del Sior Todero Brontolon, delle Done de Casa Soa, delle Baruffe Chiozzote, del Molière, dei Quattro Rusteghi, non ebbero più chi le superasse nè chi le uguagliasse. Venuta la rivoluzione del’48-49, accusato di avere in qualche sua recita a Padova alluso con motteggi all’eroica resistenza di Venezia, bloccata dall’Austria, trovò chiuse le porte di quei teatri che altra volta l’avean accolto con tanto entusiasmo ; il favore del pubblico finito. Accettò il Teatro Fedeli delle Zattere, ma anche là provò gli effetti tristissimi dell’infame calunnia. Perdè gran parte de’lucri di tant’anni per regger la Compagnia, finchè umiliato, accorato, dovè ritirarsi a Padova, ove morì d’idropisia il 25 gennaio del’54.

[n.p.][http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img091.jpg]

Una delle grandi prerogative di Luigi Duse, non più accordata, ch’io mi sappia, ad alcuno, fu quella di poter {p. 803}negl’intervalli della commedia, uscire alla ribalta a sipario calato, e vestito com’era del costume teatrale, discorrer degl’interessi di casa sua, ch’ei raccontava con una famigliarità e una comicità siffatta da far andare in visibilio il suo pubblico ; il quale anche, tal volta, sopperiva dicesi, lì per lì a’bisogni di lui, ora per soddisfare a quelli dello stomaco, il più spietato de’creditori, ora, ed eran le più volte, per pagargli una qualche cambiale alla vigilia della scadenza. Venezia e Padova erano ormai città sue ; il pubblico non diceva più di andare a sentir la Compagnia Duse ; ma a far visita all’amico Duse ; e anche sapendo che tutti i salmi finivan in gloria, e che la mano avrebbe dovuto correre al borsellino, pareva che gli mancasse qualcosa se non vedeva fuor del sipario il suo Giacometto. A lui fu per tal modo concesso dai padovani di erigere un teatro in legno, presso il Caffè Pedrocchi, detto allora Teatro Duse, di cui metto qui la riproduzione dell’interessantissimo sipario, il quale, oltre al comprender Luigi Duse nel suo costume, e gli altri di famiglia, l’Alceste sopr’a tutti, in quello de’personaggi nella Figlia del reggimento, dà anche una idea ben chiara di quel che fosse codesto teatro popolare, composto di tutta una famiglia, che viveva patriarcalmente, come non si potrebbe dire, e nella più perfetta delle armonie. Nè si limitò il Duse alla Recitazione del repertorio goldoniano ; chè in molti de’ drammi lacrimosi e degli scherzi comici del tempo, alcuni dei quali scritti a posta dallo Zanchi, dal Calderon, dalla Barluron, egli riusciva artista preclaro. La maschera del Giacometto, anzi, in questi impiegava più che nelle commedie di Goldoni. Amico intrinseco di Francesco Augusto Bon fu uno de’primi e più valorosi interpreti della sua Triologia di Ludro, e, contemporaneo di Gustavo Modena, ne faceva con gran successo la parodia, rivaleggiando con lui nel Gigi undese, ch’egli stesso aveva composto. Non sempre, specialmente a Padova, si pagava in danaro : questi recava un salame, e specialmente la studentesca, quegli un cappone, l’uno una resta di cipolle, l’altro altro, e sior Gigi bonariamente diceva : Porté, fioi, che {p. 804}tuto xe bon ! Curiosi erano i titoli ch’ei dava alle commedie, negl’inviti al pubblico per la sera successiva : Le done gelose de siora Lugrezia, che fa pegni in cale del Ridoto a sior Boldo orefese e a sior Todaro marzer a Rialto, Un gobo, do gobi, tre gobi, tuti gobi etc. etc.

Ma quei dialoghi a sipario calato, semplicioni, bonaccioni, senza una scurrilità, in cui è tanta affettuosa corrispondenza tra pubblico e attore ! !

(Terminata la Commedia)

Pubblico. Volèmo Gigi, volèmo Gigi Duse !… fòra, fòra !

Duse. So quà, so quà…. Cosa comàndeli da mi ?

Pubblico. (Da un palchetto). Che commedia se fa doman de sera ?

Duse. Doman de sera go preparà un bel pezo grosso che i resterà tuti contenti.

Pubblico. Cossa sèlo, cossa sèlo… ?

Duse. Sior Todaro Brontolon.

Pubblico. La xe vecia, la gavemo sentia.

Duse. Se vero, la xe vecia, ma mi doman de sera faxo un bel teatro perchè tanti desidera de sentirla ; e po mi me tegno al provverbio che dise : gallina vecia fa bon brodo : E i provverbi de rado sbaglia. Dunque me raccomando, ai so amisi i ghe diga che i vegna doman de sera che i starà allegri, e mi più di lori : dunque ghe auguro felisenotte, e buon riposo…. Adesso ghe faremo la farseta, e poi anderemo tuti in leto.

Pubblico. Bravo Gigi, bravo Gigi !.. ?

Un’altra sera :

Pubblico. Duse fora, fora Duse, volèmo Gigi.

Duse. (Dietro il sipario). Vegno, vegno subito. (Poi fuori). So qua a invitar sto cortese publico per doman de sera. Go preparà un lavoreto che ghe piaserà.

Pubblico. El sarà qualche pastiso.

Duse. Ah pian co’sto pastiso, perchè el xe un lavoro del nostro immortalissimo Carlo Goldoni, intitolato, La Bona Mugier ; e le commedie de Goldoni non le ga mai fato fiasco.

Pubblico. (Applaudendo). Bravo Gigi, bravo Gigi.

Duse. Dunque doman de sera li aspetto a teatro co le so muger, co le so fie, co le so cugine, co le so cognade, co le so serve, perchè quando vien le done, vien anca i omeni : dunque me raccomando a i me boni veneziani, i me vogla ben, e ghe auguro felisenotte. (Entra).

Pubblico. (Applaudendo). Fòra Duse, fòra Duse.

Duse. (Tornando). So qua, paroni. Lori i me ciama fòra, e mi doman de sera li ciamo dentro…. felisenotte. (Risa generali).

E un’altra sera :

Pubblico. Volemo Duse, fòra Gigi, Gigi fòra, fora.

Duse. Cosa vorli da mi ?

{p. 805}Pubblico. Cosa ghe xe de novo per doman ?

Duse. Ghe farò le Baruffe Chiossotte con una farsa del Giacometto.

Pubblico. Ben, bravo, bravo.

Duse. (Dopo un momento). Za che son quà vogio confidarghe un affar che me dà molto da pensar, e che me fa star de mal umor.

Pubblico. Cosa xe, cosa xe nato.

Duse. Mi ghe lo digo, ma me raccomando la segretezza, perchè se tratta d’una cosa seria.

Pubblico. Sentimo, sentimo.

Duse. Dopo doman me scade una cambial de 500 lire, e mi no so come far a pagarla ; e go paura che i me la protesta, e questo saria un bruto complimento per mi. Eh ! Cosa gogio da dir ! Go tuta sta zente qua de drio del sipario che i vol el spesato tute le matine, e no ghe xe miga discorsi : i vol magnar tuti i zorni. Mi proprio no so che santi ciamar. Però go pensà una cosa sta note quando giera in leto che no podeva dormir.

Pubblico. Sentimo, sentimo, sentimo.

Duse. Go pensà de far la me serata con la commedia intitolata Ludro e la so gran giornata ; e dopo la Commedia La cavalcata de sior Giacometto. Mi digo che no ghe xe altro per introitar un migliareto de lire. Cosi pago la cambiale, fazo bona figura col mio creditor, dago la paga a sti comisi che go da drio del sipario, e che i me sta sempre alle coste a domandarme soldi, posso portar allora la testa alta e fazo figura de galantomo. Ma per aver tuto questo ghe vol el consentimento de sto pubblico e dei me boni veneziani tanto boni e cortesi con mi. Dunque posso sperar che i vegnerà tuti alla mia serata ?

Pubblico. Si, si, si, si….

Duse. No me resta che vivamente ringraziarli, e dir : Viva Venezia e i so cittadini.

Pubblico. Evviva Luigi Duse, evviva, evviva.

Dall’avvocato Silvio Duse si sa (V. un art. di C. Bullo nella Scintilla, A. XI, 23-24) che andata la Ristori a Padova nel’53, Luigi Duse le manifestò il proposito di voler restaurare il teatro e intitolarlo col nome di Lei. Della qual cosa tanto si mostrò grata la somma artista che gli diè promessa di andar ella stessa ad inaugurar le recite. Ma la morte lo colse anzi tempo, e quel povero teatro, in cui il Duse aveva militato decorosamente e trionfalmente ventotto anni, sul cui frontone si leggeva : Al popolo Padovano consacrava Luigi Duse riconoscente, oggi, (perchè ?) è intitolato al nome di Giuseppe Garibaldi. Fu anche Luigi Duse, ci dice lo stesso nipote, gastronomo per eccellenza ; e « quando passava per le piazze era tutto un coro : Sior Luigi sta dindieta – sior Luigi, sti osei – sior Luigi sta bondola. Mangiava molto, forse avrebbe avuto più lunga vita, se più temperante ».

{p. 806}Egli lasciò quattro figliuoli : Eugenio, Giorgio, Alessandro, Enrico, che furon tutti artisti drammatici, e di cui verrò ora parlando.

Duse Eugenio, nato a Padova il 1816, troncò da giovanetto gli studi per viver con suo padre la vita della scena, alla quale non era chiamato. Stava alla porta e talvolta suggeriva ; talvolta anche recitava parti di niun conto. Sposò Cecilia Bellotti, artista drammatica, oggi in compagnia della nipote Italia Vitaliani, e morì a Udine il 18 gennaio del 1878, lasciando due figli.

Duse Giorgio, nato il ’19, ereditò dal padre la verità e spontaneità della dizione, e la ricchezza della viscomica. Fu come lui valoroso interprete delle commedie goldoniane, e come lui grandissimo nelle parti di mammo in genere e di Giacometto in ispecie, che recitava già vivente il padre, sostenendo con gran successo al suo fianco uno dei Due Giacometti nella commedia omonima. Prese alla morte del padre le redini della compagnia, egli seppe colla sua sagacia di conduttore e la sua valentìa di maestro e attore, serbarle il bel nome che s’era a ragione acquistato. Fu ai Filodrammatici e all’ Armonia di Trieste, al Re Vecchio di Milano, al Corso di Bologna e ne’teatri principali di Padova, Brescia, Venezia, Verona, Trento e Ferrara, in cui si recò sempre nelle stagioni migliori. I suoi comici, atti a recitare così in dialetto come in italiano, viventi in fraterno accordo molti anni, costituivano per l’armonia dell’insieme un modello di compagnia, che aveva la maggior larghezza di repertorio, dacchè recitava tragedie e {p. 807}drammi lacrimosi e commedie goldoniane e farse e operette, come ad esempio, la Figlia del reggimento, in cui la moglie di Giorgio specialmente, l’Alceste Maggi, s’acquistò fama di attrice insuperata.

Morì improvvisamente a Chioggia nel ’61, colpito da apoplessia in teatro. Era una domenica d’estate, e s’era già rappresentato di giorno il Campanaro di Londra. La sera si rappresentava il Nuovo Caino ; e Cecilia Duse, la moglie di Eugenio, prima attrice giovane della Compagnia, doveva trascinarsi in scena, svenuta, sorretta da Giorgio. A un tratto egli, come quasi celiando, le disse piano : « A momenti ve casco adosso ! » Furon le sue ultime parole. Spirò, la notte, nel suo letto accanto alla moglie senza far motto.

Duse Alessandro. Nato a Chioggia, mostrò sin da giovinetto una chiara attitudine alla pittura che coltivò finchè potè e come potè, però che il padre, desideroso di aver tutti con sè i propri figliuoli, lo tolse agli studi, incorporandolo nell’artistica famiglia come primo attore ; il qual ruolo mantenne anche dopo la morte del padre in Compagnia dei fratelli. Sposò una Angelica Cappeletto, vicentina, e n’ebbe una figliuola : Eleonora. Toltosi dal teatro e stabilitosi a Venezia, passò gli ultimi suoi anni nelle sale dell’Accademia, e tra’monumenti, che egli riproduceva con assai gusto, realizzando in parte il sogno di tutta la sua vita. Fu, dice il nipote Silvio di Padova, amato sopra tutti per la gentilezza dell’animo suo ; mori a Venezia l’Il gennaio del ’92 a settantadue anni.

Duse Enrico. L’ultimo de’ figli di Luigi Duse, nato a Venezia a San Luca, e il migliore di tutti per le parti {p. 808}drammatiche, fu primo attor giovane in Compagnia del padre, poi in quella di Pisenti, Miutti e Mazzola, poi, per un triennio, in quella di Toselli. Tornato in famiglia, sostenne per alcun tempo lo stesso ruolo nella Compagnia dei fratelli, passando poi primo attore assoluto, ora in una società formata col Pompili, ora in Compagnia propria. Lasciato da dieci anni il capo comicato, si aggregò alla Compagnia della nipote Elisa, figliuola di Giorgio, e moglie di Vitaliano Vitaliani, in cui sostiene anch’oggi il ruolo di caratterista.

Duse Luigi. Figlio maggiore di Eugenio e Cecilia, nacque in Asolo trevisano il 16 ottobre del 1857. Stette colla famiglia sino ai quindici anni, poi iniziò la lunga serie delle scritture con quella di secondo amoroso in compagnia dello zio Enrico. Quale odissea ! Quante volte il povero artista passò dalla polvere all’altare ! Prima amoroso, poi generico primario, poi ultimo generico, poi primo attore, poi di nuovo generico ! Fu il’76 e ’77 con Giacinta Pezzana, l’ 84 con Adelaide Tessero, l’89 con Ernesto Rossi, e divise il solo ’78 con sette compagnie, nelle quali tutto sommato, non arrivò ad aver di paga giornaliera cinquanta centesimi ! A Trieste rasentò la celebrità ; ma dovè tornare addietro d’un passo, agli applausi vivi del pubblico troppo contrastando l’esiguità della cassetta. Vide l’America, la Russia, l’Egitto ; e vide, ahimè, i più riposti angoli d’Italia. Fu scritturato, capocomico, or solo ora in società, ed anche impresario d’opere ! Oggi, padre di quattro figliuoli, ha dovuto assumere l’ufficio di amministratore in Compagnia di sua cugina Italia Vitaliani.

Duse-Delfini Vittorina. Figlia di un apparator teatrale, e moglie del precedente, che sposò a sedici anni nel 1883, {p. 809}scritturandosi con Ettore Dondini in qualità di seconda amorosa. Dopo di essere stata seconda donna, prima attrice giovane e prima attrice, in compagnia del marito, cui tutta è legata la sua vita artistica, e con cui sempre divise ansie e dolori, privazioni e soddisfazioni, andò quest’ anno a far parte della Compagnia Vitaliani, quale seconda donna e prima dopo la scelta di lei.

Duse Carlo. Altro figlio di Eugenio e Cecilia, nato a Gallarate nel 1866, trascorse i primi anni in Compagnia Benini-Sambo, scritturandosi poi l’ 81 collo zio Enrico ; dal quale passò or generico primario, or brillante, or primo attore, or caratterista, con Schiavoni e Micheletti, con Zago, Borisi e Gallina, colla Tessero, col fratello Luigi, con Ernesto Rossi, con Zago e Privato, con Valenti e con Raspantini. Carlo Duse, attore accurato, coscienzioso oltre ogni dire, reciti parti comiche o drammatiche, da giovane o da vecchio, in dialetto veneto o in italiano, sa coprir sempre il suo posto con la massima delle dignità.

Duse-Maggi Alceste, torinese, fu moglie di Giorgio Duse, e attrice di gran nome per le parti di prima donna dialettali e italiane, comiche e drammatiche, destando il più schietto entusiasmo nelle commedie La Figlia del reggimento, La bona Mare, La Puta onorata, La bona Muggier, Il Campielo, La casa nova, e in altre più del repertorio goldoniano, in cui non ebbe chi le stesse a fronte, di tra le quali, ogni tanto, faceva capolino anche il drammone, come la Suor Teresa, o L’Indovina ebrea, che ella recitava se non con ugual maestria, certo con successo uguale. L’Alceste Duse, che alle doti artistiche accoppiava un fisico attraentissimo, morì d’improvviso a Rovereto nel ’62 a soli trentotto anni.

{p. 810}Duse-Vitaliani Elisa. Figlia della precedente e di Giorgio Duse, nacque a Padova il 1849. Fu i primi anni colla nonna Elisa Barbini, poi, morti i genitori, or collo zio Alessandro, or collo zio Eugenio in Compagnia Zocchi, ove cominciò a recitar qualche piccola parte. Il carnovale del ’65, a soli quindici anni, sposò l’artista Vitaliano Vitaliani, primo attor giovine della Compagnia Zocchi, col quale fu poi con l’Ajudi, col Sivori, collo Stacchini, colla Pedretti, con Barnato e Branchi, e dal quale ebbe una figlia : l’Italia. Venuta questa grandicella, e mostrate chiare attitudini all’arte, dovè l’Elisa dividersi dal marito (che seguiva la figlia, scritturata nella Compagnia Ceresa e Cuniberti) formando una piccola compagnia col figlio del capocomico Barnato. Compagnia che conduce tuttavia, e che le permise ognora di mantener con decorosa modestia la numerosa famiglia.

Duse Eleonora. Figlia di Alessandro e di Angelica Copelletti di Vicenza, nacque il 3 ottobre del 1859, e fu battezzata a Vigevano. La sua infanzia fu un succedersi continuo di patimenti. Come tutti i figliuoli d’arte, anche essa apparve al lume della ribalta, non a pena le fu dato di reggersi in piedi e di balbettar due parole, sostenendo a quattr’anni la parte di Cosette nei Miserabili. Il ’63-’64 era ai Filodrammatici di Trieste ultima per le parti ingenue nell’elenco della Compagnia Duse Lagunaz, di cui era direttore Luigi Aliprandi e amorosa la Celestina {p. 811}Paladini, oggi Paladini-Andò. Poco resta da dire intorno alla fanciullezza di Eleonora Duse, dopo il magistrale articolo del conte Giuseppe Primoli (La Revue de Paris, I giugno ’97) che, a proposito di lei a punto, può ben chiamarsi il grande amba sciatore dell’arte italiana a Parigi. Aggiungerò solo che una volta, passando in rivista le origini de’ nostri artisti, ella mi raccontò come, giovinetta, si recasse giornalmente a trovar la mamma relegata in fondo a un letto d’ospedale ; e là mangiasse, quasi di soppiatto, la metà della zuppa, che a lei serbavan l’affezione e la pietà materna. Aveva quattordici anni, quando le morì la madre ; e cominciava già a farsi notare in alcune parti per un suo singolar modo di recitare ; ma dominava in lei una specie di sfiaccolamento, che la mostrava annoiata, quasi nauseata della vita. L’occhio pareva perdersi talvolta nello spazio vagamente, indefinitamente ; tal volta invece, pareva ch’ ella guardasse innanzi a sè e sopra di sè, come in aspettazione di qualcosa di alto, che non sapeva ben definire, ma di cui presentiva l’arrivo.

Cresciuta dunque nella miseria più squallida, priva fin anco dei pochi soldi bastevoli a gittarle addosso un cencio nero in memoria della madre morta, andata guitteggiando tutta la fanciullezza come una bimba di zingari, quale educazione intellettuale poteva andarsi formando ? Quella che le veniva dalle parti che recitava svogliatamente, quasi addormentatamente ; massa inerte, aspettante, come s’è detto, il soffio vitale.

Ma il fuoco che le serpeva lento, lento, quasi inavvertito nelle vene, non doveva divampare in incendio al contatto della scintilla, sibbene svilupparsi per gradi, alimentato dalla fiamma latente del genio, che aveva pur dato sprazzi e bagliori o non visti o non curati. Il primo accenno alla vita vissuta dell’arte {p. 812}Eleonora Duse diede a Verona colla Giulietta di Shakspeare, palesando con una fine trovata di rose, che il Primoli artisticamente illustrò nel citato articolo (pagine 492-493), quella forza di osservazione che doveva trasportarla più tardi a sì alte sfere.

A Napoli, nel ’79, dopo di essere già stata il ’75 e ’76 con Icilio Brunetti (V.), il ’77-’78 con Ettore Dondini e Adolfo Drago, e il ’78-’79 con Ciotti e Belli-Blanes, sostenendo le parti di amorosa or con la Piamonti, or con la Pasquali che tal volta sostituì nelle parti di prima attrice, si faceva notare al fianco della Pezzana, del Majeroni, di Emanuel, per la spontaneità e sincerità della dizione, per la intelligenza artistica educata e carezzata. In una recita dell’Oreste e dell’Amleto fu una Elettra sorprendente e una sorprendente Ofelia ; ma dove assurse ad altezze non immaginate si fu nella Teresa Raquin dello Zola. Questa commedia, per la quale la giovane Eleonora fu tenuta, si può dire, al fonte battesimale dalla Giacinta Pezzana, che soccorse la nuova stella saliente di forti consigli, e le trasfuse la sacra fiamma dell’arte, questa commedia, dico, segnò un gran passo avanti nella via della sua grandezza. Seconda donna con Cesare Rossi, poi con lui prima, visse in pochi anni tutta una vita di trionfi e di glorie.

Ma fu la venuta a Torino di Sarah Bernhardt, che affermò, se non completò, la trasformazione artistica della Duse. Veneratrice, più che ammiratrice di lei, anzichè piegare il capo sbaldanzita innanzi a tanta grandezza, si levò da questa rinvigorita, colla coscienza intera delle sue forze ; e si mostrò, sfidatrice animosa, nella Principessa di Bagdad di assai dubbia riuscita, salendo a tal grado di arte da soggiogare quel pubblico ch’ era ancor tutto pieno del gran fascino della partita. {p. 813}Al trionfo della Bagdad tenner dietro quelli della Moglie di Claudio e della Dionisia e della Francillon…. e di tutto ciò ch’ella rappresentava.

Si disse che nella Duse era da notarsi una particolare attitudine alla rappresentazione di quei lavori in cui dominasse il temperamento isterico…. Vero. Il che non impedì ch’ella fosse grande in ogni carattere. Odette, Amore senza stima, la Locandiera, Cavalleria rusticana, Fedora, Casa di bambola, Casa paterna, la Signora dalle Camelie, d’indole così disparata, ebber tutte, e molte di esse hanno ancora la più gagliarda e più vera delle interpretazioni.

Un lavoro nelle sue mani, per vecchio ch’ei sia, si trasforma ; riceve nuovo alito di vita. A volte si è piaciuta d’ingaggiar battaglia col pubblico, esumando lavori ardui che a niuna artista bastò l’animo di rendere accettabili ; e la battaglia fu vinta ; e la Moglie di Claudio di Dumas passeggiò, e passeggia trionfale sulle scene dei teatri italiani e forastieri. Perchè ?

La signora Duse ha una recitazione tutta sua propria, piena di originalità e di colore individuale, che pare negletta, ed è studiata, che sembra faticosa ed è spontanea, che non stupisce e non colpisce per l’uso e l’abuso dei grandi mezzi, ma seduce, incanta, trascina per un certo profumo di verità, per un fascino sottile di naturalezza, per un fremito di passione che sgorga, irrompe e si propaga rapidamente nella massa degli spettatori. I più freddi si sentono correre ad un tratto la vampa dell’odio o la fiamma dell’amore per tutte le vene, i più infingardi, i più restii provano quell’inquietudine, quella smania, quella agitazione che li strappa alla loro apatia abituale, e li travolge palpitanti e affannosi nelle peripezie dell’azione drammatica.

Eccolo un perchè, dato or son già molti anni dal critico Yorick. Ma ve n’ha un altro più forte ancora, quello che determina la grandezza vera della Duse ; dietro a cui si affannarono invano, partite da un falso cammino, gran parte delle attrici d’Italia.

Venuta la stella in altissimo grido, gli astri minori, un po’ per vanità, un po’ per anelito di maggior fama, si credettero in dovere d’imitarla. In che ? Naturalmente, non avendo nè l’ingegno di lei, nè, come lei, la volontà di darsi anima e corpo allo studio, fecer consistere l’imitazione in tutto {p. 814}l’esteriore dell’attrice : la rapidità della dizione e del gesto, l’abbandono della persona, il correr delle mani ai capelli, l’abuso degli ah, degli oh, dei ma…. strascicati, nasali, le alzate in punta di piedi, e altrettali cose, che se, per essere spontanee, non segnaron nella Duse un gran difetto, non furon quelle nè meno da doversi prendere a modello per uno sperato progredir nell’arte. Anche gli spadini ch’ella soleva portar ne’capelli entraron per alcun tempo nel materiale d’imitazione, o, meglio, di ridicola contraffazione.

Ma i grandi pregi della Duse non furon mai in un discorso accarezzato, miniato, scivolato, precipitato con finale a effetti, non nel dondolio delle braccia, non nello strascichio della persona. I pregi della Duse, quelli che la elevaron dalla comune, eran nella compenetrabilità del tipo, nella minuziosità di osservazione di tutto quello che lo circondava, che lo faceva vivere e palpitare : non lo studio soltanto di quel che era in una parte, ma, e soprattutto, di quel che non c’era. La grandezza della Duse era tutta grandezza di analisi, che sfuggiva all’occhio e alla mente dello spettatore, perchè l’arte era sempre soccorsa dalla natura, e questa da quella…. Per modo che in questa fusione, generata dal più profondo e più sottile degli studi, egli non vedesse che una parte, quella della natura, viva, parlante, palpitante, dalla quale si trovava soggiogato, perchè sentiva di vivere, parlare e palpitare con lei. E finalmente : la grandezza grande della Duse era nell’eloquenza di uno sguardo, nell’ intonazione di una parola, in un gesto, in una pausa, che fu sempre il maggiore e miglior patrimonio degli artisti più celebri, da cui il pubblico era trascinato di sorpresa. E si è nella grande armonia di questo studio perfezionato di analisi, congiunto a un perfezionato studio di finezza e naturalezza ineffabili della dizione, ch’ ella si mostra oggi agli occhi de’ più ritrosi artista suprema.

Passata la Compagnia di Cesare Rossi a Firenze, i trionfi si rinnovarono. Io dettava allora le appendici drammatiche sul Fieramosca, e il 5 luglio dell’ ’82, a proposito della {p. 815}rappresentazione di Frou-Frou, della quale era ancor vivo nel popolo fiorentino l’entusiasmo suscitato dalla Bernhardt, pubblicavo :

Da un gran pezzo in qua non m’era accaduto di notare sul nostro teatro di prosa certi sgattajolamenti nervosi, certi contorcimenti serpentini, certi sfiaccolamenti veri, sentiti. La Duse è una gentile figura d’artista. A volte ha il passo lento della Bernhardt : pare strascichi a stento su la scena quel suo corpicino snello, vaporoso ; a volte ricorda in una smorzatura di voce la Désclée. Io che ho ammirato sinceramente, e sinceramente ammiro altri artisti maschi e femine del nostro teatro di prosa per la loro maniera schietta di porgere senza avviluppamenti accademici, non so, mi trovo inceppato a parlare della verità di questa piccola fata.

Gli artisti nostri che recitano con verità si somigliano : la Duse è vera, ma fa razza da sè. Come si spiega ? La verità è una !… Dunque ? Chi lo sa ! È una donna che ha la linea, ecco tutto. Un po’ francese, un po’ italiana ; slancio italiano ed eleganza francese. Precipitosa e chiara nella dizione, morbidissima nel gesto, senza alti e bassi convenzionali, più che con un discorso, strappa l’applauso con un oh !, con un ah !…

E il 19 dello stesso mese, a proposito della Signora dalle Camelie :

Quello che in genere è ammirevole nella signora Duse è il concetto che ella si va formando sempre nuovo delle parti che ella rappresenta ; è la maniera sempre nuova di esecuzione ; è l’odio manifesto a tuttociò che può farle acquistare una lode bugiarda, momentanea. Non l’odio all’applauso, badiamo : l’applauso non ha mai fatto male ad alcun attore ; ma l’odio ai mezzucci volgari per istrapparlo.

E a queste lodi schiettissime faceva seguire schiettissime osservazioni, per le quali m’ebbi a fin di stagione dalla eletta artista il ritratto che qui riproduco, con dietro queste parole : A chi m’incoraggia – A chi mi dice il vero, correggendomi – A chi mi analizza…. – A chi conosco e ricordo come compagno d’arte – A persona che stimo. – E. Duse.

Parole, che se rappresentano un mio legittimo orgoglio, rappresentano anche, e soprattutto, la modestia grande con cui la già grande artista accoglieva quelle osservazioni. E a questo sentimento di modestia Eleonora Duse deve la perseveranza nello studio, che, arrotondando e perfezionando la sua natura d’artista, la collocò sul piedistallo {p. 816}di gloria, in cui oggi si trova : natura d’artista che traspariva tutta, anche fuor di scena, ne’ gesti, nelle parole, negli scritti.

Ad un direttor di giornale, per un articolo che la portava alle stelle scriveva :

(Debbo la comunicazione di queste lettere alla cortesia del collettore milanese d’autografi Carlo Vanbianchi).

Dunque…. Eleonora Duse è proprio la beata fra i beati, nel migliore dei mondi possibili, secondo ciò che annunzia l’egregio Suo…. E così sia ! — Amen ! — Sono anch’io un poco come quel tale, che finiva per essere sempre dell’opinione dell’ultimo che parlava, e per prova, mentre Le scrivo, mi si dice che al Teatro Milanese c’è modo di passare nna serata come nel migliore dei mondi possibili — e io ci credo — senza discutere — e ci vado — senza entusiasmo e senza resistenza. È il segreto dei deboli — questo ! Così si rimane ragionevolmente, nel mondo ragionevole, e a sfera umana…. che non è quello di…., che, secondo me, vede cose e persone più in su del vero.

A un giovane autore che pare le si mostrasse in una lettera pien di amarezze rispondeva :

Che benedetto ragazzo che siete !… Se la gente v’attacca e v’annoia, lasciateli dire e fate la strada vostra. Se dicessero (e vedrete che tanto dà loro noia il successo che lo diranno) se dicessero che la commedia non vale un soldo, che talento in zucca non ne avete…. e voi lasciateli dire. Da che mondo è mondo, ne han dette delle assai più grosse a gente che vi valeva. Fate la vostra strada, senza voltarvi indietro.

Se poi la smontatura che traspare dalla vostra lettera, è dovuta ad altre cause — forse troppo intime — « benedetto ragazzo che siete » con tutto il bene bono che vi voglio mi permetto di dorlotarvi con queste parole : fate quello che credete sia un dovere di fare e lasciate fare al tempo. È il tempo che fa e disfà per tutti. Createvi dei pensieri buoni, e non accoratevi per l’oggi e pel domani. « L’ingegno è una cosa vivente » dice quell’attossicante del vostro Bourget : ebbene. Salvatelo e schivatelo da qualunque scossa violenta che potrebbe rallentarvi l’andare. Pensate a concludere del lavoro — ecco tutto.

Il 16 giugno dell’ ’83 scriveva da Bologna all’incomparabile amico Antonio Fiacchi, il Piccolet allora del Piccolo Faust :

È sempre cosa gradita alla nostra vanità – o meglio alla nostra fibra – il non vedersi sconosciuti nel mondo ove viviamo – e per quanto io cerchi isolarmi – non lusingandomi troppo – nè degli elogi – nè delle affascinanti profezie sul mio conto – pure – una parola – una approvazione intelligente – mi rimettono in cammino con più lena – e con un coraggio che non è senza fiducia.

Ho molti anni ancora di carriera…. e non ho che uno scopo. – Vi riescirò ? Certo la febbre è forte – e non mi sento impotente a lottare.

E il 28 ottobre dello stesso anno allo stesso Fiacchi, da Roma :

L’ammalata – che pazientemente avete visitata ogni sera – è guarita – ma quando si ha sofferto non si dimentica – e io non dimentico che ho passato delle ore buone con voi.

{p. 817}Sono al lavoro da un mese e mezzo – e vi assicuro che il beato ozio – e benefico – di Bocca d’Arno – l’ho ben scontato. Ora sto per partire – e vi scrivo – cosa che non ho fatto arrivando, perchè ero tremante, e avevo paura. – Avevo paura, non ve lo nascondo. – Che volete…. io sono ancora impressionabile…. e l’ambiente può tanto sopra di me. – Lontana dal teatro – dalla famiglia artistica, sola – lungo il mare – che ne fa tanto capire la nostra piccolezza, mi pareva che non avrei più saputo rendere l’espressione d’un’arte – che ha qualche volta delle ritrosie, dei silensi così penosi…. per me !…

Ma…. in somma – eccomi qui di nuovo. – Ho avuto un buon successo – e l’animo e la testa sono rimasti tranquilli. Ho ritrovato nella nota gaja del successo – solamente – una serenità – che mi promette bene per l’avvenire. – Voi mi capite, non è vero ?

Ma quanta soavità di poesia fortemente sentita e semplicemente resa, in questi altri brani che traggo come quelli dalle lettere al Fiacchi !!

Il 25 marzo ’84 da Trieste :

…… Il sole è ritornato e la primavera è per la povera umanità. – Ho ripreso la vita attiva – e al mattino – via di buon’ ora – lunghe e brevi ore – al mare – in mare – una buona barca – una vela – e via a respirare l’aria che purifica anima e corpo. – Mi trovo così bene a Trieste ! Già io adoro i paesi di mare……

Il 19 luglio ’84 dalla montagna (Brozzo – Ivrea) :

…… Da quest’altezza…. modesta e pur considerevole (900 metri) – da questo profumo – l’odore puro, direi immacolato della montagna, da questo verde che riposa l’occhio irritato dalla luce del gas della città – da quest’aria che rimette a nuovo i polmoni affaticati – e calma le febbri sorde che dà il contatto con la città…. mi sento rinascere – buona – senza pretesa – con poche vesti, con pochi quattrini – con molte idee – con molto senso di pietà e di perdono – verso tutto quello che ci turba e ci profana……

Il 23 luglio dell’ ’86 da Varazze :

…… eccomi qua – con una mano scrivendo, e con l’altra dando giocattoli a una bella piccina – di cui non sono la mamma che a certe ore, mentre per il più della giornata, io faccio il possibile per essere bambina…. creatura di pochi anni e di molto sorriso, come lei.

È questa la sola cosa, nella mia vita, che non mi è costata nè studio, nè fatica, nè sforzo sopra la mia volontà. È calcolabile !

Mi son rincantucciata in una piccola, piccolissima casa – vera bóite rossa a persiane verdi – d’innanzi a un mare…. grande e inesplicabile. Viene il giorno…. viene la sera – e poi di nuovo – la sera – e poi di nuovo – il giorno – una piccola ruota – sotto il gran regolatore del sole – che non si sposta – che non mi sposta. Che gran silenzio ! Delle cicale – una superba pianta d’ uva attorno alla finestra – delle bambole zoppe – e dei cavallucci senza sella e senza redini…. Dei cibi sani – non pianoforte, nessuna musica della terra – nessun giornale – un piccolo frate che ogni giorno arriva scalzo e colla barba bianca per la piccola questua….

Eccovi la mia giornata !… La mia salute progredisce, e il petto non mi duole – non sento più quell’arsura, che mi troncava la voce e la parola recitando.

Insomma, una grande pace nello spirito – un gran sorriso – per Lei – la piccina mia – e un benessere assoluto del mio fisico, che cominciava a tarlarsi alla radice. – Ecco tutto.

{p. 818}Parole che mostran chiara la dolcezza della sua indole, e la vivacità del suo ingegno. In quella maniera di scrivere era qualcosa della sua recitazione. Volesse punzecchiare, o celiare, o rampognare, o poetare, la nota aristocratica, nota individuale sempre, era la dominante. Altra volta scrisse a proposito di una prossima tappa di Spagna :

Se posso guadagnare dei quattrini — quattro o cinque mila lire proprio per me, allora — Tombola ! — Andrò a Parigi — e se al mio ritorno non troverete in me tutte le qualità accademiche dell’arte e del bel mondo — vorrà dire che sarò abbrutita del tutto ! — Credo che dell’abbrutimento presente non faccia bisogno che io ne dia conferma. Sono intontonita esattamente, e non so se sia effetto di chinino !

Ma nella marcia trionfale attraverso il mondo, la tappa di Parigi fu sempre lontana troppo. È oggi soltanto che Eleonora Duse ha potuto, o voluto dar vita alla sua prima e suprema visione d’artista : e di mezzo alle discussioni più o meno composte, ai giudizi più o meno sereni, ai pettegolezzi, alle stupidaggini, ha finito col levarsi gigante, convertendo i più reluttanti, i quali speraron financo dalla recitazione spontanea della nuova arrivata una provvida influenza sulla recitazione accademica delle loro stelle ; come, a un dipresso, quarantaquattro anni a dietro, la recitazione gagliarda e viva della Ristori aveva influito, scrissero, su quella della Rachel. E agli applausi della Renaissance tenner dietro quelli della Comédie Française, dove, per l’addio di Susanna Reichenberg, recitò in italiano e con attori italiani (onore se non nuovo per l’arte nostra, de’più rari certo) l’ultimo atto dell’Adriana Lecouvreur.

Nel Capitolo della mia Arte del comico (Milano, 1890) si trova scritto a pagina 215 :

Nè qui posso tralasciar di ricorrere colla mente e rammentare a’ miei giovani lettori la fisionomia di Eleonora Duse. Quale mobilità in ogni tratto ! Ella possiede al sommo la faccia che noi vediamo il più spesso nelle malattie generali del sistema nervoso, e, particolarmente, nelle grandi nevrosi : la faccia convulsiva ! L’occhio è agitato da tremiti impercettibili, e si reca rapidamente in direzioni opposte ; le guance passano con incredibile rapidità dal rossore al pallore – le narici e le labbra fremono ; i denti si serrano con violenza, e ogni più piccola parte del volto è in movimento…. La persona poi, a significar ben compiuta la espressione del tipo, abbia essa guizzi serpentini, o abbandoni profondi, risponde perfettamente coll’azione e contrazione delle braccia, delle mani, delle dita, del busto, all’azione e contrazione del volto…. È perciò forse che la grande artista riesce oggi insuperabile nella presentazione de’ personaggi a temperamento isterico.

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{p. 820}Parole che su per giù si posson ripetere oggi che la Eleonora Duse afferra e soggioga i pubblici di ogni paese, a’ quali, per nove decimi, la lingua italiana è straniera.

A una rappresentazione del Chat noir di Parigi nel Casino-Théatre della Chaux-de-Fonds, entrai nel camerino di Grenet-Dancourt, il gentile poeta e amabile monologhista, che aveva recitato alcuni de’suoi versi più caldi ; e venuti a parlar della Duse, del suo legittimo trionfo di Parigi e della probabilità di un suo ritorno per recitarvi in francese, « ma non ne ha bisogno – rispose candidamente il Dancourt – ella si fa ben capire colla potenza dell’espressione. »

Ciò che vi ha di veramente ammirevole nell’attrice, si è la trasformazione successiva in emozioni diverse che la sua maschera rende così bene, e che ben si comprendono senza alcun soccorso del testo.

Questo scrisse il Duquesnel nel Gaulois dell’ 8 giugno ’97 dopo la recita della Magda di Sudermann ; e a ragione : poichè nessuna attrice possedè mai tanta mobilità di fisionomia, che è uno de’più rari pregi dell’artista drammatico. Guardatela bene in questi ritratti, e vi troverete l’espressione dell’odio, dell’amore, del dolore, dell’abbandono, del piacere, della vanità, dell’orgoglio, del dispetto, del disprezzo, del terrore, del furore, della corbellatura, della rassegnazione, tutta la gamma in somma delle passioni umane, e il più efficace forse e compiuto commento alle opere fisiognonomiche del Lebrun, del Lavater, del Lagrange e del Darwin.

E come varia l’età sua nel variare de’ sentimenti ! Qua tu la vedi fiorente di giovinezza e di salute, là, emaciata dal dolore, appare una donna di cinquant’anni, qui addirittura una monella da scapaccioni !!!!!

E Franz Lenbach, racconta il Primoli (op. cit.), che si divertiva a fissar le diverse espressioni ch’ egli coglieva a volo in teatro sul volto della Duse, aveva tappezzato il suo studio a Palazzo Borghese di trenta schizzi che personificavano i diversi moti dell’anima umana, uno dei quali io metto qui, a mio parere il migliore.

{p. 821}[http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img102.jpg]

I giudizi sulla grande artista di Rochefort, di Lemêtre, di Duquesnel, di Panzacchi, della Serao, di Boutet, di Piccini, di tutta la stampa italiana e forastiera, sono altrettanti cantici che non morranno forse : ma il monumento di gloria le venne certo da A. Dumas figlio che in una nota alla Moglie di Claudio e nell’incomparabile preludio alla Principessa di Bagdad ha parole di ammirazione e di gratitudine profonda per l’intelletto eccezionale di lei, che, più che interprete fedele, fu, nella Bagdad specialmente, maravigliosa collaboratrice.

Nè il grande successo ella ottenne a Parigi soltanto dinnanzi al grande pubblico de’ teatri con lavoro francese, ma, e il più grande forse, dinnanzi a un pubblico tutto d’artisti e con lavoro italiano.

{p. 822}Mette bene il conto che io qui riferisca, a proposito della Cavalleria rusticana, le parole di Giulio Huret, apparse il 4 luglio ’97 nel Figaro, dopo la rappresentazione straordinaria della Porte Saint-Martin :

Sin dalla prima scena, afferrati dalla espressione di dolore, dall’andatura disperatamente sfiaccolata di Santuzza, quelli delle poltrone applaudirono…. Indi, a ogni minuto del breve dramma italiano, questa sala di specialisti, conoscitori di tutti i segreti dell’arte, questa sala di tecnici perspicaci, di osservatori lucidi, sottolinearon con dei bravo ogni intonazione giusta, ogni moto perfetto, ogni sguardo eloquente della grande artista. Di scena in scena l’entusiasmo aumenta, circolano mormorii discreti, coi quali si propaga l’ammirazione collettiva, e l’atmosfera della sala è creata, la battaglia è vinta, ahi troppo presto pei miei gusti battaglieri, in tempo appunto perchè la bellezza di questa sala fosse completa e pura. Dacchè si poteva notar colà un fenomeno maraviglioso e miracoloso delle forze e della nobiltà dell’ arte vera. Ciò che quella accolta di artisti applaudiva unanime, frenetica, non era soltanto quel ch’essa coglieva del genio della Duse ; quei brava non significavan soltanto l’elogio di compagni d’arte competenti, scossi dalla traduzione sintetica di una vita di emozioni, di dolori, di amore il cui compendio palpitava dinnanzi a loro : quegli applausi andavan più lontano. Essi eran la traduzione incosciente, impulsiva del loro amore per la loro arte, era tutto un omaggio di commozione che mandava oltre l’artista di passaggio, era il loro ideale ch’essi salutavano, era la loro arte nobilitata, dinnanzi alla quale si sentivan fatti più grandi essi stessi, e la quale dava loro tanto orgoglio ! Egli è veramente questo sentimento di gratitudine che ha dovuto provare la Duse, quando a lei saliva il proromper continuo delle ovazioni.

Tra le poesie ch’ella inspirò, non dispiacerà al lettore che io metta qui i quattro sonetti che la Contessa Lara pubblicò nel Corriere di Roma del 26 dicembre ’85, tutto in onore di lei, a illustrazione della Moglie di Claudio, degl ’Innamorati, della Teodora, della Fedora.

MOGLIE DI CLAUDIO – Atto IV

Arrovesciato è il corpo, e par di cera
la faccia aguzza : un rosso fil sottile
solca il velluto de la veste nera :
fuma per terra ancor caldo il fucile.
Senz’ amor, come Satana, chimera
de ’l male, ella passava entro un febbrile
soffio di colpa, or procellosa e fiera,
or supplice e sommessa : e sempre vile !

[n.p.][http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img104.jpg]

{p. 824}Fin che a ’l tradito che pur cerca oblio
ne ’l segreto de ’l genio, a ’l saggio, a ’l buono,
a l’uom che parla ne la notte a Dio,
una voce comanda, alta, possente :
— Non più per la rea femina perdono :
uccidila, lo devi. Ell’ è il serpente.

GL’INNAMORATI – Atto II

S’affaccia su ’l balcone, la testa incipriata
scrolla, si morde i labbri ; quindi siede e ricama.
Dunque ei non torna, a ’l solito, pentito ? Oh, la serata
burrascosa di jeri !… Meglio !… Forse non l’ama
più nè pur essa !… — Ei giunge. Fra lieta e corrucciata
or la coppia sorride : ma ben presto richiama
qualche pensier sofistico : da capo una scenata,
pianti, ripicchi, — Adori il conte ! — E tu la dama ! —
Così di baci e sgraffi l’amor vive. L’amore !
Che scorno a la ragione ! Ma negarlo chi osa,
o signori irritanti, o isteriche signore ?
In questa eterna e breve, comica e dolorosa
vita, è vano combattere : non v’ha male migliore….
fin che il demonio, stanco, non inventi altra cosa.

TEODORA – Quadro VI

Sotto un arco di marmo a fondi d’oro,
snella ed eretta come giovin tiglio
ecco l’Augusta, ne ’l manto vermiglio
istoriato con sottil lavoro.
Su le tempie e su ’l petto ampio tesoro
di gemme le sfavilla : uno smaniglio
serpeggia a i polsi. Ella con fiero ciglio
guarda le donne salutanti in coro,
e i vescovi canuti ad un segnale
curvi dinanzi a lei, mentre la nota
de’liturgici canti empie le sale.
E dietro il volo de le brame audaci,
rigida, aspetta l’ ora in cui la scuota
fragor di circo o mormorio di baci.

{p. 825}FEDORA – Atto III

Queta è la notte : a ’l raggio de la mite
lampa di bronzo antico, ogni contorno
d’arazzi e piante e mobili d’attorno
sfugge, e s’allunga in ombre indefinite.
Presso la scrivania di malachite,
ella, ne la pelliccia, or di ritorno
da ’l ballo, inchina il fulvo capo adorno
di rare gemme su le palme unite.
E nell’attesa i verdi occhi socchiusi
sprigionan lampi di vendetta, crude
lusinghe, e guizzi di desio confusi ;
mentre a l’ ansar de ’l petto ampio le freme
il bizantino talisman, che chiude
l’oblio de l’odio e de l’amore insieme.

E il futuro ? Che rimane a far più alla gloriosa artista ? Ha ella compiuta la grande parabola ascendente ?

« Essere stazionarj in arte è un retrocedere. » Così anni sono scriveva a un amico impresario prima di recarsi in Ispagna. E questo fu il motto di tutta la sua vita, al quale ella deve gran parte di sè. Naturalmente in una costante ricerca del meglio, in una paziente opera di bulino, ella doveva apparir dopo lungo silenzio agli orecchi e agli occhi de’suoi connazionali, avvezzi da un po’ a ben altre estetiche, artista meno sincera. Molte delle cose che pei francesi rigidamente accademici, furono il non plus ultra del vero, parvero agl’italiani, spensieratamente veri, il non plus ultra dell’accademico. Ed erraron forse entrambi. Sentii la Duse a Londra nella Magda due anni sono, e mi sembrò veramente trasformata. Oh…. nella scena colla sorella, che a lei confessa il proprio amore per Max…, qual deliziosa, ineffabile musicalità di toni ! Quei tre o quattro Max proferiti dalla Duse nel più biricchino dei modi, valser bene per me tutti gli Armando di Margherita ! E oggi, che abbiam potuto studiarla nelle sue varie manifestazioni !!.. Che amorosa sollecitudine nelle concezioni ! Che ingegnosa varietà nelle {p. 827}intonazioni ! !… Quale salto dall’abbandono poetico, carezzato, musicato del Sogno di un mattino di primavera al ruggito possente, scaturito dall’anima, della Moglie di Claudio !!!!!!

[n.p.][http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img105.jpg]

Fot. Guigoni e Bossi – Milano.

Ultimo ritratto di Eleonora Duse.

Forse un crescente amor del perfetto le vince la mano, e ne appare talvolta la ricercatezza ? Forse quel che appare ricercatezza oggi, sarà domani il vero trionfante ? E noi, grandissimi fin qui, nello slancio, nella spontaneità, nella esuberanza del sentimento, rimarremo almeno grandi poi nella virtuosità dell’espressione ? Chi sa ! Non è qui il luogo di discuter di certi nuovi atteggiamenti di Eleonora Duse. Ch’ella miri sinceramente a una rigenerazione dell’arte nostra, e soprattutto a un risollevamento della coscienza artistica de’ nostri attori è fuor di dubbio ; e di questo anche le va data la maggior lode ; ed essi debbono a ogni modo vedere in lei un esempio salutare ; in lei che volendo, fermamente volendo, s’è venuta formando una vasta coltura dell’antico e moderno, del nostro e forestiero, e compiendo una educazione la più raffinata esteriore e interiore. Gli attori nostri non dimentichino che, stil vecchio o stil novo, quando che il vogliano, potranno pur sempre tener lo campo della scena in tutto il mondo. Quando che il vogliano ! !…

Da una fotografia del conte Giuseppe Primoli.

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[E-F] §

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I COMICI ITALIANI §

Emanuel Giovanni. « Firenze, li 15. 1. 1898. – Carissimo Rasi – Tu mi chiedi di parlarti di me. È impossibile : dovrei dirne troppo male, e la carità del prossimo me lo vieta. Sono nato a Morano sul Po, piccolo paese del Casalasco (Monferrato) or sono 50 anni, cioè l’undici febbraio 1848. Mia Madre era una Rosa Pugno, mio Padre si chiamava Guglielmo. All’età di 3 anni mi portarono a Torino. Finito il Liceo, mio padre mi disse, lagrimando, che non poteva più mantenermi agli studj : feci l’impiegato gratis per qualche mese, poi per disperazione dell’avvenire oscurissimo, nel 1866 in giugno, mi aggregai a Bellotti-Bon e d’allora fo il “burattino” e dal ’73 anche il “burattinajo.” – E ti dissi anche troppo. – Tuo G. Emanuel. » Meglio non avrei potuto cominciar le note sul forte artista che con questa lettera, la quale dice chiaro nella sua concisione, nella sua {p. 832}modestia, non discompagnata da una certa alterezza, l’indole dell’uomo. Fu dunque secondo brillante il ’66 con Bellotti-Bon, poi primo amoroso il ’67 con Coltellini, il ’68 con Vernier, col quale creò con gran successo la parte di Sirchi nel Duello di Ferrari, il ’69-’70 con Alessandro Salvini, e il ’71 con Peracchi : poi, Capocomico. A chi ricordi il giovane atleta sullo scorcio del ’67 o sul cominciar del ’68, al fianco di Laura Bon, di Teresina Boetti, e di un Bianchi, pellicciaio livornese, cimentarsi nel Don Carlos e ne’ Masnadieri di Schiller, e toccar sotto le spoglie specialmente del tristo Moor, altezze non immaginate, non parrà strano che a soli ventiquattr’anni egli si disponesse, capocomico e primo attore assoluto, a lottare strenuamente colle maggiori difficoltà d’interpretazione, creando i caratteri più disparati comici e tragici, del teatro nostro e forastiero. Nel Mercadet di Balzac e nel Matrimonio di Figaro di Beaumarchais, non ebbe rivali mai ; pochissimi nella tragedia di Shakspeare, di cui fu ed è tuttavia interprete de’ più forti. E se non ci appare artista completo, ciò si dee forse a una recitazione affaticata, direi quasi ansimata, e a un’andatura curiosa in certi inceppamenti, che lo rendono monotono tal volta. Ma negli scoppi d’ira selvaggia, in alcune scene dell’ Otello, nella imprecazione del Re Lear, nella scena capitale del Bastardo, quanta violenza, quanto fuoco, in quella spontaneità. Certo l’ Emanuel dev’essere additato ai giovani come specchio di vero artista ; chè niuno forse accostossi ai suoi autori con rispetto maggiore e maggior diffidenza delle proprie forze !… Niuno forse, innanzi di cimentarsi in ardue lotte dinnanzi al pubblico, andò compiendo gli studj di preparazione, di lunga e minuziosa disamina sui fatti e sulle frasi e parole, ai quali egli suole abbandonarsi. Ma quando si presenta ai lumi della ribalta, forte di quegli studj, sicuro di sè, vissuto ben lungo tempo nel suo personaggio, fattolo spirito del suo spirito e carne della sua carne, il pubblico si trova sempre dinnanzi a un’opera di novazione, discutibile certo, ma certo opera d’arte, e della grande arte. A testimoniar dell’ingegno e degl’intendimenti artistici di Giovanni {p. 833}Emanuel, del suo metodo di studio, de’ suoi timori, della sua forza, della sua perseveranza, della sua alterezza, e soprattutto della sua sincerità, ecco alcuni brani di una sua lettera del 12 gennaio ’87, indirizzata al Direttore del Fieramosca di Firenze, a proposito appunto della interpretazione nuova e inattesa dell’ Otello, che generò discussioni e polemiche non più udite, e, direi quasi, non più visti accapigliamenti.

………………………..

Dacchè la mia mente si aperse all’arte non ebbi che un maestro : l’autore. Non ebbi che uno scopo : la verità.

Lessi costantemente tutte le critiche, che mi si fecero ; molte ne accettai, molte ne ripudiai : non fui scosso mai dall’impressione che le mie interpretazioni destavano nel {p. 834}pubblico o nella critica : non sentii mai orgoglio d’un applauso, mai ribellione per un fischio : non sollecitai mai un articolo di lode, nè…. la croce di cavaliere ; unico mio giudice, inappellabile, assoluto, la mia coscienza.

Quando imprendo a studiare una gran parte, prima la copio tre, quattro, cinque volte, poi la studio letteralmente a memoria, come facevo a scuola del cómpito, poi comincio a plasmare da me e per me il mio personaggio : quando sono riuscito a contentare me, allora mi accingo al duello.

La prima impressione, che provo dinanzi ad una gran parte è la sfiducia. Dico sempre a me stesso : ah ! questa non arriverò mai a renderla come l’autore l’ ha creata ! La lascio, ci penso, mi faccio coraggio e l’attacco ; e man mano che la studio passo dalla sfiducia allo sconforto, alla paura, poi una costernazione indicibile m’invade testa, cuore, gambe, braccia, mi stringe pei capelli, mi stramazza a terra, e alla fine mi decido. Un ultimo lampo di viltà e d’angoscia al momento di entrare in scena, poi divento freddo e calcolatore come un giudice. E questa lotta per certi lavori è durata degli anni.

Prima di recitare il Kean volli uscire dall’assoluta oscurità : lo studiai dopo due anni che ero nell’arte, e lo rappresentai dopo dodici : non mi piacqui perchè ero troppo enfatico : lo ristudiai da capo, ed ora sono contento di me. Così l’Amleto, così il Mercadet, e cosi ora l’Otello.

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…..mi recai nella tua genialissima Firenze, che io amo coll’anima d’un innamorato, e mi trovai una stanza presso un buon borghese, che era stato quindici anni in Inghilterra. Era il mio uomo : era il formaggio sui maccheroni : il formaggio era lui, ed io ero il gran maccherone.

Davanti a me, sul tavolo, apersi Carcano, Maffei e Rusconi ; a sinistra il testo inglese, a dritta il Millouse, e sillaba per sillaba controllai tutte le parole di Shakespeare, e ad ogni dubbio, ad ogni oscurità, mi mettevo ad urlare : – Padrone, padrone ! – Eccomi ! – e quella mia vittima interrompendo il foglio delle tagliatelle (perchè faceva anche da cuoco a certi altri suoi pigionali) mi compariva dinanzi col matterello in mano. – Che cosa vuol dire : strike ? – Picchiare !… – e via ! – Padrone, che vuol dire : I prattle out of fashion ?… – ed egli : – Chiaccherare più del necessario !… – Ho capito ! non la disturberò più !… –

Ed è cosi, che ho potuto stabilire la non lievissima differenza che corre tra una traduzione e l’altra, ho potuto stabilire che la versione di Carcano è la più sdolcinata, quella del Maffei la più vibrata, quella del Rusconi la più chiara, e la mia (modestia a parte) la più fedele.

………………………..

O giovani, lasciate fare della filosofia all’autore : voi studiate bene le parole, le passioni, il carattere del personaggio, vestitelo secondo il costume del suo tempo, poi recitatelo con anima, senza fronzoli, senza declamazioni, senza preoccupazioni del come è vestito : leggete Alfieri, ma recitate Augier, Goldoni, Molière, Shakespeare, Macchiavelli e Plauto e Aristofane, e recitateli tutti nella stessa maniera, cioè con naturalezza ; e non lasciatevi infinocchiare dalla teoria barocca e ridicola, che per tutti i tempi e per tutti i personaggi ci vuole una recitazione diversa : di diverso non c’è che il carattere e il vestito : e quindi se il personaggio è serio e piange, voi dovete star serii e piangere, ma con naturalezza e verità tanto vestiti alla romana, che alla veneziana, tanto coll’elmo che colla tuba ; e se un personaggio è comico, è comico allo stesso modo tanto in Shakespeare, che in Molière, che in Goldoni, che in Augier, che in Bersezio.

{p. 835}Nell’ Amleto i due becchini vorrebbe averli scritti Sardou : Jago nell’ Otello sarà il tipo più umanamente vero anche da qui a mille anni, e Ofelia è la più grande creazione d’ingenua passata, presente e futura.

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L’anno scorso una parte di codesti critici, che ora mi va addentando cosi rabbiosamente, levava ai sette cieli la mia interpretazione del Nerone per la mia naturalezza e l’abbandono d’ogni convenzionalismo : ed ora per l’ Otello fingono di pensarla diversamente : e si spiega la resipiscenza : abituati alla traduzione del Carcano hanno intuito che Otello è un melodramma, mentre lo splendido verso di Cossa, senza suono e senza rumore, li aveva persuasi, che i Romani erano uomini come noi. Leggano, leggano quei signori critici il Giulio Cesare di Shakespeare, e si persuaderanno forse anche più che i Romani erano uomini e non cantanti.

Ma a sentir loro, nossignori ! E per recitare l’ Otello ci vuole la maestà ! Ci vuole quel certo non so che di convenzionale, senza del quale l’attore copia « la gretta natura. »

O proprio sarebbe tempo, che critici ed attori non invadessero il campo altrui, e noi attori specialmente lasciassimo a chi ne ha il cómpito di fare e creare i personaggi. Colla mania, che hanno avuto e che hanno certuni di « creare » hanno travisato e resa incomprensibile l’opera dell’autore.

Oh no ! non siamo noi i « mattoidi ! » Non siamo noi che combattiamo il buon senso ! Non siamo noi gli spavaldi e distruttori dell’opera altrui !

Noi tutt’al più tentiamo di abbattere quella crosta, che voi avete spalmato sulle creazioni degli altri ! Se volete fare dell’artificio restringetevi ad Alfieri, ma non calunniate Shakespeare. Shakespeare fu e sarà sempre il più gran « verista » della letteratura drammatica, ed è per questo che sarà eterno.

Le leggi del vero sono intangibili, come la più grande e raffinata espressione della verità, è la semplicità. Certo che Otello in Carcano non è naturale : è un Otello sofisticato : quello sta all’ Otello di Shakespeare come il panettone al pane : è più dolce ma non si digerisce.

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Otello, generale della potenza più civile d’allora, non lo vogliono uomo come noi : lo vogliono africano a tutti i costi !… Ebbene, andate a vedere la Krao, la ragazza scimmia, e vedrete che cosa conta la nascita, e cosa conta l’educazione ! Pochi anni fa questa scimmia viveva nei boschi, mangiava radici e carne cruda, era una bestia : in poco tempo un uomo ha fatto di lei una gentile ed educata signorina.

E Otello da tanti anni al servizio della repubblica, capitano di ventura, nato da stirpe regia, gentile come una fanciulla, buono ed ingenuo come un bambino, dovrebbe dimostrare al pubblico un’indole selvaggia ? Andiamo via ! Quasi, quasi sto per convincermi che Shakespeare sia stato costretto a scegliere il suo eroe fra i neri, arrestandosi dinanzi alla ferocia brutale dei signori bianchi ! E « i fatti diversi » delle Gazzette d’ogni giorno stanno li per provarlo !

Lasciamo all’autore la grande responsabilità di creare i suoi personaggi ; noi limitiamoci a farli parlare, camminare, e gestire secondo la « gretta, e sciocca e putrida natura ! »

………………………..

La ricetta per interpretare magnificamente una parte è semplicissima. Eccovela : studiate prima a memoria le parole, poi pensate a quale classe sociale appartiene il personaggio : mettete dentro a quel personaggio tutto il vostro cuore e la vostra mente : {p. 836}sentite la sua passione come la sentireste voi stessi se vi trovaste nel suo caso : provate cinque, sei, sette volte quella parte alla mattina come pensate di farla alla sera…. e la creazione è fatta.

Le quali parole sono anche una riprova del come egli si venne acquistando la fama di direttore preclaro. Alcuni di quei comici, e ve ne han pur tanti, che lottan colla fame, e imprecan contro l’arte, e…. non infilan quattro parole al lume della ribalta senza uno sproposito, trovaron ridicole ed esagerate le esigenze artistiche di Emanuel ; e le sue furie per una papera, per una battuta ritardata, per una intonazione sbagliata, chiamarono pazzia. Ma…. quanti di coloro che, appena mediocri, apparvero al suo fianco più che sufficienti, oggi tornati, lontano da lui, men che mediocri, dovran ricordarsi del loro grande maestro ! E di lui direttore, per una recita della Fedora di Sardou al Valle di Roma, scrisse il D’ Arcais nell’aprile dell’ ’83 :

Ad onor del vero, il merito del successo di Fedora è dovuto, in gran parte, all’esecuzione. L’ Emanuel, a mio credere, ha trovato la via per la quale, nell’interesse dell’arte drammatica, sarebbe stato a desiderare che si fosse posto prima di ora. Egli appartiene alla schiera poco numerosa degli artisti che non solo hanno un gran valore personale, ma sanno, in breve tempo, formarsi degli allievi fra gli attori che li circondano. Come artista, raccoglie senza dubbio l’eredità del Salvini e di Ernesto Rossi, scomparsi dalle scene italiane per recarsi in traccia d’allori e di quattrini all’estero. Ma in lui, al pari dell’artista, è sommo il direttore, il maestro, e, sotto quest’aspetto, egli mi rammenta Gustavo Modena, che fu il rinnovatore dell’arte della recitazione in Italia. È dunque da desiderare che rimanga a capo di una compagnia, e che di questa compagnia faccia una scuola, come ora sta facendo. L’esecuzione della Fedora è un prodigio di esecuzione complessiva ; tace il suggeritore, l’intonazione di tutti gli artisti è perfetta, nei minimi particolari si osserva una cura diligente ch’è prova al tempo stesso di una intelligenza superiore. L’ Emanuel sarebbe davvero uno dei direttori indicati per una compagnia stabile, nella quale abbondassero, come di dovere, gli elementi giovani. - Intorno all’artista, al primo attore, c’è poco da aggiungere a ciò che più volte ho detto io stesso. Chi ha udito al Valle l’ Emanuel nella Odette, nel Nerone e in questa Fedora, è costretto a riconoscere non esservi oggidi in Italia chi gli contenda il primato. È l’attore più vero e più {p. 837}efficace che si possa udire ; col progredire negli anni sono scomparse anche le piccole mende d’un tempo, e finchè avremo artisti di questa fatta non dobbiamo disperare interamente del teatro italiano.

Fra le curiose originalità di Giovanni Emanuel era quella di parlare al pubblico, ogni qualvolta gli se ne porgesse l’occasione.

A Roma del ’70, poco innanzi l’entrata delle truppe italiane, egli, caduto di leva, desiderò di abbandonar la compagnia per tema di esser dichiarato disertore. Negatogliene il permesso, si fece presso alla ribalta, mentre si recitava l’ Elisabetta d’ Inghilterra, e si diede a discorrer de’ fatti suoi al pubblico in cosiffatta guisa che poco dopo fu arrestato e imprigionato.

Una volta, recitando in Asti a teatro vuoto, pensò bene la terza sera, in costume di Oreste, di rivolgere allo scarso pubblico le seguenti parole : « Mentre ringrazio i benevoli che son venuti in teatro, dichiaro che in Asti non recito più, finchè il gusto artistico di questa città non sia mutato. Questa città dette i natali a un grande, a Vittorio Alfieri, ma egli, se ebbe la disgrazia di nascervi, ebbe anche il buon senso di non rimanervi. »

Un’altra curiosità nella vita di Emanuel. Gli amici, più che i medici, gli affibbiarono, sin dal ’67, una tisi, per la quale egli fu spacciato una ventina di volte al meno. A ogni nuovo trionfo, il buon pubblico pietoso, che ha sempre come bisogno di mettere un ma stridente a ogni gaiezza della vita, solea sclamar sospirando : « Che peccato ! Un così bell’artista ! Una così forte promessa ! Ce ne avrà ancora per poco !… » E la dolorosa sentenza ebbe origine da una velatura ch’egli recava nella voce dai primi anni ; velatura che andò poi coll’esercizio attenuandosi, fino a permettergli da un buon trentennio di sputar, non sangue, ma polmoni, rinnovantisi ogni sera, sotto le spoglie de’ molti e svariati personaggi del gran repertorio.

Ermirio Vincenzo. Genovese. Abbandonò l’avvocatura, nella quale si distinse, dice il Bartoli, per un fino raziocinio, e {p. 838}si diede all’arte comica, nella quale riuscì egregiamente come innamorato per le commedie all’improvviso. Fu anche a Vienna e in altre città della Germania, sempre stimato e applaudito. Lasciata poi l’arte della scena e tornato a quella del fòro, tanto vi si distinse che a’tempi del Bartoli (1782) egli passava per uno de’ migliori avvocati, sapendo anche ne’ più astrusi juridici contrasti con raffinato acume a favore de’ suoi clienti vantaggiossamente affaticarsi.

[n.p.][http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img112.jpg]

Fabbretti-Giardini Carolina. Nacque ad Ivrea il 1813 da parenti comici. Entrò appena diciottenne in Compagnia di Giuseppe Moncalvo per le parti di seconda amorosa, assumendovi con molto successo, dopo un solo anno di prova, quelle di prima donna giovine, Passò il ’32 nella Real Compagnia Sarda, sotto la grande Marchionni, agl’insegnamenti della quale ella dovè il suo rapido progredir nell’arte. Scritturata da Gaetano Nardelli, vi si perfezionò a segno da divenir nel ’39, {p. 840}quand’egli smesse di condur compagnia, e già sposa da due anni dell’attore brillante Antonio Giardini, la prima attrice assoluta di una società che il marito aveva formata con Voller e Bellati, e in cui fu scritturato come poeta Paolo Giacometti. Scioltasi quella, dopo nove anni di buona fortuna, la coppia Giardini continuò da sè a condur compagnia, e sempre con crescente favore del pubblico ; ma venuta la Carolina in quella età in cui mal si addicon a un’attrice le parti di prima donna, e non volendo a niun patto scender di grado, risolse di abbandonar la scena e separarsi dal marito, per assumer il posto di direttrice nella Filodrammatica del Falcone in Genova, dove il 5 dicembre del 1877 morì di polmonite.

Carolina Fabbretti, dotata di bella figura, ottima voce, e volto e sguardo espressivi, recitò assai bene così nella commedia, come nel dramma e nella tragedia. Tra le parti ch’ella creò, e che le acquistaron fama di egregia artista, vuolsi citare la Signora dalle Camelie del figlio Dumas.

Fabbri Giovan Paulo. Artista rinomatissimo per le parti d’innamorato, sotto il nome di Flaminio, nacque a Cividal del Friuli, e menò vita travagliatissima e miserissima, per la morte specialmente della figliuola Tranquilla, rapitagli dal vajuolo a tre anni e dieci mesi, per la quale dettò soavissime rime.

Secondo il Bartoli, nacque il 1567, e morì il 1627 ; ma nè della data di nascita, nè di quella di morte, ho potuto trovar notizie precise.

Oltre che artista comico assai valente (recitò cogli Uniti e coi Fedeli), fu anche poeta ricco di soave spontaneità. Basterebbero a testimoniar del suo merito i nomi di Domenico Bruni e di Isabella Andreini. Quello nel preludio alle Fatiche comiche scriveva :

Gio. Paulo Fabri non cedendo agli antichi, et non invidiando a’ moderni col mezo del recitare, et dello scrivere, fa conoscere non bisognar dormire ogni sonno a chi vuole per mezzo dell’arte sua farsi onore.

E questa, in risposta a uno di lui, dettò il sonetto seguente, {p. 841}già riferito da F. Bartoli insieme alla proposta, adoperando le stesse parole a ogni fin di verso :

Tu, che godi felice i lauri e l’onda,
che di Parnasso i lieti Campi irriga
qual desir nuovo la tua mente instiga
di far prima in virtù chi t’è seconda ?
Se più d’ogni altra di sapere abbonda
la tua bell’alma, tu sol la Quadriga
dei guidar di tua gloria ; ogni altro Auriga
di Climene al figliuol fia che risponda.
Tuo nobil canto di Meandro vano
rende l’onor ; e già la morte è data
al bianco augel, che si soave piange.
Così poggiando sovra l’uso umano
di luce splendi più chiara, e lodata,
che quel, che ’l giorno a noi porta dal Gange.

Di lui abbiamo a stampa :

Due suppliche | e duo ringraziamenti | alla Bernesca.
In Trento, per Gio. Battista Gelmini, mdcviii.
(Vi è aggiunto un discorso al lettore sulla cognizion di sè stesso).
Quattro | Sonetti | spirituali. |
In Perugia, nella Stamperia Augusta, 1610.
Quattro | Capitoli alla Carlona. |
In Trento, per Gio. Battista Gelmini, mdcviii.
Rime varie | La maggior parte lugubri | ….
In Milano, per Marco Tullio Malatesta, 1613.

Più qualche sonetto in foglio volante, e tre prologhi teatrali alle commedie di G. B. Andreini, Il Lelio Bandito, La Turca, e Due commedie in commedia.

Nel libretto delle Rime varie sono le maggiori notizie della sua vita. Il luogo di nascita ci dice egli stesso in un {p. 842}sonetto A Cividal del Friuli sua patria in occasion di guerra civile, e ci ripete poi nella Canzone, nella quale descrive parte de’ suoi infortunij da che nacque fino all’anno quarantesimo sesto di sua età, e la conchiude con la morte della figliuola. Canzone che riferisco intera, come quella d’onde trasse le sue notizie Francesco Bartoli :

Acquetar non si può la mente afflitta
A’ suoi mali pensando antichi, e novi,
E come così fera un uom persegua
Fortuna rea nel mal’oprar invitta.
Musa benchè trafitta
Da varie punte, pur membrar ti giovi
Quel che fin’or tutte sventure adegua,
Ch’abbia sofferto mai misero core.
O tenace dolore
Mentre del viver mio la sorte scrivo
Come languido son per te mal vivo
Lasciami, che ben tosto a me ritorno
Farai col trarmi alfin d’oscuro giorno.
Nacqui là dove il Natisone inonda
Città, che ricca è di guerrieri ingegni,
Nè disprezza gli studi, e le bell’arti,
Città, che liberal provò Rosmonda.
Altri il vero nasconda
Io no ; povere fasce i primi segni
Dier d’infelicitate in quelle parti,
Che poi seguimmi in ogni estran paese ;
Così Penia mi prese
Allevatrice infausta, e mi percosse
Ne’ miei primi vagiti ; indi si scosse
Torbida stella ; era morir pur meglio,
Ch’esser altrui d’alta miseria speglio.
A pena giunto al primo lustro, avara
Morte mi tolse i genitori, ond’ io
Potea sperar se non ricchezze, almeno
A perigliosi di custodia cara.
Come fanciullo impara
Sotto severo zio timor, che rio
Strazia tenero cor, tenero seno
(Lasso) imparai ; nè v’ ha chi mi pareggi ;
Spietatissime leggi
D’affinità così trattate un vostro ?
Parente crudelissimo, se ’nchiostro
Dovessi oprar quant’ ho versato sangue
Per colpa tua, l’opra fariami essangue.
Tolto da lui dove col senno è giunta
Lodata libertà, che ogni altra vince,
Semplice mossi il travagliato fianco
Da celeste desir l’anima punta ;
Che ne fu poi disgiunta
Da chi togato altrui sembrava Lince,
Ed era talpa in sua ragion non franco ;
Onde mi volsi ad essercizio industre ;
Così dal loco illustre
Di chi tra pietre vide il ciel aperto
Sciolto, feimi tra libri un tempo esperto ;
Ma, perchè m’era troppo il piè legato
Fuggitivo mi trassi ad altro stato.
Per l’ Adriano mar su picciol legno
Varcai onde, e perigli infin, che al lido
Approdai dove langue oggi Ravenna ;
Ravenna ora non più real sostegno ;
Di prisca gloria segno.
Ben ne dà in mille carte altero grido,
Che più d’una assaltò famosa penna ;
E ben ne fan magioni auguste fede ;
Di cui ciascuna cede,
A ruina però, ch’alta pietate
A maraviglia unisce. O voi cangiate
Delizie, o Galla, e tu Teodorico
Che direste pel ver, ch’espresso io dico ?
Anzi non dico a pien di sua figura
Il perduto vigor, che si vi piacque,
E sì abbelliste liberali, e grandi,
Poco quaggiù fastosa pompa dura.
Atterra il Tempo, e fura
Ogni machina eccelsa ; in mezo à l’acque
Quante ne son, ch’à dirne i come, e i quandi
Fora tedio maggior, che trar dal cigno
Opra d’ Astro maligno
Contr’ Ilio, sia influenza, o fato, o sorte,
Che ’l tutto adduce a inevitabil morte
Vostra fede non è qual era in prima,
Ch’ora s’avalla ogni elevata cima.
{p. 843}Quivi per fin ch’ebbe duo segni il sole
Passati (e fur il Sagittario, e l’altro
Che gli è freddo vicin) parco men vissi.
Poco chiede Natura, e poco vuole.
L’arte, che ne le scole
Venete appresi dichiarommi scaltro
A scaltro pari a cui mia voglia dissi,
Ed ei m’accolse, ore notturne al die
Ne le fatiche mie
Sovente aggiunsi ; alimentaimi ; intanto
De la città si sparse in ogni canto
Fama d’allegra allor comparsa schiera,
Che per gioia d’altrui condotta s’era.
Seco m’aggiunsi, e giovenetta mostra
Fei ne’ teatri, ch’or tanto deprime
Non ben saldo parer d’animi foschi ;
Non già così chi ’l nobil capo inostra
De la Romana chiostra
Lodato eroe tra le famiglie prime
De’ Greci, e dei Latin come dei Toschi
Saggio cultor, e ’n un Testor amante ;
S’egli ad ogn’altro avante
Poggia per gran saper, che dicon questi
Aristarchi bugiardi ogn’or molesti ?
Tacciano ; e s’ han da dir dicano il vero,
E non mutin color candido in nero.
L’ Aquinate nol muta ; or tanto basti ;
Che ben suo detto val più, ch’altri mille ;
S’inciela ei divo ; i detrattori in terra
S’appagan sol d’ambiziosi fasti :
Ma, perchè troppo osasti
Altri non dica, al mio spietato Achille
Torno ; stanco non mai di farmi guerra ;
E ’n brevi note chiuderò gran cose.
Mi fur pene amorose
Continue al cor finchè Imeneo legommi
Avinto ne’ cui lacci or vivo, e stommi
Venduta libertà senz’alcun prezzo ;
E ’l pentirsi non vale in ciò da sezzo.
Padre mi fe’ natura in cinque giri
Pieni del sol di quattro figli à cui
Posi tanto devuto amor paterno,
Ch’altr’uom non è (cred’io) ch’egual sospiri.
Fur sempre i miei desiri,
Ch’abito sacro li cingesse, a lui
Rendendogli, che tiene il gran governo
De la terra, e del ciel Motor immoto.
Ma, perchè mi sia noto,
Che ’l propor, e ’l dispor varia potenza
Variar mi convenne ancor sentenza ;
Vivi dar gli volea ; tre me ne tolse
Morte ; e decreto, o permission mi sciolse.
Ne la città, ch’ ha d’oro i bei costumi
Benchè di ferro il nome, un si riposa
Iacopo mio primier estinto germe ;
Vittoria tu chiudesti i cari lumi
In grembo a Flora. O fiumi
Non occhi, qui destate alma pietosa
A lutto (foste almen mie gioie inferme)
Tranquilla mia tu del Picen nel seggio
Sovran dov’esser cheggio
Teco, giaci sepolta infrà que’ sacri
Marmi, ch’ebber di pianto ampi lavacri ;
Marmi al Vate maggior d’Ippona eretti
Cui patrii fur cartaginesi tetti.
Monte sostenitor d’antico muro
Terminator di nostra Italia antica,
Che ’l vecchio piè d’ Adria ne l’onde bagni
Quanto sarammi il ricordarmi duro
Di te. Felice Ancùro,
Che potesti salvar da la nemica
Voragine, benchè Mida si lagni
La patria tua, benchè la moglie pianga.
Averrà me, che franga
Ogn’ora il duol per non poter l’istesso
A prò de la mia cara. Ahi pur concesso
A fera vien, che col ruggito i figli
Ravvivi ; e me non ha chi pio consigli ?
Pelican fortunato ancor tu puoi
La spenta prole ravvivar ferendo
Te stesso, io no, che ferireimi or ora,
E ferito m’avrei prima, che i suoi
Lumi chiudesse a noi
La mia diletta ; è vero al ciel salendo
Per fruir lieta una perpetua aurora,
Anzi un’eterno sol, che non tramonta.
È ben l’anima pronta
Quando ciò pensa a sofferir martire :
Ma tosto, che s’accende in me ’l desire
Di veder dolci pargoletti modi
Forz’è, ch’a lamentar la lingua io snodi.
Sigismondo ben tu, ch’ultimo fine
Rimaso se’ di mie speranze incerte
Scherzi : ma non giamai qual tua sorella ;
Cui freschissime rose in calde brine
Date dal ciel, divine
Fean sue sembianze ; e non vegg’io chi merte
A par di lei in sua innocenza bella.
{p. 844}Perduta io l’ ho, nè più trovarla spero,
Se non m’appresso al Vero :
Ma troppo andrà, poichè m’impruna il varco
Fascio d’errori ; e non si può gir carco
Com’io misero son dov’ella è gita
Anzi tempo chiamata a l’altra vita.
Canzon da la Potenza al Natisone
Ci è gran tratto di via per ogni via ;
Dov’è la Figlia mia
Fermati, e posa : poi di loco in loco
Di’, che de’ miei tormenti ho detto poco.

Nella Essagerazione fatta in riva al Serchio, abbiamo più distesamente che qui il vivo desiderio di monacar le due figliuole, alle quali mostra a color fosco le pene del matrimonio, a esempio di sè forse, alla cui poca felicità maritale accenna in quei versi della Canzone :

Imeneo legommi,
avvinto ne’ cui lacci or vivo, e stommi
venduta libertà senz’alcun prezzo ;
e ’l pentirsi non vale in ciò da sezzo.

e in questi altri dell’ Essagerazione :

Me contra ’l maritarsi ira non punge,
benchè de’ suoi dolor mi viva a parle ;
dico per vero dir ; di mille a pena
una ne’ lacci suoi vita ha serena.

Era egli nella Compagnia degli Uniti, che il 3 aprile 1584 scrivevan da Ferrara al Principe a Mantova, desiderosi di recarsi colà a recitare ? Probabilmente. Di altri Flamini di tal tempo non abbiam notizie : e il Fabri (secondo il Bartoli che lo fa nascere, come s’è visto, nel 1567, avrebbe avuto allora soltanto diciassett’anni) sappiam che cominciò a recitar giovinetto.

Andò con Francesco e Isabella Andreini alla Corte di Francia il 1603 : e allude a tal tempo nel I Capitolo al Della Genga, là dove dice :

Con le Comedie ho già servito ai Gigli
di Francia in Compagnia di quella donna
che non teme del tempo i duri artigli.

Il Baschet (op. cit.) cita una ricevuta su pergamena del 31 dicembre 1603, per la somma di 600 scudi ai comici {p. 845}Isabella, Gio. Paolo Fabbri e Giovanni Pelesini, per l’opera loro prestata durante cinque mesi.

Della sua patria, dell’arte sua, e del suo stato assai miserevole discorre egli nella prima Supplica al Cardinal Madruzzi, vescovo e principe di Trento :

…. Monsignor, io sono
un, che sempre in comedia s’innamora :
Ma così Dio della sua grazia il dono
mi conceda benigno come mai
non sento al cor d’Amor tempesta o tuono.
Mi chiamano Flaminio uomini assai :
ma ’l mio nome è Gio. Paolo, e son de’Fabbri
nato in Friul.
……………
Signor, non ho denari, e ’l mio Destino
padre mi fa di povera famiglia,
che spesso dà molestia al suo vicino ;
ho tra l’altre una mia picciola figlia,
che co’ suoi modi pargoletti in fasce
un’ Aurora bambina rassomiglia.
Sua ventura ha ciascun dal di che nasce,
disse ’l Petrarca ; s’ella non ha ajuto
bisognerà che tosto il mondo lasce.
Oimè, che quasi meno io son venuto
nel dirvi questo. Humil fo a voi ricorso,
essendo d’ogni bene destituto.

A Trento era colla compagnia l’autunno del 1608, quando cioè pubblicò i Capitoli e le suppliche ; e innanzi di partire si duole nella seconda di esse al Capitan di Trento, Barone di Thon, della miseria dei comici non andando gente a teatro.

……………
Voi che quasi ogni sera siete stato
a favorirci, e spesso compatito
avete al nostro miserrimo stato.
Sapete ben come ’l negozio è gito.
Non abbiam colto alcuna sera tanto
che bastasse per cena ad un Romito.
{p. 846}Non va lenta così biscia all’incanto
come i Trentini alla comedia. È vero,
che l’estremo del riso assale il pianto.
In Verona, in Vicenza, in Brescia altero
mandava ognun di noi moneta ed oro,
or ha preso il guadagno altro sentiero.
In Friul non cred’io la testa al Toro
veder tagliar, idest far carnevale,
perchè d’ir a Bologna io spasmo e moro.

Qui narra di certi suoi pegni di libri e di medaglie a Bologna, e invoca al solito ajuto di danaro al suo protettore. Danaro, anche al solito, mandatogli, pel quale scrisse poi al Thon un nuovo capitolo di ringraziamento, ove son questi versi accennanti, ancora, alla figliuola Tranquilla :

……………

questa è una Bambina,
che in Brescia, non ha molto, a patir venne ;
E d’età di tre mesi, una mattina,
perchè trovò alla madre il seno asciutto,
isvenne, e fu quasi al morir vicina.
Muta eloquenza filïal che in tutto
ogni altra vinci, io volli allor allora,
venir a dirvi il mio doglioso lutto :
Ma per ventura, d’una stanza fuora
uscì una donna che pietoso il petto
le porse, e richiamolla a nova Aurora.

Il 26 ottobre 1612, Tristano Martinelli scriveva da Firenze al Cardinal Ferdinando Gonzaga, mandando una lettera di Maria de’ Medici, nella quale era il desiderio di mettere assieme una compagnia di comici tra cui figurava il nostro Fabbri.

Lo troviamo il 1613 a Milano, dove pubblicò, terminate le recite, un sonetto di ringraziamento, già riferito dal Paglicci (op. cit.) assieme a un altro congratulandosi della famosa libreria, che Monsignor Illustrissimo e Rev.mo Federico Cardinal Borromeo suo arcivescovo ha fatta, e tuttavia va facendo ; e il 1614, per due mesi, a Genova, secondo la concessione di quel Senato del 18 agosto. (V. Bernardini).

{p. 847}Fabbri Adelaide, nata a Cesena il 1796, si diede giovanissima all’arte drammatica. Esordì, generica, in Compagnia Brangi, sotto l’Isabella Buzzi, assumendo dopo un anno il ruolo di prima attrice giovine, col quale fu scritturata il 1821 in Compagnia di Tommaso Zocchi, che abbandonò poi per passare, il ’22 e ’23, con l’Assunta Perotti e Luigi Fini. Si recò il ’24 col capocomico Mario Internari a Napoli, ove rimase fino al ’29 colla nuova società de’Fiorentini, Tessari, Prepiani e Visetti. Formò poscia compagnia, nella quale assunse la parte di prima attrice assoluta : ma dovette, costrettavi dalla avversa fortuna, accettare il ruolo di madre nobile, seconda donna e caratteristica, offertole da Romualdo Mascherpa, col quale stette fino alla morte di lui che accadde nel ’48. Passò quindi nel ’51 madre e caratteristica in Compagnia di Cesare Dondini ; poi in quella del fratello Ettore sino al ’73, in cui, {p. 848}pervenuta all’età di settantasei anni, si ritirò dalle scene, cessando di vivere due anni dopo.

Il Colomberti così narra le cagioni che la determinarono a entrar nell’arte :

Giovine ed inesperta, si innamorò di un cattivo soggetto, e contro il consiglio dei di lei genitori volle sposarlo ; ma ben presto si penti della sua scelta. Era essa chiamata nella sua patria la bella Cappellarina, perchè figlia di un fabbricante di cappelli. Quel sopranome era da lei meritato, perchè ad una figura venerea univa un volto di bellissimi lineamenti. La gelosia invase il cuore del di lei marito, benchè ella fosse di condotta onestissima, e tanto lo predominò, che tentò di ucciderla ; e lo avrebbe fatto, se una combinazione non lo avesse impedito. Stanca di soffrire gl’ingiusti sospetti del marito, spaventata dal pericolo passato, rifugiossi nella casa paterna ; e non trovandosi sicura colà, si recò nascostamente a Forli presso di una cugina di sua madre. Ma temendo sempre di esser troppo vicina al marito, si offri al capo comico Brangi, che con la sua Compagnia occupava il teatro di quella città, come generica giovine.

Fabbri Paolo. Nacque a Bologna il 31 dicembre del 1803, da Antonio Fabbri e Vincenza Barbieri. Dopo di essersi addottorato in legge, fatte alcune buone prove coi filodrammatici della città, deliberò di abbandonar codici e pandette per l’arte comica, nella quale riuscì egregio. Lo troviamo il ’38 generico primario con Gaetano Nardelli, il ’42 padre e tiranno con Romualdo Mascherpa e il ’43 collo stesso ruolo nella seconda Compagnia Domeniconi, nella quale si unì in matrimonio con Luigia Moretti, figlia di un suggeritore, e dalla quale passò poi in quella dei Fiorentini di Napoli, condotta prima da Alberti e Monti, poi da Alberti e Colomberti, poi dall’Alberti solo. Nel ’74 accettò il posto governativo di ispettore e maestro d’avviamento alla scena nell’Accademia fiorentina dei Fidenti, poi, il 1880, di professore {p. 849}secondario nella R. Scuola di recitazione, che per la soverchia età dovè abbandonare, raccolto dal figliuolo Attilio, allora libraio in Trieste, ove morì del 1890. Fu il Fabbri artista pregevolissimo e pregevole maestro, come colui che seppe accoppiare all’arte della scena una coltura non comune. Dalla nuova opera di V. Tardini (La Drammatica nel nuovo Teatro Comunale di Modena, ivi, 1898) apprendiamo come il Fabbri quand’era col Mascherpa (27 luglio ’42), recitasse con molto successo alcuni versi dell’Inferno e Purgatorio di Dante. Lasciò inedite molte conferenze sulla letteratura drammatica delle varie nazioni, che rivelano la chiarezza del suo ingegno.

Egli ebbe tre figli sul teatro.

La Gemma, nata il 26 aprile 1843 in Livorno, attrice generica, poi madre e caratteristica ; moglie di Antonio Antuzzi, napoletano, generico e amministratore ;

Pia, nata il 1847 a Roma, sposatasi il 1870 al brillante Serafini, prima attrice giovane nella Compagnia di Adamo Alberti ai Fiorentini di Napoli, morta il ’76 a Cremona ;

Attilio, nato il 10 agosto 1850 in Napoli, primo attor giovine, poi generico primario ; poi, maritatosi, libraio, come dicemmo, a Trieste, poi di nuovo attore e amministratore di compagnie. Si trova oggi quale caratterista con Giuseppe Brignone e Celeste Montrezza.

Fabbrichesi Salvatore. Figlio di onesti negozianti, nato il 1760 a Venezia, fu artista mediocre e capocomico rinomatissimo. Sposò verso il ’90 Francesca Pontevichi, prima attrice, colla quale formò compagnia prima in società, poi solo. Nel 1800 s’era già acquistata gran fama come capocomico, e nel 1806 fu chiamato a Milano per formare la Compagnia Reale Italiana al servizio del vicerè Eugenio Di Beauharnais, che dovea recitare al Teatro della Scala, o, quando vi si rappresentavan opere in musica e balli, a quello della Cannobbiana.

Eccone l’elenco al suo costituirsi nel 1807 coi relativi stipendj e le altre spese occorrenti, secondo il progetto presentato {p. 850}al Vicerè d’Italia da Salvatore Fabbrichesi, con le variazioni subite nel personale per l’anno 1809, che traggo dall’Archivio di Milano, per gentile comunicazione del cav. Paglicci-Brozzi :

1807


1 ª attrice Pellandi Zecchini 1060
1 º attore Blanes 500
Conjugi Bettini 440
Tiranno Provini 280
Servo e suggeritore Gallina 330
Madre Fabbrichesi 300
Caratterista Fabbrichesi 300
» Marzocchi 220
» Sarti 220
Generico Appelli 160
» Venier 110
Generici 2 i Pedranzani 140
Macchinisti Sacchetti 200
Traduttore Schabett 50
Parti di servitori e ragazzi 80
Spese di vario titolo, copie, comparse, lettere, cene, ecc 200
Viaggi e trasporti, vestiario e scenari 1800
Zecchini 6390

1809


Poeta addetto : Antonio Sograffi
donna ass.ª Anna Pellandi
Altra 1 ª donna Laura Civili
Madre Francesca Fabbrichesi
Servetta Maddalena Gallina
2e Attrici : Lucrezia Bettini – Marietta Pertica

ATTORI


1 º attore tragico De Blanes
1 º attore comico De Marini Giuseppe
Tiranno (quello che fece Filippo) Tessari
Altro 1 º attore Bettini
Amoroso giovine Visetti
Caratterista Pertica
Padre Belloni
2i Caratteristi : Pietro Pincristiani – Fausto Marzocchi – Fabbrichesi fratello (sic).
Generici : Simeni – Civili minore – Appelli – Sacchetto figlio – Civili maggiore – Pertica figlio.
Subalterni : Gallina – Sacchetto fratello – Civili padre – Bartolo Lisson – Sacchetto padre – Zucchi e Franci.

{p. 851}La compagnia subì poi altri mutamenti per la morte del Bettini e per la partenza della Pellandi e del Belli-Blanes, della Gallina e del Belloni. E mutamenti avvenner pure nelle paghe degli attori, le quali generarono in arte una vera rivoluzione. Il Fabbrichesi fu il primo a stabilire che i comici pensasser da sè a tutte le spese di vestiario (prima d’allora non dovevan provvedersi per gli abiti in costume che del così detto basso vestiario, cioè scarpe, calze, parrucche, spade, ecc.) e a quelle di viaggio ; ma tale aggravio fu compensato dalle nuove paghe salite a cifre non più sognate : mentre il gran Zenerini trent’anni addietro, e al tempo della sua maggior gloria, non aveva potuto ottenere che uno zecchino veneto al giorno, il De Marini ne aveva 601 all’anno, il Blanes 600, Pertica 450, e Bettini 400. Egli, il Fabbrichesi, aveva lo stipendio annuo di 50,000 franchi ; il diritto di aumentare il prezzo dei palchi e del biglietto d’ingresso, e quello di andar colla compagnia ne’varj teatri comunali del regno, senza pagar affitto di sorta. Il Governo poi si riserbava a sua volta la scelta od approvazione degli artisti principali e delle produzioni vecchie e nuove di ogni genere, esigendo la più scrupolosa esattezza di ambiente sia pel vestiario degli attori, sia per gli scenarj, le comparse, gli attrezzi, gli addobbi di palcoscenico.

Caduto il Regno francese, il Fabbrichesi passò colla fortunata compagnia, modificata in parte per la morte del Bettini e la partenza della Pellandi e del Blanes, a cui successero la Cavalletti-Tessari e Francesco Lombardi, ai Fiorentini di Napoli, al soldo di quella real Corte, con lo stipendio annuo di 12,000 ducati, e il diritto di rimaner capocomico unico in quella capitale. Venne il 1824 nell’Italia centrale, destando entusiasmo dovunque con quella compagnia che aveva accolto un nuovo e grande artista, non mai superato, Luigi Vestri, e la giovinetta Amalia Bettini ; e più tardi la maschera del Meneghino, sostenuta dal Piomarta.

Ma dopo quattro anni di continui trionfi, morì in Verona, l’autunno del 1827, pianto non solo dalla famiglia artistica, che {p. 852}perdeva in lui il più onesto e forte dei capocomici, ma da quanti, conosciutolo, avean potuto ammirarne la onestà dell’animo, la generosità e la delicatezza a tutta prova.

Da alcune notiziole inedite, ricche d’interesse, richiamate alla memoria dell’ottimo amico artista Luigi Aliprandi per l’opera mia, trascrivo quelle che concernono il Fabbrichesi, e preludono alla formazione della nuova impresa Prepiani, Tessari e Visetti, colla quale stette l’Aliprandi dal ’38 al ’51.

Il capocomico Fabbrichesi aveva scritturato quegli artisti, dopo che il re Ferdinando I, ripristinato sul trono delle Due Sicilie, alla caduta di Giovacchino Murat, gli aveva confermato il sussidio annuale di ducati 8 mila, affinchè si dovessero presentare su quelle scene gli artisti più rinomati. Altro vantaggio era un contratto di privativa, contro qualunque altra Compagnia di prosa che non agisse con la maschera del Pulcinella. Il contratto era rinnovabile di otto in otto anni.

Malgrado tali patti eccezionali, il signor Fabbrichesi ne traeva un lievissimo benefizio. Ne sia prova che una sera, recitando il celebre Giuseppe De Marini, furono venduti due soli biglietti di platea. Parrà incredibile ! eppure mi fu narrato da un antico cuscinario di platea che ne ebbe il danno, essendo tre gli addetti a portare i cuscini in platea. Il prezzo dei palchi era esorbitante per la prosa. Quelli di 2º ordine si pagavano più delle attuali lire 16. Quelli di 1º e 3º ordine, più delle attuali lire 14, e negli altri due ordini, meno ; ma se non si regalavano rimanevano vuoti. Le famiglie più opulenti, bramose di assistere a quelle rappresentazioni dilettevoli, istruttive e morali, sottoscrivevano un abbonamento per le sere pari e dispari ; e moltissime per una sola quarta parte, a prezzi ridotti ; ma obbligandosi dal primo giorno di Pasqua, all’ultimo di carnevale. Per la quaresima si usava un abbonamento separato. I posti di platea erano tutti numerati e si pagavano circa lire 1,50. Per qualche mezza fila di platea, si abbonavano degli uffiziali militari dello stesso reggimento ; per altre mezze file, dei borghesi. Gli uffiziali della R. marina, in due palchi di 3º ordine. Per la famiglia reale, erano riservati tre palchi di 2º ordine, prossimi al palcoscenico, con ingresso speciale. Allorchè intervenivano al teatro i sovrani, s’incollava un cartellino rosso, con la scritta a caratteri cubitali « Per ordine » e sull’angolo che da via Toledo conduce al teatro, s’impiantava una specie di fiaccola alimentata con brandelli di legno ; la si accendeva in prima sera e la si toglieva finito lo spettacolo.

Qual popolano o modesta famiglia avrebbe frequentato quel teatro, col pericolo di sentirsi umiliato accanto dell’alta aristocrazia ? Per di più, un picchetto di granatieri era ordinato di guardia all’ingresso dei palchi reali ; e fra le quinte era mandato un caporale con tre granatieri. Appena Sua Maestà si presentasse in palco, uno dei granatieri doveva fare un passo fuori del sipario, col fucile al piede, ed immobile tener sempre fisso lo sguardo sul volto del re. Ciò era detto : fare la statua. Quando il soldato era stanco di quella posa, faceva un lieve movimento con le dita della mano sinistra, ed il caporale ordinava a bassa voce : – Passo indietro ! – La statua retrocedeva, e prontamente un’altra la surrogava.

A tale proposito, rammento che regnando Ferdinando II, vi fu un soldato ehe ebbe la forza di rimanere statua durante l’intero spettacolo. Il re se n’avvide e gli mandò a regalare sei ducati (lire 25,50), ordinando però che non si permettesse mai più un fatto simile.

{p. 853}Torniamo a noi.

Il signor Fabbrichesi ebbe avviso, che allo spirare del contratto in corso, il R. Governo era disposto a rinnovargli la privativa, però riducendo il sussidio a soli ducati 4000. – Fu il colpo di grazia ! – Egli vi rinunziò, dandone avviso ai suoi scritturati, affinchè provvedessero al loro futuro collocamento. Fra questi si annoveravano i già nominati Tessari, padre nobile, con la signora Carolina sua moglie, prima donna ; Prepiani e Visetti, primi attori. Tutti ammirati pel valore artistico, non meno che per la rettitudine della loro condotta nella vita privata. Essi progettarono di stabilirsi in società ed accettare la riduzione del sussidio governativo. Volendo però agire con rettitudine, chiesero, dopo alcuni mesi, al Fabbrichesi se persistesse nel suo rifiuto ; ed in tal caso, qualora a lui non dispiacesse, avrebbero inoltrata domanda per ottenere il contratto di privativa in loro nome. Ne ebbero questa risposta : – Se credete di fare il vostro interesse, date mano al più presto alle pratiche necessarie presso la R. Sopraintendenza dei teatri e spettacoli, e presso il Ministro dell’interno, affinchè nessun’altro vi prevenga ; ed io godrò d’ogni vostro bene, come artista e come impresario. – Onorevole risposta, per chi la diede, e per chi la ricevè !

Fabbrichesi-Pontevichi Francesca. Moglie del precedente. Fu artista egregia per le parti di prima donna giovine che sosteneva il 1781-82 e 83 nella Compagnia del celebre Petronio Zanerini, e di prima donna assoluta in compagnie secondarie. In una delle quali fu conosciuta e sposata dal Fabbrichesi, con cui stette sino alla morte di lui, preclara madre nobile, e ottima caratteristica. Si scritturò pel triennio 1828-29 e 30 con la società Tessari. Prepiani e Visetti : poi, abbandonato il teatro, si ritirò a Venezia, ove morì verso il 1840.

Fabbrici Natale, veneziano, fu ottimo generico primario nelle migliori compagnie del suo tempo. Passò da Venezia, ov’era vestiarista teatrale, a Trieste nel 1830, e quivi formò società coll’attrice Luigia Petrelli, lasciando al marito di lei {p. 854}la direzione della compagnia. Cessata l’impresa, s’impiegò a Trieste nel Teatro dell’Armonia, ov’era ancora il 1860. Morì verso il ’70.

Fabio. Attore di gran fama, che fiorì nella seconda metà del sedicesimo secolo, e di cui Tomaso Garzoni lasciò scritto (op. cit., 738) : « A’tempi nostri s’è visto un Fabio comico, il qual si trasmutava di rubicondo in pallido, e di pallido in rubicondo, come a lui pareva ; e del suo modo, della sua grazia, del suo gentil discorrere, dava ammirazione e stupore a tutta la sua audienza. »

Forse a questo stesso Fabio accenna il De Sommi, là dove dice nel terzo dialogo sui recitanti : « Io mi ricordo averne veduti di quelli, che ad una mala nuova si sono impalliditi nel viso, come se qualche gran sinistro veramente gli fosse accaduto. » ?

Fabrizio napolitano. Aveva nel 1650 circa una compagnia comica a Napoli, e di lui fa parola Niccolò Biancolelli nella Prefazione del suo Carnefice di sè stesso. Altro di lui non sappiamo : a meno che (le date concorderebber a un dipresso) in questo comico non dobbiam ravvisare quel Fabrizio che nel 1664 desiderava di unire al servizio delle LL. Altezze di Parma una compagnia, della quale ecco la Lista che traggo dall’Archivio di Modena :

Angiola Prima Donna

Flaminia, ò Sucinda (sic) 2ª.

Auretta figlia d’Angiola Serua à Vicenda con Colombina moglie di Bagolino.

Fabritio Primo Innamorato.

Leandro 2º.

Cap.2 (sic) pigliandosi sua moglie Flaminia per 2ª Donna, e elegendosi Lucindo

Odoardo à Vicenda con Leonardo 2º, e 3º moroso.


Pantalone Ardelio
Dottore Milanta Questi tre richiesti in altre Compagnie, hanno risposto, che dependono da i cenni dell’Altezze Vostre Serenissime.
P.º Zanni Bagolino

Manca il 2º, onde si suplicano l’Altezze Vostre Serenissime ad ordinare à Volpino, che s’unischi con la sud.ª Compagnia.

Vi sono ancora altri Comici obligati alla Serenissima Casa che stanno à dispositione del sig. Marchese Manzoli, de quali l’Altezze Vostre possono seruirsi, con tutto, che l’anno passato habbino recitato nelle due Compagnie di Mantova.

{p. 855}L’Angiola era la Dorsi.

La Flaminia era Marzia Fiala, moglie del Capitano Sbranaleoni Giuseppe Fiala.

Chi fosse la Lucinda non so dir con certezza. Forse la Nadasti che recitava sotto quel nome le parti di seconda donna nella Compagnia del Duca di Modena del 1688 ? Ma ventiquattr’anni di distanza mi paion troppi.

Auretta, figlia della Dorsi, era la moglie di Angelo Constantini, il celebre Mezzettino.

Colombina. Molto probabilmente era questa l’Isabella Franchini, moglie in seconde nozze di Carlo Cantù, e figlia di Francesco Franchini che potrebb’essere qui il Pantalone Ardelio.

Bagolino. Chi si nascondesse sotto questo importantissimo personaggio non ho potuto trovar finora. (V. Supplemento).

Leandro era Gaetano Caccia. (V. Supplemento).

D’Odoardo e Leonardo non ho trovato notizie.

Il Dottor Milanta era Giuseppe Milanta, celebre col nome di Dottor Lanternone.

Volpino era Giulio Cesare Barbieri. (V. Supplemento).

Altra lista mandava del 1650 Francesco Toschi, nella quale un Fabricio figurava come marito di Angiolina. Ma primo innamorato allora era Ottavio Zanotti (V.).

Fagiuoli Gioacchino. Nato a Livorno il 21 agosto del 1844, dopo di avere studiato tra’filodrammatici sotto la direzione di Vittorio Benedetti, esordì come secondo caratterista nella Compagnia di Ciotti, Marchi e Lavaggi, dalla quale passò, dopo un solo anno, in quella N.º 1 di Bellotti-Bon, sotto l’artista Antonio Zerri, poi in quella che lo stesso Zerri formò in società con Lavaggi. Fu un anno con Luigi Monti, poi ancora con Lavaggi per un triennio, poi capocomico, {p. 856}in società con Udina, Aliprandi e Sichel per due anni, dopo i quali si scritturò con Andrea Maggi, che abbandonò soltanto in capo a nove anni, non avendo voluto seguirlo in America. Passò poi in Compagnia Favi con Biagi, Talli e la moglie Carloni, da cui si distaccò per recarsi a Livorno (1890) ad attendere a un commercio di legnami ch’egli aveva intrapreso due anni avanti con un suo nipote, e nel qual si trova anch’oggi, contento del suo stato. Sposò del ’78 la figlia maggiore dell’artista Achille Cottin, e fu comico di molti pregi ; nelle così dette macchiette ben pochi gli si accostarono.

Fainetti Nicola. « Torinese. S’esercita nella maschera del Tartaglia (1782) ; fu nelle Compagnie di Giuseppe Lapy e di Luigi Perelli ; e può con sufficiente abilità adoprarsi nell’impegno del suo ( ?) secondo Vecchio. » Così Fr. Bartoli.

Falchi Francesco. Bolognese. Fu attore di molto pregio per le parti di primo innamorato così nelle commedie scritte, come in quelle a soggetto. Il Goldoni nel Tomo IX del suo Teatro (ed. Pasquali) ha per lui un cenno di lode al proposito della parte di Giacinto nei Mercatanti che sostenne con gran plauso a Livorno. Dopo cinque anni passati al S. Angelo, entrò con la moglie nella Compagnia del S. Luca, recitandovi a vicenda col Majani le nuove commedie in versi martelliani dello stesso Goldoni. Messa assieme una discreta fortuna, lasciò il teatro per darsi alla mercatura, nella quale, ingannato da’più scaltri di lui, perdè tutti li averi e con essi la ragione. Ristabilitosi poi, fu costretto a tornare su le scene, in cui fece come per l’addietro ottime prove, (era il maggio del 1777 al Comunale di Modena in Compagnia di Francesco Panazzi, assieme a un Antonio Falchi, forse figliuolo), sinchè avanzato in età, si ritirò nella natia Bologna, ove morì l’autunno del 1780. Del valore artistico di lui dice Francesco Bartoli :

Recitava il Falchi con gran sentimento, ed esprimeva i suoi, e gli altrui concetti con ponderazione, con energia, e con la più viva naturalezza. Se questo comico avesse {p. 857}avuto un personale più vantaggioso, oh quanto maggiormente sarebbe stato gradito ! La sua troppo piccola statura gli fu di qualche svantaggio, nè potè nel suo carattere d’innamorato interamente brillare. Non pertanto fu meritevolmente applaudito, e fu per un comico eccellente per ogni dove considerato.

Ragù, pasticci, fricandò lasciamo
al Medebacche, al Falchi, ed al Magnano,

dice Carlo Gozzi nel ditirambo pel Truffaldino Sacchi (op. cit., pag. 177) ; e in un sonetto burchiellesco (pag. 180) :

O Medebacche, o Falchi, o Maddalena, (la Marliani)
Ircana, e voi, Rosaura, e voi, Magnano,
venite tosto a baciarmi la mano,
che a torto il Ditirambo v’avvelena.
Ora, l’aver messo il Falchi in compagnia del Medebacche,
della Marliani e della Bresciani dimostra chiaramente com’egli
fosse tra’principali artisti della compagnia avversaria.

Falchi Vittoria. Moglie del precedente, attrice di pregio, per la quale il Goldoni scrisse alcune parti graziose. Ritiratasi dal teatro per la infermità del marito, non vi rimise più il piede, per darsi tutta al governo della famiglia. Con ciò che il marito le avea lasciato, e, dice Fr. Bartoli, « con qualche suo industrioso travaglio » viveva ancora in Bologna nel 1782.

Il Goldoni col ritratto di Eleonora nel Poeta fanatico (Atto III, Sc. XI) ci ha lasciato il ritratto della Falchi, che sosteneva quel personaggio.

Tonino. Ghe dirò : quando m’avesse da innamorar, me piaserave una donna de statura ordenaria, ma più tosto magretta, perchè el troppo grasso me stomega. Averia gusto, che la fusse bruneta, perchè dise il proverbio : El bruno el bel non toglie, anzi accresce le voglie ; voria, che la gh’avesse do bei rossi vivi sul viso, la fronte alta, e spaziosa, la bocca ridente coi denti bianchi, e sora tutto do bei occhi negri, piccioli, e furbi. Una bela vita, un bel portamento, un vestir nobile, e de bon gusto, che la parlasse presto e pulito, e che sora tutto la fusse bona, sincera, e affabile e de bon cor.

Il Bartoli dice infatti che « fu moglie amorosa, e nelle stravaganti follie del marito si mostrò molto pronta a procacciare ad esso gli opportuni soccorsi. »

{p. 858}Falchi Giuseppe. Bolognese, fratello di Francesco. Recitava con grazia e vivacità sotto la maschera di Arlecchino nelle Compagnie di Venezia. Dice il Trautmann (op. cit.) che dal 1749 in poi il Falchi fu al servizio dell’Elettor di Baviera con uno stipendio di 600 fiorini, non più in compagnia italiana, sibbene mischiato cogli attori di Corte francesi, e impiegato a recitar nelle parti del Nouveau Théatre italien. L’anno della prima entrata al servizio di quella Corte non sappiam dire con precisione. Solo ci apprende Goldoni (Ed. Pasquali, XVII) che nel 1742, licenziatosi il Sacchi dalla Compagnia di San Samuele, gli fu sostituito il Falchi, il quale essendo all’attuale servizio dell’Elettor di Baviera aveva ottenuto un anno di congedo per rivedere i parenti suoi.

Negli archivi di Stato e comunali della Baviera figura tra gli attori di Corte francesi una signora Falchi ; ma non si può affermare essere stata la moglie dell’arlecchino. Anche s’è vista in Dresda [V. Arbes (D’)] una Paola Falchi Noè rappresentar la parte di Cefia, nel Zoroastro di Rameau, il 7 febbraio 1752.

Falconi Bartolomeo. Artista di gran pregio per le parti di secondo Zanni, sotto nome di Trapolino. Fu comico al servizio del Duca di Mantova nel 1690 e 1694, come si rileva dall’atto di nomina, pubblicato dal Bertolotti (op. cit.) e dal passaporto, in data 22 aprile 1694, nel caso che debba recarsi all’estero.

L’atto di nomina suona così :

Ferdinando Carlo etc. etc.

L’isperienza hauuta del vivace e spiritoso talento che possiede Bartolomeo Falconi detto Trapolino e la speranza maggiore, che dà di sempre migliore riuscita nell’arte comica seruano a noi di motivo di elegerlo e dichiararlo come in uirtù della presente facciamo nostro attual comico volendo che goda e partecipi di tutte le gratie, prerogative, vantaggi che sono soliti godere altri simili nostri seruitori.

Falconi Adelaide. Una delle più forti e delle più vere attrici italiane, se non forse la più vera, che illustrasser col ruolo di madre e caratterista le scene di questi ultimi quarant’anni, {p. 859}nacque a Napoli da Raffaele Negri artista popolarissimo e da Rosalinda Cammarano, sorella di Salvatore, il ben noto librettista. La piccola Adelaide esordì a quattr’anni in Compagnia Fabbrichesi col Pitocchetto della Baviera. Ancor giovinetta passò a far qualche particina di amorosa in quella Domeniconi, diretta da Carlo Roti ; poi, sviluppatasi alquanto intellettualmente e fisicamente, entrò qual prima attrice giovine al Teatro La Fenice di Napoli in Compagnia di Tommaso Zampa, il Salvini della giacca, salendo a tal grido, che il De Lise, commediografo di buon nome, allora dettò per lei la Cieca di Sorrento, la Civetta punita, l’Orfanella di Parigi ed altro. Dalla Fenice passò prima attrice nella Compagnia del Padre, alla Partenope, col quale stette quattordici anni, rivaleggiando colla celebre Sadowski. Sposatasi del ’62 coll’attore generico Pietro Falconi, cominciò a’Fiorentini sotto Adamo Alberti e a fianco di Tommaso Salvini e Clementina Cazzola a vestir le parti di prima attrice madre ; sostituendo pur tuttavia con onore e per sei mesi in quelle di prima attrice la Cazzola stessa, ammalata. Dai Fiorentini passò al Fondo nella Compagnia di Achille Majeroni, poi, col marito (1880) in quella di Ciotti, Marchi, Lavaggi, quale madre e caratterista assoluta, nel qual ruolo, specialmente, assai poche le si accostarono, niuna la superò. Fu cinque anni con Bellotti-Bon, poi, in società, nell’America del Sud, poi con {p. 860}Francesco Pasta, col quale non potè compiere il triennio di contratto, perchè scritturata, mediante forte penale, nella Compagnia Nazionale di Roma per cinque anni.

Ancora : del ’76 recitò a Roma, con grande successo, la parte di Elisabetta al fianco di Adelaide Ristori, Stuarda ; e, ritiratasi dalle scene, vi ricomparve al Teatro Nuovo di Napoli, il 1º febbraio del ’97 : questo lo stato di servizio dell’incomparabile artista. Tra le parti ch’ella o veramente creò, o mirabilmente recitò oscurando chi la precedette, vanno annoverate quelle di Caterina nel Falconiere di Marenco, della protagonista nella Nonna scellerata di Torelli, di Madama Guichard nel Signor Alfonso di Dumas figlio, della Duchessa nei Mariti di Torelli, della Marchesa nei Danicheff di Dumas figlio, della Madre nel Marchese di Villemer di Giorgio Sand, della Palchetti nella Vita Nuova di Gherardi Del Testa, della Duchessa nel Mondo della noia di Pailleron, di Margherita nella Medicina di una ragazza ammalata di Ferrari.

Ho detto che Adelaide Falconi è stata forse la più vera delle attrici madri e caratteristiche della scena italiana. A dare una idea esatta del valore artistico di lei, e sopratutto del suo modo di recitare, basterebbe dire ch’ella fu un Cesare Dondini in gonnella. Com’era apparsa in su la scena, avea già fatto metà della parte con una figura delle più convenienti al personaggio, con una espressione del volto nobile e serena, con un sorriso incantevole, con uno sguardo affascinante in cui era tutta trasfusa la soavità dell’indole sua. L’altra metà faceva con una spontaneità siffatta di dizione da far strabiliare. Se all’Adelaide Falconi la triste sorte avesse risparmiato sciagure ineffabili, che la tolser dalle scene incurvata dal dolore, e non dagli anni, ella avrebbe potuto come Alamanno Morelli rimaner lunghissimi anni, vero specchio di verità, su la scena.

Oggi vive a Napoli, ov’è anche il figliuolo Arturo, brillante nella Compagnia stabile de’Fiorentini con Cesare Rossi e Andrea Maggi.

{p. 861}Di lei, donna, sposa e madre, ogni più enfatico elogio sarebbe poco. Non vi fu chi la conobbe che non restasse vinto dalla mitezza dell’anima sua. Tornata, come ho detto, al lume della ribalta il febbraio del ’97, al Teatro Nuovo, A. Boutet nel Don Marzio, tracciò un profilo della Falconi, dal quale io traggo le seguenti parole che ben descrivon la donna, com’io la conobbi.

Amata, ammirata, adorata ! Se come attrice è stata ammirata, Adelaide Falconi come donna è stata amata ed adorata perchè è stata una santa. Mai dimenticherò l’accento caldo, convinto, di reverenza, col quale una giovanissima e valorosa attrice, alla quale di Adelaide Falconi chiedevo, mi rispose tout-court : una santa ! L’acre polvere dei palcoscenici mai è giunta a posarsi, ad insudiciare l’anima buona e bella della illustre signora ; si che nel mondo pettegolo, maldicente, qualche volta infamante, che si agita tra le coulisses, il nome della Falconi è pronunziato come quello di Maria Vergine Santissima ; ed in quel mondo pettegolo, come moglie, come madre, ella è semplicemente venerata.

Fanegotti Isabella, detta Vittoria. Di lei non abbiamo notizia che in questo documento inedito, che trovo tra le carte del Mariotti alla Biblioteca Nazionale di Firenze. La lettera è diretta al Principe Mattias de’Medici e non ha data, ma deve appartenere al 1660 circa. Nè sulla Flaminia nominata nella lettera, che avrebbe fatto colla Fanegotti la serva a vicenda, saprei pronunciarmi. Se mai la maggior probabilità sarebbe per la Marzia Fiala, detta Flaminia, che al ’64, essendo giovanissima e non ancor forse esperta per le parti serie, poteva benissimo recitar le meno importanti di serva.

Ma ecco la lettera :

Sereniss.mo Sig.re

All’A. V. S. rappresentai con ogni più viva espressione il torto fattomi, che perciò dall’A. V. S. ne ottenni cortesissima una lettera diretta all’Em.mo Sig. Cardinale et un’altra al Sig. Martellini, quale Sig. Martellini abboccatosi meco mi ha riferito a nome del Ser.mo et Em.mo Sig. Cardinale che i negotiati della Compagnia passavano in tale stato che se mi risolvessi di recitare oltre il pregiudicio delle due parti, di dovermi contentare di recitare da serva a vicenda con la Flaminia, ciò che è pregiudicio totale alla mia reputatione, e quello che più importa è che il negotio delle parti si renderebbe usitario per ogni anno si che si renderebbe impossibile l’haverle mai più ; si che genuflessa a’piedi di V. A. humilmente la prego per amor di Dio, e per carità volermi esser protettore e volermi aiutare, che della grazia pregarò S. D. M. per il felice mantenimento suo, e qui humilmente me l’inchino.

Dell’ A. V. S.

Humiliss.ma Serva

Isabella Fanegotti d.ª Vittoria.

{p. 862}Fargnoccola, o Frignocola. Leggo in una nota del D’Ancona (op. cit., II, 477) : nel 1581 i Desiosi erano a Pisa, come ne fa fede il Montaigne (Voyage en Italie. Ediz. del Lapi, 1889, pag. 472, 488) che ivi li trovò, e ricorda che ne faceva parte un Fargnoccola, che par nome di maschera.

Nell’Indice Universale della Libraria, o Studio del Celebratissimo Arcidottore Gratian Furbson da Franculin del Croce (V. Bianchi (De) Ludovico e Bagliani Pietro) l’opera seconda ha questo titolo : Aspramonte, Tom. 2 con l’allegorie di Zan Frignocola.

Aggiungi la Canzone del Sivello (V. Gabbrielli Giovanni) per le nozze di M. Zan Frognocola, con Madonna Gnigniocola, e avrai la riprova che si tratta veramente di un nome di maschera appartenente alla infinita schiera degli antichi Zanni.

Farina Giulio Cesare. Milanese. Formò compagnia a Napoli per due anni, con scrittura firmata il 5 luglio del 1575, in società con Mario, alias Lepido, De Thomase di Siena, Iacop’Antonio De Ferrariis di Napoli, Alfonso Cortese di Napoli, e Francesco Viviani di Lucca.

La scrittura, di cui i punti più caratteristici sono i seguenti, è riferita intera dal Croce (op. cit., 776-777) :

Chiunque de’ Soci mancasse di fare e recitar comedie, dovrebbe pagare a’compagni una multa di venticinque ducati.

Dato il caso che alcuno de’compagni et compagne si ammalasse o andasse in prigione per causa di detta compagnia, gli altri dovevano corrispondergli la sua parte di guadagno giornaliero, e portargliela sì in casa, sì in carcere, ecc. ecc.

Il guadagno netto della Compagnia, pagati gli altri scritturati secondo il pattuito, doveva esser diviso tra’ Soci in parti uguali. – I conti dovevan farsi ogni domenica sera.

Ognun de’Soci doveva confessarsi tre volte l’anno : cioè la Pasqua di Resurrezione, l’Assunzione e il Natale.

Se alcuno di essi bestemmiasse e fosse inteso da’compagni, questi dovevan subito andarlo ad accusare.

{p. 863}Altro di lui non sappiamo.

Ma qui potrebbe saltare agli occhi della mente quello Zan Farina o Gian Farina, aggregato a N. Deslauriers, detto Bruscambillo, famoso buffone e ciarlatano, poi attore con Gian Farina stesso (ch’egli chiama nel prologo dell’amicizia venerabile confratello) all’Hôtel di Borgogna. Essi erano a Parigi, operatori e venditori di droghe, e avean banco, l’uno al Pont-au-change, l’altro al Pont-neuf. Poi si unirono, e corser la provincia insieme ; e da certi prologhi di Bruscambillo pubblicati, quali a Bergerau, quali a Bordeaux e a Rouen, pare che Gian Farina fosse una specie di direttore delle commedie che si solean recitare in banco, prima della dispensa degli specifici. Anche all’Hôtel di Borgogna, ov’entraron circa il 1606, diventò Gian Farina il sovrintendente. Di lui dice Bruscambillo che era grasso e di aspetto gioviale, e lo comparò talvolta a Bacco. Ebbe davvero tal nome il Farina dalla consuetudine d’infarinarsi la faccia ? o quella consuetudine gli fu suggerita dal nome ? Ed era egli francese o italiano ? In una lettera del 1612 dell’arlecchino Martinelli al Cardinal Gonzaga è detto : che la ne faci avere Zanfarina…. Zan Farina dunque non solamente fu maschera del teatro italiano, ma vi ebbe chi sotto quel nome recitò con grido, se fu proposto dal Martinelli per una Compagnia che doveva recarsi a Parigi. Anche il Callot ce ne ha lasciato il costume ne’ Balli di Sfessania, danzante in coppia colla Franceschina. (V. Roncagli).

Favella Gironimo. Comico napoletano, faceva in iscena la parte di disgraziatissimo innamorato (V. Croce, op. cit., pag. 120). Venute in Napoli di Lombardia compagnie comiche di quelle assai più famose e fiorite, il Favella si diede a fare il gazzettiere ; e tale lo vediam nel 1631 favorito al Monterey, il giovane Vicerè che prediligeva senza dubbio nell’alto e grasso e grosso gazzettiere l’istrione fallito.

Di costoro par che i Vicerè spagnuoli si servissero a fare scriver filippiche, avvisi e altro, a sostegno del Governo di {p. 864}Spagna e in difesa dell’opera propria. Del Favella appunto abbiamo una Filippica in cui si discorre della grande religione, bontà, amicizia e potere de’Re di Spagna e delle eroiche azioni de’Spagnuoli. Napoli, Roncagliolo, 1626.

Favre Luigi. Nato a Genova nel 1775, si diede all’arte assai giovine, esordendo qual primo amoroso nella Compagnia Ligure di Domenico Verzura. Vagò poi per varj anni in compagnie di second’ordine, ora socio, ora stipendiato ; finchè, divenute adulte le figliuole Giulietta e Carmelina, formò una buona compagnia, che condusse ora con prospera, or con avversa fortuna, e in cui la prima sosteneva con molta bravura il ruolo di prima donna, e l’altra di amorosa. Passata poi questa con ottima riuscita al ruolo di prima donna, la Giulietta si diede a quello di seconda donna, e di madre. Luigi Favre morì il 1840.

Fedeli Brigida. (V. Bianchi Brigida).

Feferi Francesco. « Giovane fiorentino – dice il Bartoli – che uscito dalla sua patria, diedesi a recitare fra’comici. Fu nella Compagnia di Luigi Perelli, è stato colla Tesi, e presentemente (1781-82) si trova unito alla Truppa di Francesco Paganini. È fornito di buona presenza, e può fra giovani suoi pari nell’arte del Teatro lodevolmente comparire. »

Era l’autunno e carnovale 1795-96 al S. Luca di Venezia nella Compagnia di Luigi Perelli.

Feoli Antonio. Nato in Ancona da un egregio caratterista e capocomico di second’ordine, fu ottimo generico primario. Cominciò a salire in rinomanza nella Compagnia di Angelo Lipparini, col quale tornò il 1847, dopo di essere stato con Domeniconi. Costretto dal suo ruolo generico a rappresentare dei vecchi, aveva presa l’abitudine d’ingrossare la voce, per modo che non poteva più piegarsi alle parti da giovine : il che {p. 865}non impedì ch’egli fosse e meritamente applaudito. Ritiratosi il Lipparini dalla scena, il Feoli formò con Gaetano Vestri una società ch’ebbe sorte infelice. A Sebenico, dove trovavasi con la compagnia, s’innamorò di una giovane che tolse in moglie, lasciando l’arte per la mercatura. Morì colà verso il 1870.

Quando colla Compagnia Coltellini fu al Teatro dell’ Aquila in Tolentino, s’ebbe nella sua beneficiata applausi e onori di epigrafi varie, tra cui la seguente :

Antonio Feoli – Anconitano – Attore celebratissimo – pe’suoi modi cortesi caro ad ognuno – venne per la quarta volta – a dilettare i Tolentinati coll’arte sua – e da essi ottenne – onori e plausi – se non adeguati al suo merito – sinceri almeno – siccome quelli – che nascono dal cuore.

Ferramonti. « Dottore detto il Gobbo, di nazion Bolognese. Si esercitò nella sua Maschera con impegno, e fu ricercato nelle migliori Compagnie. Fioriva nell’anno 1745. » Così Francesco Bartoli.

Ferramonti Antonio, veronese. Fu attore molto pregiato per le parti di Pantalone. Goldoni dice di lui che « piaceva dappertutto, fuorchè a Venezia. » E il Loehner (op. cit., 286) aggiunge in nota : « La cosa è chiara perchè, precisamente a quest’epoca, Venezia ammirava nei teatri di S. Samuele e di S. Luca il Cortini ed il Garelli, a’quali sottentrarono Golinetti e Rubini. »

Questo Ferramonti, di cui parla il Goldoni al Cap. XLV delle sue Memorie ; che tra il giugno e il luglio del 1743 era in riposo a Bologna, alla vigilia di recarsi a Rimini, scritturato da una compagnia comica che quivi recitava al servizio del {p. 866}Quartier generale Spagnuolo, era, come afferma il Loehner, marito dell’Antonia. Il nome, in fatti, e il cognome e la patria e il ruolo concordano. Ma qual ragione potè far sì che il Goldoni, come di sconosciuto, non accennasse punto, nè men di sfuggita, all’amicizia antica ?

Divenni amico di suo marito, dice al Cap. XXXVII ; poi (ivi) : facendo le mie scuse col Direttore di non poter andar seco, partii colla signora Ferramonti e suo marito in una buona vettura. Il testo ha : avec madame Ferramonti, et le bonhomme son mari. E come mai, otto anni più tardi si contenta di dire : « Trovavasi a Bologna un attore eccellente che faceva la parte de’Pantaloni, e che avendo modi, piacevagli di riposarsi nella bella stagione, e di recitare in commedia solo l’Inverno. Quest’uomo, Chiamato Ferramonti, non mi avea mai lasciato in tutto il tempo del mio soggiorno a Bologna. » Non par che il Goldoni accenni ad uomo fin allora sconosciuto ? ?

Ferramonti Antonia, bolognese, detta Tonina, andò a sostituire la Casanova nella Compagnia Grimani per le parti di amorosa. Il Goldoni dice ch’ella, giovane, bella, di aspetto signorile, e di tratto nobile, piena di talento e adorna di grazie, era un buonissimo acquisto per la compagnia, poichè recitava assai bene nelle commedie, ed ancor meglio nelle tragedie. Egli si occupò molto di lei, e le prese un particolare affetto, che generò l’invidia e la malignità di tutte le comiche ; e specialmente della Bastona, la quale eccitava la Colucci alla ribellione, quando si assegnò alla Ferramonti una delle parti principali nella Fondazion di Venezia.

Ma la poveretta non fu lungamente il bersaglio delle gelose compagne, chè dovette soccombere di parto, dopo di aver subìta la operazione cesarea.

Il necrologio della parrocchia di S. Giacomo Apostolo di Udine (Loehner, op. cit.), dice che Antonia, moglie di Antonio Ferramonti, veronese, morì di 24 anni all’incirca, addì 5 agosto 1735.

{p. 867}Ferramonti Camilla. « Prima donna di sommo merito – dice Fr. Bartoli – che travagliò con indefessa attenzione, che fu ben accolta dovunque con molti applausi, e che lasciò le caduche spoglie l’anno 1770. »

Ferrarese Ottavio. È Citato dal Croce (op. cit.) fra’ comici ch’erano a Napoli sui primi del’600. Sotto la data del 1612, è in quell’Archivio municipale una nota di concessione per una sua casa sopra la porta del Mercato.

Il Ferrarese recitava con la maschera di Tartaglia.

Ferraresi Massimo. Egregio artista nella parte di Dottore, ed esperto capocomico. Maritò la figlia Elisabetta all’arlecchino Giovanni Fortunati (V.) « e con fama d’uomo onorato – dice il Bartoli – morì in Parma l’anno 1767. »

Ferraresi Teresa. Moglie del precedente, recitò con ispirito nel carattere della serva. Morto il marito, abbandonò il teatro e andò a vivere colla figlia e col genero. Morì a sessant’anni.

Ferrari Pietro, milanese. Fu buon innamorato e tal volta buon arlecchino ; ma miglior capocomico. Egli conduceva la sua Compagnia « con buoni regolamenti – dice il Bartoli – vantaggiosi per se stesso e pe’suoi compagni. Bologna, Firenze, Genova, ed altre città applaudirono al suo modo di condurre e dirigere una società di persone abili nel loro mestiere con decoro, e con quella riputazione che ha formato il suo buon nome. » Scorreva il 1781-82 la Lombardia con la compagnia, la quale, benchè in gran parte modificata, non gli scemò punto il favore del pubblico.

Dagli spogli fatti da Adolfo Bartoli sulle notizie dell’omonimo Francesco, abbiamo che appartennero alla lodata Compagnia del Ferrari, Camillo Friderici, detto da lui il più virtuoso comico che avesse allora l’arte comica, Nicola Menichelli, {p. 868}Serafino Valeriani, Bonifazio Valenfeld, Antonio Bazzigotti, Anna Garelli e Giulia Pizzamiglio.

Ferrari Marianna. Fu la prima attrice della Compagnia comica di Ernesto Rossi e Giovanni Leigheb pel 1849. Morì nello stesso anno di colèra fulminante a Trieste. Il Rossi descrive di quella morte particolari nelle sue Memorie (I, 43) ; dell’artista, dice che fu discretissima attrice, piena di zelo e di buona volontà, educatissima signora, intelligente, istruita, bene equipaggiata.

Ferravilla Edoardo, attore dialettale milanese, nato a Milano il 18 ottobre del 1846 dal Marchese Filippo Villani e da Giulia Ferravilla, artista di canto portoghese, è, per originalità, il più grande degli artisti italiani del nostro tempo. Finito il corso tecnico, si mise a fare il contabile, e a poco men che vent’anni a recitar parti di brillante nella Società filodrammatica Gustavo Modena. Uscito il programma di Cletto Arrighi, che di lui fu illustratore accurato e amoroso (Milano, Aliprandi, 1888) per la formazione della Compagnia milanese stabile, il Ferravilla vi fu accolto come amoroso, rimanendo per alcuni mesi attore poco men che sconosciuto. Ma capitatogli di dover {p. 869}sostituire l’artista che recitava la parte di Gervesin nel Barchett de Buffalora, egli si trovò già a tale altezza, che parve quasi impossibile toccarne altra maggiore in quel genere. Non fu più riproduzione, ma creazione : la particina diventò poema, al quale tenner dietro senza interruzioni nel cammino glorioso gli altri (se non molti, così grandi e perfetti da valerne infiniti), quali il Massinelli, el sur Pedrin, il Sindaco Finocchi, il Tecoppa, Gigione, el sur Pancrazi, el Maester Pastizza, el sur Pànera, el sur Pistagna, e altri ancora che non son poi che una derivazione più o meno isvariata di questi. Non dunque oserei dire che il Ferravilla si sia venuto migliorando, affinando nell’estrinsecazione de’suoi tipi. Il suo genio si esplicò e palesò di getto : fu quel che fu, e quel che fu è oggidì. Grande oggi come allora ! E siccome quel ch’egli è, è perfezione, così accade che quei dieci o dodici tipi da lui creati, che avrebber dovuto, più che venire a noia, nauseare un ascoltatore assiduo di venti anni, si trovin oggi come venti anni addietro, al suo cospetto, freschi, saltanti, vivi, quasi opera d’arte non mai veduta, nè imaginata ! E in codesta perfezione di esecuzione tutto ha che vedere fuor che lo studio macchinale : il Ferravilla anzi, sotto certi rispetti, ha punti di contatto coi grandi nostri della commedia dell’arte. E tale e tanta la sua spontaneità, che il tipo così fortemente e profondamente studiato, non solo come attore, ma come autore, è, quasi ogni sera, nelle parole, nella voce, nei gesti, non già nell’essenza, rinnovato dal soffio potente e immediato dell’arte. Egli ha bene il diritto di essere messo assieme a’ grandissimi che diedero al mondo tipi immortali, se bene i suoi sien condannati pur troppo a perire : chè è per essi di tal guisa la creatura legata al suo creatore, che dileguato l’uno, anche {p. 870}dileguerà l’altra, non lasciando tra’ posteri che un vago ricordo, andatosi serbando e ahimè modificando nella viva voce delle generazioni succedentisi. Se ciò potesse non essere, se Edoardo Ferravilla fosse corporalmente immortale, i Massinelli, il Pànera, il Pastizza, e gli altri personaggi da lui generati, troverebbero il lor posto accanto ai Don Abbondj e alle Perpetue.

Si è notata in genere la felicità e comicità delle frasi nuove e inattese passate ormai in proverbio, che han fatto il Ferravilla popolare. Certo : quando la signora dice alcuna parola in francese al sur Pedrin, quel comme ? di lui, che non ha capito un’acca, è una graziosa trovata ; quando la prima donna, ormai sulla quarantina, dice al Maester Pastizza di aver ventun anno, quel io ne ho dodici di lui è una graziosa trovata ; quando, detto al servitore di togliersi di testa il cappello, el sur Pedrin si sente rispondere : « ma anche lei ha il cappello in capo, » quella sua replica : « ma io sono il padrone, ignorante vigliacco » è una graziosa trovata ;…. e di tal passo potrei andare innanzi sa Dio quanto, chè tutte le commedie del repertorio di Ferravilla, e quelle scritte da lui specialmente, son tempestate del più fine umorismo. Ma quelle trovate, che son trovate di autore intelligente, di osservatore profondo, avrebber lo stesso resultato, dette da altri ? Le stupidaggini del Massinelli nella Class di asen, e il cretinesco soggetto della tragedia di Otello, detto dal Càmola nella Bagolamento-fotoscultura, otterrebber con altri gli scoppi d’ilarità prodotti dalla voce, dalla pronunzia, dallo sguardo, dal gesto di Ferravilla ? Il comme del sur Pedrin è ben comico : ma la causa dell’irrefrenato proromper del pubblico in matte {p. 871}risate noi dobbiam ricercare in qualcosa più che nella parola. Quale poema il lungo silenzio che precede quel comme ! L’occhio stupido, incerto ; l’incerto piegar della testa coll’orecchio e la mente tesi verso la donna che ha parlato, per afferrar qualcosa di quello che ha detto, poi con timidità, con circospezione, con la paura quasi di essere inteso, il proferir di quel comme scivolato, sdrucciolato…. ecco ciò che costituisce tal grandezza e finezza di arte da collocar lui fra i primissimi nostri ! L’io ne ho dodici del Maester Pastizza da quali eloquenti pause non è preceduto ? Nulla di quel che l’artista vuol significare al pubblico nel suo muto linguaggio si perde ! Quando l’orchestra suona la sinfonia del maestro, quanta espressione in quell’impercettibile sorriso di compiacimento, di modestia e di orgoglio insieme, ch’egli fa ogni tanto al futuro nipote che gli è quasi alle spalle !

E il Massinelli ! L’incomparabile, il vecchio e pur sempre giovine Massinelli ! Il modo di salire al posto, di scenderne, di ascoltar le parole sommesse dei compagni sulla scoperta fatta dal maestro delle buccie di salame ; e quel comico venir alle mani, e le risposte all’esame, e il dialogo improvviso, e tutto, tutto di quella ineffabile scipitaggine non è nel tutto di Edoardo Ferravilla perfezione di arte ? E a vederlo e sentirlo nel Maester Pastizza e nella scena musicale a soggetto, chi crederebbe ch’egli sappia o poco o niente di musica ? Il toccar di quei tasti, lo sdrucciolar di quelle scale ! E quei recitativi strascicati, nasali, quegli accordi solenni, quella canzoncina, tutto, tutto non è così ben veduto e bene sentito e bene reso, da far di Ferravilla un artista senza confronti ?

{p. 872}E dove mettiam noi l’arte del cammuffarsi o truccarsi, che è somma in lui ? Guardatelo in tutte queste illustrazioni che riproduco dalla citata opera dell’Arrighi per gentil concessione del suo editore Carlo Aliprandi !! Chi potrebbe nel sur Càmola, con quelle guancione di ovatta, trovar segni di raffronto colla faccia impresciuttita del maester Pastizza ? E nel Pedrin o Massinelli coll’incomparabile vecchio della scena a soggetto ? A tal proposito, ben fece la Perseveranza in un articolo su l’Annada in umid. Rivista del 1872, a metter fuori il nome di Garrick ; poichè il nostro attore italiano coll’amico del Spos sequestraa, che in due minuti si trasforma su la scena da vecchio, può infatti competere col celebre attore inglese. Naturalmente le notizie sul Ferravilla non possono esser sì diffuse come quelle di altri grandi che apparvero e appariranno in quest’opera. Sommo all’inizio della sua carriera, si è serbato sommo sino a oggi, percorrendo l’Italia, attore, autore e capocomico. Ebbe alcun tempo società con lo Sbodio e il Giraud, poi fu scritturato assieme a tutta la Compagnia dal Capitani. Oggi torna solo. Di lui, degli aneddoti che van per le bocche di tutti su di lui, molto scrisser tra gli altri e il citato Arrighi e Jarro e il Fontana. Paolo Mantegazza gli dedicò l’Almanacco igienico popolare del 1895 con parole di caldissima lode, dalle quali per gentil concessione di lui riferisco le seguenti :

……………….

…… ma voi non sapevate, che creando questi personaggi, così idealmente veri, così comici, aprivate a noi tutti una miniera inesauribile di gioconde allegrezze, di sana ilarità.

…… E quando vi abbiamo per tutta una sera ascoltato e applaudito, all’uscire dal teatro, la nostra bocca è saporosa, il fango è stato lavato in modo misterioso e miracoloso. Ci sentiamo sani di dentro e di fuori e contenti di essere nati e di essere ancora vivi.

{p. 873}Sani e allegri, perchè senza odio abbiamo riso delle miserie comiche dell’umana famiglia, perchè voi ci avete fatto ridere largamente, pienamente e deliziosamente.

E ci avete divertito senza fare solletico alle nascoste prurigini della lascivia, senza averci tetanizzati cogli ordegni della moderna drammatica, senza aver adulato nessuna delle nostre basse passioni.

Ci avete divertito coll’arte sana, che non ha artifizii di belletti, nè sapori d’assenzio ; ma che sgorga limpida e pura dalla roccia granitica della natura umana ; sempre bella, quando è nuda ; sempre bella anche nel suo lato ridicolo e comico.

E si torna a casa più sani, più felici e più buoni di prima, perchè l’allegria fa buon sangue e il buon sangue fa buone azioni.

Voi senza saperlo dal vostro palcoscenico avete guarito molte malattie di fegato, molte dispepsie, moltissime ipocondrie. Voi siete il migliore contravveleno della nevrastenia dominante, il migliore rimedio di tante e tante malattie fisiche e morali, che affliggono il bipede implume del secolo xix.

E con tutto ciò non siete forse un grande igienista ?

Possiate esercitare questa arte benefica per cent’anni ancora e possa la sana gioia, che voi seminate con tanta larghezza, esservi restituita in tanta salute e in tanta gloria.

E questa chiusa, questo giudizio dell’ illustre igienista ci richiama alla memoria un altro grande attore della commedia dell’arte del secolo xviii, Carlo Bertinazzi, celebre arlecchino, più noto sotto il nome di Carlin. Anch’egli fu indicato da un famoso medico francese come farmaco a un povero diavolo che aveva tutto l’aspetto di un ipocondriaco. Se non che, il povero diavolo, sconosciuto al medico, era il Bertinazzi in persona. Non sarebbe anche qui il caso, a vedere il Ferravilla fuor della scena, con quell’aria d’uomo triste o almen d’uomo annojato, di consigliargli di andare un po’a sentire il Ferravilla ?

Ferri Camillo. Nacque a Bologna il 1810. Dopo alcune ottime prove coi filodrammatici della città, si diede all’arte, in cui riuscì valente amoroso e valente primo attore. Andò a sostituire il 1826, nella Compagnia Reale di Torino, l’amoroso Giacomo Borgo, al fianco della Marchionni e di Luigi Vestri ; e quivi lo vediamo nel’29 primo attore a vicenda or col Boccomini, or col Perini : ruolo che sostenne con crescente favore sino al’35 ; nel qual anno uscì dalla Reale, sostituitovi da {p. 874}Giovanni Battista Gottardi, per divenir conduttore di Compagnie or buone, or mediocri, delle quali egli era l’anima. Cammillo Ferri era più tosto piccolo di statura e alcun poco tozzo : ma la voce magnifica, il volto espressivo, il sentimento vivo, l’ingegno pronto lo compensarono a esuberanza del difetto : e dice il Regli (op. cit.) che, affidatogli il Paolo nella Francesca da Rimini del Pellico, la bella sua voce che era tanto unisona a quella della Marchionni, vi produceva un mirabile effetto. L’atto terzo diveniva un gioiello per l’accordo, col quale i due attori eseguivano e sentivano quella famosa scena. Venuto a tarda età, si stabilì in Torino, ov’ebbe il posto di rappresentante del Teatro Regio. Morì a Torre di Luserna.

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Ferro Alberto. Attore assai pregiato sì per le parti serie, come per le comiche, si trovava al S. Gio. Grisostomo di Venezia l’autunno del 1794 in Compagnia di Gaetano Fiorio, nel qual tempo creò, con molto successo, la parte di Columella nell’Olivo e Pasquale di Antonio Simon Sografi. Creò allo stesso teatro, e con egual successo, la parte di Polinesso, Duca d’Albanìa, gran Contestabile del Regno di Scozia, nella Ginevra di Scozia di Luigi Millo, rappresentata la prima volta il 4 gennaio del’95.

Lo vediamo poi, l’autunno e carnovale ’95-’96, qual Pantalone della Compagnia di Carlo Battaglia (V.), sempre al S. Gio. Grisostomo, dove creò la parte di Barone nell’Avventuriere notturno di Federici, rappresentata la prima volta a Trieste l’estate del ’95.

{p. 875}Il Giornale dei teatri di Venezia (vol. III, pag. xxi) dice di Alberto Ferro :

Se colla parte di Barone nell’Avventuriere notturno si distinse nel comico caricato, con quella dell’Impresario nelle Convenienze teatrali non mancò di provare la sua naturalezza vivace, che venne ancora meglio espressa col Federico II nel dramma che porta questo nome.

Ferroni Angelica. Moglie in seconde nozze di un suggeritore, entrata nell’arte verso il 1829, sosteneva nel 1831 il ruolo di seconda donna in Compagnia Internari e Paladini. Passò il ’41, e nello stesso ruolo, nella Compagnia Reale Sarda, al fianco di Amalia Bettini ; il ’47 era madre coi soci Internari, Colomberti e Fumagalli ; madre e caratteristica il ’56 con Ernesto Rossi, poi a Parigi il ’57 colla Ristori. Si ritirò dall’arte in Firenze, ove andava recitando coi filodrammatici di quella città, e ove io la conobbi. Ricordo ch’ella mi mostrava, giustamente fiera, un magnifico ritratto di Alessandro Dumas con una affettuosa dedica. Morì dopo lunga e penosa malattia verso il ’70.

Ferroni Giuseppina. Figlia della precedente. Cominciò giovanissima a recitar parti di alcuna importanza, e la vediamo nel ’56 con Ernesto Rossi, al fianco della Bon e della Peracchi. Nelle memorie di lui (op. cit.) si dice ch’ell’era una cara giovinetta, che tanto prometteva nell’arte, e di cui certamente sarebbe divenuta una sacerdotessa, se un importuno Giasone, {p. 876}non fosse venuto a spegnere il fuoco della sua ara, quando appunto tutto a lei sorrideva ; bellezza, talento, l’amore dei suoi parenti, dei suoi amici e le simpatie del pubblico. Senza dubbio nell’importuno Giasone dobbiam vedere l’artista Enrico Capelli che divenne poi suo marito. Passò nel ’57 con la Compagnia di Adelaide Ristori a Parigi, ove le si fece il presente ritratto in costume di Elisabetta nella Stuarda di Schiller.

Fiala Giuseppe Antonio, napolitano, comico di S. A. il Duca di Modena, fiorì nella seconda metà del secolo xvii, sotto il nome di Capitano Sbranaleoni. Ci appare la prima volta in una supplica da Verona del 10 agosto 1651 a un segretario del Duca, sottoscritta da alcuni comici della compagnia, perchè il Marchese Bentivoglio concedesse loro il teatro di Ferrara pel mese di ottobre, dovendo poi andare il novembre a Venezia, e facesse grazia d’introdurvi le dame a udirli. Curioso ne è il poscritto : e perchè ui sono molte porte nel suddetto Teatro e necessario che siano chiuse molte di lorro. La Compagnia era allora composta di Zanotti – Ottavio, Bendinelli – Valerio, Coli – Fichetto, Coris – Silvio, Albani – Pantalone, Locatelli – Trivellino, Fiala – Capitano, Isabella – Colombina (la Franchini ?), Nelli……

Nel ’64 lo vediamo nella lista della compagnia che desiderava unir Fabrizio (V.), al cui nome è riferita per intero ; in essa appare per la prima volta la moglie Marzia, seconda donna col nome di Flaminia, a vicenda con Lucinda (la Nadasti ?).

Il 14 agosto del ’74 si trovava a Napoli ; e dovendo d’ordine del Duca recarsi a Modena, implorava soccorso per sopperire alle ingenti spese di viaggio, dicendosi povero homo circondato di famiglia e vechio. Come gli andasse la piazza di Napoli sappiamo dalla seguente lettera, che la moglie scrisse al Duca, l’anno dopo che furon tornati da quel disastroso viaggio.

Ser.ma Altezza,

Martia Fialli Comica, detta Flaminia, humilissima, et denotissima serua di V. A. S.ma riuerrente gl’ espone, come l’Anno passato, doppo hauerli esebita la sua Compagnia, non {p. 877}trouò la sodisfatione di V. A. S. onde fu necessitata condursi in Napoli, oue essendo seguitata con lettere da Comici, hauena anche aggiustata cola vna Compagnia, e pure le fù interrotto, stante le lettere riceuute d’ordine di V. A. S. onde restò colà senza Compagnia, lontana da modona miglia 365 et ricevuto il Commando di douer venire a Modona, e non uenendo, perdita de beni, confiscatione di tutto, e perdita della vitta del Consorte, hauendo tra il viaggio fatton e tempo in Napoli ha dimorato, consumato quelle sostanze haueua, per incontrar le sodisfationi di V. A. S., ha impignato tutte le sue Gioie per ottanta doppie al Banco di S. Giacomo de Spagnoli, delle quali cinquanta, ne ha consumato nel viaggio, da Napoli a Modona in Letiche, Carrozze, spese cibarie, e condotta di sue Robe ; onde hora gl’è necessario che mandi il marito a Napoli, per riscuottere dette Gioie, e questa sara sopra spesa per più d’altre venti doppie. Onde genuflessa a Piedi di V. A. supplica la sua innata bontà, e Generosità di ristorarla del suo viaggio fatto per seruir V. A. S. non sapendo oue volgersi, carica di famiglia viuendo certa, che V. A. S. non vuole ueder la ruina, esterminio, e danno d’una sua obbligatissima serua supplicante, et attendendone gl’effetti della sua magnanima bonta, con ogni profonda humiltà, baccia la sua Ser.ma mano dalla quale attende la gratia, e soglieuo & Quam Deus &c.

Di fuori :

A. V. Ser.ma Per la Martia Fialli comica detta Flaminia.

Rescritto della Cancelleria :

Si riporti 1675 (di mano posteriore).

Della Compagnia del ’75 si è riferito l’elenco al nome di Areliari. Qui aggiungiamo che allora S. A. S. pagava per loro sussistenza ai comici, quando si trattenevano in Modena o in altra città senza recitare, lire 64 per ciascheduno. Il novembre del ’77 i Fiala erano a Venezia ; e da un documento del 1681 rileviamo che si pagavano loro sessanta ducatoni d’argento di parte intiera. Il 20 gennaio di quell’anno si attaccò di notte il fuoco al Teatro Valentino, che in poche ore fu distrutto, continuandosi però a recitare nella sala detta della Biada, ove d’ordine di S. A. eressero il palcoscenico e qualche palchetto. Il 1682 Egli si disfece della compagnia, dandole in dono 240 doppie in ragione di venti per ciascheduno (una doppia d’Italia valeva trentatrè lire) : ma la vediam ricostituita al suo soldo l’ ’86 con pochi mutamenti, alla quale con ordine al tesoriere Zerbini del 28 giugno, il Duca Francesco assegnò a titolo di sussistenza due doppie il mese per ciascuno, cominciando dal primo giorno di maggio. Il 19 maggio dell’87 furon date dieci doppie per ciascuno a Giuseppe e Marzia Fiala, a Gaetano Caccia e a Bernardo Narici ; e il 23, dodici doppie a {p. 878}Marzia Fiala per essere distribuite in ragione di sei a Gabionetto e sua moglie (?), quattro a Florindo (il Parrino) e due ad altro che serviva nella compagnia. Il giugno dello stesso anno troviamo il Fiala con la Compagnia a Cremona, e il dicembre a Lodi ; e sappiamo che di là doveva recarsi l’inverno a Pavia, ove col mezzo di commendatizie di Don Fernando Baldes, generale dell’artiglieria di S. M. Cesarea nello Stato di Milano, e di altri, eran già stati eretti in sala conveniente palcoscenico e palchetti ; quando, al momento di partire, gli fu ingiunto di aspettar l’ordine del Marchese Decio Fontanella, che probabilmente lo avrebbe fatto andare a Vicenza anzichè a Pavia. Della qual cosa egli e alcuni di compagnia (Gabrielli – Pantalone, Milanta – Dottore, Marchi – (?), e Narici – Orazio), mosser lagnanza al Duca di Modena con lettera da Lodi del 16 xbre ’87, invocando la grazia di recarsi alla Piazza stabilita. Con questa data cessa la comparsa del Fiala tra’comici di S. A. ; e sua moglie, che pure ha due lettere del ’92 e ’94, non ne fa più menzione. Se egli si diceva già vecchio venti anni addietro, molto probabilmente nel ’90 circa era già morto.

Fiala-Narici Marzia, modenese, moglie del precedente e sorella, probabilmente, di Bernardo Narici, che recitava gl’innamorati sotto nome di Orazio, sostenne lungo tempo le parti di seconda donna col nome di Flaminia. La sua vita artistica fu tutta legata a quella del marito. Fors’anche perchè modenese, ella parve avere alcun ascendente su l’animo del Duca Alfonso, che le tenne al fonte battesimale un figliuolo, e a cui spesso si volgeva per soccorsi morali e materiali : e vi han parecchie ricevute sue delle solite dieci doppie, che il Duca le faceva pagare come donativo. Nondimeno a lei non mancarono le tribolazioni de la scena che le vennero più specialmente dalla vicenda impostale con altra Flaminia, la Calderoni, colla quale s’era architettata una specie di congiura contro di lei, ora il marito Silvio rifiutandosi di imparar cose nuove e tenerle dialogo, ora i comici tutti coprendola di contumelie anche al {p. 879}cospetto del pubblico, tra cui prima e più atroce la qualifica di vecchia e inabile omai al recitare.

In una lettera al Duca di Modena, la Fiala si dice carica di famiglia ; ma di due figliuoli soltanto sappiamo che intrapreser l’arte dei genitori, come appare dai due documenti che qui riferisco :

Ser.ma Altezza

Martia Fiali detta Flaminia Comica serua humilissima di V. A. Ser.ma deuotamente prostrata rende humilissime gratie alla innata bontà di V. A. Ser.ma della prottetione che ha goduto nella pace conseguita per suo figlio, et suplica di nouo l’ A. V. S.ma a continuarli le gratie con il concederli un suo stafiere quale accompagni il detto suo figlio a Milano, comme anche di qualche lettera di fauore in quelle parti doue astretto dal bisogno gli conuiene andare essendo colà aspettato da una Compagnia, et non uedendo strada di accomodarsi con la giustitia che in longo tempo. Non sdegni V. A. S.ma di concederli questo fauore che della gratia &. Quam Deus &c.

Di fuori : Al Altezza Ser.ma del Sig.r Principe Cesare d’Este

Per Martia Fiali detta Flaminia.

Lista de Comici, à quali il Ser. mo Padrone hà fatto il regallo quest’anno 1686 :


Flaminia Fiali Dob.e n.º 20
Angiola sua figliola 20
Colombina 20
Leandro 20
Orazio 20
Dott.re Paghetto 20
Pantalone 20
Cintio 20
Buffetto 20
Arlichino 20
Cap.º Fiala 20
D.e 220

Qui dunque la figlia apparirebbe come amorosa o seconda donna della compagnia : ed è l’unica volta che figuri in un elenco di comici. Sotto la stessa data, troviamo in una lista di comici del Duca, e sempre al fianco della Fiala un’altra Angiola, che sappiamo essere stata l’Anna Marcucci, esordiente come comica, e appartenuta prima alla Compagnia del Palombi, cantimbanco napolitano.

Forse la stessa figlia maritata a un Marcucci ??……

{p. 880}Fiammetta. « Comica, che recitava la parte della serva con diligenza, e prontezza di spirito, nella Compagnia de’ Comici affezionati in Bologna il carnevale dell’anno 1634. È lodata nella dedicatoria della Scena illustrata. » Così Fr. Bartoli.

Fidenzi Iacopo Antonio, fiorentino, celebre per le parti d’innamorato, sotto il nome di Cintio, fiorì nella prima metà del secolo xvii, comico di S. A. il Principe Alessandro Farnese. Delle vicende artistiche del Fidenzi poco possiam dire, per la scarsezza dei documenti fin qui trovati ; ma due lettere di lui che esiston nell’Archivio di Modena, qui riferisco per intero come quelle che ci dànno, se non molte, curiose notizie del nostro artista.

Ill.mo et Ecc.mo Signore

Hò con ogni spirito procurato di superare, e subire, le uiuezze d’alcuni Compagni, ora non si può piu ; ed è forza scoprir quali sono ; l’amicizia che passa, trà Brighella e Leandro, con l’unione di Pantalone, e la moglie di Leandro formano la metà della Compagnia e danno tal caldo al detto Leandro e Brighella, che non si può più uiuere. Brighella con Leandro prima che la Compagnia fosse stata ricompensata dall’Em.º Signor Cardinale Antonio ; han chiesto per loro particolare, un regalo per uno ; e da me risaputo, come capo della Compagnia scrissi al Signor Martinozzi, maestro di Camera di detto Em.º che anch’io pretendeuo, se gli altri domandauano, come quello che ha il carico di regger la Compagnia e metter fuori soggetti ; ma che però non era in costume di far ciò ; Brighella risapendo quanto haueuo scritto, recitando noi, in casa dell’Arcivescovo di Rodi, uno de’ Signor di Nuelara, ad’arte cominciò à motteggiare sopra à detta poliza ; ond’io : gli dissi hauerla scritta ; ma che in quella però io, non l’ingiuriauo, risposeme con tante uillanie, e minacciamenti, ch’io fui sforzato à maltrattarlo di parole, ma non uillane ; Beltrame disse, quetatevi Cintio, che basta solo, che si sappia che un Brighella ui habbia perduto così infamemente il rispetto, ed il detto Signor Arciuescouo ciò risapendo, era d’animo di far poco piacere à Brighella, ed’egli stesso si obliga attestarlo à chi che sia. Il Signor Abate Giouanni Bentiuoglio, mi faceua una riffa, ciò risaputo dall’Aurelia, e sopradetti, l’impedirono che non me la facessi, come succedè. Leandro che da me hà riceuuto l’educatione, commosso da gli entusiasmi dell’ambizione, mi detrae la fama, e doue può mi conculca : tralascio i dispiaceri hauti dalle sue smarciassate, minacciamenti fondati, sù quello ch’io non uoglio scrivere. La pouera Leonora, ricercata da tutti i Comici, che non hà sofferto ? scritture, e quasi detti come libello infamatorio, promulgati frà Cau.ri e quasi affissi sù Cantoni : messo male frà principi acciò che non la regalino, com’è succeduto à fiorenza. queste cose unite insieme, e ’l non ueder subita risposta di V. Ecc.ª cagionarono, che dieci giorni sono, la Leonora ed’io promettessimo al Carpiani, et Cau.ri suoi parziali d’unirsi con esso lui, con altri suoi aderenti e Comici buoni e quieti. Sappia Vostra Ecc.ª che quando i grandi, riconciliano i Comici insieme, per rimaner seruiti ; odesi tallora dà i peggiori, per le piazze, per i ridotti dire, il tal principe mi li fà star per forza, la cui auttorità mi lega, la lingua, e le mani : le quai cose fanno stare in {p. 881}continua discordia le compagnie. Ciò si auera frà trappolino, e Bagolino, uenuti frà loro à rompimento di capo. or ueda Vostra Ecc.ª come poss’io sofferire senza perder il corpo, ell’anima cosi barbara unione. il Signor Duca mio Signore per cui prego ogni giorno, cosi Dio, mi faccia degno d’essere esaudito ; rimarrà da me seruito con ogni affetto, ma non con questi dui, e poi uolendo Trappolino e la moglie, non u’ hà che fare, l’Aurelia. il carpiano oltre l’essere buono nella sua parte, e suauissimo di costumi, e seruirà con ogni spirito, e dà pantalone marauiglioso. u’è buffetto ; dirà Vostra Ecc.ª questo non brama il S.r Duca ; respondole, che ual più la quiete, per gustar i grandi, che l’unione di cento personagi insieme. Beltrame lo sà, lui stesso lo giudica impossibile e dannoso, e che senza ammazzarsi qualcuno, non si possa finir l’anno. or per l’amor d’iddio, come si può gustar un principe con tanti disgusti ? Signor Marchese, non procuri questo per l’amor d’iddio, mancano personaggi ; domandi à tutti i Comedianti, come siano impertinenti questi due : ma caro padrone, non palesi questa lettera ad’altro che al Ser.mo Signor Duca, perche mi conuerrebbe ammazzarmi in Bologna con questi, mi conserui in sua grazia, mostri il mio affetto al Ser.mo Signor Duca, e li mostri in uno l’estreme difficulta nostre mentr’io da chi può auguro à Vostra Ecc.ª il colmo d’ogni bene.

Roma li 12 feb.º 1638.

Di Vostra Ecc.ª Ill.ma

Deumo. seruitore d’antico affetto

Cintio Fidenzi Comico.

Ill.mo Signor et padron mio Col.mo

In Bologna dal S.r Francesco Toschi, riceuei comandamento à nome del Ser.mo Signor Duca, ch’io non m’impegnassi, con nessuna Compagnia di Comici, intendendo Sua Altezza di seruirsi di me, per il Carneuale, et unirmi, con Beatrice, Trappolino et altri Comici. or’io, per guarire d’un mio male, uenni à padoua, e mi couenne recitare in una Compagnia che uiue sotto la prottetione del Signor Marchese Obizij. questa Compagnia si è obbligata per l’Autunno, è Carnouale al Signor Almoròzane ; la quale non à che far di me, mentre il Carnouale non possa essere con essi loro. et essendomi stato acertato, che Beatrice, con altri Compagni se ne ua per il Carnouale à Roma ; e che l’Angiolina si è obligata in altra stanza à Venetia ; non ueggo forma di Compagnia per seruir cotesta Altezza, et à me non istà bene, essendo pouer huomo uiuer sù l’incertezze. perciò suplico Vostra Signoria Ill.ma à fauorirmi d’insinuar nel Ser.mo il mio bisogno ; qual’è di sapere, s’io ho da seruirlo il Carnouale ; e non havendo l’Autunno Compagnia come mi hò da sostentar quattro e più mesi ; poi che essend’io pouer’huomo, non ho modo da sostentarmi senza il mio esercitio questo tempo, si che, hauendo da seruir cotest’ Altezza, la supplico d’alcun aiuto di costa, acciò ch’io mi possa intrattenere fin’al tempo del Carnouale ; e non uolendo seruirsi di me, darme, con sua buona gratia, licenza, acciò ch’io possa promettere à questa Compagnia ò altra la mia persona per l’Autunno, e Carnouale. ne hò scritto al Signor Toschi : ne di ciò ne hò mai hauto risposta. ricorro à Vostra Signoria Ill.ma che ne saprà il uero, ond’io possa aquetar l’animo mio, co ’l quale riuerentemente la inchino.

Padoua li 30 Juglio 1650.

Di Vostra Signoria Ill.ma

Humiliss.º e diuotissimo Seruitore

Jacom’ Antonio Fidenzi detto Cintio Comico.

Iacomo o Iacopo Antonio Fidenzi era dunque il direttore della compagnia ; e il male accennato nella seconda lettera, che {p. 882}lo fe’andare a Padova, doveva certo esser quello degli occhi, di cui discorre in una delle sue poesie (pag. 70), nella quale sono anche i segni della più profonda gratitudine verso i suoi generosi Padroni.

Il Brighella è rimasto fin qui ignoto.

Leandro poteva essere il Ricci figlio del Pantalone.

Beltrame era Niccolò Barbieri, che nella Supplica più volte citata, chiama il Fidenzi onor delle scene, e amico delle muse.

Aurelia era la Brigida Bianchi.

Leonora era la Castiglioni.

Il Carpiano era Marcantonio Carpiani detto Orazio.

Trappolino era Giovan Battista Fiorillo, figliuolo del Capitan Matamoros.

Bagolino è rimasto fin qui ignoto.

Buffetto era Carlo Cantù.

Beatrice era la moglie di Fiorillo.

Angiolina. Chi si nascondesse sotto questo nome non sappiamo di certo. Forse l’Angiola D’Orso, allora giovinetta, che vediamo nel ’50 moglie di Fabrizio e chiamata nella lista dei comici col diminutivo di Angiolina per essere distinta dall’ Angiola, ch’era la Nelli, prima donna della compagnia ?

Il Fidenzi, oltre all’essere stato attore preclaro, fu preclaro poeta ; e pubblicò un volume di versi a Piacenza del ’52, ch’egli intitolò Poetici Capricci, e dedicò ad Alessandro Farnese, in cui sono, se non sempre, vivezza e semplicità di imagini, tanto più rare e pregiate, in quantochè apparse in mezzo al dilagar delle strampalerie del tempo, e di cui metto qui come saggio il principio del vigoroso canto :

I fifgli famelici della Vedova Ebrea assediata

Di Sion l’alte mura

Tito ricinte havea di genti armate :
E gli assediati Ebrei,
Con dolorosi omei,
Chiedean pietade a l’indurato Cielo :
{p. 883}E di viveri affatto impoveriti
Con lagrimosi inviti
De la Morte chiedean l’orrida falce.
Cadean turbe infelici
Sotto il flagello di rabbiosa fame ;
Via più, che a i colpi de le spade ultrici.

Quando Vedova Ebrea,

Che su vedove piume agiava il fianco,
Mancar vide, dolente,
L’usato cibo, ond’ havean vita i figli,
Rivolta lagrimosa a quei dolenti,
O affamati, e teneri Bambini
Lagrimosa proruppe in questi accenti :

Figli, viscere mie,

Più del mio stesso core amati figli,
Che chiedete piangendo ?
Ah che nel vostro pianto
Come in ispecchio, io veggio
Il vostro innocentissimo desìo,
Figli cibo non ho, vi do il cor mio.

Apritemi le vene,

Delibate il mio sangue,
Pur che viviate voi
Poco a me cale il rimanermi esangue ;

Barbaro insidiatore

Di nostra libertade,
Tu con funesto orrore
D’armi hai ricinte di Sion le mura.

Se Padre fossi tu, com’io son Madre,

Da paterna pietà forse commosso
Disarmeresti le nemiche squadre.

Figli, care pupille

Di questi occhi piangenti,
Figli, i vostri lamenti
Mi trafiggono il core,
Voi morite di fame, io di dolore.
………….

Prima di questi Capricci aveva inserito del 1613 a Venezia alcune rime nella Raccolta funebre per la morte della comica {p. 884}Maria Rocha Nobili detta Delia (V.), poi pubblicato, sempre a Venezia, del ’28, un Effetto di Diuozione, consacrato al merito indicibile de i due famosi in amicizia, e per sangue e per l’opere Illustrissimi Nicolò Barbarigo e Marco Trivisano, composto di tre sonetti e un’ode in quartine.

Francesco Bartoli fa nascere il Fidenzi intorno al 1596. Quando stampò le rime in morte della Delia, avrebbe avuto dunque soli diciasette anni. E nel Baschet, a pag. 165, si legge come la Compagnia, che doveva recarsi a Parigi il 1607, avesse stabilito di partire il 30 novembre, ma fosse trattenuta a Torino per un ritardo nell’arrivo degli abiti di Cintio, e non giungesse alla gran Capitale che nei primi di febbraio del 1608. La data del Bartoli è dunque erronea. Il Sand annovera Cintio Fidenzi tra i comici che furon nella Compagnia dei Gelosi dal 1576 al 1604. Ma allora avrebbe dovuto nascere intorno al 1580, o poco più. E in tal caso, come poteva trovarsi in compagnia non solo come Direttore, ma come attore ? Ammettiam pure che a Parigi avesse diciotto anni ; a Roma e a Padova ne avrebbe avuti sessantaquattro o sessantacinque. – Dunque non faceva più gli amorosi : forse non recitava già più. O recitava le parti caratteristiche in vernacolo fiorentino sotto il tipo di Ceccobimbi ?

Il Bruni, nato nel 1580, e che pubblicò le sue Fatiche comiche del 1623 a Parigi, dice di lui nell’introduzione :

A questo (Gio. Paulo Fabri) come ad Adriano Orazio (il Valerini) si può contrapporre Cintio Fidenzi, che grazioso, ma insieme anche studioso, adorna le scene, diletta a chi l’ascolta, non forma parola, non esprime concetto che non sia accompagnato da quel moto che gli è proprio, onde meritamente da più di un Principe accarezzato, fa conoscere non esser del numero di quelli che poco curandosi dell’onore, recitano per vivere, e vivono per impedire il luogo di un galantuomo.

E il Cinelli nella Scansia XI della sua Biblioteca volante (Modena, 1695) :

Fu il Fidenzi di bello e gioviale aspetto, di faccia che tondeggiava, di capello castagno, di bianca carnagione, e maestoso nel portar la vita. Fu pieno di carni, ed anzi maggior del giusto, ed in somma appariscente, e proporzionato alla parte d’Innamorato, che rappresentava. Faceva ancora egregiamente la parte di Ceccobimbi in lingua gretta fiorentina, intitolandosi Mercante di fichi secchi da Poggibonzi, con gran diletto degli uditori, e parmi ch’esso ne fosse l’inventore. (V.Andreini Virginia).

{p. 885}Fineschi Giuseppe, fiorentino. Dal Prologoda recitarsi dalla Compagnia accademica-toscana addetta al regio teatro degl’Intrepidi di Firenze, principiando le sue recite in Livorno l’estate dell’anno 1790 (Siena, Rossi), possiam trarre molte notizie riguardanti la vita di questo attore che recitava nella Compagnia Roffi, al tempo di Francesco Bartoli, con aggiustato sentimento, conosceva l’interesse e la situazione de’scenici fatti, e con zelo si adoperava nell’esatta esecuzione del suo proprio dovere. Imparziali erano quelle lodi, che dal Pubblico gli venivano concesse, sapendo colla fatica e lo studio plausibilmente farne l’acquisto.

Egli adunque si ritirò per alcun tempo dall’arte, e in questo prologo si finge la Dea Melpomene che venga a scuoterlo dall’ozio vile in cui placido posa, per tornarlo alle scene. E il Fineschi sotto nome di Corimbo risponde :

Diva, che dici mai ? da quanto ascolto
Difficil cosa all’esser mio richiedi.
Lasciai, nol niego, in quell’età che rende
Fermo l’Uomo in pensar, l’onore, e il premio
Dei comici lavori………….

Fu cinque anni fuor del teatro, e, stanco la mente, fuor d’esercizio, non più potendo apparire quel che fu altra volta, rifiuta l’invito. E qui alla nuova insistenza di Melpomene si aggiungon poche parole di Mercurio (Brunacci) che racchiudon le lodi del nostro artista.

……. E di che temi alfine ?
Non sei tu quel che cento volte e cento
Dal plauso universal vide distinta
La sua virtù ? Di te parlano ancora
Il doppio Reno, il Po, l’Arno ed il Tebro.
Liguria, Insubria, e tutto il suol Germano
Sospiran rivederti, e tu potrai
Avvilirti cosi ? Ah no, nol credo !…

Poi c’è un fervorino per la città di Livorno detto da esso Fineschi il quale anche ci apprende essere lui stato quivi ben quattro volte, onorato e festeggiato.

{p. 886}Fineschi Giuseppa, milanese, fu moglie del precedente. Fece le sue prime prove sceniche ne’ teatri accademici di Firenze, e riuscì attrice pregiata. Quando il Direttore Salvoni risolse di formare una Compagnia stabile pel Teatro Ducale di Parma, chiamò a sè i coniugi Fineschi, ma l’impresa ebbe poca durata, ed essi tornarono a Firenze, ove, al Teatro della Piazza Vecchia e del Cocomero, ella recitò alcuni anni acquistandosi buon nome in ogni genere di lavori, e specialmente nella tragedia francese Giulietta e Romeo, tradotta dall’abate Bonucci. Fu poi col marito nella Compagnia di Giovanni Roffi, sempre applauditissima, a Milano, a Torino, a Genova, a Livorno.

Si sa dal Bartoli, suo contemporaneo, ch’ella aveva

una graziosa figura, una retta pronunzia, una voce flessibile, ed affettuosa, che penetrava e invadeva l’animo degli attenti spettatori…… La dolcezza della fisonomia e degli espressivi e significanti suoi sguardi, or dimostranti allegrezza, ora dolore, ora un affetto intenso ed amoroso, erano in lei quei doni a pochissime Comiche dalla natura e più dall’arte concessi. La sua non ordinaria abilità nel canto finiva di coronare i suoi meriti, ond’è ch’ella, e per lo studio indefesso, e per la natural grazia, e per una allettatrice avvenenza, poteva essere elevata ad un grado distinto in mezzo al numero limitato delle valorose giovani attrici.

Metto qui il sonetto d’incerta penna pubblicato dallo stesso Bartoli :

Nell’erto giogo ove ha Virtù la sede
Stavasi assiso il Dio, che il Mondo irraggia,
Quando a lui presentossi quella saggia
Dea, che non mai l’etade abbatte, o fiede.
Signor, (dicea) colei, ch’è al vostro piede
Implora alto favor : giammai non caggia
Di Giuseppa la gloria. Non s’oltraggia
(Ei rispose) di te chi è degno erede.
Anzi (soggiunse) all’ Apollineo Coro
Oggi vo’impor di coronar sua fronte
Del nostro eterno, ed onorato alloro.
Qui le Sceniche Muse al cenno pronte
Di verde serto ornarla ; e all’Indo e al Moro
Le virtù di Giuseppa andar più conte.

{p. 887}Fini Luigi, cortonese, fu attore generico, trovarobe e capocomico. Formò società coll’Assunta Perotti pel 1822-23-24, ma se ne sciolse per mancanza di buon accordo. La morte della moglie fu a lui fatale. Nel mio libro degli Aneddoti, sono i Ricordi di un comico, il fiorentino Bellagambi, che racchiudono tutti i raggiri, i sotterfugi, le cabale a cui dovea lasciarsi il povero Fini e coi comici e cogli albergatori e coi barcajuoli per veder di tirar avanti la baracca alla meglio. Nel ’29 era trovarobe con la società Vedova e Colomberti, e il ’30 con quella Internari e Paladini. La mala condotta d’un unico figliuolo, Cesare, condotto anzi tempo al sepolcro, finì di atterrarlo. Si ritirò il 1832 nella nativa Cortona, ove morì poco dopo, miserissimo.

Fini Teresa, moglie del precedente, figlia di poverissimi artisti, si trovava a Legnago a recitar coi parenti e pochi scritturati il Curioso accidente di Goldoni alla presenza dei celebri artisti Anna Pellandi e Paolo Belli-Blanes, colà di passaggio. E tanto piacque la giovanetta nella parte di Giannina, che fu scritturata dalla Pellandi per le parti di prima attrice comica, al fianco di un’altra alunna la Carolina Tafani, poi Internari, che dovea sostener quelle di prima attrice tragica. La vita breve di Teresa Fini fu tutta un trionfo. Dalla Compagnia Pellandi-Blanes, passò il 1817 in quella di Raftopulo, qual prima attrice assoluta, in cui si sposò all’attore Luigi Fini ; e tale fu l’entusiasmo destato dovunque, che il gran Luigi Vestri, allora capocomico, stipendiato dal Duca Torlonia di Roma, la volle con sè ; e non tardò molto che il pubblico romano, il quale avea già proclamato Carolina Internari la prima tragica del suo tempo, non proclamasse Teresa Fini attrice insuperabile nella commedia e nel dramma. Ma breve troppo fu il trionfo : chè dopo una operazione chirurgica per parto infelice, dovè soccombere a Roma nella primavera del 1821 non ancora compiuto il trentesimo anno.

Finocchio. (V. Cimadori, Gambi, Zagnoli).

{p. 888}Fiore (Di) Domenico Antonio. Celebre comico napoletano, sotto la maschera di Pulcinella. Dice di lui Francesco Bartoli che « la sua prontezza nelle risposte, la sua pantomima naturale e graziosa, e una profonda intelligenza delle commedie improvvise, furono tutti meriti, che gli acquistarono fama e riputazione. » Domenicantonio di Fiore, nato il 1711, s’era dato giovanetto alle scene. Recitava il ’38, già famoso, a’Fiorentini in compagnia del Tartaglia Cioffo (V.), il ’39 in un giardino fuori Porta Capuana, e il ’41 al S. Carlino. Lo vediamo poi al Nuovo il ’46, autor di libretti come il Bajazette e Giancocozza. Riferisco dalla citata opera del Di Giacomo le seguenti parole che ci dànno una chiara idea del povero artista e dell’ambiente in cui visse :

Domenicantonio di Fiore visse in tempi ne’ quali l’arte del comico, per singolare che fosse e mirabile, non arricchiva. Egli si dovette accontentar della fama e mori povero come i suoi compagni. Zingari della commedia dell’arte essi si sbandavano paurosamente, a quando a quando, come, nel verno, soffiasse sulla loro straccioneria la raffica della miseria, livida nemica di Talia ridente, oppur come – impensierito da’ reclami dei padri di famiglia che vedevano i lor figliuoli impegolati fra le attrici – il severo Tanucci fulminasse la banda comica con decreti di immediato scioglimento. Domenicantonio di Fiore conquistava, è vero, la celebrità, ma battagliava con la fame. Gli cascavan davanti gli amorosi, pallidi e allampanati, i suoi vecchi padri serii si trascinavan, moribondi, sul palcoscenico, Cola e Coviello ridevano giallo e la stretta sorveglianza degli Scrivani dell’ Udienza impostati, con tanto d’occhi aperti, sul palcoscenico, impediva alle servette la pratica fruttuosa de’loro infiniti adoratori. Mala tempora pe’ comici di bassa levatura ; il di Fiore, straccione famoso, era un sole spogliato de’ suoi raggi. Ma ecco, dopo un secolo e mezzo, l’astro rifulge ; la ricerca paziente ripesca, tra vecchie carte muffite, una pietra preziosa e la disvela. Tardi, ma in tempo, il primo de’ Pulcinelli di San Carlino ottiene dalla storia resipiscente l’amica e pietosa rievocazione, che, liberandolo dalla tenebra, gli restituisce il posto di quel trono ch’egli occupò pel primo, e cosi gloriosamente, nella Reggia avventurosa e gioconda della risata.

Fioretti Antonio. È citato da Francesco Bartoli come un egregio Pantalone del secolo scorso. Fu lodato e stimato non solamente dal pubblico, ma sì dai comici, e morì nel miglior tempo della sua vita artistica l’anno 1761.

Fiorilli Tiberio, il più forte, il più completo, il più celebre artista italiano del secolo xvii, che tenne per circa cinquant’anni sotto il nome di Scaramuccia lo scettro dell’arte comica {p. 889}in Francia, nacque a Napoli il 9 novembre del 1608. Secondo il suo biografo Angelo Costantini, egli sarebbe figlio del Capitan Matamoros Silvio Fiorillo, e fratello minore del Trappolino Giovan Battista. Il padre, sempre secondo il Costantini, era capitano di cavalleria ; e desiderando « sposare in seconde nozze una delle sue cugine della città di Capua, non potè mai averne licenza dal Vescovo per l’affinità del Sangue. Entrò per tal cagione in gran lite col fratello del Prelato, il quale volendo alle rimostranze aggiungere il motteggio, tanto inasprì l’animo di lui, che, assalito con la spada alla mano, fu ucciso d’un colpo. Costretto quegli ad abbandonare il Regno di Napoli per {p. 890}sottrarsi ai rigori della giustizia, e trovandosi in Paese forastiero senza danaro e col peso di due figliuoletti, dovè, se ben gentiluomo, darsi al mestiere del Ciarlatano, e vendere specifici. »

Tiberio crebbe siffattamente ghiottone, che, non contento di quel che gli assegnava il padre, talvolta a soddisfar la sua gola, rubavagli le scatole d’orvietano, e rivendevale a prezzo vile agli osti e fornai. Per la qual cosa, al fine scoperto, fu scacciato di casa. Dopo una infinità di avventure in cui non sempre, stando al biografo, ebbe che vedere l’onestà, s’imbattè a Fano in una compagnia di comici d’infimo ordine ; nella quale spacciatosi per artista celebre, gli fu concesso di esordire, sotto la maschera dello Scaramuccia, nel Convitato di pietra : commedia da lui scelta e da lui prediletta, come quella in cui doveva essere una cena squisita. Il successo fu enorme, tanto che alle uova sode della prima sera, egli potè reclamare per le repliche ogni varietà di cibi finissimi, quali pollo, pernici, pasticcio di piccioni, ecc. ecc….. Andata la compagnia a Mantova, egli riuscì coll’arte sua e co’suoi inimitabili scherzi a conquistar l’animo del Duca, che lo colmò di donativi di ogni specie : e ciò gli accadde ancora quando si recò a Firenze, ove il Gran Duca, dopo che Tiberio gli ebbe cantate sulla chitarra {p. 892}due canzonette, abbracciatolo a più riprese, e protestatoglisi soddisfattissimo, gli fe’dare cento zecchini. Passò Scaramuccia da Firenze a Napoli. Quivi diè fondo a tutto quel che aveva messo in serbo, acquistando un superbo equipaggio e pigliando alcuni servi…. ma, rimasto poco dopo al verde, quello dovette vendere, questi licenziare : e, per campar la vita, aggregarsi a una compagnia che recitava allora in Napoli, nella quale ancora, e sempre sotto la maschera di Scaramuccia, ebbe il maggiore e miglior de’successi. Si recò poscia a Palermo, dove conobbe e sposò Lorenza Elisabetta o Isabella Del Campo, pregiata serva sotto il nome di Marinetta ; e di là a Roma, ov’ebbe le più festose accoglienze, e dove Marinetta si sgravò di un maschio che gli fu tenuto a battesimo dal cardinal Fabio Chigi, poi Papa Alessandro VII. Tanti furono i denari dal Fiorilli a quel tempo accumulati, che giunto a Firenze, comperò un magnifico possesso fuor della porta al Poggio Imperiale, e fe’ metter sulla casa la iscrizione : Fiorì Fiorilli – E gli fu Flora il fato, per alludere a un’abbondante fioritura nella sua famiglia. Passò da Firenze, dopo alcun tempo, a Milano, ove si rinnovaron gli entusiasmi delle altre città, e ove, richiesto dall’Imperatore a Vienna e dal Cardinal Mazarino a Parigi, risolse di accettar l’invito di Questo, conoscendo per fama la grandezza e munificenza di Luigi XIV ; e si recò nella gran capitale, dove ebbe il più gran successo che artista comico potesse mai desiderare, e dove, in breve tempo, diventò più che famigliare della Corte.

[n.p.][http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img132.jpg]

Secondo il Costantini, la prima andata a Parigi di Scaramuccia sarebbe avvenuta il 1660 : ma v’è errore evidente ; poichè dall’atto di battesimo di un suo figliuolo, pubblicato dallo Jal, risulta che il ’44 egli e la moglie eran già in Parigi. Questo figliuolo tenuto al sacro fonte dall’abate Claudio Anory, rappresentante il Cardinal Mazarino, e da Maria Indret, dama d’onore della Regina Madre Anna d’Austria, Reggente di Francia, morì a due anni e mezzo e fu sepolto il 14 dicembre 1646.

{p. 893}Dal seguente aneddoto poi comunicato ai Parfait dal Gueullette, e che si trova nella loro Istoria del Teatro italiano, risulta che il Fiorilli andò in Francia verso il 1640.

Un giorno Scaramuccia e Aurelia (Brigida Bianchi) eran nella camera del Delfino, poi Luigi XIV. Egli, che aveva circa due anni, era di pessimo umore, e nulla poteva calmar le sue grida e il suo pianto. Scaramuccia ebbe l’animo di dire alla Regina, che s’egli avesse preso il Delfino tra le braccia, lo avrebbe calmato. E avutone il permesso, si diè a fare ogni {p. 894}specie di smorfie piacevoli, sicchè il Delfino prima si chetò come sorpreso, poi cominciò a ridere, e rider tanto che la sua smodata ilarità lasciò alcune traccie poco piacevoli…. sulle mani e sul vestito di Scaramuccia ; la qual cosa fe’ smascellar dalle risa la Regina e le Dame e i Gentiluomini di Corte presenti al fatto.

Fiorilli poteva avere allora trentadue o trentatrè anni ; e ogni qualvolta si recava a Corte, doveva entrar dal Delfino, che molto si divertiva e molto l’amava : e divenuto Luigi XIV, si godeva a richiamar quell’avventura d’infanzia alla memoria di Scaramuccia, molto ridendo alle boccaccie ch’ei soleva fargli, narrandola.

Sappiamo che il 14 novembre del ’45, si recitò nella sala del Petit-Bourbon la Finta pazza di Giulio Strozzi, già rappresentata il ’41 al Teatro Nuovissimo di Venezia. Capo della Compagnia era allora Giuseppe Bianchi, il Capitano Spezzaferro, e n’erano artisti : Fiorilli – Scaramuccia, Locatelli – Trivellino, Brigida Bianchi – Aurelia, Marco Romagnesi – Orazio. Poi vi eran cantanti : Gabriella Locatelli, Giulia Gabrielli e Margherita Bertolazzi ; e n’aveva fatto gli scenarj Giacomo Torelli da Fano. Alla fine del ’47, o al principio del ’48, il Fiorilli, insieme agli altri comici abbandonò la Francia pei torbidi della Fronda ; e lo vediamo il carnovale del ’52 a Roma, colla moglie Marinetta e colla coppia Fiorillo, come appare dalle loro lettere indirizzate al Duca di Mantova (V. Fiorillo Silvio). Tornaron gl’italiani a Parigi col Fiorilli nel ’53, ed esordirono al Petit-Bourbon il 1° di agosto alla presenza del Re, della Regina Madre e della Corte. (V. Adami (?) Beatrice).

La notizia di questa andata a Parigi la troviam particolareggiata nella Storia del Granducato di Toscana di Riguccio Galluzzi (nota, L. VII, Cap. VIII) :

Nel 1653 era stato mandato al Re (di Francia), che lo aveva richiesto al Granduca (FerdinandoI I), Tiberio Fiorilli fiorentino (?) detto Scaramuccia, con una compagnia {p. 895}comica che molto piaceva a Sua Maestà e ai Francesi. Un figlio di Scaramuccia era giunto a tal grido di favore che il Re lo aveva fatto cavaliere di San Michele e Suo Gentiluomo di Camera. Furono mandati dei musici, dei cacciatori, e fino la pianta del Serraglio delle fiere di Firenze con persone perite per costruirne colà uno simile.

Ma il Fiorilli non si fermò lungo tempo in Francia, secondo appare da una lettera inedita dell’Archivio modenese, in data di Firenze 26 maggio 1655, colla quale il Gran Duca di Toscana raccomanda vivamente al Duca di Modena il comico Scaramuccia che fa ritorno in Francia.

Quando Molière tornò il ’58 a Parigi, dovuto abbandonare dopo la sua prigionia pei debiti ch’egli s’era assunti della Società dell’ Illustre Teatro, dovè divider con Scaramuccia e gl’ Italiani l’uso della Sala del Petit-Bourbon. Vi recitavan essi il martedì, e venerdì, e la domenica ; ed egli il lunedì, mercoledì, giovedì e sabato. L’immediato cantatto delle due compagnie faceva sì che i comici di entrambe vivesser tra loro in istretta famigliarità. Molière non lasciava una rappresentazione, ove avesse parte principale Scaramuccia, e prese dall’incomparabile artista tutto quel che potè di naturale e di originale ; il che generò poi i famosi versi che si leggon sotto a uno dei ritratti di Bonnart, identico a quello di le Blond (V. pag. 901).

Cette illustre comédien
attegnit de son art l’agreable manière,
il fut le maître de Molière,
et la Nature fut le sien.

Il luglio del ’59 gl’ Italiani se ne tornarono in Italia ; e sparsasi la voce che Scaramuccia si fosse annegato traversando il Rodano, Loret nella Musa dell’ 11 ottobre, stesso anno, annunciò così il triste avvenimento :

O Vous Bourgeois et Courtizans
Qui faites cas des Gens plaizans,
O Tous amateurs du Théatre,
Dont, moy-mesme, suis idolâtre,
{p. 896}Sanglotez, pleurez, soupirez,
Pestez, criez et murmurez,
Transportez d’une humeur chagrine,
Plombez de coups vôtre poitrine,
Devenez mornes et rêveux,
Arachez-vous barbe et cheveux,
Egratignez-vous le vizage,
De tout plaizir, perdez l’uzage,
Acuzez hautement le sort,
Le fameux Scaramouche est mort,
Luy, que l’on estimoit l’unique
En sa profession Comique,
Qui contre-faizoit par son Art,
Si bien le triste et le gaillard,
Si bien le fou, si bien le sage,
(Bref, tout diférent personnage)
Qu’on peut dire, avec vérité,
Que sa rare ingénüité
En la science Théatrale,
N’avoit point, au Monde, d’égale.
Enfin cét Homme Archi-plaizant,
Que, par tout, on alloit prizant,
(S’il est vray ce que l’on en prône)
A pery vers les bords du Rône,
Par un Torrent d’eaux, imprévû
Qui le prénant, au dépouvû,
Dans une vallée, ou fondriére,
Luy fit perdre vie et lumiére.
Or comme j’aimois iceluy,
Sa mort me donnant de l’ennuy,
Il faut qu’au fort de ma détresse
Un Epitaphe je luy dresse.

EPITAPHE

Las ! ce n’est pas Dame Ysabeau
Qui gît dessous ce froid Tombeau,
N’y quelque autre sainte N’y-touche :
C’est un Comique sans-pareil ;
Comme le Ciel n’a qu’un Soleil,
La Terre n’ût qu’un Scaramouche.
{p. 897}Alors qu’il vivoit parmy nous,
Il eut le don de plaire à tous,
Mais bien plus aux Grands qu’aux Gens minces,
Et l’on le nommoit en tous lieux
Le Prince des Facécieux,
Et le Facécieux des Princes.
Au lieu de quantité de fleurs,
Sur sa fosse versons des pleurs,
Pour moy, tout de bon, j’en soûpire :
J’en fais, tout franchement, l’aveu ;
Nous pouvons bien pleurer, un peu,
Celuy qui nous faizoit tant rire.

Ai quali versi fanno riscontro questi altri del 18 ottobre dallo stesso autore pubblicati, quando si seppe che la notizia della morte di Scaramuccia era falsa :

Petits et Grands, jeunes et vieux,
Dont le tempérament joyeux
Aime, presque, autant qu’un Empire,
Les Personnages qui font rire,
Cessez vos pleurs et vos zoûpirs,
Purgez-vous de vos déplaizirs ;
Sans prendre Casse, ny Rubarbe,
Ne vous arachez plus la barbe,
Métez tous vos chagrins à sac,
Ne vous plombez plus l’estomac,
Au Sort ne faites plus la moüe,
N’égratignez plus vôtre joüe,
Apaizez vos cris superflus,
Ne pestez, ne rognonnez-plus,
N’ayez plus le vizage blesme
Comme un Bâteleur de Caresme,
N’acuzez plus Dame Atropos,
Bref, montrez par de gais propos.
Que vous avez l’ame ravie,
Scaramouche est encore en vie ;
Et cèt accident supozé
Par qui l’on m’avoit abuzé,
Me comblant de tristesse amére,
N’êtoit qu’une franche chimére.
{p. 898}Par des soins assez diligens,
J’ai fait revivre plusieurs Gens,
Qu’on croyoit dans la sepulture :
Mai nôtre Muze, je vous jure,
(Et je jure la vérité)
N’en a, jamais, ressuscité,
De la plume, ny de la bouche,
De si bon cœur que Scaramouche.

Tornaron gl’Italiani a Parigi il 1661, recitando subito a Fontainebleau ; e dopo cinque mesi alternativamente colla Compagnia di Molière nella Sala del Palais-Royal, quella del Petit-Bourbon essendo stata demolita. I nuovi comici italiani, che venner ’sta volta a Parigi, furono : la Cortese, poi Biancolelli –  Eularia, l’Adami –  Diamantina, Turi –  Pantalone, Lolli –  Dottore, Biancolelli –  Arlecchino, Bendinelli –  Valerio, Zanotti – Ottavio. Essi ebber dal Re la pensione annua di 15 mila lire, senza far conto delle gratificazioni straordinarie ogni qualvolta si recavan a recitare a Corte. Il nostro Fiorilli, divenuto, come abbiam detto, in essa famigliare, spillava di quando in quando dal tesoro dello Stato qualche supplemento straordinario. Ducento lire ebbe il ’64 come stipendio di quell’ anno, finito in giugno, per lui e per sua moglie. E quattrocento n’ebbe lo stesso anno pel viaggio ch’ ei doveva fare d’ordine di S. M. da Parigi a Firenze.

Da questo momento non s’han più indizj della presenza di Marinetta a Parigi, il che fa credere ch’ ella fosse in quest’ ultimo viaggio condotta a Firenze, ove si stabilì separata dal marito, forse per incompatibilità de’ caratteri, essendo essa più tosto uggiosa, e venendo egli di dì in dì più avaro. Ma ciò non impedì ch’ei sentisse pena di quella separazione : e lo vediam di fatti tornare in Italia il ’66, poi di nuovo il ’67, nel quale anno parve abbandonar definitivamente il Teatro italiano di Parigi.

A dare un saggio della scrittura fiorilliana, metto qui la lettera con cui egli annunzia la sua andata in Italia, e precisamente a Firenze, in casa sua, comunicatami dal cav. Azzolini.

[n.p.][http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img135.jpg]

{p. 900}Il ’69 lo troviamo in un teatro pubblico di Roma : e andava ogni tanto, con tutta la compagnia, a recitare dalla Regina di Svezia. Una sera, dopo rappresentate con grande successo le Gelosie di Scaramuccia, Essa gli domandò che commedia era : « Sono le gelosie mic » – rispose Scaramuccia. – « Dunque tu sei becco ! » – « È un pezzo che sono famoso in compagnia di tanti altri signori. » (V. Ademollo T. di R. 110).

Da un diario inedito di Firenze, Ademollo riferisce (ivi) che il 17 luglio dello stesso anno venne in verso dal Val d’Arno un temporale e gragnuola e saette, e ne morì un figliuolo di un commediante e buffone detto Scaramuccia. Gli uomini sanno fare le commedie, e Dio le Commedie e Tragedie.

Avuta poi il Fiorilli permissione dal Re di ritornarsene a Parigi, vi ricomparve il ’70, ammirato e applaudito come sempre ; tanto che per alcuni mesi fu disertato ogni altro teatro, e quello di Molière in ispecial modo. La lontananza di Marinetta, una naturale inclinazione ch’ egli aveva all’ amore, e la vecchiezza sopravveniente, l’avean fatto d’umor bestiale…. Più avanzava negli anni, e più le donne lo attraevano. Dopo un figliuolo battezzato col nome di Tiberio Francesco Fiorilli 1’ 8 novembre del ’73, avuto da una certa Anna Doffan che non lasciò alcuna traccia sulla vita di lui, ebbe ( ?) una figlia battezzata col nome di Anna Elisabetta il 29 luglio dell’ ’81 da una certa Duval, che fu poi, come vedremo, la disperazione del povero artista e come amante e come moglie.

Maria Roberta Duval, giovane miserissima di circa ventitrè anni, visse i primi due anni in pace col vecchio amoroso : ma, sia che l’indole di lei la portasse col pensiero ad altri affetti, sia che Scaramuccia la tormentasse oltre il bisogno con la gelosia, accettate le proteste d’amore di un giovanotto, se ne fuggì in Inghilterra ; di dove poi, ben presto abbandonata, fe’ ritorno a Parigi e nella casa di Fiorilli, che preso di lei pazzamente le perdonò. Luigi XIV, che di quegli scandali ebbe sentore, s’adoperò con Margherita Luisa d’Orléans, la gran duchessa di Toscana, e con l’Arcivescovo di Parigi, perchè egli {p. 902}cessasse da quel concubinato, e sposasse, morta Marinetta, la Duval e legittimasse la figliuola, dandosi così a una vita di buon cristiano. Ma indarno sempre. Le noie ch’ebbe a patire la Gran Duchessa in persona e soprattutto l’abate Domenico Zipoli, ambasciatore a Parigi del gran duca Cosimo III de’ Medici, le abbiamo in queste importantissime lettere da lui indirizzate all’abate Gondi, segretario del medesimo Gran Duca a Firenze, tratte dall’Archivio di Stato di Firenze (F. M. 4797).

[n.p.][http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img136.jpg]

27 agosto 1685. – Tiberio Fiorilli ha tanto fatto che gli è riuscito avere una lettera di chacet dal Re per cavare la sua douna dal Refugio e l’ ha messa, d’ordine però della medesima lettera, in uno dei conventi di Chalot ; ma perchè è un poco lontana per lui, che li cominciano a pesare le gambe, è andato a trovare la Granduchessa alla quale disse un mondo di bene di detta donna, e perchè lei medesima l’ aveva vista quando era al Refugio, e che la Superiora del luogo le aveva detto molto bene della medesima, li promesse di farla cavare dal Convento di Chalot, e farla mettere in uno di Parigi ; non so come li riuscirà, perchè il Re non ne vorrà essere importunato ogni tre giorni, e perchè dice per tutto Parigi che è il suo figlio che l’ ha fatta levare e rinserrare, e che ha scritto al Granduca contro di lui, e va facendo leggere la lettera di V. S. Ill.ª come fece pure a me iermattina ; vuole che esca di casa, e cosi sono dietro col detto vecchio che dice per vivere per due soli mesi al suo figlio, che si ritirerà in una camera guarnita, e in questo tempo farà alcuni negozi suoi, e poi se ne ritornerà a Firenze, e lascerà qui il vecchio, il quale senza un miracolo di Dio non si potrà ritirare dalla pratica di questa donna ; basta, fra lo Scaramuccia e il Tempesti mi danno non poco da fare.

3 settembre 1685. – Anche Scaramuccia col suo figlio mi fanno ammattire ; trotto, galoppo, vengono da me, e nulla si conclude. Il padre minaccia il figlio di metterlo in S. Lazzero1 ; è fuori di casa, senza un soldo e mi bisogna accomodarli di tempo in tempo qualche denaro, che m’incomoda, e con questo va qua e là, per non essere osservato, perchè non si fida, e teme, a ragione, della sua vita. Questo volentieri lascerebbe il padre che facesse e disfacesse del suo tutto quello che volesse, se li desse il denaro per ricondursi a Firenze ; il vecchio non vuol dar nulla, se non li fa un foglio nelle buone forme conforme questo che li mando qui segnato A ; il figlio ha fatta la risposta segnata B e poi li scrisse la lettera segnata C ; li lessi il tutto, ma il vecchio è più duro che il cuore di Faraone, maledice chi gli ha fatto levare la sua donna, che quello che diede al suo figlio fu un poltrone che non lo seppe finire, che lo metterà a S. Lazzero e datone l’ordine ; che non vuole venga a Firenze a mangiare il suo. A questo li risposi che non ho mai creduto che a Firenze comandasse che il Granduca e non lui. Mi disse che vuole scrivere una lettera a S. Altezza nella quale li dirà tutte le pessime cose che fa suo figlio ; io li risposi che quello mi diceva a me non riguardava che la sua coscienza, che a questa doveva rimediar lui con il darli per tornare in Italia, ma è peggio di un ostinato Turco, che più è vecchio innamorato ! Il figlio scriverà una lettera a sua madre che piglio la libertà di mandarli qui ; glie la faccia dare e consigliare a dare le 20 doppie al Carlieri, {p. 903}perchè altrimenti bisognerà entri in sicurtà il Valenti, et in breve mi troverò addosso tante sicurtà che se mi fanno banco rotto non mi servirà il letto per sodisfare ; faccia pulito perchè prevedo ruine fra il padre, il figlio e la donna.

A

Monsieur Chibert pere demande a avoir la liberté de disposer entierement en faveur de qui il lui plairà de tout ce qu’il a et gaigne et gaigne journellement en France et outre que son fils reconnoise que tout ce qu’il a depeneé jusqu’au present est seullement pour la sollicitation…. de proces de son fils et non pour nouritur et allimend et jusqu’a ce qu’il puisse en estre paye e demande que ec.

B

Monsieur Tibere demande pouvoir disposer entierement des biens quis peut avoir en France, e quil gagne journalment. Monsieur son fils n’aupesche point quil fait ce quil voudra mais il ne peut en passer acte parce que ce la porteroit prejudice et annulleroit la dounation quil y a faicte par contract de mariage, et in faveur de celuy.

Alesgard de ce quil a despensée jusques a present pour les proces du dict S.r son fils il est facile de regler ceste affaire, en faisant raporter les contes et quitances des procureurs et autres persones a qu’il aura paie pour les dit proces ; et all’ ors on poura auter le mot de nouriture. Car il est certain que quand je faict l’obligation des 8000 livre je lay faict seulem.t pour le contenter et non pas que cela fut veritable, il dict havoir ancora ses comptes ; il est fort facile de voir en…. ce quil a despence pour les proces.

C

Carissimo Sig. padre

Se io avessi avuta cattiva intenzione sarebbe un pezzo che l’avrei messa in opera, ma mai di mia vita ho pensato a darli un minimo disgusto.

Non è la prima volta che V. S. mi ha maltrattato per causa delle sue donne perchè ancora al Palazzo reale V. S. mi cacciò fuori di casa con la moglie per causa di madama Gorle et al presente sono sei anni che sono eternamente perseguitato, ferito et cacciato fuori di casa per quest’ altra ; e pure non ho mai fiatato, e sono stato sempre figlio obbediente e rispettoso. Mi dispiace che V. S. mi facci queste ingiustizie, ma soprattutto la calunnia delle 30 doppie delle quali io sono innocentissimo ; et V. S. sa benissimo in coscienza che è impossibile che io sia stato quello che le prese perchè non avevo mai visto il suo segreto ne dove fossero le chiavi ; et se è vero che V. S. se le sia scordate in camera, era impossibile che io potessi sapere il momento e il tempo da potere fare il colpo ; e finalmente sono pronto a sottopormi a qualsivoglia interrogatorio, tutto per dare satisfatione a V. S. Circa gli interessi gli ho sempre detto che non cerco quello che V. S. facci de’ suoi danari, ma che non posso farne contratto perchè mi farei un eterno pregiudizio, tanto più che conosco che V. S. ha concepito un odio senza pari contro di me, et che dice per tutto di volermi rovinare. La prego a compatirmi et credere che non ho mai fatto ne farò cosa che sia indegna di un figlio obediente come sono sempre stato ; e pregandola a abolire le grandi maledizioni che mi ha mandato e a benedirmi come buon padre, resto

Di V. S.

Devotiss.º servitore e figlio

Fiorlli.

{p. 904}10 settembre 1685. – Si affaticò assai il buon Padre Gondi, ma non volse già profittarne il vecchio Scaramuccia ; tutto quello si è potuto fare è stato che dia 60 scudi al figlio per fare il suo viaggio in Italia, ma come non ha volsuto pigliare il pensiero di badare ai suoi interessi, li bisogna adesso trovare qualche avvocato o Procuratore che se ne incarichi e poi subito partirà per ritornarsene in Firenze. Il vecchio rimbambito dice vendere i Luoghi del monte del sale, si come questi di qua dell’ Hostel di Villa2 e come costà muore la Marietta, volere sposare la sua donna che è a Scaliot, ma fra tre mesi sarà per mezzo della Granduchessa trasferita in un convento di Parigi. Io sto dietro al Conte di S. Mesmè3 acciò faccia si che la Granduchessa la faccia maritare quanto prima, perchè se costà venisse a mancare la sua moglie certo la sposerà e li farà donazione di tutto. Il Refugio è una casa contigua allo spedale della pietà dirimpetto al giardino dei semplici vicino ai Gobelini4, questa è governata dalla medesima superiora della Pietà, ma è separata perchè queste donne troppo pratiche del mondo non conversino con le figlie, ma è la medesima casa. Scaramuccia guadagnò la superiora, questa ne disse tanto bene alla Granduchessa, che al presente ne vuole avere il pensiero, ma solo di farla maritare e che Scaramuccia non la tocchi.

24 settembre 1685. – Non mi resta che pregarla a far sollecitare la moglie del vecchio Scaramuccia acciò paghi al sig. Carlieri le 20 mila doppie di Spagna per il suo figlio, il quale partì sabato per il Cocchio d’Arqua, e benchè la Serenissima Granduchessa si fussi fatto dare 60 scudi che mi fece mandare acciò glie li dessi, come segui, questo gli ha spesi per accomodare i suoi affari e per vivere 20 giorni fuori di casa di suo padre, si che anco a questo è bisognato farli dare 20 doppie che mi ha promesso, subito arrivato a Firenze, in casa di sua madre non avesse sborsato la detta somma a Carlieri, di rimetterla, non vorrei fosse di già seguito. Al vecchio per due volte domandai se avanti partisse lo voleva vedere, perchè il figlio desiderava domandarli la sua benedizione ; questo non vuolse mai, e quando ha sentito che era partito, il che gli aveva significato con un biglietto, salta e dice roba scomunicata contro di lui, perchè non l’ha visto e dice che vuol lasciare tutto il suo alla sua donna. Adesso che la Granduchessa ha le mani in questo negozio e che lo protegge, non ci posso far altro che fare dare qualche bussata per la Cinzia5 e la più vera è che la faccia maritare, perchè il vecchio è capace di fare qual si sia bestialità, e poi egli è innamorato e tanto basti. Il Fiorilli al suo arrivo informerà V. S. III.ª di tutto.

22 ottobre 1685. – Scaramuccia è sempre a Fonteneblò e. al ritorno del conte di S. Mesmè, che deve seguire fra otto giorni, farò battere appresso la Granduchessa acciò faccia maritare la donna e ne parlerò anche alla Cinzia, ma per ridurlo è troppo impietrito e ci vuole un miracolo.

5 novembre 1685. – Già vi scrissi che il Carlieri la signora Fiorilli gli aveva pagate le 20 doppie ; ne avrà sentite delle belle dal figlio. Il vecchio è tuttora a Fonteneblò et ho già passato ragionamento col Conte S. Mesmè e Cinzia, acciò inculchino la Granduchessa a maritare la donna.

{p. 905}3 dicembre 1685. – Non ho mancato di intelaiare con il Conte di S. Mesmè e la Cinzia acciò incalzino la Granduchessa a fare accompagnare la donna di Scaramuccia, il quale è sempre più capone et ostinato, e per due volte gli ho discorso di volersi intendere col suo figlio adesso che è lontano, ma non c’ è stato possibile, e V. S. Ill.ª mi creda che non c’ è che Iddio che ci possa rimediare, ma dubito non sia dal medesimo abbandonato affatto, poichè in lui non si scorge un minimo pensiero di uomo, non che di buon cattolico.

30 settembre 1686. – Conforme scrissi io fui lunedi a otto il doppo pranzo a Montmartre ; la Granduchessa6 sottoscrisse i biglietti di Mons. Oppede. Vi trovai Scaramuccia. Sua Altezza lo sgridò come un miserabile, ma, come è buccia vecchia, e che non ha nè onore, nè vergogna, nè, quel che è peggio, timor di Dio, li rispose tutte solennissime bugie. La Granduchessa li protestò che non ne voleva più sentir parlare, e lo fece uscire dal Parlatorio, il che esegui con le lacrime agli occhi, ma giudichi V. S. che lacrime sono. La Granduchessa domandò del Principe7 et il quale presto anderebbe a Roma. Che il giorno avanti era stata a Versailles dove Mad. d’Arpajoux gli aveva detto che bisognava che lei mandasse via il detto vecchio ostinato, che S. Altezza8 le replicò che toccava al Re far tale parte. Madama suddetta le rispose : Sua Altezza ne parli al Re ; che lei rispose : Io non ne voglio parlare a Sua Maestà se non ce lo vuole lo mandi via lui. Poi cominciò a battere contro la Maestà Sua che ogni giorno più strapazza tutti, che è odiato, che non è per anco morto. Che aveva data una fanciulla cantatrice a Madama di Guisa ; che questa per fargli dispetto l’aveva licenziata, ma che lei l’ha obbligata a dargli 50 doppie che ha lei in mano e rimandargliene in carrozza….

5 luglio 1688. – Di Scaramuccia non m’informo più di nulla e non lo voglio dintorno ; mi manda qualche lettera che piglio perchè le credo di servizio del suo sig.r figlio. Mi dissero a giorni passati in casa Valenti che la sua donna è gravida di due mesi ; è stata e sarà sempre infame, et a me non la vendono.

A queste tengon dietro altre dell’ Archivio di Firenze non men di quelle importanti per le notizie che lo stesso Fiorilli dà del figliuolo, e per la data che vi troviamo del suo ritiro dalle scene. A ottantadue anni adunque egli recitava ancora a Parigi.

III.mo Signore et mio Padrone Colendissimo

Negli interessi della coscenza solo Idio può essere G[i]udice retto, et agli ochi di esso cui tutte le cose sono scoperte e presenti è dato di distinguere l’ombre dal lume, la mia che dalle imposture fatele si conosce incontaminata si apella dal giuditio de homini al tribunale del Altisimo, ne stia secho V. S. III.ma ragione, e poi decida. Rispondo alla sua morale et amorevolisima letera delli 6 caduto e ne(l)la ringratio quanto so e posso di que’ sensi con i quali ella m’esprime il core nei trati della penna, ma mi duole al somo che la malidicenza m’ abia dipinto in lontananza ( ?) più diforme di quelo che mi sia acorto {p. 906}de avere provato deboleza per quella giovine di che ella mi accenna e vorei ridurele al non essere quello ch’ è fatto, ma non mi posso pentire di quello che io facio non esendo nè in ofesa di Dio, nè in scandolo de gli homini, e se la povera infelice è ridotta a ri sentire le angustie d’ una carcere per me è giusto per legie divina et homana io cerchi di solevarla chon il farla trasportare in uno altro convento dove sia esente dalla penuria in che si trova, e Sua Maestà ch’è un Prencipe nelle relacione incorotto non mi averebe conceduta la gratia se non avesse conosciuta per giusta la mia dimanda ; questa atione in facia de Dio e del mondo è da cristiano e da homo onorato, ciò non ripug(n)ando per pensiero ad una vita civile e da galantomo avendole io distinata una certa somma di denaro per maritarla. Tuto questo non è stato risposto che in ordine a i consigli del mio confesore e avrei uno eterno rimorso se non l’avesse fatto. Sono homo, e Dio, per sua devina misericordia, mi ha dato tanto lume per distinguermi da le bestie, che tali son quelli che anno in ricomandatione il senso et il capricio.

Dio perdoni a chi per sordido interesse mi a dato questo disgusto, e mi a reso a l’idea di V. S. III.ma si sconcio e contrafatto, e che la pura verità che a dispeto de’ miei malevoli e preseguitori sarà senpre la stesa. Non ò che agungere fori che non è in mio potere il far ritorno in Italia là dove l’ arbitrio reggio me ne tronca i tentativi. Si compia intanto ch’ io la ringratii de’ suo’ consigli dei quali saprò valermene quando la deboleza homana mi farà perdere il cervelo ; di presente, gracia a Dio, me ne trovo ben provisto e tanto più perchè mi confermo con afetovoso rispeto

Di V. S. Ill.ma

Umeliss.mo e Dev.mo

Pariggi li 10 Agosto 1685.

Servitore

Tiberio Fiorilli.

Ill.mo Signor mio Signore e Padrone Colendissimo

Non avendo a chi potere confidare questa mia letera per poterla fare recapitare a mio figlio cosa che asai mi preme ò preso ardire confidandomi nella infenita bontà di V. S. Ill.ma io vengo a suplicarla di farglila rechapitare in sua mano e ottenerne la risposta a ciò non (qui è parola inintelligibile) e di tanta gratia ne averò come de l’altre una eterna memoria.

Pariggi li 25 Otobre 1688.

Di V. S. Ill.ma

Umiliss.mo e Dev.mo

Servitore

Tiberio Fiorilli.

Ill.mo signor mio signor

Parigi li 23 Luglio’88 ( ?).

Suplicho V. S. Ill.ma schusarmi se io ardisco inchomodare V. S. Ill.ma La suplico a onorarmi di far ricapitare l’inclusa a mio figlio e spero che fenito ch’averò i miei interesi di fraca (Francia ?) pasarmene a chasa per la quiete de l’anima mia ove averò ochasione di ricevere i suoi comandi ; non ma(n)cho di sovenirme le gratie e favori che o riceuto da V. S. Ill.ma in Pariggi. E qui revere(n)temette lo reverisco

Di V. S. Ill.ma

Devotissimo

Servitore

Tiberio Fiorilli.

{p. 907}Ill.mo signor mio, signore e Padrone colendissimo

Vengho con ques[t]a mia a reverire V. S. Ill.ma con ogurarli le sa[n]tissime feste di Pasqua e in esa dirle come sarebbe sei anni che io saria a Fire[n]ce, ma l’avere incontrato un selerato figlio è cagione che io sono ancora in Pariggi. Io averei molto a dire de le sue disubete[n]ce e pocho rispeto che mi à senpre portato, basta a dirle che se lui non partiva sarebe morto in prigone per le sue infamità. Doppo averli dati nove mila franchi che aveva a l’[o]tel de villa per agiu[s]tare un suo abicioso interese d’una carica conpra se[n]ca che io sapesse cosa alquna, e per agustare il venditore della sudeta carica conpra se[n]ca che io sapesse cosa alquna, e per agustare il venditore della sudeta carica non volendola indieto fu necesario che io la pigliase de la quale la vendei nove mila esendo il denaro messo da u notaro me le fece sequestrare con false ragone e subito parti e questa lite è un anno che continova con (parola inimelligibile) del suo procoratore ed ora per la stesa causa mi a camato al parlamento con altra furberia, ma spero osirne in bene de tutte due e a lascato avochati e prochoratori che mi molestano acciò non vadi a Firence per godere le mie fatiche. Spero in breve pasarmene a casa. Intato o mandato una prochura al signor A[n]tonio Aveni avochato a ciò mi renda conto de 33 anni che mia moglie ha goduti i miei beni tanto delle grazie che per magaminità e bontà di S. A. S. che per molti anni mi a senpre continovato le sue grace. Al mio arivo paleserò la vita disoluta e infame tanto de l’ anima come del corpo, che resterà maravigliato. Suplicho e pregho V. S. Ill.ma di far dare la qui inclusa al signor Antonio Aveni avochato e rachoma[n]darli i miei interessi e se potesse aver l’onore da S. A. S. di farglo intendere che abia cura de miei interessi mi farà una gran gratia V. S. Ill.ma sarà avisata della mia partenca a ciò mi onori di suoi comandi. Averei a charo che il signor Antonio menegli da sè la risposta. Di V. S. Ill.ma

Umeliss.mo e D.mo obligat.mo Servitore

Recordatomi senpre i favori che o riceuto da V. S. Ill.ma in Pariggi e la suplico di continovarmi il suo afetto e patrocinio.

Parigi li 3 Marco 1692.

Tiberio Fiorilli.

Ill.mo Signor mio, signore e padrone Colendissimo

Ricevo la cortesissima di V. S. Ill.ma in risposta della mia. Rendo infenite gratie a V. S. Ill.ma de’ boni avertimenti che sua bontà mi dà sopra l’anima e riposo della vecheia. Sono 2 anni che mi sono levato e ritiratomi dalle sene comiche e se non fose stato quello che camo mio figlio sarebe a casa sei anni sono ; ma perchè mi fece una infamità che fu costreto a partire di Pariggi e non solo io fui da lui disgostato, come ancho la S. G. D. a segnio che quando torno fosimo a reverirla non lo volse vedere e mi fece dire che non avenga mai più con lui, avendo quest’ homo quado parti conpro senca mia saputa una carica di comisario di guera senca lagrema de Mosiù Delove dove non volse che la esercitasse. E perchè per l’ amor grande che li portavo li fece in el suo matrimonio donacione dopo la mia morte e li fu venduta la carica sopra la mia donacione e perchè lui si era obligato pagarli 7cento franchi l’anno credendo di esercitare la detta carica, e come questo interesse andava inace (= inanze) senca sodisfare al venditore della carica venduta 14 mila frachi lo fece ritornare per agiustarsi con il venditore e per g[i]ustarlo à bisog[n]ato che io le dia 9mila fra[n]chi che avevo su l’otel de Villa e lui li diede una G[u]erra che ebe chon ingano dal fratello de la moglie per 10 mila franchi che il fratello era erede della terra e perchè la terra aveva molti debiti prestai dechontanti 9mila e sei cento {p. 908}franchi che ò apreso di me l’obligatione per notaro dicendo vendendo la terra mi sarebe pagati, e cosi si è ag[i]ustato il venditore con darli la terra senza mia saputa e nel darli li sudeti prima 9 mila fra[n]chi mi rinviò la caricha a dove io la vedei, la vendei 8mila fra[n]chi e ne perse mile de’ 9 che li diede e avendo il notaro in mano il denaro il furbo me lo sequestrò con dire ch’ è roba sua per averli io fato la deta donacone ed io in colera lo sgridai e venesimo a parole e l’ultima parola mi dise ch’ero un becho e fugi ne la sua camera e se serò e la notte nel Ripo fugi cho le sue robe ed io con il comesario chon testimoni cavai una presa di corpo e lui sapendo ciò se ne parti per Italia. La lite prima del sequestro della caricha venduta acora sono in lite al Sataleto ed ora à mandato prochura e mi à messo un’ altra lite al parlameto e poi mi fece dire : dite a mio padre che se viene a Firence che non comadi i suoi servitori ne meno il fatore mi averebe dato una camera e che adasi a magiare e non pesase ad altro. Questa è la riconpesa delle mie fatiche che con il mio sodore ò aquistato, come V. S. Ill.ma n’è bene informata ; veda se un ingrato che non a mai portato un bichero di aqua in casa, e da che lui è in casa mi chosta più de 20 mila schudi. Non li scrivo le chave false e latrocini che mi à fato e goderli con le done, non scrivo le svirgenature fatte, ve n’ è 2 fatte che farebe rizare i capelli a chi le sentise, ma a bocha spero di tratenerlo nelle sue infamità e fenito questa lite meterò le ale e verò a casa. Di già ò fatto casare la donacione fatta pasata al parlamento e al Sataleto, il dirle achora sarebe troppo lugo basta a diri ch’ è peggio d’uno faista che a bocha li dirò il tutto come i strapacci fatomi. Suplicho V. S. Ill.ma se con questa mia lo infastedisco e l’asicoro che quato li scrivo è l’evagelio – e qui resto.

Di Pariggi li 29 Aprile 1692.

Di V. S. Ill.ma umeliss.mo e devot.mo servitore

Tiberio Fiorilli.

(Le parole seguenti, forse, vanno lette dopo : il dirle ackora….) :

che corro ogni gorno per i Tribonali.

Ill.mo Signor mio, signore e padrone colendissimo

Ricevo la cortesissima di V. S. Ill.ma de li 16 Magio e in esa conosco il suo continovo afetto. Ora dò parte a V. S. Ill.ma come sono risoluto di pasarmene a casa e subito che sua Maestà sarà de ritorno chiederò la mia licenca. Dui anni sono che sarebe partito e sarebbe ritornato col figlio a casa. Parti e mi à lascato 2 lite contro di me, una al casteleto, e l’atra al parlamento che sinora ò speso ni lite cento scudi e non ò anchora fenito e non ò un ora di riposo. Così va chi à un figlio ingrato ; spero in breve liberarmene. Intanto veda V. S. Ill.ma se io la poso servire. Atendo i suoi comandi. E qui resto di V. S. Ill.ma umeliss.mo e devotiss.mo servitore

Pariggi li 9 Gunio 1692.

Tiberio Fiorilli.

Morta che fu Marinetta, Scaramuccia sposò finalmente la Duval il dì 8 di maggio del 1688 nella chiesa di S. Salvatore ; matrimonio che fu come il colpo di grazia pel vecchio ottuagenario, il quale finì coll’essere a ogni momento deriso, battuto e derubato.

Tiberio Fiorilli offrì colla sua vita avventurosa, col suo valor teatrale, e il suo spirito spontaneo materia a scrittori ed {p. 909}artisti di ogni specie per opere pregevoli. Lasciando da parte il teatro di prosa, ov’ egli è stato messo sotto tutti gli aspetti, citerem qui l’opera lirica Le avventure di Scaramuccia del maestro Ricci, il grazioso poema Scaramuzza in vernacolo familiar veneziano e in ottava rima di Giambatista Bada (Venezia, 1791), dettato sulle orme della Vie de Scaramouche, par le sieur Angelo Constantini (Paris, m.dc.xcv), Les Caravanes de Scaramouche di Emanuel Gonzales, con un bello studio preliminare di Paolo Lacroix (Paris, Dentu, 1831), ecc., ecc. Ora egli fa le spese di un motto di Larochefoucauld, or di una comparazione della Duchessa d’Orléans, o di Furetière, o di Racine. Ma dove si vide come egli avesse regnato sovrano nella Comedia italiana di Parigi si è nella vasta opera di bulino dei sec. xvii e xviii, in cui il glorioso artista occupa sempre un de’ posti primi, quando non è il primo, come nelle graziose figure dell’ Herisset, e nelle incomparabili scene del Gillot, di cui ho messo qui i preziosi frontespizi.

Quanto al tipo teatrale, di lui dice Luigi Riccoboni (op. cit.) :

…. per la forma è una imitazione dell’abito spagnuolo, che da tanto tempo era a Napoli l’abito di Palazzo, dei Magistrati, e de’ militari. Verso il 1680, i capitani spagnuoli finirono in Italia, e il Capitano antico italiano essendo da gran tempo dimenticato, si fu costretti a toglier dalle Compagnie dei comici napolitani un attore che sostituisse il Capitano spagnuolo : Scaramuccia ne prese il posto. In Italia egli non fu mai altro che capitano, mentre in Francia fu d’ ogni cosa un poco. Il suo carattere è di essere spavaldo insieme e pauroso.

Il Riccoboni, come s’è potuto vedere con prova di date, non è qui esatto. Abbiam già veduto a Genova Giovan Battista Fiorillo, figliuolo di Silvio, rappresentare il 1614 lo Scaramuzza {p. 910}non capitano ; e sappiamo dal quadro di Porbus (1572) rappresentante un ballo alla Corte di Carlo IX, che il Duca di Guisa (il Balafré) vi era in costume di Scaramuccia.

Del valore del nostro artista infinite sono le testimonianze : comincio da quella di Evaristo Gherardi, che mi par s’abbia a ritener la migliore ; ed ecco perchè : il celebre Arlecchino sostenne contro il Fiorilli un processo per certi denari a questo dovuti, pei quali fu dal Gherardi rilasciata una obbligazione alla Duval come di somma prestata, e i quali egli negava di dover pagare, affermando che l’obbligazione gli era stata carpita in quei termini, ma che la somma era dal Fiorilli pretesa quale mediazione all’ entrata del Gherardi nella Compagnia italiana. Il Gherardi che aveva perduto la causa, non doveva {p. 911}dunque avere il cuor molto tenero verso il suo glorioso avversario. Ma ecco la testimonianza che si trova nell’Atto II, Scena VII di Colombine avocal pour & contre (Theatre italien de Gherardi, Tom. I, pag. 338-339) :

SCENE VII

Le Theâtre represente la chambre d’Arlequin

Scaramouche, Pasquariel

On y voit Scaramouche, qui après avoir racommodé ce qu’il y a dans la chambre, prend sa guitarre, s’assied sur un fauteuil, & en joue en attendant que son maître arrive. Pasquariel vient tout doucement derriere lui, & pardessus ses épaules bat la mesure ; ce qui épouvante terriblement Scaramouche. En un mot, c’est ici où cet incomparable Scaramouche, qui a été l’ornement du théâtre, & le modèle des plus illustres comediens de son temps, qui avoient appris de lui cet art si difficile, et si necessaire aux personnes de leur caractere, de remuer les passions, & de les savoir bien peindre sur le visage ; c’est ici, dis-je, où il faisoit pâmer de rire pendant un gros quart d’heure, dans une scene d’épouvantes, où il ne proferoit pas un seul mot. Il faut convenir aussi que cet excellent acteur possedoit à un si haut degré de perfection ce merveilleux talent, qu’il touchoit plus les cœurs par les seules simplicités d’une pure nature, que n’en touchent d’ordinaire les orateurs les plus habiles par les charmes de la rétorique la plus persuasive. Ce qui fit dire un jour à un grand Prince qui le voyoit jouer à Rome, Scaramucchia non parla, e dice gran cose : Scaramouche ne parle point, & il dit les plus belles choses du monde. Et pour lui marquer l’estime qu’il faisoit de lui, la comedie étant finie il le manda, & lui fit present du carosse à six chevaux dans lequel il l’avoit envoyé querir. Il a toujours été les delices de tous les Princes qui l’ont connu ; & notre invincible Monarque ne s’est jamais lassé de lui faire quelque grace. J’ose même me persuader que s’il n’étoit pas mort, la troupe Italienne seroit encore sur pied. Que ceux donc qui ont parlé si indignement de lui, & qui se sont servi de son nom, pour donner du débit à une infinité de fades quolibets & de mauvaises plaisanteries, rougissent, & viennent, la torche au poing, faire réparation aux mânes d’un si grand homme, s’ils veulent éviter le châtiment que leurs impostures méritent, & devant Dieu & devant les hommes. Il n’est rien de plus impie, que de déterrer un homme pour le couvrir de calomnie.

A questa del Gherardi fo seguire i versi che il Loret pubblicò nella Muse historique del 23 marzo 1658, a proposito della Rosaura, Imperatrice di Costantinopoli, rappresentata il mercoledì 20 marzo, nella quale anche, a ogni intermezzo, il Fiorilli ballava :

…………
Mais entre cent choses exquises,
qui causent d’aimables surprises,
entre quantité d’accidens,
qui fon rire malgré les dents
{p. 912}et qui raviroient une souche
c’est la table de Scaramouche
contenant fruit, viande & pain,
et pourtant il y meurt de faim,
par des disgraces qui surviennent,
et qui de manger le retiennent ;
or, comme en tout événement,
il grimace admirablement,
il fait voir en cette occurence,
la naïve et rare excellence
de son talent facétieux,
et ma foi, divertit des mieux.
…………

Dalle quali parole, unite a quelle del Gherardi, possiam trarre argomento certo che il Fiorilli fosse assai più gran mimo, che grande attore. Anche il 22 novembre del ’60 prese parte al Louvre negli Intermezzi del Serse del Cavalli, musicati da G. B. Lulli.

La rappresentazione di Scaramouche ermite data il 1667, ci dice a qual segno di libertà fosse arrivato il Teatro italiano. Scaramuccia, di notte, in abito di cappuccino, dava a più riprese la scalata alla finestra di una donna ; e ogni qual volta ei ripeteva il giuoco, soleva dire : « questo per mortificar la carne. »

Lo stesso Re si meravigliò col Principe di Condè del favore con cui furono accolte le licenze di quella commedia, mentre al Tartufo di Molière s’era gridata la croce. « Maestà – gli rispose il Principe : – Scaramuccia si prende giuoco del Cielo e della Religione di cui a questi messeri non cale nè punto nè poco ; Molière si prende giuoco di essi stessi…. ed è ciò che non posson patire. »

Fiorilli-Del Campo Isabella, palermitana, moglie del precedente, fu artista di gran pregio per le parti di serva col nome di Marinetta. La sua vita artistica è intimamente legata a quella del marito. Lasciate le scene, astrettavi forse dalla vita {p. 913}infernale ch’ ei le faceva condurre, ritornò a Firenze, ove morì non molto prima, pare, del 1688, data delle seconde nozze di Scaramuccia. Testimonianza dell’ingegno di lei è il seguente foglio volante che qui riproduco ridotto della metà.

Fiorilli Agostino. Napoletano, figlio di Antonio, primo innamorato, e capocomico egregio, morto il 1733, e di Isabella, prima donna, morta in età cadente il 1778, si diede all’arte dei parenti, recitando con mediocre successo le parti d’innamorato. Con l’ammaestramento di Nicola Cioffo, riuscì poi egregio nella maschera del Tartaglia a segno da esser disputato dalle migliori compagnie. Venuto a mancare nella Compagnia di Antonio Sacco il Dottore Roderigo Lombardi, nel 1753, il Fiorilli andò a sostituirlo. E narra il Bartoli come, dovendo trasferirsi {p. 914}la Compagnia in Portogallo, e volendo essa sentire il nuovo scritturato prima d’imprendere il viaggio di mare, pensò di farlo recitare a Genova in una commedia all’ improvviso. A lui toccò di aprir la scena col famoso innamorato Vitalba. Ma lasciam la parola al Bartoli :

Chiese il Vitalba al Fiorilli : Vuole principiare a parlar lei, o parlo io ? Il Fiorilli fingendo timidezza, freddamente rispose : Parli pur lei, parli pur lei. Di fatti uscirono in Teatro, ed il Vitalba incominciò a ragionare con quello spirito, ed eleganza, che era sua propria dote. Il Fiorilli s’ accinse a risponderli, e fecelo con tanta grazia, e con si bel modo, che spiegando a poco a poco i suoi sentimenti con quella ridicola balbuziente pronunzia, ora tenendo la voce sommessa, ed ora strepitosa innalzandola, e contorcendo la bocca, e dimenando le braccia, ed il tutto eseguendo co’ più naturali movimenti di un uomo, che tale difetto avesse in propria natura, e aggiungendo il Fiorilli in quell’ istante tutto ciò che l’arte seppe insegnarli, svegliò nell’uditorio per sì fatto modo il picchiar delle mani, che confondendosi co’ ripetuti evviva tenne per lunga pezza i due Comici in sulla scena ammutoliti.

E a proposito dell’ arte sua, lo stesso Bartoli aggiunge :

Il Fiorilli è sulla scena un gran Comico, e per tale fu adottato da tutta l’Italia. Una buona voce, un personale vantaggioso, un lazzo spiritoso, e pronto, sono i capitali in lui meno stimabili. Il suo profondo intendere l’arte con cui si alletta il Popolo in certe situazioni, che devonsi afferrar di volo, e che sfuggite non lasciano luogo di far colpo alla scenica arguzia ; e l’essere grazioso naturalmente senza stento, senza affettazione, o durezza ; il mostrarsi pronto ritrovatore di un vivace motteggio, che altro ne ribatta, ed avvilisca ; il sapere con immensa perizia tutta la Commedia a memoria senza dimenticarsi giammai alcuna ancorchè menoma cosa ; questi sono finalmente tutti quei pregi rari, che in lui abbondevolmente si trovano, e che lo costituiscono un perfetto originale del vero Comico pronto, spiritoso ed arguto.

Fu con Antonio Sacco fino al ’79 ora scritturato, or socio, nel quale anno passò con la Battaglia. Dell’ ’82, sempre secondo il Bartoli, recitava col vigore e il valore di trent’ anni addietro.

Fiorilli Antonio. Figlio del precedente, si diede anch’egli a recitar sotto la maschera di Tartaglia con buon successo. Fu col Bazzigotti, colla Tesi, con Pietro Rossi, con la Battaglia, con Medebach, e da ultimo con Pellandi al S. Angelo di Venezia il 1795-96, in compagnia sempre di sua moglie Caterina, senese, attrice di qualche pregio.

Fiorilli-Pellandi Anna. Figlia del precedente e la più grande attrice del suo tempo nacque a Venezia il {p. 915}26 dicembre del 1772. La Fiorillina, così la chiamarono i comici dalla sua infanzia, cominciò a percorrer la via della gloria a nove anni, in cui diè prova di gran valore artistico sì nelle parti scritte come nelle improvvise. A sedici anni, mentr’era l’amorosa ingenua della Compagnia Battaglia, fischiata al San Giovan Grisostomo di Venezia la prima attrice Tassani, fu essa chiamata a sostituirla ; e tanto piacque al pubblico, che fu confermata nella Compagnia col ruolo assoluto di prima donna.

Fu ancora, prima del matrimonio, con Luigi Perelli, con Gio. Batta. Merli, con Francesco Menichelli, e con Giuseppe Pellandi. A Padova, non è ben precisato nè in quale anno, nè con qual compagnia (secondo il Mazzoni nel ’90 con quella del Menichelli, ma forse più tardi col Pellandi), preluse a un corso di rappresentazioni, recitando i seguenti versi dettati per lei da Melchior Cesarotti. Essi furon trovati da Guido Mazzoni tra le carte di lui che venute in mano del Pieri, passarono alla Riccardiana di Firenze. Il Mazzoni li ha illustrati con un elaborato studio, edito il 1891 dal Randi di Padova, col titolo : Appunti per la Storia de’ teatri padovani nella seconda metà del secolo XVIII.

Chiari figli d’Euganea, eccovi innanzi
la Nina vostra (ah si permetta al grato
e sensibil mio cor si caro vanto !).
Si, vostra io sono ; in questo suol nudrita,
nei domestici esempi e più dai segni
de’ vari effetti ch’ io leggeavi in volto,
dell’ardua scola teatrale appresi
le prime norme, e andai crescendo all’ arte
che all’atteggiar della pieghevol voce
gesto loquace accorda, e fida esprime
opre, affetti, pensier, costumi e sensi.
Dell’inesperte forze a far cimento
altrove andai, ma sull’ Euganea scena
ben tosto apparvi palpitante, incerta
sul mio destin. Chi non temer potria
la dubbia inappellabile sentenza
di sì dotta città ? Quanto vi debbo,
{p. 916}spirti bennati ! a me sereno il guardo
rivolgeste e rinacqui, i sforzi infermi
di mia giovine età grazia clemente
da voi trovaro, e gli error miei perdono.
L’amabil raggio che brillommi a fronte
del favor vostro, m’inspirò nel petto
alma novella, e quel vigor m’infuse
che invan cercava in me ; supplì per l’arte
di piacervi il desio : premio si grande
quai prodigj non opra ? è vostro dono
quel che posso o che son. Che son ? che posso ?
Nol so, ma pur con tacita dolcezza
ripenso ognor che accompagnar vi piacque
con pietosi sospir di Nina amante
i soavi delirj, 9e sorrideste
all’ ingenua Lucinda,10 a cui natura
parlava al cor con più efficace lingua
che non facea con le dottrine ingrate
e coi prestigi suoi la maga accorta.
Nè Teresa11 insensibili vi scorse
ai strani casi suoi, vedova e sposa,
di fortuna e d’amor misero scherno.
Tal rimembranza, or che propizia sorte
mi rende a voi, ne’ miei timori infonde
conforto sì, non però calma. E come
sperar poss’ io di non tradir la speme
che m’onora e spaventa ? O generoso
popolo d’Antenòr, tu sol tu puoi
la tua speme avverar : se tutti i frutti,
quali ei si sian, dell’arte mia son opra
del tuo favor, se un tal favore è figlio
d’ una felice illusïon cortese
del tuo bel cor, tu me la serba, e forse
tal ti parrò qual mi fingesti. A voi
dunque mi volgo, abitatori eletti
{p. 917}di questo suol diletto al ciel : tu pria,
schiatta d’incliti padri, ordine illustre
che hai per dritto di costume e sangue
titolo di gentile ; e tu pietoso
sesso leggiadro, a cui fan doppio omaggio
i cori e l’arti che dal bello han nome.
Tu pur, di Febo e di Minerva amica,
decente gioventù che accresci e spargi
dell’ Euganeo saper la fama e ’l vanto.
E voi che d’alta riverenza in segno
ultimi appello, o valorosi e chiari
figli di Marte, ver presidio e fregio
d’Euganea mia, che di vostr’armi invitte
fate all’arti di pace e scudo ed ombra.
Voi tutti imploro : del purgato orecchio
ritemprate il vigor, nè sia chi sdegni
gradir cortese ed animar gli sforzi
d’ uno stuolo divoto e che sè stesso
tutto al vostro diletto offre e consacra.
Lo preghiam, lo speriam : se i nostri voti
vani non sono, un grazïoso assenso
o il grato suon delle percosse palme
deh ce lo attesti ; e i vacillanti spirti
empia di forza, e di conforto i cori.

Nella Compagnia di Giuseppe Pellandi, sul finire del ’95, sposò il figlio di lui, Antonio. Da quel tempo e in quella Compagnia la fama di Anna Fiorilli si affermò per modo che fu proclamata un vero miracolo artistico. Grande nella commedia di Goldoni dialettale e italiana, grande nella tragedia, grande nel dramma. Ritirati dall’arte i Fiorilli e il vecchio Pellandi, ai quali subentrò nell’impresa il marito di lei, si recò al Teatro Nuovo di Firenze nel 1803, ov’ebbe il massimo de’trionfi, recitando per la prima volta la Mirra di Vittorio Alfieri alla presenza dell’Autore. Giunta alla frase : « Oh ! madre mia felice ! Almen concesso a lei sarà di morire al tuo fianco !… » il fanatismo si mutò in delirio, nè fu possibile proseguire la recitazione di quella scena. E terminata la tragedia, il pubblico {p. 918}affollato alla porta del Teatro, come l’attrice fu salita in carrozza, ne staccò i cavalli e l’accompagnò a casa con orchestra e fiaccole e urli di gioia non mai interrotti.

Stabilito il Vicerè di formare una gran compagnia drammatica, impose al capocomico Fabbrichesi la prima donna Pellandi, la quale fu scritturata per un triennio collo stipendio, allor favoloso, di lire 11,500. Ma se bene si rinnovassero per lei i trionfi di Firenze, dopo il triennio non volle accettare una riconferma, allegando in iscusa la sentenza del Camerino della Scala che le negava il diritto di pretender la parte di Rosmunda nella tragedia omonima di Alfieri, anzichè quella di Romilda. Formò poi società con Belli-Blanes per un altro triennio, sempre ammirata, festeggiata, acclamata. Ma alla metà dell’anno 1816 fu colpita da tale malattia che la toglieva per sempre alle scene, relegandola collo sposo nella sua villa di Avesa, presso Verona, che dovette pur troppo abbandonare, pei continui dissesti finanziari di cui fu causa il marito di sua figlia. E quella donna che aveva percorso la vita in mezzo ai trionfi e alle ricchezze, vedova sin dal 1828, indebitata fino ai capelli, finì miseramente la vita in una soffitta verso il 1840.

Non fu la Fiorilli bella veramente, ma di volto attraente. Fu di persona non grande, ma proporzionata. Le carni aveva bianchissime, gli occhi neri, grandi, vivaci, i capelli castani, la bocca breve, e una dentatura meravigliosa.

L’espressione del volto era tale, che poteva a voglia di lei mutarsi improvvisamente di mesta in gioconda, di fiera in affettuosa. Pittori, scultori, incisori, ne ritrasser le sembianze in vario costume. Andato il Colomberti a visitarla nella sua villa di Avesa, riferisce ne’ suoi scritti inediti, come, alludendo alle memorie artistiche che adornavano il suo salotto, ella dicesse : « Sono memorie di oltre tomba, e mi ricorderanno a mia figlia e a’ miei nipoti. » E domandatole perchè non avesse in sua figlia lasciata di lei una ricordanza sulla scena, rispose : « E perchè ? per ottenere, forse, al pari di me, di esser dimenticata ventiquattr’ore dopo di aver lasciato il teatro ? No ! no ! {p. 919}È molto meglio ch’ella sia, com’ è infatti, una modesta e buona madre di famiglia. Essa non è conosciuta, io lo fui troppo, e non pertanto eccoci cadute nel medesimo obblio ! »

Molte son le testimonianze che abbiamo del valore di lei ; fra cui quella del Sografi, che nella prefazione alle sue Inconvenienze teatrali (Padova, Bettoni, 1816) scriveva :

Si distinsero nella esecuzione di questo non facile a rappresentarsi componimento moltissime attrici ed attori. Tra le prime, nella parte della Genovese Tatà, la prediletta mia Anna Fiorilli-Pellandi. Ed in che ella non fu prima, una volta sola ?

E nelle notizie che seguono l’Oracolo tradotto dal Cesarotti (Venezia, 1797) :

A quel meraviglioso accoppiamento di comici pregi, che forma nella signora Anna Fiorilli-Pellandi il prodigio della declamazione scenica, dee unicamente l’Italia la presente egregia traduzione che col nostro mezzo comparisce ora la prima volta alle stampe. L’entusiasmo che destò in Padova la detta valorosa attrice nelle varie recite della Nina, ossia la Pazza per amore, chiamò ad una di quelle il chiarissimo sig. ab. Cesarotti, che appena, {p. 920}per così dire, uscito dal teatro, prese la penna in mano per rendere italiano l’Oracolo del Saint-Foix ; in poche ore compi il suo lavoro, e mandollo tosto in dono a chi più d’ogni altro potea far conoscere il merito dell’ originale e quello insieme della versione.

In una raccolta di omaggi poetici (Firenze, Carli, 1813) alla Fiorilli e a Belli-Blanes, e dai quali tolgo la medaglia qui retro, son versi di Tommaso Sgricci, una iscrizione latina del Bernardini, la quale ci apprende come nel 1813 trascinasse per tre mesi all’entusiasmo il pubblico di ogni specie nel Teatro Nuovo di Firenze, e una anacreontica di Ligauro Megarense, pastore arcade, in cui abbiamo accennate alcune parti nelle quali essa primeggiò, quali Medea, Zaira, Vitellia, Cleonice, Mirra, Pamela, Lindane, Mirandolina.

Fu maestra di Carolina Internari : e della cura affettuosa ch’ella si prese di lei dal 1807 al 1810, abbiam testimonianza nelle biografie livornesi del Pera, nelle notizie biografiche del Calvi e del Consigli (V. Internari) ; ma più ancora in un libretto di poesie a Carolina Internari, impresso in Roma il 2 di maggio del 1818, la prima delle quali è del Ferretti, e diretta

Ad Anna Fiorilli Pellandi

Se ancor sovra le cento ali leggera

Dalle bionde del Tebro acque sonanti
Remigando ver te Fama non giunse
Da che il socco ridevole calzato
Nel giovinetto piede, e il sanguinoso
Coturno Sofocléo, novella apparve
Carolina la tua figlia d’ amore
Orme a stampar su le Romulee scene,
Arduo certame, che dal verde Eliso
Tornando a ber con vivi occhi la luee
Temerebbero ancor Roscio ed Esopo,
Mentre su questi candidi papiri
Della tua figlia a delibar le sacre
Non vendevoli laudi impazïente
Si sbramerà la vivida pupilla ;
Certo di vena in vena a poco a poco
Scender ti sentirai soavemente
{p. 921}Il tuo core a tentar gioia materna.
Tal Metabo godea quando dall’arco
A lui davante la pennuta freccia
Con la vergine man sfrenò Camilla.
Tal l’amante godea madre Latona
Al cader delle Belve allor che in Delo
L’aurea faretra impoveri Diana ;
E cosi si leggea fra ciglio e ciglio
Il paterno esultar d’Egioco in volto
Quando Palla – Minerva Egid – armata
Squassò l’asta Vulcania in val di Flegra,
E il suol mordeano di Titano i figli.
Oh ! Come lieto all’apparir di Lei
Simile alla sorgente alba rosata
Freme ed alzasi un grido ! oh ! Come poi,
Se fuor discioglie dai purpurei labbri
Accenti, che cercar le vie del core
Sanno più arcane, ognun si tace, e tace
Fin dell’aure il sussurro ! È ver, che spesso
Stilla dagli occhi ’l cuor commosso in pianto,
Ma si piange in silenzio, e gronda il pianto
Su le intrecciate man, che si disnodano
Al tacersi di Lei rompendo in vivo
Suon di applausi echeggiante. A Lei bambina
Melpomene e Talia segnava il Fato
Educatrici ; ma così non volle,
E al tuo cuore, al tuo senno la commise
Il Dio di Cirra, ed obbediva al Fato.

Fiorillo Silvio, creatore della maschera di Pulcinella, perfezionata poi dal Calcese, e di quella di Capitan Matamoros, sotto il cui nome arrivò fino a noi, autore di varie opere poetico-teatrali, nacque a Napoli nella seconda metà del sec. xvi. Abbiam visto al nome di Fiorilli Tiberio come il Costantini faccia Silvio padre di lui ; ma col raffronto di alcune date, e con altre prove abbastanza solide che verremo offrendo al lettore, si dovrebbe dar ragione al Gherardi che chiama la vita di Scaramuccia un ammasso di notizie inventate. In fatti : se Tiberio Fiorilli nacque il 1608, la fuga da Napoli del padre accadde {p. 922}poco dopo quest’ anno. Ma Silvio Fiorillo era già stato conduttore di compagnia a Napoli, il 1584 (v. Croce, op. cit., 65). Chiamato a Mantova dal Duca il 1599, non potè recarvisi per malattia della suocera e sua ; ma vi si recò il 4 aprile del 1600, nel qual giorno, secondo che abbiamo dal Bertolotti, giunse in casa di Tristano Martinelli, arlecchino, sovrintendente di tutti i comici dello Stato mantovano, passando poi all’Albergo della Luna, ov’ erano l’Austoni e Antonio (?).

Il 1614 era a Genova, come appare dalla lista di comici pubblicata al nome di Bernardini, nella quale figura, oltre a Gio. Batta Fiorillo, un Gerolamo Fiorillo, altro figliuoletto di Matamoros. E che ci ha che vedere il Capitano di cavalleria con Pulcinella o Matamoros ? Le dedicatorie che precedon l’opere sue a stampa ci dànno indicazioni precise di data :

L’Amor giusto, Egloga pastorale in napolitana e toscana lingua, fu stampato il 1605 da Pandolfo Malatesta a Milano, e dedicato al Conte Antonio Litta con lettera in data del 3 agosto. L’egloga, in tre atti e in terzine, si svolge in Arcadia, e Fiorillo vi rappresenta un Pastor napolitano innamorato di Lagrimosa. La precedon sonetti in lode dell’autore di Daniele Piccigallo, Gio. Battista Composti, Gio. Domenico Darminio e Bartolomeo Zito.

La Ghirlanda, altra egloga, fu pubblicata in Napoli da Tarquinio Longo il 1609.

I tre Capitani Vanagloriosi, Commedia capricciosa in prosa, furon pubblicati in Napoli da Domenico Ferrante Maccarano il 1621.

La Cortesia di Leone e di Ruggero con la morte di Rodomonte, soggetto cavato dall’ Ariosto, e ridotto in istile rappresentativo in versi, fu stampata dal Fiorillo in Milano il 1614, pei tipi di Pandolfo Malatesta, quand’era coi Comici Accesi.

L’Ariodante Tradito, e morte di Polinesso da Rinaldo Paladino, fu stampato il 1629 in Pavia da Gio. Battista de Rossi.

La Lucilla Costantecon le ridicolose disfide e prodezze di Policinella, comedia curiosa di Silvio Fiorillo detto il Capitan Matamoros, Comico Acceso, affettionato e risoluto, dedicata {p. 923}all’ Illustrissimo et eccellentissimo Sig. il sig. Duca di Feria, fu stampata a Milano da Gio. Battista Malatesta il 1632. In essa troviamo il personaggio di Scaramuzza, servo del Capitan Squarcialeone, rappresentato molto probabilmente dal figliuolo Giovan Battista, scritturato pertal parte nella Compagnia che recitò a Genova il 1614, e divenuto poi famoso colla maschera di Trappolino.

Questa del ’32 è l’ultima data delle pubblicazioni del Fiorillo a saputa nostra : e probabilmente non molto egli dovè sopravvivere, almeno artisticamente, poichè, dato che il 1584 non avesse che venti anni, era già, il 1632, verso i settanta.

E come mai non si accenna punto in nessun documento all’esistenza del figliuoletto Gerolamo ? E come mai Tiberio in quell’elenco non figura ? Forse fu questo di Tiberio un nome assunto più tardi ? E Silvio andò mai in Francia ? E, in ogni modo, come mai nella lunga serie di articoli e versi e aneddoti pubblicati durante la non breve dimora di Scaramuccia in Francia, non s’è da alcuno accennato, nè men di passaggio, al Capitan Matamoros come padre di lui ? E chi era il Capitan Matamoros che vediam nel quadro dei Buffoni francesi e italiani (riprodotto poi dall’Huret nell’incisione che qui riferisco), di cui do nella testata la riproduzione, {p. 924}per gentil concessione del signor Rambaud, che fu anima dell’esposizione drammatica di Parigi (1896), e di cui non esistono che due esemplari : uno che è nel foyer della Comedia Francese, l’altro appartenuto già al signor De la Pilorgerie, che sarebbe, secondo il Baron de Wismes, di quello una copia ; ma anch’esso, a parer mio, originale ?

Gli studi che già si hanno su di esso furon generati dal ritratto ivi esistente di Molière, il primo a sinistra del lettore, che pare accenni ai principali componenti le due compagnie. Ma in qual tempo la Compagnia di Molière cominciò a trovarsi mescolata con quella degl’ italiani, recitando alternativamente nella sala stessa del Petit-Bourbon ? Ciò fu nel 1658, quando cioè Molière tornò a Parigi dalla Provincia ove l’avean confinato i debiti per l’illustre teatro. Il ’59 partiron gl’ Italiani, ma per tornare il ’61, anche ’sta volta recitando alternativamente coi Comici di Molière, non più alla Sala del Petit-Bourbon, ch’ era stata demolita, sì a quella del Palais-Royal.

Ma che vuol dire quella parentesi aggiunta nel mezzo del titolo : « Farceurs français et italiens depuis soixante (ans) et plus, peints en 1670 ? » Non si tratta dunque di compagnie vere e proprie, ma di un accozzo di artisti celebri, scelti in un dato periodo ? E il Matamoros del quadro che non ha nel costume veruna somiglianza colla incisione contemporanea (pag. 926) rappresentante il vero matamoros fiorilliano, era un Matamoros, o non piuttosto un Matamore ? Vale a dire : era un personaggio della compagnia italiana o di quella francese ? Egli è nel terzo piano dietro a Le Grand, il celebre Turlupin ; e a guardar bene, noi potremmo stabilire che la parte sinistra è occupata dai comici francesi, e la destra dagl’italiani. Di là : Molière, Jodelet, Crispin, Turlupin, Matamore, Gros-Guillaume, Gaultier-Garguille in secondo piano ; di qua : Trivellino, Brighella, Scaramuccia, Pantalone, Pulcinella, Dottor Baloardo, Arlecchino. Non può questo avvalorar l’idea che il Matamore, di cui abbiam già il tipo nel 1616 nella Illusion di Corneille, sia qui personaggio di compagnia francese ? Lo Scaramuccia del quadro non è già {p. 925}il Fiorilli, come vediam da una incisione del Mariette ; sibbene Giuseppe Tortoriti. Ma il Tortoriti si mutò di Pascariello in Scaramuccia solo nel 1694…. È dunque un errore del Mariette, o il quadro fu dipinto assai dopo il ’70 ? E se invece di Tortoriti, lo Scaramuccia fosse qui davvero il Fiorilli, come mai con un personaggio di Matamoro al suo fianco non si sarebbe fatto cenno di suo padre ?

Dietro il quale esame, noi non sapremmo in che modo rispondere con precisione alle fatte dimande. Ma si dovrebbe, io credo, trarre argomento che Silvio Fiorillo non fosse il padre di Tiberio Fiorilli. In fatti : nel luglio 1651 Tiberio Fiorilli era a Roma con la moglie Isabella : nello stesso mese e stesso anno vi erano Giovan Battista Fiorillo con la moglie Beatrice ; e tutti quattro, invitati dal Serenissimo di Mantova pel prossimo carnovale, risposero negativamente per averlo impegnato in Roma. Le lettere d’Isabella e Tiberio han la data del primo e 2 luglio, quella di Giovan Battista per sè e per la moglie, la data dell’ultimo luglio. Nessuna coppia accenna nella lettera all’altra, come non punto si accennò mai a un grado di parentela fra Beatrice, la moglie di Giovan Battista, e Tiberio Scaramuccia, quando si trovaron insieme a Parigi col Locatelli. Ma quel che maggiormente avvalora il dubbio si è che nelle tantissime lettere esistenti, Tiberio e Isabella son sempre firmati Fiorilli, mentre Silvio e Giovan Battista son sempre firmati Fiorillo.

Del Fiorillo Pulcinella ci rimane, oltre a quello del Perrucci (V. Calcese Andrea), un accenno del Cecchini (op. cit.) che lo dice inventore di questa stragofissima parte ; mentre del Fiorillo Matamoros il Cecchini medesimo ci dà un’ ampia testimonianza, dicendo ch’ egli fu huomo in altri comici rispetti di una isquisita bontà, posciacchè per far il capitano spagnuolo non ha havuto chi lo auanzi, & forse pochi che lo agguaglino. E l’opera del Cecchini ha la data del ’28.

Ed ora metto qui la terza e quarta ottava, che traggo da un suo poemetto, non citato da alcuno, ch’io mi sappia, il quale {p. 926}ci dà un’ idea dell’ ingegno poetico di lui, e del tipo ch’ egli rappresentava in teatro.

Il titolo dell’opera (Miscellanea 2ª TAB. I. N. III. 267 dell’ Università di Bologna) è IL MONDO | conquistato | di Silvio Fiorillo | detto il Capitano Mattamoros comico. | In Milano, & in Bologna per Niccolò Ubaldini | con licenza de’Superiori 1627. – L’opuscoletto ha fra il titolo e il luogo di stampa il presente ritratto in legno, e consta di otto pagine in 12° compreso il frontespizio e un sonetto di dedica (?).

Dunque udirete or qui cantar le prove
l’animo invitto, e intrepido coraggio
d’ un gran guerrier che al Dio Gradivo e a Giove
potria far guerra, ed oscurare il raggio
{p. 927}del maggior lume allor ch’in furor muove
il fiero sguardo indomito e selvaggio ;
e sol guerra desìa, brama battaglia
senza piastra adoprar, elmo, nè maglia.
È di robusto corpo e ben formato ;
d’altezza avanza il Briareo gigante.
Di noiosi pensier mai sempre armato,
porta il suo duro cor più che diamante.
E non con gli occhi sol, ma ancor col fiato
il ciel spaventa, ed ogni stella errante,
e se contro gli vien nemico stuolo,
lo fa col soffio gir per l’aria a volo.

Fiorillo Giovan Battista. Figlio del precedente, fioriva nella prima metà del secolo xvii ; fu artista di gran pregio per le parti di secondo Zanni, che rappresentò sotto il nome di Trappolino, nella Compagnia dei comici Affezionati. Il Cavalieri nell’introvato libretto della Scena illustrata, dice di lui :

E chi non vede la balordagine di Trappolino tanto ingegnosa, quanto piacevole, sconcertar l’orditura de’più serj negozi ? Onde il riso, e la facezia gareggiano tra loro a chi prima toccasse l’impossessarsi degli uomini ; e da questa gradita controversia nasceva il contento.

E riferisce il seguente sonetto di Piccinino Piccinini :

L’oscura larva che t’adombra il viso,
siccome al duolo altrui porta spavento,
così del nome tuo parmi ornamento,
che nascer fa dallo spavento il riso.
Mascherata l’astuzia esser m’avviso,
che faceta produce il mio contento ;
se l’ombre del tuo volto io miro intento,
scorgo l’orror della Tragedia ucciso.
Non è stupor, se di modestia abbondi,
che nascer ciò dalla Prudenza suole,
a cui di pregio, e di virtù rispondi.
D’esser nero quel volto ah non si duole,
ma gli oltraggi gli son cari e giocondi,
mentre l’arde vicino un sì bel Sole.

{p. 928}Una testimonianza del valor suo l’abbiamo in questa lettera che tolgo dall’Archivio di Stato di Modena :

Seren.mo Sig.r mio e Nipote osser.mo

Gio. Battista Fiorillo Comico, nel corso delle fattiche c’ hà fatto quà s’è stabilito merito tale apresso di me, che desideroso fargliene risentir gl’ effetti non le ho potuto negare di procurar la protettione dell’Alt.za Vra per lui et per la sua famiglia. già mi persuado che questi incontrerà ne suoi occorrenti l’assistenza delle gracie dell’A. V. che uantaggiosissime senza dubbio le riusciranno quando la Casa sua che si troua in Bologna, ne hà cosi vicino l’influsso. La libertà con la quale mi uaglio de suoi fauori seruirà a V. A. d’argomento ch’ambitiosissimo uiuo mi uenghino da lei somministrati mezi proportionati per comprouare con la corrispondenza l’affettuosissimo mio ossequio. Et a V. A. bacio affettuosamente le mani. Di Torino li 9 di aprile 1647.

Di V. Altezza

Aff.mo Ser.re et Zio

Tomaso (di Savoja).

Di fuori : Sig.r Duca di Modena.

Si risponda in forma cortese.

Pare che il Fiorillo non fosse uno stinco di santo se s’ha a credere al Toschi che in una lettera del ’50 da S. Felice, entrato a raccontare le solite peripezie di compagnia con le parole : Sia maledetto, quando mai m’intricai in queste maledete zenie di comedianti (alludendo alla lettera del Fidenzi (V.) a lui diretta), dà a Trappolino il titolo di briccone, perchè, nel timore che il Duca volesse per sè il comico Flaminio (Napolioni), egli sel prese con sè in casa, mantenendolo di tutto punto, col fondamento di averlo per compagno.

Fiorillo-Vitelli Beatrice. Moglie del precedente, attrice di molto pregio per le parti di prima donna che sostenne col nome di Beatrice. Abbiam visto al nome di Adami Beatrice, com’essa, già moglie di Trappolino, fosse stata nel ’39 rapita in viaggio dal conte Bonaparte Ghislieri ; e dalla lettera del Toschi datata da S. Felice il ’50, e citata al nome del marito, sappiam ch’ella era con lui a Bologna. Da una lettera sua al Duca, che per gentile comunicazione del cav. Azzolini pubblico in fine, e da un’altra del Gualengo scritte da Roma il ’51, ella appare colà con propria compagnia. (Da quella del Gualengo {p. 929}sappiamo che Lelio Andreini vi recitò la parte di Pantalone). E l’ 8 dicembre dello stesso anno, il Granduca di Toscana pregava il Duca di Mantova a non costringere Beatrice Vitelli, comica, a venir in Mantova, dovendo portarsi a Roma.

È questa dunque fuor di dubbio la Beatrice del Loret (V. Adami (?) Beatrice), che a fianco di Locatelli e di Fiorilli Tiberio incantò il pubblico parigino, confusa dall’Ademollo con Patrizia Adami, e probabilmente la Beatrice del Bartoli (V. Adami) che recitava a Verona la Pazzia intorno al’63 (V. Fidenzi Cintio).

Ma ecco la citata lettera, di cui metto la firma autografa.

Se.mo Pn.e mio Sig.e

Io no ho mai hauto magiore ambitione che quando son stata comandata da V. A. e dalla Sua serenis.ma Casa, e l’anno passato subbito chio riceuei l’auiso di quest’honore, dall’ Ill.mo Sig.r Balì Cospi, no solo promessi doi parte a Flaminio p poter fare una mediocre compagnia, ma la Regalai più di quello che il mio stato conportaua ; giunsi a Fiorenza e sa Dio i dispetti che ebbi si da Flaminio, come da Argentina, ne poteuo replicare p che vi agiungeueno la parola e il comando di V. A. S.ma e per tal disgusto mi amalai, come molti lo sanno ; Tralascio ch’egli continouamente mettesse zizanie con tutti i miei Compagni, a ciò tutti uniti facessero contare la sua Bugia p verità, ch’io fossi una donna superba Tiranna di compagnia, et infine che sono pazzacci tutti, et io ero la strapazzata (e uergognia chio lo dicha) da simil gente.

Ne creda V. A. che egli cessi la sua…… di Masaniello, p che continouamente tiene in moto tutti, e questo lo sa cosi ben fare, che imposibile a dirlo. egli sie licenziato dalla Compagnia fuori dogni ragione, e se dice p la uicenda, V. A. no lo creda p che no gl’importa poi che l’anno passato concesso più che uicenda e lui medesimo se ne dichiarato e dichiara al presente che no ha sentimento contrario e che quel che ha fatto di quella sotto scritione, fu consiglio di un de compagni ; ma quello che p verita gli preme, è la parte per la moglie e questo me inporta, p che io che ma fadigo cò la mente più de tutti, a tirar meno degli altri nò è ragione. che Flaminio sia in compagnia no solo mi contento ma son soddisfatiss.ma p che so che è gusto di V. A. e le mie pretensione no son altro che nessun tiri più di me, leuato la spagniola, e quelli di 3 quarti stieno nel suo posto che se gli altri di Compagnia, toltone la mia casa, glie la uoran dare, l’hauro caro anzi p no pregiudicargli faro in aparenza constare, enziandio in scritto, co i compagni che anchio son della medesima volonta di dargli le doi parte ona cbe in sostanza io no resti defraudata nelle parte della mia casa, son pouera giouane, son stata tanti mesi senza recitare, hauto malatie altre prigionie de parenti, famiglia assai, e lite si che puole ognuno considerare come sto. Vorie che no fusse uero quel che dico solo p poter dire A V. S.ma chio uero a seruire p niente. resta solo che V. A. sappia ch’io subbito che si licentiò Flaminio procurai doi inamorati, gl’ottenni, e di metterli in compagnia diedi parola all’Illmo. Residente di Venetia in Napoli, se questi uengheno no so come fare, mi rimetto A V. S.ma obligargli piu tutta la compagnia no lo posso e no lo deuo fare p i rispetti sudetti di tener sempre imoto tutti co in ventioni Masanieleschi et un Cattiuo ne {p. 930}fa cento io no prometto che p la mia casa, e saremo a Dio piacendo quest’Autunno umilmente a seruire V. A. come credo che faran glialtri se hauran giudicio e qui Vmil.te le bacio la Cappa.

Di V. A. S.ma

Roma li 29 luglio 1651.

Infine la lettera seguente dell’Archivio di Modena ci dice com’ella fosse a Torino l’agosto del ’54, tornata di fresco da Parigi.

Eminent.mo et R.mo Sig.r Nipote mio Oss.mo

La S.ra Beatrice vitelli Comica, nel corso delle fattiche, c’ha portato in Piemonte, et qua s’è stabilito merito tale appresso di me, che desideroso di fargliene rissentir gl’effetti non le ho potuto negare di procurar la protetione dell’ Em.za V.ra per lei, et per la sua famiglia. Sono tali i motivi, ch’impegnano la uolontà di V. Em.za a compiacersi di concorrere nelle mie sodisfattioni, che di già mi persuado, che questi incontrerà nè suoi occorrenti l’assistenza delle gratie dell’ E. V. che uantaggiose senza dubbio le riusciranno. La libertà con la quale mi uaglio de suoi fauori seruira a V. Em.za di argomento, come desidero mi venghino da lei somministrati mezi proportionati per comprouare con la corrispondenza l’ affettuosissimo mio ossequio ; Et a V. Em.za bacio affettuosamente le mani.

Di Parigi li 5 di giugno 1654.

Di V. Em.za 

Aff.mo Ser.re et Zio

Sig.r Cardinale D’este.

Tomaso.

Fiorio Gaetano veronese. Di lui disse Francesco Bartoli :

« Bravo Comico, che ne’suoi primi anni giovanili apprese l’Arte della Pittura sotto gl’insegnamenti di Felice Boscarati celebre dipintore della sua Patria. Recitò il Fiorio in Verona nell’Accademia de’Dilettanti diretta da Marco di lui padre, e si diede a conoscere per un abile Attore. Fu nella Truppa d’Antonio Sacco, ma poco vi stette. Passò fra’Comici di due vaganti Compagnie, e dappoi fu chiamato in quella di Girolamo Medebach nel Teatro a S. Gio. Grisostomo. Ebbe l’incontro di dover recitare colla Maddalena Battaglia poco dopo comparsa in Venezia, e con essa fece maggiormente spiccare il di lui valore, sostenendo la parte d’Arsace nella Semiramide di Monsieur di Voltaire, e l’Amleto nella Tragedia di questo nome di Monsieur Ducis ; ambe tradotte da peritissimi Scrittori. In esse si distinse il Fiorio notabilmente, e fu in Venezia ed altrove applaudito. Abbandonando il Medebach il predetto Teatro, il Fiorio rimase colla Battaglia, ed oggi è pur seco, continuando a dimostrarsi {p. 931}pieno d’attenzione per il suo Mestiere. È comico di qualche ingegno, e scrive a sufficienza alcune cose spettanti al Teatro, ed è suo parto una Commedia intitolata : L’Oppresso Felicitato, o sia il Conte d’Osbach. Oggi trovasi impiegato in comporre un lungo Poema di venti Canti in ottava Rima intitolato : Le quattro Età dell’ Uomo. Merita il Fiorio molte lodi per i suoi meriti Teatrali, ed egualmente per la bontà de’suoi costumi, che lo palesano un Uomo onesto, un Marito amoroso, ed un Padre prudente. »

Pubblicò il Fiorio a Venezia del ’91 le sue commedie in quattro volumi in-8° col titolo Trattenimenti teatrali ; i quali contengono : La nobil vendetta, Imelda e Bonifacio, Meleagro, Il sogno avverato, L’oppresso d’animo, felicitato (dal tedesco), Il Vincislao di Lituania, Ines de las Cisternas, I pazzi corretti, Un momento c’è per tutti, Alberto e Mastino secondo, Signori di Verona, Agnese di Bernaver, La vedova medico e filosofo, Sei piatti e nulla più (dal tedesco), Carlo Goldoni fra’comici, Il matrimonio di Carlo Goldoni, Introduzione comica. L’opera ha nel primo volume una dedica a S. E. Grimani, dalla quale apprendiamo che egli fu da lui protetto e beneficato ne’venticinque anni che gode l’onore di servire il nobilissimo suo teatro ; e un discorso preliminare, il quale ci dice come queste opere regolate fossero precedute da due favole spettacolose Arabinda prima e Arabinda seconda, che sortirono un esito felicissimo. Il discorso a’lettori sui Pazzi corretti, commedia scritta per fanciulli, ci racconta come in essa avesse parte il maggior suo figlio di anni dieci, il quale, recitata la Commedia nella villeggiatura di Sala a Parma, vi diede anche un concerto di violino, tal chè fu ammesso alla prova nel concerto di musica del Reale Infante, dal quale si ebbe poi patente di suo Virtuoso di camera.

Il Fiorio si mostra in questi lavori uomo d’ingegno non comune, se non di vasta coltura. I versi sciolti hanno una certa scorrevolezza, e lo stile vi è più tosto semplice e piano. Degne di nota speciale sono poi le due commedie che trattan della vita del Goldoni, e la Introduzione comica, in cui sono dipinti al vivo i costumi dei comici colle loro convenienze, dispute, bizze, {p. 932}suscettibilità. Il Carlo Goldoni fra’comici potrebbe, credo, ben rappresentato, reggere anch’oggi al lume della ribalta.

Il Fiorio era l’autunno del 1794 al S. Gio. Grisostomo di Venezia ove creò la parte di Pasquale nell’Olivo e Pasquale di Sografi. Scrisse ancora, dopo la stampa dei quattro volumi : Solitudine e pianto, tragicommedia in tre atti con prologo intitolato Offesa e Vendetta, recitata al S. Gio. Grisostomo il 26 dicembre 1795, e replicata tre volte ; e La vana seduzione, commedia recitata al S. Luca, non so se la prima volta, il 7 ottobre 1896, che trovasi pubblicata nel 1799 nel tomo XXXV del Teatro moderno applaudito di Venezia.

Egli era probabilmente socio del Battaglia e direttore della Compagnia, nella quale si recitavan commedie premeditate e improvvise.

Florindo dei maccheroni. Chi si nascondesse sotto questo nome non sappiamo. Dalle notiziole del Bartoli fornitegli da Agostino Fiorilli, sappiamo ch’egli « era un comico, che unir sapeva alla prontezza delle parole l’argutezza de’sali ; e giocava meravigliosamente delle scene insieme col Pulcinella. Aveva egli una veemente passione pe’maccheroni : e però Florindo de’ maccheroni fu comunemente appellato, e si venne quindi a perdere la memoria del suo vero nome. In alcune commedie ridicole, e dove la mensa avea luogo, voleva che fossero apparecchiati i maccheroni, che venivano da lui divorati, non che mangiati. Nella tragicommedia del Gran Convitato di Pietra portavali ben conditi nelle saccoccie dell’abito, e mangiavali senza soggezione alcuna in mezzo alla scena. »

E Goldoni, nel Cap. VI delle sue Memorie, riferendo un dialogo col padre, così precisa l’origine di quel soprannome : « Come sei qui venuto ? – Per mare. – Con chi ? – Con una Compagnia di Comici. – Di Comici ! – Son genti oneste, padre. – Come si chiama il Direttore ? – Sulla scena lo dicon Florindo, e lo chiamano Florindo dei Maccaroni. – Ah ! ah ! lo conosco ; è un brav’uomo : faceva la parte di Don Giovanni nel Convitato {p. 933}di Pietra ; si pensò di mangiarsi i maccheroni d’Arlecchino, e da ciò gli diedero questo soprannome….. »

La Compagnia di Florindo fu quella con cui viaggiò Carlo Goldoni il 1720 da Rimini a Chioggia. Val ben la pena che io qui ne riferisca la descrizione che ispirò al De Rossi Brugnone il quadro che è alla Galleria moderna di Firenze, e che qui riproduco.

I miei Comici non erano quelli di Scaron ; ma l’unione però di questa truppa imbarcata presentava un colpo d’occhio piacevole.

Dodici persone fra Attrici ed Attori, un suggeritore, un macchinista, un guardacassoni, otto servitori, quattro cameriere, due nutrici, figliuoli d’ogni età, cani, gatti, scimie, pappagalli, uccelli, piccioni, un agnello ; quest’ era l’immagine dell’arca di Noè.

La barca essendo molto vasta, era divisa in più compartimenti. Ciascuna donna aveva il suo nicchio separato da coltrine. Avevano fatto un buon letto per me a fianco del Direttore, e tutti stavamo bene.

L’Intendente general del viaggio, ch’era Cuoco e Cantiniere nel tempo stesso, suonò una piccola campanella, ch’ era il segnale della merenda. Tutti si unirono in una specie di sala in mezzo alla barca, fatta e disposta sopra casse, baulli, e balle. Colà eravi sopra una tavola ovale caffè, thè, latte, fette abbrustolate di pane, acqua e vino.

La prima donna domandò un poco di brodo, e non essendovene, andò in furore. Si fecero le più grandi fatiche a quietarla con una buona chicchera di cioccalata. Essa era la più brutta e la più schizzinosa.

{p. 934}Dopo la merenda, si propose la partita fino all’ora del pranzo. Io giocava passabilmente bene al tressette, giuoco favorito di mia Madre, che me lo insegnò.

Stavasi per cominciare un tressette, ed un picchetto ; ma una tavola di faraone che avevano piantata sul cassero, tirò tutti a sè. Il banco indicava piuttosto il divertimento, che l’interesse, poichè il Direttore non l’avrebbe sofferto altrimenti. Si giuocava, si rideva, si scherzava, si facevano burle : quando la campanella ne chiama a pranzo, e tutti vi corrono.

Ci portano un’abbondante minestra di maccheroni, sopra i quali ci gettammo tutti d’accordo, e ne divorammo tre grandi piatti ; carne di manzo alla moda, pollame freddo, una lombata di vitello, frutti, e vino eccellente : oh, che buon pranzo ! non vi è vivanda che non sia saporita.

Noi stettimo a tavola quattr’ore buone ; intanto si suonano diversi istrumenti, e si canta molto. La cameriera confidente rapivami col suo canto, e guardandola attentamente, facevami una sensazion singolare : ma, oimè ! accadde un’avventura che interruppe tutto il diletto della società. Un gatto sprigionossi dalla sua gabbia, ed era appunto il gattino della prima Amorosa. Chiama ella in ajuto tutta la gente, e tutti gli corron dietro. Il gatto ch’era feroce come la sua padrona, correva, saltava, si nascondeva per tutto ; ma vedendosi perseguitato per ogni parte, arrampicossi sull’albero. Madama Clarice ne stette male : un marinajo montandovi per ghermirlo, il gatto si slancia in mare, e vi rimane annegato. Ecco disperata la sua padrona ; ella vuol uccidere tutti gli animali che se le presentano, e vuol gettare la cameriera nella tomba del suo caro gattino. Tutti prendono la parte della cameriera, e la querela divien generale. Arriva intanto il Direttore, ne ride, scherza, fa carezze all’afflitta Signora. Si mette a ridere ella medesima, ed ecco il gatto dimenticato.

Veramente il Goldoni non accenna in alcun modo a’vestiti teatrali de’comici, che sono, nel quadro, una licenza ingiustificabile.

Florindo recitava dunque le parti di primo innamorato, ed era napolitano. Probabilmente egli assunse il nome di Florindo, lasciato dal suo concittadino, Domenico Antonio Parrino, innamorato anch’egli de’più egregi al servizio del Duca di Modena, che fu sui teatri oltre un trentennio, e lasciò alcune opere pregiate, fra cui, prima, l’Istoria dei Vicerè del Regno di Napoli.

Focari Gerolamo. Dice Francesco Bartoli che la Marta Bastona « intorno al 1730 maritossi con Girolamo Focari veronese, che s’impiegava seco nelle compagnie in qualità di Rammentatore. » Si sa invece dallo studio del Barone ö Byrn sui comici italiani in Sassonia (V. Bastona Marta) come egli recitasse anche nella Compagnia di Corte con la moglie, rappresentando il ruolo di Momolo. La cronaca del tempo dice : « è un uomo tarchiato e piccoletto. Si vede che egli vuol piacere : lavora abbastanza {p. 935}bene : fa il suo carattere in modo da non si poter meglio. (Che cosa non può la consuetudine). » Nel 1754, andando un po’ in là con gli anni, dovette assoggettarsi a far da suggeritore nell’operetta, a vicenda con Bernardo Vulcani. È menzionato con lo stesso Vulcani, col Canzachi e col Noë fra i pensionati di Corte.

Foggi Rosa, fiorentina, è citata da Francesco Bartoli, come attrice di qualche pregio per le parti di serva che sostenne in Firenze al Cocomero e ne’teatri di Lombardia e di Liguria nella Compagnia di Giovanni Roffi.

Foresti Giovanni Antonio. Attore della Compagnia di Nicola Petrioli, poi capocomico egli stesso. Recitò nelle commedie studiate e all’improvviso, principalmente nella maschera di Brighella, e « poteva – dice il Bartoli – tra’commedianti ingegnosi essere lodevolmente annoverato. » Il 1782, lasciato il teatro, diventò maestro di scuola infantile a Pirano, nell’Istria, ove s’era stabilito.

Fornaris (Di) Fabrizio. (V. Di Fornaris).

Fortunati Tiberio. Ottimo artista per le parti di Pantalone. Ne abbiam notizia in una lettera del comico Zanotti del 14 agosto 1655 da Genova al Conte Marcello Cimicelli a Modena. Dopo di aver parlato dell’urgente necessità di mutare il Pantalone, attore insoffribile, scrive :

« Tiberio Fortunati, che rapresenta cosi bene la parte di Pantalone, quello dico che da S. A. Ser.ma è stato nella quadragesima passata ricercato in Roma, et in altre parti, hora è in Genova, e mi fa a credere di certo che con poca fatica sarebbe con noi. Non dico d’avantaggio. Se il Ser.mo S.r Principe conclude esser servito da questo personaggio, mandi subito una lettera per l’ Ill.mo S.r Agostino Nicoli, incaricandole il trattato di questa unione e seguirà al sicuro.

« Mi dispiace il dover trattare simil facenda in pregiudicio di quest’altro Comico, ma per Dio il star seco senza notabil danno è impossibile ; vi sia pure per me meno conscienza e guadagno migliore. »

{p. 936}Fortunati Giovanni, figlio del precedente, e più conosciuto in teatro col nome di Toto, che gli venne, quasi diminutivo di trotola, per la piccola statura, fu egregio attore come caratterista e come arlecchino. Recitava commedie in cui si trasformava in varj personaggi, cantando e parlando varie lingue e facendo bizzarrie piacevoli d’ogni specie. Francesco Bartoli cita ancora I quattro Zanni, come sua particolar fatica. Recitò anche, ammiratissimo sempre, altre parti a viso scoperto e in commedie studiate. Fu con Massimo Ferraresi, del quale sposò la figlia Elisabetta ; e, lui morto, passò con Onofrio Paganini prima, poi con Pietro Rossi, con Giuseppe Lapy a Venezia, e (1782) con Francesco Paganini, figliuolo di Onofrio. Rimasto vedovo, pensò da solo all’educazione dei figli (la maggiore, Anagilda, sposò un Francesco Arisi) alcuni dei quali seguiron l’arte dei parenti. Troviamo poi il Fortunati al S. Cassiano di Venezia nelle stagioni di carnevale 1796-97 in Compagnia di Francesco Menichelli. Il ’97 egli non si chiama più arlecchino ma Truffaldino, e il Giornale dei teatri di Venezia dice di lui :

Se al merito singolare di questo insigne attore accoppiate si fossero alcune felici combinazioni teatrali, egli solo sarebbe bastato per far riempiere ogni sera dai più intelligenti dell’arte, non che dal popolo, il vasto teatro in cui recitava.

Era ancora in arte il 1821 caratterista al S. Luca di Venezia con la Compagnia Toffoloni ; e il Giornaletto ragionato teatrale così scriveva di lui :

Questo vecchio caratterista bolognese si è già assicurata una sufficiente riputazione. Nato da padre comico, avanzandosi cogli anni e non molto crescendo nella statura, i suoi compagni per ischerzo lo chiamavano trotola, dal che derivogli in seguito il soprannome di Toto, sotto il quale è comunemente conosciuto. Sebbene molto inoltrato negli anni, non lascia tuttavia di essere sempre il bene accetto caratterista Toto ; ed è un compenso giustamente dovuto alle sue fatiche la stima che costantemente gli viene accordata.

Questo Toto è nell’elenco della Compagnia chiamato Giuseppe, e v’ha un altro Fortunati di nome Giovanni per le parti amorose : è scambio di nomi ? E che sarebbe stato di Toto quell’amoroso ? Un figliuolo ? E chi era quel Giuseppe Fortunati assieme a lui, Toto, caratterista al San Cassiano di Venezia nel 1796 e ’97 con Fr. Menichelli ?

{p. 937}Fortunati-Ferraresi Elisabetta. Moglie del precedente. Recitò sempre le parti di seconda donna. Dotata di non poca bellezza, fu attrice di pregio, specialmente in dialetto veneziano.

Madre di numerosa famiglia, fu spenta in Padova dopo lunga malattia, a circa trent’anni, nella primavera del 1776.

Fortunati-Arisi Anagilda. (V. Arisi Francesco).

Fortunati Tommaso. « Altro figlio di Domenico, il quale recitava nella maschera del Brighella. È marito della Rosa Camerani. Sa molto bene le commedie all’improvviso a memoria, le concerta con dello spirito, e non è indegno dell’epiteto di buon commediante. » Così Fr. Bartoli.

Fortunati Giuseppe. Non sappiamo, come si è detto al nome di Giovanni, qual grado di parentela lo legasse ai Fortunati. Sappiamo solamente ch’egli fu caratterista in Compagnia Menichelli pei carnovali 1796 e 1797 al S. Cassiano di Venezia, assieme all’arlecchino Giovanni, detto Toto, e che, attore della Compagnia Perotti, recitò per il primo, l’autunno del 1807, la parte di D. Gregorio nell’Aio nell’imbarazzo di Giovanni Giraud.

Fortunati Lucrezia. Dice Fr. Bartoli : « Recitò da prima donna con molta grazia, ed acqistossi il nome di bravissima attrice. Esprimeva le sue parti con energia e con verità, ed intendeva assai bene l’arte di piacere recitando in sui Teatri. Fu sorella della Caterina moglie di Luzio Landi. Impiegossi per alcuni anni nella Compagnia di Filippo Collucci, e morì in Udine, ivi essendo con quella Truppa in tempo di Primavera. Lasciò di sè un onorato grido, ed alle comiche tutte un vero esempio dell’onestà teatrale. » Ma non ci dice a qual famiglia appartenesse. Era la Caterina Landi una Fortunati ? O il nome di Fortunati ebbe la Lucrezia da suo marito ?

{p. 938}Fortunati Domenico. Egregio comico per le parti di Innamorato sotto il nome di Odoardo, nacque il 1691. Entrò il 1735 nella Compagnia di S. A. R. il Gran Duca di Toscana, e pubblicò in Bologna un’opera tragicomica intitolata : Le bellicose gare tra Geremei e Lambertazzi superate da Tibaldello finto pazzo per impegno d’onore con la Pompa solenne del gioco della Porcellina. Se bene esperto nell’arte sua e nutrito di buoni studi trasse ognora vita meschina, tal che piuttosto s’ebbe nome di Domenico Sfortunato.

Come saggio del suo stile, riferisco io pure il sonetto recitato da Tibaldello, che è alla fine della tragicommedia :

Compito, amici, ho alfin l’alto disegno,
Che formava fedel le vostre glorie.
Darà un lustro maggior a vostre istorie
Delle mie gesta il fortunato impegno.
L’orrida Fellonia, l’ingiusto sdegno
Nel suo sangue lasciò l’aspre memorie ;
Sono vostre però le mie Vittorie,
Or che del vostro amor mi rendon degno.
In voi trova il mio Cor riposo, e nido,
Ed or, ch’arde per voi d’onor la face,
Così parlo con voi costante, e fido.
Estinta or ch’è la ribellione audace,
Viva di questa Patria il nome, il grido,
Viva la Libertà, viva la Pace.

Domenico Fortunati morì intorno al 1746.

Foscari Filippo, veneziano. Discendente legittimo dei Dogi, dovè, accasciato sotto il peso della rovina incombente, senza aiuti, senza energia, assistere all’ultimo crollo della grande fortuna : il Palazzo dei Foscari fu venduto al Governo, per soddisfare in parte alle legittime e illegittime esigenze dei creditori nati, cresciuti, moltiplicati con vertiginosa rapidità. Filippo Foscari, dato un ultimo sguardo al Palazzo magnifico, dal quale, lui tuttavia padrone, Vittorio Emanuele assisteva {p. 939}alle Regate, domandò alla scena un qualche sollievo all’angoscia sua ; e l’arte lo accolse pietosa, e Filippo Foscari doventò di punto in bianco un buon mamo, sotto le spoglie di giacometto, la maschera inventata da Luigi Duse, poi un mediocre caratterista. Fu con Antonio e Adelaide Morelli, genitori di Alamanno, poi in società con Minzoni, con Ninfa Priuli, con Prosperi e Gandini. La compagnia si era data più specialmente al repertorio goldoniano, alternato coi vaudevilles, di cui s’era fatta come una specialità ; tanto che, avendo fanatizzato a Milano, lo stesso Verdi ne vedeva talvolta le prove. Uno dei principali ornamenti della compagnia fu la Carletti, moglie di Prosperi, la quale cantava mirabilmente.

Foscari Enrichetta. Figlia del precedente e di Lucilla Pasini veneziana e non comica, artista egregia, oggi, per le parti caratteristiche nella Compagnia veneziana di Zago e Privato, iniziò la sua vita artistica, seguendo il padre giacometto nelle sue prime peregrinazioni, per diventar poi la prima donna della Compagnia sociale italiana, nel qual ruolo si mantenne, apprezzata e applaudita, per oltre venti anni. Fu per sei mesi aggregata alla Compagnia Gustavo Modena ; ed ebbe l’onore di sostener con lui le grandi parti del suo repertorio.

Fracanzani Michelangelo. Di lui scrisse Bernardo De Dominicis nelle Vite de’ Pittori, Scultori ed Architetti napoletani (Napoli, 1745) :

….. De’ figliuoli di Cesare rimaso in Vita il solo Michelagnolo, attese alla pittura, ma con poco profitto, perciocchè poco curandosi del Padre, e del Zio, si diede con una brigata di Amici a rappresentar Commedie all’ Improviso, facendo per altro egregiamente la parte del Pulcinella, avendola fin dalla fanciullezza appresa dal famoso Andrea Calcese, altrimenti detto Andrea Ciuccio, e poscia da Ciccio Baldo, che fu Maestro di Mattia Barra, il qual Ciccio Baldo gli regalò una maschera di Pulcinella, ch’era stata del mentovato Andrea. E giacchè siamo in questo proposito fie bene sapersi, che la vera fisonomia del Pulcinella, non è già quella delle ordinarie maschere, che si veggono per Napoli in tempo di Carnevale con gran nasi, ma bensì il ritratto particolare di Uom grossolano, che fu dell’Acerra, Città otto miglia discosta da Napoli. Fù adunque tal maschera molto stimata, e tenuta in pregio da Michelagnolo Fracanzano, poichè aggiungeasi per lei molta grazia al suo mestiere. La cagione dell’andar Michelagnolo in Francia si fu, che {p. 940}essendo egli stato ascoltato da alcuni Signori Francesi in casa di un Titolato, parve loro tanto grazioso, come lo era in effetto, che ritornato in Francia ne discorsero in Corte, laonde s’invogliò di sentirlo il gran Re Luiggi XIV, allora giovane, e lo fece chiamare con onorato stipendio. Andò egli con due suoi Compagni, ma non incontrò molto applauso, dappoichè i Francesi non intendendo la frase Napolitana, nè le scempiezze del Pulcinella, ch’è parte goffa, altro diletto non aveano, se non quel che nascea dagli atteggiamenti ridicoli di Michelagnolo ; e per altro, egli non era grazioso, se non allora quando faceva scena co’suoi Compagni Napolitani, poichè i Comici Francesi non si adattavano al nostro modo di rappresentare all’Improviso, nè capivano la di lui intenzione, onde egli penava a muovere le risate. Contuttociò gli fu da quel magnanimo Re continuata la pensione, prendendo piacere delle di lui facezie ; Sicchè vedendosi Michelagnolo con mille Luigi d’oro l’anno, con carrozza, e con Servidori, mandò a levar da Napoli Cesare suo Padre, la Madre, col resto di sua Famiglia, e prese per moglie una Donna di onesto parentado, con la quale procreò molti figliuoli ; Questa fu la seconda volta, che Cesare vide la Francia, dove alla perfine mori, e tanto egli, quanto il suo figliuolo dipinsero qualche cosa per semplice diletto. Molti anni sopravvisse Michelagnolo al Padre, e venne a mancare fatto già vecchio circa il 1685.

I fratelli Fracanzani, Cesare e Francesco, dice ancora il De Dominicis, vissero miserabilissimamente, e però dipinser cose ordinarie. Furono allievi di Giuseppe Ribera, detto lo Spagnoletto, e furon tra’più furiosi, inscritti nella Compagnia della morte, al tempo della rivoluzione di Masaniello. Francesco, imprigionato il 1656 nel Castel Nuovo, per aver fatto nuovi tentativi di ribellione, vi morì avvelenato. È inesatta la data della morte di Michelagnolo che ci lasciò il De Dominicis, poichè sappiamo da’documenti, com’egli esordisse alla Comedia Italiana, e precisamente a Fontainebleau il 1° ottobre del 1685, in compagnia di Bartolomeo Ranieri, detto Aurelio. Il Fracanzani restò alla Comedia fino alla sua soppressione del 1697, e non si sa la data della sua morte. – Collettore appassionato di libri, stampe e disegni, fu naturalizzato francese, assieme alla moglie Clara Patro, e al figliuolo Antonio, l’agosto dell’anno 1688.

Fracanzani Antonio. Figlio del precedente, esordì a Parigi nell’anno 1701, come Arlecchino, in Compagnia Salles, ove restò sino alla fine della fiera San Germano del 1707. Passò la fiera seguente di San Lorenzo colla vedova Meurice, poi si recò a recitare in provincia. Tornato il ’34 a Parigi, tentò di entrare alla Comedia Italiana, ma non vi riuscì. Antonio {p. 941}Fracanzani aveva mutato il suo nome italiano in quello di De Frécansal.

Il Campardon riferisce una querela, sottoscritta appunto De Frécansal, contro il capocomico Cristoforo Selle e sua moglie, i quali, a conferma di molti testimoni, tra cui un Cristiano Briot, saltatore di corda, avevano deliberato e ad essi proposto di assassinare il Fracanzani, che assalito una sera da tre sconosciuti, e riuscito a ricoverarsi a casa, n’ebbe tal febbre e vomito da metterlo molto in pensiero per la sua salute.

Fracanzani Camillo, bolognese, cominciò a recitar parti di prima donna nel Teatro de’ Nobili Felicini, con certo Maccaferri sellaio, poi comico anch’egli, e dice Fr. Bartoli che lo vide « circa il 1760 rappresentare con bravura la parte di Donna Aurora nella Gratitudine, commedia in versi martelliani del signor Abate Pietro Chiari. »

Il padre di lui, di nobile famiglia veronese, costretto ad abbandonar la patria, si recò in Bologna, ove aprì un negozio di pelli stampate per calzature da donna. Ma alla fine, dovè anche lasciar Bologna, e cercar altrove un sostentamento a sè e a’suoi figli Camillo e Gertrude. Unitosi al ciarlatano Antonio Sacchetti, sopranominato Gambacorta, si die’a recitar commedie in banco sostenendo egli la parte di Pantalone, Camillo quella d’Innamorato e Gertrude di Serva. Furono in Francia. E tornati in Italia, il Fracanzani s’unì ad altro ciarlatano Daniele del Puppo, con cui formò una vera e propria compagnia comica, traendo la vita con maggior decoro, e di cui Camillo sposò la figliuola Orsola. Il vecchio Fracanzani viveva ancora al tempo del Bartoli (1782). Nel 1796, probabilmente, o era morto, o s’era ritirato dalle scene, giacchè nol vediam figurare nell’elenco del S. Carlino di Napoli, ov’eran Camillo ed Orsola, e un Alessandro, forse figliuolo di questi. Gertrude, separatasi dalla famiglia, si recò nell’Istria con una compagnia nomade, poi di là nel Teatro S. Angelo a Venezia, ove morì a trent’anni circa nel carnevale del 1782.

{p. 942}Fracanzani-del Puppo Orsola. Moglie del precedente, « fu veduta fanciullina – dice Fr. Bartoli – nella pubblica piazza di Bologna ad esercitare diverse forze colla propria vita sotto gl’insegnamenti di Daniele del Puppo padre di lei, che vendeva un balsamo in Banco, e faceva anch’esso colla spada varj equilibrj. » Sposatasi a Camillo Fracanzani, lo seguì sempre e dovunque. Dotata di una figura piacevolmente gentile, di un viso spirante grazia, e di una tenera dolcissima favella, potè cogli ammaestramenti del marito e col grande esercizio, divenire attrice di qualche pregio per le parti di prima donna. Il Bartoli chiude i pochi cenni su di lei, tributandole molta lode per l’onesto suo contegno, che la faceva risplendere in mezzo al ceto delle morigerate attrici.

Fracanzani Vincenzo. Di lui, attore in Compagnia Vestri e Venier, scrisse il Giornaletto ragionato dei teatri del 1821 :

Partito da Firenze sua patria, immaginò in Lombardia un nuovo ridicolo personaggio, cui diede il nome di Stentarello, che quantunque in lui non male accolto dal pubblico, tuttavia non fu da altri poi ricopiato. Innestatosi nella Compagnia Blanes, restò quindi col Vestri, manifestandosi, quale si pregia di essere, felice allievo del Pertica. Ridonda in singolar sua lode l’osservazione, che la stessa carriera segnata insieme col Vestri, non ha trascinato il Fracanzani a ricalcare le tracce di questo suo precursore. Egli si fa applaudire per le sue qualità distintive e individuali, senza arrogarsi quelle dell’altro, resistendo al pendio dell’imitazione, che in quasi tutti è indomabile.

Era il 1824 in Compagnia Fabbrichesi, e nelle Varietà teatrali fu scritto ch’egli era decorato da più e più anni del pubblico aggradimento.

Fragoletta. (V. Balletti….).

Franceschini Antonio, detto Argante, noto attore per le parti d’innamorato, si trovava capocomico il 1736 al S. Luca di Venezia, nel quale anno pubblicò La clemenza nella vendetta, commedia in versi di Giovanni Palazzi (Padova, Conzatti), {p. 943}dedicandola con una epistola in versi e in dialetto veneto al Pantalone Garelli (V.). Al principio del ’38 era a Dresda scritturato nella Compagnia di Corte assieme a sua moglie Gerolima ( ?) (V. Casanova Giovanna e Articchio Nicoletto). Nel ’54 era al S. Gio. Grisostomo con Onofrio Paganini a sostituir la Compagnia Sacco, andata in Portogallo. « Fu il comico Argante – dice Fr. Bartoli – un uomo di spirito ; trovò bensì nel Paganini un emulo alquanto insuperabile, ma non s’avvilì mai, e fecesi coraggio nel proseguimento delle proprie imprese. Allevò la sua famiglia con decoro, ed essendo passato a Praga, ivi morì l’anno 1755. »

Franceschini Giuseppe. Figlio del precedente, e più noto sotto il nome di Argantino, fu artista egregio per le parti di pantalone che sosteneva anche il 1782 nella Compagnia di Nicola Menichelli.

Franchi Elisabetta. Suocera di Antonio Sacco, il famoso Truffaldino, e passata poi a seconde nozze con Gio. Maria Pelati, portinaio del Sacco stesso, fu, secondo il Bartoli, una prima donna « che recitò sempre con del valore, e sostener seppe il suo impegno con felice riuscita. Mancò alla professione nell’anno 1756. »

Friderici Camillo. Fr. Bartoli ha per questo artista, ch’egli chiama il più virtuoso comico, che abbia in oggi (1782) l’arte nostra, un vero inno di lode. Grande nel recitare qualsivoglia parte, così premeditata, come all’improvviso, grande nel poetare, irreprensibile nei costumi, filosofo per eccellenza. Nato a Torino da civile famiglia, fu costretto dall’avversa fortuna a recarsi in Lombardia, ove consumato tutto quanto gli restava ancora, si unì a una compagnia di guitti, recitando le parti d’innamorato con felice riuscita, se bene non avesse avuto dalla natura requisiti necessari a un artista. Fu con Gnochis (Alessandro Alborghetti), col quale fe’ non pochi progressi ; e {p. 944}passò poi con Pietro Ferrari il 1776. Scrisse l’Ero e Leandro, tragedia inedita, e quella già alle stampe de’Voltureni. Del dramma in versi e in un solo atto : Cefalo, pubblicato a Cremona, il Bartoli riferisce la terza e quarta scena non migliori, nè peggiori di tante altre del genere.

Il Friderici, che a detta del Bartoli par fosse colle donne un Cavaliere di Ripafratta, finì col restare avviluppato ne’lacci della vedova Bazzigotti (V.) ch’egli poi sposò.

Frilli Giorgio, fiorentino. Fu giovanissimo in Compagnia di Giovanni Roffi al Cocomero di Firenze, quale innamorato. Coll’avanzar dell’età, si diede alle parti gravi ch’egli recitò valorosamente ne’ varj teatri del Piemonte, della Liguria, della Lombardia.

Fumagalli-Targhini Amalia. Nata a Milano il 1824, seguì il padre nell’arte, quand’egli già filodrammatico, abbandonato l’impiego si unì in società con Antonio Ristori, padre di Adelaide. In alcune parti di bimba scritte a posta per lei e per la Ristori, die’ prove non dubbie dell’altezza a cui sarebbe salita in breve. A sedici anni era già l’amorosa della Compagnia Ferri, diretta da Augusto Bon, e a diciotto la prima attrice giovane di quella diretta da Corrado Vergnano, sotto la celebre Carolina Internari, che non solo le fu larga di ammaestramenti ; ma visto il rapido progredir di lei, formò da sè compagnia e la scritturò quale altra prima donna. Entrò poi l’Amalia il ’44 con Luigi Domeniconi prima attrice assieme a Maddalena Pelzet, quindi (1846) prima attrice assoluta con Angelo Lipparini, col quale stette cinque anni, mostrando, e nel dramma e nella commedia, a qual grado di arte ella era salita. Fu con Pezzana, e nuovamente con Domeniconi il ’52, poi collo Stacchini e il Moro-Lin. Io la conobbi il ’71-’72 nella Compagnia di Fanny Sadowski diretta da Cesare Rossi, in cui sosteneva mirabilmente le parti di madre e caratteristica, che avea già recitate in quella di Bellotti-Bon.

{p. 945}I faentini ristamparon per lei, nel carnovale ’60-’61, il sonetto di Paolo Costa per la Clementina Cazzola ; « Di che loco beato…. » (V.) ; e l’appassionato Braccio Bracci pubblicava in Livorno la primavera del ’50 un inno in versi sciolti, tra’ quali i seguenti :

………….
Ove mi traggi ? In qual parte sublime
l’inspirato pensier guidi ? Ti veggio
del secolo superbo e de’ suoi mali
ignara giovinetta – io ti conosco
alla modesta ilarità che spira
dagli atti umìli – al semplice del volto
atteggiamento, ed al sospir che sembra
l’eco d’un’arpa, cui passando amore
agitò con le penne. – In me che t’odo
oh qual d’affetti simpatia segreta
{p. 946}vai risvegliando ! – Oh come al giovanile
desìo dài legge ed arbitra ti rendi
dello spirto indomato ! – Il tuo sorriso
non è mortal, ma d’angelo che dorme
d’innamorata vergine sull’urna
morta di duolo nell’età più lieta.
O della scena intelligenza e vita,
interpetre del vero. – O del Coturno
gloria e del Socco, onde ti guarda e freme
l’emula Francia a noi rivale eterna,
vedendo dalla sua fronte rapita
d’arte sì bella la corona illustre
della gentile Italia !……
………….

Gli artisti che la conobber da vicino concordano in giudicarla grandissima, e forse la più grande, se natura avesse compartito a lei quelle doti di cui fu larga con altre. Artista spontanea, esuberante di passione, nel dramma e nella tragedia, ebbe una vena irresistibile di comicità nelle parti comiche, tra le quali i vecchi artisti ricordan quella del Birichino di Parigi, in cui non ebbe rivali.

Fusarini Letizia. Nata il 1826 a Fano da Benedetto, artista drammatico e conduttore di compagnie meschinissime, crebbe in ristrettezze senza nome, vagendo, si può dire, in fasce parti di prima donna, come la Cesira nell’Aristodemo del Monti che recitò bambina a Toscolano con dilettanti diretti dal padre, il quale riceveva in compenso fuoco ed alloggio per la famiglia : il vitto, allora, fu sempre per essa una specie d’incognita. Trovato modo di spingersi fino a Milano, la Letizia potè entrare in Compagnia di Giuseppe Moncalvo, nella quale, se accrebbe di molto le sue doti artistiche, non migliorò per niente la sua posizione materiale, dacchè Moncalvo non mai ricompensò la sedicenne artista fuorchè di savj e utili insegnamenti, e se l’arte era allettatrice potente, le esigenze dello stomaco facendosi di giorno in giorno più imperiose, ebbero {p. 947}il sopravvento. Capitato allora a Milano Romualdo Mascherpa con la compagnia della quale era amoroso il Landozzi, e sentita la Fusarini, le propose di andar subito con lui prima attrice. Ella, scioltasi amichevolmente dal Moncalvo, accettò la scrittura, ed esordì a Milano al Re Vecchio, teatro d’importanza massima a quel tempo, nel dramma « Un fallo » (rappresentato poco innanzi con gran successo dalla Ristori) sollevando all’entusiasmo il pubblico che le diede il battesimo di grandissima. Fu poi con Gustavo Modena, con Ernesto Rossi e Gian Paolo Calloud ; poi con Lipparini ; poi con Zammarini e Marchi in società.

La sua brevissima vita artistica fu tutta un trionfo. Alle rappresentazioni del Riccardo D’ Arlington, il pubblico accorreva al solo terzo atto, in cui ella aveva la maggior parte. Nella Pia de’ Tolomei, con Lipparini, al Carignano di Torino, fu giudicata sovrana. Conosciuta la celebre Marchionni e richiestala di parere e di consiglio, n’ebbe in risposta che niente poteva dirle per l’ultimo atto, poich’ella moriva come niuna avrebbe potuto mai. Qualcosa le disse pel terzo atto, e Marenco dovè tagliare il gran discorso, non consentendole la esiguità de’ mezzi fisici di dirlo con la voluta efficacia. Ma la Pia si replicò cinque sere con crescente favore, e la giovinetta, baciata dall’autore e dalla Marchionni, ricevè il battesimo della gloria. Sempre col Lipparini, a Verona, andata la compagnia in iscena per soddisfar le esigenze del caratterista Calloud col Ricco e Povero di Souvestre, la Letizia aspettata con ansia febbrile, distrusse letteralmente le grandi prevenzioni, e per poco non fu sonoramente fischiata. E i fiaschi si successero ai fiaschi, e per quanta maggior cura mettesse nelle sue interpretazioni non le riuscì, mi servo di una frase del gergo, di piantar il chiodo. Ma fatta d’ordine di Lipparini la Pia, il voltafaccia del pubblico fu immediato e compiuto. L’Accademia si recò ad inchinar l’artista ; una folla enorme e plaudente l’accompagnò a casa con le torce, e la Pia, fu replicata in mezzo al crescente entusiasmo per ben diciassette sere.

{p. 948}Il matrimonio della Fusarini fu un romanzo inverosimile.

A Livorno si ammalò gravemente d’enterite. Una sera ella mostrava con manifesti contorcimenti i dolori che la tormentavano ; un giovinotto della barcaccia di proscenio sussurrò a’ compagni, ma in modo da essere udito : « la prima donna ha i dolori perchè lascia il damo. » Ed ella di rimando, vòlta alquanto verso la barcaccia : « se tu avessi il mio male non parleresti così. » Il giovinotto, udita la frase, si abbandonò prima a una matta risata, poi lasciò il teatro ; quella recita fu l’ultima della Fusarini a Livorno. La malattia pigliò le più serie proporzioni, e si aspettava da un istante all’altro la catastrofe. La compagnia si era già recata a Parma. Ella sola col padre era rimasta, ma non mai abbandonata ; chè tutti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia facevano a gara nel prodigarle affettuose cure. Le si recò l’olio santo. Alcuni tra’più caldi ammiratori entraron nella stanza della morente colle torce accese. A un tratto lo sguardo vitreo della poveretta si rischiarò, si animò ; le labbra si mosser come a discorrere, e dopo un istante, sfidando quasi lo sguardo di uno dei convenuti…. « non è il damo che io lascio – mormorò – è il mondo. » Lasciò quegli cader di mano la torcia, colpito dal terrore, e se ne andò fuor della stanza, come pazzo. La Letizia a poco a poco riprese vigore ; la gravità del male s’andò a poco a poco attenuando ; in capo a qualche giorno fu dichiarata fuor di pericolo, in capo a un mese potè raggiunger la compagnia a Parma, promessa sposa di lui, il giovinotto della barcaccia, Adriano Bargellini, uno de’ più stimabili negozianti di Livorno. Ma a Parma non potè andar subito in iscena ; chè, sviluppatosi un incendio nella casa ov’ella abitava, e fuggitane come potè meglio, fu colta dal grippe che la tenne gran tempo della stagione obbligata al letto. Gustavo Naiper, il figliastro di Maria Luigia, che la conobbe e ammirò e protesse a Milano, a’primi passi gloriosi dell’arte sua, la presentò alla sorella San Vitale, col mezzo della quale fu invitata a colazione e protetta poi e amata dalla Duchessa. L’andata in iscena colla Maria Giovanna segnò {p. 949}l’ultimo gran trionfo dell’artista ; chè recatasi di là a Forlì, fu quivi raggiunta dal Bargellini che la tolse per sempre dalle scene per condurla all’altare. Della morte di lui, avvenuta il 21 aprile 1875, fu desolata e se ne mostrava ognora inconsolabile…. e quando io le domandai come potè lasciar l’arte nel colmo della gloria, e nel fior della giovinezza, senz’ ombra di rimpianto, ella infiammandosi e piangendo sclamò : « Non mi lasciò il tempo a’rimpianti ! » E la esclamazione calda e spontanea mi dichiarò poi enumerando col maggior entusiasmo {p. 950}tutte le affettuose cure morali e materiali di cui egli soleva senza tregua colmarla.

Letizia Fusarini-Bargellini morì a Livorno la mattina del 19 marzo 1897.

A titolo di curiosità, metto qui l’invito al pubblico modenese per la sera di martedì 25 aprile 1843, in cui ebbe luogo la beneficiata della illustre artista.

Se il solo merito dovesse essere premiato, l’umile e rispettosa Attrice conoscendosi spoglia di questo, non potrebbe sperare di ottenere i favori di un Pubblico tanto intelligente ; ma incoraggiata dai molteplici tratti di cortesia, con cui si vede seralmente onorata, essa osa invitare questa rispettabile Popolazione, ed inclita Guarnigione alla sua Beneficiata, che avrà luogo in detta sera. Per riparare in qualche modo alla sua insufficienza, l’Attrice suddetta ha scelto un nuovissimo interessante e morale dramma mai esposto in questa Città, scritto da celebre Autore, tratto da un fatto vero successo in Francia l’anno 1832, e tradotto da dotta penna nel nostro idioma.

Questo capo lavoro venne rappresentato per 20 sere in Parigi per la prima volta l’anno scorso, e venne bene accolto nei principali Teatri di Torino, Milano e Roma ; il cui titolo è

MARCELLINO

GIOVINE TAPPEZZIERE


personaggi attori
Marcellino Sigg. Letizia Fusarini
Mad. Lebert » Giovanna Zamarini
Mr. Lebert » Luigi Bottazzi
Enrico Debrì » Gaetano Benini
Gustavo Chateni » Cesare Asti
Deschamp » Luigi Zamarini
Un servo » Cesare Angelini

Indi avrà luogo la tanto graziosa Commedia d’un Atto tutta da ridere intitolata :

AMORE E MISTERO

nella quale agiranno

la Signora Letizia Fusarini, i Sigg. Gaetano Benini, Cesare Marchi

Ecco quel poco che v’offre l’Attrice Fusarini a quel molto che voi meritate ; accettatelo con quella grandezza d’animo che tanto vi distingue ; beneficatela, proteggetela, e siate certi che nel di lei cuore resteranno scolpiti i vostri nomi, la vostra patria, i bene ficj vostri.

[n.p.]

[G] §

[n.p.]

I COMICI ITALIANI §

Gabbrielli Giovanni. Di lui dice il Quadrio (op. cit., vol. III, P. II, p. 239) :

Giovanni Gabrielli, modestissimo e ingegnosissimo comico, detto il Sivelli, nacque intorno al 1588. Egli fu dotato di sì eccellente natura, che soleva alle volte un’intera commedia far da sè solo, rappresentando varj personaggi ; e quando soleva rappresentar qualche Donna, non usciva già adornato d’abiti femminili ; ma faceva dentro la scena la voce femminile agli spettatori sentire, con ammirazione, e diletto non ordinario. {p. 954}Però nel 1633, quarantesimo quinto dell’età sua, ne fu stampato a suo onore il ritratto, che fu inciso da Agostino Caracci ; e sotto all’immagine vi furono impresse queste parole : Solus instar omnium ; volendo dire ch’egli valeva per un’intera compagnia di comici.

E il Bartoli più distesamente :

…… Saliva egli in Banco in una Piazza, raccontando novellette onestissime e graziose al Popolo, che affollato fermavasi ad ascoltarlo. Dopo recar faceva da un suo domestico un gran Valigione, dicendo di tenere ivi riposti due vasi : uno maggiore, e l’altro minore. Continuava con un ragionamento variato, e dilettevole, cavando prima dal valigione un suo figliuolino maggiore (Scappino), dicendo : eccovi il primo vaso ; e poscia estraendone altro più piccolo figliuolino (Polpetta), soggiungeva : ecco il secondo vaso. Dappoi graziosamente seguiva : Questo primo fanciullo ha bisogno di due minestrine, e questo secondo di una sola. Orsù, signori miei, pagatemi un bolognino per uno, e venite a sentire la mia commedia. Il popolo seguivalo curioso, ed egli solo recitava interamente la Commedia. Or mascherato fingevasi un Personaggio, or senza maschera altro ne rappresentava ; e nelle sue favole non introduceva visibilmente Donna alcuna, e neppure da femmina egli vestivasi, ma solo dentro la scena voleva, che la voce della Donna fosse sentita. In tal modo Sivello dava trattenimento al popolo, appagandolo con argute facezie, e co’ diversi Personaggi da lui figurati, cangiando d’abito, trasfigurandosi il volto, ed alterando la voce, secondo l’occasione, e come tornavagli più a proposito a norma di quelle scene, che nella sua testa s’aveva divisato di voler eseguire. Ognuno contento partivasi dandogli molte lodi, e tornando sovente con piacere ad udirlo.

Di lui parla con lode il Padre Ottonelli (op. cit.), e si fa menzione nelle Memorie degl’Intagliatori.

Il Cardinale Caetani, raccomandando il 12 aprile 1611 il figlio Scapino al Duca di Mantova, dice che il Siuello era suo amorevole.

Ma s’egli viveva nel 1633, come mai il Caetani scriveva l’ ’11 che il Siuello era suo amorevole ?

Nella biblioteca dell’università di Bologna è il seguente opuscolo di 7 paginette in 12°, segnato 35 nella Miscellanea 267 Tab. I, N. III, stampato In Venetia, et poi in Treuigi, appresso Angelo Righettini, m. dc. xiii, con licenza de’ Superiori :

[n.p.][http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img150.jpg]

{p. 956} Maridazzo di M. Zan

FROGNOCOLA
con Madonna
GNIGNIOCOLA
Alla Bergamasca
Con il suo Baletto alla Romana, &
altre Bizarie, Composte dal
Siuello.
Bondì bondì Pedraz
Bondì e bon’an Zambù
Volem fa sto parentad
Che l’altr’ jer ve n’ ho parlad
In la fiola de Pedrolì
In dol fiol de Buratì
E la sposa ha nom Gnigniocola
El sposo Zan Frogniocola
Gnigniocola Frogniocola
Toca la man alla sposa
Che ’l fa allegrezza tutta Val pelosa.
Che sa mo fa la sposa
La sa tester la tila
S’a vedesem quella puta
Massimament quand che la buta
La spolla infra le fil
Hoimè l’è pur zentil
E la sposa ha nom Gnigniocola
El sposo Zan Frogniocola
Frogniocola Gnigniocola
Toca la man alla sposa
Che ’l fa allegrezza tutta Val pelosa.
Che sa mo far ol spos
Che ’fa conza i laccez
Stagniati, e candeler
Da valent e bon chiaper
El conza ben le lum
Fica ol vel in dol patum
E la sposa a nom Gnigniocola
El sposo Zan Frogniocola
Gnigniocola Frogniocola
Toca la man alla sposa
Che ’l sa allegrezza tutta Val pelosa.
Feu in za vn po tutti du
E tocheu vn poch la ma
Za che a sem in su ’l mercà
Concludem sto parentà
In presenza di Zacagnina
E chi lò de Zan Magagnia
E la sposa ha nom Gnigniocola
El sposo Zan Frogniocola
Gnigniocola Frogniocola
Toca la man alla sposa
Che ’l fa allegrezza tutta Val pelosa.
Za che le chi lò vn Noder
Che ’l se fazza una scrittura
Testimonij vu Bertaz
Vù Zambo e vù Pedraz
Feu in za anca vu Scapì
In compagnia de Brigolì
E la sposa ha nom Gnigniocola
El sposo Zan Frogniocola
Frogniocola Gnigniocola
Toca la man alla sposa
Che ’l fa allegrezza tutta Val pelosa.
Si inuidat in Val pelosa
A vn grandisem mangiament
Vegni via tutti al banchet
Che ’l se cos vn gras porchet
Con do pegor, e vn agnel
E vna vaca col vedel
E la sposa ha nom Gnigniocola
El sposo Zan Frogniocola
Gnigniocola Frogniocola
Toca la man alla sposa
Che ’l fa allegrezza tutta Val pelosa.
{p. 957}Che ’l se fazza ades un bal
E che ’l balla in sem el spos,
Slargheu donne in tra vù
E nu homen stem tra nù
Che nu alter per natura
Sem più gros n’ la centura
E la sposa ha nom Gnigniocola
El sposo Zan Frogniocola
Gnigniocola Frogniocola
Toca la man alla sposa
Che ’l fa allegrezza tutta Val pelosa.

Qui comincia il Ballo

Balla le putte de Val pelosa
In t’ vn bel prà sot’ vna nosa,
Balla le putte co i morus
Balla la Sposa con ol Spus.
Balla Tognaz con Bertolina,
Balla Brighella con Franceschina,
Balla le putte co i morus
Balla la Sposa con ol Spus.
Balla le putte de Val Sugana
Dodes dì la setimana,
Balla le putte co i morus
Balla la Sposa con ol Spus.
Balla le putte del Val Mocanega
In dol ballà le fe deslanega,
Balla le putte co i morus
Balla la Sposa con ol Spus.
Balla Zambò con donna Betta,
Balla el cognià con la Brunetta,
Balla le putte co i morus
Balla la Sposa con ol Spus.

Testamento del Siuello in forma di Lettera

Alla molto gentil, legiadra, e bella,
quella c’ hoggi il mio cor tanto desìa
ornata di virtù Lavinia bella.
Per la presente io vi faccio sapere
se non porget’ al mio gran mal conforto
la novella vdirete ch’ io sia morto.
E pria che ’l corpo mio vada sotterra
a me par bene di far Testamento
per partirmi dal mondo più contento.
In prima lascio a voi mia pura fede
e l’honesto amor mio che tanto vale,
che a vostra gran bellezza è forse eguale.
Lascio quest’ occhi, e questa lingua mia
nel fin de’ suoi lamenti, e de’ suoi pianti,
sol per esempio a i sventurati amanti.
Di gennaro alli quindeci fu scritto
questo mio chiaro, e cauto testamento
fatto del mille tre con il seicento.
Qui faccio fine, e bacioui la mano,
humilmente di cuor io meschinello,
vostro servo fidel detto il Sivello.

il fine.

Gabbrielli Francesco, figlio maggiore del precedente, celebre sotto il nome di Scapino, « fu – dice il Barbieri – il miglior Zanni de’tempi suoi ; inventor de’fantastici instrumenti, & di canzonette, & arie gustevoli ; maestro di chitarra alla Spagnuola del Re Cristianissimo, della Reina Regnante, di Madama Real di Savoja, dell’Imperadrice, mentr’era a Mantova, e di tant’altri {p. 958}Principi e Principesse della Francia, e fu sempre accettato tra’grandi come virtuoso, e non come buffone. » E aggiunge ch’ ebbe figli tenuti a battesimo da serenissimi Principi. Giovanni Cinelli nella sua Biblioteca volante dice che gl’istrumenti di Scappino erano in tal novero, « che per farli sentire si recitava a bella posta una commedia intitolata : Gl’instrumenti di Scappino, » per la quale fu pubblicato il sonetto senza data e senza nome d’autore, che trovasi alla Braidense di Milano, nella Miscellanea raccolta dal Padre Benvenuti, ristampato poi dal Paglicci nel suo Teatro a Milano nel secolo xvii. Di tali strumenti è notizia nell’Infermità, Testamento e Morte di Francesco Gabrielli detto Scappino, composto e dato in luce a requisitione degli spiritosi ingegni, edito in Verona, Padoa et in Parma, per li Viotti, con licenza de’ Superiori il 1638, e ristampato poi nel Propugnatore del maggio-giugno 1880 da Severino Ferrari. In esso egli lascia il Violino a Cremona, il Basso a Piacenza, la Viola a Milano, la Chitarra a Venezia, l’Arpe a Napoli, il Bonacordo a Roma, i Tromboni a Genova, la Mandòla a Perugia, la Tiorba a Bologna, il Liuto a Ferrara, e a Firenze tutti gli altri strumenti.

A lode dell’ artista poi la canzone ha infine queste tre strofe :

— È fama, che le scene
Il lugubre colore
Giurassero a Scappin loro Signore,
E che nell’auuenire,
E che nell’auuenire,
Tragici casi sol faranno vdire,
Faranno vdire.
— L’allegria fu sbandita,
Il riso esiliato,
La festa, e ’l gioco allho prese comiato,
E la gratia del dire,
E la gratia del dire,
Col suo caro Scappin volse morire,
Volse morire.
{p. 960}— I singulti, e sospiri,
Le lagrime, e gli homei
Del moribondo son cari trofei,
Cosi fra gente amate,
Così fra gente amate,
L’ultima fa Scappin di sue cascate,
Di sue cascate.

[n.p.][http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img151.jpg]

( Da Iacopo Callot).

La canzone ci dà inoltre un elenco dei comici disperati al cospetto di Scappino morente. Essi sono : La moglie Spinetta e la figlia Diana ; poi in più famosi Dottori Bombarda, Balestrone, Campanaro, Baloardo e Violone ; poi gli Zanni Mezzettino, Brighella, Buffetto, Bagolino, Bertolino, Traccagnino e Trappolino ; poi le dame Celia, Livia, Leonora, Aurelia, Cintia, Olivetta, Flaminia, Isabella, Lavinia e Colombina ; poi le cantarine Fiammetta, Angelina e Cassandrina, e finalmente Beltrame.

Oltre al noto epitaffio di Francesco Loredano,

Giace sepolto in questa tomba oscura,
Scappin, che fu buffon tra i commedianti,
Or par che morto ancor egli si vanti
Di far ridere i vermi in sepoltura,

abbiamo i due seguenti sonetti, senza nome di autore, inediti, nel manoscritto Morbio, descritto al nome di Andreini-Ramponi Virginia :

PER LA MORTE DI SCAPPINO COMICO

Proteo costui ben fù, che ’n mille forme
Su le scene variò voce, e sembiante,
Hor seruo scaltro, ed or lasciuo amante,
Edippo, hor Dauo, et hor Mostro difforme.
Il socco egli inalzò, più che triforme,
Al coturno qual’hor uoce tonante
Spiegò, qual Gioue in Flegra, onde ’l Gigante
Cadde percosso, incenerito, informe.
{p. 961}Hor sol di morte, ahimè, cinto l’horrore,
Cangiato il finto in ver, verace ei morto
Tramuta il riso in Tragico dolore.
Ò spettacolo atroce, à cui risorto
E ’l pianto, al, purgar può vero terrore
Più assai, ch’il finto, e torre ogni conforto. (?)

(Dai Balli di Sfessania di Iacopo Callot).

PER LA MORTE DI SCAPPINO COMICO

Scappino è morto, ah uoi piangete, ò muti
Orbi Teatri il uostro Padre estinto,
Il uostro lume eterna nube ha cinto,
Lagrime amare hor sian degni tributi.
Bei detti, arguti scherzi, e modi astuti
Temprò souente in musico concento,
Tragico ei concitò fiero spauento,
Comico ei ricreò spirti canuti.
I Popoli ammirar l’arte, e l’ingegno,
Che mille metamorfosi poteo
Rappresentar, cangiando opre, e disegno.
{p. 962}Tolto à le scene il mascherato orfeo
Sgridan le genti a’ morte, ahi fatto indegno
Che l’ Vniverso lagrimar ne feo.

I quali se non sono un chiaro esempio di poesia, traggon valore dalla notizia che ci danno dell’opera artistica del Gabbrielli, che evidentemente non si arrestava alla maestria varia del musicista, nè alle buffonate della maschera, ma sapeva anche spaziar degnamente nel campo della tragedia.

Come abbiam visto al nome del padre, egli desiderò di entrare al servizio del Duca di Mantova, al quale fu raccomandato dal Cardinal Caetani con lettera da Roma in data 12 aprile del 1611. Il ’15 e il ’16 egli era già nella Compagnia de’ Confidenti, come si vede da queste due lettere scritte a S. A. Impresaria il Principe Don Giovanni De’ Medici :

Ill.mo et Ecc.mo Sig.r et Pron mio Col.mo

Mi è stata così nuova la nuova che per cura del Sig. Flavio ho havuta, che se non fosse la sincerità della mia coscienza che mi accerta di essere innocente di quanto mi viene apposto non solo non ardirei di scriverli, ma confuso nel mio mancamento cercherei con la forza del merito di altri impetrare da V. E. perdono. Si come hora conossendo non havere errato (come tutta la compagnia ne farà per me fede) lo supplico di credere che la maggiore ambizione che io habbia, è di essere ammesso tra il numero de’ suoi servitori, et che confesso che la E. V. per far grazia a me ha trapassato i segni che bastano per dimostrare una benevolenza estrema onde conossendo ciò sarei troppo colpevole abusandomi della grazia sua, e particolarmente in tempo che l’E. V. scrive alla conpagnia godere della unione nostra.

Qui non si son fatte se non tre comedie nuove le quali si sono non solo per miei affari ma per altri lette particolarmente, havendosi contentato chi le ha fatto durare questa fatica ; ne per cagion mia, ne di altri vi è stato detto pure una parola. Del recitare alla peggio, io non lo fò poi che sarebbe un offendere me stesso per far dispetto ad altri. Ma perchè mio pensiero è solo di far conossere all’ E. V. che solo bramo di servirlo, mi scordo il torto fattomi da messer Battistino nello scrivere queste falsità al Sig. Flavio onde vivendo a V. E. servitore et a lui compagno li auguro da N. S. ogni felicità, di Milano il di 12 Agosto 1615.

Di V. E. Ill.ma

Devotiss.mo Servitore

Fran.coGabrielli d.º Scapino.

Ill.mo et Ecc.mo Sig. Nostro

Per cura del Sig. Flavio portataci da Battistino habbiamo inteso la volontà e gusto di V. E., onde habbiamo di comune gusto e consenso riaccettato la sig.ª Valeria tra di noi, con la quale di nuovo uniti cercheremo di mantenerci in quella pace tanto a noi necessaria, e con tanta fatica per nostro honore da V. E. procurata.

{p. 963}Messer Battistino suo marito starà come ci vien scritto fuori di compagnia, ne sarà ammesso in qual si voglia benchè minimo negozio, da che potesse pretendere più di quello che nella lettera del Sig. Flavio ci viene prescritto, poi che ogn’uno di noi solo ha per fine il mantenersi in grazia di V. E. quale sarà sempre anteposta a qual si voglia interesse, strettezza di amicizia o vincolo di parentella che sia tra di noi, si come ogn’uno di Compagnia augurando a V. E. ogni felicità con la sottoscrizione di propria mano affermerà quanto di sopra è scritto, di Lucca il dì 8 settembre 1616.

Di V. E.

Devotissimi Servitori, i

Comici Confidenti sottoscritti

JoMarc’Antonio Romagnesi – Pantalone

joFrancesco Gabrielli – Scappino

joFrancesco Antonazzoni – Hortensio

joDomenico Bruni – Fulvio

joMarcello di Secchi – Aurelio

joOttavio Honorati – Mezzettino

joNicolao Barbieri – Beltrame.

E coi Confidenti lo troviamo ancor nel ’18 a Venezia, di dove Don Giovanni De Medici scriveva al Duca di Mantova con data del 30 marzo, ricusandogli Mezzettino e Scappino (richiesti a istanza di Lelio e Florinda), sui quali egli dice fondata la Compagnia dei Confidenti, che mise assieme per suo gusto da circa sei anni, e che andava conservando sempre con ogni suo potere, tenendogli uniti et obligati (a me) come particolari servitori.

Dallo spoglio degli Archivi di Modena risulta che al Gabbrielli e compagni venuti da Venezia furon dati il 27 maggio 1620 da S. A. Ducatoni 350 d’argento per haver fatto in Castello tre comedie in occasione del Ser.mo Principe Tomaso di Savoja, compreso le spese della venuta loro da Venezia e per ritornarsi, fanno L. 2205.

Il ’24 e ’25, secondo un documento pubblicato dal Baschet (op. cit.), egli era a Parigi con Gio. Battista Andreini e Niccolò Barbieri. A loro e a’ lor compagni furon date il 17 dicembre 1624 lire 2400 per aver recitato commedie alla presenza di S. M. nei mesi di settembre e ottobre.

Tornando a ricercar nell’Archivio di Modena, vediamo il Gabbrielli a Firenze inaugurar colla Celia, Maria Malloni, un corso di recite, il 26 settembre 1626, alla presenza dei signori Cardinali Legato e Sacchetti, del Gran Duca, e dei Principi {p. 964}Gio. Carlo e Mattias col seguito di molti Prelati, Cavalieri e letterati, ch’eran stati il giorno a un’adunanza degli Accademici della Crusca nel Palazzo de’ Bardi. Vi andò pure la Serenissima Arciduchessa. A Firenze erano ancora il 31 ottobre, come si ha da un ricorso a Cesare Molzi per le noie che loro cagionava Fabrizio Napoletano (Domenico Antonio Parrino), ricorso ch’ebbe per effetto la immediata espulsione di esso da Firenze e dallo Stato.

Il gennaio del 1627 Francesco Gabbrielli era a Ferrara, come si vede da questa lettera del 6, senza indirizzo, ma scritta ad Antonio Costantini, segretario del Duca di Mantova, la quale io traggo inedita dall’archivio dei Gonzaga e pubblico intera, per le notizie importanti che ci dà di alcuni comici :

Ill.re Sig.r mio

Dal Ill.mo S.r Marchese Nicolò Tassone domenica alle quattro hore di notte mentre recitavo mi fu datta una sua, la quale aperta a casa, dall’intendere il buon animo che S. A. tiene verso di me, d’allegrezza mi venero quasi le lachrime agli occhi. Godo che S. A. facci capitale di me, di mia moglie, del dottore, del Capitano, di Citrullo e di Flavia, si come mi dispiace che siano messi inanzi a S. A., Fritellino, la moglie, Cintio, Lavinia, Ortensio, il Pantalone della podagra e finalmente Mezzettino. Il perchè più brevemente che potrò con questa mia lo paleserò a V. S. et lo potrà mostrare a S. A., essendo che non metterei in carta cosa che non fosse vera. Se cominceremo a dir della S.ra Lavinia, io dico, che difficilmente la potrà havere senza Beltrame, essendogli compadre e creditore de scudi 500, la qual cosa altre volte la felice memoria di S. A. morto l’ha desiderata, ma non volero venire se prima non gli era pagato il debito e fatto un donativo ; del che il Sig.r Hercole Marliani et il Luchesino ne potranno fare fede. E poi, o Sig.r Antonio, la Lavinia non vale all’improviso, talchè la compagnia non si potrebbe servir di lei in altro che nel premeditato. Suo marito ha fatto un tempo da secondo inamorato, ma per odiar il studio si è messo a fare da Capitano Italiano, qual non gli riesce. Cintio per suoi interessi non si partirà dalla Franceschina, e suo marito che in tutto fanno tre parti manco un quarto ; e dove è un’altra serva non ci ha a che fare mia moglie e per conseguenza manc’io. Mezzettino non casca, e quel che importa non si disseparerà dall’Olivetta, che sarebbe un altra serva. Fritellino è buono da farsi odiare non solo da comici, ma da tutto il popolo, e lo vediamo con isperienza poichè se volle compagni bisogna vadi per forza de prencipi, o che li pagi ; lasso il voler tirare più parte degli altri. Et a sua moglie essendo vecchia molto gli disdice il voler fingere una semplice fanciulla, essendo che a questo tempo la scena vuol la gioventù. Il Pantalone della Podagra è così mal trattato da detto male che l’anno passato con noi in Venetia non si potea vestire ne allacciar la maschera, e per mettere nna statua in scena, che non mova altro che la lingua, non mi par bene. Non voglio che S. A. creda a questa mia, ma facci scrivere, che vedrà non poter haver Cintio senza grande giunta, ne Lavinia et Ortensio senza pagare debiti e far donativi, Mezzettino senza Olivetta. Chi vorà Fritellino bisognerà pagare le antigaglie e {p. 965}pigliare l’istessa discordia in compagnia, e finalmente chi vorà il Pantalone della podagra haverà un zocco di natale. Ma quando S. A. sentisse la compagnia che V. S. ha sentito qui in Ferrara, a benchè una sol comedia, a lungo andare S. A. cognoscerebbe che la Celia al premeditato et improviso è la prima donna che reciti, poiche se la Compagnia od altri mettono fuori opere o comedie nove lei subito le recita, che la Lavinia ne altra donna non lo farà, se prima di un messe non si hanno premeditato quello che nel soggietto si contiene. Della Flavia non ne parlo, poichè è la meglio seconda donna che reciti, sì per il premeditato quanto per l’improviso. Trovarebbe ancora il nostro Pantalone buono sì per la lingua matterna, quanto per la pratica dei soggietti antichi e moderni. Bagattino nostro secondo Zane, che non casca ma vola qual V. S. non ha potuto sentire per esser amalato lo troverebbe un secondo Arlichino. Non dirò di me, di mia moglie, del Dottore, del Capitano e di Citrullo, poichè gratia di S. A. siamo tenuti per buoni. È ben vero che l’innamorato non sono ne Cintio, ne il morto Aurelio, ma troverebbe bene dei giovani studiosi, quali in Fiorenza dove è la scuola della lingua Toscana sono stati sommamente graditi, con speranza ch’habbino da riuscire mercè el studio al paro di qualunque altro metti il piede sopra la scena, e quel che importa senza prettensione, nè giunta alcuna. Sovvengavi o Sig.r Antonio che l’A. del Duca Vincenzo fel. mem. padre di S. A. che hora vive gli venne l’istessa volontà che hora è venuta a S. A., cioè di mettere insieme i meglio comici che recitassero ; onde per gli interessi e le discordie loro n’ebbe infinitissimi disgusti. Per tanto V. S. mi facci gratia di leggere a S. A. questa mia che non vi sij altro che V. S. e S. A. e significargli ch’io non parlo da Scapino, ma da Francesco, il quale si rimette a tutto quello che vuole S. A. e che verrò a servirlo con la lingua per terra io, la moglie, la madre, figliuoli e servitore, che fanno in tutto quatordeci persone. Mi perdoni V. S. se questa mia non è stata lettera, ma un processo, tutta via mi scusi, essendo che quello che ho fatto, ho fatto per bene e per avisare S. A. di tutti gl’interessi comici. Sin hora non ho havuto alcuna lettera del S.r Marliani, ma se l’haverò farò quanto verrà da S. A. per mezzo di quella imposto. E con questo fo fine ricomandandomegli di tutto cuore. Di Ferrara il dì 6 genaro 1627.

Di V. S. Ill.ma sempre per servirla

Francesco Gabrielli detto Scapino.

La moglie di Gabbrielli era Spinetta (forse quella Luisa Gabbrielli-Locatelli che abbiam visto recitar nella Finta Pazza dello Strozzi, sorella o figlia di Trivellino, sposata a Scappino ?).

Il Capitano era Girolamo Garavini, Capitan Rinoceronte.

Flavia era sua moglie Garavini Luciani Margherita.

Fritellino era Pier Maria Cecchini.

La moglie era l’Orsola Cecchini detta Flaminia.

Cintio era Jacom’Antonio Fidenzi.

Lavinia era Marina Antonazzoni.

Ortensio era Francesco Antonazzoni suo marito.

Il Pantalone della Podagra era Federigo Ricci.

Mezzettino doveva essere Ottavio Onorati.

{p. 966}Celia era la Maria Malloni. Non la prima celebre, ma non men celebre e Maria Malloni anche questa, colonna dei secondi Confidenti.

Per quante ricerche fatte non mi fu possibile identificare nè Olivetta, nè Citrullo, nè Aurelio. Quest’ultimo, che fu ed è materia di studio de’più pazienti ricercatori delle cose nostre di teatro, potrebbe identificarsi per quel Marcello Di Secchi che il 1615 era colla moglie Nespola nella nuova Compagnia de’ Confidenti ?

Il carnovale del 1633 Scapino era a Venezia, l’autunno del ’34 a Ferrara, e l’estate del ’35 a Milano (vedi Paglicci Brozzi, op. cit.). Aveva fatto istanza per recitare il carnovale del ’36 a Roma, ma pare non vi andasse altrimenti. Di altre stagioni fatte dalla Compagnia dei Comici Confidenti al servizio di Don Giovanni De Medici abbiam date precise in molte lettere concernenti il capo di essa Flaminio Scala (V.) detto Flavio in Commedia.

Francesco Bartoli fa cader la sua morte intorno il 1654, ma non sapremmo di essa precisare nè la date, nè il luogo. (V. pel tipo di Scapino al nome di Bissoni Giovanni).

Gabbrielli Giulia. Figlia del precedente. Recitò e cantò il 1645 la parte di Teti nella Finta pazza di Giulio Strozzi. Ella si chiamò Diana in teatro, e fu certo la stessa a cui in unione a Carlo Cantù (V.), Buffetto, fu dato quell’anno da Milano amplissimo passaporto per passarsene a Parigi.

Gabbrielli Carlo, detto Polpetta, fratello minore di Francesco. Di lui non abbiam trovato alcun cenno fuorchè nel Quadrio che dice soltanto essere stato anch’egli di singolari talenti dalla natura dotato, e molto favorito da Principi.

Gabbrielli Girolamo. L’abbiam visto per le parti di Pantalone in Compagnia del Capitan Fiala, col quale e col Dottor Milanta, col Marchi e col Narici, firmò da Lodi una supplica {p. 967}al Duca di Modena per recarsi a Pavia, dove avevan preso impegno di recitare l’inverno del 1687, piuttostochè a Vicenza.

Il 20 luglio 1691, col mezzo di Dario Fontanelli, il Gabrielli si rivolge al Duca, a disposizion del quale era stato fermato, per avere un qualche solieuo in souuenimento di sua persona, che si ritroua in bisogno grande ; nella supplica è chiamato da esso Fontanelli famoso Pantalone.

Altro non m’è riuscito trovare di lui, che non so dire se e in qual grado appartenesse alla famiglia di Scapino.

Gabbrielli Ippolita. Di questa attrice, prima donna e capo comica, abbiamo la seguente lettera del 1663 al Duca di Modena :

Serenissima Altezza

Hippolita Gabrielli comica hunita con suoi Compagni ricorono alla benignità di Vostra Altezza Serenissima supplicandola a uolerli far gratia col suo benignissimo rescritto di concederli licenza di poter recitar opere, e Comedie per il suo felicissimo Statto come altre uolte à sempre hauto fortuna di seruire al Altezze Sue antesesori che di tal gratia l’oratrice e suoi Compagni pregarano Sua divina Maesta per la Sua Esaltatione, che della gratia quam deus……

Volendo dar principio al Finale, e poi a Reggio.

E la grazia, secondo il rescritto della Cancelleria, fu concessa.

Con questa data, a un dipresso, concorderebbe la Ippolita, prima donna, rimasta fin qui sconosciuta, di cui è parola nella lettera del Buffetto Cantù (V.) e del Dottore Nelli (V.) e in altra di Giovanni Parenti del 1655 da Venezia al Duca, in cui dà notizie de’teatri di Venezia, e ne promette sulla Ippolita, richiesta, pare, dal Duca, per aggregarsi a’ suoi comici.

Nè men di questa si può dir con precisione. Scapino cita solo nel testamento la moglie Spinetta e la figliuola Diana. Forse era la moglie del Pantalone Girolamo ? O forse una figlia o figli entrambi di Scapino ? Nella lettera al Costantini egli dice (pag. 965) : verrò a servirlo io, la madre, figliuoli e servitore. E se nel testamento nominò de’figli soltanto la Diana, ciò forse fu perchè ella sola rimase in compagnia di lui sino alla morte.

{p. 968}Gabriello da Bologna. (V. Panzanini Gabriele).

Gaidoni Tersabetta. Artista di gran pregio per le parti di prima donna, fiorì ne’ primi anni di questo secolo. Era il 1796 con Antonio Morrocchesi, dal quale passò il 1800 con Domenico Verzura, direttore della Compagnia ligure ; e con lui divise poi per oltre vent’ anni le imprese teatrali. Fu la prima a recitar le prime quattro tragedie dall’Alfieri pubblicate : Filippo, Polinice, Antigone e Virginia. Dalla figura imponente, dal volto leggiadro, dagli occhi nerissimi come i capelli, dalla voce forte e armoniosa, dal gesto nobile, e dalla ricca intelligenza, essa emergeva nella tragedia e nel dramma. Non ancor vecchia, lasciò il ruolo di prima donna per darsi a quello di madre nobile e caratteristica, facendo fremere sotto le spoglie di Giocasta e Clitennestra, e sbellicar da le risa la sera dopo sotto quelle di Donna Petronilla nella Sposa Sagace di Carlo Goldoni. Nel carnovale del 1825 al Teatro Nuovo di Firenze in Compagnia di Luigi Fini, rappresentò per cinque sere l’Ino e Temisto del Niccolini, ottenendovi un successo clamoroso ; tale da far dimenticare l’Assunta Perotti che aveva allo stesso teatro creata la parte di Temisto l’anno prima. La Gaidoni continuò per alcun tempo ancora a vagar di compagnia in compagnia, finchè doma dagli anni dovè lasciar le scene e rifugiarsi in Genova, dove miseramente visse fino all’anno 1849.

Gagliardi Luigi. Artista e capocomico pregiato, padre e marito de’ più sciagurati, patriota caldissimo, nacque a Venezia il 5 ottobre del 1817 dai coniugi Antonio, veronese, e Luisa Ciappi, senese, comici nella Compagnia Andolfati, i quali passaron poi in quella di Ghirlanda, Ficarra, Martini, Ciabetti, Bianchi, Miuti, Colomberti ed altre, fino a quella di Carlo Mancini, nel ’32, ov’erano la Polvaro, il vecchio Modena, l’Adelaide Borchi, Andrea Vitaliani, Martinengo, ecc., e nella quale egli esordì a Caltanissetta colla parte di Riccardo ne’ Figli di {p. 969}Odoardo, acquistandosi tosto le simpatie del pubblico, che andaron poi viepiù crescendo. Fu in Sicilia con Piddo, Colombo, il celebre Pasquino, e Francesco Lombardi ; poi, il ’41 a Roma in società col Canova, e colla Vergano prima attrice. Il ’44, lasciata il Canova l’arte, la compagnia si formò in società con Livini e Majeroni. Il ’48 egli prese parte alla battaglia di Vicenza nel battaglione universitario, comandato dal colonnello Zambeccari, poi, tornato all’arte, entrò primo attore in Compagnia Perini e Cavicchi, e del ’49 a Ravenna, sposò la prima attrice Luigia Cavicchi. Fu il ’50 con Majeroni, la Rosa e Branchi ; e il ’53 formò società con Francesco Paladini e sua moglie Clotilde, la celebre servetta. Il ’60, deliberato di andare in Corsica, e non volendo i Paladini restar nell’impresa, formò nuova compagnia col cognato e col fratello, scritturando la prima attrice Luigia Perini. Il’62, lasciata l’arte, si fermò a Firenze ovè accettò il posto d’uomo d’affari e direttor di scena di quel Politeama, tuttora in costruzione. Il ’66 prese in affitto l’Arena Goldoni, che lasciò poi, dopo magri affari, restando a Firenze, sposo in seconde nozze della madre di Gigino Gagliardi, e vivendo pur oggi a ottant’ anni vegeto e robusto.

Ma non tanto come artista egli merita qui una menzione particolare, quanto come colui al quale accadder fatti straordinarj, a mala pena credibili. Egli entrò, si può dir, nella vita vissuta con una lieta avventura, ch’egli così ci racconta :

Il giorno della partenza per Napoli si presentò una vecchierella dicendoci piangendo che da 3 anni non aveva notizie di un figlio che stava in Sicilia, comico, e pregandoci di ricercarlo e fargli pervenire una sua lettera. Mio padre le fece conoscere l’impossibilità di {p. 970}eseguire la sua commissione, e non volle accettare la lettera. La povera madre piangeva, ed io, commosso, presi la lettera e promisi fare tutto il possibile per recapitarla. Imbarcati a Napoli sopra uno Scunner con tempo cattivo, dopo un’orribile traversata, il capitano fu costretto rifugiarsi nel piccolo porto di Milazzo. Presa pratica portammo con noi le valigie per cambiarci gli abiti, e domandai di un albergo decente, ma non troppo caro. Un giovane signore che aveva assistito al nostro sbarco, propose di condurci in un buon albergo : diede braccio a mia madre, combinò il prezzo del porto delle valigie, e ci usò mille gentilezze. Lo ringraziai e lo pregai di dirci il suo nome : « Io sono Francesco Voller, comico, » mi rispose. « Ed io ho una lettera di sua madre da consegnarle ; » e glie la diedi. Questa prima avventura della mia giovinezza mi cagionò un’immensa gioja.

La sola bella avventura della sua travagliatissima vita, in cui pare fosse guidato da un genio malefico. Infatti :

Il ’32 la compagnia mette piede a Palermo, ed ecco scoppiare il colera e infierire di tal modo da mieter 1600 vittime al giorno.

Va da Palermo a Caltanissetta e da Caltanissetta a Piazza, ed il mulo davanti alla lettiga ov’è l’Adelaide Vitaliani col figlio Cesare cade ; la lettiga esce dalle stanghe e rotola nel vallone ; e l’Adelaide ne ha tal commozione viscerale che muor poco dopo a Palermo.

Il ’41 la compagnia parte da Palermo per Napoli, ed è sorpresa per via da un legno inglese che la saluta a cannonate ; questa volta se la cava col trinchetto dell’albero maestro spezzato.

Il ’45 i Gagliardi sono scritturati a Nizza con vantaggioso contratto, ed eccoti il Comune entrar in lite col proprietario dell’arena della quale ordina la demolizione, prima che la compagnia si trovi sul posto.

Il ’48 Luigi Gagliardi combatte a Vicenza nel battaglione universitario e la giornata finisce miseramente con la semidistruzione di que’ sciagurati e con la più rovinosa delle ritirate.

Recita il ’53 a Schio la Francesca da Rimini, e giunto all’apostrofe all’Italia, proibita dalla censura, la recita tutta d’un fiato in mezzo alle acclamazioni del pubblico, mandando a rotoli recita e stagione, e finendo poi coll’essere incatenato e tradotto come un malfattore al Castello di Mantova.

Il ’55 a Vercelli mette su uno spettacolo, I briganti calabresi, pel quale s’ingolfa in un mondo di spese : ma lo {p. 971}spettacolo fa furore, un forte guadagno è assicurato ; ed eccoti l’arena di legno, terminato appena lo spettacolo, tutta in fiamme, ecco ogni cosa letteralmente distrutta.

Siamo al ’60. Egli forma compagnia per la Corsica, e in vista del porto di Bastia……

Ma di questa avventura che è stata la più tremenda della vita di Luigi Gagliardi, val bene la pena ch’io qui riferisca in parte dalle memorie inedite di Antonio Colomberti che di essa ci lasciò una particolareggiata descrizione, e in parte da quelle pur inedite dello stesso Gagliardi.

Correva il primo giorno di quaresima dell’anno 1860, allorchè i comici da lui condotti salpavano da Livorno sulla Luisa, vapore dell’Amministrazione Marsigliese (qui v’ è errore, poichè la Luisa apparteneva alla Compagnia Valery) alla volta di Bastia, porto dell’ isola di Corsica. Oltre agli artisti da lui stipendiati per dare un corso di recite in quella città, aveva seco la moglie Luigia, nata dal comico Cavicchi, bravo brighella da molti anni estinto, e figli : una bambina chiamata Adele che non giungeva all’età di cinque anni, ed un maschio di due, il di cui nome era Ettore, ma che per esser piccolo e grasso era stato da quei comici soprannominato Tom-Pouce. Eravi pure un Cavicchi caratterista, fratello della moglie di Gagliardi, che aveva per consorte una delle attrici di quella riunione ; e inoltre varj altri passeggieri. Dopo il pranzo di bordo, terminato con l’allegria solita degli artisti comíci, allorchè sono riuniti in viaggio ad un medesimo pasto, chiesero al capitano del vapore di ballare. Il legno appena ondeggiava per la mancanza di vento, per cui, accesi i lumi, diedero principio alla danza, al suono di un pianoforte che era nella sala grande da pranzo, e che venne suonato dal tenente del vapore. Suonarono le nove di notte, e lasciato di ballare, tutti i passeggieri riunirono tutte le loro valigie, mantelli, e scialli sul ponte, attendendo il momento di entrare in porto, del quale già vedevasi il faro. Intanto, avvicinandosi alla terra il vapore, il vento erasi accresciuto, e le onde erano un poco agitate in conseguenza. Difficile è l’entrata del porto di Bastia, a cui non si giunge che attraversando un breve si, ma pericoloso canale irto di scogli dai due lati, avendo quasi la forma di un collo d’imbuto. Il capitano dal suo ponte gridò al momento di penetrarvi : Tribordo ! Ma l’ordinasse troppo presto, o i macchinisti non eseguissero l’ordine unitamente al timoniere, ne fu conseguenza un urto fortissimo contro una delle due scogliere che spense tutti i lumi del vapore. Ordinò subito il capitano di forzare la macchina per ritirarsi ; il comando fu eseguito, ma al secondo tentativo per entrare, un nuovo e più terribile urto spaccò la prua del bastimento che incominciò ad affondare. Ai due urti fecero eco due urli di spavento, non solo dei passeggieri, ma di tutti i marinaj ; ed ognuno può immaginare il terrore e il tremito, dai quali tutti furono invasi, sentendo il legno colare a fondo. Mentre i passeggeri gridavano tutti, chiedendo soccorso, il solo Gagliardi conservò il suo sangue freddo correndo dal capitano, e pregandolo a mani giunte di non disperare, e dar gli ordini di salvamento ; ma quello, seduto con i gomiti appoggiati alle ginocchia, ed il volto coperto dalle mani, non si mosse, nè rispose. Forse conobbe superfluo ogni tentativo. Intanto i marinaj tagliavano le corde del battello grande, situato al fianco della nave, e quelle della yole, per calarli in mare ; ma per l’oscurità, e per la confusione, la yole rimase attaccata, e non fu calato che il battello, {p. 972}entro del quale discesero alcuni marinaj, respingendo violentemente chiunque tentava seguirli. Fu però inutile anche per loro la previdenza, perchè essendo troppo piccolo per la quantità che vi saltava dentro, fini col ribaltarsi, gettandoli tutti in mare. Mentre ciò accadeva, il Gagliardi vedendo perduta ogni speranza di salvezza, ed essendo bravissimo nuotatore, pregava la moglie di seguirlo sul mare, attaccandosi a lui, ma essa gli rispose : – Luigi, prima di me, pensa a’tuoi figli ; salva prima essi, poi, se lo potrai, vieni in mio soccorso. Va, e che Iddio ti protegga. – Invano egli insistè ; la risoluzione della povera martire fu invincibile. Allora egli prese la bambina ; e dicendole di tenerlo stretto al collo con le braccia, gettossi in mare, e si pose disperatamente a nuotare verso la riva ; ma il vento erasi rinforzato, le onde un poco agitate, e non aveva corso che un piccolo tratto, allorchè quelle gli rapirono la fanciulla. Disperato, si volse indietro per ritornare al vapore, ma quella massa nera era sparita. Intanto egli sentiva passare sotto di lui fra due acque i morti, o i moribondi naufragati ; e più per istinto di salvezza che per riflessione, nuotava, finchè afferrata una piccola riva fra gli scogli, cadde esanime sull’arena. Nel tempo che accadeva sul mare la terribile sventura, nella prima locanda di Bastia si preparava per i comici un’ottima cena. L’amministrazione dei battelli a vapore era riunita al porto attendendo l’arrivo della Luisa, avendone già veduto i lumi colorati, ma l’improvviso spengersi di questi fece subito sospettare una disgrazia……

Della compagnia comica e degli altri passeggeri non si salvarono che Luigi Gagliardi e l’apparatore della compagnia che non sapeva nuotare : dell’equipaggio sei marinaj. Il capitano, che dopo il suo secondo tentativo per entrare nel porto, vide tutto perduto, preferì di morire a bordo del suo legno, ad un processo che lo attendeva a Marsiglia. Il disgraziato lasciò la vedova con sei figli.

E qui passo la parola al Gagliardi :

Quando tornai in me, ero circondato dal nostro console e da un medico, i quali mi avevano fatto portare in un albergo : non ero ferito, ma pieno di contusioni riportate dall’ aver battuto negli scogli nel prendere terra, dove estenuato dalla fatica, oppresso dal dolore, ero stato trovato svenuto.

L’armatore Giuseppe Valery mi mandò una valigia di biancheria, dal sarto mi fece fare due abiti completi, e mi fornì di denaro : tutte queste premure fecero sì che io non intentai la causa per risarcimento di danni. Le povere vittime trovandosi su coperta del legno sommerso furono tutte trovate, meno mia moglie e la mia povera Adelina. Il Maire concesse un posto gratuito nel cimitero ; e tutte le arti prestarono l’opera loro gratuita per erigere un bel monumento che esiste ancora, e che io faccio conservare a mie spese. Fu fatta una sottoscrizione che mi fruttò una bella somma, e il Maire con tutto il Consiglio, le corporazioni, le bande militari, e la numerosa colonia italiana assisterono al funebre corteo. La mia riconoscenza non verrà mai meno per l’ottima cittadinanza di Bastia. Molti giorni dopo fui avvisato che all’isola della Maddalena era stato trovato il cadaverino di una bambina vestita di nero con guarnizione di ge ; le cifre della biacheria che portava erano un A e un G ; e il Sindaco, supponendola mia figlia, l’aveva fatta seppellire in chiesa, ponendovi una lapide ; fu per me una triste consolazione ! Tutti i miei cari riposavano in terra benedetta, meno mia moglie……

Eravamo ai primi di marzo. Mi alzai prestissimo, corsi al porto, noleggiai una barca, e mi feci condurre sul luogo del disastro. Sorgeva il sole, l’acqua del mare era chiarissima, e si scorgeva quasi il fondo. Il cuore mi batteva forte, forte : aveva posto l’anima ne’miei occhi. Mi parve vedere sott’acqua la forma di due gambe. Comincio a spogliarmi ; il barcajuolo voleva opporsi, ma vedendomi risoluto, volle a forza legarmi una {p. 973}fune alla vita. Tuffatomi, abbrancai le due gambe fluttuanti e tentai portare il corpo a galla ; ma trovai resistenza. Salito su, dissi al marinajo che avevo trovato mia moglie ! Il buon uomo piangeva ; si convenne che dopo che mi fossi tornato a tuffare, egli mi avrebbe ajutato tirando la fune : abbracciai il corpo a mezza vita, l’uomo tirò a sè la fune, e venni alla superficie carico del mio funebre fardello. Postolo in barca vidi che all’ estremità delle sue lunghe treccie di capelli, l’alga marina aveva formato due grosse palle, le quali impedivano a quel povero corpo di venire a galla ! Meno una ferita alla fronte, il corpo era intatto e punto trasfigurito.

La signora Valery mi mandò della biancheria e un abito di lana nera ; la cosa fece chiasso in città ; furono fatte solenni esequie, e baciata un’ultima volta la povera morta, la deposi nella tomba vicino al figlio ed al fratello.

Confesso che la gioja di averla trovata mi fece al momento scordare il dolore di averla perduta !

E dopo tanta, ineffabile sciagura, credete voi che la stella maligna del Gagliardi sia tramontata ?

Estenuato dalle fatiche e dal dolore, abbandona l’arte militante, e si rende a Firenze, ove accetta, come s’è detto, un posto al Politeama non ancora finito. I primi di giugno del ’64 se ne fa la solenne inaugurazione con opera e il ballo Carlo il Guastatore. Si organizza per la sera di S. Giovanni una gran festa da ballo. Vi son cinque grandi lumiere cariche di candele, viticci a cinque candele dappertutto, e gran padiglione di percalle sulla scena, intrecciato di veli e di trine. Alle nove si comincia ad accendere ; un operaio urta colla canna in una candela accesa che va a cader sopra un festone di trina. Il fuoco si propaga in un baleno. Gagliardi ordina di tagliar le corde delle lumiere, ma nella confusione si taglian quelle del padiglione che precipita sulle centinaia di candele, comunicando le fiamme al soffitto, che si sfascia e distrugge. Anche sta volta si salvaron soli il Gagliardi e un secondo macchinista.

E ora basta davvero ! Ora il povero vecchio, già tanto travagliato, circondato dalle amorose cure della più buona delle mogli, dall’affetto della più affezionata delle figlie – sono sue parole – attende tranquillo la fine di una vita tanto avventurosa.

Galanti-Fantechi Fausta. Figlia del prof. Galanti, che fu per lungo tempo insegnante all’Istituto tecnico di Milano, entrò alla Scuola di recitazione di Firenze il dicembre dell’ ’83. {p. 974}L’ ’86 fu scritturata prima attrice giovane a vicenda con altra alunna, Olga Della Pergola, poi con Ida Carloni in Compagnia Pietriboni, che lasciò dopo due anni per andar prima attrice giovane assoluta in quella di Serafini, poi, collo stesso ruolo, in quella formata da Michele Fantechi, del quale diventò ben presto la moglie. Smesso nel’90 il capocomicato, si scritturaron entrambi con Cesare Vitaliani, per rifar poi compagnia del ’91, in cui la Fausta assunse per la prima volta il ruolo di prima attrice assoluta, che non abbandonò più mai.

L’esilità della persona e la tenuità dei mezzi accoppiate a una persistente sfortuna non le permisero di esser prima in compagnie di primo ordine ; ma la correttezza della dizione, la non comune intelligenza, e l’amore per l’arte che è culto in lei, le dieder sempre e le dan tuttavia soddisfazioni artistiche non comuni.

Galeazzi Giacomo. « Comico di abilità – dice Fr. Bartoli – che fecesi sulle scene chiamare col nome di Florindo. » Di lui abbiamo in prosa una commedia, intitolata Ciò che il fato prescrive in van si fugge, pubblicata dal Dall’ Oglio in Parma il 1713.

Galletti-Bagnoli Adele. Nata il 1844 a Bologna da parenti non comici, fu scritturata quale prima amorosa il ’60 con Luigi Pezzana, il ’61 con Elena Pieri-Tiozzo, il ’62-’63 con Lorenzo Sterni, poi con Monti e Coltellini sino al ’70, in cui {p. 975}assunse il ruolo di prima donna assoluta nella Compagnia di Carlo Lollio ; ruolo che non lasciò più sino al ’95, nel quale anno, si ritirò dalle scene, per istabilirsi a Bologna, ove si trova tuttora.

Sposò l’attore Giuseppe Galletti (egli aveva esordito con Feoli ed Ajudi, e fu con Domeniconi e Stacchini, Coltellini, Ernesto Rossi, ecc. ecc., ed ora è a Bologna assieme alla moglie), col quale, prima in società con Ettore Dondini e Giovanni Contini, poi capocomico solo, fu nelle principali città d’Italia, attrice applaudita, specialmente in repertorio di genere forte, che comprendeva le Stuarde, Antoniette, Messaline, Cleopatre, ecc. ecc.

Galliani Luigi. Nato il 4 gennaio del 1864 a Bologna, abbandonò a vent’anni l’ufficio delle ipoteche, per entrare in Compagnia di Cesare Rossi, nella quale esordì a Roma come generico. Fu secondo brillante un triennio ; poi brillante assoluto con Eleonora Duse (che abbandonò un solo anno per entrare con Ermete Zacconi), fino a tutto il carnevale del 1899. Il Galliani non è forse un brillante nel vero senso della parola, ma un eccellente comico. Principal suo pregio è la dizione lucida e piana, senza pretensioni, ma non meno efficace che spontanea. Assai probabilmente abbandonerà presto la prosa per darsi all’arte lirica, nella quale ha già dato frequenti prove di buona riuscita.

Galliani-Magazzari Guglielmina. Moglie del precedente. Nata a Bologna da una egregia attrice della filodrammatica {p. 976}Albergati, recitò sin da bambina, ed entrò scritturata il 1889 con Eleonora Duse quale seconda donna. Passò dopo un anno con Emanuel, poi nuovamente con la Duse, poi con Zacconi prima donna a vicenda, poi ancor colla Duse, sino a tutto il carnevale del ’99. L’affetto alla grande artista, e la innata modestia le procacciarono una vita artistica piena di sagrifici e di rassegnazioni : nonostante, anche in piccolissime parti, ella potè sempre mostrare il valor suo, e il grado d’arte a cui si troverebbe oggi, se data a ruoli di maggiore importanza.

Gallina Maddalena. Celebre artista per le parti di servetta nacque a Cremona il 1770, e si diede giovanissima al teatro, riuscendo attrice incomparabile così per le commedie studiate, come per le improvvise. Tra quelle eran da notarsi più specialmente la Serva amorosa, la Serva vendicativa, la Locandiera e altre del Goldoni : in queste, così in dialetto come in italiano, dotata di una rara spontaneità di eloquio, non solamente secondava mirabilmente le maschere e gli attori serj, ma spesso con una replica, con un monosillabo, con una occhiata, rubava loro l’applauso, dacchè Maddalena Gallina seppe di ogni piccolissima parte creare un tipo. Fu molti anni con la Battaglia ; poi con lo Zanerini, col Bianchi, col Pianca e Paganini, e finalmente col Fabbrichesi nella formazione della Reale Compagnia italiana. Dopo un solo triennio si ritirò in una sua villa, presso Cremona, ove morì nel 1817.

A testimonianza del valor suo, Francesco Righetti nel secondo volume del suo Teatro italiano, dice : « Il personaggio di servetta era semispento nelle compagnie comiche, e colla {p. 977}morte della celebre Maddalena Gallina, che mirabilmente lo rappresentava, e per il nuovo genere introdottosi in Italia di commedie, in cui il ridicolo entra appena di furto, e per l’abbandono della commedia goldoniana. »

Gallina Ercole. Padovano, figlio della precedente, si diede agli studj legali ; ma poi, vinto dall’amor del teatro, nonostante il divieto de’genitori, entrò in arte come amoroso, passando in capo a un triennio (1821) primo attore assoluto in Compagnia Toffoloni. Il veneziano Giornaletto ragionato teatrale d’allora così lasciò scritto :

 

Quest’attore, figlio della rinomata signora Maddalena Gallina che nell’arte comica lasciò si onorevole ricordanza e che ora vive unitamente al marito ne’ proprj beni in vicinanza di Cremona, si è dato all’ arte malgrado le opposizioni de’suoi genitori. Egli, benchè poco favorito dalla natura, per essere di aspetto alquanto svantaggioso, non dispiacerebbe però nelle parti disinvolte, come pure in qualche parte di padre nobile, se (ci sia lecito di cosi esprimerci) se meno demarinasse. Il coturno poi non è assolutamente per lui ; gli promettiamo invece un migliore successo, se si farà a sostenere le parti di caratterista.

E chi avrebbe detto che in quell’anno e a Venezia, il Gallina avrebbe avuto un clamoroso trionfo per venticinque sere nell’orribile drammone Giuseppe Mastrilli ? Da quella del Toffoloni passò primo attor comico e drammatico nella Compagnia Nazionale Toscana, al fianco di Maddalena Pelzet, poi di Lorenzo Pani, come primo attore assoluto con scelta di parti. Fu con Moncalvo, Verniano, Ferri ; coll’Adelaide Fabbri, e più volte capocomico in società. Venutogli a morte il padre nel 1830, il Gallina risolse di lasciar le scene per attender da sè all’amministrazione dei beni ereditati. Morì nel 1840.

A conferma di quanto scrisse il giornaletto citato, diremo ch’egli aveva grossa la testa, sproporzionata alla persona esile. {p. 978}Ma a tal difetto, a cui si aggiungevan la statura piccola, le braccia lunghe, e le gambe ercoline, sopperiva con la voce meravigliosa, con la fisionomia espressiva, col talento superiore, con la prodigiosa memoria, e la spontaneità della dizione. E mentre a’ suoi tempi facean chiasso i drammi a colpi di scena e combattimenti, egli s’acquistò fama di eletto artista col Cavalier di spirito, col Cavaliere di buon gusto, col Bugiardo, con L’Avventuriere onorato, con L’Avvocato veneziano, col Medico olandese, col Tasso, e più altre commedie del Goldoni ; nè minore successo egli aveva con l’Atrabiliare e il Filosofo celibe del Nota, con il Filippo e il Bruto primo dell’Alfieri, ne’ quali si trasformava a segno da parer veramente il personaggio ch’egli rappresentava. A lui tributarono i contemporanei parole di encomio, come a colui che mostrò potersi avere applausi e concorso di pubblico anche con vecchio repertorio, purchè buono e rappresentato a dovere.

Galvani Ciro. Nato a Castel S. Pietro di Emilia il 10 aprile del 1867, si diede allo studio della pittura nell’Accademia di belle arti bolognese, dalla quale uscì con diploma di pittore, per entrar dopo soli quattro mesi (quaresima del ’90), e senza mai aver calcato un palcoscenico, secondo amoroso nella Compagnia Maggi. Ammalatosi l’Arrighi nell’America del Sud, il Galvani lo sostituì in alcune parti di primo attor giovine, rafforzando le speranze che s’eran venute formando su di lui. Fu in appresso col Favi, col Lombardi, coll’ Emanuel, colla Vitaliani, colla Duse, colla quale visitò le prime capitali dell’Europa e dell’America del Nord. Così in Italia, come {p. 979}all’estero, trovò modo di farsi notare talvolta come un’eccellente promessa, e abbiamo articoli di Yorick e di altri pieni di speranze per l’avvenire del giovane attore. Giunto all’età di trentun anni, egli forse non sa ancor bene qual sia la sua strada. Talora lascia da un canto il teatro per la pittura, in cui si mostra tuttavia egregio ; e ne ha dato frequenti prove anche in quest’opera. A volte mi par di vedere in lui l’asino di Buridano. A Rio Janeiro rifiutò il posto di direttore in un grande stabilimento litografico offertogli dal noto banchiere Matteo Consalve ; a Washington quello di caricaturista in un giornale quotidiano de’ più rinomati, con un forte onorario, offertogli da un deputato di quel parlamento.

La via del teatro ebbe il sopravvento nell’animo di lui ; ma oggi forse il comico ripensa Rio Janeiro e Washington. Il Galvani è prestantissimo della persona e ricco d’intelligenza ; se si dedicherà tutto al teatro, ne raccoglierà certamente e presto i migliori frutti.

Ganassa Alberto. Secondo Zanni famosissimo, fiorito nella metà del secolo xvi. Recitava il 1568 a Mantova colla celebre Vincenza Armani : e nota Baldassarre De Preti (V. D’Ancona, loc. cit.), che essendo sulla piazza anche la Compagnia di Pantalone (forse il Pasquati) colla Flaminia (?), il Duca volle che si recitasse una commedia dalle due compagnie riunite scegliendo da questa e da quella il meglio. Nel gennaio del ’70 vediamo il Ganassa prender parte alle nozze di Lucrezia d’Este in Ferrara, come è detto in questo brano di lettera riferito dal Solerti : con le confetture vi comparve Zanni Ganassa, e con un cinto in mano assai piacevolmente rintuzzò e fece cagliare un certo Ernandicco Spagnuolo……

Si recò la prima volta a Parigi nel 1571 colla sua compagnia, secondo un documento del 15 settembre pubblicato dal Baschet, ma pare non vi recitasse, per un divieto del Parlamento, non ostante le Lettere Patenti del Re di cui egli era munito. Forse, tornandosene in Italia lo stesso anno, e {p. 980}precisamente il 29 dicembre, si fermò a recitare a Lione. Tornò a Parigi nel ’72, e prese parte egli e i suoi ai festeggiamenti pel matrimonio del Re di Navarra con Margherita di Valois, avvenuto il 18 agosto ; ed ebbe dal Tesoriere del Re la somme de soixante-quinze livres tournois en testons à xii sols par livre dont le dict seigneur lui a faict don tant à luy que à ses compagnons, en considération du plaisir quils ont donné à Sa Majesté durant le mariage etc. etc. Egli si trattenne ancora al seguito del Re, il quale in ottobre dello stesso anno gli fe’pagare cinquecento lire tornesi e XVII testoni, ecc. ecc., da repartirsi tra lui e i suoi compagni, sempre in considerazione del piacere che procuraron colle loro commedie a Sua Maestà.

Francesco Bartoli e altri fecer di Zan Ganassa Giovanni Ganassa ; ma il Ganassa ebbe nome veramente, secondo il documento del Baschet, Alberto. Passato di Francia in Ispagna alla Corte di Filippo II, riferisce il Bartoli che non essendovi troppo bene inteso, mescolò, impratichitosi di quella lingua, alcune parole spagnuole al proprio dialetto bergamasco ; e molti ne inferirono ch’egli fosse di Bergamo, tanto più che nelle lettere facete di Cesare Rao, si trova un Lamento di Giovanni Ganassa, di lingua bergamasca ridotto nell’italiana toscana ; ma non è ben chiaro se si tratti della lingua materna di lui, o di quella, come a me par più probabile, della maschera ch’ei rappresentava. Testimonianze di lui come artista e come uomo non mancano.

Il De la Fresnaye Vanquelin dice nel secondo libro della sua Arte poetica :

……………
Ou le bon Pantalon, ou Zany dont Ganasse
Nous a représenté la façon et la grâce….

e in una sua satira al De Sanzay, lo dice il buon Ganassa.

Il Barbieri al Capo XXV della Supplica ricorretta accenna a lui, divenuto ricco in Ispagna ; e il Padre Ottonelli nella sua Cristiana moderazione (Tom. II, pag. 37) :

{p. 981}Io aggiungo al detto del Barbieri, che l’anno 1644 in Fiorenza intesi da un fiorentino, huomo di molto spirito e pratico della Spagna, ch’ egli circa l’anno 1610 stando in Siviglia, seppe da certi suoi amici, huomini vecchi e testimoni di vista, che Ganassa, comico italiano e molto faceto ne’detti, andò là con una compagnia di comici italiani, e cominciò a recitare all’ uso nostro ; e se bene egli, come anche ogni altro suo compagno, non era bene e perfettamente inteso, nondimeno con quel poco che s’intendeva, faceva ridere consolatamente la brigata ; onde guadagnò molto in quelle città, e dalla pratica sua impararono poi gli Spagnuoli a fare le commedie all’ uso hispano, che prima non facevano. Tutto questo io accetto per vero, e credo che come Ganassa cercava di apportar utile e diletto co’ suoi gratiosi motti e recitamenti privi di oscenità, cosi gli Spagnuoli impararono a far commedie modeste, e non oscene……

e a pag. 157 :

Anche del comico Ganassa io ho inteso che abbondava di ridicoli, gratiosi in modo e tanto modesti, che ogni auditore virtuoso riceveva gran diletto dall’ udirlo e grandemente se gli affettionava.

Quanto al tipo ch’ egli rappresentava, esso non fu, credo, che una delle solite varianti dell’ Arlecchino. Edoardo Fournier nell’opera L’ Espagne et ses Comédiens en France au dix-septième siècle, dice che il baron de Guenesche fu un tipo grottesco assai popolare per gran tempo, che il Ganassa creò, e a cui diè il suo nome un po’ alterato. In un libello del 1662 — Les grands jours tenus à Paris par M. Muet, lieutenant du petit criminel — pubblicato dal Fournier il 1865 nelle sue Variétés historiques et littéraires, è detto in nota che il tipo del Guenesche fu creato in dispetto e a derisione degli Spagnuoli, di cui, come Pulcinella, egli esagerava il naso prominente e la mascella avanzata di Ganassa, che è appunto la parola mascella in ispagnuolo. Il Ganache d’oggidì non sarebbe che una trasparente alterazione dell’antico Guenesche.

Gandini Pietro. Dice di lui Carlo Goldoni nella Prefazione al Tomo XIII delle sue opere (Ediz. Pasquali) :

Primo Zanni, cioè Brighella, Pietro Gandini Veronese, comico di grandissima abilità, eccellente nelle commedie dette de’ Personaggi ; poichè è arrivato in una sola rappresentazione a cambiare diciotto volte d’abito, di figura e linguaggio, e sostenere mirabilmente diciotto differenti caratteri. Egli è stato de’ primi a far vedere sopra le scene queste trasformazioni istantanee, che sorprendono per la velocità, e dilettano per gli adornamenti, di canzonette, di balli, di giochi, di facezie, ed altre cose ridicole ; spettacolo dilettevole, ma lontano dalla buona commedia.

{p. 982}Egli era dunque il Fregoli d’allora, preceduto dall’arlecchino Gabbriele Costantini, che fu il primo inventore di questo trasformismo che il Goldoni chiama novità incantatrice.

Anche il Quadrio ne fa cenno, confermando la rara abilità nel ritrovare fantastiche invenzioni, travestimenti e macchine, nel rappresentare ogni personaggio, e nel cantare ad orecchio.

Ai primi di gennaio del 1738 giunse a Bologna ove fu a recitare al teatro Formagliari, e il Barilli così riferiva (Ricci, T. di B., 104) :

Essendo giunto in questa città per passare a Venezia un famoso comico, detto Gandini, quale fa la figura di diversi personaggi con una prestezza e sveltezza non ordinaria, con mutare li linguaggi in tutte le forme, et in due che ha fatto prova del suo spirito nel teatro Formagliari ; vi è stato un concorso cosi grande d’ogni genere di persone, che quel teatro non fu capace per tutti, e quegl’ impresarj hanno fatto grandi impegni e profferto una gran parte perchè resti per tutto il carnevale, ma si crede che non restarà per avere l’impegno con Venezia.

Il carattere del Gandini pare non fosse de’più dolci : egli era soprattutto il vero marito della prima donna, e a ogni più piccola quistione di palcoscenico, negava doveri, accampava diritti. Fu con Goldoni gran tempo al San Luca, ma dopo la recita della Sposa persiana (del 1755), in cui il pubblico s’interessò maggiormente al personaggio della giovane schiava che a quello della prima donna, la moglie di lui, sommamente irritato contro il pubblico e contro Goldoni, disse che gli era stata fatta un’ azione da forca, protestò col Vendramini, andò in iscandescenze, mandò in pezzi il suo orologio contro la vetrata di un paravento di cui frantumò i vetri, e piantò tutti in asso scritturandosi con la moglie per la Compagnia del Re di Polonia a Dresda. Pare che il loro soggiorno in tal città non fosse lungo dacchè non se ne trova cenno.

Lasciò il Gandini la Sassonia per recarsi alla Comedia italiana di Parigi ove morì circa il 1760. Tale notizia ci vien data dallo stesso Goldoni, a cui nulla aggiunge di nuovo il Bartoli.

Chi erano i Gandini a cui accennano i dizionari e almanacchi teatrali di Parigi ?

{p. 983}Il Dict. des théatres (VI, 185) accenna a un Gandini che nel 1747 sostituì a Parigi il famoso Carlino (Carlo Bertinazzi). E troviam nel Dizionario del Léris (mdcci. xiii), che l’ultimo Scaramuccia del Teatro italiano, ricevuto a pensione il 1745, dopo di aver esordito il 13 settembre si chiamava Dionisio Gandini, nato a Verona da un Dottore in diritto e in medicina. Diede al teatro italiano molti Scenarj, e recitò oltre a quelle di Scaramuccia, le parti di Dottore e altre con molto successo. Si ritirò alla chiusura di Pasqua del 1755.

A questo Gandini dedica il Calendrier historique des Thèâtres de l’ Opéra et des Comèdies Française et Italienne et des Foires à Paris (Cailleau, 1751) la seguente quartina :

L’air, la mine, la gravité
tout réjouit dans Scaramouche
et chacun en est enchanté
même avant qu’il ouvre la bouche.

Questo aver rappresentato varie parti concorderebbe con la multiformità del Gandini brighella : ma come conciliar le date di Parigi con quelle italiane ? Forse Dionisio Gandini che sostituì il Bertinazzi era un fratello di Pietro ?E come mai di questo non è cenno in alcuna opera teatrale francese, compresa quella del Campardon ?…

Gandini Teresa, milanese, fu celebre sotto il nome di Flaminia. Di lei scrisse Francesco Bartoli :

Brava, ed incomparabile attrice fu la Gandini a’tempi suoi, sostenendo con immensa bravura il carattere di prima donna in tuttociò che all’arte comica per dovere si aspetta. Le cose studiate esprimevale con aggiustato sentimento, con forza non caricata, e con una brillante energia infinitamente lodevole. Nelle commedie dell’arte non aveva bisogno che d’aprir la bocca, e tosto n’uscivano i più sucosi rettorici. Fu celebre ne’teatri di Venezia ; passò a Dresda al servizio dell’Elettore ; ed ivi anch’oggi dimorando (1782), con generosa pensione va passando tranquillamente la propria vecchiezza.

Nel secondo volume del Teatro di Goldoni, ediz. Pitteri, è un complimento di Flaminia recitato nel Teatro Vendramino {p. 984}l’ultima sera del Carnevale dell’anno 1754. ripubblicato poi e restituito alla sua vera lezione dallo Spinelli ne’ Fogli sparsi del Goldoni.

Cantò nel teatro ducale di Milano l’estate 1735 la parte di Grilletta nel Porsignacco, opera tragica (sic) del maestro cav. Mutti, orbo e sordo. La parte di Porsignacco era sostenuta dall’attore Andrea Nelvi. (V. Paglicci, op. cit.).

Gandolfi Vincenzo. Nacque a Torino verso il 1800 da civile e agiata famiglia, entrò nell’arte il 1823, esordendo come amoroso generico nella Compagnia Pieri e Vedova. Consigliato dal Pieri, si diede al ruolo di caratterista e promiscuo ; e tale fu scritturato, dopo alcuni anni, con Solmi e Pisenti, acquistandosi nome di buon attore. Fu per un triennio con la società Prepiani, Tessari e Visetti a’ Fiorentini di Napoli, poi di nuovo con Solmi e Pisenti, poi con Giardini, poi col Ferri, poi con Antonio Colomberti (1851), dal quale uscito, andò a stabilirsi in Livorno, ove morì nel 1865.

Garavini Girolamo. Dice il Beltrame Barbieri :

Morì dieci anni sono il Capitan Rinoceronte nostro compagno, e gli trovammo un asprissimo cilicio in letto : e pur recitava ogni giorno : par veramente che contrasti cilicio e comedia : penitenza e trastullo ; mortificazione e giocondità ; ma non è strano a tutti chè molti sanno benissimo che l’uomo può star allegro e anche far penitenza de’ suoi peccati……

E il Padre Ottonelli in quella parte della sua Cristiana moderazione del Teatro (Firenze, Bonardi, 1652) che tratta delle Ammonizioni a’ Recitanti :

Voglio aggiungere intorno al nominato Capitano Rinoceronte quel poco che da un prudente e dotto padre spirituale, e teologo della compagnia di Gesù mi fu detto in Fiorenza l’anno 1645 a’ 25 di giugno ; e fu questo. Il comico Rinoceronte si confessava, e comunicava ogni otto giorni ; e durò meco in Mantova questa vita per lo spazio di 4 anni. Egli si poneva sulle carni sempre il cilicio, quando andava al Recitamento, ciò facendo a fine, che tal mortificazione gli fusse avegliatojo, per usar cautela di non dire alcuna oscenità, e di non cooperare a chiunque de’ Compagni ne dicesse.

Quindi s’ alterava non poco, ed acremente riprendeva chi le proferiva, protestandosi che avrebbe cessato di recitare. So che quando fu per andare in Francia con la sua compagnia, fece chiara e gagliarda protesta a’ compagni, che nol levassero d’Italia, se non avevano animo risoluto di recitare modestamente.

{p. 985}[http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img159.jpg]

Questo buon comico aveva un figliuolo unico, a cui propose con affettuosa esortazione la fuga dalla vita pericolosa secolare, ed il ritiramento alla religiosa, ed ebbene l’intento, vedendolo fatto Religioso zoccolante. Aveva per sua virtuosa consorte una Donna, detta Isabella tra le comiche, la quale fece vita santa per due anni avanti la morte, senza mai voler comparire nella scena al Recitamento ; e se ne morì con molti segni di gran bontà, esortando il marito a ritirarsi affatto dall’arte e dall’esercizio de’teatrali trattenimenti.

{p. 986}Il Garavini, ferrarese, fu della Compagnia de’Fedeli (V. Andreini Virginia), e lo vediamo a Parigi il 1621, fra i sottoscritori di una supplica del 12 maggio al Duca loro padrone, per ottenere che il Martinelli (V.) non abbandonasse la compagnia come avea minacciato di fare. Morì a Parigi il 2 ottobre 1624.

Il personaggio di Capitano Rinoceronte è fra le altre commedie nella Pirlonea di Ludovico Maria Cotta di Ameno novarese. La maschera qui riprodotta (pag. 985), è nelle Composizioni di Rettorica dell’ arlecchino Martinelli (V.), al nome del quale è pure la riproduzione di una lettera inedita ove si discorre del Garavini.

Garavini-Luciani Margherita, bolognese, moglie del precedente. Di lei dice Gio. Batta. Andreini nella citata Ferza a pag. 38 :

Non men del consorte fu onestissima e divotissima la signora Margherita Garavini Luciani bolognese sua moglie amata, ed a me carissima Compagna ; poichè inoltre d’aver educati così bene il signor Carlo Amadeo, e la signora Caterina ambi suoi figliuoli onoratissimi, l’uno facendo mirabil profitto nella virtù mantenendolo ad ognora sotto le vera norma delle buone dottrine de’Reverendi Padri Gesuiti ; e l’altra posta avendo Religiosa nel Monasterio di Migliarino, disinamoratasi delle commedie, innamoratissima di così cari figli, data tutta alle divozioni eguali a quelle del Consorte, quanto virtuosa visse, altrettanto divota morì.

« A me carissima compagna. » È dunque un errore del padre Ottonelli, o del devoto padre spirituale, quel nome d’Isabella, che si riferisce a fatti accaduti vent’anni addietro, o forse la Garavini, prima di Flavia fu chiamata Isabella in commedia ? Ma se Flavia, come non è a dubitare, fu veramente la Luciani, non pare davvero, a chi scorra le lettere del Martinelli, il più bel tipo di rassegnazione femminile. Avanti di andare in Francia, quante indecisioni e pretensioni, e disperazioni per quelle benedette prime parti che dovean fare una settimana per una, lei e l’Andreini. Avea un bello scrivere e raccomandarsi la Regina di Francia al Duca di Mantova ! Florinda e Flavia {p. 987}apparivan sempre meno accostabili, e più per cagion di questa che di quella. In fatti al Cardinal Gonzaga il Martinelli scriveva : …. però sarete contento di cominciare a disporre la signora Flavia, a ciò la venga a questo servicio, et se lei si scusasse con dire che gli è malsana, ditegli che li farete dare delle medicine soave, chè la guarirà, et se lei dicesse che non li piace le medicine per esser dolce, ditegli che glie ne darete di brusche, essendo che a lei gli piace più il brusco che il dolce.

Quell’ a me carissima compagna fu dunque generosità per la morta ?

E si riferirebbe per avventura a lei quel passo nella lettera di Drusiano Martinelli, a un capitano del Duca : « Gaspero Imperiale, pavese, è qui in Milano risoluto di tagliare il volto ad Angelica per comisione di Malgarita comica…. » ?

Dall’Archivio di Modena, traggo la lettera seguente scritta a quel Seren.mo Duca da Firenze il 19 maggio 1625 :

Seren.mo Signore,

La Flauia comica, in uirtù della richiesta di Vostra Altezza uien consolata dalle mie seren.me Tutrici et da me, che possa venire, con la sua Compagnia à recitare in Siena come ha desiderato. Assicurisi l’ Altezza Vostra ch’io le uorrei poter mostrar con gli effetti in cose di sustanza la stima che tutta questa Casa fa delle sue intercessioni.

Et le bacio le mani.

Di Vostra Altezza

Aff.mo parente et seruitore

Il Gran Duca di Toscana.

Di questa Flavia non si hanno indizi di sorta. Forse una che assunse il nome teatrale della Luciani dopo la sua morte ; giacchè, se bene la data della morte della Garavini non sappiam precisare, è indubbiamente erronea la notizia del Bartoli che la fa sopravvivere al marito.

Gardellini Gabbriella. Apparteneva il 1688 alla Compagnia del Duca di Modena, in qualità di serva sotto nome di Argentina.

Garelli Giovan Battista, veneziano. Per quante ricerche fatte, non ho potuto avere di lui altre notizie fuorchè quelle {p. 988}pubblicate da Francesco Bartoli (op. cit.), e che val la pena io qui riferisca integralmente :

Celebre e stimatissimo Pantalone fu Gio. Batta. Garelli, che per la coppia delle parole concettose ed eleganti, venne a gran ragione denominato : il Pantalone eloquente. Ne’ dialoghi famigliari cogl’ innamorati e colle donne, sentivasi raziocinando persuaderli a non seguire gli stimoli dell’amore, quando non acconsentiva che un suo figlio, o una sua figlia in matrimonio s’accoppiasse con un oggetto a lui medesimo dispiacente. Ma per lo contrario se inclinava al pronto successo di tali nozze, faceva vedere co’ più bei colori le dolcezze di Cupido, e le felicità del matrimonio. Quando rappresentava un vecchio innamorato, mostravasi tutto grazioso verso l’amata donna, e con persuasive eleganti facevale comprendere che le nozze co’vecchi sono le più felici per una giovane sposa. Ne’ rimproveri, nelle invettive era risentito e sentenzioso ; e giocando la maschera del Traccagnino mostravasi lepido e negli scherzi facetissimo e vivace. Recitò per molti anni nel Teatro a S. Luca onorato d’applausi, favorito dalla nobiltà e ben veduto da tutto il popolo. Giunto alla vecchiaja (1735), nè potendo più resistere alle fatiche del teatro, pensò d’alienarsi dalla Professione, e di sostituire invece sua il comico Francesco Rubini, e fecelo in questo modo. Uscì egli in teatro vestito da campagna, avendo al fianco il Rubini smascherato, e coll’abito cittadinesco da Pantalone. Disse all’uditorio che la sua vecchiezza non permettevagli di farli una più lunga servitù, che avrialo servito con pari attenzione quel suo collega, e che lo raccomandava all’ amore de’suoi affezionatissimi veneziani. Quindi togliendosi la maschera ne copri la faccia al Rubini, e riverendo il popolo sull’istante partì. Qualche circostanza di questo fatto ci riserbiamo a narrarla sotto l’articolo del mentovato Rubini. Intanto solo soggiungeremo che il Garelli sopravvisse al suo distacco dalla Professione altri sei anni dimorando sempre in Venezia, e passò agli eterni riposi nell’anno 1740. Formerà le lodi di questo eccellente comico la lettera dedicatoria in quarta Rima Veneziana, che Antonio Franceschini (V.), detto Argante, volle presentargli in occasione di dare alle stampe la Tragicommedia col titolo : La clemenza nella vendetta, in altri luoghi da noi mentovata ; e come si disse sotto l’articolo del prenominato Franceschini.

Com pagno sviscerao, salute e bezzi

A vù che per tant’ anni se sta bon

de far el Vecchio en Scena con bravura
favorio cusì ben da la natura
per esser un famoso Pantalon ;
{p. 989}A vù che recitando in più Cittae
se sta gloria e lusor d’ogni Teatro,
che si ben xe sonà le vintiquatro,
sè ancora bon cavar de le risae ;
A vù che el tempo coi sò Carnevali
v’ha messo in tel catalogo dei Cuchi,
che al despetto de certi mamaluchi
ve conserverà el nome i vostri sali ;
Presento adesso un don che m’è sta fato,
e ve dedico i ferri de’ Bottega ;
basta una scena a metterve in Canzega,
e repararve i refoli del flato.
Una tragicommedia capricciosa
porta con gusto el vostro Nome in fronte,
fe’ come el Sol, che andando chiaro a monte
mostra sempre la fazza luminosa.
Se no podemo recitarla insieme
la vien da un vostro Allievo sostentada ;
in pochi dì d’autun l’è sta formada,
perchè semo in teatro le vendeme.
Per esserve distinto in l’arte nostra
v’avè tirà l’applauso universal,
e adesso spicca più l’original,
za che la bona copia è messa in mostra.
Vù sè l’esempio de quel bon mercante
che dopo aver tant’anni negozià,
credito, e cavedal ben segurà,
renonzia la Bottega al Laorante.
A un po’ de reposar l’età ve chiama,
per conservarve el resto de la vita ;
durerà senza fin la vostra dita,
e sempre piezo ve farà la fama.
Vegna, si sa vegnir, de’bei cervelli
a far un dì da Pantalon in Scena,
siben Talia che sgionfarà la vena,
no i poderà far gara col Garelli.
{p. 990}Ve tegna el Ciel in rodolo dei sani,
parandove del tempo la stocada,
e passando dal rio de la panada,
in cale abbiè a finir de Ca Centani.

Garzes Francesco. Romano, figlio di un protonotajo apostolico, fu contabile e vice-cassiere dell’Agenzia di Spagna. Lasciato per vicende politiche l’impiego, studiò musica sotto il maestro Pacini, suo cugino ; ma non lungo tempo : chè un secreto malore gli tolse la voce, obbligandolo ad abbracciar l’arte comica, nella quale riuscì non ispregievole attore. Esordì nella Compagnia di Angelo Canova ; fu colla moglie, Maria Pompili, divenuta comica anch’ essa, e con un figliuoletto, Luigi, in quelle di Carlo Mancini, di Giuseppe Colombo, e di Francesco Lombardi, con cui fece quasi tutto il giro della Sicilia, nella quale poi, a Noto, morì l’anno 1846.

Garzes Luigi. Figlio del precedente, nato a Roma il 17 novembre del 1825, cominciò a recitar particine a soli quattr’anni, scritturandosi a otto in Roma con certo signor Lustrini, direttor delle poste, che aveva formato una compagnia di ragazzi, figli di comici, di cui era prima attrice la dodicenne Carlotta Mander. Datosi, giovanissimo, alle parti comiche, n’ ebbe tal plauso, che il 1843 potè entrar nella Compagnia di Giuseppe Peracchi. Fu poi con Marchesini e Barbetti, poi, primo amoroso con Giuseppe Carrara, continuando in quel ruolo per alcun tempo e con molta lode, nelle Compagnie di Francesco Gagliardi e di Ferdinando Sciultz. Rimasto orfano del padre, si scritturò primo attore con Antonio Almirante, di cui, l’anno dopo divenne socio e sposò la sorella Giuseppina, prima attrice, che gli morì a soli trentanove anni in Cotrone di Calabria il dicembre del 1865.

Lasciato coll’avanzar degli anni il ruolo di primo attore, si diede a quello di promiscuo e caratterista, col quale entrò il ’91 in Compagnia del figliuolo Arturo. Nel ’93 si tolse {p. 991}dall’arte, e si ritirò in Cesena, che per natural desiderio de’viaggi e della famiglia, dopo qualche tempo abbandonò, per recarsi a veder le due figliuole artiste, maritate agli artisti Angelo Campagna e Cesare Gambini.

Luigi Garzes fu attore corretto, e, nel meridionale, di molto nome. Prese parte a’ moti di Sicilia del ’48 e del ’60 ; e insieme a Giulia vive oggi colà della pensione assegnatagli dai figli Francesco ed Arturo.

Garzes Francesco. Figlio del precedente, nacque a Troina di Calabria nel luglio del 1848. Ebbe in un collegio di Catania la prima educazione che completò poi solo. Recitò, giovanissimo, le parti di primo attor giovine, nella Compagnia del padre con cui stette sino al 1870. Dal ’70 al ’73 fu con Benini e con Cesare Vitaliani, pel quale scrisse Un episodio sotto la Comune, bozzetto in un atto rappresentato la prima volta a Bologna con molto successo. Il’73 entrò amoroso con Luigi Bellotti-Bon, abbracciando poi dopo un anno, dietro i savi consigli del maestro, il ruolo di brillante. Fu a Berlino un anno, corrispondente di giornali, e in capo a otto mesi, di nuovo in Italia, per un’angina difterica. Ammalatosi allora il Mariotti, primo attor giovane della Compagnia Morelli, andò il Garzes a sostituirlo. Entrò poi l’ ’82 con Pasta e Campi, e l’ ’83 con Pietriboni, e il ’91 con Pasta e Reinach, coi quali fu poi sostituito, nel secondo anno del triennio, e a cagion di malattia, dal fratello Arturo. Ripreso nel settembre il suo posto, chiese e ottenne lo scioglimento dalla compagnia, e restò l’ultimo anno in riposo, vagheggiando l’idea di quella {p. 992}grande compagnia drammatica, dagli allestimenti scenici non più veduti, che doveva sì presto condurlo a miseranda fine.

Si parlò di mente squilibrata : forse. Le spese da lui fatte furon chiamate pazze : forse. Per una compagnia di giro in Italia, certo. Gli amici sui quali confidò nell’inizio dell’impresa, non ebber per lui, allo sfasciarsi rapido e fatale di essa, che soccorsi di motteggi. Non gli diè l’animo di affrontar la lotta acerbissima, inevitabile ; e in Mestre, il 13 aprile 1895, si tolse la vita. Su di lui dettò Luigi Suner, nelle Serate Italiane, un affettuoso articolo, dal quale traggo le seguenti parole :

Si era formato da sè ; aveva una cultura generale non comune ; parlava e conosceva le letterature drammatiche di cinque lingue ; era scrittore applaudito, e generoso verso i suoi colleghi ; attore piacevolissimo. La grazia, l’eleganza, l’arguzia, la malizia, e l’ironia del sorriso e dello sguardo attenuavano la monotonia nel suo dire. Odiava la scurrilità. Egli avea frequentate tutte le condizioni sociali e, di quella signorile, ne osservava le forme nel trattare i suoi compagni……

Molto logicamente il Suner, toccando della catastrofe e dei punti che la mossero, ha richiami al maestro Luigi Bellotti-Bon, del quale se il Garzes imitò molti atteggiamenti della vita, come la vanità, la sontuosità, la prodigalità, volle anche imitare la morte con un colpo di rivoltella al cuore.

Stampò, come il maestro, disegni di riforma teatrale, e scrisse pel teatro L’articolo 130, Amore e sapere non hanno frontiere, Cercate l’uomo, Flirtation, Signor D’Albret, Lionetta e Bianca D’Oria ; applaudite alcune, altre discusse assai.

Nel cimitero di Mestre è una lapide di marmo nero, sulla quale sono scolpite in oro queste parole : A — Francesco Garzes — Emma e Bona — xiii aprile mdcccxcv. — La moglie e la figliuola.

Garzes Arturo Nicola. Fratello minore del precedente, nato a Caltanissetta in Sicilia, il 29 febbraio del 1856, non si staccò mai dalla Compagnia del padre sino al ’78, nel quale anno fu scritturato secondo brillante, insieme alla moglie, con Luigi Bellotti-Bon con cui stette quattro anni. Passò nell’ ’82 con Ciotti, Aliprandi e Fagiuoli, nell’ ’83 con Ciotti e Serafini, {p. 993}nell’ ’84 con Adelaide Tessero, nell’ ’86 con Palamidessi, nell’ ’87, primo attor giovane, con Borelli e Brignone, nell’ ’88 colla famiglia, e nell’ ’89, brillante, con Diligenti. Arturo Garzes, che, se del fratello non ebbe il fine senso d’arte, ebbe una maggiore fecondità e conoscenza di teatro, scrisse in cotesto non breve periodo molti lavori, che ebber tutti, più o meno, lietissimo successo, quali : Maso, Stella, Chi sarà ?, Un’ A dimenticata, Per diritto di pedaggio, Gilda, I Minatori del Belgio, In Gallura. Nel ’91 volle provare le gioie del capocomicato ; gioie fugaci ; chè, nel ’92 entrò a sostituire il fratello Francesco in Compagnia di Francesco Pasta, con cui stette fino al ’97. Il ’98 fece società, per un triennio, con Luigi Raspantini e Irma Grammatica. In questi ultimi tempi scrisse Un biglietto d’andata e ritorno e Cuore.

Arturo Garzes non è forse mai stato, come artista, nè un brillante, nè un primo attor giovane nello stretto senso della parola ; ma nel più largo senso, un eccellente comico, buono di rappresentar l’una parte oggi, l’altra domani, con garbata semplicità. Come autore ha il peccato d’origine : maneggia come vuole i ferri del mestiere, e come e quando vuole sa farsi applaudire.

Gatteschi Leopoldo. Nato in Poppi di Casentino da ragguardevole famiglia, fu pregiato capocomico e pregiato attore per le parti di tiranno. Lo vediamo in tal ruolo il 1820 con la comica Compagnia Toffoloni al San Luca di Venezia, e il Giornaletto ragionato teatrale disse di lui : « nelle parti odiose questo comico spiega la non poca sua abilità, che sovente lo {p. 994}trasporta forse al di là del giusto confine. Con un aspetto vantaggioso, con una voce robusta, non abbisogna che di buon gusto comico per rendersi sempre bene accetto agli spettatori. » Fu ufficiale e sposò Teresa Salimbeni, attrice e poetessa.

Gattinelli Luigi, nacque a Meldola il 1786 da Niccolò, orefice, e da Teresa Fanelli, e vi fu battezzato, nella chiesa arcipretale di S. Niccolò, il 13 di aprile. I primi studi egli fece a Lugo ov’erasi trasferita la famiglia, ma poi fu mandato a Bologna a perfezionarsi nell’arte d’ingemmare. Sposò nel carnovale del 1806 a Lugo la lughese Giuseppina Stanghellini, sarta, da cui ebbe i due figliuoli Gaetano ed Angelo, prima di darsi al teatro. Ecco il sonetto a stampa per le faustissime nozze, dettato da certo signor Cricca :

O caro Gattinel che bravamente
dell’orefice eserciti il mestiere,
e conoscere sai perfettamente
le gemme false dalle gemme vere ;
giacchè di prender moglie immantinente
ti venne il tanto natural pensiere,
vuò dirti ciò che può sicuramente
farti felice in tutte le maniere.
La giovine, che prendi per tua Sposa
è sì garbata, virtuosa e onesta,
che fra le gemme è gemma prezïosa.
Come quelle che leghi in oro, questa
serba, e vedrai, che in ciò tutto riposa
la sola Pace, che a goder ti resta.

Tratto dall’amor della scena, entrò in una filodrammatica, e in brevissimo tempo sviluppò tali attitudini, che il Demarini, uditolo, gli fu largo di quelle lodi che lo decisero a lasciar l’arte del bulino per quella di commediante ; e abbandonata la casa paterna e la moglie e i figliuoli, si scritturò in una compagnia di pochissimo conto, passando, dopo alcuni anni di {p. 995}vagabondaggio, in quella di Francesco Taddei, col quale stette dodici anni. Acquistatasi fama di egregio artista per le parti di primo uomo, fu in tal ruolo e per un triennio scritturato da Luigi Vestri ; ma impinguatosi alquanto coll’ avanzar degli anni, quel ruolo abbandonò per abbracciar l’altro di caratterista e promiscuo, con cui fu scritturato da Solmi e Pisenti, e in cui riuscì ottimo, avendo saputo togliere tutto il buono che potè da Francesco Taddei e Luigi Vestri, e adattarlo a’suoi mezzi. Da quella di Solmi e Pisenti passò, la quaresima del 1826, nella Compagnia di Luigi Domeniconi, poi, il ’35, in quella di Romualdo Mascherpa, col quale stette sino all’estate del ’45 (29 luglio), epoca della sua morte, avvenuta in seguito a ribaltatura del legno a Regginara, presso Marradi. Egli battè del petto contro il lastrico del ponte, e morì nella notte, proferendo le testuali parole : « atto terzo, scena ultima. » Nella chiesa di S. Francesco di Paola a Torino, gli furon fatte solenni esequie a cura del figlio Gaetano, comico al servizio di S. M., alle quali assistevan tutti i comici della Compagnia Reale e di quella {p. 996}del Favre. Angelo Brofferio nel Messaggere torinese lamentava così il tristissimo avvenimento :

Una gravissima perdita fece ne’scorsi giorni il Teatro drammatico italiano nell’ artista Luigi Gattinelli, il quale dopo Luigi Vestri era caratterista a nessuno secondo. Ristabilito appena da lunga malattia, mettevasi in viaggio per Firenze, e disgraziatamente trovava la morte sotto le ruote della carrozza che nella via si rovesciava. Al merito distintissimo dell’attore, le virtù dell’uomo si ammiravano in lui congiunte, chi lo conobbe lo amò, chi lo udì sulle scene non si stancò dall’applaudirlo. Al dolore del figlio suo Gaetano Gattinelli cosi diletto alle scene torinesi col più profondo sentimento del cuore sinceramente partecipiamo.

In fine di un cenno necrologico, dettato dal collega Giovan Maria Borghi (V.), è la seguente nota manoscritta del figliuolo Angelo :

È qui dimenticato il più bell’ elogio di mio padre come uomo. — Iddio, a cui ricorse in pensiero senz’ira, gli concesse alcune ore di mente serena, prima della sua agonia. Il paziente, qual buon cristiano, accettò i conforti della religione con esemplare rassegnazione, e spirò come un angelo in braccio del Signore.

In una celletta presso Marradi fu alzato un monumento a perenne sua memoria, con una lunga iscrizione latina, dettata da L. G. Ferrucci.

Antonio Colomberti lasciò scritto di lui che fu onestissimo, ottimo padre e filantropo ; che, affezionato a’suoi confratelli, aiutò sempre tutti coloro che ricorsero a lui per bisogno. Tra le commedie ch’egli recitò con grande successo vanno annoverate le seguenti : La bottega del caffè, Il Poeta fanatico, Il Disperato per eccesso di buon cuore, Don Cesareo Persepoli, L’Ajo nell’ imbarazzo. Il Pronosticante fanatico, Il Figlio del Signor Padre, Il duello alla Montagnola di Bologna, il Filippo, la Malvina, La famiglia Riquebourg, I Rustici, Sior Todero brontolon, ecc.

Il Giornaletto ragionato teatrale del 1820, dando conto della Compagnia Taddei al Teatro Goldoni di Firenze, dice del Gattinelli che « nella declamazione della tragedia inclina al languore che può convenire alla commedia ( ?) ; ed in questa per voler troppo comparire naturale, cade nella freddezza. » Dalle quali parole mi pare si possa oggi trarre argomento di molta lode per l’egregio artista. Lode che ci viene confermata dal {p. 997}capocomico Romualdo Mascherpa, il quale privato a un tratto di lui, si presentava l’autunno del ’45 al Metastasio di Roma col seguente manifesto :

Dolente oltremodo il capocomico Romualdo Mascherpa che i Drammatici al servizio di S. M. la Duchessa di Parma da lui condotti e diretti siano rimasti per non sospettato desolante episodio, privi improvvisamente del distinto caratterista Luigi Gattinelli di sempre cara ed onorata memoria, non ha negletta alcuna delle più ingegnose premure per dare rapidamente un’acconcia sostituzione al valoroso artista mancato. Gli era troppo a cuore presentarsi con un completo drappello di attori alla diletta sua Roma, città delle sue più nobili e tenere memorie, città che saluta quasi per seconda sua patria ; ma nel meglio di utili trattative, quasi concluse, accaddero inattese vicende che fallir fecero le sue ben concepite speranze.

………………………..

Romani ! Illustri Romani ! Un raggio dell’implorato vostro patrocinio mi conforti nel dolore da cui sono amareggiato per la perdita d’un vecchio, leale amico, d’un caratterista intelligente, studioso, fortunato imitatore del vero…………

……………………….

Della Compagnia eran parti principali Adelaide Ristori, Giuseppina Zuanetti, Giacomo Landozzi, Carlo Romagnoli e Giovanni Leigheb.

Della intelligenza e dello studio di Luigi Gattinelli fanno fede alcune sue lettere, in cui si discorre largamente di commedie originali e tradotte, del ’28 da Firenze ad Antonio Benci, in Livorno, autore della Bottega del libraio, del Salvator Rosa, e di altro, e del ’44 da Trieste al figliuolo Angelo in Vicenza.

Da questa tolgo il seguente brano :

Credo che la vostra traduzione della Figlia di Figaro sarà eccellente, e che io avrò tradito invece di tradotto ; ma ero a Roma, e non potevo nominare nè Bonaparte, nè Giuseppina. Circa poi al non essere Aspasia la sedotta, ma la sorella, l’ ho fatto, e lo ritornerei a fare se fatto non l’avessi. Ho tolto cosi un’ inverosimiglianza imperdonabile di due sposi che avevano insieme diviso il letto e il tetto, e dopo dieci anni parlavano insieme, avevano lunghi dialoghi, e per un cambio di nome, non dovevano riconoscersi. D’altronde il partito che trassi da un tale cambiamento non si può immaginare, se non leggendone il manoscritto. In qualunque modo però la rivoltiate, sarà sempre una cattiva commedia, che passerà una sera, se fatta bene, e senza una prima donna in grazia andrà a fischi.

Col Mascherpa aveva di stipendio lire sei mila annue, e una mezza beneficiata per piazza, come si rileva dalla sua scrittura (20 agosto ’33) che vediam riprodotta al nome di Mascherpa.

{p. 998}Povero Gattinelli ! Chiudo questo articolo con la lettera ch’ egli scrisse da Faenza al figliuolo Angelo, in Montagnana, il 24 luglio del ’45, cinque giorni prima di mettersi in quel viaggio che gli costò così tragicamente la vita.

Questo è per noi due l’anno delle disgrazie, ma le vostre riparabili dalla gioventù, le mie forse mi costeranno la perdita della mia salute.

Tuttavia speriamo. Io partirò il 2 agosto per Firenze, e di là raggiungerò la Compagnia a Viterbo, se le forze me lo permettono.

Sono 47 giorni che il letto mi accoglie, e 22 che sto lontano dalla Compagnia. Ho 4 camere, dove abitiamo io, la mamma, e la povera Angiolina, che non volle abbandonarmi. Avevo 200 scudi, sono iti ; ne ho presto ripiegati altri, e da questa parte non tremo per ora.

La testa mi regge poco, e non saprei qual consiglio darvi in tale circostanza, se non quello che hanno dato e danno a me. Coraggio !… Pazienza !… il male passerà, tornerà il bene. Nel corso della vita è un destino l’andar soggetti a malattie, a disgrazie, ma tutto passa…. Crepando, rispondo io, che mi trovo vicino allo scoppio. Voi ci siete lontano, ed avete un avvenire di 20 anni a voi dinanzi : a che lagnarvi ? La salute vi regge, siete giovine, avete quello che manca agli altri. Addio.

Rispondetemi a Viterbo.

Vostro Padre

Luigi.

Gattinelli Gaetano, figlio del precedente, nacque a Lugo l’ 11 dicembre 1806. Innamoratosi dell’arte del padre, lo seguì, giovinetto, per alcun tempo : ma fu messo ben presto in un collegio della città natale, ove stette fino agli studi universitari, che non volle compiere ; perchè, recatosi a Bologna a tal uopo, così forte risorse in lui l’amor della scena, che pensò bene di raggiungere il padre a Venezia, e con preghiere di ogni specie indurlo a concedergli di lasciar per essa i codici e le pandette. Ed esordì infatti nella Compagnia Taddei, ov’ era già il padre, con tal successo di fischi da deporre per sempre il pensiero dell’arte. Con tenacia e audacia senza pari, egli affrontò nuovamente il giudizio del pubblico, il quale più tenace di lui ne’suoi propositi, lo fischiò ancor più forte, e per modo ’sta volta, che il povero artista, scoraggiato, disperato, si ricoverò nella nativa Lugo. Ma non andò molto che tornato all’assalto sotto il comando del valoroso Francesco Lombardi, n’ebbe vittoria piena, convertendo quei primi fischi in applausi clamorosi che nol lasciaron più in tutto il tempo della sua vita artistica.

{p. 999}Il ’30-’31 egli era per la stagione di autunno e carnevale in uno de’teatri di Roma, in società con Giacomo Job ; poi, preso parte ai moti di quell’anno, fu guardia nazionale a Bologna, volontario dragone ad Ancona sotto il generale Zucchi, compagno d’ armi del conte Giuseppe Mastai a Sinigaglia, poi…. esiliato, inseguito, arrestato. Finalmente, riavuta la libertà, potè unirsi al padre che recitava a Parma nella Compagnia Rosa e Ventura, nella quale s’ ebbe il posto di brillante assoluto ; passando dopo quattr’anni caratterista in quella del {p. 1000}solo Angelo Rosa, con cui stette sino al ’42. Il ’44 eccolo sostituir Luigi Taddei nella Compagnia Reale Sarda, nella quale rimase anche dopo la quaresima del ’54, epoca, in cui, toltole il sussidio del governo, continuò sotto la direzione di Francesco Righetti, e colla quale recossi a Parigi nella Sala Ventadour, ove s’ebbe con il Burbero benefico, Un Curioso accidente, La Bottega del caffè e La Locandiera i più schietti e larghi encomii di tutta la stampa. Tornato in Italia, diresse la compagnia che formò in società con Ernesto Rossi, con cui fu l’anno seguente, il ’57, a Vienna. Nel ’59, assorbito dalla politica, fe’ ritorno a Lugo per concorrere col braccio e colla mente al trionfo della libertà. Il ’60 dirigeva una compagnia detta dell’Italia centrale, di cui principale ornamento era la figliuola Antonietta, avuta dalla moglie Amelia Prina di Brescia, che vediam con esso il ’62 e ’66 a Tolentino, e che andò poi sposa all’avvocato Polveroni.

Non solamente fu il Gattinelli attore di gran pregio, ma anche pregiato autore delle commedie : Vittorio Alfieri e Luisa d’Albany, rappresentata l’ultimo anno di vita della Compagnia Reale Sarda ; Clelia e la Plutomania, il ’54-’55, quando cioè la Reale Sarda, non più sovvenuta dallo Stato, diventò compagnia libera sotto la direzione del Righetti ; e La caduta di una dinastia, che s’ebbe il premio governativo nel concorso del’61. A queste, altre se n’aggiungon di minore importanza, una delle quali ricordo, rappresentata al Corea di Roma nel ’73 dalla Compagnia di Fanny Sadowski, diretta da Cesare Rossi, di cui faceva anch’io parte, e che non figura nell’ elenco di tutte le opere di lui, pubblicate in due volumi.

Il ’58 aveva stampato a Brescia un progetto per la fondazione di un Istituto drammatico nazionale in Torino, in cui sono molte cose buone, e soprattutto pratiche.

Lasciato il Gattinelli le scene, fu nominato direttore della R. Accademia de’ Fidenti in Firenze, e quivi io l’udii recitare al Teatrino di S. Giuliano in mirabile modo la parte di protagonista nella sua Plutomania.

{p. 1001}Il Costetti (op. cit.) dice di lui :

…..egli seppe compensare collo studio indefesso certe manchevolezze ch’aveva da natura ; come a dire una voce ranca, una fisonomia accigliata e ribelle alla giocondità, così necessaria al ruolo di caratterista. Gli effetti di comicità che otteneva col solo aiuto dell’arte, non erano in nulla da meno di quelli spontaneamente conseguiti dagli attori privilegiati dalla natura ; e non è picciol vanto.

Ed Ernesto Rossi (Mem., I, 62), che pur dichiara di non averlo avuto mai nel suo calendario :

Egli era un attore che conosceva molto gli effetti : coscienzioso, intelligente per lo studio di un carattere, ma un poco artificioso. Naturale talvolta, esagerato spesso. L’opposto di Vestri e di Taddei, i quali accoppiavano l’arte alla natura. Però, ad onore del vero, simpatico, ancorchè brutto, a tutti i pubblici. Ammirevole e lodevole per lo studio che egli poneva assiduo per correggere la sua pronunzia romagnuola e rendere simpatica la sua grottesca figura. Era anche colto, economo, buon marito e buon padre, però di carattere chiuso, sempre melanconico, giammai gaio. Non lasciò mai travedere ciò che pensava ; fu stimato e riverito da molti : io pure lo stimai, ma non l’ebbi mai nel mio calendario.

Qui non è forse inopportuno il notare che Ernesto Rossi, entrato nella Reale Sarda, dovè cedere con dolore al Gattinelli il Remy nella Claudia, il Maestro Favilla, il Luigi XI, lo Stracciajolo di Parigi, parti ch’egli aveva recitate prima con gran successo, e che, a detta di lui, il Gattinelli, quantunque attore zelante, coscienzioso e intelligente, non potè mai bene interpretare.

Gattinelli Angelo. Fratello minore del precedente, nacque a Lugo il 1808, e si diede anch’egli all’arte del padre, nella quale riuscì ottimo caratterista. Sposò la valorosa attrice Carolina Astolfi che gli morì del ’38 a Trento a soli ventisei anni, e da cui ebbe un figliuolo : Luigi. Rimasto vedovo, continuò nell’ arte sua, specialmente in Compagnia di Pisenti e Solmi, con cui stette più anni, ammiratissimo.

Dal 1830 al 1859 fu con le Compagnie di Mascherpa, Pelzet e Domeniconi, Taddei e Gattinelli, Costantini e Colombino, Livini, ancora Mascherpa, Ferri, Pisenti e Solmi, Giannuzzi, Mòzzi e Gattinelli, Vestri e Antinori, Tassani e Augusto Bertini, nella compagnia del quale morì, a Rovigno d’Istria, {p. 1002}il 12 gennaio 1859, assistito amorosamente dai fratelli d’arte, e dal figlio Luigi.

Parte del suo tempo impiegò anche in tradur commedie dal francese (come s’è visto all’articolo del padre), e delle sue traduzioni, alcune figuran anch’ oggi ne’ repertori delle varie compagnie.

Gattinelli Luigi. Figlio del precedente e di Carolina Astolfi, nacque a Milano il 3 gennaio del 1831. Orfano della madre a sette anni, fu messo nel collegio militare di Maria Luigia in Parma, di dove uscì a sedici anni, per dedicarsi poco dopo all’arte, contro la volontà del padre che avrebbe voluto farne un soldato. Esordì come amoroso, ma dovè ben presto passare al ruolo di brillante che sostenne lungo tempo e con valore nelle Compagnie di Costantini, Chiari, Zoppetti, Tassani, Andreani, Monti e Preda, Zammarini, Sivori e Sadowski. Fu dal ’70 al ’72 {p. 1003}con Bellotti-Bon secondo caratterista, e primo e promiscuo, subito dopo nelle Compagnie di Francesco Coltellini, Anna Pedretti, Giacinta Pezzana ed altre di minor conto. Fu con Novelli tre anni, poi con Dominici al Manzoni di Roma, poi con Falconi e Bertini, nella cui compagnia morì a Bologna il 13 agosto 1890 colpito da pleuro-pneumonite doppia acutissima.

Vivo, s’acquistò con la sua operosità e integrità, l’amore dei compagni, le lodi del pubblico e della critica ; morto, ebbe tributo di lagrime da quanti lo conobbero.

Nè buon artista e buon compagno fu solamente, ma anche buon cittadino ; chè, sergente il ’49 nel 3° reggimento di linea della Repubblica romana, combattè a Velletri e alla difesa di Roma, assieme al capitano Masi, padre del brillante attuale.

Aveva sposato la prima attrice giovine Luigia Barbini, mortagli a Trieste il 10 gennaio ’61, da cui ebbe il figliuolo Angelo, e una bimba morta a Smirne a cinque anni ; e in seconde nozze Amalia Manzoni di Firenze, da cui non ebbe figli.

Gattinelli Angelo. Figlio del precedente, alla cui cortesia son dovute in gran parte le notizie de’Suoi, nacque a Vercelli il 18 settembre 1858. Cominciò a recitar giovinetto le parti di secondo amoroso in Compagnia di Francesco Coltellini, poi, sempre al fianco del padre, di primo attor giovine in quella di Anna Pedretti. Fu con Bellotti e Marini di nuovo secondo amoroso, poi generico d’importanza nelle Compagnie Nazionale, Marini, e Garzes, morto {p. 1004}il quale, fu scritturato dal Ferrati, cui si era associato Cesare Rossi. Lasciò poco dopo il teatro, per recarsi a Roma ove fu, all’Accademia di S. Cecilia, nominato dal governo maestro di declamazione.

Gavardini-Cottei-Galletto Margherita. Di lei scrive Antonio Piazza nel suo Teatro (Tom. II, pag. 20) : « la seconda donna era un pezzo di carne, che destava l’appetito anche a’ più nauseati. Bravissima per certi caratteri, si poteva stabilire nel suo mestiero una riputazione onorevole, se contenta d’aver posto il piede nel Socco ridevole, non avesse avuta la smania di calzare il grave Coturno. » Ma il Bartoli si oppone a tale giudizio, dicendo ch’ ella fu somma anche nel tragico, e che se avesse avuto la fortuna di nascere in Toscana, nessuna attrice avrebbe potuto eguagliarla.

Di famiglia vicentina, recossi il 1765 collo sposo a Livorno, dove recitava al Teatro S. Sebastiano la Compagnia di Nicodemo Manni, il quale ben volentieri avrebbe voluto liberarsi della sua prima donna, una certa Faluggi, accademica fiorentina. Venuto a conoscere la Gavardina, e offertole un posto nella compagnia, ch’ella subito accettò, la fece esordire colla piccola parte di Madama Giuseppina nel Medico olandese di Carlo Goldoni, da lei recitata con molta grazia – dice il Bartoli – e spirito non ordinario. A quella seguì la parte d’Ircana nella Sposa persiana dello stesso Goldoni, in cui fu ancor più applaudita. In breve sostituì la Faluggi nel posto di prima donna assoluta ; e, prima a Pisa, poi a Lucca, a Bologna, a Genova, potè sviluppare le sue grandi attitudini alla scena, diventando una delle più valenti attrici del suo tempo. Doveva recarsi la primavera del ’66 a Barcellona con altro impresario, ma la paura del mare le fe’ sciogliere il contratto, e formar là per là una compagnia, che condusse l’estate a Mantova, dove s’ebbe tal successo da essere scritturata nella Compagnia di Gerolamo Medebach, colla quale esordì nella commedia a soggetto Di peggio in peggio. Ignazio Casanova le fu maestro {p. 1005}egregio, e « volle – riferisco dal Bartoli – che si presentasse all’uditorio con una sortita, che pareva della commedia, ma che però alludeva a raccomandare sè stessa all’animo de’benignissimi Veneziani. » Il Pantalone Bissoni poi, che faceva scena con lei, aggiunse un’arguta raccomandazione, chiamando la Gavardina una tenera pianticella, che coltivata nel bel terreno dell’ adriache scene, ed innaffiata dall’ acqua di sì benefico cielo, non potea che crescere in poco tempo, e produrre dolci frutti. Fu tre anni col Medebach, e nell’autunno e carnovale del ’69-’70 recitò per ventisette sere la Putta onorata del Goldoni. Passò il ’70-’71 colla Compagnia del Lapy, ove fu per alcuni anni, amica ed emula della valorosa Caterina Manzoni. Il Bartoli cita la Rosalia nel Jeneval di Mercier, tradotto dalla Caminer fra le parti che la Gavardina recitò con maggior lode, e la dice inarrivabile in quelle in dialetto veneziano. Quando la Manzoni lasciò il teatro, fu a lei affidato il ruolo di prima attrice assoluta. Fu poi colla Battaglia al S. Gio. Grisostomo, poi di nuovo col Lapy, poi col Perelli, col quale fu il 1781, col ruolo sempre di prima donna, a Bologna, Piacenza, Trieste e Padova. A questo punto cessan le notizie che ne dà Fr. Bartoli, che riferisce anche il seguente sonetto di anonimo :

Spiegar col labbro in misurati accenti
i diletti d’amore, oppur le pene,
qual fra le gioje, o tra gl’infausti eventi
un tenerello cor prova e sostiene,
te veggiam, Margherita, assai contenti,
quando saggia affatichi in sulle scene ;
e sì n’ alletti, che ciascun pur senti
te innalzar fra le bionde Dee Camene.
Di tua virtude il luminoso fregio,
di tua beltà l’impareggiabil vanto
ben accrescono in te trionfo e pregio.
Sciolga ogni Vate in tuo favore il canto,
se al leggiadro tuo dir pronto, ed egregio
applaude l’Adria, il Reno, Adige e Manto.

{p. 1006}Gazzaniga Luigi. Figlio di Antonio Gazzaniga, orefice in Mantova, e della Lucidalba, guaritrice empirica nella stessa città, è citato da Fr. Bartoli come innamorato e generico di qualche pregio. Fu in varie compagnie e a Palermo. « Se – aggiunge il biografo – a quel fuoco giovanile che lo fa essere poco costante nelle cose sue sapesse egli mettere un po’ di calma, potrebbe rendersi a sè medesimo più giovevole, e potrebbe agli onorati suoi genitori apportare in seguito una più perfetta consolazione. »

Geratoni Giuseppe. (V. Giarattoni).

Germoglia Giuseppe. (V. Petrucci Lorenzo).

Gerolami Giacomo. Comico del serenissimo di Mantova, citato dal Paglicci-Brozzi (op. cit.) insieme ad Ercole Nelli (V.) suo capocomico certo. Essi inviarono una supplica al Senato di Milano nel settembre del 1641, onde essere graziati di una condanna, per porto di armi da taglio e da fuoco, subìta nella città di Pavia. (Arch. di Milano — Carteggio generale).

Gherardi Giovanni. La bibliografia pratese lo dice da Spoleto. Esordì a Parigi il 1675 nell’Arlequin Berger de Lemnos col nome di Flautino, ch’egli scelse pei molti strumenti a fiato che sapeva imitar colla bocca. (La bibliografia pratese dà erroneamente questo nome al figliuolo Evaristo). Così ne riferiva il Robinet nella sua lettera in versi del 5 gennaio ’75 :

Il faut bien dire aussi deux mots,
d’arlequin Berger de Lemnos.
………..
On y voit leur Flautin nouveau,
qui sans flute ni chalumeau,
bref, sans nul instrument quelconque,
(Merveille, que l’on ne vit oncque),
fait sortir de son seul gosier,
un concert de flutes entier.
A ce spectacle va court sans cesse,
et pour le voir chacun s’empresse.

[n.p.][http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img167.jpg]

Suonava ancora con assai maestria la chitarra, il che sappiamo da questi quattro versi che son sotto al ritratto di Bonnart che riproduco :

Avec sa guittare touchée,
plus en maître qu’en écolier,
il semble qu’il tienne cachée
une flute dans son gosier.

{p. 1008}Gio. Gherardi, ammirato, applaudito, avrebbe potuto restar lungo tempo alla Comedia italiana, se pei suoi costumi depravati non fosse stato messo in prigione, e quindi espulso dalla Francia. Ebbe per moglie una certa Leonarda Galli, che, rimasta vedova, si unì in seconde nozze con Carlo Beaumont, ufficiale nel reggimento di San-Secondo.

Gherardi Evaristo. Figlio del precedente, nato a Prato in Toscana agli 11 di novembre 1663, secondo la bibliografia pratese, esordì alla Comedia italiana di Parigi, dopo di aver compiuto gli studi di filosofia, il 1° ottobre 1689 colla parte di Arlecchino nella commedia Il divorzio di Regnard, rappresentata la prima volta all’Hôtel de Bourgogne il 17 marzo 1688 con Domenico Biancolelli. Su tal proposito il Gherardi, in una nota alla fine di essa, che è nel Tomo II del suo Teatro italiano, lasciò scritto :

Questa commedia non ebbe alcun successo tra le mani del fu signor Domenico. Era stata radiata dal repertorio, e le parti ne furono bruciate. Io (che non avevo mai salito un palcoscenico, e uscivo dal collegio della Marca, ove avea compiuto il mio corso di filosofia sotto il dottor signor Balli), la scelsi per mio primo esperimento (1 ottobre 1689), quando apparvi al pubblico d’ ordine del Re e di Monsignore, e tale e tanto ne fu il successo, che procurò ai comici moltissimo guadagno.

S’io mi fossi uomo da inorgoglirmi del talento che mi fornì natura pel teatro, sia a viso scoperto, sia colla maschera, ne’ principali ruoli e serj e comici, in cui mi s’ è visto rifulgere tra gli applausi, agli occhi de’ più gentili e intelligenti, avrei bene di che soddisfare al mio amor proprio. Io direi che ho più fatto io, al cominciar della mia carriera, e ne’ miei teneri anni, che non attori illustri dopo venti anni di esercizio e nella pienezza de’lor mezzi. Ma io protesto che lungi dall’esser mai montato in superbia per si rare qualità, io le ho sempre considerate effetti della mia buona stella, piuttostochè del mio merito ; e se alcuna cosa ha potuto lusingar l’animo mio in tali congiunture, ciò non fu che il piacere di sentirmi applaudito dopo l’inimitabile signor Domenico, il quale ha portato si alta l’eccellenza della goffaggine nel carattere di arlecchino, che chiunque l’abbia visto recitare, troverà sempre alcun che da osservare ne’ più famosi arlecchini del suo tempo.

La notizia che di lui dà Fr. Bartoli è pressochè tutta erronea. Il Gherardi recitò alla Comedia italiana fino alla sua soppressione che fu nel 1697. E poco prima del ’700, caduto in una rappresentazione ch’egli diede con Thorillière e Poisson a Saint-Maur, n’ebbe tal colpo alla testa, che, tornando da {p. 1009}Versailles, ove s’era recato a offrire il suo Teatro italiano a Monsignore, morì improvvisamente il 31 agosto del ’700, mentre teneva fra le ginocchia il figliuolo che avea avuto da Elisabetta Danneret, la cantatrice della Comedia italiana, nota col nome di Babet la chanteuse. Abitava allora ai Petits-Carreaux in via Montorgueil. La Danneret fece apporre i suggelli su quanto {p. 1010}possedeva il defunto, ottenendone la confisca. Il Gherardi ebbe il 5 febbraio 1689, da una unione illegittima con certa Maria Maddalena Poignard, un primo figliuolo per nome Fiorentino Giacinto.

Per una rissa accaduta alla Comedia italiana fra il Gherardi e il Costantini, vedi Costantini Gio. Battista. Il Campardon riferisce un altro documento a proposito del Ritorno dalla fiera di Bezons, opera dello stesso Gherardi, per la quale il commissario Lefrançois gli mosse querela, essendo in essa posti in ridicolo i commissari del Châtelet.

Nell’opuscolo intitolato : La pompa funebre di Arlecchino (Paris, Jean Musier, 1701), abbiamo il seguente ritratto del nostro artista :

Je commence par son portrait.
Tu ne le vis que sous le masque,
et qu’avec son pourpoint de Basque ;
il n’étoit ni bien, ni mal fait,
grand ni petit, plus gras que maigre :
il avoit le corps fort alaigre,
le front haut, l’œil foible, mais vif.
Le nez très-significatif,
et qui promettoit des merveilles.
La bouche atteignoit ses oreilles ;
son teint étoit d’homme de feu,
son menton se doubloit un peu,
son encolure assez petite
le menaçoit de mort subite.
Pour voir au vif son vrai portrait,
il faut voir le fils qu’il a fait,
a mon avis il lui ressemble,
hormis qu’il est un peu vulcain,
ce que n’étoit pas arlequin :
ou pour le moins il me le semble.

L’opera maggiore del Gherardi è quella del Teatro italiano, dopo la pubblicazione degli Scenarj di Flaminio Scala, la più importante per la storia dei nostri comici. Essa racchiude le scene francesi che furono, si può dire, incastonate [n.p.]ne’ loro soggetti, de’ quali non sarebbe stato possibile dare distesamente lo sviluppo. E la ragione di tale impossibilità è così descritta dal Gherardi stesso nel principio della premessa all’opera sua :

Non si creda di trovare in questa raccolta delle intere comedie, poichè la comedia dell’ arte non potrebbe essere pubblicata distesamente. I comici italiani non imparan nulla a memoria ; a loro basta, per recitare una commedia, di averne visto il soggetto un momento prima di andare in iscena. Di tal guisa la maggior bellezza delle opere loro è inseparabile dall’ azione, dipendendo il successo di esse esclusivamente dagli attori che dànno loro maggiore o minor pregio secondo il maggiore o minore spirito, e secondo la situazione buona o cattiva nella quale si trovano recitando. Da tal necessità d’improvvisazione nasce la difficoltà grande di sostituire un buon comico italiano, venuto sciaguratamente a mancare. Non vi ha chi non possa imparare a memoria e recitar da la scena, ciò ch’egli ha imparato a memoria : ma dal comico italiano si richiede ben altro. Chi dice buon comico italiano, dice un uomo di fondamento, che esercita assai più la fantasia che la memoria, che compone, recitando, ciò che dice, che sa coadiuvare il suo interlocutore, vale a dire ch’egli sposa così bene le parole e l’azione con quelle del suo compagno, ed entra di punto in bianco in tutto il movimento drammatico dall’altro richiesto, di tal maniera da far credere agli ascoltatori che tutto sia stato anticipatamente combinato.

 

Il Gherardi aveva pubblicato un primo volumetto nel 1694, la cui buona accoglienza suscitò l’invidia di alcuni compagni, i quali temendo che la pubblicazione di quelle scene potesse nuocere alla rappresentazione delle commedie da cui furono tratte, riuscirono a far togliere al Gherardi da Monsignor Cancelliere il privilegio accordato. Ma la loro irragionevolezza sta nel fatto che i novecento esemplari depositati presso il collega Ottavio (Gio. Battista Costantini) furon da lui venduti ai varj librai di Parigi in ragione di trentadue soldi l’uno, dopo di averne bruciati due o tre fogli, e di aver fatto credere che tutta l’edizione ne fosse stata distrutta. Il volumetto, benchè proibito, andò via a ruba, tanto che se n’ebber contraffazioni non solo in Olanda, a Bruxelles e a Liegi, ma in quasi tutte le provincie del Regno, e se ne pubblicò un’aggiunta di due volumi, uno col titolo di Supplemento al teatro italiano, privo di qualsiasi pregio, composto a quel che si dice dall’autore dell’Arliquiniana (Cotolendi) o della Vita di Scaramuccia (Angelo Costantini, Mezzettino), e l’altro col titolo di Terzo volume, rubato manoscritto al Gherardi, e in ogni scena mutilato per {p. 1013}meglio celarne la frode. La nuova edizione, apparsa il 1700, comprende sei volumi in 12°, arricchiti di incisioni in rame non firmate, ma assai probabilmente del Bonnart, importantissime per la storia del costume teatrale dei nostri comici sullo scorcio del secolo XVII.

Gherardi-Danneret Elisabetta. Detta in teatro Babet la chanteuse, moglie del precedente, esordì alla Comedia italiana il 24 agosto 1694 negl’intermedj del Départ des comédiens. Dopo la morte di Gherardi entrò alla Reale Accademia di musica.

Gherardi Erminia. Figlia di poveri artisti, nacque a Firenze il 1808. Bella di aspetto e di persona, dotata di non {p. 1014}comune intelligenza, entrò in Compagnia Moncalvo il ’26 come prima donna giovine ; e tanto progredì con l’ammaestramento del chiaro artista, che fu il ’28 scritturata per un triennio qual prima donna dai soci Petrelli e Fabrici. Passò da questi con Romualdo Mascherpa e collo stesso ruolo ancora per un triennio, dopo il quale abbandonò il teatro per andare a sposarsi con un signore di Padova, ove morì nel 1860.

Fra le opere, in cui la Gherardi si palesò artista delle più pregiate, son da notarsi gl’Innamorati, le Zelinde e la Pamela di Goldoni, la Sposa senza saperlo di Genuino, la Malvina di Scribe, l’Oreste (Elettra) di Alfieri, la Zaira di Voltaire, e i Due Sergenti di Roti.

{p. 1015}Ghirlanda Giovanni, nato a Verona il 1790, fu attore di molto grido, specialmente per la forza con cui gridava tragedie e drammi da arena. Ma egli volgea le chiavi del cor del pubblico a suo talento, e s’ebbe applausi e urli di acclamazione quanti ne volle. Fu di alta e maestosa figura, di nobile fisionomia, di gesto largo e pomposo. Pochi, dinanzi al pubblico, gli si accostarono nella declamazione di Polinice, di Egisto nell’Agamennone, di Pilade nell’Oreste, e sopr’ a tutto del protagonista nel Saccente, commedia tedesca, in cui egli, di prodigiosa memoria, citava di continuo in otto o dieci lingue tramorte e vive e con corretta pronunzia, nomi e fatti di storia, di letteratura, di mitologia, di arti, di scienze, di lettere. Egli fu il primo a recitarla, e con tal maestria, che niuno più osò tentarne la prova. Fu primo attore della Compagnia Perotti e Fini e di quella Goldoni e Riva. Lo vediam padre nobile e tiranno assoluto, il ’24, nella Reale Compagnia Sarda, nella quale restò poi anche il ’25 a vicenda col Boccomini. Fece parte della Reale di Napoli, e dopo una società con Gaetano Nardelli, fe’ compagnia da solo.

Lasciata l’arte si diede a fare il maestro di recitazione ; e tale lo vediamo il ’46, accademico onorario de’ filodrammatici di Siena, nel qual tempo diede alle stampe co’ tipi del Mariani a Firenze, e dedicò alla incomparabile attrice Adelaide Ristori, alcuni Cenni sopra l’arte drammatica.

Ghirlanda Annina. Artista pregiata per le parti di prima donna, non sappiam dire se moglie o figliuola del precedente, {p. 1016}recitava la quadragesima del ’32 a Livorno nell’ I. e R. Teatro Carlo Lodovico ; nel qual tempo le fu dedicato da A. C. (Angelo Consigli ?) il seguente sonetto :

[http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img173.jpg]

Fra due di loro che in Parnaso han seggio
per donna egregia fier contrasto nacque ;
Euterpe disse : « è mia ! Suoi pregi veggio
nella divina voce : » e qui si tacque.
Talia rispose : « E che ! cederla deggio,
se nella comic’arte ognora piacque ?
Titoli ho troppi, teco non gareggio,
sol per me d’Ipocren gustò dell’acque.
Ah no ! Non mai ! L’Ambiziosa è quella
che a me cara la rese, e se non fia,
lo dica il pianto di Malvina bella.
Alle scene costei, Annina è mia ! »
Così parlò la comica sorella ;
applauser l’altre, e trionfò Talìa.

{p. 1017}Giagnoni Domenico, attore brillante de’ più vivaci e garbati, nato a Cecina (Pisa) il 27 giugno 1846, da Bartolomeo e da Pini Aurora, morì a Porta al Borgo, comune di Pistoia, di Émbolo, il 7 agosto 1883, compianto da quanti lo conobbero. Sul feretro, Giovanni Procacci lesse le seguenti parole, che dicon chiaro e bene le lodi del povero morto :

 

Spesso, ahi troppo spesso, ebbi a dire l’ultime parole d’addio sul feretro di carissimi amici ; ma non fu mai pietà simile a questa.

Dopo i felici studi de’ tuoi primi anni e le alate speranze che li accompagnavano ; dopo il getto magnanimo che tu facesti d’ogni grado accademico per abbracciarti alla grande e funesta Deità dell’arte ; dopo aver lietamente sostenute le ansie e le privazioni a cui essa sottopone i suoi devoti, mirarti oggi, o amico dolcissimo, nell’età che suole essere più fruttuosa e serena, inerte cadavere dinanzi a noi, è pietà inenarrabile.

Lontano fatalmente dalla famiglia, a cui non può mai pienamente sostituirsi nessuna amicizia, anche se rara e quasi favolosa come fu quella che tra molte ti sapesti meritare, tu muori, o amico, con l’amarezza nel cuore e il pianto negli occhi ; tu che eri avvezzo a sentirti sonare dintorno il vasto riso dei popolosi teatri, suscitato dalla tua comicità arguta e gentille.

Ma chi soltanto prese diletto di te, come artista teatrale, non conobbe che la minor parte della mente e dell’animo tuo.

Oh quanti che grandeggiano autorevolmente sulla scena del mondo, potrebbero invidiare il senno e il cuore di questo attore brillante, di questo Commediarolo, come si chiamava modestamente da sè, quando sentiva gli applausi degli amici rapiti dalla sua parola colta e vivace.

Ma il dolore che ha colpito tutti, senza eccezione, i migliori artisti e scrittori d’Italia all’annunzio della tua morte, è il più grande elogio su questo feretro.

A me, vecchio amico della tua famiglia e di te, tocca oggi di darti piangendo l’ultimo addio, a nome dei tuoi cari, per mandarti l’ultimo bacio.

Ahi come ogni giorno ci si fa più vedova e disfatta la vita !

Vale, amico desideratissimo !

E a dar prova luminosa della vivacità e festività dell’indole sua e del suo ingegno, festività e vivacità che trasmetteva poi da la scena in tutto il pubblico, a lui prodigo sempre delle più affettuose dimostrazioni, riferisco parte della gaja lettera che scrisse da Napoli ad un amico, Antonio Fiacchi, il 20 aprile del…. (senza anno) :

{p. 1018}È una mattinata [incantevole], il sole, « ministro maggior della natura, » già sorge sfolgorante dai balzi d’oriente…. « inebriarsi di sole a Napoli, » ha detto Dumas ; il Vesuvio, che io scorgo benissimo dalla mia finestra, mi sembra l’arciprete dei monti che con la cotta di neve incensa le stelle. Ho una bella passeggiata in prospettiva, poi pittura all’esposizione, masica a volontà e belle donne dappertutto…. Musica, pittura e donne…. tre belle cose di cui tutti parlano senza mai intendervi nulla. Non ti lascio sotto silenzio li maccaroni, specialità unica e squisitissima del paese, e nota maccaroni non maccheroni, perchè un tale, che ne assaporava un piatto stupendo, entusiasmato all’ultima forchettata, esclamò : « Ma voi non siete cari, ma…. caroni….  » la qual cosa combina anche con l’etimologia greca Μαχαρ, che vuol dire felice, beato, carissimo ; e non ti taccio che conto pure sopra una mezza dozzina di finocchi, squisitissimi a Napoli quanto i maccaroni, e chiusura inevitabile del pranzo. Questo frutto è indicato, raccomandato anche dalla Scuola Salernitana.

« Semen foeniculi fugat et spiracula culi emendat visum stomachum confortat anisum copia dulcaris anisi si melioris….  » e al sole…. (così detto perchè è solo !), ai maccaroni e al finocchio aggiungi una buona dose d’allegria, che non può mancare, perchè conseguenza dell’atmosfera tiepida calma serena che ti circonda e che ti rende amabile (vedi difficoltà !!), contento, felice.

Nulla è sano come la gioia « la gaieté est la politesse du cœur ! »E per ultimo al teatro, al campo della gloria ove lavoriamo Dora (il gran successo della stagione) e là ne attende un pubblico scelto, elettissimo per ricolmare di applausi, di bene ! di bravo ! che sono il paradiso dei poveri comici. E qui finisco, che di quest’acqua « sat prata biberunt » una bistecca mi attende, una buona bottiglia mi chiama ; e la bistecca è il mio debole che mi rinforza, il vino la mia passione che mi rasserena, dappoichè, come dice Byron, è solamente in fondo al bicchiere che non si trovano inganni, e « un peu de vin pris moderement est un remede pour l’ame et pour le corp. » Addio dunque, opprimi, ammala anche Alarico (nome teutonico che vuol dire molio potente) e di’ lui che sto bene quantunque sia sempre magro come una colonna gotica, ma la magrezza non guasta, anzi interessa ; vedi Paride magro, come lo dipinge Virgilio, Eneide ; Leandro magro…. come narra la favola, Abelardo magro come descrive Rousseau, Romeo magro come lo dipinge Shakspeare, Iacopo Ortis non lasciò tempo al tempo di farlo ingrassare come narra Foscolo, e se il Petrarca era grasso gli è perchè era canonico e non corrisposto…. ci scommetterei, malgrado i suoi

« Fiori fronde erbe antri onde ombre auri soavi »

fra le quali ti mando a prender fresco e ti saluto e ti salutiamo, vi salutiamo e sono l’amico

MENICO.

A Domenico Giagnoni, sepolto nel Camposanto della Misericordia di Pistoia nella cappella sotterranea di S. Francesco, fu eretto un monumento in marmo (colonna e busto) nella corsìa del cimitero stesso.

Giagnoni-Ajudi Pierina, moglie del precedente, figlia di Amilcare Ajudi, attore brillante (V.), e di Carolina Caracciolo (V.), fu una delle più forti attrici giovani, se non la più {p. 1019}forte del suo tempo. Dopo di essere stata, giovinetta, nel Collegio Ratti di Bologna, preconizzata cantante, entrò in arte, dando subito le più belle speranze di sè colla figurina incantevole, col profilo delicato, coi capelli biondi e vaporosi, colla voce armoniosa, colla coltura non comune, coll’anima d’artista. Divenuta sposa a Domenico Giagnoni, cominciò a entrare nel campo delle giovani celebrità, passando dalla Compagnia Biagie Casilini in quelle della Marini, della Pedretti, di Bellotti, di Monti, delizia del pubblico e del capocomico. E Pierina Giagnoni, nel vigor degli anni, splendente ancora al lume della ribalta, come una delle maggiori stelle, dovè in pochi dì soccombere a Genova, dopo tornata dall’America, il 4 gennaio del’ 90. – Era nata nel’ 54.

Fra molte cose belle e gentili che improvvisò Felice Cavallotti sul feretro di lei, queste bellissime riferisco, le qualisintetizzano, come niuno potrebbe meglio, i grandi pregi dell’artista incantevole, squisita :

Pierina Giagnoni era davvero una predestinata dell’arte. Elle veniva in linea diretta da quella splendida pleiade di artisti che ora non son molti anni lasciò credere un momento avverata la superba speranza di giorni di gloria per il teatro italiano, e della quale solo pochi superstiti dispersi, affannosamente cercanti uno dopo l’altro meno ingrato cielo, restano ad attestare che la speranza non era nè temeraria nè vana. E di quei giorni, in cui artisti ed autori, veri autori e veri artisti, pareano spuntare dal suolo, in cui la febbre dell’arte, la curiosità d’ogni artistico evento affollava i teatri, rendeva secondi i confrontie le gare di quei giorni, una luce avvolgeva ancora la Giagnoni : cosi la sua mirabile artistica natura s’era venuta via via formando alle perfezioni di un’arte, che non già sostituiva al convenzionalismo antico un altro convenzionalismo più melenso e più povero, mache assorgeva dalle raffinatezze e dalle delicatezze più squisite del gusto e della modernità alle energie, agli impeti, alle lagrime della passione, alle grazie della comicità più festiva, ai fascini di un’idealità che si rispecchia nel vero.

Tale fu la tua arte, o povera gentile Pierina, su questa l’arte che sentivi, che non indarno, con tutti gli entusiasmi della giovinezza adorasti, perchè di lei, e della tua vita, {p. 1020}non ti fosse ignota nessuna delle gioie, delle soddisfazioni, delle ebbrezze, delle vertigini, mal giudicabili da coloro che l’arte non ebbe baciati in fronte del suo bacio infiammato, consumatore, divoratore.

Giandolini Giuseppe. Padovano, fu artista di assai pregio per le parti di primo attor tragico. Nell’Aristodemo, nel Filippo e nel Creonte dell’Antigone di Alfieri, come nel Marc’Antonio dell’Ottavia di Kotzebue, fu reputato artista grande, e grandissimo poi nel Filippo in cui si lasciava addietro, a detta degli intelligenti, parecchi de’più forti artisti del suo tempo.

Gian Farina. (V. Farina Giulio Cesare).

Giannini Olga. Uscita dall’Accademia fiorentina dei Fidenti, esordì amorosa con Adelaide Tessero, colla quale stette sei mesi, per passare seconda donna con Ermete Novelli. Fu poi, nello stesso ruolo, un anno con Eleonora Duse (da cui si tolse per non avere voluto seguirla all’estero), e tre anni con Francesco Pasta ; compiuti i quali fu scritturata prima donna assoluta da Ermete Novelli, con cui si trova tuttavia. La venustà delle forme, la piacevolezza del volto, la ricchezza ed eleganza del vestire, e l’amore non mai attenuato dell’artesua la fecero, al fianco di tanto maestro, coprir degnamente il suo posto, festeggiata dai pubblici vari d’Italia e forestieri.

Giarattoni……. Di lui non abbiamo altra notizia che indue lettere di Scipione Garimberti da Parma al Duca di Modena del….. (senza data) e del 21 maggio 1655. Il Duca di Modena aveva richiesto il Giarattoni al Principe Alessandro Farnese, credendolo di lui dipendente. Ma non sappiamo nè in qual compagnia fosse, nè se poi passasse in quella del Duca : sappiam solo che recitava le parti del Dottore.

{p. 1021}Giaratoni o Geratoni Giuseppe, ferrarese, nato verso il 1639, figlio, forse, del precedente, si recò a Parigi come stipendiato nella Compagnia italiana. Dopo qualche anno di servizio, esordì nella suite du festin de Pierre, il 4 febbraio 1673, col nome e il costume di Pierrot, tipo di servo sciocco, che il Geratoni rappresentò con molto successo, e sempre come stipendiato, sino all’anno 1684, in cui fu ricevuto come attore socio, e recitò il Pierrot in francese nell’Arlequin empereur dans la lune, ove sono scene deliziose di una comicità irresistibile, specialmente tra Pierrot e il Dottore. Soppresso il teatro italiano nel 1697, egli si ritirò in un suo piccolo possedimento ne’ dintorni di Parigi, acquistato poco dopo il suo matrimonio dalla moglie, di cui non sappiamo il nome, ma appartenente a buona famiglia, e un po’ in là cogli anni, come ci avvertono i fratelli Parfait (op. cit.).

Qual posto occupasse Giuseppe Geratoni nella Commedia italiana non è facile determinare. La poca importanza che si dà alle scarsissime notizie di lui, parmi in aperta contraddizione colle tante incisioni, specialmente del Watteau, che riproducono i nostri comici a Parigi, nelle quali Pierrot occupa sempre un de’primi posti, quando non sia il primo addirittura, {p. 1022}come nel quadro de’Comici italiani dello stesso Watteau, che riproduco nella testata della lettera G, in cui egli è segnato a dito non so se qual capocomico o principale artista della compagnia, diritto in sul mezzo della scena, a cui fan cerchio tutti i colleghi ne’lor varj costumi.

Giardini Antonio. Artista singolarissimo per le parti di brillante, che cominciò a sostenere con plauso il 1837 in Compagnia Nardelli, in cui sposò l’attrice Carolina Fabbretti (V.), e ove stette sino al’ 40. Dal Nardelli passò con Voller e Bellati in società, che durò parecchi anni, dopo la quale formò solo una compagnia (1844) che gli procacciò lauti guadagni. Ma essi furon sempre inferiori alle ingenti spese ch’egli faceva, tali che determinaron la moglie a separarsi da lui per non finir miseramente all’ospedale. Bizzarro attore il Giardini ! Nobile nelle parti nobili, come quella ad esempio del Cavalier Ernold della Pamela goldoniana, egli era nelle altre, in quelle delle farse più specialmente, di un grottesco indefinibile. Si soleva dir nell’arte ch’egli possedeva lo scatolino delle voci : passava di continuo dalle note di basso profondissimo a quelle di soprano acuto, e da queste a quelle, talune proferendo col naso, altre con la gola, e tutte poi accompagnando con gesti inqualificabili, inguistificabili, ma, forse perchè spontanei e originali, ridicolissimi. E all’essere non pur sopportato, ma bene accolto dal pubblico, dovè certo contribuir non poco la diligenza ch’egli metteva nello studio delle singole parti, in cui nè aggiungeva, nè toglieva mai sillaba.

Giechino (il).Messer Francesco detto il Giechino si trova citato dal Bertolotti fra i commedianti che nel 1591, di passaggio a Mantova, presero stanza all’osteria del Cappello.

{p. 1023}Gigli Clarice. È quella madama Clarice, a cui scappò il gatto, perito poi in mare, prima amorosa della Compagnia di Florindo dé Maccheroni (V.), colla quale Carlo Goldoni fe’ il viaggio in barca da Rimini a Chioggia l’anno 1721.

Il Loehner nell’Archivio Veneto dell’ ’82 pubblica una Minuta di stromento fra il Duca di Mantova e lei, che mette ben conto io qui riferisca per intero :

Essendo io restato così pienam.te sodisfatto della virtù e servizio prestatomi dalla Sig.ra Clarice Gigli, e dalla Sig.ra Lucrezia sua Madre, mi sono volontieri e di buon animo risoluto di mostrare ad esse un attestato della mia munificenza à loro utile e vantaggio, con le ingionte Propositioni.

Prima propongo alla Sig.ra Clarice il mio attual servizio con l’annuo stipendio di Doppie trecento all’anno, et in oltre m’obligo à luogare le sue due sorelle della medes.ª nelgrado di loro inspiratione, si di monacare, come di maritarsi, fitto di casa p habitatione della med.ª S.ª Clarice, come della sud.ª sig.ª Lucretia sua madre coll’obligo di habitare continuam.te in Mantova, nè ricevere impegni di recita in qualsiasi Teatro, ma solo restare alla sola ed autorevole disposit.e dell’A. S. con andar a recitare dove Ella comandarà ; ò pure

(secondo) Assignarà S. A. alla med.ª S.ra Clarice Doppie ducento all’anno di Stipendio, e fitto di casa, lasciando alla stessa libertà di ricevere impegni di recite con la permissione assoluta di S. Alt.ª che benign.te assentirà, ancora portarsi à Venezia à recitare etiam nel Teatro dei SS.ri Grimani adempito che habbino questi SS.ri alle debite convenienze coll’A. S. p le cose già passate coll’impegno di luogare la detta Sig.ra Clarice e sue sorelle, promettendo a non mancare alla S.ra Lucrezia Madre, della sua clement.ma protet.ne volendo ritornare alla Patria, luogate che sieno le figlie, S. A. le farà assignare in Firenze 200 Ducatoni all’anno d’assignam.to

Terzo. Quando la S.ra Clarice volesse habitare à Firenze sua Patria, coll’obbligo di esser dedicata di serva di S. A. Ser.ma, la med.ª A. S. dispone farle assignam.to di doppie cento all’anno e lasciarla in libertà d’andar à recitare in qualsivoglia Teatro, ricevendone però sempre antecipatam.te il benigniss.º placet da S. A. S. chè si degna compiacerli, che possa andar à recitare anco ne Teatri de SS.ri Grimani, adempito che habbino però alle convenienze di S. A. come sopra.

Quarto, non volendo in fine la Sig.ra Clarice accettare alcuno di questi trè progetti, S. A. risolve di continuarli la sua benig.ma protettione, correndo però l’obligo, si ad essa che alla madre, non ricevere servitio di qualsisia Pupe anco loro naturale, nè andar à recitare positivam.te à Venetia in alcun Teatro, protestandosi S. A., che, contravenendo sotto qualsivoglia colore e titolo à gl’ordini, che gl’impone, incorrerano giustam.te nella sua indignatione.

Io Ferdinando Carlo di Mantova aff.mo qnto di S.ª

Giovan Maria Romano. È ricordato da Carlo Trautmann nel suo eccellente studio sui comici italiani in Baviera, come artista, il quale, insieme a Silvestro Trevisano e a Barbetta Alessandro e figlio, andò a unirsi l’anno 1574 nel Castello di {p. 1024}Trausnitz presso Landshut, a due saltatori, che vi furon chiamati un anno prima, dopo la fuga di Massimo Trojano, il famoso cantante, suonatore e dilettante comico. È facile comprendere come il Giovan Maria e compagni nè si limitassero a’salti, nè al recitar commedie ; ma l’una e l’altra cosa legassero assieme, in modo da farne una sola…. Tutti i primi comici, sappiamo, furon mimi e suonatori e cantanti ; e l’agilità dei movimenti era tanto apprezzata, quanto la trovata di un motto arguto…. Lo stesso Fiorilli, il famoso Scaramuccia, è ricordato negli annali del teatro, con parole di alta ammirazione e di alto stupore ancor più per lo schiaffo ch’egli sapea dare col piede a ottantatrè anni, che per la prontezza e sottigliezza delle risposte. E giacchè si è nominato il Castello di Trausnitz, non è male metter qui, desumendole dal Trautmann, alcune parole sull’affluirvi de’nostri primi commedianti.

Nel febbraio del 1568, correva ovunque il fausto messaggio della promessa di matrimonio tra il principe imperiale Guglielmo e Renata di Lothringen. Alberto V aveva designato agli sposi, come residenza, Landshut, la primitiva residenza dei Duchi della Bassa Baviera ; una città, a detta del mercante Giorgio Huffnagel, più d’ogni altra attraente e per la gaiezza delle campagne, e per la ubertà del suolo e pel vino eccellente e pel grano e pel latte e per…. tutto. Dal giardino di Corte si sale su al Castello di Trausnitz, che il Principe, assieme a Federigo Sustris, un olandese di nascita, venuto a posta dall’Italia, ha con fine sentimento di arte ornato di quadri magnifici, vestendolo de’ più eleganti e civettuoli abiti della Renaissance italiana, e rendendolo così un luogo di delizie e di ricreazione : un incantevole rifugio, dove la natura e l’arte e il ricordo de’ tempi antichi avvincono fortemente il cuore del visitatore. Da un libro di note, fortunatamente conservato dell’anno 1575, sappiamo che al seguito della Duchessa di Lothringen, oltre a tagliatori di pietre preziose, orefici, pittori, sarti francesi, spagnoli e tedeschi, guardiani di leoni, domatori di leopardi, ecc., erano cantanti e musici. Le feste si succedevano alle feste. {p. 1025}Giostre, tornei, accademie, giuochi di anelli, assalti a’ castelli di neve colle dame riccamente abbigliate alla turca…. e commedie. Ma le commedie erano allo stato primitivo, e noiose per giunta : si trattava di dialoghi più o meno pesanti scritti da poeti di città e rappresentati da scolari delle parrocchie di S. Martino e di S. Jobst, dinanzi ai quali la Corte era profondamente seccata. Benvenuti dunque gl’italiani : e i primi a mostrare la differenza grandissima tra quella loro pesantezza e la nostra vivacità furono Massimo Trojano, Orlando di Lasso e Battista Scolari. Massimo Trojano, quando appunto la commedia italiana pareva metter per opera di questi tre, intelligentissimi, radici solide e profonde nella Corte (si vuole che lo Scolari fosse uno Zanni perfetto), spirito bizzarro, irrequieto, indipendente, rimproverato da un collega in Landshut, il violinista italiano Battista Romano a cui doveva danaro, per la sua vita oziosa e sregolata, tócco nell’orgoglio, appostò un giorno l’odiato nemico, e lo freddò con un colpo di fucile. Datosi poi alla fuga, perseguitato, ricercato dalle genti del Duca, non sappiam più che sia di lui accaduto…. Troncata così colla esistenza in Corte di Massimo Trojano, la esistenza della buona commedia dell’arte, e omai non potendo nè sapendo più la Corte rinunciarvi, si ricorse ipso facto a’ comici mercenarj ; e data da questo punto la sfilata numerosa e non mai interrotta degli artisti italiani, che a coppia a coppia, per solito (un Magnifico, o Pantalone, e uno Zanni, ossia : un padrone e un servo), si recarono a quella Corte per rallegrare co’ dialoghi, colle canzoncine, cogl’istrumenti, colle capriole, quegli alti personaggi che ne andavan per la gran gioia in visibilio.

[n.p.][http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-02_1897_img179.jpg]

Quanto alla paga annuale, sappiamo di due a cui furono assegnati 130 fiorini : al nutrimento, vestiario e alloggio provvedeva la Corte. Uno di essi era designato quale Zane il saltatore, l’altro, col suo vero nome di Venturino, che apparve già a Landshut nel 1572, e che sembra sostenesse collo Zanni Scolari, la parte del Magnifico. A questi si aggiunser poi e il Barbetta col suo ragazzo, e Silvestro, e Giovan Maria. {p. 1026}Comprese le mogli di due di essi, di Giovan Maria, cioè, e di Venturino, e compreso Battista Scolari, la compagnia dunque si compose di cinque uomini, due donne e un ragazzo.

Ma le rappresentazioni non andavano troppo in lungo ; chè, nell’anno 1575, visto il dissesto nell’amministrazione di Corte (il giovane principe, non troppo misurato nelle spese, aveva già un debito di 229,375 fiorini), si determinò di licenziare 51 persone del seguito, fra le quali e i nostri saltatori e lo stesso Scolari : e con essi probabilmente se ne andò gran parte della vita gaja e gioconda di Trausnitz. Fu l’anno dopo, 1576, che il Duca, forse a perenne ricordo di quella giocondità, omai dileguata per sempre, fece istoriare il soffitto della camera da letto, di cui diamo un saggio nella qui unita tavola colorata, e la grande Scala dei buffoni (Narrentreppe) con le più comiche e svariate scene della commedia dell’arte ; e di quella probabilmente rappresentata da Orlando di Lasso, da Giovan Battista Scolari e da Massimo Trojano, della quale ci ha lasciato quest’ultimo in un suo dialogo la descrizione particolareggiata.

Giovanelli Giuseppina, la vera Meneghina del teatro milanese, nata a Rho il 1846, e venuta a Milano poco più che ventenne, fu donna di servizio prima, poi cameriera. Sebbene ella non conoscesse pur le lettere dell’alfabeto, mostrò sempre tale spirito arguto, tanta giocondità spontanea, che fu un giorno notata, mentre faceva la spesa dal pizzicagnolo, da un filodrammatico dialettale, che la persuase a entrare nella Società di San Simone come attrice, dove ella dopo tre sole prove mandò in visibilio il pubblico. Da quello di San Simone passò a un altro teatrino di via Castelfidardo, ove conobbe Edoardo Giraud che le insegnò a leggere ed a scrivere, poi finalmente al Teatro Milanese del quale fu una vera colonna fino al giorno della sua morte, avvenuta per sincope, a Firenze, sulle scale di casa mentre tornava a mezzanotte dall’Arena Nazionale.

{p. 1027}Riferisco le parole del Corriere della Sera del 13-14 aprile 1890, come quelle che rispecchiano fedelmente il sentimento del pubblico e della critica verso la forte e originale artista :

Bastava che la Giovanelli si mostrasse sulla scena perchè il teatro si mettesse di buon umore. Con lei entrava nel dialogo una nuova, una speciale vivacità, una ilarità prepotente e sonora, lo spirito, il disegno, il colore della caricatura popolare. Chi non ricorda le sue crinoline, le sue cuffie, i suoi scialli, gli scozzesi inverosimili de’suoi vestiti, che erano spesso piccoli capolavori di imitazione e di ricostruzione di mode dimenticate ?

{p. 1028}La Giovanelli fu dei primi attori che costituirono la prima Compagnia Milanese, una ventina d’anni fa, sotto la direzione di Cletto Arrighi, e si rivelò nel famoso Barchett de Boffalora. Per lei la Palmira Spinazzi ebbe i trionfi che dovevano avere poi il Tecoppa, il Pedrin, il Massinelli, il Pastizza e gli altri personaggi proverbiali del Ferravilla. Per parecchio tempo anzi essa fu appunto nella primitiva compagnia quello che è il Ferravilla nella sua : il personaggio più atteso, più gustato, più applaudito della produzione.

In una nota manoscritta, fra le carte del conte Paglicci Brozzi, si legge :

La Giovanelli era stata maritata, ora era vedova. Partorì la sua bambina nel camerino suo del Teatro Milanese. Mentre si rappresentava una commedia di Cletto Arrighi, I tri c e i tri d del buon gener, in cui ella faceva la parte di una mamma di ballerina ghiotta e sensuale, si volse ad una quinta ov’era Cletto, e gli disse piano : « ho i dolori. » Non volle che la rappresentazione cessasse, e appena finito di recitare, ritiratasi nel camerino, diè alla luce una bambina. (Notizia avuta dallo stesso Cletto Arrighi).

Giovannoni Carlo, torinese, fu dall’amore di un’attrice condotto sulle scene, ove riuscì comico di qualche pregio nelle commedie all’improvviso. Fu all’inizio della sua carriera in compagnie di niun conto, poi, fattosi esperto dell’arte, potè, liberatosi dal vincolo di quella donna, entrare nella Compagnia Medebach, in cui trovavasi ancora l’anno comico 1781-82. Dallo spoglio del Giornaletto de’teatri (Teatro appl., vol. 3°, pag. XI) il Giovannoni appare nel 1795-96 in Compagnia Pellandi al S. Angelo di Venezia con una Teresa Giovannoni, moglie probabilmente, o figlia.

Giraud Edoardo, la più bella macia del teatro milanese, nato a Milano da un negoziante di seta, entrò giovinetto nel collegio di Gorla minore, compagno ai Dal Verme e ai Borromeo, passando poi al liceo Longoni, poi al politecnico di Zurigo, dov’ebbe a professore l’ex-ministro De Sanctis, e dove compiè i suoi studi.

Combattè per l’indipendenza d’Italia il’ 59 ne’cacciatori delle Alpi, il’ 60 nel 49° reggimento brigata Parma, il’ 66 nel 5° reggimento garibaldini, comandato dal Chiossi, che a Bezzecca s’ebbe nome di massacrato. Egli e certo Enrico Mangili eran l’anima del reggimento, il quale ne’ momenti di tregua faceva a loro circolo : la musica suonava negl’intermezzi {p. 1029}edessi inventavan chiassate di ogni specie. Quando a Piamo, la sera, giunse la guida a portar l’ordine di marciare in avanti per Bezzecca, Mangili faceva la predica, ed egli il sacrestano. Fu viaggiatore di filati nella Ditta Donatelli e Rognoni, impiegato dal Sonzogno, impiegato alle ferrovie, e finalmente comico, prima in Compagnia Bissi, poi in quelle di Santecchi, Stacchini e Papadopoli, sino al’ 70 in cui entrò a far parte di quella dialettale milanese creata da Cletto Arrighi, di cui fu per alcun tempo l’anima. Come artista il Giraud è ricco di pregi singolari ; la spontaneità, la giocondità, la versatilità. Non v’è stato personaggio dinanzi al quale si sia ritratto spaurito. Aristocratico e barabba, amoroso e tiranno, vecchio e giovane, cantante, marionetta, pagliaccio : tutto ei tentò e tutto eseguì con una vita, con una accuratezza, con una passione, con una slancio incredibili. Entrò in una gabbia di leoni del circo Bidel, fu istruttore drammatico dei matti alla Senavra, ed è astemio.

Al pari del francese Delaunay, fa ancor l’amoroso a circa sessant’anni ; talvolta ancora si avventura al salto mortale. Noi gli auguriamo di non esser secondo al collega Fiorilli, il grande Scaramuccia, che alla Comedia italiana di Parigi dava ancora il famoso schiaffo col piede a oltre ottant’anni.

Ai pregi dell’attore vanno congiunti quelli dell’autore ; chè il Giraud ha dato al teatro milanese gran numero di lavori vuoi originali, vuoi tradotti, o ridotti, o rinnovati. Tra gli originali, si notano : Qui pro quo, Luis Beretta, Montecarlo, Vita perduda, El Portinar, In soffitta, El servitor del Donato, Do moros, El Garibaldin, de’quali alcuni ancor vivi sulla scena ;

{p. 1030}tra gli altri non suoi di sana pianta, ve n’ha di quelli che non solamente vivono ancora, ma son fra le delizie del repertorio, come L’ultim gamber del Sur Pirotta, I duu ors, El Minestron….

Girelli Giacomo e Anna, veronese il primo, suggeritore e attore, fu con Pietro Rossi, col Lapy, colla Battaglia e con altri. Scrisse cose teatrali non ispregievoli, e ne fa fede la Penelope, tragedia tratta dall’originale latino dell’ abate Andrea Friz, tragedia stampata a Gorizia da Valerio Valeri il 1780 in cui sono versi di non comune bellezza. Sposò l’Anna in Piacenza il 1768, giovinetta quindicenne di quella città, la quale da lui educata all’arte, riusci artista di molto pregio per le parti di seconda donna, e talvolta anche di prima. Era seconda donna il 1781-82 nella Compagnia di Costanzo Pizzamiglio.

Giulietti Giulio, ferrarese. « Dall’arte meccanica di fabbricator di mastelle, volle il Giulietti – scrive il Bartoli – passar sulle scene a recitare, e fecelo prima cogli Accademici della sua Patria ; e poscia unitosi alla Truppa di Pietro Colombini l’anno 1768, incominciò a farsi conoscere anche fra’commedianti. Egli s’esercita con bravura nelle parti gravi ; e ne’ caratteri serio-faceti si fa conoscere per un comico d’abilità. Sono parecchi anni che trovasi in Napoli (1781-82) impiegato in uno di que’ Teatri, facendosi onore e procurando a sè stesso una mediocre fortuna. »

Giulini Bernardo. Nome d’arte di Bartolommeo Golfi di Arezzo, nato il 1739 da illustre famiglia. Destinato alla carriera ecclesiastica, deliberò di abbracciar quella del teatro, fuggendo di casa, e assumendo un nuovo nome per sottrarsi alle ricerche dei parenti. Esordì nella Compagnia di Cristoforo Merli, e, dotato di bella persona, di bella voce e di forte intelligenza riuscì ben presto un ottimo padre nobile e generico primario, disputato dalle migliori compagnie, quali della Battaglia, della Colleoni, di Andrea Bianchi. Scrisse varie opere {p. 1031}teatrali, rimaste lungo tempo in repertorio, tra cui citiamo : Teresa e Gianfaldoni, Aver moglie è poco, ma il guidarla non è da tutti, Pare impossibile, ma tutto è vero, Giulio sordo e muto maritato a Parigi (seguito dell’Abate de l’Epée), e Balduino tiranno di Padova, tratto da un ballo ch’egli vide alla Scala di Milano nel 1803. Mortogli il padre, si restituì nella città natale, ove, ad acquetar l’anima sua, volle compier la volontà dell’estinto, vestendo l’abito sacerdotale, e celebrando la prima messa del 1806.

Morì nel 1817, esempio di carità evangelica, amato e pianto da quanti lo conobbero.

Giussani Carlo. Milanese. Riuscito nella maschera del Brighella un mediocre imitatore del celebre Atanasio Zanoni, esordì nel 1755 in Compagnia di Vincenzo Bazzigotti. Fu il’ 76 in quella di Pietro Rossi, dove recitò anche altre parti nelle commedie studiate. Passò con la Battaglia in Venezia, poi con Girolamo Medebach (1781-82). A detta del Bartoli, pare chela imitazione dello Zanoni stesse tutta nel ripetere le sentenze e gli apoftegmi che vediamo alle stampe col titolo di motti brighelleschi. « Il tempo però ed uno studio più assiduo – aggiunge lo stesso Bartoli – ci daranno questo comico ad un segno di perfezione che agevolmente da’ suoi talenti si può con gran certezza sperare. »

Glech Graziosa. Figlia di Giacomo Glech, attore modesto e pregiato nelle parti di padre e tiranno, e di generico primario che sostenne in compagnie principali come di Astolfi (1851), di Robotti e Vestri (’53), e della Ristori (’55), con cui stette venticinque anni. Era nato il 1815, e morì di paralisi a Palermo il mercoledì 18 dicembre del’ 78.

La Graziosa cominciò a calcar le scene da bimba, e la vediamo il’ 69 al Comunale di Modena, a fianco di Adelaide Ristori, rappresentare una parte difanciullo nella Giuditta, col babbo Oloferne, e quella di Delfino nella Maria Antonietta col {p. 1032}babbo Luigi XVI, sotto le cui spoglie egli s’andò acquistando meritato grido di artista egregio.

Le sue note biografiche son presto scritte : fu prima attrice giovane con Pietriboni e con Bellotti, poi prima attrice con Emanuel, in Compagnia Nazionale, e con Cesare Rossi. Lasciò il’ 91 il teatro, per darsi alla quiete domestica, mutandosi di signorina Glech in signora Rosellini a Genova, dove dimora tuttavia. Per invito del Comitato drammatico dell’ Esposizione di Torino (anno 1898) ella recitò a quel teatro Carignano il Pater di Coppée.

Come artista, la Glech deve molto agli ammaestramenti di Giuseppe Pietriboni, col quale mosse ufficialmente i primi passi nell’ arte, diventando una delle più gradite prime attrici giovani del nostro teatro. Assunta al grado di prima donna assoluta, seppe conquistarsi uno de’ primi posti nell’arte per intelligenza ed eleganza, e per recitazione tutta moderna, vera ed efficace.  – Una delle ultime parti che le dieder fama di eletta artista, fu quella di Giacinta nella commedia di Luigi Capuana.

Gnochis Alessandro. Nome di guerra di Alessandro Alberghetti di Bergamo, esperto Brighella prima, poi Pantalone. Fu qualche tempo con Onofrio Paganini, poi capocomico egli stesso. Si trovava il 1760 al teatro della Sala in Bologna, ove pubblicò e dedicò a Francesco Albergati, allora Gonfaloniere di Giustizia, Le stravaganze del caso, intermezzo musicale che egli eseguiva in compagnia. Sosteneva il Gnochis, oltre al carattere di Pantalone, parti serie nelle commedie studiate, {p. 1033}ecantava negli scherzi in musica. Il 1781-82, già vecchio, ma pur sempre egregio artista, era in compagnia di Francesco Paganini.

Gnudi Vincenzo. Bolognese. Attore di qualche pregio per la maschera del Dottore che sosteneva alternativamente con quella del Brighella. Il 1777 era Dottore in Compagnia di Francesco Panazzi, e fece il maggio un corso di recite al Teatro Comunale vecchio di Modena. Aveva con sè la moglie Paolina nata Faccioli, che recitava le seconde donne al fianco di Chiara Cardosi. Fr. Bartoli ha parole di lode per entrambi.

Gnudi Elisabetta. Bolognese. « Recitò sempre nel carattere della serva prima colla Compagnia di Nicola Petrioli ; e poscia in quella di Onofrio Paganini. Passò in Ispagna con quest’ultimo ; ma seco non volle ritornare in Italia. In Cadice stabilì il suo domicilio aprendo una bottega ad uso caffè. Perdè la vista, e miracolosamente tornò poi a ricuperarla. Fu grata sulle scene per l’avvenenza del suo personale, e per qualche prontezza nel suo brillante carattere. Vive in Cadice anch’oggi (1780) insieme al di lei marito, e la fanciullesca sua prole. » Così Francesco Bartoli. Molto probabilmente era figlia dei precedenti.

Gnudi Giuseppe. Artista egregio per le parti di tiranno tragico, soprannominato il Gnudon a cagione della sua erculea persona, nacque a Padova il 1760. Fu con Bazzi, Goldoni, Perotti, Dorati e Raftopulo. Appio nella Virginia, i due Creonti nel Polinice e nell’Antigone, Egisto nell’Agamennone e nell’Oreste, Nerone nell’Ottavia, Abner nel Saul dell’Alfieri ebbero nel Gnudi un interprete valentissimo.

Gnudi Carlo. Fratello, o figlio, del precedente, e per non esser con lui confuso, detto in arte il Gnudin, fu per varj anni primo attore e primo amoroso in compagnie di grido, quali del Goldoni e del Perotti ; morì il 1827.

{p. 1034}Goldoni Antonio. « Modenese, nacque – dice il Bartoli – da onesta e civilissima famiglia, occupando il padre suo la carica di cassiere nell’ impresa dei pubblici lotti di tutto lo Stato del Serenissimo di Modena. » Dallo spoglio fatto nell’Archivio comunale di Modena, più Goldoni col nome di Antonio risultan quivi nati nella prima metà del secolo scorso, ma non si può dire qual sia il nostro di essi. Dall’articolo del Bartoli non pare essere stato comico di molto pregio. Esercitatosi co’filodrammatici della città natale, passò a recitar sui pubblici teatri, sostenendovi la parte d’innamorato, in cui riuscì, nelle commedie premeditate e all’improvviso, sufficientemente. È sua la traduzione della vita di Tiberio Fiorilli (V.), scritta in francese dal Costantini (V.), e inserita nell’ operetta del Bartoli al nome di Scaramuccia. Il 1781 era in Compagnia di Luigi Perelli. Innamoratosi poi della Gaetana Andolfati, e ottenutala in moglie, si unì prima in società col padre di lei, poi condusse da solo una compagnia, colla quale percorse trionfalmente l’Italia, lasciando alla sua morte, che fu nel 1818, più di centomila franchi di eredità, e la fama di gran capocomico.

Troviamo il nome di Goldoni anche tra’ comici del secolo xvii, secondo un cenno dello Scherillo (op. cit), il quale ci riferisce, nè sappiamo da qual fonte, essere stato lui lo Scaramuccia del Callot. (V. Fiorilli Tiberio).

Goldoni-Andolfati Gaetana. Moglie del precedente, e figlia di Bartolommeo e Teresa Andolfati, nacque a Venezia il 1768. Quattordicenne appena, dava già, secondo il Bartoli, certa speranza di riuscire una pregevole attrice, unendo una rara bellezza ad una abilità singolare. Maritatasi ad Antonio Goldoni, e divenuta la prima attrice della compagnia, riempì del suo nome tutta l’Italia, sebbene avesse molto a lottar colle grandi stelle che tramontavano e le grandi sorgenti, fra cui l’Anna Fiorilli, non moglie ancora al Pellandi.

La Gaetana non ebbe mai chi la superasse nella Gabbriella di Vergy, e fu grandissima nella Merope del Maffei e in quella {p. 1035}dell’ Alfieri, di cui recitò poi col maggiore dei successi la Sofonisba, l’ Ottavia e l’Antigone. Alla Semiramide del Voltaire dovette forse il sommo della sua gloria. Nè la tragedia solamente coltivò con trasporto, ma il dramma e la commedia. Mortole il marito, avrebbe potuto condurre vita agiatissima fuor dalle scene, ma suo nipote, Luigi Riva, figlio di Francesco e della sorella sua maggiore, buon attore, ma rotto a’ vizj, la consigliò e persuase a continuar l’impresa, offrendolesi compagno nel condur la compagnia, che si chiamò appunto Goldoni e Riva. In pochissimi anni il capitale fu distrutto, e il Riva, morto a Trieste nel 1822 di apoplessia fulminante, lasciò un gran cumulo di debiti fatti nel nome di Gaetana, la quale ridottasi al {p. 1036}verde, avrebbe finito nella più squallida delle miserie, se una parente del marito, la celebre Bertinotti, non l’avesse ricoverata presso di sè e degnamente mantenuta fino alla sua morte che avvenne in Modena verso il 1830.

Gottardi Giovan Battista, primo attore celebratissimo, nacque a Verona sui primi del secolo. Le compagnie che l’accolsero furon due soltanto : la Napoletana Tessari e Socj sino al 1836, e la Real torinese dal ’36 al ’49, anno della sua morte. Scrive di lui il Costetti :

 

Attore di gran prestanza, dotato di voce squillante e armoniosa e di un temperamento artistico d’ assai vigore….. riusciva ammirevole negli impeti della tragedia, e nelle passioni del dramma….

{p. 1037}Giudizio che troviam confermato in queste parole del Regli :

Le parti passionate erano da lui preferite alle altre, e male non s’apponeva, poichè quando si ebbe in dono dal cielo un’anima non volgare e che sa infiammarsi ai più nobili affetti, d’uopo è lasciarle libero il campo e abbandonarla alle sue inspirazioni.

E più largamente il Colomberti :

…. possessore di una bella e proporzionata persona, di fisionomia dolce ed espressiva, e di non comune ingegno, con magistero esprimeva le varie passioni, e senza sforzo i molteplici caratteri del suo repertorio. Educato, gentile, senza albagia per il suo merito, era amato e stimato non solo da’ suoi fratelli d’arte, ma da tutti quelli che lo conoscevano.

L’attore Luigi Aliprandi che del Gottardi fu allievo, così ci descrive la morte dell’amato maestro :

In una calda giornata d’autunno volle intervenire ad una festa popolare, che davasi in un paese vicino. Egli non era più giovane, ma ambiva di comparirlo, e vi si fece condurre avendo indossato un abito elegante, ma leggiero assai. Sul tardi spirò un vento così glaciale che lo costrinse a ritornare, tutto tremante, in Torino, anche prima che la festa fosse finita. Venne curato affettuosamente ; eppure dopo pochissimi giorni, preso da polmonite acuta, spirò !

Ma in ciò non concordano nè il Costetti, nè il Colomberti, che lo fan perire di fiero scompiglio di umori.

Gozzi Giovan Battista. Artista egregio per le parti di Pantalone, nato a Venezia da famiglia civile, si diede all’arte « con dispiacere — dice il Bartoli — del Vescovo di Parenzo suo zio materno, oggi passato a miglior vita. » Fu nelle Compagnie di Nicola Petrioli, Onofrio Paganini, e Pietro Rossi, nelle quali s’era venuto acquistando un bellissimo nome non solamente nelle parti comiche, ma anche nelle serie. Si diede con fervore allo studio della storia sacra e profana che conosceva largamente, a detta del Bartoli. Tentò di abbandonar le scene, ma dopo sei mesi vi fe’ ritorno, con vantaggio dell’arte e soddisfazione del pubblico. Era il 1781 con Girolamo Medebach, e l’ ’82 con Luigi Perelli.

Gramatica Irma. Una disgrazia per me, e una fortuna pei miei lettori. Non ho mai sentito la gentile attrice che par {p. 1038}s’avanzi a gran passi nella via della gloria, e mi bisogna spigolar dagli egregi che hanno scritto di lei.

Sabatino Lopez :

Il giorno della consacrazione ufficiale, definitiva, non può tardar molto ; e sarà giustizia. Ancora poco tempo fa di lei si diceva : arriverà. Ora si dice : arriva. Fra pochi mesi si dirà : è arrivata. E allora non la sentiremo più, perchè quando in Italia un’attrice è arrivata…. parte.

E più tardi :

Neanche a farlo apposta, per conferirmi il diritto d’aspirare a un posto di veggente, venivano in carnovale i successi del Carignano di Torino, e in primavera i trionfi del Manzoni di Milano. L’attrice è arrivata. E andrà più in là, molto più in là ancora. Ha per sè molte cose : la giovinezza intanto…. e una gran passione per camminare.

E ancora :

….. la Gramatica adora la verità : ella è in teatro realista, naturalista. Realista nella ricerca, nello studio ; realista alla ribalta, nel risultato. Le sue sono riproduzioni, realiste, a volte eccessive. Ogni suo sforzo tende a questo : ad esser più efficace, più vera…..

Un particolare d’arte :

Per quanto magra e sottile, è forte e resiste alle fatiche. Ma alle fatiche di petto, di voce. I suoi nervi li scuote troppo e se ne risente. Le sue lettere dicon questo spesso, che recitare è per lei una gran gioja, ma è anche un martirio. E se sapesse dominarsi un po’, sarebbe bene. Il pianto a volte la soffoca davvero in scena ; le scendono giù dagli occhi le lacrime che essa si beve, e le spezzano la parola ; i capelli le si scompongono, le scendon giù per le spalle, cedono al pettine che li sosteneva, la voce si rompe, si fa rauca, ingrata.

E Morselli :

Non è completa ; essa stessa lo riconosce e lo dice ; ma dove si tratta di rappresentare al vivo e con semplicità invidiabile di mezzi le emozioni amare, le pene, e le lotte dell’anima feminile moderna, essa è ammirevole, talvolta raggiunge addirittura la perfezione.

E Spes ( ?) finalmente :

Irma Gramatica, intellettuale, colta, riuscì a comprendere il vero e, nell’ estrinsecazione di questo, rivelò tutte le virtù in un solo difetto che non cessa tuttavia di essere un pregio, nell’ esuberanza della passione ; riusci, affrontando ardue battaglie, a crearsi da {p. 1039}sè senza eclettismi o plagi, senza emulazioni grette e fatali, studiando i proprj mezzi non in correlazione con quelli degli altri, ma accontentandosi di tradurli in atto equilibrandosi e interpretando ciò che è consentaneo alla sua tempra nervosa d’artista, al suo carattere di moderna, in una parola alle convulsioni della sua anima. Studiando e agendo così conquistò la verità.

Quanto a note biografiche, Irma Gramatica ne ha pochissime. Nata a Fiume da parenti non comici (il padre, commerciante, entrò nell’arte dopo rovesci di fortuna, e fu suggeritore in compagnie primarie), fu educata a Staglieno. Da piccola era alcoolica, tanto che a quattr’anni fu trovata lunga e distesa per terra, per avere bevuto un’intera bottiglia di coca. A dieci anni fu in collegio alle Dorotee di Firenze, ove studiò a pena un po’ di musica, e d’onde si recò sul teatro, giovinetta inavvertita. Il 1887, diciassettenne, era con Cesare Rossi, amorosa, al fianco della Duse ; e sposò in quel torno l’artista, amoroso anch’egli, Arnaldo Cottin. Andò il ’95 prima attrice con Mozzidolfi e Marchetti, poi, a metà d’anno, a sostituir la Montrezza con Biagi. Passò il ’96 con Zacconi, che fu come la scintilla che le fe’ divampar in incendio (e specialmente nelle Anime solitarie di Hauptmann) tutto il tesoro d’arte che possedeva e sapeva di possedere ; poi con Raspantini e Reinach, prima attrice assoluta, coi quali si trova ancora. Pel futuro triennio, a cominciare dal ’900, si è unita con Talli e Calabresi in società, durante la quale giova credere ch’ella non sarà più una speranza e una promessa, ma una realtà. Ed è tutto.

Gramatica Emma. Sorella della precedente, cominciò a recitar bambina con Monti, poi, giovinetta, colla Duse, con la {p. 1040}quale stette più anni. La sua dizione infantile, spontanea, semplice, dettò articoli di ammirazione e di commozione a critici egregi. Prima attrice giovane l’anno scorso, in Compagnia Di Lorenzo-Andò, è passata oggi prima attrice con Ermete Zacconi.

Grandi Maria. Bolognese, detta la Pettinara, dal mestiere del marito, fabbricator di pettini. Fu una prima donna assai rinomata, specialmente per le parti goldoniane, che sostenne acclamatissima nelle prime città d’Italia, e a Malta, e a Barcellona, ora sola, ora in società con Vincenzo Bazzigotti, con cui stette più anni. Coll’ avanzar degli anni, si diede ai caratteri sostenuti di Madre e di Regina, in compagnia del figliuolo col quale si recò a Napoli il 1779, ove trovavasi ancora nell’ ’82.

Grandi Tommaso. Figlio della precedente, più noto in arte col nome di Tommaso il Pettinaro, fu comico espertissimo nel ruolo di primo attore, che sostenne a Venezia in Compagnia Lapy, emulando il rinomato artista Giuseppe Majani, sino all’anno 1774. Fu il ’75 in quella di Vincenzo Bugani fuor di Venezia, ove tornò il ’76 colla Battaglia al S. Gio. Grisostomo, rinnovando gli antichi entusiasmi, specialmente colla messa in scena del Pigmalione, melologo di G. G. Rousseau, tradotto dal Gandini, e che il Grandi recitò anche in francese colla moglie che vi sosteneva la Galatea (V. Arbes [D’] Antonia), non restando secondo a un bravo artista francese che l’anno prima avealo prodotto al S. Moisè.

Lasciata il ’79 la Battaglia, si recò a Napoli e vi fu acclamatissimo, ed ebbe l’onore di riprodurre il Pigmalione nella villa Reale di Caserta, chiamatovi da S. M., che gli fu larga di munifici doni. Nè questa del recitare fu l’arte sola del Grandi. Egli fu anche espertissimo del canto e del ballo ; e il Bartoli ci fa sapere come « alla stessa Maestà napolitana abbia pur egli fatto vedere un ballo spagnolo, che chiamasi il fandangh, eseguito da lui ad occhi bendati in mezzo a un numero d’ova, che movendosi ancora restavano illese, e non schiacciate da’piedi. »

{p. 1041}Fu anche autore di due azioni spettacolose, che non diede alle stampe : Il Naufragio felice, e I Prodigi d’amore ; e pubblicò un dramma per musica tratto dal Feudatario del Goldoni, e intitolato Le Gelosie villane.

Le quali cose tutte congiunte insieme, collocarono il Grandi fra i migliori comici del suo tempo.

Grandi…… Felice. Moglie del precedente, fiorentina, esordì nella Compagnia di Nicodemo Manni, mostrando molte attitudini al teatro. Recatasi il 1766 a Barcellona, si sposò al Grandi, coll’insegnamento del quale riuscì in breve tempo attrice di gran merito. « La sua bellezza — dice il Bartoli — la sua grazia, un’espressione viva ed aggiustata al carattere del personaggio ch’ella rappresentava, erano tutte cose che fermavano gli spettatori a considerarla, ad ammirarla ed a compartirle molti applausi. Fu, acclamatissima, in Toscana, a Bologna, a Genova e più specialmente a Torino, ove s’ebbe i più larghi segni di ammirazione e di protezione, ma dove anche, data alla luce una bambina, dovè miseramente perire nel 1768. »

Grani Placido, napoletano, fiorito intorno al 1745, fu egregio comico per le parti d’innamoralo, e un portento dell’arte, a detta del Bartoli, nelle commedie all’ improvviso. V’ è di lui, fra l’altre, una rappresentazione in versi sciolti che chiamò ideale, intitolata Il Pastor ircano, edita senza data in Venezia dal Baglioni, in-12°.

Grani Serafina. Moglie del precedente. Di lei scrive Fr. Bartoli : « Educata sotto gl’insegnamenti di Placido suo marito, riuscì un’eccellente prima attrice. È indicibile quanto fosse il valor suo nelle cose dell’arte, e quanto unitamente al suo consorte facesse brillare le scene all’ improvviso co’ Dialoghi naturali ben condotti, e frizzanti. Acquistossi un sommo credito, e fu decantata per la migliore attrice, che in Napoli si facesse altamente applaudire a’ tempi suoi. »

{p. 1042}Grassi Enrichetta. (V. Zerri-Grassi).

Grassi Rosa. Recitava le parti di serva col nome di Colombina nella compagnia che inaugurò il nuovo teatro di Varsavia nel 1748. Nella commedia con musica dell’ Apollini, Le contese di Mestre e Malghera per il trono, ella sostenne la parte di Mestre. (V. Articchio Niccoletto e Bastona Marta).

Grisanti Agostino. Recitava le parti di amoroso il luglio del 1659 a Livorno nella Compagnia del Principe Alessandro di Parma, come si ha da una sua lettera al Card. Gio. Carlo De’ Medici, che lo aveva richiesto per l’autunno.

Il 1661, il Duca di Modena gli mandava due commendatizie, una pel Governatore di Milano, acciò favorisse la compagnia in tutte le occorrenze ; l’altra, dello stesso tenore, pel marchese Martinenghi a Brescia. Annunzia al Grisanti che non potendo avere il carnovale di Roma, procurerà in ogni modo di ottenergli quello di Venezia, e raccomanda la pace in compagnia (il Grisanti con lettera delli 28 maggio gli aveva scritto di certi dissapori), minacciando di castigare i perturbatori alla forma che meritano.

Dalla mia collezione d’ autografi traggo anche la seguente :

Ill.mo et eccl.mo Sig. Sig. et Pron. coll.°

Ad un seruo reuerente qual son io, sempre a tempo giungono le gratie, che sà dispensare la benignità di S. E. Illma, è mi creda che l’interesse non mi domina, ma che in effetto un genio diuotissmo mi hà fato scriuere è mi fa operare per potere autenticare à V. E. Illma la mia sincerità, lo stato in cui mi trovo, non u’ ha dubbio che richiede humil.te solievo, tutta uolta quando potrò ottener licenza da Mantoua facendo ogni tentatiuo, (è che lo farò presentialmente, uolendomi portar colà fra tre o quattro giorni) in tal caso mi confermerò diuoto alla generosità di V. E. Prego Idio che mi sortisca come spero, che in hordine à quello gli ho promesso, ne uedrà effetti douuti al suo gran merito. Spiaciemi che l’ E. S. non uoglia ajutarmi col scriuere anco lei al eccelª del sig. Marchese Canossa ; tutta uolta non mancherò al debito, et alla propria inclinatione, è porgendone hajuto sincero, prostrato le baccio il piede.

Verona di 13 agosto 1664.

Di V. E. Illma

deu.mo seruo

Gio : Agostino Grisanti, detto Mario.

{p. 1043}Forse a codest’ epoca egli era con la Marzia Fiala, giacchè nella lettera di Bevilacqua, accennata al nome di Gerolamo Chiesa, e in data appunto del 9 aprile 1664, troviamo la frase : « il dottor Violone (non Chiesa) confermò sempre la parola di essere con Mario primo Inamorato della signora Marzia…. »

Gritti Luigi. Veneziano. Comico di qualche merito per le parti di Pantalone e di Brighella che recitava alternativamente, ma più noto a’ suoi giorni per le finte gemme di teatro ch’egli fabbricava con singolar perizia e vendeva non solo a comici, ma a cantanti e ballerini. Il Bartoli ci dà la notizia che il Gritti di sì fatte gemme formò con buona simmetria un piccolo trono dal suo baldacchino coperto, e ne fece un presente a S. A. R. Ferdinando I Duca di Parma, il quale ne faceva l’uso divoto di esporvi il Venerabile in certe pie funzioni, ch’ egli faceva celebrare nella sua Reale Cappella di Colorno. Fu a Barcellona in Compagnia di suo genero Costanzo Pizzamiglio (V.), e nel tornare in Italia, ammalatosi improvvisamente a Nizza, vi morì dopo brevi giorni nel 1776.

Gritti Giulia. Figlia del conte Gritti, patrizio veneto e di una cantante spagnuola, fu per varj anni nella filodrammatica di Milano, in cui dava prove di dover riuscire egregia artista. Vissuta a poco più di sedici anni in un fasto, ch’ella accettò da famiglia non sua, entrò a vent’ anni circa e nel 1876, in Compagnia di Alamanno Morelli prima attrice giovane, facendovi le migliori prove sotto l’insegnamento di Adelaide Tessero. Egregia nel Suicidio, come nelle Orfanelle, magnifica della persona, di volto piacente, {p. 1044}benchè di collo un po’ corto, dalla voce e dai capelli d’oro, adorna di abiti e di gemme come una principessa, era una bella promessa di futura prima donna. Ma, volendo la Tessero per amor di famiglia far accettare in compagnia la sorella Laurina, la Gritti dovè andarsene ; ed entrò con Emanuel, dal quale uscì per assumere il ruolo di prima attrice con Ciotti e Belli-Blanes. Ma, dopo poco, ammalatasi, fu sostituita dalla Duse, amorosa della compagnia, la quale, spiegate allora eccezionali ed inattese attitudini, tolse di sana pianta il posto alla tornata. La Gritti partì poi, si disse, per Parigi, nè se n’ebber più nuove.

Grobbert Luigi. D’origine francese, fu egregio nelle parti vive dell’innamorato. Scrisse anche in versi, e pubblicò a Verona il 1781 un poemetto per la morte di S. M. l’Imperatrice Maria Teresa. L’ ’82 era, ancor giovanissimo, nella Compagnia di Pietro Ferrari, « facendosi molto onore — dice il Bartoli — e mostrando chiaramente nella sua abilità d’esser egli un comico studioso, da cui l’arte poteva in appresso molto promettersi in virtù de’ suoi perspicaci talenti. »

Guagni Giuseppe, nacque a Firenze il 1802, ed esordì nella Compagnia sociale di Gaetano Colomberti e Giacomo Dorati il 1826, col ruolo di brillante, nel quale riuscì egregiamente. Unitosi il ’27 in matrimonio colla figliuola minore del Dorati, Alamanna, formò con lui società, passando dal ruolo di brillante in quello di caratterista e promiscuo, ch’egli sostenne con tanta arte e con tanto favore del pubblico da entrare il ’36 con Luigi Domeniconi e restarvi sino al’ 40 colla moglie servetta, per andar poi nella Compagnia di Carlo Re ad assumere il posto di secondo caratterista al fianco del gran Luigi Vestri ; morto il Vestri, Giuseppe Guagni lo sostituì decorosamente. Tornò il ’43-’ 44 con Domeniconi ; e morto Luigi Gattinelli, mentre egli era in riposo, andò a sostituirlo in Compagnia di Romualdo Mascherpa, nella quale stette fino alla morte di lui, {p. 1045}avvenuta a Torino nel ’48. Ritiratosi nel ’55 colla moglie e le figlie, che apriron negozio di modista, a Firenze, quivi morì nel ’70, già vedovo dal ’61.

Guasti Amerigo. Nato il 31 marzo 1870 a Firenze da Alessandro Guasti, segretario d’intendenza, entrò alla R. Scuola di Recitazione di Firenze il 21 maggio dell’ 82, e fu con Giuseppe Barsi de’ primi alunni del Rasi. Entrò l’ ’88-’ 89 generico con Giovanni Emanuel, e fu con lui in America più amico che scritturato. Passò dopo un triennio e nello stesso ruolo con Leigheb e Novelli, coi quali stette due anni. Cominciò con Cesare Rossi a recitar le parti comiche, e dopo di essere stato un anno con lui e uno con Beltramo e Della Guardia, si scritturò con Paradossi e Rosaspina, coprendo a metà d’anno il posto di brillante assoluto lasciato vuoto dal Masi. Fu in tal ruolo con Emanuel per un anno, poi per un triennio sotto Leigheb. Sarà nel 1900 il brillante della nuova Compagnia Andò ; posto che ha saputo conquistare, sopr’a tutto con la recitazione nitida, elegante e spontanea.

Guazzetto. « Comico, che sosteneva la parte di primo Zanni nella Compagnia de’Comici Affezionati. È lodato nel libretto della Scena illustrata, dove nella lettera dedicatoria così di lui si ragiona. Guazzetto, di cui si pasce il riso e s’imbandisce la mensa del piacere, arguto nelle parole, scaltro nelle invenzioni, con l’acutezza de’ suoi detti traffiggeva {p. 1046}le cure più nojose. Fioriva questo commediante, di cui non si sa il vero nome, nell’anno 1630. » Così Fr. Bartoli.

Molti comici pare abbiano assunto nel xvii secolo questo nome, e Guazzetto, primo Zanni, abbiamo nella Compagnia del Serenissimo di Modena per l’anno 1688. Un altro Guazzetto, forse lo stesso della Scena illustrata, abbiamo nel 1650, il di cui nome era Giuseppe Albani (V. in Suppl.). Vedi, per la maschera, al nome di Bocchini, p. 459, ov’è la deliziosa scenetta del Callot.

Guidantoni Rosa. Artista pregiatissima per le parti caratteristiche, nacque a Rimini da Guido Guidantoni e Colomba Masi, non comici. — Dopo di avere recitato, bambina, tra’ filodrammatici della città, dopo di avere studiato il ballo, preconizzata dalla celebre Mayvood una futura ballerina di cartello, dopo di avere studiato il canto a Firenze col maestro Romani e il suo alunno Vanuccini, e di aver cantato a quel teatro della Pergola e ne’ maggiori d’Italia, scritturata per un triennio dal celebre maestro Lanari, eccola finalmente entrare nella Compagnia formata allora da Giuseppe Peracchi, poi in quella di Ernesto Rossi (’63-’ 64), che la chiama nelle sue memorie servetta e seconda donna pregevolissima, e al quale ella tributa la più profonda riconoscenza di scolara. La Guidantoni nel corso non breve di quarant’anni, è stata la più varia, bizzarra, strampalata, ribelle, indipendente, chiassona delle artiste e delle donne. Artista, non recitò parti di amorosa, donna non ebbe marito : all’ infuori di queste due eccezioni, tutto ella provò, pigliando dal mondo il buono che potè, e {p. 1047}vivendo la più allegra delle vite. Molte compagnie l’ebber con sè attrice comica e compagna incomparabile : dalla prima, come s’è detto, del Peracchi, a quella stabile napoletana dello Squillace (1898). E se nella commedia assurse a grandezze toccate da poche, nelle tragedie non fu spregevole. Recitò con pari ardore e con pari coscienza la Madama Bonivard delle Sorprese del divorzio, in cui trasse assai profitto dall’antico studio della danza, e la Clitennestra dell’ Oreste, la Cesarina del Figlio di Coralia, e l’Ofelia dell’Amleto. Ebbe devozioni di amica, per rispetto dell’arte, senza precedenti. In una particina di schiava nera della mia Clodia, si tingeva tutte le sere a buono la faccia, il petto e le braccia, rimanendo gran tempo in teatro a commedia finita per restituirsi al natural candore. Viaggiò mezzo mondo ; cantò in operette col Luzi a Napoli ; cantò e recitò in riviste ; diresse filodrammatiche ; scrisse poesie e ne recitò parecchie ; commemorò il Guerrazzi a Palermo, elogiò il Carducci a Bologna ; dettò commedie e monologhi ; tradusse romanzi dal francese e dallo spagnolo ; fu giornalista, ed ebbe patente di maestra superiore. L’arte la sua grandezza, la letteratura il suo debole. « I miei cari libri — ella scrive — nell’ assenza de’corteggiatori, rappresentano gli amici della mia vita intima solitaria ! Amici fedeli che seppi e volli preparare alla mia vecchiaja ! »

[n.p.]

[I-H-K] §

[n.p.]

I COMICI ITALIANI §

Iggius Bianca. Nome di guerra di una graziosa prima attrice, nata a Firenze intorno al 1870 da parenti non comici. Recatosi il padre, impiegato, a Palermo, essa fu colà istruita per l’arte, ed esordì il ’92-’ 93 come seconda donna a Siena colla parte di Valentina nel Demi-monde di Dumas figlio in Compagnia Paladini-Talli. Fu nel ’94 con Francesco Garzes, poi, prima attrice, con Marazzi-Diligenti. Passò nello stesso ruolo il ’95 con Biagi, e il ’96 con Pia Marchi. Riposò del ’97, e fece del ’98 Compagnia con Pietriboni. Oggi è a capo della Compagnia {p. 1052}della Città di Torino, in cui sono elementi egregi. Bianca Iggius, la più elegante forse delle nostre attrici, è anche fra le più innamorate dell’arte sua, nella quale mostra certe attitudini, specialmente per le parti comiche.

Imer Giuseppe, genovese, fu celebre innamorato e direttore della Compagnia di S. E. Grimani al S. Samuele di Venezia. Carlo Goldoni, che principiò a scrivere per essa (a Verona nell’ estate del 1734 lesse il Belisario, che fu poi rappresentato a Venezia il 24 novembre), ci dice di lui, che era « pulitissimo ed onestissimo (Mem., I, XXXIV), » e che « senz’aver avuta un’educazion regolata, aveva spirito e cognizioni. Amava la Commedia con passione, era di natura eloquente, ed avrebbe molto ben sostenute le parti degli amorosi all’improvviso secondo l’uso d’Italia, se la sua figura e grandezza avessero corrisposto ai suoi buoni talenti. Corto, grosso, senza collo, con occhi piccoli, e con un nasino schiacciato, era ridicolo nelle parti serie, e i caratteri caricati non erano alla moda. Aveva buona voce, e quindi immaginò d’introdurre nella Commedia gl’ Intermezzi in musica, che per molto tempo furono uniti alle opere serie e che soppressero per sostituire i balli in lor vece (Ivi, XXXV). » — « Non sapea di musica ; ma cantava passabilmente, ed apprendeva a orecchio la parte, l’intonazione ed il tempo, e suppliva al difetto della scienza e della voce coll’abilità personale, colle caricature degli abiti, e colla cognizion dei caratteri, che sapeva ben sostenere (Pref. Pasqu., XIII). » Degl’ Intermezzi ne’quali egli cantò, il Bartoli cita Il Trojano schernito in Cartagine nascente e moribonda, eseguito il ’43 e scritto dall’ Imer stesso, che altri più ne compose. Com’egli e {p. 1053}per qual motivo entrasse in arte non sappiamo : Goldoni ci dice solamente che « non contento della sua sorte in Genova, si diede all’arte del Comico, nella quale potea far spiccare il suo talento e soddisfare il suo genio, portato ad una vita più comoda e più brillante (Ivi, XII). »

Secondo il Loehner, « la casa di Giuseppe Imer a S. Samuele, ove il poeta fu ospitato per più d’un anno, pare la stessa, in cui troviamo il capocomico nel catastico del 1740, a pochi passi dal teatro, e precisamente nella così detta Corte del Duca, appresso il palazzo Malipiero…. (Gold., Mem., I). » La qual cosa concorderebbe con quanto ci fa sapere il Casanova sulla minor figliuola dell’Imer, Teresa, « figlia d’un comico che abitava in una casa presso il palazzo del senator Malipiero, e le cui finestre davan sulla sua camera da letto. Codesta figlia, diciassettenne allora, vezzosa, capricciosa, galante, che studiava la musica per esercitarla poi pubblicamente in teatro, stando tutto il giorno alla finestra, aveva ubbriacato il povero vecchio a cui si mostrava crudele. Nullameno Teresa veniva ogni giorno a vederlo, ma sempre accompagnata dalla madre, vecchia attrice che s’era ritirata dal teatro, e che aveva santamente divisato di legare gl’interessi del cielo coll’ opere mondane. Ella conduceva a messa la figlia tutti i giorni, e volea si confessasse tutte le settimane ; il che non le impediva d’accompagnarla ogni dopo pranzo dal vecchio, che diventava bestiale ogni qualvolta ella negavagli un bacio, sotto pretesto che avendo fatte le sue devozioni al mattino non sapeva risolversi a offender quel Dio ch’ella avea forse ancora in sè stessa (Mem., I, IV). »

Codesta Teresa, divenuta poi l’amante di Casanova, poi, a Londra, la famosa Mistress Cornelys, colla scorrettezza della vita privata, e l’altra figlia, Marianna, cantante anch’essa, colla meschinità del suo talento, ma sopratutto, io credo, la moglie Paolina, ch’era nel 1736 terza donna della compagnia, furon la causa della rovina d’Imer, il quale, dice il Bartoli, « avanzato poi in età fu mantenuto decentemente da’ suoi padroni, i nobili Grimani, onde, dopo d’aver vissuto alienato dalla professione {p. 1054}tutto il corso della sua vecchiezza, passò all’eterna beatitudine nel 1758 (op. cit., I, 278). »

Internari Quinto Mario. Nacque a Roma da quel Dottor Fisico Urbano, e da Maria Sensini, il 1780. Mostrata una chiara attitudine all’arte comica, fu accolto, non ancora ventenne, nel teatrino privato del Duca Cesarini che lo proteggeva ed amava, in qualità di primo attore e direttore. Si condusse, per affari di commercio, in Pesaro, e colà addestrossi in filodrammatiche società assieme ai Conti Perticari, dei quali diventò l’amico ; e, sentito colà dalla Pellandi e dal Belli-Blanes, fu scritturato da essi pel 1813 come brillante assoluto. Si sposò in tal compagnia, il 26 ottobre del ’14, con Carolina Tafani, che fu poi la celebre Carolina Internari. Passò, con lei prima donna, in Compagnia di Luigi Vestri, poi di Antonio Goldoni, poi di Granara, poi nuovamente di Blanes per un triennio, che per la morte dello stesso non fu compiuto. Il ’24 si recò a Napoli, incaricato dal Fabbrichesi di finir per lui l’ultimo anno che avea di contratto col Governo, e là formò un’ottima compagnia per gli anni seguenti. Ma sciagura volle che nell’estate del ’25 infermasse di petto a Firenze, ove in breve morì, compianto dalla moglie, dal figlio e da’ suoi scritturati che perdevano in lui un onesto amico.

Internari-Tafani Carolina. Moglie del precedente, nata il 23 maggio del 1793 a Livorno da Giovanni Tafani nobile veronese ed Anna Baldesi, comici, fu la più forte artista del suo tempo. Mortole il padre nel 1802, ella si recò di paese in paese con la madre, sinchè, giovinetta già promettente, potè aggregarsi alla filodrammatica di Verona, in cui esordì il 1° agosto del 1807 colla piccola parte di Carlotta nel Cavaliere Woender : e tanta fu l’ammirazione destata, che dopo poche sere dovè presentarsi colla parte di protagonista nella Ginevra di Scozia di Giovanni Pindemonte, dando le migliori speranze di un grande avvenire artistico. Educata poi dall’Anna Pellandi, {p. 1055}colla quale stette dal 1807 al 1810, mostrò subito di emulare presto, e vincere anche la grande maestra. Sposatasi all’ Internari, e lasciato la Pellandi il teatro, essa fu con Luigi Vestri prima donna assoluta, affermando la sua sovranità nell’arte dell’età sua ; e mortole il marito nel ’25, si mise a capo di una compagnia che accolse in vario tempo i migliori artisti. Fu il ’30 a Parigi, e vi andò in scena il 29 giugno con la Rosmunda di Alfieri, sollevando il pubblico a tale entusiasmo, da ottener dalla Duchessa di Berry la solenne promessa di aver destinato un teatro alle recite della Compagnia italiana : promessa che non fu poi tenuta per la caduta del Borbone che obbligò i comici italiani a tornarsene in patria. Si unì l’Internari nel ’34 con Domeniconi, col quale rinnovò e confermò gli entusiasmi e la fama. Fu il ’50 con Coltellini a Trieste, e il ’52 si unì madre nobile con Adelaide Ristori, risolvendo il ’57 di abbandonare il teatro, e di cedere tutto il suo ricco patrimonio di scena al figliuolo Giovanni, capocomico e mediocre brillante (morì nel ’76 a Livorno), col quale recitò alla Stadera di Milano il 13 marzo di quell’anno il terzo atto della Medea del Ventignano, maravigliando per la potenza d’arte, e gagliardia di mezzi, tanto da far dire a un accreditato giornale, che al suo confronto le celebrità d’allora impicciolivano a vista d’occhio. Stabilitasi a Firenze, vi recitò, come addio, nel dicembre del ’58, e a fianco {p. 1056}della Ristori, la parte di Euriclea nella Mirra dell’Alfieri, colla quale aveva iniziato la sua gloriosa carriera.

Morì la notte dal 23 al 24 marzo di quello stesso anno, improvvisamente, e s’ebbe in Santa Croce esequie solenni. La sua salma riposa nell’ esterno della chiesetta di S. Gervasio, ove una pietra bianca porta il semplice nome di Carolina Internari.

Dire di lei come artista non è difficil cosa. Fu grande nel più largo senso della parola, così nella tragedia, come nella commedia e nel dramma ; e nella sua grandezza, modestissima. A siffatta modestia il Regli dedica non poche parole di entusiasmo.

A Trieste in Compagnia Coltellini tenne fronte mirabilmente alla Rachel, recitando al Filodrammatico la Fedra di Racine, mentre la gran tragica francese la recitava al Comunale. Mario Consigli, nel compilar la biografia della sua illustre concittadina, ricorda la potenza d’arte ch’essa spiegava nel proferir quel verso della Pia di Carlo Marenco :

non temo il disonor, temo la colpa,

e un anonimo livornese in una corrispondenza del ’37 al Giornale de’ Teatri in Bologna, ricorda quella da essa spiegata il 13 marzo agli Avvalorati, rappresentando per sua beneficiata la Mirra di Alfieri. « Quando al quinto atto, Ciniro, sdegnato del lungo e ostinato silenzio della figlia, le dice :

Ma chi mai degno è del tuo cor, se averlo
non potea pur l’incomparabil, vero,
caldo amator Perèo ?……

noi la vedemmo – scrive l’anonimo – come vinta in quel punto dalla violenza della passione, inchinarsi su di lui, mentre egli si cuopre con le mani la faccia e piange, e guardarlo con tale uno sguardo…. Ma è impossible ridire, tradurre con parole quello sguardo e quell’atto : solo diremo che in quel punto l’attrice superò il poeta : la Internari fu più grande di Alfieri ! {p. 1057}Uno scoppio spontaneo, universale di applausi mosse dal popolo maravigliato, e noi, ancora commossi, ricordiamo quel momento, e le potenti emozioni, onde fummo scossi in quella sera. »

Le opere che nella non breve carriera della forte artista, si disser suoi cavalli di battaglia, furon : l’Antigone e la Rosmunda d’Alfieri, la Pia di Carlo Marenco, la Gismonda da Mendrisio, l’Ester d’Engaddi, l’Iginia d’Asti del Pellico, la Medea del Duca di Ventignano ; ma con pari ardore, e con pari successo, rappresentava le commedie del Goldoni e del Nota.

I più eletti ingegni del suo tempo l’onoraron della loro amicizia, e nell’ album di lei, ch’è oggi alla Biblioteca Nazionale di Firenze, figurano scritti di Guadagnoli, di Pellico, di Rosini, di Peretti, di Missirini, dei Perticari, di Marenco e di altri.

{p. 1058}Il Guerrazzi e il Niccolini l’ebbero in gran considerazione. Il primo le inviava il ’38, trascritto tutto di suo pugno, il De Profundis, con queste parole : « Ecco. Tu hai quello che infiniti mi hanno chiesto e non hanno ottenuto, e l’artista ha potuto persuadermi a cosa, che rifiutai a principesse russe, che per me equivalgono a orsi con la cuffia. » Il secondo, oltre all’avere scritto per lei la Rosmunda d’Inghilterra, mantenne una viva intima corrispondenza, già pubblicata nell’ opuscolo del Consigli e ripubblicata poi ne’Carteggi italiani dell’Orlando.

Riferisco dall’album, tuttavia inedite, le parole dei nostri grandi artisti :

Carolina Internari fu una delle più splendide gemme dell’arte drammatica, e lasciò tale un vuoto di sè che mai sarà riempiuto perchè troppo racchiudeva di affetti quell’anima bollente ed eminentemente italiana.

Marzo 1874

Alamanno Morelli.

Io non rimpiango in Carolina Internari la perdita della donna, ma mi addolora la mancanza dell’ attrice tragica ! Come donna, sposa e madre, ne piansero gli amici, lo sposo, i figli ; come attrice ne piange ancora l’Italia.

20 7mbre 1873.

Tommaso Salvini.

Se l’arte che fu, gli occhi riaprisse, in vedere quali cenci indossa la sciagurata sua figlia, talchè le vergogne fan mostra, generosa addosso i suoi vecchi panni le getterebbe, e la decenza, almeno, sarebbe salva.

Livorno, 5 ottobre 1874.

Ernesto Rossi.

Invocazione !

Allo spirito elevato di Carolina Internari !

Dalle sfere ignote (ove certo signoreggi, come quaggiù nella memoria dei mortali) rivolgi a me un raggio della divina luce di tua sovrana intelligenza. Riscalda la mia povera anima d’artista…. rinvigoriscila ! Musa, sposa, madre, proteggi dal tuo soggiorno ove non si muore più, un’ artista, una sposa, una madre !

Livorno, 2 novembre 1875.

Giacinta Pezzana Gualtieri.

All’anima vigorosa d’artista ne congiungeva l’Internari una squisitissima di donna. Da una nota del figliuolo Giovanni sappiamo che mantenne per oltre dieci anni e fino alla morte di lei (’35 o ’36) una povera vecchierella per nome Annina, che le era stata raccomandata da persona di sua famiglia.

{p. 1059}Una lettera intima della celebre Pellandi scritta all’Internari da Verona il 1° novembre del ’39, comincia così :

La sera che mandai al Bonsaver la mia per unire alla sua, ricevetti la scatola benedetta e sospirata, non posso esprimerti il contento. Dio ti benedica e ti conceda immensi beni come meriti, come brami, e come t’invoco dal cielo e come spero otterai. Dio dia bene a chi me la procurò, a chi se ne privò, cui ringrazierai per me. Non mancherò indegnamente di raccomandarvi tutti a quel degno santo che fu asperso di quel sangue prezioso dove su d’esso spirò l’adorabile nostro Redentore. Quanto è bella la reliquia che ora voglio fargli fare la bustina, quanto cara la corona con quel bel Cristino e quella medaglietta ; il pezzetto di cera e la candelina mi saranno utili nei temporali, che Iddio ci guardi ; insomma che tu sii benedetta per sempre.

Ippolita. Francesco Bartoli la dice contemporanea della Diana (V.), e la fa morir nel 1730. Fu dedicato a lei come alla Diana dallo stesso anonimo un sonetto caudato, di cui il Bartoli non riferisce per pudore che le quartine e la prima terzina, per la recita di quello Zibaldone a trasformazioni, delizia delle prime donne, intitolato Lo Spirito folletto, che generò poi, per antitesi, se così possó dire, la Donna di garbo del Goldoni.

Per la Signora Ippolita Comica in a bito da Uomo

Feme de grazia, Ipolita, el favor
de avvisarme co sè per recitar,
e che in Omo v’ avè da stramuar
che vegnir vojo a rallegrarme el cuor.
O Cape ! Me de pur tanto in l’umor
a vederve per Scena a caminar :
ve digo, che me sento a pizzegar,
e tutto ressentir del vostro amor.
Le vesture butè pur al Bordelo,
e tegni saldo a desimpolitarve,
che no ve podè far puto più belo.

Nel seguito lodasi, a detta del Bartoli, « la sua bellezza come cosa rara, e specialmente i suoi capelli sono infinitamente encomiati. » (V. Gabbrielli Ippolita).

Isola Antonia e Angiola, dette in commedia Lavinia e Leonora, fiorirono nella seconda metà del secolo xvii. Fu la {p. 1060}prima, attrice di rari pregi, se dobbiam credere al seguente sonetto di Paolo Abriani :

Dal ciel discesa ad illustrar le Scene,
benchè mortal fanciulla a noi si mostri,
per debellar, per trionfar de’Mostri
Morte, Tempo ed Oblìo, Lavinia or viene.
Rende le menti in un fosche e serene,
fa che ogni volto impallidisca e inostri,
apre i più cupi e i più sublimi chiostri,
brillar, gelar fa il sangue entro le vene.
Suscita col suo dir gioje e terrori ;
pronuncia ad un sol cenno e pace ed ira ;
sveglia con un sol guardo odj ed amori.
Mosso dal suo voler, l’altrui s’aggira ;
e mentre a’ moti suoi rapisce i cori,
qual celeste sirena ogn’un l’ammira.

E a quest’altro ancora di Gio. Antonio Vestamigli :

Ai meriti impareggiabili della Signora Lavinia Isola Comica Celeberrima

Da una gemella prole ebbe il natale
quella Roma, a cui dier le fasce Imperi ;
e divenuta adulta a lustri interi
partorille la fama aure immortali.
Ebbe Felsina in figlia, e tanto vale,
che vanta anch’essa al par Saggi e Guerrieri ;
e seguendo di quella i fasti alteri,
le dà Palla d’onor corona eguale.
Su l’arena del Lazio il Dio bendato
di Lavinia destò pei casti amori
a battaglia campale il Teucro armato.
Ma ceda il Tebro al minor Ren gli onori :
da Lavinia più bella or vuole il Fato,
che incatenati sian d’un Mondo i cori.

{p. 1061}Probabilmente questo sonetto fu scritto del ’72, un anno avanti la pubblicazione delle rime del Vestamigli, quando cioè l’Isola si trovava a recitare a Bologna con Angiola Isola, con la D’Orsi, i Broglia, Milanta, Cimadori, e Riccoboni. Anche fu lodata dal conte Claudio Canossa veronese, da Francesco Pina e da altri. Il Riccoboni (op. cit., p. 58) dice di aver conosciuto nella sua gioventù una vecchia comica, detta in teatro Lavinia, amica dell’Agata Calderoni, che possedeva scenarj firmati da S. Carlo Borromeo. Secondo Francesco Bartoli, ella morì in vecchia età intorno all’anno 1702. Non pochi documenti ho potuto trarre dall’Archivio di Modena, che concernon la Lavinia e l’Angiola ; e vanno dal ’77 al ’91. La Duchessa di Parma scrive a suo fratello, il Principe Rinaldo d’Este, il 16 aprile del ’77, ricusando di concedergli Lavinia, la mancanza della quale produrrebbe troppo sconcerto nella Compagnia del Duca ; e la ricusa un anno dopo Ranuccio Farnese in persona al Duca di Modena che la voleva con Lelio suo marito per mandare a Londra. V’è un ordine di pagamento del 7 marzo ’89 pel Tesoriere Zerbini, donativo dello scorso carnovale, di dobble 150 ai comici del duca Francesco di Modena, annotati nell’unita lista al n.° di dodici, ritenendo però per rimborso le dobble venticinque simili delle quali fu fatta loro prestanza in virtù d’ordine del duca, sin sotto li 19 maggio dell’ anno scorso 1688. E altro ordine v’è in data del 28 dello stesso mese alla sola Lavinia di dobble dieci. V’ è poi un terzo ordine che porta la data dell’ 11 marzo 1690, col quale il Zerbini doveva pagare alla Lavinia et a Lelio licenziati le loro prouisioni da gli otto di febbraio scorso a tutto marzo corrente in ragione di L. 45 il mese per ciascuno.

Col 30 gennaio ’91 torna in campo di nuovo l’Angiola insieme alla Lavinia, che a nome della compagnia chieggono un locale (la Racchetta) per farvi le commedie. L’Angiola è chiamata nell’elenco Angiola Isola detta Leonora ; e vien subito dopo l’Antonia, la prima dell’elenco, che è chiamata Antonia Torri detta Lavinia. E io credo si possa dedurne che questa, altra {p. 1062}non fosse dall’ Antonia Isola detta Lavinia, sorella dell’Angiola, divenuta poi moglie di Antonio Torri, detto Lelio in comedia, che assieme a Lei formava il migliore ornamento della compagnia. …. Levandosi queste due parti — dice il Farnese nella citata lettera — che sono le principali e necessarissime nella mia Compagnia, venirebbero a rimaner inutili tutti gli altri miei comici……

Ivon Emma.Prima attrice del Teatro Milanese, nacque a Milano il 15 dicembre del 1850 da Alessandro Allis pittore e Stefania Michon. Morto il padre, peregrinò con la madre che professava sonnambulismo, e una sorella in Piemonte e in Liguria, e finalmente a Firenze, ove stette fino al ’74, recitando con altre giovinette, e mostrando una speciale attitudine al teatro di prosa e di musica. Sentito recitare il Ferravilla, s’innamorò siffattamente di quell’arte finissima e varia, che desiderò di entrare in sua Compagnia. Cominciò col far da comparsa ; ebbe molto a lottar colle esigenze del dialetto, parlando essa prettamente toscano, e più ancora colla invidia delle compagne. Ma vinse : un po’ per i pregi artistici di spontaneità, di grazia, di eleganza, molto per la bellezza maravigliosa.

Diventò socia del Ferravilla, cooperando validamente e in un modestamente alla riuscita ottima della compagnia. Si cimentò in battaglie d’arte accanite, or recitando la Signora dalle Camelie, or l’Andreina ; e ne uscì vittoriosa.

Forse avrebbe potuto tentar la recitazione in lingua ; nella dialettale milanese fu certo meritevole di ogni elogio ; e in {p. 1063}alcune parti di signora, nonostante l’incalzar degli anni, mostrava ancora, sino a poco tempo fa, la traccia dell’antico valore. Morì a Genova, dopo lunga malattia, il 31 gennaio del ’99.

Jacomucci Leonilda, romana. Recitava con coraggio — dice il Bartoli — e con vivacità nel carattere della serva. Si diede all’arte comica più per disperazione, che per inclinazione, e fu sempre di compagnia in compagnia al fianco di Alessandro Alberghetti, noto in teatro col nome di Gnochis. Era il 1781 nella Compagnia di Francesco Paganini.

Jagher Giuseppe, veneziano. È citato dal Bartoli più come ingegnoso autore, che come attore, benchè recitasse con qualche abilità nelle commedie improvvise. Lasciò varie opere manoscritte, fra cui la Medea in Corinto, una parodia dell’Amleto con le maschere, e Una le paga tutte, commedia di carattere di cui ha copia la Biblioteca comunale di Verona. L’ autunno del 1796, l’Jagher trovavasi al S. Cassiano di Venezia, e scrisse il complimento per l’apertura di quella stagione (Teatro applaudito, vol. V), recitato dall’attrice Gaetana Menichelli. Il complimento precedeva la Villeggiatura di Goldoni.

Job Anna, nata il 16 maggio del 1805 a Napoli dagli artisti Serafino Fonti e Matilde Ragazzini, romani, entrò giovanissima, dopo la morte del padre, in Compagnia di Francesco Taddei. Sposò nel ’19 Giacomo Job, austriaco, attore mediocre, poi mediocre capocomico, nato il 1787 a Codroipo nel Friuli, il quale, ritiratosi dall’arte dopo il ’40, e fermatosi a Firenze, a far l’affittacamere, chiedeva invano il settembre del ’54 al Ministero di grazia e giustizia la naturalizzazione toscana. Morì a Firenze il febbraio del 1877. Passò l’Anna Job da quella di Taddei, nelle Compagnie di Raftopulo e Velli-Mascherpa ; poi {p. 1064}prima amorosa dal ’24 al ’31 in quella de’Fiorentini di Napoli, al fianco della Tessari. Restaurato a Roma il teatro Pallaccorda, oggi Metastasio, Giacomo Job vi tenne compagnia per due anni, con l’Anna prima donna, ruolo ch’ella non lasciò più sino al ’48. Fu con Giuseppe Moncalvo due anni, poi sette con Corrado Vergnano, poi con Luigi Domeniconi e con Luigi Taddei. Tornò pel triennio ’48-’49-’50 col Domeniconi, assumendo la prima volta il ruolo di madre nobile, al fianco di Adelaide Ristori, poi di Amalia Fumagalli, per altri quattr’anni e nella stessa compagnia. Fu dal’57 al’59 con Ernesto Rossi, e dal’61 al’75 con Alamanno Morelli, dal quale si allontanò per ritirarsi più che settantenne a Firenze, ove morì il 12 maggio del 1890. Dal suo matrimonio con Giacomo Job, nacque a Napoli il 25 marzo 1827 il figliuolo Achille, modesto attore e specchiatissimo amministratore delle Compagnie Morelli, Bellotti-Bon, e Marini, morto a Firenze il 22 giugno del ’98.

Dei meriti di Anna Job, prima donna, possono far fede le compagnie primarie nelle quali essa fu : e fors’anco maggiore ne sarebbe stata la riputazione artistica, se vissuta in età più vicina alla nostra, e se non avesse avuto da lottare con attrici gloriosissime quali la Internari, la Marchionni, la Polvaro, la Bettini, la Robotti, la Rosa, la Pelzet. Con questa pare vi fossero i soliti malumori che abbiam trovato nelle comiche di ogni {p. 1065}tempo. In una lettera da Bologna della Pelzet a Niccolini del 27 luglio 1843, sono queste parole : « Poi è venuta la Job, la quale dopo aver rovinato Verniano colla sua pros…… (prosopopea), cerca d’insinuarsi verso Coltellini per farmi onta e spauracchio. » E più oltre : « Anche la Job prima donna comica, vil…… (vilissima) creatura, ha scelto una tragedia per sua beneficiata. » Ma non è da prestar troppa fede ai pettegoli risentimenti di una artista che si trova tra compagni inesorabili e crudelmente accaniti contro la sua poca abilità ; sono sue parole. Ernesto Rossi, Antonio Colomberti, Luigi Capuana, ne’loro ricordi di teatro e di critica ebber verso Anna Job parole di molta lode : e dei meriti suoi come caratterista e madre nobile posson far fede moltissimi anch’ oggi che poterono ammirarne la dizione spontanea e piana, il gesto sobrio, l’intelligenza fine, il contegno nobilissimo. A lei accennò il Belli in uno de’ suoi incomparabili sonetti ; e Luigi Bonazzi, letterato e artista egregio (V.), le dedicò del ’41 questi versi.

AD ANNA JOB

 —Epistola sulla recitazione. —

Bella e quant’altra mai degna d’onore,
O donna, è l’Arte tua. Per mute carte
Di che pianto e che riso esser cagione
Melpomene e Talia potrebber mai,
S’ella cinto al lor piè coturno e socco
Non le adducesse di vivente voce
E di gesto possenti in pien teatro
Alti affetti a destar, regger costumi ?
Quindi primi calcar vide le scene
D’Edipo e Ifigenia Grecia gli Autori ;
Vide Gallia Moliero, Anglia Sacspiro,
Iberia Calderon : Geni che augusto
Fèr lo scenico suol. Ma a quei, che tanta
A dipinger Natura ebber parola,
Ricusava Natura e voce ed atti
Di lor parola animatori. Ad altri,
Compartendo i suoi doni, eletta tempra
Conformabil concesse a finger tutte
Nell’aspetto e nel suon de la favella
Le sembianze de l’alma ; e a lor commise
Crescer, non che mostrar, l’alta virtude
Di que’ famosi, ed in onor tornarli,
Se non mertato li coprisse oblio.
E oblio copriva de l’inglese dramma
Il primo creator ; Garrico surse
Alto interpetre anch’ei d’alto poeta ;
E più ammirato a le britanne scene
Tornò geloso ad adirarsi Otello,
Tornò gli spettri a paventar Macbetto.
Leggiadri in atto ed in galante foggia
Sul francese teatro ivan gli eroi
De la Grecia e del Lazio in pria che grande
In sua simplicità Talma apparisse
Con la toga ed il pallio a offrir l’imago
De’ signori del mondo ; e tale allora
Dal labbro di quel fiero avvalorati
{p. 1066}I carmi di Cornelio ebbero un suono,
Che da la corte del maggior Luigi
Non fu udito giammai. Di premio degni
Fur que’ valenti ; e premio a l’ un fu assai
Vita d’agi beata e regia tomba ;12
De l’altro al merto guiderdon ben amplo
Del Cesare novel13 fu l’amistade.
Ma qual degna mercè l’itala terra
Diede al suo Roscio,14 che a l’ingenue
De la bella natura alfin rendendo [norme
L’arte che dal clamor nome prendea,
E le leggi cangiate onde costretta
Aveala il vulgo letterato e i molti
Ampollosi istrioni15 a cui la sagra
Fiamma del genio non ardeva in petto,
D’Adria il Terenzio e il Sofocle astigiano
E quant’ altri ha poeti estrania scena
Multiforme abbellia ? Frementi plausi
Tratti da cor commossi entro il teatro
Ei raccogliea ; ma i nobili sudori
Quell’oro appena gli valean che altero
Oggi rifiuta, o disdegnoso accetta
Cantor mezzano : chè a cantor valente,
Non che tesori, si tributan oggi
Serti, trionfi e monumenti eterni.
Incantatrice d’ogni cor gentile,
È ver, fu sempre l’armonia ; nè solo
Nell’italo terren pregiati tanto
Sono gl’itali Orfei. Oltre Oceàno,
E fin d’ Europa ai gelidi confini
Recan la gioia de’concenti loro ;
Obliando colà tra gli agi e il fasto
Il cielo azzurro, i verdi colli e il sole
De le patrie contrade. E largo scorre
L’oro britanno ad allegrar di canti
La nebbia del Tamigi ; e Francia omai
Conquistatrice d’itali cantori
Più non s’adonta degli amari accenti
Onde l’inane musicar francese
Scherniva il Sofo ginevrin, rapito
A la beltà de l’itala armonia.
Pur della Senna e del Tamigi in riva
Ricchezze e onori si profondon’anco
A chi fa bella del natio suo riso
La classica Commedia,16 e a chi l’accento
Che immortale segnò tragica penna
Fa possente suonar ;17 nè meno in folla
A Riccardi, a Zaire, a Polïutti
Che a Silfidi e ad Orfei traggon le genti ;
Ove d’Italia in le città più vaste
Ad armoniche gole e a piè danzanti
Si posposero ognor Mirre e Medee
E Saulli ed Oresti ; e scema spesso,
Benchè a men costo aperta e men capace,
Vider l’arena lor Vestri e Taddei.
Nè men sete di canto ebber da poi
Le minori cittadi, ove talvolta
Su le scene evocato infin fu visto
L’ardito Imprenditor, che cento e cento
Trarre sperò da l’arche cittadine
Auree monete o comperar le note
D’una prode laringe. E fortunate,
Se a que’ cantori desiati tanto
Tutta la possa del valor canoro
Piacque sempre spiegar ! chè dispettando
Del lor campo di gloria il breve cerchio,
O repugnando a la servil fatica,
Talvolta osaro a desiose orecchie
Niegar superbi la vocal dolcezza.18
Da l’arte intanto, a cui compagna andava
La dispregiata povertà, fuggia
Chi, l’anima temprata a bel sentire,
Onorar la poteva ; e fior tra bronchi
Si rimase l’egregio. Il sol desio
D’andar vagando a sostentar la vita,
O la mal tramandata arte degli avi
Gl’ istrioni creò, che più dispersi
Di nomadi pastor mai non s’uniro
A durevol tribù. Quindi una strana
E di voci e di modi e fin di fogge
{p. 1067}Discordanza letale ; e scolorito
D’ogni grazia natia l’altisonante
Mal infinto colloquio ; e de’gagliardi
Moti de l’alma interpetre il clamore,
Il vulgo concitar, che più sonanti
A chi gridar più sa batte le palme.
Quindi deserte, o mal calcate, ancora
Le domestiche scene, un di palestra
D’egregia gioventù ; si che la grande
Del porger arte, che pur tanta un giorno
Parte si fu de l’eloquenza, e tante
A Demostene, a Tullio, a Eschine, a Gracco
Cure costava, abbandonò ben’anco
Accademie e Licei : se pur non vuolsi
Arte nomar e gl’ incomposti accenti
Ed i lezi e le fredde enfasi ingrate,
O i noievoli modi onde un antico
Purissimo scrittor legge il pedante,
Di come e punti osservator solerte.
Così meco io pensava allor che a queste
Scene, o Donna, venisti ; e a te, per cui
Di quell’arte che avviva la parola
I bei pregi sentii, de’sensi miei
Inculto spositor volava il verso.

Kodermann Giorgio. Nato a Pirano il 1830 da poveri genitori, esordì nel settembre del ’45 a Palmanova in Compagnia di Gustavo Modena, dalla quale poi, scioltasi alla fine di quell’anno comico, si formò quella Lombarda, in cui il Kodermann entrò a una lira austriaca al giorno, e in cui stette fino al ’56. Passò poi con Alessandro Monti, con Robotti, e con Gaetano Vestri. Nel ’59 questi andò con Bellotti-Bon, e Kodermann lo sostituì. Si scritturò poscia, caratterista assoluto, con Domeniconi, poi con Pieri, Peracchi, Vitaliani, la Pasquali, Ernesto Rossi, e Amato Lazzari, dopo il quale, a cinquant’anni, {p. 1068}abbandonò l’arte per andare a stabilirsi a Milano, ove anch’oggi vive col modesto frutto del suo onorato lavoro. Fu il Kodermann attore semplice e corretto. Nelle parti ov’era più da dire che da fare, avea ben pochi rivali. Egregio padre nella Prosa di Ferrari, fu grande nella Quaderna di Nanni di Carrera, in cui, al terzo atto, a detta dello stesso autore, non ebbe chi lo superasse, nè chi gli si accostasse.